Come funziona la memoria 9788842088196

Ogni giorno facciamo uso della memoria per le attività più varie: ricordare un numero di telefono mentre lo si compone,

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Come funziona la memoria
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© 2003, Gius. Laterza & Figli

Costanza Papagno

Come funziona la memoria

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Come funziona la memoria

Introduzione

«La memoria non è altro che una facoltà che l’intelletto ha di assuefarsi alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d’intendere. Ed è tanto necessaria all’intelletto, ch’egli, senza di essa, non è capace di verun’azione». Questo è quanto scrive Giacomo Leopardi a proposito della memoria. La memoria ha suscitato sempre un grande interesse, non solo fra psicologi e medici, ma anche tra registi, pittori e scrittori. Potrei proporre un gioco di società, ad esempio «la memoria nella letteratura», per vedere chi è in grado di ricordare frasi che personaggi famosi hanno detto o scritto sulla memoria. Nessun dubbio: tutti citeranno il brano delle madeleines di Proust. Un’autrice che più volte scrive della memoria è la Yourcenar. In una lettera a Natalie Clifford Barney leggiamo: «l’un des privilèges de survivre, c’est de se souvenir». Ricordare o, meglio, sapere chi ha scritto questa frase fa parte della memoria semantica. Ricordo, tuttavia, che ho trascritto questa frase su un’agendina mentre visitavo una mostra fotografica al Beaubourg nel 1989: l’episodio che ho rievocato fa parte della memoria episodica e più precisamente autobiografica. In questo momento sto scrivendo sul calcolatore: batto i tasti, salvo, chiudo la cartella di lavoro. Faccio questi passaggi in modo rapido grazie alla memoria procedurale. 3

Non devo dimenticare, però, di fare una telefonata tra mezz’ora, devo quindi ricordare qualcosa nel futuro: questa è la memoria prospettica. Al momento di telefonare, cercherò il numero nell’elenco e lo ripeterò mentalmente fino a che l’avrò composto; dovrò quindi conservarlo temporaneamente in una memoria a breve termine verbale. È probabile che, andando verso il telefono, compirò altre azioni (ad esempio rimettere a posto il dischetto su cui ho salvato il lavoro): posso svolgere contemporaneamente due azioni grazie alla memoria di lavoro. Nel giro di pochi minuti ho utilizzato vari depositi di memoria, ognuno facente capo ad una precisa struttura nervosa. Appare quindi chiaro come la memoria non costituisca un sistema unitario, ma sia divisibile in sottocomponenti distinte. Potrei proseguire con altre suddivisioni, ma preferisco per adesso fermarmi qui. Da ora in avanti, attraverso esempi quotidiani, cercherò di delineare queste componenti, i loro correlati neurali e infine, attraverso il racconto di casi emblematici, cercherò di spiegare cosa accade quando una di queste componenti è danneggiata.

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I

L’architettura della memoria

I.1. COS’È LA MEMORIA?

La mémoire n’est pas une collection de documents déposés en bon ordre au fond d’on ne sait quel nous-même; elle vit et change; elle rapproche les bouts de bois morts pour en faire de nouveau de la flamme. (MARGUERITE YOURCENAR)

Incominciamo con una definizione generale: la memoria è la capacità di immagazzinare informazioni alle quali attingere quando necessario. Come abbiamo visto nell’Introduzione, la memoria è una funzione complessa, comprendente diverse sottocomponenti distinte. Possiamo immaginare una serie di scatolette, separate, ma in collegamento fra loro. Ogni sottocomponente di memoria svolge un compito specifico, una propria funzione: questo è quanto intendiamo dicendo che le componenti sono distinte funzionalmente. Ad esempio, una componente di memoria avrà il compito di ricordare un numero di telefono, mentre un’altra sarà impegnata a rievocare gli Stati che compongono l’ex Unione Sovietica e un’altra ancora mi permetterà di ricordare la composizione del pasto di ieri sera. Le strutture nervose, cioè le aree cerebrali che sot7

tendono ad un’attività, ad esempio ricordare un numero di telefono per pochi secondi, sono distinte da quelle che sottendono ad un altro tipo di memoria, ad esempio quella che ricorda la cena di ieri: questo significa che le componenti sono distinte anatomicamente. Una prima fondamentale distinzione concerne quindi le componenti implicate nella ritenzione temporanea in opposizione alla ritenzione duratura dell’informazione: si tratta, rispettivamente, della memoria a breve termine o memoria primaria e della memoria a lungo termine o memoria secondaria. Anche intuitivamente appare chiaro che ricordare un numero di telefono per pochi secondi dopo che è stato pronunciato o dopo averlo letto è molto diverso dal ricordare quello che abbiamo mangiato ieri o un mese fa o dall’imparare il contenuto di un libro di storia. Questa distinzione risale a William James, fratello dello scrittore Henry James. Egli usò l’espressione memoria primaria per riferirsi a quanto è presente ancora nella nostra mente, anche se non più fisicamente, perché si è verificato da qualche secondo. La memoria a breve termine può contenere una quantità limitata di informazioni per un tempo assai breve (alcuni secondi), dopo di che tali informazioni vanno rapidamente incontro all’oblio. La memoria a lungo termine, invece, ha una capacità molto maggiore (la quantità di informazioni che può ritenere non ha limiti ben definiti) e il ricordo può perdurare per un tempo molto lungo (mesi o addirittura anni): l’oblio è lento. Esistono numerose ulteriori distinzioni nell’ambito della memoria a lungo termine, come se quest’ultima fosse una scatola in cui sono contenute due scatolette distinte fra loro, e in ciascuna di queste scatolette se ne trovassero altre. Le conoscenze relative all’architettura della memoria provengono sia dagli esperimenti eseguiti su soggetti normali sia dalle osservazioni del comportamento di pazienti con una lesione cerebrale. Un modello di funzionamento di un’attività cognitiva non si può considerare adeguato se non è in grado di spiegare i molteplici deficit osservati nei pazienti cerebrolesi. Di conseguenza il modello andrà modifi8

cato secondo quanto suggerito dalla patologia. Come scrive Calvino in Palomar: «Primo, costruire [...] un modello [...]; secondo, verificare se il modello s’adatta ai casi pratici osservabili nell’esperienza; terzo, apportare le correzioni necessarie perché modello e realtà coincidano». A questo punto non vorrei spaventare il lettore per la complessità della struttura: dunque mi fermo qui nell’elencare le distinzioni e passo a descrivere e a raccontare come funziona la prima scatola: ovvero la memoria a breve termine.

I.2. LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Non capiremo nulla della vita umana se continuiamo a eludere la prima di tutte le verità: una realtà così com’era quando era non esiste più; restituirla è impossibile. (MILAN KUNDERA, L’ignoranza)

I.2.1. Come è organizzata la memoria a breve termine Ho accennato al fatto che possiamo considerare la memoria come costituita da un insieme di scatole. La prima scatola, la memoria a breve termine, a sua volta contiene – per semplificare – due scomparti: si tratta della memoria a breve termine verbale o memoria fonologica e della memoria a breve termine visuospaziale. Cominciamo con la prima, sicuramente quella più studiata e quella di cui si conoscono più aspetti legati alla vita pratica. Questo tipo di memoria, infatti, serve ad esempio a ricordare un numero di telefono per pochi secondi. Utilizziamo tale esempio per esaminare il funzionamento di questo sottosistema di memoria: il numero può avermelo detto qualcuno che si trova nella stanza con me o posso averlo letto sull’elenco. Prendiamo il primo caso: il numero telefonico, sotto forma di «suono», cioè con determinate caratteristiche fisiche, entrerà in una 9

sorta di deposito. Questo deposito si chiama magazzino fonologico a breve termine. Se non voglio dimenticare il numero nell’intervallo di tempo che mi occorre per raggiungere il telefono, devo ripassarlo mentalmente, sottovoce o addirittura ad alta voce: questo processo si chiama «ripasso articolatorio», perché articolo subvocalmente o ad alta voce le cifre. Insieme, il magazzino fonologico e il ripasso articolatorio costituiscono la memoria a breve termine verbale, detta anche fonologica. Fonologica perché lo stimolo mi è stato presentato come suono e come tale è stato immagazzinato, verbale perché serve per ricordare materiale verbale e non, ad esempio, una nota musicale o una melodia. La memoria a breve termine verbale viene indicata anche con il termine circuito fonologico (cfr. infra, I. 3). Torniamo alle due componenti della memoria a breve termine verbale. Il magazzino fonologico va immaginato come una sorta di deposito, non molto spazioso, dove io sistemo (deposito, appunto) un’informazione che mi serve solo per un brevissimo periodo di tempo (dell’ordine di secondi), dopo di che tale informazione potrà essere «cestinata», potrà cioè andare incontro ad oblio. Gli studiosi non sono concordi nello spiegare il fenomeno dell’oblio dalla memoria a breve termine. Secondo alcuni, l’informazione «vecchia» viene eliminata perché a poco a poco si affievolisce, si degrada; secondo altri, invece, viene eliminata perché nel magazzino entra materiale nuovo, più attuale e necessario, e non c’è spazio per contenere tutto: di conseguenza l’informazione più vecchia viene scartata. La prima teoria, quindi, spiega l’oblio con il cosiddetto fenomeno del decadimento della traccia ed è stata proposta dallo psicologo inglese Donald E. Broadbent; la seconda spiega l’oblio con il fenomeno dell’interferenza ed è stata sostenuta da Arthur Melton. Da quanto detto appare chiaro che la memoria a breve termine non si riferisce ad avvenimenti di qualche ora prima o addirittura del giorno prima, come molti credono, inclusi molti neurologi: essa riguarda solo pochi secondi antecedenti il momento della rievocazione.

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I.2.2. Le proprietà della memoria a breve termine verbale Abbiamo detto che la memoria a breve termine verbale è costituita da un magazzino fonologico e da un ripasso articolatorio. Ciascuna di queste componenti presenta una proprietà specifica. Cominciamo a spiegare la proprietà del magazzino fonologico. Immaginiamo di avere un ripostiglio di piccole dimensioni, dove ad esempio abbiamo conservato quattro paia di scarpe; il ripostiglio è piccolo e di più non ne contiene. Poniamo che queste scarpe siano molto simili fra loro (sono tutte scarpe da sera, nere, di raso) e si differenziano per un particolare minimo, un dettaglio fisico (ad esempio un fiocchettino, la punta un poco più arrotondata e così via). Nel prenderle, possiamo correre il rischio di sbagliare e di ritrovarci con la scarpa destra di un tipo e la sinistra di un altro, a maggior ragione se è sera, se siamo stanchi e se la nostra attenzione è ridotta. È proprio quello che può succedere nella memoria a breve termine verbale se le informazioni depositate sono fisicamente simili, hanno cioè un suono simile (ad esempio fuoco, cuoco, gioco, ma anche soglia, quaglia, scoglio). Il fenomeno, a causa del quale informazioni fonologicamente simili (ossia con caratteristiche fisiche simili, con suono simile) si confondono fra loro, si chiama effetto di somiglianza fonologica. Questo fenomeno indica che si possono ricordare più facilmente informazioni (siano esse cifre, parole, lettere) dissimili fra loro da un punto di vista fonologico, ovvero con un suono diverso, con caratteristiche fisiche differenti, rispetto ad informazioni simili fra loro. Il ripasso articolatorio va invece pensato come una specie di nastro del registratore, di lunghezza limitata, che scorre: può contenere solo informazioni che non eccedano la sua lunghezza. Quando ripasso il numero di telefono, dunque, quest’ultimo non deve superare la lunghezza del nastro, altrimenti parte delle informazioni andrà persa. Le cifre in italiano corrispondono per lo più a parole bisillabiche; in inglese, invece, le cifre sono in prevalenza monosillabiche: quindi un inglese avrà la possibilità di ripassare più cifre di un ita11

liano, perché ciascuna occupa meno spazio sul nastro del registratore; in teoria, sarà possibile ricordare un numero telefonico più lungo. La proprietà secondo la quale si può ricordare un numero maggiore di parole brevi rispetto a parole lunghe si chiama effetto di lunghezza delle parole. Ho nominato la lingua inglese non a caso: i gallesi, che sono bilingue, mostrano infatti una diversa capacità di ricordare numeri a seconda che venga loro richiesto di svolgere questa attività in inglese o in gaelico (in questa lingua le cifre sono plurisillabiche), in inglese ricordano più cifre che in gaelico. Ovviamente la memoria a breve termine non serve solo per ricordare numeri di telefono (sarebbe uno spreco eccessivo di risorse cognitive!): pensiamo a quando dobbiamo rammentare un indirizzo per pochi secondi, oppure il prezzo di un oggetto che abbiamo comprato mentre aspettiamo il resto e così via. Gli studiosi di memoria a breve termine verbale si sono preoccupati di dare maggiore dignità al pezzetto di memoria da loro indagato e si sono ingegnati nell’individuare situazioni rilevanti in cui essa entra in gioco. Hanno così scoperto alcune attività svolte da questo sottosistema. I.2.3. Le funzioni della memoria a breve termine verbale Innanzi tutto proviamo a pensare cosa succede se qualcuno pronuncia una frase del tipo «il bambino mangia la mela»: non sembrano esserci grandi difficoltà nella comprensione, a patto che conosciamo il significato di ciascuna parola. È difficile che una mela mangi il bambino; la frase è breve e la possiamo capire, ne deduciamo il senso complessivo dal significato delle singole parole. Se invece ci raccontano che «la guardia con il fucile ha fermato il ladro», è importante sì conoscere il significato delle singole parole, ma non è sufficiente: bisogna ricordare anche l’esatto ordine delle parole, perché il significato è ben diverso da quello di una frase come «la guardia ha fermato il ladro con il fucile». Quindi un primo compito che la memoria fonologica svolge è nella compren12

sione di frasi in cui è fondamentale che sia mantenuto l’esatto ordine delle parole (anche se non tutti concordano su questa funzione della memoria a breve termine). Pensiamo ad un altro tipo di frase, ad esempio una frase che possiamo incontrare in uno di quei complicatissimi libretti di istruzioni per apparecchi elettronici: «premere il tasto rosso sulla sinistra e girare la manopola blu a destra». Anche in questo caso, conoscere il significato delle parole «tasto», «manopola» e così via non è sufficiente alla comprensione della frase, che invece deve essere trattenuta, nella sua corretta sequenza, in un magazzino temporaneo per tutto il tempo necessario a compiere l’azione. È probabile che in questo secondo caso la frase sia stata letta, anziché ascoltata. Tuttavia il procedimento è analogo, salvo che esiste un passaggio supplementare, cioè la conversione o, come si dice, la «ricodificazione fonologica» di quanto letto, cioè la trasformazione dei simboli scritti in una sequenza di suoni, che poi ripassiamo: si dice che da un codice grafemico (cioè scritto), il materiale viene convertito in un codice fonologico (cioè sonoro). Vediamo un’altra funzione della memoria a breve termine verbale, di cui mi sono occupata personalmente per diversi anni: l’apprendimento del linguaggio. Possiamo considerare due aspetti: uno è l’apprendimento di una lingua straniera da parte di una persona adulta e l’altro è l’apprendimento del vocabolario nella lingua madre da parte del bambino che impara a parlare. Quando ascoltiamo per la prima volta una parola in una lingua straniera, ad esempio in russo, quella parola non rappresenta per noi altro che un suono nuovo mai udito in precedenza. È difficile ricordarla anche il giorno dopo, a meno di non ripassarla consecutivamente un po’ di volte. Potremmo addirittura fare fatica a ripeterla immediatamente dopo averla sentita, se si tratta di una parola di una certa lunghezza. Facciamo un esempio concreto (che scriverò traslitterato, secondo il suono): osslosgniénie. Si tratta di un suono nuovo (non a caso significa «complicazione»), che non abbiamo mai sentito in passato e quindi, nella nostra mente, non c’è una traccia precedente, non c’è cioè quella che si chiama una 13

«rappresentazione fonologica» di tale parola. Osslosgniénie avrà quindi accesso diretto al magazzino fonologico a breve termine di cui abbiamo parlato prima (a meno che, per qualche motivo, non ecceda la sua capacità, cioè lo spazio disponibile). Possiamo trattenere questo «suono» fino al momento della ripetizione, ripassandolo attraverso il ripasso articolatorio, dopo di che andrà incontro ad oblio. Oppure, se desideriamo imparare il russo, lo ripeteremo un numero di volte necessario affinché si formi una traccia permanente di questo suono, si stabilisca cioè nella nostra mente una rappresentazione fonologica duratura di questa parola. A quel punto, quando la sentiremo di nuovo, la riconosceremo e sapremo tranquillamente pronunciarla su richiesta. Come è entrata la memoria a breve termine in questo processo? Ha trattenuto l’informazione il tempo necessario affinché si formasse una rappresentazione permanente della parola osslosgniénie. A questo proposito vorrei raccontare una serie di esperimenti che il professor Alan Baddeley ed io conducemmo negli anni Novanta e che illustrano bene questo aspetto. Ci eravamo accorti che pazienti con un disturbo di memoria a breve termine verbale erano incapaci di apprendere una lingua straniera. Pensammo allora di riprodurre la condizione nei soggetti normali. Come si può ottenere artificialmente un disturbo di memoria a breve termine verbale? Con la cosiddetta «soppressione articolatoria». Se presento ad una persona stimoli verbali, ad esempio parole nuove, mentre essa sta articolando una sillaba senza senso, ad esempio «bla, bla, bla», non potrà fare uso del ripasso articolatorio, di una componente quindi della memoria a breve termine verbale e, in certo qual modo, ridurrò la sua capacità di trattenere informazioni, ottenendo quindi una situazione simile a quella di un paziente che ha un deposito di dimensioni ridotte a causa di un danno cerebrale. Questa mancata disponibilità del ripasso articolatorio avrà scarsa influenza sul ricordo di parole note, per le quali ho già una rappresentazione fonologica (ho già sentito parole come cane, cavallo, camicia e quindi nella mia mente è già presente il suono, la rappresentazione di queste parole), mentre influenzerà molto la mia capacità di ricordare parole nuove – po14

niamo russe – che non ho sentito mai prima d’ora (ad esempio sabaca, losciad, rubasca) e che avrei bisogno di ripassare per fissarne il suono nella mente. Pertanto preparammo due liste di coppie di parole. La prima parola di ogni coppia era una parola italiana, la seconda era in una lista anch’essa una parola italiana, nell’altra lista la stessa parola, ma in russo. I soggetti, di madre lingua italiana e privi di conoscenze di russo, dovevano apprendere queste coppie sia in condizioni normali che durante soppressione articolatoria. Il compito consisteva nel presentare la lista di coppie di parole e successivamente nel presentare solo la prima parola della coppia e chiedere al soggetto di ricordare la seconda. L’ordine di presentazione delle coppie non era lo stesso dell’ordine di rievocazione. Effettivamente, quando era impedito il ripasso, i soggetti apprendevano bene coppie di parole italiane, ma mostravano grosse difficoltà nell’apprendere coppie di parole italiane-russe. In condizioni di base, quando cioè erano liberi di utilizzare il ripasso, i soggetti apprendevano altrettanto bene sia le parole italiane che quelle russe. A quel punto, con il professor Baddeley e Tim Valentine, decidemmo di eseguire lo stesso esperimento su soggetti inglesi (Papagno et al., 1991). Il risultato fu deludente: gli inglesi non mostravano alcuna differenza nell’apprendimento di parole russe nelle due diverse condizioni, con o senza ripasso. Non fu difficile trovare una spiegazione: i soggetti stessi raccontavano di seguire una strategia ben precisa per apprendere le parole nuove. Ad esempio, una coppia era costituita dalle parole «dictionary-slavar». In genere le persone ricordavano la frase «slave to the dictionary» (schiavo del dizionario), e in tal modo riuscivano ad aggirare il limite imposto dalla soppressione articolatoria, cioè dal mancato ripasso. Utilizzavano quindi una strategia di tipo semantico, davano cioè un significato alla coppia di parole da apprendere. Questo era possibile perché la parola russa aveva un suono simile ad un’altra inglese, di cui il soggetto aveva già una rappresentazione fonologica. Non avevano più bisogno a quel punto di fare affidamento sul ripasso del suono nuovo. Sostituimmo quindi il russo con il finlandese, che non ha nulla di simile all’inglese, e l’esperimento funzionò a perfezione. Penso che, al contrario, 15

il finlandese avrebbe creato gli stessi problemi con i soggetti di lingua italiana perché alcune parole finlandesi sono simili o addirittura identiche a parole italiane, anche se con significato diverso (ad esempio «panna» in finlandese significa «mettere»). Esperimenti simili sono stati condotti dalla professoressa Sue Gathercole e dai suoi collaboratori nei bambini che imparano a parlare. I bambini che a 2-3 anni hanno una memoria a breve termine migliore sono quelli che nell’anno successivo mostreranno un maggiore sviluppo del vocabolario, a parità di altri aspetti. Altre conferme si sono avute da esperimenti in cui i bambini dovevano imparare nomi inesistenti di mostri-giocattolo, come ad esempio Pichele e Miero: i bambini con migliore capacità di memoria a breve termine verbale erano quelli che imparavano più facilmente i nomi inventati (Baddeley, Gathercole, Papagno, 1998). Un ultimo ruolo della memoria a breve termine verbale sta nella produzione dell’eloquio. Nell’eloquio spontaneo alcuni errori riguardano l’inversione di posizione di consonanti o vocali (i cosiddetti «spoonerismi», da Spooner, pastore anglicano, direttore di un college di Oxford, famoso per i suoi lapsus. Ad esempio, si narra che dicesse: «queer old dean», vecchio decano svitato, invece di «dear old queen», cara vecchia regina). Questo tipo di errori fornisce una dimostrazione che parti dell’eloquio (cioè segmenti fonologici) sono pianificate in anticipo ed immagazzinate sotto forma di suono, prima di essere articolate. Il sistema di ritenzione a breve termine è lo spazio dove originano tali errori. I.2.4. La memoria a breve termine visuospaziale Veniamo ora alla seconda scatoletta, la memoria a breve termine visuospaziale. Così come la memoria a breve termine verbale viene chiamata anche circuito fonologico, quella visuospaziale è nota come «taccuino visuospaziale» (cfr. infra, I.3). Esiste un numero molto minore di studi e apparentemente non si conoscono ancora in dettaglio le applicazioni pratiche di questo sottosistema rispetto alla memoria a breve termine verbale. 16

In linea di massima esso mantiene e manipola l’informazione visuospaziale ed è coinvolto nel formare le immagini mentali. È verosimile che anch’esso comprenda due componenti analoghe al magazzino fonologico e al ripasso articolatorio. Esse sono rispettivamente indicate in inglese come visual cache e inner scribe. Il visual cache sarebbe l’analogo del magazzino fonologico ed avrebbe la funzione di mantenere l’informazione con caratteristiche visive, come la forma ed il colore di un oggetto, e sarebbe strettamente legato alle attività del sistema visuopercettivo. L’inner scribe, invece, si occuperebbe di trattenere le informazioni sulle sequenze dei movimenti e, in modo analogo al ripasso, rinfrescherebbe il contenuto del visual cache. Molti studi suggeriscono che ci siano sottosistemi distinti di memoria a breve termine visuospaziale, alcuni che si occupano delle informazioni spaziali (come la collocazione di un oggetto) e altri dell’informazione visiva (ad esempio il suo aspetto). I.2.5. Le funzioni della memoria a breve termine visuospaziale Disponiamo di un numero molto minore di studi sul ruolo della memoria a breve termine visuospaziale e sono stati descritti pochissimi pazienti con un deficit selettivo di questo sistema (tra l’altro, per questi casi esiste qualche dubbio che siano veramente «puri», che non presentino cioè, associato, anche un deficit a lungo termine). Quindi, sappiamo ancora relativamente poco sulle sue funzioni. Sicuramente i grandi giocatori di scacchi fanno largo uso della memoria a breve termine visuospaziale, dato che sono in grado di situare correttamente il 90 per cento dei pezzi in una posizione di una partita dopo un solo sguardo di cinque secondi. Effetti simili si osservano nei giocatori di bridge. La memoria visuospaziale è utile anche nell’orientamento e negli spostamenti, in quanto serve a far ricordare la posizione del corpo per la modificazione successiva nello spazio. Un ruolo importante lo riveste nel manipolare immagini mentali. Ad esempio, se mi viene richiesto di descrivere un oggetto, posso richiamarlo dalla memoria a lungo ter17

mine, ma poi, mentre la mia descrizione procede, devo mantenere la sua immagine in un magazzino a breve termine per il tempo necessario a «esaminarlo» mentalmente. Lo stesso accade se devo immaginare di ruotare un oggetto: un esperimento comune consiste nel presentare una lettera asimmetrica (ad esempio una R), in diverse posizioni inclinate, che possono essere sia corrette, che speculari. Il soggetto, che deve decidere se la lettera è in posizione canonica o speculare, per eseguire questa manipolazione mentale, farà uso della memoria a breve termine visuospaziale. I.2.6. Le basi anatomiche della memoria a breve termine Quali sono le strutture del nostro cervello che ci permettono di ricordare un numero di telefono o, per pochi secondi, la posizione di alcuni oggetti nello spazio? Le informazioni sui correlati anatomici delle funzioni cognitive provengono da tre tipi di studi. Innanzi tutto gli studi anatomopatologici, in cui si esamina direttamente il cervello di una persona deceduta che in vita aveva presentato determinati disturbi, ad esempio di memoria a breve termine. Si vanno a cercare le strutture danneggiate e si ipotizza che il disturbo X era presente verosimilmente perché la struttura Y era danneggiata. Il problema può essere che tra il momento in cui sono insorti i deficit e il momento in cui si esamina il cervello (intervallo che può essere anche di molti anni) potrebbero essersi verificate delle modificazioni a livello cerebrale che nulla c’entrano con i disturbi di memoria e quindi non abbiamo la certezza che la lesione che troviamo sia effettivamente quella che a suo tempo aveva provocato il deficit. Attualmente si fa soprattutto ricorso a studi di correlazione anatomoclinica: un paziente ha un certo disturbo e la sua TAC encefalo o la sua risonanza magnetica o qualsiasi altro esame mostrano una lesione in una certa sede; a quel punto si suppone che la lesione evidenziata in una ben precisa area cerebrale sia la causa del disturbo presentato dal paziente. Sempre sull’uomo si 18

possono eseguire studi di attivazione cerebrale nei soggetti normali con la tomografia ad emissione di positroni (PET) o la risonanza magnetica funzionale (fMRI). In questo caso si osservano le aree che si attivano quando un soggetto svolge, ad esempio, un compito di memoria. In teoria, quando un’area è impegnata in un compito cognitivo, aumentano il suo flusso ematico ed il suo metabolismo e quindi si può ipotizzare che l’area, che risulta appunto attivata, sia coinvolta nel compito. Un altro metodo per studiare i correlati neurali è quello della stimolazione magnetica: con questa tecnica si provoca una lesione virtuale transitoria in un soggetto normale, interrompendo momentaneamente i suoi circuiti neuronali e si osserva come viene svolto un determinato compito, cioè come questa lesione transitoria interferisca con lo svolgimento del compito. Si è osservato che la corteccia parietale inferiore (cfr. fig. 1a) dell’emisfero sinistro è importante per la memoria a breve termine verbale, mentre la corteccia posteriore destra (temporo-parieto-occipitale) è interessata nella ritenzione a breve termine visuospaziale. I.2.7. Il deficit di memoria a breve termine In passato sono stati proposti modelli di memoria che prevedevano che un ricordo, per essere immagazzinato, dovesse prima necessariamente attraversare la memoria a breve termine o memoria primaria (come veniva chiamata) e solo successivamente avrebbe raggiunto il magazzino di memoria a lungo termine. Questi modelli sono chiamati «modelli seriali» (Waugh e Norman, 1965; Atkinson e Shiffrin, 1968). Tuttavia i pazienti con un disturbo di memoria a breve termine mostrano una rievocazione a lungo termine intatta, dimostrando così come i due magazzini siano in parallelo e non in serie, cioè non uno di seguito all’altro, nel qual caso un danno della memoria a breve termine dovrebbe necessariamente compromettere anche quella a lungo termine (cfr. anche infra, I.12). Le cause di compromissione della memoria a breve termine sono in genere disturbi vascolari, ma anche traumi e, raramente, neoplasie. È 19

stato descritto un numero molto limitato di pazienti con deficit selettivo di memoria a breve termine (cioè esclusivamente con questo disturbo), in particolare, come ho già accennato, visuospaziale. Pertanto i dati disponibili non sono numerosi. Ma allora che problema presentano questi pazienti? Per fortuna loro, non molti. Cominciamo da coloro i quali hanno un deficit della memoria a breve termine verbale. In letteratura ne sono stati riportati meno di una ventina. Non sono in grado di ripetere più di 2-3 cifre nell’ordine di presentazione e quindi non ricordano un numero di telefono appena ascoltato, oppure presentano qualche difficoltà nel calcolare il resto, quando viene comunicato loro un prezzo (cfr. infra, II.7). Poco male. Forse faranno un po’ fatica a comprendere frasi lunghe, del tipo che abbiamo citato sopra. Non è una tragedia. Infine dovranno rinunciare ad imparare una lingua straniera, ma penso che anche con questo handicap si possa vivere egregiamente. È inoltre possibile che non mostrino differenze nel ricordare parole lunghe o brevi, simili o dissimili (cfr. supra, I.2.2), in questo secondo caso solo se la presentazione è visiva. Infatti, nel caso della presentazione uditiva (le parole sono pronunciate da qualcuno, nella presentazione visiva sono i soggetti stessi a leggerle), per quanto danneggiato sia il loro magazzino fonologico, gli stimoli devono entrare necessariamente lì; invece nel caso di presentazione visiva, i pazienti potrebbero scegliere la strategia di evitare la ricodificazione fonologica (cfr. supra, I.2.3) e far restare le parole lette in un magazzino a breve termine visivo. Non andrà molto peggio ai pazienti con un disturbo di memoria a breve termine visuospaziale, che per altro sono presenti in letteratura in numero ancora inferiore rispetto ai precedenti. La memoria a breve termine visuospaziale può essere valutata chiedendo al soggetto di riprodurre una sequenza spaziale subito dopo la sua presentazione: si indicano cioè dei cubetti in un certo ordine e il paziente deve immediatamente riprodurre la sequenza. Questi soggetti non saranno in grado di riprodurre sequenze di cubetti maggiori di due o tre. Forse non saranno dei grandi giocatori di scacchi o di bridge, ma nessuno si è mai disperato per questo. Inol20

LOBO FRONTALE

LOBO PARIETALE

a) FACCIA LATERALE

LOBO OCCIPITALE LOBO TEMPORALE

b) FACCIA MEDIALE IPPOCAMPO

AMIGDALA

c) SEZIONE CORONALE TERZO VENTRICOLO TALAMO

IPOTALAMO

AREA FRONTOBASALE

Figura 1. Emisferi cerebrali.

21

tre avranno qualche difficoltà nell’apprendere percorsi nuovi, cosa che è pressoché impossibile anche per me, che, verosimilmente, non ho nessun deficit di memoria a breve termine visuospaziale. Di recente mi è capitato di osservare una paziente con un disturbo di memoria a breve termine visuospaziale, che non era in grado di copiare disegni ed aveva difficoltà nell’identificare figure sovrapposte (Papagno, 2002). Per disegnare, infatti, bisogna mantenere l’immagine in un magazzino a breve termine per il tempo necessario a scegliere le procedure da seguire e a dirigere i movimenti. Analogamente, per distinguere figure sovrapposte, bisogna essere in grado di conservare, in un magazzino a breve termine visuospaziale, la prima immagine per il tempo necessario a riconoscere le successive. Qualcuno, infine, sostiene che la memoria a breve termine visuospaziale serva anche per utilizzare le mappe mentali di percorsi noti (cfr. infra, II.8), ma vi sono alcune obiezioni sul caso citato come esempio di questa possibilità, nel quale potrebbe esserci invece un concomitante problema di memoria a lungo termine. I disordini selettivi della memoria a breve termine, siano essi verbali o visuospaziali, non sono quindi tra le cose peggiori che ci possano capitare.

I.3. LA MEMORIA DI LAVORO

...che non si dà ricordanza, né si mette in opera la memoria senz’attenzione. (GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, n. 2378)

I.3.1. Il modello della memoria di lavoro Nel 1974 Baddeley e Hitch proposero un interessante modello di memoria a breve termine. Essi cercarono di capire se quest’ultima avesse altri compiti, oltre a quello, non particolarmente gravoso o interessante, di ricordare un numero di 22

telefono per pochi secondi. Giunsero alla conclusione che quando dobbiamo fare un ragionamento semplice, risolvere un breve calcolo mentale, capire una frase del tipo descritto in precedenza (cfr. supra, I.2.3) – quelle per la cui comprensione è necessario mantenere il corretto ordine delle parole –, l’informazione da elaborare deve essere conservata momentaneamente, il tempo necessario per eseguire particolari operazioni e verifiche. Ad esempio: 15 + 27? Allora: 7 + 5 = 12, 2 e riporto 1, 1 + 2 = 3 e 1 che riportavo = 4, quindi 42! Per eseguire questo breve calcolo mentale, ho dovuto trattenere in memoria temporaneamente queste cifre. Aggiungiamo dell’altro: per nostra fortuna siamo in grado di svolgere due compiti simultaneamente. Baddeley ed Hitch provarono a far ripetere una sequenza di 6 cifre a soggetti che nello stesso tempo svolgevano un compito di ragionamento (decidere se è vero: A precede B = BA, che è ovviamente errato). I soggetti rallentavano la loro prestazione, ma riuscivano lo stesso a fare queste due cose contemporaneamente, come se la loro esecuzione dipendesse da sistemi distinti, ma con qualcosa in comune, responsabile del rallentamento. In altre parole, i sistemi preposti a ciascun compito dovevano essere separati, altrimenti non si sarebbero potuti svolgere i due compiti simultaneamente, ma al contempo vi doveva essere una componente comune che li controllava e li coordinava: quando il sistema di controllo supervisionava un solo compito, questo poteva essere svolto rapidamente; se il sistema doveva controllare due componenti, ecco che determinava un rallentamento di entrambi. Il sistema di controllo fu chiamato «esecutivo centrale», mentre i due sottosistemi da lui controllati e coordinati (indicati come «sistemi schiavi») non erano altro che il circuito fonologico e il taccuino visuospaziale, già descritti a proposito della memoria a breve termine (cfr. supra, I.2). Il sistema operativo nel suo complesso rappresenta la cosiddetta memoria di lavoro. Dato che i due sistemi schiavi sono stati descritti nel capitolo precedente, dedicherò ora qualche riga alla descrizione della componente principale del modello, l’esecutivo centrale e, per farlo, porterò un esempio dalla patologia. 23

I.3.2. L’esecutivo centrale Esiste un deficit neuropsicologico, presentato sia dai pazienti con malattia di Alzheimer che da quelli con lesione del lobo frontale, rappresentato dalla difficoltà a svolgere due compiti simultaneamente. È di comune osservazione che due adulti sani possono camminare e parlare contemporaneamente. Tuttavia, se il discorso si fa più complesso, è possibile che i due si fermino per continuare la conversazione, probabilmente perché è richiesta una quota aggiuntiva di attenzione e quindi bisogna utilizzare anche quella minima quantità che serve per controllare il proprio cammino. I pazienti con Alzheimer hanno difficoltà a parlare mentre camminano, anche senza essere coinvolti in discussioni rilevanti: quando, in un esperimento, dovevano pronunciare quanti più nomi femminili venivano loro in mente mentre compivano un certo percorso, si riduceva significativamente il numero di passi compiuti in un certo intervallo di tempo (Camicioli et al., 1997). Questo dato è rilevante, perché mostra come l’aumento di cadute e conseguenti fratture del paziente con decadimento cognitivo possa dipendere dalla ridotta disponibilità di controllo. Un suggerimento pratico è quello di evitare di far fare conversazione ai pazienti affetti da Alzheimer mentre camminano. Il paziente con questa malattia ha una riduzione di tutte le funzioni cognitive: la memoria, il linguaggio e così via. Avendo meno «strumenti» a disposizione, il paziente si deve concentrare su ogni compito e anche ciò che un tempo poteva fare quasi macchinalmente richiede una quota maggiore di attenzione o più in generale di controllo. Ne consegue che il suo sistema di controllo si satura molto prima che in un soggetto normale, anche anziano. Quindi aggiungere un secondo compito ad uno già in atto può comportare due conseguenze: in un caso il paziente decide di utilizzare tutte le risorse per svolgere al meglio uno dei due compiti, che quindi continuerà ad essere eseguito con la stessa efficacia, mentre l’altro sarà praticamente azzerato o comunque molto compromesso. Oppure il paziente può provare a fare entrambi, ma nessuno sarà portato a termine in maniera adeguata. 24

Anni fa, i professori Baddeley, Della Sala, Spinnler ed io provammo ad elaborare un test cosiddetto «carta e penna» (cioè da realizzare solo con questi due materiali e quindi di facile impiego in clinica per la valutazione dei malati). Questo test doveva essere l’equivalente di laboratorio del fare due compiti simultaneamente. Non fu un’impresa facile, perché qualsiasi opzione sembrava troppo complessa per i pazienti con malattia di Alzheimer. Alla fine producemmo il nostro dual-task (Baddeley et al., 1997), che si è rivelato efficacissimo per discriminare i pazienti con demenza fin dalle fasi iniziali della malattia, quando altri test risultano ancora normali. Esso consiste in questo: si chiede al paziente di ripetere sequenze di cifre di lunghezza crescente. Ci si ferma alla sequenza di lunghezza tale per cui il soggetto è ancora in grado di ripetere correttamente tre sequenze su tre. A quel punto si presentano sequenze di quella lunghezza, che il paziente deve ripetere immediatamente, continuando per due minuti e si calcola il numero di sequenze ripetute in modo corretto sul numero totale di sequenze presentate. Poi si mostra un percorso, costituito da tanti quadratini, collegati fra loro da una linea. Il soggetto deve barrare tutti i quadratini presenti sul foglio, secondo l’ordine di una freccia. Una volta che si è certi che il paziente abbia capito il compito, dopo una breve pratica, lo si sottopone a questa parte del test per due minuti consecutivi e alla fine si contano i quadretti barrati. Infine, si chiede al paziente di barrare i quadratini e contemporaneamente ripetere le cifre presentate verbalmente dall’esaminatore: insomma si combinano le due prove. Esiste una formula per calcolare il deterioramento della prestazione da singola in doppia. Cosa fa il paziente con malattia di Alzheimer nel dual-task? Una possibilità è quella che smetta di barrare i quadratini per ripetere le cifre (quindi sarà molto inferiore il numero di quadratini barrati), oppure può scrivere le cifre all’interno dei quadratini, infine altri pazienti barrano i quadrati, incuranti delle cifre o ripetendole in modo casuale. In tutte e tre le eventualità, la prestazione in compito doppio decade drammaticamente rispetto alle condizioni singole. Sog25

getti altrettanto anziani, ma senza demenza, si comportano in modo del tutto normale. Pazienti con lesioni frontali (anche se non tutti, ma solo quelli con disturbi comportamentali) spesso mostrano le stesse difficoltà. I.3.3. I correlati neurali della memoria di lavoro È verosimile che il correlato neurale dell’esecutivo centrale sia situato nel lobo frontale, cioè la parte anteriore del cervello (fig. 1a). Questa parte della corteccia (in particolare la parte più anteriore del lobo frontale, detta «corteccia prefrontale») è quella che distingue i primati e specificamente l’uomo, in cui è molto più sviluppata, dagli altri mammiferi. Alcuni esperimenti a favore di un ruolo di questa struttura nella memoria sono stati fatti con le scimmie, sottoponendole al «compito di risposta ritardata». Una scimmia vede porre del cibo in un contenitore sotto uno di due coperchi identici su di un tavolo. Dopo un periodo di ritardo, in cui l’animale non vede il tavolo coi contenitori, si permette all’animale di vedere e, nel caso scelga il contenitore giusto, gli si offre il cibo come ricompensa. Durante questo compito, registrando l’attività dei neuroni (cellule cerebrali) della corteccia prefrontale, si osserva che alcuni sono attivi durante l’intervallo di attesa (ritardo), verosimilmente perché stanno trattenendo le informazioni per fare la scelta corretta quando il periodo di attesa sarà terminato. Questi neuroni quindi sarebbero responsabili della memoria di lavoro della scimmia. Nell’uomo la corteccia prefrontale svolge una serie di compiti importantissimi, tra cui risolvere problemi e pianificare il comportamento, tanto che, come ho accennato in precedenza, una sua lesione può provocare importanti disturbi comportamentali. Uno dei pazienti più noti nella letteratura neuropsicologica è Phineas Gage, capocantiere in una ferrovia del Vermont, a metà del 1800 (Damasio, 1995). In seguito ad un’esplosione, Gage ricevette nel cranio un’asta di ferro di 6 kg che, entrata inferiormente all’occhio sinistro, uscì 26

dalla regione frontale destra. Incredibilmente egli non subì nessun deficit motorio e conservò uno stato di coscienza normale. Dopo un mese, già andava in giro da solo per la città. Tuttavia la sua personalità era drammaticamente cambiata: prima era considerato equilibrato, intelligente e preparato, tenace nell’esecuzione dei progetti. Dopo l’incidente, secondo la stessa descrizione del medico che lo ebbe in cura, «divenne sregolato, bestemmiatore, poco rispettoso verso i suoi colleghi, intollerante verso limitazioni se in conflitto con i suoi desideri. Progettava piani per il futuro che regolarmente abbandonava». Dal percorso del ferro attraverso il cranio, appare verosimile che il lobo frontale sinistro debba essere stato danneggiato in larga misura. A questo paziente ne sono seguiti molti altri che, apparentemente integri nelle loro facoltà mentali dopo una lesione prefrontale (come appare dalla normale prestazione ai test), mostrano radicali alterazioni del comportamento: non sanno programmare la giornata, pianificare un lavoro, hanno persino difficoltà nel decidere la propria cena o in che ordine fare gli acquisti per preparare un pasto, addirittura possono passare una intera serata per scegliere in che ristorante cenare. Riassumendo quanto detto finora, la memoria di lavoro sarebbe quindi un sistema necessario per trattenere e manipolare le informazioni, mentre si eseguono un’ampia gamma di compiti, incluso l’apprendimento, il ragionamento e la comprensione. L’esecutivo centrale sarebbe il responsabile del controllo attenzionale della memoria di lavoro. I.3.4. Esempi di comune osservazione Torniamo a quanto detto nel capitolo precedente. Ho raccontato di numeri di telefono, prezzi e spoonerismi. Forse in molti avranno pensato «ah, ecco, questo succede a me, allora ho un disturbo di memoria a breve termine!». Se dimenticate i numeri di telefono mentre li componete è probabile che abbiate scarso interesse per quella telefonata e quindi abbiate riposto poca attenzione nel memorizzarlo, oppure siate molto ansiosi 27

per la telefonata e il numero passa in secondo piano, perché la vostra attenzione è rivolta ad altro, ad esempio a quello che dovete dire oppure alla possibilità di non trovare chi state cercando. Sicuramente è capitato a tutti almeno una volta di pronunciare frasi del tipo «fassami le porbici» anziché «passami le forbici», ma probabilmente sarà successo in condizioni di stanchezza o perché in realtà, ancora una volta, si era distratti da altri pensieri, insomma in ogni caso vi era un calo attenzionale, un malfunzionamento del tutto fisiologico dell’esecutivo centrale. La febbre, una malattia internistica, o qualche preoccupazione possono compromettere, in modo del tutto transitorio, il funzionamento di questo sistema operativo, particolarmente vulnerabile, tanto da simulare, per pochissimi secondi, il disturbo dato da una lesione frontale.

