Cirenaica: studi, scavi e scoperte: Parte I: Nuovi dati da città e territorio
 9781841717401, 9781407329383

Table of contents :
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Presentazione dei lavori
1. L’ area sacra a Sud del Ginnasio ellenistico -Forum di Cirene
2. Studi, scavi e scoperte dal 1996 al 2003: nuovi elementi per servire alla storia della religione e dei complessi monumentali di Cirene
3. Analisi delle potenzialità di moderne metodologie di indagine in applicazioni archeologiche: telerilevamento ad alta risoluzione spaziale, GPS differenziale e fotogrammetria digitale terrestre nell'area di Cirene (Libia)
4. Santuari e potere. Rileggendo De Polignac
5. Per una lettura della chora cirenea attraverso lo studio di santuari rupestri e di aree marginali della necropoli di Cirene
6. Le héros Dioscure à Apollonia de Cyrénaïque
7. Tomb N171 and its significance for the history of Cyrene Doric
8. S4: la tomba di Klearchos di Cirene
9. Alcune tombe della Necropoli Occidentale di Cirene
10. New Light on a Greek City: Archaeology and History at Euesperides
11. Excavations at Balagrae (al-Beida) 2001-2003
12. Excavations of Garyounis University at Tocra 1997-2002
13. Le campagne di scavo della missione archeologica polacca a Tolemaide (Ptolemais) condotte tra il 2001 e il 2003
14. Spigolature su alcuni ritratti ellenistici
15. Foreign schrecklichkeit and homegrown iconoclasm: two faces of communal violence at Cyrene
16. Bronze Plaques from the Archaic Favissa at Cyrene
17. Ancora sulle lastre bronzee. Intervento di approfondimento
18. Céramique grecque de la nécropole occidentale d'Apollonia
19. Marmi e pietre colorate nell’architettura della Cirenaica in età imperiale
20. Provenance, use, and distribution of white marbles at Cyrene
21. Il discorso di Timoleonte in Timeo (FGrHist 566 F 31b) e la visione della Libye tra paremiografia e paradossografia
22. By Seaways to Cyrene Captain E.A. Porcher R.N., water colorist, before Smith and Porcher
23. Drawings by Beechey in the Department of Greek and Roman Antiquities, British Museum
24. Nuove ipotesi sul complesso episcopalec.d. “Basilica orientale” di Cirene
25. Qasr-Libya
26. La restauration de la basilique B de Latrun, Cyrénaïque (2001-2003)
27. Le lucerne tardoantiche del Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene
28. Il diadema sul ritratto bronzeo di Arcesilao
29. Alcune considerazioni sul rapporto tra Cirene e Sparta durante la monarchia battiade
30. Il mito di Alcesti a Cirene: due rilievi dalla necropoli est
31. Ibridismo e oltretomba. Iconografia e mito delle Sirene nel territorio del Gebel Akhdar
32. Ricognizione nella Necropoli Sud di Cirene: la strada per Balagrae
33. Divinità Funerarie Cirenaiche Alcuni recenti rinvenimenti
34. Nuovi restauri dei vasi attici di Apollonia
35. Decorazioni scultoree dal frigidarium delle Terme di Traiano
36. Il cosiddetto teatro 4 di Cirene
37. Ricognizione preliminare nell’oasi di Giarabub
38. Attività recente a Cirene della Missione Archeologica dell’Università di Urbino
Terrecotte architettoniche dal nuovo Tempio di Demetra a Cirene
Terrecotte figurate dall’area del nuovo Tempio di Demetra a Cirene
Lo scavo del deposito votivo nel nuovo Tempio di Demetra a Cirene: le lucerne
Lo scavo del deposito votivo nel nuovo Tempio di Demetra a Cirene: le ceramiche
Ceramica greca arcaica dall’area del Ginnasio-Caesareum di Cirene
Ceramica decorata a rilievo d'età ellenistica dal Ginnasio di Cirene
Caratterizzazione materica e fondale del portico delle Erme
L’Edificio per Riunioni Pubbliche nell’Agorà di Cirene
La Casa del Mosaico di Dioniso a Cirene
Posters
Indice

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BAR S1488

Cirenaica: studi, scavi e scoperte

2006

Parte I: Nuovi dati da città e territorio

FABBRICOTTI & MENOZZI (Eds)

A cura di

Emanuela Fabbricotti Oliva Menozzi

CIRENAICA I – NUOVI DATI DA CITTÀ E TERRITORIO

Atti del Convegno di Archeologia Cirenaica Chieti 24-26 Novembre 2003

BAR International Series 1488 B A R

2006

Cirenaica: studi, scavi e scoperte Parte I: Nuovi dati da città e territorio

Published in 2016 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 1488 Cirenaica: studi, scavi e scoperte © The editors and contributors severally and the Publisher 2006 The authors' moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in any form digitally, without the written permission of the Publisher.

ISBN 9781841717401 paperback ISBN 9781407329383 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781841717401 A catalogue record for this book is available from the British Library BAR Publishing is the trading name of British Archaeological Reports (Oxford) Ltd. British Archaeological Reports was first incorporated in 1974 to publish the BAR Series, International and British. In 1992 Hadrian Books Ltd became part of the BAR group. This volume was originally published by John and Erica Hedges Ltd. in conjunction with British Archaeological Reports (Oxford) Ltd / Hadrian Books Ltd, the Series principal publisher, in 2006. This present volume is published by BAR Publishing, 2016.

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… … … dedicato all’amico John Lloyd, che con tanta passione ha lavorato in Cirenaica, in ricordo delle nostre ‘conversazioni cirenaiche’ Emanuela ed Oliva

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

E. Fabbricotti

24 novembre 2003 Presentazione dei lavori E. Fabbricotti Sono molto lieta di poter avere finalmente un convegno cirenaico a Chieti. Oramai siamo arrivati alla decima edizione di questi incontri tenuti sia in Italia (a Urbino due volte, a Macerata due volte, a Roma 2) che all’estero (a Cambridge due volte, a Parigi, a Digione) e noi ci sentivamo un po’ in colpa per non essere riusciti ancora ad ospitarvi in Abruzzo. A parte la professoressa Reynolds che non si è ancora ripresa dalla sua caduta, e a parte il professor Chamoux che non se la sente di venire, e il Prof. Di Vita, che molto gentilmente ci hanno mandato il loro augurio per il buon andamento del convegno, ma, tutti gli interessati sono presenti e tutte le Missioni archeologiche che operano in Cirenaica sono rappresentate. E’ infatti con immenso piacere che salutiamo due colleghi dell’Università Gar Younis di Bengasi, il prof. Buzaian e il prof. Bentaher che sono per la prima volta presenti ai nostri lavori e il prof.Micocki direttore della nuova Missione archeologica polacca che opera a Tolemaide e che ha avuto molto successo per i recenti importanti ritrovamenti. Questi tre giorni si articolano un po’ a soggetto, cioè seguendo le indicazioni del programma. Le relazioni verteranno prima sulla città di Cirene, poi sui santuari e le necropoli, nel secondo giorno si tratterà degli altri centri cirenaici, della scultura e dei marmi, dell’epigrafia, storia e cultura materiale. La seduta di domani si chiuderà con le relazioni sull’età tardo-antica. L’ultima sessione, quella della mattina del 26 novembre, sarà interamente dedicata alle ricerche e agli scavi della Missione archeologica chietina, particolarmente fortunata nelle campagne di quest’anno, che verranno pubblicati in un secondo volume degli Atti, e che vedrà coinvolti oltre agli archeologi, anche colleghi grecisti e latinisti del nostro Dipartimento, e i giovani colleghi del Dipartimento di Scienza della Terra dell’Università di Siena che si sono occupati di un GIS e Remote Sensing geologico iniziato quest’anno, utilizzando total station e DGPS, per integrare il nostro GIS archeologico sistematico a cui stiamo lavorando da quattro anni su piattaforma Arc Map con base cartografica satellitare (Tav. I) e utilizzando per un posizionamento preliminare diversi GPS, poi per la schedatura definitiva i più precisi GPS WASS e DGPS. Gli Atti del Convegno escono quindi in due volumi: il primo, con gli interventi su scavi e ricerche da Cirene e la Cirenaica, dedicato all’amico John Lloyd, che ha tanto proficuamente lavorato in questa regione; il secondo volume, con i risultati di scavi e ricognizioni ad Ain Hofra, dedicato all’amico Claudio Frigerio, che ci ha guidato per la prima volta nella ‘magica Ain Hofra’. E’ doveroso a questo punto citare e ringraziare tutti coloro che ci hanno aiutato per la realizzazione di questo convegno e per le nostre Missioni in Cirenaica. Ringrazio il Rettore dell’Università di Chieti prof.F. Cuccurullo, per l’aiuto fornitoci e per averci messo a disposizione l’Aula Magna; il Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, prof. M. Vetta, sia per la sua presenza qui oggi che per l’appoggio finanziario concessoci, e tutti i colleghi dello stesso Dipartimento che hanno accolto questa nostra iniziativa con entusiasmo e molti sono qui tra noi oggi; la Provincia di Chieti e il Ministero della Ricerca Scientifica per il loro contributo, i vari sponsors abruzzesi che hanno offerto i loro prodotti in omaggio ai relatori, i miei collaboratori e studenti che hanno dato un appoggio straordinario nell’organizzazione pratica del convegno stesso, tutti gli studiosi, dottorati, laureati, laureandi e studenti che hanno preparato la Mostra che vedrete oggi e che si divide in due sezioni. La prima parte della mostra, con il logos del siflio, finanziata dall’ADSU di Chieti, intitolata “Laserpiciferae Cyrenae” è curata da studenti, dottorandi e dottorati, e illustra i vari monumenti di Cirene e viene edita in

Apertura dei lavori

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Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

E. Fabbricotti

duplice forma, sia come mostra virtuale su Internet, all’indirizzo www.archeologiacirenaica.it, sia come catalogo, con fondi del rettorato e dall’editore Adventure, che ringraziamo vivamente; la seconda sezione della mostra, con il logos della Sfinge, consistente in posters preparati da studiosi vari, archeologi, storici e filologi della nostra missione, che sono editi come articoli nel I Volume degli Atti. Ma vedo un pubblico molto numeroso, riconosco gli amici Dahmani venuti da Bengasi per partecipare a questo nostro simposio e tanti studenti anche del passato che non vogliono sentirsi esclusi dalle nostre iniziative. Li ringrazio tutti, ma ringrazio specialmente i colleghi italiani e stranieri che sono presenti, alcuni venuti da molto lontano, come il prof. Donald White e la professoressa Susan Kane giunti espressamente dagli Stati Uniti e vorrei che tutti si unissero a me in un applauso per il nuovo Accademico di Francia, prof. André Laronde, che ha ricevuto recentemente la sua prestigiosa investitura. Il ringraziamento più importante è quello rivolto alle autorità libiche con le quali intrattengo io personalmente ottimi rapporti da quasi trent’anni, e alla Missione di Chieti che ho l’onore e l’onere di dirigere da ormai quasi dieci anni. In particolare ringraziamo i Direttori del Dipartimento delle Antichità della Libia a Tripoli Castello che in questi anni si sono avvicendati, dr. Mohammed Ali Kadhouri e l’attuale Direttore dr.Schuma Anag e tutti i loro collaboratori a Tripoli, il Direttore del Dipartimento delle Antichità di Cirene, dr. Abdul Gader el Mzeini, il suo Direttore tecnico, sig. Said Farag, nostro prezioso aiuto e consigliere, tutti i collaboratori del Dipartimento cirenaico con i quali intratteniamo rapporti cordiali, amichevoli e utilissimi; l’amico Architetto Kalil Abdel Adi. Un particolare ringraziamento va alle autorità italiane che aiutano e agevolano il nostro lavoro, per citarne alcuni: l’ambasciatore Italiano a Tripoli e tutta l’ambasciata; il Console d’Italia a Bengasi, dr. Giovanni Pirrello, sempre molto disponibile ed interessato alle nostre ricerche che ci ha telefonato stamattina per augurarci un buon lavoro; il Console dr. Alfredo Durante Mangoni, che ha condiviso con noi giornate sugli scavi; la prof.ssa Mariangela Gatti, archeologa e lettrice d’Italiano presso l’Università Gar Younis di Bengasi, tutti i componenti del Consolato italiano di Bengasi che ci aiutano in tutte le occasioni. Un affettuoso ringraziamento e saluto è per gli altri amici archeologici cirenaici, il dr. Attiah Breyek, ex sovrintendente alle Antichità della Cirenaica, il dr. Abdulhamid Abdusseid, l’amico Abdussalam Bazama, il dr. Fadel Ali, il dr Ibrahim Tawani, Direttore del Department of Antiquities di Bengasi, presso cui abbiamo piacevolmente soggiornato e con cui abbiamo avuto una proficua collaborazione nella preparazione dei pannelli didattici per il futuro museo. Ringrazio la dott.ssa Monica Capodicasa che con la sua Cooperativa Abruzzo Servizi ha facilitato il compito dell’organizzazione del Convegno. Ringraziamo gli sponsors abruzzesi che hanno contribuito allo svolgimento del Convegno e che sono: Casa Vinicola Cataldi Madonna di Francavilla, CD Informatica di Chieti Scalo, Confetti d’Abruzzo Di Donato di Pescara, Ovidio olio extra vergine d’oliva di Treglio, Luigi d’Amico “Parrozzo” di Pescara, Pan dell’Orso di Scanno (AQ) e il Pastificio Cocco di Fara San Martino. Auguro a tutti Buon Lavoro e spero che queste giornate passate insieme rafforzino l’amicizia reciproca e i buoni risultati scientifici già ottenuti e che dovremo ottenere nel futuro.

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Apertura dei lavori

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

M. Luni, O. Mei

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L’ area sacra a Sud del Ginnasio ellenistico - Forum di Cirene Mario Luni & Oscar Mei L’approfondimento della ricerca sul Forum (“Caesareum”) di Cirene, realizzato verso la metà del I secolo d.C. con la costruzione della Basilica all’interno del Ginnasio ellenistico (“Ptolomaion”), ha determinato in anni recenti anche l’estensione dell’indagine alle aree limitrofe, per meglio delinearne la funzione1. E’ stata eseguita pertanto la ricognizione della serie di 23 botteghe affioranti all’esterno del “Ptolomaion” - “Caesareum”, lungo il lato meridionale della via Skyrotà, a ridosso del Teatro Romano n.3. Di seguito, la ricerca si è estesa all’area immediatamente a Sud, dove Sandro Stucchi aveva in passato riconosciuto tre templi di età romana2 e dove Smith e Porcher avevano scavato a metà Ottocento nel cosiddetto “Tempio di Afrodite”, rinvenendo all'interno 54 pezzi marmorei figurati o iscritti3 (Figg. 1-3). Questa zona di Cirene, all'inizio del Novecento, era stata appena interessata dal recupero di blocchi informi per la costruzione dell’attiguo muro difensivo della piazzaforte italiana e poi, alla fine degli anni '30, sterrata in modo ampio per dare avvio alla successiva ricerca archeologica, interrotta dalla guerra e dai successivi eventi4. Negli ultimi otto anni in definitiva si è proceduto al rilievo grafico particolareggiato di tutti gli edifici qui conservati, inesistente in precedenza, tranne che per il Tempio “a due Ali” e in parte per quello “di Afrodite” (Fig. 4). Oggetto di attenzione sono state le singole membrature architettoniche superstiti, sia in elevato, sia in situ crollate a terra, in genere in modo uniforme. Sono state pertanto caratterizzate nei dettagli la pianta e l’alzato dei resti delle strutture monumentali presenti nell'intera area ed in particolare di quelle del Tempio “Ipetrale” e “del Mosaico a Meandro”5. Vari saggi sono stati eseguiti in corrispondenza di queste strutture monumentali di carattere sacro, databili alla prima età imperiale, per riconoscere eventuali fasi edilizie ̅La ricerca rientra nel programma di studio del quartiere dell’Agorà, messo in atto in anni recenti dalla Missione Archeologica Italiana a Cirene, attiva dal 1957 nella Università di Urbino. 1 Luni, M., ‘Il Ginnasio –“Caesareum” di Cirene nel contesto del rinnovamento urbanistico della media età ellenistica e della prima età imperiale’, in Stucchi, S., ed., Giornata Lincea sull’archeologia cirenaica, Roma, 3 nov. 1987, Roma, 1990, pp. 87-120; Idem, ‘Il Forum - “Caesareum” di Cirene e la moderna riscoperta’, in Reynolds, J.M., ed., ‘Cyrenaican Archaeology. An International Colloquium. Cambridge, 1993, March 29th-31st’, LibSt, XXV, 1994, pp. 191-221; Luni, M., Cellini, G., ‘L’abside della Basilica nel Foro di Cirene ed i due gruppi di statue’, in Laronde, A., Maffre, J.J., ed., ‘Cités, ports et campagnes de la Cyrenaïque gréco-romaine. Actes de la journée d'études sur la Cyrenaïque, Paris, 12 nov. 1992’, Karthago, XXIV, 1997, pp. 27-74. 2 Stucchi, S., Architettura cirenaica, Roma, 1975: Tempio “a Due Ali”, p. 259; “Ipetrale”, p. 256; “del “Mosaico a Meandro”, pp. 102 e 241; Teatro romano n. 3 (dove in passato sono stati eseguiti alcuni saggi), p. 291. 3 Smith, R. M., Porcher, E. A., History of the recent discoveries at Cyrene made during an expedition to the Cyrenaica in 1860-61, London, 1864, p. 76. 4 Relazione dattiloscritta dell'assistente Sinesio Catani sull'attività a Cirene nel 1915-1916; Luni, M., ‘La scoperta di Cirene “Atene d'Africa”’, in Catani, E., Marengo, S.M., edd., La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno internazionale di studi, Macerata, 18-20 maggio 1995, Pisa, 1998, pp. 319-350. 5 I rilievi grafici sono di Silvia Silvestrini, Oscar Mei e Laura Vasta, che ringrazio.

Sessione I: Cirene

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Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

M. Luni, O. Mei

precedenti. Si è proceduto infine allo scavo di un nuovo edificio di culto, il quinto ora identificato nell’area sacra, caratterizzato dalla presenza di due celle e rimasto interrato in gran parte fino al 2002-2003; quest’ultimo ha restituito settantacinque pezzi marmorei, ancora in situ su una lunga base, vari rilievi e statuette, rovesciati nella parte centrale della cella, travolti sotto il crollo del tempio. Ben dodici statuette di Cibele sono state rinvenute ancora allineate con ordine lungo la parete di fondo (Fig. 5) e questa circostanza ha suggerito di intitolare l’edificio di culto alla divinità qui più rappresentata, così come fu fatto a metà Ottocento per l’attiguo “Tempio di Afrodite”6. I cinque templi sopra menzionati risultano allineati lungo il lato occidentale dell’area (da Nord a Sud il Tempio “a due Ali”, quello “Ipetrale” e il Tempio “del Mosaico a Meandro”) e lungo il margine meridionale (il Tempio “di Cibele” e quello “di Afrodite”); tutti sono rivolti verso Est. Questi edifici di culto vengono di seguito presentati nella loro fase ultima, in modo sintetico, per cercare di comprendere il significato di quest’area sacra nel quartiere dell’Agorà (Fig. 6); per la prima volta essa è stata oggetto di indagine nella sua globalità e in modo sistematico, in quanto si sono intravisti elementi significativi relativi a fasi edilizie precedenti, ad iniziare dall’epoca arcaica7. (M.L.) Tempio “a due Ali” All’interno dell’area sacra a Sud del Cesareo di Cirene, il primo edificio di culto che si incontra per chi proviene dal decumano che collegava le agorai greca e romana, erede della greca via Skyrotà, è il cosiddetto Tempio “a due Ali”8 (Fig. 7). Si tratta di un edificio orientato verso Est, con pianta rettangolare allungata ed ingresso rilevato posto al centro di uno dei lati lunghi. La facciata è rivolta verso il Teatro n. 3 e il lato posteriore dà direttamente sul cardo che separa l’area sacra dall’insula di Giasone Magno; il margine settentrionale costeggia la Skyrotà ed assume un andamento obliquo proprio per conformarsi all’orientamento della stessa strada, mentre al lato meridionale si è sovrapposto il muro di fondo dell’attiguo Tempietto “Ipetrale”. Blocchi delle colonne, dei capitelli e della trabeazione giacciono a terra, la maggior parte allineati lungo il lato occidentale dell’edificio, posti in quella particolare posizione negli anni ’30, in seguito allo sterro dell’area, grazie alla lungimirante opera degli archeologi italiani. La caratteristica più importante del Tempio è la presenza di due celle simmetriche, all’estremità di ciascun lato, e di un vano centrale ipetrale, cui si accede attraverso un propileo, posto su un podio con tre gradini; questo accesso monumentale è costituito da quattro colonne a fusto liscio, con base attica e con capitello corinzio. Il portale d’ingresso si apriva nel muro perimetrale ed era inquadrato, sia sul margine destro che su quello sinistro, da due coppie di lesene, sempre su base attica e coronate da capitelli corinzi. I quattro angoli esterni del peribolo dell’edificio di culto erano ornati da pilastri 6

Il recupero è avvenuto nell’autunno del 2003 nella cella a Sud, sigillata sotto la massicciata della linea della “Decauville”, utilizzata per lo sterro dell’area alla fine degli anni ’30; durante la ripulitura della cella a Nord sono stati rinvenuti alcuni frammenti di statuine femminili in marmo ed una placchetta di piombo con la rappresentazione a rilievo di Cibele seduta, con gli attributi fondamentali. 7 Seguono le schede di presentazione dei cinque templi da parte di Oscar Mei (O.M.). Allo scrivente (M.L.) si deve questa prima parte del contributo e quella a conclusione. 8 Goodchild, R.G., Kyrene und Apollonia, Zurich, 1971, p. 78, fig. 4, nr. 7; Stucchi, Architettura, p. 259.

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Sessione I: Cirene

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

M. Luni, O. Mei

d’anta, di cui rimangono solo lo zoccolo modanato e frammenti di capitelli corinzi, raffrontabili con quelli del Tempietto “Tetrastilo” nell’Agorà di Cirene, datato alla metà del II secolo d.C.9. La trabeazione risulta invece essere di ordine dorico, con architrave liscio, fregio di triglifi e metope e con cornice modanata. L’ambiente centrale, più ampio di quelli laterali e molto probabilmente a cielo aperto, presenta uno stretto lastricato longitudinale che, dall’ingresso, conduce ad una base marmorea modanata addossata al muro di fondo. Tale base è costituita da materiale di reimpiego e dunque non doveva far parte della fase originaria dell’edificio: la cornice marmorea è formata da pezzi di varie dimensioni e da modanature non omogenee, mentre il nucleo centrale vede il riutilizzo di un blocco di fregio dorico. Su questo vano ipetrale si aprono due celle simmetriche laterali, cui si accedeva, tramite tre ingressi, su una facciata costituita da quattro colonne a fusto liscio, con base attica e con capitello corinzio. Lungo i muri di questi due ambienti sono ricavate delle basse banchine, probabilmente destinate a coloro che partecipavano ai riti in onore della divinità. In merito alla tecnica costruttiva, risulta costituta da una muratura a secco, isodomica, con blocchi parallelepipedi di calcare locale ben squadrati e posti in opera in modo che la fine di ogni blocco coincida con la metà del blocco del filare superiore e di quello inferiore. Questo tipo di pianta è già codificato in età ellenistica e l’esemplare più antico sembra da individuare nell’edificio votivo dei Milesi nel Santuario dei Megàloi Theòi di Samotracia10, datata alla seconda metà del III secolo a.C. Altre costruzioni tipologicamente simili si possono ricercare nel Tempio di Artemide nell’AgoràAsclepieion di Messene11 e nel Tempio N dell’Agorà di Mantinea12. Il primo, a differenza del Tempio di Cirene, è provvisto di due colonne inquadrate da due pilastri come accesso alle navate laterali e presenta anch’esso delle banchine destinate ai fedeli lungo i muri delle celle. Fuori dalla tradizione greca l’edificio che maggiormente si avvicina al Tempio “a Due Ali” di Cirene è il Capitolium di Cuicul (Djémila), datato alla seconda metà del II secolo d.C., con cella poco profonda e tripartita da due coppie di colonne, ma con un imponente colonnato di accesso che abbraccia tutta la facciata e tre ingressi indipendenti per ogni cella13.

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Uncini, A., ‘Il Tempietto Tetrastilo’, in Stucchi, S., Bacchielli, L., edd., L’Agorà di Cirene, II, 4. Il lato Sud della Platea inferiore e il lato Nord della terrazza superiore, Roma, 1983, pp. 79-80, 90. 10 Salviat, F., ‘Le bâtiment de la Milesienne’, BCH, LXXXVI, 1962, pp. 281-290, figg. 14, 29, nr. 10; McCredie, J.R., ‘Samothrace: Preliminary Report on the Campaigns of 1965-1967’, Hesperia, XXXVII, 1968, pp. 208-209; Lascaridis, D., ȈĮȝȠșȡȐțȘ țĮȚ Ș ʌİȡĮȓĮ IJȘȢ, Atene, 1971, figg. 39 e 47; Pantos, P.A., s.v. ‘Samotracia’, EAA, II Suppl., V, 1997, pp. 90-93, fig. 112. 11 Orlandos, A., ‘s.v. Messene’, EAA, Suppl. 1970, pp. 479-480, fig. 476; Themelis, P., s.v. ‘Messene’, EAA, II Suppl., III, 1995, pp. 626-627. 12 Stucchi, Architettura, p. 259; Winter, F.E., ‘Arkadian Notes I: Identification of the Agorà Buildings at Orchomenos and Mantinea’, Echos du Monde Classique. Classical Views, XXXI, n.s. 6, 1987, pp. 239244. 13 Crema, L., ‘L’Architettura romana’, in Enciclopedia Classica, Sez. III, Vol. XII, Tomo I, Torino 1959, p. 384, fig. 453.

Sessione I: Cirene

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Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

M. Luni, O. Mei

Tempietto “Ipetrale” Posto immediatamente a Sud del Tempio “a due Ali”, cui si appoggia, era orientato in origine verso Est, con ampia scalinata di accesso formata da cinque gradini14 (Fig. 8). L’edificio era costituito da tre ambienti successivi più larghi che profondi, di dimensioni pressoché simili, anche se il primo è leggermente meno profondo degli altri due. La trabeazione, di cui si conserva solamente un frammento di blocco di fregio, comunque accostabile a quello del Tempietto del Divo Adriano nel Cesareo di Cirene15, datato alla seconda metà del II secolo d.C., era di tipo dorico, con architrave liscio, fregio a metope e triglifi e cornice modanata. Anche qui si utilizzò una muratura a secco, isodomica, formata da blocchi parallelepipedi di calcare locale. Di questa fase resta veramente poco fuori terra, infatti il tempio deve aver subito forti danni in seguito alla rivolta giudaica e venne conseguentemente ristrutturato in maniera radicale durante il II secolo d.C. Innanzitutto, a causa della costruzione del Teatro n. 3 al centro del piazzale su cui si affacciavano tutti e cinque gli edifici sacri, il Tempio “Ipetrale” vide una parte della propria scalinata di accesso inglobata dalle fondazioni del nuovo monumento; questa sovrapposizione causò di fatto l’impossibilità di accedere al Tempio da questo lato e costrinse quindi alla chiusura dell’ingresso. La pianta dell’edificio sacro venne totalmente stravolta: si aprì uno stretto varco a Sud per collegare il cardo retrostante con il piazzale e per consentire di realizzare un nuovo ingresso al Tempio: al centro del lato meridionale venne aperto uno stretto passaggio, sopraelevato su un podio di tre gradini agganciati alle riseghe laterali dell’edificio, ottenendo in questo modo un altro Tempio a due celle, con vano centrale lastricato e, presumibilmente, ipetrale. Da questo ambiente centrale si accedeva quindi alle due celle laterali attraverso una facciata di tipo cirenaico, caratterizzata da due colonne centrali inquadrate da due semicolonne a fusto liscio, di cui si conservano labili tracce. Nel muro occidentale dell’edificio sono stati riutilizzati due grossi blocchi squadrati decorati con tenia e guttae, facenti parte in origine dell’architrave di un edificio di dimensioni monumentali, cui probabilmente dovette appartenere anche un rocchio frammentato di colonna sfaccettata deposto a terra all’interno della cella Ovest. Tale reimpiego denota la penuria di materiali che contraddistinse Cirene nel periodo immediatamente successivo alla rivolta giudaica e il grado di distruzione che la città africana subì a causa di quel tumulto. Successivamente anche la cella orientale venne dotata di un lastricato e, verosimilmente in seguito al terremoto del 262 d.C., un portale marmoreo decorato con ovuli e astragali fu riutilizzato come soglia nel passaggio tra la cella Est ed il vano centrale. Tempietto “del Mosaico a Meandro” Il monumento è posto immediatamente a Sud del Tempietto “Ipetrale”; in origine era orientato verso Est ed aveva una piccola scalinata di accesso, limitata all’ampiezza dello stretto portale16 (Fig. 9). È caratterizzato da una semplice pianta ad oikos, con tecnica costruttiva isodomica a secco, contraddistinta da blocchi parallelepipedi dello stesso

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Goodchild, Kyrene, p. 78; Stucchi, Architettura, pp. 22, 256, fig. 12. Luni, M., ‘Il Foro di Cirene tra II e III secolo’, in Mastino, A., ed., L’Africa Romana. Atti del V Convegno di studi., Sassari, 11-13 dicembre 1987, Sassari, 1988, pp. 271-278. 16 Goodchild, Kyrene, p. 78; Stucchi, Architettura, pp. 102, 241, fig. 229. 15

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materiale e dimensioni di quelli utilizzati nella costruzione del Tempietto “Ipetrale”, del quale sembra essere contemporaneo. In seguito alle devastazioni della rivolta giudaica e alla costruzione del Teatro n. 3 al centro del piazzale, anche il Tempietto “del Mosaico a Meandro” subì una notevole ristrutturazione: l’accesso all’edificio fu spostato nel lato Nord, in connessione con la stradina che lo separava dal Tempietto “Ipetrale”, mentre il pavimento fu completamente coperto da un mosaico caratterizzato da una cornice formata da meandri in tessere bianche e nere. È stato rinvenuto un frammento molto consunto di capitello corinzio, difficilmente databile dato il precario stato di conservazione17; il resto della trabeazione invece era di ordine dorico, raffrontabile con quella del già citato Tempietto del Divo Adriano nel Cesareo di Cirene18. I blocchi della parete meridionale e della trabeazione dorica giacciono all’interno dell’edificio e coprono quasi interamente il mosaico a meandro. Si tratta di 19 filari: 14 della parete più architrave, fregio e cornice sono a terra, mentre due sono ancora in situ in elevato. Caratteristica è la posizione di questi blocchi: essi infatti giacciono l’uno di seguito all’altro, in maniera omogenea, denotando la natura catastrofica del crollo e il conseguente abbandono dell’edificio, dovuto probabilmente al terremoto del 365 d.C. Precedentemente invece, in seguito al terremoto del 262 d.C., il Tempio subì una modifica funzionale e fu adibito verosimilmente in parte a cisterna, attraverso la tamponatura della porta con rocchi di colonna e l’impermeabilizzazione delle pareti con intonaco di opus signinum. Un piccolo castellum aquae, di cui rimangono i gradini di accesso, venne costruito nell’angolo Sud-occidentale dell’edificio. Tempietto “di Cibele” Il Tempio sorge immediatamente a Sud del piazzale in cui fu edificato il Teatro n. 3, è orientato verso Est ed è stato identificato solo nel 2001 e scavato tra 2001 e 2003 (Fig. 10). Infatti non fu individuato da Smith e Porcher nel 1860-61, che si limitarono a sterrare il vicino Tempio “di Afrodite”, e non fu scavato durante i lavori degli anni ’30, anzi rimase fortunosamente estraneo agli sterri grazie ai binari della “Decauville” che, per trasportare e scaricare la terra proveniente dall’intero quartiere dell’Agorà, furono fatti passare proprio al di sopra dell’edificio. Si tratta di un Tempietto in origine caratterizzato da un pronao ed un’ampia cella, con muratura isodomica a secco, formata da blocchi parallelepipedi di calcare. La facciata, cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata di cinque gradini, era di tipo cirenaico, con due semicolonne laterali e due colonne centrali a fusto liscio. L’ampiezza eccessiva dell’interasse centrale della facciata, contrapposto a quella esigua degli interassi laterali, fa pensare ad una trabeazione incurvata di tipo siriaco: l’approfondimento della ricerca e la ricognizione nell’area hanno permesso di individuare nelle vicinanze un blocco pertinente ad un arco, decorato con una cornice di ovoli e astragali. Tale blocco doveva verosimilmente costituire un concio d’imposta di un architrave incurvato e le sue dimensioni ed il materiale utilizzato collimano con quelli del Tempio “di Cibele”. Il 17

Comunque l’ordine corinzio fa la sua comparsa a Cirene in età antonina: il primo esempio sicuramente datato è l’Arco dedicato a Marco Aurelio e Lucio Vero tra 164 e 166 d.C., Goodchild, Kyrene, p. 137, fig. 82; Stucchi, Architettura, pp. 268-269, fig. 267. 18 Luni, ‘Il Foro’, pp. 271-278.

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motivo del frontone siriaco propriamente detto ha avuto la sua massima applicazione appunto in Siria durante il II secolo d.C.19: in Cirenaica esso è adottato in alcune abitazioni private per aumentare il chiaroscuro e l’ornamentazione delle strutture, come nella Casa della Triconchos ed in quella delle Quattro Stagioni di Tolemaide20, e nella Casa del Mosaico Stellare di Cirene21, nel quartiere di Giasone Magno: tutti questi edifici sono datati intorno alla metà del II secolo d.C. Per quanto riguarda gli edifici sacri, l’unico Tempio di Cirene ad avere avuto un architrave incurvato di tipo siriaco è il Tempio “delle Muse”, ubicato immediatamente ad Est dell’Agorà e datato tra 180 e 190 d.C.22. Il resto della trabeazione era costituito da un architrave liscio sulle pareti laterali e quella di fondo, un fregio di triglifi e metope ed una cornice modanata. Dei pilastri angolari, con zoccolo modanato, completano l’architettura dell’edificio. In un’epoca successiva, la cella fu divisa in due da un muro longitudinale, i cui blocchi vennero ammorsati alla parete di fondo, creando in tal modo due ambienti di diverse dimensioni, più stretto quello settentrionale, più largo quello meridionale. Basi per le statue di culto vennero addossate al muro di fondo delle due celle, mentre il pronao rimase unico per ambedue gli ambienti. Dopo il terremoto del 262 d.C. l’edificio subì un nuovo rimaneggiamento, questa volta radicale anche nella funzionalità degli ambienti. Il muro longitudinale che divideva le due celle venne prolungato fino alla facciata, mentre quello che immetteva nella cella meridionale fu demolito, in modo da ricavare un ambiente unico a Sud e due altri nella parte Nord del Tempio. La cella settentrionale venne quindi intonacata e resa impermeabile con opus signinum, trasformando così la sala di culto in una cisterna, collegata, tramite un sistema di canalizzazione molto semplice, al castellum aquae costruito all’interno del Tempietto “del Mosaico a Meandro”. Il terremoto del 365 d.C. rase definitivamente al suolo quello che restava del Tempio, come sembrano dimostrare le 14 monete databili negli anni immediatamente precedenti il cataclisma, rinvenute sotto i blocchi crollati all’interno della cella meridionale. Tempio “di Afrodite” Il Tempio “di Afrodite”23 sorge immediatamente a Sud del Tempio “di Cibele”, cui si addossa utilizzando le riseghe laterali (Fig. 11). Fu completamente sterrato nel 1864 dalla spedizione di Smith e Porcher, che fecero una schematica pianta dell’edificio e, sulla base di dieci statuette di Afrodite rinvenute nella cella, gli diedero il nome. Oltre alle statuette menzionate, i due viaggiatori inglesi recuperarono per il British Museum altri 44 pezzi marmorei, comprendenti statue intere e frammentate, teste e rilievi. 19

Sul frontone siriaco in generale vedi: Crema, ‘L’Architettura’, pp. 142-143; Frova, A., L’arte di Roma e del mondo romano, Torino, 1961, p. 745; Mansuelli, G.A., Roma e il mondo romano, II, Torino, 1981, p. 107. 20 Stucchi, Architettura, pp. 321-322, fig. 331. 21 Mingazzini, P., L’insula di Giasone Magno a Cirene, Roma, 1965, pp. 96-97, tavv. XXV-XXVI; Stucchi, Architettura, p. 322, fig. 332. 22 Luni, M., Mei, O., ‘Il Tempio con arco siriaco “delle Muse” presso l’Agorà di Cirene’, in La religion dans la Cyrénaïque antique, Actes du Colloque, Dijon 21/23-3-2002, in corso di stampa. 23 Smith, Porcher, History, p. 76, tav. 57; Goodchild, Kyrene, p. 78; Stucchi, Architettura, pp. 23, 54, 255256, figg. 249-250.

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Il Tempio è orientato ad Est ed è costituito da un pronao con facciata di tipo cirenaico, caratterizzata da due semicolonne laterali e due colonne centrali a fusto liscio, una cella con larghi banconi e otto basi quadrangolari lungo i lati lunghi, ed un adyton rilevato con inquadratura architettonica. I muri laterali sono costituiti da uno zoccolo formato da due file di ortostati appaiati e sono coronati da una trabeazione di tipo dorico, i cui blocchi sono ancora a terra intorno all’edificio. La tecnica costruttiva è quella isodomica, con muratura a secco. Come dimostrato da un saggio di scavo effettuato lungo il muro settentrionale del pronao, nella sua fase originaria il Tempio mancava del pronao stesso e le riseghe correvano lungo la facciata della cella, interrompendosi in connessione con una scalinata di accesso limitata all’ampiezza del portale. In età romana fu realizzato l’avancorpo con facciata di tipo cirenaico e, dopo la rivolta giudaica, forse in età antonina o, più probabilmente, severiana, l’edificio subì la totale ristrutturazione dell’ambiente di fondo, con la costruzione di un adyton sopraelevato, caratterizzato da uno zoccolo modanato ed un colonnato sulla sommità, molto simile a quello del V Apollonion24, datato al III secolo d.C. (O.M.) In conclusione, la ricerca ha permesso di prendere atto del fatto che questo complesso di almeno cinque templi è riferibile alla prima età imperiale e che va messo in relazione in un caso probabilmente a Cibele, in un altro forse ad Afrodite e nel complesso a divinità in connessione con la sfera della fertilità e buona sorte; il recupero di un frammento di rilievo con zodiaco può inoltre essere riferito con probabilità ad Aiòn. Quest’area sacra già esisteva almeno in epoca ellenistica, come è stato possibile osservare ad esempio in due saggi di scavo, rispettivamente nel pronaos del Tempio “di Afrodite” e nell’angolo esterno Nord-orientale del Tempio “di Cibele”. Una fase costruttiva di età ellenistica è stata riconosciuta inoltre al di sotto del primo filare dello spiccato del Tempio “del Mosaico a Meandro”. Infine è stato osservato che il tipo edilizio dei due templi con due celle che si affacciano su un ambiente centrale a cielo aperto sottintende una origine in periodo ellenistico. In merito alla fase originaria di questa area sacra, il dato più significativo è scaturito da una serie di saggi eseguiti da ultimo in relazione al Tempio “Ipetrale”, ubicato in asse con le strutture superstiti di un lungo altare monumentale, inglobate nelle sostruzioni del Teatro n. 3 e rimaste in uso fino alla costruzione di quest’ultimo - subito dopo la rivolta giudaica25 (Fig. 12); l’altare è stato datato in età classica, ma mostra cornici di base che sembrano apparire più antiche, in relazione con la fase originaria del Tempio “Ipetrale” - a pianta rettangolare, allungata - in connessione col quale è stato individuato uno strato con statuette di terracotta, una moneta d’argento e numerosi frammenti di ceramica arcaica26. 24

Stucchi S., ‘Le fasi costruttive dell’Apollonion di Cirene’, QuadArchLibia, IV, 1961, p. 75; Idem, Architettura, p. 256, fig. 251. 25 Tratti di muratura dell’altare sono stati scoperti casualmente negli anni ‘80, nel corso di lavori di restauro del Teatro n. 3, da S. Stucchi (Stucchi, S., s.v. ‘Cirene’, EAA, II Suppl., II, 1994, p. 164; Bacchielli, L., ‘L’attività recente della Missione Archeologica Italiana a Cirene’, in ‘Cités, ports et campagnes’, pp. 22-23). 26 Viene qui fornita la sola notizia della significativa scoperta, recentissima; essa è stata accompagnata dalla individuazione di documentazione archeologica di età arcaica assai rilevante di carattere votivo, attualmente in corso di studio.

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Va aggiunto che la ristrutturazione di questo grande recinto sacro è avvenuta nel II secolo d.C., dopo la rivolta giudaica, con l’occupazione di gran parte del piazzale mediante la costruzione del Teatro n. 327. Esso viene a caratterizzare ulteriormente l’attigua monumentale area pubblica del Forum. Anche per questo occorre riflettere sull’ipotesi formulata in passato in merito ad una sua funzione supplementare di probabile Bouleuterion- Ecclesiasterion28, in connessione con le prerogative svolte dalla vicina area forense. In questa circostanza lo stesso Teatro n. 3 viene ad occupare l’ingresso principale dell’area sacra e giunge a ridosso di alcuni templi; è aperto nel contempo un altro passaggio dalla strada ad Ovest, tra il Tempio “Ipetrale” e quello “del Mosaico a Meandro”, i quali subiscono una radicale modificazione in merito alle originarie posizioni dei rispettivi ingressi. Non risultava più necessario, infatti, mantenere l’orientamento della loro facciata verso Est, perché il piazzale era stato occupato e l’altare arcaico non era più in uso, essendo stato inglobato nelle strutture delle sostruzioni del Teatro n. 329. Questa fase edilizia ha avuto probabilmente continuità per circa un secolo e mezzo, fino al terremoto del 262 d.C.; esso è risultato di catastrofica portata per l’intero quartiere dell’Agorà, ridotto in gran parte in questo periodo a poco più di una baraccopoli30 ed abbandonato quasi totalmente col terremoto del 365 d.C. Nell’ultima fase di vita di residue parti di alcuni dei monumenti sacri in quest’area si registra una ulteriore fase edilizia con materiali di recupero, che in almeno due casi vengono in parte riadattati con l’inserimento di cisterne; si veda in particolare il Tempio “di Cibele”, “di Afrodite” e “del Mosaico a Meandro”, da cui ha inizio una canaletta che convogliava acqua verso la fontana a ridosso della porta monumentale sull’angolo SudEst del Foro. Infine, lo scavo della parte superstite della cella settentrionale del Tempio “di Cibele” ha permesso di definire con certezza il periodo di crollo in modo uniforme dell’edificio di culto e probabilmente in modo simultaneo con gli altri ancora esistenti nella stessa area sacra. Numerose monete di IV secolo d.C. sono state infatti rinvenute sul pavimento e tutte risultano riferibili agli anni antecedenti al terremoto del 365 d.C. La stessa cronologia è confermata anche da alcune lucerne recuperate sul pavimento dello stesso Tempio, riferibili all’atelier rinvenuto nell’angolo Sud-occidentale del vicino Cesareo31. Due di esse in particolare risultano realizzate con matrici assai simili a quelle ritrovate sotto il crollo dell’officina, avvenuto anch’esso a seguito dello stesso terremoto del 365 d.C. (M.L.)

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Stucchi, Architettura, p. 291. Numerosi elementi concorrono a datare la realizzazione del Teatro n.3 al periodo immediatamente successivo al 115-117 d.C., nell’ambito del potenziamento delle strutture relative al Forum. 28 Balty J. Ch., Curia Ordinis, Bruxelles 1983, pp. 434-437. 29 Negli anni 2002-2003 sono stati eseguiti appositi saggi per caratterizzare in ogni parte possibile l’altare monumentale, considerato che la struttura è stata inglobata nelle sostruzioni della cavea del Teatro n. 3. 30 Luni, M., ‘La scoperta’, pp. 319-349; Idem, ‘Lo Xystòs-Portico delle Erme nel Quartiere dell’Agorà di Cirene’, QuadArchLibia, XVI, 2002, pp. 109-144. 31 Luni, M., ‘Atelier di lucerne di Cirene’, in Barker, J., Lloyd, J., Reynolds, J.M., edd., Cyrenaica in Antiquity. Colloquium on Society and Economy in Cyrenaica. Cambridge, March-April 1983, Oxford, 1985, pp. 259-276.

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Fig 1

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Pianta di parte del quartiere dell’Agorà con l’area dei templi (da Stucchi 1967).

Fig. 2 Foto aerea degli anni ‘60 relativa alla parte orientale del quartiere dell’Agorà, con l’area di alcuni templi compresa tra i due teatri e la casa di Giasone Magno.

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Fig. 3

M. Luni, O. Mei

Veduta aerea della parte orientale del quartiere dell’Agorà, con l’area dei templi.

Fig. 4 Rilievo grafico dei resti di cinque templi nell’area a Sud del Ginnasio-Forum di Cirene (relaborazione grafica di O. Mei).

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Fig. 5 Veduta di alcune statuette di Cibele in situ, nel corso dello scavo della cella meridionale del Tempio omonimo.

Fig. 6

Nuova pianta dei cinque templi nell’area a Sud del Ginnasio-Forum di Cirene.

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Fig. 7

Il Tempio “a due Ali”, nell’area sacra a Sud del Ginnasio ellenistico – Forum.

Fig. 8

Il Tempio “Ipetrale”, situato tra quello “a due Ali” e quello “del Mosaico a Meandro”.

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Fig. 9 Il Tempio “del Mosaico a Meandro”.

Fig. 10 Il Tempio “di Cibele”, scoperto di recente.

Fig. 11 Il Tempio “di Afrodite”, sterrato a metà ‘800.

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Fig. 12 Pianta dell’area sacra a Sud del Ginnasio ellenistico-Forum di Cirene, con l’altare al centro del piazzale; la fase originaria risale ad età arcaica, così come quella di alcune strutture all’interno del Ginnasio

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S. Ensoli

2 Studi, scavi e scoperte dal 1996 al 2003: nuovi elementi per servire alla storia della religione e dei complessi monumentali di Cirene * Serena Ensoli Ho ritenuto opportuno trattare in questa sede dei lavori condotti a Cirene tra il 1996 e il 2003, perché, mentre gli studi, gli scavi e i restauri che ho diretto negli anni precedenti hanno avuto ampie notizie 1, per il periodo successivo, a parte due brevissime note sulle campagne del 1996 e del 1997, uscite come news in Libia Antiqua 2 , gli articoli che ho poi consegnato a questa rivista non sono stati editi per i motivi a tutti ben noti. Il volume su Cirene pubblicato nel 2000 ha reso un buon servizio di aggiornamento, benché non esaustivo, per ovvie esigenze editoriali 3. Numerosi altri lavori usciti in questi ultimi anni o consegnati alla stampa, e spesso da tempo in attesa di essere pubblicati, hanno riguardato ampi campi di indagini svolte a Cirene tra il 1996 e il 2003, ma imperniate, com’è ovvio, su problematiche specifiche o su singoli complessi monumentali4. È mia intenzione, pertanto, offrire in questa sede per la prima volta un * Colgo l’occasione per ringraziare il Soprintendente del Dipartimento alle Antichità di Cirene, Abdulgader Mzeni, e la sua équipe, per il generoso sostegno e per la consueta collaborazione in tutte le fasi delle indagini sul campo. Per quanto riguarda il cantiere del Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli, desidero ricordare, inoltre, che la ricerca, condotta dalla Seconda Università degli Studi di Napoli e dal Dipartimento alle Antichità di Cirene, si è avvalsa nel 2003 del contributo del Ministero degli Affari Esteri. Infine, un sincero ringraziamento a Nicola Bonacasa, Coordinatore sin dal 1996 delle Missioni Italiane a Cirene, che con il suo generoso impegno ha reso possibile la prosecuzione di tutti i lavori avviati o programmati sotto la direzione di Sandro Stucchi e poi di Lidiano Bacchielli. 1 Ensoli, S., ‘Notizie sulla campagna di scavi del 1987 sulla terrazza della Myrtusa a Cirene’, in Atti dei Convegni Lincei, 87. Giornata Lincea sulla Archeologia Cirenaica. Roma, 3 Novembre 1987, Roma 1990, pp. 157-178, tavv. IXI; Ead., ‘Indagini sul culto di Iside a Cirene’, in Atti del IX Convegno su L'Africa Romana. Nuoro, 13-15 dicembre 1991, Sassari 1992, pp. 167-250, tavv. I-XXVI; Ead., ‘L'iconografia e il culto di Aristeo a Cirene in età greca’, in Cyrenaican Archaeology. An International Colloquium. Cambridge, March 29th-31st, 1993, Oxford 1994 (LibSt, XXV), pp. 61-84; Ead., ‘I Propilei Greci del Santuario di Apollo a Cirene. Rapporto preliminare dei lavori compiuti negli anni 1980-1984 e 1987’, LibAnt, n.s., I, 1995, pp. 61-71, tavv. XIX-XXVI; Ead., ‘I rifornimenti idrici del Santuario cireneo di Apollo dal IV secolo a.C. alla fine dell’età tolemaica’, in Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, I. La Cirenaica; la Grecia e l’Oriente mediterraneo, a cura di Bacchielli, L., Bonanno Aravantinos, M., Roma 1996, pp. 79-110; Ead., in I Greci in Occidente, Milano 1996 (II edizione, rivista e aggiornata), pp. 754755, nn. 414, 416-418; Ead., Il "Recinto del Mirto" nel Santuario di Apollo a Cirene. I risultati sulle indagini di scavo e sul restauro del monumento, Roma 1996 (stampato in proprio dall’autore), pp. 15, ill. 13; Ead., ‘Agia, Eros e Eracle. Repliche e rielaborazioni di modelli lisippei in Cirenaica’, in La Cirenaica in età antica. Atti del convegno internazionale di studi, Macerata 18-20 Maggio 1995, Macerata 1998, pp. 219-242, tavv. I-XVII. È opportuno citare in questa serie di contributi anche l’ampio lavoro riguardante il Santuario di Apollo, i frontoni del tempio del dio e il vaso Portland, edito purtroppo solo nel 2002: Ead., ‘Il vaso Portland e Cirene’, in Atti del Convegno Internazionale di studi sull'Archeologia Cirenaica. Urbino 4-5 luglio 1988, Roma 2002 (QuadALibia, XVI. Archeologia cirenaica), pp. 165-260. 2 Ensoli, S, ‘Sanctuary of Apollo – Greek Propylaea and adjacent monuments’, LibAnt, n.s., III, 1997, pp. 235-236, tav. CXV, b; Ead., ‘The Myrtle Enclosure’, LibAnt, n.s., IV, 1998, p. 159, tav. XXXV, b. 3 Ensoli, S., in AA.VV., Cirene, a cura di Bonacasa, N., Ensoli, S., Milano 2000, pp. 52-54, 55-57, 59-80, 85, 86, 89, 104-121, 123-124, 127-133, 135, 146-147, 193-194, 199-206 (alcuni testi sono stati redatti in collaborazione con C. Parisi Presicce). 4 Ensoli, S., ‘La Terrazza Superiore dell’Agorà di Cirene. Il Tempio di Zeus e l’Arco Occidentale della Skyrotà’, in Studi in memoria di Lidiano Bacchielli, Roma 2003 (QuadALibia, XVIII), pp. 47-91; Ead., ‘Il Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli. I. La fase greca del culto isiaco a Cirene’, in Faraoni come dei, Tolemei come faraoni, Atti del V Congresso Internazionale Italo-Egiziano, Torino, 8-12 dicembre 2001, a cura di Bonacasa, N., Donadoni Roveri, A.M., et alii, Torino-Palermo 2003, pp. 246-257; Ead., ‘Il Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli. III. La fase tardoantica del culto isiaco a Cirene’, in Isis en Occident. Actes du IIème Colloque international sur les études

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S. Ensoli

quadro esaustivo, benché forzatamente sintetico, dei sei cantieri portati avanti nel corso delle otto campagne di scavo indicate. 1. Santuario di Apollo: i Propilei Greci e i monumenti adiacenti (Fig. 1, n. 33) Veniamo innanzitutto al Santuario di Apollo sulla Myrtousa e ai lavori realizzati nel 1996, con cui sono state concluse le indagini sui Propilei Greci, il monumentale ingresso, tetrastilo e timpanato, eretto in corrispondenza dell’estremo settore orientale del muro di sostegno della Terrazza della Fonte 5 (Fig. 2). Le indagini di studio, di scavo e di restauro, avviate nel 1980, hanno consentito di effettuare la ricostruzione del fastoso propileo-ninfeo, con la completa restituzione grafica e con la parziale anastilosi (Fig. 3): la struttura, fornita sul lato nord di una triplice scalea affiancata da quattro bocche di fontana, alimentate dalla Fonte di Apollo, e su quello sud di una rampa a piano inclinato delimitata da due spallette, dava accesso alla Terrazza Inferiore del santuario (cfr. Fig. 1, n. 33). Il monumento, dedicato nella seconda metà del III secolo a.C. dal sacerdote di Apollo Praxiades, svolgeva il ruolo di pompiké eisodos, avendo ereditato le funzioni lustrali attribuite in precedenza alla Fonte di Apollo 6. La costruzione è stata preceduta da quattro successivi portali, il primo dei quali, risalente al V secolo a.C. e da collegare con il rinnovamento monumentale che seguì alla caduta della monarchia dei Battiadi, s’innalza a 6 metri di profondità rispetto allo stilobate dei Propilei Greci 7. Lo scavo sistematico dell'edificio e dell'area adiacente è stato completato nel 1996 con un'ampia trincea effettuata sulla Terrazza della Fonte, presso il Sedile di Elaiìtas (S 96 B, 1-16) (Fig. 1, “E”; Fig. 4), grazie alla quale è stato raggiunto un triplice obiettivo: isiaques, Lyon III, 16-17 mai 2002, a cura di Bricault, L., Leiden-Boston 2004, pp. 193-219 ; Ead., ‘L’Egitto, la Libia e la più antica diaspora del culto isiaco nel bacino del Mediterraneo: il Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene’, in Ägyptische Kulte und ihre Heiligtümer im Osten des Römischen Reiches, Internationales Kolloquium, Bergama/Türkei, 5./6. September 2003, a cura di Hoffmann, A., Istanbul 2005 (Byzas, 1), pp. 181-196, figg. 1-16. I contributi portati nei due convegni di Tripoli e di Macerata nel 1998, di cui non usciranno gli Atti, resteranno inediti (Ead. ‘Sorgenti, fontane e culti nel Santuario di Apollo a Cirene’, in Archeological Discoveries and Studies in Great Jamahiriya, Congresso Internazionale, Tripoli, 22-23 September 1998, a cura di Al-Khadduri, A.E.; Ead., ‘Scavi e restauri nel Santuario di Apollo a Cirene’, in Quarant’anni della Missione Archeologica Italiana a Cirene, Convegno di studio, Macerata, 6-7 novembre 1998, a cura di Gasperini, L.); saranno pubblicati, invece, in tempi augurabilmente brevi, i seguenti lavori consegnati da tempo alla stampa: Ead., ‘La statua di Zeus Egioco a Cirene’, in Cirene e la Cirenaica nell’antichità, I convegno internazionale di studio, Roma-Frascati, 18-21 dicembre 1996, a cura di Gasperini, L., Lanzillotta, E., pp. 209-258; Ead., ‘Il Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli. II. La fase romana del culto isiaco a Cirene’, in Dobias Lalou, C., ed, La religion dans la Cyrenaique antique, Colloque International, Dijon, 21-23 mars 2002, (in stampa); Ead., ‘Profilo storico dei culti e dei monumenti religiosi in Cirenaica e in Tripolitania’, in Libia, a cura del Dipartimento alle Antichità di Tripoli; Ead., ‘Il Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene. I risultati delle indagini condotte nelle campagne di scavo del 2000, 2001 e 2002’, in Archeologia italiana in Libia: esperienze a confronto, Incontro di studio, Macerata-Fermo, 28-30 marzo 2003, a cura di Di Vita, A., Catani, E.; Ead., ‘L’Egitto e la Libia. A proposito del culto isiaco nel Mediterraneo e del Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene’, RendPontAc, LXXVII, 2004-2005, pp. 137-162, figg. 1-25; Ead., ‘La Missione Archeologica Italiana a Cirene dal 1957 al 2004: cinquant’anni di ricerche’, Archeo, fascicolo monografico. 5 Sui Propilei Greci e sulla ricostruzione del monumento: Ensoli, ‘Notizie sulla campagna di scavi’, pp. 171-176, figg. 8-10, tavv. VIII-XI; Ead., ‘L’iconografia e il culto di Aristeo’, pp. 61, 75-77, figg. 2, 11-12; Ead., ‘I Propilei Greci’, pp. 61-71, tavv. XIX-XXVI, con bibl.; Ead., ‘I rifornimenti idrici’, pp. 98-100, note 48 ss., 86, figg. 17, 19, 21; Ead., ‘Sanctuary of Apollo’, pp. 235-236; Ensoli, in Cirene, p. 128, con altra bibl. a p. 218. 6 Vedi specialmente Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 99-100, nota 52. 7 Sulle fasi precedenti dei Propilei Greci vedi in particolare Ensoli, ‘Notizie sulla campagna di scavi’, p. 171, fig. 8; Ead., ‘I Propilei Greci’, pp. 64-67, tavv. XXII, XXV, b. La quarta fase del portale, da datare nell’ultimo quarto del IV secolo a.C., fece parte di un organico programma di rinnovamento monumentale dell’area sacra, importante anche per i suoi risvolti urbanistici, che fu curato dall’oligarchia cittadina e che mirò ad una rivalutazione del culto di Apollo, in linea con l’ideologia tolemaica. Vedi anche infra.

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1) il riconoscimento di 16 livelli stratigrafici che si sono succeduti sulla Terrazza della Fonte, databili a partire dal VII secolo a. C. sino alla tarda età ellenistica 8; 2) la chiara comprensione del collegamento tra questi livelli, le fasi architettoniche dei Propilei Greci e dei monumenti adiacenti, tra cui il Tempietto di Afrodite (Fig. 1, n. 34) 9, e i diversi assetti della Via Sacra, che in età ellenistica fu spianata e sistemata con uno strato compatto di caolino; 3) l’approfondita conoscenza del Sedile dedicato dal sacerdote Elaiìtas, risalente al II secolo a.C.: il monumento, che per 300 piedi delimitava il lato sud della Via Sacra con la fronte rivolta a nord, costituendo un luogo di sosta privilegiato in occasione del passaggio della pompé 10, recinse l’area superstite del Giardino di Afrodite 11 e comprese nel suo interno la Fontana di Hermesandros (Fig. 1, “C”), già denominata “dei Buoi di Euripilo”, per la quale posso confermare la funzione e la datazione che ho proposto recentemente 12. La copiosa quantità di materiale fittile votivo, coerente con quello rinvenuto negli anni precedenti in questo ampio settore a cavallo tra le due terrazze, conferma per l'età regia la destinazione sacra dell'area e la sua appartenenza alla cerchia di Afrodite. 8

Gli strati di terra superiori furono asportati lungo tutta la terrazza nel corso degli sterri effettuati negli anni Trenta. Sul tempietto, posto a nord-est dei Propilei Greci: Stucchi, S., Architettura cirenaica, Roma 1975, pp. 53-54, 241242, tav. I, n. 34; Ensoli, ‘L’iconografia e il culto di Aristeo’, pp. 61, 75-76, nota 1, figg. 2, 11. 1-2; Ead., ‘I rifornimenti idrici’, pp. 96, 100, note 41, 54, fig. 21; Ead., in Cirene, p. 128, con altra bibl. a p. 218. Vedi anche infra, nota 11. Il culto praticato nell’edificio, costruito nel IV secolo a.C. nell’area del più antico Giardino di Afrodite, era connesso con l’ampia sfera della fertilità vegetale e umana e, pertanto, con il potere rigeneratore dell’acqua: una circostanza che consente di supporre una duplicità di funzioni del monumentale propileo-ninfeo. Alla dea erano legati theoi synnaoi dalle competenze specificatamente salutari e, tra essi, Aristeo, scelto dagli aristocratici cirenei come contrappunto ad Asclepio, la più importante divinità medica del periodo democratico. 10 Sul sedile: Stucchi, Architettura, pp. 113, 596, figg. 599-600; Laronde, A., Cyrène et la Libye hellénistique. Libykai historiai de l’époque républicaine au principat d’Auguste, Paris 1987, pp. 185-187, figg. 55-57; Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 94-98, note 37 ss., 87, figg. 18-19, con bibl.; Ead., ‘Sanctuary of Apollo’, pp. 235-236; Ead., in Cirene, p. 127, con bibl. a p. 218. Vedi anche infra, nota 12. 11 Sul giardino, reso famoso dal canto di Pindaro e ricordato come entità topografica nell’età di Callimaco: Stucchi, Architettura, pp. 593-596, figg. 599-600; Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 95-98, note 39-43, figg. 2, 10-11, 18, con bibl.; Ead., in Cirene, p. 127, con bibl. a p. 218; Ead., ‘Il vaso Portland’, p. 192, nota 79, con bibl. Vedi anche infra, nota 12. Il Giardino di Afrodite, esteso in origine nella parte orientale della Myrtousa, a cavallo tra le due terrazze, come attestano la documentazione epigrafica, una stipe votiva e la Grotta Sacra alla ninfa Cirene (Fig. 1, “D”), cambiò man mano la sua fisionomia nel corso del IV secolo a.C. con l’innalzamento del poderoso muro di sostegno che separò le due terrazze, con il rifacimento della pyle d’ingresso sottostante ai Propilei Greci e con la sistemazione della Via Sacra, lavori che ne modificarono la morfologia e ne ridussero l’area, favorendo la monumentalizzazione della parte di esso che occupava la Terrazza Inferiore (vedi supra, nota 9). 12 Sulla fontana, posta sulla Terrazza della Fonte subito ad est dello sbocco della Via Sacra, la via di Batto tagliata nella roccia, vedi Stucchi, Architettura, pp. 139-140, fig. 593, (“dei Buoi di Euripilo”); Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 92-98, note 31-35, 88, figg. 10-16, con bibl. (di Hermesandros); Ead., in Cirene, p. 127, con bibl. a p. 218. Per le epigrafi: SECir, nn. 161-162; Gasperini L., ‘Note di epigrafia cirenea’, in Scritti di antichità, pp. 143-156, con bibl. precedente. La fontana, provvista di tre vasche e ornata sulla parete di fondo da un rilievo con alcuni bovidi che si abbeverano ad una fonte, rappresenta lo mnema posto da Hermesandros a ricordo dei 120 buoi offerti in occasione delle feste di Artemide: nel monumento può riconoscersi il luogo in cui venivano purificati gli animali destinati al sacrificio nel corso delle grandi processioni. La conformazione della fontana, la documentazione epigrafica ad essa inerente e la successiva costruzione del Sedile di Elaiítas, collegata con la precedente offerta di Hermesandros, consentono di credere che la definitiva riduzione e la recinzione del kepos di Afrodite fossero funzionali alla sosta temporanea degli animali offerti in sacrificio, come indicano, tra l’altro, i ventuno abbeveratoi posti ai piedi della parete rocciosa (cfr. Fig. 1). Il Sedile di Elaiìtas - e quindi la Via Sacra -, la Fontana di Hermesandros e il Giardino di Afrodite sono stati oggetto di sondaggi stratigrafici anche nella campagna di scavo del 2004, con risultati che confermano quanto già indicato, ampliano le problematiche e precisano le cronologie: per esempio, è oggi possibile essere certi che i ventuno abbeveratoi indicati non siano di età tardoromana, come si pensava in precedenza (Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, p. 97, nota 44, con bibl. precedente), ma contemporanei alla costruzione del sedile. 9

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2. Santuario di Apollo: il Recinto del Mirto (Fig. 1, “B”; Tav. II, 5) Passiamo al Recinto del Mirto e alle indagini eseguite nella campagna di scavo del 1997, che integrerò subito con quelle conclusive svolte nel 2001 13. Il recinto si eleva immediatamente a ovest del Tempio di Artemide e a nord del Tempio di Apollo. Le indagini di studio, di scavo e di restauro condotte nel 1987 e nel 1990 hanno consentito di effettuare la ricostruzione del recinto, con la completa restituzione grafica e con la parziale anastilosi (Fig. 5). Il monumento, privo di strutture nel suo interno, doveva presentarsi originariamente come una loggia dorica di pianta rettangolare elevata su un alto zoccolo, fornita di un'unica fronte colonnata esastila rivolta verso sud. La loggia era priva della copertura del tetto ed era munita di una triplice serie di pilastri addossati alle pareti interne, che, oltre a svolgere la funzione di contrafforti dell'elevato, sostenevano un sistema di tralicci lignei costituenti un vero e proprio pergolato. L'identificazione dell'edificio con il Recinto del Mirto, ossia con il luogo in cui si conservava il boschetto sacro che secondo le fonti scritte protesse la ierogamia del dio Apollo e della ninfa Cirene, si è resa possibile grazie all'apporto concomitante dei documenti epigrafici e delle testimonianze letterarie e figurative. Nella campagna di scavo del 1997 é stata indagata la struttura in pianta a forma di "H" ribassata, che, addossata al lato settentrionale del recinto (cfr. Fig. 1, “B”), può essere interpretata come un'opera di terrazzamento che regolarizzò il forte dislivello del terreno verso nord, evidente nei sondaggi del 1926 e del 1990. Nella campagna del 2001 sono stati eseguiti due saggi in profondità (S01A e S01B), grazie ai quali si è potuto verificare che l’area in epoca arcaica era in forte pendio verso nord e che fu man mano regolarizzata in età classica ed ellenistica con riempimenti livellati per allargare i confini della terrazza, in relazione ai lavori di costruzione e di ricostruzione degli edifici circostanti. Le ricerche hanno permesso anche di stabilire che il recinto fu restaurato dopo la rivolta giudaica 14 e che in quest’occasione la struttura a forma di “H” ribassata fu sopraelevata e trasformata in una cisterna di alimentazione del boschetto sacro, per poi essere nuovamente reimpiegata in età tardoromana. La costruzione del monumento, che presuppone il rifacimento del Tempio di Apollo con il suo nuovo ciclo frontonale 15, s’inserisce nella serie degli interventi edificatori realizzati in età tolemaica ad opera dei sacerdoti di Apollo con il duplice scopo di regolarizzare e valorizzare gli spazi dell’area sacra, nonché di memorizzare, vivificandone l’ideologia, le mitiche origini della polis. Più in particolare la datazione del materiale ceramico e lo stile architettonico indicano una cronologia intorno alla metà del III secolo a.C.: penso, quindi, al regno congiunto di Tolemeo III Evergete II e di Berenice figlia di Magas, sposi nel 246 a.C. 13

Sul monumento: Anti, C., ‘Campagna di scavi a Cirene nell’estate del 1926’, Africa Italiana, I, 1927, p. 299; Stucchi, Architettura, pp. 116-117; Ensoli ‘Notizie sulla campagna di scavi’, pp. 157-171, tavv. I-VII, con bibl.; Ead., ‘Il Recinto del Mirto’; Ead., ‘The Myrtle’, p. 159, tav. XXXV, b; Ead., ‘Il vaso Porland’, specialmente pp. 184-193, note 75-85, figg. 23-30; Ead., in Cirene, pp. 112-113, 133, con bibl. a p. 218. Il Recinto del Mirto è in corso di pubblicazione nei Quaderni di Archeologia della Libia. 14 All’interno del recinto si conserva un rocchio di colonna del Tempio di Apollo di età augusteo-tiberiana, caduto in quest’occasione e non più rimosso. 15 Vedi Ensoli, ‘Il vaso Portland’, specialmente pp. 201-209, note 137-150, pp. 231-233, note 254-255, figg. 37-44. L’edizione esaustiva della decorazione frontonale del tempio di età tardoclassica è in corso di preparazione da parte di chi scrive.

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Il matrimonio regale, cantato da Callimaco, può aver ispirato l’erezione del monumento, che in tal modo veniva a rappresentare un vero e proprio mnema di valore attualizzante, parallelamente alla dedica sull’Agorà del monumento con il rilievo di Afrodite-Berenice 16. La fortuna dell’edificio in età imperiale è attestata probabilmente dal fregio figurato del vaso Portland, grazie alle possibilità offerte dalla tradizione mitologica cirenea alla sottile interpretatio dell’ideologia augustea, nel quadro della celebrazione di una teofania nuziale e nell’ambito della tradizione alessandrina 17. Concludo questo argomento, ricordando che le indagini svolte nell’area hanno riguardato anche il lungo Donario addossato al lato meridionale del Tempio di Artemide, il quale, eretto in età ellenistica e rivisitato in età romana, si attestò con la fronte sul percorso viario esistente tra i due templi. La posizione e la conformazione del monumento suggeriscono l’ipotesi che esso fosse stato creato per accogliere statue “importanti”: penso a quelle a cui appartengono le teste recuperate da Smith e Porcher nelle rovine “immediatamente a nord del Tempio di Apollo”, di cui ha trattato recentemente Adams offrendo una serie di spunti 18. La valenza religiosa e simbolica dei monumenti eretti nell’area – e tra essi il Recinto del Mirto - potrebbe avvalorare l’ipotesi di Adams sull’esistenza di un gruppo statuario tolemaico, da localizzare, tuttavia, proprio su questo donario19. 3. Santuario di Apollo: la fontana di età classica nell’area tra la Fontana di Philothales e il Tempio di Iside (Fig. 1, nn. 13-14; Tav. II, 8) Veniamo ora alla campagna di scavo del 1998, nel corso della quale è stata indagata l’area tra la Fontana di Philothales e il Tempio di Iside (Fig. 6), che, posta a sud del Tempio di Apollo, è delimitata sul lato meridionale dal muro di sostruzione a cui si appoggiano entrambi gli edifici 20. Le indagini hanno consentito di ultimare lo studio della Fontana di Philothales, che è stata oggetto di molteplici lavori di scavo e di restauro dal 1988 al 1993; di avviare le ricerche sul Tempio di Iside e, soprattutto, di scoprire una struttura in opera quadrata che in origine correva parallela al muro di terrazzamento (Fig. 7). Nell’area sondata quest’ultima costruzione è formata da due filari di blocchi sovrapposti, che poggiano direttamente sulla roccia e di cui il superiore fa già parte dell’elevato. A ovest, in prossimità del Tempio di Iside, lì dove termina il muro di terrazzamento, essa piega ad angolo retto verso sud (Fig. 8). La serie di canaletti ricavati 16 Stucchi, S., ‘La sede del rilievo “di Afrodite” nell’Agorà di Cirene’, in Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di Achille Adriani, III, Roma 1984, pp. 851-857; Bacchielli, L., ‘I “luoghi” della celebrazione politica e religiosa a Cirene nella poesia di Pindaro e di Callimaco’, in Cirene. Storia, mito, letteratura. Atti del Convegno della S.I.S.A.C., Urbino, 3 luglio 1988, Urbino 1990, pp. 30-33; Id., ‘Il santuario di Demetra e Kore nell’Agorà di Cirene durante l’età tolemaica’, in Alessandria e il mondo ellenistico-romano, Alessandria, 23-27 Novembre 1992, Roma 1995, pp. 128-133, specialmente p. 130, note 30-34. 17 Ensoli, ‘Notizie sulla campagna di scavi’, pp. 157-171; Ead., in Cirene, p. 133; Ead., ‘Il vaso Portland’, pp. 165260. 18 Adams, N., ‘Another Hellenistic Royal Portrait from the Temple of Apollo at Cyrene?’, LibSt, XXXIII, 2002, pp. 29-44. 19 Su questo argomento tornerò ampiamente nella pubblicazione monografica sul Recinto del Mirto (cfr. supra, nota 13). 20 Sulla Fontana di Philothales: Stucchi, Architettura, pp. 105-107, figg. 94-95, tav. I, n. 14 (“Loggia dell’Alloro”); Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 79-86, 102, 108-110, note 59-63, figg. 5-9, con bibl. (Fontana di Philothales); Ead., in Cirene, pp. 112-113, 130, con altra bibl. a p. 218. Sul Tempio di Iside vedi infra, nota 26.

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nella roccia all’interno e davanti alla struttura, che corrono con un orientamento estovest e proseguono al di sotto del tempio isiaco, la planimetria della costruzione e il fatto che intorno al 325 a.C. essa fosse stata sostituita dall’apprestamento idrico eretto dal sacerdote Philothales suggeriscono di riconoscere nei resti scoperti nel 1998 una fontana più antica e più monumentale, forse la prima eretta a fianco del Tempio di Apollo, la quale fu appoggiata all’originaria elevazione del muro di terrazzamento. I reperti ceramici rinvenuti nello scavo, le caratteristiche tecniche della struttura e del muro di terrazzamento, nonché considerazioni di ordine topografico suggeriscono una datazione di questo più antico apprestamento idrico nel V secolo a.C., probabilmente dopo la metà del secolo, da inquadrare nell’ambito dell’attività monumentale conseguente all’instaurazione del governo democratico. I cospicui lavori edilizi realizzati in quest’epoca, ampiamente attestati nell’Agorà, talvolta con decisivi cambiamenti rispetto agli assetti precedenti 21, riguardarono anche il Santuario di Apollo, che fu oggetto di importanti interventi urbanistici 22. La scoperta avvenuta nel 1998, pertanto, rende certi che almeno un secolo prima di Philothales, quando il perimetro dell’area temeniale era ristretto ancora alla Terrazza Inferiore, l’area a sud del tempio - già nell’età dei Battiadi spianata e sostruita verso sud lavorando il banco roccioso, forse in relazione alla costruzione della peristasi del Tempio di Apollo - ebbe un monumentale rifornimento idrico alimentato dalle sorgenti sacre della Terrazza Superiore. L’acqua attinta alla fontana doveva essere impiegata in varie cerimonie: la purificazione dei sacerdoti e dei fedeli, i lavaggi dei templi e delle statue di culto, i sacrifici in onore di Apollo e di Artemide celebrati presso gli altari antistanti ai loro templi e, forse già da allora, i banchetti che si svolgevano nell’Hestiatorion eretto ad est della fontana, dietro al cosiddetto Donario a Gradinata (Fig. 1, n. 15) 23. Già prima delle indagini condotte nel 1998 numerosi indizi portavano a credere che in età anteriore alla costruzione della Fontana di Philothales esistesse nel luogo un apprestamento idrico direttamente connesso con il Tempio di Apollo e con le pratiche oracolari, da considerare alla luce del rapporto tra la Fonte Kassotis e il Tempio di Apollo nel santuario delfico. Questa tesi, che investe anche il problema della sistemazione interna del tempio cireneo prima del IV secolo a.C. e dell’originaria destinazione della vicina Grotta Oracolare di Apollo Pizio 24, oggi, dopo queste indagini, riceve un’inaspettata conferma. 21

Ensoli, in Cirene, pp. 62-65. Vedi specialmente Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 180-181, nota 45; Ead., ‘I rifornimenti idrici’, p. 84, nota 10; Ead., in Cirene, pp. 107-108 (testo in collaborazione con C. Parisi Presicce). Si possono ricordare l’erezione del primo ingresso del temenos nel luogo in cui sorsero in seguito i Propilei Greci (cfr. supra), che comportò una nuova articolazione del percorso della Via Sacra sia sulla Terrazza Superiore, allora esterna all’area del santuario, sia su quella inferiore, non più ristretta alla zona prossima al Tempio di Apollo, e la regolarizzazione dei luoghi d’interesse specifico con muri di terrazzamento in opera quadrata. Si trattò di interventi poderosi, ispirati in modo diretto dal regime democratico, che definirono un nuovo assetto topografico del temenos, sia in relazione all’ufficializzazione dei culti praticati nel suo interno, ma decentrati rispetto alla delimitazione della più antica area sacra, sia in riferimento a una più razionale disposizione degli edifici impiegati nelle cerimonie religiose. 23 Sull’identificazione del monumento con un Hestiatorion: Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 102, 104, note 60-61, con bibl., fig. 23. 24 Sulla Grotta Oracolare (Fig. 1, n. 7): Stucchi, Architettura, pp. 56-57, 266-267, 491-492, figg. 262, 264, 509; Stucchi, S., Divagazioni archeologiche, I, Roma 1981, pp. 87-116, tavv. XXV-XXXVI; Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 102-105, note 64-67, figg. 24-25; Ead., in Cirene, p. 124, con bibl. a p. 218 (testo in collaborazione con C. Parisi Presicce). 22

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Negli ultimi decenni del IV secolo a.C., durante il governo oligarchico, la fontana di età classica venne sostituita da quella di Philothales e, ad ovest di quest’ultima, venne eretto il Tempio di Iside (cfr. Figg. 6-7). Si trattò di una consistente operazione monumentale da collegare in modo diretto con il rifacimento del tempio del dio tutelare, realizzato nell’ultimo quarto del IV secolo a.C., e, pertanto, con la situazione storicopolitica e religiosa contemporanea: mi riferisco in particolare all’importante funzione, anche dal punto di vista dell’attività edilizia, svolta a partire dalla metà del secolo dai sacerdoti di Apollo, membri della più cospicua aristocrazia cirenea, e all’avvento dei Tolemei, che favorirono l’incremento del culto apollineo e il riconoscimento di quello isiaco nell’ambito della religione ufficiale della polis 25. 4. Santuario di Apollo: il Tempio di Iside (Fig. 1, n. 13; Tav. II, 9-11) Passiamo ora al Tempio di Iside (Fig. 9) e ai sondaggi stratigrafici praticati nel suo interno durante la campagna di scavo del 1999, integrati da altri lavori condotti nelle campagne del 2000 e del 2003 26. L’erezione del tempio intorno al 308 a.C., a cui si riferiscono le emissioni monetali in argento che recano sul dritto la testa di Iside con la corona di spighe, rientra, come si è già accennato, nell’ambito della cospicua attività edilizia promossa dall’aristocrazia cirenea a partire dalla metà del IV secolo e va posta in relazione all’avvento dei Tolemei 27. Elevato sul suolo roccioso, nuovamente rilavorato e sistemato, l’edificio venne accostato al precedente muro di terrazzamento, anch’esso opportunamente riadattato (cfr. Fig. 7). La posizione forzata costrinse ad adottare una pianta rettangolare più ampia in facciata che in profondità, con piccoli ortostati in basso, cornice interna di divisione tra zoccolo e parete, e muratura isodomica in quest’ultima parte, secondo le esperienze architettoniche del Tesoro dei Cirenei a Delfi e, nella stessa Cirene, del Tempio di Apollo Archegeta nell’Agorà e del Tesoro degli Strateghi nel Santuario di Apollo 28. In base ai sondaggi effettuati è stato possibile individuare l’esistenza di una vasca sotterranea nella parte sud-occidentale della cella, rifornita da una tubatura che passava all’interno di un canaletto ricavato nel muro di fondo, a est dell’attuale base di culto. I riti di purificazione eseguiti nelle cerimonie quotidiane e le pratiche cultuali compiute nelle cerimonie annuali, che conservavano la doppia valenza caratteristica dell'elemento nilotico, possono spiegare la presenza nell’edificio del cospicuo apprestamento idrico individuato nel 1999 (saggi S99C, S99D, S99E: cfr. Fig. 7), che trova ampio riscontro in età

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A partire dalla seconda metà del IV secolo e nel corso di tutto il III secolo a.C. si moltiplicarono le imprese monumentali mirate all’approvvigionamento idrico dell’area sacra. Esse riflettono le esigenze di una differenziata organizzazione dello spazio temeniale, derivante dalla pluralità dei culti praticati nel suo interno, e rispondono a una più razionale distribuzione dell’acqua in relazione alle accresciute esigenze della comunità, in linea con il contemporaneo sviluppo che si registra nelle altre città greche. Vedi Ensoli, ‘I rifornimenti idrici’, pp. 87-88, 91-92, specialmente pp. 105-106, con ampia bibl. 26 Sul tempio: Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 178-194, 219-228, 239-241, figg. 5-6, 9, tavv. II-IV, XII-XIV, XXV, 1, con ampia bibl.; Ead., in Cirene, p. 131, con altra bibl. a p. 218. 27 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 182-193; in particolare sulla monetazione citata: ibid., p. 185, nota 61, tav. III, 2; Ead., in Cirene, p. 131. 28 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 178-180, note 41-43, con bibl. sui confronti richiamati, figg. 2-3, tavv. II, 2; III, 1; XIV. In particolare su questa fase del Tempio di Apollo Archegeta (Ead., in Cirene, p. 65; Purcaro, V., ibid., p. 81), vedi ora Purcaro, V., L’Agorà di Cirene, II, 3. L’area meridionale del lato ovest dell’Agorà, Roma 2001, pp. 61-80.

