Che cosa cambia con Nietzsche? 9788855293747, 9788855293846

“Terremoto dell’epoca”, con l’appellativo di Gottfried Benn, o “dinamite”, come egli stesso si definiva, Friedrich Nietz

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Che cosa cambia con Nietzsche?
 9788855293747, 9788855293846

Table of contents :
Nota editoriale
Introduzione
Il geologo dei fatti morali
Quid est veritas? Statuto ambiguo di una nozione nel pensiero di Nietzsche
La “riflessione radicale” di Nietzsche sul linguaggio
Realtà, verità, finzione
Una potenza senza possibilità
Nietzsche un anti-classico?
Indice
Gulliver

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Alice Giordano a cura di

Che cosa cambia con Nietzsche?

G u l l i ve r

Collana diretta da Francesco Valagussa

Gulliver | 13

Maria Cristina Fornari, Carlo Gentili, Alice Giordano, Pietro Gori, Rocco Ronchi, Carlotta Santini

Che cosa cambia con Nietzsche? a cura di Alice Giordano

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 13 - aprile 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-374-7 ISBN – Ebook: 978-88-5529-384-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Séraphine Louis, L’arbre de Paradis, Ripolin sur toile, vers 1928-1930

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Nota editoriale

Il volume è il risultato di un ciclo di seminari, organizzato dal centro di ricerca Diaporein e tenutosi presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele nell’anno accademico 2021-2022. Si ringraziano pertanto tutti gli studenti, dottorandi, ricercatori e docenti che hanno contribuito alla discussione. *** Salvo diversa indicazione, si sono adoperate le edizioni critiche tedesca e italiana di Giorgio Colli e Mazzino Montinari: BVN = Epistolario di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguito da G. Campioni e F. Gerratana, Adelphi, Milano 1976 ss. KGB = Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguito da N. Miller e A. Pieper, de Gruyter, Berlin-New York 1975 ss. KGW = Kritische Gesamtausgabe Werke, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguita da V. Gerhard, N. Miller, W. Müller-Lauter e K. Pestalozzi, de Gruyter, Berlin-New York 1967 ss.

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KSA = Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, 15 voll., dtv-de Gruyter, MünchenBerlin-­New York 1999. OFN = Opere complete di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguite da M. Carpitella e G. Campioni, Adelphi, Milano 1964 ss. Per indicare le opere di Friedrich Nietzsche nelle note, si sono usate le abbreviazioni ormai tradizionali nell’ambito degli studi nietzscheani. La sigla dell’opera è seguita dal numero o dal titolo della sezione (se presente), dal numero dell’aforisma (es. MA, La vita religiosa, 111) e, dove si è ritenuto necessario, della pagina. Per quanto riguarda i frammenti postumi, alla sigla segue l’arco temporale che consente di individuare il volume corrispondente e il numero del frammento (es. NF 1882-1884 24[36]). Per le lettere, viene indicato il destinatario, la data, il volume, il numero di riferimento e la pagina (es. A Carl Fuchs, metà aprile 1886, BVN, vol. V, 688, p. 181). AC = L’anticristo. EH = Ecce homo. EkP = Enciclopedia della filologia classica. FW = La gaia scienza. GD = Il crepuscolo degli idoli. GM = Genealogia della morale. GT = La nascita della tragedia. HkP = Omero e la filologia classica. JGB = Al di là del bene e del male. M = Aurora.

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MA = Umano, troppo umano. NF = Frammenti postumi. VM = Opinioni e sentenze diverse. WL = Su verità e menzogna in senso extramorale. ZA = Così parlò Zarathustra.

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Introduzione

Una volta si prendeva la trasformazione [Veränderung], il can­ giamento [Wechsel], il divenire in generale come prova dell’apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a stabilire unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti nell’errore, necessitati all’errore.1

In questo passo del Crepuscolo degli idoli, celebre per la sua conclusione – «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica…»2 –, Nietzsche riformula il problema dell’“errore”, svincolando quest’ultimo dal divenire e dal cambiamento per ricondurlo, al contrario, al carattere monolitico e statico dell’essere. Obiettivo della citazione nietzscheana è mostrare come le strutture oggettivanti e fossilizzanti del linguaggio abbiano concesso il loro patrocinio agli errori dell’umanità; tuttavia, tenuto conto del significato teorico specifico del brano, è possibile prenderlo come spunto per introdurre il lavoro qui presentato, a partire dal titolo: Che cosa cambia con Nietzsche?. 1.  GD, La «ragione» nella filosofia, 5. 2.  Ibidem.