I.4. LA MEMORIA A LUNGO TERMINE

Silvia, rimembri ancor / quel tempo della tua vita mortale... (GIACOMO LEOPARDI, A Silvia)

Abbiamo visto nel primo capitolo che la memoria a lungo termine è il sistema implicato nella ritenzione duratura dell’informazione. Se incontriamo per strada un amico che ci racconta un avvenimento di cui è stato protagonista, siamo consapevoli che ciò che ci sta dicendo è una novità, che ne stiamo venendo a conoscenza e nel futuro saremo in grado di rievocare l’episodio ogni qualvolta ne avremo motivo. Se invece siamo pigri e piuttosto che uscire in strada per incontrare amici che ci raccontano le loro storie preferiamo rimanere in casa a rintronarci giocando a Tetris, ci capiterà qualcos’altro. A furia di ripeterlo, come fanno tutti quando iniziano un videogioco, miglioriamo la nostra prestazione, ma non stiamo apprendendo un concetto, un’informazione, da rievocare quando ci sarà richiesto; solo che in futuro ci mostreremo più abili nell’esecuzione del gioco: abbiamo appreso una procedura. 28

A questo punto abbiamo introdotto una nuova distinzione tra forme di memoria: quella fra memoria dichiarativa o esplicita (l’incontro) e memoria non dichiarativa o implicita (l’abilità ai videogiochi). Questa distinzione pone l’accento sulla differenza fra ricordo consapevole di un evento e operazioni inconsce necessarie per acquisirlo. Proviamo a chiarire questo concetto: la memoria dichiarativa riguarda i ricordi consapevoli, quelli per cui apprendimento e rievocazione avvengono in modo «cosciente». La memoria implicita, invece, è inconscia ed è messa in evidenza eseguendo una prestazione specifica. L’espressione dell’avvenuto apprendimento si realizza attraverso il comportamento. Si è soliti dire che la memoria dichiarativa risponde alla domanda «sapere cosa», mentre quella non dichiarativa o implicita che spesso, erroneamente, è considerata equivalente alla memoria procedurale (si tornerà in seguito sull’argomento) risponde alla domanda «sapere come». Esistono varie forme di memoria implicita: una è quella appena descritta, la memoria procedurale; esistono poi il «condizionamento» e il cosiddetto «priming», di cui si parlerà nel capitolo dedicato alla memoria implicita. Un’ulteriore distinzione esiste anche entro il dominio della memoria a lungo termine dichiarativa. Infatti, è diverso ricordare un percorso fatto il giorno precedente o un episodio specifico verificatosi nel nostro passato rispetto a ricordare il nome della capitale della Francia o il significato della parola «chiodo». La memoria per gli eventi che hanno precisi connotati spazio-temporali, di cui cioè sappiamo il luogo e il momento in cui si sono verificati, prende il nome di memoria episodica. La memoria semantica sarebbe invece il sistema organizzato per l’uso del linguaggio, la conoscenza che una persona possiede riguardo alle parole e agli altri simboli, verbali o no, la conoscenza del mondo acquisita attraverso la scuola e i mezzi di comunicazione. Un altro tipo di memoria, del tutto particolare, riguarda la capacità di ricordare le cose nel futuro: il «ricordarsi di fare», che è la memoria prospettica ed è spesso di una mancanza di questo tipo di memoria che le persone si lamentano. 29

I.5. LA MEMORIA A LUNGO TERMINE EPISODICA: RICORDARSI IL PASTO DELLA SERA PRECEDENTE

Posso tuttavia supporre che la memoria si limiti a conservare un milionesimo, un miliardesimo, insomma una infinitesima particella della vita vissuta. (MILAN KUNDERA, L’ignoranza)

I.5.1. Caratteristiche della memoria episodica Durante una giornata ci possono succedere molte cose, che successivamente, saremo in grado di rievocare. Incontriamo una persona, riceviamo una telefonata, la sera ceniamo e magari andiamo al cinema. L’indomani, a qualcuno che ci chiedesse come abbiamo passato la giornata o che fosse incuriosito dalla nostra cena, riferiremo in modo abbastanza preciso ogni cosa. Certo è che, se la nostra giornata e i nostri pasti non sono stati particolarmente rilevanti, è alquanto difficile che fra un mese sapremo rispondere con la stessa precisione, perché si saranno sovrapposte altre giornate più o meno simili o cene non molto diverse. Ricorderemo invece eventi con caratteristiche precise, rilevanti e tali da distinguersi dalla routine quotidiana. Questi processi hanno un nome: il fatto che siamo in grado di acquisire coscientemente nuove informazioni, di «apprendere», si chiama appunto «apprendimento». Le nuove informazioni andranno a far parte della memoria a lungo termine dichiarativa e, più precisamente, episodica; quelle perse con il passare del tempo andranno incontro ad «oblio». La perdita patologica di vecchi ricordi e/o l’incapacità ad acquisirne di nuovi si chiama «amnesia». Quattro parametri distinguono il magazzino di memoria a lungo termine. Innanzi tutto, la durata del ricordo è di mesi, anni, teoricamente illimitata: possiamo ricordare un evento per tutta la nostra vita (a differenza di quanto abbiamo detto riguardo alla durata del ricordo nel magazzino a breve termine, che si esaurisce nel giro di pochi secondi). In secondo luo30

go la capacità è molto ampia, a limiti non ben definiti, al contrario della memoria a breve termine, che può contenere pochi stimoli (ad esempio otto cifre). Basti pensare agli episodi e alle conoscenze che siamo in grado di rievocare. La rappresentazione dell’informazione è di natura semantica, nel senso che i ricordi vengono immagazzinati facendo riferimento al loro significato; nel caso della memoria a breve termine, abbiamo visto che gli stimoli sono rappresentati secondo le loro caratteristiche fisiche e si è detto che stimoli che hanno un suono simile (come gatto, fatto) possono essere confusi. Al contrario, nel magazzino a lungo termine, sono confusi stimoli o episodi di significato analogo (possiamo confondere parole come casa, edificio, stabile, oppure avvenimenti analoghi: episodi relativi a due diversi matrimoni ai quali abbiamo partecipato e non ricordare se un certo particolare si è verificato durante l’uno o l’altro). Infine l’oblio è lento nel caso della memoria a lungo termine, mentre per la memoria a breve termine si verifica in pochi secondi. I.5.2. Anatomia della memoria episodica Abbiamo già visto a proposito della memoria a breve termine (cfr. supra, I.2) come si ottengono le conoscenze sulle basi neuroanatomiche della memoria. Possiamo aggiungere i dati ottenuti dagli esperimenti condotti sugli animali. Inserendo elettrodi a livello di varie strutture cerebrali, è possibile evidenziare i neuroni (le cellule nervose) che scaricano (sono attivi, lavorano) quando sono richiesti compiti di memoria, ad esempio ricordare dove è stato messo del cibo (cfr. supra, I.3). Alternativamente, si possono effettuare ablazioni, cioè rimozioni di parti del cervello e rilevare quali deficit conseguono. Tre gruppi di strutture anatomiche sembrano essere utili per immagazzinare ricordi. La principale e più studiata è l’«ippocampo» (fig. 1b). In realtà non è solo l’ippocampo ad essere interessato nella memoria episodica, ma anche le strutture contigue (la «corteccia peririnale» e quella «entorinale»). Un secondo gruppo di strutture è costituito dal diencefalo. Il 31

«diencefalo», che comprende «talamo» ed «ipotalamo», è sito inferiormente fra i due emisferi cerebrali, intorno ad una cavità che si chiama «terzo ventricolo» (fig. 1c). Talamo ed ipotalamo comprendono numerosi nuclei (raggruppamenti cellulari), alcuni dei quali sono coinvolti nella memoria, ad esempio i «corpi mamillari» dell’ipotalamo. Importante è anche il fascio che collega l’ipotalamo al talamo, il fascio «mamillo-talamico». Infine esiste un terzo gruppo di strutture, il cui danno può comportare amnesia: si tratta delle «strutture frontobasali», poste anteriormente, alla base dei due emisferi cerebrali (fig. 1c). I.5.3. Cause di amnesia Diversi processi patologici possono compromettere il funzionamento di queste strutture. Il lobo temporale mediale (dove si trova l’ippocampo) può essere danneggiato nel corso di un’encefalite erpetica. L’encefalite erpetica è una malattia dovuta al virus dell’herpes simplex, che ha un particolare tropismo (cioè tende a localizzarsi) nella regione fronto-orbitaria (la parte inferiore del lobo frontale, situata sopra l’orbita) e nel lobo temporale, o mediale o laterale. L’amnesia si avrà in caso di interessamento del lobo temporale mediale. Oppure ci può essere stata un’anossia, cioè un mancato apporto di ossigeno, ad esempio in seguito ad arresto cardiaco. In entrambi i casi, la lesione interessa sia la formazione ippocampale destra che quella sinistra. Lesioni unilaterali possono provocare un disturbo limitato a materiale verbale (sinistro) o visuospaziale (destro). Danni diencefalici possono seguire infarti, cioè disturbi vascolari o tumori del terzo ventricolo (che è la cavità posta fra il talamo di destra e quello di sinistra). Infine sono alla base della sindrome di Korsakoff (cfr. infra, I.5.6). Le strutture frontobasali possono essere danneggiate in seguito a rottura di aneurisma dell’arteria comunicante anteriore, che è un vaso alla base degli emisferi cerebrali, in regione frontale. Gli scienziati usano test comportamentali per sviluppare negli animali, specie le scimmie, modelli di amnesia simili a quella dell’uomo. In un test chiamato «compito ritardato 32

dissimile al campione», alle scimmie viene presentato del cibo (che possono prendere) posto sotto un oggetto di una determinata forma. Dopo un certo intervallo di tempo si mostra una coppia di oggetti e le scimmie devono riconoscere quale dei due non era stato presentato in precedenza: sotto quest’ultimo gli animali trovano il cibo. Dopo una lesione temporale mediale, ad intervalli maggiori di pochi secondi, le scimmie eseguono con difficoltà il compito. Si tratta di un deficit anterogrado e più precisamente di un deficit di riconoscimento, in quanto le scimmie non riconoscono l’oggetto visto in precedenza. Parallelamente si è dimostrato che la capacità di discriminare oggetti appresa dalle scimmie prima di una lesione temporale è difficilmente conservata (deficit retrogrado), mentre lo è la capacità di discriminare fra due oggetti, appresa molto tempo prima rispetto alla lesione. I.5.4. Le ipotesi funzionali sull’amnesia Finora abbiamo visto quali lesioni anatomiche possano provocare amnesia. Vediamo ora il meccanismo funzionale alla base di questa perdita. In altre parole, quando immagazziniamo ricordi, avvengono determinati processi nel cervello; si tratta di capire quale tappa viene interrotta dal danno cerebrale. Esistono varie ipotesi, ma nessuna riesce a spiegare per intero la sindrome amnesica. Distinguiamo le teorie in due gruppi: i disturbi mnesici possono essere causati da alterazioni dei processi di codificazione (elaborazione iniziale dell’informazione) e immagazzinamento e, in questo caso, i ricordi sono definitivamente persi, oppure il deficit può essere attribuito ad un problema di richiamo o di contesto e quindi i ricordi non sono perduti, ma non si riesce a recuperarli. Secondo l’ipotesi che attribuisce il danno ad un deficit di consolidamento della traccia, non si è in grado di consolidare nuovi ricordi perché non si formano nuovi circuiti cerebrali; l’ipotesi del deficit di codificazione sostiene che gli amnesici non sarebbero in grado di elaborare l’informazione ad un livello semantico, necessario per una ritenzione stabile, limitandosi ad una codificazione più superficiale, magari solo delle caratteri33

stiche fisiche dello stimolo (cfr. infra, I.12). Secondo la teoria del deficit di richiamo, gli amnesici non riescono a selezionare il ricordo cercato, che non è perso, ma è solo nascosto in qualche meandro del cervello. Secondo la teoria del contesto, non si riuscirebbero ad utilizzare le informazioni contestuali relative al ricordo (il tempo, il luogo, il rapporto con altri eventi). Quindi non ricordo perché non riesco a ricreare la situazione in cui l’episodio si è verificato, quand’era, dov’era. I.5.5. Il quadro clinico dell’amnesia globale La perdita di vecchi ricordi e l’incapacità ad acquisirne di nuovi costituisce l’«amnesia globale». Il quadro clinico dell’amnesia globale comprende cinque aspetti fondamentali. Prima di tutto il paziente non è in grado di apprendere nuovi ricordi. Qualsiasi evento sarà dimenticato nel giro di pochi minuti: se parlate con un amnesico e poi uscite dalla stanza per rientrare anche solo un minuto dopo, non ricorderà nulla di quello che gli è stato detto e forse non ricorderà nemmeno di avervi già visto. Il paziente non sarà in grado di ricordare un percorso: quindi, in ospedale, non saprà come andare dal suo letto al bagno e viceversa. Questo primo aspetto è l’«amnesia anterograda», l’incapacità ad acquisire nuove informazioni. Il secondo aspetto è l’«amnesia retrograda». Essa consiste nell’oblio di eventi che hanno preceduto il momento di esordio della malattia. La sua ampiezza è variabile e può andare da alcuni mesi ad anni. Si parla di amnesia globale, perché entrambi gli aspetti, anterogrado e retrogrado, sono interessati. Cerchiamo di consolarci con gli aspetti conservati. Non tutto è perduto nell’amnesia: gli amnesici globali non hanno disturbi del linguaggio, decadimento mentale o disturbi di memoria a breve termine. Questo è il terzo aspetto della sindrome: intelligenza, linguaggio (in generale memoria semantica) e memoria a breve termine sono preservati. Allo stesso modo è presente un certo grado di apprendimento, che riguarda compiti che non richiedono l’accesso alla memoria di un evento personale specifico. Ad esempio i pazienti possono imparare un nuovo compito motorio, pur essendo incapaci di ricordare le circostanze in cui 34

lo hanno appreso: potrebbero imparare a sciare, ma poi non ricordarsi come e quando lo hanno appreso. In genere si insegnano loro cose molto meno interessanti, come scrivere o disegnare una stella guardando la propria mano riflessa allo specchio: in tali casi la prestazione migliora con il tempo e l’esercizio, senza che vi sia alcun ricordo delle sedute precedenti. Il quarto aspetto della sindrome è quindi rappresentato dalla presenza di abilità di apprendimento residue. L’ultimo aspetto, che tutto sommato a me non sembra uno svantaggio, è che i pazienti sono «anosognosici», cioè non sono consapevoli del loro disturbo. Meglio non sapere di essere ammalati, che saperlo e non poterci far nulla. Infine, in alcuni casi gli amnesici «confabulano», cioè inventano episodi mai verificatisi o che hanno avuto luogo in un altro contesto ed in un altro momento. Un tipo particolare di amnesia globale è la sindrome di Korsakoff. I.5.6. La sindrome di Korsakoff Un bicchiere di vino a pasto, specie se rosso, è consigliato da tutti i medici, ma bere troppo, si sa, nuoce alla salute: viene mal di testa, si perde l’equilibrio, a lungo andare fa male al fegato, e soprattutto si perde la memoria e può venire la sindrome di Wernicke-Korsakoff. La sindrome di Korsakoff può insorgere acutamente con disturbi dell’equilibrio e un disturbo oculare che prende il nome di «oftalmoplegia»: il paziente non riesce a spostare lo sguardo lateralmente. Inoltre vi è amnesia. Altre volte invece insorge in modo insidioso, solo con disturbi di memoria. In realtà la causa è una carenza di una vitamina B, la tiamina. Il deficit di memoria non è causato tanto dagli effetti diretti dell’alcol, quanto dalla dieta squilibrata che ne consegue. Lo stesso disturbo di memoria può infatti essere presente nella malnutrizione, anche se attualmente questo non si osserva più nei paesi industrializzati. La prima osservazione relativa agli effetti negativi dei deficit nutrizionali sulla memoria va probabilmente ascritta a Tucidide che, nella Guerra del Peloponneso, 24 secoli prima di Korsakoff, riferì che durante una 35

carestia molte persone manifestarono una totale perdita di memoria. Ci sono poi state diverse descrizioni di pazienti con abuso alcolico e amnesia grave, ma le prime descrizioni formali si devono a Lawson (1878) e a Korsakoff (1887). Il quadro clinico è descritto da Korsakoff nel modo seguente: «durante la conversazione, [...] il paziente dà l’impressione di una persona in completo possesso delle sue facoltà; ragiona perfettamente su ogni cosa, trae le conclusioni corrette dalle premesse, fa commenti brillanti, gioca a scacchi o a carte, in una parola si comporta come una persona mentalmente a posto [...] il paziente ripete costantemente le stesse domande, racconta le stesse storie [...] può leggere la stessa pagina più volte per ore [...] è incapace di ricordare le persone che ha incontrato durante la malattia. [...] La memoria per gli eventi recenti è primariamente disturbata [...] qualsiasi cosa succeda durante la malattia o poco prima [...] ma in alcuni casi non solo la memoria per eventi recenti è persa, ma anche quella del passato remoto». Korsakoff segnala inoltre che questi pazienti inventano storie e le ripetono costantemente, tipo conversazioni che non hanno mai avuto luogo, così che si sviluppa un particolare delirio, con false rievocazioni (pseudoreminiscenze), ma soprattutto Korsakoff pone molta enfasi sul fatto che i pazienti confondono vecchi ricordi con impressioni presenti (citato da Kopelman, 1995b, p. 155). Quindi in questa descrizione appaiono le caratteristiche fondamentali già menzionate: intelligenza e linguaggio preservati, amnesia anterograda e grado variabile di amnesia retrograda, oltre a possibili confabulazioni, che spesso risultano da inappropriata rievocazione di memorie reali, in una scorretta sequenza temporale. La lesione responsabile del deficit è una degenerazione dei corpi mamillari e concomitante interessamento del fascio mamillotalamico, secondo quanto detto precedentemente. Ad essere conservata è la memoria implicita (cfr. infra, I.10). Un aneddoto che viene raccontato regolarmente agli studenti riguarda uno psicologo svizzero, Edouard Claparède. Un giorno questi, nel salutare una paziente amnesica, tenne nella mano uno spillo che punse la povera signora. Ella ebbe un sobbalzo. Alla visita successiva, la paziente non ri36

cordava l’episodio, ma, al momento di salutare il medico, ritrasse impaurita la mano. Interrogata in proposito, prima chiese infastidita se non le fosse permesso ritirare la mano, poi disse che forse c’era uno spillo nella mano di Claparède. A domande ulteriori rispose che talvolta gli spilli vengono nascosti nelle mani, ma non fu mai in grado di riferire in modo esplicito di essere stata punta da Claparède. Quindi aveva un ricordo implicito dell’episodio, anche se questo ricordo non raggiungeva la coscienza. Vi era stato un apprendimento, anche se la paziente non ne era consapevole. Non solo la memoria implicita appare intatta, ma anche la memoria semantica. Abbiamo detto che il linguaggio è preservato e con esso il significato delle parole: quindi il paziente con sindrome di Korsakoff saprà ancora che un cane è un animale domestico, a quattro zampe, che abbaia, anche se magari avrà dimenticato di avere lui stesso un cane. Allo stesso modo ricorderà dalla scuola che la capitale della Francia è Parigi, ma dimenticherà una sua recente visita a quella città. Tuttavia i pazienti amnesici non sono in grado di imparare il significato di parole nuove, che cioè sono entrate in uso dopo l’inizio della loro malattia (cfr. infra, I.9). Ci tengo a sottolineare che Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, senza essere né medico né psicologo, fa una descrizione perfetta dell’amnesia: «Bensì questa facoltà, che quantunque inerentissima dall’intelletto, e spesso appena distinguibile dalla facoltà di concepire e di ragionare, è però diversa, può sommamente illanguidirsi [...] senza che quella di concepire [...] s’illanguidisca né si perda [...] e può essere anche originariamente debole in un intelletto ben provvisto delle altre facoltà». La letteratura pullula di amnesici, in genere amnesici retrogradi, che cioè non ricordano il loro passato. Il dottor Claude Lucas (Codice a zero di Ken Follett) è portato ad esempio di amnesico globale, o meglio, cercando di capire cosa gli è successo, legge su un trattato di psicologia cos’è un amnesico globale e pensa di essere affetto da questa patologia. In realtà è il solito comunissimo amnesico retrogrado di libri e film, di cui parleremo nel prossimo capitolo. Lo cito però per un altro motivo: il suddetto ha una memoria implicita e una memoria semantica in37

tatte. Infatti, essendo stato una specie di agente segreto, sa come far perdere le sue tracce, come difendersi, come rubare un’auto e guidarla, come maneggiare un’arma: non ha perso la memoria procedurale. Inoltre ricostruisce in qualche modo il suo passato attraverso le sue conoscenze semantiche: ad esempio, in biblioteca, si accorge di capire perfettamente un libro che parla della costruzione di missili e anzi trova persino degli errori nel testo, deducendone di essere uno scienziato. Questo personaggio di un libro tuttavia mi ha ricordato SS (Cermak e O’Connor, 1983), un paziente amnesico in seguito ad un’encefalite, il quale era stato un pioniere della tecnologia laser e che, successivamente alla malattia, era ancora perfettamente in grado di leggere e commentare articoli scientifici sul laser, pubblicati dopo l’esordio della sua malattia, e riconosceva le novità descritte, facendo uso delle proprie notevoli conoscenze scientifiche. Solo che, a differenza del dottor Lucas, essendo SS veramente amnesico globale, dopo pochi minuti dimenticava l’intero contenuto dell’articolo. Il dottor Lucas invece, da buon amnesico «libresco», ricorda tutto quello che gli succede, riapprende la sua identità e risolve il mistero che evito di rivelare nel caso qualcuno fosse interessato a questa lettura.

I.6. LA MEMORIA RETROGRADA

Ormai da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso [...] deve proseguire fino ad un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato. (ITALO CALVINO, Le città invisibili)

Ci sono tanti film, ma anche telefilm, in cui un personaggio «perde la memoria». Di solito il poveretto dimentica il suo passato, magari solo un singolo episodio oppure tutta la sua vita. Tra questi film, quello che preferisco è tratto da un romanzo ed è Spellbound (Io ti salverò): la neurologa, imperso38

nata da Ingrid Bergman, fra l’altro si chiama come me e il medico amnesico, forse impostore, è Gregory Peck. In realtà ce ne sono moltissimi altri e si potrebbe quasi fare una gara a chi ricorda più film, come ho già proposto per gli scrittori. C’è Shattered (Prova schiacciante), a sua volta tratto da un romanzo, Regarding Henry (A proposito di Henry) con Harrison Ford che, da cinico uomo d’affari, si trasforma in una specie di santo, il recente L’uomo senza passato, un episodio della Signora in giallo di cui non ricordo il titolo (!) e pare che anche in un episodio di Beautiful o di qualche altra telenovela, un personaggio si sia ritrovato amnesico retrogrado. Insomma l’amnesico retrogrado ha in sé qualcosa di affascinante, tanto da essere il paziente prediletto dalla letteratura e dal cinema, forse perché con l’amnesia viene offerta una seconda possibilità: quella di rifarsi una vita migliore. In genere quando una persona prende un colpo in testa e diventa amnesica, succedono due inconvenienti: la prima è che non riesce a ricordare episodi del proprio passato (e questa è l’amnesia retrograda), la seconda è che non riesce ad apprendere nuove informazioni (e questa è l’amnesia anterograda, di cui parleremo nel capitolo successivo). Ci sono rari casi in cui i disturbi dissociano ed uno può essere solo amnesico anterogrado o solo amnesico retrogrado. Per definire quindi la memoria retrograda abbiamo bisogno di un punto di riferimento temporale: i termini di anterogrado e retrogrado fanno appunto riferimento all’insorgenza della patologia. Dal momento che ho preso un colpo in testa non ricordo più il mio passato. Quindi in altri termini, forse un po’ semplicistici, la memoria retrograda rappresenta il passato. Il passato comprende sia eventi che si sono verificati nel mondo e che ho appreso dai giornali sia eventi da me vissuti in prima persona. Prendiamo un esempio: nel 1969, quando scoppiò la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, andavo alle scuole medie e vivevo a Milano; quindi, a parte le notizie dei telegiornali e dei giornali, ho dei ricordi episodici e non solo semantici dell’evento, ricordo sia la data e l’ora della tragedia, quanto il fatto che i miei genitori erano a letto con l’influenza (c’era un’epidemia) ed io ero 39

molto seccata perché invece non avevo nemmeno una linea di febbre e non potevo assentarmi dalla scuola. Ci sono altri episodi del passato che mi è facile ricordare; ad esempio il matrimonio tra Carlo e Diana avvenne il giorno prima della mia laurea e quindi posso rievocare la data, non solo grazie ai mezzi di comunicazione: ne ho un ricordo episodico, perché guardai la televisione per rilassarmi in attesa del gran giorno. Quindi la memoria retrograda comprende aspetti di memoria sia semantici che episodici. I.6.1. La valutazione della memoria retrograda Un metodo per valutare la memoria retrograda è quello di usare dei questionari di eventi, la cui risonanza sia stata preferibilmente limitata al periodo in cui sono avvenuti. In questo modo si osserva se vi è un intervallo di tempo selettivo per il quale il paziente non ha ricordi e se vi è un gradiente temporale, nel senso che spesso i ricordi meglio conservati nell’amnesia sono quelli remoti e non i più recenti. Questa è la cosiddetta legge di Ribot. Questo scienziato (1882) sostenne che la progressiva distruzione dei ricordi segue un ordine logico, cominciando con i ricordi più recenti che, essendo stati ripetuti raramente, non avendo associazioni permanenti, sono organizzati in modo più debole. Una possibile spiegazione è quindi la seguente: i ricordi più vecchi hanno avuto più tempo per essere ripassati. I questionari comprendono delle domande con risposte a scelta multipla, nel senso che il soggetto può in genere scegliere tra quattro alternative proposte dall’esaminatore. Tuttavia è possibile che una persona sia stata per sua natura poco interessata agli avvenimenti, abbia letto poco i giornali e non abbia visto la televisione. Confesso che ci sono alcune domande in questi questionari che mi trovano gravemente impreparata, anche perché si sono verificati in un’epoca in cui ero bambina e gli eventi di cronaca nera mi erano risparmiati. Questo è un altro limite: tali questionari vanno rinnovati di continuo, perché alcune domande diventano troppo vecchie (precedenti addirittura la data di nascita dei pazienti). 40

Alternativamente si possono costruire dei questionari con i parenti dell’ammalato, inserendo episodi rilevanti della vita del paziente. La memoria retrograda finisce per intersecarsi con quella autobiografica che vedremo in seguito. I.6.2. Anatomia della memoria retrograda Fino a qualche anno fa, si riteneva che l’ippocampo non avesse alcun ruolo nella rievocazione di vecchi ricordi (Zola-Morgan, Squire, Amaral, 1986). Il suo ruolo nella memoria retrograda è stato rivalutato, perché si è osservata una perdita di ricordi remoti in pazienti con danno in questa sede. Tuttavia si ritiene che i responsabili della grave amnesia retrograda, quella che si estende per molti anni precedenti l’insorgenza della malattia, siano i lobi frontali (quelli che, come vedremo, cercano e selezionano i ricordi), il polo temporale (la parte anteriore), dove sarebbero depositati i vecchi ricordi e la superficie laterale del lobo temporale. I.6.3. Cause di amnesia retrograda selettiva Come ho ripetuto più volte, il quadro clinico più frequente è quello di un’amnesia globale. Esistono però casi cosiddetti «puri». La causa che più frequentemente si trova all’origine di un’amnesia retrograda pura è il trauma cranico di varia gravità: si va da lievissimi traumi senza evidenti lesioni a traumi di notevole entità. Oppure la causa è di natura psicologica. In questo caso gli psicoanalisti potrebbero spiegare il disturbo come un mezzo per sfuggire alle imposizioni del mondo esterno (famiglia, società, lavoro), un modo inconscio per risolvere problemi intrapsichici. Vi sarebbe quella che Freud chiama «rimozione» (cfr. infra, II.11). Il contenuto delle informazioni non rievocate varia da paziente a paziente. Alcuni non rievocano solo eventi recenti, mentre altri hanno dimenticato tutto il loro passato, anche le nozioni enciclopediche. A volte addirittura i pazienti hanno perso la loro identità: non ricordano il proprio nome, l’età e la propria famiglia. Il disturbo può esten41

dersi alle conoscenze semantiche e il soggetto può ignorare l’uso di oggetti di impiego comune. Tranne che con poche eccezioni, il disturbo non migliora con il tempo né peggiora. Per fortuna è raro, specie nella sua forma più devastante, per la quale, tra l’altro, restano numerosi dubbi circa la natura organica, psicogena o simulata, quest’ultima soprattutto se vi sono evidenti vantaggi dall’essere diventati amnesici.

I.7. LA MEMORIA ANTEROGRADA

La memoria più indebolita dimentica l’istante passato e ricorda le cose della fanciullezza. Ciò vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in cui ella consiste), e conserva le rimembranze passate, perché vi è assuefatta da lungo tempo; perde la facoltà dell’assuefazione, ma non le assuefazioni contratte, se elle sono ben radicate. (GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, n. 1716)

I.7.1. Caratteristiche cliniche della memoria anterograda Come ho già detto, film e letteratura sono pieni di amnesici, che nella maggior parte sono amnesici retrogradi, non ricordano cioè il loro passato. C’è un’interessante eccezione: nel film Memento di Christopher Nolan il protagonista è finalmente un bell’esempio di amnesico anterogrado. Leonard, in seguito a trauma cranico, non ricorda ciò che ha fatto, detto o visto negli ultimi dieci minuti. Per riuscire nelle sue indagini (scoprire chi ha ucciso sua moglie), organizza una serie di segnali: foto polaroid, appunti, tatuaggi sul corpo; ricorre cioè agli ausili mnemonici esterni impiegati nella riabilitazione della memoria. Purtroppo anche su questo amnesico è stato commesso un errore diagnostico e così le 42

recensioni del film riferiscono che Leonard ha perso la memoria a breve termine, ma sappiamo che la memoria a breve termine è tutt’altra cosa e ancora una volta un amnesico inventato non è classificato come si deve. L’«amnesia anterograda», che, come ho appena evidenziato, molti confondono con un disturbo di memoria a breve termine, è l’aspetto principale dell’amnesia globale e consiste nell’incapacità ad acquisire nuovi ricordi a partire dall’inizio della malattia; corrisponde al deficit di apprendimento. Il paziente dimentica in pochissimi minuti le persone che incontra, quello che gli viene detto, quello che fa. Di conseguenza gli amnesici anterogradi possono ripetere le stesse domande o raccontarci sempre le stesse cose: è noto come i familiari delle persone anziane con deficit di memoria descrivano il loro congiunto con le stesse parole («sa, dottore, ripete sempre le stesse cose!») e questo non è altro che un deficit di memoria anterograda, perché i pazienti non ricordano quanto hanno detto. Ricordo una prozia che ripeteva ogni minuto, mentre beveva il tè, «il tè è buono, ma fa fare tanta pipì!». I.7.2. La valutazione della memoria anterograda Come si riproduce in laboratorio l’apprendimento? Diverse prove valutano sia l’apprendimento di materiale verbale che visuospaziale. Nel primo caso si leggono liste di parole o brevi racconti al soggetto, che deve ripeterli in genere dopo un intervallo riempito da altre attività. Oppure si possono utilizzare le coppie di parole che ho descritto in precedenza (cfr. supra, I.2.3): in questo caso si utilizzano coppie di parole entrambe italiane (per i soggetti di lingua italiana, evidentemente). Nel caso della memoria visuospaziale si fanno apprendere percorsi su labirinto o sequenze spaziali mostrate dall’esaminatore. Queste prove possono mettere in evidenza disturbi lievi, senza che necessariamente il paziente presenti la grave sindrome amnesica descritta in precedenza. Torneremo su queste prove nel capitolo relativo alla valutazione dei disturbi di memoria. 43

I.7.3. Cause di amnesia anterograda e correlati neurali Essendo l’amnesia anterograda il disturbo costante e meglio definito nel quadro di un’amnesia globale, parlando di questa si sottolineano soprattutto i deficit anterogradi e sia i disturbi che i correlati neurali elencati a proposito dell’amnesia globale in realtà si riferiscono al disturbo anterogrado. Aggiungo che fino a pochi anni fa si riteneva (e alcuni continuano a ritenere) che una lesione limitata all’ippocampo provocasse un quadro di amnesia anterograda pura. L’ipotesi era che l’ippocampo servisse per l’immagazzinamento iniziale e per il consolidamento dei ricordi. Dopo di che le «tracce» mnestiche si sposterebbero in altre aree cerebrali. In questo modo si spiegherebbe perché, per danno ippocampale, si perdono solo i ricordi del passato più recente (quelli in fase di consolidamento), mentre quelli remoti sono già depositati in altra sede. Questa ipotesi, sostenuta ancora da molti, è la teoria classica o «standard». Altri ritengono che l’ippocampo sia coinvolto anche nella memoria retrograda e che questo «spostamento» sia poco credibile (Nadel e Moscovitch, 2001): infatti, esaminando accuratamente i pazienti con danno limitato all’ippocampo, si trovano deficit che si estendono molto oltre i due-tre anni precedenti la malattia. L’ipotesi alternativa è nota come «teoria della traccia multipla». Attualmente il dibattito fra queste due opposte tesi è uno dei più accesi nella neuropsicologia della memoria.

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I.8. LA MEMORIA PROSPETTICA: RICORDARSI DEL FUTURO

Sunt enim haec in anima tria quaedam et alibi ea non video, praesens de praeteritis memoria, praesens de praesentibus contuitus, praesens de futuris expectatio. (SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, XI, 20, 26)

Oggi è il 2 maggio. Ho ricevuto una lettera dall’Enel. Mi si comunica che hanno stabilito in via presuntiva che il mio contatore segnerà il numero 7463 al 22 maggio. Informano anche che, se un paio di giorni prima del 22 maggio la cifra fosse molto diversa da quella prevista, posso telefonare, comunicando la lettura reale. Allora bisogna che io mi ricordi, verso il 20, di andare a controllare in cantina il contatore e di telefonare eventualmente all’Enel. Il linguaggio comune utilizza il termine «ricordare» per indicare almeno due diverse prospettive temporali: ricordarsi cosa dobbiamo fare, cioè quali sono i nostri piani per il futuro, o ricordare eventi del passato, tipo un incidente, la faccia di una persona e così via. Il ricordarsi del futuro è un compito della memoria prospettica, che è quella che, nel mio esempio, serve per ricordare di andare a leggere il contatore un certo giorno a venire. L’altro tipo di memoria è indicato anche come memoria retrospettiva. In genere, quando qualcuno si lamenta di avere difficoltà di memoria, si riferisce alla componente prospettica, che è il tipo di memoria prevalente nella vita di ogni giorno: quante volte abbiamo dimenticato di fare una telefonata pur avendola programmata da tempo o ci siamo dimenticati del compleanno di qualche caro amico o ancor peggio ci siamo dimenticati di prendere quella particolare medicina all’ora tale. A volte un deficit di memoria prospettica può addirittura essere pericoloso per la sopravvivenza! Penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che difficilmente qualcuno si lamenti di non riuscire ad imparare una lista di parole o di sillabe senza senso. Al contrario è comune che una 45

persona si rechi dal medico preoccupata perché non ricorda «di fare le cose». La memoria prospettica si colloca al confine fra memoria, attenzione e azione. Per questa ragione, è stata utilizzata da alcuni autori (Ellis, 1996), in alternativa, la dizione «realizzazione di intenzioni future». La rievocazione non è, come nel caso della memoria retrospettiva, sollecitata da un fattore esterno, esplicito, ad esempio una precisa domanda di qualcun altro, ma deve emergere attivamente, implicitamente, dal soggetto stesso: si dice che si «autogenera». I.8.1. Un modello di funzionamento della memoria prospettica I modelli psicologici suggeriscono che la realizzazione di un’intenzione futura passa attraverso cinque fasi. Nella cosiddetta fase A si deve memorizzare un contenuto; ad esempio, nel nostro caso, il contenuto sarà la lettura del contatore. Inoltre devo memorizzare un intento (il fatto che voglio leggere il numero segnato dal contatore e comunicarlo) e infine devo anche memorizzare un contesto per il richiamo (cioè quando devo ricordare l’intento, quindi ricordare il fatto che devo scendere in cantina e leggere il contatore, che devo farlo un certo giorno del mese, e quindi dare inizio all’azione). La fase B si riferisce all’intervallo di ritenzione fra questo momento in cui codifico, in altre parole «lego» contenuto, intento e contesto, e un potenziale intervallo di prestazione (in pratica l’intervallo di ritenzione va da ora al 20 maggio circa, quando andrò finalmente a leggere il numero sul contatore). La fase C si riferisce all’intervallo di prestazione, cioè il periodo in cui l’azione prestabilita può essere eseguita. Se ho codificato questa mattina che intorno al 20 maggio devo leggere il contatore, l’intervallo di ritenzione è di 20 giorni e quello di prestazione è di un paio di giorni (in fondo posso farlo in qualsiasi ora del 20 o del 21 maggio). La realizzazione di un’intenzione comunque richiede che questo contenuto sia rievocato 46

almeno in un’occasione durante l’intervallo di prestazione (almeno una volta fra il 20 e il 21 maggio devo ricordarmi di leggere questo benedetto contatore). Ovviamente in quel momento mi devo anche ricordare esattamente che cosa devo fare, cioè il contenuto. Quante volte sappiamo di dover ricordare una cosa, ma ci sfugge cosa dovevamo ricordare! Ci sono ancora due fasi da considerare: la fase D che corrisponde all’inizio ed esecuzione dell’azione e la fase E che serve per la valutazione del risultato e la sua registrazione. Potrebbe essere che ricordo di iniziare la mia azione, ma la stanza dei contatori è chiusa a chiave e non ho portato le chiavi. Valuterò che, malgrado la mia buona memoria, l’azione non è andata in porto e quindi dovrò ritentare. Oppure leggo il contatore, ma poi devo ricordarmene, per evitare di perdere tempo e ritornare a compiere fra breve la stessa azione. Anche questo sarà sicuramente capitato a molti: non ricordarsi più se si è effettivamente fatto qualcosa di stabilito. I.8.2. Le strutture anatomiche coinvolte nella memoria prospettica Continuiamo con l’esempio. Potrebbe essere che dal 2 al 20 maggio non pensiamo assolutamente mai al nostro contatore ed ecco che, svegliandoci la mattina del 20, ci diciamo «ah, giusto! Il contatore». Come per magia ecco che ci ricordiamo il nostro contenuto e proprio al momento giusto. Si ipotizza che questo rifletta un’interazione fra la corteccia prefrontale (la parte più anteriore del lobo frontale, quella che «decide» le azioni da compiere) e la formazione ippocampale (una delle strutture fondamentali nel consolidamento dei ricordi) nel modo seguente. Quando prestiamo per la prima volta attenzione al fatto che dobbiamo andare a leggere il contatore, decidiamo di farlo in un particolare contesto temporale (ad esempio il 20 maggio). Secondo gli psicologi, questo processo coinvolge l’attivazione della rappresentazione del piano d’azione (scendere in cantina a leggere il contatore), così come l’attivazione della rappresentazione del contesto in cui avrà luogo (ad esempio la mattina del 20 maggio, uscendo per 47

andare a lavorare). La corteccia prefrontale sarebbe responsabile dell’evocazione di queste rappresentazioni e l’ippocampo invece si occuperebbe di codificare l’associazione fra loro. Una volta espletate queste operazioni, l’attività delle rappresentazioni svanisce. Alla fine del periodo di ritenzione, l’ambiente facilita la rievocazione di queste rappresentazioni – le giornate si allungano, la temperatura aumenta, finiscono i corsi all’università, ci sono le bollette da pagare e così via – che sono strettamente associate con «la fine di maggio». Si attiva quindi il piano d’azione tramite le associazioni ippocampali stabilite in precedenza. Il piano d’azione è mantenuto dalla corteccia prefrontale e si porta a termine il comportamento. Ci sono degli esperimenti fatti sulla scimmia che mostrano molto bene il ruolo della corteccia prefrontale nel mantenimento di un’informazione (cfr. supra, I.3). Se la scimmia vede l’esaminatore che pone del cibo in un contenitore e poi la gabbia viene schermata, alcuni neuroni della corteccia prefrontale continuano a scaricare fino a quando la scimmia non è di nuovo libera di vedere i contenitori e di scegliere quello in cui si trova il cibo. L’aumentata attività durante il periodo di intervallo può essere legata alla ritenzione dell’informazione necessaria per fare la scelta corretta dopo il ritardo (Fuster, 1984; Goldman-Rakic, 1987). Sta diventando comunque sempre più chiaro che la memoria prospettica fa riferimento ad alcune delle stesse strutture che sottendono la memoria episodica (cfr. supra, I.5.2) e perciò è comunque drasticamente compromessa nella sindrome amnesica. I.8.3. Errori di memoria prospettica Gli errori di memoria prospettica sono comuni nella vita quotidiana. Tuttavia non sono l’unica causa di fallimento nell’esecuzione delle nostre attività. È perciò importante cercare di distinguere i deficit di memoria prospettica da altre forme di errori. Un tipo di errore frequentemente riportato è quello che si indica con termine inglese come absent-minded (Cohen, 48