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ellenistica ad Alessandria, Gortina, Thessalonica, Eretria, Delo e Pompei, per citare solo alcuni esempi 29. A differenza del Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene 30, il culto della dea era curato sulla Myrtousa dai sacerdoti di Apollo e era di tipo salutare, come in numerosi altri centri del Mediterraneo, tra cui Melo, Delo e Atene. Esso era strettamente connesso, inoltre, con il culto di divinità legate alla sfera medica (Isis Soteira) 31. Nel tempio, infine, la duplice valenza eleusina di Iside, madre e sposa divina, come testimonia la documentazione scultorea di tradizione alessandrina, era collegato con il carattere salvifico e mistico del culto, che nel tipo di liturgia trovava significativi paralleli nella stessa area sacra nei riti in onore di Hekate 32. Dalla mitologia eziologica, d’altra parte, emerge uno stretto legame tra le procedure eleusine e le teletai terapeutiche anche in relazione alla magia guaritrice egiziana 33. L’accoglienza della religione isiaca nel Santuario di Apollo va compresa nel panorama dell’evoluzione e della molteplicità dei culti cosiddetti minori sulla terrazza della Myrtousa, che scaturirono, nel quadro delle mutate condizioni storico-politiche e sociali, dalle nuove esigenze dell’individuo verso un rapporto più intimo con il divino. Essa rientra nell’ambito dell’introduzione ufficiale nella stessa area sacra di altri déi, tra cui Hekate, la divinità onorata nel Tempio Occidentale II (Dioniso?) e quella venerata nel cosiddetto Tempietto di Hades, che è stata anche identificata con Zeus Ourios e che invece potrebbe avere un diretto rapporto con Serapide, il dio a cui probabilmente solo in età romana fu dedicato un piccolo sacello nel Santuario di Apollo (Fig. 1, rispettivamente nn. 19, 4, 26, 25) 34. In età romana, dopo la rivolta giudaica, il Tempio di Iside fu ricostruito a cura del sacerdote di Apollo e a spese del santuario, come documenta l’iscrizione incisa sull’architrave della nuova facciata dell’edificio, che in quest’occasione fu completato con un pronao dorico distilo in antis, preceduto da due gradini e da un altarino circolare 35 (Cfr. Figg. 7, 9; Fig. 10). Lo stilobate poggiò su tre filari di blocchi di fondazione impostati direttamente sulla roccia e sulle strutture relative alla fontana del V secolo a.C. a cui si è accennato precedentemente. La cella reimpiegò i tre muri perimetrali del tempio greco e accolse sul fondo un basamento per la statua di culto, che comportò l’elisione della parte corrispondente della cornice in aggetto sulla parete interna meridionale, al di sopra dello zoccolo di ortostati. La soglia originaria della fronte fu riutilizzata nel nuovo portale della cella e le due pareti ai lati di essa, impostate sulle 29

Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 189-190, note 77-79, con bibl.; Ead., in Cirene, p. 131. Vedi infra. 31 Ricordo che a Melo in età ellenistica Iside è accoppiata con Igea, mentre in unione con Serapide è associata a Paion e Panakeia; a Delo Iside è identificata con Igea. Lo stretto rapporto tra Iside-Serapide e Igea-Asclepio, noto con particolare evidenza nel Peloponneso, è attestato anche ad Atene. Si consideri, inoltre, che nella polis e nella chora di Cirene (Balagrae) i riti di tipo salutare trovavano un terreno particolarmente fertile e una radicata tradizione nel culto di Asclepio e delle divinità epicorie associate al dio. Sulla problematica e sui confronti citati vedi Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 190-191, note 80-83, con bibl.; Ead., ‘Il Santuario, II’. 32 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 191-194, note 85-95, 98, con ampia bibl.; Ead., ‘Il Santuario, II’. 33 Vedi inoltre Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, p. 194, nota 96; Ead., ‘Il Santuario, II’; Sfameni Gasparro, G., ‘Iside Salutaris: aspetti medicali e oracolari del culto isiaco tra radici egiziane e metamorfosi ellenica’, in Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002, pp. 327-335; Ensoli, S., ‘Roma, la “Babilonia d’Occidente” di Agostino e i culti isiaci in età tardoantica’, in 387, ambrogio e agostino. le sorgenti dell’europa, Milano 2003, pp. 142-151, specialmente pp. 147-150. 34 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 185-186, note 63-68, con bibl. anche sui singoli monumenti. 35 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 219-228, note 171-205, figg. 3, 8, tavv. II, 1-2; XII, 1-2; XIII, 1. 30

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fondazione preesistenti, furono ricostruite ex-novo in opera quadrata con stipiti modanati. Il pavimento mantenne la stessa quota della sistemazione originaria. La situazione stratigrafica di età greca risulta sconvolta soltanto nel settore in cui fu elevata la nuova base per la statua di culto, che occupò parte della vasca sotterranea. L’euthynteria del basamento fu circondata, lungo il lato est e la metà orientale del lato nord, da una canaletta di mattoni per lo scorrimento dell’acqua, che probabilmente fu in uso sino alla seconda metà del III secolo d.C. (Fig. 11). Addotta dalla Fontana di Philothales, anch’essa restaurata dopo la rivolta giudaica e fornita di un dispositivo tecnicamente simile a quello impiegato nel tempio 36, l’acqua giungeva da una tubatura di riporto allettata sopra la cornice delle pareti interne est e sud della cella e, grazie ad una bocca di fontana imperniata nella cornice, di cui restano tracce sicure, veniva riversata direttamente nella canaletta sottostante. Per quanto concerne il restauro del tempio nell’età di Marco Aurelio o di Caracalla, testimoniato da una lunga iscrizione incisa su una colonna del pronao, esso riguardò il ripristino del tetto e altri rinnovamenti oggi più precisamente documentati: a questa fase costruttiva potrebbe forse appartenere un blocco di tufo frammentario rinvenuto presso la base di culto. Ritenuto da Oliverio parte dell'architrave della porta del naòs, esso reca un'epigrafe dedicatoria, datata tra il II e il III secolo d.C., che forse è da collegare con la statua di culto del tempio, la cui base marmorea, recuperata presso il blocco iscritto, doveva essere inserita nel basamento in fondo alla cella 37. L’ultima fase costruttiva del tempio risale al periodo posteriore al terremoto del 262 d.C. In quest’occasione l’edificio fu oggetto di una cospicua serie di interventi, segno della vitalità del culto: la cella fu suddivisa in due vani per creare un adyton di tipo siriaco sormontato da un arco a conci, che accolse un nuovo basamento per la statua di culto; il pronao fu provvisto di banconi lungo le pareti interne, sull’esempio di quanto realizzato nel tempio del santuario isiaco dell’Acropoli; l’intero edifico ebbe una nuova pavimentazione, costituita da grossolane tessere di terracotta (cfr. Fig. 7). Tranne l’arco dell’adyton, ogni altra struttura fu realizzata con materiale di spoglio 38. Quanto all’approvvigionamento idrico, esso cadde in disuso, segno della deficienza delle risorse acquifere più facilmente accessibili e, soprattutto, di un cambiamento nei rituali: il tempio fu adeguato all’accoglienza dei fedeli, mentre soltanto l’adyton fu riservato esclusivamente al clero 39. La definitiva distruzione dell’edificio può essere attribuita al terremoto del 365 d.C. Dopo questo momento la religione isiaca, rimasta una delle più vitali a Cirene, come testimoniano Sinesio e i ritrovamenti nel santuario acropolitano, fu praticata nella tarda domus costruita a ovest del tempio originario. Quest’ultima inglobò l’Edicola dei Carneadi (Fig. 1, n. 13), facendone un sacrario privato di culto sincretistico, non diversamente da quanto si registra in età tardoantica sia nella stessa Cirene sia in innumerevoli altri luoghi, tra cui la capitale dell’Impero 40. 36

Ensoli ‘I rifornimenti idrici’, nota 7 a p. 83, fig. 6. Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 221-223, note 179-184, figg. XIII-XIV. 38 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 239-240. 39 Si veda a tal proposito quanto si verifica contemporaneamente nel Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene: Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 239-240, note 238 ss.; Ead., ‘Il Santuario, II’; vedi anche infra. 40 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 240-241, con bibl.; Ead., ‘Il Santuario, III’, pp. 206-207, note 13-15, con bibl., fig. 9. In particolare sul culto isiaco a Roma in età tardoantica: Ensoli, S., ‘Culti isiaci a Roma in età tardoantica tra sfera pubblica e sfera privata’, in Iside. Il mito, il mistero, la magia, Milano 1997, pp. 576-583; Ead., ‘I santuari di Iside e Serapide a Roma e la resistenza pagana in età tardoantica’, in Aurea Roma. Dalla città pagana alla città 37

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5. Agorà: i monumenti della Terrazza Superiore (Fig. 12) Veniamo ora, sempre molto brevemente, ai lavori condotti sulla Terrazza Superiore dell’Agorà di Cirene, ricordando che in questi ultimi anni è proseguito il rilevamento grafico per lo studio ricostruttivo degli edifici eretti lungo la Skyrotà, ossia, da ovest verso est, l’Arco Occidentale, l’Edificio presso l’Arco, la Sala dei Sedili, il Nomophylakeion, il Tempio di Zeus, il Pritaneo, il Tempio di Atena/Minerva e l’Archeion (cfr. Fig. 12: rispettivamente n. 79, n.“F”, nn. 96-100; Fig. 13) 41. Le indagini, avviate sotto l’egida dell’UNESCO nel 1984 e dirette da Sandro Stucchi, al fine di predisporre per il Museo Nazionale di Tripoli i plastici ricostruttivi in scala 1:100 delle aree monumentali di Cirene, sono state mirate, contemporaneamente, alla conoscenza approfondita dello sviluppo topografico e monumentale dell'Agorà nel suo insieme, con particolare riguardo all’individuazione esatta delle sedi dei culti e delle magistrature sulla Terrazza Superiore, anche rispetto alle successive fasi di vita degli edifici. Le ricerche, riprese negli anni Novanta, hanno riguardato a partire dal 1996 il Tempio di Zeus e l’Arco sulla Skyrotà (cfr. Fig. 1, rispettivamente nn. 98, 79), in quest’ultimo caso per i legami dell’edificio con le vicende storiche e monumentali del tempio. Questo primo studio, già edito 42, nel quale i due edifici vengono presentati nel loro presumibile assetto architettonico originario, ha portato a ridefinire la storia dei due monumenti, rendendo possibile fissare la cronologia delle loro fasi costruttive. Esso ha consentito, inoltre, di attribuire all’Arco l’epigrafe che menziona gli imperatori Adriano e Antonino Pio, la quale, una volta distrutto il monumento nel sisma del 262 d.C. e non più ricostruito, fu restaurata sulla fronte della base di culto del tempio. L’indagine ha permesso, infine, di datare la statua di Zeus Egioco tra l’età tardoellenistica e la prima età giulio-claudia, con una preferenza per la datazione alta, e non più all’età adrianea 43. I lavori sono stati poi concentrati sulla Sala dei Sedili e sul Nomophylakeion (20002003; Fig. 14), allo scopo di proseguire nelle successive campagne con il rilevamento e il completo studio ricostruttivo delle architetture e degli arredi scultorei dell’Edificio presso l’Arco, del Pritaneo, del Tempio di Atena/Minerva e dell’Archeion 44. 6. Acropoli: il Santuario di Iside e Serapide (Fig. 15; Tav. II, 16) Concludo con i lavori svolti dal 2000 sino al 2003 nel Santuario di Iside e Serapide sulle pendici nord-orientali dell’Acropoli, immediatamente fuori le mura che difendono il colle, ma solo come accenno, perché di essi ho già dato ampie notizie in numerosi convegni e conferenze, editi e in corso di stampa 45. cristiana, a cura di Ensoli, S., La Rocca, E., Roma 2000, pp. 267-287; Ead., ‘Roma, la “Babilonia d’Occidente” ’, pp. 142-151. 41 Ensoli, in Cirene, pp. 59-80, con ampia bibl. a p. 218; Ead., ‘La Terrazza Superiore dell’Agorà’, pp. 47-91, con completa bibl. anche sui singoli monumenti. 42 Ensoli, ‘La Terrazza Superiore dell’Agorà’, pp. 47-91. 43 Ensoli, ‘La statua di Zeus Egioco’, pp. 209-258, con completa bibl. 44 Per dovere di aggiornamento ricordo che le indagini sul Nomophylakeion sono state concluse nella campagna del 2004. 45 Sul santuario: Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 195-217, 228-238, 242-248, tavv. VI-IX, XV-XXIV, XXV, 2, XXVI; vedi anche Ead., in Cirene, pp. 55-57, con bibl. a p. 218. Sugli studi realizzati in base alle indagini di scavo del 2000 e del 2001: Ead., ‘Il Santuario, I’, (in particolare sulle quattro fasi costruttive di età greca e sull’originaria identificazione dell’area sacra); Ead., ‘Il Santuario, II’, (in riferimento alle fasi romana e tardoromana e al problema delle relazioni tra il complesso cultuale acropolitano e il Tempio di Iside nel Santuario di Apollo); Ead., ‘Il Santuario,

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Le indagini eseguite nel santuario acropolitano hanno consentito di ricostruire - in via preliminare, perché lo scavo è tuttora in corso - otto principali fasi di vita del luogo, che possono essere datate dalla fine del VII-inizi del VI secolo a.C. sino almeno alla fine del V secolo d.C.: le prime quattro fasi risalgono all’età greca, le due successive all’età romana e tardoromana e le due fasi finali all’età tardoantica 46. Il temenos acropolitano di Cirene rappresenta una delle più antiche testimonianze della diaspora del culto isiaco nel bacino del Mediterraneo, una precoce apoikia che, testimoniata già da Erodoto, era stata preparata in età precoloniale dalla vicinanza geografica e culturale delle popolazioni libye con l’antico Egitto 47. In età saitica (672525 a.C.), con l’apertura dell’Egitto al mondo ellenico, mentre i Greci venivano a contatto con la civiltà e la religione egizie, la comunità dei coloni di Thera, o alcune componenti di essa, identificarono probabilmente con Afrodite Urania di tradizione cretese e cipriota la dea epicoria libyo-egizia in cui le fonti letterarie riconoscevano Luna: un legame religioso indissolubile tra i coloni e la popolazione indigena, di valore pari alla stipulazione di accordi e preliminare rispetto al processo di osmosi che andava avviandosi. Nell’età di Amasis, che rappresentò dopo la battaglia di Irasa un periodo di grande apertura e di comunanza d’intenti tra l’Egitto e il mondo greco, i rapporti tra la Valle del Nilo e la Cirenaica furono resi più saldi dai traffici con la nuova città del Delta, Naukratis, dove peraltro esisteva un celebre santuario di Afrodite, rendendo possibile la successiva e definitiva identificazione della dea libyo-greca con Iside 48. Vengo in particolare alla quarta fase del santuario, quella di età ellenistica, perché essa investe in modo specifico i lavori eseguiti nel 2003 e, quindi, rappresenta un aggiornamento rispetto a quanto ho già indicato in alcune recenti pubblicazioni (Fig. 15) 49 . In questa fase costruttiva, costituita dal monumento attuale, che corrisponde al periodo di maggiore fasto dell’area sacra, il pianoro venne rialzato e il tempio ingrandito, reimpiegando come fondazioni le strutture di tutte le fasi precedenti, comprese quelle più antiche. Nello stesso periodo la scalinata che collegava l’Acropoli con il santuario venne obliterata dalle nuove mura che recinsero la collina, mentre il piazzale dinanzi al tempio fu sostenuto da imponenti muri in opera quadrata, anch’essi elevati su strutture più antiche utilizzate come fondazioni. Grazie ai lavori realizzati nel 2003 sappiamo che su queste ultime murature si ergevano due alte strutture, di cui rimangono ampi avanzi del crollo, che delimitavano l’area sacra a nord e a sud e che giungevano verso est sino al ciglio del pianoro, lì dove si apriva il nuovo ingresso monumentale servito da una scalinata (Fig. 16). Le caratteristiche architettoniche delle due strutture murarie, che in testata presentavano due grandi III’, (sulle due fasi costruttive di età tardoantica, anche in relazione agli altri contesti pagani della polis, e sul problema degli aspetti misterici del culto isiaco a Cirene). Quanto agli scavi condotti nel 2002: Ead., ‘Il Santuario’. Sugli scavi realizzati nel 2003 vedi anche Ead., ‘L’Egitto, la Libia’. 46 Vedi supra, nota 45. In riferimento alle fasi finali del santuario risulterà molto interessante il contributo di Maria Paola del Moro, in questa sede, sulle lucerne rinvenute nel corso degli scavi. 47 Herod., II, 41; IV, 186, 188. Cfr. Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 168-170, note 2-12, con bibl.; Ead., ‘Il Santuario, I’, pp. 249-250; Ead., ‘L’Egitto, la Libia’. 48 Ensoli, ‘Il Santuario, I’, pp. 250-251, con bibl.; Ead., ‘L’Egitto, la Libia’, pp. 181-182, 187-188, con bibl. 49 Quanto esporrò si giova, inoltre, dei lavori condotti nella campagna di scavo del 2004, di cui tuttavia non tratterò, perché al di fuori dell’ambito cronologico indicato in questa sede. Sulle indagini del 2003 vedi anche Ensoli, ‘L’Egitto, la Libia’, pp. 189-196.

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semicolonne, i dati stratigrafici e l’esame preliminare del materiale ceramico portano ad attribuire questa fase costruttiva all’età ellenistica, confermando i dati acquisiti in precedenza, ma ampliandoli notevolmente sia per quanto concerne l'impianto planovolumetrico dell'area sacra, sia per quanto riguarda la topografia della zona e le sue arterie stradali. La presenza dell’ingresso ad est, eretto peraltro in posizione scenografica, presuppone infatti un percorso viario che collegava il santuario acropolitano con il cuore religioso della polis, il Santuario di Apollo, dove sin dalla fine del IV secolo a.C. si ergeva il Tempio di Iside. Molti elementi confermano quanto supposi nel 1992, ossia che i due santuari isiaci costituissero i poli delle processioni sacre in onore della dea, esattamente come è attestato a Cirene per il culto di Demetra extraurbano (Uadi Bel Gadir) e urbano (Agorà) 50. Penso, per esempio, a celebrazioni di antica tradizione egiziana, tra cui l’Inventio Osiridis, connesse con la sfera della fertilità e in particolare con l’identificazione della dea mirionima con Demetra. La circostanza che sull’Acropoli Iside fosse venerata anche come Thesmophoros e nel Santuario di Apollo come Kore, in linea con il culto alessandrino, rivela profondi significati, direttamente legati alle usanze rituali greche e sottesi allo svolgimento delle sacre processioni. La differenza fondamentalmente politica tra i due luoghi di culto isiaco in età ellenistica è chiara. Il santuario acropolitano rappresentò un portato tolemaico in senso stretto, che prese spunto dal culto libyo-greco, di stampo prettamente misterico, e che si configurò come un culto dinastico. Il Tempio di Iside nell'area sacra ad Apollo costituì, invece, un luogo sacro curato dagli aristocratici cirenei in connessione diretta con la religione apollinea. Esso appare come un prodotto greco, politicamente autonomo dalla diffusa gestione egizia che a partire dall'età tolemaica si riscontra nella polis e in numerosi altri santuari isiaci del mondo mediterraneo, con particolare riguardo alle Cicladi, a Thera, a Creta e a Cipro, paesi in stretto contatto tra loro e con Cirene. Il nuovo impianto del santuario, dedicato questa volta anche a Serapide e probabilmente sin da quest’epoca sede di riti iniziatici, va attribuito probabilmente a un intervento diretto dei Tolemei, come ho più volte sottolineato, e in particolare, anche in base alle connessioni dell’area sacra con le mura urbane, al periodo tra il 164-163 e il 146 a.C., quando Cirene, divenuta la capitale del regno di Tolemeo il Giovane, cambiò per molti versi il suo volto monumentale. La presenza per la prima volta nella città del culto di Serapide in unione con quello di Iside, che è innegabilmente legata al culto del sovrano e pertanto all'ideologia dinastica, corrisponde a una logica storica che trova ampi riscontri nella stessa epoca soprattutto nei paesi che ho ricordato precedentemente 51.

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Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 226-228, note 196-205. La problematica è ripresa e ampliata in Ead., ‘Il Santuario, II’. Vedi anche Ead., ‘L’Egitto, la Libia’, p. 191, nota 39. 51 Ensoli, ‘Indagini sul culto di Iside’, pp. 203-204, note 123-128, con bibl.; Ead., ‘Il Santuario, I’, pp. 249-250, note 17-18, con bibl.; Ead., ‘L’Egitto, la Libia’, pp. 191, 194, note 41-43.

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Fig. 1. Cirene, pianta generale del Santuario di Apollo sulla Terrazza della Myrtousa: n. 7 Grotta Oracolare; n. 11 Tempio di Artemide; n. 12 Tempio di Apollo; n. 13 Tempio di Iside (a sud Donario dei Carneadi); n. 14 Fontana di Philothales; n. 15 Donario a Gradinata (a sud Hestiatorion); n. 29 Terrazza della Fonte; n. 33 Propilei Greci; n. 34 Tempietto di Afrodite; n. 35 Fonte Kyra; n. 36 Fonte di Apollo; lettere “B” Recinto del Mirto; “C” Fontana di Hermesandros (già Fontana “dei Buoi di Euripilo”); “D” Grotta della ninfa Cirene; “E” Sedile di Elaiìtas (da Cirene, a cura di Bonacasa, N., Ensoli, S., Milano 2000, fig. a p. 105).

Fig. 2. Cirene, Santuario di Apollo; la Terrazza della Fonte di Apollo (foto M.I.C.).

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Fig. 3 Cirene, Santuario di Apollo; i Propilei Greci dopo la parziale anastilosi (foto M.I.C.).

Fig. 5. Cirene, Santuario di Apollo; ricostruzione del Recinto del Mirto (da Cirene, a cura di Bonacasa, N., Ensoli, S., Milano 2000, fig. a p. 112). Fig. 6. Cirene, Santuario di Apollo; l’area tra la Fontana di Philothales (a sinistra) e il Tempio di Iside (non visibile nella fig., a destra) (foto M.I.C.).

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Fig. 4. Cirene, Santuario di Apollo; la trincea effettuata nel 1996 presso il Sedile di Elaiìtas (foto M.I.C.).

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Fig. 7. Cirene, Santuario di Apollo; rilievo planimetrico (da sinistra a destra) della Fontana di Philothales con il Tempietto di Apollo Citaredo, della fontana di età classica e del Tempio di Iside (dis. A. Pagnini).

Fig. 8. Cirene, Santuario di Apollo; particolare della fontana di età classica e della parete orientale del Tempio di Iside (foto M.I.C.).

Fig. 9. Cirene, Santuario di Apollo; il Tempio di Iside (foto M.I.C.).

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Fig. 10. Cirene, Santuario di Apollo; il pronao del Tempio di Iside durante gli scavi del 1999 (foto M.I.C.).

Fig. 11. Cirene, Santuario di Apollo; particolare della cella del Tempio di Iside con il canaletto di mattoni apprestato in età romana intorno alla base della statua di culto (foto M.I.C.).

Fig. 12. Cirene, pianta generale del Quartiere dell’Agorà: n. 79 Arco Occidentale della Skyrotà; nn. 80-95 edifici della Terrazza Inferiore; n. 96 Sala dei Sedili; n. 97 Nomophylakeion; n. 98 Tempio di Zeus (poi Capitolium); n. 99 Pritaneo; n. 100 Tempio di Atena/Minerva e Archeion; lettera “F” Edificio presso l’Arco (da Cirene, a cura di Bonacasa, N., Ensoli, S., Milano 2000, fig. a p. 60).

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Fig. 13. Cirene, Agorà; in secondo piano la Terrazza Superiore (foto M.I.C.).

Fig. 14. Cirene, Terrazza Superiore dell’Agorà; il Nomophylakeion (foto M.I.C.).

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Fig. 15. Cirene, Acropoli; il Santuario di Iside e Serapide durante gli scavi condotti nel 2003 (foto M.I.C.).

Fig. 16. Cirene, Acropoli; il muraglione meridionale del santuario isiaco nel corso degli scavi del 2003 (foto M.I.C.).

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R. Salvini, I. Callegari, A. Ventura, M. Anselmi

3 Analisi delle potenzialità di moderne metodologie di indagine in applicazioni archeologiche: telerilevamento ad alta risoluzione spaziale, GPS differenziale e fotogrammetria digitale terrestre nell'area di Cirene (Libia) Riccardo Salvini, Ivan Callegari, Andrea Ventura & Marco Anselmi Introduzione Il lavoro ha l’obiettivo di sperimentare le potenzialità di moderne metodologie di indagine quali il telerilevamento ad alta risoluzione spaziale, il GPS differenziale e la fotogrammetria digitale terrestre per applicazioni archeologiche. L’area di studio è quella di Shahat (l’antica Cirene, Libia), un grande e completo luogo di culto interessato dalla presenza di numerosi monumenti di età ellenistica e romana e di grotte preistoriche. L’analisi estensiva del territorio di Shahhat è stata effettuata mediante controlli di campagna e tramite la fotointerpretazione della scena satellitare QuickBird, datata 7 Maggio 2002. L’ortocorrezione del dato satellitare è stata effettuata utilizzando ground control point rilevati con strumentazione GPS ed il modello digitale del terreno ricavato dalla topografia alla scala 1:50.000. L’accuratezza dei dati DGPS è stata verificata, nelle fasi di post-processamento, tramite contemporanee registrazioni effettuate nelle stazioni permanenti di Noto (SR) e Lampedusa (AG). La fotointerpretazione ha consentito lo studio delle aeree già scavate e di quelle con ricerche attualmente in corso e l’individuazione di lineamenti e strutture superficiali e sepolte, potenzialmente luogo di nuovi ritrovamenti. Parallelamente, tecniche di fotogrammetria digitale terrestre hanno consentito la restituzione stereoscopica degli elementi architettonici di una parte dell’Agorà di Cirene, lungo la strada del Portico delle Erme; in particolare la restituzione ha interessato le colonne, i pilastri e le statue sovrastanti; di ogni Erma sono stati prodotti l’immagine ortorettificata ed il modello 3D con il quale è stato possibile valutare posizioni e volumi mediante analisi GIS. Area di studio Shahhat è ubicata nel settore nord-orientale della Libia, ad est del Golfo di Sidra, a pochi chilometri dal Mar Mediterraneo (Figura 1). L’area è caratterizzata morfologicamente da due rilevanti scarpate subordinate alle montagne del Al Jabal al Akhdar; la scarpata superiore è riferibile al Miocene Superiore mentre quella inferiore al Tirreniano (Pleistocene Medio-Sup.). La morfologia e la struttura delle scarpate, orientate nord-est / sud-ovest nell’area di studio, sono riferibili all’attività tettonica e geomorfologica degli ultimi 10-15 milioni di anni1. La quota dell’area di studio varia dai 200 ai 700 metri s.l.m.. 1

Carmignani, L., Giammarino, S., Giglia, G. & Pertusati, P.C., “The Qasr As Sahabi succession and the Neogene evolution of the Sirte Basin (Libya)”, Journal of the African Earth Sciences, 10(4), 1990, pp. 753-769.

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R. Salvini, I. Callegari, A. Ventura, M. Anselmi

Dal punto di vista geologico l’area è costituita da una monoclinale inclinata leggermente verso sud, talora attraversata da faglie ad alto angolo di tipo trascorrente; dal basso verso l’alto le litologie subiscono delle considerevoli variazioni: la parte inferiore è costituita da calcari fini della Formazione di Darnah (litofacies inferiore) cui seguono, al tetto, calcari-marnosi e debolmente marnosi, ricchi in macroforaminiferi (nummuliti s.l.) appartenenti alla litofacies superiore; al di sopra affiorano, in contatto discordante, sottili livelli di siltiti marnose, a loro volta sormontate da calcari marnosi molto fossiliferi (alghe rosse s.l.) della Formazione di Al Bayda (membro di Shahhat e membro dei calcari algali 2; la sequenza stratigrafica termina con depositi eterogenei della Formazione di Al Abraq, costituiti da un’alternanza di calcareniti glauconitiche, siltiti marnose e argilliti marnose. L’età dei sedimenti varia da circa 40 milioni di anni alla base, fino a 25 milioni di anni al tetto. L’intera necropoli della città di Shahhat si sviluppa sostanzialmente su due tipi di rocce, i calcari a grandi nummuliti nella parte inferiore ed i calcari marnosi algali in quella superiore. Appena al di sotto dell’attuale piano di campagna si rinvengono paleosorgenti e risorgenze attive riferibili a fenomeni carsici e/o a fratturazione. L’evoluzione geomorfologica, dovuta all’azione degli agenti climatici ed alla gravità, ha determinato l’incisione dei principali canyon e l’erosione selettiva della stratificazione affiorante. Materiali e Metodi Dati disponibili I seguenti dati sono stati utilizzati per lo svolgimento del lavoro: -

Immagine satellitare QuickBird tipo pancromatico (Figura 2) e multispettrale, del 7 maggio 2002, completa dei Rational Polynomial Coefficient (RPC) necessari per l’ortorettifica; Ortofotomosaico pancromatico, eseguito dalla ditta EIRA (Ente Italiano Riprese Aeree), alla scala nominale 1:20.000, riferito all’anno 1965; Fotomosaico pancromatico, realizzato da USA Army, alla scala nominale 1:25.000, datate 20 Luglio 1943; Topografia alla scala 1:50.000 (Quadrante Susah, realizzato da USA Army, riferita all’anno 1964).

Pre-elaborazione dell’immagine QuickBird La scena satellitare disponibile è di tipo standard e rappresenta una porzione di 64 km2 (8X8) della scena originale completa. Avendo a disposizione separatamente l’immagine pancromatica e quella multispettrale, al fine di incrementare la risoluzione spaziale di quest’ultima mantenendone la multispettralità, sono state effettuate operazioni di fusione, all’interno del software Erdas Imagine 8.7, secondo il metodo di Resolution Merge a mezzo delle Componenti Principali.

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Abdulsamad, E.O., “Contribution to the Nummulites taxonomy from the paleogene sequences of Al Jabal al Akhdar (Cyrenaica, NE Libya)”, Revue Palèobiol., 19 (1), 2000, pp. 19-45.

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Successivamente, essendo il dato commerciale standard geometricamente soltanto rettificato3, si sono rese necessarie operazioni di ortorettifica per eliminare le distorsioni derivanti dall’orografia della zona e dalla modalità di acquisizione del dato secondo scansione tipo pushbroom. Considerando l’elevata risoluzione spaziale (70 cm), al termine delle operazioni di fusione, si è reso necessario disporre di accurati Ground Control Point (GCP) e creare un Digital Elevation Model (DEM) sufficientemente dettagliato. Lavoro di campagna Il lavoro svolto sul campo ha riguardato inizialmente il rilevamento geologico e geomorfologico necessario alla cartografia tematica di riferimento alla scala 1:10,000 e la misura di una colonna stratigrafica completa ubicata lungo la strada che collega Shahhat con Susah (Figura 3). Successivamente, sono stati rilevati 83 GCP spazialmente ben distribuiti nell’immagine, misurati in modalità differenziale RTK utilizzando 2 ricevitori LeicaTM System 530. A causa della mancanza di punti di riferimento di coordinate note, l’accuratezza delle misure è stata verificata, durante le fasi di post-processing in laboratorio, integrando le misure effettuate con i dati provenienti da registrazioni contemporanee eseguite dalle stazioni permanenti più vicine, rappresentate al momento del rilievo (maggio 2003) da Noto (SR) e Lampedusa (AG); l’accuratezza media ricavata da tutti i punti misurati è risultata di 60 cm circa. Elaborazione dell’immagine QuickBird L’ortocorrezione è stata realizzata mediante i GCP misurati con il rilievo DGPS ed il DEM ricavato dalla interpolazione delle curve di livello, dei punti quotati e dei fiumi digitalizzati dalla topografia alla scala 1:50.000. Secondo la National Imagery and Mapping Agency (NIMA)4 da una carta topografica in scala 1:50.000 è possibile creare un DEM Level 2 la cui risoluzione spaziale è di 30 metri circa con un Root Mean Square Error (RMSE) massimo ammissibile pari alla metà dell’equidistanza tra le curve di livello 5 (equidistanza delle curve di livello, nel quadrante disponibile, di 20 metri). Secondo Kolbl6 l’ortorettifica di immagini satellitari di alta risoluzione spaziale a partire da un DEM con un’accuratezza plano-altimetrica di approssimativamente r10 metri, può essere ritenuta proceduralmente corretta e geometricamente accurata. Il DEM creato è quindi utilizzabile per l’ortocorrezione dell’immagine QuickBird disponibile7. Inizialmente, l’ortocorrezione è stata intrapresa utilizzando un metodo razionale “nonrigoroso” basato sulla correzione polinomiale a partire dai coefficienti disponibili nel 3

Digital Globe, 2004. Customer Service Technical Support. http://www.digitalglobe.com (accessed 06 May 2004 4 NIMA, 2000. National Imagery and Mapping Agency, FAS (Federation of American Scientists) Intelligence Resource Program “Digital Terrain Elevation Data [DTED]”. http://www.fas.org/irp/program/core/dted.htm (accessed 06 May 2004) 5 USGS, 2002. U.S. Geological Survey “National Elevation Dataset”. http:// gisdata.usgs.net/ NED/AccuracyQ2.asp (accessed 06 May 2004) 6 Kolbl, O., Technical specification for the elaboration of Digital Elevation Model, Lausanne, Department de Genie Rural Version, 4, 2001, pp. 26-32. 7 Toutin, T. & Cheng, P., “Quickbird – a milestone for high resolution Mapping”, Earth Observation Magazine, 11(4), 2002, pp. 14-18.

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file RPC, raffinati successivamente con i GCP misurati ed il DEM creato. L’accuratezza della correzione è stata valutata utilizzando 21 checkpoint tra gli 83 disponibili dal rilievo DGPS ed è risultata essere mediamente di 6 metri con un minimo di 2 ed un massimo di 14 metri. La scarsa qualità di questo risultato è imputabile ad una serie di cause: il metodo razionale non consente di ottenere correzioni geometriche sufficientemente accurate in zone non perfettamente pianeggianti; la mancanza di una scena completa di tipo basic e dei dati geometrici di acquisizione viene soltanto “mediata” dai polinomi 8. Di conseguenza, al fine di migliorare l’accuratezza della correzione geometrica e rendere al massimo la scena satellitare coerente rispetto al terreno, si è reso necessario ricorrere a funzioni polinomiali di ordine superiore al primo, secondo il metodo denominato Rubber Sheeting. Quest’operazione ha richiesto l’uso di tutti i GCP disponibili perché il Rubber Sheeting corregge la scena solo localmente, “forzandola” nelle posizioni dei GCP senza tener conto delle informazioni plano-altimetriche delle aree intermedie. Questa scelta ha pregiudicato la possibilità di verificare l’accuratezza posizionale dell’immagine corretta attraverso checkpoint ma, allo stesso tempo, ha ridotto al minimo la presenza di ulteriori deformazioni interne all’immagine. Analisi Multitemporale Presso il Dipartimento dell’Antichità di Shahhat sono stati resi disponibili sia il fotomosaico riferibile all’anno 1943 (Figura 4) sia l’ortofotomosaico dell’anno 1965 (Figura 5). La scansione degli elementi e la loro relativa correzione geometrica ha permesso il confronto multitemporale con l’immagine satellitare ortocorrettta ed il riconoscimento di aeree già scavate (es. il Tempio di Zeus, l’Agorà ed il Ginnasio), di quelle con ricerche attualmente in corso (es. Wadi Ain Hofra) e l’individuazione di lineamenti e strutture superficiali, oppure sepolte (es. la destra e sinistra idrografica dello Wadi Belghadir, il circo di fronte al Tempio di Zeus) potenzialmente luogo di nuovi ritrovamenti (Figura 6). Per favorire il confronto multitemporale, le immagini sono state sottoposte a miglioramenti di tipo spaziale e spettrale. Nel primo caso è stata applicata una convoluzione spaziale per aumentare il contrasto, mentre nel secondo caso sono stati eseguite trasformazioni numeriche per rendere maggiormente evidenti le strutture oggetto d’indagine (es. applicazione del metodo delle componenti principali, decorrelation stretch e tasseled cap). Molto utile nell’interpretazione è stato l’uso dell’indice normalizzato di vegetazione NDVI, ottenuto dal rapporto tra le bande dello spettro elettromagnetico dell’infrarosso vicino con quelle del visibile. Stereofotogrammetria digitale Parallelamente, tecniche di fotogrammetria digitale terrestre hanno consentito la restituzione stereoscopica, mediante il Modulo LeicaTM Photogrammetric Suite (LPS) di Erdas Imagine 8.7, degli elementi architettonici di una parte dell’agorà di Cirene, lungo 8

Volpe, F. & Rossi, L., “Processamento geometrico di dati QuickBird tramite RPC”, 7th ASITA National Conference. Verona, 2, 2003, pp. 1873-1878.

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la strada del Portico delle Erme. Il rilievo fotografico è stato eseguito mediante una camera digitale NikonTM CoolPix5000 montata su una barra fotogrammetrica della lunghezza di 2 metri, disposta su treppiede e progettata appositamente per la fotogrammetria terrestre. Il rilievo topografico è stato eseguito mediante tacheometro SalmoiraghiTM 4149A e distanziometro LeicaTM Disto. Sono stati misurati 45 GCP necessari all’orientamento dei fotogrammi. Dall’osservazione stereoscopica, sono state restituite le colonne, i pilastri e le statue sovrastanti; per ogni Erma sono stati prodotti l’immagine ortorettificata ed il modello 3D con il quale è stato possibile valutare posizioni e volumi mediante analisi spaziali all’interno del software ESRITM Arcinfo 8.3 (Figura 7). Risultati Considerata la multidisciplinarità del lavoro svolto i risultati possono essere meglio analizzati se trattati per argomenti. Per quanto concerne la campagna di rilevamento si è avuto un buon esito sia dalla ricerca dei dati ancillari sia dalla completezza del rilevamento geologico, geomorfologico, topografico e fotografico. L’applicazione delle misure DGPS per l’ortorettifica del dato satellitare, ha confermato una discreta accuratezza posizionale, compatibilmente con le difficoltà logistiche di realizzazione della rete, unita ad una buona distribuzione spaziale dei rilievi. L’accuratezza dell’ortorettifica dell’immagine satellitare è risultata sufficiente rispetto agli obiettivi della ricerca; gli scarti quadratici medi abbastanza elevati riscontrati sui punti di controllo è imputabile ai seguenti fattori: a) tipo di dato disponibile (un dato grezzo, di tipo basic, che d’altra parte è molto più grande e costoso, garantisce un’accuratezza di ortorettifica più elevata (9); b) piccola scala della topografia di riferimento (consigliabile minimo una topografia di scala 1:25.000); c) accuratezza dei rilievi DGPS. Ad esempio, sarebbe stato possibile ottenere misure DGPS più accurate se fossero stati disponibili punti di riferimento di coordinate note o stazioni di registrazione permanente più vicine a Shaaht (Noto e Lampedusa sono comunque le più vicine e disponibili al momento del rilievo). L’immagine QuickBird utilizzata si è rivelata di grande utilità nelle fasi di rilevamento e fotointerpretazione ed ha mostrato grandi potenzialità dal confronto multitemporale con i dati storici. Di grande rilevanza si è mostrato l’uso delle tecniche di fotogrammetria digitale terrestre in ambito archeologico: la qualità dei dati topografici e fotografici raccolti si è mostrata ottima, di conseguenza sono state raggiunte elevate accuratezze nelle operazioni di orientamento; la stereorestituzione completa del Portico delle Erme si è rivelata di grande effetto ed ha evidenziato le potenzialità di tale metodologia per il calcolo delle posizioni e dei volumi mediante analisi spaziali. Conclusioni L’applicazione delle metodologie descritte si è dimostrata di grande utilità nella fotointerpretazione geologica, geomorfologica e archeologica. L’analisi multitemporale delle caratteristiche ambientali ed archeologiche ha permesso di individuare numerose strutture ed aree che necessitano di approfondimenti e sopralluoghi. L’accurato calcolo 9

Toutin, T. & Cheng, P., “Quickbird – a milestone for high resolution Mapping”, Earth Observation Magazine, 11(4), 2002, pp. 14-18.

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delle posizioni e dei volumi mediante la fotogrammetria digitale terrestre e le successive analisi spaziali costituiscono importante materia di riferimento per studi analoghi da condurre in numerosi luoghi del sito archeologico cirenaico. Dal punto di vista strettamente metodologico, le note rilevanti di questo lavoro sono costituite dalla sperimentazione dell’utilizzo di una scena QuickBird tipo standard per l’ortorettifica e dalla realizzazione di strisciate fotogrammetriche mediante una barra stereoscopica prototipale. Gli Autori, parallelamente al lavoro di fotointerpretazione per il rilevamento di strutture di interesse archeologico, hanno proseguito gli studi a carattere geologico e per questo è stata creata un’immagine QuickBird sintetica, a partire da quella ortorettificata descritta in questo lavoro, attraverso l’introduzione di un parallasse artificiale, per permettere l’osservazione stereoscopica dell’area. Attraverso tecniche di fotogrammetria digitale la stereocoppia è stata orientata e la successiva restituzione ha permesso la creazione della cartografia geologica e geomorfologica definitive. Sono in corso i rilievi fotogrammetrici mirati anche all’individuazione di ulteriori elementi di interesse archeologico. Ringraziamenti Questo lavoro è stato realizzato nell’ambito del Progetto “Ricognizione e scavi nel santuario agreste di Ain Hofra (Cirenaica) e studio dei materiali per l'allestimento del Museo di Bengasi” (Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica) coordinato dalla Prof. E. Fabbricotti dell’Università di Chieti. Un particolare ringraziamento è indirizzato al Dipartimento delle Antichità di Shahat per la disponibilità mostrata nel rendere consultabili immagini e cartografie.

Fig 1 Inquadramento geografico dell’area di studio

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Fig 2

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Immagine satellitare QuickBird di tipo pancromatico

Fig. 3 Colonna geologico-stratigrafica misurata lungo la strada che collega Shahhat con Susah

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Fig. 4

R. Salvini, I. Callegari, A. Ventura, M. Anselmi

Fotomosaico (datata 20 Luglio 1943)

Fig. 5

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Ortofotomosaico (anno 1965)

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Fig. 6 Esempio di individuazione di lineamenti riconducibili a strutture sepolte potenzialmente luogo di nuovi ritrovamenti.

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Fig. 7 Esempio del calcolo dei volumi applicato alle statue rilevate lungo il Portico delle Erme

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E. Di Filippo Balestrazzi

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Santuari e potere. Rileggendo De Polignac Elena Di Filippo Balestrazzi Era il 630 circa quando i coloni Therei giunsero in Cirenaica e sulla Myrtusa (fig.1) diedero inizio ad una esperienza che non ha pari in tutto il Mediterraneo meridionale, tra l’altro creando un non comune paesaggio sacro, magnificamente greco, se posso così dire, a stare nei dintorni della città e incredibilmente, ma altrettanto magnificamente altro da esso, se di poco ci si allontana nel territorio. Eppure il dibattito, sviluppatosi tra gli anni ‘80 e ’90 sulla formazione della città e sul ruolo dei santuari nella definizione dello spazio fisico della polis, spesso incentrato nella individuazione dei santuari quale nodo fondamentale del processo organizzativo della polis nei confronti del territorio, ha appena sfiorato il nome di Cirene, che compare solo in una nota del lavoro del De Polignac, che però già abbisognava di alcune non insignificanti precisazioni. Egli, tra tutte le colonie ricordate, citava Cirene, come una delle due colonie, delle quali lamentava, nel 1984, la lacunosità delle nostre conoscenze per quel che riguardava le 4 categorie di santuari, che si può supporre abbiano concorso nel mondo antico alla formazione della città citando le sole testimonianze del santuario di Apollo, come santuario monumentale del polo urbano, e del Thesmophorion, intendendo, credo, il santuario di Uadi Bel Gadir (fig. 2), sorto quasi contemporaneamente alla fondazione della città, come santuario non monumentale del territorio1. Oggi siamo di fronte ad una situazione che è fortemente cambiata. Non si può così dimenticare che studi abbastanza recenti hanno fatto affiorare il problema sull'esistenza nell'area di culti legati a stanziamenti di periodo minoico -miceneo, che riportano in campo certe conclusioni alle quali il Pugliese Carratelli aveva affidato, per la Magna Grecia, l'ipotesi di strutture religiose extramurane da collegare a frequentazioni di periodi anteriore alla vera e propria colonizzazione greca2, mentre nel 1995, poi, il Bacchielli, sulla scorta di un lavoro di Parisi Presicce del 19843 e di una ormai consolidata teoria sulle funzioni dei santuari nell’urbanistica delle colonie, aveva riconosciuto nel Tempio di Zeus, nel santuario di Demetra, nel tempio di Afrodite e in un tempio eretto sulla collina settentrionale, dedicato forse ad Atena, l’esistenza della “cintura di protezione”, che consuetamente avvolgeva la città coloniale4. Non è la lacunosità quindi a rendere difficile l’analisi dell’infrastrutturazione sacra cirenaica, ma la complessità della città, che, urbanisticamente rimodellatasi in continuità nel tempo, 1

De Polignac, F.,La naissance de la cité grecque, Paris1991, pp. 95-98, ed ivi nota 7 come Crotone, oggi riconsiderato dallo stesso autore. 2 Stucchi, S., ‘Nuovi aspetti della precolonizzazione nella Libia’, Atti Convegno La transizione dal Miceneo all’alto arcaismo – Dal Palazzo alla città, Roma 14-19 marzo1988, Roma 1991, pp. 583-586; Stucchi, S., ‘Nuovi apporti al problema dei contatti tra cultura libya gebelo-marmarica e mondo egeo’, Atti Convegno di studi sull’Archeologia Cirenaica, Urbino 4-5 luglio 1988, QuadArchLibia, 16, 1991,, pp.7-10; Parisi-Presicce, C., ’Un altare di forma minoica dal Santuario di Apollo a Cirene’,ibidem, pp. 19-44.Cfr. anche Stucchi S.’Un possibile motivo alla frequentazione precoloniale delle coste cirenaiche’, RLincei, CCCLXXXII, 1986, pp. 157-162. Una presentazione del territorio in Cirene, 2000, pp. 165-179; Parisi-Presicce, C., ‘La città dei re di Cirene’,LibSt, 2003, pp. 9-11. 3 Parisi-Presicce, C., ’La funzione delle aree sacre nell’organizzazione urbanistica primitiva delle colonie greche, ArchClass, XXXVI 1984, p. 97 sgg. 4 Bacchielli, L., ‘Il tempio di Zeus Olimpio a Cirene: storia e programma degli scavi e dei restauri’, in La Cirenaica in età antica, Pisa-Roma 1998, p. 27.

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E. Di Filippo Balestrazzi

costringe a rivedere fase per fase il problema di “quale spazio” e “quale ruolo” si debba assegnare a certi ben noti santuari della città. Chi legge è quindi implicitamente portato a pensare, erroneamente, che nella città non fosse presente né la categoria del santuario monumentale del polo non urbano né quella dei santuari non monumentali periurbani, anche se la letteratura archeologica cirenaica ci ha informato di numerosi santuari e di una situazione urbana così ricca e complessa, da spingerci a rivedere il problema, appunto, di quale spazio e quale ruolo si debbano assegnare a certi noti e meno noti santuari della città. Anche perché il punto di vista, da cui li si guarda oggi, è più ampio del concetto della semplice “cintura a protezione” e certo a questo mirava già la diversa suddivisione suggerita dal De Polignac. Essa guardava infatti a qualcosa di più che a stabilire le funzioni ordinariamente supposte, quale è difendere un muro o un quartiere della città, una collina o gli stessi cittadini e puntava, come suggerisce ancora un lavoro del De Polignac5, a costruire mediazioni, a impostare e risolvere competizioni, ad affermare sovranità. Affrontare quindi la distribuzione dei santuari tra città e territorio non significa solo analizzare l’articolazione del primitivo impianto urbano, ma capire le dinamiche dell’espansione cirenaica nella sua complessità di acquisizione territoriale e insieme di integrazione socio economica. Basti pensare al tempio di Zeus, il “Grande Tempio”, degli Inglesi, situato fuori dell’abitato, sulla collina sud-orientale e di cui l’impianto originario potrebbe risalire all’età arcaica. Ci sembra che, con altrettanta certezza, esso possa essere considerato come il santuario monumentale del polo non urbano, che abbiamo visto mancare alla elencazione del De Polignac. Così è necessario verificare la posizione di ognuno dei santuari citati secondo le ormai classiche suddivisioni di urbano, periurbano ed extraurbano, o meglio secondo quelle più ampie categorie incentrate sulla contrapposizione del polo urbano rispetto a quello non urbano e sul carattere della monumentalità/ non monumentalità, così opportunamente indicate dallo stesso Polignac. Ad esempio ci chiediamo se il Thesmophorion di Uadi Bel Gadir, più che un santuario non monumentale del territorio non debba essere classificato come un santuario non monumentale periurbano6. La diversa lettura di ognuno di essi diventa quindi la chiave per capire a quale modello la città si ispirasse, se il modello fosse effettivamente quello della città bipolare7, comune in genere a tutte le città coloniali, in cui egli l’andava inserendo, o se piuttosto non potesse essere il modello della città monocentrica, ovverosia il modello cosiddetto “ateniese", o anche altro. Con l’inserimento del Grande Tempio, che, per la posizione nel quadro di queste categorie santuariali, possiamo grosso modo comparare all’Heraion delle Tavole Palatine a Metaponto, o al santuario di Zeus olimpico a Siracusa, o anche al tempio di Hera Lacinia per Crotone, e la diversa collocazione del Thesmphorion l’appartenenza di Cirene al modello bipolare diventa certa e si apre un quadro altamente interessante. Ma allo stesso tempo non si può dimenticare che se l’acropoli, come farebbero pensare le misure ridotte degli isolati8 è stata oggetto di inurbamento nei decenni vicini alla fondazione della città, cauta ancora dovrà essere nei suoi risultati l’intera analisi (fig. 3). Secondo questo modello, infatti, i santuari del polo urbano e del polo non urbano avevano pari importanza, vale a dire che il primo non possedeva alcuna priorità sull’altro, tanto da essere chiamato direttamente in causa nella costruzione dello spazio 5

De Polignac, La naissance. Bacchielli, L.,’Un santuario di frontiera tra Polis e Chora’, LibSt, 25,1994 7 De Polignac, La naissance, pp. 87-89 8 Bacchielli, L., ‘Urbanistica della Cirenaica antica’, in I Greci in Occidente, Venezia 1996, p. 310 6

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E. Di Filippo Balestrazzi

civico e cultuale e da far affermare al De Polignac che in questo modello il polo urbano non possedeva alcuna priorità. Solo ad analizzare queste poche affermazioni le domande si affollano e la posizione di Cirene, se proviamo a considerarla seguendo il suo rapido formarsi in ogni senso, diacronico e spaziale, appare del tutto particolare e irripetibile per i suoi rapporti con le genti libiche e per il suo armonizzarsi con l’ambiente fisico. Ogni santuario denuncia momenti fondamentali della vita della nuova città e se i due luoghi di culto di Apollo e Zeus furono pari in importanza, di essi si avverte come immensa la differenza. Per nessun altro centro coloniale, infatti, come per Cirene, ci si può dire certi che la città nascesse per volontà divina, con un atto stabilito ed atteso per generazioni e generazioni dalla divinità, che sarà poi venerata nel santuario sulla terrazza della Myrtusa, affidato a chi, da sempre, era stato destinato all’impresa, un atto che era quello, come credo di aver dimostrato in altri lavori9, di sacralizzare il centro di una nuova terra da occupare e su cui estendere il proprio dominio, ponendovi quel segno della presa di possesso, l’agyieus, che doveva essere l’inizio della trasformazione del territorio come “luogo politico”10. Un atto e un segno assai raramente riconoscibile in altri siti greci, che fa quindi ben riflettere sulla ritualità che presiedeva alla distribuzione degli spazi, assegnati a ben precise funzioni, che la comunità “sapeva” espletate dalla divinità. In nessun altro luogo più che a Cirene si può ravvisare in Apollo il “patrono immortale e assoluto della città”. Qui ritroviamo, anzi, una delle rare testimonianze occidentali di un “dio che dà il regno”. Perché tale fu Cirene prima di avere una costituzione democratica11 e non del tutto errata è forse l’ipotesi, alternativa ad altre e tante volte discussa con Stucchi, che nella figura accanto ad Apollo, sulla base dell’Agyieus nel donario di Pratomedes dovesse riconoscersi Batto12, quasi che, alla maniera orientale, vi fosse stata rappresentata la consegna del simbolo della presa di possesso di quella terra, che proprio per questo diventa anche un simbolo di sovranità, di potere sovrano13. Da questo momento e da questo luogo, in piena età arcaica, ebbe inizio la progettazione e fu stabilito ogni spazio, civile e sacro, così come definite saranno tutte le procedure per accedere ad esso14. Già alla metà del VI secolo il tempio dedicato a Zeus doveva aver avuto una fase monumentale, né mancano attestazioni di fasi anteriori, che lo avvicinano dunque ai tempi della fondazione della città. Nel terzo quarto del VI secolo 15 la piazza dell’Agorà aveva già preso la sua forma e la via Skyrotà e il santuario di Demetra e Kore sull’Agorà, di cui è indubbio il carattere ufficiale del culto, apparivano

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Di Filippo Balestrazzi, E.,’L’emiciclo di Praatomedes a Cirene: la testimonianza di un culto aniconico di tradizione dorica. Il Monumento’, QuadArchLibia, VII.1976; Eadem. ‘L’Agyieus e la città’, Atti Convegno Bressanone 1981, Ce.R.D.A.C. XI, 1984. 10 E facciamo qui riferimento ad esempio all’Heraion di Argo: De Polignac, La naissance, p. 49 11 Chamoux, F., Cyrène sous la monarchie des Battiades. Paris 1953, p. 128 ss; cfr. Parisi Presicce La città, pp. 14-24 12 Stucchi, S., Architettura Cirenaica, Roma 1975; Di Filippo Balestrazzi, ‘L’emiciclo’. p.153 13 Un termine, quest’ultimo, che, usato nel suo senso più occidentale anche dallo stesso De Polignac, diventa semmai, il contrario di un regno divino, che ‘avrebbe metaforicamente rimpiazzato quello degli antichi re’; De Polignac, La naissance, p. 106. 14 Le leggiamo ancora oggi ben chiare nella Lex cathartica cirenaica. 15 Stucchi, S., ‘Il passato di Cirene e del suo territorio’, in Da Batto Aristotele a Ibn el’, Roma 1987, p. 11. In questo senso, secondo chi scrive, tale idea di base sarebbe in certo qual modo riaffiorata nella colonna acantina dell'agorà Di Filippo Balestrazzi, ‘Nuove considerazioni sull’Agyieus di Cirene’, in La Cirenaica in età antica,Pisa-Roma1998, pp. 187-206.

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già come complessi strettamente collegati tra loro16 nè può escludersi un antico culto ai Dioscuri , là dove, sul lato ovest dell'Agorà, verranno eretti affiancati i due tempietti sul lato della stessa agorà (fig. 4)17. Implicita era l’ipotesi di riconoscervi quell’opera di progettazione urbana riflessa nei versi 89-87 della Pitica 6 (letta nella versione Gentili): i santuari grandi, forse la piazza, ove il sovrano ecista poi riposò nella tomba. E' ovvio che in questo quadro di "progettazione" dello spazio non si può che tornare mentalmente al momento iniziale della colonia, a quella pietra o meta lignea, con cui l'ecista prese possesso della colonia. Un atto delle procedure della sacralizzazione del territorio, riconoscibile assai raramente in altri siti greci, e che fa quindi ben riflettere sulla distribuzione degli spazi. Ogni spazio stabilito, così come definite erano tutte le procedure per accedere ad essi da parte dei devoti. Le leggiamo ancora oggi ben chiare nella Lex cathartica cirenaica18. La monumentalità data in seguito ad essi non fece altro che amplificare con la sua grandiosità il profondo senso religioso della nascita di questo nuovo cosmo, dove la Skyrotà sembra legare con un filo continuo i due estremi poli della città, e dove il santuario demetriaco dell’Agorà nello scandirsi dei prescritti rituali strettamente si lega al santuario di Uadi bel Gadir. Fin dalle origini Apollo sembra non lasciare agli altri lo stesso posto, così che la “centralità” del santuario apollineo, pur così marginale rispetto al successivo sviluppo della città, può anche essere inteso come un segno dell’appartenenza di Cirene, se non a un modello monocentrico, a un modello da cui, e attorno a cui, tutto nasce e tutto si raccoglie, rendendo quasi possibile il confronto con il caso del Daphnephorion di Eretria, santuario monumentale del centro, da intendersi però anche come il santuario del territorio19 e con l’Apollo spartano,” che “instaura l’unità di tutti gli abitanti del territorio”20, celebrandosi nei vari, stessi monumenti del suo santuario i momenti della sua vita e la storia della sua venuta. Così diventa chiara nella sua relazione/opposizione anche il rapporto con la grande area di Zeus, forse l’altra faccia della colonia greca, se dietro la figura dello Zeus Lykaios, sta veramente la figura libica di Ammone. E si può capire l’aver instaurato un culto di Demetra nella stessa agorà, destinata di solito al mondo maschile, e dove la natura di questo culto si fa più politica che mai e più che mai sembra alludere non al solo mondo femminile, presentandosi qui con quella complessità di funzioni avvertibile in altre città del mondo greco , per esempio Taso. Ed è proprio a questo proposito che ai tanti “se” ne aggiungerei ancora un altro. Se Cirene dovesse rispondere effettivamente ad un modello policentrico, o meglio bipolare, va più approfonditamente analizzato il rapporto, e quindi il relativo significato, tra la divinità del polo urbano e la divinità di quello non urbano, vale a dire tra Demetra ed Apollo. Un rapporto non semplice a Cirene. Se Apollo è il dio fondatore e il patrono della città, da un punto di vista distributivo il meccanismo di espansione territoriale sembra sia più attivamente collegato a Demetra.Il problema della titolarità dei santuari acquista senso sia nel rapporto tra gli stessi dei, Apollo- Demetra in primis, sia in quella presenza di Demetra nell'agorà, sia nel senso di quella forte presenza del II polo, rappresentato da Ammone= Giove, quest'ultimo 16

Bacchielli, L., ‘I luoghi della celebrazione politica e religiosa a Cirene nella poesia di Pindaro e Callimaco’, in Cirene.Storia, Mito , Letteratura, Atti Convegno SISAC. Urbino 1988, Urbino 1990. 17 Bacchielli, ‘I luoghi’,pp. 11-12; Santucci A. 1997, pp. 523-525. 18 Luzzatto, G.I., La lex catartica di Cirene, Milano 1936; Sokolowski, Lois sacrées des citées grecques, Paris 1962, pp. 185-196 19 De Polignac, La naissance, p. 93 20 De Polignac, La naissance, p. 77

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soprattutto come il vero e proprio ponte con i Libi, il vero e proprio santuario della mediazione, poiché, ce lo dimostrano gli ormai numerosissimi rilievi, pur se solo di epoca ellenistica, l’interferenza con forme di religiosità indigena fu altissima21. Certamente tutto va disegnato nella complessa griglia politica, socio economica e cronologica delle vicende della città, valutando quanto è possibile la simultaneità/non simultaneità per ognuna delle manifestazioni del sacro che la città e il territorio ci hanno lasciato, pur nella inevitabile lacunosità di conoscenze di cui sopra si è detto. Poiché è giusto quanto ultimamente aveva precisato il De Polignac, che non di “nascita della città, o dello stato si deve parlare, ma, piuttosto, di una sua “transizione verso un più finito, “adulto stadio della società e delle istituzioni ”.22 Proseguire in questo tipo di ricerca non dovrebbe essere difficile, giacché di poche altre colonie sappiamo tanto quanto di Cirene: magnifica sul piano monumentale; più di altre ricca di informazioni sulle componenti etniche con cui i Greci dovettero confrontarsi, dettagliate le notizie sull’ambiente sia dal punto di vista fisico e geografico sia per quel che erano le possibili risorse del territorio23. Né più carenti, rispetto ad altri luoghi, appaiono i dati sulla storia politica della colonia. Un così tanto di tutto non può che far risaltare l’anomalia di una quasi inesistente infrastrutturazione sacra chiaramente e puramente greca fuori del territorio, quasi noi qui fossimo impossibilitati a costruire il consueto universo di riferimento del sistema insediativo greco, fatto, nelle colonie, dall’insieme dei santuari urbani, suburbani, extraurbani fino- e direi soprattutto- ai santuari annidati in villaggi indigeni di limitata ellenizzazione24. E’ come se qui i Greci non avessero voluto o potuto marcare il territorio con quei segni, che in altri casi da altri Greci erano stati dispiegati a segnalare e imporre da conquistatori la propria presenza. I veri santuari del territorio, santuari cioè come simbolo del potere. Si spiegherebbe così l’assenza quasi totale di menzioni cirenaiche in questo tipo di ricerca, che pure ricordo presente ad esempio in un lavoro di Bacchielli25 e in un interessante lavoro della Kane. Nell’uno si dà notizie di un santuario “fuori le mura, sul lato orientale dello Uadi Belgadir a poca distanza dalla terrazza del santuario di Apollo”, che il Bacchielli pensa sia dedicato alle Nymphai Chtoniai26 e che, situato come è fra polis e chora ( fig. 5), riconosce come un santuario di frontiera, documento di “una cultura alla cui formazione contribuiscono i Greci, ma anche i Libyi, che vivevano nelle zone limitrofe alla città”27.

21 Fabbricotti, E., ‘Divinità greche e divinità libie in rilievi di età ellenistica’, QuadArchLibia, 12 1987, pp. 217-240; eadem, ‘Lastra pastorale dal territorio di Cirene’, LibAnt, II, 1996, pp. 24; eadem, ‘Rilievi culturali del mondo pastorale cirenaico’, LibAnt III 1997, pp. 80 – 81. 22 De Polignac, F., ‘Médiation, Competition and Sovereignity: The Evolution of Rural Sanctuaries in Geometric Greece’ in Alcook S.E..-Osborne R., ed, Placing the Gods, Oxford 1994, p. 18: una metafora, che sarebbe del tutto giustificata dal punto di vista storico. 23 Luni, M., ‘Apporti nuovi nel quadro della viabilità antica della Cirenaica interna’, QuadArchLibia, XI, 1980, pp.119-137. 24 Veronese, F., ‘Polis, santuari e paesaggi di potere nella Sicilia greca di età arcaica’, in Camassa, G.- De Guio, A. – Veronese, F., ed., Paesaggi di Potere. Problemi e prospettive, Roma 2000; Annibaletto, M., Lo spazio del sacro. Analisi territoriale dei santuari greci in epoca classica nell’area siracusana (tesi di laurea Padova anno accademico 2001 2002); Viaro, E., Paesaggi sacri: Greci e indigeni nella Basilicata di età arcaica (Tesi di laurea Padova 20022003) 25 Bacchielli, Un santuario, pp. 45-59 26 Bacchielli, Un santuario p. 54 27 Bacchielli, Un santuario, p. 57

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Nell’altro la Kane avvertiva il forte legame tra interno ed esterno, tra l’“ inner city” e “the outside territory” e richiamandosi al lavoro della Antonaccio28 precisava la funzione di rituali, che servivano a “to clarify and to bridge societal gaps”29. Cioè, riprendendo i termini con cui il De Polignac ha precisato i suoi concetti, possiamo dire che questo santuario, così come altri del territorio sono i luoghi deputati a svolgere quella necessaria opera di “mediazione”, e al tempo stesso di “sovranità” tra il centro e le periferie30, vale a dire tra Greci e Libyi. Detto di questi santuari più evidenti, non si possono dimenticare altri luoghi sacri citati dalla letteratura archeologica, come quelli ricordati dalla Kane, tutti consacrati a Demetra, come Messa31, Hagfa el Khassalyia32, Budrash33, santuari sparsi nel territorio, forse tutti legati entro una organizzazione religiosa che doveva far capo ai sacerdoti di Apollo34, come del resto al santuario di Apollo dovevano far capo anche non pochi interessi economici. Ce lo ricorda Lidio Gasperini quando, pubblicando la laminetta plumbea n. 2 rinvenuta negli scavi dell’Agorà, discute di un deposito di silfio citato alla linea 9, ove secondo la sua traduzione, si legge ": oujdei;" ajqav[na]to"3. Hors contexte et sans datation, une base fragmentaire ne permettant plus de lire le nom qui pouvait précéder h{rw" est probablement aussi une épitaphe4. Par ailleurs, une base de marbre provenant de la zone de la nécropole Sud de Cyrène mentionne 'Erasw; Zhvnwno" hJrwiv>["], mais n'appartient pas à coup sûr à une tombe, comme l'ont noté avec prudence ses éditeurs5. D'autres mentions de "héros/héroïne" apparaissent en contexte votif. Deux démarches sont attestées en Cyrénaïque. Dans la première, le destinataire du voeu est la paire divine Dèmèter-Korè, qui par leur caractère chthonien sont des protectrices des défunts. Les fouilles américaines de leur sanctuaire hors-les-murs, sur la rive Sud de l'Ouadi BelGadir, ont rendu neuf reliefs au motif du cavalier héroïsé, dont le schéma iconographique nous retiendra un peu plus tard. Parmi eux, deux portent des inscriptions6. L'une est brisée après le nom Alevxandro" 7. Sur l'autre, l'inscription n'est pas un commentaire au bloc votif lui-même, mais figure sur la stèle funéraire représentée à l'arrière-plan de la scène. On y lit Qeuvdwro" Qeudwvrw h{rw"8. C'est donc une mention funéraire de plus, bien qu'elle se lise sur un monument votif. On doit très probablement rattacher à cette série une base de statue (fig. 3) dont le lieu de découverte n'est pas connu, mais dont l'inscription nous oriente vers un sanctuaire de Dèmèter et Korè, vraisemblablement le même. On y lit : Davmatri kai; Kovrai hJrwi>vda | Kudimavcan Kleavrcw | ajreta'" e{neka Kuranai'oi9. Après autopsie, j'estime que l'écriture n'est pas antérieure à la fin du Ier s. ap. J.-C. Or on connaît une Kudimavca Kleavrcw, mentionnée dans une liste de prêtresses d'Hèra de la seconde moitié du même siècle10. Il est fort probable que la prêtresse et la défunte honorée soient la même

3 SEG 33, 1468, remplaçant CIG 5200 b, IIe/IIIe s. ap. J.-C., selon la datation de J. Reynolds. 4 Robinson, D., AJA 1913, pp. 174-175, n° 40. 5 Ali Mohamed F.- Reynolds J., 'New funerary inscriptions from Cyrene', LibyaAnt N.S. 3 (1997),p. 43,

n° 3 (d'où SEG 47, 2198) : "The inscription probably came from a tomb, but given the findspot, might have stood in a sacred precinct". J'ajoute que cette petite base présente à la face supérieure une cuvette d'encastrement, ce qui conviendrait mieux à un monument votif que funéraire. Pour l'écriture, J. Reynolds suggère le Ier ou le IIe s. ap. J.-C. 6 Kane, S., 'Heroized riders from the Wadi Bel Gadir Sanctuary of Demeter', QuadALibia 18, 2003, pp. 27-34. 7 Kane, art. cit., n° 6, signale sans les interpréter des traces de la lettre initiale du mot suivant. La photographie ne permet pas de décider s'il pourrait s'agir d'un eta. Celui-ci serait-il assuré que l'on ne pourrait décider s'il est l'initiale d'un patronyme ou de la mention "héros". 8 Kane, art. cit., n° 2. Déjà signalé avec photographie à deux reprises par White, D., 'Demeter Libyssa, her Cyrenean cult in light of the recent excavations', QuadALibia 12, 1987, p. 83, n. 1, enregistré en SEG 37, 1701 bis. Auparavant, id., LibyaAnt 15-16, 1978-79, p. 176, n. 61, exploité dans Marengo, S.M., Lessico delle inscrizioni greche della Cirenaica, Roma 1991, ss. vv. 9 SECir 51, publié d'après les dossiers d'Oliverio par G. Pugliese Carratelli, qui avait revu la pierre, sans photographie ni datation ni indication de provenance. J'ajoute que la face supérieure de la stèle porte une large cuvette d'encastrement ovale. 10 SEG 9, 182, l. 13. Sur ce texte, voir Paci,G., 'La grande stele delle sacerdotesse di Era dall'Agorà di Cirene', AnnMacerata 33, 2000, pp. 155-173, et QuadALibia 16, 2002, pp. 271-284.

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personne11. Cette inscription explicite clairement la démarche de consécration d'une statue de héros. Par ailleurs, le défunt héroïsé lui-même peut être le destinataire de la dédicace. Il en existe un exemple à Ptolémaïs, où le héros est qualifié d’'ejphvkoo", à la manière des dieux12, par ses parents qui font la consécration : G.'Ioulivwi 'Epineivkwi h{rwi ejphkovwi | G.'Iouvlio" Pausaniva" kai; Kokkeiva | [Q]avleia | [o]iJ g[o]nei'". Quant au petit bloc d'Apollonia, une fois écartée l'hypothèse de l'épitaphe, on le traitera désormais comme un monument votif. Retrouvé dans un lieu de passage important de la ville, entre l'agora présumée et la porte principale du rempart, il devait être encastré dans quelque édifice du voisinage. Seule la représentation figurée va pouvoir nous aider à trancher entre un défunt "historique" héroïsé et un héros mythologique (fig. 1). La scène représentée est aujourd'hui fragmentaire, mieux conservée en bas qu'en haut, où deux cassures obliques se rejoignent à peu près au milieu de la largeur conservée. Les éléments subsistants ne sont guère endommagés en surface. On distingue trois secteurs, de droite à gauche. A droite, le bas du corps d'un personnage de face, que son vêtement désigne comme féminin : les deux pieds dépassent d'une ample robe à plis, sur laquelle retombe un himation qui descend jusqu'aux genoux. Le pied gauche légèrement décalé vers l'avant suggère peut-être que le personnage se détourne légèrement du reste de la scène, mais dans un mouvement très discret. La cassure oblique, du genou gauche à l'aine droite, a fait disparaître toute la partie supérieure du corps. La photographie peut faire croire que le personnage tenait le long de son flanc gauche, pendant vers le bas, un objet oblong, mais l'examen direct révèle qu'il s'agit du repli extrême de l'himation. Au centre de l'espace conservé, le buste d'un personnage plus petit émerge d'un récipient ovoïde reposant sur le sol. De son corps, vu de profil, tourné vers la gauche, on discerne le bras gauche, replié et appuyé sur le bord du récipient, le haut de la poitrine, le bras droit, levé et plié à angle droit. La cassure a fait disparaître la main droite et la tête. Le bras droit semble soit faire un signe de salut, soit saisir un objet placé devant lui et plus haut. Sur la poitrine, quelques traits peu profonds figurent l'encolure d'un vêtement léger, dont aucune trace n'est visible en revanche sur les épaules ni sur les bras. Le récipient, très légèrement penché vers la gauche, n'a pas la stabilité d'une jarre et son aspect lisse interdit d'y voir un panier. Il a exactement l'aspect attendu pour un oeuf. Encore plus à gauche, touchant presque le haut de l'oeuf et le bras levé du petit personnage, ne subsiste d'un cheval qui leur faisait face et regardait vers la droite de la stèle que le membre antérieur droit levé, conservé du genou au sabot. On ne peut savoir si ce cheval était représenté seul ou monté. La présence d'un écuyer le menant par la bride est assez peu probable, vu la vacuité du champ en arrière de sa patte levée. Du moins, si un personnage l'accompagnait, il devait se tenir plutôt en arrière et par conséquent il nous manquerait aujourd'hui une partie assez considérable du bloc. 11 Pour ce rapprochement, voir Laronde, A.,'Prêtresses d'Hèra à Cyrène', in L'Africa romana.Atti del V

convegno di studi (Sassari, 11-13 dicembre 1987), Sassari1988, pp. 279-286. 12 Pour des dieux ejphvkooi, voir SEG 9, 126 (Zeus) et Marengo,S. M., 'L'iscrizione votiva di Claudio

Lykos', QadALibia 18, 2003, pp. 205-210 (Methusis, Minerve, Iatros,Iasô).

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A toute première vue, cette scène ne manque pas de ressemblances avec certains des reliefs au cavalier héroïsé retrouvés dans le sanctuaire de Dèmèter et Korè et publiés récemment par S. Kane13. Sur ceux-ci, l'élément constant est un cheval allant vers la droite et, dans certains exemplaires, dressé sur les postérieurs. Mais ce cheval est toujours monté par un cavalier, du moins dans tous les exemplaires assez complets pour permettre d'en juger. A Apollonia, nous l'avons dit, cela n'est pas sûr. Le relief n° 2 de Cyrène, qui est le plus élaboré de la série, présente deux autres vagues ressemblances qu'il convient d'examiner (fig. 4). La partie droite de la scène est occupée, comme à Apollonia, par un personnage féminin drapé, qui fait face au spectateur, le corps légèrement tourné vers le cavalier et sa monture, la tête tournée plus nettement que le corps dans la même direction. La flexion de son genou droit est plus marquée qu'à Apollonia et son vêtement diffère par l'absence d'himation. Le bras droit replié sur l'épaule gauche y retient un pan de vêtement. La photographie ne permet pas de distinguer si la femme tenait dans sa main gauche un objet en rapport avec le sacrifice préparé dont parle l'éditrice. Il y a en effet, entre la femme et le cheval, un autel cylindrique de faible hauteur14. Derrière cet autel et près du flanc droit de la femme, un enfant se tient debout, les deux avant-bras repliés et les mains jointes sur la poitrine. Le bas de son corps est dissimulé par l'autel jusqu'au dessous de la taille. Cela rappelle vaguement la scène d'Apollonia, mais à y bien regarder, ni la position des bras de l'enfant, ni la direction de son regard, ni la hauteur de l'objet cylindrique, ni surtout sa forme et sa position, qui sont respectivement ovoïde et inclinée à Apollonia, ne permettent d'établir un parallélisme. En outre, on note l'absence à Apollonia et de la stèle funéraire de l'arrière-plan et surtout du serpent, présent aussi au n° 1 de Cyrène. Le parallélisme éventuel entre la série de reliefs de Cyrène et celui d'Apollonia, qui méritait d'être envisagé, me semble devoir être finalement écarté. Nous revenons donc, pour le relief d'Apollonia, à une scène représentant en son centre un enfant émergeant d'un oeuf. Le motif de la naissance au sortir d'un oeuf renvoie aux Tyndarides, mais laisse le choix entre deux variantes. Selon la plus répandue dans l'iconographie, non dénuée d'appuis littéraires15, Hélène est née d'un oeuf : fille de Némésis et de Zeus, élevée par Lèda et Tyndare, elle apparaît notamment sur un certain nombre de vases attiques du Ve siècle et sur une célèbre mosaïque de Trèves. Le schéma iconographique comprend sur un autel, au centre de la scène, un oeuf, qu'un aigle (Zeus) s'apprête à percer ou vient de percer, permettant à l'enfant d'en sortir. Sont présents Lèda, Tyndare et les deux Dioscures, avec leurs lances, leurs piloi et parfois leurs chevaux16. S'il s'inscrit dans cette tradition, notre document en serait un

13Ci-dessus, n. 6. 14 Un autel semblable, et même légèrement ovoïde, figure également sur le relief n° 1, mais sans aucune

présence humaine. 15 Chants Cypriens, fr. 6Kinkel (Epicorum Graecorum fragmenta I, Leipzig 1877) = fr. 7 Allen (Oxford

1912) ; Sappho, fr. 166Lobel-Page. 16 Voir Kahil, L., in LIMC IV, Zurich et Munich 1988 pp. 498-563, article Helene. Pour Hélène et l'oeuf, voir surtout les n° 1 à 13. Notre monument figure au n° 26 avec une interprétation"incertaine", qui ne correspond d'ailleurs à aucune des nôtres. Ajoutons que, par choix éditorial du LIMC, les représentations de l'oeuf contenant Hélène non encore visible, en présence des Dioscures, sont rangées à l'article

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témoignage simplifié, mettant en scène, en présence de Lèda, Hélène sortant de l'oeuf et saluant un Dioscure unique monté sur son cheval. Mais on sait que les Dioscures eux-mêmes étaient, selon certaines traditions littéraires, nés d'un oeuf. Notre relief pourrait alors représenter un Dioscure, sortant de l'oeuf étendant le bras pour prendre son cheval par la bride. Cette interprétation conviendrait mieux au fait que l'enfant semble habillé: équipé et saisissant son cheval, il réunirait les ingrédients normaux d'une épiphanie divine. Mais celle-ci n'a pas de correspondant iconographique connu: les Dioscures sont représentés toujours adultes et généralement par deux17. En dépit de l'ambiguïté qui subsiste, que le Dioscure soit le cavalier ou l'enfant naissant, le thème si particulier de l'apparition au sortir d'un oeuf confirme qu'il faut écarter la restitution d'un anthroponyme avant h{rw". En revanche, la scène s'accorde bien avec une restitution minimale [Diovsko]uro" h{rw", "Le héros Dioscure".Ce complément de six lettres aurait pour conséquence une représentation incomplète du cheval, dont seul l'avant-train devait être figuré. Ceci n'est pas sans exemple en Cyrénaïque18. Toutefois, un complément plus long est possible. Celui des deux Dioscures qui a un statut héroïque est Castor19 et l'on peut aussi proposer, avec six lettres de plus et la place pour un cheval complet: [Kavstwr Diovsko]uro" h{rw" "Castor, le héros Dioscure". Selon ces deux restitutions, il est possible d'évaluer la largeur originelle du relief respectivement à 31,5 ou 41 cm environ. Mais, comme on ne connaît pas non plus la hauteur originelle, aucun choix ne s'impose. Il semble donc que Castor soit ici représenté soit comme spectateur (sans Pollux) de la naissance d'Hélène, soit plutôt comme naissant lui-même de l'oeuf pour devenir aussitôt le héros cavalier que l'on sait. Il s'inscrit en tous cas dans une solide tradition cyrénéenne. Castor est justement celui dont Pindare fait le protecteur attitré de la dynastie des Battiades (Ve Pyth., v. 9-11) : ’W qeovmor’ 'Arkesivla, suv toiv nin kluta'" aijw'no" ajkra'n baqmivdwn a[po su;n eujdoxiva/ metanivseai e{kati crusarmavtou Kavstoro": eujdivan o}" meta; ceimevrion o[mbron tea;n kataiquvssei mavkairan ejstivan "Arcésilas au destin divin, toi, depuis les extrêmes fondements de ta glorieuse existence, tu fais route vers (la prospérité), escorté par la renommée, grâce à Dioskouroi (cf n. suivante), n° 186 et 187. Même si elles sont antérieures à l'éclosion de l'oeuf, ces scènes fournissent d'intéressants parallèles pour notre document. 17 Voir Hermary, A., in LIMCIII, Zurich et Munich 1986, pp. 586-593, article Dioskouroi. Notre document est évoqué d'une façon un peu différente sous le n° 188. Pour le motif rare du Dioscure solitaire, les n° 251 à 258 sont les seuls cas de monuments complets, où par conséquent l'unicité est certaine. 18 Voir la face b de la base qui porte les graffiti éphébiques SECir 164 : avant-train d'un cheval au pas, qu'un jeune homme mène par la bride. 19 Chantscypriens, fr. 5 Kinkel (= fr. 6 Allen).

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Castor au char d'or ; lui qui, après les pluies d'hiver, fait resplendir une belle clarté sur ton foyer bienheureux"20. Il est tout à fait plausible que ce patronage exclusif de Castor soit resté une donnée vivante à Apollonia dans la deuxième moitié du Ier siècle av. J.-C. et que l'ancien port de Cyrène, devenu cité indépendante depuis peu, perpétue la tradition d'un culte héroïque de Castor seul. On est cependant étonné de cette unicité, alors que le culte des deux Dioscures devait être implanté à Cyrène dès les origines, puisque la plus ancienne mention épigraphique de cette paire divine grecque figure justement à Thèra (IG XII 3, 359) à une date antérieure au départ des fondateurs de Cyrène. On connaît par ailleurs les liens que la légende des Tyndarides à Amyclées établit avec Cyrène21. Est-ce un hasard si Thèra, entre Sparte et Cyrène, semble l'étape où se fit le rapprochement entre les "Fils de Zeus" ioniens et les Tyndarides laconiens22? Tout porte à croire que les deux Dioscures avaient leur place dans le Panthéon cyrénéen et l'on en a cherché depuis longtemps des traces archéologiques. Le lieu de culte le plus assuré et le plus ancien a été identifié par Bacchielli, qui a mis en relation une scholie au vers 93 de la Ve Pythique de Pindare et des vestiges recouverts ultérieurement en deux phases par le portique bordant au Nord le côté Ouest de l'agora, au rythme de ses extensions successives vers le Nord. Selon ses observations, se sont élevés, à partir du milieu du Ve s. un temple à double oikos inscrit dans un péribole trapézoïdal, puis, du 3e quart du IVe s. av.J.-C. au début du IIe s. av. J.-C., un petit temple à oikos simple, installé dans un espace plus restreint, ouvrant sur la large rue bordant l'agora à l'Ouest, identifiée par Bacchielli au tronçon central de la skurwta; oJdov", la "voie dallée" menant de l'acropole au sanctuaire d'Apollon, que mentionne Pindare. La source d'époque hellénistique du scholiaste a désigné l'un ou l'autre de ces temples comme le sanctuaire des Dioscures "sur cette large rue" ejn ejkeivnh/ th/' plateiva23 / . L'histoire urbanistique de ce secteur peut suffire à expliquer, comme le pensait Bacchielli, le passage d'un temple double à un petit temple simple, puis la disparition de tout édifice. On ne sait pas où ce culte fut alors transféré. Un écart d'au moins quatre siècles sépare la fin du petit temple donnant sur la rue dallée de l'édification, dans le sanctuaire d'Apollon, d'un petit temple ouvrant vers le Sud et 20 Nous n'entrerons pas ici dans un débat dont ce passage est l'objet depuis l'Antiquité. Au-delà de la

notation météorologique évidente du retour de la belle lumière après les pluies d'hiver, on a décelé des sous-entendus politiques (ainsi Farnell, L.R., Pindar, a commentary, Londres 1932, réimpr. Amsterdam 1965 ; Péron, J., Les imagesmaritimes de Pindare, Paris 1974, pp. 300-304) ou on les a rejetés (Chamoux, Fr., Cyrène sous la monarchie des Battiades, Paris 1953, pp. 181-183 ; Burton, R.W., Pindar's Pythian Odes, essays in interpretation, Oxford 1962, pp. 138-139). Mon intérêt se concentre ici sur la présence de Castor seul et sur son rôle bénéfique auprès d'Arcésilas et de sa maison. 21 Pausanias III, 16, 1-3. 22 Cf Hermary, art. cit. n. 17, spécialement p. 567. 23 Bacchielli, L. , 'Uno scolio pindarico ed un'ipotesi sul Dioskourion di età ellenistica a Cirene', in Bonacasa, N., Di Vita A., edd., Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di A.Adriani, Rome 1984, pp. 845-850 ; Id, 'I luoghi della celebrazione politica e religiosa a Cirene nella poesia di Pindaro e Callimaco', in Gentili, B., ed., Cirene.Storia, mito, letteratura. Atti del IV Convegno SISAC, Urbino 3 luglio 1988, Urbino 1990, pp. 5-33 (= Parole d'Oltremare, Urbino 2002, pp. 47-69).