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Volutamente si è scelto di rimarcare, come filo conduttore tra i singoli saggi che compongono il testo, il tema del “cambiamento”. In antitesi a ogni tentativo di definire “che cosa ha veramente detto” un autore, ci si è voluti ispirare al «diverso modo»3 di guardare le cose che Nietzsche stesso aveva proposto: non una domanda sul ti estì, su quella substantia che la metafisica occidentale ha ostinatamente cercato ma che è «vuota finzione»4, bensì un’indagine sulla “trasformazione” e sul “cambiamento”. Parole chiave per comprendere Nietzsche su più livelli, a partire da quello strettamente speculativo sino a quello storico-ermeneutico: «terremoto dell’epoca»5, con l’appellativo di Gottfried Benn, o «dinamite»6, come egli stesso si definiva, Nietzsche è il filosofo che per eccellenza “cambia” il volto e le movenze della filosofia. Tale trasformazione avviene su molteplici fronti concettuali, e poiché sarebbe impossibile una trattazione esaustiva, ne sono stati selezionati alcuni tra i più rilevanti: ciascun capitolo di questo volume prende allora in considerazione che cosa cambia con Nietzsche rispetto a un tema specifico. La “morale”, come mostra Maria Cristina Fornari, presentando un Nietzsche geo­logo dei fatti morali, la cui origine non può sottrarsi all’indagine filosofica, scientifica e antropologica. La “verità”, nel testo di Carlo Gentili, che sulla scia della domanda rivolta da Pilato a Gesù, Quid est veritas?, tesse una trama che dallo scettico Pirrone passa attraverso Kant, per arrivare a Nietzsche. La “scienza”, nelle analisi di Pietro Gori, incentrate sull’originalità della teoria della conoscenza nietzscheana, che non deve 3.  Ibidem. 4.  GD, La «ragione» nella filosofia, 4. Qui Nietzsche cita con sommo rispetto, pur in parte criticandolo, Eraclito. 5.  G. Benn, Lo smalto sul nulla, tr. it. di G. Russo, a cura di L. Zagari, Adelphi, Milano 1992, p. 255. 6.  EH, Perché io sono un destino, 1.

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necessariamente condurre a esiti relativistici estremi – e che viene infatti ereditata da correnti epistemologiche contemporanee. Il “linguaggio”, nell’articolo di chi scrive, che offre una campionatura del modo in cui Nietzsche rivoluziona i rapporti tra le parole, la coscienza e il corpo, con una radicalità che influenzerà tutto il ’900. La “potenza”, nel ponte che Rocco Ronchi getta fino ai megarici e che attraversa un canone illustre, e tuttavia minoritario, per mostrare i punti di continuità e rottura con la Wille zur Macht. Infine, la “classicità”, nell’excursus di Carlotta Santini che ci riporta al primo Nietzsche, filologo, professore, educatore, per rivisitare i termini del celebre stravolgimento nietzscheano dell’antichità classica. Alice Giordano

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Il geologo dei fatti morali Maria Cristina Fornari

1. Un tono completamente cambiato Con Umano, troppo umano, pubblicato nel 1878 e dedicato alla memoria di Voltaire, Nietzsche segna, come è noto, una svolta nella propria filosofia, una vera e propria separazione da quanto lo aveva attratto fino a quel momento e che sentiva non appartenergli più. In particolare, si porta qui a compimento un processo di progressivo distacco dagli ideali romantico-­metafisici della giovinezza, oltre che dal disegno culturale wagneriano, che già aveva mostrato i suoi sentori negli appunti dell’epoca delle Considerazioni inattuali, ma solo in maniera privata e parziale. «Umano, troppo umano» è il monumento di una crisi. Dice di essere un libro per spiriti liberi: quasi ogni frase vi esprime una vittoria – con quel libro mi sono liberato da ciò che non apparteneva alla mia natura. L’idealismo non mi appartiene: il titolo dice «dove voi vedete cose ideali, io vedo – cose umane, ahi troppo umane!» […]. Il tono, il suono della voce sono completamente cambiati: si troverà il libro intelligente, fresco e, quand’è il caso, duro e beffardo.1 1.  EH, Umano, troppo umano. Con due continuazioni, 1.