1989) e che potrei tradurre come «sbadataggine». Questo termine comprende tutta una classe di lapsus, che si verificano durante l’esecuzione di un’azione. Invece i deficit di memoria prospettica riguardano un’incapacità totale a richiamare un’azione che si era stabilito di fare in un preciso momento. L’errore absent-minded più tipico è quello a causa del quale una persona compie un’azione diversa da quella prevista, ad esempio deve estrarre della frutta dal frigorifero e invece estrae il formaggio. Ma si tratta di un errore che compare quando un’azione sostituisce quella stabilita e quindi è una sostituzione. Un altro tipo di errore absent-minded si ha quando iniziamo a fare qualcosa, ma improvvisamente ci rendiamo conto che non sappiamo cosa stiamo facendo: a chi non è capitato di entrare di proposito in una stanza, ma di non ricordarne più improvvisamente il motivo (questo è un tipico errore del genere «che ci faccio qui?»). Anche in questo caso non si tratta di un deficit di memoria prospettica, ma della perdita del contenuto durante la sua stessa esecuzione. Un altro errore absent-minded si ha quando omettiamo o ripetiamo un passaggio in una sequenza di azioni (tipo mettere l’acqua a bollire, ma dimenticare di accendere il gas, oppure cercare di riempire di acqua la pentola, dopo averla già riempita). Anche in questo caso, l’errore compare mentre stiamo già compiendo l’azione stabilita e non dipende da un mancato richiamo dell’intenzione di compierla. Quindi la differenza cruciale fra un errore absentminded ed un deficit di memoria prospettica è che nel primo caso l’errore si verifica quando è già scattata l’intenzione di eseguire l’azione o durante un’azione che è già stata iniziata, mentre il deficit di memoria prospettica riguarda l’intenzione di eseguire un’azione nel futuro, che non è ancora stata nemmeno incominciata. Ad esempio, tornando sempre all’Enel, se io mi dimenticassi di scendere a guardare il contatore la mattina del 20 o del 21 maggio, mostrerei un deficit di memoria prospettica, ma se invece io fossi scesa in cantina per leggere il contatore, avrei richiamato l’intenzione di fare la cosa giusta e potrei a quel punto commettere uno qualsiasi degli errori absent-minded descritti: ad esempio potrei leggere il contatore di un altro, potrei scendere in cantina, ma dimenticarmi perché 49

l’ho fatto, leggere solo parte dei numeri o rileggere due volte il numero segnato dal contatore. I.8.4. La memoria prospettica nell’anziano La memoria prospettica è più determinata dal contesto sociale che da variabili motivazionali. Di conseguenza, sebbene gli anziani svolgano male prove di memoria prospettica in laboratorio, essi eseguono il compito meglio dei giovani, in condizioni ecologiche, cioè nella vita di tutti i giorni, se ad esempio si rende necessario fare una certa telefonata ad una certa ora del giorno, semplicemente perché fanno un uso migliore di ausili esterni. Ad esempio si segnano le cose da fare (cfr. infra, II.12). In sostanza, con il passare degli anni si riducono le risorse cognitive e quindi gli anziani ovviamente dovrebbero incontrare maggiori difficoltà nei compiti di memoria prospettica, soprattutto per la ridotta capacità attenzionale, che accompagna l’invecchiamento. In particolare, si riduce la capacità di spostare l’attenzione da un’azione in corso al compito di memoria prospettica (cioè ricordarsi al momento giusto, mentre si sta eseguendo qualcosa di diverso). Un’altra possibilità può essere la difficoltà nel monitoraggio della realtà (Johnson e Raye, 1981) che vedremo anche a proposito delle confabulazioni (cfr. infra, II.4.1). Il monitoraggio della realtà esprime la capacità di distinguere fra ciò che è reale e ciò che è immaginato. Per questo, gli anziani possono fallire in un compito di memoria prospettica perché confondono l’intenzione di compiere un’azione con il fatto di averla già eseguita, commettendo quindi un errore di omissione. Analogamente gli anziani hanno anche un deficit nel monitoraggio della produzione e quindi possono ripetere un’azione già eseguita, semplicemente perché hanno dimenticato di averla già compiuta. Tuttavia qualcosa salva, viene in aiuto alla persona avanti con gli anni (a condizione che non sia indementita): l’esperienza, che insegna a sviluppare strategie compensatorie per superare i deficit cognitivi che fanno parte del normale processo di invecchia50

mento. I deficit sono più evidenti nei compiti di memoria prospettica basati sul tempo (prendere la medicina alla tale ora) che non in quelli basati su eventi (riferire un messaggio ad un parente), perché questi ultimi possono sfruttare il supporto ambientale (il fatto che si vede il parente è comunque un cambiamento, una novità, e quindi richiede una minore autogenerazione del ricordo). Ad ogni modo vorrei terminare confessando che non ho scelto a caso l’esempio del contatore: ogni due mesi ricevo la lettera dell’Enel, la leggo, la metto in bella vista sulla cucina per avere una facilitazione esterna e regolarmente passa il giorno prefissato senza che io abbia ricordato di leggere il contatore, pur avendo invece letto ogni mattina, salvo quella fatidica, il messaggio inviato dall’Enel! Quella vecchietta della mia mamma si appende sul calendario la lettera e immancabilmente avvisa l’Enel.

I.9. LA MEMORIA SEMANTICA

Vi sovvien – dice Alberto di Giussano – calen di marzo? (GIOSUE CARDUCCI, Il Parlamento)

All’epoca in cui andavo alle elementari e poi alle medie si imparavano le poesie a memoria. So che ora si discute se reintrodurre l’obbligo di imparare a memoria le poesie. Qualcuno, a ragione, sostiene che il tempo che ci vuole a mandare a memoria Il sabato del villaggio corrisponde a quello che ci vorrebbe (e sarebbe meglio impiegato) a leggere un intero libro. Un incubo è stata la poesia Il Parlamento, una tiritera interminabile in cui si ripetono strofe; alcune si somigliano, ma non sono identiche e quindi bisogna ricordare i dettagli di ciascuna e l’ordine. Ho vari episodi davanti agli occhi: il primo tentativo di studio fu fatto cercando di immaginare questi «mila51

nesi, fratelli, popol mio» nello sforzo di ricordare le tristi vicende menzionate dall’eroico Alberto. Non so se i milanesi se le ricordassero, io no. Non trovavo particolarmente interessante passare il pomeriggio nel vano tentativo di memorizzare una poesia contro Federico imperatore, che stava in Como e che a me fra l’altro era pure simpatico. Provai a ripetere la poesia alla mamma, ma ricordo che continuavo a sbirciare sul quaderno, perché non imparavo l’ordine delle strofe. Infine «mi sovviene» di aver provato anche la sera, rinunciando a qualsiasi passatempo perché a me non era dato ricordare cosa dovessero sovvenirsi i cittadini di Milano (a marzo? maggio?). Infine, il giorno successivo, l’insegnante interrogò in fila una serie di persone, una strofa a testa, e i miei compagni, molto meno pignoli di me, saltarono parole, strofe intere, le accavallarono, ma lei, la professoressa, non si accorse di nulla e annuiva al ritmo cantilenante. La rabbia che provai per tanta imprecisione, scoprendo che neanche lei sapeva a memoria quella maledetta poesia, che mi aveva rovinato il giorno precedente, è un ricordo indelebile. Ma questa serie di episodi ha fatto sì che, in un modo o nell’altro, Il Parlamento si sia depositato definitivamente nella mia memoria semantica, con qualche minima insicurezza, dato che i milanesi dovevano ricordare che «i consoli sparuti cavalcarono a Lodi», mentre io continuo a credere che «cavalcarono a mille». I.9.1. Caratteristiche della memoria semantica Questa digressione mi è servita per spiegare due caratteristiche della memoria semantica: la prima riguarda il contenuto e la seconda le modalità di apprendimento. Il contenuto è rappresentato dalle conoscenze apprese tramite i mezzi di comunicazione o a scuola e che sono più un sapere, quindi, che un ricordo: sapere qual è la capitale della Francia, la formula dell’anidride carbonica, il significato della parola cane e, per qualche sfortunato come me, Il Parlamento di Giosue Carducci. L’apprendimento avviene attraverso la ripetizione di una serie di episodi, che poi perdono le loro caratteristiche spazio-tem52

porali e diventano memoria, ma sarebbe giusto dire conoscenza, semantica. La nostra conoscenza semantica, ad esempio di una parola come cane, può essere stata determinata da numerosi episodi di apprendimento, di cui abbiamo perso il ricordo: ad esempio avremo visto da piccoli un animale a quattro zampe che emetteva un suono e ci hanno detto che era un cane e che i cani abbaiano. Poi avremo visto un altro animale che abbaiava, ma un po’ diverso e abbiamo avuto paura perché aveva tutta l’aria di volerci mordere e anche quello era un cane. Attraverso vari episodi, avremo acquistato la memoria semantica relativa al cane, pur se è improbabile che ricorderemo i singoli eventi. La distinzione fra memoria episodica e memoria semantica si deve ad uno scienziato di nome Tulving (1972): una netta separazione fra i due tipi di memoria, tuttavia, di recente è stata messa in dubbio. La memoria semantica può essere considerata come un tesoro mentale che contiene informazioni di natura enciclopedica, oltre che la conoscenza di parole, simboli, regole, formule. Anche informazioni non strettamente verbali, quali il volto di un personaggio celebre, o l’immagine di un oggetto di uso comune, sono rappresentate nella memoria semantica. Ne consegue che un disturbo di quest’ultima non permetterà di riconoscere persone famose ed oggetti, impedirà di riconoscere il significato di parole prima impiegate normalmente e farà dimenticare tutte quelle conoscenze imparate a scuola o acquisite attraverso televisione, giornali e libri. Teoricamente un soggetto con deficit della memoria semantica si ricorderà le vicende principali che hanno segnato la sua vita e sarà in grado di apprendere i nuovi eventi che gli capiteranno (memoria episodica), non avrà quindi nessuna delle caratteristiche che contraddistinguono un amnesico globale. Tuttavia abbiamo detto che le conoscenze semantiche si acquisiscono grazie ad una serie di singoli episodi ripetuti. Ne consegue che, se la mia memoria episodica è danneggiata, non sarò in grado di incrementare la memoria semantica. Infatti, il risparmio della memoria semantica che caratterizza l’amnesia si riferisce ad informazioni acquisite prima dell’inizio della malattia. Un problema sa53

rebbe invece arricchirla con nuovi concetti o parole. Vi sono due ipotesi alternative. Nel caso i due sistemi, semantico ed episodico, siano totalmente indipendenti, non ci dovrebbero essere difficoltà. Wood e collaboratori (1982) illustrano questa possibilità mediante un’ipotetica soluzione estrema. Un paziente amnesico abbandonato in un paese straniero sarebbe in grado di impararne, sia pure lentamente, la lingua, ma dimenticherebbe ogni evento relativo alla sua permanenza in quel luogo. A sostegno di questa ipotesi descrivono brevemente il caso di una bambina di nove anni, resa amnesica da un’encefalite erpetica. Al termine della fase acuta di malattia, nei quattro anni seguenti, la bambina ebbe un profitto scolastico relativamente buono, mostrando un chiaro apprendimento. Rimase tuttavia gravemente amnesica, al punto da dimenticare qualunque fatto le capitasse nel giro di un quarto d’ora. Non fu mai in grado di rievocare eventi relativi alla propria vita scolastica e, alla richiesta di dire quando o in quali circostanze avesse appreso una certa informazione, rispondeva soltanto «a scuola». Questa osservazione induce a ritenere che l’arricchimento della memoria semantica non richieda l’intervento della memoria episodica. Lo studio di pazienti amnesici adulti ha invece fornito risultati diversi. La prima osservazione sperimentale riguarda il paziente SS (Cermak e O’Connor, 1983) a cui ho già accennato. Come ho detto, questo amnesico globale era in grado di leggere e capire articoli scientifici, ma dimenticava subito dopo le novità che aveva letto. Quindi sembra verosimile che, a causa del suo deficit episodico, SS non riuscisse ad aggiornare la sua memoria semantica. Anche altri esperimenti con amnesici, ai quali si tenta di insegnare il significato di parole entrate in uso dopo l’esordio della loro amnesia (come CD-ROM o yuppie), confermano il ruolo della memoria episodica nell’accrescere le conoscenze semantiche. Indagini attuali, inoltre, hanno addirittura mostrato che gli amnesici mostrano deficit retrogradi della memoria semantica con un gradiente persino per quanto riguarda il vocabolario, nel senso che possono aver perso parole acquisite nel passato più recente. 54

I.9.2. Organizzazione della memoria semantica Gli psicologi cognitivi da un lato e i neuropsicologi dall’altro (i primi studiano la memoria nei normali, i secondi nei cerebrolesi) hanno raccolto una serie di dati che portano alla conclusione che la conoscenza è organizzata per categorie concettuali: esseri viventi ed oggetti inanimati e, all’interno di queste, frutta, verdura, animali per la prima; mobili, utensili, mezzi di trasporto eccetera per la seconda. I neuropsicologi hanno riportato numerosi casi di deficit categoriali specifici (incapacità ad identificare esseri viventi o, viceversa, manufatti) in pazienti con lesione cerebrale localizzata. Tale evidenza suggerisce che le categorie possano addirittura avere correlati neurali distinti. Una simile ipotesi ha generato vari tentativi di spiegare i deficit selettivi: differente familiarità degli esseri viventi rispetto agli oggetti inanimati, oppure differenze lungo la dimensione sensoriale/funzionale, nel senso che gli oggetti inanimati sarebbero identificati soprattutto in base alla loro funzione, mentre gli esseri viventi in base alle loro caratteristiche percettive, quali aspetto, colore (Warrington e Shallice, 1984), o infine effetto dell’evoluzione in senso darwiniano. Secondo quest’ultima teoria, l’uomo ha imparato a distinguere gli esseri viventi, perché gli era utile per la sopravvivenza: da certi animali doveva fuggire, altri costituivano un alimento; certe piante potevano servire come medicinali, altre come nutrimento. Quindi avrebbe per così dire sviluppato un sistema di riconoscimento dedicato, che permetteva di distinguere gli esseri viventi da quello che era «altro». Secondo i suoi sostenitori (Caramazza e Shelton, 1998), la prova della veridicità di questa teoria sarebbe il fatto che sono molto più frequenti i casi in cui vi è una compromissione delle categorie viventi rispetto alle altre: solo in questo caso infatti vi sarebbe un danno selettivo di un sistema. Non vi è per ora nessuna certezza su quale sia la teoria corretta e questo rimane un argomento di dibattito intenso fra gli studiosi. Nel capitolo in cui descriverò il caso della signora con la G e la C (cfr. infra, II.6), parlerò anche delle aree cerebrali che sottendono alla memoria semantica, nonché delle patologie che ne provocano la perdita. 55

I.10. LA MEMORIA IMPLICITA

Quoi qu’il arrive, j’apprends. Je gagne à tout coup. (MARGUERITE YOURCENAR, En pèlerin et en étranger)

I.10.1. I diversi tipi di memoria implicita Uno sport che pratico con passione è lo sci. Ho imparato da piccola, talmente piccola che non ho nessun ricordo della prima volta che ho messo gli sci, né delle istruzioni che mi sono state impartite. Sciare mi viene spontaneo, non penso ai movimenti che devo fare, non ripeto mentalmente le istruzioni per curvare o frenare. Tutto ciò fa parte della mia memoria implicita, come fanno parte della memoria implicita tutte le attività che uno svolge da un certo tempo. Un altro termine con cui si designa la memoria implicita è quello di «non dichiarativa», proprio per distinguerla dalle altre forme di memoria descritte finora, che costituiscono la memoria dichiarativa, in cui il ricordo è consapevole. Infatti, come già evidenziato parlando della distinzione tra forme di memoria a lungo termine, nel caso della memoria implicita o non dichiarativa l’espressione dell’avvenuto apprendimento si realizza attraverso il comportamento, sia esso un’ottimizzazione o comunque una modificazione di un comportamento già presente o l’acquisizione di uno nuovo, senza che sia richiesta una rievocazione consapevole di quanto precedentemente appreso. Ho fatto l’esempio di un’attività sportiva, ma anche la dattilografia, ad esempio, è una forma di memoria implicita, messa in evidenza solo eseguendo una particolare prestazione, cioè scrivere a macchina. Come si è ricordato parlando degli amnesici, questi ultimi possono apprendere determinate abilità motorie, percettive e cognitive (si era fatto l’esempio dell’imparare a scrivere vedendo la propria mano riflessa in uno specchio), pur non essendo in grado di ricordare né il contenuto di questi apprendimenti, né il fatto stesso di essere stati sottoposti a tali prove. D’al56

tro canto, esistono pazienti, di cui parlerò in seguito, in cui ad essere compromessa è la memoria implicita, in assenza di amnesia. Questa doppia dissociazione permette di stabilire che i due sistemi sono funzionalmente ed anatomicamente distinti, perché il malfunzionamento di uno avviene indipendentemente da quello dell’altro. Fino a questo momento ho fatto riferimento ad un tipo particolare di memoria implicita, che è la memoria procedurale, cioè la padronanza di «procedure» utilizzate appunto per lo svolgimento di un compito. In particolare, mi sono riferita ad abilità motorie. Una persona, però, può anche migliorare le sue abilità visuopercettive, come ad esempio diventando più abile nel riconoscere le lettere di un nuovo alfabeto. Immagino che a qualcuno sarà capitato di andare in Russia oppure in Grecia e, man mano che trascorreva i giorni in quel luogo, si sarà accorto di riconoscere più facilmente le lettere del loro alfabeto. Oppure ancora una persona può avere un miglioramento in compiti cognitivi: ad esempio diventa più abile nel gioco degli scacchi, continuando a praticarlo. Esistono diverse altre forme di memoria implicita, oltre a quella procedurale motoria, percettiva o cognitiva. Una è rappresentata dal «condizionamento classico» che molti conosceranno. Il tipico esperimento è quello che ha come protagonista il cane che sente il suono di un campanello, questo suono è immediatamente seguito dalla presentazione di carne con conseguente salivazione (la famosa acquolina in bocca) da parte del cane. Dopo una serie di presentazioni di questo tipo, è sufficiente che il cane senta il suono perché si abbia salivazione: ha imparato cioè ad associare la percezione del suono con la presentazione della carne. Esiste anche un condizionamento operante: un gatto, posto in una gabbia, può fuggire e raggiungere del cibo, solo premendo una leva. Dopo vari tentativi, in cui progressivamente si riduce il tempo necessario a fornire una risposta corretta, il gatto impara ad agire in modo esatto immediatamente. Questo apprendimento risulta da una serie di tentativi ed errori. Lo stesso tipo di apprendimento associativo (perché si forma un’associazione fra stimolo e risposta) può essere osservato anche 57

nell’uomo. Weiskrantz e Warrington (1979) hanno condotto il seguente esperimento: alcuni soggetti udivano un suono, seguito da un soffio d’aria sugli occhi che provocava un ammiccamento. Dopo una serie di ripetizioni, era sufficiente far udire il suono per provocare l’ammiccamento. Questo fenomeno era presente anche nei pazienti amnesici, che per altro non avevano nessun ricordo delle sedute precedenti. Un altro tipo di memoria implicita è rappresentato dal «priming», ossia una facilitazione nella prestazione di un soggetto, dovuta al fatto che ha già avuto una precedente esperienza con lo stimolo. Questa facilitazione è misurata in termini di velocità (maggiore rapidità) di risposta o accuratezza (maggiore precisione) nella prestazione. Esistono un «priming percettivo», basato sulle caratteristiche percettive dello stimolo ed un «priming semantico», basato sulle caratteristiche semantiche dello stimolo. Il primo, ad esempio, può essere testato usando compiti di identificazione percettiva: si presenta una parola per un periodo brevissimo (meno di 100 ms) e il soggetto cerca di identificarla, oppure si presenta la radice di una parola e il soggetto deve completarla con la prima parola che viene in mente. Il soggetto aveva visto in precedenza, in entrambi i casi, una serie di parole. Il priming si manifesta come una maggior probabilità di identificare parole già presentate rispetto a parole che non sono state presentate in precedenza o come una maggior probabilità di completare le radici con parole già presentate. Ad esempio, se presento una serie di parole, tra cui la parola «candore» e successivamente presento il frammento «can» e chiedo al soggetto di completarlo con la prima parola che gli viene in mente, è più facile che egli completi con candore che non con candela o canzone che non sono stati presentati in precedenza. Invece il priming semantico è stato testato usando compiti come la generazione di esemplari di una categoria. Un soggetto è invitato a produrre quante più parole gli vengono in mente, appartenenti ad una certa categoria, ad esempio animali. Anche in questo caso, al soggetto erano già state presentate delle parole. Il priming, in questo compito, si manifesta quando esemplari a bassa frequenza, già presentati (come ad esempio 58

ornitorinco), sono generati più spesso rispetto ad altri della stessa frequenza, che però non erano stati presentati in precedenza. Esiste un ultimo tipo di memoria implicita, di cui voglio parlare, perché messo in evidenza da un esperimento molto peculiare e divertente. Forse a qualcuno sarà capitato di sentire musiche orientali, ad esempio cinesi o coreane. Anche se a qualche intellettuale alternativo piacciono molto, penso che ai più facciano venire sonno. Per il nostro udito non sono particolarmente attraenti. Ebbene, Johnson e collaboratori (1985) fecero ascoltare musiche coreane ad un gruppo di soggetti e chiesero di dare un giudizio sul gradimento della musica. Questo fu decisamente basso. Allora le musiche vennero ripresentate più volte e progressivamente il livello di gradimento si alzò, fino a diventare buono. Questa variazione è una sorta di condizionamento. Era intervenuta la memoria implicita. Tale modifica nel grado di apprezzamento si manifesta anche in soggetti amnesici che, ovviamente, non hanno alcun ricordo di aver già udito la musica coreana. Un altro esperimento dello stesso tipo consiste nel presentare le fotografie di due uomini e di raccontare la storia della loro vita: un uomo è descritto come disonesto, cattivo, inaffidabile, l’altro è presentato come piacevole, simpatico, gentile. Se poi, a distanza di tempo, si chiede ad un amnesico quale dei due inviterebbe a cena, la scelta ricade su quello presentato come gentile, anche se il paziente non ricorda di avere già visto le foto di entrambi e di aver ascoltato la loro storia. Un episodio che mi piace raccontare riguarda una mia amica tedesca che, da bambina, odiava le cipolle. Mi ha raccontato che sua madre ogni giorno le faceva mangiare una quantità crescente di cipolle, in modo che, a poco a poco, imparasse a mangiarne una porzione normale. In effetti, in età adulta, lei tollerava una zuppa di cipolle o qualsiasi altro piatto con questo ingrediente. Mi sono resa conto solo quando ho studiato questi argomenti che cosa aveva determinato questa modificazione nel gusto della mia amica. Evidentemente sua madre era un pioniere nello studio della memoria implicita! 59

I.10.2. I correlati neurali della memoria implicita Le strutture responsabili della memoria implicita, come abbiamo detto, sono distinte da quelle deputate alla memoria esplicita. Esse sono rappresentate dal cervelletto e dai nuclei della base e, per un tipo particolare di memoria, collegata alle risposte emozionali, da una struttura che si chiama «amigdala». Il cervelletto e i nuclei della base sono due strutture impegnate nel controllo del movimento. Il cervelletto si trova posteriormente e inferiormente agli emisferi cerebrali, mentre i nuclei della base si trovano nella profondità degli emisferi cerebrali, verso la base. Inizialmente una persona che impara a sciare si ripeterà, anche solo mentalmente, tutte le istruzioni che gli ha dato il maestro. Il suo comportamento, utilizzando queste istruzioni, risulterà lento e magari inaccurato. Oltre tutto ignorerà gli eventi dell’ambiente circostante, perché sarà tutto concentrato sul compito da svolgere. Poi, con la pratica, il suo modo di sciare diventerà fluido, non avrà più bisogno di ripetersi mentalmente ogni movimento e potrà anche pensare agli affari suoi durante ogni discesa. A questo punto significa che i nuclei della base hanno appreso cosa fare, perché il comportamento da tenere è stato «trasferito» a loro. Quindi i nuclei della base sembrano responsabili della memoria procedurale. Il cervelletto invece sarebbe coinvolto nel condizionamento, ad esempio è stato evidenziato il suo ruolo nel riflesso di ammiccamento di cui si è parlato in precedenza. L’amigdala è localizzata all’interno dei lobi temporali, nelle vicinanze dell’ippocampo ed assume un’importanza cruciale nell’apprendimento emotivo (fig. 1b). Ad esempio, accendendo una certa luce in casa mia, a volte mi capita di prendere la scossa. In questo caso presento una serie di reazioni: allontano subito la mano dall’interruttore, aumenta il battito cardiaco, lancio un urlo. In ogni caso, usando quell’interruttore, ogni volta sento uno scricchiolio sospetto, anche senza la scossa, ma questo di per sé è sufficiente a provocare in me una serie di reazioni emotive. L’amigdala è la struttura chiave nell’acquisizione di queste risposte emozionali condizionate. Un 60

danno bilaterale di questa struttura porta ad un deficit nei test di condizionamento alla paura. Sperimentalmente, se un’immagine neutra, ad esempio un quadratino blu, viene presentata poco prima di un evento che induce paura, ad esempio una piccola scossa elettrica ad un braccio, dopo alcune presentazioni di questo accoppiamento, un soggetto normale incomincia a manifestare reazioni di paura (che si misura valutando la conduttanza della pelle) anche solo alla vista del quadratino. Non si hanno queste reazioni in soggetti con lesione di entrambe le amigdale (Phelps et al., 1998). I.10.3. I deficit di memoria implicita Quando si parla di disturbi di memoria, non si fa quasi mai riferimento a quelli di memoria implicita. Tuttavia accennerò a qualche patologia ben nota, nella quale si possono trovare deficit di memoria implicita. Il morbo di Parkinson è sicuramente una malattia di cui tutti hanno sentito parlare e conoscono i problemi motori che causa. Tuttavia, alcuni di questi disturbi motori possono essere interpretati come deficit di memoria procedurale. Forse qualcuno ha visto la difficoltà che questi pazienti mostrano nell’iniziare a camminare, oppure nell’alzarsi da una sedia: pare che abbiano perso qualsiasi automaticità e che debbano pensare ad ogni gesto che compiono, proprio come si era detto a proposito di una persona che impara a sciare. Un esperimento, condotto da Knowlton e collaboratori nel 1996, mostra bene questo deficit di apprendimento procedurale. Il compito richiesto era di fare le previsioni del tempo. L’esaminatore mostrava al soggetto quattro carte, ognuna delle quali conteneva una configurazione particolare (o dei quadrati o dei triangoli o dei rombi o dei cerchi). Le carte venivano presentate in numero da 1 a 3 e ogni configurazione prevedeva sole o pioggia con una probabilità tra il 25 e il 75 per cento. I soggetti dovevano apprendere, in base alla presentazione delle carte, a prevedere il tempo: questa è una memoria procedurale di tipo cognitivo. I normali, ma anche gli amnesici, miglioravano progressivamente la loro pre61

stazione, anche se non erano in grado di spiegare verbalmente le regole o, nel caso degli amnesici, non ricordavano la prestazione precedente; i pazienti con morbo di Parkinson, invece, non mostravano alcun miglioramento nella capacità di prevedere le condizioni meteorologiche. Un’altra patologia in cui si ha deficit di memoria procedurale è il morbo di Huntington. Questa malattia è determinata da una progressiva atrofia di un nucleo della base, il «nucleo caudato». Si tratta di una malattia ereditaria, che porta a morte, caratterizzata da psicosi, demenza e disturbi motori, che si manifesta intorno ai 40 anni, quando ormai una persona ha avuto tutto il tempo di procreare. Grazie ai progressi della genetica, però, ora è possibile prevedere se una persona sarà o meno affetta. Questi pazienti hanno difficoltà in un compito in cui è richiesto di mantenere uno stilo in contatto con un bersaglio su una tavola ruotante. L’apprendimento si misura come aumento del tempo durante il quale si riesce a mantenere il contatto con il bersaglio, aumento che non si registra nei pazienti con morbo di Huntington. Questi soggetti mostrano anche scarso apprendimento nell’imparare a leggere allo specchio, dimostrando così un coinvolgimento dei nuclei della base nella memoria procedurale percettiva. Nei pazienti con lesioni della corteccia (lo strato più esterno) del cervelletto o con un tipo di atrofia chiamata olivo-ponto-cerebellare (dal nome delle strutture nervose che degenerano) si osserva una compromissione nell’acquisire la risposta di ammiccamento condizionata. Vorrei concludere segnalando che alcuni trattamenti riabilitativi sfruttano la memoria implicita (cfr. infra, II.19), ma forme di condizionamento sono impiegate anche per la cura dei disturbi nevrotici, ad esempio le fobie.

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I.11. LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA: LA NOSTRA STORIA

De mes premières années, je ne retrouve guère qu’une impression confuse. (SIMONE DE BEAUVOIR, Mémoires d’une jeune fille rangée)

Se dico la parola «fiume» esiste qualche ricordo nella vostra mente legato ad un fiume? Se dovessi rispondere io, potrei raccontare una gita nella foresta in Guadalupa fino all’arrivo ad un fiume, dove la guida locale suggerì di fare il bagno. L’acqua era molto fredda, tanto che solo alcuni turisti nordici, tra cui un antipaticissimo belga, si tuffarono, mentre i turisti italiani si rifiutarono di sottoporsi ad una simile tortura. Siccome il belga approfittava per farne una questione campanilistica, io decisi di salvare l’onor patrio tuffandomi e rimanendo in acqua più a lungo degli altri. Questo ricordo, che fa parte della mia memoria autobiografica, mi pare sufficientemente specifico, dettagliato, nitido. La mia memoria autobiografica, per lo meno se mi limito alla rievocazione di questo episodio, sembra intatta. Ho anche dei testimoni che potrebbero confermare il ricordo, provando così che non sto inventando di sana pianta o che non mi sto confondendo con qualcosa successa in riva al Po. I.11.1. Che cos’è la memoria autobiografica La memoria autobiografica può essere semplicemente definita come la capacità di rievocare gli eventi della propria vita. Sir Galton alla fine del 1800 aveva sviluppato una tecnica, tuttora in auge, ma sotto il nome di prova di Crovitz (Crovitz e Schiffman, 1974), da colui che le ha restituito la fama di un tempo e che è quella che ho utilizzato per testare la mia memoria autobiografica. Consiste nel dire alcune parole ad un soggetto che deve provare a raccontare uno specifico ricordo evocato da tale parola. Ad esempio alla parola «lettera», una persona potrà raccontare di una lettera 63

particolare ricevuta o scritta in un qualche momento della vita. La ricchezza di dettagli, la precisione del racconto e soprattutto la sua specificità mostrano quanto efficace sia la memoria autobiografica. Un racconto generico fornirebbe prova di scarsa memoria o capacità di rievocare. Se io ad esempio alla parola «fiume» avessi affermato che lungo l’autostrada Milano-Torino si passa sopra un fiume, tutti sarebbero stati concordi nel definire la mia risposta alquanto generica; sarebbe stato ancora peggio se avessi detto semplicemente che una volta ho visto un fiume. Se invece avessi raccontato che ho percorso il Nilo a nuoto, si sarebbe potuto pensare che mentissi o che i miei ricordi reali si stessero confondendo con la fantasia: sicuramente non ci sarà nessuno in grado di confermare questa mia affermazione. Esistono modi più semplici (magari meno divertenti) rispetto al test di Crovitz per valutare la memoria autobiografica. Ad esempio si può sottoporre un soggetto a semplici interviste o questionari, in cui compaiono domande relative alla vita trascorsa: il tipo e il nome della scuola frequentata, qualche episodio relativo a quei tempi, la descrizione della prima casa e di qualche episodio specifico legato a quella casa, l’eventuale matrimonio e così via. Ovviamente, si devono verificare le risposte a questi questionari con una persona che conosce in dettaglio la vita di chi viene esaminato. Parlando di memoria a lungo termine dichiarativa, abbiamo distinto una memoria episodica e una memoria semantica. Nella memoria autobiografica si possono ritrovare entrambe le componenti. La propria data di nascita o il nome della scuola elementare, ad esempio, sono considerati ricordi depositati nel magazzino della memoria semantica. Infatti hanno più le caratteristiche di «conoscenze» che non di ricordi. Uno specifico episodio dell’infanzia invece è un tipico ricordo depositato nel magazzino di memoria episodica. Certi questionari distinguono fra i due tipi di domande: alcune domande testano la componente semantica della memoria autobiografica, altre esaminano la memoria episodica. Ad esempio si chiede il nome della scuola elementare, quello della maestra, e poi si chiede di raccontare uno specifico 64

episodio verificatosi alla scuola elementare. Solitamente si esaminano i diversi periodi della vita: infanzia, adolescenza, e così via. Spesso i pazienti amnesici mostrano un gradiente temporale: rievocano meglio episodi del passato remoto, mentre le difficoltà aumentano quando è richiesta la rievocazione di eventi più recenti. Questo fenomeno è noto con il nome di legge di Ribot. Non si sa con certezza che cosa lo determini: una possibilità è che un ricordo lontano sia stato «ripassato» più volte rispetto ad uno recente. In pazienti con un deficit di memoria semantica è stato a volte riscontrato l’effetto opposto: le informazioni meglio rievocate sono quelle recenti, mentre è più problematica la rievocazione di informazioni acquisite in epoca molto anteriore all’insorgenza del disturbo. I.11.2. Un modello di funzionamento della memoria autobiografica In che modo si rievoca il proprio passato? Come si spiega il processo attraverso cui noi «frughiamo» fra le circonvoluzioni del cervello allo scopo di recuperare i ricordi della nostra vita? In che modo selezioniamo quelli corretti? Per tutti gli argomenti di neuropsicologia e più in generale di psicologia esistono diverse teorie per spiegare determinati fenomeni cognitivi. Questa regola vale anche per la rievocazione di eventi autobiografici. Una delle teorie maggiormente accreditate (Conway, 1988) sostiene che la rievocazione di un’esperienza precedente coinvolge una serie di livelli. Il termine «rievocazione» indica il meccanismo innescato quando si devono richiamare attivamente informazioni dalla memoria: si tratta della componente cruciale della memoria autobiografica, che non è un processo automatico. Con questo intendo che, mentre possiamo ricordare casualmente, in un certo momento del giorno, magari mentre siamo in coda in auto, un dato episodio, vi sono occasioni in cui ci è proprio chiesto di rievocare un fatto specifico: in questo caso la ricerca del ricordo è un processo attivo. 65

Vediamo quali sono i livelli attraverso cui avviene la rievocazione. Il primo passo consiste nel pianificare e quindi dare inizio ad una nuova attività mentale, per rispondere ad una specifica domanda autobiografica. Immaginiamo che qualcuno ci abbia chiesto di raccontare cosa abbiamo fatto domenica scorsa. La domanda dà il via ad un’attività di ricerca. Questa ricerca si esplica per tentativi entro un ristretto numero di situazioni generate in via preliminare. Si tratta quindi di un’attività finalizzata, definita strategica od organizzativa, che può essere equiparata alla strategia impiegata per risolvere un problema matematico. In primo luogo dovremo organizzare il contesto spazio-temporale per limitare la ricerca ad un preciso ambito: una domenica fa. Un’attività di questo tipo spesso ha le caratteristiche di un approccio per tentativi ed errori. In pratica serve a delimitare il campo di esplorazione: il ricordo è incamerato in un preciso ambito spazio-temporale. La memoria autobiografica si articolerebbe secondo dei riferimenti temporali. Noi svolgiamo una serie di attività in accordo con degli orari prestabiliti: questi orari ci forniscono un sistema di riferimento, grazie al quale possiamo orientarci nel recupero dei ricordi, poiché permettono di stabilire il momento e l’ordine in cui sono accaduti determinati eventi. Inoltre nella nostra vita ci sono temi ricorrenti: il lavoro, la famiglia, le relazioni sociali, l’impiego del tempo libero. In questo caso, trattandosi di una domenica, a meno di rare evenienze, si farà riferimento ad un tema preciso: l’impiego del tempo libero. Una volta inquadrato il contesto spazio-temporale, si può ricostruire l’esperienza passata. Il secondo passo consiste nel verificare la traccia remota emergente. Ci potranno venire in mente vari episodi, ad esempio una festa o il fatto di essere rimasti in casa. Oppure potrebbe rivivere una domenica stupenda in cui siamo andati a sciare. La scelta della risposta corretta dipenderà da una serie di processi, sia in ambito semantico che episodico, inferenziali e deduttivi, che ci permetteranno alla fine di scegliere fra le alternative. Ad esempio è impossibile che di domenica siamo andati in banca a fare un versamento: la nostra conoscenza semantica ci informa che le banche non sono aperte di domenica. Non è neanche possibile che siamo andati a sciare 66

con il nostro amico, perché era partito per la Patagonia: questo lo ricorda la memoria episodica. Quando tutte le alternative eccetto una sono sbagliate in modo ovvio, il processo è simultaneo e quasi passivo. Se le alternative sono plausibili (ad esempio: festa di compleanno o sci), il processo è laborioso. Bisogna alla fine prendere una decisione consapevole. Una persona accetta la veridicità della traccia, compiendo verifiche incrociate con altri eventi (l’amico partito da qualche giorno, che non può essere venuto a sciare con noi) e verifica la plausibilità tramite controlli incrociati con la conoscenza generale che ha del mondo (banche chiuse la domenica) e la sua conoscenza autobiografica generale. Dopo una serie di tentativi ed errori emergerà finalmente un ricordo che supera le verifiche. A questo punto il nostro sistema di controllo darà il «via libera» e noi produrremo un resoconto verbale di questo ricordo. Quindi un ulteriore, terzo passo consiste nella produzione cosciente di un racconto verbale organizzato. I.11.3. Le basi anatomiche della memoria autobiografica Quali sono le strutture anatomiche coinvolte nel funzionamento della memoria autobiografica? Ovviamente, dal momento che essa comprende una componente semantica ed una componente episodica, si potrà avere un deficit di memoria autobiografica per danno alle strutture responsabili della memoria semantica e della memoria episodica (lobi temporali e diencefalo). Si aggiunge una terza struttura coinvolta nella memoria autobiografica la cui lesione può compromettere il normale funzionamento: la corteccia prefrontale, che è la parte più anteriore del lobo frontale e sarebbe coinvolta nel primo e forse anche nel terzo passo della rievocazione. In particolare il ruolo della corteccia prefrontale sarebbe di generare il contesto e quindi sarebbe coinvolta nella strategia del richiamo e, successivamente, nell’organizzare il racconto. Una lesione di questa struttura provocherebbe un racconto vago se non addirittura impossibile, con confabulazioni, secondo quanto vedremo nel 67

capitolo relativo (cfr. infra, II.4). I lobi frontali ricevono informazioni dalle cortecce associative (le cortecce di ordine superiore che elaborano le semplici sensazioni), dal sistema ippocampale (coinvolto nel consolidamento dei ricordi) e dai sistemi motivazionali. Inoltre i lobi frontali sono collegati alle strutture che inviano i comandi motori. Di conseguenza essi sono siti in posizione ideale per guidare, organizzare e valutare i processi di richiamo mediati dall’ippocampo. La porzione della corteccia prefrontale implicata nella ricerca strategica sembra essere quella ventro-mediale, cioè quella che guarda verso il tetto dell’orbita (la parte sopra l’occhio) e quella rivolta verso l’emisfero controlaterale. Le patologie che più frequentemente provocano lesioni in quest’area sono gli aneurismi della comunicante anteriore, un vaso arterioso situato anteriormente, proprio sulla faccia inferiore dei due lobi frontali. La memoria autobiografica può essere quindi compromessa per varie ragioni. In primo luogo un paziente può avere un deficit strategico, non sa organizzare il contesto spazio-temporale. In questo caso sarà capace di svolgere compiti di riconoscimento: i ricordi non sono persi, solo che non sa come «cercarli». Una seconda possibilità è che abbia perso proprio i ricordi: per quanto la strategia di ricerca sia integra, purtroppo non si trova nulla da rievocare. Infine l’ultima possibilità è che non si sappia vagliare quale ricordo emerso è quello giusto: è deficitaria la capacità di monitoraggio, di decidere se quanto ricordiamo è frutto della nostra immaginazione, è avvenuto in un altro momento o invece è proprio quello che cercavamo. Questo deficit dà luogo alle confabulazioni di cui parleremo in un altro capitolo (cfr. infra, II.4).