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adossé au mur isolant le sanctuaire des thermes de Trajan. Son attribution aux Dioscures, traditionnelle depuis Oliverio (1930), ne repose d'ailleurs sur aucune certitude. Il serait en tout état de cause postérieur au relief d'Apollonia, qui se situe donc dans la période obscure de nos connaissances sur le culte du ou des Dioscure(s), à Cyrène comme dans son port. Pourtant la prise en compte occasionnelle d'un Dioscure singulier n'est peut-être pas aussi isolée qu'il y paraît. Ainsi, dans la sculpture cyrénéenne, il existe un certain nombre de statues identifiées comme des Dioscures par tel ou tel détail caractéristique, mais nous n'avons actuellement aucune représentation par deux. On peut certes dans chacun des cas supposer que l'un des deux s'est perdu et cette observation a donc la fragilité d'un argument ex silentio24. Cependant, on ne doit pas oublier non plus qu'à Sparte selon Pausanias (III, 13, 1),Castor bénéficiait d'un culte héroïque dans un sanctuaire édifié au-dessus de sa tombe, au voisinage d'autres monuments funéraires de héros, en lisière de l'agora. Il pourrait donc y avoir dans notre héros Dioscure et dans le patronage rappelé par Pindare le souvenir d'une lointaine tradition laconienne25. Si une telle continuité est possible, elle n'exclut pas pour autant une rencontre avec des traditions libyennes locales. En ce sens, je voudrais attirer l'attention sur deux petites stèles inédites que je crois également votives et qui pourraient fournir des rapprochements intéressants pour les singularités du relief d'Apollonia.Toutes deux sont conservées dans les réserves du musée de Cyrène (Shahat), toutes deux sont en calcaire local, fortement rougi en surface par son long séjour dans la terra rossa caractéristique de la région. La première, que nous appellerons A26, est une petite stèle surmontée d'une corniche, de forme légèrement pyramidant, portant quelques éraflures (fig. 5). Hauteur 38 cm ; largeur avec la corniche 15,5 ; sous la moulure 14 ; en bas 15 ; épaisseur en bas 6. La face principale est divisée en trois secteurs. Immédiatement sous la corniche, un panneau en relief de 11 cm de haut représente, à droite, une femme debout, de face, vêtue d'une ample robe serrée à la ceinture, tombant jusqu'aux pieds et couvrant les bras. Son bras droit, tombant le long du corps, tient un objet renflé muni d'un manche court. Son bras gauche est replié à angle droit et sa main tient vers l'avant un petit objet rond qui semble être un vase. Son visage est tourné sur sa droite, vers le centre de la scène. Un voile couvre ses cheveux mais laisse le visage bien dégagé. Une petite cassure dénature l'angle inférieur droit du panneau. La photographie peut laisser croire qu'un objet rond se trouve au sol à l'extrémité gauche du panneau, mais cette impression n'est pas confirmée par l'autopsie. Un éclat de la surface est parti juste en dessous et la raison d'être de cette légère protubérance n'est pas claire. 24 Le parallèle le plus proche pour notre relief serait la statuette (hauteur conservée 44 cm) d'un cheval

aux quatre pattes aujourd'hui cassées, mené à la bride par un homme dont ne subsiste que la partie d'avant-bras gauche couverte par un pan de chlamyde, tangente à l'encolure du cheval.Cf Paribeni, E., Catalogo delle sculture di Cirene. Statue e rilievi di carattere religioso, Roma 1959, n° 375 ; Hermary, art. cit. n. 7, n° 49. 25 Les Argiens aussi revendiquaient la possession du tombeau de Castor, cf Plut. Qu. graec. 296 f. 26 Sa provenance m'est inconnue. Je l'ai examinée en 1985 à la Casa Parisi, n° inv. 2050. Qu' E. Fabbricotti, qui est chargée de sa publication définitive, soit ici remerciée de m'avoir permis de l'étudier dans le cadre du présent dossier.

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A gauche, un homme debout, le corps de trois quarts, le visage de profil, mène vers la droite un cheval dont il tient la bride de sa main gauche. Son bras droit retombe le long du corps. Il est vêtu d'une sorte de pagne long, laissant dépasser les pieds et retenu, semble-t-il, par des pans croisés sur la poitrine, sans que le mode d'attache soit visible sur les épaules. Les bras sont donc nus. Les pieds en mouvement figurent la marche. La tête est remarquable: alors que le nez, plutôt grand, obéit aux canons du nez grec, la chevelure rase, probablement crépue, dégage bien l'oreille. Le menton est bien marqué, mais plutôt arrondi. L'animal au second plan est un cheval, mais il ne ressemble guère à ceux des autres reliefs cyrénéens27. Sa croupe est forte et basse, sa tête très allongée, ses oreilles fort petites et nettement ourlées. Dans l'ensemble il est de taille réduite proportionnellement à son guide. Sous cette scène, une zone haute de 8,5 cm est entièrement occupée par les corps légèrement ondulés de treize serpents allongés côte à côte selon l'axe horizontal de la stèle. Les deux serpents extrêmes sont un peu plus longs que les autres et encadrent de ce fait les onze autres. Plus bas, la surface de la stèle est lisse, à l' exception de deux lignes très effacées. Il est impossible de dire si toute la largeur des lignes était occupée par des lettres. Celles-ci, gravées très superficiellement et aujourd’hui usées, ne se distinguent presque plus l. 1. La gravure était, semble-t-il, alignée à gauche (hauteur des lettres1,5 cm) : A . . . . . GEN.AS . . La petite stèle B, entrée au musée en 1973 sous le n° d'inventaire 2985, semble avoir été découverte dès 1966 dans la zone de l'ouadi El Aish, aux confins de la nécropole Sud de Cyrène, dans la chôra toute proche de la cité aujourd'hui occupée par l'extension de l'agglomération moderne de Shahat. Pour autant, cette provenance n'est pas une garantie, car d'autres découvertes fortuites intervenues là plus récemment ont livré du matériel provenant manifestement du sanctuaire d'Apollon. On peut imaginer que cette petite stèle, facile à déplacer, a pu être apportée, à n'importe quelle époque, d'une tombe voisine aussi bien que d'un site campagnard plus écarté. De toute évidence, il s'agit d'un monument identique au précédent, quoique de proportions un peu différentes (fig.6). La stèle est brisée en haut, ce qui mutile la scène figurée. En revanche, la zone des serpents, au nombre de douze seulement, et la zone inscrite sont préservées, celle-ci en bon état. Hauteur maximum conservée 21 cm ; largeur en haut 17,5 ; en bas19,5 ; épaisseur en haut 7 ; en bas 8,2. Hauteur des lettres 1,8. De la scène figurée ne subsistent que des pieds, qui semblent confirmer que la scène était la même: on retrouve de gauche à droite les deux pieds de l'homme, le sabot antérieur droit du cheval et les deux pieds de la femme, dépassant légèrement sur cette stèle du bas de sa robe, alors qu'ils sont cachés sur l'autre stèle. L'inscription se lit très bien : ANAXOS GENAS 27 De bons exemples illustrent l'article de Luni, M., 'Documenti per la storia della istituzione ginnasiale e

dell'attività atletica in Cirenaica', QuadALibia 8, 1976, pp.223-284. Voir en particulier la fig. 14, représentant la base SECir 164 mentionnée ci-dessus n. 18.

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La gravure est soignée, le style des lettres un peu disparate: les deux sigmas ont leurs branches extérieures tantôt parallèles, tantôt de forme plus pincée. Il n'y a pas de véritables apices, mais un léger empâtement aux extrémités. Il est probable que nous sommes au IIe s. av. J.-C. On pourrait admettre pour la ligne 1l'anthroponyme ”Anaxo", connu par exemple à Dèlos, qui est un hypocoristique des composés en Anax(i)-, au même titre qu' 'Anaxeva", ”Anaxi" et 'Anaxwv déjà attestés en Cyrénaïque. Mais on ne saurait que faire alors de la seconde ligne. La confrontation de la stèle A, qui semble bien porter la même inscription et avait une lettre de plus entre nu et alpha, livre une piste pour la seule interprétation que j'aie pu trouver : [Anax, Ó" | gen(n)a/'" "Seigneur, toi qui engendres". Notre document devient alors le plus ancien témoin de deux altérations phonétiques appelées à se manifester dans les inscriptions grecques de la région et d'ailleurs. La première est la disparition de i dans la diphtongue à premier élément long. Cette réduction est généralisée en toutes positions du mot au Iersiècle av. J.-C. en Cyrénaïque. Mais il existe déjà un exemple au IIIe s. et le phénomène est donc tout à fait acceptable au IIe s.28. La seconde est la simplification des consonnes géminées, réalisée sur la stèle B mais non sur la stèle A. Pour cette altération, nous avons au moins un parallèle légèrement antérieur29. Le fait que le nominatif a[nax ait pris la place de la vieille forme spécifique de vocatif a[na n'est pas étonnant à l'époque hellénistique avancée. La formulation combine deux catégories de messages véhiculés par des inscriptions : c'est une acclamation décrivant le pouvoir d'un dieu comme Mevga" 'Asklhpiov", ei|" Zeuv" Kavsi", ei|" qeov"30,mais en même temps une invocation, comme Zeu' a{gie ajpostreyivkake "Zeus saint qui détournes le mal" sur une amulette31. Nos deux stèles sont de petits monuments votifs, destinés à être placés sur un meuble, une étagère, un autel. Ils invoquent un a[nax. Ce terme de déférence s'applique à de nombreuses divinités et la formulation ne permet pas à elle seule de retrouver là l'un des deux ¥vnake" laconiens. Il faut scruter toutes les autres caractéristiques des stèles. Un pouvoir fécondant est explicitement attribué à l'Anax par le verbe genna/'". Elle est confirmée par les serpents, qui sont ici en nombre impressionnant et à ma connaissance sans égal. Les serpents, à leur place dans les contextes cultuels chthoniens, nous font retrouver à la fois les Dioscures et les cavaliers héroïsés. Les serpents peuvent être une représentation symbolique des Dioscures, mais leur nombre, logiquement, ne dépasse

28 Pour la fragilité de la diphtongue à premier élément long, voir Dobias-Lalou, C., Le dialecte des

inscriptions grecques de Cyrène (Karthago 25, 2000), pp. 20-23 en y ajoutant l'exemple de Damšnh" en SEG 20, 735 b I, 70 et 71, des lectures d'Oliverio non vérifiables aujourd'hui. 29 Aux confins du IIIe et du IIe s., glw'sa dans la tablette d'imprécation SECir 193, exemple très révélateur car pouvant relever de la même ambiance socio-linguistique que notre document. 30 Pour ces formules sur des amulettes, voir Guarducci, M., Epigrafia Greca IV,Rome 1978, pp. 274-278. Elle y renvoie notamment à Robert, L., Hellenica X, Paris 1955, pp. 84-89. Voir aussi de ce dernier quelques indications bibliographiques à propos du mevga" 'Askl[h]piov" de Pergame, Bull. Epigr. 1971, 546. 31 Guarducci, M., op. cit., p. 273.

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alors jamais deux32. Il serait tentant en outre de relier le titre d' a[nax au personnage viril qui accompagne le cheval. Son attitude, debout à côté de sa monture figurée au second plan évoque celle de Castor, le Dioscure grec cavalier. Mais son vêtement, ses traits, sa coiffure, l'allure de son cheval portent des marques indigènes indéniables33, auxquelles on pourrait joindre la précocité des écarts graphiques remarqués plus haut. On serait conduit alors à voir dans l'Anax un dieu ou héros cavalier d'origine indigène recevant des offrandes libellées en grec. Ce culte illustrerait l'osmose intervenue plus particulièrement dans la campagne entre les deux populations. La femme qui lui fait face est plus mystérieuse. Il est vraisemblable que les objets qu'elle tient sont un vase à libations et une phiale. S'apprête-t-elle à sacrifier ? Est-elle la parèdre du dieu-héros? Son attitude et son vêtement sont trop peu caractérisés pour que l'on puisse affirmer quelque chose. Par ailleurs, un serpent se retrouve avec le cavalier sur deux des reliefs votifs du sanctuaire de Dèmèter et Korè34. En outre, sur le plus complet des deux, la présence d'une femme constitue un parallélisme supplémentaire, non par ses attributs qui ne sont pas clairs, mais par le voisinage de l'autel qui indique probablement qu'elle s'apprête à sacrifier. Mais, en dépit de ces ressemblances, le rapprochement entre les stèles à l'Anax et les reliefs de cavaliers héroïsés me semble impossible, dans la mesure où les défunts héroïsés sont par nature individualisés et caractérisés chacun par un idionyme, alors que le titre d' a[nax cache une personne divine unique dans un cadre cultuel donné. La désignation par a[nax sans nom individuel rappelle aussi d'autres découvertes récentes, dont Anna Santucci a exposé la teneur lors du colloque de Macerata en 1995 à la suite des fouilles de 1993 sur l'Agora de Cyrène35. Elle y a dégagé les vestiges d'un petit sanctuaire comprenant un autel entouré d'un péribole circulaire, lieu d'un culte chthonien à une divinité désignée comme a[nax par deux graffiti sur céramique de la fin du Ve s. av. J.-C. A. Santucci s'interroge alors sur l'identité de cet a[nax. Suivons son raisonnement : 1)Elle pense d'emblée aux Dioscures, mais on attendrait le pluriel.2) Il est vrai que Pindare mentionne Castor seul, mais c'est un choix de circonstance, lié à la victoire hippique de son commanditaire. 3) De plus, vers le milieu du Ve s. a été érigé le second petit temple décrit par Bacchielli à proximité de l'agora et attribué par lui aux Dioscures, comme on l'a dit plus haut. 4) Parmi d'autres figures divines possibles, Apollon, déjà abondamment doté sur l'agora même, doit être écarté.5) Pour occuper une position symétrique à celle du fondateur Battos dans son herôon, Aristée, un autre dieuhéros pouvant à sa manière passer pour fondateur, serait un bon candidat. C'est une proposition très séduisante, mais en l'absence de toute donnée iconographique, elle reste hypothétique. Il n'est pas possible, d'autre part, d'identifier l' a[nax cavalier des deux 32 Cf Hermary, art. cit. n.17, n° 59, 64, 139 où deux serpents encadrent un oeuf, et 224 où les serpents

sont sur les deux montants des dokana. 33Comme rapprochements du même type dans des contextes culturels différents, on peut évoquer le cas

de dieux- héros cavaliers pisidiens et lyciens recevant le nom de Dioscures, cfr Robert, L., 'Documents d'Asie mineure. XXVII, Reliefs votifs, 11 -Les Dioscures et Arès', BCH 107, 1983, pp. 553-579 ; en Palmyrène, Castor assimilé avec Abgal, cf Augé, Chr., et Linant de Bellefont, P., 'Dioskouroi (in PeripheriaOrientali)', in LIMC III, Zurich et Munich 1986, pp. 593-597. 34 Kane, art. cit. n. 6, n° 1 et 2. 35 Santucci, A., 'Il santuario dell' Anax nell' Agorà diCirene', in Catani, A., Marengo, S.M., edd., La Cirenaica in età antica. Atti conv. 1995, Macerata 1998, pp. 523-536.

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petites stèles avec Aristée, dont il ne partage aucune des caractéristiques iconographiques. Il me semble qu'en dépit de l'écart chronologique les nouveaux documents que je viens de présenter offrent des informations qui se complètent et qui peuvent redonner, pour le monument circulaire de l'agora, un certain poids à une attribution à Castor. L'herôon se trouverait à Cyrène dans une position assez comparable à celle qu'il occupait à Sparte. Comment se représenter alors l'existence, dans le voisinage immédiat, du Dioskoureion de Bacchielli dans ses deux phases ? A vrai dire, ces deux constructions présentent une certaine parenté : A. Santucci relève que la moulure du péribole circulaire a pour plus exact parallèle celle de l'autel du tempietto de Bacchielli. Quel lien peut-on inférer de cette ressemblance morphologique ? Pourrait-on tirer argument du plan du dit tempietto et imaginer que le passage d'un double à un simple oikos n'est pas dû, comme le pensait Bacchielli, uniquement à des contraintes d'espace, mais qu'il y aurait eu à la fin du Ve s. une répartition nouvelle, séparant les cultes de Castor et de Pollux ? Ces questions dépassent amplement mes propres compétences archéologiques. Je constate seulement que le puzzle s'est compliqué de nombreuses pièces nouvelles. Il faut, me semble-t-il, espérer encore l'apparition de quelques pièces supplémentaires pour donner consistance à certains des rapprochements suggérés ici entre le Dioscure d'Apollonia, l'Anax de l'Agora et celui de la campagne.

Fig. 1 Relief d'Apollonia (cliché Y. Garlan)

Fig. 2 Relief d'Apollonia, vu de dos (Y. Garlan)

Fig. 3 Base de Cyrène SECir 51 (cliché C. Dobias-Lalou)

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Fig. 4 Relief au cavalier héroïsé, du sanctuaire de Dèmèter et Korè (cliché S. Kane)

Fig. 6 Stèle B aux serpents (cliché A. Hassouna, Dept. of Antiuities,Shahat) Fig. 5 Stèle A aux serpents (cliché C. Dobias-Lalou)

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7 Tomb N171 and its significance for the history of Cyrene Doric Richard Tomlinson May I begin by expressing my thanks for the invitation to attend this conference. It is now nearly fifty years since I went to Cyrene, so inevitably my paper is not based on new data, but on notes which I made then. I was studying Hellenistic tombs in Macedonia. I had visited Alexandria the previous year, to see the architecture of the Hellenistic tombs there – particularly those at Mustapha Pasha, excavated and published by Achille Adriani1, and I wanted to make the comparison with those at Cyrene. At that time John Cassels’ study2 was unpublished, and since he worked under the auspices of the British School at Rome, I, at the School at Athens, came to Cyrene not knowing what he had done. There was little point in publishing my notes, and the only publication that resulted was my short article on what I called the False Façade Tombs, particularly S2013. The present paper is concerned with those tombs which, like that one, have full architectural facades. First, some statistics. Cassels noted a total of 1375 tombs, excluding the rock-cut single sarcophagi, which he estimated totalled over 2000. I made notes on a total of 635 tombs, of which over 100 had not been recorded by Cassels: so, a grand total of about 1500 “architectural” tombs, plus the estimated 2000 sarcophagi. The great quality of the Cyrene cemeteries was the completeness of their survival. With the ancient roads and surviving field boundaries, a complete ancient environment was preserved. Even this large number of tombs, mostly with multiple burial places, cannot have accommodated all the deaths of the Greek city from its foundation to the Roman period (when it seems that, mostly, existing tombs were reused). In particular, tombs are lacking for the first two centuries or so of the city’s existence. Even for the later centuries, the tombs that survive are likely to have been those of a relatively wealthy elite section of Cyrenaican society. Though most tombs display at least some features borrowed from non-funerary architecture, those that make full, or relatively full use of the Greek orders of architecture – almost inevitably Doric, of course – are by comparison most infrequent. I have noted 13 which contain, or almost certainly used full orders with free-standing columns, 14 certain and 12 possible which used engaged orders, with ½ and ¼ columns, and 38 with simplified versions, omitting the columns and reducing the entablature, generally by omitting the frieze. A small minority, then, but architecturally important. In contrast to the general development of Hellenistic architecture, that of Cyrene is marked by a distinct conservatism. It adheres with little exception to the Doric order. Its location, inland and uphill discouraged the importation of marble, and locally quarried stone prevailed unchallenged. The result is a continuous and distinctive local style. Quantitively, this is most easily examined in the tombs. The destruction of the city, by 1

Adriani A., “La necropole de Mustapha Pasha”, AMGR 1933, p.34. Cassels J., The Cemeteries of Cyrene, PBSR 23, 1955, p.1ss. 3 Tomlinson R., “False Façade Tombs at Cyrene, PBSR 62, 967, p.241ss. 2

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riot, earthquake and invasion makes it difficult to trace the development of architectural form from the evidence of urban structures alone. There are a number of features which distinguish the local variant of Doric in Hellenistic Cyrene, though not all of them necessarily coincide in each example. These are: x x x x

Use of simplified moulded bases to the columns. Use of Ionic style fluting with flat arrises. Use of half-columns engaged against the inner sides of antae or porch walls. Use of a heavy double soffit moulding under the geison.

(This goes unnoticed in the late Lucy Shoe’s Profiles of Greek Mouldings). It is the absence of these features in the Doric of the Gymnasion/Kaisareion which suggests to me strongly that this building is the work of an imported Alexandrian architect, rather than a local man from Cyrene itself. On the other hand, as far as I know these features are not found in the earlier 6th century buildings. When, and how did they develop? The earliest dateable example, somewhat ironically, appears outside North Africa. It is, of course, the Treasury of Cyrene at Delphi. When he studied this, in Fouilles de Delphes, Jean Bousquet4 appears not to have appreciated its idiosyncratic links with the architecture of Cyrene itself. Thus, in commenting on the geison double soffit moulding, he describes it as unique, since Miss Shoe has no example of it: “It is the character of our architect to add to the classic moulding in reinforcing the moulded register of the building”. There is, however, a problem of chronology. The Treasury seems certainly to have been completed before 322/1 B.C., since it carries an inscription dated to the archonship of Megakles in that year. Work may have been started much earlier, before the Sacred War, and to have been interrupted before a resumption after Chaironeia, as Bousquet suggests. He also suggests that the eventual design, presumably including the engaged half columns and double mouldings, belongs to the resumption. This superstructure, though, is in marble: the façade, which is where the specifically Cyrene elements are found, is Pentelic. Both the architrave/frieze proportions (0.43 to 0.526m. = 1:1.22) and the column proportions (base d. 0.556, height 3.864 = 1:6.95) indicate a late 4th century date at the earliest. The central question is, then, is the Treasury a totally original design by an innovative architect which subsequently influenced the form of the Doric order at Cyrene, or does the treasury (and its architect) reflect contemporary architectural practice at Cyrene? The latter seems more logical, especially if the heavy geison soffit moulding was developed to give extra support to the limestone cornice. The problem is to relate the Treasury to the established sequence of structures in Cyrene itself. When I went to Cyrene in 1956 I was able to take measurements of the architectural details in several of the tombs, and I now add these to the other published measurements to produce a list of the proportions in the two elements of Doric design at Cyrene which

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Bousquet J., Le Trésor de Cyrene, Paris 1952.

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seem to me to be relevant: column height to lower column diameter (excluding, of course, any Ionic style base), and architrave height to frieze height (Table 1). In very general terms, the more slender the column and the lower, proportionately, the architrave, the later the date. Often this cannot be demonstrated for certain, especially if (as usual) there are no other dating criteria. In the tombs, also, construction may be cheaper, and careless, so that precise rules of proportion cannot be applied. Even so, the sequence looks interesting. The architrave to frieze sequence runs, for tombs with columns or half columns, from 1:1.15 (N260, Fig. 3), 1:1.26 (N171, Fig. 2) to 1:1.6 (N181). (W12, whose inside order has an exceptional ratio of 1:2, must be discounted). For tombs with full entablatures but no columns, from 1:1.226 (W111) to 1:1.4 (E66) and 1: 1.5 (N65, Fig. 1). Column height to base ranges from 7.12:1 for N171 (The suggestion that the column should be slightly higher, at 7.6:1, seems to me highly unlikely) to 8.65:1 (N65, which also has a low architrave). For comparison, architrave to frieze ratios elsewhere are Parthenon 1:1, Metroon Olympia 1:1, Vergina, Tomb of Philip 1:1, Zeus Nemea 1:1.2, Lefkhadia, Petsas’ tomb 1:1.2. While at Cyrene we have Stoa B5 1:1.18, Stoa O2 1:1.27, Strategeion 1:1.2. N171 (Fig. 2) thus seems to stand at the head, or very close to the head, of the development at Cyrene of tombs with columnar facades (whether engaged or freestanding) in the particular Cyrene Doric form. The date for this development seems to be around the turn of the fourth and third centuries B.C. It is a type of tomb which is best suited to the situation of Cyrene’s north cemetery, where there are the steep or near vertical rock faces against which such facades are most easily cut or constructed. In the flatter south cemetery, where the once splendid tombs S1, S4 and S4a should be added to the sequence when we have the full details of their facades (and I believe they belong to the later end of the sequence, as Luca Cherstich’s study shows), such facades have to be constructed largely as free-standing walls. It is no surprise, though, that the majority of the examples come from the north cemetery. What can we say of the origin of these tombs? The earlier rock-cut tombs with their non-standard and highly variable forms, may have provided an inspiration. The developed type, it seems to me, was specially created for Mnasarchos and his family, and the use of free-standing columns marks N171 out as something rather special, particularly if the South cemetery tombs are all later. Putting this chronology in conjunction with the Treasury at Delphi, it would appear that the full development of the peculiarly Cyrene form of the Doric order had taken place by the end of the 4th century. At Cyrene itself N171 stands virtually at the head of the sequence of examples, and this is borne out by the evidence of the other tombs. How much earlier is the origin of the form? It is not found in the great buildings of the 6th century, such as the Temple of Zeus. The dating of other examples in Stucchi – the Temple of Eluet Gassam5 - or Smith and Porcher (Temple SW of the Temple of Bacchus, with half-columns against the antae, is problematic, and Stucchi’s earliest 5

Stucchi S., Architettura Cirenaica, Roma 1975, p.52, fig.39.

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example of the double moulding, in the Temple of Athena6 comes from a doorway decoration, not a geison. It is possible to argue that the engaged half-columns against the antae of the Treasury at Delphi were inspired not by examples at Cyrene, but rather locally, in central Greece, such as the 6th century Temple of Artemis Agroteira at Mavrovouni in Boiotia7, but this does not explain the double moulding. I prefer to argue for development at Cyrene itself, and failing other evidence N171 is the key, the significant structure for all this. Not only that: it sets an example for a new form of tomb (or, at least, the external appearance of a tomb), accepting that here the chronological relationship between it and the south cemetery tombs is something that vitally requires elucidation. Why does the new form develop? It belongs to the period when monumental tombs begin to appear elsewhere in the Greek world, or, at least, on its fringes: the Mausoleum at Halikarnassos, the vaulted tombs with architectural facades in Macedonia. Even if there is no direct copying, or even direct knowledge, the atmosphere of changing attention to burial monuments is a factor to be taken into consideration. There is another factor. N171 is demonstrably the burial place of one of the leading families at Cyrene. These people, surely, were benefiting from the great increase in available wealth which was released by Alexander’s conquests and the consequent transformation of the Greek world. The distribution of Cyrenaican corn at the time of the great famine was more than an act of munificent charity, and it would be the landowners at Cyrene who were the financial beneficiaries. N171 is a lasting testimonial to the wealth of the landed families of Cyrene. Postscript A feature of the tombs with architectural facades is a forecourt, either on the level to the rock face or, in the case of the South Cemetery, a sinking in front of the tomb. After I had finalised my paper and its abstract, Jim Thorne sent me a copy of the article by Anna Santucci8 on tomb N1. Her plan (fig. 18) and photograph (fig. 8) show clearly five stone couches grouped like those in 11-couch dining rooms of the sort found, for example, in the feasting rooms at Perachora9. The dimensions, including the height, are very similar; there are the same raised “head boards” at the right hand end. My 1956 notes on this tomb record the representation of the wooden couch framework on the sides, and this is also visible in Anna Santucci’s fig. 15; they would have supported mattresses, I think when in use. Clearly, this shows an arrangement for ritual or commemorative feasting by the living relatives within the tomb complex. The presence of forecourts to many of the tombs suggests that these also had provision for feasting, especially for the more wealthy families.

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Stucchi cit. P.49, fig.36. Tomlinson R.-Fossey J, “Ancient Remains on mt.Mavrovouni” ABSA 65, 1970, p.245ss. 8 Santucci A., “Tahuna –Windmill Tomb....” QuadArchLibya 18, 2003, p.183ss. 9 Tomlinson R., “Perachora. The remains outside the two sanctuaries”, ABSA 61, 1964, p.164. 7

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R.Tomlinson

Table 1 Proportions N260 N357 W111 N171 N178 W80 N151 N196 E66 N181 N65 W16 (Interior)

0.19 : 0.22m 0.295 : 0.55m 0.23 : 0.252 m 0.505 : 0.64 m 0.27 : 0.35m 0.325 : 0.40m 0.33 : 0.43m 0.285 : 0.385m c. 0.40 : 0.56m 0.20 : 0.29m 0.26 : 0.385m 0.26 : 0.323m

Architrave:frieze = = = = = = = = = c. = = =

1 : 1.15 1 : 1.186 1 : 1.26 1 : 1.26 1 : 1.30 1: 1.30 1 : 1.30 1 : 1.40 1 : 1.40 1 : 1.45 1 : 1.5 1:2

In S1 the architrave measures 0.56m. The frieze is at least 0.64 N171 N178 W16 N65

Column height : lower diameter 4.63 : 0.65m. = 7.12d (less likely 4.94 : 0.65m. = 7.6d) 2.6 : 0.335m. = 7.76d 1.857 : 0.235m. = 7.9d 2.68 : 0.31m. = 8.65d

Treasury of Cyrene at Delphi Architrave : frieze height

0.43 : 0.526m.

= 1 : 1.22

Column height: diameter

3.864 : 0.526m.

= 6.93d

(This puts the Treasury slightly before N171)

Fig. 1. Cyrene. Tomb N 65 by Pacho.

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Fig. 2

Cyrene. Tomb N 171.

Fig. 3

Cyrene. Tomb N 260.

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R.Tomlinson

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L. Cherstich

8 S4: la tomba di Klearchos di Cirene. Luca Cherstich La tomba S4,1 sebbene sia stata variamente nominata in passato,2 non ha mai ricevuto uno studio approfondito. Non solo essa è oggi sita all’interno di un moderno cimitero, ma sul crollo della facciata si è impostata la sepoltura del Marabutto Bu Bagiuda. Questa moderna struttura è stata posizionata esattamente al centro, perciò oggi non è possibile fotografare interamente il crollo della facciata. L’immagine migliore del monumento ci è offerta da una foto d’epoca pubblicata da Ghislanzoni3 (Fig. 1) in cui appaiono particolari oggi scomparsi, probabilmente a causa della depredazione di materiali costruttivi. In passato la particolare posizione ha reso difficile l’investigazione del monumento. E’ stato soltanto grazie alla preziosa collaborazione del personale del Department of Antiquities of Cyrene che mi è stato possibile studiare questa tomba. A causa di varie limitazioni logistiche4, questo studio è basato soprattutto su un esame delle emergenze archeologiche visibili, si aspetta quindi un possibile scavo del monumento per poter verificare l’attendibilità delle conclusioni qui proposte. Si è eseguita una veloce ma accurata pianta (Fig. 2) che mostra il posizionamento di tutti gli elementi più importanti: il marabutto, l’ingombro generico del crollo, la posizione delle strutture non crollate e quella di vari blocchi (Fig. 6-14) scelti per il grado di conservazione e per la forma che li rende esemplari di vari altri simili ma meno conservati. Questi blocchi sono stati 1

Questo lavoro è dedicato ad un largo numero di persone con cui mi sono indebitato in diverse e varie maniere durante lo studio della S4, sia in Libia che in Italia: Said Anabi e Mohammed Khalifa (per l’assistenza nelle operazioni di rilievo), Said Faraj (per il permesso), J.C.Thorn (per l’ispirazione), Prof. R.A.Tomlinson (per le critiche), Prof. J.J.Coulton (per i libri giusti al momento giusto), Prof.ssa E.Fabbricotti (per l’approvazione), Dott. D.Fossataro e Prof.ssa O.Menozzi (per vari, diversi ed indispensabili aiuti), Prof. A.I.Wilson (per avermi permesso di tenere una lezione ad Oxford sull’argomento) e di certo tutta la mia numerosa famiglia (per l’infinita pazienza!). Ma, più di tutti, questo articolo deve la sua esistenza a Debora Lagatta, per tutto quello che ha sopportato mentre questa ed altre tombe prendevano forma sotto le mie matite. Ovviamente la presenza di errori in questo articolo non è da imputare a nessuna delle persone qui citate ma a me solo. 2 CIG 5147, 5164; De Bourville, J.V., « Sept Inscriptions grecques trouvées à Cyrène, et deux autres de l’Arabic Petrée, trouvées à Costantine », in JdS, 1848 (Juin), pp. 374-377, nos. VI-VII; De Bourville, J.V. “Lettre de M.Vattier De Bourville a M.Letronne sur le premieres rèsultats de son voyage a Cyrène », RA 5, pp. 150-154 ; De Bourville, J.V. « Rapport au Ministre », Archives des Missions Scientifiques et Littéraires, Vol. I, 1850, pp. 584-585; Ghislanzoni, E., « Notizie archeologiche sulla Cirenaica », Notiziario Archelogico delle colonie I, Fasc.I-II, 1915, p. 166 Fig.82; Cassels, J. “The cemeteries of Cyrene”, BSR XXIII, 1955, p.3; Tomlinson, R.A. « False Façade tombs at Cyrene », BSA LXII, 1967: 249252 Pl. 46c; Beschi L., “Divinità funerarie cirenaiche”, ASAA XLVII-XLVIII, n.s. XXI-XXXII, 1969-70, 1972, pp. 201-203, fig.59; Masson, O. « L’inscription genealogique de Cyrène », BCH XCVIII, 1974, pp.263-270; Stucchi, S., Architettura Cirenaica, 1975, Roma, pp.142, 165; Thorn, J.C., The necropolis of Cyrene : two-hundreds years of exploration, 2005, Roma, capitolo IV.1.6. 3 Ghislanzoni E., “Notizie archeologiche sulla Cirenaica” in Notiziario archeologico delle colonie anno I, Fasc I-II, 1915, Roma: 231 fig.82. 4 Non da sottovalutare il rispetto per il marabutto.

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accuratamente misurati e disegnati. Da queste prime misurazioni sul campo si è poi passato ad una proposta di ricostruzione grafica del monumento. La prima parte dell’intervento sarà occupata soprattutto dalla spiegazione di questa ricostruzione che sarà qui trattata man mano che si descriveranno le strutture. La seconda parte sarà quindi dedicata al posizionamento della S4 nel quadro più generale della contemporanea architettura Ellenistica. Si cercherà quindi anche di vedere quali conclusioni storiche e sociali sia possibile trarre dall’analisi del monumento, soprattutto nel tentativo di decodificare i messaggi di “ostentazione” impliciti in questa grandiosa struttura. La S4 è una tomba a falsa facciata. La classe fu identificata dal Prof. Tomlinson5 in particolare con lo studio della tomba S201. Al giorno d’oggi pochi altri esemplari sono stati pubblicati, come le tombe S3886 ed S1.7 La caratteristica fondamentale della classe è un’enorme facciata che si eleva come un monumento a se stante, senza agganciarsi ad alcuna struttura retrostante. La facciata ha una mera funzione decorativa mentre la vera tomba si trova al di sotto. E’ chiaro che si tratta di un tipo di edificio il cui unico scopo è l’ostentazione. In molte maniere la monumentalità di questa classe è ricollegabile a quella di altre tombe cirenee di età Ellenistica, non a falsa facciata ma con facciate monumentali come la N171 (Tomba degli Mnesarchi).8 La differenza sta nel paesaggio in cui la tomba è sita. La N171, posta nella ripida necropoli Nord, fu progettata per avere una facciata isodomica appoggiata all’alta parete del gradino del gebel. Le tombe a falsa facciata sono di solito presenti nelle più piane necropoli Est e Sud dove furono progettate per avere lo stesso effetto della N171 ma in un ambiente di pianura. Iniziamo l’analisi dalla posizione della S4. Essa si trova a circa 650 m a sud della presupposta posizione di Porta Balagrae, lungo una strada di certa importanza e traffico. La S4 era tra le prime tombe in una zona prestigiosa perché vicina all’area sacra che comprende il tempio arcaico attualmente in scavo da parte del team dell’Università di Urbino,9 due temene di probabile Età Imperiale10 ed una serie di nicchie votive, probabilmente di Età Classica.11 Nelle vicinanze c’è anche la tomba S112 molto simile alla S4 e che più avanti verrà usata come confronto. Queste due grandi tombe si trovano nelle immediate vicinanze delle città ed erano tra le prime ad essere notate dai viandanti in uscita da Cirene. Le loro facciate colonnate, trovandosi sullo stesso lato dei templi, potevano forse sembrare 5

Tomlinson, “False Façade”. Frigerio C “Un esempio di architettura ellenistica funeraria a Cirene: la tomba S388” in LibAnt n.s. III, 1997, pp. 51-73. Questo prezioso articolo contiene anche note su alcune altre tombe. 7 Cherstich L. “The tomb S1 of Cyrene: from the Hellenistic phase to the Christian re-use” in Briault C., Green J., Kaldelis A., Stellatou A. (a cura di) SOMA 2003, Simposium on Mediterranean Archaeology, 2005, Oxford. BAR International Series 1391. 8 Beschi, “Divinità”, pp.168-186. Si veda anche l’intervento di Tomlinson in questo volume. 9 Stucchi, Architettura, p. 260. 10 Stucchi, Architettura, p. 261. 11 Cassels, “the Cemeteries”, p.35, S53-S54. 12 Cherstich, L., “The tomb S1 of Cyrene: from the Hellenistic phase to the Christian Re-use” In corso di stampa tra gli atti del convegno SOMA 2003, tenutosi presso la UCL, Institute of Archaeology, London, 21-23 Febbraio 2003. 6

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un’ideale prosecuzione visiva dell’area sacra e le loro dimensioni quasi giganteggiavano sulle più piccole facciate dei (forse più tardivi) temene. La tomba S4 è sita all’interno di un cortile di forma più o meno quadrangolare (Fig. 2) il cui interro si deve aggirare oggi sul metro circa, anche se questo è da verificare. La parte occidentale del cortile è del tutto occupata dal crollo della facciata all’interno del quale è possibile notare alcune strutture che sembrano essere rimaste in piedi. E’ da queste strutture conservate in situ che si deve partire per la ricostruzione della facciata. Nell’angolo meridionale (Fig. 3-5) si è conservata un’ala terminante con due semipilastri dotati di basi attiche che si innesta sulla facciata tramite un’anta cirenaica, ovvero una semicolonna congiunta ad un semipilastro. L’origine di questo elemento è abbastanza dubbia ma esso comunque merita il nome di anta cirenaica per la sua diffusione nell’architettura cirenaica che la usa gia a partire dal IV secolo a.C. nel tesoro di Delfi13 e che caratterizza l’architettura ellenistica Cirenea, come ricorda anche l’intervento di Tomlinson di questo volume. Questa ala indica sia il livello dello stilobate che un primo indizio sulla possibile pianta della facciata. Nel cortile (Fig. 2) si nota la presenza, ancora in situ, della parete di fondo sulla linea della quale si è tentati di duplicare ipoteticamente l’ala Sud, in maniera specchiata, sul lato Nord. Questo però non è lecito. Innanzitutto bisogna vedere quanto esattamente i lati della facciata distassero dalle pareti del cortile. Queste non sono totalmente visibili, poiché coperte dal crollo e dall’interro. In ogni modo la loro posizione è intuibile se si proiettano ipoteticamente le direttrici segnate da ciò che è visibile del cortile. In questa maniera si può notare che la distanza tra l’ala Sud e la parete del cortile è di circa 3m. A Nord l’ultimo blocco visibile del muro di fondo (che di certo non è la fine della facciata) si trova a circa a 2,4 m dalla parete del cortile. Questo dimostra che qui, a Nord, l’ala era molto più vicina alla parete del cortile. Lo stesso suggerimento è dato anche dalla posizione dell’angolo ancora in piedi nella foto del 1915, in alto a destra dell’immagine (Fig. 1). Osservando la foto, si può notare come la cresta del crollo abbia a Nord una quota più alta che a Sud. La posizione generica dei blocchi a terra14 pare indicare che il crollo sia avvenuto da Nord verso Sud. Questo potrebbe voler dire che mentre l’ala Nord collassò sulla facciata, l’ala Sud cadde sul vuoto, tra la facciata e la parete del cortile, creando così un crollo molto più basso. Queste considerazioni inducono a pensare che la facciata fosse molto vicina, se non appoggiata, alla parete Nord del cortile. Al contrario, sembra che sul lato Sud originariamente ci sia stato un certo spazio tra la facciata e la parete del cortile. La ragione di questo spazio sarà ipotizzata poco più avanti. Di certo la facciata aveva le sembianze di un colonnato: lo dimostrano l’anta cirenaica ed i vari rocchi di colonna sparsi nel crollo. Molti di questi sono pesantemente abrasi ma i meglio conservati mostrano sia il diametro di base delle colonne che l’esistenza di scanalature ioniche, così come nell’anta cirenaica. L’anta cirenaica è sepolta alla sua base e non si può capire come essa finisse sul piano dello stilobate. La presenza di scanalature ioniche sia nei rocchi che nell’anta potrebbe giustificare, anche nelle 13

Stucchi, Architettura, pp. 83-84, nota 1. L’anta è inoltre uno di quei contributi cirenaici alla formazione della barocca architettura alessandrina, si veda Sear F. “The architecture of Sidi Khrebish (Berenice)” in J.P. Descoeudres (ed.) Greek colonists and native populations,1990, Oxford, pp. 385-403. 14 soprattutto dell’anta cirenaica crollata di cui parleremo tra poco.

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colonne, la presenza di basi attiche simili a quelle dei semipilastri dell’ala. Bisogna però notare che nella Cirene Ellenistica le scanalature ioniche non erano un fatto raro ma esse apparivano in moltissime colonne Doriche,15 solitamente accompagnate da basi (che però spesso sono versioni semplificate di quella della S4). Per capire il numero di colonne il blocco di fregio dorico (Fig. 8) è fondamentale. Si ipotizza qui una regolarità nella disposizione delle metope. E’ vero che in alcune tombe ellenistiche rupestri non c’è relazione tra il ritmo delle metope e quello delle semicolonne o semipilastri e questo è spesso messo in relazione con una data vicina al tardo ellenismo, quando si presuppone di solito una sorta di caduta di rigore.16 In ogni modo, più che acriticamente applicare preconcetti sull’architettura tardo-ellenistica è bene considerare i contesti in cui certi fregi sono rinvenuti. Si tratta, infatti, di portici falsi, scavati nella roccia che di certo hanno problemi di statica ben diversi (e di gran lunga minori) rispetto a quelli di un colonnato vero in cui i blocchi di fregio17 devono maggiormente mettersi in relazione all’alternarsi con le colonne. Si preferisce qui la regolarità del fregio in virtù dell’esempio offerto a Cirene da architetture colonnate reali databili sia al medio che al tardo periodo Ellenistico, come le tombe N17118 e S201.19 Data per certa la regolarità del ritmo delle metope, porre una metopa per intercolumnio porterebbe ad un certo fastidio per i grossi capitelli (Fig. 6), soprattutto a causa del loro notevole diametro (1,2 m), per cui i pezzi risulterebbero troppo vicini. La combinazione migliore è quella di porre due metope per intercolumnio creando così interassi di circa 2,7 m in una facciata di sei colonne contenute da due ante cirenaiche incorporate in due ali le cui testate terminano con coppie di semipilastri (Fig. 15). Una nota, forse minore ed arbitraria, è che questa misura di 2,7 m potrebbe essere stata presa in considerazione poiché sembra ricorrere in vari punti della pianta ricostruita, ad esempio nella distanza dall’anta cirenaica alla fine della base attica dell’ala. Una nota ben più significativa ed oggettiva è il fatto che se questa ipotesi di pianta è posta nel cortile (Fig. 16) è evidente quanto essa si adatti magnificamente alle dimensioni del cortile ottenute proiettando i lati visibili. Come preannunciato, in questa ricostruzione avanza spazio sul lato Sud ma ciò è facilmente giustificabile. Alcune false facciate (come la S388) ospitano gli ingressi delle camere nella parte bassa, altre (come la S201) mostrano false porte mentre il vero ingresso è nascosto al di sotto del piano di campagna. Le strutture ancora in situ dimostrano che nessuna delle due ipotesi è valida per la S4: sul muro non c’è nessuna porta, ne finta ne vera. Inoltre, la parte di muro ancora sotterrata (Fig. 17) non può nascondere una porta: la misura di 1,7 m esistente tra il piano dello stilobate e la muratura visibile è troppo piccola per contenere una porta di dimensioni normali. E’ illuminante un confronto con la vicina tomba S1,20 un’altra falsa facciata molto simile alla S4 per dimensioni e tipologia. Le condizioni di visibilità della S1 sono, per 15

come ricorda anche Tomlinson nel suo articolo in questo volume. Bacchielli, L. “La tomba delle Cariatidi ed il decorativismo nell’architettura tardo-ellenistica di Cirene” in QuadArchLib 11, 1980, pp.11-34. 17 Che di solito iniziavano e terminavano con una metopa od un triglifo interi, mai a metà (come si vede anche nel blocco 7 in Fig.8). Perciò questi elementi decorativi sono importanti per capire problemi di natura più “strutturale”. 18 Beschi, “Divinità”, pp.168-186. 19 Tomlinson, « False Façade ». 20 Cherstich, “the tomb S1”. 16

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così dire, del tutto opposte a quelle della S4. Infatti, sebbene il crollo della S1 sia oggi assai meno visibile, l’interno della tomba è visitabile. Per accedervi bisogna passare attraverso un’entrata che è indipendente dalla facciata: essa è posta sul lato Nord, a circa 3,4 m dalla parete del cortile. Considerando che nella S4 lo spazio che avanza a Sud tra la facciata e la parete del cortile è di circa 3 m, si può ipotizzare anche qui un’entrata laterale. Questa situazione ha almeno altri due confronti a Cirene, la tomba E112 e la cosiddetta S4a.21 Conseguentemente almeno quattro tombe a falsa facciata a Cirene hanno un ingresso laterale e tre di queste (S1, S4 ed S4a) sono lungo il lato destro della strada di Balagrae. L’interno della S4 potrebbe non essere mai stato trovato dai saccheggiatori perché posto in questa strana posizione decentrata. Poiché il crollo ha subito un andamento Nord-Sud la porta sul lato Sud potrebbe essere ancora sigillata. Ciò non è accaduto nella S1 dove l’ingresso era situato a Nord. E’ probabile che anche la S4, abbia come la S1, una lunga camera con loculi laterali, del tipo O di Thorn.22 A questo punto, partendo dalla pianta ora ricostruita, si può passare ad ipotizzare la forma dell’elevato. A questo fine le strutture rimaste in piedi sul lato meridionale tornano di nuovo utili. L’anta cirenaica meridionale ha qui subito un crollo ordinato (Fig.3) che permette di contare i rocchi calcolando così l’altezza delle colonne che, dallo stilobate fino alla fine del fusto, è di 6,29m: è l’altezza più certa che possediamo. Al di sopra si deve porre un capitello figurato rinvenuto quasi intatto (Fig. 6, 7) e che mostra una protome femminile alternata da foglie d’acanto e piccole Nikai. Nelle vicinanze si è rinvenuto un secondo frammento che probabilmente appartiene ad un’altro capitello simile. Se due capitelli erano simili, c’è una possibilità che lo siano stati tutti, anche se questa constatazione dovrebbe essere meglio verificata dal rinvenimento di altri capitelli. Il capitello è alto 70 cm e la sua forma rotonda non è adatta ad agganciarsi all’architrave. Di conseguenza c’è bisogno di un elemento che non solo agisca come una sorta di abaco ma che anche renda questo capitello il più simile possibile ad uno corinzio. Ipotizzo questo blocco alto circa 50 cm, in maniera che si formi un quadrato di 120 cm di lato tra larghezza e altezza totale del capitello, ottenendo qualcosa di simile alla regola che Wilson Jones indica come tipica dei 2/3 dei capitelli corinzi Ellenistici, Romani e Bizantini.23 Nella ricostruzione di questo abaco sono ipotizzate le volute laterali ma nessun elice o caulicolo: non c’è infatti alcun elemento che dica quanto il capitello fosse vicino al “Corinzio Normale”. In totale otteniamo una colonna alta 6,79 m: 2 volte e mezzo la misura degli interassi. 6,79 m corrispondono a 23,01 piedi da 29,5 cm, una misura simile ai 23 piedi e mezzo della colonna d’acanto dell’Agora nella ricostruzione pubblicata.24 Questa colonna ha un capitello simile al nostro, potrebbe quindi essere un buon confronto se lì la misura di 23 piedi e mezzo non comprendesse anche un plinto. In ogni modo però confronti

21

Tomlinson, “False- Façade”. Thorn, the Necropolis, IV.1.6. 23 Wilson Jones, M., Principles of Roman Architecture, New Haven & London, 2000, p.145. 24 Bacchielli, L., Stucchi S., L’Agorà di Cirene II, 4. L’area settentrionale del lato ovest della platea inferiore, Roma, 1983, pp. 63-71, p. 67 parla dei 23 piedi attici e mezzo. 22

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troppo diretti tra le due strutture devono essere presi con cautela.25 Non solo la misura della colonna dell’Agorà è più ipotetica di quella della S4 (meno blocchi sono sopravissuti), ma dobbiamo anche ricordare che una singola colonna votiva poteva essere progettata con regole ben diverse da quelle di colonne realmente funzionali, atte a sorreggere una trabeazione. La sequenza dei vari blocchi modanati aiuta a ricostruire il resto. Non è stato possibile riconoscere alcun blocco di architrave il cui spessore è qui del tutto ipotizzato. Ovviamente al di sopra deve essere posto il fregio dorico (Blocco 7, Fig. 8) dietro al quale partivano blocchi simili al numero 15 (Fig. 13), atti a sorreggere le travi. Il gheison, ornato da una sima a kyma recta, è testimoniato dai blocchi 8 e 9. (Fig. 9, 10). In particolare il blocco 9 dimostra come esso continuasse sui lati. Al di sopra del gheison deve essere posto un filare di marcapiano, testimoniato dai blocchi 12 (Fig. 12) e 13 (questo ultimo ne riproduce solo una parte). Il blocco di marcapiano serviva a segnare il livello su cui venivano poste le mezze figure funerarie al di sopra delle loro basi, come dimostrano, varie tombe cirenee.26 Altri blocchi (10, 11, 14, 16) (Fig. 11, 13, 14) e le colonnine (Fig. 8) assicurano la presenza di un secondo piano. Se l’esistenza del secondo piano è certa, meno certe sono le sue sembianze e, per facilitare la lettura della tomba, si è preferito qui restituire due elementi non provati dai resti. Innanzitutto, mancando capitelli di piccole dimensioni, le semicolonnine del secondo piano sono state ricostruite con piccoli capitelli ionici per analogia con la S388 che fino ad ora era l’unica tomba ad avere un secondo piano,27 ma anche piccoli capitelli corinzi potrebbero essere accettabili. Le semicolonnine sono state disposte in relazione alle colonne del primo livello, come in una stoa. Di solito nelle stoai, però, il ritmo delle colonne del secondo livello è posto in relazione a quello delle colonne del primo livello. Ciò viene giustificato dalle dimensioni più o meno simili delle due file che si differenziano solo per le proporzioni più o meno slanciate a seconda dei diversi ordini (Dorico sotto e Ionico sopra).28 Nella S4 ciò non è stato possibile. Le semicolonnine sono molto più piccole delle colonne del primo livello, perciò si è preferito un ritmo alternato con semicolonnine anche negli intercolumni delle colonne maggiori. In ogni caso, però, le semicolonnine potrebbero aver avuto un ritmo indipendente dal quello delle colonne del primo livello come accade in numerosi edifici Ellenistici29 in cui le colonnine, pilastrini (o semicolonnine e semipilastrini) del secondo livello sono sensibilmente più piccoli delle colonne del primo. Esempi ne sono la Grande Tomba di Lefkadia, 30 una casa a Pella,31 la porta di Zeus ed Era a Taso,32 il Palazzo di Ircano di Iraq El Amir33 e la fase originale tardo-

25

Tenendo anche conto, per onestà intellettuale, del grado di speculazione o arbitrarietà che è sempre insito nell’uso delle misure antiche che lo studioso moderno fa, spesso proiettando suoi modelli nella realtà archeologica. 26 Alcuni esempi in Stucchi, Architettura, fig. 123, 128; Frigerio, “un esempio”. 27 Frigerio, “un esempio”. 28 Coulton J.J., The architectural development of the Greek Stoa, 1976, fig. 28 (Stoa di Attalo ad Atene). 29 Wilson Jones, Principles, p.116. 30 Petsas P., O Taphos ton Leukadion, Athens 1966. 31 Lauter H, L’architettura dell’Ellenismo, Milano 1999 (Traduzione italiana dal tedesco), fig. 44a. 32 Lauter H, L’architettura, fig.76. 33 Will E, Larchè F., Iraq Al Amir. Le chateau du Tobiade Hyrcan, Paris, 1991.

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ellenistica (corte a peristilio) del Palazzo delle Colonne di Tolemaide.34 Questi due ultimi confronti, in particolare, possono essere particolarmente vicini alla S4 per una probabile, comune, dipendenza da modelli architettonici tolemaici. Ponendo nella S4 una semicolonnina per colonna ed un’altra per intercolumnio si ottiene un secondo livello formato da 15 elementi racchiusi da due piccole ante cirenaiche, come testimonia il blocco 2 (Fig. 8). In questo modo, però, avanzano degli spazi sui lati del secondo livello. Il blocco 11 (Fig. 11) giustifica questa situazione. Esso ha una modanatura su entrambi i lati, deve quindi essere posto su un’ala affinché entrambi i lati siano visibili. Le ali del primo livello sono troppo grandi per avere questo blocco, perciò si ipotizza di porlo su delle ali del secondo livello, al di sopra delle semicolonnine (Fig. 18 e 19). Poiché la piccola anta cirenaica (Blocco 2) (Fig. 8) sembra essere una ripresa dell’anta cirenaica del primo livello, ritengo possibile che anche qui le piccole ali siano ornate da testate col motivo del doppio semipilastro. Dopo i capitelli ionici questi semipilastri sono il secondo elemento totalmente ipotizzato ai fini della lettura della facciata. I blocchi 10, 11 e 14 ( Fig. 11, 13) sono qui posti al di sopra delle colonnine. Il tutto è coronato dal blocco 16, malamente conservato ma in cui è abbastanza chiara la presenza di modiglioni (Fig. 14, 18, 19). A questo punto si può passare al commento di alcuni elementi. Rispetto al capitello dell’Agorà35 quello della S4 è più abraso ma in generale più completo, in particolare sono di interesse i singoli particolari (Fig. 7). L’elemento più prominente è un busto femminile dotato di polos. Sul lato destro appare una face o scettro. Poloi, torce e scettri sono tutti associabili a Demetra.36 Poloi appaiono anche in vari esemplari di divinità funerarie cirenaiche,37 le quali sono possibilmente identificabili con Demetra, Kore, Persefone e una dea genericamente chiamata “Thea”: in ogni caso una divinità connessa con il mondo funerario e cthonio cirenaico. Un’unione della divinità aprosopa con l’elemento della face\scettro è l’erma marmorea rinvenuta da Rowe nella tomba E160. Questa mostra, nella ricostruzione di Thorn, una divinità funeraria aprosopa munita di polos e di un’asticella simile a quella del capitello.38 L’importanza del culto di Demetra e Kore a Cirene (a partire dal famoso santuario) è ben nota39 ed il riscontro con le divinità funerarie non può che indirizzare l’accostamento della figura del capitello al mondo cthonio. Per di più la combinazione con la face o scettro appare anche altrove: ad esempio nei famosi rilievi di Lakraiteides e di Lysimachides nel Plutonium di Eleusis.40 In questi rilievi la dea, anche se chiaramente connessa col mondo cthonio, è ben identificata rispetto a Kore e viene indicata con il semplice appellativo “Thea” (una 34

Pesce, G., Il “Palazzo delle Colonne” in Tolemaide di Cirenaica. Roma, 1950; Lauter, H. “Ptolemais in Libyen. Ein Beutrag zur Baukunst Alexandrias”, JdI 86, 1971, pp. 149-78; McKenzie, J., The architecture of Petra, Oxford, 1990, pp.75-77. 35 Bacchielli, Stucchi, Agorà II,4, fig. 43-44. 36 Bacchielli, Stucchi, Agorà II,4, p.69. 37 Beschi, „Divinità“, numeri 1-7, 13, 15, 18, 129, 130. 38 Thorn, the Necropolis, II.9.4 . 39 Un esempio in Kane S., “Cultic implications of Sculture in the sanctuary of Demeter e Kore\Persephone at Cyrene” in Catani E., Marengo La Cirenaica in Età Antica, Pisa e Roma, pp. 289300. 40 Kerenyi, C., Eleusis. Archetypal image of mother and daughter, Princeton 1967 (traduzione inglese dal Tedesco), p.151-154; Smith, R.R.R., Hellenistic Sclupture, p.185, fig. 215.

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altra duplicazione di Persefone, così come Kore41). Da notare infine che questa parola era iscritta anche sul polos di una piccola divinità funeraria cirenea rinvenuta da Rowe nel sarcofago N81-KK.42 Questa ultima nota chiude il circolo di riferimenti ed offre, se non un esegesi diretta del viso sul capitello, almeno un chiaro segno di quanto forti fossero le valenze sacrali\funerarie che questo modello visuale doveva avere per il Cireneo che osservava la tomba. Nel capitello ci sono anche piccole Nikai. Esse sono abbastanza frequenti nel catalogo di capitelli figurati di von Mercklin43 ma la loro associazione nel capitello con il viso della Divinità Cthonia è significativo poiché le fonti attestano una legame tra Demetra e le Nikai.44 Inoltre statuette fittili di Nikai rinvenute in tombe scavate da Rowe suggeriscono un qualche legame tra queste ed il rituale della morte a Cirene.45 Passando alla stele si può notare come essa appartenga ad una classe forse tipica delle grandi tombe, come dimostrato da quella dei Mnesarchi che è anepigrafe e che forse portava scritte dipinte.46 Nella foto d’epoca della S4 è visibile un blocco lungo al centro del crollo: esso potrebbe forse essere la stele. (Fig. 1). Questa probabile posizione nel crollo, unita al confronto con esempi cirenaici quali la stele scolpita nella facciata della N17,47 suggerisce un’originale collocamento in alto, al centro della facciata. Se infatti la stele fosse stata sul piano dello stilobate sarebbe oggi ancora sigillata sotto il crollo. L’epigrafe indica tutti gli antenati di Klearchos,48 di cui due con lo stesso nome. Masson ha posto l’attenzione sui nomi più antichi: Aladeir (una forma alternativa di Alazeir) e, forse, Battos. Questi erano forse nomi prestigiosi e tipici della più antica aristocrazia cirenea, in quanto risuonavano storie e tradizioni come quelle accennate nel IV capitolo della trattazione Erodotea. La stele, così grande e posta in una posizione così ben visibile, era un chiaro messaggio ad indicare il prestigio e l`antichità di una famiglia che era cirenea da almeno otto generazioni.49 La foto d’epoca mostra, nella parte sinistra, una statua. Ne ho rinvenuto due esemplari (Fig. 20), difficile dire se uno di questi sia quello della foto spostato durante gli anni. Anche le statue hanno raffronti con la tomba dei Mnesarchi: infatti anche esse appartengono al tipo I di Beschi: un probabile standard per le grandi tombe ellenistiche. 41

Kerenyi, Eleusis, p.155. Reynolds J., Thorn J.C. Who was the mourning woman’ of Cyrene’s cemeteries? (in preparazione), pervenutomi grazie alla cortesia di J.C.Thorn; Beschi, “Divinità”, p. 220, n.13, fig. 63. Non fa riferimento all’epigrafe che probabilmente non venne riconosciuta da Beschi poiché troppo abrasa. Ringrazio inoltre la Prof. S.Walker per avermi informato che un articolo in merito dovrebbe uscire sui Libyan Studies del 2006. 43 Mercklin, E.V., Die Antiken Figural Kapitelle, Berlin 1962, nn. 108, 109, 112, 154, 392, 412, 416, 452. 44 Cic. Verr. ICV, 49, 110 “insistebat in manu Cereris grande simulacrum pulcherrime factum Victoriae”. Citato in Bacchielli, Stucchi, Agorà II,4, p.69. 45 Thorn, The Necropolis, catalogo tipologico n. 155. 46 Beschi, “Divinità”, pp.184-185 47 Beschi, “Divinità”, fig. 60; Stucchi, Architettura, fig.162. 48 ./($5&26./($5&:./($5&26./($5&:./($5&263$5(8%$73$5(8%$7$ ),/2;(1:7),/2;(126.$//,332.$//,3326$/(;,0$&2$/(;,0$&2$/$ ''(,52$'$''(,%7 49 Masson, O. « l’Iscription Genealogique de Cyrène » in Bullettin de Corrispondance Hèllenique XCVIII,1974, pp. 263-270, Fig. 1-2. 42

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Sono state rinvenute anche due basi iscritte50 che indicano nomi non presenti nella lista della stele. E’ difficile dire quale sia il rapporto di questi due con la famiglia di Klearchos, se essi fossero imparentati o se la tomba sia stata utilizzata da diversi gruppi tutti insieme. Lo stile epigrafico della stele e l’evidenza scultorea indirizzano ad una datazione della tomba al Tardo Ellenismo. Le modanature del gheison trovano nel catalogo della Shoe puntuali confronti con esemplari di II secolo a.C.,51 così come paralleli al di fuori di quel catalogo come le cornici doriche dalla banchina nuova del porto orientale di Alessandria.52 Uno sguardo più ampio alla contemporanea architettura ellenistica conferma la datazione al II secolo a.C. o, al massimo, al I secolo a.C. Stucchi ipotizzava una derivazione delle tombe a falsa facciata dalle scenae frontes.53 Questa interpretazione è abbastanza arbitraria poiché non ci sono prove concrete di diretti legami tra scene e tombe: entrambe le classi potrebbero derivare dallo stesso modello visuale, ovvero la stoa. Ciononostante, pur priva di prove concrete, l’ipotesi di Stucchi rimane assai suggestiva, soprattutto se si osserva la posizione delle statue non solo nella S4 ma anche in altre tombe come la S388.54 In Età Ellenistica la Nuova Commedia trasformò le scene dei teatri tramite i cosidetti logheia: piani sopraelevati dove gli attori protagonisti potevano essere meglio visti.55 Nella S4 si può notare che il tetto del primo piano agisca come una sorta di “logheion” dove le statue sono gli attori mentre la sequenza di semicolonnine alle loro spalle è lo sfondo sul quale si ambienta la scena. In ogni modo le tombe rupestri di Cirene presentavano le mezze figure funerarie su un piano sopraelevato già prima della S4, secondo una tendenza all’ostentazione che a Cirene è più antica dell’ellenismo.56 Di certo il secondo piano in facciata è un’evoluzione delle nicchie e degli schermi delle tombe più antiche ma, in ogni modo, è innegabile che la nuova soluzione sembri meglio rispondere alla mentalità teatrale che si è soliti legare a tanta dell’architettura ellenistica.57 Valenze di tradizione e innovazione si mischiano nella disposizione delle divinità funerarie nella S4. Simili attitudini “teatrali” sono riscontrabili nel cosidetto Archokrateion di Lindos, a Rodi, datato tra fine III ed inizio II secolo.58 Fraser ha dimostrato l’importanza degli altari nel mondo funerario rodio:59 un’importanza che si potrebbe definire parallela a quella delle mezze figure cirenee, infatti ad entrambe le categorie di oggetti era affidato il compito di portare il nome del defunto. E’ perciò significativo che nell’Archokrateion 50

Devono riferisi a divinità funerarie, difficile dire il loror rapporto con quelle trovate. La prima base recita: 0(*:, / (&(7,0:,. La seconda recita: $.(6:, / 1,.2'$0: 51 Shoe, L., Profiles of Greek Mouldings, Cambridge Massachusetts, 1936, pl.XLVII, n.1, 12. 52 Pensabene, P., Repertorio d’arte dell’Egitto Tolemaico, serie C, Roma, 1993, p.313, fig.214. 53 Stucchi, Architettura, pp.161-167. 54 Frigerio, “Un esempio”. 55 Lawrence A.W., Greek Architecture, (quinta edizione revisionata da R.A.Tomlinson), New Haven & London, 1996, p.208, Lauter H, L’architettura, pp.158-159. 56 Beschi, “Divinità”, fig.2, 7, 8. 57 Politt, J.J., Art in the Hellenistic Age, Cambridge, 1986, pp. 230-242. 58 Fedak, J., Monumental tombs of the Hellenistic Age: a study of selected tombs from the Pre-classical to the Early Imperial Era, Toronto, 1990, pp.83-85, fig. 106-107. 59 Fraser, P.M., Rhodian Funerary Monuments, Oxford 1977.

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ci siano due piani colonnati, il secondo dei quali ospita gli altari posti nelle stesse posizioni delle statue della S4. L’architettura di questa tomba rodia è però diversa dalla S4 non solo per le proporzioni ma anche per il colonnato dorico, terminato da semicolonne, non da ante cirenaiche. Elementi più vicini alla S4 possono essere riscontrati in tombe a due piani a Petra. Il “Deir”60 ha un secondo piano leggermente arretrato anche se non quanto nella S4 e nell’Archokrateion. Entrambi i livelli mostrano ante cirenaiche che in alto sono combinate con un fregio dorico come nel primo piano della S4. I capitelli sono quelli detti “nabatei”: probabilmente una forma (deliberatamente) non lavorata di capitello corinzio. Nonostante Petra sia lontana dalla S4 è di certo significativa la ricorrenza di certi elementi anche in facciate più modeste. Ad esempio il “triclinio del Leone” ha una combinazione di ante cirenaiche, fregio dorico ed addirittura capitelli corinzieggianti.61 Lo studio di J.McKenzie62 ha ben dimostrato quanto forti siano il legami dell’architettura “barocca” di Petra con quella alessandrina da cui essa deriverebbe. E’ di certo suggestivo pensare ad Alessandria come giustificazione della comunanza di elementi tra la tomba Cirenea S4 e Petra. La Giordania offre però anche un confronto migliore e molto più fermamente datato: esso è attribuibile al II secolo a.C.: è il palazzo di Ircano di Iraq El Amir.63 Il modulo della S4 del colonnato corinzio fiancheggiato da ante cirenaiche ricorre sia nel suo interno che quattro volte sulla facciata Sud e quattro nella facciata Nord. Qui, per di più, il colonnato centrale è combinato con un fregio dorico che, come nella S4, è articolato in un ritmo di due metope per intercolumnio. Ci sono anche basi attiche da cui spuntano foglie d’acanto64 che sono attestate nella colonna dell’Agorà di Cirene e non sono da escludere nella S4,65 così simile a quella colonna per il capitello. Il palazzo era la sede di un governatore tolemaico e potrebbe perciò riflettere le architetture della capitale, Alessandria. La ricerca di confronti per la S4 si può allargare all’Egitto Tolemaico dove questo tipo di architettura era abbastanza diffuso. Esempi di commistioni di capitelli corinzi e fregi dorici si trovano a Tuna El Gebel66 e Shatby.67 Non mancano combinazioni di capitelli corinzi ed ante cirenaiche come in un pezzo da Via Ibrahim I.68 La tomba Mustapha Pasha 3 69 mostra alcune somiglianze con la S4. Non solo la facciata è conchiusa ai lati da ante cirenaiche ma queste, articolandosi con due semipilastri d’angolo, si sviluppano in due proiezioni laterali, proprio come nella S4. La facciata di questa tomba alessandrina è inoltre rialzata e nell’ipotesi di Adriani imita una scenae frons.70 In ogni modo, anche se la facciata di questa tomba mostra indubbiamente una volontà di ostentazione e gusto teatrale, questa teatralità ha 60

McKenzie, The architecture, p.159-161. McKenzie, The architecture,pp.158-159. 62 McKenzie, The architecture, in particolare le conclusioni pp.119-125. 63 Will, Larchè, Iraq Al Amir, pl. 36, 37, 39. 64 Will, Larchè, Iraq Al Amir, pl.64. 65 Bacchielli, Stucchi, Agorà II,4, fig.41. 66 Pensabene, Repertorio, tav.125 n.2. 67 Pensabene, Repertorio, tav.118 n.1. 68 Pensabene, Repertorio, 126 fig. 104. 69 Venit, M.J., Monumental tombs of ancient Alexandria. The Theater of the dead, Cambridge, 2002, pp.61-65. 70 Adriani, A., Repertorio d'Arte dell'Egitto Greco-Romano I, Series C, Palermo, 1966, p.135. 61

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caratteristiche del tutto diverse rispetto a quelle della S4. Non solo la tomba alessandrina ha un solo piano ma la sua è una teatralità costruita su una scala minore e rivolta ad un pubblico più ristretto che nella S4. La facciata infatti è ben visibile soprattutto a coloro che accedevano al cortile profondamente infossato, al di sotto del livello di campagna. Per vedere bene questa facciata bisognava avvicinarsi al bordo del cortile o scendervi dentro e a quanti questo fosse effettivamente permesso non è dato saperlo. Lo spirito di ostentazione della S4 è ben più monumentale. Non solo la facciata ha dimensioni considerevoli ma essa si eleva ben al di sopra del piano di campagna, chiaramente visibile a tutti coloro che passavano per la strada. Giustamente si è enfatizzata la teatralità del rito della morte ad Alessandria,71 ma è chiaro che tra le tombe Alessandrine e la S4 ci sia una certa differenza di concezione per ciò che riguarda la teatralità e la visibilità. E’ probabile che molte tombe alessandrine avessero strutture esterne imponenti come a Marina El Alamein,72 ma è comunque chiaro che il mondo funerario Alessandrino focalizzasse una certa dose di complessità ornamentale negli interni, probabili sedi di riti privati complicati e teatrali.73 La famosa facciata “teatrale” della tomba Mustapha Pasha 3 è una facciata interna, non esterna. In età Greca a Cirene la monumentalità è di solito concentrata soprattutto sulla facciata esterna, probabile sfondo di rituali svolti nel cortile. Il fatto che a Cirene l’attenzione sia focalizzata sulle facciate esterne è anche giustificabile tramite una tradizione di tombe a facciata architettonica iniziata già con le tombe a portichetto di età Arcaica.74 In ogni modo anche a Petra, dove questa tradizione manca75 e dove i legami con Alessandria sono certi, le tombe hanno complesse facciate esterne più visibili di quella di Mustapha Pasha 3. Una spiegazione potrebbe essere che le tombe Petree facciano riferimento a sfere non-funerarie dell’architettura Alessandrina, come ad esempio l’architettura dei palazzi. C’è anche chi lega il riferimento palaziale non solo a Petra ma in generale ad altre tombe ellenistiche (come la grande facciata di Lefkadia) e alle scenae frontes dei teatri.76 Allusioni all’architettura palaziale tolemaica potrebbero forse essere ipotizzate anche per la S4, come forse provano le somiglianze con il palazzo di Iraq el Amir anche se, in generale, non c’è alcun dato che confermi un legame diretto. Non si può andare oltre: l’influsso alessandrino nella S4 rimane per ora solo un’ipotesi, anche se un’ipotesi molto verosimile. Ciononostante è suggestivo vedere in Alessandria un centro che acquisisce idee di altre poleis greche (come le ante cirenaiche), le rielabora tutte insieme per poi creare una nuova architettura che è stata definita “barocca” la quale poi rifluisce (anche marginalmente) nelle città più antiche come Cirene. L’elemento più alessandrino che la S4 mostra sono i modiglioni del Blocco 16 (Fig.14) ma in generale la tomba non ha gli elementi più esagerati del Barocco 71

Lo studio più recente, completo e aggiornato è Venit, Monumental. Si vedano i vari articoli di Daszewski su Polish Archaeology in the Mediterraenan. 72 Venit, Monumental, fig.105. 73 In proposito si veda il mio intervento nel SOMA 2005, tenutosi a Chieti. In stampa con i BAR. 74 Thorn, the Necropolis, IV.1.1; Stucchi, Architettura, p. 38-41. 75 Le tombe petree che sono prive di caratteristiche classiche sono indatabili (McKenzie, the Architecture, p.53) anche se forse il confronto con le tombe di Medain Saleh (McKenzie, the Architecture, p.11-25) mostra forse come le facciate non classiche non siano troppo più antiche (se non contemporanee) di quelle con caratteristiche classiche. 76 Nielsen, I., Hellenistic palaces. Tradition and Renewal, Aarhus, 1999, pp.19-20.

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Alessandrino: probabilmente in Età Ellenistica l’antica tradizione locale disdegnava stravaganze quali frontoni curvi e trabeazioni spezzate. La S4 è però barocca e teatrale nello spirito. Se l’architettura barocca antica è segnata dalla fine della funzione tettonica a favore di una meramente decorativa,77 certamente nulla può apparire più “decorativo” di una facciata, larga 23.4 m, alta 14.5 m che non ha nulla alle spalle (Fig.18). Considerando tutto ciò si può tentare di decodificare i messaggi impliciti nella facciata della S4. Posizione, dimensioni e architettura mostrano il prestigio della famiglia. Enormi risorse furono spese per questa tomba. La possibile (ma non certa) allusione a forme palaziali tolemaiche potrebbe sottolineare una volontà di mostrare il rango dei proprietari. Le caratteristiche architettoniche indicano il probabile segno delle più recenti mode alessandrine, il “meglio” disponibile nel II sec. a.C. In ogni modo però la S4 non mostra solo innovazione ma anche un legame con la tradizione. Questo legame, forse inconsciamente, è testimoniato non solo da elementi tipici dell’architettura cirenea, come le ante, ma anche dalla persistente rappresentazione nelle statue e nei capitelli della Divinità Cthonia (forse Demetra) cara alla religione cirenea. Per di più la stele, con le sue dimensioni e la sua posizione, ostenta l’antichità del gruppo famigliare di Klearchos e la vicinanza della tomba alla città fa sospettare la monumentalizzazione di una tomba più antica. In ogni modo, la S4 con la sua monumentale facciata ben si adatta ad essere la tomba di illustri personaggi di un élite che, nel II secolo a.C., pur essendo legata a proprie antiche radici e tradizioni, risentiva degli influssi e dei modelli di vita tolemaici, fortemente espressi anche dalla presenza in città di eminenti figure quali Tolemeo VIII Evergete II o Tolemeo IX Sotere II.78 La S4 fu tra le ultime grandi facciate funerarie cirenee. In età Imperiale nelle poche tombe nuove c’è una tendenza ad ornare più l’interno che l’esterno. Anche se non sono sconosciuti esempi di esterni monumentali79 essi di certo non possono rivaleggiare, per numero ed elaborazione, con quelli di età Ellenistica. Questa fine delle grandi facciate non indica, automaticamente, una recessione economica, bensì un cambio di costumi interpretabile con i cicli di ostentazione/moderazione di Cannon.80 In altre parole: mentre in età Arcaica e Classica pochi potevano permettersi grandi tombe, nella Cirene Ellenistica la possibilità economica e l’ideologia funeraria adatta per costruire grandi tombe sembrano essersi diffuse tra più ampie fasce della società. Alle élites, per distinguersi, non rimase che costruire facciate sempre più grandi ed appariscenti finché la competizione non produsse una saturazione che comportò la fine della tendenza, probabilmente in età Imperiale. La S4 potrebbe essere stata costruita quando la tendenza all’ostentazione aveva raggiunto i suoi massimi, in età Tardo-Ellenistica, poco prima della presunta “saturazione”. L’ossessione “teatrale” di Klearchos a mostrare il suo prestigio ed i suoi antenati mi sembra significativa in questo senso. 77

McKenzie, the architecture, pp.87-88; Lyttelton, M., Baroque architecture in Classical Antiquity, London, 1974, pp.9-16. 78 Paci G. “Profilo storico della Cirenaica in Età Greca e Romana”, p.23 in Bonacasa N., Ensoli S., ed., Cirene, Milano 2000, pp.19-29. 79 Esempi presentati in questa conferenza sono le tombe A e C di Ain Hofra. Si veda anche Santucci A. “La tomba del capitello a calice nella Necropoli Nord di Cirene” in LibAnt N.S. II 1996 (1997), pp. 31-35. 80 Cannon, A., “The historical dimension in mortuary expressions of status and sentiment” in Current Anthropology n.30, 189, pp.187-58; Morris, I., Death-ritual and social structure in Classical Antiquity, Cambridge, 1992, pp.147-148.

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Fig. 1 Foto d’epoca della tomba S4 (Ghislanzoni 1915).

Fig. 2

Mappa con posizionamenti di massima dei blocchi rilevati e delle strutture ancora in situ.

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Fig. 3 Angolo meridionale della Facciata: Ala Sud e crollo dell’anta cirenaica.

Fig. 4 Pianta dell’Ala Sud.

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Fig. 5 Prospetto dell’Ala Sud e dettaglio della base attica.

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Fig. 6

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Blocco 1 (Capitello Figurato)

Fig. 7

Fig. 8 Blocchi 2-7 (Semicolonnine, Rocchi di Colonne e Fregio).

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Fig. 9

Dettagli del Capitello.

Blocco 8 (Gheison)

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Fig. 10 Blocco 9 (Gheison d’angolo e cassettonatura).

Fig.11 Blocchi 10 -11 (cornici del secondo livello).

.

Fig.12 Blocchi 12 -13 (Blocchi di marcapiano).

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Fig. 13 Blocchi 14 (cornice del secondo livello) e 15 (blocco che sorregge una trave).

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Fig. 14 Blocco 16 (Cornice con modiglioni).

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Fig. 15 Ipotesi di ricostruzione, pianta.

Fig. 16 Ipotesi di pianta posizionata nel cortile.

Fig. 17

Prospetto delle strutture rimaste in situ all’interno del crollo (blocchi del crollo non disegnati).

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Fig.18

L. Cherstich

Ipotesi di Ricostruzione, Prospetto.

.

Fig. 19 Ipotesi di ricostruzione, Sezione, con indicazione dei blocchi riposizionati.

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Fig 20 Una delle Divinità Funeraie della S4 rinvenuta tra il crollo del materiale architettonico.

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9 Alcune tombe della Necropoli Occidentale di Cirene Emanuela Fabbricotti Alla ricerca dei due santuari rupestri segnalati rispettivamente da Ferri nel 19231 e da Chamoux trent’anni dopo2, ambedue con l’aspetto di tombe, santuari che finalmente sono stati individuati nel 2003, abbiamo ispezionato a fondo quella parte della Necropoli Occidentale inserita nella collina di Baggara (fig.1). E’ una zona fitta di tombe che dall’età arcaica3 vanno fino all’età ellenistica con l’uso in età romana anche avanzata, di strutture precedenti. Abbiamo così indagato tanti tipi di tombe che sono ora oggetto di tesi da parte di due laureandi (altre due sono già state discusse con successo), e sono stata colpita da un gruppo omogeneo, studiato parzialmente da Bacchielli 4nel 1976. Si tratta di tombe rupestri con facciata interna architettonica di stile dorico e fregio con metope e triglifi. La più importante e che comunque resta anomala nel gruppo, è la Tomba dell’Altalena. Mi sono sempre chiesta come mai i viaggiatori dell’800 (Pacho, Smith e Porcher, i fratelli Beechey e altri5) l’avessero tutti visitata e per fortuna disegnata e poi fosse caduta nell’oblio anche da parte dell’accurato Cassel6. Oggi la sua posizione è talmente impervia che solo la tenacia dei miei giovani collaboratori è riuscita a fuorviare, ma in passato vi era una strada, oggi interrotta, ma chiara, che portava nelle vicinanze e che, nel secolo scorso era ancora praticabile. Trovandosi molto in basso, vicino all’Aleg Stawuat (quasi sotto la W 122) e nascosta dall’alto dalla sporgenza della roccia, non fu ripresa dalla foto aerea che servì al Cassel a delineare la sua mappa della necropoli. Si tratta di una grotta scavata regolarmente che ha una facciata esterna con fregio dorico e una stanza interna che ha nella parete di fronte all’entrata una grande nicchia laterale quasi quadrata(figg.2-3). Sul lato destro vi è la famosa parete con le metope dipinte oggi al Louvre. Esiste un disegno di ricostruzione da parte di Beechey, alla tavola IX (fig.4), che forse è parzialmente fantastico, ma che insieme ai nostri disegni recenti, ne dà una nuova visione. Lo scasso provocato dal Vattier de Bourville per l‘asportazione delle metope fu gravissimo 1

Ferri S., Contributi di Cirene alla storia della religione greca, Roma 1923,p.11. Chamoux F., Cyrène sous la monarchie des Battiades, Paris 1953, p.272, nota 1. 3 Ghislanzoni E., NotArch I, 1915, p.227. 4 Bacchielli L., “Le pitture della Tomba dell’Altalena nel Museo del Louvre”, QuadLibia 8, 1976, pp.353383; idem, “Pittura funeraria antica in Cirenaica”, LibSt 24, 1993, pp.78-85, ristampato in Parole d’Oltremare, Urbino 2002, p.179ss. 5 Pacho J.R., Relation d’un voyage dans la Marmarique, la Cyrénaique..., Paris 1827; Smith R.M.-.Porcher E.A., History of the recent discoveries at Cyrene, London 1884; Beechey F.W. e H.W., Proceedings of the Expedition to explore the Northern coast of Africa, from Tripoli eastward in MDCCCXXI and MDCCCXXII, London 1828. 6 Cassel J., “The cemeteries at Cyrene”, PBSR XIII, 1955, pp. 2-43. 2

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e il danno irreparabile. La facciata interna con le metope del Louvre, è oggi completamente rovinata (fig.4b); resta solo la porta centrale fiancheggiata da due quarti di colonne scanalate angolari e il tratto inferiore della parete. Oltre la porta vi era un corridoio atto a contenere un loculo lungo circa m.2,50, cioè una sola sepoltura o forse due se messe una sopra l’altra. Il disegno a colori di Beechey dovrebbe essere una ricostruzione ideale della facciata. Vi erano, oltre le sei metope note, due mezze metope all’inizio e alla fine del fregio, in analogia con altre tombe con fregio dorico e come sembra di intravedere nelle recenti foto incluse nell’articolo di Bacchielli7. Le metope esterne non erano dipinte ed erano incluse in sette triglifi, di cui due ai lati. Nella nostra indagine abbiamo riscontrato che tombe con facciate interne con fregio dorico dipinto non costituiscono affatto una rarità, ma una moda abbastanza diffusa tra le famiglie di defunti abbienti che costruirono la loro ultima dimora nella stessa zona. Sulla strada antica della necropoli occidentale vi è infatti la tomba W 16, rimaneggiata ampiamente in età romana. E’ situata tra le tombe W 15 e W 17 con le quali condivide un ampio corridoio di accesso (fig.5). Ha un ingresso centrale con la luce della porta ingrandita in età romana, che dà accesso ad un vano ampio e rettangolare con una facciata dorica a due porte (di accesso ai loculi) nella parete di fondo (fig.6). Oggi le pareti laterali sono state sfondate e risultano comunicanti con le tombe adiacenti. Il fregio dorico consiste in sei metope e cinque triglifi posti esattamente alla metà dei pilastri e negli interassi. Sul pilastro centrale è addossata una semicolonna a nove scanalature e su quelli laterali due quarti di colonna a cinque scanalature. Sono angolari perché aderiscono ad un’anta liscia su base jonica. Sotto il capitello vi era un nastro con fiocco stilizzato e un piccolo riquadro su fondo blu, dipinto con un (piccolo) leone rivolto con il muso verso il centro (quello di sinistra non si vede). Il leone ha una criniera rossoarancione e il corpo violaceo (figg.7-8). Le metope erano dipinte, le figure rappresentate sono irriconoscibili non tanto per l’usura del tempo, quanto per una voluta rottura centrale probabilmente per l’inserimento di busti funerari in età romana. In una si vedono chiaramente le tracce di due figure che si guardano delle quali restano le gambe e i mantelli che sembrano avvolgerle (fig.9). Sono oggi grigiastre su fondo neutro. Vi è una cornice superiore ad ovuli divisi da listelli lisci e questi sembrano intervallati in blu e grigio all’interno con bordo bianco su fondo nero. I triglifi erano blu nelle parti interne e dello stesso colore erano le guttae. Le partizioni architettoniche della facciata sono sottolineate da colore. Le colonne ocra avevano le basi a tripla modanatura che erano, a partire dal basso, bianche, rosse, ocra, di nuovo rosse e grigie. Le porte tra le colonne erano decorate da bordi interni ocra (cm.2,5), bianchi (cm.4) e rossi (cm.2,4). I capitelli erano blu, i due collarini tra capitelli e colonne gialli quelli superiori e rossi gli inferiori. Le lesene laterali di color ocra avevano una fascetta rossa che formava un collarino al capitello squadrato colorato in blu. Un’altra fascetta rossa era posta sopra il capitello, la modanatura superiore era nera e la fascia terminale blu. 7

Bacchielli in Parole d’Oltremare cit. a nota 4, tav.XLVIII, fig. 2.