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Se Nietzsche sceglie di accentuare l’elemento di novità rappresentato da Umano, troppo umano (del resto, gli amici lo avevano accolto con stupore e con preoccupazione, stante la lontananza, per contenuto e forma, dall’opera del 1872 che aveva consacrato il giovane Nietzsche quale megafono filosofico di Wagner), tuttavia, come detto, la svolta verso una filosofia storico-critica non era giunta all’improvviso. Accanto alla delusione umana e politica di fronte a un Wagner che aveva tradito gli ideali rivoluzionari della propria giovinezza e a una scepsi progressiva che, fin dai primi anni universitari, aveva eroso in Nietzsche ogni residuo di fede, prima rivelata e poi metafisica, dobbiamo porre nuove esigenze conoscitive che lo spingono in direzione, genericamente, della “scienza”. Si è molto parlato dell’influsso di Paul Rée, giovane prussiano che Nietzsche aveva conosciuto nel 1873 e con il quale aveva intensificato i rapporti a partire dal 1875: e forse non è un caso se le liste di prestito della biblioteca dell’Università di Basilea fotografano, proprio per il 1875, un Nietzsche che improvvisamente si interessa a testi appartenenti all’ambito storico-­scientifico, dalla chimica alla fisica, all’antropologia, all’etnografia. Nel primo, significativo viaggio di Nietzsche a Sorrento2, il cenacolo ideale che si era formato presso la villa dell’anziana ospite, la wagneriana Malwida von Meysenbug, si dilettava in passeggiate e letture comuni; discuteva di psicologia, di chimica, di etnografia, di diritto comparato; vagheggiava un “convento per spiriti liberi” nel quale maturare ideali e visioni del mondo più moderni e sostenibili delle costruzioni erette sulle nuvole della vetusta metafisica tedesca. Se gran parte di Umano, troppo umano nasce proprio in questa atmo2.  Nietzsche, Rée e il giovane Albert Brenner trascorsero a Sorrento circa sei mesi (da fine ottobre 1876 ai primi di maggio 1877). Si veda in proposito P. D’Iorio, Le voyage de Nietzsche à Sorrente. Genèse de la philosophie de l’esprit libre, CNRS Éditions, Paris 2012.

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sfera sorrentina, bisogna ricordare che, di contro, viene allo stesso modo completata quella che si può considerare la sua opera gemella, L’origine dei sentimenti morali di Paul Rée3: è da qui che dobbiamo cominciare, se vogliamo mettere a fuoco “ciò che cambia” nelle considerazioni di Nietzsche riguardo all’origine e alla natura della morale.

2. Ritorno al passato Se Nietzsche, dieci anni più tardi, si preoccuperà di segnare una distanza tra sé e l’amico, fortunosamente «irraggiato con l’aureola di gloria della storia universale»4 ma per nulla meritevole di una tale considerazione, in quanto cattivo storico e ingenuo moralista5, è ormai acclarato che Rée abbia giocato un forte ruolo di mediazione nell’adozione, da parte di Nietzsche, dei nuovi paradigmi scientifici e naturalistici. Giovane aperto, curioso, appassionato, formatosi a Lipsia e a Berlino, fiori all’occhiello delle scienze sperimentali (Rée partecipò senz’altro all’atmosfera del laboratorio che fu del grande fisiologo renano Johannes Müller, poi passato a Karl Reichert e a Emil Du Bois-Reymond, e che rappresentava una autentica centrale di energia intellettuale nell’Europa della metà del secolo), Rée aveva assunto, nella sua opera, il punto di vista evolutivo come imprescindibile. Fin dalla premessa, infatti, leggiamo: I fenomeni morali vengono spesso considerati come qualcosa che risiede oltre i sensi – come la voce di Dio, come dicono i

3.  P. Rée, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, Schmeitzner, Chemnitz 1877. 4.  EH, Umano, troppo umano. Con due continuazioni, 6. 5.  Si veda anche GM, Prefazione.