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I.12. L’APPRENDIMENTO

L’animo del neonato, borsa vuota. Giornalmente, vi cadono entro gli spiccioli della memoria, e il borsello comincia a gonfiarsi – e tintinna. Crescono le memorie e il borsello suona più ancora. Ma la borsa è zeppa. Non suona più. La volontà tenta di forzarvi entro nuove memorie: la borsa scoppia – e tutte le memorie si effondono, né c’è più filo al rammendo. (CARLO DOSSI, Note azzurre, n. 5014)

L’«apprendimento» è l’acquisizione di nuove informazioni o di una nuova abilità, ma può essere descritto anche come una modificazione del comportamento attraverso l’esperienza. Abbiamo infatti visto che esiste tanto un apprendimento implicito, come quello di determinate attività sportive o relativo al gradimento di certe musiche, che si manifesta con il miglioramento di una prestazione o con una modificazione del proprio giudizio, quanto un apprendimento esplicito, che è poi quello che ci permette di incrementare le nostre conoscenze semantiche e di arricchire la nostra memoria episodica. Mi occuperò essenzialmente dell’apprendimento di nuove informazioni, cioè dell’apprendimento esplicito. Prima di tutto, però, vorrei tornare sul fatto che esistono due distinti magazzini di memoria, uno a breve ed uno a lungo termine: le informazioni non devono necessariamente passare attraverso il magazzino a breve termine per essere apprese. Vediamo quali sono le prove che dimostrano l’esistenza di due diversi magazzini, quello a breve e quello a lungo termine. Certi compiti di rievocazione libera sembrano avere due componenti. Se si presenta ad un soggetto una lista di parole perché le rievochi immediatamente, nell’ordine che vuole, tipicamente si ha una buona rievocazione delle ultime parole della lista e poi una rievocazione delle prime parole della lista, mentre in genere si perdono le parole in posizione cen69

trale. Effetto «recency» è il termine che si usa per indicare la buona capacità di ricordare le ultime parole della lista, mentre effetto «primacy» corrisponde alla facoltà di ricordare le prime parole della lista. Introducendo un compito interferente, prima della rievocazione delle parole, ad esempio si chiede al soggetto di contare per alcuni secondi, l’effetto «recency» scompare, mentre permane inalterata la rievocazione delle prime parole della lista (Glanzer e Cunitz, 1966). Un’interpretazione di questi dati è stata quella di suggerire che gli ultimi stimoli sono mantenuti in un magazzino a breve termine labile, mentre gli stimoli iniziali risiedono nella memoria a lungo termine, più stabile. I primi modelli di memoria presupponevano che un’informazione, per essere appresa, dovesse prima accedere al magazzino a breve termine e poi, da qui, raggiungere quello a lungo termine. Più dettagliatamente, un modello a due stadi, molto noto a metà degli anni Sessanta, prevedeva che lo stimolo entrasse nella memoria primaria (o memoria a breve termine) e, successivamente, l’informazione potesse essere dimenticata, oppure mantenuta attraverso il ripasso oppure essere avviata alla più duratura memoria secondaria, cioè quella a lungo termine (Waugh e Norman, 1965). Secondo questi autori, poi, le informazioni erano perse non perché la traccia decadeva, ma perché entravano nuovi stimoli. In seguito si è passati a modelli che dividevano la memoria in tre sottosistemi: la memoria sensoriale, costituita da una serie di brevi registri sensoriali della durata di meno di un secondo, che alimentavano la memoria primaria, che sarebbe il secondo sottosistema, che a sua volta alimentava la memoria a lungo termine, o memoria secondaria, cioè il terzo sottosistema (un modello di questo tipo è quello di Atkinson e Shiffrin, che viene detto «modello modale»). Questi modelli presuppongono che l’apprendimento a lungo termine richieda il trasferimento di dati dal magazzino a breve termine e che quanto più a lungo uno stimolo rimane nella memoria a breve termine, tanto maggiore è la probabilità di essere appreso. Gli esperimenti condotti su soggetti normali non confermavano l’ipotesi: non si trovava una relazione tra il tempo nel magazzino a breve termine e l’apprendimento a lungo 70

termine cioè a seconda di quanto gli stimoli erano ripassati. In un esperimento eseguito da Craik e Watkins (1973) si richiedeva ai soggetti di mantenere in memoria a breve termine delle parole, ripetendole sottovoce, per intervalli di tempo differenti. Il compito si svolgeva così: i ricercatori presentavano una lunga sequenza di parole (ad esempio: dito, monte, prete, madre, casa, vino, legno, mano, croce, gesto) e dicevano ai soggetti di ricordare l’ultima parola presentata che cominciasse con una certa lettera (ad esempio nel nostro caso la M). Nella lista vi erano molte parole che cominciavano con quella stessa lettera e quindi erano mantenute nel magazzino per periodi di tempo diversi: ad esempio «monte» solo per il tempo di presentazione di una sola parola, cioè prete, perché poi arriva «madre», e allora il soggetto si metterà a ripetere questa, la quale sarà mantenuta per il tempo corrispondente a tre parole, perché poi arriva «mano», che è la risposta esatta e che sarà ripassata per il tempo corrispondente alla presentazione di due parole. Il modello modale prevede che, se alla fine dell’esperimento si chiede inaspettatamente ai soggetti di rievocare il maggior numero possibile di parole che iniziano per M, la probabilità di ricordo sarà funzione dell’ammontare del tempo di ritenzione in memoria a breve termine. Non esiste invece nessuna relazione fra tempo di permanenza in memoria a breve termine e apprendimento a lungo termine. Nel 1972, Craik e Lockhart proposero che l’apprendimento dipendesse dal «livello di elaborazione». Essi suggerirono che la durata di una traccia mnestica dipendesse dal modo in cui lo stimolo era codificato. La codifica poteva essere relativamente superficiale e condurre ad un rapido oblio, quando era basata solo sull’aspetto visivo di una parola, o un po’ più profonda e condurre ad una traccia mnestica più duratura, se si riferiva al suono di una parola, e infine profonda quando si basava sul significato di una parola e conduceva in tal modo ad una traccia mnestica resistente. L’esperimento era il seguente: presentando una parola scritta (ad esempio «cane»), la semplice richiesta di dare un giudizio superficiale, ad esempio sui caratteri di stampa (corsivo, stampatello, maiuscolo, minuscolo), porta ad uno scarso apprendimento a lungo termine, 71

nel senso che quando poi si chiede ad un soggetto di rievocare le parole presentate, è difficile che siano rievocate; un giudizio lievemente più profondo, tipo se la parola presentata, nel nostro caso «cane», fa rima con «pane», porta ad una rievocazione migliore, mentre ancora migliore sarà l’apprendimento a lungo termine basato su un giudizio più profondo, ad esempio sulle caratteristiche semantiche, ad esempio chiedendo se «cane» è una parola che potrebbe essere inserita in una certa frase, come «l’animale che abbaia è il...». Questo tipo di interpretazione ha avuto molta influenza negli anni Settanta. Invece di una semplice distinzione tra memoria a breve termine e a lungo termine, l’approccio dei livelli di elaborazione sembrava offrire un continuum, dove il mantenimento della traccia diventava una semplice funzione della profondità di codifica dello stimolo. Tuttavia, la successiva scoperta di pazienti con un disturbo selettivo di memoria a breve termine (e memoria a lungo termine normale) ha definitivamente dimostrato che non è necessario che l’informazione acceda al magazzino a breve termine per passare a quello a lungo termine, ma che il materiale può avere accesso diretto al secondo. Di conseguenza il modello modale è stato respinto in favore di un «modello in parallelo» (Warrington e Shallice, 1984). Quindi il primo elemento che abbiamo acquisito è che l’apprendimento non richiede che l’informazione passi dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine. Forse in parte, però, potreste aver rilevato dell’altro: la ripetizione non sembra influire sull’apprendimento, al contrario del significato. Prendiamo in esame la prima. In realtà, la ripetizione non influisce, se l’argomento non ci interessa o se è estraneo al nostro modo di pensare (ci ripetono ininterrottamente un listino prezzi in yen) o alle nostre conoscenze (ad esempio ci ripetono senza sosta un argomento di fisica nucleare) e quindi non lo elaboriamo ad un livello profondo. Questo ci riporta agli studi di Craik e Lockhart (1972) sui livelli di elaborazione: nei casi citati ci limiteremo, ben che vada, ad elaborare queste informazioni solo a livello di suoni. Ma la pratica, sicuramente, è importante. Ebbinghaus (1885), che si è dedicato a lungo al problema, ha individuato un fenomeno, detto «distribuzione dell’eserci72

zio». Questo studioso, che ha avuto il merito di non tediare soggetti volontari, ma di sottoporsi lui stesso a noiosissimi esperimenti, si è somministrato un test, consistente nell’apprendimento di triplette senza senso costituite da una consonante, una vocale ed una consonante. Un giorno Ebbinghaus dedicava una certa parte di tempo all’apprendimento. Poi il giorno successivo controllava quanto tempo gli ci voleva per apprendere completamente la lista. Un altro giorno dedicava più tempo all’apprendimento e di nuovo, quello successivo, controllava quanto tempo gli ci voleva adesso per imparare tutta la lista. Aumentando il numero di ripetizioni fino a 64 al giorno, il giorno seguente il tempo necessario si riduceva. Inoltre se considerava il tempo impiegato nell’apprendimento il primo giorno e il tempo aggiuntivo necessario il secondo giorno, notava che ogni seduta di apprendimento del primo giorno, che richiedeva circa 7 secondi, faceva risparmiare 12 secondi il giorno successivo. Questo significa che in generale è meglio frazionare l’esercizio nel tempo piuttosto che concentrarlo in una singola sessione interminabile. Il motivo per cui questo si verifica non è tuttora chiaro. Consideriamo ora un altro fattore nell’apprendimento: l’attenzione. Mi sembra evidente che, se non ci concentriamo su un argomento, è difficile che ne riteniamo i contenuti. Quanto più la nostra attenzione è divisa fra compiti, tanto minore sarà il nostro apprendimento (Baddeley, 1990): è capitato a tutti di leggere un libro ed accorgersi che non ci si ricorda nulla, perché nel frattempo si stava pensando ai propri impegni della giornata. Tuttavia, sappiamo che esiste una percezione subliminale e ci sono addirittura studi che dimostrano il ricordo di eventi accaduti mentre si era sotto anestesia. Si tratta però di informazioni minime e per altro tali esperimenti non sono sempre replicabili. Ad ogni modo, un buon apprendimento richiede attenzione focalizzata. Se non ci applichiamo, difficilmente saremo in grado di ricordare. L’attenzione si collega ad un altro elemento importante, che è la motivazione. Quando siamo motivati ad apprendere qualcosa, dedichiamo di certo più attenzione. Sicuramente tutti avranno notato che alcuni fatti, episodi e nozioni si ap73

prendono o si ricordano più facilmente di altri. Ricordiamo un numero di telefono o un incontro che hanno un particolare interesse per noi, mentre dimentichiamo a quale numero di telefono comunicare la lettura del contatore dell’Enel, se non addirittura di dover telefonare, dal momento che una telefonata del genere riveste scarso interesse. Non dimenticherei certo di fare una telefonata per sapere il risultato di un colloquio di lavoro e sarebbe altrettanto difficile dimenticare in che giorno e a che ora prendere un aereo per partire per le vacanze: la motivazione ha un ruolo importante nel ricordarsi di fare le cose. Probabilmente un’altra situazione in cui la motivazione è importante è quella che si verifica quando dobbiamo apprendere una notevole quantità di informazioni. Se mi chiedessero di imparare a memoria la Divina Commedia, dovrei avere una motivazione molto forte per dedicare gran parte delle giornate, per un certo periodo di tempo, a tale attività: abbiamo appena visto che l’esercizio distribuito è essenziale. Un altro elemento che sembra utile nell’apprendimento è l’organizzazione del materiale da apprendere. In genere penso che molti, se non tutti, avranno provato a trovare delle strategie, dei metodi, per ricordare con maggiore facilità. Ad esempio, se si chiede ad un soggetto di imparare una lista di parole in cui vi sono alcuni nomi di animali, dei nomi di fiori e di oggetti, questi tenderà ad organizzarli in categorie per ricordarli più facilmente. Allo stesso modo, nella vita di tutti i giorni, tenderemo ad organizzare gli impegni da ricordare, secondo le loro caratteristiche (di lavoro, pagamenti, attività sociali e così via). Le persone sagge organizzano anche la disposizione degli oggetti, dei libri, dei vestiti nella loro casa perché sia più facile ritrovarli al momento opportuno. Vedremo in seguito che la capacità di organizzare il materiale è una caratteristica essenziale nella riabilitazione dei disturbi di memoria. Vorrei concludere con una breve digressione sul sonno. Di tanto in tanto qualcuno racconta di registratori, da applicare mentre si dorme, per apprendere il contenuto di un esame. In realtà, quando si dorme, l’attenzione è nulla, e si è detto poco sopra che essa è essenziale per l’apprendimento: quel poco, pochissimo, che rimane del materiale presentato durante il 74

sonno, è apparso nei brevi momenti di veglia che intercorrono fra le fasi del sonno. La funzione del sonno è un’altra: in un esperimento in cui si faceva apprendere del materiale a soggetti, prima che andassero a dormire, si è osservato che la mattina seguente il ricordo era migliore (verosimilmente perché era intercorso un intervallo libero da attività interferenti). Apro una parentesi: il sonno comprende diversi stadi, uno dei quali si chiama REM (Rapid Eye Movements), perché in questa fase il soggetto presenta appunto movimenti oculari rapidi. È lo stadio del sonno in cui si sogna, infatti sembrerebbe che i movimenti oculari avvengano per seguire le immagini dei sogni. Tornando al nostro esperimento, se i soggetti erano svegliati quando entravano in sonno REM, in modo che risultassero deprivati del sonno in cui si sogna, il loro ricordo, il mattino successivo, era scarso. Invece questo fenomeno non si osservava, e il ricordo era buono, se i soggetti erano deprivati dell’altro tipo di sonno, che è detto non REM. Quindi probabilmente il sonno REM è correlato all’apprendimento, forse perché questa fase aiuterebbe il consolidamento dei ricordi. Tuttavia gli interrogativi sulla funzione del sonno REM nell’apprendimento sono ancora numerosi.

I.13. L’OBLIO

E tutti questi momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. (Blade Runner)

Se cerchiamo di ricordare dove avevamo parcheggiato l’automobile lunedì di due settimane fa è molto improbabile che l’impresa ci riesca. Presumibilmente l’abbiamo dimenticato: l’informazione è andata incontro all’«oblio». Noi consideriamo l’oblio un serio problema, ma vedremo come in realtà sia un processo assolutamente utile e non soltanto per alleviare 75

tristezza e dolori, come vuole la credenza popolare, della cui veridicità tutti prima o poi abbiamo fatto esperienza. Il solito Ebbinghaus (quello che faceva gli esperimenti su di sé) fu il primo a studiare la cosiddetta «curva dell’oblio». Ho raccontato nel capitolo precedente il suo apprendimento di liste di sillabe senza senso per vedere quanto ci metteva a ripeterle senza errori. Quello che fece in un secondo tempo, fu di controllare quanto impiegava a dimenticarle. Ad intervalli regolari, partendo da 20 minuti fino a 31 giorni, provava a rievocare le triplette consonante-vocale-consonante. Già dalla prima rievocazione, qualcosa si era perso. Tra l’altro osservò che la frequenza dell’oblio non è lineare, nel senso che all’inizio si dimentica più rapidamente, mentre poi la curva rallenta. Stimava la quota di oblio, controllando quanto tempo gli occorreva per reimparare la lista al livello di partenza. Noi abbiamo imparato, però, che esistono due diversi magazzini di memoria, quello a breve termine e quello a lungo termine. Comincerò a parlare dell’oblio relativamente alla memoria a breve termine. Ho già sottolineato, nel capitolo sulla memoria a breve termine (cfr. supra, I.2.1), come sia possibile che esso si verifichi o per decadimento della traccia o per interferenza con materiale successivamente appreso. Una tecnica molto utilizzata per studiare l’oblio è la cosiddetta tecnica di Brown-Peterson, dal nome dello scienziato inglese (Brown) e di quelli americani (Peterson) che, parallelamente, la elaborarono. Sia Brown che i Peterson sostenevano che l’oblio dipendeva dal decadimento della traccia se non era ravvivata dal ripasso attivo. Il compito consiste nel presentare una sequenza di tre consonanti (che quindi rientrano nella capacità di memoria a breve termine verbale di un soggetto normale) e di vedere come procede l’oblio, dopo aver distratto brevemente il soggetto, in modo che non possa utilizzare il ripasso. In che modo si impedisce il ripasso? Dunque, come ho detto, si presentano le tre lettere non correlate e poi si dice un numero, ad esempio 479. Al soggetto è stato spiegato che dovrà contare all’indietro di tre in tre fino a che l’esaminatore non lo fermerà per chiedergli di rievocare la tripletta, il che viene fat76

to a intervalli regolari (ad esempio a 0 secondi, 3, 6, 9 eccetera). I Peterson interpretarono i loro risultati in termini di decadimento della traccia, mentre, sempre secondo loro, l’oblio dalla memoria a lungo termine avverrebbe per interferenza. Questo fenomeno dell’oblio fu allora utilizzato a prova ulteriore della presenza di due differenti magazzini di memoria. Anche Brown, in Inghilterra, giunse allo stesso risultato. Tuttavia, i sostenitori della teoria dell’oblio per interferenza segnalarono che in realtà la prima tripletta presentata reggeva bene all’oblio, mentre esso iniziava quando si utilizzava una seconda tripletta e poi, via via, una terza; quindi si trattava appunto di interferenza da parte delle triplette successive. Infatti era già stato escluso che potesse essere l’effetto dei numeri a produrre interferenza, perché i numeri sono materiale «diverso» dalle lettere. Come ho scritto nel capitolo sulla memoria a breve termine, Melton suggerì appunto che l’oblio avveniva per interferenza da un unico sistema di memoria a lungo termine. In realtà ormai è accettato che esistono due differenti magazzini, come ho più volte ricordato. In conclusione, divenne chiaro che la spiegazione dell’oblio a breve termine va ricercata in entrambi i fattori, l’indebolimento della traccia e il richiamo fra altre tracce in competizione con la precedente. Passiamo ora a considerare l’oblio nella memoria a lungo termine: gli studi condotti hanno mostrato che, indipendentemente dal tempo passato, sarebbe l’interferenza la responsabile del nostro dimenticare. Prima, però, devo fare una breve parentesi relativa all’interferenza. Si distinguono due tipi di interferenza, quella «proattiva» e quella «retroattiva». Si parla anche di «inibizione proattiva» e «inibizione retroattiva». Con il termine «interferenza o inibizione proattiva» si intende che i ricordi più vecchi interferiscono con l’apprendimento di nuove informazioni. Viceversa l’«interferenza retroattiva» si ha quando le nuove informazioni apprese impediscono la rievocazione di vecchi ricordi. Chiarirò con un esempio di che cosa si tratta. Quattro anni fa ho cambiato lavoro: svolgevo la professione di neurologo in ospedale e sono passata a lavorare in università, con la 77

variante che per tre anni sono stata a Palermo. Da un anno sono a Milano, dove lavoravo in precedenza, quando esercitavo in ospedale. Ebbene, ora che la città è la stessa, non c’è giorno che io non dica che vado in ospedale o che ho dimenticato qualcosa in ospedale, anziché dire università. Il «vecchio» interferisce sul «nuovo». Analogamente, quando si passa molto tempo con una persona e quindi se ne pronuncia ripetutamente il nome, una persona con cui si passerà del tempo successivamente, verrà spesso denominata come il suo predecessore, magari anche se di sesso diverso. È questa l’interferenza o inibizione proattiva. Passiamo invece all’altra condizione. Fino ad un anno fa, avevo un numero di telefono. Poi ho cambiato città e lavoro e quindi anche numero di telefono: adesso ho enormi difficoltà se tento di richiamare il mio precedente numero. Questo secondo caso costituisce l’interferenza o inibizione retroattiva: il materiale nuovo interferisce con il richiamo del precedente. Il fenomeno dell’interferenza, poi, è tanto maggiore quanto più simile è il materiale da rievocare. Faccio un altro esempio personale. Ho una passione per le lingue straniere, per cui ne ho studiate parecchie, alcune quando ero molto giovane, ancora bambina, e altre in età adulta. A 11 anni ho imparato lo spagnolo, poi a 34 mi è venuta voglia di studiare il portoghese. Non diciamolo a spagnoli e portoghesi, ma per me le due lingue hanno molte somiglianze, tanto che ogni volta che cerco di pronunciare qualche frase in portoghese, devo prima scacciare l’equivalente in spagnolo e, comunque, molti termini vengon fuori nella lingua sbagliata. Addirittura a volte non so nemmeno se una parola sia in spagnolo o portoghese. Questo è un altro esempio di interferenza proattiva: la lingua vecchia interferisce con l’apprendimento della lingua nuova. Un fenomeno di interferenza retroattiva l’ho avuto con tedesco ed inglese: ho imparato prima l’inglese, intorno agli 11 anni, solo verso i 18 ho imparato il tedesco, ma poi ho vissuto in Germania e, per vari motivi personali, per un certo periodo ho parlato più frequentemente in tedesco. A quel punto, la seconda lingua, cioè il tedesco, ha interferito con la rievocazione della lin78

gua appresa precedentemente, cioè l’inglese. L’interferenza retroattiva pare che sia un fenomeno frequente nella testimonianza oculare (cfr. infra, II.16): il materiale, presentato successivamente all’episodio di cui si è stati testimoni, interferisce sulla corretta rievocazione dell’evento a cui si è assistito. Un altro aspetto da segnalare è il cosiddetto «rilascio dall’interferenza proattiva». Consiste in questo: immaginiamo di dover imparare una lista di parole, costituita da nomi di animali e poi di rievocarla. Poi immaginiamo di imparare una seconda lista, ancora di nomi di animali e di rievocarla e così anche per una terza lista. È molto probabile che alla rievocazione della seconda e poi ancor più della terza lista, compariranno delle intrusioni e confonderemo i nomi presenti nelle tre liste. A questo punto immaginiamo invece di dover imparare una lista di nomi di fiori: ecco che la nostra prestazione tornerà a livelli ottimi. Basta cambiare una dimensione dello stimolo, meglio di tutto l’aspetto semantico, per avere il rilascio dall’interferenza proattiva. Torniamo all’esempio iniziale del parcheggio. È verosimile che il parcheggio della nostra auto sia sempre più o meno simile, ogni giorno, e quindi per interferenza retroattiva (e per fortuna) ricorderemo solo l’ultimo. È altrettanto vero che, se un giorno il nostro parcheggio fosse particolarmente strano, ad esempio perché è in un luogo totalmente insolito o perché, al posto della nostra auto, ci hanno chiesto di parcheggiare un Tir, lo ricorderemo anche a distanza di diverso tempo. In realtà il fenomeno dell’interferenza retroattiva non va spiegato con una perdita della traccia, del ricordo, ma con il fatto che l’interferenza retroattiva impedisce il richiamo e quindi si tratterebbe di una difficoltà di accesso. Infatti in alcuni esperimenti si è dimostrato che, se si forniscono aiuti essenziali, il soggetto è in grado di ricordare eventi anteriori che sembravano persi. Farò ancora un esempio personale. Tempo fa, alcuni amici si sono messi a parlare di un film, Jude, che era tratto da un libro di Thomas Hardy. Volevano che dessi anch’io un’opinione sul film, ma io sostenevo di aver letto il libro e di non aver mai visto il film. Eppure qualcuno insisteva nel dire che ricordava perfettamente di averlo visto pro79

prio con me. Non avevo alcun ricordo, fino a quando non mi è stato rammentato un particolare specifico (il gelo che faceva nel cinema) e allora ho rievocato interamente l’episodio, compresa la data esatta in cui eravamo andati al cinema! Freud (1901) avrebbe dato tutt’altra spiegazione di questo fenomeno. Si dà il caso che quella data si collegava ad un’altra a cui è legato un episodio spiacevole della mia vita e, secondo Freud, la dimenticanza avviene perché vi è qualche somiglianza (in questo caso «collegamento») con qualcosa contro cui è diretta la nostra resistenza. Freud sostiene che certe dimenticanze hanno la loro causa «nel desiderio di evitare un ricordo che potrebbe provocare sentimenti spiacevoli o dolorosi». Non essendo psicoanalista, sono però più interessata ad altri aspetti connessi con le emozioni e la dimenticanza. È ben documentato sperimentalmente sia sugli animali che sull’uomo che alti e prolungati livelli di stress, paura e aumento dello stato di vigilanza comunemente inducono deficit di apprendimento e perdita di memoria che variano da minimi a gravi. L’amnesia o la perdita parziale di memoria non sono rari in seguito ad un grave stress e a trauma emotivo (cfr. infra, II.11). La perdita di memoria sarebbe una conseguenza dei disturbi di glucocorticosteroidi che interessano l’ippocampo, la struttura che svolge un ruolo fondamentale nell’immagazzinamento degli eventi ( Joseph, 1999) Infine, ricollegandomi a quanto segnalato all’inizio, vorrei ricordare come in realtà sia una fortuna che si manifesti l’oblio. Un soggetto ipermnesico raccontava di non riuscire a dimenticare nulla, tanto che la sua mente era invasa da mille immagini, sensazioni, suoni. Alla fine aveva escogitato uno stratagemma per riuscire a dimenticare: immaginava una lavagna, sulla quale comparivano tutti questi ricordi, che egli cancellava da lì e questo era l’unico modo per riuscire a liberare la sua mente.

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II

La patologia della memoria

II.1. MEMORIE INFRANTE: ALCUNE STORIE DI PAZIENTI

Scopo dell’umanità è di allungarsi la vita, al che ella giunge mercé la memoria. Chi più sa, più vive. (CARLO DOSSI, Note azzurre, n. 2302)

Memorie infrante o spezzate non è un titolo originale. Qualche anno fa, la professoressa Ruth Campbell di Londra e il professor Martin Conway di Lancaster hanno curato un libro che aveva proprio questo titolo: Broken Memories (1995). Diversi neuropsicologi che si occupano di disturbi della memoria raccontavano ciascuno, in maniera discorsiva, la storia di qualche paziente con un deficit di una delle componenti di memoria appena descritte. Si utilizzava questa descrizione per giungere a conclusioni di natura teorica. Questo è il modo di procedere della ricerca neuropsicologica. Esistono modelli elaborati dalla psicologia cognitiva che spiegano come funziona la memoria. I ricercatori arrivano a costruire questi modelli teorici in seguito a esperimenti sui soggetti sani. Tuttavia, come ho già ricordato precedentemente (cfr. supra, I.1), nessun modello può considerarsi adeguato se non è in grado di spiegare i com83

portamenti osservati nei pazienti con un danno cerebrale. Questo ha fatto sì che lo studio di soggetti con particolari alterazioni della memoria (così come di altre funzioni cognitive) abbia permesso un notevole progresso per elaborare teorie sul normale funzionamento. Cercherò quindi di descrivere, nel modo più semplice possibile, una serie di pazienti, in maggior parte osservati da me, ma anche alcuni famosi nella letteratura neuropsicologica, per dare ragione delle teorie fino ad ora esposte.

II.2. HM: LA VITA È SOLO PRESENTE

Le temps perdu, devant quoi les efforts de ma mémoire et de mon intelligence échouaient toujours. (MARCEL PROUST, Le temps retrouvé)

Uno dei pazienti più famosi in neuropsicologia è HM (Scoville e Milner, 1957). Nel 1953 questo paziente, che allora aveva 27 anni, fu operato per un’epilessia resistente ai farmaci. A 7 anni HM era caduto dalla bicicletta ed era rimasto privo di coscienza per circa 5 minuti. Non esistevano allora gli strumenti sofisticati di cui disponiamo adesso e quindi non si poté individuare che cosa fosse esattamente successo nella testa di HM. A 10 anni comparve il primo attacco epilettico, ma la prima crisi di grande male (cioè contrazioni a tutto il corpo, seguite da irrigidimento con perdita di coscienza) si verificò a 16 anni. A quell’epoca il paziente aveva lasciato la scuola e soffriva di circa 10 attacchi di piccolo male (brevi perdite di coscienza) al giorno e di una crisi di grande male alla settimana. La qualità della vita si era deteriorata a tal punto che sia i medici che i genitori decisero che solo l’intervento chirurgico poteva migliorare la situazione. A quel tempo, purtroppo, non si conosceva ancora il ruolo dell’ippocampo nella memoria e così durante 84

l’intervento furono rimossi quasi interamente entrambi i lobi temporali mediali. In realtà erano già stati eseguiti interventi simili (anche se non così estesi), dallo stesso chirurgo, su pazienti psicotici per ridurre i loro problemi mentali, ma, dato che il comportamento degli psicotici era gravemente disturbato, non si era rilevata l’amnesia (che per altro, ad un esame successivo nei pazienti collaboranti, non si mostrò così marcata come in HM). Le crisi epilettiche di HM si ridussero drasticamente, ma la qualità della vita non risultò certo migliorata, dato che il paziente si risvegliò con la più grave amnesia mai descritta. Appena operato, fu subito evidente il guaio combinato: il paziente non riconosceva il personale medico che vedeva regolarmente e dimenticava cosa aveva appena mangiato. Oltre ad una grave amnesia anterograda, il paziente non ricordava gli eventi che avevano preceduto di alcuni anni la sua operazione. Un episodio rilevante riguardava un suo zio, al quale era molto legato, deceduto tre anni prima dell’intervento. HM non ne ricordava la morte e, quando qualche familiare lo informava (o meglio tentava di farglielo ricordare), scoppiava a piangere. Dopo pochi minuti, tuttavia, malgrado il forte contenuto emotivo dell’informazione, HM dimenticava l’accaduto e, se qualcuno nuovamente gli riferiva della morte dello zio, scoppiava ancora in un pianto dirotto. Ricordava solo episodi avvenuti prima del sedicesimo compleanno, soprattutto le esperienze dell’infanzia. Non riconosceva e non riconosce tuttora le sue fotografie, perché è convinto di avere un’età molto inferiore a quella anagrafica. Anche a distanza di anni dall’intervento il paziente non ricorda dove vive, chi si prende cura di lui, o dove cena. Sono citati due fatti miracolosamente appresi: anche se ignora totalmente cosa sia stato il Watergate, ricorda il nome del giornalista che leggeva le notizie e anche il nomignolo che un personaggio televisivo attribuiva al proprio figlio. Il quoziente intellettivo, le abilità percettive e il linguaggio, come dev’essere in un’amnesia globale pura, rimasero assolutamente invariati, malgrado HM fosse incapace di ricordare quanto gli capitava. Secondo la sua stessa descrizione, «ogni giorno è unico in sé, qualunque gioia io abbia e qualsiasi dolore io abbia [...] Ho fatto qualcosa o det85

to qualcosa di sbagliato? Vede, in questo momento ogni cosa mi è chiara, ma che cosa è appena successo? Questo è quello che mi preoccupa. È come svegliarsi da un sogno; io proprio non ricordo» (Milner, 1970). Tale descrizione ci mostra che il paziente non è anosognosico (cfr. supra, I.5.5). Un vantaggio è che HM non si annoia mai: può rileggere la stessa rivista o ridere delle stesse storie, come se fosse sempre la prima volta che le ascolta e soprattutto può essere sottoposto a migliaia di prove di memoria, di cui non si lamenterà mai, dal momento che non ricorda. Vediamo cosa risulta dalla valutazione globale della memoria. Come ci si poteva aspettare, la memoria a breve termine è normale, ma basta incrementare di uno le sequenze di cifre o le sequenze spaziali che il paziente è in grado di ripetere, perché la prestazione si deteriori. Nell’apprendimento di liste di parole o di percorsi o nella copia ritardata di figure complesse (si mostra una figura e dopo qualche minuto si chiede di riprodurla), l’oblio del materiale è totale, al punto di non ricordare nemmeno che gli è stato presentato qualcosa. La ripetizione costante può mantenere l’informazione nella sua memoria a breve termine, ma non ha effetti a lungo termine: se il paziente si distrae per un attimo, per quanto abbia ripetuto incessantemente fino a pochi secondi prima, dimentica completamente qualunque cosa. Abbiamo detto che nell’amnesia globale la memoria semantica è risparmiata, però ho già accennato al fatto che gli amnesici non riescono ad apprendere parole nuove, perché sarebbe richiesta, per questo compito, l’integrità della memoria episodica. Il vocabolario di HM è quello di quando è stato operato e non aumenta; le uniche parole introdotte dopo l’intervento sono «ayatollah» e «rock’n’roll». Qualsiasi tentativo di apprendere il significato di altre parole, come «biodegradabile», è fallito: «biodegradabile», secondo HM, significa «due gradi». Addirittura, presentando parole nuove reali o inventate, il paziente non distingue quali siano quelle vere. Invece la memoria procedurale motoria è preservata e, nel compito di disegno allo specchio, citato nel capitolo sulla memoria implicita, HM mostra un netto miglioramento con la pratica. Ovviamente 86

HM nega di aver svolto il compito in precedenza. Questa non è l’unica forma di memoria implicita preservata. In prove percettive si evidenzia un apprendimento, ad esempio mostrando un’immagine incompleta e poi aumentando progressivamente i dettagli, fino a che la persona riconosce di cosa si tratti. Testando nuovamente un soggetto a distanza di tempo, si vede se vi è stata ritenzione. Si presentano immagini molto incomplete, e si osserva a che punto il soggetto è in grado di riconoscerle. Un amnesico non riconoscerà come già presentate queste figure, però le identificherà più rapidamente, quando sono ancora largamente incomplete. In questo modo si comportava HM, che conservava il miglioramento anche a distanza, perfino dopo alcuni mesi, pur negando di avere visto le figure prima di quel momento. Anche nella prova di condizionamento con il soffio d’aria che provoca l’ammiccamento (cfr. supra, I.10.1) acquisiva la risposta classica, ma non ricordava il ricercatore né l’apparato. HM è ancora oggetto di studio, oggi vive in una casa di cura, dove lo accudiscono e da dove non ha mai imparato a spostarsi. I medici che per anni lo hanno seguito devono ogni volta presentarsi, come se fosse la prima volta che si incontrano. La letteratura neuropsicologica pullula di esperimenti eseguiti su HM, al quale noi tutti dobbiamo essere grati per le conoscenze che ci ha fornito sull’anatomia e il funzionamento della memoria e a cui devono essere grati tutti i pazienti che hanno evitato un’asportazione bilaterale dell’ippocampo dopo la sua drammatica esperienza.

II.3. IL FIORETTO, IL CARDIOPATICO E CONSUELO

Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria. (EUGENIO MONTALE, La casa dei doganieri)

Sono stati descritti numerosi altri amnesici, oltre al precedente. Ciascuno è stato segnalato per un motivo diverso: o 87

perché il paziente era diventato amnesico dopo una lesione insolita, o perché l’amnesia aveva connotati particolari. Ad esempio, nel 1959, uno stupidissimo incidente di cui fu vittima un operatore radar dell’aeronautica degli Stati Uniti causò un quadro conclamato di amnesia, che fece luce su una delle strutture coinvolte nell’immagazzinamento dei ricordi. Il giovane, in caserma, stava costruendo un modellino, quando un compagno di camerata si mise a giocare con un fioretto. Malauguratamente il giovane si voltò in modo improvviso e fu trafitto dal fioretto che, entrando dalla narice destra, perforò il cervello. In seguito a tale incidente, la memoria episodica risultò compromessa, mentre intelligenza e memoria a breve termine rimasero normali. L’amnesia anterograda era piuttosto grave e il paziente non acquisiva alcuna nuova informazione, al punto che, se un programma televisivo era interrotto dalla pubblicità, dimenticava quanto era successo prima dell’interruzione; l’amnesia retrograda riguardava soltanto i due anni precedenti l’incidente. Quindi il quadro era assolutamente analogo a quello di un’amnesia causata da lesione temporale mediale. Ad anni di distanza, quando si rese disponibile la TAC encefalo, in questo paziente si è evidenziata una lesione del talamo dorsomediale. Un altro caso singolare è quello di un uomo operato di bypass coronarico. A dispetto dei telefilm statunitensi, anche in quel paese si verificano complicazioni post-intervento come nei nostri meno rinomati ospedali pubblici. Il malato, durante la notte successiva all’intervento, ebbe una fissurazione ventricolare e perse quasi un litro di sangue in meno di due minuti. La pressione scese a 40 mm e il paziente fu sottoposto a massaggio cardiaco e ad intervento chirurgico. La fissurazione fu riparata, ma nel frattempo il malato aveva perso circa 5000 cc di sangue. Dopo una serie di altri guai di vario tipo (nuovo sanguinamento, aritmie, arresto respiratorio) fu trasferito in un reparto di medicina ed i neurologi trovarono una netta compromissione della memoria. Evidentemente la perdita di sangue aveva provocato un’insufficiente vascolarizzazione e quindi ossigenazione nelle aree deputate alla memoria, che avevano sofferto in modo irreversibile. Il pazien88

te fu testato per 5 anni da Zola-Morgan e collaboratori (1986), fino a quando morì per un arresto cardiaco fatale. Il cervello del paziente fu esaminato e fu trovata una lesione circoscritta dell’ippocampo. Questo paziente è citato come un caso praticamente puro di amnesia anterograda, nel senso che i deficit retrogradi erano minimi, a detta degli esaminatori. Questo risultato testimonierebbe il ruolo dell’ippocampo nell’immagazzinamento di nuovi ricordi, ma non nel deposito e nella rievocazione di vecchi ricordi. In realtà, guardando con attenzione i risultati riportati ai test, si osserva che il paziente forniva solo scarsissimi dettagli nella rievocazione di eventi verificatisi 5-6 anni prima del suo intervento, né riconosceva programmi televisivi che erano stati trasmessi in quello stesso periodo. Tuttavia, questo caso è citato a sostegno dell’ipotesi classica di cui ho parlato nel capitolo sulla memoria anterograda (cfr. supra, I.7.3). Da ultimo desidero raccontare la storia di una paziente che ho studiato insieme con una mia collega. Il motivo per cui l’abbiamo ritenuta degna di nota riguarda sia la sede lesionale che la peculiarità del disturbo. Questa signora, che chiamerò Consuelo (anche se in realtà Consuelo era il nome che la paziente attribuiva a me), era stata operata di un tumore relativamente benigno, un subependimoma, sviluppatosi all’interno di un ventricolo, cioè di una cavità del cervello. Subito dopo l’intervento, conclusosi brillantemente, il neurochirurgo si rivolse a noi esterrefatto: la paziente ripeteva le stesse domande, aveva un atteggiamento disinibito, raccontava cose mai esistite, non riconosceva i medici del reparto e le altre pazienti ricoverate, senza contare che faceva un’enorme confusione nell’attribuire la corretta identità ai visitatori sia suoi, sia delle altre pazienti. Era inoltre gravemente disorientata nel tempo e nello spazio. Ricordo che però la signora commetteva errori costanti. Ad esempio, interrogata su che giorno fosse, rispondeva ogni volta «non sono mica i giorni della merla?». Non so se sia un’espressione solo lombarda, ma «i giorni della merla» sono gli ultimi tre giorni del mese di gennaio. In realtà in quel periodo eravamo nella seconda metà di febbraio. Allo stesso modo non ricordava mai il mio nome né quello della mia collega, 89

anche se glielo ripetevamo ad ogni nostra visita. Anche in questo caso la risposta era sempre la stessa. A me rispondeva che, le pareva, io avessi un nome originale: che fosse Consuelo? Mai, nei mesi durante i quali la testai, la paziente ricordò il nome corretto o ne produsse uno diverso da Consuelo. Per quanto riguarda la mia collega, ogni volta che ne sentiva il nome, la paziente ironizzava sul fatto che il suo doveva essere un nome d’arte, perché breve e semplice, anche se, di fatto, non fu mai in grado una sola volta di rievocarlo. Infine, un’altra frase che ripeteva costantemente era un commento poco lusinghiero su di un medico. Il medico in questione non godeva della sua simpatia e, posso confermare, ad una conoscenza superficiale questo era assolutamente condivisibile. Di conseguenza, ogni volta che lo vedeva passare, la signora Consuelo si rivolgeva a me, dicendo «quel medico mi sta sulle scatole» e, siccome una volta le confessai che condividevo la sua antipatia, mi avvertì che glielo avrebbe riferito. Nessun problema perché dopo pochi minuti aveva già dimenticato ogni cosa! I test di memoria condotti su di lei erano fallimentari; non ricordava, da un giorno all’altro, di essere stata sottoposta ad alcuna valutazione. Non era in grado di riferire nessun altro esame eseguito durante la giornata, benché questi fossero rilevanti e avessero richiesto lo spostamento della paziente in una sede diversa dal suo reparto. Anche la memoria retrograda era compromessa, a tal punto che il papa in carica era considerato Paolo VI e il presidente della repubblica Leone (era il 1988). La memoria autobiografica era pure gravemente compromessa: non ricordava nulla degli ultimi mesi e del suo passato ricordava solo due eventi emotivamente rilevanti, di cui uno personale e l’altro relativo ad un bambino che viveva vicino a lei e che aveva perso un occhio in un incidente. Per il resto l’esame neuropsicologico era assolutamente normale, come deve essere perché si possa parlare di amnesia globale pura: il linguaggio era preservato, l’intelligenza era particolarmente brillante e non vi erano deficit nell’utilizzazione degli oggetti. Un altro sintomo che creò nel reparto non pochi problemi erano le sue confabulazioni. La signora Consuelo aveva deciso che il marito della sua vicina di letto era stato il suo fidanzato in gioventù, ma 90

evidentemente la passione non si era spenta, perché ogni volta che il povero consorte veniva a trovarla, lo ignorava, mentre si gettava al collo del marito della vicina, la quale non gradiva assolutamente queste effusioni. Dato che nessuna delle strutture solitamente implicate nell’amnesia era danneggiata, si concluse che il problema derivasse dal tragitto seguito dai chirurghi per accedere a quella cavità. In particolare si erano sezionate delle strutture lungo la linea mediana che sembrano in relazione ai contenuti emotivi dei ricordi (per completezza dirò che si chiamano nuclei del setto). In effetti l’atteggiamento ridanciano e disinibito della paziente, malgrado i suoi guai, era un altro elemento che colpiva. Ho casualmente rivisto la signora dopo circa sei anni dall’intervento (Papagno, 1995). Era lievemente disorientata nel tempo, ma non presentava serie difficoltà nella vita di tutti i giorni (arrivò da sola all’appuntamento), tuttavia riferiva di scriversi quello che doveva fare (appuntamenti, cose da acquistare, telefonate) e non usciva in genere da sola perché non era sicura di ritrovare la strada (era arrivata in taxi e con il taxi intendeva ritornare a casa). Il suo problema era che, sebbene ricordasse sempre di avere qualcosa da fare, poi non ricordava cosa. Quando le era stato detto che doveva incontrare una dottoressa che l’aveva esaminata nel 1988, si era ricordata che due medici, donne, l’avevano testata più volte dopo l’intervento, ma non ricordava i loro nomi né i loro volti. Durante la conversazione, se era interrotta, dimenticava subito l’argomento; per altro ripeteva sempre il racconto di due vicende, cioè un serio problema di salute del marito e la nuova professione della figlia, di cui era molto orgogliosa. Sottoposta agli stessi test di sei anni prima e ad altri nuovi, riconobbe quelli che già conosceva, ma la sua prestazione fu comunque al di sotto della norma. In particolare, la signora Consuelo fece ancora gli stessi commenti che le avevo sentito fare ad ogni sessione sei anni prima: una prova di memoria consiste nel leggere un racconto che poi il paziente dovrà rievocare; il racconto parla di una certa signora Pesenti di Bergamo. Invariabilmente la paziente commentava (e così fece dopo sei anni) che un suo familiare lavorava per un tal Pe91

senti di Bergamo. Ma poi si lanciò in una confabulazione priva di elementi realmente contenuti nel racconto. Era la primavera del 1994. La paziente venne da me di martedì, benché io avessi cercato di fissare l’appuntamento di lunedì. Non aveva potuto, perché era stata scrutatrice in un seggio elettorale! Lascio al lettore possibili commenti.