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Sopra ai capitelli l’abaco era chiaro, probabilmente ocra. L’architrave liscio e di colore chiaro ora è macchiato dal colore superiore dilavato. Tra l’architrave e il fregio vi era una fascia rossa. I triglifi e le guttae erano blu nelle parti interne. Il fregio dorico è chiuso da una fascia blu e da una modanatura nera o grigia scura. Al di sopra dei triglifi ci sono gocciolatoi in blu (cm.1,8 di spessore) alternati in rosso. Segue una fascia rossa (cm.2), una bianca o ocra (cm.7), una a dentelli alternati blu e neri (cm.1,5), una ocra (cm.2,5) ed infine una blu (cm.1). Le due aperture erano chiuse da lastre di pietra (resta la parte inferiore) e dietro vi erano due corridoi per due loculi. A metà si vede una cornice liscia che doveva contenere altre lastre di chiusura, perché evidentemente i loculi posteriori erano i primi ad essere usati e poi sigillati in attesa di nuove deposizioni. Le pareti laterali avevano uno zoccolo rosso alto cm.60 al quale si sovrapponeva una fascia ocra (cm.60), poi una linea rossa (cm.1) che divideva la parte inferiore da una fascia a fondo chiaro con sbavature di giallo e tracce di decorazione blu, forse resti di uno zig-zag o di linee ondulate in blu, ed infine un’altra linea terminale rossa (cm.1). Dopo la tomba W 17 e prima delle W 18 e 20 i tombaroli che imperversano violentemente e indisturbati nella necropoli Ovest e non solo, hanno parzialmente liberato e messo in luce una tomba non conosciuta dal Cassel, che abbiamo chiamato W 17bis. Se ne vede solo la parte superiore, il resto è interrato. La facciata (fig.10) è liscia con una porta spostata verso destra e una finta porta ai lati, socchiusa. All’angolo della facciata vi è una semicolonna addossata. All’interno la camera funeraria è ampia e quasi quadrata con una nicchia sulla parete destra. Nella parete di fronte a quella di accesso, c’è una facciata dorica con nove metope e due mezze finali e dieci triglifi, tre corridoi con loculi dei quali non si vede la fine, due pilastri centrali con semicolonne addossate e scanalate e due quarti di colonna angolari (fig.11). I triglifi corrispondono esattamente alle colonne sottostanti. Le metope sono dipinte, ma non si riconoscono particolari, anche perché, essendo la tomba quasi interrata, non c’è luce sufficiente. Da notare che alcune delle metope (esattamente le tre centrali) sono più profonde delle altre e non credo siano state rimaneggiate in età romana, come pensavamo in principio, perché sul fondo vi sono tracce di pittura (fig.12). Sottostante alla tomba W 18, vi è la W 20 con facciata esterna senza decorazioni, scavata verticalmente nella roccia e con due nicchiette a destra e una a sinistra della porta, la cui cornice superiore ha sull’angolo sinistro un’altra nicchia sagomata per l’inserzione di un busto funerario di età romana (fig.13). La porta ha cornice liscia e una piccola trabeazione superiore sporgente. La facciata, inserita in un cortile di cui si vedono appena le pareti laterali, è in comune con la tomba W 19 con una porta simile, ma più bassa che conduce ad un unico lungo corridoio per loculi senza camera funeraria. La W 20 ha una camera funeraria di forma rettangolare che prende luce, come le altre, solo dall’apertura della porta (fig.14; ha una facciata monumentale nella parete principale interna. Vi si aprono quattro porte con architravi e montanti lisci dipinti in rosso (gli architravi hanno in alto una linea dipinta in blu, si veda TAV.III), che conducono ad

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altrettanti lunghi corridoi con loculi scavati sotto il piano di calpestio. Il loculo del terzo corridoio è lungo m.8, gli altri tre m.5. I dettagli architettonici sono enfatizzati dal colore purtroppo molto spesso evanido, ma che insieme alla citata W 16 costituisce un’ottima esemplificazione. La facciata interna che riproduce quella del cortile di una casa, è inquadrata da due paraste laterali con un quarto di colonna angolare(figg.15-16 e TAV.III). Sulle paraste in alto vi è una decorazione a nastro come nelle tombe W 16 e 98, subito sotto vi è uno spazio rettangolare a fondo scuro sul quale era dipinto il leoncino come nella W 16 che s’intravvede sul lato destro. Gli spazi tra le quattro porte sono decorate con semicolonne addossate molto slanciate e con un capitello dorico con kymation nell’abaco dipinto in blu, come le scanalature, mentre i listelli sono rossi. Lo Stucchi8 descrive le semicolonne con base jonica, dettaglio che non abbiamo potuto verificare, perché la parte bassa è interrata. Sopra le porte vi è un lungo architrave liscio colorato di rosso e sormontato da un fregio dorico costituito da dodici metope intere e due finali dimezzate e da dodici triglifi (figg.1719 e TAV III e IV). In ogni interasse vi erano due triglifi; questi avevano le scanalature tagliate orizzontalmente. Anche in questo caso i triglifi cadono esattamente sulle colonne. Il piano dei triglifi è solcato da due scanalature e due sguinci che sono di colore blu; sotto, le regulae larghe quanto il triglifo sovrastano sei guttae cilindriche blu, mentre i triglifi sono rossi. Sopra vi è una fascia che sovrasta anche le metope, leggermente arretrate. Le metope quadrate hanno inoltre un listello di coronamento a foglie d’acqua ed ovoli (come nelle tombe W 16, W 97 e W 98) dipinte alternativamente in blu e bianco (come nella W 16 e nella W 98 mentre nella W 97 i colori sono rosso e bianco), che attutisce lo stacco dal geison a due livelli di uguale altezza, di cui quello superiore meno sporgente ha i mutuli distanziati come i triglifi. Al di sopra vi è una fascia liscia che termina con un listello bombato all’attacco con il soffitto ed è staccata dal resto della parete da una piccola rientranza decorata da bugne. La decorazione è molto accurata anche se i colori oggi si vedono appena (TAV.IV). Sia l’apparato decorativo, sia la forma della tomba la avvicinano molto a quella dell’Altalena e la datazione non può quindi scostarsi di molto dalla fine del III-inizi del II sec.a.C. La differenza fondamentale sta nella posizione della facciata architettonica interna che nella Tomba dell’Altalena è laterale rispetto all’entrata, mentre nel caso della W 20, della W 16 e della 17 bis, della 96, 97 e 98 è di fronte e nella maggior dimensione di quella qui esaminata che ha dodici metope e due mezze agli angoli. La tomba W 20 è stata disegnata dal Pacho9 nella pianta e nella sua facciata esterna insieme alla sovrastante W 18 (fig.20). Il Kassel ne indicava all’interno tracce di pittura che viene anche descritta dallo Stucchi, che la definisce con facciata interna a tre porte, mentre invece ne ha quattro. Nel rilevare la pianta abbiamo osservato che oltre alla pittura architettonica che sottolinea le modanature, ci sono tracce consistenti di colore nelle metope che dovevano, come nella analoga Tomba dell’Altalena, raccontare una storia o riferirsi alla vita del defunto o essere 8 9

Stucchi S. Architettura Cirenaica, Roma 1975, pp.155-156 Pacho cit. a nota 5, tavv.XLIII-XLIV.

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figure convenzionali. Qui le metope intere sono dodici e molto mal conservate (TAV.III e IV). Le abbiamo fotografate anche con pellicole a raggi infrarossi e abbiamo applicato filtri differenti per evidenziare anche le minime tracce delle raffigurazioni (TAV.IV e fig.18), ma non siamo riusciti a comprenderne le scene. Nella maggioranza dei casi vi sono figure singole, lo sfondo è neutro senza indicazione del paesaggio. Le figure non hanno linea di contorno, ma sono sostenute soltanto dal colore ed è questo il motivo oggi della loro difficile lettura. Le macchie espanse sono però evidenti. Una delle metope meno incomprensibile è la nona a partire da sinistra in cui si vede una figura femminile che avanza con il braccio teso che sorregge un oggetto non chiaro (fig.19). Le tombe W 16, 17bis e 20 sono nella stessa zona e formano un gruppo omogeneo con le stesse caratteristiche. Un altro gruppo (fig.21, TAV.V per la localizzazione) è costituito dalla Tomba dell’Altalena e dalle W 96, 97 e 98 bis (queste tre ultime adiacenti) e che si affacciano su Aleg Stauat (la prima di fronte alle altre). La W 96, la W 97 e la 98 oggi sono interrate e delle due prime non ne conosco la pianta esatta. Le facciate esterne sono crollate a valle e non ne rimane traccia, o forse scavandole si potrebbe vederne l’inizio. Abbiamo avuto il dubbio che, essendo molto rientranti rispetto al costone di roccia che le sovrasta, non vi fossero facciate esterne, ma i geologi che ci hanno accompagnato durante la passata campagna estiva, hanno confermato il crollo delle pareti, non dovuto necessariamente a motivi sismici, ma alla friabilità delle falde di roccia. La W 98 ha cinque aperture con lunghi corridoi per i loculi separate da semicolonne doriche(fig.22, TAV.V)10, sedici triglifi di colore blu, quindici metope intere e due metà finali. Sono di dimensioni ridotte; la larghezza delle metope è di cm.20, quella dei triglifi che coincidono con i pilastri di cm.15. La taenia (di colore rosso) ha guttae, regulae e sotto il geison vi sono mutuli privi di guttae come nelle tombe W16 e W20, particolare che si riscontra anche in una tomba alessandrina della necropoli di Mustapha Pascia11, mentre per i dettagli architettonici vi sono confronti con il portico 02 (ricostruito parzialmente nello 03) dell’Agorà datati rispettivamente al III e al II sec.a.C.12 I pilastri hanno semicolonne addossate con capitello quadrato e collarino, le costolature sono nove (TAV.V). Il quarto di colonna angolare ha cinque costolature e la parasta ha sotto il capitello il nastro con nodo centrale come nelle W 16 e W 20 (e anche in altre tombe senza fregio dorico interno), e sotto, un riquadro rettangolare con la figura del leoncino che guarda verso le aperture delle porte (TAV.V). Questo è l’esemplare più leggibile che abbiamo (fig.23). Le partiture architettoniche sono sottolineate da colore in alcuni casi abbastanza chiaro. Le metope erano dipinte, anche se le figure non si distinguono. Invece le cornici delle metope sono rosse e gli ovuli superiori sono alternativamente bianchi e rossi (ben evidente in TAV.V). Il basso bordo superiore è blu e della trabeazione superiore divisa a metà da un 10

Il disegno della pianta è opera del dr.I.Cherstich. Adriani A. Repertorio d’Arte dell’Egitto greco-romano, Palermo 1966, pp.135-137, tav.55, fig.196. Venit M.S. Monumental Tombs of ancient Alexandria, Cambridge 2002, p.44ss. fig.29. 12 Bacchielli L. L’Agorà di Cirene II,1. L’area settentrionale del lato Ovest d.ella Platea inferiore, Roma 1981, pp.111-138, figg.82, 84, 85 e 87; pp.141-155.. 11

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listello bombato resta molto poco, perché subito incombe la parete rocciosa e perché si è in gran parte sgretolata. Della W 97 non è stato possibile fare una foto di tutta la facciata con cinque loculi, perché coperta totalmente dagli alberi, da fogliame e da immondizia. Anche questa è interrata, ma si vedono nove metope e due mezze finali, delle stesse dimensioni ridotte della precedente, la parasta finale con il nastro a nodo centrale e i quarti di colonna angolari. Gli ovoli sopra le metope sono bianchi e blu. Non restano che pochissime tracce di colore. Il fatto importante è che alla fine della trabeazione vi è un’iscrizione chiaramente leggibile in greco: C:*(128$5,C7,2C/ $3 figg.25-26) con il sigma lunato.Il nome Aristis è ben noto a Cirene13 e anche Sogenes è attestato sia in città che a Teuchira14dal V/IV sec.a.C. al I/II d.C. Sembra quindi che negli ultimi loculi di destra nella tomba fosse sepolto un personaggio di 79 anni, ma probabilmente non tutta la tomba apparteneva alla sua famiglia. In caso contrario, l’indicazione epigrafica sarebbe in posizione centrale. La W 96 è adiacente ma ad un livello leggermente inferiore ed è totalmente interrata. Il fregio consiste in 9 metope e 10 triglifi. Non abbiamo foto perché totalmente coperta da una fitta vegetazione. Almeno tre delle sette tombe con fregio dorico e metope dipinte, hanno nelle paraste laterali la figura di un leoncino, identico in tutte. Sembra quasi la firma dell’artista o dell’atelier che le ha decorate. Le stesse hanno poi, sempre sulla parasta, e al di sopra del leoncino il nastro con nodo centrale. E’ quindi certo che le tombe siano contemporanee e si allineino alla cronologia della Tomba dell’Altalena. Così come quelle tombe che hanno sulla parasta laterale il nodo a fiocco e che non rientrano nel gruppo con fregio dorico interno (ad es. la W112 e la W116). La mancanza di disciplina architettonica che distingue questo gruppo nell’unire un fregio dorico a colonne joniche15 è certamente dovuto al desiderio di enfatizzare il decorativismo, qualità che è propria del tardo ellenismo, pur non allontanandosi tanto dalla tradizione classicheggiante ma inserendovi dettagli nuovi per il gusto di una maggiore ricchezza visiva. Dunque, la Tomba dell’Altalena non è più isolata: resta la più rappresentativa e forse la più particolare, perché, intanto ha fregio dorico anche esterno (fig.2) mentre le altre sembrano avere facciate più modeste, poi perché la parete decorata è laterale e non centrale ed infine perché sembra aver contenuto la sola deposizione della giovane defunta, o tutt’al più due, se fossero state sovrapposte. Le altre sono tombe familiari? Forse la W 16 sì, perché poteva contenere al massimo quattro deposizioni su due livelli. Le altre sono molto grandi, la 97 e la 98 hanno cinque corridoi (ne ignoriamo la lunghezza), la 20 quattro corridoi che potevano contenere almeno dieci deposizioni o venti se su due livelli. Potrebbero essere state tombe usate da gruppi di 13

Masson O., Les malheurs d’Aristis, Zeitschrift fuer Papyrologoie und Epigraphik 14, 1974, pp.179-183; idem,Onomastica Graeca Selecta, Paris 1990, pp.205-209. Devo questa indicazione al dr. G.d’Addazio che si è occupato per la sua tesi delle iscrizioni funerarie nelle necropoli di Cirene. 14 Frazer M. – Matthews E., A Lexicon of Greek Personal Names I, Oxford-New York 1987, p.417. 15 Anche la tomba S 201 unisce una trabeazione dorica a pilastri o colonne joniche.

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persone ad es. dello stesso mestiere o dello stesso g»nos o confraternite o qualcosa di simile. Questo non lo sapremo mai, ma l’iscrizione nella tomba 97 è laterale e sembrerebbe indicare la zona destra della tomba stessa, non è un’iscrizione familiare per tutta la tomba, se no sarebbe centrale. Inoltre mentre le metope dipinte della tomba dell’Altalena e della W 16 raccontano una storia forse connessa con la vita del defunto o della defunta nel caso dell’Altalena, quelle della W 20 e le ombre che si vedono nelle altre appartengono a figure singole, quindi probabilmente generiche. Le tombe quindi potrebbero essere plurime, non familiari, ma legate ad una categoria precisa di personaggi o di famiglie. Certo, le tombe qui prese in esame sono tutte a livello della strada, vicino a uadi Belgadir e prospicienti la strada antica che passa davanti alle W 16, 17 e 20 fino alla W 60, poi doveva esservi un piccolo raccordo e la strada continuava leggermente più in basso, per arrivare alla Tomba dell’Altalena, poi continuare intorno a Aleg Stauat e passare davanti alle W 96, 97 e 98. Sembra una strada costruita con cura, per la necropoli. Mi chiedo, ma questa è una domanda che non può avere risposta. Qual’era il criterio di scelta nel costruire le proprie tombe in una necropoli piuttosto che in un’altra? Certamente non un criterio cronologico come si riteneva un tempo, perché se è vero che la Nord ha l’infilata di tombe arcaiche lungo la strada per Apollonia, tombe contemporanee sono anche nelle altre necropoli. Si tratta di un problema economico oppure sociale o di moda o di comodo nel caso che le abitazioni o i possedimenti delle famiglie fossero nelle vicinanze. Perché ad es. queste tombe presentate oggi sono solo nella necropoli Ovest? Forse una semplice preferenza dei committenti o di parentela tra le famiglie, ma erano poi tutte familiari?

Fig. 1 Cirene, mappa edita dal Cassel con il particolare della necropoli Ovest e la sua localizzazione rispetto alla città.

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Fig. 2 Cirene, Necropoli Ovest. Tomba dell’Altalena. Foto della facciata esterna.

Fig. 3

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Cirene. Pianta e sezione della Tomba dell’Altalena (di L.Cherstich, D.Fossataro, S.Farag).

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Fig. 4 La facciata interna della Tomba dell’Altalena in un disegno del Beechey e a fianco come si presenta oggi dopo la rimozione del fregio dorico (prospetto di L.Cherstich, D.Fossataro, S.Farag).

Fig. 5 Cirene, Necropoli Ovest. Veduta esterna della Tomba W 16.

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Fig. 6 Cirene. Pianta della Tomba W16 e prospetto del fregio dorico interno (dis. di A.Santarelli e O.Menozzi).

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Fig. 7

Cirene, Necropoli Ovest, Tomba W 16. Veduta della facciata interna con fregio dorico.

Fig. 8

Cirene, Necropoli Ovest, Tomba W 16, particolare della parasta.

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Fig. 9 Cirene, Necropoli Ovest. Tomba W 16. Particolare delle metope centrali.

Fig. 10 Cirene, Necropoli Ovest. Tomba W 17 bis. Veduta della facciata.

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Fig. 11. Cirene, Necropoli Ovest. Pianta e schizzo ricostruttivo del prospetto della facciata interna della Tomba W 17 bis (dis. di E. Di Valerio).

Fig. 12 Cirene, Necropoli Ovest. Veduta della facciata interna della Tomba W 17 bis.

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Fig. 13 a e b Cirene, Necropoli Ovest. Veduta delle tombe W 18 e W 20 e prospetto ricostruttivo delle due aperture sulla Facciata esterna della Tomba W 20 (di E. Di Valerio).

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Fig. 14, 15 e 16. Cirene, Necropoli Ovest. Tomba W 20. Pianta (di E. Di Valerio), veduta dell’interno e del fregio dorico e particolare della semicolonna angolare.

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Fig. 17. Prospetto e ricostruzione della facciata interna della Tomba W 20 ( di A. Ruggiero e E. Di Valerio).

Fig. 18. Particolare delle metope contrastata con filtri. Per applicazioni di altri filtri si veda la tavola a colori.

Fig. 19. Particolare di una delle metope della facciata interna della W 20 durante la pulizia.

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Fig. 20. Disegno del Pacho del gruppo di tombe W 20 e W 18.

Fig. 21

Mappa del Cassel della Necropoli Ovest con localizzate le tombe con fregi dorici.

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Fig. 22 Cirene, Necropoli Ovest, area di Alek Stawat. Tomba W 98. Sopra: veduta e prospetto della facciata con fregio. A fianco: pianta della tomba. Sotto: particolare di parte della facciata (di I. e L. Cherstich).

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Fig 23 e 24 Tomba W 98. Particolari Delle decorazioni in foto e disegno (di I. e L. Cherstich).

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Fig. 25 e 26 Cirene, Necropoli Ovest, area di Alek Stawat. Tomba W 97. Veduta del fregio dorico (sopra) e particolare dell’iscrizione (sotto).

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10 New Light on a Greek City: Archaeology and History at Euesperides Andrew Wilson Euesperides was the most westerly Greek settlement in Cyrenaica; situated near the socalled Gardens of the Hesperides, towards the western extremity of the Jebel Akhdar, it was the first port that ships coasting along the southern shore of the Mediterranean would encounter after the dangerous crossing of the Syrtic Gulf, halfway between Punic Tripolitania and Ptolemaic Egypt. Today the site presents a sorry aspect among the suburbs of modern Benghazi whose development encroaches on the site from all sides. The oldest nucleus of the site, the hill of Sidi Abeid, is covered by a modern cemetery, now deconsecrated and partly cleared; the lower city to the south of this, where traces of the Classical and Hellenistic street grid are still visible on the surface, is strewn with modern rubbish. Despite its unattractive appearance, Euesperides is a site of capital importance for Classical archaeology, as it was abandoned around the middle of the third century B.C. and never reoccupied. The archaeological levels have not been destroyed or covered by later occupation, and there is thus the opportunity to investigate a city of the Archaic–Hellenistic periods without the obstacles presented by later overlying buildings. Identified in 1948, the site was partly excavated by the Ashmolean Museum, Oxford, in the 1950s, by Barri Jones in 1968-9, and by John Lloyd in the 1990s.1 The present project was started in 1999, directed by myself, Paul Bennett of Canterbury Archaeological Trust, and Ahmed Buzaian of Gar Yunis University, Benghazi and Omar Mukhtar University, al-Beida. We thank the Society for Libyan Studies and the Craven Committee of the University of Oxford who have financed the work, and the Department of Antiquities of Libya for their cooperation and support and the provision of accommodation, as well as the numerous Libyans and Europeans who have worked on the project, often in difficult conditions. Our project aims to investigate Greek urbanism in Cyrenaica, and in particular the economy of the city and the reasons for the abandonment of the site towards the middle of the third century B.C. Preliminary reports have appeared annually since 1999 in Libyan

1 Goodchild, R. G. ‘Euesperides – a devastated city site,’ Antiquity XXVI, 1952, pp. 208-12; Jones, G. D. B. ‘Beginnings and endings in Cyrenaican cities,’ in Cyrenaica in antiquity, edd. G. W. W. Barker, J. A. Lloyd and J. M. Reynolds, Oxford 1985, 27-41; Jones, G. D. B. ‘Excavations at Tocra and Euhesperides, Cyrenaica 1968-1969,’ LibStud XIV, 1983, 109-21; Vickers, M., Gill, D. W. J. and Economou, M. ‘Euesperides. The rescue of an excavation,’ LibStud XXV, 1994, 125-36; Buzaian, A. M. and Lloyd, J. A. ‘Early urbanism in Cyrenaica: new evidence from Euesperides (Benghazi),’ LibStud XXVII, 1996, 129-52; Lloyd, J. A. et al., ‘Excavations at Euesperides (Benghazi): an interim report on the 1998 season,’ LibStud XXIX, 1998, 145-68.

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Studies,2 and the final publication is planned as a Supplement to Libya Antiqua; here I wish only to explore how the excavations have revealed evidence to illuminate the circumstances of the city’s abandonment, and the trading economy of the early Hellenistic world. Cyrenaica and Euesperides in the mid-third century B.C. Before presenting the results of the excavation of the final phases of the site, it is necessary to sketch briefly the history of Cyrenaica in the early third century B.C. Magas, the governor of Cyrenaica from c. 300 B.C., revolted against Ptolemy II c. 282 B.C., but in c. 261 B.C. came to an agreement with Ptolemy under which Magas would be recognised as ruler in his lifetime but Cyrenaica would revert to the Egyptian crown after his death. The alliance was to be cemented by the marriage of Magas’ daughter Berenike to Ptolemy III. Magas died in either 258 or 250 B.C., depending on how one interprets the relevant passage of Eusebius (Chronica I.237.18ff.);3 but his widow Apama had other plans, and arranged for Berenike to marry the Seleucid Demetrios the Fair. This scheme fell apart when Demetrios began an affair with Apama, and Berenike, understandably upset, had Demetrios murdered. After a probable period of civil war, Berenike married Ptolemy III as planned; and Cyrenaica returned to Ptolemaic control.4 The date for the abandonment of Euesperides is given by coin assemblages, collected over the years by surface collection, and also by the various excavation programmes.5 These include numerous issues from 325 onwards, especially of Magas in Revolt (282-261 B.C.) and Magas Reconciled with Ptolemy; but no coinage after Magas (barring three much later coins which must be stray losses). Following the death of Magas an abundant issue showing Ptolemy Soter and Libya was minted, which is very common at other Cyrenaican sites. Its complete absence from Euesperides is strong evidence that the site was abandoned following the death of Magas; this is supported also by the absence of pottery of the second half of the third century B.C. We can therefore fix the abandonment of the site at c. 258 or 250 B.C., which gives a terminus ante quem for all stratified material at the site. Two theories have been proposed to explain the city’s abandonment: Bond and Swales, followed by Goodchild, thought that the lagoon which originally communicated 2

Wilson et al., A. I. ‘Urbanism and economy at Euesperides (Benghazi): a preliminary report on the 1999 season,’ LibStud XXX, 1999, 147-68; Bennett, P. et al., ‘Euesperides (Benghazi): Preliminary report on the Spring 2000 Season,’ LibStud XXXI, 2000, 121-43; Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides (Benghazi): Preliminary report on the Spring 2001 season,’ LibStud XXXII, 2001, 155-77; Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides (Benghazi): Preliminary report on the Spring 2002 season,’ LibStud XXXIII, 2002, 85-123; Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides (Benghazi): Preliminary report on the Spring 2003 season,’ LibStud XXXIV, 2003, 191-228; Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides (Benghazi): Preliminary report on the Spring 2004 season,’ LibStud XXXV, 2004, 149-90. 3 For arguments in support of 258 B.C., see Buttrey, T. V. ‘Coins and Coinage at Euesperides,’ LibStud XXV, 1994, 137-45; for a date of 250, see Laronde, A. Cyrène et la Libye hellénistique, Paris 1987, pp. 390-4 and 405-6. 4 Laronde, Cyrène, pp. 380-1. 5 Bond, R. C. and Swales, J. M. ‘Surface finds of coins from the city of Euesperides,’ LibyaAnt II, 1965, 91101; Buttrey, ‘Coins and Coinage’; Buttrey in Wilson et al. ‘Euesperides 2002’, p. 116.

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with the sea and which served as the city’s harbour, had already begun to silt up during the Hellenistic period, and this progressive silting caused a gradual abandonment in favour of a new site nearer the mouth of the lagoon, which took the name Berenike.6 However, Laronde has proposed the hypothesis that the move was a political act, imposed perhaps to punish the population of Euesperides for backing the wrong side in the struggles following the death of Magas.7 He cites in support of this argument an epigram of Callimachus, in which Menitas the Lyttian dedicates his bow and quiver to Sarapis, but says that the Alexandrians have his arrows; Laronde sees this as referring to a siege and capture of Euesperides by Berenike. These two hypotheses offer competing ways to interpret the archaeological data presented below; and the data may allow us to reject one hypothesis in favour of the other. The final phases in Area P Recent excavations on the mound of Sidi Abeid, in Trench P have revealed structures of the third century B.C. The final phase survives as a group of rooms with pebble mosaic floors which we have left in situ, but next to these, where the floors had either been destroyed or had been in beaten earth, we were able to investigate the underlying levels and reveal the penultimate occupation phase (Fig. 1). The remains exposed of this phase belong to parts of two adjoining houses sharing a party wall; both houses probably consisted of rooms grouped around a courtyard. The walls were originally in mud brick on a stone base, but had collapsed and many of the foundation stones had been subsequently recuperated, thus destroying evidence for the placing of doorways. One of the rooms of the penultimate phase is paved with a plain mosaic in white and grey pebbles; we interpret the room as an andron, or reception and dining room. Towards the north-east corner a circular depression in the mosaic, lined with terracotta sherds set in mortar, probably held a jar or amphora – shattered fragments of a Corinthian B amphora were found on the floor of this part of the room. Next to the depression, a fragmentary inscription (damaged by modern burials which had cut through the surface of the mosaic at this point) picked out in blue-black pebbles is to be restored as EUK[AIRIA] ERG[OIS] – ‘Good fortune in your affairs’ (Fig. 2). The orientation of the inscription, which is placed so as to be read from outside the room, indicates that this was a welcoming inscription set in the doorway. Next to this room, to the north, a large room with a beaten earth floor yielded an assemblage of artefacts, broken in situ on the floor when the building collapsed. They included fragments of a pithos (repaired in antiquity), a mortar and a casserole, and a concentration of 70 circular loomweights. The loomweights were all in unfired clay, and required careful excavation to distinguish them from the earth floor on which they lay and the mud brick collapse which covered them.8 They lay in a roughly linear spread, with a 6

Bond and Swales, ‘Surface finds’; Goodchild, R. G. Benghazi. The story of a city, 2nd edition, Benghazi 1962, p. 8. 7 Laronde, Cyrène, pp. 395-6. 8 The recovery of this assemblage owes much to the careful excavation skills of Kerry Harris.

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noticeable clustering at either end, and must indicate the emplacement of a loom. This, together an with Attic black-glaze bowl containing a red powder, possibly for make-up, suggest the interpretation of this room as a gynaikon, or women’s quarters. The ceramic assemblage consisted of complete or completely reconstructable vessels lying on the mosaic floor of the andron and the earthen floors of the other rooms, sealed by the mud brick collapse of the walls. This, and the other objects found in situ, such as the loomweights, implies that the collapse or destruction of this phase was a sudden and unforeseen event, and may well have been caused by an earthquake. The destruction is closely dated by coins of Magas Reconciled lying on the floor of the gynaikon and covered by the destruction layer (Fig. 3). We therefore have a very narrow dating bracket, between 261 B.C. (terminus post quem provided by the coins) and 258 or 250 at the latest (terminus ante quem, given by the abandonment of the city after the death of Magas). But reconstruction followed swiftly. A new building was constructed, with more elaborate mosaics, of which one was discovered by John Lloyd in 1998, with a wave-crest border.9 Next to this was an antechamber floored in plain small pebbles, giving onto another room which had had a mosaic floor which had been completely destroyed by modern graves and robber trenches (Fig. 4). Numerous fragments of this floor were found in the backfill of the graves and robber trenches. All these mosaics, of course, are also to be dated between 261 and 250 B.C. The mosaic published by Lloyd is in mixed technique, with pebbles and irregular tesserae – small whole pebbles for the border, split blue-black pebbles for the rectangular frame and the wave-crest, and irregular white limestone tesserae for the central panel. This decorative schema may serve as a model to assist with the reconstruction of the decoration of the mosaic which has been completely destroyed. Near the edges of the room with the destroyed mosaic were found some fragments of opus signinum, one of them in situ, which served as a cement border to the room. Some fragments have a curved moulding, and may derive from a low bench around the sides of the room. Next to the opus signinum moulding was a rectangular border, in split blue-black pebbles, and then a line of wave-crest motifs, thinner than in the other mosaic. This wavecrest border surrounded a white central panel, which also contained figured motifs – some are too badly fragmented to be recognisable, but seem not to be simple geometric designs. A pair of dolphins facing each other can be reconstructed with some confidence. The dolphins are done in split blue-black pebbles with an eye made of a red terracotta tessera (Fig. 5).10 The importance of these mosaics is that they are in mixed technique – whole pebbles, split pebbles and irregular tesserae all within the same floor – and they are well dated to the middle of the third century B.C. Examples of Hellenistic mixed technique mosaics known from elsewhere are generally not closely dated.11 Other mosaic floors are 9

Lloyd, J. A. et al., ‘Excavations’, pp. 150-7. The mosaics are being studied by William Wootton, who provides a fuller account of their decoration and technique in Wilson et al ‘Preliminary report 2003’, pp. 197-200 and Wilson et al. ‘Preliminary report 2004’, pp. 155-8. 11 Dunbabin, K. M. D., Mosaics of the Greek and Roman World, Cambridge 1999, pp. 18-22. 10

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known from Euesperides, discovered by Barri Jones,12 but they are in irregular tesserae, without pebbles and without decoration, except for a border of grey-black terracotta tesserae from vessels fired in a reducing atmosphere. The mixed technique mosaics stand halfway, chronologically and technically, between mosaics entirely in pebbles, and the tessellated mosaics of the second century B.C. The origin of tessellation is a matter for debate between those who would see it as an evolutionary development from Classical pebble mosaics towards a medium better suited to detailed representation, and those who would see it occurring under the influence of the Punic world, where white tesserae set into cement and opus sigininum floors were used a century or two before the appearance of the first irregular tesserae in the Greek world.13 Our mixed technique mosaics suggest that these two views are not necessarily mutually exclusive and might be reconciled to some extent; the Euesperides mosaics could be seen as a transitional phase in an evolution from pebbles to tessellation, with influence also from the Punic world (either directly, or via the intermediary of Sicily), as shown by the use of opus signinum for the border at the edge of the room. The circumstances of the abandonment of the site This final phase must also date c. 261-258/250 B.C., so the building with the mixed technique mosaic floors was built at most 11 years before the city’s abandonment, and perhaps much less. Evidence from other parts of the site also suggests that a rebuilding after the probable earthquake which destroyed the final phase was widespread across the city – coins of Magas Reconciled were found beneath the final phase of the Ashmolean excavations on the south side of the Sidi Abeid mound. It does not look like the population at this stage was expecting to leave, which rather argues against a gradual abandonment and drift to Berenike as the port silted up, and in favour of a sudden and unexpected transfer. Further evidence in favour of a sudden change of site imposed on the population of Euesperides comes from the infrastructure for the city’s water supply. Eight wells and one cistern have now been excavated by our excavations and by John Lloyd’s; one well had been re-excavated and filled again in modern times but the remainder of the wells contained sealed ancient assemblages of vessels broken in use; and then in each case a deliberately dumped fill on top. The usage deposits were all fairly homogeneous, and the datable material goes down to the mid third century B.C., suggesting that it belongs to the final phase of the city’s life. All the wells had been deliberately filled in, rather than simply abandoned and left to fill up with wind-blown sand, although the cistern was not deliberately filled. In one case (a well in Area Q Extension), an altar and a fragment of another altar had been thrown down a well. In another, in Area H (excavated as part of Lloyd’s project), one well with a usage deposit at the bottom of the first half or the middle of the third century B.C. was filled with a dumped fill containing fifth-century B.C. pottery, and thus clearly redeposited. It looks as if there was a deliberate and systematic attempt to destroy the city’s water supply in order to discourage the population, whom we believe 12 13

Jones, ‘Beginnings’, p. 32; Jones, ‘Excavations’, pp. 112-4. Dunbabin, Mosaics, pp. 18-22.

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were resettled at Berenike, from returning to Euesperides. The archaeological evidence thus points in favour of Laronde’s hypothesis of forced resettlement, and the choice of the new city’s name, Berenike, is of course significant in this political context. The economy of Euesperides If the abandonment of the site is an instance of archaeology being able to contribute to the political history of Cyrenaica – histoire évenementialle – the city’s economy is an area where archaeology provides a perspective of the longue durée. The numerous bronze coins – small change – discovered in our excavations and those of previous projects suggest that, following the introduction of bronze coinage into Cyrenaica c. 325 B.C., the economy rapidly became highly monetised; such low-value bronze was used for everyday transactions. The discovery of coins of Thibron (323-321 B.C.) in assemblages which also contained coins of Magas Reconciled shows that coins of the last quarter of the fourth century B.C. continued to circulate in Cyrenaica down to the middle of the third century. The excavations have also produced two fragments of clay moulds for coin blanks, one of which contained microscopic traces of silver and was probably for casting obols. Both finds were in contexts that had been disturbed in modern times, but they do confirm the existence of a mint at Euesperides. The coins, however, give little indication of the city’s trading relations, and to study the extent to which Euesperides was integrated into long-distance trading networks we initiated a programme of ceramic quantification and provenancing. The local geology of Cyrenaica is limestone with abundant microfossils; it lacks any volcanic elements, gold mica, or ferric inclusions, so any pottery with these inclusions must be imported. It is therefore relatively easy to distinguish between local wares and imports. The study of the pottery, whose preliminary results are presented here, is being conducted by Dr Eleni Zimi (finewares), Kristian Göransson (transport amphorae), and Keith Swift (coarse pottery).14 Most of the levels excavated since 1999 belong to the late fourth and third centuries B.C. The fine pottery includes Attic black figure pottery from the earlier levels, and Attic Red Figure vases, and some West Slope and Gnathia ware. But the bulk is Attic black glazed wares, either plain or stamped and rouletted. Taking all periods together, imports account for c. 90% of the total finewares, with 80% of the total being Attic. Local fineware production was of minor significance, accounting for less than 10% of the total finewares. Such a high proportion of imports suggests that imported pottery was so readily available – i.e. arriving in sufficient quantity – that the inferior local productions were not able to make much inroad into the local market for fine tableware. There has been, of course, long debate over the value of Greek painted pottery,15 but none of this has really 14

See also their preliminary reports on each excavation season, in the preliminary reports listed in n. 2. Boardman, J. ‘Trade in Greek Decorated Pottery’, OJA VII.1, 1988, pp. 27-33; Gill, D. ‘ “Trade in Greek decorated pottery”: some corrections’, OJA VII.3, 1988, pp. 369-70; Boardman, J. ‘The trade figures’, OJA VII.3, 1988, pp. 371-3; Gill, D. ‘Pots and Trade: spacefilllers or objets d’art’, JHS CXI, 1991, pp. 29-47; Gill, D. and Vickers, M. ‘They were expendable: Greek vases in the Etruscan tomb’, REA LXXXXVII, 1995, pp. 225-49; Gill, D. ‘A Greek price inscription from Euesperides, Cyrenaica’, LibStud XXIX, 1998, pp. 83-88. 15

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looked at the wider context of Greek trade, and trade in other pottery generally, to explain the long-distance movement of fine pottery. As one might expect, transport amphorae are present in quantity, and are imported from all over the Aegean – especially wine amphorae from Mende, Thasos, Samos, and Rhodes, and olive oil amphorae from Corinth (Corinthian A) – but there are also a significant quantity of Punic amphorae, from Tripolitania and Tunisia, and even the Straits of Gibraltar.16 Some of the Punic amphorae, especially the hole-mouthed jars, must have contained salted fish or possibly even salted meat; others seem to be forms for wine. Until now, Punic imports had been identified in the eastern Mediterranean only at Athens, Corinth, Olympia and Halicarnassus. This situation, however, may be the result of the relative neglect of amphora studies in the classical archaeology tradition, where attention has been paid to amphorae largely if their handles are stamped, and thus become of epigraphic interest. The most common class of transport amphorae in the fourth- and third-century B.C. levels at Euesperides is the so-called ‘Corinthian B’. As Whitbread has shown, this amphorae was produced at more than one site, certainly at Corcyra but not necessarily even at Corinth;17 the majority of our examples are certainly imported. The variety and nature of the imported Corinthian B fabrics may suggest other sources too, including perhaps Southern Italy or Sicily on the basis of similarities with Greco-Italic fabrics. But there is also evidence of local production of this form – one kiln waster is clearly a Corinthian B neck shape, and a complete Corinthian B neck in local fabric was found in 1996, externally treated with a saline slip or wash to create an appearance similar to the light yellow clay of the imported versions.18 The most surprising results, however, came from the study of the coarse pottery. Two main groups of locally-produced pottery are recognised: a reddish lime-rich fabric (Local Limestone Ware), which represents over 20% of the total coarse pottery; and a greysih, shell-rich fabric (Local Shell Ware), accounting for 13-17% of material from the contexts analysed. In both these groups the most common form is the chytra, of rounded form, with thumb impressions at base of handles, and finger-smoothed rims. However, some 35% of the coarsewares are imported, an astonishingly high figure for such cheap material.19 Corinthian pottery, in a yellowish fabric, accounts for some 10% of the coarsewares, mainly jugs, small bowls, louteria and particularly mortaria (Fig. 6). The mortars are mould-made, with a groove made by the string with which the mortarium was lifted out of its mould, and the use of moulds here seems to be an indication of mass production for an export market. There are also a large number of imports from volcanic regions, identifiable by their inclusions; most of these are as yet unprovenanced, except for a group from somewhere in the Cycladic arc, perhaps Aigina. 16

See Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides 2002’, pp. 108-13, and Göransson in Wilson, A. I. et al., ‘Euesperides 2004’, pp. 175-8. 17 Whitbread, I., Greek Transport Amphorae: a petrological and archaeological study, Athens 1995. 18 Göransson, in Wilson et al. ‘Euesperides 2003’, pp. 221-2. 19 For the coarsewares, see Swift in Wilson et al. ‘Euesperides 2003’, pp. 214-21; and in Wilson et al. ‘Euesperides 2004’, p. 175.

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The two largest groups of coarsewares are in Punic fabrics, one oxidised – reddish (Fig. 7) – and the other reduced during firing, to give a greyish surface effect (Fig. 8). They are certainly of North African origin, but they are not local to Cyrenaica; they exhibit similar fabrics and surface firing effects to those of known Punic amphorae, and the forms compare closely with some Punic fabrics known from sites in Tripolitania (notably Sabratha) and Fazzan. Together these two groups account for c. 15% of the total coarsewares at Euesperides. They include chytrai, lopadia, bowls and askoi. It is not yet clear whether the oxidised and reduced groups come from different regions of the Punic world; their fabric is very similar but the firing conditions differ. The shapes of the Punic tradition stand in strong contrast to the rounded, fingersmoothed local Greek forms; the knife-trimmed forms and angular junctions show that the Punic potters were making much greater use of tools than their Greek counterparts. They were also firing at much higher temperatures, and their products are technically of very high quality. Some of their techniques and tool use again suggests rapid production en masse, in part for an export market. If Euesperides received Punic material in such quantity, we might expect to recognise it too at other Greek sites, if the excavators analysed and published their Greek-period coarsewares, something which happens all too rarely in the classical archaeology of the Eastern Mediterranean. If Euesperides received so many imports, what products did it export in return? Silphium is an obvious one, attested on the coinage, and known to have been grown in the steppe to the south of the city. A locally made stamped amphora handle may depict a silphium plant. Salted fish is another possibility. But we now have good evidence also that the city was engaged in the production of purple dye on a considerable scale. Numerous large spreads of broken Murex shells, used to make purple dye, litter the lower city. Some of the spreads are redeposited, used as street surfacing (itself a testimony to the quantity of waste generated); but others are discrete and associated with indications of heating or burning. The excavation of one of these heaps, in Area R, revealed superimposed layers of ash and broken murex, over two phases of large open-air mud brick hearths, placed in the courtyard of what had been a courtyard house until its conversion for industrial purposes. Combining the archaeological evidence for hearth platforms, and ash and shell deposits, but no vats or tanks, with the ancient literary sources on purple dye production, we believe that the shellfish were crushed and heated in portable vessels on tripods or stands over fires in the courtyard; wool would have been dipped in the purple dyestuff when it was ready; and then the contents were dumped among the embers of the fire, periodically being removed to surface the streets. Quantification of a single deposit of crushed Murex by Estíbaliz Tébar Megias established the minimum number of individuals of Murex trunculus as 15,491 (by counting the apices of the shells); they weighed 87.165 kg. They had been deliberately crushed, perhaps individually; clearly not only the collection of these molluscs, but also their processing, was a labour-intensive task, reflected in the high price that purple fetched in antiquity. Of course, we cannot say for certain whether the city exported skeins of purple wool, or finished textiles with purple designs woven into them. There is abundant evidence for weaving, in the form of loomweights, spindle whorls and sword-beaters, across the site;

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and the size of spindlewhorls and the weights of the loomweights recovered from Area P suggest the production of particularly fine cloth. However, as much textile production in the Classical and Hellenistic periods was domestic, it is not certain that finished textiles were exported in quantity from Euesperides.20 This brief economic analysis may also help explain why the ancient historical accounts mentioning the city so frequently mention hostilities with the local Libyan tribes. The Nasamones, who inhabited the coastal plain and the steppe to the south and west of the city, were semi-nomadic pastoralists; and if the economy of the city was heavily reliant on the export of silphium and wool, there would doubtless have been competition for grazing territory between the Euesperitans and the local tribes.21 Conclusions Despite the unspectacular appearance of the site, the archaeology of Euesperides is of great importance, both for shedding light on the dark corners of Cyrenaican history, and also for illuminating the importance of long-distance trade in the early Hellenistic period. Hitherto unsuspected amounts of imported coarsewares have come to light, and if cooking pots, mortaria, water jugs and other plain wares were being imported in such quantities, they should represent only a small fraction of the total imports, much of which must have been in perishable goods, that must have arrived on the same ships. Contact between Cyrenaica and the Punic world, despite the intervening treacherous Gulf of Syrte, seems to have been much stronger than previously thought, and is reflected not only in the coarseware and transport amphora assemblages, but also in the influence on mosaic technique. The pottery analysis is of course still ongoing, and excavations are expected to continue until 2006. But already that the project is showing that a systematic analysis of the pottery assemblages from Greek sites can help fundamentally to alter our perceptions of the interconnectedness of early Hellenistic economies. It highlights the need for excavations of Greek sites to pay attention to pottery quantification and fabric analysis, especially of coarse pottery, in order to provide basic data to address still unsolved questions about the ancient economy.

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For Murex dye and textiles at Euesperides, see especially Wilson et al. ‘Euesperides 1999’, pp. 152-3, 166; Tébar in Wilson et al. ‘Euesperides 2004’, pp. 168-9 and 180-4. 21 Wilson et al. ‘Euesperides 1999’, pp. 166; cf. Thucydides VII.50, and Pausanias IV.26.2.

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Fig. 1 Area P, aerial view of the penultimate and final phases.The mosaics of the final phase are in the foreground and middle right. The 1 m scale lies in the middle of the gynaikon of the penultimate phase; the pebble-floored andron is behind it. To the right, these two rooms are divided from an adjacent property by a party wall, robbed out to its rubble foundations. Numerous twentieth-century graves cut through both phase. (Photo: A. Wilson)

Fig.2 Area P, pot pit and threshold inscription in the pebble mosaic of the andron of the penultimate phase. (Photo: A. Wilson).

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Fig. 3 Coins of Magas reconciled with Ptolemy II (261-258/250 B.C.), from the assemblage on the floor of the penultimate phase of Area P. The three coins were found corroded together. Top: obverse. Bottom: reverse. (Photo: V. Fell)

Fig. 4 Area P, overview of the mosaic floors of the final phase. The wave-crest mosaic lies behind the 1 m scale, and in front and to the lower right is the fine pebble floor of an anteroom. (Photo: A. Wilson).

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Fig. 5 Area P, dolphin motif from the destroyed mosaic floor of the final phase. The tail in fact probably should be upturned, and belongs to a second dolphin facing the other way. (Photo: W. Wootton).

Fig. 6 Mould-made Corinthian mortaria. (Photo: K. Swift)

Fig. 7 Punic coarseware forms with a reddish surface from firing in an oxidising atmosphere. The rims are angular and show signs of tool-trimming. (Photo: K. Swift).

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Fig. 8 Punic coarseware forms with a grey surface from reduced firing. Again, note the angular rims and signs of tool-trimming. (Photo: K. Swift).

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11 Excavations at Balagrae (al-Beida) 2001-2003 Ahmed Buzaian & Fuad Bentaher 

The principal results of three short seasons of excavations at Balagrae are here presented. A Roman installation for winemaking established over an ancient quarry on the eastern limit of the settlement was uncovered. Investigations and archaeological evidence confirmed that this complex came to an end due to the earthquake of A.D 365. A period of humble re-occupation on the site is recovered as well. Balagrae (on the western fringe of modern al-Beida1 well known locally as the Old Zawia and occasionally Dangrah) is located some 15 km2 west of Cyrene immediately north of the modern main road (Fig. 1), which more or less follows the same line as its ancient predecessor3. It is most likely to be established during the Hellenistic period. Topographically the site occupies an area of limestone bedrock on the upper plateau of Jebel Akhdar with the Wadi El-berd along its east side. In its vicinity there are number of perennial springs such as Ain Wadi Khargah in the north-west, Ain Wadi El-balanj in the south-west and Ain El-Boeida in the west. Pausanias was the first ancient writer, who refers to Balagrae in his narration on its temple of Aesculapius. Although Synesius (Epist. 104, 132) did not give an account related to the town itself, he twice mentioned to an armed militia (Balagritae) operating in the western vicinity of Cyrene. However, Balagrae was not identified as an urban site until the 19th century, when Hamilton witnessed massive foundations robbed out in the course of erecting the Senussi zawia between 1915-18 -that is to say during the Italian occupation of Libya- the site had been once more stripped of stone in order to build an immense colonial fortress. Consequently, Senesio Catani carried out an excavation, which clearly demonstrated the archaeological importance of the site. Further excavations were conducted in 1920 by Silvio Ferri. But none of these early fieldworks has been published. More methodical and extensive excavations were directed by the late R. G. Goodchild, who in 1956 discovered the southern half of a Roman theatre attached to the sanctuary of Aesculapius (The northern half is being robbed out in the operations of 1915-18). A coin hoard was found laid on the floor of a late building 1

This modern name is not earlier than 1843. It is derived from two words Al-zawia = religious centre and al-beida =the white. The latter is survived. For more details see. Ward P., “Place names of Cyrenaica” in Barr F.T.(ed),Geology and Archaeology of Northern Cyrenaica, Libya.Petroleum Exploration Society of Libya Tenth AnnualField Conference, 1968, pp.3-12. 2 The name of Balagrae, nowadays applied to a hill south of Omar al-Mokhtar University, where some scattered ruins are visible. This ancient name possibly of Macedonian origin and it was attested in various forms. See: Wright G.R.H., “Architectural details from the Asklepieion at Balagrae (Beida), LibSt 23, 1992, pp.45-72. 3 For further informations on the ancient roads and the immediate environs of Cyrene, see Laronde A., Cyrène et la Libye hellénistique, Paris 1987, pp.257-323; Jones G.D.B., “Pleasant Libyan Acres”, in La Cirenaica in età antica, Pisa-Roma 1998, pp.281-288.

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constructed in the ambulacrum of the theatre after its disuse. This later modification was destroyed in the earthquake of A.D. 365. By the end of 1960s, Mr. S. Husseini of the Department of Antiquities at Shahat carried out salvage excavations due to the projection of new road south of the archaeological area. This work, which brought to light buildings of domestic and industrial activities, have never been published too. These uncovered remains indicate that the settlement still extended further south. The current excavations are conducted as part of the training programme in excavation techniques for the students of the Department of Archaeology of Omar El-Mokhtar University at al-Beida. The chosen area lies about 100 m to the north-east of the sanctuary of Aesculapius, where part of an ancient wall of five courses was still visible prior to excavation. To the east of this wall, architectural elements lay scattered on the ground. The excavations were carried out in three areas designated B, Q and R. The main results of three seasons of excavations are set out below. Area B (fig. 2): Area B lies on the eastern limit of the settlement. At least two distinctive phases of occupations were witnessed. Phase I Phase I is represented by the foundation walls B13, B14, B15, B18 and the walls B5, B16 and B17 defining a possible passage. The two parallel walls (B5) and (B17) had been largely built by large re-used ashlars and few architectural elements. Although part of wall (B5) still stands in places up to five courses, the rest had been largely destroyed or robbed (fig.3). When their foundation courses were exposed, it was clear that they had been laid on prepared bedrock, and partly on re-cut ashlars. A probable kitchen which was built at the southern end of wall (B17) opposite wall (B16) also belong to this phase. The most important feature of the kitchen furniture was a sunken circular oven incorporated into its northern corner. The wall of the oven was preserved to 0.45 m height and exceeding 20 mm in thickness. It was made of quite hard clay. The upper diameter was c. 0.95 m with a lower diameter of c. 0.75 m. The oven rested on a make-up of flat stones. It is of special interest to note that the oven is of a dolium-like structure. It is conceivable that these features formed part of domestic building. It is apparent that this building was built after the destruction of a nearby earlier building of monumental character, as it reused elements of a complete or semi-complete colonnaded portico of Roman Doric style, whose blocks were employed in wall (B5) and were also found scattered along the eastern side of the phase I building (fig. 3). The architectural elements of the colonnaded portico are markedly similar to those of the sanctuary peristyle, which is dated by epigraphical evidence to the reign of Hadrian. The only notable exception is that there were no mutules in the underside of the projecting corona. The columns are provided with bases of widely flaring apophyge. Except for c. 0.16 m necking register of vestigial fluting the remaining lengths of the shafts were unfluted. The original height of the column including the capital seems

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likely to be c. 2.50 m. The column diminished from a lower diameter of 0.50 m to an upper diameter of 0.43 m. In addition to five Doric capitals most of the entablature remains were substantially intact, and at least five architrave frieze blocks and six cornice blocks were unearthed. The total height of the entablature is c. 0.96 m, the architrave frieze block is c. 0.65 m and the cornice is c. 0.31 m. The backs of the architrave frieze blocks contained the slots for roof beams. The heads of the glyphs were characterized by the rectilinear detailing of Roman Doric work. In addition, two Corinthian pilaster capitals and very neatly worked jambs were also recovered among the architectural remains of the colonnaded portico in the rubble of the collapsed east wall of Phase I. The reused elements of this portico evidently derived from an earlier building that was in use before the time of Phase I building. This might have been a public building. However, broad stylistic similarities to the Hadrianic peristyle of the sanctuary of Aesculapius may provide us with a fixed date to this early building. Two mid-fourth century coins of FEL TEMPO REPARATIO type (associated with the deposit B22 directly above floor level B37) are representing the final occupation of phase I, and thus providing terminus post quem of AD 350-361 for the destruction. Date and nature of the destruction, which threw down the eastern wall (no. B5) of the building and scattered its constituent blocks to the east, would accord well with the earthquake of AD 365. Phase II There was evidence of late occupation in the excavated area, with a pottery sequence extending to the seventh century AD. The late constructions are represented by (i) wall (B9), which displayed substantial thickness overlying the lower courses of wall (B17) of Phase I, and (ii) a curved wall (B8), which rested directly on the soil, with no foundation. The two walls were composed mainly of re-used masonry. Wall (B9) was made of two parallel lines of small rubble blocks semi-squared on the outer face, a technique encountered in many sites in Cyrenaica. The core of the wall was filled with a mixture of mud and small stones. This phase appears to represent a makeshift occupation after the earthquake. Area Q (figs. 2, 4 & 5): This area lay immediately to the west of area B. The excavations in this area, so far, revealed two main phases of constructions contemporary with those of area B. Phase I is represented by many features of special interest all of which were connected with light industrial activity, almost certainly, related to the production of wine a very shallow built-up tank (Q20) of 1.30 m by 1.15 m lined with brownish red impermeable mortar presumably used as treading floor. It is worth mentioning that the floor is slightly dropped westward. The treading floor is communicated with a channel (Q8) in the middle of its western side. On the other hand, the channel was connected with a lined rock-cut tank. All the above elements associated with the manufacturing of wine were enclosed by two sides by walls (B21 & Q31). In the middle of the latter wall

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there was a doorway providing access to the processing area. Sub-phase a In due course of time the processing area was largely modified and extended. The rock cut-tank was completely filled with rubble and soil, and the channel (Q8) was elongated further west to reach a length of 2.85 m (fig 5). The channel was about 0.15 m deep and c. 0.18 m wide. It was mainly built by fragments of roof tiles and lined internally with waterproof mortar. Two new channels (Q14 & Q38) were also added: one at the southwest corner of the treading floor, the other sprang from channel (Q8) and running southwards. Both new channels were linked to a newly constructed vat (Q24). This vat was circular in shape, being 2.10 m deep and 0.75 m in diameter from top. Most of the vat was cut into bed rock whereas its upper portion was built of squared stones. The inlet channels (Q14 & Q38) penetrating the vat through its northern wall (fig. 6). To the north of the vat there existed a funnel-like channel tapering towards the bottom (Q26) and connected to the vat as well. It was of an upper diameter of c. 0.25 m. The purpose of this funnel-like channel was not fully understood. However, it could had been served as a ventilation hole for some reason, or as a small channel through which the liquid flowed from jars into the vat. Another three circular vats were also constructed in the immediate neighbourhood. Two vats (Q5 & Q28) were entirely cut into the bedrock (Q12). The former was fully excavated and found to be c. 0.45 m deep and c. 0.91 in diameter and was lined internally with opus signinum. It has a shallow circular sediment trap at the bottom. Vat (Q17) has yet to be excavated but its method of construction seems to be similar to vat (Q24). The only datable material found in the fill of vat (Q24) was a nearly complete lamp (fig. 7) usually assigned to the middle years of the first century AD. However, this type of lamps occurred in the third century layers as in the case of Berenice and a few came from fourth, fifth, and seventh century, and Islamic contexts (Cf. Bailey 1985, p. 34 and C 191, PL. 10). So we do not know precisely when the complex came into disuse. The fills of vats (Q17 &Q28), which await future excavation, may provide a crucial date. In the south-west corner of the excavated area a substantial wall (Q9) composed of one course of large squared ashlars was unearthed. It was laid on prepared bedrock (Q12), which covered most of area Q in straight broken lines (see below). Opposite wall (Q9) to the east two built-up circular features (more probably the lower parts of large vessels) were uncovered (Q18 & Q21). The walls of (Q18) survived to a height of 0.07 m with a lower diameter of 0.43 m. Walls of (Q21) exceeded 0.15 m in height and 0.60 m in a lower diameter. Both were made of quite hard clay and rested directly on a packing made of mud mixed with small stones. Opposite wall (Q33) to the south was an indetermined stone roughly circular in shape (Q40) and fairly flat across the top. It was deliberately rested on a firm mixture of mud and small stones.

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Sub-phase b This sub-phase is marked by the blocking of the doorway in wall (Q31) and the erection of two parallel walls (Q32 & Q33). Both were made more or less of twin lines of small rubble blocks hardly-squared on the outer face. The small space left between the two walls gives the impression that they constituent part of a passage or corridor paved with a layer of mortar floor. A doorway, indicated by a squared block with a shallow hole, was inserted in wall (Q33) leading southwards to a probable courtyard. Phase II The only remains that can be attributed with any degree of certainty to this phase is wall (Q3), which is very similar in its method of construction to wall (9) in area B. It seems that all the remains of the late occupation were considerably suffered due to the fact that architecture of the makeshift constructions associated with late occupation is very humble and in most cases rest directly on the soil. The site was frequently used for seasonal cultivation and such structures can be easily removed. Ploughing marks were identified on the surface of many blocks which are close to the surface. Area R (fig. 8): This area lay about 25 m west of area Q so that a cross-section from area B well to the sanctuary of Aesculapius at the west can be obtained in order to gain more knowledge concerning the topography and the urban development of Balagrae. The most prominent features, so far, uncovered in this area were a handsome wall (R3) extending N-S across the excavated area and a curved wall (R4). Wall (R3) was built of a neat and solid ashlar masonry varied somewhat in size but by and large equal in each course. Only three courses of the wall survived with a total height of 0.80 m. A trial stratigraphical trench, against wall (R3) to the north was dug down to the bedrock and interesting results were obtained. The sounding revealed, first of all, that the wall stands directly on what appeared to be an ancient quarry. It must be noted that there are abundant traces of quarrying in area Q (fig. 9) and R. Secondly, deposit (R10) produced many fragments of late Hellenistic pottery and a well stratified coin dated to the early Roman period. Hence, the coin provided terminus post quem for the construction of wall (R3). Near its southern extension wall (R3) is clearly twisted and caved in more probably as a result of the earthquake of A.D. 365 (fig. 10). Excavation in deposit (R9) of the trial trench mentioned above yielded an unusual fragment of cylindrical object (fig. 11). It was made of fairly hard yellowish cream clay with slightly granular in texture and a large amount of golden mica. Letters were stamped on its surface and very badly worn. The curved wall (R4) was discovered in the south-west corner of the excavated area. It was built of two parallel lines of squared stones and surviving to a maximum height of 0.85 m (fig. 12). It seems to represent part of an apsed building or a rounded structure. Further work, however, will be required before this interpretation can be confirmed. The final occupation in this area is represented by a large room. Its southern (R14), eastern (R15), and western wall (R13) were partly uncovered while the northern one still beyond the limit of the excavated area. The western wall is overlapping wall (R3). These walls are typical to those of late occupation. It is evident that the room was provided with plaster rendering of which traces are clearly discernible in its south-east

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corner. The room is completely covered with débris. Few architectural elements were found within the débris. The most of these elements were a Corinthian capital and fragment of cornice block. It seems most likely that they belong to an early building. As the excavations are at early stage, it is immature to make conclusive results. It was possible, however, from very few significant coins and potsherds, to provide certain spot dates. According to the legible coins, it is most probable that the earlier levels of the excavated areas appear to belong to the end of the first century BC. None of the twelve coins retrieved during the course of excavations pre-dated the Ptolemaic period. On the bases of the African Red Slip ware, the latest occupation appears to belong to the seventh century AD. It is hoped that the ongoing excavations on the site will produce further contributions to the rudimentary knowledge available on Balagrae. Acknowledgements The excavations were organized and funded by Omar al-Mokhtar University. al-Beida, and were only made possible by the understanding and the full support of Dr Abdullah Zaid and his assistant Dr Ali Batoha. Special thanks must be extended to Mr. Abdulgader al-Muzeini, the Controller of Antiquities at Shahat and his staff, particularly Said Faraj, responsible for technical affairs, and Ahmed Rabeh, curator of al-Beida museum. We are greatly indebted to Dr Azza Boghandorah the Dean of the Faculty of Arts, and all the staff members of the Department of Archaeology at Omar al—Mokhtar University. namely Mr. Mastor Hammad, Mr. Moftah al-Shalmani and Mr. Monshid Motliqu, who acted as the consecutive heads of the Department during the seasons of excavations. We are most grateful for the continuing presence and immeasurable help of Fathallah Khalifa, Mohamed al-Twati, Waneesa Abdulkreem, Mohamed Moftah, Ahmed Hosein, Faraj Abdulkreem, Ahmed Saad, Saleh al- Akab and Yusef Ben-naser. We extend our thanks to Ahdessalam al-Kawash of Derna branch, Department of Antiquities who very faithfully participated in the fieldwork. We would like to take this opportunity to express our deep gratitude to Mr. Moammar Ghoma. A particular debt of gratitude is owed to Dr Faraj Elrashedy, Dr. Maria Angela Gatti, Dr Ehweidi Elreeshi and Kassim Burhan. We are also very grateful to the British team working at the site of Euesperides for their visit to the excavations in 2002. Special thanks particularly are due to Paul Bennett and Andrew Wilson for their valuable discussion.

Fig. 1. Location map showing Balagrae in relation to other Cyrenaican sites.

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Fig. 2: General plan of areas B and Q.

Fig. 3. Five courses of wall (B5). Note two architrave frieze blocks standing on the wall as re-used blocks. Looking south-west, scale 1 m.

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Fig. 5. The processing area and the later modifications. Looking south, scale 1 m.

Fig. 6. The interior of vat (Q24) with two holes. Looking north, scale 1m.

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Fig. 7. Roman lamp from vat (Q24).

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Fig. 8: The plan of area R.

Fig. 9. Area Q. Showing traces of ancient quarry. Looking south, scale 1m.

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Fig. 10. Wall (R3) showing the destruction. Looking east, scale 0.50 m.

Fig. 11. Stamped object.

Fig. 12. Part of the curved wall (R4). Looking west, scale 0.50 m.

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12 Excavations of Garyounis University at Tocra 1997-2002 Fuad Bentaher & Ahmed Buzaian This paper presents the main results of five seasons of excavations concentrated on a building of an early Roman origin at Tocra. Structural analyses, coins and spot-dating of pot sherds revealed that the building enjoyed at least four main phases of occupation. However, it was possible to recover the complete plan of only one of these phases (the Byzantine). It is evident that the life of the building continued well beyond the Islamic conquest. The excavations of Garyounis Unversity at Tocra between 1997–2002 uncovered the remains of a Roman building. It lay just to the northwest of the late seven dwellings previously discovered by the University approximately in the middle of the walled city1 . This building was illustrated on G. D. B. Jones’ general plan of Tocra (marked by no. 17, figs. 6 and 8) after the survey which was conducted in 1969, however, neither the dimension nor the position of the building was accurately plotted2. It is evident that the building was built over the ruins of a Hellenistic structure. On the basis of pottery evidence the Roman building was constructed sometimes between the late first cenyury BC / early first century AD. Coin and pottery also suggest that the building was abondoned during the 4th century. But thereafter it was subsatintialy re-occupied and remained in constant use well beyond the Islamic conquest of Cyrenaica. In its final form, the building consisted of fifteen rooms, three open yards, two wells and two cess-pits (fig. 1). The Hellenistic period Considerable evidence of Hellenistic occupation was encountered in most of the soundings made within and along the outer walls of the Roman building. Best evidence was obtained from soundings RC, RB2, RB3 and RB4. The latter, for example (fig. 2), which was conducted along the northern wall of room I, revealed that this wall was built over a Hellenistic one. The material associated with the foundation level are Hellenistic coins and 1

The excavations of the University of Garyounis are part of a training program arranged by the Department of Archaeology for undergraduate students. The seasons between 1985 and 1992 uncovered the remains of seven modest buildings dated to the late antiquity of Cyrenaica and produced a vast quantity of stratified material. See: Bentaher, F. 1994. “General account of recent discovery at Tocra”, in (ed. J. Reynolds), Cyrenaican Archaeology, an International Colloquium. Libyan Studies vol. 25: 231-44; ___, 1997, Recherche Sur Les Monuments et L’urbanisme de Taucheira-Tokra-en Libye. « Unpublished Ph. D. Thesis », University de Paris IV Sorbonne: 198-273; Buzaian, A. 2000, Excavations at Tocra (1985-1992). Libyan Studies vol. 31: 59-102 . 2 Jones G.D.B. (1983). “Excavations at Tocra and Euhesperides,Cyrenaica 1968-1969”, Libyan Studies 14: 109- 121.

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nearly two complete distinctive Hellenistic bowls (contexts 266 & 267)3. Nonetheless, the information gathered from all the soundings did not reveal the plan or the character or the function of the Hellenistic structure. The Roman building (fig. 3) The surviving remains of the original Roman building composing of five rooms grouped round a central courtyard. It is more likely that a fourth range of rooms on the north side existed but everything of the early building on this side had been completely vanished and therefore the northern limit of the building could not be well defined. Meanwhile, the doorways on the northern wall of the rooms I and IV clearly indicate that the original building still extending further north. The building was bounded by one of the E-W streets on the south. The eastern wall suggests that the building represents the eastern limit of an insula. On the west side further structures could exist but it is almost certain that the main cardo of the city runs along the western limit of this insula4. The only surviving entrance to the original building was on the south, off the street. Its considerable width (1.75 m) suggest that it could have been the main access to the building. The surviving walls of the Roman building demonstrated that the socle walls were constructed of maximum three courses of large sandstone blocks, whose size varied considerably. The average dimensions of the south wall blocks were 1.20 m long X 0.60 m high X 0.40 m wide and 1.30 long X 0.70 m high X 0.45 m wide on the eastern wall. Both walls were preserved to a height of 1.90 m. A few re-used sandstone blocks had been incorporated in the constructions of the socle wall. The foundations were made of heavy limestone blocks up to the leveling course Euthynteria, which was built of sandstone blocks 10 to 15 cm wider than the socle wall. It is evident from the demolition level of room IV and part of room V that the upper courses were built of mud brick, some pieces of which were found still bearing white to yellowish wall plaster. No roofing tiles were found in the demolition level suggesting that the roof was flat. Of the five rooms related to the Roman building, room V was of sizeable dimension (13.50 m X 4.40 m), and it is better described as a hall. An interesting feature to be noted in relation to the hall is the outward projection of the second course in part of the eastern wall. The same feature occurred also in the eastern wall of the so-called villa site at the vicinity of the excavated area. It seems that this phenomenon served a structural requirement related to the Byzantine period, namely to support a vaulted ceiling (see below). Room II (3.80 m X 2.25 m) was of narrow, passage-like proportion and may have acted as a passage connecting room I with the courtyard. Room IV (8 m X 4 m) seems to have been the major room. The thick demolition level (c. 0.75 m) above its concrete pavement indicates that it was elaborately decorated with polychrome wall plaster. Moreover, the only traces of architectural pretension, which survived of the building were door jambs and a very 3

Riley, J. 1983. The Coarse pottery from Berenice, Excavations at Sidi Khrebish-Benghazi (Berenice), Supplements to Libya Antiqua-V, Vol. II, (ed. J.A. Lloyd), Tripoli: (pp. 283-84, fig.110, no. 610) 4 Bentaher, F. (2001). “Site d’un arc a Tocra et l’aménagement urbain de la ville”. Libyan Studies 32: 95-106

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neat cornice block ornamented with lion head water spout (see below). It is worth mentioning that the only piece of sculpture discovered during the course of excavations, which could have been belonging to the Roman building, is a statue of a fine-grained white marble representing Drunken Dionysos in leaning position accompanied with a panther (fig.4). This type of sculptural scene is usually dated to the Antonine period. Other similar pieces were found elsewhere in Cyrenaica5. Post-demolition occupation (Fig. 5) Following the demolition, possibly, caused by the earthquake of A.D. 365 a period of late occupation took place, in which the building witnessed very substantial modifications and additions. The material associated with this period dated from fifth to beyond the seventh century A.D. The former street entrance was blocked-up. Rooms I, II, III and IV remained in use with their original dimensions. However, the doorways on the northern walls of rooms I and IV were also blocked-up. The floor level of the original courtyard was raised up and provided with flagged stone pavement. In addition, the doorway on the eastern wall of room II was also raised up to be in level with the newly paved courtyard floor (fig. 6). Whereas Room V was subdivided into three rooms (V, VI and VII). The building was expanded by the addition of five new rooms: one room (VIII) sited on the east side and the other four rooms on the north side (IX, X, XI and XII). Sounding RE revealed that the foundations and the walls of the expanded constructions were completely different from those of the Roman period (fig.7). The walls of the additional rooms and other structures were made of two lines of stones, roughly squared on the outer faces, and packed with a mud and rubble core. A standard width of approximately 0.50 m to 0.60 m was observed. This method of construction formed the general basis of building material and technique of fifth and sixth centuries A.D. as it is witnessed in Tocra and elsewhere in Cyrenaica. A well, two new open yards, and two cess-pits were added. One of the cess-pits was created in room X, and the other one was inserted in the western open yard. A well preserved circular oven, c.0.65 m in diameter (257), and made of baked clay, was inserted in the north-west corner of the eastern open yard. Moreover, two stair cases were constructed along the western walls of rooms VI and VIII. This is a positive evidence that, at least, this part of the building was of more than a single storey. It must be also noted that a large quantity of voussoir blocks were recovered within the debris of these rooms as well as room X. Furthermore, walls related to these rooms (50, 81, 83, 154, 155, and 162) were deliberately thickened in order to support the vaulted ceiling. Room XII is noted for a well-constructed furnace (179) built against its eastern wall. The walls of the furnace were composed of superimposed courses of baked brick, of which 5

The most recent piece, though with Dionysos, panther and a Satyr, was uncovered in Benghazi during the course of construction works at Omar al-Mokhtar street (personal communication with Yusef Ben-naser). Similar

examples were found at Cyrene. See: Paribeni, E. 1959. Catalogo delle Sculture di Cirene: statue e rilievi di caratteere religioso (Cf. 322, Tav.152, pp.114-5; 325-327, Tav. 153-4, pp. 115-6)

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ten courses survived. Each successive course projected slightly beyond the course below taking the form of a corbel vaulting (fig. 8). In due course of time rooms IX and X were subdivided into two units each. The existence of three separate open yards, two wells and two cess-pits gives strong impression that the building, at this stage, was broken into separate units and presumably accommodating more than one family. It is of special interest to note that these cess-pits were carefully built-up6. The western yard cess-pit (136) was semi-circular in shape with an upper diameter of 1.45 m and 1.75 m deep whereas the other one (232) was more or less rectangular in shape (1 m X 0.90 m) with a depth of 2.00 m. The fill of the former (136) contained a number of diagnostic fine pottery (African red slip notably form 104) and distinctive coarse pottery dated to the sixth and seventh centuries A.D. as well as several Byzantine coins mainly of Heraclius’ reign (A.D. 610-641). Cess-pit soil samples were taken and proved to be successful7. A pretentious system of stone drain (187) (0.25 m to 0.30 m wide and c. 0.25 m deep) was made to ensure the drainage of the winter rains. It runs E-W in a slightly curved line starting from the eastern yard crossing the central and the western yards soaking away to the west of the building. Such drainage system was intentionally designed to serve the three yards. The Byzantine occupation level produced a range of material extending into the seventh century A.D., notably, Byzantine flat-based jugs8, a distinctive type of cooking ware with a row of finger indentations on the upper part of the lugs9, pear-shaped lamp of carinated channel with an unpierced handle10 and many Byzantine coins, of which a high proportion belongs to the time of Heraclius11. The post-demolition building, in fact, provided good example of Byzantine houses of ordinary citizens. From the evidence available, one may conclude that they were, architecturally speaking, very modest. Any convenient material was re-used and most of the rooms, if not all, were of beaten earth floor. Apart from wall plastering internal decoration was non-existent. There is a spread use of vaulted ceiling. As motioned above the walls were composed of two lines of small rubble blocks roughly faced and bounded with a 6

Other hygiene disposal system in the form of under ground vaulted chamber was discovered in two of the seven buildings previously uncovered just to the south of the Roman building; another similar structure of the same function was idetified by the authors near the west end of the northern wall of the Byzantine fortress. These, too, were very neatly constructed. In fact, if one makes a comparison between the construction of the buildings walls with those of the cess-pits he will immediately get the impression that the hygienic disposal was highly considered during this period. 7 The samples are now being processed by our collegue Saleh el-Akab –Lafaiteh-, and the results will be useful as no such enviromental work has as yet been undertaken at the site 8 Cfr. Buzaian, A., op. cit,. (fig. 34 ‘13’). 9 Cfr. ibid., (fig. 36, type 1 ‘17’). 10 Cfr. ibid., (fig. 37 ‘23’) 11 In many examples Heraclius appears with his son Heraclius Constantine. For similar example see: Bentaher, F. (1990). “Ancient Coins From Tocra. P. 3 (Byzantine coins)”. Garyounis Scientific Journal, 3rd year, vol. II:138-53. (e.g., numbers 6-12). (in Arabic). Also, cf.: Wroth, W., (1908). Catalogue of the Imperial Byzantine Coins in the British Museum, London (pl. XXIV. 7, p. 205 & supra n. 1, p. 202).

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mixture of mud and stone chippings. The hygienic disposal was highly considered during this period. Surface remains of such late buildings covers in haphazard manner all over Tocra with no respect to the main outlines of the earlier city plan12. The complete absence of mud-brick and the discovery of huge amount of small squared stones in the Byzantine destruction level strongly suggest that the walls were utterly executed in small blocks with a rubble and mortar infill. A typical and complete example of this technique of construction can be best seen in Ras el Hilal (Naustathmus) church13 whose walls are still maintaining there highest level. Post-Islamic conquest occupation After the Arab conquest of Cyrenaica, part of the building witnessed a period of squatter occupation. The character of this phase was extremely flimsy. The walls were crudely built and laid directly onto the earth. The late occupation mainly concentrated in the southern side of the building. Rooms I, II and III continued in use with some modification, where their floor level was raised substantially. A curved wall (17) built of two lines of small stones with a mud infill was inserted in the middle of the south wall of room II. Despite its similarity to mihrab, in form and orientation, the space behind it can not in no way accommodates more than one row of prayers. It more likely served to hold water-jars or such alike. A new entrance was created in the southern wall of room IV, which was divided into four compartments of uneven dimensions, and its floor level was raised up. The above mentioned cornice block was re-used as a door jamb in this new entrance. One more structure to be associated to this phase was an irregularly shaped room created in the eastern yard. Its walls (180, 181 and 182), of which only one course survived, were crudely built and directly laid onto earth. For some reason or another wall of the same character (143) was abutted the western end of wall (140). These development can be seen within the context of the early Islamic period14.

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Similar type of buildings laid out without any respect to the urban planning was encountered in other excavations. For further information see: Bentaher, F (1994). op. cit.; Jones G.D.B. op. cit.; Lloyd, J. 1977. Excavations at Sidi Khrebish Benghazi (Berenice) Vol I, Supplements to Libya Antiqua-V. Tripoli / Society for Libyan Studies, London; Ward-Perkins, J. B., Little, J. H. and Mattingly, D. J. .(with a contribution by S. C. Gibson) (1986). “Town houses at Ptolemais: a summary report of survey and excavation work in 1971, 19781979”. Libyan Studies 17: 109-53 13 The church was excavated by M. Harrison at the time he was Acting-controller of Antiquities in Cyrenaica in 1960/1. For full information about the excavations see: Harrison, R. M. (1964). “The sixth-century church at Ras el-Hilal in Cyrenaica”. Papers of the British School at Rome 32: 1:20 14 It has been pointed out by the late Goodchild that at the time of the Arab conquest of Cyreniaca there were no distinctive Islamic coins and no clearly defined Islamic pottery and thus it is difficult to make a distinction between a late Byzantine and an early Islamic occupation, see: R. G. Goodchild (1976) Byzantine, “Berbers and Arabs in seventh-century Libya”, Libyan Studies. Select Papers of the late R. G. Goodchild (ed. J. Reynolds), London: 255-67 (= Antiquity xli (1967):115-24). Though our excavations between 1985-1993 produced three Islamic coins of Umaiyad Caliphate which confirmed beyond any doubt a post-conquest date. One of these coins was a surface collection found in this building: See above no. 1

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Acknowledgements We are grateful to the Garyounis University and the Department of Archaeology for funding and organizing this training excavations. We wish to record our gratitude to the Department of Antiquities, Benghazi, and its office at Tocra for their continued support and assistance. We extend our heartfelt thanks to those who participated in the excavations by one way or another: Saleh el-Akab, Khalid El-hadar, Ahmed Saad, Elhassan Mekaeel, Elameen el-Hoony, Abdullah el-Rehaiby, Faraj Abdulkreem and Yusef Ben-naser. We are indebted to our most excellent cooks, Messrs Moammar Ghoma and Mohammed Khair.

Fig.1. General plan showing room numbers, features of all periods, location of soundings and sections.

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Fig. 2. Sounding R4. Surviving wall of Hellenistic construction used as foundation for a Roman wall. Looking east, scale.50 m.

Fig. 3: Roman building, phase I.

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Fig. 4. Statue of Dionysos with a panther.

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Fig. 5. Post-demolition plan.

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Fig. 6. Room II, showing the blocking of first phase doorway and the raising floor level with a later access to the flagged stone yard. Looking east, scale 0.50 m.

Fig.7. Sounding RE. Elevation A-A. Looking west. .

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Fig. 8. Furnace (179). Section B-B. Looking west.

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T. Mikocki

13 Le campagne di scavo della missione archeologica polacca a Tolemaide (Ptolemais) condotte tra il 2001 e il 2003. Tomasz Mikocki Nel luglio del 2001 grazie all’iniziativa del Ministero degli Esteri polacco e dell’ambasciata polacca a Tripoli, l’Istituto di Archeologia dell’Università di Varsavia ha ottenuto la concessione per lo scavo e le prospezioni della città di Tolemaide1. Dopo un primo veloce sondaggio di dieci giorni effettuato nel dicembre 2001 (pianta 3), le vere e proprie campagne di scavo sono state condotte nei due anni successivi: la prima della durata di un mese nell’aprile e maggio 2002, mentre la seconda nell’ottobre del 20032. I lavori non si sono svolti con regolarità, per la mancanza di un finanziamento fisso e sufficiente, oltre che per tutte le difficoltà ben note a chiunque collabori con la Libia. Perciò, disponendo di mezzi molto limitati, abbiamo potuto contare solo su missioni brevi e su personale ridotto. Tra le diverse opportunità che ci sono state presentate dai colleghi libici del Dipartimento di Antichità di Tripoli e Bengasi, sempre disponibili ed efficienti, abbiamo scelto proprio Tolemaide, un sito poco conosciuto archeologicamente, sul quale da anni manca un’attività di ricerca archeologica. Abbiamo ottenuto una doppia concessione: da un lato effettuiamo la misurazione di tutta la città (usando un teodolite al laser e il sisietma GPS) per verificare la pianta precedentemente rilevata, dall’altro svolgiamo campagne di scavo. Per quanto riguarda il rilievo topografico, per il quale siamo ancora agli inizi, ma che nel futuro vorremmo completare con sondaggi, fotografie aeree e misurazioni geo-fisiche (resistenza elettrica), ci proponiamo di verificare la pianta pubblicata da Kraeling3, cercando direttamente sul sito un’interpretazione delle strutture architettoniche, dei muri e dei singoli blocchi (in una fase preliminare cerchiamo di differenziarli coloristicamente sulla pianta); viene misurato ogni singolo blocco. E’ stata posta una rete geodetica, di 9 quadrati, ciascuno con una superficie di 1 chilometro quadrato (divisi in settori con 1

Per le prime informazioni sulle attività polaccche a Tolemaide vedi Mikocki, T., „Polskie wykopaliska archeologiczne w Libii. Wykopaliska Instytutu Archeologii Uniwersytetu Warszawskiego w Ptolemais (Tolmeita). SondaĪe 2001 r.”, ĝwiatowit. Rocznik Instytutu Archeologii Uniwersytetu Warszawskiego 3 (n.s.) 2001, fasc. A, pp. 101- 119 (con summary inglese sul p. 120), tavv. 26-53. 2 Vedi Mikocki, T., Jaworski, P., MuszyĔska-Mikocka, M. with the contributions of Chmielewski, K., Gáadki, M., Maákowski, W., Meyza, H., “Ptolemais in Lybia. Excavations conducted by the Mission of Institute of Archaeology, Warsaw University in 2002 and 2003. Report of two seasons of excavations”, ĝwiatowit. Rocznik Instytutu Archeologii Uniwersytetu Warszawskiego 5 (n.s.) 2004, fasc. A (in corso di stampa). Per le foto et informazioni supplementari vedi: http://www.archeo.uw.edu.pl/ptolemais. 3 Wright, G.R.H., in Kraeling C.H., Ptolemais. City of the Libyan Pentapolis [University of Chicago, Oriental Institute Publications 90], Chicago 1962.