20 teologi. Lo stesso Kant […], nonostante tutto, ha visto nella coscienza morale qualcosa di trascendente, una rivelazione, per così dire, del mondo trascendente. A dire il vero, prima che apparisse la teoria dell’evoluzione, molti di questi fenomeni non potevano venir spiegati attraverso cause immanenti, e certo una spiegazione trascendente è sempre più soddisfacente – di nessuna spiegazione. Ma oggi, dopo che Lamarck e Darwin hanno scritto le loro opere, i fenomeni morali possono essere ricondotti alle loro cause naturali tanto quanto i fenomeni fisici: l’uomo morale non è più vicino al mondo intelligibile dell’uomo fisico.6

Quest’ultima asserzione, che colpisce tanto Nietzsche da riproporla in Umano, troppo umano, perfino in Ecce homo (in questo caso, tuttavia, attribuendola a se stesso)7, rappresenta una vera novità paradigmatica: l’uomo, considerato dal suo lato morale, non differisce affatto ontologicamente dall’uomo organico, fisico, naturale; il primo è espressione del secondo, e il compito del moralista diventa allora quello di comprendere come queste due dimensioni, in apparenza tanto distanti, possano trovare conciliazione nella nostra storia evolutiva8. Richiamarsi a Darwin per rischiarare il passato morale dell’uomo è operazione temeraria. Nonostante L’origine delle specie avesse conosciuto in Europa una traduzione e una diffusione quasi immediate9, la sua lettura in senso radicale, materialista e antireligioso lo rendeva inviso tanto al sapere accademico

6.  P. Rée, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, cit., pp. VII-VIII. 7. Cfr. MA 37; EH, Umano, troppo umano. Con due continuazioni, 6. 8.  «[…] le cattive, illogiche abitudini, che l’intelletto eredita fin dalla nascita, hanno aperto tutto quell’abisso tra cosa in sé e apparenza: questo abisso sussiste solo in quanto sussistono il nostro intelletto e i suoi errori» (NF 1876 23[125]). 9.  Cfr. A. Kelly, The Descent of Darwin. The Popularization of Darwinism in Germany, 1860-1914, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1981.

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che al senso comune. Lo stesso Rée dovette pagarne lo scotto, osteggiato dall’ambiente universitario che, a causa del suo libro «che si fonda sull’evoluzione darwiniana dell’uomo dalla scimmia»10, non lo accolse mai tra le sue fila, considerando le sue ipotesi poco meno che immorali. Per Nietzsche, invece, la sentenza di questo «ardito e freddo pensatore», che pone tra l’uomo morale e l’uomo fisico soltanto una distinzione di grado, è destinata a «recidere alla radice il bisogno metafisico degli uomini», temprata sotto i colpi di martello della ormai non più eludibile conoscenza storica11. La filosofia storica così intesa, dunque, «non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali»: sarà compito della fisiologia e della storia dell’evoluzione degli organismi spiegare lo iato tra la nostra immagine del mondo – frutto di errori sensibili e concettuali – e la concezione della sua presunta essenza razionale, mentre una «storia della genesi del pensiero» renderà vana ogni interpretazione metafisica12. Ciò che Nietzsche ritiene ormai prossimo a venire è un ribaltamento della gerarchia tra l’alto e il basso: «non appena la valutazione delle verità non appariscenti e lo spirito scientifico cominceranno a dominare», si affermerà finalmente una cultura delle “cose prossime” e l’abbandono degli errori letificanti e abbaglianti che hanno costituito, fin qui, ciò che tradizionalmente si è chiamata verità13. Anche per l’uomo morale, dunque, non esiste più una realtà extramondana o sovra-mondana nella quale collocarsi: l’unica sua appartenenza è all’ambito naturale, dove lo si può idealmente osservare alle prese con le proprie origini. 10.  Così Rée in una lettera a Overbeck del 10 febbraio 1877 (F. Nietzsche L. von Salomé - P. Rée, Triangolo di lettere, ed. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1999, p. 16). 11. Cfr. MA 37. 12. Cfr. MA 1, 10, 18. 13. Cfr. MA 3.