II.4. BUGIARDO, MITOMANE O INNOCENTE? IL FENOMENO DELLA CONFABULAZIONE1

Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo. (CARLO COLLODI, Pinocchio)

Alcuni talvolta rispondono alle domande con una menzogna. Altri raccontano spontaneamente avventure o episodi in realtà mai verificatisi. Questi individui, che non hanno lesioni cerebrali, sono considerati bugiardi e sono perfettamente coscienti di ingannare chi li ascolta. Esistono invece delle persone che, a causa di una lesione cerebrale, si comportano come dei bugiardi, ma con una differenza sostanziale: la loro bugia, la loro invenzione, è del tutto involontaria, non vi è alcuna intenzione di imbrogliare l’ascoltatore (o almeno così credono tutti i neurologi e gli psicologi!). Questa bugia non cosciente si chiama «confabulazione». Quella che segue è la trascrizione del dialogo tra un neuropsicologo, il Dr. Morris Moscovitch, ed un suo paziente confabulante, HW. Questi era un signore di 61 anni, sposato da 33, con quattro figli, che aveva subito un intervento 1 Parte di questo capitolo è tratto da «Psicologia Contemporanea» n. 162, novembre/dicembre 2000, © Giunti Gruppo Editoriale S.p.A. (per gentile concessione dell’Editore).

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chirurgico in seguito ad un’emorragia subaracnoidea. L’intervento gli aveva provocato un danno bilaterale ai lobi frontali. Dr.: Quanti anni ha? HW: 40, 42, scusi, 62. Dr.: È sposato? HW: Sì. Dr.: Da quanto è sposato? HW: Da circa 4 mesi. Dr.: Ha figli? HW: Sì, quattro (ride). Non male per quattro mesi eh? Dr.: Che età hanno i suoi figli? HW: Il maggiore 32, il più giovane 22. Dr.: Come fanno ad essere così grandi, se lei è sposato da appena quattro mesi? HW: Li abbiamo adottati. Dr.: Subito dopo il matrimonio avete adottato quattro persone adulte? HW: Uno, anzi due, li abbiamo adottati prima. Dr.: Non le pare un po’ strano? HW: (ridacchiando) Beh un po’ strano lo è.

La fatina dai capelli turchini dice a Pinocchio che esistono due tipi di bugie: quelle che hanno le gambe corte e quelle che hanno il naso lungo. Anche le confabulazioni possono essere di due tipi. Bonhoeffer (1904) fu il primo a suggerire che la confabulazione può prendere due forme: (1) la confabulazione da imbarazzo, diretto risultato del deficit mnestico, in cui il paziente «copre» il vuoto di memoria, ma è convinto della veridicità del suo racconto e (2) la confabulazione che eccede, va oltre le necessità imposte dal deficit di memoria. Tuttavia la definizione di confabulazione comunemente accettata si deve a Berlyne (1972) ed è la seguente: «La falsificazione della memoria che si verifica in presenza di coscienza integra e in associazione con un’amnesia di origine organica». Berlyne (come Bonhoeffer) distinse fra confabulazioni momentanee e fantastiche, poi chiamate da Kopelman (1987) rispettivamente «provocate» e «spontanee». La «confabulazio93

ne spontanea» è la produzione persistente, non provocata, di memorie erronee. Al contrario, la «confabulazione provocata o momentanea» consiste in fugaci errori di intrusione o distorsione prodotti solo quando si richiede ad un soggetto di ricordare, come nelle prove di memoria. Questo tipo di errori si può verificare occasionalmente anche nei soggetti normali. Nella confabulazione provocata spesso il paziente riporta un fatto realmente accaduto, ma «spostato», dislocato, nello spazio e nel tempo. La risposta è plausibile e sono i familiari o qualcuno che conosce il paziente a disconfermare il fatto. Per questo motivo tale confabulazione è considerata un tentativo di riempire il «vuoto» di memoria con il ricordo di qualcosa successo in un altro momento e in un altro luogo. Pertanto questo tipo di disturbo appare legato ad un deficit di memoria. Se la confabulazione momentanea può rappresentare una risposta normale dovuta ad una memoria povera o che commette errori, diverso è il caso delle confabulazioni floride, o fantastiche o spontanee. Queste ultime sono caratterizzate da un contenuto assolutamente implausibile, caratterizzato dal fatto che spesso è prodotto spontaneamente dal paziente, che trova anche possibili giustificazioni ogni volta che qualcuno lo mette a confronto con l’implausibilità del suo racconto. Da quanto detto finora, si capisce come la confabulazione sia stata considerata un disturbo di memoria a lungo termine, ma dall’osservazione di pazienti con questo disturbo, risulta evidente che questa affermazione è restrittiva. Infatti i pazienti possono confabulare sul presente (cioè relativamente a quello che stanno facendo) e anche sul futuro (progetti circa le attività a venire). II.4.1. I meccanismi della confabulazione Come mai confabulano questi pazienti? E come mai la maggior parte dei cerebrolesi, magari con lesioni analoghe, non lo fa? Una compromissione della memoria non è sufficiente a spiegare le confabulazioni, dato che la maggior parte degli amnesici non mostra una vera confabulazione e solo occasio94

nalmente questi pazienti cercano di «bluffare». I fattori cruciali sembrano essere piuttosto una combinazione di scarsa memoria e mancanza di adeguato controllo attenzionale, verosimilmente dipendente dalla funzione del lobo frontale (Baddeley e Della Sala, 1996). I pazienti con un deficit nelle operazioni di questo sistema di controllo sembrano avere difficoltà nel distinguere un ricordo reale da un’invenzione: quando perciò faticano a rievocare un evento, risolvono la difficoltà optando per una facile invenzione piuttosto che continuare a ricercare una difficile, indistinta verità. Il fatto che la maggior parte di noi non produca vivaci confabulazioni mostra chiaramente che il processo di rievocazione è complesso e non consiste semplicemente nel cercare una voce in un ipotetico archivio di ricordi. Le principali e più recenti proposte sono rivolte a spiegare soprattutto le confabulazioni fantastiche. Il ruolo dell’amnesia, come già detto, è stato ridimensionato alla luce del fatto che in alcuni pazienti affetti da alcolismo cronico, le confabulazioni sono una manifestazione precoce, mentre l’amnesia persiste, anche dopo che queste sono scomparse (Leafhead e Kopelman, 1999). Anzi, paradossalmente, una grave amnesia «proteggerebbe» il paziente dalle confabulazioni: la completa impossibilità a ricordare un fatto specifico non evoca le confabulazioni, mentre la presenza di qualche vago spunto potrebbe incoraggiare il paziente a produrre una risposta. Il fatto che una grave amnesia addirittura «proteggerebbe» il paziente dalla confabulazione è bene illustrato dal caso del paziente MB, affetto da carcinomatosi meningo-encefalitica. MB mostrava una grave amnesia e confabulazioni bizzarre, che si verificavano solo nella conversazione informale, senza relazione diretta con i vuoti di memoria, ma quasi del tutto assenti durante le prove di esame. In esse, infatti, l’amnesia era talmente grave che non vi era alcun dato a cui il paziente potesse appigliarsi per costruire la sua confabulazione (Papagno e Muggia, 1996). Al contrario, nella conversazione informale, emergevano elementi in grado di evocare qualche vago ricordo, da cui invece scaturiva la confabulazione. Mentre conversava, infatti, il paziente veniva «calamitato» da parole o com95

menti fatti da altri: ad esempio una volta ascoltando la moglie parlare con un medico di un processo, MB fu «catturato» dal nome di un famoso magistrato e, intervenendo senza richiesta, spiegò come era stato interrogato dal magistrato, a cui aveva fornito importanti informazioni per aver scoperto una valigetta sospetta sul luogo di lavoro. MB doveva essere interrotto con energia a causa della sua tendenza a continuare indefinitamente le confabulazioni, cariche di minuziosi dettagli. Il contenuto era costante nel tempo, ribadito con forte convinzione e spesso resistente ai tentativi di persuaderlo che le cose non stavano così (in questo senso simile al delirio). Ad esempio durante la sua degenza in ospedale, una dottoressa fu sempre scambiata per la moglie del vigile della sua città (persona alla quale assomigliava vagamente). Se gli si faceva notare che la moglie del vigile non era un medico e perciò non aveva ragione di indossare un camice, il paziente spiegava che la persona in questione era molto preoccupata dell’igiene e riteneva più prudente indossare quel tipo di protezione. Al contrario durante l’esame, quando era sottoposto a test specifici, MB negava semplicemente di ricordare (ad esempio quando doveva rievocare un breve racconto, apprendere liste di parole o rievocare eventi pubblici) e non faceva nessun tentativo particolare di riempire i vuoti di memoria. Una volta ridimensionato quindi il ruolo dell’amnesia, l’interesse si è concentrato sul ruolo svolto dal lobo frontale. Infatti le confabulazioni fantastiche colpiscono generalmente i pazienti con una lesione a livello prefrontale, cioè localizzata nella porzione più anteriore del lobo frontale. Il fenomeno delle confabulazioni sarebbe dovuto ad un’incapacità a «monitorare» la realtà, funzione svolta appunto da questa parte del cervello. La lesione frontale produrrebbe difficoltà nell’iniziare e controllare la ricerca dei ricordi, come abbiamo imparato parlando di memoria autobiografica (cfr. supra, I.11.3). In altre parole, per rievocare un evento, si deve seguire una «strategia» che stabilisce in primo luogo come iniziare e guidare la ricerca all’interno di tutti i ricordi e che in un secondo tempo vaglia e sceglie tra le possibili risposte emerse, eliminando quelle false e selezionando quella corret96

ta. La confabulazione sarebbe associata ad una compromissione di questo complesso meccanismo di ricerca e monitoraggio. Il danno delle funzioni di controllo, compito del lobo frontale, impedirebbe sia il normale processo di richiamo che la corretta scelta fra alternative. Il tipo di confabulazione, più o meno fantastica, dipenderebbe dalla gravità dell’interessamento del lobo frontale, senza necessariamente la presenza di una sindrome amnesica globale. Quindi i vari tipi di confabulazione non andrebbero distinti in due gruppi (ad esempio momentanee e fantastiche), ma farebbero parte di un continuum, in cui il grado di plausibilità del racconto dipenderebbe dalla gravità relativa del danno frontale. Che le confabulazioni si possano verificare in assenza di amnesia e che il difetto stia proprio in un’incapacità nel «controllare» le risposte in uscita è dimostrato dal caso di un paziente di 29 anni descritto da Papagno e Baddeley (1997), MM, che in seguito alla rottura di una malformazione vascolare frontoparietale, pur non essendo amnesico, presentava confabulazioni fantastiche. Ad esempio, ogni volta che usciva dalla stanza in cui era esaminato, chiedeva di prendere l’ascensore per salire ad un inesistente piano superiore, dove secondo lui erano i suoi figli. In realtà la moglie aveva avuto da poche settimane un primo figlio e quando gli si faceva osservare che non era possibile che ne avesse avuto un secondo a pochi giorni di distanza, consigliava di chiedere alla moglie e non a lui come questo fosse stato possibile. Era poi convinto di essere il cuoco dell’ospedale (professione che aveva esercitato in altra sede). La confabulazione di MM andava ben oltre le informazioni che poteva rievocare correttamente: il paziente, cioè, ricordava esattamente, ma aggiungeva storie e dettagli inesistenti che non gli erano stati richiesti. Tale comportamento è stato appunto attribuito a un difetto di monitoraggio della memoria per danno del lobo frontale. Il problema caratteristico non era rappresentato dal fatto di non riuscire a fornire informazioni corrette, ma piuttosto da una sorta di incapacità a fermarsi una volta esaurito l’accesso a informazioni veritiere. Quasi tutte le persone sane sanno giudicare quando i tentativi di rievocazione non sono più atten97

dibili e si fermano, producendo un numero relativamente basso di falsi allarmi. Come detto, tuttavia, nella maggior parte dei casi amnesia e disturbo frontale si combinano per dare origine alla confabulazione. Esempi di confabulazioni di questo tipo sono riportati qui di seguito. Baddeley e Wilson nel 1986 descrissero pazienti con problemi di memoria autobiografica. Alcuni pazienti, gravemente amnesici, mostravano di avere difficoltà di accesso alle informazioni della loro vita remota: ricordare eventi del passato sembrava loro come provare a percepire una scena attraverso una nebbia spessa. Ad esempio un paziente con lesione vascolare bilaterale, amnesico, le cui prestazioni erano, per il resto, normali, ricordava alcuni episodi della sua vita, ma riusciva ad evocarne solo pochi dettagli. Ma il gruppo più interessante di pazienti era quello che sembrava ricordare fluentemente il passato: spesso però questi soggetti producevano racconti totalmente inaffidabili, che venivano successivamente negati e nel racconto, che a volte era plausibile, a volte totalmente bizzarro, si rilevavano inconsistenze. Erano quindi incapaci ad effettuare la ricerca «strategica» fra i propri ricordi per selezionare quello corretto. Un esempio fornito da Baddeley e Wilson è quello di un paziente con danno cerebrale conseguente ad incidente stradale, il quale produceva un racconto molto dettagliato, ma piuttosto variato, in cui includeva descrizioni sconnesse della conversazione avuta con il guidatore dell’altro veicolo. Il racconto era diverso ogni volta e, dal momento che il paziente aveva perso conoscenza ed era rimasto in coma per alcune settimane, era piuttosto inverosimile che egli potesse realmente ricordare qualcosa. Nel test di Crovitz, in cui si deve dire che cosa fa ricordare una determinata parola (cfr. supra, I.11.1), di fronte alla parola «lettera» questo paziente descrisse una lettera scritta ad una zia in cui raccontava della morte di suo fratello. In realtà il fratello era vivo e stava bene. Quando glielo si fece notare, spiegò l’apparente inconsistenza dicendo che, dopo la morte del fratello, sua madre aveva avuto un altro figlio a cui aveva dato lo stesso nome, cosa che si rivelò falsa. I pazienti mentono o prendono in giro l’esaminatore? Pensiamo 98

di no. Infatti confabulano anche al di fuori della seduta di esame. Il paziente descritto sopra, un giorno che era tornato a casa dall’ospedale per il fine settimana, girandosi nel letto verso la moglie, chiese: «Perché vai in giro a dire che siamo sposati?» «Siamo sposati; abbiamo due figli.» «Questo non vuol dire che siamo sposati!» Allora la moglie si alzò e mostrò una foto del matrimonio. Il paziente la guardò attentamente e poi disse: «questo tipo mi assomiglia di certo, ma non sono io!». II.4.2. Le cause più frequenti di confabulazione Le confabulazioni possono presentarsi nelle fasi iniziali di una sindrome di Korsakoff (cfr. supra, I.5.6), da etilismo cronico. In questo caso quindi, si ritrovano associate a lesioni a livello diencefalico, cioè talamo e corpi mamillari. In questi pazienti vi è spesso anche un’atrofia corticale a livello frontale. Frequentemente i soggetti che hanno subito trauma cranico manifestano importanti confabulazioni: tale è il caso di alcuni dei pazienti descritti sopra. Il lobo frontale è infatti facilmente leso da un trauma. Infine una causa osservata sovente è la rottura di un aneurisma dell’arteria comunicante anteriore con successivo vasospasmo, che provoca ischemia a livello frontale. La regione critica sarebbe la corteccia frontale ventromediale, cioè la parte inferiore del lobo frontale. II.4.3. Alcune forme particolari di confabulazione In alcuni pazienti la confabulazione assume forme particolari. Una di queste è la sindrome di Capgras. Nel 1923 Capgras e Reboul-Lachaux descrissero una donna di 53 anni che presentava la cosiddetta illusion des sosies, una credenza delirante che i suoi conoscenti fossero stati rimpiazzati con i loro doppi identici. Lo credeva di suo marito e dei suoi figli, ma anche della polizia e dei vicini; credeva persino che esistessero doppi di se stessa. Vi sono altre descrizioni ed in genere la diagnosi è di schizofrenia. Ma vi sono anche casi di natura più 99

propriamente organica, sempre caratterizzati da tratti paranoidei. In genere si tratta di lesioni bilaterali, per lo più frontali, ma anche parietali e temporali. Vi sono però casi descritti dopo interventi chirurgici, per eccessiva inalazione di broncodilatatori, o in diabetici. La «paramnesia reduplicativa» invece coinvolge la reduplicazione di luoghi: il paziente ritiene di trovarsi in un certo posto che è quasi la copia esatta del luogo reale. Un’altra forma è la sindrome di Fregoli, dal nome dell’attore e mimo italiano Leopoldo Fregoli. La caratteristica della sindrome è l’erronea identificazione di persone familiari che si sarebbero mascherate da altri. Courbon e Fail (1927) hanno descritto una paziente, che in seguito ad una caduta aveva riportato un ematoma frontale sinistro, la quale credeva di essere perseguitata dal cugino e dalla compagna. Descriveva in dettaglio come la coppia si camuffava con trucco, parrucche, occhiali scuri, barba finta e ripetutamente la avvicinava quando era fuori. Apostrofava sconosciuti per strada chiedendo di rivelare la loro identità; sceglieva strade complicate per seminare i persecutori e spesso riferiva le loro attività alla polizia. Al di fuori del campo della memoria, le confabulazioni si osservano nella sindrome di Anton (mancata coscienza o negazione di cecità), in cui i pazienti confabulano su esperienze visive, e in pazienti con anosognosia per emiplegia. Per questo, una definizione più ampia di confabulazione dovrebbe includere qualsiasi affermazione errata che non è un tentativo cosciente di ingannare, perché, almeno apparentemente, il confabulante crede a quanto sta dicendo. In questo caso la confabulazione, in analogia con quanto teorizzato sulle confabulazioni nella sfera mnestica, è spiegata come un tentativo di riempire un vuoto nella prestazione, compromessa da un deficit specifico, di solito in concomitanza con un deficit intellettivo. Molti problemi rimangono comunque aperti. Vi sono pazienti con confabulazioni floride e prestazioni normali in tutte le prove «frontali» ed altri che mostrano una strettissima correlazione fra test frontali e presenza di confabulazioni. Inoltre pazienti con lo stesso tipo di danno cerebrale talvolta confabulano, talaltra no. Infine i rapporti tra le confabula100

zioni e il delirio delle malattie psichiatriche meriterebbero di essere indagati. Perché insomma diventiamo bugiardi dopo un danno cerebrale è un mistero ancora in parte da chiarire.

II.5. L’AMNESIA GLOBALE TRANSITORIA

C’était peut-être bien des fragments d’existence soustraits au temps. (MARCEL PROUST, Le temps retrouvé)

II.5.1. Il quadro clinico A metà degli anni Novanta, un pomeriggio, si presentò al Pronto Soccorso dell’ospedale un pediatra della ex Jugoslavia che si trovava da noi per un convegno e che improvvisamente aveva accusato un disturbo peculiare: non riusciva a ritenere nuove informazioni e si ostinava a ripetere le stesse domande ogni minuto; aveva inoltre perso i ricordi del passato recente, tanto che ignorava (e ne rimaneva esterrefatto quando gli veniva raccontato) che la Jugoslavia non esisteva più ed erano in corso guerre in varie regioni del suo paese. Dopo alcune ore, il pediatra riprese il comportamento e la memoria di ogni giorno e il mattino seguente era tornato perfettamente normale. Ricordò anche, senza alcun dubbio, la triste situazione che vi era nel suo paese. Rimase solo un vuoto per il periodo in cui era stato amnesico. Che cosa era mai capitato? Il nostro collega era stato colpito da un disturbo che prende il nome di «amnesia globale transitoria». Si tratta di un improvviso disturbo amnesico, detto globale perché interessa sia la memoria anterograda (cfr. supra, I.7), che la memoria retrograda (cfr. supra, I.6), quest’ultima in grado variabile; inoltre l’amnesia si chiama «transitoria» perché si esaurisce spontaneamente (per fortuna, perché al solito noi non sapremmo come curarla!) entro 24 ore, lasciando un «buco» nella memoria per il periodo relativo alla sua durata. Il sintomo che colpisce maggiormente è 101

appunto un’amnesia anterograda completa che si manifesta tra l’altro con la ripetizione estenuante delle stesse domande, a distanza anche solo di un minuto o addirittura di pochi secondi una dall’altra, da parte del paziente, che, come se non bastasse, ogni volta ripete gli stessi commenti. Ricordo un altro paziente colpito da questo disturbo al mattino di un lunedì. Questo è il dialogo che si era svolto fra lui e la moglie e riportato da quest’ultima: Amnesico: «Quasi quasi vado dal barbiere». Moglie: «Ma è lunedì!». Amnesico: «Ah, di lunedì il barbiere è chiuso». Moglie: «Infatti». Amnesico: «Quasi quasi vado dal barbiere». Moglie: «Ma ti ho appena detto che è lunedì!». Amnesico: «Ah, di lunedì il barbiere è chiuso». Moglie: «Appunto, lo avevamo appena detto». Amnesico: «Quasi quasi vado dal barbiere».

E potrei continuare all’infinito, solo che a quel punto la povera signora estenuata aveva deciso che il marito era impazzito e che forse era meglio portarlo al Pronto Soccorso. Quello che colpisce in modo particolare chi ha l’occasione di vedere un soggetto in preda ad amnesia globale transitoria è non solo la ripetitività delle domande e dei commenti, ma anche delle stesse azioni. Ad esempio i pazienti con amnesia globale transitoria possono lavarsi le mani o salire e scendere le scale in successione più volte. In genere appaiono poco preoccupati, non si accorgono di non ricordare, sono cioè «anosognosici». Ricordo che questo termine significa che i malati non sono consapevoli della loro malattia, del disturbo. Dal momento che sono incapaci di ritenere qualsiasi informazione, spesso i pazienti sono disorientati nel tempo e nello spazio, non sanno cioè né dove si trovano né in che anno, mese e giorno. A questo proposito posso citare un conoscente che, durante un attacco del genere, aveva improvvisamente iniziato a darmi del «lei», come faceva alcuni anni addietro. Allo stesso modo aveva imboccato la direzione che lo portava verso l’abitazione dove ave102

va vissuto in epoca precedente. Era inoltre preoccupato di dover telefonare alla madre che invece era morta da pochi mesi. Alcuni pazienti sembrano particolarmente irrequieti, altri possono soffrire per mal di testa durante l’attacco, ma questi sintomi sono variabili. Chi ha osservato una volta un paziente con questo disturbo non lo dimentica più ed è in grado di individuarlo immediatamente. In genere sono i parenti o chi si trova insieme al paziente ad accorgersi che «qualcosa non va» e l’amnesico viene subito trasportato in Pronto Soccorso. Sono quindi solo i medici di Pronto Soccorso ad osservare questi soggetti, in quanto il disturbo regredisce spontaneamente nel giro di poche ore, tanto che spesso non si fa nemmeno in tempo ad eseguire qualche accertamento, prima che il deficit sia regredito. Per la maggior parte dei pazienti l’amnesia globale transitoria rimane un evento unico nella loro vita. L’età media varia tra i 50 e i 70 anni, con un picco intorno ai 60 anni, mentre è rarissima sotto i 40 come pure oltre gli 80 anni. II.5.2. Le cause dell’amnesia globale transitoria Che cosa scatena questo strano disturbo? In un terzo dei pazienti, si riconoscono degli eventi precipitanti: ad esempio l’esercizio fisico, un viaggio lungo in auto, una fumata di marijuana e anche un rapporto sessuale. Spesso viene anche invocato uno stress emotivo, ma in genere si tende a sovrastimare il significato emotivo di qualsiasi evento che poi è seguito da amnesia. Esistono eventi della stessa portata emotiva che non scatenano proprio nessuna amnesia transitoria. Nella maggior parte dei casi quindi non si riconosce alcuna causa o fattore scatenante preciso e per fortuna il disturbo scompare altrettanto misteriosamente di come era comparso e non si ripete più per il resto della vita, come già detto, salvo in casi eccezionali. Altre ipotesi che sono state avanzate per spiegare l’insorgenza del disturbo sono la possibilità che esso sia l’equivalente di un attacco ischemico transitorio, un cosiddetto TIA (una 103

riduzione transitoria dell’apporto di sangue in una specifica regione cerebrale, in questo caso una regione che evidentemente è implicata nella memoria), o che sia una manifestazione dell’emicrania, in quanto molti dei pazienti (fino al 40 per cento) che hanno presentato un’amnesia globale transitoria soffrono di emicrania. Tuttavia entrambe le ipotesi non sembrano sufficientemente plausibili: i TIA tendono a ripetersi, mentre l’amnesia globale transitoria è un evento in genere unico nella vita di un individuo e il fatto che un soggetto abbia avuto un episodio di amnesia globale transitoria non implica che in futuro avrà disturbi vascolari in altra sede. Inoltre l’amnesia globale transitoria non è particolarmente associata a quelli che sono i fattori di rischio delle malattie vascolari. Per quanto riguarda l’ipotesi emicranica, invece, se è vero che molti pazienti che hanno avuto un’amnesia globale transitoria soffrivano di emicrania, è pur vero che il numero di soggetti che soffrono di emicrania è molto più elevato di quelli che hanno un episodio amnesico. Quindi, come spesso succede in neurologia, non abbiamo la più pallida idea del perché compaia questo disturbo, che ha il buon gusto di «guarire» da solo. II.5.3. Diagnosi differenziale Vi sono però altre condizioni morbose che possono provocare un disturbo analogo all’amnesia globale transitoria e queste vanno escluse da parte del medico, perché invece possono richiedere un trattamento o possono avere delle conseguenze rilevanti. Si tratta del trauma cranico, dell’epilessia e dell’ictus. Per quanto riguarda il trauma cranico, una concussione può portare ad uno stato confusionale transitorio il cui aspetto clinico è molto simile a quello dell’amnesia globale transitoria. Ad ogni modo, in questo caso, chi era con il paziente riferirà l’avvenuto trauma e del resto è facile che il paziente riferisca anche cefalea o abbia un bel bozzo da qualche parte sulla testa. Un tempo l’epilessia è stata considerata una possibile cau104

sa di amnesia globale transitoria. In realtà l’epilessia può provocare una sintomatologia simile: l’amnesia può seguire un attacco di grande male (quella forma che ai più è nota come convulsioni) o può essere l’unica manifestazione di una forma che origina da un focolaio epilettogeno nel lobo temporale (come sappiamo le strutture temporali sono rilevanti nella memoria e quindi un focolaio epilettogeno, cioè di cellule che scaricano in modo abnorme, in questa sede, potrà manifestarsi con disturbi di memoria). Si deve sospettare l’epilessia quando l’amnesia ha una durata breve (non supera la mezz’ora) e quando l’episodio si ripete nel giro di poche settimane. Infine un ictus che interessa le strutture cerebrali rilevanti nei processi di memoria (e cioè ad esempio talamo o ippocampo) può causare amnesia, ma in questo caso, il rischio è che il deficit sia permanente. A volte, in queste situazioni, sono presenti altri sintomi neurologici. Ad esempio è possibile un disturbo del campo visivo, dato che i vasi interessati portano anche il sangue alle regioni in cui decorrono le vie visive. II.5.4. Neuropsicologia dell’amnesia globale transitoria durante l’attacco L’impressione clinica che i pazienti siano completamente incapaci di acquisire nuove informazioni è confermata dall’esame neuropsicologico durante l’attacco. Invece, come si verifica in tutte le forme di amnesia globale, la memoria a breve termine è normale. L’amnesia interessa non solo il materiale verbale e visuospaziale, ma anche olfattivo, tattile e pure i suoni dell’ambiente. Il grado di amnesia retrograda è variabile ed è più difficile da stabilire: a volte il deficit riguarda la perdita di qualsiasi ricordo per un periodo di tempo limitato precedente l’attacco, altre volte invece ci può essere una perdita di memoria frammentata, senza limite di tempo ben delineato. Spesso i pazienti non sanno mettere in ordine cronologico e datare esattamente gli eventi. La memoria semantica è normale, nel senso che riconoscono gli oggetti, hanno un uso corretto del linguaggio ed un comportamento normale. Anche la memoria 105

procedurale sembra conservata: si è osservato che i pazienti erano in grado di proseguire attività complesse durante l’attacco. Ad esempio mi è stato riferito di un meccanico che, durante un attacco, ha continuato a riparare l’auto (e pare che la riparazione sia stata portata a termine con successo) o di persone che hanno continuato a ballare senza problemi. II.5.5. Le strutture anatomiche coinvolte Se ricordiamo quanto detto a proposito delle strutture anatomiche interessate nella memoria episodica, sappiamo che vi sono tre regioni principali responsabili dell’immagazzinamento: la formazione ippocampale, il diencefalo e la regione frontobasale. Un’amnesia conclamata in genere è determinata dall’interessamento bilaterale contemporaneo delle strutture preposte alla memoria. Considerando le modalità di vascolarizzazione di queste aree, l’unico candidato possibile sembra essere il talamo, in quanto è una struttura che può essere interessata bilateralmente, mentre questo evento è meno probabile per l’ippocampo e per la regione frontobasale. Malgrado quindi il continuo apporto di dati, lo studio di nuovi casi, il miglioramento delle tecniche di indagine neuroradiologica, sono ancora oggetto di dibattito l’eziologia e la patogenesi di questo disturbo. Tuttavia, a parte lo spavento iniziale dei familiari o degli amici, non resta nulla di questo misterioso e affascinante (e oserei dire comico) disturbo.

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II.6. LA SIGNORA CON LA G E LA C

Che cose strambe, la A con due gambe, la E con due braccia, la O tonda in faccia. (LINA SCHWARZ, Ancora... e poi basta)

All’epoca in cui la conobbi, la signora con la G e la C, originaria della Campania, era una donna di 59 anni, che da mesi vagava disperatamente da un medico all’altro lamentando un disturbo che nessuno prendeva sul serio. Le sue condizioni di salute erano ottime e la paziente in passato non aveva subito alcun intervento, non aveva avuto incidenti, né aveva sofferto di particolari malattie. La signora sosteneva che, da qualche tempo, non «le venivano più» i nomi delle persone. Di volta in volta il medico interpellato le aveva consigliato un tipo diverso di tranquillante. A discolpa dei medici che non la prendevano sul serio, posso citare tre ragioni. In primo luogo la situazione è sempre più facile per «l’ultimo» medico che visita un paziente (perché può rendersi conto che le precedenti ipotesi erano errate); inoltre la signora era estremamente logorroica, ansiosa, interrompeva di continuo l’esaminatore (di fatto l’ansia era conseguente al disturbo, ma poteva facilmente apparire il contrario); non è infrequente che persone ansiose o depresse, magari un po’ ipocondriache, si rivolgano al medico lamentando deficit di memoria di vario genere, non ultimo una difficoltà nel trovare le parole, a cui spesso non fa riscontro nessun dato obiettivo. Infine, il disturbo della signora con la G e la C era di tipo particolare: la signora ricordava spesso la prima lettera dei nomi che poi non era in grado di evocare per intero, un fenomeno che colpisce anche le persone sane e che è noto come «fenomeno della punta della lingua». Ne risultava un comportamento assolutamente peculiare, ben rappresentato dal seguente tentativo di denominare una persona il cui cognome era Alberti: «si chiama come quello che fa il liquore che comincia per S (dove S stava per Strega) che fanno vicino alla città con la B 107

(Benevento), che è vicina all’altra città con la C (Caserta) dove sono nata io e all’altra città con la A (Avellino) e che poi è il fratello di quella con la A che fa gli oroscopi sui giornali». Il tentativo di denominare Rita Levi Montalcini approdava a questo risultato: «è quella scienziata con la L e la M che ha vinto la N». E il gran timore della paziente era che le stesse venendo «la malattia con la A (Alzheimer)». La signora con la G e la C, che pure aveva una scolarità limitata alla quinta elementare, era molto intelligente, leggeva libri e giornali e ascoltava programmi televisivi o radiofonici a carattere culturale. Di conseguenza era al corrente di avvenimenti politici, conosceva letteratura, musica e pittura, il che ha permesso un esame accurato delle sue conoscenze semantiche, quelle cosiddette «enciclopediche» (cfr. supra, I.9.1). Insieme con un collega abbiamo seguito per quattro anni l’evoluzione del disturbo della paziente (Papagno e Capitani, 1998; Papagno e Capitani, 2001). Il disturbo nella fase iniziale (il primo anno dall’esordio) riguardava dunque la capacità di ricordare i nomi propri, tanto delle persone famose che dei familiari e degli amici, come pure delle città, delle regioni e degli Stati, quindi i nomi geografici. A fronte di questa difficoltà, la paziente era assolutamente in grado di descrivere gli avvenimenti della giornata, gli episodi del passato; era completamente autonoma nella vita di ogni giorno, faceva la spesa, usciva da sola senza mai perdersi, accudiva il padre, gravemente invalido, ricordava gli appuntamenti e gli impegni presi. Da quanto detto, appare chiaro che la signora con la G e la C non presentava disturbi di memoria anterograda (apprendeva cioè nuove informazioni, salvo i nomi propri), non aveva disturbi di memoria retrograda (ricordava gli avvenimenti del passato, i ricordi immagazzinati prima dell’insorgenza del suo disturbo) ed era integra anche la memoria prospettica (il ricordare di fare le cose). Inoltre la signora con la G e la C era in grado di fornire tutte le informazioni relative alle persone o ai luoghi di cui non riusciva a ricordare il nome. La conoscenza di personaggi famosi, il cui nome non era evocato, risultava evidente in un test che includeva le fotografie di 50 uomini e donne noti, mescolate a quelle di 50 sconosciuti. La paziente discri108

minava i volti famosi da quelli ignoti ed era in grado di riferire se il personaggio in questione fosse un attore, un politico o uno sportivo, se fosse vivo o morto, italiano o straniero. Allo stesso modo, se udiva un nome famoso sapeva fornire tutte le informazioni relative, mostrando una preservata comprensione di quegli stessi nomi che non produceva. Un altro esempio della sua difficoltà può essere il seguente, verificatosi nel tentativo di denominare Craxi: «questo qui è quello con la C, del Partito socialista, che ha un nome che non sembra proprio italiano, che ha i soldi e adesso (era il 1996) vive nel paese con la T» (esempio che dimostrava come la memoria della paziente per gli eventi passati fosse assolutamente perfetta!). GC tentava anche quelle che in neuropsicologia sono indicate con il termine conduite d’approche, cioè cercava, attraverso vari tentativi, di avvicinarsi al nome mancante, partendo dall’iniziale. Ad esempio, nel caso citato, si verificava una condotta di questo tipo: «C...Ca...Cra...Crasci! ...Betty Crasci!» Eppure la signora con la G e la C sapeva bene che Craxi era un uomo! Spesso, durante questi tentativi, la paziente commetteva degli errori sul suono finale. Ad esempio Moravia diventava Moravio, Cossiga Cossida e Alain Delon Alain Delì. Oppure utilizzava, come finali, sillabe con cui i cognomi italiani terminano frequentemente: ad esempio «elli», «otti», «ini», «etti» e questo lo faceva anche con cognomi stranieri: ad esempio Gorbaciov diventava Gorbacioski («oski» è un suono finale plausibile per un cognome russo). Fino a questo momento il deficit mostrato dalla paziente era una «anomia per i nomi propri». Sono stati descritti diversi pazienti con questo deficit, a volte limitato ai nomi di persona, altre esteso a quelli geografici. La peculiarità della nostra paziente era il risparmio della prima lettera. Purtroppo, con il passare del tempo, il disturbo cominciò ad interessare anche i nomi comuni, con un effetto di familiarità e frequenza, nel senso che la signora non era in grado di trovare il nome di un animale, frutto od oggetto, quando questo era scarsamente familiare. Il fenomeno di «prima lettera» compariva soprattutto con le categorie degli esseri viventi, rispetto agli oggetti inanimati, e anche in questo caso a volte si manifestava una conduite d’approche, il cui risultato era una 109

parola in cui uno o più suoni centrali o terminali erano sostituiti con altri. Così cammello diventava «camilla» e giraffa «giracca». Un esame del cervello eseguito con la risonanza magnetica nucleare mostrò un’atrofia, cioè una diminuzione di volume, circoscritta a una parte dell’emisfero di sinistra, il lobo temporale, maggiormente il suo polo anteriore. Al quarto anno di malattia la signora, che fino a quel momento aveva continuato a telefonare a tutte le trasmissioni televisive in cui si accennava a problemi di memoria e aveva provato ogni sorta di medicina alternativa, non poteva più fare la spesa come una volta, perché non ricordava nomi di frutta e verdura e soprattutto non ricordava a cosa corrispondessero. Il marito, che fin dall’inizio aveva sottovalutato il problema, le chiedeva ad esempio di mangiare del sedano. Ma la signora ignorava cosa il sedano fosse e allora si recava al supermercato e comprava pacchi di preparati per minestrone, certa che fra tutte quelle verdure ci sarebbe stata anche quella desiderata. Non poteva più seguire le ricette, perché quando trovava il nome di un ingrediente, ad esempio «cipolla», non sapeva cosa fosse. In netto contrasto con questo deficit, la paziente ricordava i percorsi, fissava gli appuntamenti con il medico per conto suo, si recava autonomamente alle visite e riconosceva l’esaminatore, anche se ovviamente non riusciva a ricordarne il nome. Per il resto, il linguaggio della paziente non mostrava altre compromissioni. In questa fase non riconosceva più i volti famosi come quattro anni prima: riusciva ancora a distinguere come famosi 37 personaggi su 50 (e i mancati riconoscimenti riguardavano persone poco viste sui giornali o alla televisione nell’ultimo periodo come De Chirico, Occhetto, Kissinger, Sciascia); riusciva a denominare solo tre di questi (Mussolini, Totò e Baudo) e ricordava la prima lettera di altri sette, tra cui Tomba, Pavarotti, Biagi, che all’epoca comparivano di frequente in televisione o sui rotocalchi. In particolare, riguardo a Totò, la paziente arrivava al suo nome con una strategia: «questo è del mio paese e si chiama come mio papà...Totò!». Per il resto sapeva dire poco dei personaggi di cui non ricordava il nome, anche di quelli di cui sapeva la prima lettera: ad esempio Verdi fu riconosciuto come un prete famoso, Agnelli 110

fu dato per morto (era appena morto il nipote), Craxi fu indicato come un presentatore televisivo, Sordi un cantante napoletano e Tomba un calciatore. Infine Reagan, secondo la paziente, era il primo ministro italiano ucciso dalle Brigate Rosse, il cui nome forse era Muti. Nella condizione opposta, cioè presentando il nome e non la fotografia e chiedendo cosa facesse il personaggio in questione, se fosse vivo o morto, italiano o straniero, riuscì a individuare solo 6 personaggi e confuse Rita Levi Montalcini con Madre Teresa di Calcutta. La situazione era molto compromessa anche relativamente ai nomi comuni: in un compito in cui l’esaminatore pronuncia un nome e presenta cinque figure diverse tra cui scegliere quella corrispondente allo stimolo, la signora nella maggior parte dei casi si rifiutava di rispondere; in altri commetteva errori casuali, come indicare un topo alla parola «fungo». In un questionario di memoria semantica che consiste nel pronunciare un nome comune e fornire alcune alternative verbali tra cui scegliere la risposta (ad esempio, «braccio: è un arto, un organo di senso o un oggetto?») la paziente domandava il significato delle alternative («Cos’è un arto? Cos’è un organo di senso?»). L’esame radiologico del suo cervello ora mostrava un’atrofia di tutto il lobo temporale sinistro, ma anche del destro. A questo punto il disturbo era quello che si chiama «demenza semantica». A che cosa si riferisce questo termine? Si riferisce al fatto che ad essere persa non è, come nella malattia di Alzheimer, la memoria episodica, la memoria per fatti correnti, ma appunto la memoria semantica e cioè la conoscenza che uno ha del significato delle parole, del mondo, delle nozioni apprese durante la vita, a scuola, nei libri, sui giornali. Come abbiamo visto nella prima parte del libro, la memoria semantica – la conoscenza dei concetti, oggetti, persone, fatti, significato delle parole – è un sottosistema cognitivo distinto, nel senso che un danno a specifiche regioni del cervello compromette la memoria semantica senza alterare direttamente altre funzioni cognitive. La memoria semantica è rappresentata nei lobi temporali, più specificamente nelle porzioni inferolaterali, nella loro parte più anteriore e media. I lobi temporali sono le zone del cervello che, molto grossolanamente, si tro111

vano all’altezza dell’orecchio (cfr. fig. 1a). Non è chiaro se debbano essere interessati entrambi i lobi o sia sufficiente il coinvolgimento del solo lobo temporale sinistro. Alcuni casi addirittura sembrano indicare una compromissione dopo il solo interessamento destro. La demenza semantica è la sindrome comportamentale risultante dalla degenerazione di questa parte del cervello. È come se tale parte invecchiasse prima, più rapidamente, per cause ignote. Un danno di queste aree, però, può dipendere anche da altre malattie e non solo da una degenerazione. La più tipica è l’«encefalite erpetica», causata dall’infezione del cervello da parte di un virus, l’herpes simplex di tipo I (lo stesso virus responsabile dell’herpes labiale, ma, tranquilli!, non c’è nessuna correlazione fra herpes labiale ed encefalite erpetica). Questo virus predilige le regioni frontali inferiori e temporali e può, alternativamente, colpire le aree temporali mediali (provocando in tal caso un’amnesia vera e propria) o quelle inferolaterali, producendo un deficit di memoria semantica. Una paziente con un deficit di memoria semantica causato da un’encefalite erpetica è stata descritta da De Renzi e collaboratori nel 1987. Questa signora (LP) ricordava solo eventi in relazione alla sua persona, mentre episodi di dominio pubblico (perché presentati in televisione e oggetto di discussione) le risultavano completamente ignoti. Anni prima, ad esempio, un bambino era precipitato in un pozzo: la televisione aveva ripreso il tentativo di salvataggio durato diverse ore, conclusosi tragicamente con la morte del bambino. La paziente non ricordava nulla dell’avvenimento, che era stato oggetto in seguito di molte polemiche, mentre rievocava nei minimi dettagli un incidente mortale in cui era stata coinvolta la figlia di una sua amica, avvenuto nello stesso periodo. Analogamente alla paziente con la G e la C, LP aveva perso il significato delle parole: nel giudicare se la frase «il maiale fa le uova» fosse corretta o meno, rispose che non lo era, perché il maiale è un maschio e quindi «la maiala fa le uova». Una strategia utilizzata dalla paziente per ricordare il significato delle parole era quella di cercare di ripetere frasi di uso comune in cui era inserita la parola-bersaglio e di inferire il significato da queste: ad 112

esempio, alla richiesta di chi fosse Garibaldi, si mise a canticchiare «Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba...» e poi tentò «professor Garibaldi, per caso?». A volte invece si guardava intorno nella stanza per vedere se vi era un oggetto che potesse corrispondere alla parola richiesta. Un’altra strategia può essere riassunta con l’esempio seguente: alla domanda se pesasse di più una pulce o una rana, rispose «pulce, non so cosa sia, c’è il pulcino...quindi la pulce deve essere un animale grande...senza dubbio è più pesante la pulce della rana». Credo che ora sia chiaro cosa sia l’amnesia semantica: è un disturbo caratterizzato dalla perdita della conoscenza del significato delle parole e dei loro referenti, accompagnata da assoluta padronanza delle conoscenze grammaticali e delle capacità percettive; il disturbo colpisce anche l’insieme di nozioni che formano la cultura dei membri di una comunità. La compromissione è selettiva, nel senso che sono risparmiate la memoria episodica, quella a breve termine e quella implicita. Gli aspetti del linguaggio che non riguardano il significato delle parole, e cioè le caratteristiche sintattico-grammaticali e fonologiche, sono preservate, come pure le capacità intellettuali che non richiedono l’uso di conoscenze semantiche.