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superficie di 10.000 metri quadrati e i più piccoli di base con superficie di 100 metri quadrati), in schema geografico (pianta 2). Finora abbiamo esaminato soltanto una piccola parte della città (non più del 10 per cento della superficie), cominciando dalla zona più vicina ai nostri scavi, dove si trova il punto 00 della nostra rete geodetica. Dalle osservazioni preliminari risulta già chiaramente che le misurazioni precedenti, per quanto riguarda le grandi distanze tra gli edifici e le loro relazioni reciproche, riportano errori che vanno da alcune decine di centimetri fino a 20! metri, cosa del resto comprensibile, vista l’imperfezione degli strumenti di misurazione precedenti. Tante singole osservazioni già oggi permetterebbero – dopo la verifica attraverso sondaggi – di cambiare le identificazioni dei singoli edifici. Però soltanto l’insieme delle misurazioni verificate permetterà di portare nuovi elementi validi per la conoscenza dell’urbanistica e dell’architettura della città. Gli effetti più veloci li ha dati l’attività di scavo. La scelta della zona residenziale della città come luogo degli scavi è stata determinata da motivazioni scientifiche, ma anche economiche. Non volevamo iniziare le ricerche nella parte pubblica della città, dove i lavori avrebbero richiesto notevoli risorse finanziarie. Il programma di ricerca limitato era concreto: abbiamo deciso di portare alla luce una ricca residenza romana, in cui la ricerca sull’architettura, sulla decorazione e su altro materiale permettesse di raggruppare gli specialisti, impegnare gli studenti e interessare gli ambienti polacchi che hanno poteri decisionali sulla questione del finanziamento delle ricerche. Ci siamo interessati della zona ad est del noto Palazzo delle Colonne, con una perfetta esposizione e con una vista ancora più bella sulla costa (pianta 2). L’insula direttamente ad est del Palazzo delle Colonne è coperta dalla terra e dalle macerie degli scavi italiani (i limiti delle insule in questa zona sono abbastanza imprecisi). Un’altra insula contigua sembrava meno promettente, invece nella terza insula ad est del Palazzo si potevano notare i blocchi architettonici decorati di notevoli dimensioni, coperti soltanto da un sottile strato di terra. Qui abbiamo effettuato un sondaggio lungo 70 metri, con lo scopo di stabilire i limiti dell’insula e di riconoscere il terreno (pianta 3). A poca profondità sono comparsi blocchi architettonici, un capitello, muri decorati da intonaco dipinto e anche macerie con tanti frammenti di mosaici, stucchi e intonaci. Il materiale ceramico comprende vasellame da cucina del III/IV secolo e del VI/VII secolo. I frammenti di pittura, mosaici, stucchi e anche il capitello decorato hanno trovato analogie con materiale del II e III secolo, proveniente da Cirene e Bengasi. Dunque, sapevamo di avere a che fare con una ricca villa del II-IV secolo, abitata di nuovo successivamente nel secolo VI/VII. L’edificio non ancora identificato l’abbiamo definito come “Villa con bella veduta”. Nella stagione seguente abbiamo allargato i sondaggi più ricchi di materiali (piante 3 e 1). Nei quattro saggi con la superficie d’insieme di 4 are, tra i quali abbiamo lasciato testimoni larghi 1 m e mezzo, abbiamo riscoperto i resti del cortile della villa circondato dal portico (fig. 3), crollato durante il terremoto, e anche gli ambienti attorno al cortile. Le pareti erano conservate per un’altezza fino a due metri, spesso decorate da dipinti che imitavano il rivestimento marmoreo (TAV.VI). Il pavimento dell’atrio, del portico e degli ambienti erano decorati da mosaici, in parte figurativi (fig. 1). In realtà abbiamo scavato soltanto piccole parti degli ambienti singoli, che si trovavano nei saggi (pianta 1). Sui muri e sui pavimenti della villa, nel VI (?) secolo sono stati costruiti i muri di due „blockhouse”

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bizantini – a questa fase dobbiamo una massa di materiale ceramico del VI/VII secolo e la distruzione dell’architettura della villa del II-III secolo. Due iscrizioni musive in cui si legge EYTYXȍC ȁEYKAKTIȍ4 (fig. 2, fig. 1, TAV.VI) ci hanno permesso di conoscere il nome del proprietario della villa: Leukaktios era probabilmente il ricco romano Lucius Actius, scritto in greco oppure il greco proveniente da una cità egiziana Leuke Akte5. In un ambiente, contiguo alla via che separava l’insula, abbiamo fatto una scoperta sorprendente: sul pavimento musivo, di cui abbiamo messo in luce soltanto le bordure, giacevano nelle macerie alcuni frammenti grossi e migliaia di piccoli frammenti di un mosaico, probabilmente precipitato dal primo piano durante il crollo dell’edificio (fig. 4 e TAV.VI). Le singole scene erano riconoscibili: accanto alle figure si trovavano le iscrizioni: OǻYCCEYC [?] / AXIȁȁEYC [?], ǻAIǻAMIA, BPECEIC (fig. 5 e TAV.VI), ȆAPĬENON, dunque si fa riferimento alle scene del mito di Achille6. Il mosaico non si è frantumato in singole tessere, perchè è caduto su un sottile strato di accumulazione e non direttamente sul mosaico del pianterreno. Dunque sembra che l’ambiente fosse stato abbandonato ancor prima del crollo del primo piano. L’ultima stagione di scavo è stata dedicata proprio a questo mosaico, ai lavori di documentazione e di conservazione. E’ stato tolto il testimone sopra l’ambiente decorato con il mosaico: nel testimone sono state rinvenute altre centinaia di frammenti con il mito di Achille (fig. 6 e TAV.VI). I restauratori hanno documentato i frammenti, trasportati nel magazzino dopo esser stati incollati su garza. Lì, nel caso dei frammenti più grandi, essi sono stati puliti sul verso fino al livello dell’intonaco originale e in seguito consolidati e incollati su un substrato provvisorio, e infine rigirati. I frammenti più piccoli aspettano sponsor generosi, che ci permetteranno di occuparcene nella prossima stagione. Sotto questo mosaico frammentato c’era un’altra sorpresa: un pavimento musivo completamente conservato (fig. 7 e TAV.VI)7. La ricchissima bordura, che decorava probabilmente il triclinio, circonda un grande panneau figurativo con tipica scena dionisiaca: un thiasos di Dioniso che scopre Arianna dormiente. Nel mosaico hanno praticato un’apertura per la cisterna scavata sotto, ricostruendone però abbastanza accuratamente i bordi. 4

Sulle iscrizioni vedi KubiĔska J., in Mélanges C.Dobias-Lalou (in corso di stampa). Vedi le mie divagazioni in un articolo sulle mosaici di Tolemaide, ArcheologiaWarsz 2005 (in corso di stampa). 6 Alcuni informazioni e fotografie sone state pubblicate, vedi KrzemiĔska, A., “Ruiny z widokiem”, Polityka nr 23 (2353), 8 czerwca 2002, p. 78; Mikocki,T., KrzemiĔska,A., “Skarby Ptolemais”, ĝwiat nauki, nr 10 (134), paĨdziernik 2002, p. 58-65; Mikocki,T., KrzemiĔska,A., “Villa mit Meerblick”, Spektrum der Wissenschaft, Spezial 2/2003, pp. 50 –57; Mikocki,T., KrzemiĔska,A., “Mozaiki z paáacu Leukaktiosa”, Archeologia Īywa nr 1 (20) 2002, pp. 8 – 12; “The Hero of an Archaeological Sensation”, Welcome to Warsaw nr 7 (136) July 2002, p. 4 oppure http://www.archeo.uw.edu.pl/ptolemais 7 Le fotografie del mosaico sono state pubblicate: Zuradzki,T., „Achilles do Polski”, Gazeta Wyborcza, 5.11.2003, p.11; Mikocki,T., “Polskie Ptolemais w libijskiej Cyrenaice”, Uniwersytet Warszawski nr 5(16), grudzieĔ 2003, p. 24-25; A. [gnieszka] K.[rzemiĔska], „Mozaika z Dionizosem”, ĝwiat Nauki nr 12 (148), grudzieĔ 2003, p. 26. 5

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T. Mikocki

L’analisi del materiale ceramico (principalmente del II e III secolo) e le oltre 100 monete riscoperte (alcune immerse nell’intonaco)8 permettono alcune ipotesi cronologiche. Sembra che abbiamo a che fare con una villa ellenistica (fine II secolo avanti Cristo), ricostruita nel periodo romano. Stucchi, pitture e mosaici sono legati con la fase romana, invece le fonti numismatiche e anche le analogie sembrano datare la nascita di questa decorazione al periodo tardoseveriano, oppure addirittura in parte (esistono quattro fasi di pittura) a due generazioni prima. Dopo il terremoto, come si può supporre, del 262 (?) la villa è stata ristrutturata. A questo periodo magari si può ricollegare la cisterna sotto il pavimento. Il crollo definitivo dell’edificio è stata provocato probabilmente dal terremoto del 365; prima però una parte degli ambienti della villa è stata abbandonata. Nel VI secolo sul terreno della villa hanno costruito i „blockhause” bizantini. Progetti di ricerca Ci riproponiamo di continuare la misurazione topografica della città, completata da altri metodi di prospezione. Per quanto riguarda gli scavi cercheremo di riportare alla luce tutta la villa, di effettuare l’anastilosi e di convincere le autorità libiche a una dislocazione del padiglione museale sul posto, dove potrebbero essere esposti i ritrovamenti. Il mosaico con il mito di Achille richiede lavori di conservazione difficili, lunghi e costosi: vorremmo effettuarli – dopo aver conquistato i mezzi necessari – in un laboratorio di conservazione polacco. Il programma archeologico della ricerca di Tolemaide lo vorremmo estendere, studiando la città e istruendo specialisti e studenti polacchi, ma anche libici.

Fig. 1 8

Per la numismatica vedi Jaworski,P., ĝwiatowit 5, 2005, fasc. A (in corso di stampa).

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Fig. 2

Fig.3

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Fig.4

Fig.5

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Fig.6

Fig.7

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Pianta 1

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Pianta 2

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Pianta 3

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14 Spigolature su alcuni ritratti ellenistici Nicola Bonacasa Come spesso accade nei nostri studi, la frequentazione dei temi - non voglio dire “la moda” dei temi – ricorre e si concentra in periodi più o meno regolari, e devo dire che per l’iconografia tolemaica gli ultimi anni ‘90 sono stati, scoperte a parte, uno dei periodi più fervidi 1. Sappiamo bene che la nota che presentiamo arriva buon’ultima, e che per la sua brevità non può richiamare grande attenzione; eppure, grazie all’ospitale organizzazione degli Amici di Chieti - che ringrazio vivamente - tenterò qui un rapido profilo critico, senza, per questo, pretendere di competere con le complesse e apprezzate indagini di alcuni colleghi soprattutto francesi e tedeschi. Se ripensiamo ai materiali disponibili intorno alla metà degli anni ’50 e fino agli inizi degli anni ’70, e se riandiamo con la memoria alle difficoltà del nostro lavoro di allora, 1

Néverov, O., ‘Portraits hellénistiques sur gemmes inédits’, Études et Travaux XV, 1990, pp. 297-301; Laubscher, H. P., ‘Ein Ptolemäer als Hermes’, in Froning, H., Hölscher, T., Mielsch, H., hersg., KOTINOS Festschrift für Erika Simon, Mainz/Rhein 1992, pp. 317-322; Stanwick, P. E., ‘ Royal Ptolemaic Bust in Alexandria, JARCE XXIX, 1992, pp. 131-141; Frel, J., ‘Some Ptolemies’, in Studia varia, Roma 1994, pp. 99-104; Kyrieleis, H., ‘Das Doppelgesicht Ptolemaios’ XII’, Chiron, 30, 2000, pp. 577-584; Lauro, M. G., ‘Due ritratti di regine tolemaiche al Museo di Tolemaide’, in Bacchielli, L., Bonanno Aravantinos, M., edd., Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, 1, Roma 1996, pp. 169-174; Lembke, K., ‘Ptolemaic kings in the egyptian Museum Berlin’, in Bonacasa, N., Donadoni Roveri, A. M., Aiosa, S., Minà, P., edd., Faraoni come dei Tolemei come faraoni, Atti del V Congresso Internazionale Italo-Egiziano, Torino Archivio di Stato – 8/12 dicembre 2001, Torino-Palermo 2003, pp.392-398; Marabini Moeus, M. T., ‘Strategos and Savior: A Portrait of Ptolemy I in Baltimore’, in BdA, 77, 1993, pp. 1-28; Salzmann, D., ‘Ein Tondobildnis des Ptolemaios I Soter’, Boreas 19, 1996, pp. 161169; Schmoll Eisenwerth, W., ‘Ptolemaios Philadelphos und der Hermes des Praxiteles, Akten des XIII Internationalen Kongresses für Klassische Archäologie, Berlin 1988, Mainz am Rhein 1990, pp. 454-455; Strauss, M., ‘Ein Mann mit Hut’, in Erol Atalay Memorial, Izmir 1991, pp. 169-175; Mysliwiec, K., ‘Ein frühptolemäisches Königsbildnis aus Athribis (Nildelta), AthMitt 112, 1997, pp. 307-315; Stanzi, G., ‘Das Ptolemaion von Lymira. Vom Entstehen eines antiken Bauwerks, AW 34, 2003, pp. 3-14; Smith, F., ‘Apoteosi di Tolomeo III quale Ermete in un bronzetto di Vienna’, MEFRA 107, 1995, n. 2, pp. 11531163; Heilmeyer, W. D., Niemeyer, B., ‘Ptolemaios III. Murray – Eine Neuerwerbung der Antikensammlung Berlin’, JberlM 39, 1997, pp. 7-22; Laronde, A., Queyrel, F., ‘Un nouveau portrait de Ptolémée III à Apollonia de Cyrenaïque’, CRAI 2001, pp. 737-782; Baumer, L. E., ‘Vater oder Sohn? Ein Nachtrag zu einem Ptolemäerbildnis’, HASB 13, 1990, pp. 5-8; Bailey, D. M., Craddock, P.T., ‘A portrait of an early Ptolemy’, JEA 77, 1991, pp. 186-189; Adams, N., ‘Another Hellenistic royal portrait from the Temple of Apollo at Cyrene?’, Lybian Studies 33, 2002, pp. 29-44; Walker, S., ‘From Queen of Egypt to Queen of Kings: the portraits of Cleopatra VII’, in Bonacasa, N., Donadoni Roveri, A. M., Aiosa, S., Minà, P., edd., Faraoni come dei Tolemei come faraoni, Atti del V Congresso Internazionale Italo-Egiziano, Torino Archivio di Stato – 8/12 dicembre 2001, Torino-Palermo 2003, pp. 506-512; Thomas, R., ‘Bemerkungen zu einer Ptolemäerstatuette mit Hm-hm-Krone’, Kölner Jahrbuch 33, 2000, pp. 85-89; Hafner, G., ‘Drei Bildnismedaillons aus Aphrodisias’, RdA 22, 1998, pp. 27-35 ; LagogianneGeorgakarakou, M., ‘Eikonistik¾ kefal¾ tou Ptolemaˆou E’ EpifanoÝs’, in Agalma. Melštes gia ten arcaˆa plastik¾ pros tim¾n tou Gièrgou Despˆnh, Qessalivikh 2001, pp. 317-323; Leone, A., ‘Nuove acquisizioni sul tempio di Medinet Madi: un ritratto idealizzato di principe tardotolemaico’, RIASA, Serie III, vol. XVIII, 1995 (pubbl. 1996), pp. 129-138; Evers, C., Putter, T., ‘Un Ptolémée a Mariemont’, Le Cahiers de Mariemont 27/ 1996, 1999, pp. 7-25.

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dobbiamo essere ben lieti che la recente letteratura archeologica abbia illustrato monumenti e approfondito problemi. Insomma, da A. Adriani a K. Parlasca e G. Grimm e, soprattutto, a H. Kyrieleis 2, a costoro ed a numerosi altri più recenti studiosi, come A. Laronde e F. Queyrel, va la nostra riconoscenza per avere dato origine ad un vero e proprio salto di qualità negli studi della ritrattistica tolemaica. Quanto a me, non foss’altro che per vecchia affezione al tema, continuo ad essere particolarmente sensibile al richiamo dell’iconografia di qualcuno dei Tolemei, e di Tolemeo IV Filopatore in particolare. Com’è noto, la fisionomia di questo come di altri principi lagidi non è di facile e univoca lettura, perché i pochi ritratti plastici noti e accreditati difettano di personalità, ed alcuni, anche per la loro non alta qualità di stile, differiscono spesso dai profili monetali, che, al contrario, per nostra fortuna sono quasi sempre significativi; ma non è questo il tema del nostro discorso. Inoltre, codesta incertezza si accentua quando abbiamo davanti a noi ritratti femminili, ed è per questo, le signore presenti mi scuseranno, se limiterò il mio intervento ad alcuni ritratti maschili tolemaici. E’ obbligo precisare, però, che dopo il coraggioso impegno della Brunelle (1976) 3, le colleghe Ines Jucker 4 e la Adams 5, e R.R.R. Smith 6 nel 1988, e Susan Walker 7assai di recente hanno affrontato i molteplici aspetti dell’iconografia tolemaica femminile, insieme con il dotto amico Oleg Névérov, di Leningrado, patrono delle ricerche sulla glittica, anche per la ritrattistica femminile tolemaica 8, per citare un solo esempio. Incominciamo subito con l’escludere, per i motivi che man mano segnaleremo alcuni ritratti, ai quali, è ovvio non rivolgeremo la nostra attenzione. I) Con decisione e tempismo François Queyrel e Ahmed Abd El-Fattah 9 hanno messo fuori gioco le due teste tolemaiche in calcare, una femminile e l’altra maschile, dagli scavi eseguiti nel 1993 nel sito dove venne poi costruita la nuova Biblioteca Alexandrina. Vero è che esse denotano un palese influsso dell’iconografia delle regine e dei regnanti Lagidi, ma il fatto è che la testa femminile sembra una divinità - forse Afrodite - della prima metà del II sec. a.C. e la testa maschile è quella di un Eracle, mitico antenato dei Tolemei, degli anni 220-190 circa a.C., indubbiamente influenzata dall’iconografia di Tolemeo III. II) Non credo affatto che la testa maschile di principe ellenistico, da Medinet Madi, scolpita nel calcare bianco locale, rinvenuta nel Fayyum nel 1937 da Achille Vogliano, e oggi conservata presso le Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche di Milano, rappresenti un principe tardo-tolemaico, sia esso per ipotesi Tolemeo VIII Evergete II (145 -118 a.C.), ovvero Tolemeo IX Sotèr II (117-106 a.C.). Anna Leone 10 crede con 2

Kyrieleis, ‘Bildnisse der Ptolemäer’, Berlin 1975 ; ID. ‘Das Doppelgesicht ‘. Brunelle, E., ‘Die Bildnisse der Ptolemäerinnen’, Frankfurt 1976. 4 Jucker, I., ‘Die Ptolemäerin von Tulouse’, HASB 13, 1990, pp. 9-15. 5 Adams, ‘Another’. 6 Smith, R. R. R., ‘Ptolemaic portraits: Alexandrian types, Egyptian versions’, Alexandria and Alexandrinism, Actes du Colloque, Malibu 22-25 avril 1993, Malibu 1996, pp. 203-213. 7 Walker, ‘From Queen’. 8 Néverov, ‘Portraits’. 9 Abd el-Fattah, A., Queyrel, F., ‘Sculptures de la Biblioteca Alexandrina’,in Empereur, J.-Y., ed., Alexandrina 2, Cairo 2002, pp. 315-340. 10 Leone, ‘Nuove acquisizioni’. 3

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abbondanti dettagli nelle succitate proposte di iconografia tolemaica. Ma il volto dai tratti schematici, scarsamente individuali, la tipica testa sferoidale, l’anonima ieraticità dell’effigie rendono impossibile l’esatta identificazione del personaggio. In realtà, la testa è un ritratto greco-egizio estremamente idealizzato, che riecheggia la produzione tardo-alessandrina in pietre dure, caratteristica delle officine specializzate del Delta. III) Neil Adams 11 ritiene che il quinto ritratto presentato, di piccolo formato, che viene pubblicato dopo la sua riscoperta al British Museum tra il “carico” dei Smith e Porcher, sia effigie di Tolemeo IV. Personalmente, ritengo difficile che il marmo possa essere inteso come ritratto di Tolemeo IV: se mai esso riecheggia, come tante altre sculture di piccolo modulo, la “maniera” dell’iconografia dei principi Lagidi spesso anche ricalcata a livello stilistico. IV) Non condividiamo, tranne un solo marmo, la raccolta di sei ritratti proposta da Jiri Frel 12 rivolta alla ritrattistica tolemaica del J. Paul Getty Museum di Malibu. Vanno dunque confinati tra i ritratti dubbi quelli di Tolemeo III, di Tolemeo IV, di Arsinoe III e di Tolemeo X Alexandros e perfino l’erma proveniente dalla Villa dei Papiri. V) E’ solo una fantasia che dietro alla bella testa di atleta da Bodrum, nella tradizione dello Hermes di Prassitele, possa intravvedersi, come pretende Wolf Schmoll gen. Eisenwerth 13 un sicuro ritratto di Tolemeo II Filadelfo, forse anteriore al 270 a.C. I confronti, rapportati al busto da Hermoupolis al Louvre, e, in parte, al busto bronzeo della Villa dei Pisoni, sono così generici da non potere essere presi in considerazione. VI) Non riesce a convincerci Karol Mysliwiec 14, malgrado la sua dotta presentazione, che la piccola testa diademata in calcare soffice da Athribis (Tell Atrib, Behna) in discreto stile greco-egizio, sia il modello per un grande ritratto marmoreo di Tolemeo II. Soprattutto quando chiama in causa il ritratto del Louvre 3261, il torso bronzeo di Napoli 5600, e altro. La testa proviene da una terma privata dell’inizio del III sec. a. C., e non sussiste alcuna reale prova iconografica per l’identificazione, tanto meno se si guarda ai profili dei tetradrammi d’argento, anche se questi provengono dallo scavo. VII) Dubitiamo che si possa accettare l’identificazione con Tolemeo X Alessandro I, proposta da Cécile Evers 15 di un ritratto in serpentinite, una breccia verde-grigiastra picchiettata di nero, barbato, con nastro tra i capelli, che più di una volta è stato confrontato con effigi del III sec. d.C., malgrado i confronti suggeriti, e per noi poco convincenti, con un ritratto al Paul Getty di Malibu e con uno del Wüttembergisches Museum di Stoccarda. Passiamo ora in rassegna le testimonianze accertate di recente del ritratto tolemaico, che sono da tenere in considerazione. A) Confidando nella autorità di Helmut Kyrieleis 16, accettiamo che il sigillo malconcio da Nea Pathos, che lui presenta, possa essere identificato come ritratto 11

Adams, ‘Another’. Frel, ‘Some Ptolemies’. 13 Schmoll Eisenwerth, W., ‘Ptolemaios’. 14 Mysliwiec, ‘Ein frühptolemäisches’. 15 Evers, ‘Un Ptolémée’. 16 Kiryeleis, H., ‘Das Doppelgesicht’. 12

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grottesco di Tolemeo XII Neos Dionysos e Auletès. La duplice personalità di regnante e di dilettante, solista, di Tolemeo XII è pure nota dal ritratto che alcune belle dramme d’argento del I sec. a.C. ci tramandano, e sembra assai probabile che anche il sigillo cipriota riproduca le fattezze del re. B) Accettabile – a differenza delle cinque proposte rigettate nel paragrafo IV – sembra l’identificazione di Tolemeo II in un marmo colossale ed enfatico del Paul Getty Museum 17. Ritratto postumo e rilavorato che può raffigurare il monarca anche per le sue affinità con la nota testa di Coo e, più alla lontana, con i due ritratti del Louvre. C) Federica Smith 18 ha presentato un bronzetto del Kunsthistorisches Museum di Vienna, di ignota provenienza, raffigurante Tolemeo III quale Hermes Enagònios. Utile il confronto con la statuetta napoletana di Tolemeo III come Eracle, e con la statua seduta di Tolemeo III-Eracle del Museo Nazionale Romano; scontata ma esatta la cronologia intorno agli anni centrali del regno, press’a poco il 230 a.C. La discussione sul modello lisippeo e sulla sua rivisitazione si perde a volte in superflui tentativi di identificazione (Louvre, Sparta, Duhram), pur con la chiamata in causa di esempi patrocinati dal Kyrieleis. D) Fra i tre medaglioni di marmo rinvenuti nel 1904-5 ad Afrodisia, in seguito distrutti da un incendio a Smirne, nel 1922, presentati un po’ genericamente da Georg Lippold e ora rivisitati con rapida e dotta indagine da German Hafner 19, è da riconoscere pure un ritratto di Tolemeo V Epifane (insieme ai ritratti di Arsinoe II e della filosofa alessandrina Hypatia). Forse, delle tre effigi, quella ad essere meno indagata è proprio quella del V Tolemeo; tuttavia, l’autorità indiscussa dei due editori ci garantisce, in certo qual modo, riguardo alla proposta di identificazione. E) La fisionomia di Tolemeo IV Filopatore ci verrebbe incontro da un bustoritratto di bronzo al British Museum, rimasto lungamente ignoto, fin dalla data del suo acquisto, il 1772. Si tratterebbe forse di un originale, piuttosto che di una copia romana, a giudizio dei due editori Donald M. Bailey e Paul T. Craddock 20, non solo per i raffronti iconografici e stilistici, ma anche per le analisi del bronzo. In origine, il busto doveva appartenere ad una statuetta, perché tipologia e contorno non lascerebbero dubbi. F) Nel volume di studi alessandrini dedicati a Mostafa El Abbadi, Paul Edmund Stanwick 21 ha presentato due ritratti tolemaici, uno di granito da Canopo, noto da tempo, e l’altro di arenaria per caso rinvenuto a Ras El Soda; entrambi in stile grecoegizio, con nemes e ureus il primo e con nemes l’altro. Dopo una serie di raffronti, in particolare con alcuni sigilli di Nea Pathos, ed avere escluso l’iconografia di Tolemeo VIII e di Tolemeo IX, l’autore sostiene che si tratta del medesimo personaggio, e cioè Cesarione in veste egizia. G) Al Kestner Museum di Hannover si trova un interessante tondo marmoreo con ritratto – studiato da Dieter Salzmann 22 – che riproduce il profilo diademato, e piuttosto ben riuscito, di Tolemeo I Sotèr (305-283 a.C.). I confronti, oltre che con le 17

Frel, ‘Some Ptolemies’. Smith, F., ‘Apoteosi’. 19 Hafner, G., ‘Drei Boldnismedaillons aus Aphrdisias’, RdA 22, 1988, pp. 27-35. 20 Bailey, D. M., Craddock, P.T., ‘A portrait’. 21 Stanwick, E., ‘Two Ptolemeis in Alexandria’, BSAAl 46, 2000, pp. 51-58. 22 Saltzmann, D., ‘Ein Tondobildnis’. 18

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monete, tutti splendidi tetradrammi con il profilo destro de re, con altri due tondi, e con i ritratti realistici scolpiti all’inizio del terzo secolo, di Parigi, Tera e Copenhagen, non lasciano dubbio alcuno. Segue un elenco utilissimo e aggiornato delle raffigurazioni note di Tolemeo I a tuttotondo, a rilievo, nella toreutica, nella ceramica a rilievo, nella glittica, per un totale di 22 ritratti accertati. H) In una collezione privata della Germania Renana, dopo la sua comparsa in Svizzera, sul mercato antiquario, ed essere passata quindi in una collezione inglese, si conserva una bella e interessante statuetta bronzea, a fusione piena, alta appena cm 15,5. Renate Thomas 23, che già la aveva presentata nel 2000 in KölnerJahrbuch, 33, la ha studiato e pubblicato, come monografia 24. La posa sicura e ardita, lo stile impeccabile, la bella patina verdognola, l’abile costruzione della testa, lo studio del nudo, non fanno altro che accrescere il pregio della figurina, appena oscurata da un solo neo, quello dell’enfasi; certo giustificata se si riflette sulla cronologia del bronzetto, primi due decenni del II sec. a.C., e sul suo significato. E qui il complicato ma abile coronamento della testa (corona di Arpocrate, raggi, aureola, corna di Ammone) assume valore primario per entrare in contatto con la rappresentazione panteistica, che ha non pochi paralleli iconografici nell’intrecciato sincretismo egiziano. Non ci soffermiamo sulle lunghe e giustificate digressioni della Thomas (per cui rinvio alla mia recensione, in Gnomon 25). Piuttosto voglio segnalare gli affidabili e sintetici paragrafi sulla identificazione, sullo sfondo storico, sull’analisi stilistica (che avremmo preferito più dettagliata), e sulla posa e sul significato del bronzetto. Noi avanziamo qualche dubbio sulla possibilità che una figurina sovraccarica di tanti segni e di tante allusioni abbia pure pieno significato iconografico. Anche se i collegamenti generali sussistono, con il IV Tolemeo, ben diversa è la certezza iconografica e del tutto diverso è il sicuro carattere fisionomico. Ad ogni modo, il lavoro della Thomas è lodevole, e questa esperienza, come del resto altre, ci assicura che lo studio dei piccoli bronzi, e anche delle terrecotte, porta sempre a risultati inattesi soprattutto nel campo della ricostruzione dei contesti e del loro significato storico-culturale. I) La prova ulteriore è in una statuetta bronzea con elmo corinzio, della Walters Art Gallery di Baltimora, più volte studiata da altri, o ora rivisitata con acume straordinario da Maria Teresa Marabini Moevs 26 . Malgrado le lacune delle braccia, lo stato di conservazione generale è buono, lo stile è eccellente, la provenienza egiziana plausibile, i confronti accettabili, l’inquadramento storico-tipologico è quanto mai ampio e condotto magistralmente, la datazione al primo Ellenismo giustificata. Addirittura, portati sul filo della ipercritica sono i rapporti con il repertorio del guerriero aggredente, risalendo fino ai Tirannicidi, per cui il bronzetto di Baltimora sarebbe la riduzione di una statua di grande modulo di Tolemeo I Sotèr: l’una e l’altro carichi di ideologia e di pathos. J) Katia Lembke 27 ha presentato una rilettura, ed era ora, dopo gli studi meritevoli di Edgar, di Adriani e di Grimm, del gruppo di marmi da Tell Timai 23

Thomas, ‘Bemerkungen’. Thomas, R., ‘Eine postume Statuette Ptolemaios’ IV und ihr historischer Kontext. Zur Götterangleichung hellenistischer Herrshcher, Trierer Winckelmanns Programm 18, 2001, pp. 1-108. 25 Bonacasa, N. , Gnomon, 2004, c.d.s. 26 Marabini Moevs, ‘ Strategos’. 27 Lembke, K., ‘Eine Ptolemäergalerie aus Thmuis/Tell Timai’, JdI 115, 2000, pp. 113-146. 24

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(Thmuis), che giustamente definisce “Eine Ptolemäergalerie”. L’esito è il seguente, per il nostro tema: un ritratto di Alessandro, uno di Tolemeo III, uno di Tolemeo IV (e su questa affermazione nutriamo qualche dubbio), uno di Berenice II, uno di Arsinoe II, e, poi, alcune divinità. La datazione del complesso va posta dopo l’inizio del II secolo, tra il 196 ed il 180 a.C., entro l’anno della morte di Tolemeo V. La Lembke ricostruisce il gruppo distribuendolo in due ali divergenti, con all’apice Alessandro e Iside, alla loro destra Dioniso, Tolemeo IV Arsinoe III e Afrodite, ed alla loro sinistra Arsinoe II, Tolemeo III, Berenice II e Afrodite. Questa proposta va oltre il nostro compito, ma dall’indagine della Lembke possiamo trarre conferma per l’identificazione di Tolemeo III e Tolemeo IV. Di questo insieme del culto dinastico tolemaico di Tell Timai, insieme e di seguito all’iconografia del III Tolemeo, si è interessato F. Queyrel 28 producendo una documentata identificazione di 10 teste, di cui ha fornito pure un serrato catalogo. K) L’esame della stele a rilievo col decreto di Raphia, al Museo del Cairo, del bronzetto di cavaliere con esuvia di elefante al Metropolitan di New York, proveniente da Athribis, della statuetta bronzea di Hermes – ex Collezione Fouquet – al Cairo, ha permesso ad Hans Peter Laubscher 29 di indagare le raffigurazioni tolemaiche di cavalieri, derivati dai gruppi lisippei. L’iconografia, presente sulla stele, per quanto riguarda l’Egitto, si afferma dopo il 217 a.C., data della battaglia di Raphia, come ci attestano le monete di poco posteriori, e si sviluppa rapidamente sino al tempo di Augusto. L) Potremmo giudicare in linea di massima accettabile la proposta Adams 30 per l’identificazione con Tolemeo Apione dell’imponente ritratto di principe a Londra BM 1383, e va bene; ma ci chiediamo come questa identificazione possa collegarsi anche dal solo lato iconografico con la pure recente identificazione del ritratto BM1394, proposta da Walker e Higgs 31. Non ne parliamo, poi, se ai due affianchiamo il ritratto di Tolemeo Apione conservato nel Museo dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Zurigo. D’altra parte le due identificazioni BM 1383 e 1394 ricorrono pure nel volume 18 dei QuadArchLib, 2003, dedicato a L. Bacchielli, sempre a firma N. Adams e S. Walker 32, insieme alla sommessa proposta di identificare Tolemeo IV nella testina marmorea BM 1399: una specie di ripresa di quasi tutti i temi già presentati in LibyanSt, 33, 2002. M) Di Tolemeo il Giovane, fratello maggiore di Tolemeo VI Filometore, non possediamo finora, almeno così sembra, ritratto alcuno. Del giovane re, soprannominato Fiscone, che detiene il potere a Cirene dal 163 al 145 a.C., per ritornare

28

Queyrel, F., ‘Un ensemble du culte dynastique lagide: les portraits du groupe sculpté de Thmouis (Tell Timaï)’, in Bonacasa, N., Donadoni Roveri, A. M., Aiosa, S., Minà, P., edd., Faraoni come dei Tolemei come faraoni, Atti del V Congresso Internazionale Italo-Egiziano, Torino Archivio di Stato – 8/12 dicembre 2001, Torino-Palermo 2003, pp. 472-490. 29 Lautbscher, H., ‘Ptolemäische Reiterbilder’, in AthMitt 106, 1991, pp. 223-238. 30 Adams, N., ‘Another Hellenistic royal portrait from the Temple of Apollo at Cyrene?’, LybStud 33, 2002, pp. 29-44. 31 Walker, S., Higgs, ‘Cleopatra of Egypt’, London 2001. 32 Adams, N., Walker, S, ‘A new portrait of Berenike II from the temple of Apollo at Cyrene?’, QuadArchLib 18, 2003, pp. 129-152

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poi ad Alessandria riunificando il regno, si interessa con ampiezza di dati, ma dal punto di vista storico, A. Laronde 33 nel volume16 dei QuadArchLib, 2002. N) Wolf-Dieter Heilmeyer 34 ha ripubblicato con ampio approfondimento una statuetta bronzea frammentaria, c.d. Tolemeo III Murray, dal suo primo proprietario, che raffigurava i monarca mentre atterra il nemico siriano vinto dopo la vittoria del 241 a.C., e non è improbabile che questo, come il più famoso gruppetto bronzeo di Istambul, siano eco ridotta di un monumento celebrativo della suddetta vittoria. Come in quello di Istanbul, anche qui è da vedere un Hermes o un Eracle altamente individualizzato, che riecheggia l’iconografia del III Tolemeo. O) E’ stato presentato alla mostra di Berna negli anni 1982/83, da Ines Jucker 35, un ritratto marmoreo detto di Tolemeo III, che invece a Lorenz E. Baumer 36 sembra ritratto di Tolemeo IV, eseguito, in base alle monete, tra il 217 a.C. (battaglia di Raphia) e la sua morte nel 205-204 a.C. Noi concordiamo. P) E’ probabile, come sostiene Paul E. Stanwick 37, che il busto di Alessandria in costume egizio, scolpito nel granito grigio, e un po’ rovinato al volto, raffiguri Tolemeo X. I confronti sono accettabili e la cronologia sembra certa. Q) Dobbiamo alla dottrina di Hans Peter Laubscher 38 l’agile rivisitazione della statuetta bronzea seduta di Tolemeo III – Hermes del Louvre sia in rapporto ai coni monetali sia in rapporto con la poco nota ed elegante statuetta stante dello Indiana University Art Museum di Bloomington. R) La fortuna ha voluto che un ritratto colossale marmoreo di Tolemeo III, venuto dal mare, da un vivaio situato nel bacino orientale del porto di Apollonia, in direzione della XX torre della cinta muraria, sia toccato in sorte ad un grande esperto di problemi storico-archeologici di Cirene, A. Laronde, e ad uno dei maggiori esperti di plastica tolemaica e di ritratto tolemaico, F. Queyrel. Laronde ha presentato il ritratto nel 1999 39, e, poi, nel 2001, insieme con Queyrel 40, nei CRAI. Queyrel ha continuato a parlarne, ed ha fatto bene, nel 2002 41 in Journal des Savants. Esso apparteneva ad una statua alta almeno 3 metri, un acrolito, forse stuccata così come era completata in stucco la testa: senza dubbio una statua di culto, probabilmente eretta per un tempio, forse nella stessa Apollonia, mentre era vivo il monarca, tra il 240 ed il 222-221 a.C. Identificazione, inquadramento storico-cronologico, tipologia del ritratto, tutto è sapientemente approfondito. Ma, ad essere sinceri, per un pezzo così attraente avremmo desiderato sapere di più sulla qualità dello stile e sull’officina. L’accurato elenco dei pezzi completati in stucco o gesso è di per se interessante, ma non risponde alle nostre curiosità sulla bottega d’arte.

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Laronde, A. ‘Ptolémée le jeune, Roi de Cyrène’, QuadArchLib 16, 2002, pp. 99-108. Heilmeyer, ‘Ptolemaios’. 35 Jucker, I., ‘Die Ptolemäerin’. 36 Baumer, L. E., ‘Vater oder Sohn? Ein Nachtrag zu einem Ptolemäerbildnis’, in HASB 13, 1990, pp. 5-8. 37 Stanwick, P. E., ‘A Royal Ptolemaic Bust in Alexandria’, JARCE 29, 1992, 131-141. 38 Laubscher, ‘Ein Ptolemäer’. 39 Laronde, M. A., ‘Un nouveau portrait de Ptolémée de Apollonia de Cyrénaïque’, BAntFr 17 marzo 1999, pp. 102-107. 40 Laronde, Queyrel, ‘Un nouveau’. 41 Queyrel, F., ‘Les portraits de Ptolémée III Évergète et la problématique de l’iconographie Lagide de style grec, Journal des Savants 2002, pp. 3-73. 34

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S) Abbiamo già detto che F. Queyrel, sul Journal des Savants del 2002, ha studiato a fondo i ritratti di Tolemeo III e l’iconografia lagide di stile greco: aveva incominciato a Torino, nel dicembre del 2001, al nostro V Convegno Intern. ItaloEgiziano 42, ha continuato nel 2002. La sua estesa ricerca viene dopo quella di Ines Jucker e di H. Kyrieleis, ma chiara e forte è l’impalcatura dell’indagine di Queyrel, che gli ha permesso di identificare ben 29 soggetti come Tolemeo III. Personalmente ne ammiro la perspicacia, ma non riesco a condividere con l’amico Queyrel alcune identificazioni di ritratti minori in collezioni private. Quello che gli dobbiamo è la costruzione di modelli iconografici sulla base dei coni monetali e la capacità di avere individuato i corrispondenti nel ritratto plastico: dal tipo che si rifà al tetradramma argenteo da Sophikon al Museo di Atene, del 240 a.C. circa, che ha originato un modello iconografico del decennio 240-230 a.C. che è riflesso dal marmo di Apollonia e dal ritratto di Alessandria; al tipo sulle dramme del 230-222 a.C., che ha originato il modello per le effigi di Berna, Parigi, Alessandria faience; alle serie monetali posteriori al 222 a.C. che hanno dato vita a tutti i ritratti postumi, almeno 13, ed a quelli con personificazioni e tarde assimilazioni, 8 in tutto. Limitatamente all’indagine degli anni 1990-2002, ed escludendo i ritratti ai quali non crediamo, restano in tutto 24 esemplari di varia identificazione. Vanno giudicati sicuri, perché suffragati dai coni monetali soltanto 18 ritratti, che in parte rispondono anche ai requisiti di ordine stilistico. Di questi, la maggioranza riguarda Tolemeo III Evergete, 9; ed, a seguire, Tolemeo IV Filopatore, 3; Tolemeo I Sotèr e Tolemeo II Filadelfo, 2 cadauno; Tolemeo V Epifane, 1; Tolemeo il Giovane, 1. Certo, codeste percentuali rimangono vincolate alla occasionalità degli interessi di ricerca ovvero alla fortuna dei ritrovamenti, ad ogni modo costituiscono un indizio. Come indizio di segno non indifferente è quello che vede i tardi Tolemei dei secoli II-I a.C. riprendere forza con ben altri 7 ritratti. Ad ogni modo, se alcune iconografie risultano meglio delineate dagli studi più recenti, ancora una volta le analisi stilistiche e il disegno di modelli strutturali rimangono ai margini (sono presenti soltanto 5 volte su 24), e queste lacune rischiano di non essere mai più colmate, una volta che il ritratto, edito per la prima volta o riletto approfonditamente, rientra nel circolo vizioso delle citazioni solo apparentemente colte. Non v’e dubbio, tuttavia, che i gloriosi volumi d’assieme di Helmut Kyrieleis (1975)43 e di Edelgard Brunelle (1976)44 andrebbero oramai sistematicamente aggiornati, con nuove riedizioni.

Sono grato alla paziente amica Valeria Tardo per la collaborazione intelligente e disinteressata.

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Queyrel, ‘Un ensemble’. Kyrieleis, ‘Bildnisse’. 44 Brunelle, ‘Die Bildnisse’. 43

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15 Foreign schrecklichkeit and homegrown iconoclasm: two faces of communal violence at Cyrene Donald White Probably the one calamity in Greek Cyrene's urban history with the most farreaching consequences is the much-discussed AD 115 Jewish Rebellion whose archaeological hallmarks are deliberately wrecked buildings and mutilated statues.1 Of these the Zeus Temple and its so-called Guidi head, the latter reduced theoretically by the religiously-fired rebels to more than a hundred fragments, probably constitute the best known examples.2 What has been generally overlooked is the fact that the city's history is broadly bracketed by two sets of destructive events, similar in intent if not in scope. It is true that these lack the bulk of ancient testimonia that help contextualize the tumultus judaicus. There is even no consensus for when the later of the two, namely the wave(s) of Christianinspired violence against the old pagan shrines and their statues actually took place,3 although the still largely unpublished evidence from the Extramural Demeter and Persephone Sanctuary points to the period between the AD 262 and 365 earthquakes or shortly thereafter. As for the first, Herodotus4 is the source for what may explain the otherwise unrecorded destruction of an Archaic sanctuary on the eastern outskirts of the 6th century city even though its attribution to the Persians remains debatable. The circumstances surrounding the discovery of the sanctuary's intentionally buried remains have been more than adequately described by R. Goodchild5 and only need to be briefly summarized here. While digging foundations for government houses in 1966 a backhoe operator 1 For basic bibliography and discussion see Applebaum S., Jews and Greeks in Ancient Cyrene, Leiden 1979. Goodchild R., Kyrene und Apollonia, Zurich 1971, pp. 41-42. Stucchi S., L'Architettura cirenaica. Roma 1975, pp.233-235. Laronde A., "La Cyrénaïque romaine, des origines à la fin des Sévères,"ANRW II: Principate 10.1, pp 1043-1049. 2 For the temple cf. Pesce G., "La documentazione epigrafica del "Gran Tempio" in Cirene,"BSRAA XXXIX, 1951, pp. 83-129; Goodchild., Herington C., and Reynolds J., "The Temple of Zeus at Cyrene,PBSR XXVI, 1958, pp 30-60. Stucchi, Architettura, pp. 23-29; Bonacasa N.- Ensoli S., Cirene, Milano 2000, pp.136-145. For the Guidi head Paribeni E., Catalogo delle sculture di Cirene, Rome 1959, pp.77, n. 182, pls. 104, 105. Bonacasa -. Ensoli, Cirene, pl. opp. p. 191. 3 Stucchi L’Architettura, pp.360, 441, dates the ritual destruction by fire of Cyrene's buildings to either the reign of Theodosius as late as Justinian. Neither he nor Bonacasa and Ensoli, Cirene, p. 57, offer any direct evidence to offset the fourth century AD date suggested by the coins recovered from the Zeus Temple listed by Pesce, “La Documentazione”, p. 117-119; see below n. 39. In his Cyrene guide and his PBSR article, pp. 39-41, Goodchild says 4th. century and in his last word on the subject the 4th century AD to the time of Theodosius. Goodchild R., "Chiese e Battisteri Bizantini della Cirenaica," XIIIe Corso di cultura sull’arte Ravennate e Bizantina (1966), p. 206. Also Goodchild, Kyrene, p.153. Roques D., Synésios de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987, p. 321. Reynolds J, The Society for Libyan Studies Monographs 4: Christian Monuments of Cyrenaica (Hertford 2003), p.5, n. 4 for a prudent note of caution. 4 Hdt., IV.203. 5 Goodchild R., Pedley J., White D. Recent Discoveries of Archaic Sculpture at Cyrene," LA 3-4 (1966-67) 179-184. For a recent overview of the circumstances of the discovery and in particular its marbles, see Fabbricotti E., "Le statue greche in marmo di età arcaica a Cirene," RendLincei ser. IX, XIV (2003), pp. 1-2, 10-21, figs. 9-14. For the Persians' role see ibidem 18-19, along with Chamoux F., Cyrène sous la monarchie des Battiades, Paris 1953, p. 165. Briant P., From Cyrus to Alexander, a History of the Persian Empire , Winona Lake, Indiana 2002, p. 181. 6 The extramural position of the site in relation to the Hellenistic city walls is illustrated by Fabbricotti , “Le statue”, p.

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unexpectedly came upon the torso and upper legs of a marble kouros statue. Work was stopped to allow the Department of Antiquities to conduct a rushed clearance of what Goodchild took to be the site of an ancient sacred dump or favissa set in what appears to have been an ancient quarry (figs. 1, 2), leaving only the earth beneath a water trough and nearby motor track for later excavation. The artefacts first recovered included two approximately lifesize but headless Archaic korai statues, a headless kouros, a substantial section of an Ionic dedicatory column, its intact capital, and the body of its crouching sphinx (fig. 3), all carved from imported marble.7 It also held a mass of rectangular pieces of bronze sheeting pierced with nail holes (number and weight unrecorded),8 a nearly intact bronze repoussé gorgon tondo (fig. 4 and TAV.VII), a fragmentary rectangular bronze repoussé `metope' plaque depicting two wrestling figures (fig. 5 and TAV.VII), a fragmentary bronze sheet with an unidentifiable section of curving repoussé decoration (fig. 6), nine Archaic lead swallow-tail masonry clamps (fig. 7), an unspecified number of thick strips of lead, and finally a quantity of stone chips and displaced building blocks. When the trough was finally lifted and the motor track cleared, the largely intact head of the sphinx miraculously appeared, together with a small fragment of a second, similarly sized bronze Medusa tondo (fig.8) Goodchild's description of the excavation site9 mentions in addition an ancient wall enclosure situated a short distance north of the quarry and its various objects "These remains consist of walls of a rectangular (probably square) edifice or enclosure. The walls are 1.20 cm. (sic) broad and consist of blocks laid in a double row so as to form outer and inner faces: they are dry-built and rest immediately on top of the natural rock which has been leveled for this purpose. There is space left between the inner and outer rows, and we suppose that this was covered by `stretchers' forming the next course of stones."10 The enclosure's east wall was preserved for 20 m., while the slope of the modern surface together with other ground features suggest that the adjoining south wall extended for perhaps another 20 m. to form a square compound. Finally, he observed how the diagonally scored (`broached' is his word) inner and consequently invisible faces of the two rows of block masonry suggest that they were being reused in this capacity and that the walls and nearby bedrock betrayed signs of heavy burning. It may be assumed that Goodchild's 1.20 cm. wall width was a misprint for 1.20 m. Variations of pseudoisodomic walls constructed from dual parallel rows of blocks filled with emplekton and then capped over by flat stretchers are known regionally as well as elsewhere in the Greek world from the 6th through 4th centuries BC.11 On the other hand, in the Pentapolis diagonally scored blocks are a hallmark of advanced Hellenistic and even later construction.12 It is unfortunate that the enclosure's complete block dimensions were not recorded before the site disappeared under modern construction because their proportions might have added further clues as to their date, but for now we can assume 20, fig. 14. 7 Fabbricotti, ibidem, n. 5, passim. 8 Illustrations of this material accompany S. Kane's Chieti convegno report, "Lastre di bronzo nella favissa arcaica di Cirene." 9 The whereabouts of his field notes are unknown to me. 10 Goodchild, Pedley and White, “Recent Discoveries”, pp. 196-197. 11 White D., The Extramural Sanctuary of Demeter and Persephone at Cyrene, Final Reports V: Its First Six Hundred Years of Development, Philadelphia 1993, pp.58-63. 12 White, ibidem, p.131.

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along with Goodchild that the enclosure north of the deposit and the sanctuary where the marbles and bronzes were originally housed were not one and the same and that the traces of burning have nothing to do with how the deposit came into being in the first place.13 Goodchild had invited John Pedley and the present writer, who were together excavating Cyrene's port at Apollonia in the same summer, to participate in compiling the preliminary report for LA.14 Longer AJA articles by Pedley and White then followed in which the marble sculptures and dedicatory column were dated from ca. 560 to 540 BC.15 By contrast, the bronze sheeting, repoussé plaques and tondi, lead building clamps,16 and lead strips received no further attention by us other than what could be included in LA, with the result that a number of pieces have remained unillustrated to the present day. Apart from occasional inquiries for information over the years, the bronzes remain unpublished and largely unremarked, at least as far as I am aware.17 The late Kyle Phillips made a visit to Cyrene in the 1970's to record the sheeting but was unable to prepare his study. His drawings and notes have been remanded to Susan Kane. It is not possible for me to say what has happened to the bronze and lead over the intervening years. The undecorated sheeting, which I am guessing might have weighed in the aggregate perhaps a quarter of a ton, had already begun to break up and disappear while being shunted back and forth from one storage area to another before I left Cyrene for the last time in 1981. Their permanent loss would be tragic because in some ways they make up the rarest and potentially most significant of all of the deposit finds, belonging, as they seemingly do, to the exterior revetments of an Archaic `brazen house'.18 As for just how and when the finds came to be deposited, Goodchild reminded his readers of Herodotus's tale of the macabre consequences of the Persian satrap Aryandes' expedition to Cyrenaica in 515/14 BC, led by his general, Amasis. The purpose was to assist Queen Pheretima take revenge for the murder of her son, Cyrene's king Arkesilaos III; the target was the city of Barka which fell famously victim to the full weight of Oriental duplicity and cruelty.19 "The Persians thus enslaved the rest of the Barkaians and departed homewards. When they halted at Cyrene, the Cyrenaeans suffered them to pass through their city, that a certain oracle might be fulfilled. As the army was passing through, Bardes the admiral of the fleet was for taking the city, but Amasis the general of the land army would not consent, saying he had been sent against Barka and no other Greek city;20 at last they past through Cyrene, 13

But see Goodchild, Pedley and White, “Recent Discoveries”, pp. 197-198 for Pedley's tentative alterative suggestion, cited by Fabbricotti, “Le statue”, p. 19, n. 47. 14 Goodchild, Pedley and White, ”Recent Discoveries”, pp.179-197. 15 J. Pedley, "The Archaic Favissa at Cyrene," AJA 75, 1971, pp.39-46. White D., "The Cyrene Sphinx, its Capital and Column," ibidem, pp.47-55. Stucchi, L’Architettura, p.29, n. 5, cites an incorrect date for the sphinx column, which can perhaps be assumed to be a typographical error rather than a difference of opinion. 16 Cf. Martin R., Manuel d’architecture grecque I : Matériaux et techniques, Paris 1965, pp.238-260, fig. 112 for the type. 17 Ridgway B., The Archaic Style in Greek Sculpture, Princeton 1977, pp. 217, 223, 229 (where an alternative identification is made for the wrestler `metope'), 256. Bonacasa and Ensoli, Cirene, p.188, who assign a Laconian origin to the better preserved of the two Medusa tondi. See also White D., "An Archaeological Survey of the Cyrenaican and Marmarican Regions of Northeast Africa," Africa and Africans in Antiquity (ed. E. Yamamauchi, East Lansing 2001), pp. 218-223, figs. 7.11-7.13. 18 Stucchi, L’Architettura, p. 29. Bonacasa and Ensoli, Cirene, p. 188. Kane, “Lastre”, passim. 19 Hdt. IV.202. 20 Referred to as a "Marathian", Hdt. IV 167. Aes. Pers. 774 ff. includes Maraphis in his list of Persian kings and the Maraphioi are identified in . I, 125 as Persian tribesmen; cf. How W. and Wells J., A Commentary on Herodotus, Oxford

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and encamped on the hill of the Lycaean Zeus; there they repented of not having taken the city and essayed to enter it again, but the Cyrenaeans would not suffer them. Then, though none attacked them, fear fell upon the Persians, and they fled to a place sixty stades distance and there encamped. And presently, while they were there a messenger came from Aryandes bidding them return. The Persians asked and obtained of the Cyrenaeans provisions for their march, having received which they departed to go to Egypt" (Hdt. IV. 203, Loeb trans.). After weighing other interpretations, including a subsequent Persian return to attack Barka in 483 BC, Goodchild concluded that the likeliest explanation for the dump's creation was that Pheretima's disgruntled Persian allies had damaged or destroyed some nameless sanctuary in the course of their stay outside the city on the hill of Zeus Lykios. It may seem odd that the Cyrenaeans agreed to provision the Persians after this had happened, but a payoff in food and water may well have seemed the better part of valor under such strained circumstances. Goodchild also suggested that Herodotus's Hill of Zeus Lykios should be connected with Cyrene's great Early Classical Temple of Zeus which rose less than three-quarters of a kilometer to the NW of the Archaic deposit.21 Had he lived longer, he might have argued further that the deposit actually belonged to whatever Archaic Zeus sanctuary preceded the surviving temple, although this explanation seems to have roused little interest on the part of the Italian authorities since I first raised it.22 The Persians have of course attracted a bad Greek press for burning, overturning and otherwise mistreating their adversaries' places of worship. But in the case of Cambyses' physically mutilating the temple images at Memphis, the point to Herodotus's account seems to be that Cambyses' behavior was that of a crazy person and consequently abnormal even by Persian standards.23 Plundering and destroying sacred buildings were for them routine,24 as was any collateral damage to statuary which happened to be in the way. But the latter did not normally include the time-consuming, systematic obliteration of eyes, nose and mouth. The classic case is the Persian debris on the Athenian Acropolis where a substantial percentage of the sculptures catalogued by Payne display plenty of breakage but not the purposeful cancellation of those facial features25 which in the minds of the Greeks conferred on a statue its individuality and even some measure of in-dwelling sentience.26 p.110. Briant, “From Cyrus”, pp.141, 331, 350-352, 469, 482, 904. This militates against identifying Amasis as a mercenary Greek with an assumed Egyptian name which might otherwise explain his resisting Bardes' scheme to stage a full attack on Cyrene with whom Aryandes was ostensively allied. 21 See Bonacasa and Ensoli, Cirene, for the temples's construction date. 22 See Fabbricotti, “Le statue”, for an alternative, conceivably preferable explanation. 23 .Hdt., III, 37-38. 24 Briant, “From Cyrus”, p. 159 for "the two complementary sides of Persian ideological strategy: patronage granted to the sanctuaries but pitiless repression in the case of refusal to submit." 25 Payne H., Archaic Marble Sculpture from the Athenian Acropolis (rev. ed. London 1950) passim. The same can be said for the pediment sculptures from the Apollo temple at Eretria, just to cite another obvious instance of Persian destruction. See Auberson P. and Schefold K., Führer durch Eretria , Bern 1972, p.121. Stewart A., Greek Sculpture I: Text (New Haven 1990), pp. I, 7, 137. II: Plates nos. 236-238. The picture that emerges from the Archaic kouros sculptures found in a pit east of the Poseidon Temple at Cap Sounion is less clear since Ath. Nat. Mus. n. 2720 has lost nearly all of the lefthand half of its face, including its eye, nose and mouth, which could be attributed to either man-made or natural causes. Richter G., Kouroi, Oxford 1942, pp.66-67. pl. X. 26 For a belief among the early Greeks and their descendants that anthropomorphic statues were in some sense imbued with the living spirit of the subjects they portrayed see Stewart, Greek Sculpture, pp. 22, 44-45. This allows the statue to address the viewer in the first person as in the case of the familiar early 7th c. BC Mantiklos dedication from Thebes in

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Herodotus says the Persians have "no images of the gods, no temples nor altars, and consider the use of them a sign of folly. This comes, I believe, from their not believing the gods to have the same nature with men, as the Greeks imagine."27 In point of fact Persian worship of statues in human form does not seem to be introduced until the reign of Artaxerxes II (405/404-359/358 BC.28 While might resolve the question of why the Cyrene sphinx was permitted to survive with a nearly perfectly intact head, it does not help to explain how the kouros and two korai figures came to lose theirs. Turning now to the defacements inflicted on sculptures in later antiquity, here the material evidence is substantially fuller than what has just been reviewed but not necessarily any more straight-forward. To begin with, discussion of many of the pieces catalogued by Paribeni,29 Rosenbaum30 and Huskinson31 which could be argued to display traces of man-made mutilation is often handicapped by a lack of recorded findspots. For purposes of this discussion I shall simply summarize the evidence from the Zeus Temple and the Wadi Bel Gadir Demeter and Persephone sanctuary.32 To simplify matters further, we shall consider only heads33 which display either deliberate breakage, chipping or abrasion to the facial sensory features (eyes, nose and mouth) or wholesale breakage that seems to exceed the hand of nature. Obviously what physically marks one form of damage as "deliberate" and another the result of building collapse or long-term abandonment is subjective. But, given their archaeological and historical backgrounds, it is easier to sustain a verdict of deliberate damage for the sculptures from the Zeus Temple and the Wadi Bel Gadir Sanctuary than it is for sculptures which survive without fixed find-spots. The situation that prevailed in the Demeter and Persephone Sanctuary has received a previous short description34 and is scheduled to be dealt with more thoroughly as part of the pending monograph on the sanctuary's final 250 years of architectural development. Summarizing the former, the sanctuary yielded 264 nearly complete statuettes and major fragments of over 100 more large-scale stone sculptures. Of these none was found still attached to its head with the exception of a seated goddess statuette. Susan Kane has been able to reconnect only a single statuette head to its body. It is our view that the the Boston Museum and the mid 6th century statue of Phrasiklea. See Boardman J., Greek Sculpture, The Archaic Period, New York 1978, pp, 73, 108, pls. 10, 108a. 27 Hdt. I.131, Loeb trans. 28 Briant, “From Cyrus”, pp. 676-677. 29 Paribeni, Catalogo, nn. 28, 41, 53, 54, 85, 86, 87, 94, 100, 183, 187, 206. 30 See for example Rosenbaum E., A Catalogue of Cyrenaica Portrait Sculpture , Oxford 1960, nn, 25, 35, 51, 55, 56, 65. 31 Huskinson J., Roman Sculpture from Cyrenaica in the British Museum, London 1975, pp. 65, 86, 120, 137. 32 For purposes of this paper we have ignored the evidence of ritual purification by fire of the Central Valley temples B (Commodus) and C (Kurana) and the Acropolis Isaeum. See Goodchild R., "The Decline of Cyrene and the Rise of Ptolemais: Two New Inscriptions," QuadArchLibia 4 (1961), pp.83-95. Stucchi, L’Architettura, pp.360, 441. Bonacasa and Ensoli, Cirene, 57 For the probable Christian destruction of Apollonia's extramural Temple of Aphrodite see infra n. 28. A full discussion ideally ought to include Ptolemais, Berenice and Tauchira. 33 This means, among other things, omitting relief sculptures, such as the Extramural Sanctuary of Demeter and Persephone's defaced relief of the twin goddesses, Inv. 74-931, for which see White D., “Statue Breakers and Spirit Exorcists,” Expedition 34, 1-2, 1992, p. 69, fig. 3. If headless sculptures were included, the shattered marble statue of the child Dionysus riding on a goat and colossal hand and digit fragments from the Temple of Aphrodite at Apollonia would be worth examining since the temple seems to have been deliberately razed to its foundations and its cult statue reduced to fragments. See Goodchild R. Pedley J. and White D., Apollonia, the Port of Cyrene. Excavations by the University of Michigan, Tripoli n.d., pp- 42-48. McAleer P., Supplements to Libya Antiqua VI: a Catalogue of Sculpture from Apollonia, Tripoli n.d., pp.14-16, 54-55, nn. 5, 39, 40. 34 White, "Statue Breakers", pp. 75-85.

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sanctuary was badly damaged by the AD 262 earthquake and then experienced some remedial cleanup and squatter occupation before being destroyed for the last time by the AD 365 earthquake. Earthquake damage could certainly account for some of the separation of heads from bodies but not all. It also fails to explain why what heads have been found rarely turn up within rolling distance of the many torsos found throughout the sanctuary. Significantly, 18 or 35% of the 51 heads, two depicting the twin goddesses and the rest human subjects, display signs of what I have just interpreted as deliberate damage (figs. 9, 10). While mere breakage into separate parts could be attributed to earthquakes, it does not explain why we failed to retrieve all of the fragments in the overwhelming majority of cases. On the other hand, damage to specifically the nose, mouth, chin, and eyes while leaving the rest of the head otherwise largely unscathed is a pathology affecting 35 out of the 51 heads (figs. 11-13). Finally, 10 of the 18 heads were excavated from stratified earthquake debris, while 7 turned up in the surface layer. The latter exhibit mainly wholesale breakage which could have been carried out any time down to 1969. But the mutilation of the rest is dated by the site's stratigraphy to the years between AD 262 and the period immediately following the AD 365 quake.36 This leaves the city's early Christian population as the obvious candidates for the perpetrators.37 According to Goodchild and Reynolds,38 the late Antonine version of the Zeus Temple lasted in use until it was wrecked in the AD 365 earthquake. To judge from Pesce's coin evidence,39 some time after that event Christian zealots reduced its Commodan marble and plaster copy of the Pheidian cult statue at Olympia to smithereens. After burning the statue in fires started in the cella, the only parts left to survive were a few bits of fingers, toes, torso, and arms, small scraps of cedar and a few nails from the wooden framework, and some powdery plaster.40 Eight additional statue heads were recovered from the temple debris.41 While Goodchild was unequivocal in attributing their damage to Cyrene's Christian population,42 35

Not seven as previously reported. The current tally includes inv. nn. 69-99, 71-700, 73-1288, 74-94, 73-977, 74-531, 74-1064/74-962, 76-543. All are illustrated in White, supra n. 29, pp. 75, 80-83, except for 73-977 for which see AJA 79 (1975) fig. 28, LA IX-X (1972-1973) pl. CVL, a. 36 White D., "Fresh Reverberations from Cyrene's later antique Earthquakes," Studi miscellanei (Scritti in antichità in memoria di Sandro Stucchi) 29 II (1991-92), pp. 317-325. 37 White, “Statue Breakers”,pp. 84-85. Cf. Robin Fox Lane, Pagans and Christians, New York 1989, p. 672: "From St. Martin in Gaul to the fearsome Shenoute in Egypt, there is a robust history of Christian temple- and statue- breakers." 38 Goodchild, Herington and Reynolds, “The temple”, pp. 34-35, 39-41. Goodchild, above n. 2, 152-153. 39 Pesce, “La documentazione”, pp. 117-119 where 5 legible bronzes of the 4th. c. A.D. are listed. Four date to ca. 308 A.D., 2 between 277 and 300, while another 2 are assigned a late 4th century A.D. date which presumably accounts for Goodchild's Theodosian date. 40 Goodchild, Herington and Reynolds, “The temple”, pp.2, 39-43, 51-55. 41 The following mid to late Antonine heads are in the Cyrene Museum. 1. Olympian Zeus: Paribeni, Catalogo, p.80, n. 187, pl. 108. Pesce p.100, n. 11, pl. I. 2. Athena Parthenos: Paribeni, p.59, n. 124, pl. 77. 3. Antoninus Pius (?): Pesce, p.102, n. 13. Rosenbaum, A Catalogue, p.63, n. 63, pl. XLII, 1-2. 4. Unidentified man: Rosenbaum, p. 64, n. 66, pl. XLIII, 1. 5. Unidentified man's face: Pesce, p.103, n. 15, fig. 9. Rosenbaum, p. 64, n. 67, pl. XLII, 3. 6. Unidentified woman: Rosenbaum, p. 67, n. 77, pl. L, 3. Two heads are in the British Museum. 7. Lower half of woman's head: Huskinson,Roman Sculpture, p.71, n. 137, pl. 53. 8. Marcus Aurelius (?): Rosenbaum,p. 63, n. 64, pl. XLIII, 1-2. 42 Goodchild, Kyrene, pp.40-41. Goodchild R:, Cyrene and Apollonia, An Historical Guide (Libya 1963): "the Christian population wrecked everything that remained visible. The statues and marble columns were chopped up, and the whole interior of the building was burned out. Smith and Porcher, the temple's first excavators, said that the "temple had been wantonly destroyed by the hand of man." Smith R.M.and Porcher E.A., History of the Recent Discoveries at Cyrene, London 1864, p. 71.

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the Italian authorities have remained more circumspect in assigning responsibility.43 The fact that all 8 have post-Trajanic dates is at least an indication that they cannot reflect Jewish handiwork. Two represent deities (Zeus and Athena),44 the rest human subjects, possibly including the emperor. The extent to which their facial damage mirrors the condition of the Wadi Bel Gadir sanctuary heads is, I believe, self-evident. In the case of several heads from both assemblages large chunks of face, often including one or more of the eyes, nose, and mouth, were broken away and not recovered, which presumably means that the missing parts were further reduced to chips or powder.45 In other cases where vestiges of eyes and mouths are preserved, they have been gouged or abraded, rendering them useless as organs of sight, speech and taste. Chins and noses are often broken off. On the other hand, when the side and back views of the same heads have been preserved, many have been left largely unscathed, in noticeable contrast to the treatment to their faces. Space prevents exploring why so many of the heads chosen for disfigurement from both the temple and from the Wadi Bel Gadir Sanctuary portray private individuals rather than deities and whether or not in the schism-ridden climate of the day their selection could reflect a calculated attack by one local faction on the deceased pagan relatives of their contemporary rival Christian adversaries.46 In any case, it is not difficult to find instances in later antiquity where malevolent spirits inhabiting pagan statues were driven away by physically attacking their physical hosts, the actual statues.47 To judge from the physical evidence at Cyrene this act of exorcism required the further step of blotting out the facial features, especially the eyes, the traditional "mirror of the soul".48 With the mirror shattered, the demon was stripped of its sentience and, with that, its ability to harm. Despite the fact that the Persians were either ignorant of or simply chose to ignore the Greek attitude toward statue worship, there can be little doubt that their strategy of graduated reprisal presaged the iconoclasm that spread through the region in later antiquity. Perhaps the only real difference is that the Persians failed to stay on as a permanent occupying force, which effectively limited their damage to the single small site. 43

Bonacasa and Ensoli Cirene p.142 would attribute the breakup of the Commodan cult image and the building's columns to human agency but stop short of including the six smaller-scale statues. For the Italians' divergent view for when this all took place, see above ns. 3, 39. 44 See n. 41. 45 The Zeus Temple's now partly lost later Antonine head of a man, Rosenbaum, A Catalogue, n. 63, was exceptional in that, while reduced to numerous very small fragments, it could be almost completely pieced back together. 46 While perhaps not unreasonable as a theory, it is at present incapable of proof. As with the old conundrum over whether dual contemporary churches found in the same locale (e.g. Al Atrun) could have serviced rival sects, any definitive answer must await the results of future fieldwork. Nevertheless, the lack of comparable facial damage in the case of the overwhelming majority of Beschi's series of busts and half-figures of female funereal divinities provided with complete faces corroborates the idea that the iconoclastic treatment of the private portraits from the Zeus Temple and the Wadi Bel Gadir Sanctuary, presumably rendered identifiable by their base inscriptions, was carried out at least in part as ad-hominem attacks on specific families. The anonymous representations of the funeral goddesses lay exposed in their cemetery settings until virtually to the present and yet survive for the most part largely intact. See Beschi L., "Divinità funerarie cirenaiche,"ASAtene XLVII-XLVIII (1972), pp.133-341. For Christian heresy throughout Cyrenaica and the Marmarica see Reynolds Christian Monuments, p.453 for indexed ref, esp. pp. 5, 6 and 16. And Roques, Synésios p.485 (for indexed ref. to "Arianisme, Ariens", p.486 for "Sabellianisme"). 47 White, “Statue breakers”, pp.84-85. 48 For the Christians' fear that pagan statues could see and therefore harm them, see Mango C., "Antique Statuary and the Byzantine Beholder," Dumbarton Oaks Papers 17 (1963) p.56, quoting Marcus Diaconus,Vita Porphyrii (ed. Grégoire and Kugener, Paris 1930) p. 47 ff.

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Given the regrettable frequency with which events of this kind have reoccurred throughout the whole of recorded history, perhaps we can do no better than to give the last word in this brief discussion to Pliny the Younger and to leave it to him to explain what underlies its nearly universal abiding appeal. “It was our delight to dash that proud face to the ground, to smite them [the gold statues of Domitian] with the sword and to savage them with the axe, as if blood and agony would follow from every blow...All sought a kind of vengeance in beholding these bodies, mutilated limbs hacked to pieces, and finally that baleful, tiresome visage cast into fire, to be melted down” (Panygiricus 52).

Fig. 1 Site of the Cyrene extramural sanctuary favissa in the summer of 1966 before its scheduled refill, with G.R.H. Wright, J.G. Pedley and unidentified bystander (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White).

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Fig. 2 Plan by R.G. Goodchild of the Cyrene extramural sanctuary [from Libya Antiqua III-IV (19661967) 182, fig. 2].

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Fig. 3 Computer-generated drawing by D. Rusanoff of the Cyrene columnar sphinx monument based on previous drawings by R.G.H. Wright and the photos in N. Bonacasa and S. Ensoli, Cirene (Milan 2000) 188.

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Fig. 4 Nearly intact bronze gorgoneion tondo; diameter not including projecting rods 0.53 m. (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White).

Fig. 5 Fragmentary, ca. 0.55 m. high bronze plaque with two wrestlers, perhaps Heracles and Antaeus. A computer-generated photo composed of two separate images (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White), the lower land-hand fragment is based on a lost slide; its position is only approximate.

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Fig. 6 Ca. 0.38 m. long bronze sheet with curved repoussé decoration, not previously illustrated (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White).

Fig. 7 Two of the nine lead swallow-tail clamps recovered and not previously illustrated. Ca. 0.195 m. long (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White).

Fig. 8 Fragment of the second bronze gorgoneion tondo not previously illustrated (University of Michigan Expedition to Apollonia, photographer D. White).

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Fig. 9 Lifesize marble head of a man of JulioClaudian period (Inv. 71-145) apparently deliberating split in half (University of Michigan Expedition to Cyrene, photographer J. Schott).

Fig. 10 Lifesize marble head of man with moustache and muttonchops beard (Inv. 71-700), first half of the second century A.D. Eyes gouged out, nose broken away, and lips chipped (University of Michigan Expedition to Cyrene, photographer J. Schott).

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Fig. 11 Marble head of large female statuette (Inv. 74-531), Hellenistic-Roman in date. Patch of forehead, eyebrows and right pupil, nose, mouth and chin scrubbed away in single, uninterrupted swathe (University of Pennsylvania Expedition to Cyrene, photographer N. Merrick)

Fig. 12 Slightly over-lifesize marble head of woman (Inv. 76-543), ca. A.D. 150. The eyes have been gouged out; lower right-hand side of face, including nose, mouth and most of chin, are broken away (University of Pennsylvania Expedition to Cyrene, photographer J. Smith). Fig. 13 Intact back of fig. 12. Both profile views are unscarred except for broken-away lower right-hand corner (University of Pennsylvania Expedition to Cyrene, photographer J. Smith.

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16 Bronze Plaques from the Archaic Favissa at Cyrene Susan Kane As Donald White has reported in his paper ‘Foreign Schrecklichkeit and Homegrown Iconoclasm: Two Faces of Communal Violence at Cyrene’ published in these proceedings, a sacred dump or favissa was discovered in 19661 at Cyrene while digging foundations for houses in new Shahat (White, figs. 1, 2)2. The Department of Antiquities oversaw a hurried rescue operation in 1966 and again briefly in 1968. A preliminary report was made by Richard Goodchild, Donald White, and John Pedley and published in Libya Antiqua. This favissa contained three marble statues—two korai, a kouros—and a monumental sphinx with its column and capital, all Archaic works dating to the sixth century B.C.. The favissa also contained a cache of bronze sheeting and decorated plaques (fig. 1 and TAV.VII) as Richard Goodchild described in the preliminary report: Between the Ionic capital and the western limit of the excavation the bedrock formed a level layer 1.30 m. below the surface, and immediately on top of it were found large numbers of rectangular bronze sheets, most of them pierced with nail-holes. There was also a number of lead building clamps, of swallow-tail shape, and some long and narrow strips of lead which appear to have been cut from thick lead sheeting. All these objects lay beneath the dumped building-blocks. At the same depth of 1.30 m. were found two remarkable bronze plaques with embossed decoration. The first is the more fragmentary, and depicts two wrestlers. The second, complete, is a Gorgoneion. In 1968, additional digging in the area turned up the head of the sphinx, together with fragments of a second bronze Gorgoneion, similar in size and type to the first. While the number and weight of the bronze sheeting was not recorded, Donald White estimated the total amount, in aggregate, weighed about 200 kilos.3 The preliminary report 1

Goodchild, R., Pedley, J., White, D., “Recent Discoveries of Archaic Sculptures at Cyrene”, pp. 181-183; Pedley, J. And White, D., “The Archaic Favissa at Cyrene”, AJA 75 1971, p.39. 2 All photographs and drawings used in this article are taken from Donald White’s personal files or reproduce with permission from the archives of the Expedition to Apollonia, now housed in the Kelsey Museum of Archaeology at the University of Michigan, Ann Arbour, Michigan. 3 Personal communication and also White, ‘Foreign Schrecklichkeit and Homegrown Iconoclasm: Two Faces of Communal Violence at Cyrene’

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briefly discussed the two decorated plaques found in 1966—a more detailed study was planned for the bronze sheeting, repoussé plaques and tondi, building clamps, and lead strips. In July 1976, the late Kyle Phillips made a visit to Cyrene to begin the study of this material. However, he was not able to prepare a final report. His drawings and notes were provided to the author by Donald White and are the basis of this article. A publication of these fragments is long overdue. Due to the inherently fragile nature of the bronze, many of the sheets have now crumbled to dust and even disappeared—a process that sadly began shortly after their discovery. As Donald White has remarked: Their permanent loss would be tragic because in some ways they make up the rarest and potentially most significant of all of the deposit finds, belonging, as they seemingly do, to the exterior revetments of an Archaic ‘brazen house’. 4 The ‘brazen house’ is a type of building mentioned by ancient Greek authors but only confirmed in the material record by a few rare instances of which the bronze plaques from the favissa at Cyrene appear to be the best preserved example. Pausanias provides the most famous reference to such a ‘brazen house’, where he describes the sanctuary of Athena Chalkioikos (‘She of the Brazen House’) in Sparta (Book 3.17.3-5). Pausanias’ description seems confirmed by the discovery of other bronze plaques with a likely architectural purpose found in Athena’s Spartan sanctuary in 1907. Their unearthing was reported by Guy Dickins and sounds similar to the discovery of the cache at Cyrene: … we discovered a large number of bronze plates, mostly in the last stages of decay, and a great quantity of heavy bronze nails, some still in position through the plates, which seem to prove that bronze plates were applied to the walls of the shrine. None of these shew traces of relief, but doubtless the sculptured pieces only covered a portion of the whole surface, and would be the first to attract the eye of the spoiler.5 There has been much discussion by scholars, too detailed to go into in this short article, on the origins of Greek architecture and how early forms in metal, wood, and terracotta could have developed.6 Many scholars agree there is a real possibility that metal revetment could have been used on buildings, as ancient authors describe, but little material evidence has been preserved to support the written descriptions. The bronze sheeting from Cyrene is important material evidence for this theoretical discussion.

4

White, ‘Foreign Schrecklichkeit and Homegrown Iconoclasm: Two Faces of Communal Violence at Cyrene” 5 Dickins, G., ‘Laconia. Excavations at Sparta, 1907: the Hieron of Athena Chalkioikos’, BSA 13, 1906-1907, pp. 139-140; Lamb, W., ‘Excavations at Sparta, 1906-1910’, BSA 28, 1926-1927, pp. 96 ff.; Woodward, A., ‘Excavations at Sparta, 1924-1925’, BSA 26, 1923-1924, 1924-1925, pp. 266-269. 6 Verzone, P., ‘Il Bronzo nella Genesi del Tempio Greco’, in Mylonas, G., ed., Studies Presented to David Moore Robinson, v. 1, Saint Louis, MO 1951, pp. 272-294; Winter, N., Greek Architectural Terracottas, Oxford 1993; Ridgway, B., ‘Notes on the Development of the Greek Frieze’, Hesperia 35, 1966, pp. 188-204.

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Two decorated plaques—the wrestlers and the first Gorgoneion—were published by Donald White in the preliminary report (White, fig. 5 and TAV.VII).7 White reported that five fragments survived of the wrestler plaque and images showing varying combinations of these fragments have been published. The addition of the second wrestler’s head to the plaque (compare fig. 2a, the Libya Antiqua pl. LXXII a to fig. 2b, a slide in White’s personal collection) may be evidence of restoration work undertaken in 1966.8 Other related, but non-joining, fragments likely also belong to the plaque (fig. 3). Where, for example, did the fragment with a bent foot and lower leg fit into the whole composition? Was the smaller fragment (showing part of a rope-like or snaky object and of similar style and thickness) also part of this plaque? The plaque was worked in repoussé; its maximum thickness was about 3 cm. Nail holes along the side of its two surviving edges (such as those seen on the undecorated plaques) indicate that it was made for attachment to a second surface, presumably wood. White speculated that the original plaque could have measured about 0.50 m square, but said that any definitive measurements were dependent on the final consolidation of the plaque’s fragments. The plaque shows two male wrestlers locked together in typically Archaic Greek composition. It could have been used to decorate a building in several ways —as a metope or a frieze plaque or even a ridge pole end cover—and may be compared to other Archaic Greek bronze plaques, such as those found in Olympia.9 The most remarkable discovery in the cache was a bronze tondo of a Gorgoneion (White, fig. 4 and TAV.VII).10 Again worked in repoussé, the tondo has a maximum preserved diameter of 0.53 m. The centrally placed gorgon’s head is surrounded by a convex moulding and a flat circular band about ca. 4-5 cm wide. Three solid bronze rods, each ca. 0.14 m long and marked by a short cross bar toward their ends are attached to the edge of the tondo. White observed that the rods are separated by intervals of roughly one-eighth the circumference, so there may have originally been eight in all placed evenly around the tondo’s diameter. Fragments of another repoussé tondo of similar size with a gorgon’s head were found in 1968 (White, fig. 8). The edge of the outer band on this tondo shows traces of a jagged, toothed or ‘dentate’ decoration, very similar in form to the decorated edges seen on Archaic terracotta disc akroteria. 7

Goodchild, R., Pedley, J., White, D., ‘Recent Discoveries of Archaic Sculptures at Cyrene’, pp. 196-197, pl. LXXIIa; Ridgway, B., The Archaic Style in Greek Sculpture, Princeton 1977, pp. 217, 229, 256. 8 White noted the fragility of their condition and remarked how any final study must wait until after they were treated by a professional conservator. According to White’s report, Professor Majewski of New York University was able to visit Cyrene in the autumn of 1966 in order to conserve the fragments. However, an inquiry by the author revealed that no records of his visit appear to exist in either the New York University archives or in the personal archives of Professor Majewski’s estate, so there are no records of what was actually done. 9 Compare the plaque of mid 7th century B.C. date depicting Caeneus being attacked by centaurs illustrated in Schefold, K., Myth and Legend in Early Greek Art, New York, 1966, fig. 27c. 10 Goodchild, R., Pedley, J., White, D., ‘Recent Discoveries of Archaic Sculptures at Cyrene’, pp. 196-197, pl. LXXIIb; Bonacasa, N. and Ensoli, S., Cyrene, Milano 2000, pp. 187 –188.

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The function of these tondos is uncertain, but the nails and rods on the complete tondo suggest that they were meant to be attached to something else. One immediately thinks of the Archaic disc akroteria that adorned the peak of the roof11or were pinned inside the apex of the pediment or used to decorate the end of the ridge pole beam.12 Disc akroteria were especially popular decorations on buildings in the Peloponnesos in the Archaic period; they could be of very large dimensions (many were ca. 2-2.5 m in diameter). The Gorgoneion from Cyrene is only about a half meter in diameter and would have belonged to a smaller building. It has a close and important parallel in a bronze Gorgoneion that was found in Sparta. The Lakonian Gorgon has a preserved diameter of 0.37 m and is also of 6th century B.C. date.13 Other scholars have noted that the Cyrenaican Gorgoneion shares stylistic parallels with other Gorgons depicted on Lakonian ceramics. Another parallel is a large bronze disc, decorated with a Gorgon with a preserved diameter of 0.77 m, that was found on the Athenian Acropolis and is believed to be an akroterion from a late Geometric temple.14 In addition to the two decorated plaques, a number of bronze sheets were found in the favissa. These were mainly undecorated, but three examples preserve evidence of some form of decoration. One is a bronze sheet worked in repoussé and decorated with an unusual wave-like pattern. This sheet was uncatalogued by Kyle Phillips, but a drawing of it by him survives; it has a maximum preserved length of ca. 0.38 m (White, fig. 6). Two other sheets have edges decorated with a scallop design (cat. nos. 8 and 18). (fig. 4) One sheet (cat. no. 8) preserves its complete profile. Three nails remain in place at one edge and there is evidence of nail holes in other areas. Could these scalloped pieces have been used to form a decorative edge on the building? The majority of the sheeting found in the favissa appears to have been undecorated. In his notes, Phillips catalogued 20 sheets and 9 lead swallow-tail building clamps (White fig. 7).15 It is not known how many other sheets were originally found.16 11 Compare the roofing system of the mid 7th century B.C. Temple of Artemis Orthia, Sparta in N. Winter, Greek Architectural Terracottas, Oxford 1993, p. 99, fig. 11. 12 Compare the Gorgoneion from Temple C at Selinus illustrated in a drawing in A. Lawrence, Greek Architecture, Baltimore, MD, 2nd ed., 1967, p.124, fig. 68; or a terracotta plaque, also from Syrakuse illustrated in K. Schefold, Myth and Legend in Early Greek Art, New York, 1966, pl. II, p. 55. 13 Woodward, A., ‘Excavations at Sparta, 1924-1925’, BSA 26, 1923-1924, 1924-1925, pp. 266-268, pl. 21. 14 Touloupa, E., ‘Une Gorgone en Bronze de l’Acropole’, BCH XCII, 1969, pp. 862-884, figs. 1, 4, 5, 6. 15 Claudio Parisi Presicce in a personal communication remarked that the size and shape of these swallow-tail clamps were similar to clamps found at the Temple of Zeus in Cyrene. 16 Twenty fragments do not constitute the aggregate 200 kilo weight that White estimated; Professor Fabbricotti of the Italian Mission to Cyrene reports that other fragments not mentioined in Kyle Phillips’ notes exist in the museum storerooms at Cyrene and are in the process of being catalogued by her Mission.