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Torniamo allora a Rée e al suo programma di indagine, che condivide con l’amato Helvétius14: Come il geologo prima cerca e descrive le diverse formazioni, e in seguito si interroga sulle cause attraverso le quali hanno avuto origine, allo stesso modo l’autore ha qui raccolto i fenomeni morali nell’esperienza e, nella misura in cui ne è stato capace, ha seguito la storia della loro genesi.15

Il riferimento al geologo non è casuale, se è vero che la geo­ logia, e ancor più la paleontologia stratigrafica, da qualche anno avevano reso familiare l’idea di uno sviluppo lineare e progressivo degli organismi, rintracciabile attraverso lo studio delle loro vestigia16. Il mondo del cosiddetto spirito non fa eccezione: sulla scorta del darwiniano Rée, Umano, troppo umano vede Nietzsche confrontarsi massivamente, per la prima volta, con l’idea che i fenomeni morali possano venire classificati e disposti in un ordine ininterrotto di evoluzione (sarà proprio questa ricostruzione lineare che Nietzsche sconfesserà, una volta che il suo metodo genealogico sarà giunto a piena maturazione)17. Per quanto riguarda i risultati dell’indagine, Nietzsche e Rée sembrano concordare qui su una genesi utilitaria del concetto di buono: buono è ciò che in origine si è dimostrato utile per il gruppo, per la tribù o per la specie. Lo attesta Darwin, 14.  «Sono risalito alle cause muovendo dai fatti. Ho creduto di dover trattare la morale come tutte le altre scienze, e costruire una morale come una fisica sperimentale» (C.-A. Helvétius, De l’esprit, Durand, Paris 1758, vol. I, Préface, pp. I-II). 15.  P. Rée, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, cit., Vorwort. 16.  Lo stesso Darwin, nella sua biografia, asseriva di esser certo di poter far luce sulla variazione degli animali e delle piante se solo avesse lavorato come aveva fatto Lyell nel campo della geologia, cioè raccogliendo tutti i fatti che vi avessero avuto relazione. 17. Cfr. GM, Prefazione.

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lo attestano gli antropologi, come John Lubbock e Edward Burnett Tylor – che Nietzsche conosce e frequenta18 –, che vedono un parallelismo tra le cosiddette “culture primitive” e il nostro stato originario: Lo studio delle razze umane in uno stadio di civiltà poco avanzato offre da molti punti di vista un grande interesse […]. Infatti la condizione sociale, i costumi e le abitudini dei popoli ancora selvaggi ricordano per molti aspetti, sebbene non assolutamente, quelli dei nostri avi in un’epoca molto lontana. Spiegano, nelle nostre società moderne, molti costumi che non hanno alcun rapporto col nostro stato sociale attuale; spiegano anche alcune idee che sono, per così dire, impresse nelle nostre menti come i fossili sono impressi nella roccia; e finalmente possiamo, grazie al paragone, sollevare in qualche modo un poco del fitto velo che separa il presente dall’avvenire.19

Ipotizzare le condizioni primitive, oppure osservare più da vicino gli odierni “selvaggi”, ci permette di decifrare ciò che oggi sarebbe altrimenti incomprensibile. Qualcosa che si afferma in un certo tempo sopravvive infatti in mutate circostanze successive e si può rintracciare nell’attualità: è ciò per il quale Tylor introduce il termine «sopravvivenza» («survival», citato da Nietzsche in lingua originale due volte e nella sua traduzione tedesca «Überbleibseln»20). La stessa religione cristiana è

18.  Nietzsche aveva consultato la traduzione tedesca di Primitive Culture (1871) di E.B. Tylor (Die Anfänge der Cultur, C.F. Winter’sche Verlagshandlung, Leipzig 1873) presso la biblioteca dell’Università di Basilea nel giugno 1875. La traduzione tedesca di The Origin of Civilization and the Primitive Condition of Man (1870) di J. Lubbock (Die Entstehung der Civilisation und der Urzustand des Menschengeschlechtes, Costenoble, Jena 1875) si trova invece tutt’ora conservata nella sua biblioteca personale. 19.  J. Lubbock, Die Entstehung der Civilisation, cit., Einleitung, p. 1 (corsivo mio). 20. Rispettivamente, NF 1877 24[2] e MA 64; NF 1875-1876 5[164], JGB 52.