II.7. BREVE STORIA DI UNA GIOVANE DONNA

Rien qu’un moment du passé? Beaucoup plus, peut-être, quelque chose qui, commun à la fois au passé et au présent, est beaucoup plus essentiel qu’eux deux. (MARCEL PROUST, Le temps retrouvé)

La Giovane Donna non aveva ancora 30 anni quando fu colpita da ictus cerebrale. La prima grave conseguenza fu una paralisi degli arti di destra associata ad un lieve disturbo afasico, cioè un’incapacità a trovare e produrre correttamente le parole, non per deficit delle strutture periferiche (bocca, lin113

gua), ma per un disturbo cerebrale che impedisce di tradurre i pensieri in parole. La paralisi scomparve nel giro di un mese e gradualmente guarì anche il disturbo del linguaggio, limitato ad omissioni e inserzioni di suoni nella produzione di parole e a qualche rara difficoltà nel trovare la parola appropriata. Durante la fase acuta, la Giovane fu molto aiutata dai suoi genitori, ma, non appena questi deficit invalidanti scomparvero, riprese una vita autonoma con i suoi figli in una città del Nord Italia. Un paio di ricercatori di un’altra città seguì regolarmente la paziente per diversi anni. In tali occasioni la Giovane viaggiava in auto per ore ed eseguiva test per tutto il giorno. Alla sera riprendeva la macchina e tornava a casa sua, dai bambini, ai quali era ovviamente legatissima: nulla poteva convincerla a non tornare da loro la sera stessa. In un’occasione le capitò di rifare questo viaggio per tre giorni consecutivi, piuttosto che fermarsi a dormire lontano, mostrando così un’assoluta autonomia e destrezza nella vita di tutti i giorni. Era inverno ed è noto che nel Nord Italia la nebbia è spesso fitta, soprattutto nelle prime ore del mattino e al calar della sera: così i medici le suggerivano sempre di evitare di compiere un viaggio tanto rischioso, ma nulla serviva a persuaderla. La Giovane aprì anche un negozio di vestiti che gestiva da sola e produceva lei stessa i capi che vendeva. Allora ero anch’io molto giovane e, quando conobbi la paziente, rimasi affascinata dal gusto e dall’originalità con cui vestiva, in particolare apprezzavo i cappelli, che abbinava elegantemente al suo stravagante abbigliamento. Facevo da poco il medico ed ero abituata ad un altro genere di pazienti, anziani, dimessi e non certo attenti ai dettagli dell’abbigliamento. La Giovane Donna curava anche il trucco: non mancava mai sulle sue labbra un rossetto vivace, nonché un tocco di fard sulle guance. Insomma, non si poteva certo considerare un’ammalata, del tipo che ero abituata a vedere, ma una persona assolutamente normale ed efficiente. Nulla del suo aspetto avrebbe potuto far pensare ad un qualche deficit. Ma torniamo al quadro clinico. La sua comprensione del linguaggio era perfetta, tranne che per frasi complesse che non potevano essere semplicemente interpretate in base al conte114

sto, come ad esempio «tocchi il cerchio bianco piccolo e il quadrato rosso grande». Certo è che, a parte qualche neuropsicologo, nessuno pronuncia frasi di questo tipo. In generale le difficoltà erano limitate a frasi lunghe, che eccedevano la sua capacità di memoria a breve termine. Di un’altra cosa però si lamentava la nostra paziente e cioè che, quando faceva la spesa, aveva la sensazione che la imbrogliassero sui resti: non riusciva a trattenere a mente anche piccole cifre e conseguentemente a fare un rapido calcolo mentale per stabilire quanto le spettasse. Infine, anche se il problema non era certamente grave, aveva tentato inutilmente di apprendere una lingua straniera, il francese, ma ogni tentativo si era rivelato un vero fallimento e non aveva «inserito» nessuna parola di questa lingua nel suo vocabolario mentale. Se ricordate quanto abbiamo detto nel capitolo sulla memoria a breve termine (cfr. supra, I.2.7), avrete già capito che si trattava di un raro caso di deficit selettivo della memoria a breve termine verbale. Tra le varie prove alle quali la paziente fu sottoposta, vi fu un test che trovo particolarmente spassoso: è quello cosiddetto delle «frasi stupide». Consiste nel presentare oralmente delle frasi, alcune delle quali sono corrette dal punto di vista semantico, altre invece totalmente irreali. Ad esempio «il mondo divide l’equatore in due emisferi: quello nord e quello sud» è ovviamente una frase stupida, ma la nostra paziente non la riconosceva come falsa, perché è indispensabile mantenere il corretto ordine delle parole per individuarla. Infatti è ottenuta semplicemente invertendo l’ordine di comparsa fra mondo ed equatore. Invece frasi altrettanto lunghe come «È vero che i medici sono un tipo di professione che è preparato nelle industrie» erano prontamente riconosciute come false. La differenza in questo secondo caso sta nel fatto che vi è un erroneo utilizzo semantico delle parole rilevanti all’interno della frase. Questo deficit di comprensione non interferiva con la vita di tutti i giorni e il problema principale della giovane rimaneva l’incapacità a «capire» (secondo quanto diceva lei stessa) anche brevi sequenze di numeri (prezzi, numeri di telefono) e a fare calcoli mentali. Le difficoltà erano molto minori quando leggeva quelle stesse se115

quenze. La difficoltà soggettiva con queste sequenze di cifre aveva un drammatico riscontro durante la valutazione neuropsicologica. La sua ripetizione di cifre, lettere o parole lette dall’esaminatore era priva di errori solo nel caso di stimoli singoli. Quindi il problema della paziente non era un deficit di percezione, cioè identificava correttamente gli stimoli, altrimenti si sarebbe sbagliata anche con stimoli singoli. Inoltre l’eloquio era articolato normalmente e quindi il problema della paziente non dipendeva da una difficoltà nel produrre la risposta. Se gli stimoli erano presentati visivamente, la paziente ripeteva sequenze più lunghe. L’intelligenza era normale, come pure la memoria visuospaziale. Ho già raccontato che la Giovane Donna non era riuscita a imparare il francese, malgrado i suoi tentativi volenterosi. I professori Baddeley e Vallar ed io provammo allora, in condizioni sperimentali, ad insegnarle il russo (Baddeley, Papagno, Vallar, 1988). Ho spiegato precedentemente (cfr. supra, I.2.3) il paradigma utilizzato per questo esperimento. Prima di tutto verificammo che ella fosse in grado di ripetere parole bi- o trisillabiche russe. Una volta accertato questo, provammo a farle apprendere otto parole russe, bi- e trisillabiche, presentate verbalmente. Dopo 10 presentazioni non aveva ancora imparato una singola parola! Al contrario, con la presentazione visiva la paziente fu in grado di apprendere sei parole su otto con 10 presentazioni. Quindi il deficit nella memoria a breve termine uditivo-verbale, in assenza di altre compromissioni cognitive, può comportare qualche problema nella comprensione dell’eloquio (frasi lunghe e complesse, in cui è determinante l’ordine delle parole per capire il significato) e nel calcolo mentale e impossibilità ad apprendere una lingua straniera. Ma questi sono, in fondo, problemi minori (tranne forse che nel caso dei prezzi) e la Giovane Donna, come abbiamo visto, conduceva una vita assolutamente normale, senza bisogno di cure particolari o di assistenza, se non quella di cui normalmente necessita una donna che lavora; tanto è vero che, dopo qualche tempo, decise lei stessa di sospendere i periodici incontri con i medici che, in ogni caso, non le avrebbero potuto restituire quello che aveva perduto. 116

II.8. IL CASO DI MR. SMITH

Le souvenir d’une certaine image n’est que le regret d’un certain instant; et les maisons, les routes, les avenues, sont fugitives, hélas! comme les années. (MARCEL PROUST, Du côté de chez Swann)

La capacità di orientarsi è un requisito fondamentale per muoversi nell’ambiente circostante. Il disorientamento spaziale costituisce frequentemente la spia di una sofferenza cerebrale diffusa, come quella che causa lo stato confusionale o una sindrome demenziale. In questi casi sono sempre presenti però altri sintomi. Disturbi dell’orientamento topografico possono essere espressione di deficit mnestici o di disturbi visuopercettivi. In una minoranza di casi il disorientamento spaziale si presenta come disturbo isolato o preminente su tutti gli altri ed è espressione di lesione cerebrale focale. Questi sono i casi che vanno sotto il nome di «disorientamento topografico puro». Due diversi meccanismi possono essere alla base di questo sintomo. In un caso, che citerò solo brevemente perché esula dall’argomento di questo libro, il paziente non riesce a riconoscere gli edifici e altri elementi caratteristici dei luoghi ed è come se li vedesse per la prima volta: si tratta di un problema di riconoscimento visivo, ma il soggetto sarebbe assolutamente in grado di disegnare il percorso o di riferirlo. Nell’altro caso, invece, si tratta effettivamente di un disturbo di memoria: il paziente riconosce gli edifici, ma non sa dove ciascuno si trovi rispetto ad un altro punto di riferimento, non sa che percorso seguire per andare da un luogo all’altro e naturalmente non sa disegnare una mappa. Questo tipo di disturbo è dovuto ad una lesione nel lobo temporale mediale di destra. Sono stati descritti alcuni pazienti, per la verità non molti, con l’uno o l’altro disturbo. Personalmente non me ne sono mai capitati, per cui racconterò il caso di Mr. Smith, descritto da Hanley e Davies (1995). 117

Mr. Smith aveva 65 anni quando fu esaminato per la prima volta. Oltre ad una difficoltà nel vestirsi, per cui non sapeva mai come «orientare» il maglione quando lo infilava, il problema principale era andare in giro da solo. Mentre passeggiava per conto suo o con il suo cane, anche in una zona dove aveva abitato a lungo, si dimenticava dove si trovasse e per altro non era in grado di utilizzare le piantine. Un fenomeno ancora più drammatico era che riusciva a perdersi anche nella sua stessa casa, dove aveva vissuto per molti anni: nella disperata ricerca del bagno, si ritrovava in una delle camere da letto, dopo aver girovagato per vari minuti. Questi problemi furono confermati quando gli esaminatori portarono Mr. Smith all’altro capo dell’ospedale: egli non fu più in grado di ritrovare la strada. Tuttavia c’erano percorsi che compieva autonomamente, come tornare a casa dall’ospedale. Qui utilizzava una strategia che faceva uso di punti di riferimento e cioè di edifici particolari, che riconosceva perfettamente. Il paziente si era costruito una serie di istruzioni che gli permettevano di andare da un punto di riferimento all’altro (ad esempio, attraversare la strada ad un certo semaforo e poi girare a destra ad un certo spiazzo), fino a che arrivava a casa. E aveva scelto proprio un itinerario che gli permetteva di seguire questi segnali specifici. Egli stesso confermava che vi sarebbero stati percorsi alternativi, anche più brevi, ma che, in quelle direzioni, tutte le case avevano lo stesso aspetto. È chiaro quindi che il suo è un disturbo del secondo tipo menzionato, cioè un deficit spaziale e non certo di riconoscimento, visto che riconosceva edifici e segnali particolari e proprio questi gli servivano come aiuto. Un problema che scoraggiava il paziente, come del resto è ovvio a chiunque si soffermi un po’ sulla cosa, era il fatto di perdersi all’interno della sua casa. Questo fatto angustiava enormemente anche la moglie, per cui Hanley e Davies raccontano di essersi recati a casa del paziente per vedere se potevano fornire qualche suggerimento su come ovviare al problema. Vi erano due situazioni in particolare che disorientavano il signor Smith. Una, come abbiamo ricordato, era quando cercava il bagno durante il giorno e finiva in una qualche camera da letto. L’altra era quando cercava il bagno, durante 118

la notte e si ritrovava a passeggiare al pianterreno (vivevano in una tipica villetta inglese su due piani). C’era un aspetto della planimetria della casa che sembrava contribuire alle difficoltà del paziente: un pianerottolo a due terzi della salita delle scale. Per andare nelle camere da letto, si doveva girare di 180° sul pianerottolo e salire 10 gradini. Per andare in bagno, si doveva proseguire diritto e salire per 5 gradini. In altre parole, una persona che sale le scale fino al pianerottolo deve poi scegliere se proseguire diritto o girare due volte a destra. A questo punto, il signor Smith non era in grado di prendere la decisione giusta e lo stesso dilemma lo assaliva quando doveva scendere le scale dalla camera da letto. Ovviamente nel tornare a casa dall’ospedale aveva la possibilità di scegliere il percorso più semplice per lui, cioè quello nel quale aveva dei punti di riferimento, ma la stessa cosa non era possibile all’interno della sua casa e per questo il compito risultava più difficile, anche se, a prima vista, potrebbe sembrare strano. In una casa si incrociano diversi percorsi con gli stessi punti di riferimento e quindi è difficile utilizzare gli stessi segnali per imparare percorsi diversi nello stesso territorio. Il suggerimento che i dottori diedero ai coniugi Smith fu quello di installare un cancelletto al pianerottolo, che, durante il giorno, impedisse l’accesso alle camere da letto e, durante la notte, bloccasse la discesa al pianoterra. Ma la signora era preoccupata che un cancelletto potesse causare incidenti seri, per una persona con i problemi di suo marito. Allora fu suggerita una porta, ma in questo caso la signora Smith si preoccupò del prezzo di una porta nuova e, probabilmente, nessuna innovazione fu effettuata nella casa dei coniugi Smith. D’altronde, a un dottore non si richiede di fare proposte circa l’arredamento della casa, ma piuttosto di guarire le malattie, cosa che non sempre (meglio sarebbe dire «quasi mai») riesce a chi si occupa di disturbi neuropsicologici, per cui alla fine diventiamo solo dei grandi dispensatori di buoni consigli pratici. Spenderò due parole per dire che questo paziente faceva male tutti i test di memoria a breve termine visuospaziale, compresi quelli di rotazione mentale. Nei test di rotazione mentale si chiede ad un soggetto di decidere se due forme so119

no versioni ruotate dello stesso oggetto o no. Uno di questi test è quello del manichino: c’è il disegno di un omino presentato frontalmente o di schiena, in piedi o a gambe all’aria e si tratta di decidere in quale mano tiene una pallina nera (nell’altra ce n’è una bianca). Per eseguire il compito bisogna ruotare mentalmente il manichino, trattenendo l’immagine in un deposito a breve termine visuospaziale. Il paziente, che non riusciva ad eseguire queste prove, aveva un deficit di quello che abbiamo chiamato taccuino visuospaziale. Non riusciva ad effettuare nemmeno percorsi noti, perché pur essendo questi disponibili in memoria a lungo termine, non li tratteneva nel magazzino a breve termine per guidare, al momento, l’azione. Ecco, anche questo sappiamo fare in neuropsicologia: individuare esattamente un deficit che non sappiamo curare. Finirò con una nota di ottimismo: solo conoscendo minuziosamente un problema, nel futuro saremo anche in grado di trattarlo con risultati soddisfacenti e infatti la ricerca sta facendo grandi progressi in questo campo.

II.9. LA NONNA SI DIMENTICA TUTTO, MA RISOLVE I CRUCIVERBA

L’indebolimento della memoria non è scancellamento d’immagini o d’impressioni, ma inabilitamento degli organi a svolgere le solite operazioni. (GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, n. 1553)

A tutti sarà capitato di avere qualche familiare che, ad una certa età, ha cominciato a perdere la memoria. Al di là della riduzione fisiologica, però, i disturbi di memoria sono una caratteristica essenziale della malattia di Alzheimer e si tratta, in genere, del primo sintomo che compare. Possiamo a questo punto porci una domanda: quali sono gli aspetti di memoria compromessi, visto che abbiamo imparato a conoscere tanti diversi tipi di memoria? 120

Nel morbo di Alzheimer i disturbi di memoria sono individuabili isolatamente solo nelle prime fasi della malattia, quando non vi è ancora il corteo di sintomi neuropsicologici (di cui non si tratta in questo libro), che contraddistinguono lo stadio avanzato della malattia. Molto spesso essi sembrano essere l’unico disturbo di cui il paziente soffre. La smemoratezza ingravescente costituisce inoltre il motivo per il quale in genere i familiari o chiunque altro porta il malato dal medico. Potrei descrivere tanti pazienti osservati negli anni, ma scelgo in particolare una signora, la Nonna, che ben esemplifica l’involuzione della memoria nella malattia. La Nonna venne la prima volta alla visita accompagnata dalla figlia e dalla nipotina, con cui passava la maggior parte della giornata. Era stata proprio quest’ultima a notare che qualcosa non andava. La Nonna, dal canto suo, negava il problema e invece attribuiva un’ansia eccessiva alla figlia e alla nipotina. Il disturbo di memoria era però ben evidente dai racconti che facevano i familiari: inizialmente aveva interessato le informazioni più difficili da ricordare, quelle che per tutti, anche per i soggetti sani, costituiscono spesso un problema, come i nomi delle persone o quelli delle medicine. A poco a poco, però, il disturbo si era esteso alle piccole vicende quotidiane, come la composizione del pasto, la collocazione degli oggetti, tutte quelle informazioni cioè che normalmente sono dimenticate nel giro di poco tempo, ma che in questo caso erano scordate ad una velocità molto maggiore, andavano cioè incontro ad un rapido oblio. La Nonna ripeteva sempre le stesse cose, si dimenticava il gas acceso, si perdeva in giro per strada ed era la nipotina a doverla guidare. Un classico della paziente era quello di riporre un oggetto da qualche parte e non ritrovarlo assolutamente più al momento in cui si rendeva necessario: si trattava molto spesso di chiavi, occhiali, assegni o, ancora più drammaticamente, di soldi che aveva nascosto accuratamente. Addirittura la Nonna un giorno aveva acquistato al mercato una piantina e, dopo poco, era uscita nuovamente, era tornata al mercato e ne aveva acquistata una seconda, identica alla precedente. La memoria a breve termine, invece, era normale (come è appunto in genere nella malattia di 121

Alzheimer), ma bastavano pochi secondi perché la Nonna dimenticasse quello che le era stato detto o che lei stessa aveva detto o fatto. Rividi la paziente dopo qualche mese: a quel punto aveva perso la capacità di rievocare anche argomenti più interessanti, come film o spettacoli ai quali aveva assistito, cioè argomenti che, per la loro originalità, dovrebbero essere facilmente individuabili. Un fatto mi colpì in modo particolare. La Nonna era stata sottoposta ad un intervento addominale in urgenza, che le aveva lasciato dei forti dolori che si estendevano all’arto inferiore. La mia visita avvenne dopo meno di una settimana dalla dimissione dal reparto di chirurgia. Camminava a fatica per i dolori e quindi avrebbe avuto un buon motivo per ricordare l’accaduto. Da me interpellata circa le cause del dolore e la difficoltà nel camminare, rispose che probabilmente era artrosi o forse era caduta, non ricordava esattamente. Su precisa richiesta circa l’eventualità che fosse stata sottoposta di recente ad un intervento, negò drasticamente che un fatto simile si fosse verificato in tutta la sua vita, meno che mai nel passato recente. Sarà chiaro ormai a tutti che questo descritto è un disturbo di memoria anterograda (la paziente non apprendeva nessuna nuova informazione) e non di memoria a breve termine, come da più parti si sente dire, purtroppo perfino dai neurologi che dovrebbero avere maggiore padronanza della terminologia. Accanto a questo deficit, ve ne era anche uno di memoria prospettica, che è il ricordarsi di fare le cose, il ricordarsi gli appuntamenti, le commissioni, le telefonate. Ad esempio la nipotina raccontava che una sera la Nonna aveva dimenticato di preparare la cena e, quando lei si era lamentata di avere fame, aveva sostenuto che avevano già mangiato. Anche la memoria retrograda non era indenne da problemi; in particolare la memoria autobiografica relativa al passato più recente appariva lacunosa. Non le era possibile ad esempio rievocare le ultime vacanze estive, ma neanche ricordava i nomi e l’età dei fratelli e neppure se fossero vivi. Perfino il passato remoto, che in genere si sostiene essere meglio preservato nell’anziano, finì per essere confuso ed episo122

di avvenuti in una determinata epoca erano spostati e riferiti come vissuti in un altro periodo. La memoria semantica, all’inizio preservata, andò incontro a deterioramento, sebbene in epoca posteriore rispetto a quella episodica: il linguaggio si impoverì e, in domande che richiedevano l’utilizzo di conoscenze del mondo, la Nonna più frequentemente mostrava quella che si chiama «titubanza cognitiva», una sorta di imbarazzo e sfiducia nelle proprie capacità, per cui cercava di evitare di rispondere. Ma due cose sapeva fare: risolveva le parole crociate e suonava il piano. La Nonna aveva passato molto tempo risolvendo cruciverba, in modo largamente stereotipato e aveva acquisito una procedura (la tecnica, con cui si risolvono): i cruciverba facevano parte della sua memoria procedurale. Queste informazioni sono conservate lungamente. Lo stesso valeva per il pianoforte che aveva imparato a suonare da bambina. Purtroppo anche quest’ultima forma di memoria, quella che, richiedendo minor controllo attentivo, riesce a sopravvivere a lungo, finisce per alterarsi e aspetti conservati per molto tempo si perdono. La memoria a breve termine risultava normale: la paziente era in grado di ricordare brevi sequenze di cifre. Tuttavia un problema in questo ambito esisteva: in realtà, l’oblio era più rapido che nei normali e l’esecutivo centrale (cfr. supra, I.3.2) appariva compromesso. La Nonna, infatti, era incapace di svolgere due compiti simultaneamente. Dal secondo anno di malattia, fui io a recarmi a casa della Nonna per le visite di controllo. La paziente, immancabilmente, mi offriva il tè: è il cosiddetto «fenomeno della facciata»: il paziente con malattia di Alzheimer, per quanto compromesso, fronteggia le situazioni rigidamente stereotipate, quali le convenzioni sociali (quindi offrire il tè ad un ospite). Invece la preparazione del tè fa parte della memoria procedurale. All’inizio la preparazione era impeccabile: sul vassoio non mancavano nemmeno il latte e i biscottini. Poi diventò sempre più laboriosa, fino a che elementi essenziali furono omessi e, da ultimo, il tè finì per essere dell’acqua fredda, alla quale la Nonna non sapeva come aggiungere la bustina. 123

II.10. SENZA PASSATO: IL FIDANZATO

Ah, no, per sé, lei, signora, sarà l’una o l’altra! Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede. [LUIGI PIRANDELLO, Così è (se vi pare)]

Il Fidanzato comparve nel nostro reparto un mattino di maggio, trasferito da un altro ospedale, dove era stato sospettato di essere una sorta di commediante. Tuttavia, i medici, a cui restava qualche dubbio, preferirono inviarlo alla nostra osservazione, prima di liquidarlo definitivamente come simulatore. Noi ci interessavamo da tempo, infatti, di quel tipo di disturbo: il deficit isolato di memoria retrograda. Di cosa si trattava? Il Fidanzato era un giovane operaio di bell’aspetto, alto, biondo, atletico, che mentre lavorava su un’impalcatura si era forse sentito male, forse aveva semplicemente perso l’equilibrio (non c’erano testimoni), fatto sta che i colleghi lo avevano ritrovato a terra, ai piedi dell’impalcatura (alta, però, non più di mezzo metro!). Il giovanotto si era subito ripreso (non si capì mai se vi era stata una perdita di coscienza), ma era apparso immediatamente in stato confusionale: non ricordava chi fosse, dove si trovasse, che lavoro facesse, insomma aveva perso l’identità personale e sembrava non avere alcun ricordo del suo passato. Giunto in ospedale, non riconosceva i familiari, inclusa sua madre, o gli amici che venivano a trovarlo. La storia personale del Fidanzato, raccontata dalla madre, era ricca di eventi peculiari. Da bambino era stato colpito da una grave malattia del sangue che lo aveva costretto in ospedale per quasi un anno e che era stata trattata con farmaci steroidei. Questi farmaci, come forse è noto, possono provocare un notevole aumento di peso. Al termine di questo periodo di cure, il povero bambino pesava 80 chili e portava la taglia 52. In conseguenza del ricovero protratto in ospedale per diversi mesi, era stato bocciato per due volte consecutive in 124

prima elementare. In seguito non era riuscito a conseguire la patente, fallendo ripetutamente la prova pratica. A quel punto aveva rinunciato, si era sentito molto frustrato e aveva concluso di non essere abbastanza intelligente. Qualche anno prima dell’attuale ricovero, il Fidanzato aveva subito un incidente sul lavoro, ma non grave, tanto che era stato dimesso dall’ospedale lo stesso giorno. Tuttavia, in seguito a tale evento il paziente aveva presentato una serie di episodi tipo «svenimenti» sempre durante il lavoro: ripetuti elettroencefalogrammi erano risultati normali. Non amava il suo lavoro perché era costretto sempre al freddo e fra la polvere. Un giorno, la ragazza con cui era stato fidanzato per cinque anni ruppe la loro relazione, lasciandolo in una condizione di depressione notevole. Da allora, il giovane era apparso irritabile, litigava con tutti e inventava ogni possibile scusa per incontrare l’ex fidanzata, che al contrario cercava di evitarlo. La madre raccontò che un giorno il figlio aveva persino abbandonato la casa senza avvisare e tre giorni dopo aveva telefonato da un’altra città, dicendo che aveva acquistato un sacco a pelo e dormiva per strada, perché aveva finito i soldi. Suo fratello andò a riprenderlo, ma a suo dire «era fuori di testa»: minacciava di fare del male alla fidanzata se solo l’avesse incontrata con un altro uomo; diceva di volersi suicidare o di voler partire per l’Africa. Una notte si alzò e ruppe alcuni oggetti in casa. Poi fu colpito da un’orticaria, senza che si scoprisse la causa. Infine cominciò a presentare episodi di claustrofobia. Da un mese aveva smesso di nominare la fidanzata e sembrava aver accettato la situazione. A parte queste reazioni anomale (ma forse normali per un innamorato deluso), il Fidanzato era descritto come un giovane tranquillo e piacevole e i suoi genitori non riferivano particolari problemi con lui. Dal momento che all’apparenza tutto era da ricondursi all’abbandono da parte della fidanzata, il paziente fu indicato dai medici del reparto come appunto il Fidanzato. Due diversi psichiatri ebbero, in momenti differenti e a distanza di due settimane uno dall’altro, un colloquio con il paziente. Con grande stupore da parte dei neurologi, non furono segnalati tratti patologici del carattere, salvo un certo 125

senso di insicurezza e di inferiorità nei confronti degli altri, a causa dei ripetuti fallimenti nella sua vita. Questi aspetti, tuttavia, non furono giudicati sufficienti per considerare il Fidanzato un paziente psichiatrico. Il giovane stringeva amicizia con facilità e la sua vita, ad eccezione degli episodi citati, era stata assolutamente normale. D’altronde, chi non ha qualche episodio nella sua storia che non possa essere considerato anomalo o a causa del quale sia stato considerato un po’ balzano da amici e parenti? Dal giorno dell’ingresso in ospedale fu chiaro che il paziente presentava una marcata perdita di memoria per gli eventi e i fatti che si erano verificati prima del trauma. La sua conoscenza semantica personale fu in parte riappresa grazie ai familiari e il paziente ad esempio alla domanda «come si chiama?» riferiva che «gli era stato detto che il suo nome era Carlo». Il paziente non appariva preoccupato per la perdita dei suoi ricordi, anzi sembrava indifferente o addirittura divertito e sorpreso da molti dei suoi tratti caratteristici: ad esempio era esterrefatto dalla presenza di un tatuaggio sulla sua spalla, che gli faceva francamente ribrezzo e che non ricordava di essersi fatto fare anni prima (come risultava invece da quanto riferivano i familiari); odiava il suo taglio di capelli, quasi rasato, ma ammetteva che se si era fatto fare un tatuaggio, evidentemente poteva anche essere uno che si pettinava in quella foggia e avrebbe anche potuto essere una persona che faceva uso di stupefacenti (cosa che in realtà risultava assolutamente falsa). Le persone che lo conoscevano sostenevano che il suo carattere era diverso dal solito: ora era estroverso, socievole, chiacchierone, a tratti però infantile, mentre era noto per essere timido, introverso, silenzioso, insicuro. Anche se totalmente amnesico per il suo passato, quando interrogato forniva alcune vaghe informazioni, a «macchia»: ricordava di essere stato molto malato da bambino e di essere stato sottoposto ad iniezioni quotidiane; ricordava di aver avuto un cane, un mastino napoletano, di cui ricordava anche il nome; non ricordava di avere praticato sport, ma diceva che vagamente gli venivano in mente «ponti da cui le persone si lanciavano con delle corde» (era lo sport 126

che al momento praticava) e questo succedeva in un piccolo villaggio vicino ad un fiume; ricordava una vacanza al mare, dove credeva di aver fatto immersioni (in realtà era suo fratello ad essere un subacqueo); ricordava sé vestito da soldato in montagna in una città italiana del Nord-Est (di cui ricordava il nome); infine chiedeva se una certa persona (che poi era il fratello che lui non riconosceva) fosse in qualche modo arrabbiata con lui (avevano avuto di recente una violenta lite). Il Fidanzato non ricordava di avere fratelli e sorelle (che in tutto erano otto!) e ovviamente i loro nomi. Al contrario, di fronte alla televisione, cominciò a riconoscere i programmi che era solito vedere, senza però potersi sempre ricordare i personaggi che vi comparivano. Non riconosceva, e di conseguenza non ne sapeva i nomi, gli amici, che venivano a trovarlo in ospedale, inclusa la famosa ex fidanzata. Non ricordava nemmeno di avere avuto una fidanzata: forse aveva avuto una qualche relazione superficiale, ma nulla di serio e duraturo. Non ricordava se avesse la patente, non sapeva se avesse avuto una moto o un’automobile. Non ricordava di essere stato testimone di nozze in diverse occasioni. Oltre a questa perdita di memoria autobiografica, quando gli si forniva il nome di una marca famosa (ad esempio di pneumatici o di cibo) non ricordava di cosa si trattasse. Non ricordava alcun evento rilevante del passato, salvo le vicende di Lady Diana e del Principe Carlo (era il 1995), non riconosceva alcun volto famoso (tranne i due appena citati), non ricordava il nome di alcun partito politico italiano e nemmeno il fatto che in quel periodo molti stavano appunto cambiando nome. La grave compromissione della memoria retrograda contrastava con la sua prestazione, del tutto normale, alle prove di apprendimento, cioè di memoria anterograda, anche di riapprendimento dei suoi ricordi autobiografici. Non mostrò mai alcuna difficoltà nel riconoscere i medici e in generale il personale del reparto e forniva sempre informazioni accurate dei test e degli esami diagnostici, a cui era stato sottoposto. Produceva anche racconti dettagliati delle visite che riceveva da parte di parenti ed amici. 127

Progressivamente, nel giro di un paio di settimane, il Fidanzato recuperò le sue memorie perse: mentre riapprendeva, acquistava un numero sempre maggiore di immagini del suo passato, grazie agli amici che gli mostravano foto delle vacanze che avevano trascorso insieme o foto del paziente stesso in qualche particolare occasione. La sua vita gli ritornò in mente chiara e vivida. L’ex fidanzata era venuta ben tre volte a visitarlo, ma tutto quello che il Fidanzato aveva saputo dire era che la trovava molto attraente, ma che non ricordava di averla mai incontrata. Infine tutte le sue esperienze originali furono ricuperate. Vi fu però un ultimo aspetto che vale la pena segnalare, alla luce di quanto discuterò in seguito. All’esame neuropsicologico del paziente (cioè durante la somministrazione di test standardizzati che valutano diverse funzioni cognitive, tra cui il linguaggio, la memoria, le abilità visuospaziali ecc.) si evidenziò un deficit nella denominazione di figure, con una dissociazione fra esseri viventi e oggetti inanimati, essendo questi ultimi meglio preservati. Il Fidanzato mostrava particolari difficoltà nel denominare frutti, vegetali e animali, rispetto a mobili, attrezzi da lavoro e mezzi di trasporto. Tale deficit caratterizzato da questa dissociazione (fenomeno che è ben noto in neuropsicologia) scomparve al regredire del disturbo mnesico (Papagno, 1998). Perché ho raccontato quest’ultimo fenomeno? Perché molti elementi, nella storia del paziente, farebbero pensare ad una rimozione dei ricordi, ad un’amnesia di origine psicogena. Eppure nessuno si sognerebbe di credere che una dissociazione esseri viventi/oggetti inanimati possa essere scatenata da fattori emotivi, né possiamo pensare che il Fidanzato fosse un esperto neuropsicologo che aveva capito che, per essere preso sul serio, doveva mostrare qualche sintomo che attrae l’attenzione dei neurologi in modo particolare! Il dibattito sull’origine di un’amnesia retrograda isolata, senza cioè deficit di memoria anterograda associati, resta aperto. Tuttavia spesso non si arriva a nessuna conclusione certa e allora non resta che concludere con Pirandello che «il paziente è colui che lo si crede». La mia personale opinione è che, indipendentemente dalla causa che ha provocato l’am128

nesia retrograda, sia essa psicogena oppure organica, l’«aver perso la memoria» deve essere una condizione tutt’altro che piacevole. Quindi l’importante sarebbe cercare di capire il meccanismo attraverso il quale si è verificata l’incapacità a recuperare i vecchi ricordi e cercare di ripristinare al più presto la funzione normale. Un altro paziente che ha riacquistato la memoria retrograda, ma in modo diverso dal mio Fidanzato, è stato descritto da Lucchelli e collaboratori (1995). Questo paziente riacquistò improvvisamente la memoria un anno dopo averla persa in seguito ad un trauma cranico, dopo la comparsa spontanea di un singolo ricordo autobiografico, sollecitato dal ripetersi di un’esperienza specifica molto simile (un intervento chirurgico). Gli autori chiamano questo fenomeno il fenomeno delle madeleines, per la somiglianza con l’emergere dei ricordi dovuto al famoso profumo dei dolcetti di Proust. Non tutti i soggetti con amnesia retrograda sono però così fortunati come il Fidanzato o come questo signore appena citato, nel senso che sono numerosi i casi descritti in cui il paziente rimane amnesico per sempre, non riacquista più quindi i ricordi. Esistono soggetti che rimangono per sempre incapaci di ricordare la propria vita passata, tanto da ricostruirsene una, totalmente diversa. È ad esempio il caso di un paziente descritto da Della Sala e collaboratori (1996) che, in seguito ad un trauma cranico lieve, presentò una marcata amnesia retrograda, ma la memoria anterograda rimase normale (acquisiva cioè nuovi ricordi). Il deficit di memoria retrograda riguardava eventi autobiografici e conoscenze apprese attraverso i mezzi di comunicazione, mentre la conoscenza enciclopedica (in pratica quella acquisita a scuola) era conservata, come pure la memoria implicita (cfr. supra, I.10). La mancanza di qualsiasi ricordo della sua vita passata fu causa di divorzio e il paziente si ricostruì una vita completamente diversa dalla precedente. In questi casi, specie se il soggetto trae degli evidenti vantaggi dalla nuova situazione, bisogna sempre escludere che si tratti invece di simulazione. In questo paziente appena citato la simulazione fu esclusa sulla ba129

se del fatto che esistono mezzi meno contorti per ottenere il divorzio! Tuttavia qualche dubbio resta, specialmente quando il trauma (in genere la causa è traumatica) è stato lieve e non sono rimaste lesioni evidenziabili agli esami radiologici. Di più facile interpretazione sono certamente i casi in cui i soggetti amnesici sono impiegati di banche in cui si sono verificati (e sono stati scoperti) ammanchi di milioni o detenuti in libera uscita, casi che si sono comunque osservati nei Pronto Soccorso degli ospedali (cfr. infra, II.15). Tanto per citare un caso di amnesia retrograda comparso su tutti i giornali, ricordo quel leghista che salì con altri commilitoni sul campanile di San Marco allo scopo di separare la Serenissima dal resto d’Italia e che, una volta arrestato dalla polizia, fu colto da amnesia retrograda. Mi domando se ora la memoria gli è ritornata o si è anch’egli ricostruito una nuova vita felice, all’ombra del tricolore.