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Unfortunately, Phillips provides no general comments about the plaques and their condition nor any information on the long, narrow lead strips also found in the cache. Many of the bronze sheets Phillips describes in his notes are fragmentary and often bent out of shape or otherwise badly damaged. (see catalog at end of this paper). All are pierced with nail holes—often on all four edges and sometimes across the middle—and may have attachment nails still in place. Some sheets are nailed to others or show evidence of once being attached—bits of sheeting still cling to the nails piercing some sheets. Evidence for overlapping can be seen on many edges of the sheets. All sheets show signs of being used in co-ordination with others and of being nailed to something else, probably a wooden structure. They appear to be part of a system to cover a building’s roof and/or sides. There are two cover tiles with semi-circular profiles, attachment flanges, and traces of nail holes along their edges (cat. nos. 1 and 19) (fig. 5). Two sets of sheeting may be part of sheathing for the tympanum of the building’s pediment (cat. nos. 7 and 10). One (cat. no. 10) is made up of two fragments (fig. 6). Phillips observed that the pieces seem to have been cut larger than the opening and then pushed back into the tympanum so that the metal curves outward, covering joints. Nail holes pierce the metal on the side towards which the sides curve. Phillips made a measured drawing of these pieces and believed that the length and height of the tympanum might be calculated from it. Another sheet (cat. no.7) is of a similar shape and angle to cat. no. 10 (fig. 7). This sheet has a row of irregularly spaced nail holes along its top, bottom, and right edges as well as another row of holes also across its center, all signs that it was attached to others. There are other examples of sheets nailed together in various overlapping arrangements, mainly to create horizontal sheathing (cat. nos. 3, 11, 17) (figs. 8 and 9). Phillips believed that one sheet (cat. no. 9) was used as an undersheet with other sheets nailed on top of it. One sheet (cat. no. 20), while badly crumpled, appears to have been disc-shaped and could have been part of an antefix or another disc akroterion (fig. 10). There is no apparent consistency in size among the preserved sheets—this is primarily due to their fragmentary nature. Width appears to be slightly more constant than length (generally, width is in the mid 20 cm range, as opposed to lengths anywhere from 0.50 – 1.20 m). Thickness can vary from 0.01 to 0.05 cm. As mentioned previously, the structure to which they were attached could not have been of very large size, given the dimensions of these sheets as well as the diameter of the Gorgoneion. It is regrettable that more information on the building blocks and other debris found with the bronzes has not been preserved—this information might have provided clues to the size and nature of the structure. As noted at the beginning of the paper, examples of Archaic Greek ‘brazen houses’ are mainly known from literary evidence. Of the two examples of actual bronze architectural revetment known to the author, the bronze plaques from the Sanctuary of Athena Chalkioikos at Sparta were too damaged to recover during excavation and the bronze

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plaques from Cyrene, while originally recovered in a better state, have suffered from long storage and a fragmentary documentation that now makes it difficult to reconstruct their original building. What could that building have looked liked? One intriguing example of how a building might look sheathed in bronze is suggested by a set of bronze plaques, of Italian origin and Geometric date, now in the British Museum in London.17 These plaques may have been used as revetment over a wooden model since they appear to represent the sides and façade of a temple topped by a disc akroterion. While it is not clear where the Archaic Greek tradition of sheathing a wooden structure in bronze originated, Cyrene’s building may have been inspired by a Spartan tradition. The colony of Cyrene had close ties with its mother-city Sparta, especially during its early history—perhaps the bronze sheathing system found in Cyrene was imported directly from Lakonia and similar to the one found at the Sanctuary of Athena Chalkioikos in Sparta. In all events, the discovery of this cache is rare and wonderful evidence of a Greek ‘brazen house’ and a testament to the rich culture of Archaic Cyrene. Catalog of bronze sheets based on Kyle Phillips notes Abbreviations: KP = Kyle Phillips; UMEA neg. no. = University of Michigan Expedition to Apollonia negative number; DW = Donald White Cat. no. 1 - Cover tile (KP sketch of profile; UMEA neg. no. P68-103) (fig. 5) Curved bronze tile with flanges on both long sides (flange W: 0.014 m). Nails, two preserved, were used to attach tiles. Five nail holes preserved on left side. Compare to cat no. 19. Dimensions: Pres L: 0.4m; W. at upper edge: 0.245m; W. at 0.47m from upper edge: 0.271 m; Height of curve at upper edge: 0.031m; Th of bronze: 0.005 m. Cat. no. 2 – Rectangular sheet (KP sketch and UMEA neg. no. P 68-106) Long, rectangular bronze sheet, badly bent out of shape. Along one long edge, a series of bronze nails, five of which remain, were placed one from another at intervals of 0.05 to 0.06 m. The nail holes are about 0.015 m from the edge of the sheet. The second long edge has six other nail holes. The short left edge seems to have no nail holes, while the right short edge has two nail holes preserved at about 0.02 m from edge. Dimensions: L: 1.20 m; W: 0.22 m; Th: 0.002 to 0.003 m Cat. no. 3 - Two overlapping, fragmentary rectangular sheets (KP sketch and UMEA neg. no. P68-108) (fig. 9) Two fragmentary bronze rectangular sheets, overlapping on their long sides to form a horizontal sheathing. The top preserves its entire length of 0.033 m in length and of this length 0.024 m would have been imbedded in the wooden frame of the building. The nails joining the pieces are preserved on the exterior: five irregularly spaced nail holes at upper edge. Compare to cat.nos. 11 and 17. Dimensions: MPL: 0.73 m; MPW: 0.394 m; Th: 0.002 – 0.005 m Cat. no. 4 – Rectangular sheet (KP sketch and UMEA neg. no. P 68-111) Rectangular bronze sheet with nail holes along its edges. 17

Touloupa, E., ‘Une Gorgone en Bronze de l’Acropole’, fig. 8.

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Dimensions: Pres. L: 0.645 m; Pres. W: 0.255 m; Th. at l. edge varies from 0.002 – 0.006 Cat. no. 5 – Rectangular sheet (KP sketch and UMEA neg. no. P 68-112) Wider rectangular bronze sheet with attached smaller rectangular patch or hinge. Dimensions: MPL: 0.040 m; MPW: 0.020 m Cat. no. 6 – Rectangular sheet (UMEA neg.no. P68-113) A second type of rectangular bronze sheet; generally thinner, and of a shorter length, but greater width. One side is folded over. Irregularly spaced nail holes on two long and short sides: six on right side from 0.020 to 0.030 from edge; four preserved on top edge, from 0.035 to 0.045 from edge; five on bottom edge. Dimensions: L: 0.715 m; W: 0.30 m; Th: almost 0.001 m. Cat. no. 7 – Rectangular sheet - pedimental sheathing? (KP sketch and scale drawing; UMEA neg.no. P 68-115) (fig. 7) Longer rectangular bronze sheet cut at diagonal on one short end; possible pediment sheathing. There are rows of irregularly spaced nail holes at the top, bottom, and right edges; a row also cuts across the center of the sheet. On the top and right edges, there are indications that other sheets once overlapped this one. Compare to cat. no. 10. Dimensions: Pres. L: 0.74m; W: 0.30 m; Th: about 0.001 Cat. no. 8 – Scalloped edging (KP sketch; UMEA neg. no. P 68-118) (fig. 4) Long thin bronze strip with scalloped decoration along its longer edge. A complete profile is preserved; the strip has a flat-edged attachment flange with nails along its edge. Three nails are preserved (L 0.027; L: 0.041 and Dia: 0.056 m; L: 0.030). Spacing of nail heads from one another is: 0.085 - 0.090 m. The distance between two of the nail holes is the same as the distance between two of nail holes in the central row on cat. no. 7. Compare to cat. no. 18. Dimensions: Pres. L: 0.54 m. Cat. no. 9 – Rectangular sheet (DW slide) This bronze sheet is wider than many of the others. It may have been used as an under sheet, attached to the structure, with other sheets covering it. Traces of other sheets that overlapped it by about 0.02 m are preserved on its left, top and bottom edges. Dimensions: Pres. L: 0.46 m; W: 0.265 m Cat. no. 10 – Two fragmentary joined rectangular sheets – pedimental sheathing? (KP sketch and scaledrawing; UMEA neg.no. P 68-123) (fig. 6) Fragments of two bronze sheets joined together, possibly sheathing for a pediment. The pieces seem to have been cut larger than opening and then pushed back into tympanum so that the metal curves outward covering joints. Nail holes pierce metal on side towards which sides curve. Compare to cat. no. 7. Dimensions: MPL: 0.760 m; MPW: 0.030 m Cat. no. 11 – Overlapping rectangular sheets (UMEA neg. no. P 68-125) (fig. 8) Two thin rectangular sheets joined together on one short end to form an overlapping siding for the structure. Nail holes on all sides. Compare to cat.nos. 3 and 17. Dimensions: MPL. 1.034; W right sheet: 0.21; W left sheet: 0.235; Th. 0.002 m Cat. no. 12 – Rectangular sheet (UMEA neg.no. P 68-127; 2 DW slides) Long rectangular bronze sheet with nail holes on all four sides. Dimensions: L: 0.774 m; W: 0.285 m; Th.: 0.001 m Cat. no. 13 – Rectangular sheet (UMEA neg. no. P 68-128)

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Long rectangular bronze sheet with nail holes on all four sides. Dimensions: L: 0.852 m; W: 0.255 m; Th: 0.001 m Cat. no. 14 – Rectangular sheet (UMEA neg. no. P 68-129; DW slide) Long rectangular bronze sheet of somewhat irregular shape. Nail holes on all four sides. Dimensions: L: 0.65; W: 0.265 - 0.23 m; Th: 0.001 - 0.002 m Cat. no. 15 – Rectangular sheet (UMEA neg. no. P 68-130) Long rectangular bronze sheet with nail holes on all four sides. Dimensions: L: 1.245; W: 0.222 - 0.227; Th: 0.002 Cat. no. 16 – Rectangular sheet (UMEA neg. no. P 68-131) Rectangular bronze sheet with nail holes on all four sides. Dimensions: L: 0.818; W: 0.313; Th: 0.001 Cat. no. 17 – Rectangular sheet (UMEA neg. no. P 68-132) (fig. 8) Two rectangular bronze sheets nailed together on long sides to form horizontal sheathing for a structure. Compare to cat.nos. 3 and 11. Dimensions: Total Pre. L: 0.84 m; Total Pre. W: 0.39; W. top sheet: 0.225; W. bottom sheet: 0.185 Cat. no. 18 – Scalloped edging (UMEA neg. nos. P68-133 and P67-386) (fig. 4) Long thin bronze strip decorated with a scalloped edging. Compare to cat. no. 8. Dimensions: Max Pre L: 0.79 m Cat. no. 19 – Cover tile (KP sketch; UMEA neg. no. P 68-135; DW slide) (fig. 5) Bronze cover tile, preserving attachment flange on two longer sides. Compare to cat. no.1.Dimensions: Max Pre. L: 0.425; W. 0.23; Max H of curve: 0.038m; Th: 0.002m Cat. no. 20 – Semicircular disk (KP sketch; UMEA neg. no. P 68-136; DW slide) (fig. 10) Disk shaped bronze fragment, badly crushed with some nails still attached. Nail holes on all sides. Dimensions: estimated Dia. Base: 0.28; MPDia. base: 0.265; H: 0.175 m Cat. no. 21 – Lead clamps (KP sketch; UMEA neg. no. P 68-102 – clamp #2) (White, fig. 7) Nine lead swallow-tail clamps of similar size and style. Dimensions: L: 0.173- 0.196 m; MaxPW: 0.075 – 0.095 m; MinPW: 0.030 – 0.035 m; Th: 0.003 to 0.0035.

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Fig. 1 Cache of bronze sheets in situ, 1966 (UMEA neg. no. B 762)

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Fig. 2 Comparative images of two wrestlers (fig. 2 a: UMEA neg. no. P66-Y-2701; fig. 2 b: D. White slide)

Fig. 3 Two non-joining fragments to wrestlers plaque? (legs: UMEA neg. no. P66-Y-2701; small fragment: UMEA neg. no. P66-309; DW slide).

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Fig. 4. Bronze scalloped edging (cat. nos. 8 and 18) (cat. no. 8: UMEA neg. no. P68-118; cat. no. 18: UMEA neg. nos. P68-133 and P67-386).

Fig. 5. Cover tiles (cat. nos. 1 and 19) (cat. no. 1: UMEA neg. no. P68-103; cat. no. 19: UMEA neg. no. P68-135)

Fig. 6. Pedimental sheathing? (cat. no. 10) (UMEA neg. no. P68-123; Kyle Phillips’ drawing)

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Fig. 7. Pedimental sheathing? (cat. no. 7) (UMEA neg. no. P68-115; Kyle Phillips’ drawing)

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Fig. 9. Overlapping sheathing (cat. no. 3) (UMEA neg. no. P68-108; Kyle Phillips’ drawing)

Fig. 8. Overlapping sheeting (cat. nos. 11 and 17) (cat. no. 11: UMEA neg. no. P68-125; cat. no. 17: UMEA neg. no. P68-132)

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Fig. 10. Disc-shaped sheet (cat. no. 20) (UMEA neg. no. P68-136)

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E. Fabbricotti

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Ancora sulle lastre bronzee. Intervento di approfondimento Emanuela Fabbricotti Riprendendo l'argomento trattato sia dal Prof.Donald White che dalla Prof.ssa Susan Kane, circa le lastre di bronzo (per foto a colori Tav VII) trovate nella favissa arcaica, che dovevano ricoprire un tempio come nel caso dell'Athena Chalkioikos situato sull'acropoli di Sparta descritto da Pausania (III, 17) e di cui restano solo le fondamenta, volevo sottolineare come questo monumento sia certamente il più importante della Cirene arcaica. Le lastre (figs 1-6 e Tav. VII per foto a colori), trovate dall'équipe di Goodchild nel 1963, furono in un primo tempo portate a Casa Parisi dove nella stanza centrale vi erano gli (allora) ultimi ritrovamenti scultorei (Muse, Ganimede, etc.), quelli cioè rinvenuti dopo la guerra. In quel momento le lastre, sebbene in gran parte frammentarie, erano però ben visibili e leggibili. Poi furono spostate nel magazzino, oggi divenuto Padiglione delle Sculture e lì avevamo notato un certo deterioramento. Certamente gli spostamenti non hanno giovato alla loro fragilità. Dato che a noi, dell'Università di Chieti, era stato affidato il riordinamento del c.d. Museo e dato che non potevamo affrontare il restauro delle lastre che deve esser fatto in un adeguato Laboratorio di Restauro come quello che aveva la Missione Americana del prof.White, e dato anche che è stata richiesta una certa premura nello spostamento delle opere da non esporre, mi sono posta il problema di queste lastre (che confesso, mi stanno molto a cuore) che certamente avrebbero ulteriormente sofferto per il nuovo trasloco. Così, non potendo fare altro, ho pensato di far disegnare tutte quelle in migliori condizioni, tralasciando purtroppo i numerosi frammenti, anche piccolissimi, conservati alla rinfusa in varie cassette. La dott.ssa Annarosa Santarelli ha così disegnato in scala 1:1 due Gorgoneia e la lastra dei lottatori (figs 3-5); gli altri miei collaboratori tutte le lastre lisce (che sono numerosissime, come si evince dalle foto nella Tav. VII) o con piccolissimi dettagli, segnalando i fori dei chiodi che le univano, nella speranza anche di trovare almeno una delle dimensioni del tempietto, cosa che non è stata possibile. Presento in questa sede le più notevoli, nella speranza che la Missione Americana di nuovo al lavoro a Cirene, possa servirsene per il restauro definitivo e metto a sua disposizione i disegni dei pezzi meno importanti che abbiamo nell'archivio del nostro Dipartimento. Non so in quale magazzino siano oggi questi reperti. Noi siamo riusciti a ripulire il più completo Gorgoneion e lo abbiamo sistemato con cura in una scatola particolare. Le due Gorgoni erano certamente degli acroteri, perché provviste di raggiere contro gli uccelli. Erano probabilmente quelli al culmine del tetto a doppio spiovente. Se fossero

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E. Fabbricotti

laterali, allora il tempio dovrebbe essere più grande di quanto supposto, perché hanno un diametro di circa cm.80 (senza contare le estremità dei raggi che non sono conservate del tutto). I due Gorgoneia, sebbene di simili dimensioni, non sono uguali e quello incompleto sembra un lavoro più raffinato ed elegante, mentre l'altro è molto simile ad un acroterio in terracotta proveniente da Sparta. Esiste poi una terza Gorgone, più piccola, che non abbiamo fatto in tempo a disegnare e che sembra di lamina più sottile ed è probabilmente parte della decorazione frontonale. La lastra con i lottatori ha il bordo superiore originale e non è dritto, ma leggermente obliquo. Quindi non è una metopa e potrebbe essere la parte decorata di un frontone. Si notano i fori per le borchiette su tre lati, l'inferiore, il destro e il superiore. Questa lastra è quella che ha subito un maggior deterioramento, se la si confronta con le fotografie fatte al momento dello scavo. Delle lastre parietali, per la maggior parte non decorate, alcune hanno il bordo inferiore senza fori per i chiodi e sono, credo, da considerare come le più basse. Sono anche leggermente più spesse delle altre. Sembra che il tempio Chalkioikos di Cirene non fosse decorato come quello spartano di cui Pausania ricorda il suo artista Giziada. In quel caso le scene rappresentate erano molte e forse dovevano coprire quasi interamente le pareti esterne del tempio, o per lo meno la loro parte superiore. Tra queste varie imprese di Eracle e una potrebbe essere rappresentata nella scena cirenea dei lottatori. La maggior parte delle rimanenti lastre non sono decorate ed hanno tra loro uguale misura, mentre quella con i "lottatori" è anomala ed alta quasi il doppio delle altre. Volevo semplicemente rendere noto agli studiosi che questo monumento mi è stato sempre molto a cuore e mi rincresce non aver potuto fare di più per la sua salvaguardia. Ringrazio la dott.ssa Santarelli che si è affrettata a lucidare i suoi disegni per essere pubblicati in questa sede, sperando che possano servire a chi, più fortunato di noi, riuscirà a portare a termine l'opera di restauro, restituendo così a Cirene il monumento più importante della sua età arcaica, ma anche l'unico esempio esistente, anche se frammentario di un edificio ricoperto di bronzo.

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Fig. 1

E. Fabbricotti

Acroterio in bronzo con la Gorgone.

Fig. 2 Frammento secondo acroterio Gorgone.

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di con

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3-5

Fig. 6

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Frammenti di lastre bronzee con lottatori.

Lastra frammentaria con spirale, probabilmente relativa ai frammenti precedenti.

E. Fabbricotti

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J. J. Maffre

18 Céramique grecque de la nécropole occidentale d'Apollonia Jean-Jacques Maffre Ce congrès international d'études sur la Cyrénaïque si remarquablement organisé par l'Université de Chieti1 sera pour moi l'occasion de faire le point sur un lot important de céramique grecque mis au jour en 2000 dans la nécropole occidentale d'Apollonia. En effet, d'importants travaux d'excavation entrepris pour la construction d'un grand hôtel, après la destruction de vieilles maisons légères datant de l'époque coloniale italienne, à quelques dizaines de mètres du front occidental du rempart de la ville antique, ont entraîné la découverte fortuite de dix-huit tombes à ciste, qui ont été malheureusement éventrées par les bulldozers, mais dont nos collègues libyens en charge du secteur archéologique d'Apollonia, notamment M. Breyek Kwinin, ont pu sauver et récupérer la majeure partie du matériel, qui comprenait plus de cent cinquante vases, quelques-uns en albâtre, la plupart en terre cuite, plus ou moins endommagés, mais pour beaucoup d'entre eux susceptibles d'être entièrement, ou presque entièrement, reconstitués2. Un premier examen m'a conduit à dater la plupart des pièces de ce matériel du IVe siècle av. J.-C.3 Nous ne retiendrons ici, pour une rapide présentation, que quelques-uns des vases dont l'origine est indiscutablement attique, et nous les montrerons dans l'état où ils se trouvent actuellement, après avoir été d'abord minutieusement mais partiellement reconstitués par les soins diligents du Service des Antiquités d'Apollonia, puis restaurés, pour certains d'entre eux, par un spécialiste œuvrant dans le cadre de la Mission française, M. Gianpaolo Nadalini4.

1 . C'est pour moi un agréable devoir que de remercier tout d'abord chaleureusement le professeur Emanuela Fabbricotti de m'avoir convié à participer à ce congrès et à y prendre la parole. Ma reconnaissance va aussi à toutes celles de ses collaboratrices, à tous ceux de ses collaborateurs et à tous les responsables locaux qui ont rendu pour tous les participants au congrès le séjour à Chieti si agréable et si sympathique. 2 . Grâce aux excellents rapports que les responsables successifs et les membres de la mission française ont su instaurer et entretenir avec les autorités archéologiques libyennes, celles-ci ont bien voulu nous associer à l'étude de ces pièces et nous confier le soin de leur publication, que M. Laronde m'a aussitôt chargé d'assumer en tant que céramologue. Cette recherche, effectuée dans le cadre de la Mission archéologique française en Libye, est financée par le Ministère des Affaires Étrangères, D.G.R.C.S.T. Du côté libyen, le Dr. Ali El Khadoury, Président du Département des Antiquités, M. Abdelkader Mzeini, Contrôleur des Antiquités à Shahat (Cyrène) et Hadj Fadlallah Abdussalam, alors Directeur du site d'Apollonia, nous ont donné toutes les autorisations nécessaires. L'étude du matériel n'a été possible que grâce à la générosité de M. Breyek Kwinin, alors Inspecteur des Antiquités et maintenant Directeur du site d'Apollonia, qui a assuré personnellement le sauvetage de la découverte et qui a bien voulu nous associer à l'étude du matériel. Comme d'habitude, M. Mohamed Fakroun, Directeur du Musée de Tripoli, s'est montré un compagnon dévoué et compétent. À Tripoli, l'aide de l'Ambassade de France et de l'Institut culturel français a simplifié bien des démarches. À tous nous adressons nos plus vifs remerciements. 3 .Voir Maffre, J.-J., ‘Céramique attique récemment découverte à Apollonia de Cyrénaïque’, CRAI 2001, p. 10651079. 4 . Ce nettoyage et cette restauration plus complète des vases ont été entrepris par M. Nadalini en accord avec le Service libyen des Antiquités, et de nouvelles photos ont été prises après ce travail. Il reste encore beaucoup à faire, vu le grand nombre de pièces à restaurer, en vue de la publication définitive de l'ensemble du matériel, qui devrait se faire, selon les conventions établies avec nos collègues et amis de Tripoli, de Cyrène et d'Apollonia, dans Libya Antiqua.

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Les pièces les plus spectaculaires du lot sont deux amphores panathénaïques5 à peu près complètes. La première (fig. 1-2)6 présente sur la face A (fig. 1) la traditionnelle Athéna Promachos, tournée vers la gauche; le bouclier avait pour épisème une étoile à huit branches (en rehauts blancs très effacés); sur la face B (fig. 2), trois coureurs se dirigent à vive allure vers la droite, engagés dans une course de vitesse, comme l'indiquent la longueur de leur foulée et l'amplitude des gestes de leurs bras, sans doute le diaulos (course de la longueur de deux stades), dans la mesure où le mouvement des membres est moins tendu et moins saccadé que dans l'épreuve de sprint pur, le stadion (course d'un stade)7. Chacune des deux colonnes qui, sur la face A, encadrent la déesse est surmontée non d'un coq, comme c'est le cas sur les amphores panathénaïques des VIe et Ve siècles, mais d'une figure mythologique (ici Triptolème tenant un faisceau d'épis de blé et assis sur un siège ailé accosté d'un serpent: fig. 1) inspirée par une statue ou un groupe statuaire, comme cela devient la règle sur celles qui sont produites entre la première décennie et la fin du IVe siècle8. L'inscription officielle habituelle, écrite stoichédon, prend la forme TON AQENEQEN AQLON 9, conformément à la graphie attique ancienne, préeuclidienne, encore courante dans la première moitié, et même au début du troisième quart, du IVe siècle. L'absence d'un nom d'archonte ne permet pas de datation tout à fait précise, mais certains des éléments que nous avons relevés (orientation d'Athéna vers la gauche, graphie de l'inscription, nature du groupe statuaire, style du dessin, notamment pour le rendu de la déesse et des athlètes) donnent une fourchette comprise nécessairement entre ca 390 et 360, et orientent vers les années 370-365, où l'on rencontre plusieurs fois la figure de Triptolème, répétée sur les deux colonnes10. Une telle date est confirmée par la morphologie du vase: avec son épaule

5

. Sur cette catégorie de vases attiques à figures noires, on se reportera à l'étude exemplaire de Bentz, M., Panathenäische Preisamphoren. Eine athenische Vasengattung und ihre Funktion vom 6.-4. Jahrhundert v. Chr., (= 18. Beiheft AK ), Bâle, 1998. Pour les amphores panathénaïques découvertes en Cyrénaïque, on consultera en dernier lieu Maffre, J.-J., ‘Amphores panathénaïques découvertes en Cyrénaïque’, in Panathenaïka. Symposion zu den Panathenäischen Preisamphoren; Rauischholzhausen, 1998 (Actes éd. par M. Bentz, N. Essbach), Mayence, von Zabern, 2001, p.25-32 et pl.8-12, ainsi que Th. Serres-Jacquart, ‘Joseph Vattier de Bourville (1812-1854): Notes sur un explorateur de la Cyrénaïque’, Journal des Savants 2001, p.393-429 (notamment p.412-413), et surtout Luni M., ‘Nuove anfore panatenaiche da Cirene’, QAL 18 (2003), p. 97-113. 6 . Inv. 1151. — CRAI 2001, p. 1066-1068, avec fig. 1-2. — Recollée de plusieurs fragments; quelques rares lacunes; épiderme localement endommagé, sur la face B. Le couvercle de l'amphore est conservé, même s'il n'apparaît pas sur les photos jusqu'à présent publiées. — Dimensions: hauteur: 73,5cm; ht. avec le couvercle: 87cm; diamètre maximum de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 22cm/40cm/15,5cm. 7 . Sur les différents types de course à pied (à l'exclusion de l'hoplitodromie) pratiquées lors des concours panathénaïques, voir par exemple Le Sport dans la Grèce antique. Du jeu à la compétition, ed. Vanhove, D., Catalogue d'Exposition, Bruxelles, 1992, p. 112-115, ou Neils, J. et al., Goddess and Polis. The Panathenaic Festival in Ancient Athens, Princeton, 1992, p.82-83. Pour leur représentation sur les amphores panathénaïques, voir Bentz, Panathenäische., p.63-66. 8 . Sur ces reproductions de statues ou de groupes statuaires au-dessus des colonnes encadrant l'Athéna Promachos des amphores panathénaïques du IVe siècle, voir Eschbach, N., Statuen auf panathenäischen Preisamphoren des 4. Jhs. v. Chr., Mayence, 1986; Triptolème apparaît, sur chacune des deux colonnes, sur au moins quatre amphores du Groupe de Kittos (Beazley, ABV, p.413-414; Paralipomena, p.177; — Beazley Addenda2, p.107-108; Eschbach, Statuen, p.30-33 et pl.8-10), dont trois portent le nom de l'archonte Polyzélos (367/6), puis sur deux amphores d'Éleusis de 364/3 (?) selon Eschbach (op.cit., p.39-41 et pl.11)), enfin à nouveau sur l'une des colonnes d'au moins cinq amphores de l'archontat de Pythodélos (336/5): Eschbach, Statuen, p.109-115 et pl.28-31 (le héros est associé à Athéna ou à Nikè, perchées sur l'autre colonne). — Sur les motifs placés au-desus des colonnes et sur le caractère irréversible du passage du coq à des figures mythologiques dans ce rôle de Säulenfigur au IVe siècle, voir Bentz, M., Panathenäische, p. 51-57 (avec des remarques sur le motif de Triptolème, p.55-56). 9 . Voir CRAI 2001, p. 1067 fig. 2. 10 . Voir supra, note 8.

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relativement plate, notre amphore est très proche de celles de l'archontat de Polyzélos (367/6)11, et c'est donc certainement de ces années-là qu'il convient de la dater. La deuxième amphore panathénaïque à peu près complète (fig.3-4)12 se laisse dater autour de 344 av. J.-C. La face A porte en effet deux inscriptions, dont l'une donne, dans une sorte de cartouche qui s'étire verticalement à gauche de la colonne de droite, le nom de l'archonte Lykiskos; la formule employée est: LUKISKOS HRCEN; les deux mots sont incisés, ce qui est exceptionnel, et disposés chionédon (fig. 3, à dr.); or nous savons que Lykiskos fut le magistrat athénien éponyme de l'année 344/3. L'autre inscription répète, à droite de la colonne de gauche, la formule rituelle TON AQENEQEN AQL[ON] (fig. 3, à g.) écrite encore en alphabet attique ancien, mais disposée kionédon13. Athéna est tournée vers la droite, comme cela est normal à cette date14; son bouclier a pour épisème une étoile, dont ne sont visibles que sept branches15; la colonne qui se dresse à gauche de la déesse est surmontée d'une autre figure d'Athéna, debout, au repos, portant le casque, mais ayant déposé son bouclier devant elle: la main gauche maintient ce bouclier à la verticale, la droite tient un aphlaston 16; la partie supérieure de la colonne de droite est masquée par le grand bouclier de la Promachos. Sur la face B (fig. 4 ) sont campés deux athlètes debout vers la droite, l'un au repos (à gauche), l'autre amorçant un mouvement, les deux bras tendus en avant, comme pour se préparer à un affrontement de lutte; un arbitre vêtu de long (à droite) leur fait face. Le nom de l'archonte Lykiskos n'était jusqu'ici conservé que partiellement, sur trois amphores fragmentaires, auxquelles on associait deux autres vases probablement de la même année17. La pièce d'Apollonia en apporte un exemple nouveau d'une parfaite clarté, mais avec une façon tout à fait insolite de présenter le nom: au lieu d'être peinte sur le fond réservé de la panse du vase, comme cela est toujours le cas, l'inscription est ici incisée, pour une raison mystérieuse, dans un cartouche noir, parallèlement à la colonne toute proche. D'une troisième amphore panathénaïque18 n'est conservé qu'à peine le quart: pour la face B, jambes de deux athlètes face à face, sans doute des lutteurs ou des boxeurs; pour la face A, partie supérieure d'Athéna, tournée vers la gauche, entre deux colonnes surmontées de la figure de Triptolème assis sur son fauteuil ailé, les épis de blé à la main (fig. 5). Le vase est trop mutilé pour que l'on puisse savoir s'il y avait un nom 11

. Voir les amphores recensées par Bentz, Panathenäische, n° 4011-4015, p.168-169 et pl. 103-107. . Inv. 1072. — CRAI 2001, p. 1069-1071, avec fig. 3-4. — Recollée de nombreux fragments; quelques lacunes. — Dimensions: ht.: 64cm; diam. max. de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 17,8cm/30,2cm/12cm. 13 . Ce type de disposition, de plus en plus répandu au fur et à mesure qu'on avance dans le IVe siècle, ne supplante toutefois définitivement le type stoichédon qu'après 348/7; quant à la graphie attique ancienne, elle est concurrencée par la graphie ionienne, avec notation des voyelles longues par H et W, dès l'extrême fin du Ve siècle, mais ne disparaît qu'en 336/5 (cf. Bentz, M., Panathenäische, p.58). 14 . La déesse commence à faire volte-face, pour des raisons qui nous échappent, à partir de l'archontat de Charicleidès (363/2); elle se tourne définitivement vers la droite à partir de celui de Callimédès (360/59). Il est tout à fait exceptionnel qu'Athéna Promachos soit représentée tournée vers la droite avant ces dates, et encore est-ce sur une pseudo-amphore panathénaïque du troisième quart du VIe siècle, Amsterdam, Allard Pierson Museum 11845 (voir Bentz, M., ‘Schwarzfigurige Amphoren panathenäischer Form. Typologie, Funktion und Verbreitung’, in Panathenaïka [cf. n.5], p.113 et pl.30,1). 15 . Voir CRAI 2001, p. 1070 fig. 4b. 16 . Voir ibid., p. 1070 fig. 4a. 17 . Bentz, Panathenäische, p.175 et pl.115-116, n° 4073-4077. 18 . Inv. 1099. — CRAI 2001, p. 1071, avec fig. 5. — Seuls le col et les anses sont intacts; quelques fragments jointifs fournissent le haut de la face A; quelques fragments isolés appartiennent à la face B. — Dimensions: ht. conservée: ca 23cm; diam. max. de l'embouchure: ca 22,8cm; diam. min. du col: 10cm . 12

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d'archonte, mais l'inscription garantissant qu'il s'agit d'une authentique amphore panathénaïque subsiste en grande partie, disposée kionédon à droite de la colonne de gauche; on lit sans difficulté la formule T[ON A]QENEQEN AQL[ON], écrite en alphabet attique ancien. Le motif statuaire du sommet des deux colonnes est le même que sur la première amphore; Athéna est aussi tournée vers la gauche. On sera donc tenté de dater également cette autre amphore des années 370/365. Ces trois véritables amphores panathénaïques de la nécropole d'Apollonia viennent s'ajouter à un important contingent de vases de ce type déjà découverts en Cyrénaïque, que ce soit à Euhespérides (Benghazi), Taucheira (Tocra), Barca ou Cyrène19. Sontelles vraiment les premières à avoir été trouvées à Apollonia? Officiellement, oui, mais on peut maintenant se demander si certains des exemplaires achetés autrefois à Benghazi et dispersés à Londres, à Paris ou à Alexandrie ne pourraient pas avoir été en fait mis au jour à Apollonia et vendus dans la ville de loin la plus importante de la Cyrénaïque, où passaient des voyageurs et où séjournaient des diplomates étrangers. Une quatrième amphore, fragmentaire, plus petite que les précédentes (fig. 6), est à coup sûr une pseudo-panathénaïque20. Seule subsiste la partie supérieure de la face A, sur laquelle apparaît Athéna Promachos, tournée vers la gauche, entre deux colonnes surmontées d'un coq; le bouclier de la déesse, orné de gros points blancs sur son orle, porte comme épisème une étoile à six branches (très effacée). La panse du vase est conservée sur une hauteur suffisante pour que l'on puisse affirmer qu'il n'y avait aucune inscription. La présence des coqs sur les colonnes pourrait orienter vers une date relativement haute, au début du IVe siècle, mais par sa forme, par ses dimensions, par la disposition et le style du décor, notamment dans la façon de rendre le bouclier, l'égide et le casque d'Athéna, ainsi que les coqs étiques, se dressant sur leurs ergots, cette amphore est très proche d'un exemplaire du Louvre, isolé jusqu'à présent et daté des années 367/36521. C'est donc aussi de ces années-là qu'il faut dater l'amphore d'Apollonia, décorée à coup sûr par le même peintre que celle du Louvre. Une cinquième et une sixième amphore, l'une intacte, avec son couvercle, l'autre presque complète, ont la forme des vases panathénaïques, mais elles ne portent pas de décor figuré; elles sont à vernis noir, l'une entièrement, l'autre sur la majeure partie de sa surface22. La première des deux23 a, comme les véritables panathénaîques du IVe siècle, le col décoré en deux bandeaux superposés: en haut, dans la zone où s'attache l'extrémité supérieure des anses, de maigres palmettes alternent avec des lotus stylisés; en dessous, des godrons allongés forment une collerette; tout le reste de l'extérieur du vase est noir. Cette variante du type n'est pas fréquente, même si elle n'est pas

19

. Sur les amphores panathénaïques découvertes en Cyrénaïque, voir en dernier lieu Maffre, ‘Amphores’, p.25-32 et pl.8-12 et Luni, ‘Nuove’, p. 97-113 (cf.n.5). 20 . Inv. 1097. — CRAI 2001, p. 1072-1073, avec fig. 6. — Plusieurs fragments jointifs donnent l'embouchure, le col et le haut de la face A; quelques autres fragments épars de cette même face ont été sauvés; la face B est perdue. — Dimensions: ht. conservée: ca 23cm; diam. max. de l'embouchure: 15,8cm; diam. min. du col: 8,2cm. 21 . Amphore du Louvre CA 7427: Bentz, Panathenäische, n° 4016, p.169 et pl.108. 22 . Sur ces deux amphores, dont nous ne donnons pas ici d'illustrations, voir CRAI 2001, p. 1073-1074, avec fig. 7 et 8. 23 . Inv. 1149. — CRAI 2001, p. 1073-1074 fig. 7. — Intacte, mais le vernis noir s'est localement écaillé. — Dimensions: ht.: 59,9cm; ht. avec le couvercle: 72,5cm; diam. max. de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 16,5cm/30,5cm/13,6cm.

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exceptionnelle24. L'autre amphore25 est plus éloignée du type canonique: l'ensemble du vase est noir, excepté une couronne de feuillage tracée à la barbotine au bas du col, et la panse est côtelée; les anses sont plus droites que sur l'exemplaire précédent et que sur les amphores panathénaïques à décor figuré. Elle prend place à côté d'au moins treize autres amphores à vernis noir de même forme, portant une collerette de feuillage au bas du col et datées du IVe siècle; ces amphores voisinent avec beaucoup d'autres vases à vernis noir de diverses formes (notamment pyxides, cratères, cratérisques, canthares, coupes, hydries, pélikai, oinochoai) décorés de la même façon26. Il convient sans doute de dater l'amphore d'Apollonia à panse côtelée dans le dernier tiers du IVe siècle, tandis que l'autre spécimen, avec ses anses un peu plus trapues et sa morphologie générale, rappelle par sa forme des amphores fabriquées du temps des archontats de Charicleidès (363/2) ou de Callimédès (360/59)27; on pourra donc l'assigner avec vraisemblance aux années 370-350. Deux autres amphores à vernis noir de forme panathénaïque ont pu être reconstituées à partir de fragments qui avaient été laissés dans des caisses au moment de leur trouvaille: l'une, à panse côtelée, est très mal conservée; l'autre, à la panse uniformément noire, doit sans doute pouvoir revendiquer le couvercle intact qui accompagnait les fragments à partir desquels elle a pu être reconstituée (fig. 7)28. Comme l'amphore à panse côtelée, elle porte au bas du col une couronne de feuillage tracée à la barbotine, et elle vient donc s'ajouter aux exemplaires de ce type que nous venons de rappeler. Elle doit dater elle aussi du deuxième quart ou du milieu du IVe siècle. Les autres vases attiques les plus remarquables sont à figures rouges; ils datent aussi du IVe siècle, sans doute du milieu ou du troisième quart de ce siècle, pour la plupart d'entre eux. La pièce la plus intéressante est une hydrie (fig 8-9)29 qui met en scène une femme ailée, à moitié nue, entourée de six personnages masculins eux mêmes vêtus d'une simple chlamyde flottante qui dévoile une grande partie de leur anatomie. Les jeunes gens, sans doute des chasseurs, à en juger par leur tenue légère et par les javelots que tiennent plusieurs d'entre eux, regardent attentivement la femme, comme si elle venait de leur apparaître, les uns sans hostilité apparente, les autres avec un air plutôt agressif; l'un est accroupi devant elle (fig. 8), les autres sont debout, répartis sur plusieurs niveaux; les deux qui se tiennent au-dessus d'elle font des gestes menaçants; 24 . On n'en a trouvé aucun exemplaire à l'Agora d'Athènes, où l'on compte pourtant une dizaine d'amphores à vernis noir, entières ou fragmentaires, datées à vrai dire des VIe ou Ve s. (voir B.A. Sparkes et L. Talcott, The Athenian Agora, XII, Princeton, 1970, p.47-48 et 236-237, pl. 1 et fig.2). Le type est cependant attesté ailleurs, du milieu du VIe à la seconde moitié du IVe siècle: voir Bentz, Panathenäische, p.112 et n.11. 25 . Inv. 1070. — CRAI 2001, p. 1073-1074 fig. 8. — Recollée de plusieurs fragments; quelques lacunes. — Dimensions: ht. totale: 59cm; ht. de la partie côtelée de la panse: ca 30cm; diam. max. de l'embouchure: 19,8cm; diam. max. du pied: 12,8cm. 26 . Sur ces vases, voir avant tout Kopcke, G.,"Golddekorierte attische Schwarzfirniskeramik des vierten Jahrhunderts v. Chr.", AM 79 (1964), p.22-84, notamment (pour les amphores de forme panathénaïque) p.40-41 et 72 (n° 119-131) et Beil. 26-27. 27 . On a trouvé naguère à Érétrie bon nombre d'amphores portant le nom de l'un ou l'autre de ces archontes: voir Valavanis, P.D., Panaqhnaïkoiv amforeiv" apov thn Erevtria. Sumbolhv sthn attikhv aggeiografiva tou 4ou p.C. ai., Athènes, 1991, notamment pl.5-31. 28 . Sans n° d'inv. encore en 2003. — Recollée de plusieurs fragments; quelques lacunes, surtout sur la face B..— Dimensions: ht.: 56,5cm; ht. avec le couvercle: 69,2cm; diam. max. de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 17,5cm/28cm/11,8cm. 29 . Inv. 1069. — CRAI 2001, p. 1074-1077, avec fig. 9-10. — Recollée de nombreux fragments; quelques rares lacunes. — Dimensions: ht.: 32cm; diam. max. de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 11,9cm/21,6cm/10,6cm.

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elle même est en proie à une certaine agitation, que trahit l'ample mouvement de son bras droit. Bien que la scène soit complète, elle reste pour l'instant énigmatique. Les cheveux de la femme ailée ressemblent à des serpents, et l'on serait tenté de l'identifier comme l'une des Gorgones ou des Érinyes ou des Furies, mais dans quel épisode légendaire? La mise à mort de Méduse ne saurait être retenue, car aucun des jeunes gens n'a la moindre caractéristique de Persée. Les Érinyes menacent d'ordinaire, plutôt que d'être menacées. On aimerait que certains des jeunes gens fussent eux aussi ailés, pour pouvoir penser aux Boréades cernant l'une des Harpyes, mais ce n'est manifestement pas le cas. Nikè et Iris semblant complètement exclues, pourrait-on songer à Éris, la Discorde, qui est parfois elle aussi représentée ailée, mais qui est en général redoutée plutôt que menacée? S'agirait-il d'Éos, l'Aurore, au milieu d'un groupe de jeunes chasseurs dont, malgré leurs réticences, elle convoiterait le plus beau? C'est peut-être l'hypothèse la plus vraisemblable, mais lequel d'entre eux serait Céphale? L'épisode, quel qu'il soit, n'est en tout cas pas banal. L'équilibre parfait de la composition, la qualité du dessin, l'usage perspicace des rehauts blancs révèlent la main d'un grand maître de la peinture de vases attique du IVe siècle, et c'est sans doute dans la première génération des peintres du style de Kertch qu'il faut chercher le créateur de ce décor soigné et original30. On pourrait peut-être penser au Peintre de Pourtalès31, mais des rapprochements semblent possibles avec des vases non attribués des années 370-36032 et avec des pièces assignées aux ateliers des Peintres d'Iéna ou de Diomède33. Parmi les peintres dont l'identification, proposée par K. Schefold, a été retenue par J.D. Beazley, on pourra penser au Peintre d'Héraclès34, dont la seule hydrie qui lui soit à ce jour attribuée35 semble très proche, par sa forme et par le style de son décor, de celle d'Apollonia, que l'on proposera en tout cas de dater des années 370-360. Plusieurs pélikai mériteraient elles aussi une mention. Je n'en retiendrai ici qu''une36, sur la face A de laquelle apparaissent quatre personnages, autour d'un pilier hermaïque et d'un autel surmonté de deux bucrânes (fig. 10). Il s'agit manifestement d'une scène de culte37, de caractère dionysiaque: on reconnaît de gauche à droite un satyre, debout, une 30 . Sur le style de Kertch en général, les deux études fondamentales restent celles de Schefold, K., Kertscher Vasen, Berlin, 1930, et Untersuchungen zu den Kertscher Vasen, Berlin/Leipzig, 1934. Voir aussi Boardman, J., Les vases athéniens à figures rouges. La période classique, Paris, 2000 (traduction de Athenian Red Figure Vases. The Classical Period, Londres, 1989), p. 190-216. 31 . Sur ce peintre, voir Beazley, ARV2, p.1446 et 1693; Paralipomena, p.492; — Beazley Addenda2, p.378; Valavanis, P.D., op.cit., p.262-268 et pl.92-101. 32 . Ainsi avec les hydries E 231 et E 227 du British Museum: Schefold, K., KV, pl.1a et 7a, et UKV, p.23, n° 174 et 170. 33 . Sur ces peintres, à vrai dire décorateurs presque exclusiveent de coupes, voir Beazley, ARV2, p.1510-1521 et 1697; Paralipomena, p.499-501; — Beazley Addenda2, p.383-384; Paul-Zinserling, V., Der Jena-Maler und sein Kreis: zum Ikonologie einer attischen Schalenwerkstatt um 400 v. Chr., Mayence, 1994. 34 . Sur ce peintre, voir Schefold, KV, p.9-10, et UKV, p.83-85 et 158; Beazley, ARV2, p.1472; — Beazley Addenda2, p.381. 35 . Bruxelles, Musée du Cinquantenaire, R 286: ARV2, 1472, 4; Beazley Add.2, 381, 4; Metzger, H., Les représentations dans la céramique attique du IVe siècle, Paris, 1951, p.76, n° 18, et pl. IV, 2. 36 . Inv. 1074. — CRAI 2001, p. 1077-1078, avec fig. 11. — Recomposée à partir de nombreux fragments jointifs; quelques lacunes. — Dimensions: ht.: 30,5cm; diam. max. de l'embouchure, de la panse et du pied: respectivement 19,5cm/20,6cm/15,4cm. 37 . Sur les scènes de culte autour d'un hermès et pour une liste de leurs représentations dans la céramique attique, voir par exemple Webster, T.B.L., Potter and Patron in Classical Athens, Londres, 1972, p. 137-139.

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J. J. Maffre

ménade, qui se penche vers l'hermès, Dionysos, assis, tenant le thyrse, et enfin une autre ménade, assise; sur la face B, mal conservée, on distingue trois jeunes gens debout, vêtus de long, en conversation à la palestre, autour d'un terma, conformément à un type de scène tout à fait banal et attendu, à cette époque, sur la face secondaire du vase. Le style du dessin ressemble à celui de l'hydrie, bien qu'il soit d'une qualité moindre, et peut-être conviendra-t-il, malgré cette différence de niveau artistique, de l'attribuer au même peintre, dans les mêmes années 370-360. Pour compléter, sans entrer dans le détail, la liste des pièces attiques qui accompagnaient, d'une façon dont il est malheureusement à craindre qu'elle soit irrémédiablement impossible à connaître avec certitude, les vases de prestige qui viennent d'être sommairement présentés, on signalera une dizaine d'autres vases à figures rouges (petites hydries, œnochoai, lécythes et lécythes aryballisques; petit couvercle de pyxis), deux alabastres à décor réticulé et près d'une centaine de petits vases à vernis noir, dont trois pélikai, quinze olpai, une hydrie (fig. 11), trois œnochoai, un skyphos, six pyxides, quatre bols, neuf bolsal, quatre tasses basses (one-handlers), quatre assiettes, cinq coupelles, une quinzaine de "salières" ou petits supports, quatre askoi et un guttus; les assiettes, les bols et les bolsal sont ornés, au fond de la vasque, de motifs estampés (surtout palmettes et guillochis) typiques du IVe siècle. Une quinzaine de lampes à vernis noir de même époque complètent le panorama des importations attiques, qui représentent les deux tiers du mobilier funéraire récupéré. Le reste du matériel est constitué principalement de céramique commune, probablement de fabrication locale: amphores, lécythes, œnochoè, plats creux, tasse, olpai (fig. 12). On compte aussi au moins deux pyxides corinthiennes sans décor figuré et une épichysis sans doute apulienne, qui datent elles aussi du IVe siècle. À cette céramique s'ajoutent de rares terres cuites ainsi que quelques vases en albâtre (alabastres, aryballes, plats creux à pied), qui seront pris en compte dans la publication d'ensemble de ces trouvailles exceptionnelles dont l'intérêt est notamment de confirmer l'importance des échanges commerciaux entre la Grèce et la Cyrénaïque au IVe siècle.

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Fig. 1 Apollonia. Amphore panathénaïque inv. 1151: face A.

Fig. 3 Apollonia. Amphore panathénaïque inv. 1072: face A.

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J. J. Maffre

Fig. 2 Apollonia. Amphore panathénaïque inv. 1151: face B.

Fig. 4 Apollonia. Amphore panathénaïque inv. 1072: face B.

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Fig. 5 Apollonia. Amphore panathénaïque fragmentaire inv . 1099: face A.

J. J. Maffre

Fig. 6 Apollonia. Amphore de type panathénaïque fragmentaire inv. 1097: face A.

Fig. 8-9 Apollonia. Hydrie attique à figures rouges inv. 1069: face principale et détail.

Fig. 7 Apollonia. Amphore de forme panathénaïque à vernis noir: face A.

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Fig. 10

Apollonia. Pélikè attique à figures rouges inv. 1074: face A.

Fig. 11

Apollonia. Sept olpai et une hydrie attiques à vernis noir.

Fig. 12

Apollonia. Cinq olpai de céramique commune.

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J. J. Maffre

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P. Pensabene

19 Marmi e pietre colorate nell’architettura della Cirenaica in età imperiale. Patrizio Pensabene Introduzione Nel corso del II secolo le città di Creta e della Cirenaica sono interessate da un profondo rinnovamento urbanistico e monumentale che caratterizza anche altre province orientali dell'impero. E' stato da tempo evidenziato come tale processo sia spesso accompagnato dall'uso del marmo e di pietre colorate sia in edifici di nuova costruzione che nel rinnovamento di quelli esistenti. Questa Marble Architecture (Ward Perkins), che trasforma profondamente il paesaggio urbano, manifesta una precisa volontà di adesione delle classi dirigenti locali ai valori e all'ideologia dell'impero che fin dall'età augustea a Roma si erano espressi in grandi edifici in marmo. Il processo di marmorizzazione fu inoltre sostenuto da una forte volontà di affermazione socio-economica e culturale del singolo individuo rispetto ai concittadini e dalla concorrenza e rivalità tra le città. In quest'ottica ogni ricerca sull'uso del marmo in architettura, che non può prescindere dal problema delle maestranze che in concreto lo attuarono, fornisce elementi utili non solo allo specialista, ma anche a chi si occupa delle strutture e delle dinamiche sociali, economiche, culturali e dunque in ultima istanza allo storico. Il lavoro che qui presento costituisce la seconda parte di uno studio complessivo sull’intera provincia di Creta et Cyrenaica, di cui è in corso di pubblicazione la prima parte, dedicata a Creta, negli atti del Convegno organizzato dalla Scuola Italiana di Atene nel 1997 su Creta romana. Si è consapevoli delle profonde differenze tra le due regioni unificate amministrativamente da Augusto: infatti l’esame comparato ha potuto evidenziare affinità e differenze tra le due aree e dunque le caratteristiche che il processo di marmorizzazione assunse in ciascuna di esse. Tradizioni architettoniche a Cirene. E' noto come in Cirenaica permanga a lungo una tradizione architettonica di tipo greco e come il processo di romanizzazione sia stato lento e graduale, spesso limitato al cambiamento di destinazione di spazi ed edifici e alla riqualificazione urbanistica di determinati quartieri. Il fenomeno è ben evidente a Cirene dove uno dei primi edifici romani, l'Augusteo nell'angolo nordoccidentale dell'Agorà, datato tra il 12 a.C. e il 3-4 d.C., riadatta un preesistente edificio del quale conserva la tradizionale architettura dorica sia pure reinterpretata con l'inserimento di basi per le colonne e la parziale chiusura degli intercolumni1; l'adeguamento alla tradizione locale si riflette anche nell'associazione al culto imperiale di Apollo Augusto e Artemide Augusta, tradizionali divinità protettrici della città. Anche la trasformazione in Foro del Ginnasio ellenistico conserva i portici dorici, ordine impiegato pure nella Basilica costruita poco dopo lungo il lato settentrionale della piazza a ribadire la nuova funzione del complesso: tra l’altro sarebbe 1

Stucchi S., Architettura cirenaica, Roma 1975, p. 196 s., 185.

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P. Pensabene

interessante analizzare i rapporti planimetrici tra questo Ginnasio e quello della fase tiberiana di Gortina, nel quale si ritrova una grande palestra quadrata. Tratti più spiccatamente romani hanno alcuni dei tempietti costruiti nel corso del I sec. d.C. nel santuario di Apollo (templi di Ecate e Atena) che hanno il podio leggermente sopraelevato e fronte tetrastila o con schema in antis, ma conservano ordine architettonico e materiali tradizionali2. Anche l'architettura domestica mantiene per tutto il I secolo dell'Impero il tipo ellenistico a cortile centrale, come dimostrano alcune case di Tolemaide, inglobate in abitazioni più tarde, di Cirene e di Berenice. Innovazioni significative accompagnate da un parziale abbandono della tradizione ellenistica si registrano solo a partire dall'età adrianea con i grandi lavori di ricostruzione seguiti alla rivolta giudaica del 115-117 d.C. Poco sappiamo di uno dei primi interventi, la ricostruzione a Cirene delle terme della Myrtusa (le Grandi Terme) ad opera di Adriano. Quanto rimane della decorazione architettonica dell'edificio appartiene infatti ad interventi posteriori, databili tra la tarda età antonina ed il periodo severiano, nei quali si avverte chiaramente l’esigenza di “marmorizzare” le parti di rappresentanza e il frigidario non solo attraverso l’estensivo uso di lastre di rivestimenti parietali e pavimentali, ma anche attraverso l’uso di fusti, basi e capitelli d’importazione. In una recente indagine operata sull’edificio abbiamo potuto catalogare almeno 31 fusti interi e frammentari di proconnesio, di cipollino, di granito misio e di bigio antico, oltre a 19 basi attiche in marmo proconnesio e 15 capitelli corinzi per la maggior parte del tipo standard d’importazione.3 Questi dati si accordano con il lussuoso arredamento statuario in marmo e confermano l’investimento fatto su questo edificio termale. L’identificazione con il proconnesio per i marmi dei capitelli è stata confermata anche da D.Attanasio, che gentilmente mi ha comunicato i risultati delle analisi delle campionature che ha compiuto sugli elementi architettonici in marmo delle terme. Sempre a Cirene uno dei primi edifici nei quali è attestato l'uso del marmo è il rifacimento del Tempio di Zeus (o Capitolium) sulla terrazza superiore dell'Agorà al quale, nel periodo compreso tra Adriano e Antonino Pio, fu aggiunto un pronao tetrastilo con colonne marmoree doriche su basi ioniche ricavate da elementi preesistenti o comunque di spoglio4: la scelta del dorico è stata giustamente interpretata da Stucchi come volontà di mantenere “il carattere di unitarietà” dell’Agorà attraverso ordini architettonici uniformi, anche se la nuova ricostruzione con una scalinata di accesso al pronao trasformava in senso romano l’architettura originaria del tempio. Allo stesso periodo risale il tempio del Divo Adriano, al centro del cortile porticato del Ginnasio ellenistico già trasformato in Foro; su podio, secondo la tradizione italica, il tempio ha capitelli corinzi in pietra locale che si ritrovano in altri edifici sacri dell'Agorà, contemporanei o di poco posteriori: il Tempio c.d. delle basi ottagone, e i vicini templi di Atena, di Hera e delle Muse, questi ultimi con decorazione ancora in pietra locale. Come testimoniano anche i rinvenimenti scultorei nel tempio del Divo Adriano e nei pressi viene fatto un investimento nel marmo solo per le statue.

2

Stucchi, Architettura, p. 199 ss., Tav. 189-191. Pensabene P., “Marmi e committenza nelle Grandi Terme di Cirene”, c.s. 4 Stucchi, Architettura, cit., p. 235ss., Tav. 216-217. 3

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Un largo uso del marmo si verifica, invece nella cella del tempio di Zeus sulla collina settentrionale5 (Fig.1), rifatta con l'ordine corinzio tra il 172 e il 175 d.C. con il finanziamento di importanti famiglie locali che la dedicano a Marco Aurelio e in tal modo indicano la loro adesione allo stato romano attraverso l’adeguamento alle mode dell’architettura ufficiale del tempo. Lungo le pareti interne della cella furono disposte due file di colonne con fusti in cipollino abbinati a basi attiche e capitelli ad acanto spinoso in marmo proconnesio (Figg.2,4); resti di rivestimenti marmorei relativi al basamento della statua di culto e delle pareti (Fig.3) testimoniano la ricca decorazione dello spazio interno, anche questo un elemento caratteristico dell'architettura templare romana6. D. Attanasio ha inoltre analizzati campioni dalle modanature dello zoccolo della cella, da cui è risultato l’uso del pario, e di un capitello e di una base per cui è proponibile anche il marmo docimio bianco (Afyon). Frammenti di un architrave in tufo7 dimostrano tuttavia che il processo di marmorizzazione, seppure esteso, rimase parziale. L'abbinamento di colonne in marmo a trabeazioni in pietra locale è uno dei tratti caratteristici dell'architettura della Cirenaica in età imperiale e in Cirene stessa è frequentemente attestato nel Quartiere Centrale della città, un’area cioè che proprio in piena età imperiale assume notevole importanza, come mostra l’arco trionfale a tre fornici dedicato dalla città a Marco Aurelio e Lucio Vero8 che dominava la strada di fondovalle che lo percorreva: i tempietti A, F, I e l'Edificio porticato D (Fig.5,6), costruiti lungo questa strada,9 hanno un'architettura in pietra arricchita dalla policromia delle colonne in facciata con basi e capitelli corinzi in marmo bianco (probabilmente proconnesio), abbinati a fusti in granito grigio (tempio A) o cipollino (templi F, I). Alcune delle colonne in granito sono state riutilizzate nella vicina Basilica Centrale, forse la cattedrale della città (Figg.7, 8)10, altre in cipollino nelle Terme Bizantine che s’inserirono nella palestra delle Terme della Myrtusa. Questa tecnica costruttiva che utilizza i marmi solo nelle colonne può essere spiegata con la volontà di circoscrivere l'uso di marmi bianchi e colorati nel duplice intento di contenere i costi e limitare il ricorso a maestranze esterne, le uniche probabilmente in grado di lavorare il nuovo materiale. Se infatti i fusti, le basi ed i capitelli (spesso di misure standardizzate) erano generalmente lavorati presso le cave di estrazione e giungevano sul luogo di impiego già finiti o semirifiniti, architravi, fregi e cornici dovevano essere realizzati in loco, essendo la loro conformazione ed il loro dimensionamento strettamente correlati al progetto dell'edificio e spesso suscettibili di variazioni ed adattamenti in fase di messa in opera. In altri casi anche colonne e capitelli sono in pietra come, sempre lungo la strada di fondovalle, nei tempietti C, che dal ritrovamento della statua di culto sappiamo dedicato 5

Pesce G., “La documentazione epigrafica del Gran Tempio in Cirene”, BArchAlex, 39,1951, pp. 90 ss.; Stucchi, Architettura, cit., p. 253 ss., Tav. 245-246, con bibliografia; S. Walker - K. Matthews, “Marbles from the Temple of Zeus and the Baths of Trajan at Cirene”, in Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi (Studi Miscellanei 29), Roma 1996, p. 307 ss., con individuazione dei marmi basata su analisi archeometriche. 7 Pesce G., “Il “gran tempio” in Cirene”, BCH, 71-72, 1947-48, pp. 335-336. 8 Goodchild R.G., Kyrene und Apollonia, Zurich 1971, p.137: l’arco s’ispira ancora ai propilei di tradizione greca, come mostra l’utilizzo di pilastri scanalati in facciata e non di colonne. 9 Goodchild R.G., QuadALibia”, 4, 1961, p.84ss. 10 Stucchi, Architettura, p.383. 6

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alla ninfa Cirene, e G11 e nel più grande tempio B, dedicato in origine a Commodo e dopo la damnatio di quest'ultimo forse ridedicato ad Adriano12. E' evidente in quest'ultimo caso che tale scelta non è stata determinata solo da ragioni di carattere economico dal momento che il tempio B presenta un'architettura complessa con semicolonne corinzie in facciata e doppio colonnato interno con capitelli a calice, che non sembra improntata al risparmio; anche il fatto che la statua dell'imperatore sia dedicata dalla città, forse con il concorso del proconsole L. Sempronio, indica una committenza pubblica che lascia pensare ad una spesa consistente. Altre volte alla diversità di materiale corrisponde un diverso ordine architettonico come accade nei due portici che fiancheggiano il tratto di strada ad Ovest dei tempietti: quello sul lato settentrionale ha colonne di marmo bianco e capitelli corinzi, sempre di marmo, mentre il portico ad esso contrapposto lungo il lato meridionale della strada è dorico e in pietra13. Al momento non siamo in grado di stabilire perché in edifici tra loro vicini o addirittura contigui e cronologicamente coevi si siano operate scelte diverse in relazione all'uso del marmo; le ragioni dipendono verosimilmente da una molteplicità di fattori, tra i quali la committenza e la destinazione dell'edificio avranno certo avuto un peso considerevole, ma forse non determinante. Restando nell'area del decumano è ad esempio singolare che un monumento pubblico dedicato all'imperatore come il propileo celebrativo delle vittorie di Settimio Severo sia interamente realizzato in pietra da maestranze locali che lavorano anche in un edificio vicino che come il propileo è caratterizzato da capitelli con acanto 'mosso dal vento'. Ma il nuovo propileo distilo di accesso alla scalinata che portava all’Agorà, posto di fronte al propileo Severiano, è dotato di fusti in sienite (il granito d’Assuan) su piedistalli ottagonali in marmo proconnesio e di capitelli corinzi d’importazione asiatica di età severiana, caratterizzati da semipalmette lisce che sostituiscono le elici e da foglie d’acanto a larghe fogliette appuntite; capitelli uguali si trovano anche nel vicino Mercato14, che è l’altro importante complesso della via del fondovalle a impiegare marmi d’importazione (fusti in cipollino, basi e capitelli in proconnesio). In cima alla scalinata a cui si accedeva dal propileo distilo è stato rinvenuto una sorta di vestibolo con le pareti articolate in nicchie con lastre pavimentali in pentelico e cipollino e con colonne all’ingresso, di cui resta un fusto con base e capitello corinzio asiatico in marmo.15 Oltre alle Terme della Myrtusa, con ricco pavimento in sectile nel quale è usato il raro marmo Iassense, si possono ricordare gli edifici teatrali costruiti in età imperiale e tardoimperiale. A Cirene, del piccolo teatro ad Ovest del Ginnasio (“teatro 2”: diametro cavea m. 42), che ebbe una fase di età severiana (a cui Stucchi attribuisce i capitelli del

11

Goodchild, Kyrene, p. 142; Stucchi, Architettura, p. 252. SEG, XX, 727. 13 Goodchild, Kyrene, p. 94 s.; Stucchi, Architettura, p. 275. 14 Ward Perkins J.B., Gibson S., “The Market Theatre at Cyrene”, Libya Antiqua, 13-14, 1976-77, p.340, tav.XCVIIIc. (cfr. gli stessi in LibSt, 18, 1987, pp.43-72). 15 Ward Perkins, Gibson, “The Market Theatre” , p.340, tav.Ca. 12

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portico in summa cavea) e fu definitivamente abbandonato dopo il terremoto del 26216, rimangono alcuni elementi architettonici (Figg.9, 10). In particolare, oltre a un frammento di capitello corinzio in marmo pentelico databile in età ellenistica - al II sec. a.C.-, probabilmente proveniente da edifici precedenti (Fig.11), si segnalano alcuni capitelli corinzi in marmo bianco a grana grossa, probabilmente proconnesio, con acanto di tipo asiatico, depositati nell’orchestra (Figg.12-14) e divisibili in due gruppi per misure e tipologia: Al primo (Fig.12) appartengono tre capitelli con due corone di foglie piuttosto rilevate, dalle fogliette aguzze che si toccano formando figure geometriche; i caulicoli sono piccoli e cilindrici ed emergono da uno spazio triangolare al di sopra della sagoma di sfondo alla cima delle foglie della prima corona. Le volute, sottili, sono distinte dal kalathos e invadono i lati dell'abaco. Caratteristica la presenza di una foglia di acanto che copriva lo stelo del fiore d’abaco (in un caso, rimasta non finita), che insieme alla forma slanciata delle volute e al conservarsi del caulicolo come autonomo dal kalathos, consentono una cronologia nel secondo venticinquennio del II sec.a.C. Al secondo gruppo appartengono due capitelli non solo più piccoli, ma anche più semplificati forse per il poco spazio per la resa degli elementi vegetali della parte superiore: sono diversi tra loro perché in uno (Fig.13 ) le ridotte foglie della seconda corona hanno la nervatura centrale sporgente a listello, i caulicoli a spigolo che invadono tutto lo spazio tra le foglie e la foglietta che sostituisce il calice per lo stelo del fiore dell’abaco unita alle cime interne dei calici per sostenere le piccole e brevi spirali delle elici; nel secondo, invece (Fig.14), le nervature delle foglie della seconda corona sono solo scanalate i caulicoli sottili e conici conservano l’orlo e i calici e la foglietta in sostituzione del calicetto sono pressati sotto l’orlo del kalathos. Negli scavi dell’edificio, rimasti inediti, sarebbero venute alla luce colonne litiche di tre misure diverse17. Attualmente si possono osservare solo alcuni fusti rimessi in opera, relativi al I ordine: due fusti di colonne in sienite, su piedistalli ottagonali di tradizione microasiatica (Fig.10) in marmo proconnesio (cfr. con i più raffinati piedistalli ottagonali del teatro di Hierapolis), che formano un solo pezzo con la base attica della colonna (un esemplare è rimasto semilavorato) e che sono uguali a quelli del propileo distilo di accesso alla scalinata sopra citato, dove ugualmente sono impiegati fusti in sienite; le altre due porte laterali del frontescena, invece, erano inquadrate da colonne con fusti in cipollino grigio, capitelli dorici e basi attiche in marmo bianco. Va osservato che le stesse colonne in sienite su basi-piedistalli ottagonali in marmo bianco, e fusti in cipollino grigio simili a quelli ricollocati in opera nel “teatro 2”, sono presenti nel “Market-theatre” del Quartiere Centrale (“teatro 4”: diametro m. 53), datato alla fine del IV sec. d.C.18: che questi fusti siano stati qui reimpiegati provenendo dal 16

Stucchi, Architettura, p.290: teatro con cavea a cinque cunei e portico in summa cavea e con frontescena rettilineo a cinque nicchie e tre ordini di colonne. 17 Stucchi, Architettura, p. 290. 18 Il teatro 4 fu costruito dopo il 365 in un’area pavimentata con lastre di marmo e circondata da un portico con colonne di cipollino e basi e capitelli corinzi in marmo proconnesio: all’interno di quest’area il Goodchild aveva proposto che fosse costruito il mercato, mentre Stucchi proponeva il Tempio di Asclepio e Igea (le cui statue sarebbero state riutilizzate nel successivo teatro perché qui fu trovata una coppia statuaria di Asclepio e Igea. Il teatro presentava una cavea suddivisa in cinque cunei ed era

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“teatro 2” è possibile, ma ciò significherebbe che il “teatro 2” avrebbe continuato a vivere anche dopo il terremoto del 262, essendo poi smantellato solo dopo il 365. In alternativa, si potrebbe pensare che dopo il 262 gli elementi superstiti del “teatro 2” siano stati utilizzati nel frontescena dell’altro teatro presente a Cirene, quello costruito a Sud del Ginnasio (“teatro 3”: diametro cavea m. 51), e da qui trasferiti al “teatro 4” dopo il terremoto del 365 che, avendo distrutto gli altri edifici teatrali, ne aveva reso necessaria la costruzione. Questo spiegherebbe anche perché nell’area del “teatro 3” non sono stati trovati capitelli e colonne, né vi sono molti resti dell’elevato, conservandosi soltanto le strutture di sostegno della cavea19 e pochi gradoni, mentre gli elementi architettonici riutilizzabili sarebbero stati trasferiti. In conclusione il “teatro 3” avrebbe sostituito il “teatro 2” dopo il terremoto del 262, per essere poi sostituito a sua volta – dopo l’altro terremoto del 365- dal “Market-Theatre” (“teatro 4), datato appunto alla fine del IV secolo e nel quale sono stati riscontrati numerosi elementi di reimpiego di varia provenienza (erme con il doppio busto di Hermes e Herakles in marmo pentelico, ecc.). Questi teatri, probabilmente utilizzati anche per le riunioni del consiglio cittadino, indicano, con la ricca decorazione della scena con capitelli corinzi e fusti in sienite e cipollino, come attraverso i secoli vi sia stata una costante attenzione per gli edifici rappresentativi del potere espressa attraverso l’utilizzo di marmi legati all’architettura imperiale per le parti principali. Anche il diffuso impiego del marmo nel Quartiere Centrale, sorto intorno al decumano romano del fondovalle, indica chiaramente una concentrazione delle risorse disponibili nella monumentalizzazione del nuovo centro cittadino a scapito di edifici ed aree monumentali tradizionali come il Ginnasio e l'Agorà. Nell'architettura pubblica di Cirene sembra, dunque, che il processo di marmorizzazione e di adeguamento alle nuove mode architettoniche interessi soprattutto quartieri ed edifici, nei quali la committenza locale poteva testimoniare un'adesione all'architettura ufficiale dell'impero e ai valori che essa esprime, senza trasformare l’assetto urbano delle aree di più antica tradizione, quali l’Agorà, il santuario di Apollo, nelle cui ricostruzioni viene quasi sempre scelto l’ordine dorico20. Quali siano le cause di questa moderata, anche se certamente presente, partecipazione ai processi di rinnovamento urbano che invece nel II secolo d.C. e in età severiana caratterizzano tante altre città del Mediterraneo orientale, è difficile dirlo: è possibile comunque che abbiano avuto un ruolo significativo la mancanza di grandi capitali privati, il conservatorismo locale (si pensi all’importanza che continua ad avere il sacerdozio d’Apollo e l’efebia), insieme allo scarso investimento degli imperatori in opere di evergetismo urbano. Apparentemente a Cirene l’intervento imperiale è limitato solo alla costruzione delle Terme della Myrtusa dovute a Traiano e alla ricostruzione di alcuni edifici danneggiati dalla rivolta giudaica ad opera di Adriano, quali di nuovo le terme, il Tempio di Ecate caratterizzato da parodoi a pianta angolare; il pulpito presenta doppie erme in pentelico di Mercurio che in precedenza avrebbero delimitato il tempio di Asclepio e di Igea. 19 La cavea era suddivisa in sei cunei che nella parte mediana poggiano su due ambulacri semicircolari; sul fronte esterno della cavea presentava un portico a 17 arcate semicircolari. 20 Pochissimi sono gli edifici dell’antico centro munumentale in cui sono inserite forme di edifici più moderne, limitati a piccoli edifici templari su alto podio (Tempietto di Giasone Magno , Tempio dei Dioscuri, tempietto di Ecate nel santuario di Apollo: Stucchi, Architettura, pp.250-251.

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nel santuario di Apollo e i restauri del portico del Foro e della basilica21 (Adriano fu acclamato come fondatore della città22), mentre non sappiamo quali possano essere stati gli interventi di Settimio Severo, definito evergete nell’iscrizione dei propilei severiani, questi tuttavia finanziati da privati cittadini23. Le altre città della Pentapoli Nell'analisi del processo di marmorizzazione della Cirenaica occorre infine distinguere il caso di Cirene dalle città portuali della Pentapoli nelle quali si osserva un più esteso impiego del marmo, valutabile però soprattutto da elementi architettonici di reimpiego, evidentemente per la maggiore facilità di approvvigionamento. Ad Apollonia i numerosi fusti in granito misio e troadense e in cipollino e i numerosi capitelli asiatici d'importazione riutilizzati nelle basiliche cristiane indicano come la città fosse maggiormente in contatto con l'architettura ufficiale dell'impero, almeno a giudicare dai dati quantitativi. Vanno citate le serie uguali di fusti in cipollino di ottima qualità (Fig.15) reimpiegati, insieme a capitelli corinzi asiatici di età severiana (Fig.16), nella Basilica Orientale, alcuni anche nella Basilica Occidentale: intorno al kalathos due corone di foglie, quelle della prima corona a cinque lobi, dei quali quelli inferiori e mediani formati da quattro fogliette che urtano quelle delle foglie contigue formando un reticolo geometrico; le foglie della seconda corona limitate alla cima suddivisa in tre ridotti lobi con le fogliette inferiori che si toccano con quelle della foglia contigua delimitando una zona di sfondo semicircolare e ampia. Al di sopra di queste fogliette si distinguono i caulicoli a spigolo vivo e di ridotte dimensioni, e i calici con le foglie interne stilizzate e ripiegate sulla cima delle foglie centrali della seconda corona per rendere il calicetto; volute ed elici ridotte e serrate sotto l’abaco24

Nella Basilica Occidentale di Apollonia si conserva un capitello corinzio in marmo di seconda metà del I secolo d.C. con i caratteristici occhielli tra i lobi delle foglie e sottili e lunghi caulicoli conici, che denotano maestranze greche (confronti con capitelli dell’Agora di Cos, ecc.). Apparentemente diversa è la situazione di Tolemaide, dove il processo di marmorizzazione è soprattutto databile a partire dall'età dioclezianea, quando la città divenne capitale della Lybia Superior e sede vescovile, ruolo che manterrà fino alla metà del V secolo. Proprio a questo periodo risale il rifacimento della grande via colonnata e dei principali monumenti adiacenti25, quali l’Aula Dorica a cui si aggiunge l’abside e la scalinata e le Terme Pubbliche bizantine, che comunque devono avvalersi di materiali di reimpiego. Numerosi i fusti in granito della Troade, in proconnesio, in 21

SEG IX, 168;Luni M., “Strutture monumentali e documenti epigrafici nel Foro di Cirene”, L’Africa Romana, IX, Sassari 1992, pp.135-140; Ward Perkins J.B., “The Caesareum and the Basilica at Cremane”, Studies in Roman and Early Christian Architecture, London 1994, pp.105-106. Adriano fece ripristinare anche la strada per Apollonia: SEG IX, 252. 22 SEG IX ,136; Gasperini L., “Le iscrizioni del Cesareo e della Basilica di Cirene”, QuadALibia, 6, 1971p.18, n,B5 23 SEG XX, 728. Evergete è definito anche Commodo nel piedistallo di una sua statua a lui dedicata dalla città e rinvenuta nel Tempio B: Goodchild, QuadALibia , 4, 1961, p.85 24 Si tratta di un tipo piuttosto diffuso proprio in età severiana (Tyro, Byblos , Scythopolis, Ascalona, Alessandria,ecc.) che rappresenta la forma standard dei capitelli prodotti nel Proconneso per l’esportazione: Pensabene P. , “Marmi d’importazione, pietre locali e committenze nella decorazione architettonica di età severiana in alcuni centri delle province Syria et Palaestina e Arabia”, ArchCl, 49,1997, p.411, gruppo XIIa. 25 Stucchi, Architettura, p.344ss.

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bigio venato dell’Asia Minore (Fig.18), in cipollino e di nuovo numerosi le basi e capitelli corinzi asiatici di tipo corrente e da considerare d’importazione come i fusti: Citiamo uno dei capitelli corinzi (Fig.19) conservati sulla Via Colonnata tra le terme e il Tetrapilo, uguale a molti altri capitelli che s’incontrano nella città , tra cui quelli dell’Arco di Costantino (questo utilizza inoltre un tipo di fusti tortili e in marmo bigio molto comuni nella Cirenaica imperiale) che ci fornisce un terminus ante quem per questo tipo di capitelli. Si tratta infatti di una produzione corrente di III secolo, stabilitasi nelle sue caratteristiche principali (sagoma di sfondo liscia e semi ogivale dietro la cima delle foglie della prima corona, caulicoli a spigolo, calici con la foglia interna stilizzata in modo da formare il calicetto per lo steso del fiore dell’abaco, stelo che tuttavia non è stato scolpito, elici e volute ridotte e pressate sotto l’abaco) in età severiana. Durante il III secolo questa forma subisce pochissime modifiche relative soprattutto alla schematizzazione sempre maggiore dell’abaco i cui lati si profilano a due zone, data l’aumentata altezza dell’ovolo liscio superiore e l’irrigidirsi della curva del sottostante cavetto. Ancora, uno dei capitelli nelle Terme Pubbliche (Fig.20) mostra caratteristiche tipologiche simili, con piccole differenze quali una piccola foglia liscia che sostituisce il calicetto, la riduzione del numero delle fogliette nei lobi delle foglie della seconda corona e la sagoma di sfondo articolata lateralmente in due fogliette . Un discorso in parte differente va fatto per l'edilizia privata nella quale l'uso del marmo appare più generalizzato, almeno nelle abitazioni dell'élite socio-economica più elevata, dove esso è attestato anche per piccole trabeazioni con schema ad arco siriaco presenti in ambienti di rappresentanza come documenta a Cirene la Casa del Mosaico Stellare più tardi inglobata nella grande dimora di Giasone Magno26, e a Tolemaide la Casa delle Quattro Stagioni e quella della Triconchos27. Nelle stesse abitazioni, a partire dalla fine del II secolo, triclini ed altri ambienti di rappresentanza hanno in alcuni casi ricchissimi pavimenti in opus sectile di marmi policromi: basti ricordare gli splendidi pavimenti dei triclini estivo ed invernale della casa di Giasone Magno nei quali sono impiegati quasi tutti i marmi più noti in età imperiale, compresi porfidi ed alabastri28. Conclusioni Da una primo esame della decorazione architettonica di Cirene e delle altre città della Pentapoli emerge come l'impiego del marmo appare nell'architettura pubblica in età adrianea, ma si diffonde solo nel periodo antonino e soprattutto severiano. Se non può mancare dagli edifici importanti, tuttavia il suo uso è piuttosto limitato rispetto alle altre province orientali, ma anche rispetto a Creta e alla vicina Tripolitania. Tale limitazione è in primo luogo di tipo quantitativo dal momento che il marmo è impiegato in un ridotto numero di edifici e limitatamente ad alcune parti degli stessi (ad esempio gli interni dei grandi templi o gli ambienti di rappresentanza delle abitazioni private) e del 26

Stucchi, Architettura, p. 321 s., Tav. 332; v. già P. Mingazzini, L'insula di Giasone Magno a Cirene, Roma 1966, p. 96 s., Tav. XXXV-XXXVI, che erroneamente attribuiva l'arco al vicino teatro. 27 Stucchi, Architettura, p. 321 s., Tav. 331. 28 Luni M., Lazzarini L, “I marmi del grande opus sectile della Casa di Giasone Magno a Cirene” in L.Lazzarini, ed., Pietre e marmi antichi,Padova 2004, pp.130-134.