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un’antichità emergente da epoche remotissime, epoche di fede in fenomeni magici, sacrifici di sangue, terrore superstizioso di tribunali demoniaci, sconforto di sé, meditazioni estatiche, allucinazioni, e così via, come attestano diversi luoghi di Umano, troppo umano21. Del resto, come scrive Nietzsche in un appunto del periodo, oggi non basta più l’introspezione morale per imparare a conoscere i complicati motivi delle azioni: sono necessarie anche la storia e la conoscenza delle popolazioni arretrate (zurückgebliebenen Völkerschaften), nelle quali si rispecchia tutta quanta la storia dell’umanità e si trovano intrecciati tutti i nostri grandi errori e le nostre errate rappresentazioni22. La storia primitiva testimonia spesso, tuttavia, di atti gratuiti, che non trovano alcuna ragione nell’utilità, così come accade per i cerimoniali o per i comportamenti superstiziosi: un osservatorio privilegiato per indagare l’origine e la storia dei nostri sentimenti morali sembra allora il rapporto col costume (Sitte), ovvero «il modo tradizionale di agire e di valutare». Confortato anche in questo caso da diverse letture etnografiche e constatato il peso, nella nostra storia, di un’«autorità superiore alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce lo comanda»23, la cui esistenza serve a fidelizzarci in qualche modo con la legge, civile e morale, Nietzsche conclude che la morale della pietas debba essere molto più antica di quella che esige azioni altruistiche24:

21.  «L’idea di un Dio inquieta e avvilisce finché la si crede, ma come essa sia nata, su ciò nell’attuale stato dell’etnologia comparata non può più sussistere alcun dubbio; e quando ci si rende conto di questo nascere, quella fede svanisce» (MA 133; corsivo mio). Si vedano anche MA 5, 12 e 13. 22. Cfr. NF 1876-1877 23[48]. 23.  M 9. Cfr. anche M 19. 24.  «“Egoistico” e “altruistico” non sono la principale coppia di contrari che ha portato gli uomini alla distinzione di morale e immorale, bene e male, bensì: l’esser legati a una tradizione, a una legge, e il separarsi da essa. Come

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alla base di questa subordinazione, un’emozione violenta alla quale l’uomo dei primordi è sottoposto, la paura, che viene indicata significativamente da Nietzsche come la base naturale della morale primitiva. L’inedita lettura storico-antropologica nietzscheana riporta dunque all’animalità la nostra sfera morale25. Non nel senso di una comunità simpatetica, spinta alla moralità da un naturale istinto sociale (era questa l’ipotesi di Darwin ne L’origine dell’uomo)26, ma di un animale-uomo tenuto a bada dal timore superstizioso affinché la sua singolarità eccentrica non rappresenti un danno per se stesso e per il gruppo sociale. «Un costume qualsiasi è meglio dell’assenza di costumi»27, giudica lapidariamente Nietzsche: essere costumato significa infatti essere accessibile in alto grado alla paura, dalla forza coesiva della quale ogni comunità è tenuta in vita.

3. La morale al servizio degli impulsi Questo insistere sulle disposizioni all’obbedienza e soprattutto sul timore superstizioso di un’autorità superiore viene in gran parte da Herbert Spencer: molti aforismi di Aurora sono stati ispirati da un dialogo ideale che Nietzsche ha tenuto con The la tradizione sia sorta qui non interessa; in ogni caso, essa non è nata avendo riguardo al bene e al male, o a qualche imperativo categorico immanente…» (MA 96). 25.  Cfr. ad es. M 23, 24, 26. 26.  «Il sentimento del piacere derivante dalla società è probabilmente una estensione dell’affetto parentale e filiale; e questa estensione può venire attribuita in parte all’abitudine, ma in gran parte alla selezione naturale» (Ch. Darwin, L’origine dell’uomo [1871], tr. it. di M. Lessona, a cura di B. Chiarelli, Rizzoli, Milano 1982, p. 104). 27.  M 16.