II.11. L’AMNESIA PSICOGENA

Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? (ITALO SVEVO, La coscienza di Zeno)

Ho parlato finora dei disturbi di memoria che si verificano per danno cerebrale, ma ve ne sono altri in cui non vi è una compromissione ovvia delle strutture o comunque delle funzioni cerebrali. Queste forme includono episodi di amnesia e stati di «fuga» in seguito a trauma emozionale e disturbi di personalità multipla. L’«amnesia psicogena» può essere definita come «una perdita di memoria attribuibile a un evento o processo scatenante che non risulta in un danno o malattia cerebrale, ma che produce più oblio di quello che si verificherebbe in assenza di quell’evento o processo» (Schacter e 130

Kihlstrom, 1989). La differenziazione fra forme organiche e forme psicogene può essere estremamente difficoltosa (cfr. supra, II.10). Di solito la diagnosi si basa sulla rapidità e sulle circostanze dell’insorgenza, sulla perdita dell’identità personale (rara nelle forme organiche) e sullo stato della memoria anterograda. Spesso quest’ultima è risparmiata nelle forme psicogene. Per altro, come abbiamo visto, l’apprendimento può essere normale anche nelle forme retrograde pure su base organica. La memoria procedurale in genere è risparmiata in entrambe. Secondo Kopelman (1995a) si distinguono amnesie globali, che sono gli stati di fuga, e amnesie per una situazione specifica, in particolare un crimine. Gli stati di fuga sono caratterizzati da un’improvvisa perdita di memoria episodica, accompagnata da perdita dell’identità personale e da un periodo di vagabondaggio. L’episodio in genere si risolve nel giro di poche ore o al massimo qualche giorno, dopo il quale residua un «vuoto di memoria» per il periodo della fuga. Vi è sempre un evento precipitante stressante e spesso vi è umore depresso, comparso appena prima dell’insorgenza della fuga. Alcuni sostengono che si tratti di una fuga dal suicidio: nessuno si suicida mai durante una fuga, ma il suicidio può aver luogo dopo, quando si emerge dalla fuga. I fattori precipitanti più spesso osservati riguardano problemi coniugali, finanziari, incidenti di guerra, crimini. È comune anche che il soggetto abbia sofferto in passato di un’amnesia organica, ad esempio per un trauma cranico o un black-out alcolico1 oppure ancora per una crisi epilettica. Sembra infatti che alcuni di questi soggetti siano predisposti, in presenza di umore depresso e di fattori emotivi precipitanti, a sviluppare un’amnesia psicogena. L’altra forma coEpisodi circoscritti di amnesia associati ad abuso alcolico prolungato e a grave intossicazione. Sono di due tipi. Nel tipo «frammentario», il soggetto si accorge di aver avuto una perdita di memoria solo quando più tardi gli raccontano di un evento; ci sono «isole» di memoria preservate e l’amnesia tende a restringersi, come succede per l’amnesia retrograda nel trauma cranico. Nella forma «a blocco», il soggetto si accorge della perdita di memoria al risveglio, perché avverte un senso di «tempo perso»: l’intervallo amnesico ha un inizio preciso e raramente i ricordi sono recuperati. 1

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mune di amnesia psicogena che ha importanti implicazioni è quella relativa ad un’azione criminale. Il crimine più frequentemente associato ad amnesia è l’omicidio (di recente abbiamo letto sui giornali molti di questi casi, che in genere riguardavano l’omicidio di familiari stretti o comunque persone alle quali il criminale era unito affettivamente). In genere la perdita di memoria si verifica in tre tipi di circostanze: 1) omicidi in cui la vittima è molto legata all’aggressore (amante, moglie, figlio): in questo caso l’omicidio non è premeditato e ha luogo quando chi lo commette si trova in uno stato emozionale alterato; 2) crimini commessi da persone che abusano di alcolici e che, in quel momento, sono sotto l’effetto di tali sostanze: in questo caso le vittime non sono necessariamente persone legate al colpevole; 3) infine vi è un piccolo numero di crimini commessi da schizofrenici in fase psicotica florida. Nemiah (1979) usa un’altra classificazione e distingue tre forme di amnesia psicogena: «sistematizzata», che riguarda solo specifici eventi e tutti i ricordi collegati all’episodio; «localizzata», che concerne un periodo di ore o settimane; «generalizzata», che interessa l’intera vita del soggetto. Quest’ultimo caso converge nella fuga. Analogamente si distinguono tre tipi di fughe: amnesia con cambio di identità; amnesia con perdita di identità; regressione ad un periodo precedente della vita, con amnesia per l’intervallo della vita del soggetto, successivo a tale periodo, in pratica il soggetto dimentica un pezzo della sua vita più recente. Quest’ultimo tipo converge nell’amnesia psicogena descritta prima. Eccetto che nei casi molto limitati e probabilmente transitori di amnesia, sembra che nella maggior parte delle amnesie psicogene si perda la memoria autobiografica e che insieme vi sia un’alterazione dell’identità. L’amnesia e la fuga sono state spesso considerate congiuntamente sotto il termine di «amnesia retrograda funzionale». Il termine «funzionale», come spiegherò in seguito, è però improprio.

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II.11.1. Il quadro clinico Questo tipo di amnesia, come appena segnalato, è tipicamente retrograda e di solito si estende all’indietro a partire dall’evento scatenante incluso, interessando quindi ciò che si è verificato antecedentemente ad esso. Nella forma classica, coinvolge un episodio traumatico, come un’aggressione fisica o una violenza sessuale, un evento bellico o una catastrofe naturale; può interessare sia il colpevole che la vittima. Raramente si può manifestare anche una lieve amnesia anterograda, che riguarda l’intervallo tra il trauma e il momento in cui il soggetto giunge all’osservazione clinica, anche perché in quel momento si accorge di essere amnesico e cerca aiuto. Tipicamente i pazienti non sanno rispondere alle domande che riguardano la loro identità, il passato e le attività recenti. Il recupero avverrebbe in alcuni casi per risoluzione spontanea. Il paziente può recuperare i ricordi e l’identità gradualmente, se altre persone lo aiutano a riempire i vuoti; oppure il recupero avviene improvvisamente; altre volte, infine, il recupero ha luogo passando attraverso una fase intermedia, in cui la persona si rende conto di aver perso memoria e identità. Quando l’amnesia retrograda si esaurisce, resta un’amnesia per l’episodio stesso. Come negli amnesici organici, la memoria implicita appare conservata. Un paziente con un’indubbia amnesia psicogena è stato descritto da Schacter e collaboratori (1982). Questo paziente presentò una fuga o amnesia retrograda funzionale (come gli autori stessi la definiscono) dopo il funerale del nonno, al quale era particolarmente legato. La fuga durò quattro giorni e, durante quel periodo, il paziente aveva perso quasi tutti i ricordi autobiografici. La memoria semantica era preservata (identificava volti famosi) e vi era solo un lieve deficit anterogrado. Conservava indenni solo alcune isole di memoria autobiografica provenienti per lo più da un periodo della sua vita, che il paziente stesso descrisse, una volta recuperata la memoria, come uno dei più felici che aveva trascorso.

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II.11.2. Meccanismi dell’amnesia psicogena Quali meccanismi sottostanno all’amnesia psicogena? Una possibilità è che molti casi derivino da un difetto di acquisizione. La codificazione iniziale sarebbe difettosa e quindi ne conseguirebbe il deficit di richiamo. A supporto di questa ipotesi, potrebbe essere addotto il fatto che l’amnesia psicogena comunemente si verifica in stati di umore alterato (nella fuga l’umore è depresso), o di estrema eccitazione (nel crimine, nell’intossicazione, nella psicosi florida), in cui i processi cognitivi possono essere compromessi. Resta tuttavia da spiegare perché, allora, il paziente non riesca a rievocare anche eventi precedenti il trauma scatenante, quando l’umore non era alterato. Una seconda possibilità è che l’amnesia psicogena sia un «oblio motivato» o «repressione», come suggerito dagli psicoanalisti, viene cioè rimosso un episodio o un pezzo di vita sgradevole. Queste esperienze disturbanti sono immagazzinate nella memoria in forma integra. Dato che tali ricordi suscitano sentimenti sgradevoli, il meccanismo della repressione impedirebbe loro di raggiungere la coscienza. La repressione bloccherebbe il processo di richiamo, producendo un’incapacità a rievocare eventi stressanti. Vi è una fitta letteratura, che supporta l’ipotesi «repressiva» e che mostra che i soggetti tendono a rievocare gli eventi piacevoli più prontamente di quelli spiacevoli. Una terza possibilità è che vi sia un deficit (primario) nel richiamo. Secondo questa ipotesi, le esperienze di fuga o amnesia per un crimine potrebbero essere rievocate se il soggetto fosse rimesso nella stessa condizione in cui questi episodi si sono verificati, come nel black-out alcolico: il paziente, di nuovo ubriaco, può ricordare eventi del precedente periodo di ubriachezza per i quali, da sobrio, è amnesico. Da ultimo vorrei segnalare come sia errato utilizzare il termine «funzionale», che si incontra spesso nella letteratura meno recente. Infatti le modificazioni neuroanatomiche nelle amnesie organiche alterano una funzione e in tal senso sono «funzionali». I pazienti neurologici, a loro volta, presentano problemi con implicazioni psicologiche. Inoltre è pro134

babile che le amnesie «funzionali», come lo stato di fuga siano associate a modificazioni psicobiologiche. In realtà, come ho ricordato a proposito dei pazienti con amnesia retrograda pura, non importa se un disturbo sia organico o psicogeno: quello che importa è che, per qualche ragione, i ricordi non sono rievocati, probabilmente per meccanismi simili. Questo è il vero problema da risolvere.

II.12. L’INVECCHIAMENTO E LA PERDITA DELLA MEMORIA

È un errore pensare che con la vecchiaia si perda la memoria, che solo la memoria antica si è mantenuta e a poco a poco affiora [...], c’è una memoria terribile nella vecchiaia, quella degli ultimi giorni, l’immagine finale del mondo. (JOSÉ SARAMAGO, L’anno della morte di Ricardo Reis)

Con il passare degli anni, un calo di memoria è fisiologico, nel senso che nessuno conserva la memoria dei 20 anni e già a 40 molte persone si accorgono di qualche difficoltà nel ricordare i nomi delle persone o degli oggetti di uso non comune. Un deficit lento, ingravescente, patologico, ma limitato alla memoria (non colpisce cioè altre risorse cognitive, come invece fa la malattia di Alzheimer che interessa linguaggio, cognizione spaziale, comportamento ecc.) è indicato con il termine di «smemoratezza senile benigna». Invece, molti vecchi, assolutamente normali, si preoccupano perché la loro memoria non è più affidabile, ma, in genere, non hanno nulla di patologico. Prendiamo una persona anziana: ripete spesso gli stessi aneddoti e, quel che è peggio, li ripete ai medesimi ascoltatori; fatica a ricordarsi i nomi; pur riconoscendo i volti delle persone, non ricorda dove le ha incontrate; segna tutti gli appuntamenti e le scadenze. Questa stessa persona sosterrà di ricordare benissimo gli eventi della sua infanzia, ma 135

di avere difficoltà con episodi recenti. Non credo, invece, che nessuno riferirà di non ricordarsi più come si fa ad andare in bicicletta, o come si guida la macchina o, se gioca a carte, come si fa una partita a briscola. Ugualmente dubito che una persona normale, ancorché di età avanzata, vi riferisca di dimenticare qual è la capitale della Francia o non sappia raccontarvi cosa successe nel 1945. Esaminiamo ciascuno di questi sintomi riportati, descrivendo con maggior precisione cosa succede alle varie forme di memoria invecchiando, perché non tutte subiscono lo stesso destino. Cominciamo a considerare la memoria a breve termine. Con il passare degli anni subisce solo un lievissimo decremento, che non vale nemmeno la pena considerare. Diverso è il caso della memoria di lavoro, che, come abbiamo visto, è un’attività cognitiva che coinvolge l’immagazzinamento e la simultanea manipolazione di informazioni. L’anziano si comporta come un giovane se deve leggere un numero di telefono (o se si fa dire il numero di telefono) e poi lo va a comporre. Ha invece qualche difficoltà maggiore se gli si richiede di fare simultaneamente un altro compito. Questo potrebbe dipendere da varie ragioni: ad esempio l’anziano ha minori risorse attentive e quindi, quando le deve distribuire su più compiti, difetta della quantità necessaria; oppure un’alternativa potrebbe essere che è più facilmente distraibile, non riesce cioè ad inibire l’arrivo di informazioni non volute dall’ambiente esterno. Quindi, in sostanza, le sue difficoltà non dipendono da una carenza del circuito fonologico (o del taccuino visuospaziale), ma da una ridotta efficacia dell’esecutivo centrale che, come abbiamo visto, dipende dal lobo frontale (cfr. supra, I.3.3). Ma quando la persona di età avanzata si lamenta di avere scarsa memoria, in genere si riferisce alla memoria a lungo termine, soprattutto a eventi del passato recente, che si sono verificati qualche ora o qualche giorno prima. Una serie di studi riepilogati da Craik e Salthouse (1992) ha mostrato che se si fa in modo che soggetti di diverse età raggiungano lo stesso grado di apprendimento, allora la velocità di oblio è assolutamente equivalente. Questo risultato implica che l’immagazzinamento non è compromesso dall’età, ma gli aspetti 136

che si alterano con il passare del tempo sono la codificazione (che è l’elaborazione iniziale delle informazioni da apprendere) e/o il richiamo. Gli anziani utilizzano molto di più il contesto esterno quando devono immagazzinare un ricordo, perché i particolari aiutano a rendere l’evento più memorabile, mentre i giovani, che non hanno difficoltà nel processo di codificazione, non hanno bisogno di questo sistema di compenso. L’importanza dell’uso di una strategia nell’anziano è stata messa in evidenza con materiale visuospaziale, oltre che verbale. In una prima condizione si chiedeva ad un gruppo di soggetti di immaginare di camminare lungo una strada della propria città e di identificare i luoghi incontrati durante il percorso. In una seconda condizione si ponevano domande relative alla possibile funzione di eventuali negozi o edifici (ad esempio: c’è un panificio?). Sia i soggetti giovani che quelli anziani identificavano più luoghi nella seconda condizione, ma soprattutto le persone più avanti con gli anni traevano vantaggio da questa situazione, probabilmente perché richiedere la funzione di un negozio costituisce un supporto per il richiamo. L’età comporterebbe quindi una maggiore difficoltà nell’iniziare spontaneamente la codifica e il richiamo del materiale, per cui un aiuto esterno, che in qualche modo guidi entrambi i processi, faciliterà la memoria. Anche alla base di questa difficoltà di codificazione e di richiamo ci sarebbe la riduzione di risorse cognitive, che altro non sono che la capacità attenzionale, come abbiamo visto prima per la memoria di lavoro. Un deficit di richiamo è la causa della difficoltà ad evocare il nome di una persona nel preciso momento in cui è richiesto. Infatti ogni tanto il nome in questione salta fuori, indicando che non è un’informazione persa definitivamente. Abbiamo rilevato che un altro problema consiste nel ricordare quando un fatto è successo (anche se il soggetto ricorda l’evento stesso), o nel ricordare dove si è già vista una persona (pur riconoscendone la faccia). Nella condizione estrema, cioè patologica e quindi nell’amnesia, questo deficit si chiama source amnesia (amnesia dell’origine). In condizioni normali, cioè senza arrivare all’amnesia, la difficoltà nel ri137

cordare quando un fatto ha avuto luogo o dove si è conosciuta una persona aumenta con il passare degli anni, senza per ciò che la condizione debba essere considerata patologica. Il disturbo sembra anch’esso dovuto ad un malfunzionamento del lobo frontale, la cui funzione sarebbe quella di integrare i dettagli contestuali con gli eventi specifici, attività che si riduce con il passare degli anni. Si è detto che i vecchi possono lamentare un disturbo che poi è in relazione alla memoria prospettica (cfr. supra, I.8.4) e che riguarda in generale il ricordo di «cose da fare». Come già visto, la memoria prospettica non richiede soltanto di ricordare qualcosa, ma anche il momento appropriato in cui ricordarla, quindi bisogna che vi sia un ricordo puntuale di un’azione preventivamente pianificata. In realtà, conducendo esperimenti cosiddetti ecologici (si definiscono così perché riproducono condizioni di vita reale), gli anziani hanno ottenuto risultati migliori dei giovani. Un compito era quello di fare telefonate o spedire cartoline all’esaminatore in momenti precisi. Le persone in età avanzata annotavano su agende o calendari le scadenze e il compito. Eliminando questa possibilità, il ricordo si deve generare spontaneamente e i giovani hanno una prestazione migliore. Abbiamo riportato che i vecchi dicono di ricordare bene il passato, soprattutto quanto è successo 50-60 anni prima e domandano come mai questi episodi siano ben ricordati, mentre le difficoltà emergono con eventi appena successi. Molti fattori vanno presi in considerazione per spiegare facilmente il fenomeno. In primo luogo gli episodi in questione hanno, per chi li rievoca, una grossa connotazione emotiva, in quanto sono in genere eventi salienti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il secondo motivo è che gli episodi sono scelti dal soggetto stesso e non è stato l’esaminatore a richiederne la rievocazione: se ad una persona, che riferisce di ricordare perfettamente fatti autobiografici del 1942, io chiedessi cosa ha fatto il 3 luglio 1942 dubito che potrebbe ancora dirmi di ricordare bene il passato! In terzo luogo, non si tratta di un ricordo che realmente risale a 60 anni fa, ma di un ricordo «ripescato» dall’ultima volta in cui è stato rievocato (magari l’altro ieri!) e questo 138

materiale che continua a essere rievocato è passibile di distorsioni e quindi non vi è nessuna garanzia che rifletta effettivamente l’evento originale, anche se si è onestamente convinti che sia così. Oltre tutto spesso gli altri protagonisti dell’evento non sono presenti per confermare o ne hanno un ricordo diverso. Se provate invece a chiedere di rievocare eventi pubblici (quindi non così soggettivi come quelli autobiografici) si osserva che sono rievocati meglio quelli più recenti. Ho menzionato che esistono aspetti della memoria ben preservati nonostante l’invecchiamento. Ad esempio la memoria semantica non sembra deteriorata: i vecchi ricordano la capitale della Francia o poesie imparate a scuola, come pure fatti noti, appresi da tempo. Tuttavia gli anziani mostrano difficoltà nell’apprendere materiale semantico nuovo, a meno che non siano degli esperti in quel campo. Un ingegnere elettronico non avrà difficoltà ad apprendere nozioni relative a quell’argomento, mentre invece qualcuno, ignorante in materia, mostrerà maggiori problemi di un giovane, altrettanto digiuno di elettronica: quindi, a parità di conoscenze, il giovane apprende più facilmente. Anche la memoria procedurale non si modifica: attività come guidare (le procedure relative alla guida, perché le capacità attentive sono ovviamente ridotte), suonare il piano, ballare, non subiscono cambiamenti, ma anche abilità cognitive, come fare i calcoli o leggere, purché siano sempre stati tenuti in esercizio, rimangono integre nell’anziano sano. Esiste una prova sperimentale dell’integrità della memoria implicita (di cui la memoria procedurale fa parte): si è visto che il priming, che abbiamo imparato nel capitolo sulla memoria implicita (cfr. supra, I.10.1), non si altera con il passare degli anni. L’unico aspetto che può variare è che in condizioni di vita reale gli anziani mostrano di impiegare più tempo se devono apprendere una nuova abilità (così come abbiamo osservato per la memoria semantica), anche se poi sono in grado di raggiungere lo stesso livello di apprendimento di soggetti più giovani: un anziano impiegherà più tempo ad acquisire le conoscenze relative all’uso di un calcolatore o nell’apprendere a giocare a scacchi, oppure nell’imparare a giocare a tennis. 139

Tutto quello che ho descritto in questo capitolo è valido per l’anziano in buona salute, che conduce una vita normale, socialmente soddisfacente. È chiaro che un vecchio, anche se non demente, ma malato o depresso, non mostrerà unicamente le piccole imperfezioni che ho elencato ora (cfr. infra, II.14).

II.13. ANCORA QUALCHE ASPETTO PARTICOLARE...

Dopo avere presentato una serie di casi clinici, con le forme più tipiche di amnesie e altri disturbi di memoria, restano da esaminare ancora alcuni tipi di condizioni che può capitare di osservare o di cui si può sentire parlare di tanto in tanto. Ad esempio non è difficile sentire qualcuno che si preoccupa della sua memoria, perché gli sembra di non ricordare questo o quello, i nomi dei suoi amici, gli appuntamenti. Molto spesso si tratta di persone un po’ ansiose o magari un po’ depresse. Quindi vorrei raccontare qualcosa anche dei problemi di depressi e ansiosi. Parlando dell’amnesia retrograda, ho citato diversi film, tra cui Io ti salverò. In quel caso il personaggio era un amnesico psicogeno. Tuttavia spesso è difficile distinguere un amnesico retrogrado puro su base organica, non solo da uno psicogeno, ma anche, e soprattutto, da un simulatore. Quindi sarà il caso che io vi metta in guardia dai possibili simulatori. Se poi, come me, siete appassionati di gialli e, lo confesso, anche di cronaca nera, vi interesserà conoscere qualche particolare sulle testimonianze oculari e sulla loro scarsa attendibilità. Infine, data la frequenza dei traumi cranici da incidente stradale o sciistico o di qualsiasi altro genere, ho pensato che un altro argomento da considerare a parte sia proprio l’amnesia che consegue a trauma cranico e che appunto si chiama «amnesia post-traumatica».

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II.14. I DEPRESSI E GLI ANSIOSI

Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l’aria. (ITALO SVEVO, La coscienza di Zeno)

Il medico spesso si trova a visitare pazienti che hanno paura di indementire, perché dicono di avere disturbi di memoria. Il più delle volte risultano essere o depressi o ansiosi. Ansia e depressione s’intersecano in vario modo con la memoria. Cominciamo con il caso di un amnesico: tutti sono d’accordo, credo, sul fatto che un disturbo di memoria possa essere fonte di ansia (poniamo il caso in cui una persona dimentichi di spegnere il gas) o di depressione (immaginate cosa debba essere non riuscire a trattenere nulla). Consideriamo invece il depresso e l’ansioso: mi pare altrettanto evidente che se l’attenzione e la motivazione giocano un ruolo fondamentale nella memorizzazione e nel richiamo, un paziente depresso rischia di essere poco attento e motivato e quindi ricorderà poco. Quindi al momento della diagnosi è lecito porsi alcune domande: il deficit di memoria può essere esclusivamente dovuto a fattori emozionali o la causa è organica? Oppure, stabilito che la causa è organica, il disturbo è peggiorato da fattori emotivi? Questo problema diagnostico assume particolare importanza nell’anziano, in quanto qui siamo di fronte ad una diagnosi molto delicata: il paziente presenta i segni iniziali della malattia di Alzheimer o è semplicemente depresso? Ma anche nel caso che si tratti della prima condizione, nelle fasi iniziali della malattia il paziente è effettivamente depresso, perché si accorge dei suoi fallimenti nella vita di tutti i giorni e così la depressione finisce per aggravare i problemi di memoria. Il disturbo nevrotico, d’altro canto, può essere talmente interferente nella quotidianità da destare il sospetto di una «pseudodemenza» da nevrosi ansioso-depressiva senile. Oltre tutto, questo deficit di memoria può essere aggravato dalle terapie messe in atto per combattere ansia e depres141

sione: l’uso casereccio di benzodiazepine (i farmaci «per dormire») o la prescrizione medica di antidepressivi ad azione anticolinergica (cioè contro l’acetilcolina, una sostanza chimica, presente nel sistema nervoso, la cui riduzione sembra essere una delle cause della demenza) non fanno che peggiorare il quadro. A volte i pazienti stessi sanno di essere depressi o ansiosi e attribuiscono le loro difficoltà di memoria a questo stato. È altrettanto vero, però, che spesso i pazienti rifiutano, con un meccanismo di difesa, una causa organica, anche quando questa è evidente. Molti medici mettono in dubbio che ansia e depressione provochino realmente problemi di memoria. L’ansia, addirittura, in soggetti di livello intellettivo alto, può migliorare la memoria. Cominciamo a considerare il depresso, che è la categoria più studiata. Innanzi tutto farò alcune considerazioni sulla sua memoria in generale, che un depresso percepisce come peggiore di quanto non sia realmente. È ovvio: essendo depresso vede tutto in senso negativo. Spesso questi soggetti, testati formalmente, hanno una prestazione normale. Nei casi in cui la prestazione è effettivamente scadente, non lo è perché la memoria è compromessa, ma perché spesso tali pazienti fanno peggio di quello che potrebbero per scarsa motivazione o fiducia nei propri mezzi. Se però si esaminano gli studi che confrontano come si comportano alle prove di memoria depressi e non depressi, oppure depressi durante la malattia e dopo la guarigione, oppure soggetti normali in cui si induce depressione, tutti questi mostrano che vi sono reali deficit di memoria. Non solo, ma i problemi sono anche selettivi, nel senso che i depressi hanno una specifica compromissione per materiale a connotazione positiva o neutra, mentre fanno bene con materiale a connotazione negativa. Non vi è una simile differenza nei normali che, caso mai, mostrano la tendenza opposta. Tra l’altro i depressi in linea generale ricordano meglio eventi consoni al loro umore, non particolarmente allegro e positivo. Esaminerò ora singolarmente come si comportano le diverse forme di memoria. Nel depresso la memoria a lungo termine sembra essere compromessa più facilmente di quella a 142

breve termine. Quindi questi pazienti sono in grado di ripetere correttamente sequenze di cifre. Invece, se leggo un breve racconto al depresso e dopo un certo intervallo di tempo glielo faccio rievocare, la prestazione è scadente, indipendentemente dal ritardo, che sia stato di 30 secondi o di 30 minuti, tra presentazione e rievocazione. I depressi non riportano le unità centrali della storia, quelle che le danno un senso, come se non la elaborassero. In generale non sanno strutturare il materiale da rievocare: ad esempio, se devono apprendere una lista di parole, in cui compaiono molti nomi di animali, non organizzano le parole in categorie, come farebbe un soggetto normale (cfr. supra, I.12). Questi pazienti fanno meglio prove di riconoscimento, in cui si chiede se certe figure o parole sono già state presentate in precedenza. Questo fa propendere per un deficit di richiamo, ma bisogna considerare che in linea di massima un compito di rievocazione richiede uno sforzo cognitivo superiore e il depresso è in pratica mentalmente pigro. Infine, nella maggior parte degli studi effettuati, con l’eccezione di uno (Elliott e Greene, 1992), la memoria implicita è normale. Consideriamo ora gli ansiosi. Essi mostrano un elevato sforzo cognitivo, al contrario dei depressi, solo che il loro sforzo è poco efficiente. Un’altra differenza fra i due gruppi di pazienti sta nel tipo di memoria compromessa. Avevo detto che la memoria a breve termine è normale nel depresso. Invece questo è l’indice che più spesso si trova alterato nell’ansia. Probabilmente è dovuto al fatto che l’ansia invade, per così dire, la memoria di lavoro e quindi ne riduce la capacità. Viceversa, nell’apprendimento a lungo termine, gli ansiosi possono fornire prestazioni superiori ai normali. Un’ultima differenza riguarda il dual-task. Il compito concomitante può aumentare la velocità di prestazione psicomotoria nei depressi ma non nei controlli. Quando la richiesta di un compito aumenta, il depresso è forzato a prestare maggior attenzione, a spese di qualsiasi schema distraente. Questo test, quindi, si è dimostrato utile nel tentativo di differenziare anziani depressi da anziani con demenza iniziale, perché solo i secondi cadono nel dual-task. Vice143

versa si può prevedere che aumentando il carico attentivo, l’ansioso peggiorerà la prestazione. È però difficile confrontare i due gruppi di pazienti, perché spesso l’ansioso è anche depresso. In entrambi i gruppi di pazienti anche i pensieri intrusivi riducono la prestazione: nel depresso si tratta di pensieri negativi o, in alcuni casi, di mente vuota; nell’ansioso sono le preoccupazioni relative al risultato e alla conseguente valutazione. In conclusione, a causa delle loro preoccupazioni, ansiosi e depressi hanno una ridotta disponibilità di risorse cognitive. Gli ansiosi compensano con maggiore sforzo e qualche volta fanno anche meglio dei normali, ma la prestazione è meno efficiente, perché richiede un grosso impegno per ottenere lo stesso risultato. I depressi, invece, mostrano un’incapacità ad allocare queste risorse ridotte ai compiti di memoria.

II.15. I SIMULATORI

La strana malattia fu descritta in trentatré puntate sulla Gazzetta della bugia. (GIANNI RODARI, Il paese dei bugiardi, da Filastrocche in cielo e in terra)

Alcuni anni fa, mi capitò di essere chiamata nel reparto di psichiatria per visitare un paziente che, tuffandosi in piscina, a suo dire, aveva accusato un trauma cranico e da quel momento aveva «perso la memoria». La persona in questione era un detenuto, in libera uscita, che la sera avrebbe dovuto ripresentarsi in carcere ed era proprio questo che non ricordava. Gli psichiatri negavano che fosse una forma psicogena (cfr. supra, II.11) e volevano essere certi che non si trattasse di una forma organica, prima di liquidarlo come simulatore. Del resto l’amnesia era estremamente selettiva e vi erano vistose contraddizioni nel racconto del giovane, non ultimo il 144

fatto che ricordava esattamente le circostanze del trauma (di essersi tuffato in piscina), cosa che, come abbiamo visto, è persa sia nelle forme organiche che psicogene. Pertanto non fu difficile etichettarlo. Altre volte, però, i simulatori sono dei veri esperti ed è più difficile fare una diagnosi. In molti casi non si arriva nemmeno ad una conclusione certa e mi sono trovata spesso in disaccordo con alcuni colleghi, forse perché tendenzialmente sono più scettica e sospettosa. Innanzi tutto, perché si possa cominciare a sospettare una simulazione, bisogna che il soggetto tragga un evidente vantaggio dall’essere amnesico. Dopo di che ci sono varie opinioni su come debba apparire l’amnesia simulata da quella «vera». Una possibile differenza sta nel fatto che i simulatori tendono ad esagerare la gravità del deficit, specialmente in ambiti in cui i pazienti con danno organico non farebbero così male: ad esempio i veri amnesici mostrano una compromissione della rievocazione facilitata (cioè con aiuti) solo dopo un intervallo di tempo riempito con un compito distraente. Invece i simulatori fanno male anche non riempiendo l’intervallo. Inoltre gli amnesici avvertono il «feeling-of-knowing» (sensazione di sapere), mentre i simulatori in genere negano questa sensazione. Infine sembra che i simulatori abbiano latenze maggiori dei normali nel rispondere ai test, perché elaborano la risposta su due livelli: dapprima devono identificare la risposta corretta, poi devono escogitare quella errata. Ma questo dato mi sembra inutile, in quanto anche gli amnesici spesso mostrano latenze allungate! Tuttavia una persona intelligente, che possa trarre notevole guadagno da un’amnesia e che magari ha studiato come si comporta un amnesico, è difficile da smascherare. Per tale motivo si costruiscono e sperimentano test atti a individuare i simulatori, tra cui test di memoria implicita, non sempre efficaci (Hanley, Baker, Ledson, 1999). Descriverò ora una delle prove specifiche per dare un’idea di cosa si fa per cercare di smascherare un simulatore. Il «test di memoria a breve termine di Amsterdam» (Schmand et al., 1999) è costituito da 30 pagine-stimolo, su ciascuna 145

delle quali sono scritte cinque parole di una stessa categoria (ad esempio animali) da leggere ad alta voce e ricordare. Dopo un compito aritmetico distraente (che serve ad aumentare la percezione di difficoltà della prova, mentre invece interferisce solo minimamente con il ricordo delle parole), si presentano altre cinque parole (della stessa categoria semantica), tre delle quali facevano parte del gruppo stimolo. Il soggetto deve individuarle. Le tre parole sono quelle con la più alta frequenza di risposta della loro categoria e quindi, anche se uno non ricordasse le tre parole, la tendenza sarebbe tuttavia quella di scegliere le più familiari. Tuttavia faccio presente ai lettori che questo tipo di test è «collaudato» su soggetti normali, magari studenti di psicologia o comunque volontari, ai quali si chiede di comportarsi come se volessero simulare l’amnesia. Si dice a queste persone: «si comporti come se dovesse fare finta di essere amnesico». Mi pare ovvio che costoro, che «simulano di essere dei simulatori», non hanno la stessa motivazione, né la stessa preparazione di un vero simulatore, che vuole evitare il carcere o intascare una grossa somma di denaro e che si è anche documentato su come regolarsi. Ne consegue che non si riesce ad avere la certezza che una persona simuli. Per altro è possibile che su un’amnesia organica o psicogena si sovrapponga una simulazione, se uno scopre quanto è bello non ricordarsi nulla! A questo punto credo di aver istruito a sufficienza i possibili simulatori. Sappiano, però, che in realtà esistono altre prove di cui non ho parlato per salvaguardarci dalla possibilità di smascherare coloro che fingono, anche se personalmente ho maggiore fiducia nell’esperienza di un clinico, che nei risultati dei test-tranello.

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II.16. LA TESTIMONIANZA OCULARE

Continuo a scrutare nel fondovalle della memoria. E la mia paura di adesso è che appena si profila un ricordo, subito prenda una luce sbagliata, di maniera, sentimentale [...] che non può dirci come erano davvero le cose ma solo come credevamo di vederle e di dirle. (ITALO CALVINO, Ricordi-racconti per «Passaggi obbligati»)

Qualche mese fa ho assistito ad un episodio molto sgradevole. Mi trovavo nella metropolitana di Parigi e stavo scendendo le scale della stazione dell’Etoile, quando ho sentito una voce maschile che gridava: «Ils vont me tuer!» [mi stanno ammazzando]. Sono rimasta scossa e, mentre mi domandavo che fare, è comparso un individuo con le mani dietro la schiena (forse era ammanettato) con due uomini ai lati, ciascuno dei quali gli teneva un braccio. Andavano in direzione opposta alla mia, salivano le scale. Ricordo che l’uomo che urlava, e che forse ha ripetuto la frase una seconda volta, aveva il volto coperto di sangue. Credo anche che gli uomini ai suoi lati lo strattonassero. Altra gente saliva e scendeva le scale. Quella scena mi ha impressionato a tal punto che, quando i tre erano già lontani, mi sono accorta che non avevo memorizzato il loro aspetto. D’altronde, non credo che nessuno dei presenti possa ricordare molto di più, anche se qualcuno si è girato per seguire la scena. Chi era sul marciapiede, in attesa del treno, ha raccontato che uno scippatore aveva aggredito un’anziana per portarle via la borsa, ma due agenti in borghese lo avevano rincorso e arrestato (nonché picchiato). Se mi chiamassero a testimoniare, saprei dire ben poco: il malvivente era un giovane con i capelli neri, longilineo, forse 1 metro e 70. I due agenti erano della stessa altezza, ma non ricordo altro. Tutti e tre erano vestiti di scuro, mi pare. Un testimone sostiene che il colpevole e un agente erano orientali, ma io ricordo solo che l’uomo ammanettato aveva i capelli neri, lisci, ma non so se il tipo di capelli e il fatto 147

che qualcuno mi abbia detto che erano persone di una razza diversa stiano condizionando l’immagine che mi sono fatta. Ero troppo impegnata ad osservare il sangue sulla fronte dell’uomo, per prestare attenzione ad altri dettagli. Del resto, non ho visto le manette; posso solo dedurlo dal modo in cui teneva le braccia. Una voce che, nel corridoio di una metropolitana, urla una frase del genere, è uno stimolo emozionale sufficiente per impedire di osservare i dettagli dell’abbigliamento o del fisico delle persone, con l’intento di riferirli. Infine la scena mi ha colto di sorpresa (non sono certo abituata a episodi simili, pur prendendo quasi ogni giorno la metropolitana) e quindi non ero «preparata» ad osservare e a memorizzare. Non credo di essere una cattiva osservatrice. Il fatto è che, di fronte ad una scena violenta, molti fattori impediscono una corretta e dettagliata registrazione dell’evento: un motivo l’ho appena ricordato ed è il fattore «sorpresa», un altro è l’aspetto emozionale, nel mio caso prima la frase urlata e poi la vista del sangue; sono due elementi sui quali si focalizza l’attenzione in modo selettivo, perché si distinguono nettamente dallo sfondo relativamente comune (corridoio della metropolitana, gente che va e gente che viene) ed è ovvio che una persona cerchi di «interpretare» la scena piuttosto che osservarne i dettagli. Infine, il tempo di esposizione è molto breve: in genere quando si è testimoni di un’azione criminale, questa si svolge nel giro di pochi secondi; è difficile che un malvivente si attardi, in modo che noi possiamo osservare e registrare i dettagli della sua persona o della scena in generale. Consideriamo poi un altro elemento. Ammettiamo che lo scippatore ed uno dei due poliziotti fossero effettivamente orientali. La probabilità di riconoscerli sarebbe ancora inferiore che nel caso in cui si fosse trattato di bianchi occidentali. Immagino che a tutti sia noto il fatto che è più difficile riconoscere volti di persone di una razza diversa dalla propria. Del fatto che sia valido per tutti, non solo per i bianchi nei confronti delle altre razze, ne ho avuto un esempio qualche anno fa con la mia vicina di casa giapponese. Stava entrando nel mio appartamento mia cugina, che ha dei tratti sicuramente «di famiglia», ma che tuttavia è molto diversa da me. 148

La vicina mi conosce da tempo e non è raro incontrarsi. Ebbene, ci ha comunque confuse! Un altro aspetto che mi sembra valga la pena sottolineare è che il ricordo dipende anche dal modo in cui sono formulate le domande, che quindi possono in qualche maniera «indirizzare» la rievocazione per mezzo dell’uso del linguaggio che facciamo. Ritornando all’esempio fatto in precedenza, se mi chiedessero «ha visto un agente di razza gialla?» sarebbe diverso dal chiedermi «ha visto l’agente di razza gialla?», perché in questo secondo caso si dà per scontato che un agente orientale c’era, mentre nel caso della prima domanda rimane il dubbio. Una prova di questo fenomeno è costituita da un interessante esperimento di Loftus e Palmer (1974). Essi mostravano un filmato di uno scontro e poi chiedevano ai soggetti la velocità a cui le due auto andavano al momento dell’urto, secondo il loro giudizio. Solo che la domanda era posta utilizzando un termine diverso per ciascun gruppo di soggetti: scontro, urto, sconquasso, collisione e così via. La velocità riferita era maggiore quanto più il termine utilizzato era «violento». Mi sembra chiaro, quindi, che, malgrado si dia molta rilevanza alle testimonianze oculari, ci siano grosse possibilità che queste siano inaffidabili. Infine consideriamo cosa succede se un soggetto viene esposto a materiale fuorviante (cioè informazioni false, relative all’evento di cui si deve testimoniare). Queste informazioni sono causa di interferenza retroattiva (cfr. supra, I.13). Le informazioni fuorvianti possono essere di due tipi: «contraddittorie» o «additive». Nel mio esempio, una delle poche certezze che ho è che nessuno dei tre protagonisti era biondo. Un’informazione fuorviante contraddittoria sarebbe quella di farmi leggere una versione dei fatti, in cui si afferma che uno dei due presunti poliziotti aveva i capelli biondi. Invece l’informazione additiva si riferisce ad un dettaglio che avrebbe potuto essere presente nell’evento originale, però non c’era, ad esempio «il complice che è fuggito». Non c’era nessun complice, ma avrebbe benissimo potuto esserci ed essere scappato; non contraddice gli elementi presenti nella scena originale, al contrario dei «capelli biondi» del poliziotto, dato che ho vi149

sto solo «capelli neri». Tale materiale fuorviante è rievocato come se si trattasse di qualcosa realmente presente; come risultato, coloro che sono esposti a false informazioni tendono ad essere meno accurati nella rievocazione di un evento. È assolutamente possibile che un testimone oculare sia esposto a materiale fuorviante in attesa della sua deposizione, ad esempio commenti sui giornali, trasmissioni televisive. In passato gli studi sulla testimonianza oculare si sono concentrati sul destino dei ricordi originali, quando i soggetti fossero esposti a materiale fuorviante (Frost e Weaver, 1997; Loftus, Miller, Burns, 1978). Negli ultimi tempi invece si è dedicata molta attenzione all’esperienza soggettiva associata a falsi ricordi, cioè l’esperienza cosciente che accompagna la rievocazione di informazioni fuorvianti. L’esperienza soggettiva è giudicata come «ricordo», quando la persona si ricorda in modo vivido di aver visto un certo dettaglio nella fase di acquisizione. Invece si dà un giudizio di «sapere», quando un soggetto crede che un certo dettaglio era presente, pensa di averlo visto, ma non lo ricorda in modo vivido. I dettagli effettivamente ricordati sono quindi più vivaci, presumibilmente perché questi ricordi sono esperiti una seconda volta durante la rievocazione o il riconoscimento. Un metodo per studiare l’esperienza soggettiva del ricordare/sapere è quello utilizzato da Roediger e collaboratori (1996). Essi mostravano delle diapositive di un crimine, poi facevano leggere ai partecipanti all’esperimento un brano contenente informazioni fuorvianti e richiedevano o due rievocazioni, una immediatamente dopo il racconto e un’altra dopo due giorni, oppure una sola rievocazione due giorni più tardi. Se trascorrono solo intervalli brevi, è difficile che l’informazione fuorviante sembri ricordata, dato che non è così dettagliata da un punto di vista percettivo come l’evento recente. Quando si richiede una sola rievocazione, dopo un lungo intervallo di tempo, le informazioni fuorvianti contraddittorie – cioè le informazioni che contraddicono qualcosa visto durante un evento – sono giudicate come «sapute, conosciute». Invece le informazioni fuorvianti additive, dopo un lungo intervallo di tempo, sono più facilmente giudicate come «ricordate» (Frost, 2000). Un motivo potrebbe essere perché, con il 150

passare del tempo, anche il ricordo dell’evento stesso perderà molti dettagli percepiti e il soggetto accetterà più facilmente l’informazione fuorviante come ricordata, poiché sarà paragonabile all’evento in termini di dettagli percettivi. In generale, gli effetti delle informazioni fuorvianti aumentano con il passare del tempo, anche perché se ne dimentica la provenienza, cioè non si sa più se riguardano l’evento originale o sono state apprese attraverso qualche altra via. Questi esperimenti potranno aiutare a trovare un modo per discriminare i ricordi reali da quei «fronzoli» che ciascuno di noi aggiunge, con il passare del tempo, solo perché ha sentito i racconti di altri, sono accaduti nuovi fatti, si sono letti i giornali, tutti elementi che riducono il valore della testimonianza oculare. Mi domando anche quanto ci sia di vero, di realmente esperito in tanti ricordi della nostra prima infanzia e quanto invece dipenda dalla nostra immaginazione o da quello che abbiamo sentito raccontare dai nostri cari di quello stesso episodio.