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loro elevato architettonico (ad esempio nella fronte degli edifici per le sole colonne). In secondo ordine la parzialità del processo di marmorizzazione delle città risulta dal limitato numero di varietà di marmi impiegati. Per quanto concerne i marmi bianchi -sia pure con la necessaria prudenza dovuta alla carenza di ricerche specifiche ed analisi archeometriche- l'uso sembra limitato al pentelico e al proconnesio, impiegato per basi e capitelli ma anche per fusti di colonna, mentre per le varietà colorate sono utilizzati soprattutto il cipollino, il granito grigio sia misio che troadense, e in minore misura la sienite ed il bigio; anche un marmo bluastro utilizzato in età tarda soprattutto per fusti tortili, ad esempio nell'Arco di Costantino sulla via monumentale a Tolemaide e in una fase di III-IV secolo delle Terme della Myrtusa a Cirene, sembra vada identificato con una varietà di bigio antico. Molto maggiore è il numero di marmi utilizzati nei rivestimenti parietali e nei pavimenti in opus sectile di grandi dimore private come la casa di Giasone Magno a Cirene e la casa della Triconchos a Tolemaide, dove sono attestate tutte le principali varietà di pietre colorate lavorate in età imperiale, compresi i porfidi e l'alabastro. Questa differenza può essere agevolmente spiegata pensando alla relativa facilità di approvvigionamento di piccoli blocchi di marmi colorati dai quali ricavare lastre e piastrelle (un blocco di cava di porfido è ancora conservato nella Casa della Triconchos a Tolemaide), e, viceversa, alle difficoltà tecnico-logistiche legate al trasporto di grandi elementi architettonici ed in particolare di colonne monolitiche in una città come Cirene ubicata ad una certa distanza dal mare, difficoltà che si traducevano in costi elevatissimi. Tutto ciò corrisponde pienamente con quanto emerge dai più recenti studi sulla lavorazione ed il commercio del marmo che indicano chiaramente come fossero proprio le colonne monolitiche in marmi colorati ad incidere maggiormente sui costi di un edificio. A livello stilistico la decorazione architettonica di Creta e della Cirenaica presenta un quadro piuttosto composito caratterizzato da influenze greche e microasiatiche spesso tradotte e rielaborate da officine locali. Agli inizi il processo di marmorizzazione richiese l'intervento di maestranze esperte nella lavorazione del nuovo materiale. Il problema fu risolto da un lato con l'importazione di elementi architettonici già rifiniti o semilavorati (basi, fusti e capitelli corinzi) dall'altro con l'intervento diretto di maestranze specializzate cui furono affidate soprattutto le trabeazioni e le cornici (Creta) che nelle città della Cirenaica furono invece realizzate in pietra da officine locali. In base ai dati disponibili sembra che nella prima fase della marmorizzazione (fino al primo periodo antonino) soprattutto a Creta ma anche in Cirenaica siano più attive maestranze greche. Queste utilizzano modelli microasiatici, ma sono riconoscibili per l'impiego di marmi greci (soprattutto pentelico) e per una resa meno meccanica e più plastica dei motivi che risente ancora della tradizione ellenistica (v. uno dei capitelli reimpiegati nella Basilica Occidentale di Apollonia). Nella prima metà del II secolo d.C. anche i capitelli e gli elementi architettonici importati già finiti giungono principalmente dalla Grecia, forse da Atene, come indica l'edificio corinzio di Cnosso e capitelli a calice di tipo greco a Cirene (fontana presso il Mitreo) e a Berenice, questi ultimi imitati anche in pietra da maestranze locali (tempio B lungo la strada di fondovalle a Cirene). La situazione cambia nella tarda età antonina quando, analogamente a quanto accade nelle altre province dell'impero, diventa prevalente l'influenza microasiatica e si registra una massiccia importazione di capitelli corinzi soprattutto dalle grandi officine presso le

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cave del Proconneso, cui si accompagna il frequente impiego di fusti in marmi e graniti orientali (bigio, proconnesio, graniti misio e troadense), anche se perdura e spesso prevale l’impiego di fusti di cipollino. Nella maggioranza dei casi i capitelli sono importati già lavorati e sul luogo di impiego ci si limita a qualche rifinitura, spesso finalizzata ad arricchire l'apparato ornamentale. Le trabeazioni in Cirenaica sono invece generalmente realizzate sul posto, per lo più da officine locali che utilizzano la pietra calcarea o il tufo (Tempio di Zeus a Cirene) e sono riconoscibili per una minore adesione al linguaggio architettonico corrente che tradisce retaggi ed attardamenti della decorazione ellenistica o anche qualche elemento di tradizione occidentale. L'elevato valore degli elementi architettonici in marmo è testimoniato anche dalla rilavorazione e dal riutilizzo di elementi preesistenti, fenomeno ben documentato a Cirene nel Tempio di Zeus nell'Agorà, dove furono reimpiegati blocchi di marmo prelevati da un vicino edificio ellenistico, o nelle c.d. 'Terme Bizantine' dove, oltre a lastre di rivestimento e capitelli corinzi di spoglio, furono riutilizzate due colonne in cipollino forse provenienti dal tempietto F del quartiere centrale29. Dai dati raccolti, dunque, è emerso chiaramente come tra l'età adrianea e il periodo severiano la provincia di Creta et Cyrenaica partecipi al processo di rinnovamento urbanistico e monumentale che interessa molte regioni dell'Impero e in particolare le province orientali e che è accompagnato da un crescente uso di marmi bianchi e colorati d'importazione sia nell'architettura pubblica che in quella privata: tuttavia va distinta la situazione della Cirenaica dove invece il processo di marmorizzazione è solo parziale e spesso limitato alle colonne, alle basi e ai capitelli e al prospetto degli edifici mentre le trabeazioni sono costantemente in pietra locale, ad eccezione di piccole architetture in ambienti di rappresentanza di alcune abitazioni (arco siriaco nella Casa del Mosaico Stellare a Cirene). Inoltre la situazione non è uguale in tutte le città della Pentapoli, perché apparentemente in età imperiale avanzata ad Apollonia (a giudicare dai materiali di reimpiego nelle basiliche cristiane) e a Tolemaide (a giudicare dagli edifici pubblici tardi conservati) molto maggiore rispetto a Cirene è la presenza di colonne- anche di dimensioni abbastanza grandi- e di altri elementi architettonici in marmi d’importazione. Più difficile è giudicare la situazione di Berenice per la cattiva conservazione dei resti archeologici, dove sono apparsi comunque capitelli a calice e corinzi e colonne d’importazione, mentre a Teuchira (Tocra) sono scarsissimi i resti di marmi architettonici d’importazione limitati soprattutto alle basiliche cristiane, dove erano reimpiegati (fusti in proconnesio e altri elementi nella Basilica occidentale). Anche il processo di romanizzazione dell'urbanistica e dell'architettura è più evidente nelle città cretesi che in quelle della Pentapoli cirenaica che conservarono in larga parte gli impianti ellenistici: la differenza è evidente nell'architettura domestica e funeraria ma soprattutto negli edifici teatrali che nella Cirenaica conservano la scena rettilinea di tradizione ellenistica, mentre a Creta presentano spesso lo schema tipicamente romano

29

Stucchi S., “Di quattro colonne di Caristio”, in Stucchi S., Divagazioni archeologiche, Roma 1981, pp. 203-213. I due fusti sono identici a quelli ancora conservati presso il tempio; su uno dei fusti è inoltre incisa un'invocazione a Dio (cfr. Oliverio G., “Campagna di scavi a Cirene nell’estate del 1928”, Africa Italiana, 3, 1930, p. 214) che è più facile immaginare graffita su una colonna collocata all'aperto, nella fronte del tempietto F, ubicato nei pressi della basilica cristiana.

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con abside centrale30. Altre volte il marmo è impiegato nel rifacimento di edifici religiosi preesistenti, per lo più limitatamente all'interno della cella, come dimostrano i templi di Zeus a Cirene e di Apollo Pizio a Gortina. Spesso, infine, la finalità propagandistica di un edificio espressa attraverso l’adesione all'architettura ufficiale dell'Impero (teatri ad Ovest dell'Agorà a Cirene) possono spiegare l'uso estensivo del marmo. Nel corso del IV e del V secolo architetture in marmo, con elementi di primo impiego e/o di riutilizzo, ancora una volta esprimono una precisa volontà di adesione all'architettura ufficiale (Market-Theatre a Cirene, Aula Dorica a Tolemaide), o indicano l'accresciuta importanza di una città come avviene nel caso di Tolemaide dove il nuovo status di capitale della Pentapoli è sottolineato dalla grande via colonnata delimitata dall'Arco costantiniano, di nuovo con capitelli corinzi asiatici (Fig.21) e fusti a scanalature tortili in bigio, il cui attico a nicchie richiama monumenti urbani contemporanei come il c.d. arco di Giano, e dal più tardo tetrastilo. In età bizantina l'uso del marmo è ancora diffuso soprattutto nelle chiese, dove accanto a basi, capitelli ed elementi di arredo appositamente realizzati, prevalentemente nelle grandi cave del Proconneso ma anche in quelle di Taso (basi tasie nelle basiliche di Apollonia - Fig.17), balaustre nella Basilica Ovest di Latrun), si osserva un crescente ricorso a materiali di reimpiego, come indicano i numerosi fusti in marmi colorati che si affiancano a quelli in proconnesio, spesso appositamente realizzati, e ancora basi e capitelli corinzi asiatici di II -III sec., di produzione microasiatica (basiliche di Tocra e Apollonia, Basilica Centrale presso il decumano a Cirene). Non mancano tuttavia esempi di edifici civili nei quali è ancora una volta il diffuso ricorso a materiale di spoglio a improntare l'architettura (Terme bizantine a Cirene e Tolemaide). Il tetrastilo di Tolemaide31, tuttavia, dove sono impiegati capitelli bizantini (Fig.22) e fusti appositamente importati dal Proconneso, e le basiliche cristiane di Apollonia e di Latrun attestano la continuità d’importazione di marmi in Cirenaica nella seconda metà del V secolo fino all’età giustinianea.

30

Cfr. le piante del Belli in Spanakis, To Theatro, cit. Si veda anche una cornice curvilinea del teatro grande di Gortina, che può essere ipoteticamente attribuita proprio ad una struttura absidata: Bendinelli, Frammenti, cit., c. 30, nr. 7, Tav. 5. 31 Stucchi, Architettura, cit., p.446

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Fig.1

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Cirene. Tempio di Zeus. Interno della cella di età romana.

Fig.2 Cirene. Tempio di Zeus. Base attica in marmo.

Fig.3 Cirene. Tempio di Zeus. Particolare del basamento della cella di età romana.

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P. Pensabene

Fig.4 Cirene. Tempio di Zeus. Capitello corinzio in marmo dalla cella di età romana.

Fig.5

Fig.6

Edificio porticato D.Capitello corinzio.

Cirene. Edificio porticato D.

Fig.7 Cirene. Basilica Centrale. Capitello corinzio asiatico di reimpiego.

Fig.8 Cirene. Basilica Centrale. Capitello ionico reimpiegato come base.

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Fig.9

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Cirene. Teatro 2.

F Fig.10 e 11 Cirene. Teatro 2. Capitello corinzio in pentelico e fusto in granito su piedistallo ottagonale.

Fig.12, 13 e 14 Cirene. Teatro 2. Capitelli corinzi. .

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Fig.15 Apollonia. Basilica orientale. Colonne in cipollino verde, di reimpiego

Fig.16 e 17 Apollonia. Basilica Occidentale. Capitello corinzio con fusto in cipollino di reimpiego e base semilavorata della Casa di Aliki (Thasos) nel battistero.

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P. Pensabene

Fig.19 Tolemaide. corinzio.

Decumano.

Capitello

Fig.18 Tolemaide. Terme pubbliche. Fusto tortile bigio con capitello corinzio.

Fig.20 Tolemaide. Terme pubbliche. Capitello corinzio.

Fig.21, Tolemaide. Arco di Costantino: Capitello corinzio

Fig. 22 Tetrapilo bizantino: Capitello corinzio.

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20 Provenance, use, and distribution of white marbles at Cyrene Donato Attanasio, Susan Kane, Rosario Platania, and Paolo Rocchi Abstract The origin of 318 marble artifacts (188 sculptural, 130 architectural) sampled at Cyrene has beeen established using a combination of EPR, isotopic, and petrographic variables and a database of possible provenances including 10 quarrying sites (Afyon, Carrara, Hymettus, Naxos, Pa/Chorodaki, Pa/Marathi, Pentelicon, Proconnesus, Thasos, and Thasos dolomitic) and 856 quarry samples. Three selected examples (the Altar of Apollon, the five sculptures at the house of Jason Magnus, and the archaic Sphinx) have been used to illustrate the methodological approach. General trends of marble usage at Cyrene have been analysed. Almost 80% of the sampled items are Parian (44.7%) or Pentelic (36.9%), with other provenances distant behind (Proconnesus 8.2%, Thasos 7.3%). The use of Parian marbles, fairly constant in time and similarly common for either sculptural or architectural artifacts, marks the entire artistic and commercial history of the city. In this sense Paros can be considered the marble par excellence of Cyrene. As opposed to this the use of Pentelic, relatively limited in earlier times till the Hellenistic period, undergoes an astonishing increase in Roman times with about 80% of the total sampled items. Massive Roman import is also the reason why Pentelic ranks first among the sculptural marble of Cyrene (45.7%), even more frequent than Paros (43.7%), although slightly. Economic aspects of marble usage during the Imperial period are also briefly discussed. Introduction Continuing excavations carried out at Cyrene, in the Libyan Pentapolis, since the beginning of the 20th century have unearthed an impressive amount of white marble artifacts and remains both sculptural and architectural.1 Marble, however, is not native of Cyrenaica and had to be imported from some of the many quarries scattered along the Mediterranean basin, raising, since the beginning, the problem of provenance. The import of raw and worked materials at Cyrene started immediately after Greek immigrants from Thera, modern Santorini, founded the city (end of 7th century BC) and continued, through Classical, Hellenistic and Roman periods, for more than ten centuries, till late antiquity. In the 5th and 6th century AD marble spolia were used quite freely, but the import of prefabricated fittings for decorating Christian monuments and other buildings was still active and went on almost until the Arab invasion in the mid 7th AD cut off the region from Byzantine control.

1

Bonacasa, N. and Ensoli, S. (eds), Cirene, Electa, Milano 2000.

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D.Attanasio, S. Kane, R.Platania, P.Rocchi

During this long period of time quarrying activities in the likely source sites reached their peak and declined, commercial routes modified, the taste for specific marble varieties changed as did the wealth of the town and the possibility for rich citizens to afford expensive materials and high transportation costs. This makes the study of marble origin and usage at Cyrene a complex, multifaceted problem whose solution in terms of supply sources and their evolution with time may provide valuable data for understanding the artistic and economical life of the city and is at the same time an examplary case study for testing current provenance methodologies. The first large scale investigation was carried out in the 1980’s using isotopic analysis as the main provenancing tool and focussing on sculptures from the Sanctuary of Demeter and Persephone at the Wadi bel Gadir.2 Subsequently additional artifacts were analysed including the British Museum collection of sculptures brought from Cyrene in the 19th century3 and several architectural marbles sampled at the Temple of Zeus and at the Trajan’s baths.4 This work, one of the first systematic attempts to obtain marble provenance on the basis of physico-chemical analyses, provided essential information on the commercial and artistic history of the region. Detailed patterning of the marble varieties used at Cyrene, however, undoubtedly requires more extensive sampling, covering systematically all the most important locations and historical periods and making use of the more advanced multi-method analytical and data processing techniques developed since then. With the aim of extending and refining previous results 318 samples, including 188 sculptural marbles, were collected at Cyrene in the past two years with the helpful cooperation of local authorithies and the Italian archaeological mission from the University of Chieti. The quarries of provenance were established using a multivariate approach that combines isotopic, EPR, and petrographic analyses. In order to obtain a coherent and reliable set of assignments the main problem to solve has been the development of a unitary classification procedure combining accuracy with flexibility. This is a key point for dealing correctly with the chemico-physical peculiarities inevitably present among a relatively large collection of samples often quarried at time intervals of several centuries. To this purpose we used, in a preceding work,5 22 sculptures from the Extramural Sanctuary of Demeter and Persephone at the Wadi bel Gadir, taken as a case study for optimizing the analytical and data processing techniques. Eleven out of the 22 sculptures had already been sampled in the study carried out 25 years ago and afforded the opportunity for additional testing. 2

Herz, N., Kane, S.E., and Hayes, W.B., “Isotopic analysis of sculpture from the Cyrene Demeter sanctuary”, in Application of science in examination of works of art, Museum of Fine Arts, Boston 1985, pp.142-150. Kane, S.E., “Sculpture from the Cyrene Demeter sanctuary in its Mediterranean context”, in Cyrenaica in antiquity, BAR Intern. Series 236, Oxford 1985, pp. 237-247. 3 Kane, S.E., “Sculpture from Cyrene in its Mediterranean context”, in Ancient marble quarrying and trade, BAR Intern. Series 453, Oxford 1988, pp.127-138. 4 Walker, S. and Matthews, K., “A tale of two islands”, in The study of marble and other stones used in the antiquity, Archetype, London 1995, pp.113-120. Walker, S. and Matthews, K., “Marbles from the temple of Zeus and the baths of Trajan at Cyrene”, in Studi Miscellanei 29: Scritti di Antichità in memoria di Sandro Stucchi, I, La Cirenaica, L’Erma di Bretschneider, Roma 1996, pp.307-315. 5 Attanasio, D., Kane, S., and Herz., N., “New isotopic and EPR data for 22 sculptures from the Extramural Sanctuary of Demeter and Persephone at Cyrene”, ASMOSIA VII, Thassos, september 2004 (abstract).

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Having set up the methodological aspects of the work, general classification of the Cyrene samples is now possible. However, although some selected examples will be presented and discussed for illustrative purposes, this paper is not devoted to explicit classification of every sampled sculpture or building. Detailed assignments, when deemed important, will be the object of future work. Rather the general trends of marble usage at Cyrene will be presented here, in terms both of quarries of origin and manufacturing time of the artifacts, attempting to exploit the archaeological significance of the results. Methodological Approach General aspects The determination of provenance of unknown marble samples is usually carried out by measuring a set of properly selected physico-chemical properties and comparing their numerical values with the results available for a data base of quarry samples belonging to viable source sites. The comparison can be carried out at various levels of sophistication from simple graphical presentation of the raw data to full multivariate statistical data processing. Art-historical information plays a crucial role in the process, in that it allows preselection of the most likely provenance sites, thus reducing the complexity of the classification problem, which, otherwise, would be difficult or impossible to solve. The approach briefly mentioned above is the result of several decades of research with contributions from many different groups. Several different analytical techniques have been developed or tested for the purpose of marble provenancing, the most successful and widespread being thin section petrography,6 the measurement of carbon and oxygen stable isotopes ratios,7 trace element analysis,8 electron paramagnetic resonance spectroscopy9 and others. It is now clearly established, however, that single techniques are hardly satisfactory, the best results being obtained by multivariate approaches combining two or more different methodologies.10

6

Moorhouse, W. W., The study of rocks in thin section, Harper Brothers, New York 1959. Herz, N. “Isotopic analysis of marble”, in Archaeological geology, Yale University Press, New Haven 1985, pp.331-351. Gorgoni, C., Lazzarini, L., Pallante, P., and Turi, B., “An updated and detailed mineropetrographic and C-O stable isotopic reference database for the main Mediterranean marbles used in antiquity”, in Interdisciplinary studies on ancient stone, Archetype, London 2002, pp.115-131. 8 Matthews, K.J., ”The establishment of a data base of neutron activation analyses of white marble”, Archaeometry, 39, 1997, pp. 321-332. 9 Polykreti, K. and Maniatis, Y., “A new methodology for the provenance of marble based on EPR spectroscopy”, Archaeometry, 44, 2002, pp. 1-21. Attanasio, D., “The use of electron spin resonance spectroscopy for determining the provenance of classical marbles”, Applied Magnetic Resonance, 16, 1999, pp. 383-402. 10 Moens, L., Roos, P., De, Rudder J., De Paepe, P., Van Hende, J., and Waelkens, M., “A multi-method approach to the identification of white marbles used in antique artifacts”, in Classical marble: geochemistry, technology, trade, Kluwer, Dordrecht 1988, pp. 247-252. Matthews, K.J., Leese, M.N., Hughes, M.J., Herz, N., and Bowman, S.G.E., “Establishing the provenance of marble using statistical combinations of stable isotope and neutron activation analysis data” in The study of marble and other stones used in the antiquity, Archetype, London 1995, pp. 181-186. Attanasio, D., Conti, L., Platania, R., and Turi, B., “Multimethod provenance determinations. Isotopic, ESR and petrographic discrimination of 7

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Two additional problems, however, should be addressed to make multi-method approaches truly feasible and existing databases practically usable by the scientific/archaeological community. The first is that different analytical techniques have been commonly developed referring to different, unrelated sets of quarry samples, so that different methods cannot merge into a single, coherent data set; in this case only a sequential approach is possible. The second point is that even single techniques are often difficult to use for the simple reason that complete analytical data for the quarry samples have rarely been published, often replaced by summarizing graphs or tables. These do not permit accurate statistical classification of the unknown samples, the results being purely qualitative. Database, Experimental Variables And Data Analysis With the aim to overcome the above difficulties we have been developing in the last few years a new marble database, including at present 1275 samples from 1 Italian, 7 Greek and 9 Turkish quarrying sites according to the following list: Italy:

Carrara (171),

Greece: Hymettus (42); Naxos (40); Paros/Chorodaki (63); Pa/Marathi (74); Pentelicon (165); Thasos, calcitic (69); Thasos, dolomitic (38), Turkey: Afyon (65); Altintaú (58); Aphrodisias (106); Denizli (41); Ephesus (50); Hierapolis (31); Miletus (60); Proconnesus (158); Thiountas (44). Database samples were characterized using a combination of 10 EPR (electron paramagnetic resonance) and petrographic/morphological variables, briefly defined in Table 1. Complete details concerning the physical nature of the variables and the experimental measuring procedures have been published elsewhere together with the complete raw data.11 Making use of two different analytical techniques the database represents already a first step towards the development of multi-method marble analysis. In spite of this discrimination of some important Turkish quarrying sites is still unsatisfactory and additional data seem indispensable. For this reason and to increase the overall rate of discrimination, complete measurement of the isotopic ratios is under way and will be reported in due course. The Cyrene samples were analyzed following exactly the methods and the standardisation procedures adopted for the database. The assignment was carried out using the classification rule, established and optimized previously to assign the 22 sculptures of the Wadi bel Gadir Sanctuary. The rule has been obtained with the aid of linear discriminant function analysis and uses a subset which includes the five most discriminant variables, logarithmically transformed to improve the normality of data distribution. fine-grained white marbles”, in Interdisciplinary studies on ancient stone, A.Ausilio Ed., Padova 2002, pp. 141-147. 11 Attanasio, D., Ancient white marbles: analysis and identification by paramagnetic resonance spectroscopy, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003.

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Two different parameters, the so-called posterior and typical probabilities, have been used for assessing the reliability of the assignments.12 The former is a relative probability of provenance assuming that the sample belongs anyhow to one of the chosen groups. The second is a “distance” based parameter measuring the absolute probability of the sample to belong to the chosen group and to be a “typical” representative of that group. The assignment is deemed to be reliable when both parameters are above suitable threshold values set at 60% and 10%, respectively, on the basis of previous work.13 Lower values identify in doubt data points, which may originate from two or more different sites, or anomalous cases (outliers) possibly not belonging to any of the selected groups. In addition the isotopic ratios of 232 Cyrene samples, including all the statuary and a selection of architectural marbles were measured at the Geology Department of the University of Georgia at Athens. Awaiting the complete, multi-method database to become available, these data were used, on a non systematic basis, to perform straight isotopic assignments with the aid of the extensive isotopic database established by Norman Herz over the years14 and generously made available to us by the author. Contradictory assignments could be usually solved by simple, critical comparison of the results and this approach, intermediate with respect to true multi-method analysis, proved useful to clarify the provenance of most problematic samples. In spite of this the analysis of marble distribution and trends, discussed below, has been carried out essentially on the basis of the EPR/petrographic database, this being, at present, the appropriate tool for processing a relatively extended sets of unknown samples on a strict statistical basis. Three Case Studies Before discussing sample assignments it must be pointed out that Cyrene work was carried out using a subset including the 10 most likely quarrying sites among the 17 possibilities present in the database. They are: Afyon, Carrara, Hymettus, Naxos, Pa/Chorodaki, Pa/Marathi, Pentelicon, Proconnesus, Thasos, and Thasos dolomitic (856 total samples). All Phrygian marbles, apart from Afyon, and the Turkish-Aegean sites of Miletus and Ephesus were discarded. Inclusion of Docimium marbles from Afyon was based on initial isotopic evidence suggesting that this site might be a possible source. Other Phrygian sites (Altintaú, Aphrodisias, Denizli, and Thiountas) were deemed to be of lesser importance and unlikely. In the case of Aphrodisias, however, the exportation of 12

Hand, D.J., Construction and assessment of classification rules, John Wiley & Sons, New York 1997, pp. 3-20. Huberty, C.J., Applied discriminant analysis, John Wiley & Sons, New York 1994, pp. 39-52. 13 Attanasio, D., Bultrini G., and Ingo G.M., “The possibility of provenancing a series of bronze Punic coins found at Tharros (Western Sardinia) using the literature lead isotope database”, Archaeometry, 43, 2001, pp. 529-547. 14 Herz, N, “Stable isotopic analysis of marble”, in Archéomatériaux: marbres et autres roches, CRPAA PUB, Bordeaux 1999, pp. 15-16.

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D.Attanasio, S. Kane, R.Platania, P.Rocchi

finished artifacts has been demonstrated and it has been supposed that raw Aphrodisian marble might have followed, in some instances, the Carian itinerant sculptors.15 Therefore, test calculations were performed and fully supported exclusion of the site. The following discussion will demonstrate that only three artifacts sampled at Cyrene can be, in fact, credibly assigned a Phrygian, Afyon, provenance. In the absence of obvious historical and commercial reasons, the exclusion of Ephesus and Miletus is more controversial. These sites strongly superpose with several others Greek and Turkish sources and cause the greatest difficulties to correct database discrimination. Being aware of these difficulties we carried out careful preliminary calculations which failed to provide any evidence of possible provenance from the two sites, whose presence, however, greatly complicates the assignment procedure. Additional evidence came from the fact that all assignments carried out after excluding Ephesus and Miletus attained high values of the probability parameters, suggesting that provenances from groups not included in the selection are unlikely. The Altar of Apollon The altar is located west of the main temple within the Sanctuary of Apollon on a terrace which stretches out immediately below the Acropolis on the northern side of the hill, in the place where the sacred springs of Cyrene and Apollon are also found. The original limestone altar was built in the mid 6th century BC, approximately when the first temple was also erected. Later on the altar was modified and then covered with marble in the late 4th century at the expense of Philon, son of Annikeris, as stated by the surviving dedicatory inscription. Ten samples (Cy01.131 – Cy01.140) were taken from paving blocks, covering slabs, friezes and the inscripted slab and are discussed here to verify the widespread belief that Parian marble was used for the covering. From the point of view of the EPR/petrographic properties the altar marbles are relatively homogeneous, all being medium intensity, medium grained, sulphur smelling samples. They fall into a region where strong superposition exists, especially between Parian and Proconnesian marbles. In spite of this, statistical classification and Fig.1 clearly indicate that all samples originate from Paros and specifically from the Chorodaki district, which produces a marble variety also known as Paros II or Lakkoi, after the local name of some quarries. On the basis of posterior probability values ranging from 65% to 85%, alternative provenances from Proconnesus or Paros/Marathi are quite unlikely and the samples are also highly representative of the selected provenance (typicalities are from 59% to 85%). The only exception is sample Cy01.135 (a paving block), whose posterior probability, 52%, although confirming the Parian provenance does not allow clear discrimination between Chorodaki and Marathi. Isotopic results are fully compatible with the Chorodaki assignment, although it turns out that, owing to extensive superposition, statistical isotopic assignment misclassifies three out of ten samples. In this case, however, the statistical approach, being based on two variables only, is of limited use as discussed below in more detail. On the other 15

Pensabene, P., “Le principali cave di marmo bianco”, in I marmi colorati della Roma Imperiale, Marsilio Editore, Venezia 2002, pp.203-221.

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Sessione IV: Studio dei materiali

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hand isotopic ratios have the distinct advantage of discriminating easily between the two Parian districts of Chorodaki and Marathi and clearly rule out the possible provenance of sample Cy01.135 from Marathi. The example shows that the two methods complement each other satisfyingly and are expected to operate much more efficiently when used simultaneously in a multi-method framework. Five Sculptures at the House of Jason Magnus The origin of the five Roman sculptures now located in the peristyle of the house of Jason Magnus is not fully clear. Four of them (Paribeni nos. 400-403),16 identified as Muses on the basis of the name Thalia inscripted on the plinth of no. 400, are probably connected with the nearby Theatre 3. The fifth sculpture (Paribeni no. 357) is thought to represent Ariadne, the wife of Dionysos, and was discovered separately in 1936. Believed by Paribeni to be all made of Pentelic marble, the five sculptures are another interesting example for testing the method and illustrating its application to Cyrene statuary. Table 2 shows that the four Muses were made using quite similar marbles, exhibiting high EPR intensity, strongly negative shift of the oxygen isotopic ratio and other more usual properties like medium to low grain size, highly white colour and absence of any odour. A totally different, pure dolomitic marble, characterized by medium-low EPR intensity and a moderately negative shift of the isotopic oxygen variable, was used, instead, to manufacture the sculpture of Ariadne. Both statistical calculations and the isotopic plot of Fig. 2 unequivocally indicate that the four Muses are Pentelic, as correctly assumed by Paribeni, while the sculpture of Ariadne must be assigned to the dolomitic quarries of Saliara or Cape Vathy on the island of Thasos. Both posterior and typical probabilities are above the threshold values and close to 100% in the case of the four Muses. Although strong superposition exists among the Pentelicon, Carrara and Afyon quarries, the high probability values demonstrate that, in this case, discrimination between the three sites is not difficult and the assignment of the four Muses is firmly based. It may be added that dolomitic marbles are easily detected by EPR spectroscopy as well as by X-ray diffraction and other analytical techniques and can be also identified by means of simple chemical tests. In spite of this, dolomites have gone frequently unnoticed, in which case they are easily misclassified as Pentelic. Once detected, the assignment of a dolomitic artifact to the quarries of Thasos is, in some way, trivial. The database, in its present version, has no alternatives and it is known that other possible sources, located for instance in the Italian and French Alps, were of purely local use in the antiquity. It is satisfactory, neverthless, to verify that the Ariadne sample is fully compatible with the properties of Thasian dolomites. The Archaic Sphinx The sphinx, now in the Cyrene museum, was discovered fortuitously in 1966 in a sacred dump or favissa not far from the Temple of Zeus, approximately where the present day postal office is found. The sacred deposit contained also three other archaic sculptures, the supporting column and capital of the sphinx and a number of partly decorated 16

Paribeni, E., Catalogo delle sculture di Cirene, L’Erma di Bretschneider, Roma 1959.

Sessione IV: Studio dei materiali

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bronze sheets and plaques, rare evidence of the revetment of an Archaic Greek “bronze house”. Apparently these findings were buried into the favissa to keep them safe when the Persian army, on its way to Barce, camped outside Cyrene in the late 6th century. The discovery, originally reported by Goodchild, White and Pedley,17 has been object of several additional studies.18 The sphinx and other archaic sculptures have been recently discussed in detail by Fabbricotti.19 The sphinx, the column and the capital are all made of very similar marbles characterized by low EPR intensity, medium grain size and the distinct presence of foetid sulphur odour upon grinding. The EPR/petrographic results suggest that the column and capital samples are extremely similar, while the sphinx marble has somewhat different properties. At variance with this isotopic data stress, instead, the close similarity of the sphinx and column marbles. In any case both methods leave little doubt on the Paros/Chorodaki provenance of all three samples. The typical values range from 75% to 98%, while the sphinx has a posterior value of 57% indicating some uncertainty with respect to Marathi, easily solved in terms of isotopic shifts. The General Marble Distribution The provenance of the 318 samples collected at Cyrene was established following the general guidelines discussed above. As already stated, however, the EPR/petrographic and isotopic methods gave, occasionally, conflicting or doubtful results and conclusive evidence on the provenance of some samples could not be reached. In the absence of a truly multivariate approach, assigning a controversial sample may introduce a certain degree of speculation about the role and relative weight of different variables, leading to possible misclassifications difficult to be perceived. In addition the isotopic ratios, despite their powerful discriminating ability, make up a quite small variable set, usually inadequate, on a probabilistic basis, to obtain clear indications of provenance. In most cases the experimental values, although fully consistent with the true quarry of provenance, are also compatible with other source sites and statistical discrimination becomes difficult, owing to small values of the posterior probability. For these reasons the following discussion is based primarily on the EPR/petrographic results corrected, when possible, in the light of isotopic data and taking into account only the fraction of samples providing clearly reliable results. In other words only the samples exhibiting posterior and typical probabilities above the threshold values defined above, were taken into account to investigate marble distribution at Cyrene. In this way 244 samples (80%) were considered to be valid, while 22 samples (7.2%) were in doubt 17

Goodchild, R.G., Pedley, J.G., and White, D., “Recent discoveries of archaic sculpture at Cyrene”, Libya Antiqua, 3/4, 1966-67, pp. 179-198. 18 Pedley, J.G., “The archaic favissa at Cyrene”, Amer.J.Archaeology, 78, 1971, pp. 41-42. White, D., “Imported schreclichkeit and homegrown iconocalsm: two faces of communal violence at Cyrene”, Convegno di Archeologia Cirenaica, Chieti, 2003. Kane, S., “The bronze sheets of the archaic favissa at Cyrene”, Convegno di Archeologia Cirenaica, Chieti, 2003. 19 Luni, M., Fabbricotti, E., Lazzarini, L., and Turi B., “Le statue greche in marmo di età arcaica a Cirene”, Rend.Acc.Lincei, ser. 9, 14, 2003, pp.1-57.

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between two or more sites and 39 (12.8%) were more or less atypical representatives of the chosen (most probable) group. Once again introduction of simultaneous, all-variable discrimination is expected to increase substantially the percent of reliable assignments. The general trends, however, are already reasonably clear and expanding the number of available samples will be important mainly for refining the presence and distribution of less common varieties. The overall histogram of Fig. 4 clearly indicates that two marble varieties, Paros and Pentelicon in this order, are by far the most frequent and almost pervasive marbles used at Cyrene both for statuary and architectural purposes. They alone account for more that 80% of the sampled artifacts, leaving Proconnesos and Thasos (calcitic and dolomitic marbles) far behind with similar shares of 8.2% and 7.3%, respectively. The presence of marbles from other sites, such as Afyon or Carrara, is so scanty to be considered, at this stage, uncertain and within the error margins. This result is not particularly surprising since Paros and Pentelicon, two of the most celebrated marble sites in antiquity, were close at hand and their preferential use could warrant at the same time high marble quality and relatively moderate transportation costs. On the other hand the overwhelming presence of Parian and Pentelic marbles argues in favour of a rather conservative attitude, leading the Cyreneans to preserve close ties with their original Greek world. A second question of interest is related to a possible difference in the choice of marbles to be used for sculptural or architectural purposes. This problem is addressed in Fig. 5 where marble distribution is given separately for statuary and architectural items. It turns out that in the case of sculptural samples the percent of Paros and Pentelicon is even higher than the value given above, raising to almost 90% and leaving only negligible fractions to other varieties such as Afyon, Carrara, Proconnesos and Thasos. It is worth noting, however, that Thasian dolomite is the most common among these seldom used marbles. Analysis of 93 architectural samples gives a rather different distribution result. Paros is still a quite common marble with 46% of the samples, a frequency almost equal to the 43.7% value obtained for Parian sculptures. The percent of Pentelicon architectural samples, however, is much lower (22.6%) and comparable with Proconnesus (17.2%), while even calcitic Thasos samples are now present in considerable amount (10.8%). One of the many implications of this result is that Pentelicon was used at Cyrene primarily for statuary and is, in fact, the most widespread sculptural marble of Cyrene slightly more frequent than Paros (45.7% and 43.7%, respectively). This result, which is to some degree surprising, can be placed in a more understandable perspective by inspecting Fig. 6. On the basis of an approximate, 6-fold temporal categorization, the double histogram attempts to explore marble distribution over time for the two most important varieties. Before proceeding, however, it should be pointed out that are at least two important reasons why attempts at studying time distribution must be considered cautiously. The first relates to the difficulty of dating reliably and precisely many of the sampled items. The second is that the underlying assumption is that exhaustive sampling could be carried out, both in space and time. This is obviously an ambitious and difficult target as shown by the fact that only very few or none samples could be ascribed to Classical or Late-Roman periods.

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Keeping these limitations in mind, Fig. 6 shows clearly that Paros marbles were used in roughly similar amounts during the entire history of Cyrene, from the Archaic period till Roman Imperial times, their presence never exceeding 30% in a single time period. As opposed to this, the presence of Pentelic marbles appears to be quite limited till the Hellenistic age and undergoes an astonishing increase only during the Roman period. Almost 80% of all Pentelic samples identified at Cyrene can be ascribed to Roman times. The use of Pentelic is especially evident in Antonine times. While surpassing Parian in quantity, the Pentelic marble used during this period is not of especially high quality. Its increased importation may be a result of Cyrene’s close political ties with Athens, a fellow member of the Panhellenion League. In some way it can be stated that Paros is the Cyrene marble par excellence, the one which marked its entire history, while the primacy of Pentelicon is largely the result of massive Roman import and usage. A different way of looking at the same problem is to classify all samples simply according to their pre-Roman or Roman dating, as attempted by the histograms of Fig. 7. The result is that the presence of Parian samples drops from 2/3 of the total to about 1/4, while Pentelicon raises from 1/6 to about 50% of the so-called Roman samples. A side notation is that some new varieties, notably Afyon and dolomitic Thasos, which were absent in earlier times appear, albeit occasionally, during the Roman period. The three dimensional, bivariate histogram of Fig. 8 is a final graphic summary of the complex marble distribution existing at Cyrene. Whatever its origin, there is less conspicuous consumption of marble in Cyrene, especially in the “marble-mad” high Imperial period, than is the case in other areas of the Empire.20 Economy is always a paramount concern. No matter what the type of marble, statues at Cyrene tend to be made from thin blocks and to use figural types which encourage the use of slender formats. Separately carved limbs were added onto bodies which closely conform to the parameters of their original blocks. Statues were often pieced in an elaborate and extensive manner— never an easy thing to do— a practice that appears to be driven by necessity of available material. Even small scale statuettes can exhibit complicated piecing techniques, reflecting, perhaps, the extensive use of scrap pieces to construct a complete figure. This piecing may reflect both an economic utilization of all scraps of stone as well as the possible division of workshop labor.

Kane, S. and Carrier, S., “Relationship between style and size of statuary and the availability of marble in the Eastern Roman Empire”, in Ancient Stones: Quarrying, Trade and Provenance, Leuven University Press, Leuven, 1992, pp. 121 – 125.

20

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Table 1. The twelve experimental variables used for the characterization of database and Cyrene samples. 1 2 3 4 5 6

INTENS INTEGR WIDTH DOLOM SPLI SPREAD

7 8

G 18O G 13C

9 10 11 12

MGS COLOUR STDCOL ODOUR

6 EPR Variables Intensity of the high field Mn2+ signal Integrated signal Linewidth (high field doublet) % of dolomitic Mn2+ Splitting of the high field doublet Total spectral extension 2 Isotopic Variables Oxygen stable isotopes ratio Carbon stable isotopes ratio 4 Morphological Variables Maximum grain size Sample colour (8-bit gray scale, 0= black, 255= white) Colour standard deviation Sample odour upon fracture (1= absent, 2= present)

Table2 Variables values for the three case study samples.a Label Cy01.131 Cy01.132 Cy01.133 Cy01.134 Cy01.135 Cy01.136 Cy01.137 Cy01.138 Cy01.139 Cy01.140 Cy01.39 Cy01.40 Cy01.41 Cy01.42 Cy01.43 Cy01.145 Cy01.146 Cy01.147

G 13C INTENS INTEGR WIDTH COLOUR Altar of Apollon W-slab -1.21 2.20 .288 .189 .532 228 W-slab -1.84 2.10 .504 .221 .575 219 W-slab -1.50 2.26 .397 .208 .564 225 Cornice -1.87 2.14 .375 .193 .532 221 F-slab -1.52 2.19 .119 .129 .563 205 F-slab -1.75 2.15 .413 .198 .532 236 F-slab -1.46 2.12 .423 .213 .553 212 Frieze -1.49 2.22 .338 .189 .562 219 Inscription -1.94 2.27 .321 .182 .562 233 Frieze -1.13 2.21 .555 .249 .562 222 Five sculptures at the house of Jason Magnus Par. no.400 -7.63 2.48 1.808 1.426 .611 231 Par. no.401 -4.91 2.54 2.993 1.439 .629 236 Par. no.402 -8.11 2.64 1.292 .724 .566 243 Par. no.403 -6.41 2.65 4.152 2.137 .732 232 Par. no.357 -3.52 3.32 .344 .282 .706 243 Sphinx with column and capital from the archaic favissa Sphinx -1.80 2.10 .210 .168 .562 210 Column -2.04 2.09 .245 .189 .488 212 Capital -1.00 2.28 .330 .197 .561 219 Descript.

a

G 18O

MGS 1.70 1.80 1.90 1.70 2.10 1.90 1.90 2.10 1.70 2.00 .90 .90 .90 .70 1.00 1.50 2.00 2.20

Abbreviations: W-slab, wall slab; F-slab, floor slab; Par., Paribeni, “Catalogo”.

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8 6

Pa/Cho Th

4

Discr.Coord. 2

2

Nx Cy01.135

Pe

0 -2

Pa/Ma

Ca

Pro

-4

Hy

-6 -8 -6

-4

-2

0

2

4

6

8

Fig. 1 EPR/petrographic discriminant plot showing locations of the ten samples from the Altar of Apollon with respect to possible provenance sites. The coordinates are suitable linear combinations of the five variables used for establishing the classification rule. The discriminant space spanned by the quarrying sites is drawn using 90% probability ellipses.

Discr.Coord. 1 6

Pa/Ma

ThD

Ca

Fig. 2 Bivariate isotopic plots of the five sculptures at the House of Jason Magnus. 90% probability ellipses are based on the isotopic database established by Norman Herz and kindly made available to us by the author.

4

Th

Pe 13 D13_C G C

2

0

Nx/Apo

Pro Pa/Cho

Hy

Nx/Kin Nx/Mel

Afy Four Muses Ariadne

-2

-4

-12

-8

-4

18 0 D18_O

G

0

8 6

Pa/Cho Th

Discr.Coord. 2

4 2 0

Nx

Afy

-2

Pa/Ma

Ca

Pro

-4

Sphinx Column Capital

Hy

-6 -8 -6

Fig. 3 EPR/petrographic discriminant plot of the archaic Sphinx and its supporting column and capital with respect to possible provenance sites

Pe

-4

-2

0

2

4

6

Discr.Coord. 1

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D.Attanasio, S. Kane, R.Platania, P.Rocchi

140

44.7% (109)

120

36.9% (90)

100

No of obs

80 60

8.2% (20)

40 20 0

5.3% (13) 2% (5)

1.6% 1.2% (4) (3) Afy

Hy Ca

Pa Nx

Pro Pe

ThD Th

Fig. 4 Histogram of the overall marble distribution at Cyrene. This and following plots take into account only the 244 marble samples (80% with respect to the 318 total samples) for which reliable provenances, as defined in the text, were obtained. 80

151 Sculptures 70 60

43.7%

93 Architectural Items

45.7%

50 40 30

22.6% 17.2% 10.8%

No of obs

46.2%

0

2.2% 1.1%

2.6% 2% 3.3%

10

0.7% 2%

20

Afy Hy Pa Pro ThD Afy Hy Pa Pro ThD Ca Nx Pe Th Ca Nx Pe Th

Fig. 5 Marble distribution histograms obtained separately for sculptural and architectural samples, showing the almost exclusive use of Parian and Pentelic varieties in the case of statuary. The slight primacy of Pentelicon is ascribed to extensive import and use of this marble in Roman times.

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D.Attanasio, S. Kane, R.Platania, P.Rocchi

70

80

Pentelicon

Paros 60

70

Pre-Roman

Roman

66.7%

77.6%

Roman

Late Roman

LH-Roman

Fig. 6 Distribution of Parian and Pentelic marbles at Cyrene in different historical periods, emphasizing massive increase of Pentelicon use in Roman times.

0

26.7% 8.6% 6.9% 4.3%

3.7%

10

2.6%

30 15.7% 9.3% 4.6%

No of obs

40

20

7.9%

10.5%

Classical

3.9%

Archaic

Hellenistic

29.1%

30.1%

Roman

Late Roman

LH-Roman

Classical

Hellenistic

Archaic

0

50

1.9%

10

22.3%

30 16.5%

No of obs

40

20

50.9%

60

50

Afy Hy Pa Pro ThD Afy Hy Pa Pro ThD Ca Nx Pe Th Ca Nx Pe Th

Fig. 7 Overall marble distribution obtained for pre-Roman and Roman samples at Cyrene, illustrating the key role played by Parian and Pentelic marbles, respectively.

Fig. 8 Bivariate histogram summarizing marble distribution at Cyrene with respect to time and quarries of provenance.

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G. Ottone

21 Il discorso di Timoleonte in Timeo (FGrHist 566 F 31b) e la visione della Libye tra paremiografia e paradossografia Gabriella Ottone Com'è noto, Polibio consacrò larga parte del dodicesimo libro delle sue Storie a una serrata critica dell'opera storiografica di Timeo1. Fra le accuse che lo storico di Megalopoli rivolgeva al predecessore, quelle contenute nella prima sezione del libro, pervenuto purtroppo in forma frammentaria, colpiscono per la particolare veemenza: Timeo viene tacciato, senza mezzi termini, di ignoranza, di ingenuità e persino di follia. L'argomento a provocare tanta acredine sembrerebbe tutto sommato marginale, dal momento che si trattava della Libye, o meglio, della descrizione geografica e naturalistica che ne avrebbe fatto il Tauromenita2: se non fosse che, all'epoca in cui Polibio scriveva3, il tema non era marginale per niente. Proprio la Libye, nell’accezione più ampia del termine4, era divenuta teatro dei destini di Roma, vale a dire, del mondo: e proprio lì Polibio era approdato, al seguito del suo patrono, Scipione Emiliano, 1

La critica moderna che si è occupata della storiografia polibiana ha messo nel giusto rilievo i vari aspetti connessi con l’atteggiamento polemico dello storico di Megalopoli nei confronti di Timeo nonché di altri storici a lui anteriori: vd. in particolare Körner, R., “Polybios als Kritiker früherer Historiker”, Wiss. Zeitschr. Univ. Jena, VI, 1956-1957, pp. 647-648 (ora in Stiewe, K. - Holzberg, N., hrsgg., Polybios, Darmstadt 1982, pp. 327-331); Pédech, P., Polybe. Histoires. Livre XII, Paris 1961, pp. xxvii-xxxv; Walbank, F.W., “Polemic in Polybius”, JRS, LII, 1962, pp. 1-12 (= Stiewe - Holzberg, Polybios, pp. 377404); Levi, M.A., “La critica di Polibio a Timeo”, in Miscellanea di studi alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino 1963, pp. 195-202 (= Stiewe - Holzberg, Polybios, pp. 405-414); Walbank, F.W., A Historical Commentary on Polybius, II. Commentary on Books VII-XVIII, Oxford 1967, in partic. pp. 317-322; Lehmann, G.A., “Polybios und die ältere und zeitgenössische griechische Geschichsschreibung: Einige Bemerkungen”, in Gabba, E., cur., Polybe. Neuf exposes suivis de discussions. Entretiens Hardt, XX (Vandœuvres, 27 aôut-1er septembre 1973), Genève 1974, pp. 147-200; Meister, K., Historische Kritik bei Polybios, Wiesbaden 1975, in partic. pp. 3-10; Sacks, K., Polybius on the Writing of History, Berkeley - Los Angeles - London 1981, pp. 66-78; Schepens, G., “Polemic and Methodology in Polybius’ Book XII”, in Verdin, H. - Schepens, G. - De Keyser, E., eds., Purposes of History. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C., Leuven 1990, pp. 39-61; Fögen, T., “Zur Kritik des Polybios an Timaios von Tauromenion”, LF, CXXII/1-2, 1999, pp. 1-31; Vattuone, R., “Timeo, Polibio e la storiografia greca d’Occidente”, in Schepens, G. – Bollansée, J. (edd.), The Shadow of Polybius. Intertextuality as a Research Tool in Greek Historiography. Proceedings of the International Colloquium Leuven, 21-22 September 2001 (Studia Hellenistica 42), Leuven 2005, pp. 89-122. 2 Polyb. XII 3, 2-6: FGrHist 566 F 81: WRQGH7LYPDLRQHL>SRLWLD@QRXMPRYQRQDMQLVWRYUKWRQJHJRQHYQDLSHULWZCQNDWDWKQ/LEXYKQDMOOD NDLSDLGDULZYGKNDLWHOHYZDMVXOORYJLVWRQNDLWDLCDMUFDLYDLIKYPDLDMNPKQHMQGHGHPHYQRQD` SDUHLOKYIDPHQZ-DMPPZYGRXSDYVKNDL[KUDCNDLDMNDYUSRXNDTXSDUFRXYVKWKC/LEXYK 3 Per la questione relativa alla data di redazione del libro dodicesimo delle Storie, composto con ogni probabilità dopo il 150-146 a.C., periodo in cui ebbero luogo i viaggi di Polibio in Africa, vd. Walbank, F.W., “Three Notes on Polybius XII”, in Miscellanea di studi alessandrini, pp. 203-208 (= Stiewe Holzberg, Polybios, pp. 415-421). 4 Sulle diverse accezioni attribuite dagli antichi al coronimo /LEXYK/ Libya, vd. Ottone, G., a cura di, Libyka. Testimonianze e frammenti (I frammenti degli storici greci, 1), Tivoli 2002, pp. 1-2 e nt. 2.

Sessione V: Studi Storici

261

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

G. Ottone

finendo per trovarsi testimone del totale annientamento dell'eterna rivale di Roma, Cartagine5. Per una persona dall'attitudine eccezionalmente pragmatica, come Polibio, che sapeva riconoscere l'importanza dei dettagli logistici nello svolgimento delle operazioni belliche, una corretta cognizione dell'ambiente in cui tali operazioni si espletavano doveva essere considerata essenziale: al contrario, informazioni imprecise o, peggio ancora, non conformi alla realtà, erano giudicate, per ovvie ragioni, deleterie. È anche in quest'ottica, dunque, che Polibio non poteva condividere il metodo di lavoro di chi, come Timeo, non basandosi su una conoscenza autoptica dei luoghi oggetto della narrazione6, dimostrava assoluta mancanza di quella competenza geografica che è parte imprescindibile di una storiografia “pragmatica”, e che, a suo giudizio, concorreva a distinguere il vero storico dal semplice erudito da tavolino7. In particolare, al collega, Polibio contestava, come corollario all'assenza dell'esperienza “sul campo”, il ricorso a fonti libresche e l'elaborazione di discorsi fittizi in cui non venivano riportate «le parole dette (WDU-KTHYQWD), ma neppure il senso generale secondo cui verosimilmente le parole furono pronunciate (Z-HMUUKYTKNDWMDMOKYTHLDQ)», bensì l’enumerazione di tutte le argomentazioni possibili «sulla base di ciò che bisognava si dicesse (Z-GHLCU-KTKCQDL)», «come si farebbe in una scuola di retorica, accingendosi a parlare su un argomento prestabilito (…) quasi a mettere in evidenza la propria capacità dialettica piuttosto che a esporre parole veramente dette (WDYNDWMDMOKYTHLDQHLMUKYPHQD)»8. Quindi, proprio per 5

Polyb. XXXVIII 21, 1; Plut., Reg. et imp. apophth., 200. L'esilio di Timeo, voluto da Agatocle, e il conseguente soggiorno ad Atene durato cinquanta anni (FGrHist 566 T 4), può in effetti aver impedito allo storico di acquisire informazioni “di prima mano” a proposito di molti dei fatti avvenuti nell'Occidente greco, e di avere esperienza diretta del teatro di tali avvenimenti; ciò nonostante, questo aspetto è stato certamente amplificato nelle argomentazioni polemiche di Polibio (in particolare a XII 28, 6: FGrHist 566 T 3d), il quale aveva interesse a insistere sulla presunta totale distanza di Timeo dai fatti narrati e dai luoghi coinvolti nello svolgimento degli stessi. Inoltre, non è neppure possibile escludere a priori che Timeo abbia avuto la possilità di rientrare occasionalmente in Sicilia, ottenendo informazioni autoptiche: vd. Vattuone, R., “Timeo di Tauromenio”, in Id., a cura di, Storici greci d'Occidente, Bologna 2002, pp. 183-184. Sulla particolare rilevanza attribuita all’HMPSHLULYD nella riflessione storiografica di Polibio e sulle implicazioni metodologiche connesse con tale nozione, vd. Schepens, G., “Éphore sur la valeur de l’autopsie”, AncSoc, I, 1970, pp. 173-175; Weiler, I., “Autopsie und Geschichtserkenntnis bei Polybios und Timaios. Überlegungen zur Notwendigkeit von Exkursionen”, in Haider, P.W. - Rollinger, R., hrsg. von, Althistorische Studien im Spannungsfeld zwischen Universal- und Wissenschaftsgeschichte. Festschrift für Franz Hampl zum 90. Geburtstag am 8. Dezember 2000, Stuttgart 2001, pp. 317-334. 7 Cfr. Polyb. XII 25 h. 8 2XMJDUWDU-KTHYQWDJHYJUDIHQRXMGMZ-HMUUKYTKNDWMDMOKYTHLDQDMOODSURTHYPHQRZ-GHLCU-KTKCQDL SDYQWDH-[DULTPHLCWDLWRXU-KTHYQWDORYJRXNDLWDSDUHSRYPHQDWRLCSUDYJPDVLQRX^WZZ-D@Q HL>WLHMQGLDWULEKCSURXMSRYTHVLQHMSLFHLURLYK(……)Z^VSHUDMSRYGHL[LQWKaH-DXWRXCGXQDYPHZ SRLRXYPHQRDMOOMRXMNHM[KYJKVLQWZCQNDWMDMOKYTHLDQHLMUKPHYQZQ: Polyb. XII 25 a 5. Evidentemente non è casuale che la Suda (s.v. 7LPDLCR, 7 602 Adler: FGrHist 566 T 1) attribuisca a Timeo una 6XOORJKYU-KWRULNZCQDMIRUPZCQ in 68 libri, che tuttavia la critica moderna tende a ritenere spuria: vd. Meister, K., La storiografia greca, trad. it., Roma-Bari 1992, pp. 155-156. Sui logoi nell'opera storica di Timeo e sul giudizio polibiano, vd. Walbank, “Three Notes”, pp. 211-213; Pearson, L., “The Speeches in Timaeus' History”, AJPh, CVII, 1986, pp. 350-368; Pearson, L., The Greek Historians of the West. Timaeus and His Predecessors, Atlanta 1987, pp. 221-222; Vattuone, R., Sapienza d'Occidente. Il pensiero storico di Timeo di Tauromenio (Studi di Storia, 4), Bologna 1991, pp. 237-266; Meister, La storiografia, p. 159; Vattuone, “Timeo di Tauromenio”, pp. 212-217. 6

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evidenziare come dal tono e dal contenuto dei logoi timaici sarebbe apparsa palese l'inadeguatezza dello storico di Tauromenio a descrivere NDWMDMOKYTHLDQ situazioni politiche o militari, e per stigmatizzare la sua presunta ignoranza nonché la falsità di certe affermazioni9, Polibio riportava taluni esempi. Tra questi è il logos che, all’interno dei Sikeliká10, Timeo avrebbe fatto pronunciare a Timoleonte prima della battaglia presso il fiume Crimiso11, a oriente di Segesta, quando, nell'imminenza dello scontro decisivo con i Cartaginesi, il condottiero corinzio avrebbe esortato i Greci a non tenere in considerazione la superiorità numerica dei nemici, bensì la loro DMQDQGULYD, la mancanza di virilità e di coraggio. E proprio per rendere più immediatamente perspicuo l'assunto da dimostrare – vale a dire che i discorsi timaici erano così inverosimili da rasentare il ridicolo – che Polibio sceglie di riportarne un passaggio in citazione diretta: «Pur essendo, infatti, la Libye abitata in ogni parte e ricolma di uomini, tuttavia nei proverbi, quando vogliamo rendere l'immagine viva della solitudine, noi diciamo “più desolato della Libye” (HMUKPRYWHUDWKC/LEXYK), non intendendo riferirci alla mancanza di uomini, ma alla mancanza di virilità (DMQDQGULYD) in coloro che la abitano»12. Stando alla testimonianza di Polibio, dunque, il Timoleonte di Timeo avrebbe adattato alla situazione contingente un proverbio, plausibilmente molto diffuso a giudicare da quanto viene fatto dire al condottiero corinzio, e incentrato sul tema della desolazione della Libye, sottoponendone però il Wortlaut non solo a un procedimento di “ricontestualizzazione”, ma addirittura di “risemantizzazione”. L'esegesi prestata a Timoleonte viene ad essere, infatti, ben lontana dal significato originario: sfruttando la 9

Per le accuse di DMJQRLYD e di \HXGRJUDILYDrivolte allo storico di Tauromenio vd. in particolare Polyb. XII 25a 3 - 25b 4; 25k 2 sgg.; cf. Magnetto, A., s.v. DMJQRLYD, in LHG&L, 1, Pisa 2005, pp. 16-17. 10 Per la problematica sulla precisa collocazione di questo passo nell’economia dell’opera, vd. Walbank, A Historical Commentary, II, p. 403, nt. ad 26a 1; Vattuone, Sapienza, p. 109, nt. 69. 11 La datazione della battaglia costituisce una vexata quaestio. La critica è generalmente divisa fra una datazione “alta” (342 o 341 a.C.) e una “bassa” (339 a.C.). A favore della prima, suffragata dalla testimonianza di Plutarco (Tim. 27, 1), che specifica che la battaglia avvenne nel mese di Targhelione (giugno) del 342, si esprimevano già Talbert, R.J.A. [Timoleon and the Revival of Greek Sicily (344/317 B.C.), Cambridge 1974, pp. 44-51: 342 a.C.) e De Blois, L. (“Dionysios II, Dion and Timoleon”, MNIR, XL, 1978, pp. 44-51: 341 a.C.); la datazione bassa, corroborata dalla versione di Diodoro (XVI 79-81), fu invece sostenuta a più riprese da Marta Sordi (Timoleonte, Palermo 1961, pp. 57-61 e 109-112; Ead., in Diodori Siculi Bibliothecae Liber Sextus Decimus. Introduzione, testo e commento, Firenze 1969, p. 138, nt. ad 79, 5 - 80, 3) e ribadita dalla stessa, in polemica con Talbert, anche nella recensione a Talbert, Timoleon, in Athenaeum, L/3-4, 1977, pp. 461-462; di parere analogo anche Consolo Langher, S.N., Un imperialismo tra democrazia e tirannide. Siracusa nei secc. V e IV a.C., Roma 1997, p. 175, nt. 34, che data l’evento al 340/339. Per quanto concerne le posizioni più recenti, vd. Gehrke, H.-J., “Timoleon”, in Brodersen, K., hrsg., Große Gestalten der griechischen Antike. 58. historische Portraits von Homer bis Kleopatra, München 1999, pp. 357-358; Smarczyk, B., Timoleon und die Neugründung von Syrakus, Göttingen 2003, pp. 117-118 (a favore del 341 a.C., seppure con qualche cautela); cfr. ibidem, p. 118, nt. 2, per una rassegna delle ipotesi degli altri studiosi. 12 Polyb. XII, 26a, 1-2: FGrHist 566 F 31b:ҏ WLYGHSDYOLQR^WDQR-7LPROHYZQHMQWKCDXMWKCELYEOZSDUDNDOZCQWRX^(OOKQDSURWRQHMSLWRX .DUFKGRQLYRXNLYQGXQRQNDLPRYQRQRXMNK>GKPHOORYQWZQVXQDYJHLQHLMWDFHLCUDWRLCHMFTURLC SROODSODVLYRLRX?VLSUZCWRQPHQDM[LRLCPKEOHYSHLQDXMWRXSUÕWRSOKCTRWZCQX-SHQDQWLYZQ DMOODSURWKQDMQDQGULYDQ««NDLJDUWKC/LEXYKD-SDYVKVXQHFZCRLMNRXPHYQKNDLSOKTXRXYVK DMQTUZYSZQR^PZHMQWDLCaSDURLPLYDLR^WDQSHULHMUKPLYDH>PIDVLQERXOZYPHTDSRLKCVDLOHYJHLQ K-PDC“HMUKPRYWHUDWKCa/LEXYK”RXMNHMSLWKQHMUKPLYDQIHYURQWDaWRQORYJRQDMOOMHMSLWKQDMQDQGULYD QWZCQNDWRLNRXYQWZQ (…)».

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polivalenza del termine /LEXYK13, Timoleonte avrebbe assimilato la Libye dei proverbi, intesa nella sua accezione più vasta e generica, alla Libye da cui proveniva il nemico, vale a dire il territorio cartaginese, un'assimilazione che gli permetteva di tradurre l'HMUKPLYD della regione in DMQDQGULYD dei suoi abitanti14. È evidente che si tratta di un'interpretazione “di comodo”, che doveva servire al solo scopo di incitare i soldati in un momento di difficoltà15. Se il proverbio sia stato o meno rievocato da Timoleonte in un discorso effettivamente pronunciato in quel contesto16, cioè facesse parte dei 13

Cfr. supra, nt. 4. Medesima argomentazione relativa all'DMQDQGULYDdei Cartaginesi ricorre anche nel passo parallelo di Diodoro (XVI 79, 2), ove tuttavia non compare alcun cenno al proverbio sull'HMUKPLYD della Libye. Il ricorso a tale motivo sembra fosse caratteristico della propaganda timoleontea, come nota la Sordi (Timoleonte, pp. 21-22; Ead., in Diodori Siculi Bibliothecae, p. 137, nt. ad 79, 2). Per una chiara dipendenza di Diodoro da Timeo in questo punto, vd. Sordi, in Diodori Siculi Bibliothecae, p. XLII, nt. 37; Walbank, A Historical Commentary, II, p. 403, ad 26a 1, che vede confermata la dipendenza diodorea da Timeo nel motivo del presagio dell'apio, che nella narrazione diodorea (XVI 79, 3) segue al discorso di Timoleonte e che Plutarco (Quaest. conv. 676d: FGrHist 566 F 118) fa risalire esplicitamente a Timeo. Cfr. Vattuone, Sapienza, pp. 111-112, in cui si evidenzia come la coincidenza di toni e di contenuti fra la narrazione diodorea degli eventi relativi alla battaglia del Crimiso e i frammenti timaici superstiti lascino presumere che in Diodoro si conservi meglio la tradizione di Timeo rispetto al parallelo racconto nella Vita di Timoleonte (25-29) di Plutarco. Timeo è in genere considerato dalla critica moderna come la fonte principale di Diodoro per la parte siciliana dei libri XI-XVI della Biblioteca Storica, un'opinione soltanto parzialmente condivisa dalla Sordi, poiché la studiosa individua nei suddetti libri, in particolare nel libro XV e nella prima parte del libro XVI, una sicura derivazione eforea: cfr. Sordi, in Diodori Siculi Bibliothecae, p. XLII e ntt. 38-39. Per la problematica relativa alle fonti diodoree per il sedicesimo libro, cfr. in particolare Hammond, N.G.L., “The Sources of Diodorus Siculus XVI”, CQ, XXXII, 1938, pp. 137-151, il quale, in merito ai capitoli dedicati da Diodoro alle vicende di Timoleonte, individua in Teopompo la fonte di riferimento per gli avvenimenti dal 346/5 al 343/2 (Diod. XVI 65-70) e in Timeo l'autore seguito dallo storico di Agirio per gli anni 342/1-338/7 (Diod. XVI 72-90). In generale, sulle fonti di Diodoro e di Plutarco su Timoleonte e le sue imprese, vd. Sordi, M., “Timeo e Atanide, fonti per le vicende di Timoleonte”, Athenaeum, n.s. L/3-4, 1977, pp. 239-249, ove si individua in Timeo la fonte seguita da Diodoro e in Atanide quella utilizzata da Plutarco, in contrasto con l'ipotesi di fondo di Talbert [Timoleon, pp. 37-38], secondo cui Timeo sarebbe stato invece la fonte principale di Plutarco, mentre Diodoro avrebbe attinto fondamentalmente a un autore non individuabile (forse Diillo), integrandone le informazioni con quelle desunte da Timeo e con osservazioni personali. Sull’ipotesi dell’impiego di Atanide sia da parte di Diodoro sia da parte di Plutarco quale fonte complementare a Timeo per la narrazione delle vicende timoleontee e sulla presunta scelta diodorea di privilegiare Atanide in nome di una maggiore obiettività storica vd. Melita Pappalardo, M.R., “Timoleonte e Tumofane”, Messana, XIII, 1992, pp. 105-121. Sulla narrazione e le valutazioni di Diodoro in merito alla vicenda siceliota del condottiero corinzio, vd. Lefèvre, F., “Le livre XVI de Diodore de Sicile: observations sur la composition et sur le traitement des grands personnages”, REG, CXV, 2002, pp. 533-535, e, molto recentemente, Vattuone, R., “Fra Timoleonte e Agatocle. Note di storia e storiografia ellenistica”, in Bearzot, C. – Landucci, F., Diodoro e l’altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica. Atti del Convegno (Milano, 15-16 gennaio 2004), Milano 2005, pp. 283-291. 15 Medesima funzione ha l’interpretazione che, con prontezza e intelligente abilità, Timoleonte avrebbe fornito in merito al presagio dell’apio, avvertito come funesto dai suoi soldati nell’imminenza dello svolgimento della battaglia: Diod. XVI 79, 3; Plut., Quaest. conv. 676d: FGrHist 566 F 118. Sulle qualità di Timoleonte come stratego, vd. il recentissimo contributo di Teodorsson, S.-T., “Timoleon, the Fortunate General”, in de Blois, L. - Bons, J. - Kessels, T. - Schenkeveld, D.M., eds., The Statesman in Plutarch's Works, II, Leiden-Boston 2005, pp. 215-226. 16 Fra i discorsi timaici ricordati da Polibio (quelli di Gelone, di Ermocrate e di Timoleonte, rispettivamente FF 94, 22 e 31), soltanto quello di Timoleonte non è documentato anteriormente, ma la verità storica del contenuto generale del discorso sembra comunque plausibile. Se, nel caso del logos 14

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WDU-KTHYQWD, o sia stato artificiosamente attribuito al Corinzio da Timeo per rendere Z-GHLCU-KTKCQDL – come saremmo autorizzati a credere giudicando con i parametri forniti dal “filtro” della critica polibiana – è in realtà un problema poco rilevante ai fini di queste riflessioni: quello che piuttosto importa rilevare è la sua notorietà e la sua diffusione nel mondo greco (e in particolare nella grecità d'Occidente) tra la fine del quarto secolo e la prima metà del terzo secolo a.C. Notorietà e diffusione che non vengono affatto inficiati pur se si riconoscono al discorso timaico un'intonazione retorica e un carattere fittizio; anzi, la presunta elaborazione letteraria del logos non farebbe che rafforzare l'idea che il proverbio in sé fosse molto popolare, giacché proprio per tale motivo dovette essere prescelto da Timeo, il quale – a prescindere da quanto ne dicesse Polibio – intendeva perseguire la verisimiglianza, e quindi si trovava nella necessità di riprodurre un discorso che, in quanto rivolto a una massa di soldati, doveva contenere concetti che fossero famigliari e immediatamente perspicui all'uditorio. Questo spiega, tra l'altro, anche la presenza di argomentazioni così elementari da sembrare quasi triviali17, come quelle addotte subito dopo la citazione del proverbio18 allo scopo di ridimensionare, con una rappresentazione irrispettosa e quasi parodistica del nemico punico19, la reale portata del pericolo imminente. Per questo stesso motivo non è necessario postulare che Timeo sia ricorso a qualche raccolta paremiografica per desumervi il proverbio o la sua esegesi20; è più plausibile, invece, pensare a una diffusione a livello popolare, e orale, a prescindere dal fatto che il proverbio in sé potesse anche essere registrato in sillogi paremiografiche21. geloniano si può pensare che la versione erodotea (VII 157-165) abbia costituito un punto di riferimento per Timeo, e così la versione tucididea (IV 59-64) per quanto attiene al logos ermocrateo, nel caso del discorso di Timoleonte sembra lecito postulare l'uso di informazioni di prima mano facilmente disponibili a Timeo, considerati gli stretti rapporti tra il padre Andromaco, signore di Tauromenio, e il condottiero corinzio. Cfr. Vattuone, “Timeo”, pp. 214-216. 17 Come giustamente osserva Vattuone (Sapienza, p. 110, nt. 71), il discorso di Timeo probabilmente seguiva i canoni correnti e si adeguava alla mentalità e alla cultura delle truppe, motivi per cui non sembra del tutto condivisibile l'accusa di trivialità espressa dal Meister (Historische Kritik, p. 38) in merito alle argomentazioni che compaiono nel logos del Timoleonte timaico. 18 Polyb. XII, 26a, 3-4: «NDTRYORXGH–IKVLY– WLD@QIREKTHYLKWRXD>QGUDRL>WLQHaWKCIXYVHZWRXCWRWRLCDMQTUZYSRLGHGZNXLYDL>GLRQSDUD WDORLSDWZCQ]ZYZQOHYJZGHWDaFHLCUDWDXYWDSDUMR^ORQWRQELYRQHMQWRWZCQFLWZYQZQ H>FRQWHDMSUDYNWRXSHULIHYURXVL«WRGHPHYJLVWRQRL^JHNDLX-SRWRLCFLWZQLYVNRLSHUL]ZYPDWD IRURXCVLL^QDPKGMR^WDQDMSRTDYQZVLQHMQWDLCPDYFDLIDQHURLJHYQZQWDLWRLCX-SHQDQWLYRL». 19 Occorre notare che, a eccezione del caso di Timeo, i Cartaginesi vengono connotati positivamente negli scritti degli autori greci anteriori al terzo secolo a.C., come dimostrano gli esempi presenti nelle opere di Erodoto, Tucidide, Senofonte e nella Poetica di Aristotele: cfr. Barceló, P., “The Perception of Carthage in Classical Greek Historiography”, AClass, XXXVII, 1994, pp. 1-14. Sulle caratteristiche negative attribuite ai Cartaginesi negli scrittori di età successiva, vd. Prandi, L., “La ‘fides punica’ e il pregiudizio anticartaginese”, in CISA VI, Milano 1979, pp. 90-97. 20 Secondo Wünderer, C. (Polybios-Forschungen. Beiträge zur Sprach- und Kulturgeschichte, I, Leipzig 1898, p. 28), Timeo avrebbe desunto questo e altri proverbi utilizzati nella sua opera storica (testimoniati da FGrHist 566 F 13a e F 50) da raccolte paremiografiche preesistenti, in particolare dalla silloge dell'attidografo Demone. Pédech (Polybe. Histoires. Livre XII, p. 140, nt. ad 26a 2), invece, tende a respingere questa ipotesi e a considerare l'esegesi proposta nel logos timaico come un'invenzione personale di Timeo. 21 Purtroppo per le tradizioni che assumono la forma paremiografica è sempre molto difficile stabilire «fino a che punto si può distinguere fra detti proverbiali e geflügelte Worte e fino a che punto si può

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Del resto, il senso letterale, con il chiaro e inequivocabile riferimento alla desolazione della Libye, riconduce a una visione della regione già radicata nell'immaginario comune. Lo dimostra il fatto che anche Euripide si richiamava a questo tema facendo lamentare il Menelao della sua Elena, rappresentata nel 412, di aver «navigato per tutti gli approdi della Libye, deserti (HMUKYPRX) e inospitali (DM[HYQRX)»22. Un'immagine che viene ribadita più oltre, dalla stessa protagonista della tragedia, che allude al naufragio dello sposo contro le coste «rocciose», «prive di porti», della Libye23. Se a una reminescenza letteraria si vuole credere per quanto concerne il timaico logos timolenteo, sembra lecito pensare proprio a questi versi euripidei, tanto più che un'altra tragedia di Euripide, oggi perduta, il Cresfonte24, viene espressamente citata da Timeo in un altro famoso logos, quello attribuito al siracusano Ermocrate al congresso di Gela del 424 a.C., che rientra nell'esemplificazione dei discorsi timaici proposta da Polibio e che viene riferito da Polibio proprio in un passo immediatamente precedente25. La notorietà e l'apprezzamento della poesia euripidea in Sicilia26 giustificava il ricorso ad essa nei logoi timaici, e, nel caso del discorso timoleonteo, si può supporre che la citazione del proverbio potesse avere carattere allusivo, richiamando una visione della Libye già famigliare alle truppe proprio in quanto veicolata dai versi del popolare tragediografo ateniese. È dunque lecito pensare che la rappresentazione della Libye come terra solitaria e per ciò stesso inospitale fosse, in sostanza, una visione stereotipa, divenuta ormai un vuoto cliché letterario, suscettibile anche di essere reinterpretato, come in effetti avviene con l'anamnesi del proverbio nel discorso timaico: ma quella doveva essere la visione della regione che aveva lo stesso Timeo, se dobbiamo credere a Polibio, che in un altro passo gli rinfacciava di essere «ancora vincolato alle antiche dicerie (DMUFDLYDLIKYPDL) che ci tramandarono (D`SDUHLOKYIDPHQ), secondo le quali la Libye sarebbe tutta sabbiosa, arida e sterile»27. parlare di genuina sapienza dei popoli e non piuttosto di dotti “topoi” letterari», come a ragione avverte R. Tosi (Studi sulla tradizione indiretta dei classici greci, Bologna 1988, p. 198), soprattutto nei casi, come quello in questione, in cui non è possibile fare il confronto con attestazioni parallele. 22 Eur., Hel. 404: /LEXYKGMHMUKYPRXDM[HYQRXWMHMSLGURPDSHYSOHXNDSDYVD 23 Eur., Hel. 1211: /LEXYKDMOLPHYQRL(...)SURaSHYWUDL 24 F 453 Nauck2 = 71 Austin, su cui vd. Harder, A., ed., Euripides’ Kresphontes and Archelaos. Introduction, Text and Commentary (Mnemosyne Suppl. 87), Leiden 1985, p. 43 (testo) e pp. 102-110 (commento). I versi del Cresfonte euripideo citati da Plutarco/Timeo si ritrovano in Stobeo (IV 14, 1: IV 370, 4 Hense). 25 Polyb. XII 26, 5: FGrHist 566 F 22. 26 Basti pensare alla famosa notizia riportata da Plutarco (Nic. 29, 3-4), secondo cui molti Ateniesi superstiti dopo l'esito disastroso della grande spedizione in Sicilia (415-413 a.C.) sarebbero stati soccorsi o liberati in quanto si dimostrarono in grado di recitare versi di Euripide. Lo storico di Cheronea ricorda infatti la grande ammirazione dei Greci di Sicilia per la poesia euripidea, che li avrebbe portati a studiarne a memoria con venerazione i brani che giungevano nell'isola, e a scambiarseli vicendevolmente. La notorietà dell'opera poetica di Euripide in Sicilia è ricordata anche da Satiro proprio nel bios dedicato al tragediografo ateniese (Vita Eur. 39 XIX 11-34): vd. Arrighetti, G., Satiro. Vita di Euripide, Pisa 1964, pp. 142-143; Schorn, S., Satyros aus Kallatis. Sammlung der Fragmente mit Kommentar, Basel 2004, pp. 329-330. 27 Polyb. XII 3, 2 B-W: FGrHist 566 F 81: vd. testo greco supra, nt. 2. Per le differenti visioni delle caratteristiche naturalistiche e climatiche della Libye nelle fonti greche, vd. Desanges, J., “De Timée à Strabon, la polémique sur le climat de l'Afrique du Nord et ses effets”, in Histoire et archéologie de l'Afrique du Nord. Actes du III colloque international réuni dans le cadre du 110 congrès national des Sociétés savantes (Montpellier, 1-5 avril 1985), Paris 1986, pp. 27-34.

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Ma quali sono le DMUFDLYDLIKYPDLcui allude Polibio? Il pensiero non può non andare a quei «luoghi comuni di vecchia data» di cui proprio il proverbio HMUKPRYWHUDWKC/LEXYK costituisce un chiaro esempio28. Non si può negare infatti che fra il proverbio e la visione timaica della Libye descrittaci da Polibio ci sia una significativa congruenza, oltre alla comune tendenza a fornire una rappresentazione “assolutizzante” e generalizzata della regione, ben diversa, in sostanza, dall'effettiva realtà geografica. Ma anche diversa dalla descrizione di quanti in passato ne avevano trattato con una certa ampiezza, in primis Erodoto: infatti, se, al paragrafo 32, 4 del secondo libro delle sue Storie, lo storico di Alicarnasso dà un quadro della Libye che si avvicina molto ai concetti sottesi al proverbio e alla visione timaica («c'è sabbia, terribile aridità e totale deserto»), dobbiamo subito precisare che egli fa riferimento a una zona ben precisa e circoscritta, quella «al di sopra del mare e degli uomini che abitano sul mare e al di sopra della zona delle belve». Una precisazione ineccepibile, nell'ottica di chi aveva saputo distinguere, nei suoi /LEXNRLORYJRL29, la zona HMUKYPK30, cui erano attribuite appunto tali caratteristiche, dalle altre zone: la RLMNRXPHYQK31 (quella «abitata»), la TKULZYGK32 (quella «delle belve») e la RMIUXYK\DYPPK33 (il «ciglione di sabbia»). Ma se si crede che tale distinzione sia indice di una visione totalmente realistica, positivistica (per così dire), si è molto lontani dal vero, poiché dalla descrizione erodotea della Libye emerge tuttavia l'immagine di una regione con i tratti topici della 28

Cfr. Jacoby, F., FGrHist III b. Kommentar zu Nr. 297-607 (Text), Leiden 1955, pp. 573-574, ad 566 F 81; Meister, K., Historische Kritik, p. 6 e nt. 22. Walbank (A Historical Commentary, II, p. 322), invece, esclude che Polibio, con l’espressione DMUFDLYDLIKYPDLa XII 3, 2, intendesse richiamare la citazione timaica del proverbio HMUKPRYWHUDWKC/LEXYK: secondo lo studioso, infatti, nel logos di Timoleonte Timeo dimostrerebbe di considerare la Libye come D-SDYVKVXQHFZCRLMNRXPHYQKNDLSOKTXRXYVKDMQTUZYSZQ Ma si potrebbe obiettare che la Libye considerata “popolosa” dal Timoleonte di Timeo (vale a dire da Timeo stesso) è evidentemente la zona circostante Cartagine, da dove provenivano i nemici da sconfiggere al Crimiso, che con abilità retorica viene assimilata alla Libye dei proverbi, che era invece l'Africa intesa in senso generico, senza particolari distinzioni: è proprio a quest'ultima, cioè la Libye nella sua accezione più vasta e generica, che si riferiva evidentemente Polibio quando criticava Timeo per il fatto che la riteneva “tutta sabbiosa, arida e sterile”. La distinzione, nella Libye, tra zone desertiche e inospitali e «la fascia costiera (…) fra il Nilo e le Colonne, e in particolare quella che già appartenne a Cartagine», che «è felicemente abitata (HXMGDLPRYQZRLMNHLCWDL)» è sottolineata da Strabone (XVII 3, 1) proprio nell’incipit della sezione della Geografia dedicata specificamente alla Libye. È da segnalare la posizione di Pédech (in Polybe. Histoires. Livre XII, p. 60, comm. ad XII 3, 2), secondo cui la visione di Timeo sarebbe stata influenzata dal ricorso ai 7XULYZQX-SRPQKYPDWD (Polyb. XII 28a 3) che potrebbero aver descritto l'Africa come arida e sterile prima dell'arrivo dei Tirii (cfr. Diod. XIII 81, 5). 29 I /LEXNRLORYJRL preannunciati da Erodoto nel secondo libro (161, 3), occupano i capitoli 145-205 del quarto libro delle Storie: per una trattazione dettagliata, vd. Corcella, A., in Corcella, A. - Medaglia, S., a cura di, Erodoto. Le Storie. Libro IV. La Scizia e la Libia, Milano 1993, pp. 332-390. Su usi e costumi dei popoli indigeni descritti dallo storico di Alicarnasso nei /LEXNRLORYJRL vd. ora G. Zammito, “Aspetti etno-antropologici dei /LEXNRLORYJRL erodotei (IV, 168-197)”, in Thalassa. Genti e culture del Mediterraneo antico, I, Roma 2004, pp. 45-74. Per l’importanza di Erodoto nell’etnografia della Libye, nella prospettiva della descrizione diodorea della regione, vd. ora De Vido, S., “Tradizioni storiche ed etnografiche nella Libia di Diodoro”, in Bearzot. – Landucci, Diodoro e l’altra Grecia, pp. 327-356. 30 Hdt. IV 181, 2; 185, 3; cfr. II 32, 4. 31 Hdt. IV 181, 1; cfr. II 32, 4. 32 Hdt. IV 181, 1; cfr. II 32, 4. 33 Hdt. IV 181, 1.

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terra favolosa, forse non idealizzata in senso utopistico, ma pur sempre caratterizzata da quegli inequivocabili elementi immaginari che, nell'ottica dei Greci, connotano le regioni relegate ai margini dell'ecumene34, barbare e sconosciute. Sconosciute: proprio in questo sta la vera ragione di una certa visione “di maniera” della Libye, nel fatto che buona parte di essa era ancora preclusa alla conoscenza dei Greci quando su di essa iniziarono a essere elaborate tradizioni dapprima a carattere mitopoietico e, in seguito, etno-storiografico. E quindi non è certo un caso che anche nella descrizione erodotea si possa individuare quasi un'ideale linea di demarcazione tra uno spazio che potremmo definire reale, descritto con una certa verosimiglianza, corrispondente alle zone RLMNRXPHYQKeTKULZYGK (vale a dire quelle vicine alla costa e all'immediato entroterra), da uno spazio, per così dire, fittizio– le zone dell'RMIUXYK\DYPPK e, appunto, l'HMUKYPKin riferimento alle quali il racconto indugia su particolari fantasiosi e quasi irreali. Una differenza di trattazione che sottende, innanzitutto, una differenza nelle modalità di acquisizione delle informazioni sulle diverse zone e, in sostanza, una differente natura delle fonti: se per le notizie sulla zona costiera abitata e il suo immediato entroterra Erodoto poté forse avvalersi anche di una conoscenza autoptica35 in occasione della sua visita a Cirene e nella FZYUD circostante36, nonché delle informazioni “di prima mano” fornite dagli abitanti greci del luogo, per le zone più remote dovette necessariamente affidarsi a relata di matrice ignota e di attendibilità alquanto dubbia: proprio nel succitato capitolo del secondo libro, Erodoto dichiara che le notizie sulla zona più interna della Libye gli provengono da Cirenei, i quali le avrebbero apprese a Siwa conversando con il re degli Ammoni, Etearco; costui avrebbe loro riferito informazioni a sua volta ottenute dai Nasamoni, ma anche questi ultimi, cui erano state richieste notizie SHULWZCQHMUKYPZQWKC/LEXYK, non sarebbero stati in grado che di riferire

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Questo aspetto è particolarmente evidenziato da Gómez Espelosin, F.J. (“Tierras fabulosas del imaginario griego”, in Gómez Espelosín, F.J. - Pérez Largacha, A. - Vallejo Girvés, M., Tierras fabulosas de la antigüedad, Alcalá de Henares 1994, p. 227). 35 Un’informazione autoptica di Erodoto è stata postulata da Malten, L. (Kyrene. Sagengeschichtliche und historische Untersuchungen, Berlin 1911, pp. 114-115), da Jacoby, F. [s.v. “Herodotos”, RE Suppl. II (1913), cc. 253, 437-438 = Id., Griechische Historiker, Stuttgart 1956, pp. 31, 123), da Chamoux, F. [Cyrène sous la monarchie des Battiades (BEFAR, 177), Paris 1953, pp. 153-156], da Legrand, Ph. E. (Hérodote. Histoire. Livre IV, Paris 19603, p. 139), e da Lloyd, A.B. (Herodotus. Book II. Commentary 99-182, Leiden - New York - København - Köln 1988, p. 234). Alcuni dubbi in proposito sono però espressi da Corcella (in Erodoto. Le Storie, p. xxxi). Gli indizi di una visita di Erodoto a Cirene, desunti dall’opera stessa dello storico, sono puntualmente raccolti ed esaminati da Chamoux (Cyrène, pp. 154155), il quale tuttavia riconosce che ognuno di questi, considerato singolarmente, non è rigorosamente dimostrativo. 36 È opinione comune che Erodoto fosse giunto a Cirene in occasione del suo viaggio in Egitto, databile all'incirca negli anni tra il 449 e il 430 a.C. circa. Per la cronologia e le circostanze di questo viaggio erodoteo, vd. Legrand, Hérodote. Histoire IV, pp. 145-146; Lloyd, A.B., Herodotus. Book II. Introduction, Leiden 1975, pp. 61-63; Id., in Erodoto. Le Storie. Libro II. L’Egitto, Milano 19932, p. xiii. Di diversa opinione era invece Jacoby (s.v. “Herodotos”, cc. 254-255 = Griechische Historiker, pp. 31-32), il quale riteneva che non fosse possibile determinare i rapporti cronologici tra il viaggio in Egitto e quello in Cirenaica, preferendo ipotizzare che Erodoto fosse giunto in Cirenaica da Siracusa. Dubbi sulla realtà storica del viaggio di Erodoto in Egitto, che potrebbe essere stato soltanto un motivo letterario, esprime Armayor, O.K (“Did Herodotus Ever Go to Egypt?”, JARCE, XV, 1980, pp. 59-71; cfr. Id., Herodotus' Autopsy of the Fayoum, Amsterdam 1985), con argomentazioni tuttavia non del tutto condivisibili.