II.17. L’AMNESIA POST-TRAUMATICA

Quello che vorrei sapere è perché la rete bucata della memoria trattiene certe cose e non altre. (ITALO CALVINO, Ricordi-racconti per «Passaggi obbligati»)

I progressi della neurochirurgia, delle tecniche rianimatorie e dell’assistenza medica in generale hanno portato a maggiori probabilità di sopravvivenza in seguito a traumi cranici, patologie invalidanti che riguardano spesso soggetti giovani. Mi limiterò a considerare le conseguenze di traumi cranici cosiddetti chiusi, in cui cioè non si ha comunicazione fra ambiente esterno e spazio endocranico (quello sottostante la dura madre, il foglietto più esterno delle meningi). Di tutti i problemi cognitivi provocati dal trauma cranico, la memoria è 151

quello più studiato. Infatti, traumi che producano lesioni cerebrali focali (cioè circoscritte a regioni specifiche del tessuto cerebrale) danno luogo, oltre che ad amnesia post-traumatica, ad alterazioni neuropsicologiche di vario tipo, in relazione alla sede e all’estensione della lesione, fino ad un grave deficit intellettivo che non sarà trattato in questo libro. In genere, dopo un trauma cranico di una certa entità, ci può essere stata perdita di coscienza di durata variabile, seguita da uno stato confusionale che può variare da pochi minuti ad ore, giorni e addirittura settimane. Il paziente è disorientato (non sa cioè né dove si trova né in che periodo dell’anno), presenta difficoltà di apprendimento (amnesia anterograda) e amnesia retrograda di grado variabile. Il termine di «amnesia post-traumatica» si riferisce allo stadio confusionale immediatamente successivo al trauma, al risveglio dal coma: in questa fase è difficile registrare e rievocare informazioni concernenti gli eventi quotidiani. Durante il periodo di amnesia post-traumatica il paziente è spesso agitato, disinibito, confabulante (cfr. supra, II.4) e la sua capacità attentiva è molto ridotta. I traumatizzati cranici possono alternare momenti isolati di lucidità con periodi di amnesia. È molto importante conoscere la durata dell’amnesia post-traumatica, perché dà un indice della gravità del trauma e predice se vi sarà un disturbo persistente di memoria. La durata tende ad aumentare con l’età. In genere un’amnesia post-traumatica maggiore di due settimane fa prevedere che il disturbo diverrà cronico. Quasi sempre l’amnesia post-traumatica è valutata con metodo retrospettivo, cioè chiedendo al paziente di descrivere il suo primo ricordo dopo l’incidente e di riferire quando ha iniziato ad avere ricordi continui, cioè a registrare normalmente nuove informazioni, consecutive. Da un certo giorno infatti il paziente comincia a riconoscere il personale dell’ospedale, a ricordare i visitatori e le attività svolte durante la giornata, la composizione dei pasti. Il metodo retrospettivo è però poco accurato, perché, ripetendo la prova a distanza, un certo numero di pazienti, persino con trauma lieve, cambia versione. Probabilmente la causa sta nel fatto che nel frattempo i traumatizzati ascoltano il resoconto di altre persone e succedono 152

fatti nuovi. Esistono invece metodi di valutazione diretta, costituiti da questionari e scale comportamentali. Ad esempio, ogni mattina, quando il medico visita il paziente, gli chiede una serie di informazioni: la data e il luogo di nascita, l’indirizzo, dove si trova e perché, cosa è successo prima e dopo l’incidente. L’interrogatorio procederà ogni giorno, identico, fino a quando il paziente non sarà in grado di rispondere correttamente. A quel punto si considererà concluso il periodo di amnesia post-traumatica. Vediamo ora quali sono le caratteristiche della memoria durante questa fase. L’oblio è particolarmente rapido e soprattutto i pazienti non utilizzano nessuna strategia per apprendere, hanno cioè un atteggiamento passivo. Ad esempio, se mi dovessero chiedere di imparare una lista di parole comprendente molti nomi di animali, imparerei a categorizzare gli elementi, cioè li suddividerei mentalmente in gruppi, cercherei insomma un metodo per facilitare l’apprendimento. Oppure potrei formarmi immagini mentali. Il paziente con amnesia post-traumatica non mette in atto queste strategie. Ne consegue che la capacità di apprendere nuove informazioni è ridotta e si osservano gravi deficit di memoria dichiarativa. Invece è preservata la memoria procedurale: i pazienti imparano a scrivere guardando la mano nello specchio e non perdono questa capacità una volta terminato il periodo di amnesia. Anche la memoria a breve termine, nella maggior parte dei casi, è normale. Viceversa il deficit di memoria dichiarativa, un’amnesia anterograda, può persistere anche dopo questa fase. Dopo un trauma cranico è frequente che il paziente non sappia rievocare eventi avvenuti prima dell’incidente: è l’amnesia retrograda, che, come abbiamo detto, può variare in durata e può talora essere associata a confabulazione. Con il passare del tempo l’amnesia retrograda si restringe e può residuare esclusivamente una lacuna mnestica di pochi secondi prima del trauma o di alcune ore, ma, nei casi più gravi, la lacuna può estendersi ad anni. Sta di fatto che per lo meno un buco di qualche secondo resta. Il recupero dei ricordi tende a procedere in relazione inversa alla loro collocazione temporale: gli eventi remoti tornerebbero alla mente per primi, i 153

più recenti per ultimi, secondo la legge di Ribot già citata nel capitolo sulla memoria retrograda (cfr. supra, I.6.1). Tuttavia, spesso, il recupero dei ricordi avviene in modo meno lineare: riemergono isole di memoria e le lacune tra questi singoli eventi sono riempite in seguito. Un’interessante osservazione sull’amnesia post-traumatica è stata fatta da Yarnell e Lynch (1970). Evidentemente alcuni neuropsicologi sono delle specie di avvoltoi ai margini dei campi sportivi, in attesa che qualcuno prenda un colpo in testa, per esaminarlo. Mi riferisco alla seguente circostanza: quattro giocatori di football americano, che avevano subito un trauma cranico durante un incontro, furono interrogati subito dopo (pochi secondi dopo), mentre si allontanavano dal campo. Nonostante lo stato confusionale, essi ricordavano gli eventi immediatamente precedenti l’incidente, ma tale ricordo svaniva nel giro di pochi minuti. Infatti, interrogati nuovamente a distanza di tre minuti, non ricordavano più quello che invece avevano riferito tre secondi dopo il trauma. Questa osservazione suggerisce che vi sia un’impossibilità ad immagazzinare informazioni in memoria a lungo termine, mentre il transitorio ricordo degli eventi (dopo tre secondi) proverrebbe dalla memoria a breve termine; oppure potrebbe essere un problema di richiamo piuttosto che di mancato immagazzinamento. Il deficit di memoria persistente nel traumatizzato cranico oltre che primario (cioè il trauma ha direttamente danneggiato le strutture implicate nei processi di memoria), potrebbe essere secondario (cioè dovuto ad esempio ad un deficit di attenzione o a depressione). Da ultimo vorrei segnalare che l’elettroshock può produrre un quadro simile all’amnesia post-traumatica. L’elettroshock provoca una perdita di coscienza temporanea. Quando il paziente riprende conoscenza, è inizialmente un po’ confuso ed è incapace di ricordare eventi immediatamente anteriori all’elettroshock; inoltre non apprende nuovo materiale.

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II.18. COME SI VALUTA LA MEMORIA

C’était en 1927 ou 1928. Je n’ai pas la mémoire des dates. (GEORGES SIMENON, Les mémoires de Maigret)

Ho raccontato qua e là alcune prove usate per valutare le varie componenti di memoria. Ora cercherò di elencarle in modo più sistematico, indicando anche come si esegue una valutazione della memoria. Vorrei fare alcune premesse. I test neuropsicologici confermano e quantificano un disturbo riportato dal paziente o dai suoi familiari. Quando si somministra una prova, di qualsiasi tipo, analogamente a quando si prescrive un esame del sangue o un esame radiologico, bisogna avere bene in mente che cosa si sta cercando. Non ha senso somministrare prove di memoria, se nulla dal punto di vista clinico può far pensare che vi siano effettivamente problemi mnesici. Questo è il primo requisito: l’evidenza clinica da confermare e quantificare. Il secondo presupposto riguarda la selezione dei test. Per esaminare la capacità di memoria di un paziente non è necessario somministrare tutte le prove esistenti, in quanto molte di esse indagano, sia pur con modalità leggermente diverse, la stessa componente. Nella scelta del test da usare sono preferibili quelli i cui dati normativi siano stati raccolti su un campione ampio di soggetti sani e in cui siano state calcolate le eventuali correzioni per variabili demografiche (età, scolarità e sesso). Inoltre i test tendono ad essere più efficaci se sono interessanti per il paziente e, in alcuni casi (ad esempio quando vi sono problemi di attenzione) quando sono brevi. Purtroppo un test breve rischia di perdere in sensibilità: bisogna quindi, di volta in volta, valutare qual è il problema minore. Un secondo criterio è quello di preferire test che esaminano una funzione mnesica in modo puro: ad esempio la memoria a breve termine separatamente da quella a lungo termine. Esistono tuttavia prove globali, che esaminano contempora155

neamente aspetti diversi della memoria ed anche l’attenzione (ad esempio la Wechsler Memory Scale), ma l’utilità di queste scale, a mio giudizio, è dubbia. Diverso è il caso di batterie comportamentali (come il Rivermead Behavioural Memory Test), che includono compiti ecologici, come ricordarsi di riprendere un oggetto al termine del test o memorizzare un percorso, o fissare un appuntamento, situazioni che si verificano nella vita di tutti i giorni, al contrario dell’apprendimento di liste di parole, che è un’evenienza rara, se non inesistente, nel quotidiano. Questi test comportamentali sono utili per due motivi: servono ad impostare una riabilitazione (perché permettono di individuare i problemi concreti dell’amnesico, su cui incentrare il trattamento) e a valutarne i risultati (esistono infatti forme parallele dello stesso test, così che si possono rilevare eventuali variazioni a distanza nel corso del trattamento). Vediamo ora quali sono le ragioni per esaminare in laboratorio la memoria. Ho già indicato due motivi: quantificare il disturbo clinico e inquadrarlo esattamente allo scopo di impostare una riabilitazione mirata, e controllarne i risultati a distanza di tempo. Esiste una terza ragione ed è quella medico-legale. A volte bisogna stabilire se un soggetto che ha avuto una lesione vascolare, o di altro genere, è ancora in grado di lavorare o se la sua memoria è compromessa a tal punto che non si può più fare affidamento sulle sue capacità. Altro è il caso in cui vi sia stato un incidente con trauma cranico e quindi, da un punto di vista assicurativo, bisogna stabilire esattamente quali sono gli esiti del danno. Questi ultimi sono spesso i casi più delicati, anche perché si possono incontrare i simulatori. Infine la memoria può essere indagata a scopo di ricerca. In questo caso, dopo una valutazione di base, che include i test che saranno citati in questo capitolo, si somministreranno delle prove ad hoc, a seconda dell’aspetto che si intende esaminare in dettaglio e della teoria che si vuole sostenere o confutare.

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II.18.1. Un caso di amnesia Per raccontare le prove di memoria, utilizzerò il seguente procedimento. Immaginerò che si presenti un ipotetico paziente del quale devo fornire una diagnosi il più possibile corretta. A questo proposito, mi servirò di un paziente come al solito proveniente da un libro, The Bourne Identity di Robert Ludlum, tradotto in italiano come Un nome senza volto e di cui di recente è uscita la versione cinematografica, per altro molto diversa dall’originale. Il procedimento da seguire è quello di raccogliere una storia dettagliata del paziente, l’anamnesi, dai suoi familiari o da qualcuno che lo conosce bene (visto che il soggetto stesso non ricorda!). Ma quel personaggio amnesico di cui sto parlando (e che per semplificare chiamerò Cain) è solo: è stato ripescato in mare, al largo di Marsiglia, con alcune pallottole in corpo. Anzi ci viene fatto sapere che il proiettile «doveva aver toccato le regioni fibrose del talamo e dell’ippocampo» e quindi il medico riferisce che «il danno è stato anatomico», ma sicuramente pare esserci stato anche un trauma psicologico (aggressione violenta, naufragio). Quali sintomi clinici scopriamo? Innanzi tutto il paziente non ricorda la sua identità, il che si ritrova nelle forme psicogene, mentre è rarissimo, secondo alcuni inesistente, nelle forme con danno cerebrale. Cain ha una gravissima amnesia retrograda: non ricorda nulla della sua vita passata, ma, in modo straordinario per un soggetto con una lesione sia dell’ippocampo che del talamo, non pare avere alcun deficit di memoria anterograda (la solita sindrome da libro, che abbiamo ritrovato in tutti i pazienti degli scrittori). Ricorda tutto ciò che legge e che il medico gli spiega. Non ha disturbi di intelligenza e mostra grandi capacità deduttive. La sua memoria semantica è intatta: parla diverse lingue, riconosce oggetti e sa come usarli. La memoria procedurale (usa armi ed è abile nella lotta) è normale. Se mi si presentasse un paziente del genere, avrei serie difficoltà di diagnosi. Comunque farei quanto segue. Esaminerei la memoria a breve termine che mi aspetto essere normale. La componente verbale si 157

valuta con lo span di cifre, cioè si osserva la sequenza di cifre di lunghezza maggiore che il paziente è in grado di riprodurre correttamente (cioè riportando le cifre nello stesso ordine) subito dopo la presentazione. Alternativamente posso utilizzare parole bisillabiche. La memoria a breve termine (span) visuospaziale si misura con il test di Corsi. Su una tavola di legno sono incollati nove cubetti. L’esaminatore li tocca secondo una certa sequenza, cominciando con sequenze di due, per aumentare progressivamente il numero. Lo span corrisponde alla sequenza più lunga, che viene riprodotta correttamente dopo la presentazione. Cain dovrà poi effettuare test di apprendimento per valutare la memoria anterograda (cfr. supra, I.7.2), quali liste o coppie di parole e brevi racconti, per la componente verbale; apprendimento di una sequenza, riproduzione ritardata di una figura complessa, per la componente visuospaziale. Un amnesico come si deve, con lesione di ippocampo e/o talamo, avrà una prestazione scadente o nulla, ma temo che Cain, visto quanto risulta clinicamente, otterrà punteggi nella norma. Per la memoria retrograda, utilizzerò i questionari di cui ho parlato nel capitolo sulla memoria retrograda (cfr. supra, I.6.1) commentando anche sul fatto che vanno continuamente rinnovati, oppure un test di riconoscimento di volti famosi. So già dal quadro clinico che Cain non riconosce volti di persone note. Ho dei dubbi sul questionario, perché dal libro risulta che progressivamente Cain ricorda eventi del passato e quindi non so prevedere la prestazione. Infine anche un questionario di memoria autobiografica sarebbe un buono strumento per valutare gli aspetti retrogradi, ma non ho familiari di questo paziente per controllare le risposte; anche se, a dir la verità, credo che non risponderebbe ad una sola domanda. L’esame della memoria semantica non farà che confermare quanto è già evidente dal quadro clinico: Cain sarà in grado di denominare figure e oggetti, capirà il significato delle parole e saprà effettuare associazioni fra figure; in un test noto come «test delle palme e delle piramidi» si mostra ad esempio una piramide con due figure, una di un abete e una di una palma e 158

il soggetto deve scegliere quale dei due alberi si abbina alla piramide. Non esiste invece alcun test standardizzato per la valutazione della memoria implicita, ma solo le prove sperimentali che ho descritto nel capitolo sulla memoria implicita (cfr. supra, I.10). Infine la valutazione della memoria dovrebbe essere sempre accompagnata da un esame della struttura e della funzione cerebrale. Il danno cerebrale può essere valutato con la tomografia computerizzata (che forse molti conoscono con la sigla TAC encefalo) o, più dettagliatamente, con la risonanza magnetica nucleare (RMN encefalo). Un’alterazione funzionale può essere messa in evidenza con la tomografia ad emissione di singoli fotoni (SPECT) o, in genere a scopo di ricerca, con la tomografia ad emissione di positroni (PET) o la risonanza magnetica funzionale. Questi esami possono mostrare un alterato funzionamento di regioni cerebrali non danneggiate strutturalmente. Il nostro paziente Cain non ha fatto nessuno di questi esami, ma abbiamo la certezza della sede lesionale perché la descrive il medico che estrae il proiettile. Il caso è assolutamente unico e ho l’impressione che il medico si sia sbagliato e a talamo ed ippocampo non sia successo proprio nulla, o questo caso rivoluziona le teorie sull’apprendimento e il ruolo di queste strutture. Propendo per la prima tesi e mi sentirei di classificare Cain come affetto da amnesia psicogena da stress emotivo. Lo stesso deve avere pensato il regista, che ha evitato di provocare inutili lesioni ippocampali o talamiche al suo personaggio, ma si è limitato a conficcargli due pallottole nella schiena.

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II.19. COME SI CURA LA MEMORIA

La memoria appartiene da sempre al mestiere di medico. Esso si è sempre esercitato tra sintomi e storie. I due momenti fondamentali dell’atto ippocratico, cioè del rapporto «duale» tra medico e paziente, erano l’anamnesi, la storia del passato del malato detta da questi e ascoltata dal medico, e la prognosi, la storia del futuro del malato, detta a questi dal medico. (GIORGIO COSMACINI, Il viaggio del tempo nella memoria)

Forse questo è il capitolo che il lettore aspetta con maggiore interesse, mentre io, al momento di scriverlo, sono particolarmente ansiosa, perché temo che il lettore resterà deluso. Tuttavia non posso tirarmi indietro e allora metto le mani avanti. Quando lavoravo in ospedale, ricordo che ero ossessionata dall’idea che i parenti dei ricoverati potessero rivolgere ai conoscenti la frase fatidica: «ormai è ricoverato da giorni, ma i medici non gli fanno niente». È vero, spesso un neurologo può dare l’impressione di non fare nulla, perché per i familiari degli ammalati «fare qualcosa» significa prescrivere delle medicine che guariscano il paziente. Per risolvere il problema mi ero preparata un discorsetto che, nel caso di un’ischemia cerebrale, suonava più o meno così: «l’ictus non è come la polmonite per cui uno prende gli antibiotici e passa. Noi dobbiamo solo controllare che non intervengano complicazioni, che la pressione non si alzi, che il cuore funzioni bene, che non venga un’infezione, che non si formino piaghe. Appena possibile, inizierà la fisioterapia. Nel frattempo il paziente farà degli esami per studiare i fattori di rischio». Non vi dico la mia frustrazione quando, dopo aver pronunciato questo discorso, sentivo il parente in questione parlare al telefono e dire «ah, non so; i medici non fanno e non dicono niente». È inutile, se non si somministrano medicine (e l’aspirina o simili non sono abbastanza farmaci), il 160

risultato sarà lo stesso. Racconto questo perché anche con i disturbi di memoria, i medici non fanno niente, secondo il concetto del parente medio. Medicine per curare la memoria non esistono, né esistono farmaci che la migliorino. Speriamo in futuro, ma al momento questa pillola tanto attesa è lontana da venire. Quindi vediamo che cosa è possibile fare, ora, partendo dalle condizioni più lievi per arrivare alle amnesie gravissime. Innanzi tutto esistono persone che dicono di dimenticare un sacco di cose, ma che, come abbiamo detto, non sono affatto malate. Tra gli individui e nel corso della vita di un singolo individuo, ci sono situazioni protette, in cui una persona deve ricordare meno cose e quindi ha anche meno problemi. Quando abbiamo cominciato a dimenticare? Nel momento in cui sono aumentati i nostri impegni, non c’erano più i genitori ad organizzarci la giornata, la vita è diventata meno metodica. Un ragazzo che va a scuola, studia, pratica qualche sport con cadenza regolare e vive in famiglia ha molto meno da ricordare di un professionista che lavora e vive per conto proprio, o che deve occuparsi della maggior parte degli aspetti organizzativi della famiglia. Costoro, con maggiori impegni e con una vita non regolata secondo ritmi precisi, non possono fare altro che ricorrere ai mezzi dettati dal buon senso: comprarsi un’agenda e segnarsi gli appuntamenti. Un altro sistema per ricordare è quello di fare uso di mnemotecniche, tipo quelle che si usavano a scuola (Della sfera il volume qual è? Quattro terzi pi greco erre tre). Anche per me non è facile ricordare con precisione alcuni dettagli dell’anatomia del sistema nervoso e quindi ricorro a molti trucchetti per non dimenticare le cose che insegno: tra questi, ad esempio, vi è quello che utilizzo per ricordare la posizione dei forami che mettono in comunicazione le cavità ventricolari (all’interno del cervello) con lo spazio subaracnoideo (all’esterno del cervello e del midollo spinale, ma sotto i due primi foglietti delle meningi) e che si chiamano forami di Luschka e di Magendie. La L di Luschka indica che è laterale (iniziale di entrambi) e Magendie è mediale (iniziale M per entrambi). Un’altra tecnica usata da molte persone è quella di formarsi delle immagini mentali. Un 161

ipermnesico, cioè un soggetto con una capacità di ricordare un numero molto maggiore di informazioni rispetto al normale, raccontava di utilizzare una strategia di questo tipo, se doveva ricordare un elenco di numerosissime parole: immaginava un percorso nella città in cui abitava, dove in ogni punto di riferimento era nascosto un oggetto, ad esempio, uscendo di casa, c’era la cassetta delle lettere e lì «collocava» idealmente il primo oggetto, poi c’era l’aiuola e lì metteva il secondo e così via. In seguito per richiamare tutti gli elementi ripercorreva il tragitto e recuperava gli oggetti lasciati. Mi hanno raccontato che anche gli attori di teatro utilizzano una strategia analoga per ricordare le loro battute. Dopo una prima lettura del testo, in cui esaminano quello che devono dire, imparano a ricordare che quando sono in un certo punto del palcoscenico, devono pronunciare una determinata frase, poi quando spostano il piede destro in una certa posizione, devono dire quell’altra cosa e così via. Queste mnemotecniche (filastrocche, iniziali di parole, immagini, ma anche storie assurde in cui si inseriscono gli elementi da ricordare, percorsi) sono accomunate dal fatto che il soggetto stesso le apprende e le applica mentalmente, non sono generalizzabili, nel senso che servono per ricordare solo una cosa in particolare, e non migliorano la memoria: sono quindi dei metodi interni (generati mentalmente) attivi (è il soggetto a metterli in atto). Esistono poi sistemi pur sempre attivi, perché prodotti dalla persona stessa che deve ricordare, ma cosiddetti di adattamento o esterni. Uno è quello di introdurre una novità nel proprio aspetto per richiamare l’attenzione: ad esempio cambiare il lato in cui si porta l’orologio, piuttosto che scriversi i messaggi sulla mano (ricordate Leonard di Memento?), annodarsi qualcosa ad un polso; inutile dire che può benissimo capitare che vi sia una sorta di adattamento sensoriale a questa novità, per cui il segnale non attiva il ricordo, oppure soddisfa il suo ruolo di avvertimento, solo che non si sa più che cosa si deve ricordare. Questi sono i metodi più artigianali, ma attualmente uno ha a disposizione strumenti tecnologici molto sofisticati: a partire da sveglie e contaminuti (altrimenti come si farebbe a non bruciare arrosti e torte?) per arriva162

re ad una serie di ausili elettronici, di piccole dimensioni, tanto da essere facilmente utilizzabili (perché possono stare in tasca o in una borsetta) come agende elettroniche, dotate di suonerie per segnalare messaggi preventivamente scritti per ricordare in futuro (memoria prospettica!) o di suonerie particolari che nel corso della giornata possono attivarsi anche ogni 10 minuti. Questi strumenti possono avere un indicatore, che segna una cifra; ogni volta che si ferma l’allarme, la cifra segnalata si incrementa di uno, ritornando a zero a mezzanotte; quindi si tratta di un ottimo mezzo per assumere medicine ed anche per controllare quante ne sono state prese al giorno. Addirittura si possono programmare suoni diversi, secondo la natura dell’informazione da ricordare. Questi ausili esterni, che sono un po’ come delle «protesi», possono essere utili ad una persona con molti impegni, che teme di dimenticare, ma anche a soggetti con lievi disturbi di memoria, purché in grado di gestire direttamente tali ausili. È chiaro che pazienti come HM (cfr. supra, II.2) non possono servirsi di tali strumenti, perché dimenticheranno di usarli, magari spegneranno l’allarme senza leggere il messaggio, non ricorderanno i comandi da utilizzare e così via. Quindi, prima di consigliare l’uso di questi ausili, bisogna considerare diversi fattori come l’età (le persone anziane si adattano malvolentieri a strumenti elettronici, preferendo normali agende), il livello d’istruzione, la consapevolezza dei disturbi di memoria (provate a convincere un anosognosico ad utilizzare ausili mnemonici: negherà di averne bisogno!), la gravità del disturbo anterogrado e di quello retrogrado, lo stato della memoria implicita, sia per quanto riguarda la conservazione della capacità procedurale passata che per quanto concerne la capacità di acquisire nuove abilità. Inoltre bisognerà valutare quale fra tutti gli strumenti che ho elencato è più adatto a quella particolare persona, convincerla dell’utilità e insegnargliene, gradualmente, l’uso. Quelli elencati finora si chiamano ausili mnemonici esterni attivi e possono essere utilizzati tanto da persone sane, che da pazienti con amnesia lieve o moderata, purché altre funzioni cognitive (linguaggio, intelligenza ecc.) siano integre. 163

Prima di passare a descrivere le tecniche di rieducazione per i pazienti più gravi, che non possono servirsi di questi strumenti, vorrei smentire un luogo comune, che sostiene che la memoria va tenuta in esercizio per non essere persa. In realtà svariati esperimenti hanno dimostrato che esercizi ripetuti migliorano la prestazione con quello specifico materiale che è stato esercitato, ma non incrementano le prestazioni di memoria in generale. I metodi di rieducazione di qualsiasi abilità cognitiva sono distinti in metodi restitutivi e sostitutivi. Nel primo caso si cerca di ristabilire i processi danneggiati, nel secondo caso si cerca di modificare la prestazione per aggirare il problema, in pratica per ottenere lo stesso risultato seguendo un’altra via che sfrutta le funzioni integre. In questo secondo caso si ritiene, seguendo una teoria che risale a James (1890) e poi a Lashley (1938), che le abilità mnestiche non sono modificabili, mentre quello che può migliorare è la prestazione in certi compiti. In ogni caso, gli obiettivi di una riabilitazione sono due: riparare i processi di memoria danneggiati o alleviare i problemi funzionali ad essi associati. L’approccio restitutivo si basa sulla convinzione che, stimolando i meccanismi di memoria compromessi, si produrranno modificazioni neurali che possono rendere più rapida la guarigione spontanea. Un recupero spontaneo dell’alterazione funzionale temporanea (cioè senza danno delle strutture, ma solo della funzione) è possibile ad esempio nei primi sei mesi dopo un trauma cranico e, secondo alcuni, anche se non vi sono prove sperimentali, potrebbe essere facilitata dalla stimolazione (Dombovy, Sandok, Basford, 1986). I metodi restitutivi si basano su esercizi ripetuti (dei cui limiti abbiamo già parlato) e sull’uso delle mnemotecniche, che hanno gli stessi limiti degli esercizi. Per quanto riguarda il secondo tipo di intervento, quello sostitutivo, mi limiterò a ricordare che, come ho fatto osservare più volte in questo libro, anche gli amnesici più gravi hanno alcune componenti di memoria intatte, ad esempio la memoria implicita (presentano l’effetto di priming e apprendono abilità procedurali motorie, percettive e cognitive). Glisky e collaboratori (1986) hanno proposto l’esecuzione al calcola164

tore di un metodo chiamato dei «vanishing cues», cioè degli aiuti in estinzione. I pazienti normalmente sfruttano aiuti parziali. Questo fatto è stato impiegato per insegnare compiti e argomenti complessi che possono essere utili nella vita di tutti i giorni. La tecnica di allenamento consiste nel dare tutta l’informazione necessaria perché il paziente fornisca una risposta corretta e poi, gradualmente, ridurla, man mano che si procede con l’esercizio. Tuttavia questo apprendimento può essere estremamente lento e oltre tutto il paziente non sempre riesce ad accedere al materiale appreso su richiesta o in una situazione nuova. Significa che quello che apprendono durante l’esercizio, lo sanno solo in quella condizione, in quel contesto e non riescono a trasferirlo in un’altra situazione, quando dovrebbero accedere spontaneamente. Questo metodo poi serve per fare apprendere materiale specifico, ad esempio elementi di base sull’orientamento (che giorno è ecc.) o sul programma della giornata. Non essendo trasferibile o generalizzabile, ci si limita a far apprendere informazioni utili per il paziente. Un’altra tecnica di questo tipo è la cosiddetta «spaced retrieval» (rievocazione intervallata), in cui semplicemente si allunga, gradualmente, l’intervallo di tempo fra presentazione del materiale e rievocazione. Infine ci sono amnesici più gravi, per i quali esiste l’adattamento esterno passivo, che comprende il cosiddetto orientamento nella realtà. Ad esempio si mettono delle etichette su barattoli e contenitori, perché il soggetto possa facilmente trovare quello che cerca, ma anche sulle porte delle stanze per facilitare l’orientamento; vari strumenti sono dotati di allarmi: ad esempio ci sono automobili che segnalano portiere aperte o che suonano fino a che non si è allacciata la cintura di sicurezza; il segnale può essere solo acustico, o accompagnato da un segnale visivo (ad esempio una scritta); addirittura si consigliano appartamenti con ampie vetrate in modo che i pazienti possano vedere gli alberi all’esterno, l’abbigliamento delle persone e individuare per lo meno la stagione e il momento della giornata. Quindi con un amnesico grave, possiamo solo cercare dei metodi per semplificargli la vita. 165

Vorrei fare una riflessione finale, relativa a come i «normali» possano migliorare la memoria, o per lo meno il ricordo di alcune informazioni. L’esercizio ripetuto aiuta a ricordare meglio una nozione e solo quella, ma, come ho segnalato, non migliora la memoria in generale. Parlando di apprendimento, si è ricordato che alcuni autori hanno attribuito un certo valore ai livelli di elaborazione per il passaggio del materiale nel magazzino a lungo termine. Anche se, in linea generale, questa teoria è superata, resta il fatto che, quanto più il materiale da immagazzinare è elaborato, tanto maggiori sono le probabilità di rievocarlo. Faccio un esempio che riguarda la mia esperienza di docente: quando, da studente di medicina, preparavo neuroanatomia, ho memorizzato una serie di nozioni per superare l’esame. Ne ho dimenticate gran parte, che ho recuperato facendo il medico, ma limitatamente agli aspetti che, di volta in volta, mi servivano per interpretare la patologia. Già queste nozioni (utili per scopi pratici) sono risultate più facili da ricordare. Poi, ho cominciato ad insegnare questi argomenti: allora non solo ho dovuto riconoscere le cose studiate, ma ho dovuto trasmetterle ad altri e quindi tali informazioni sono passate attraverso un ulteriore livello di elaborazione, studiate, capite, prodotte. La ripetizione degli argomenti, il loro approfondimento, la produzione hanno fatto sì che, a parte qualche dettaglio, per il quale mi servo di mnemotecniche, la neuroanatomia si sia depositata saldamente nel mio magazzino di memoria. Il fatto poi di dovere rievocare di continuo questa materia (ogni anno per le lezioni e gli esami) costituisce un costante ripasso. Noi «normali» quindi abbiamo a disposizione mnemotecniche, agende, elaborazioni del contenuto di un ricordo: in fondo possono bastare per ricordare le cose veramente indispensabili per la nostra vita, che non sono moltissime.

Epilogo

Ho finalmente terminato di raccontare, nel modo più semplice di cui sono capace, come funziona questa facoltà della nostra mente, per lo meno nei suoi aspetti essenziali. Nel frattempo ho giocato come avevo proposto all’inizio: ho cercato di individuare quanti più film e quanti più scrittori abbiano parlato di memoria. Per la verità, ce ne sono molti altri e mi sono rimaste nella testa decine di frasi che, ahimè, non avrei saputo dove collocare. Ora tocca a voi. Spero di essere stata comprensibile e mi auguro che un giorno noi neuropsicologi riusciremo ad essere di maggiore aiuto per i nostri pazienti.

Ringraziamenti

Desidero ringraziare Eduardo Rescigno e mia madre, che hanno letto più volte ogni capitolo, assumendo il ruolo del lettore ingenuo; mio padre, che ha commentato alcuni brani; e il professor Alan Baddeley, che mi ha insegnato a studiare la memoria. Un ringraziamento va anche al professor Denes, per avermi segnalato il libro Codice a zero.

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Glossario dei termini essenziali

Absent-minded. Lapsus che si verificano durante l’esecuzione di un’azione, ad esempio aprire il frigorifero e non ricordarsi più cosa si doveva estrarre. Amnesia. Perdita di vecchi ricordi e/o incapacità ad acquisirne di nuovi. – anterograda: perdita della capacità di acquisire nuovi ricordi a partire dal momento di insorgenza della patologia. – globale: perdita della memoria sia retrograda che anterograda. – transitoria: come la precedente, ma temporanea (meno di 24 ore). – post-traumatica: stadio confusionale immediatamente successivo al trauma, al risveglio dal coma; in questa fase vi è difficoltà nel registrare e rievocare informazioni concernenti gli eventi quotidiani. – retrograda: perdita della capacità di rievocare ricordi precedenti l’insorgenza della patologia. Anosognosia. Mancata consapevolezza di malattia. Codificazione. Elaborazione iniziale di uno stimolo. Confabulazione – momentanea o provocata: fugaci errori di intrusione o distorsione prodotti da un soggetto quando gli si chiede di rievocare qualcosa. – spontanea o fantastica: produzione persistente e spontanea di memorie erronee da parte di un soggetto. Dual-task. Compito doppio. Prova utilizzata per esaminare il funzionamento dell’esecutivo centrale, serve per valutare la capacità di eseguire due compiti simultaneamente.

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Effetto – di lunghezza delle parole: fenomeno per cui la rievocazione di parole brevi (ad esempio bisillabiche) differisce da quella di parole lunghe (ad esempio quadrisillabiche). – di somiglianza fonologica: fenomeno per cui la rievocazione di stimoli simili per suono differisce da quella di stimoli dissimili. – primacy: fenomeno per cui i primi eventi di una serie sono rievocati meglio dei successivi. – recency: fenomeno per cui gli eventi finali di una serie sono rievocati meglio dei precedenti. Inner scribe. Componente della memoria a breve termine visuospaziale che si occuperebbe di «rinfrescare» il contenuto del magazzino a breve termine visuospaziale (visual cache). Interferenza (o inibizione) – proattiva: fenomeno per cui i ricordi più vecchi interferiscono con l’apprendimento di nuovo materiale. – retroattiva: fenomeno per cui l’apprendimento di nuovo materiale inibisce la rievocazione di ricordi antecedenti. – liberazione dall’–: fenomeno per il quale cambiando una dimensione del materiale da apprendere (ad esempio le sue caratteristiche semantiche) si elimina l’interferenza proattiva. Memoria. Capacità di immagazzinare informazioni alle quali poter attingere quando necessario. – a breve termine: sistemi di memoria a capacità limitata, coinvolti nella ritenzione temporanea (dell’ordine di secondi) di materiale vario (verbale, visivo, spaziale). – a lungo termine: sistemi di memoria a capacità elevata (teoricamente illimitata), coinvolti nella ritenzione permanente di materiale vario. – anterograda: insieme dei ricordi che il soggetto acquisisce da un certo punto di riferimento temporale in avanti. – autobiografica: insieme dei ricordi della propria vita. – dichiarativa o esplicita: memoria che richiede una rievocazione consapevole, risponde alla domanda sapere cosa. – di lavoro: in senso stretto si riferisce ad un sistema a capacità limitata coinvolto nella ritenzione temporanea, ma considera anche le operazioni cognitive eseguite sul materiale immagazzinato. Il concetto di memoria di lavoro include il monitoraggio di attività men-

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tali durante l’esecuzione simultanea di due o più compiti e, in generale, l’organizzazione del comportamento. – episodica: insieme di eventi con una precisa connotazione spaziotemporale. – implicita, o non dichiarativa: memoria che non richiede una rievocazione consapevole, ma che si manifesta attraverso la modificazione di un comportamento. – procedurale: risponde alla domanda sapere come; in pratica conoscenza, padronanza di una procedura necessaria per lo svolgimento di un compito. – prospettica: capacità di ricordarsi di fare qualcosa nel futuro. – retrograda: insieme dei ricordi precedenti un certo punto di riferimento temporale. – semantica: insieme delle conoscenze che una persona ha dell’uso del linguaggio, del significato delle parole e dei simboli, delle regole e delle formule e, più in generale, delle conoscenze del mondo acquisite attraverso i mezzi di comunicazione (memoria semantica enciclopedica). Ripasso articolatorio. Processo che aiuta la ritenzione temporanea in un magazzino a breve termine, ravvivando la traccia di memoria. Soppressione articolatoria. Paradigma sperimentale in cui si chiede al soggetto di articolare un suono verbale irrilevante (ad esempio «bla, bla, bla»), mentre questi svolge un altro compito, come la ritenzione a breve termine di una lista di parole. La soppressione articolatoria impedisce il ripasso. Spaced retrieval. Tecnica di riabilitazione cognitiva, in cui si cerca di migliorare la rievocazione, aumentando gradualmente l’intervallo fra presentazione e rievocazione del materiale. Span. Misura della memoria a breve termine che concerne la rievocazione seriale (cioè in sequenza) di stimoli, come cifre, parole, posizioni di oggetti. Traccia. Termine che indica un evento immagazzinato in memoria, frequentemente usato in contesto fisiologico. Vanishing cueing. Tecnica di riabilitazione cognitiva, in cui si riduce progressivamente la quantità di facilitazioni fornite al soggetto per rievocare un’informazione.

179

Visual cache. Analogo visuospaziale del magazzino fonologico, avrebbe la funzione di mantenere l’informazione con caratteristiche visive, come la forma e il colore di un oggetto.

Indice

Introduzione

3

I.

L’architettura della memoria

5

I.1.

Cos’è la memoria?

7

I.2.

La memoria a breve termine

9

I.2.1. Come è organizzata la memoria a breve termine, p. 9 - I.2.2. Le proprietà della memoria a breve termine verbale, p. 11 - I.2.3. Le funzioni della memoria a breve termine verbale, p. 12 - I.2.4. La memoria a breve termine visuospaziale, p. 16 - I.2.5. Le funzioni della memoria a breve termine visuospaziale, p. 17 - I.2.6. Le basi anatomiche della memoria a breve termine, p. 18 - I.2.7. Il deficit di memoria a breve termine, p. 19

I.3.

La memoria di lavoro

22

I.3.1. Il modello della memoria di lavoro, p. 22 - I.3.2. L’esecutivo centrale, p. 24 - I.3.3. I correlati neurali della memoria di lavoro, p. 26 - I.3.4. Esempi di comune osservazione, p. 27

I.4.

La memoria a lungo termine 181

28

I.5.

La memoria a lungo termine episodica: ricordarsi il pasto della sera precedente

30

I.5.1. Caratteristiche della memoria episodica, p. 30 I.5.2. Anatomia della memoria episodica, p. 31 - I.5.3. Cause di amnesia, p. 32 - I.5.4. Le ipotesi funzionali sull’amnesia, p. 33 - I.5.5. Il quadro clinico dell’amnesia globale, p. 34 - I.5.6. La sindrome di Korsakoff, p. 35

I.6.

La memoria retrograda

38

I.6.1. La valutazione della memoria retrograda, p. 40 I.6.2. Anatomia della memoria retrograda, p. 41 - I.6.3. Cause di amnesia retrograda selettiva, p. 41

I.7.

La memoria anterograda

42

I.7.1. Caratteristiche cliniche della memoria anterograda, p. 42 - I.7.2. La valutazione della memoria anterograda, p. 43 - I.7.3. Cause di amnesia anterograda e correlati neurali, p. 44

I.8.

La memoria prospettica: ricordarsi del futuro

45

I.8.1. Un modello di funzionamento della memoria prospettica, p. 46 - I.8.2. Le strutture anatomiche coinvolte nella memoria prospettica, p. 47 - I.8.3. Errori di memoria prospettica, p. 48 - I.8.4. La memoria prospettica nell’anziano, p. 50

I.9.

La memoria semantica

51

I.9.1. Caratteristiche della memoria semantica, p. 52 I.9.2. Organizzazione della memoria semantica, p. 55

I.10. La memoria implicita

56

I.10.1. I diversi tipi di memoria implicita, p. 56 - I.10.2. I correlati neurali della memoria implicita, p. 60 I.10.3. I deficit di memoria implicita, p. 61

I.11. La memoria autobiografica: la nostra storia I.11.1. Che cos’è la memoria autobiografica, p. 63 I.11.2. Un modello di funzionamento della memoria

182

63

autobiografica, p. 65 - I.11.3. Le basi anatomiche della memoria autobiografica, p. 67

I.12. L’apprendimento

69

I.13. L’oblio

75

II.

La patologia della memoria

81

II.1.

Memorie infrante: alcune storie di pazienti

83

II.2.

HM: la vita è solo presente

84

II.3.

Il fioretto, il cardiopatico e Consuelo

87

II.4.

Bugiardo, mitomane o innocente? Il fenomeno della confabulazione

92

II.4.1. I meccanismi della confabulazione, p. 94 II.4.2. Le cause più frequenti di confabulazione, p. 99 - II.4.3. Alcune forme particolari di confabulazione, p. 99

II.5.

L’amnesia globale transitoria

101

II.5.1. Il quadro clinico, p. 101 - II.5.2. Le cause dell’amnesia globale transitoria, p. 103 - II.5.3. Diagnosi differenziale, p. 104 - II.5.4. Neuropsicologia dell’amnesia globale transitoria durante l’attacco, p. 105 II.5.5. Le strutture anatomiche coinvolte, p. 106

II.6.

La signora con la G e la C

107

II.7.

Breve storia di una Giovane Donna

113

II.8.

Il caso di Mr. Smith

117

II.9.

La Nonna si dimentica tutto, ma risolve i cruciverba

120

II.10. Senza passato: il Fidanzato 183

124

II.11. L’amnesia psicogena

130

II.11.1. Il quadro clinico, p. 133 - II.11.2. Meccanismi dell’amnesia psicogena, p. 134

II.12. L’invecchiamento e la perdita della memoria

135

II.13. Ancora qualche aspetto particolare...

140

II.14. I depressi e gli ansiosi

141

II.15. I simulatori

144

II.16. La testimonianza oculare

147

II.17. L’amnesia post-traumatica

151

II.18. Come si valuta la memoria

155

II.18.1. Un caso di amnesia, p. 157

II.19. Come si cura la memoria

160

Epilogo

167

Ringraziamenti

169

Bibliografia

171

Glossario dei termini essenziali

177