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racconti altrui37. Del resto, ancora Strabone, che pure scriveva quattro secoli dopo Erodoto, nella sua descrizione corografica della zona a meridione della Cirenaica e dei territori limitrofi, affermava: «poiché la intercettano varie estensioni desertiche, non tutti i luoghi ci sono noti. Analogamente sfuggono alla nostra conoscenza anche le zone che si trovano sopra l’oasi di Ammone e le oasi fino all’Etiopia»38; inoltre, «a parte il deserto, il fatto che (la Libye) è nutrice di animali feroci tiene lontani gli uomini anche dall’area che sarebbe abitabile»39. Per quanto concerne le regioni più inospitali, quindi, era inevitabile che circolassero esclusivamente le notizie fornite da viaggiatori e mercanti che vi si erano avventurati, notizie naturalmente soggette ad amplificazioni o a distorsioni, e della cui attendibilità lo stesso Erodoto talora mostra di dubitare, pur non esimendosi dal riferirle per intrattenere e destare la curiosità del lettore. Ed è proprio a questo tipo di relata che si deve attribuire la creazione di un'immagine “distorta” della Libye, con la conseguente genesi di luoghi comuni che andarono ad arricchire le tradizioni paremiografiche, finendo per essere ripetuti anche nelle elaborazioni storiografiche successive. Da essi emerge, in sostanza, l'idea di una terra “diversa”, che esula dai canoni ellenici tradizionali, e nella quale tutto si presenta in forme allotrie ed esagerate, per eccesso o per difetto, e non esente da ambivalenze. Non ci si deve stupire, pertanto, se la Libye descritta dal Menelao euripideo come terra deserta e inospitale, HMUKPRYWHUD, sia la medesima regione che invece il Menelao di Omero rievocava con toni quasi fiabeschi, «dove gli agnelli mettono presto le corna, tre volte le greggi figliano nel giro di un anno, e né padrone né pastore rimane privo di cacio, di carne e di dolce latte, anzi sempre offrono inesauribile latte da mungere»40. È chiaro che dalla descrizione omerica traspare l'idealizzazione di una terra ignota che doveva corrispondere alle più profonde aspettative di quanti, tra l'ottavo e il settimo secolo, si videro costretti ad abbandonare la madrepatria alla ricerca di luoghi che presentassero caratteristiche favorevoli al prospero sviluppo di una comunità. Non è certo un caso che l'immagine omerica della ricchezza pastorale della Libye ricorra anche negli oracoli pitici sulla fondazione di Cirene che Erodoto tramanda come resi dalla Pizia a Batto41 e ai Terei42, in cui la regione è sempre connotata come PKORWURYIRQ. Non è un caso, se si considera che proprio al santuario panellenico di Delfi la tradizione attribuiva un ruolo di rilievo nel promuovere e coordinare le spedizioni coloniali43, con 37

II 32, 1-3. In generale, sull’atteggiamento di Erodoto nei confronti delle fonti orali di informazione, vd. Darbo-Peschanski, C., “Les ‘logoi’ des autres dans les ‘Histoires’ d’Hérodote, QS, XXII, 1985, pp. 105128. 38 Strabo XVII 3, 23: HMSHLGMHMPSLYSWRXVLQHMUKPLYDLSOHLYRXRXMWRXSDYQWDWRYSRXL>VPHQSDUDSOKVLYZGMDMJQRHLCWDL NDLWDX-SHUWRXC>$PPZQRNDLWZCQDXMDYVHZQPHYFULWKa$LMTLRSLYD 39 Strabo XVII 3, 1: SURGHWKCHMUKPLYDNDLWRTKULRWURYIRQHM[HODXYQHLNDLHMNWKCGXQDPHYQKRLMNHLCVTDL 40 Hom., Od. IV 85-89: L^QDWMD>UQHD>IDUNHUDRLWHOHYTRXVLWULJDUWLYNWHLPKCODWHOHVIRYURQHLMHMQLDXWRYQH>QTDPHQ RX>WHD>QD[HMSLGHXKRX>WHWLSRLPKQWXURXCNDLNUHLZCQRXMGHJOXNHURLCRJDYODNWRDMOOMDLMHL SDUHYFRXVLQHMSKHWDQRQJDYODTKCVTDL 41 Hdt. IV 155, 3. 42 Hdt. IV 157, 2. 43 Sul ruolo del santuario di Apollo delfico nelle questioni di carattere coloniale, vd. Forrest, W.G., “Colonization and the Rise of Delphi”, Historia, VI, 1957, pp. 160-175; Schäfer, H., “Die

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specifico riguardo alla designazione della località di destinazione. Considerato come dato ormai acquisito che gli oracoli pitici su Cirene siano stati in realtà resi ex eventu44, è facile immaginare come l’immagine di una Libye PKORWURYIRQ, corrispondente in effetti alle caratteristiche della regione cirenaica in cui si erano stanziati i coloni greci, dovesse prevalere, anche per ragioni propagandistiche, su quella di una Libye TKULZYGK, connotazione che pure traspare nelle tradizioni che vedevano gli eroi eponimi della città e della sua dinastia – la ninfa Cirene e Batto – proprio alle prese con i leoni libici45. Ed è ancora Erodoto a farci intravedere il contesto in cui attecchirono, per essere oggetto di ulteriore rielaborazione, i relata su quella lontana regione, provenienti da quanti, come il cretese Corobio, per caso o per spirito di avventura vi erano approdati: a lui infatti dovettero infine rivolgersi i Terei che – come afferma testualmente Erodoto – «non sapevano in quale parte della terra si trovasse la Libye e non osavano inviare una colonia verso l'ignoto (HMDMIDQHY)»46. Se le stesse tradizioni relative alla colonizzazione libica (sia quella di ascendenza terea sia quella di matrice cirenea)47 raccolte da Erodoto48, pur diverse fra loro, concordavano, verfassungsgeschichtliche Entwicklung Kyrenes im ersten Jahrhundert nach seiner Begründung”, in Weidemann, U. - Schmitthenner, W., hrsgg., Probleme der alten Geschichte. Gesammelte Abhandlungen und Vorträge, Göttingen 1963, pp. 224-231; Defradas, Les thèmes, pp. 229-257; Piccirilli, L., “Aspetti storico-giuridici dell’anfizionia delfica e suoi rapporti con la colonizzazione greca”, ASNP, s. III, II, 1972, pp. 45-61, con ampia bibliografia a p. 45, nt. 1; Malkin, I., “Delphoi and the Founding of Social Order in Archaic Greece”, Metis, IV, 1989, pp. 129-153, in partic. pp. 139-140. In generale, sull’importanza degli oracoli per la colonizzazione, cfr. Lombardo, M., “Le concezioni degli antichi sul ruolo degli oracoli nella colonizzazione greca”, ASNP, s. III, II, 1972, pp. 63-89; Fontenrose, The Delphic Oracle, passim; Leschhorn, W., “Gründer der Stadt”. Studien zu einen politisch-religiösen Phänomen der griechischen Geschichte, Stuttgart 1984, pp. 105-115; Malkin, I, Religion and Colonization in Ancient Greece, Leiden - New York - Köbenhavn - Köln 1987, pp. 17-21; Londey, P., “Greek Colonists and Delphi”, in Descoudres, J.P., ed., Greek Colonists and Native Populations. Proceedings of the First Australian Congress of Classical Archaeology held in Honour of Emeritus Professor A.D. Trendall (Sidney, 9-14 July 1985), Canberra - Oxford 1990, pp. 117-127; Boehringer, D., “Zur Heroisierung historischer Persönlichkeiten bei den Griechen”, in Flashar, M., - Gehrke, H.-J. - HEINRICH, E., hrsgg., Retrospektive. Konzepte von Vergangenheit in der griechisch-römischen Antike, München 1996, pp. 38-40. 44 Tali sono unanimemente considerati quelli relativi alla fondazione di Cirene, che consisterebbero in artificiose elaborazioni a sostegno della dinastia battiade: cfr. Schmid, P.B., Studien zur griechischen Ktisissagen, Diss. Freiburg in der Schweiz 1947, pp. 108-116; Parke, H.W. - Wormell, D.E.W, The Delphic Oracle, II. The Oracular Responses, Oxford 1956, pp. 73-78; Crahay, R., La littérature oraculaire chez Hérodote, Liège - Paris 1956, pp. 110-122; Rohrbach, H.H., Kolonien und Orakel. Untersuchungen zur sakralen Begründung der griechischen Kolonisation, Diss. Heidelberg 1960, pp. 3134; KIRCHBERG, J., Die Funktion der Orakel im Werke Herodots, Göttingen 1965, pp. 51-58; Gierth, L., Griechische Gründungsgeschichten als Zeugnisse historischen Denkens vor dem Einsetzen der Geschichtsschreibung, Diss. Freiburg 1971, pp. 96-103; Defradas, J., Les thèmes de la propagande delphique, Paris 19722, pp. 245-257; Fontenrose, J., The Delphic Oracle. Its Responses and Operations. With a Catalogue of Responses, Berkeley - Los Angeles - London 1978, pp. 120-123, Q45-Q51. 45 Ninfa Cirene: Callim., Ap. 93-94; Philarc. FGrHist 81 F 16; Acesand., FGrHist 469 FF 3-4; Batto: Pind., Pyth. V 58-62; Paus. X 15, 7; Schol. Callim. Ap. 65 (Pfeiffer II, pp. 51-52). Cfr. Ottone, Libyka, pp. 144-149 e 385-391. 46 Hdt. IV 150, 4: (…) RX>WH/LEXYKQHLMGRYWHR^NRXJKCHL>KRX>WHWROPZCQWHHMDMIDQHYFUKCPDDMSRVWHYOOHLQDMSRLNLYKQ 47 La bibliografia sulle tradizioni relative alla fondazione di Cirene è sterminata. In questa sede ci si limita a rinviare ai contributi più recenti, ove è possibile reperire la bibliografia precedente: Giangiulio, M., “Constructing the Past: Colonial Traditions and the Writing of History. The Case of Cyrene”, in Luraghi, N., ed., The Historian's Craft in the Age of Herodotus, Oxford 2001, pp. 116-137; Létoublon, F., “Les

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in sostanza, nel presentare la Libye come locum DMIDQH, «ignoto», non può allora stupire l'esistenza di altri racconti che, elaborati sulla base di una sostanziale mancanza di esperienza (DMSHLULYD) della regione, facilmente indulgevano alle amplificazioni, ad esempio in riferimento a determinate caratteristiche della fauna locale: basti pensare alle dimensioni dei rettili, decisamente sovrastimate non solo nell'immaginario popolare ma nelle stesse descrizioni di storici e geografi49, al punto da far nascere il sospetto di una récits de la fondation de Cyrène”, in Lachenaud, G. - Longrée, D., édd., Grecs et Romains aux prises avec l'histoire. Réprésentations, récits et idéologie. Colloque de Nantes et Angers I - II. Rennes 2003, pp. 177188; Malkin, I., “‘Tradition’ in Herodotus: The Foundation of Cyrene”, in Derow, P. - Parker, R., eds., Herodotus and his World. Essays from a Conference in Memory of George Forrest, Oxford 2003, pp. 153-170. 48 La precisa delimitazione delle versioni terea e cirenea nella narrazione di Erodoto costituisce un problema. Mentre è facile identificare il punto in cui la versione cirenea si discosta da quella terea (IV 154), non altrettanto agevole risulta individuare il passo in cui avviene il ricongiungimento dei due racconti. Infatti, mentre alcuni [Graham, A.J., “The Authenticity of the ORKION TWN OIKISTHRWN of Cyrene”, JHS, LXXX, 1960, pp. 96-97, e nt. 11 = Graham, A.J., ed., Collected Papers on Greek Colonization, Leiden - Boston - Köln 2001, pp. 87-89] hanno ritenuto di poter indicare il punto di congiunzione in 156, 2 [posizione condivisa da Nafissi, M., “A proposito degli Aigheidai: grandi ghéne ed emporía nei rapporti Sparta-Cirene”, AFLPer, XVIII, 1980-1981, pp. 186-188; Id., “Battiadi ed Aigeidai: per la storia dei rapporti tra Cirene e Sparta in età arcaica”, in Barker, G. - Lloyd, J. - Reynolds, J., Cyrenaica in Antiquity, (Society for Libyan Studies Occasional Papers I. B.A.R. International Series, 236), Oxford 1985, pp. 375-377, e da Vannicelli, P. (Erodoto e la storia dell’alto e medio arcaismo. Sparta - Tessaglia - Cirene, Roma 1993, p. 133, e nt. 20)], altri hanno ipotizzato che esso dovesse essere individuato all’inizio del capitolo 157: Jacoby, F., s.v. Herodotos, RE Suppl. II (1913), c. 436 = Id., Griechische Historiker, Stuttgart 1956, p. 122; Chamoux, Cyrène, pp. 93-94; Legrand, Hérodote. Histoire IV, pp. 151-154; Schäfer, “Die verfassungsgeschichtliche Entwicklung”, p. 224; Mazzarino, S., Il pensiero storico classico I, Roma - Bari 1966, p. 218; Lepore, E., “Città-stato e movimenti coloniali: struttura economica e dinamica sociale”, in Storia e civiltà dei Greci I, Milano 1978, pp. 243-244; Giangiulio, M., “Deformità eroiche e tradizioni di fondazione. Batto, Miscello e l’oracolo delfico”, ASNP, s. III, XI, 1981, pp. 3-4, e nt. 7; Calame, C., “Mythe, récit épique et histoire: le récit hérodotéen de la fondation de Cyrène”, in Id., Métamorphoses du mythe en Grèce antique, Genève 1988, p. 111, nt. 4; Moggi, M., “Emigrazioni forzate e divieti di ritorno nella colonizzazione greca dei secc. VIII-VII a.C.”, in CISA XXI, Milano 1995, pp. 27-31, 38-40; Calame, C., Mythe et histoire dans l’antiquité grecque. La création symbolique d’une colonie, Lausanne 1996 p. 135, nt. 117. Altri ancora (Corcella, in Erodoto. Le Storie, pp. 348-349, comm. a 157, 2; Caserta, C., Erodoto, i Battiadi e Sparta, in Erodoto e l’Occidente. Atti del Convegno (Palermo, 27-28 aprile 1998) (Kokalos, Suppl. 15), Roma 1999, pp. 76-77) hanno espresso il dubbio che la versione comune iniziasse ancora più oltre, a 157, 3, se non addirittura al capitolo 159 (Malkin, I., Religion and Colonization in Ancient Greece, Leiden - New York - Köbenhavn Köln 1987, p. 60), ritenendo che Erodoto, con l’espressione WDSHUL%DYWWRQ, intendesse alludere alla narrazione di tutte le vicende relative a Batto, fino al cenno finale a proposito della durata di quaranta anni del suo regno. Pare tuttavia più verosimile che il ricongiungimento avvenisse a 156, 3: qui infatti Erodoto, sottolineando, a proposito della colonizzazione di Platea, che quest’ultima era l’isola menzionata in precedenza (Z-NDLSURYWHURQHLMUHYTK), avvertiva del congiungimento, a livello sia cronologico sia narrativo, delle due versioni. Bisogna tuttavia concludere, sulla base di questa difficoltà di individuazione esatta delle diverse versioni riferite, che lo stesso Erodoto potesse avere incontrato alcuni problemi nel confrontarle e riferirle, al punto di non essere in grado di distinguere nettamente i particolari pertinenti all’una o all’altra tradizione e di segnalare con chiarezza dove cominciasse la versione comune a Terei e Cirenei. 49 È opportuno ricordare che spesso gli autori antichi sottolineano la presenza, in Libye, di serpenti di dimensioni straordinarie: cfr., ad esempio, Hdt. IV 191, 4; Diod. II 51, 4; III 10, 5-6; 36, 1-5; 50, 2; 54, 3; Strabo XVII 3, 4-5; cfr. anche Plin., HN VIII 37. Il tipo di serpente descritto da Erodoto e da Plinio è stato identificato con l’assala (Python sebae), in grado di raggiungere la lunghezza di sei-sette metri: cfr. Bodenheimer, F.S., Animal and Man in Bible Lands, Leiden 1960, p. 67; Kádár, Z., “Some Problems

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possibile influenza sulla genesi del mito del terribile serpente posto a custodia delle mele d'oro delle Esperidi50. Appare chiaro come, in racconti di tal genere, la Libye venisse ad essere rappresentata come sede quasi privilegiata per l’ambientazione di fenomeni mirabili e paradossali di ogni tipo. È del resto a tutti nota la straordinaria fortuna di un altro proverbio, DMHL/LEXYKIHYUHLWLNDLQRYQ, «la Libye porta sempre qualcosa di nuovo», riferito per la prima volta da Aristotele51, il quale proprio alle tradizioni paremiografiche riservò particolare attenzione, tanto da essergli ascritta la redazione di un trattato 3HULSDURLPLZCQ52. Ma il suo metodo empirico di ricerca lo portò a riservare medesima attenzione anche alle tradizioni sui TDXPDYVLD e sui SDUDYGR[D, e, per la Libye, lo dimostra la sua descrizione, nella .XUKQDLYZQ3ROLWHLYDa lui attribuita, dello straordinario fenomeno del mutamento di temperatura delle acque sorgive a Siwa53: forse sono proprio queste testimonianze aristoteliche a permetterci di cogliere in tutta la sua evidenza la stretta connessione, anzi, si potrebbe dire, la reciproca influenza fra tradizioni di tipo paradossografico e paremiografia. Infatti, la Libye che, secondo il proverbio, «porta sempre qualcosa di nuovo» è, nella sostanza, la Libye che è sempre in grado di stupire, con i suoi fenomeni tanto paradossali da essere persino innaturali, e che riguardano sia la natura inanimata (come le fonti di Siwa, ricordate da Aristotele), sia quella animata, animale (basti ricordare gli strani comportamenti delle capre libiche descritti da Lico di Reggio)54, ma anche umana: concerning the Scientific Authenticity of Classical Authors on Libyan Fauna. A Zoological Commentary on Description of Libya by Herodotus”, ACD, VIII, 1972, p. 13; Id., “Some Problems concerning the Scientific Authenticity of Classical Authors on Libyan Fauna. Libyan Animals in the Works of Aristotle and Theophrastus”, ACD, IX, 1973, p. 27; Id., “On Some Problems concerning the Scientific Authenticity of Classical Authors on Libyan Fauna. Libyan Animals in the Work of Diodorus of Sicily”, ACD, XIII, 1977, pp. 43-44; Id., “Some Problems concerning the Scientific Authenticity of Classical Authors on Libyan Fauna. Libyan Animals in the Work of Strabo of Amasea”, ACD, XXIV, 1988, p. 53; Casevitz, M., “Histoire mythique, histoire vraie: remarques sur les animaux .chez Diodore de Sicile, Ktèma, XXVII, 2002, pp. 87-94, in partic. 93-94. Secondo Camps, G. [“Le bestiaire libyque d’Hérodote”, Afrique du Nord, n.s. XX-XXI, 1984-1985, pp. 17-18], gli scrittori antichi, riecheggiando l’immaginario popolare nord-africano, tendevano a sovrastimare la dimensione di questi serpenti, che in realtà non dovevano superare, almeno nella zona del Maghreb, la lunghezza di tre metri. 50 Cfr. Ottone, Libyka, pp. 332-336, comm. ad Agreta F 3a (FGrHist 762 F 3a). 51 HA 606b; Gen. An. 746b:NDLOHYJHWDLGHYWLSDURLPLYDR^WLDMHL/LEXYKIHYUHLWLNDLQRYQ: cfr. Plin., HN VIII 42: unde etiam vulgare Graeciae dictum: semper aliquid novi Africam adferre: vd. van Stekelenburg, A.V., “Ex Africa semper aliquid novi. A Proverb's Pedigree”, Akroterion, XXXIII, 1988, pp. 114-120, in partic. 119-120. Quella tramandata da Aristotele è con tutta probabilità la forma originale del proverbio; in seguito tuttavia si diffuse una variante, con connotazione negativa (DMHL/LEXYKIHYUHLWLNDNRYQ), che risulta attestata nelle collezioni paremiografiche tarde, accompagnata da una spiegazione che allude alla varietà di fiere mostruose presenti in Africa: Zen., Par. II 51; cfr. [Zen.], Atos V 23. Cfr. Mariño Sánchez-Elvira, R.M.a - García Romero, F., in Proverbios Griegos. Menandro. Sentencias (Biblioteca Clásica Gredos, 272), Madrid 1999, p. 106, nt. 112. 52 Vd. Rupprecht, K.R., s.vv. “Paroimia. Paroimiographoi”, RE XVIII (1949), cc. 1736-1737; Kindstrand, J.F.K., “The Greek Concept of Proverbs”, Eranos, LXXVI, 1978, pp. 74-78; Tosi, R., “La lessicografia e la paremiografia in età alessandrina ed il loro sviluppo successivo”, in La philologie grecque à l'époque hellénistique et romaine. Entretiens Hardt, XL (Vandœuvres-Genève 16-21 août 1993), Genève 1994, p. 179. 53 Vd. Ottone, Libyka, pp. 122-132, comm. ad Aristotele F 4 a-b (F 538, 1-2 Gigon). 54 Vd. Ottone, Libyka, pp.217-224, comm. a Lico di Reggio F 2 (FGrHist 570 F 13).

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la Libye è infatti la terra ove ci sono addirittura uomini che non sognano, una credenza già nota ad Erodoto a proposito degli Atlanti55, ma che dovette colpire particolarmente l'immaginario popolare, dal momento che ne ritroviamo traccia in una notizia riferita diversi secoli dopo in un’operetta in lingua araba di Bar Hebraeus (Bar 'Ebhraya)56, cui dovette pervenire – e non è certo un caso – attraverso la mediazione di Aristotele, che in effetti nell'Historia Animalium57 dimostra di conoscerla. È evidente che tali credenze denunciano i limiti della conoscenza di una regione che era rimasta preclusa al mondo ellenico – se si esclude la zona cirenaica direttamente occupata dai Greci – almeno fino a quando i sovrani lagidi promossero le prime esplorazioni58. Ed è significativo che proprio a partire dall'età ellenistica, anche grazie alle nuove conoscenze acquisite con tali spedizioni, si registri una progressiva razionalizzazione di molti miti connessi con l'area libica: sarà poi la successiva penetrazione militare romana nell'entroterra dopo la caduta del potente impero cartaginese, a favorire lo svilupparsi di una maggiore consapevolezza della fenomenologia naturale e delle peculiarità etniche59 del territorio libico. Da quel momento fu inevitabile che maturasse un atteggiamento critico nei confronti di una visione “di maniera”, ormai sorpassata, ma la cui fortuna non dovette esaurirsi con Timeo, se consideriamo che ancora Eustazio60 – e siamo nel XII secolo d.C. – è testimone di una tradizione secondo la quale il coronimo /LEXYKsarebbe derivato da OLIXYK, «privo di pioggia» (composto dalle radici di OHLYSZeX-HWRY): una palese paretimologia, che tuttavia ricorda quelle tanto care a Timeo, il quale, stando alla testimonianza di fonti diverse, vi faceva ricorso nel rievocare l’origine dei toponimi61. La rappresentazione generalizzata di una Libye «arida e sterile», per dirla con Timeo, quasi «priva di pioggia» per antonomasia, come segnala Eustazio, e di conseguenza HMUKPRYWHUD come volevano il “proverbio timoleonteo” e la visione euripidea, diventa 55

IV 184, 4. Vd. Le Candélabre des Sanctuairies di Grègoire Aboulfaradj detto Bar Hebraeus (Bar 'Ebhraya): edizione del testo originale e traduzione francese di Jan Bakoš in Patrologia Orientalis XXIV/3, Paris 1933, p. 407. Bar Hebraeus visse dal 1226 al 1286; per una visione d’insieme della sua produzione, vd. Fiey, J., “Esquisse d'une Bibliographie de Bar Hebraeus (†1286)”, Parole de l'Orient, XIII, 1986, pp. 279-312. 57 IV, 537 b . 58 Sulle diverse spedizioni di esplorazione compiute sotto i Tolemei, vd. Desanges, J., Recherches sur l’activité des Méditerranéens aux confins de l’Afrique (VIe siècle avant J.C. - IVe siècle après J.C.) (Collection de l' École Française de Rome, 38), Roma 1978, pp. 243-305. Tra i motivi alla base dell’interesse dei Lagidi a promuovere l’esplorazione geografica delle regioni limitrofe era anche il desiderio di soddisfare la curiositas della corte di Alessandria nei confronti di fenomeni naturali e di fauna esotici: vd. Schepens, G., “Ancient Paradoxography: Origin, Evolution, Production and Reception. Part I. The Hellenistic Period”, in Pecere, O. - Stramaglia, A., a cura di, La letteratura di consumo nel mondo greco-latino. Atti del Convegno Internazionale (Cassino, 14-17 settembre 1994), Cassino 1996, pp. 404-407. 59 Vd. Berti, N., “Scrittori greci e latini di “Libykà”: la conoscenza dell’Africa settentrionale dal V al I sec. a.C.”, in CISA XIV, Milano 1988, pp. 152-165; García Moreno, L.A., “La República romana tardía y el conocimiento geográfico y etnográfico de Africa”, in Khanoussi, M. - Ruggeri, P. - Vismara, C., a cura di, L’Africa Romana. Atti dell’XI Convegno di Studio (Cartagine, 15-18 dicembre 1994), Ozieri 1996, pp. 319-326. 60 Comm. ad Dion. Per. 175 = GGM II, p. 147. 61 Cfr. Gell., NA, XI 1, 1: FGrHist 566 T 9c = F 42 ( M,WDOLYDdaLMWDORY  Steph. Byz., s.v. 0DVVDOLYD: FGrHist 566 F 72 (0DVVDOLYDdaPDCVVDLe D-OLHYX  56

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quindi il vero bersaglio polemico di un Polibio, al quale – e certo non è una coincidenza – viene attribuito un viaggio di esplorazione lungo la costa atlantica dell’Africa, in direzione meridionale, che lo avrebbe condotto almeno fino all’altezza dell’Oued Dra, o fors’anche un po’ più a sud, in vista delle Canarie62. Di questo viaggio polibiano dà notizia Plinio il Vecchio63, di cui sono ben noti gli interessi naturalistici e geografici rivolti alla regione nordafricana: e se, come si è visto, Polibio aveva espresso la sua critica nei confronti di un certo tipo di tradizioni sulla Libye anche di ascendenza paremiografica, lo stesso Plinio, che pure citava «semper aliquid novi Africam adferre», non mancò di esprimere il suo scetticismo soprattutto in merito a determinate credenze di matrice paradossografica, come quella della “miracolosa” genesi dell'ambra nel libico lago Cefiside, popolato da una variegata e fantasiosa fauna locale64. Una credenza che l'autore della Naturalis Historia trovava registrata in Mnasea, forse all’interno di uno dei suoi libri 3HUL/LEXYK65, e che non esitava a tacciare di inverosimiglianza: «non illi Graeci prodidere mirandum», avvertiva Plinio66. Non possono non tornare alla memoria le accuse rivolte da Polibio a Timeo: l'inverosimiglianza delle sue descrizioni nonché la dipendenza dalle DMUFDLYDLIKYPDL «che ci tramandarono»: il prodidere pliniano, appunto.

62

Sul limite raggiunto da Polibio nel suo viaggio di esplorazione, in merito al quale non c’è accordo tra gli studiosi, vd. Pédech, P., “Un texte discuté de Pline: le voyage de Polybe en Afrique (H.N., V, 9-10)”, REL, XXXIII, 1955, p. 331; Thouvenot, R., “Le témoignage de Pline sur le Périple africain de Polybe (V, 1, 8-11)”, REL, XXXIV, 1956, p. 91; Eichel, M.H. - Todd, J.M., “A Note on Polybius’ Voyage to Africa in 146 B.C.”, CPh, LXXI, 1976, p. 243. 63 HN V 9; cfr. POLYB. XXXIV 15, 7. Sulla datazione del viaggio africano di Polibio, vd. Desanges, Recherches, pp. 122-123, 146. Sulle ragioni del viaggio, legate a motivazioni scientifiche derivate dall’esigenza di esplorare zone poco conosciute dai Romani (come dichiara lo stesso Polibio a III 59, 7-8 e come conferma Plinio a HN V, 9 con l’espressione “scrutandi illius orbis gratia”), ma anche connesse con la necessità pratica di sondare, per conto dell’Emiliano, le potenzialità economiche e strategiche della zona da poco caduta nella sfera di controllo di Roma, vd. Eichel - Todd, “A Note”, pp. 237-239; Gómez Espelosín, F.J., El descubrimiento del mundo. Geografía y viajeros en la antigua Grecia, Madrid 2000, p. 157. Diversa interpretazione è invece proposta da Walbank (A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, p. 5), secondo cui il viaggio sarebbe stato per Polibio un espediente atto a evitare l’imbarazzante situazione di trovarsi nella propria patria al seguito dell’Emiliano durante le operazioni contro la Lega Achea. 64 Nei capitoli 42-46 del trentasettesimo libro della Naturalis Historia Plinio contrappone ai racconti inattendibili e favolosi di poeti e cosiddetti “scienziati” le proprie convinzioni circa la vera origine dell’ambra. Per la sezione dedicata da Plinio alla preziosa resina (HN XXXVII, 30-51) e per le fonti utilizzate, vd. in particolare Grilli, A., “La documentazione sulla provenienza dell’ambra in Plinio”, Acme, XXXVI, 1983, pp. 5-17; Healy, J. F., Pliny the Elder on Science and Technology, Oxford 1999, pp. 61, 250-253. 65 Plin., HN XXXVII, 38: FHG III, p. 156, F 41. Cfr. Ottone, G., Problemi relativi alla conoscenza della topografia nord-africana nel 3HUL/LEXYK di Mnasea, in Khanoussi, M. - Ruggeri, P. - Vismara, C., a cura di, L'Africa Romana. Atti del XIII Convegno di Studio (Djerba, 10-13 dicembre 1998), Roma 2000, pp. 177-188; cfr. anche Ead., Libyka, pp. 400-410. 66 HN XXXVII, 31.

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22 By Seaways to Cyrene Captain E.A. Porcher R.N., water colorist, before Smith and Porcher G R.H. Wright The work of Robert Murdoch Smith and Edwin Augustus Porcher at Cyrene during the years 1860-61 1 is a gratifying story; one where a bold and imaginative project was carried through in the face of difficult circumstances to a highly successful conclusion. Thus it arouses interest in the character and career of these two men. They were both very gifted and at the same time extremely likeable. Both were career officers who attained to significant rank in their respective services. Smith on his discharge from the Royal Engineers at the age of 52 was a knighted Major General; while Porcher was a naval Captain on his retirement at the age of about 47. However in addition to this distinction both were gifted in the arts of peace - they were severally engineer, artist, linguist, archaeologist and scholar. Indeed they were extremely well matched. In one respect only there was a salient difference. Whereas Murdoch Smith always remained in the public eye, and was the subject of an effective biography published immediately after his death in 1900 2; Edwin Augustus Porcher came into public notice only for his work at Cyrene. Otherwise the circumstances of his life were never brought to public knowledge and he was not made the subject of a biography. For this reason it is of interest to outline here the interesting career of Porcher before he joined forces with Murdoch Smith at Malta in 1860 to embark on the expedition to Cyrenaica. This has become possible because very recently hitherto unpublished material concerning Porcher’s career has come to hand consisting of two collections of manuscripts with drawings and water colours - one lodged in Australia, the other in America3.

1

Captain ft Murdoch Smith RE. & Commander E.A. Porcher R.N., History of the Recent Discoveries at Cyrene. Expedition to the Cyrenaica in 1860-61, London 1864. 2 Dickson, W.K., Life of Major Generai Sir Robert Murdoch Smith, Edinburgh 1901; cf Wright, G.R.H., ‘Cyrene: Other Men’s Memories’, Libyan Studies, 30, 1999, pp 105-07. 3 By a strange coincidence and entirely by chance both collections were brought to my notice independently about the same time, and copies of the material forwarded to me. The Australian Collection is lodged in the National Library of Australia at Canberra and consists of a journal kept by E.A. Porcher on his maiden voyage aboard H.M.S. Fly 011 its extended discovery mission in North Australian waters during the period 1842-46. This is accompanied by letters to Porcher’s sister, together with some water colours. Copies of this material were forwarded to me by the kindness of Ambassador David Heimessy, whom I thank very sincerely. The other collection carne into the hands of Professor Bob Brier of Long Island University. This consists of an extracted log, some letters, and a number of water colours made by Porcher while serving aboard the steam frigate H.MS. Sidon during the year 1846. The vessel was a unit in the Mediterranean fleet, cruising in the main along the North African coast. Copies of this material were forwarded to me by my admired colleague and friend, Professor Brier.

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I Edwin Augustus Porcher, as his name indicates, was of Huguenot extraction. And his career is one more instance of the great credit so many of these men have brought both to France, their country of origin and to England, their country of adoption. Porcher’s family was connected with the Comtes de Richebourg, once influential courtiers. After the revocation of the Edict of Nantes, Isaac Porcher de Richebourg, MD of the University of Paris, escaped from France and settled in Charleston, South Carolina. The Porchers remained in Charleston as merchants for four generations until Josias du Pré Porcher came to England in 1768. Again the family was soon well established in England and the son of Josias became member for Old Sarum, a position which might be thought to epitomise English tradition and priviledge. A connection by marriage was cemented with the family of Admiral Sir Williarn Burnaby. In this fashion in 1842 the young Edwin Augustus Porcher, grandson of the Member for Old Sarum and second son of the Rev. George Porcher, shipped aboard H.M.S. Fly as a volunteer First Class, that is to say in present day terms a Naval Cadet4. H.M.S. Fly was bound on a long voyage of scientific discovery to chart the North Australian coast, particularly the Great Barrier Reef and Torres Straight, both of which presented dangers to navigation. In addition it was to gather scientific information concerning the geology, zoology, anthropology etc of the region. Porcher’s name does not figure in the publication of the mission5, but it is known that he was appointed (unofficial) artist6. He kept a journal of the voyage illustrated with pen and ink sketches, and this together with some letters and water colours are now held in Canberra, Australia. The contents of this material shows that Porcher was older than the usual age for volunteers, which was about 12 or 13. He would seem to have completed a good schooling and be about 17, making the date of his birth 1825-26. Certainly at that time he was a competent draughtsman and water colourist. The cruise of the Fly covered four years (1842-46) during which Australia was twice circumnavigated. This was a privileged way of entering the service for one who was obviously of scholarly bent. The mission of the Fly exactly paralled that of the famous Beagle 7 and both vessels put into Sydney harbour within a short period of each other. No scientist aboard the Fly was of the stature of Darwin, but the society of the several scientists aboard gave Porcher opportunities to further his education. II 4

Agnew, D.C.A., Protestant Exiles from France, London 1866, Vol 2, pp 100-11. Beete Jukes, J., Narrative of the Surveying Voyage of H.M.S. FIy During the yeaxs 1842-1846, London 1897. 6 The great majority of the illustrations to the cruise by the geologist Jukes are signed by H. Melville but some woodcuts of anthropological material are unsigned and have been identified as Porcher’s work. It is also possible that some of the illustrations signed by Meiville may be prepared from Porcher’s drawings or water colours. The National Library of Australia in Canberra holds about 30 of the original water colours made by Porcher during the cruise. 7 C.R. Darwin The Voyage of H.M.S Beagle London 1968. 5

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The collection of documents come to hand in America reveal Porcher risen in the service and again with an unusual billet. He was Lieutenant of H.M.S Sidon, a steam frigate cruising the Mediterranean in 1848 in the interest of the Pax Brittanica during the period of disturbing revolutions in Europe. In this interest the Sidon regularly put into port and gave Lieutenant Porcher opportunities to visit antiquities both classical and pre-classical. In these visits he made cursory documentary style water colours, the equivalent of photographs which were shortly to outmode the sketch-book. The Sidon criss-crossed the Mediterranean and put into Spanish, Sicilian and Italian ports, but its basic patrol was along the North African coast from Morocco to Egypt. Thus the watercolours in the collection of documents reveal Porcher ashore at Mogador, Aboukir and Alexandria. He also went up to Cairo to view the Pyramids. In short, after about 10 years, naval service, Porcher had accumulated a knowledge of men both anthropological and historical. He had also observed and recorded ancient monuments. Thus he was a distinct exception to Earl St Vincent’s well known dictum concerning fellows naval officers, “It is their misfortune to live in sea-port towns and know little of the world”. III Lieutenant Porcher served aboard other ships in various stations of the Royal Navy8 but ten years later towards the end of the 1850’s he was again stationed in the Mediterranean, this time as Lieutenant aboard H.M.S. Hibernia9. The Hibernia was an old three decker then at anchor in Grand Harbour, Valetta as the base flagship of the Mediterranean Fleet, served by tenders and other small vessels. Once again Lieutenant Porcher was given an assignment to his liking. He was dispatched as Commander of H.M.S. Harpy to take off antiquities and be of general service to an archaeological expedition operating on the North African coast. This campaign is little remembered now, but in its day it provided the British Museum with a large and valuable collection of antiquities, chiefly mosaics and Semitic inscriptions. The work was directed by a man of curious nature and talents, an American named Nathan Davis, at that time in his mid forties. Nathan Davis had previously come to reside in Tunis and dwelt there for 10 years or more. During this period he lived in an old Moorish Palace a little outside the town, and had gained a mastery of Arabic. Indeed he had published a useful Arabic Reader. He also states that he possessed the favour and confidence of the Bay of Tunis, whom he attended regularly and provided with information and advice10. In any event after he had quitted Tunis, he conceived the idea to make archaeological excavations in the ruins of Carthage, hard by Tunis, for the valuable antiquities he 8

He was for five years (1849-54) on the East Indian Station in H.M.S. Cleopatra and then saw active service in the Baltic on inshore operations, e.g. at Cronstad, aboard H.M.S. Esk, during the Crimean War. 9 EIlis, R. & Warlow, B., The Royal Navy at Malta, Vol 1, The Victorian Era 1865-1906, Liskeard 1988. 10 Or Davis, N., Carthage and her Remains, London 1861; Edwards, E., The Founders of the British Museum, London 1810; Franks, A. W., ‘On Recent Excavations at Carthage, and the Antiquities discovered there by the Rev. Nathan Davis’, Archaeologia, XXVVIII, 1860, pp 202-36.

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believed to be there lying below the earth. The idea was probably suggested to him because at this very juncture spectacular antiquities were being unearthed in the Middle East - as typified by the activities of Layard in Northern Mesopotamia. It seems that Davis addressed himself on this score both to the British Foreign Office and to the British Museum, and both bodies agreed to sanction and promote his project. With this backing he carried out excavations at Carthage between 1856 and 1858. Copies of This correspondence with the Earl of Clarendon ( Foreign Secretary ) and the British Museum are kept on file at the Museum, and they indicate a person of understanding, enjoying the confidence and respect of this patrons. This is in marked contrast to the only published record Nathan Davis left of this work, “Carthage and her Remains”11. Although, as to be expected, this book adduces the relevant classical sources, its content is unexpected. Perhaps this was Davis’ concept of writing in a popular style for the general public. The result is that very little is recorded of the actual archaeological work12. Nevertheless Davis makes it clear that towards the end of his prospective campaign, he decided to extend his activities to Utica. And, in fact, It was there he was notably rewarded with finds13. In all, from both Carthage and Utica, over 100 crates of antiquities arrived at the British Museum. These were taken off by successive visits of English Men of War sent over from Malta. The latest mission was that of a steamer H.M.S. Harpy which stood into Utica and embarked Davis’ finds directly from the site. The commander of this vessel was ( as stated ) Lieutenant Porcher. For once Davis was specific in his report ( p.499 ). At the exact time specified by Lord Lyon H.M.S. Harpy arrived. She was commanded by Lieutenant Porcher, who was instructed by the Admiral not only to convey me to the sites of the various ancient cities above named, but to render me every assistance in bis power - instructions which this officer was ready to carry out, and did carry out, to the best of his abilities”. Also, in addition to services as Commander of H.M.S. Harpy, the excavation report makes it evident that Porcher provided his service as artist and surveyor. Davis’ book is illustrated by a random series of lithographs and on the internal evidence of their composition, it would appear that some views of Utica are prepared from Porcher drawings and water colours. Also, almost certainly the “Plan of Utica” (facing p.499) and the ‘Plan of a Chamber” (facing p.518 ) are the work of Porcher. In any event again (unusually) Davis makes direct reference to the matter. In this preface at p.IX he states that “For several illustrations this special thanks are due to ... the Marquis de Noailles, to Henry Ferrière Esq, and to Porcher”. When H.M.S. Harpy was required elsewhere the ship departed for Malta and Davis brought his excavations to an end (pp. 518-19). With this mission Lieutenant Porcher rounded out this strange and fortuitous training for the Cyrene Expedition. He had been artist on a long voyage of scientific discovery comprehending anthropological studies. He had gained familiarity with the cities and men of North Africa by patrolling its coasts and putting into its ports where he made 11

Davis, N., Carthage and her Reinains, London 1861. cf Edwards, The Founders, p.666; Franks, ‘On Recent’, p.208. 13 Davis, Carthage, pp 489ff; Edwards, The Founders, p.667. 12

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drawings and water colours of landscape and monuments. And finally he had collaborated as artist and surveyor on the first archaeological excavations in the North African region sponsored by the British Museum. Shortly afterwards Lieutenant R. Murdoch Smith R.E., newly posted to Malta (according to this report)14 by chance met Porcher aboard H.M.S. Hibernia, where he (Smith) had gone to enquire regarding the availability of a small naval vessel as a tender for this project to excavate Cyrene. If this were so, then by chance Smith met the person most fitted in the world to join up with him on his project. It was indeed “ Well met in Malta”. And with such a beginning it is little wonder that fortune continued to favour Smith and Porcher’s expedition, so that it was brought to a successful conclusion in 1862 and well published in 1864.

Fig. 1 H.M.S. Fly. Indian Ocean en route to Australia July 1842 Wandering Albatros in the foreground.

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Smith & Porcher, History, pp.7-8.

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Fig. 2

Early Colonial Hobart. Tasmania 1843. Observatory building.

Fig. 3

Queensland Coast, Cape Upstart 1843. Temporary settlement to establish an observatory.

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Fig. 4

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Prefabricated Observatory established at Cape Upstart, Queensland coast 1843.

Fig. 5 Torres Straight, Booby Island where a Post Office was erected. Tender of H.M.S. Fly in the foreground.

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Fig. 6

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Port Essington, Northern Territory 1845.

Fig. 7 Mouth of the Swan River with the town of Fremantle. Recently established Colony of Western Australia 1845.

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Fig. 8 Steam Frigate H.M.S. Sidon off the Coast of Morocco 1948.

Fig. 9

View of Pyramids at Gizeh, while serving in H.M.S. Sidon 1848.

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Fig. 10 View of Tripoli from near location of modern Del Mahari Hotel made en route from Malta to Cyrene for excavations 1860.

Fig. 11 View of Walls of Tocra (Teucheira) with quarry to East of Town made during excavations at Cyrene 1860-61.

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23 Drawings by Beechey in the Department of Greek and Roman Antiquities, British Museum James Copland Thorn A miscellaneous collection of drawings was found by Dr. Don Bailey rolled up in the Department archives with a small written label on 19th century paper: Mr Beechy’s memd of the Pentapolis Cyrenaica - Africa The label is now mounted on a contemporary folder which has been reused to contain the flattened drawings. These consist of mainly loose field drawings done in 1822 during the Libyan expedition of Henry Beechey and his brother Lieut. Frederick Beechey (Pl.1), (NMM Cat. (Pictures) Pl.79e Reg.No.BHC 2543, 30 x 25ins. (76 x 63.5cms), Acquisition No.1961-1, Neg.No. 8876 CN) but also include fair originals, themselves possibly made from field drawings, which post-date the expedition to the Pentapolis. However, Bailey Drawing 10 was done on paper which shows a watermark dated 1827, when the publication was in the final stages of preparation, and being also in reverse, points to its intended purpose as being connected with the book engraving which is discussed below. The following numerical sequence of the drawings follows Dr. Bailey’s original classification, which included a synopsis of the identified subjects and annotation. The approach here is to study firstly the drawings as a paper archive with their different watermarks, secondly the techniques used in preparing the drawings, and finally the subject matter which has become much clearer by more recent publication and by my fieldwork in Cyrene. The drawings by their presentation divide into three main parts (A, B, C) with those connected with Cyrene (B) intrusive to the original range of field drawings (A, C). A Teuchira and Ptolemais: Bailey Drawings 1-5 have been done on sheets with a triple crescent watermark1 which have been torn in half, about 331 x 225mm, then 1

Heawood E., “Watermarks”. Monumenta Chartae Papyraceae Historiam Illustrata, 1950, p.85, pl.139, n.879, done on triple crescent watermark paper as noticed before in part (A). Bailey Drawing 11 (320 x 222 mm), Indian ink used, three shades of grey wash, also light grey Indian ink identified by the characteristic groove around its head. Bailey Drawing 12 (301 x 224 mm), sepia ink used, two shades of grey wash, more detail given to niches in loculi by shading horizontal with mapping paper contrasting with Bailey Drawing 14 (317 x 218 mm), sepia ink used, without shading. Drawings 7-9 and 13 are fair drawings, likely to have been done after their return, based on the watermark, and later pinned together with the other Cyrene drawings. They show ALB in a rectangular cartouche watermark and possess fuller annotations with the fair drawings. Bailey Drawing 7 (300 x 137 mm) is possibly the lower section of a sheet, on the reverse side of which is a scale stepped out to 40ft, intended for another drawing. Bailey Drawing 8 (223 x 296) is probably the upper part of the sheet belonging to 13. Bailey Drawing 9 (222 x

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folded in half again in the opposite direction. Pencil has been used on the manuscript, and a dip pen for writing with sepia ink and for drawing freehand in the field. The sheets have eventually been rolled at a later date, causing a series of characteristic small creases along the edge of the fold or spine. B Cyrene: Bailey Drawing 15 (330 x 225 mm), sepia ink and dip pen used, rough outline. Folded half sheet, noticeably showing no pin holes, apparently an original freehand field drawing matching those in part (A) Bailey Drawings 1-5 and in part (C) Bailey Drawings 16-20. These were done in Spring 1822, contrasting with the other Cyrene fair drawings which seem to have been drawn soon after, by May 1823, and later ca. June 1827. Bailey Drawings 6-14, part (B), have been done on half sheets of paper cut to a variety of sizes, showing four different watermarks. They differ in technique from those above by including fair drawings in sepia and Indian ink, done with a ruling pen and mapping pen. These were later pinned together, as if assembled for publication. Bailey Drawings 11-12 and 14 are fair drawings done with a ruling pen, with less annotation but including a grey coloured wash for the purpose of shading, C Apollonia: Bailey Drawings 16-20 show the same signs of being drawn freehand in the field as those in part (A) Bailey Drawings 1-5. These have been done on full sheets, 451 x 325mm, with triple crescent watermark, some folded in half and lightly rolled, causing a characteristic creasing on the fold. Sepia ink and dip pen have been used with pencil outline. There is no possibility of identifying the arranged order of the drawings. The torn half-sheets of Bailey Drawings 17 and 20 may be one sheet, but it is unclear if these were ever interleaved. Bailey Drawing 16 (451 x 335 mm) triple crescent watermark. Sketched drawing of the Western Basilica Church2 Bailey Drawing 17 (331 x 224 mm) Watermark mesh as 20. Central Basilica Church3, Bailey Drawing 18 (447 x 332 mm) triple crescent watermark. Folded in half, a grubby drawing possibly used as an external sheet with all four faces used, probably done in the field. On the 224 mm) is the upper section only. On the reverse is a scale stepped out to 50 ft in pencil, also a pair of arcs, probably the setting out of the theatre. Bailey Drawing 13 (290 x 225 mm) is the lower section only, described in the caption as a Plan. Errors in drawing the triglyph course have been scratched out from the drawing. Bailey Drawing 6, which is a full sheet 410 x 285 mm, has additionally had ink compasses used, and shows as a watermark a coat of arms with the Strasburg lily, which may be an imitation by J.Whatman & Co, of an earlier 18th cent. watermark used by Vanderley (Churchill W.A. “Watermarks in Paper in the XVII and XVIII Centuries”, Amsterdam 1935, pp.82-84, pls.CCXCIX, n.404, CCCIX, n.416; Heawood, “Watermarks”, p.85, pl.262). This seems to have been done on a separate occasion and was probably attached to Bailey Drawings 7-9 judging by the subject-matter of the drawings, being related mainly to details of the city. Bailey Drawing 10 (317 x 164 mm) has a J.WHATMA(N TURKEY MIL)L 1827 watermark (Heawood “Watermarks”, p.141, pl.466, n.3464). Dark brown ink has been used, with the pencilled outline of rocks and a setting out line for the perspective of a tomb. A ruling pen and dip pen have been employed. There are three pairs of pinholes at either end of the sheet. On the obverse is a perspective with the four-loculus tomb N.178 drawn with three loculi in reverse, as if intended for the contemporary publication. On the reverse is the fair outline of a five-bayed rock-cut tomb with Doric entablature, most probably a draft of Tomb N.196 (Pacho J.R., “Relation d’un voyage dans la Marmarique et la Cyrenaique”, Paris 1827, p.374, pls.XXXV-XXXVI 1, 1a, 1b; Thorn J.C., “Explorers of Cyrene 1822-1894”, in La Cirenaica in età antica, Macerata 1998, tav.IV,2. 2 Bailey D., “Some Beechey Plans of buildings at Apollonia”, LibSt XII, 1980-81, pp.63-64, figs.1-2. 3 Bailey D., ibidem, pp.63,66, figs.3-4.

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obverse the Eastern Basilica Church, with a small detail of baptistery on the reverse4. On the inner obverse is a pencil drawing of a column, probably that shown inverted by Pacho5. On the outer reverse is the amphitheatre, showing details of steps in section, a small plan and section of seating area and a chord with measurements (unpublished). Bailey Drawing 19 (451 x 332 mm). Folded in half, a grubby drawing, probably done in the field. On the obverse the Roman Baths6. On the inner obverse is the pencilled outline of another building, unillustrated, described by Bailey as ‘Plan of the extramural apsidal building, the Triconchos Church, due south of the Central Basilica Church at Apollonia’7. Bailey Drawing 20 (331 x 225 mm). Sketched drawing with torn edge, Palace of the so-called Dux Pentapoleos8. Teuchira Bailey Drawing 1 obverse (Pl. 1) Written above Beechey Inscriptions I-II is (i) Walls - E Side describing the area between the curtain wall, Tower 24 and the East Gate9. Below this is (ii) a ground plan of the city wall annotated with (iii) construction of wall interior filled up with rubbish, showing alternating stretcher and header ashlar blocks, a section of which is exposed elsewhere, (iv) length various, the latter referring to the adjoining elevation while (v) x elevation of wall / of one of the towers is an external elevation from the city side where the entrance is still complete, a cross on the lintel being the only indication that it refers to this particular drawing10. An equal-armed Passion cross is shown (vi) on a stone of one of the towers of the city wall which could be Tower 1111. The architectural element (vii) Frieze and about 2 feet is probably the soffit of a cornice with plain modillions. The structure outside the western gate is (viii) not original though well built, elsewhere captioned (ix) not original, and represents a proteichisma12. Beechey Inscription I LEI*,28O,2 )M Said to have been located by Oliverio near the eastern gate on a re-used isodomic block at the base of the city wall13. Beechey Inscription II 4(:1( 4

Bailey D., ‘Some Beechey Plans’,pp.72-74, figs.9-10. Pacho “Relation”, p.373, pl.XXVII,2. 6 Bailey, ibidem, pp.63, 68, figs.5-6. 7 Bailey, ibidem, p.62 8 Bailey, ibidem, pp.63, 70, 73, figs.7-8. 9 Beechey, F.W., H.W., ‘Proceedings of the Expedition to explore the Northern Coast of Africa from Tripoli Eastward’, London 1828, p.369; Smith, D., Crow, J., ‘The Hellenistic and Byzantine Defences of Tocra (Teucheira)’ LibSt 29, London 1998, p.57. 10 Smith and Crow, ‘The Hellenistic’, p.43, fig.5. 11 Beechey, ‘Proceedings’ p.369; Smith and Crow, ‘The Hellenistic’ p.51, fig.3 12 Beechey, ‘Proceedings’, Pl. op.cit. fol.338; Smith and Crow, ‘The Hellenistic’ pp.59, 61-62 figs.19-20 13 Oliverio, G., ‘La Stele dei Nuovi Comandamenti e dei Cereali’, Doc.Ant.II-1, 1933, p.237 n.462, Tav.XI, LXI 5

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Located by Ghislanzoni on a re-used isodomic block at the base of the city wall and later by Oliverio as inscription no.2 Tav.XI, LXI Fig.VIII14. Bailey Drawing 1 reverse (Pl. 1) A small pencilled plan captioned (x) Gusser el Toweel (sic) in pencil is lightly drawn, showing the internal walls of the chambers and the adjoining courtyard15. (xi) on the left side of a door x / entering from † refers to Beechey Inscription III which is apparently near the return between two plain loculi entrances. (xii) Nothing within the tomb but three small rectangles which may represent tomb ossuary niches. Beside (xi) and (xii) appears an unfinished subterranean galleried loculus tomb recalling those found in Cyrene, for example Tomb N.150, which shows a similar interior16. Also on this page is Beechey Inscription IV which has been confirmed by Dr Joyce Reynolds as coming from Oliverio’s Quarry VIII, Tomb 4. Beechey Inscription III HI . CHOQ)LODGHOIRQ (2) Oliverio concludes Line 2 [THZQVZWKUZQ (3) For Line 3 Pacho reads + 34/ ˜,6. Oliverio gives for this line KSROL9

Bailey Drawing 2 reverse (Pl. 3) Above Beechey Inscription VII is the annotation: (xvii) Portico - built in not reversed, referring to the position of the inscription on the ‘Podium’ on the northern side of the 18

Ghislanzoni, ‘La Stele’, p,207 n.327-329 Beechey, ‘Proceedings’, pp.357-358; Kraeling, C.H., ‘Ptolemais, City of the Libyan Pentapolis’, Chicago 1962, p.64, pl.V. 20 Pacho, ‘Relation’, pp.383, 398, pl.LXXIV,2; CIG III ed. Franz I., Berlin 1853 pp.530-531 no.5184; Oliverio, ‘La Stele’, p.68 n.3, tav.V, fig.7 21 Ghislanzoni, ‘Notizie’, pp.67-68, fig.32; Kraeling, ‘Ptolemais’, pp.66-67, fig.12, pl.VIII B 19

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Square of the Cisterns, as mentioned above, whose columns were still standing in 1766 and shown by James Bruce in his watercolours22. Henry Beechey’s drawing of this building is shown as an engraving for Pl.5 in the publication, entitled ‘Remains of an Ionic building at Ptolemeta’23. Pacho recorded the position of this inscription in the podium wall, level with the mosaic floor above the cisterns24. The block seems to have been trimmed, cutting into Line 1, and the lower two lines show his reworking of Line 1 in connection with fixed points in Line 2. On 17th October 2001 the weathered inscription was found by Abdussalam Bazama in the upper section of the southern side of the podium, on the fifth course from the base, 5.72m from the south-west corner. The block size is H.0.29, cut down at the top by 0.080m as a rebate to level the course above, and L.1.12m. The letter size is 0.043-0.040m. An annotation: (xviii) tombs Ptolemeta / close to the tents appears for the following Beechey Inscriptions VIII25 and IX, which shows the end of Line 3 annotated: (xix) no more letters and is portrayed by Pacho in a tabula ansata26.

  

Beechey Inscription VII $($,,2/(0$,21721$ 372/(0$,28.$6,/,66>@6./( 75$6$'(/)214(21>@,/20+7(5$ +3>@,˜6



BA6,/($372/(0$,21721%$6,/ ,2866

(1) (2) 3  (4)

(1) Pacho’s reading of Line 1 is: $,/($,,2/(,8$,21,2,>%@$,/ (2) Pacho omits Beechey’s third I in Line 2 (3) Pacho begins Line 3 with A, and his antepenultimate letter is O instead of Beechey’s E (4) Pacho’s last line reads +3/,6 Beechey Inscription VIII



___

*/3(75Z1,26 E3$)52',726  ($87Z.$,72,6,',2,6

Beechey Inscription IX LB3$2,1,.%(7(/(87+6(

(1 

22

Pacho, ‘Relation’, p.402, pl.LXVIII; Kraeling, ‘Ptolemais’, pp.62-73, pl.XX C; Cumming, D., ‘James Bruce in Libya 1766’, LibSt I London 1969-70, p.18, pl.I 23 Beechey, ‘Proceedings’, pp.281-338 24 Pacho, ‘Relation’, pp.383, 398-399 pl.LXXIV,1; CIG III p. 531 n.5185; Oliverio, ‘La Stele’, p.42 n.2. Tav.V, fig.6. 25 Pacho, “Relation”, pp.384, 403, pl.LXXIX,5; CIG III, p.539, n.5222. 26 Pacho ibidem, pl.LXXIX,4; CIG III,p.535, n.5198.

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./$8',6'5$.:1>@'0+ 1:1*$0(5$1,( L L $485.((7(/(87 ./$8',6$X,//$6L K ' 0+1:1%$0(5$1( 

2  3  4  (5)

(1) In Line 1 Pacho reads the 14th letter as A (2) At the end of Line 2 Pacho gives, past the damaged area, .'0+ (3) Pacho reads the fourth letter in Line 4 as O, the twelfth as A and gives E as the conjectured letter. (4) Pacho reads the twelfth letter in Line 5 as A and the 16th as 8. (5) In Line 6 Pacho gives the sixth letter as P.

final

Bailey Drawing 3 obverse (Pl. 4) Drawing of the upper section of a cippus surmounted by an acanthus with Doric entablature, with Beechey Inscription X in the metopes. Below is a drum: (xx) fluted marked / with lines and cut deeply, the exposed height of which in 1822 was apparently: (xxi) about 2 - / something more. On 17th October 2001 part of the inscription was seen on a cippus recently tumbled from the corner of a building in the Decumanus in the area called the Street of Monuments opposite the fountain, probably the cippus which was recorded by Kraeling without its inscription. The total height is 2.10m, Diam.0.66m below the metopes. The fluted section is H.1.35m including the base, which is H.0.23, Diam.0.86m. Letter height is 0.052m.27 Oliverio described Beechey Inscription XI as a cippus of tufa H.1.45 W.0.53 Th.0.45m, measurements which do not correspond to those given earlier by Beechey, and cites it as originating ‘nella parte centrale delle rovine’ of the town28 Beechey Inscription X 4(2'6(>@26>@  

 

 On 17th October 2001 the last metope was noticed to bear the letters 6(not recorded by Beechey, possibly because it was concealed from view.

    

Beechey Inscription XI 0$85+/,21 )/$%,$121 %$/(5,$0$5 .,$1+>@521 1  */8.87$720  2  8421 p 3 The Beechey inscription seems to be inconsistent with that of Oliverio in that: 27 28

Kraeling, ‘Ptolemais’, p.79, fig.17 (left), pl.VII Oliverio ‘La stele’, pp.252-253, ins. 40 n.516. Tav.LII and tav.CIII, fig.93

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(1) Oliverio shows no missing letter in Line 4, and the following letter is read as T (2) he reads the final letter in Line 5 as 1 (3) the final line is given as 1 cm, è quindi da porre alla base dello spinto degrado che interessa la maggior parte delle figure, innescato già dalla lavorazione prodotta su un materiale evidentemente non idoneo ad essere scolpito. Per questo non sono da escludere, considerando le condizioni espositive, molteplici interventi di stuccatura e protezione superficiale poco dopo l'evento edificatorio e/o rifacimenti di intere porzioni con pietra analoga. Senza entrare in merito ad ovvie discussioni concernenti la situazione manutentiva e di rispetto in cui è inserita l'Opera, è oltremodo doveroso sottolinearne il bisogno di un effettivo e rapido intervento di restauro conservativo, che deve essere finalizzato al congelamento dei processi alterativi, attualmente assai sviluppati negli elementi delle figure. Esso potrà essere raggiunto sigillando accuratamente tutte le lacune e le fratture con malta e resina idonee e, previa rimozione della patina biologica, consolidando e proteggendo le superfici. Dal punto di vista fondale sono da considerare due aspetti, distinti ma strettamente correlati: considerevole lunghezza e isolamento strutturale dell'opera 93 La presenza dei macrofossili, costituiti da sparite, ha evidentemente determinato delle rovinose anisotropie localizzate, difficilmente risolvibili dagli antichi scalpellini. Le lacune così prodottesi sono state quindi presumibilmente integrate con malte di calce ad aggregato di analoga granulometria della pietra. 94 Una volta venuto a mancare lo strato di finitura superficiale. 95 Stucchi, S., Un decennio di attività della Missione Archeologica Italiana a Cirene, Tripoli 1967; Luni, M., ‘Lo Xystos’.

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caratterizzata da L>>l, con h>l; netta variabilità naturale del profilo del sito preurbanizzazione. La presenza lungo il corpo monumentale di spessori differenziati di contatto bedrock-struttura (Fig. 42), unitamente alla forma intrinseca del manufatto, sono da porre infatti alla base dei rovinosi crolli che hanno condizionato quest' opera dal 262 d.C.

Ringraziamenti Gli autori esprimono la loro viva gratitudine al Soprintendente del Dipartimento alle Antichità della Cirenaica Abdulgader Said Mzeni, per avere permesso lo studio e per le proficue discussioni tecniche in merito alle attività di cava, antiche e attuali, nel territorio di Cirene. Si ringraziano inoltre tutti i membri della Missione Archeologica in Libia per la paziente collaborazione alla presente ricerca, nonostante la strenua attività lavorativa. Un particolare ringraziamento al Dr. M. Bagnati, al Dr. F. De Rosa e alla Dr.ssa A. Luche dell'A.R.P.A.M. per avere messo a disposizione, nell'ambito dei rapporti di collaborazione tra quest'ultimo Ente e l'Università degli Studi di Urbino, la strumentazione per le indagini al diffrattometro sui campioni prelevati nei monumenti di Cirene.

Figg. 39-40 Particolari delle fenomenologie di degrado in atto sulle superfici modanate e scolpite.

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Fig. 41 Orografia dell’area del quartiere dell’Agorà e di parte dell’Acropoli.

Fig. 42 Sezione geologico-tecnica ortogonale al portico delle Erme.

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L’Edificio per Riunioni Pubbliche nell’Agorà di Cirene Valeria Purcaro Si è ritenuto opportuno riprendere in tempi recenti lo studio analitico delle varie fasi dell’Edificio per Riunioni Pubbliche al fine di completare la pubblicazione dei monumenti sui lati dell’Agorà cirenea. Lo studio del monumento, il cui scavo risale agli anni ‘60-70 sotto la direzione di S. Stucchi, è stato iniziato da W. Gambini prima e da A. Uncini poi sotto la guida di L. Bacchielli; ad essi si deve una prima lettura dei dati di scavo. Nell’area centrale del lato Ovest dell’Agorà, nel corso del terzo quarto del V sec. a.C., in relazione quindi all’avvento del regime repubblicano, sulle rovine di un terrazzamento e di un successivo portico arcaici venne costruito un Edificio che per le sue caratteristiche architettoniche è stato riconosciuto come sede di riunioni pubbliche (Fig. 43) Si tratta di un’aula rettangolare lunga il doppio (60 piedi x 30) della larghezza, (Fig. 44), i cui resti di fondazione sono comparsi a diversi livelli sui quattro lati. La costruzione insiste sui lati N e E sul tracciato del terrazzamento arcaico mentre sui lati O e S le fondazioni furono completamente rifatte (Fig. 45). Il lato Sud in particolare è spostato più a Nord del temenos arcaico determinando così un vano di risulta irregolarmente trapezoidale dove nel corso dello scavo sono stati trovati depositi di lucerne e documenti contabili96. Su questo stesso lato Sud dell’Edificio, verso l’angolo S-E, sul filare dell’euthynteria sono state rilevate impronte di un alloggiamento di un cardine che invita a ritenere che l’ingresso all’edificio avvenisse su questo lato. All’interno sono stati trovati resti della pavimentazione costituita da lastre di pietra, tracce di una pedana nella parete S-O vicino alla quale era posto un piccolo altare circolare. Nessuna testimonianza è stata rinvenuta di altri apprestamenti interni ma possono essere supposte gradinate lignee disposte lungo le pareti secondo una collocazione a 3 In epoca tolemaica l’edificio venne ristrutturato conservando peraltro la stessa pianta. I nuovi interventi riguardano in particolare l’ingresso, le gradinate e il basamento interni (Fig. 46). L’ingresso venne spostato ora sul lato Est ipoteticamente al centro del lato per trovarsi in asse con il basamento. La pavimentazione interna resta la stessa ma per la prima volta vennero costruite gradinate in pietra di cui restano alcuni blocchi disposti ortogonalmente ai lati brevi dell’edificio che occultano la pedana e l’altare della fase precedente. Viene a determinarsi così un allestimento interno caratterizzato da due ordini di gradinate (il loro numero ricostruito in pianta è puramente orientativo) disposte a Nord e a Sud dell’aula determinanti uno spazio libero centrale. Lungo la parete Ovest in asse con l’ingresso è un basamento lungo circa 10 piedi. L’edificio ellenistico sopravvisse con strutture pressochè inalterate fino al 117 d.C., quando, come gran parte dei monumenti dell’area urbana subì violenze tali da richiedere un totale rimaneggiamento. Sui lati O, N ed E conservò le stesse 96

Purcaro, V., L’agorà di Cirene, II, 3, Roma 2001, pp. 69-70.

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dimensioni, mentre sul lato S venne ad inglobare il vano compreso tra la fase ellenistica e il Tempio di Apollo Archegeta, determinando sul lato occidentale della piazza un prospetto unitario senza soluzione di continuità. L’ingresso venne rinnovato e scandito in tre passaggi da due colonne doriche (Fig. 47). Sullo stilobate venne ricavato un gradino dalla parte interna. Le porzioni di parete sono coronate all’esterno da un fregio a metope e triglifi. L’interno conserva disposizione tripartita ma le gradinate rettilinee vennero sostituite con altre a pianta curvilinea, minore di un semicerchio (Fig. 48). I gradini sono molto bassi, essendo evidentemente destinati a sostenere sedili mobili. Esistono resti di scalette che permettevano l’accesso dal primo all’ultimo gradone. La parte centrale (Fig. 49) dell’aula ricevette una nuova pavimentazione con lastre rettangolari disposte con l’asse maggiore in senso N-S. La base centrale venne ridotta di una metà rispetto alla fase precedente essendo stata asportata la parte Nord per rendere il monumento in asse con il nuovo ingresso. Un’epigrafe apposta su questa base assicura il rifacimento ad epoca adrianea97 (Fig. 50). Entro la metà del III secolo nuovi interventi interessano l’Edificio per Riunioni Pubbliche sia all’esterno che all’interno del monumento. L’ampio portale tripartito venne tamponato tra le colonne e i tratti di muro ai lati, cosicchè la sala di riunione rimase accessibile dal solo ingresso centrale. Un portico venne costruito di fronte alla facciata del monumento, portico che copre tutta la distanza tra il Tempio di Apollo e il Portico Ovest e che presenta una disposizione a colonne ergentisi su dadi chiuse tra due semicolonne cirenaiche addossate l’una alla parete settentrionale del tempio di Apollo, l’altra al muro Sud del Portico Ovest. All’interno le gradinate vengono rimaneggiate e sono costituite da sedili in calcare. Prima del definitivo abbandono dell’edificio come sede di istituzioni pubbliche e l’occupazione dell’area con casette tarde, ulteriori piccoli interventi interessarono queste strutture: vennero chiusi gli intercolumni sia nella parte settentrionale che meridionale del portico, come suggeriscono le fondazioni di due monumenti sorti in corrispondenza delle due ali del portico. All’interno dell’edificio venne installata, nella parte centrale di fronte all’ingresso, una trapeza di cui restano i quattro fori per l’alloggiamento dei piedi sulle lastre del pavimento.

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Oliverio, G., Suppl. Epigr. Cir., ASAAtene, XXXIX-XL, 1961-62, pp. 250-251.

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Fig. 43 Pianta particolareggiata dell’area centrale del lato Ovest dell’Agorà.

Fig. 44 Pianta della prima fase di epoca classica dell’Edificio per Riunioni Pubbliche.

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Fig. 45 Panoramica del monumento nello stato atuale.

Fig. 46 Pianta della seconda fase dell’Edificio di epoca ellenistica.

Fig. 47 Pianta della terza fase dell’Edificio di età adrianea.

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Fig. 48 Panoramica dal centro piazza, con l’Edificio per Riunioni suillo sfondo

Fig. 49 Colonnato del portico aggiunto nel III secolo d.C.

Fig. 50 Facciata dell’edificio in età adrianea.

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La Casa del Mosaico di Dioniso a Cirene Filippo Venturini L’edificio si trova su una terrazza a Nord - Est dell’Acropoli e si affaccia sulla via che dal quartiere centrale conduceva al Santuario di Apollo. All’estremità Nord-Est abbiamo un portico del quale restano due basi di colonne e parte della pavimentazione musiva, una soglia che immette in un lungo corridoio, anch’essa con un mosaico geometrico, con andamento Est-Ovest, sul quale s’affacciano due stanze ed un cortile. I due vani sono entrambi pavimentati a mosaico (Fig. 51). Portico e corridoio Il portico presenta resti di un mosaico decorato con motivi geometrici: losanghe tangentisi per i vertici, alternate a quadrati che contengono nodi salomonici o motivi a zig - zag. Il confronto più immediato a Cirene è quello con la sala d’ingresso dell’ Insula di Giasone Magno98. La soglia che divide il portico dal lungo corridoio è ornata da una losanga, con disco centrale, al quale si affiancano due lenti ovoidali. Il corridoio sul quale si aprono le stanze della casa presenta anch’esso una pavimentazione musiva: una cornice vegetale racchiude un campo centrale caratterizzato da una ornamentazione di tipo geometrico, che consta di ottagoni nei quali sono inscritti nodi salomonici a sei mandate, combinati con losanghe e rettangoli che hanno, all’interno, il motivo della corda semplice. Il gusto ornamentale è lo stesso che pervade il pavimento del portico, nonché il complesso musivo della Casa di Giasone Magno. Stanza con il mosaico di Dioniso (Fig. 52) Il mosaico qui presente reca un motivo periferico dalla lunga storia e dall’ampia diffusione. Più interessante è la decorazione che circonda il pannello centrale: evoluzione del motivo di cerchi che intersecandosi danno vita a quadripetali, attestato già fra I a.C. e I d.C. Elaborazioni di questo motivo simili a quella in questione non sembrerebbero comparire prima dell’epoca antonina, come attestano esempi antiocheni99 ed anche cirenaici100. Nel pannello con la rappresentazione mitologica la disposizione delle figure tradisce un intento prospettico, al quale però il mosaicista ha tenuto relativamente fede, visto che è piuttosto sensibile alla tendenza ad appiattire l’intera raffigurazione sul fondo. I corpi risultano dalle membra irrigidite, le proporzioni anatomiche impoverite e prive di scioltezza. Si possono rilevare delle assonanze con le figure 98

Mingazzini, P., L’insula di Giasone Magno, Roma 1966, pp. 33-34. Levi, D., Antioch mosaic pavements, Oxford 1947, p. 625, tav. XCVI, CII. 100 Lloyd, J. A., Sydi Krebish, the Mosaics, Roma 1994, pp. 33-35; pp. 124-126. 99

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delle quattro stagioni dell’Insula di Giasone Magno, in particolare modo con la Primavera e l’Estate101, la prima paragonabile a Dioniso, la seconda alla menade che sovrasta Arianna: tutto sembra enfatizzare la dimensione verticale, i visi sono simili, anche se nel caso ora in esame possiamo riscontrare un’esecuzione più sommaria ed un maggiore impoverimento delle forme. Al di fuori della Cirenaica si possono istituire paragoni con la Villa di Piazza Armerina102 e con la Domus dei Dioscuri ad Ostia103, opere databili entro il IV secolo. Stanza all'estremità Est del corridoio Il pavimento del vano che si apre all’estremità orientale del lungo corridoio presenta, dall’esterno verso l’interno, un motivo vegetale al quale segue il canonico tema della corda semplice; il campo centrale reca losanghe variamente combinate, con rettangoli, quadrati, triangoli, all’interno dei quali troviamo vari motivi ornamentali, sia di tipo vegetale (fiori), che geometrico (quadrati o cerchi), oppure la corda semplice. Anche in questo caso i confronti più immediati sono con l’Insula di Giasone Magno, ove abbiamo dei motivi vegetali che incorniciano il campo centrale (ambulacro Nord dell’atrio e pianerottolo), ma nessuno di questi è veramente uguale a quello qui trattato, al quale invece s’avvicina di più la decorazione vegetale di un frustulo di mosaico di Berenice, datato fra II e III secolo d.C.104. Il campo centrale è paragonabile alla Sala 12 e all’Ambulacro Ovest dell’Insula di Giasone Magno105, mentre al di fuori della Cirenaica assonanze notevoli sussistono con dei pavimenti antiocheni106. Questo mosaico, come quelli del portico e del corridoio, rispecchia il gusto che domina i secoli II e III e che declina, fino quasi a scomparire, entro la prima metà del IV107. Osservazioni Tutti i pavimenti con ornamentazione geometrica rimandano ad uno stile e ad un gusto che cominciano a declinare a partire dal IV secolo. Il motivo ornamentale che circonda il pannello di Dioniso compare fra il II ed il III secolo d. C. ed è attestato in quest’epoca anche a Berenice. Stilisticamente le figure del pannello, pur mostrando qualche analogia con quelle delle stagioni dell' Insula di Giasone Magno, hanno anche assonanze con opere che non superano il IV secolo. A seguito di una valutazione complessiva i 101

Mingazzini, L’Insula, Tav. XXXII, 2. Gentili, G. V., La Villa Erculia di Piazza Armerina: I mosaici figurati, Milano 1959, Tav. XLIII. 103 Becatti, G., Ostia, mosaici e pavimenti marmorei, Roma 1962. 104 Reynolds, Sydi, p. 32. 105 Mingazzini, L’Insula, pp. 37-40. 106 Levi, Antiochs, p. 625, Tav. CVI, a; p. 625, Tav. CIII, c-f. 107 Kitzinger, E., ‘Evolution stylistique des pavements de mosaïque dans l'orient grec depuis l'époque constantinienne jusqu'à celle de Justinien’, La mosaique greco- romaine, I, Paris 1963, p. 342 Dumbabin, K. M, Mosaics of the Greek and Roman world, Cambridge 1999, p. 117. 102

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mosaici presi in esame in questa sede risulterebbero inscrivibili in un ambito cronologico da ritenersi a cavallo fra III e IV secolo.

Fig. 51 Pianta della Casa del Mosaico di Dioniso: 1) portico; 2) soglia; 3) corridoio; 4) stanza dove si trovava il pannello figurato; 5) cortile con pozzo; 6) stanza con colonne nella parte meridionale; 7) ambiente all’estremità Est; 8) stanza con scale che portavano al piano superiore.

Fig. 52 Pannello ritraente Dioniso che scopre Arianna (conservato nel Museo di Cirene).

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Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica E. Fabbricotti, O. Menozzi, L. Cherstich

TAV. I

G.I.S. archeologico delle zone di Baggara/Belgadir e Ain Hofra/Bu Miliu su immagine satellitare ad alta definizione

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

S. Ensoli

TAV. II

Fig. 5

Fig. 8

Fig. 9

Fig. 11

Fig.10

Fig. 16

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

E. Fabbricotti

TAV. III

Fig. 15 e 16a e b nel testo. Cirene, W 20. Veduta interna e particolari della semicolonna e delle metope.

Fig. 17 nel testo. Cirene, W 20. Prospetto e sezione (di E. Di Valerio) e ricostruzione cromatica (di A.Ruggiero) del fregio dorico nella facciata interna.

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

E. Fabbricotti

TAV. IV

Fig. 18 nel testo Cirene, Tomba W 20, metope del fregio dorico interno. Le diverse foto delle metope sono state trattate con diversi filtri per evidenziare le tracce delle figure dipinte negli spazi metopali. Generalmente le figure sembrano presentare uno schema che vede due o tre figure disposte a riempire il campo della metopa.

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

E. Fabbricotti

TAV. V

Fig. 21 nel testo. Mappa della Necropoli ovest con in rosso le tombe con fregi dorici e metope dipinte.

Fig. 22, 23 e 24 nel testo. Cirene, Necropoli Ovest. Tomba W98. Veduta generale, particolari della rappresentazione del leoncino e dei colori a decorazione delle metope e dei triglifi.

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

T. Mickoski

TAV. VI

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

D.White, S. Kane, E. Fabbricotti

TAV. VII

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

R. M. Bonacasa Carra

TAV. VIII

Fig. 1

Fig. 2

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

A. Laronde, V. Michel

TAV. IX

Atti del X Convegno di Archeologia Cirenaica

Reports Urbino: M. Luni et al.

TAV. X

INDICE p. 1

Introduzione SESSIONE I: CIRENE 1 L’ area sacra a Sud del Ginnasio ellenistico - Forum di Cirene (M. Luni & O. Mei) 2 Studi, scavi e scoperte dal 1996 al 2003: nuovi elementi per servire alla storia della religione e dei complessi monumentali di Cirene (S. Ensoli) 3 Analisi delle potenzialità di moderne metodologie di indagine in applicazioni archeologiche: telerilevamento ad alta risoluzione spaziale, GPS differenziale e fotogrammetria digitale terrestre nell'area di Cirene (Libia) (Riccardo Salvini, Ivan Callegari, Andrea Ventura, Marco Anselmi)

p. 3 p. 17

p. 35

SESSIONE II: SANTUARI E NECROPOLI 4 Santuari e potere. Rileggendo De Polignac (E. Di Filippo Balestrazzi) 5 Per una lettura della chora cirenea attraverso lo studio di santuari rupestri e di aree marginali della necropoli di Cirene (O. Menozzi) 6 Le héros Dioscure à Apollonia de Cyrénaïque (C. Dobias Lalou) 7 Tomb N171 and its significance for the history of Cyrene Doric (R. Tomlinson) 8 S4: la tomba di Klearchos di Cirene (L. Cherstich) 9 Alcune tombe della Necropoli Occidentale di Cirene (E. Fabbricotti)

p. 45 p. 61 p. 85 p. 97 p. 103 p. 121

SESSIONE III: ALTRI SITI IN CIRENAICA 10 New Light on a Greek City: Archaeology and History at Euesperides (A. Wilson) 11 Excavations at Balagrae (al-Beida) 2001-2003 (A. Buzaian & F. Bentaher) 12 Excavations of Garyounis University at Tocra 1997-2002 (F. Bentaher & A. Buzaian) 13 Le campagne di scavo della missione archeologica polacca a Tolemaide (Ptolemais) condotte tra il 2001 e il 2003. (T. Mikocki)

p. 141 p. 153 p. 163

p. 173

SESIONE IV: STUDIO DEI MATERIALI 14 Spigolature su alcuni ritratti ellenistici (N. Bonacasa) 15 Foreign schrecklichkeit and homegrown iconoclasm: two faces of communal violence at Cyrene (D. White) 16 Bronze Plaques from the Archaic Favissa at Cyrene (S. Kane) 17 Ancora sulle lastre bronze. Intervento di approfondimento (E. Fabbricotti) 18 Céramique grecque de la nécropole occidentale d'Apollonia (J.J. Maffre) 19 Marmi e pietre colorate nell’architettura della Cirenaica in età imperiale

p. 183 p. 191 p. 205 p. 217 p. 221

(P. Pensabene) 20 Provenance, use, and distribution of white marbles at Cyrene (D. Attanasio, S. Kane, R. Platania, & P. Rocchi)

p. 231 p. 247

SESSIONE V: STUDI STORICI 21 Il discorso di Timoleonte in Timeo (FGrHist 566 F 31b) e la visione della Libye tra paremiografia e paradossografia (G. Ottone) 22 By Seaways to Cyrene Captain E.A. Porcher R.N., water colorist, before Smith and Porcher (G R.H. Wright) 23 Drawings by Beechey in the Department of Greek and Roman Antiquities, British Museum (J. C. Thorn)

p. 261 p. 275 p. 285

SESSIONE VI: L’ETÁ TARDOANTICA 24 Nuove ipotesi sul complesso episcopale c.d. “Basilica orientale” di Cirene R.M. (Bonacasa Carra) p. 305 25 Qasr-Libya A. Abdussaid p. 315 26 La restauration de la basilique B de Latrun, Cyrénaïque (2001-2003) (A. Laronde & V. Michel) p. 321 27 Le lucerne tardoantiche del Santuario di Iside e Serapide sull’Acropoli di Cirene (M. P. Del Moro) p. 337 SESSIONE VII: POSTERS 28 Il diadema sul ritratto bronzeo di Arcesilao (M. d’Este) 29 Alcune considerazioni sul rapporto tra Cirene e Sparta durante la monarchia battiate (G.Blasiotti) 30 Il mito di Alcesti a Cirene: due rilievi dalla necropoli est (L. Quattrocelli) 31 Ibridismo e oltretomba. Iconografia e mito delle Sirene nel territorio del Gebel Akhdar (G. Blasiotti) 32 Ricognizione nella Necropoli Sud di Cirene: la strada per Balagrae (L. Cherstich) 33 Divinità Funerarie Cirenaiche. Alcuni recenti rinvenimenti (F. Siciliano) 34 Nuovi restauri dei vasi attici di Apollonia (G. Nadalini) 35 Decorazioni scultoree dal frigidarium delle Terme di Traiano (D. Fossataro) 36 Il cosiddetto teatro 4 di Cirene (F. di Bartolomeo) 37 Ricognizione preliminare nell’oasi di Giarabub (V. d’Ercole & A. Martellone) 38 Attività recente a Cirene della Missione Archeologica dell’Università di Urbino (M. Luni et alii) TAVOLE A COLORI

p. 351 p. 357 p. 373 p. 385 p. 391 p. 409 p. 423 p. 429 p. 447 p. 455 p.467 p. 511