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Date of Ethics (1879), un testo che ancora oggi si conserva nella sua biblioteca con numerose tracce di lettura28. Nietzsche ne ricava molti spunti interessanti, primo fra tutti l’idea che la morale abbia la sua origine nel mondo degli impulsi (Triebe), che non hanno una finalità precostituita se non il “desiderio” di essere appagati29. Pur non concordando con Spencer, e in generale con l’evoluzionismo di marca spenceriana, sul fatto che si possa individuare un “fine buono” come quello che l’inglese vede nella promozione della vita mediante un sempre maggior adattamento di organi e funzioni all’ambiente esterno30, è evidente che l’insistenza sui Triebe proposta dal naturalismo morale (sebbene enfatizzando erroneamente il primato dell’istin­to altruista) apre a Nietzsche un nuovo campo di indagine. Ecco che, allora, il filosofo è disposto a correggere la sua stessa ipotesi, avanzata nel libro per spiriti liberi: L’essenziale non sono i motivi dimenticati e l’abitudine a movimenti determinati, come in passato [früher] supponevo. Bensì gli istinti, che non hanno uno scopo [die zwecklosen Triebe] di piacere e dispiacere.31 Io vi propongo un modello: se vi affascina, dovrete imitarlo. Non i fini, bensì l’appagamento di un istinto [Trieb] già esi28.  H. Spencer, Die Thatsachen der Ethik, E. Schweizerbart’sche Verlagshandlung (E. Koch), Stuttgart 1879. 29.  Mi permetto su questo di rimandare al mio La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, ETS, Pisa 2006, ma anche a G. Moore, Nietzsche, Spencer, and the Ethics of Evolution, in «The Journal of Nietzsche Studies», n. 23, 2002, pp. 1-20. 30.  «Tutti i moralisti hanno valutazioni in comune a proposito del bene e del male, perché seguono istinti di simpatia ed egoismo. Io trovo buono ciò che serve a un fine, ma il “fine buono” è un’assurdità. Infatti si dice dovunque “buono a che cosa?”. Buono è sempre nient’altro che un’espressione per un mezzo. Lo “scopo buono” è un mezzo buono per uno scopo» (NF 18791881 6[75]). 31.  NF 1879-1881 6[366].

27 stente ci costringe a questa o quella morale. Non la ragione! se non al servizio di un istinto.32

Nietzsche non abbandonerà più questo aggancio del mondo morale allo stato fisiologico: “buono” e “giusto” diventeranno ciò che è stato dettato dall’impulso più forte e a cui l’intelletto è stato sedotto; ogni grande filosofia non sarà altro che «una specie di non volute e inavvertite mémoires del suo autore»33; ogni produzione – filosofica, artistica, morale – dovrà essere letta come il segno (Zeichen) o il sintomo (Symptom) della forma di vita che la propone. La dottrina della volontà di potenza si inserirà coerentemente in questa prospettiva. Ancora nel 1884, Nietzsche scriverà: Tutte le valutazioni sono risultati di determinate quantità di energia e del grado di consapevolezza di ciò: sono le leggi prospettivistiche corrispondenti di volta in volta all’essenza di un uomo o di un popolo – ciò che è vicino, importante, necessario e così via. Tutti gli istinti umani, come tutti quelli animali, sono stati elaborati in certe circostanze e messi in primo piano come condizioni di esistenza. Gli istinti [Triebe] sono gli effetti postumi di valutazioni da lungo tempo nutrite, che adesso agiscono in modo istintivo come un sistema di giudizi di piacere e sofferenza. Dapprima costri-

32.  NF 1879-1881 6[108]. 33.  «[…] io non credo che un “istinto di conoscenza” [Trieb zur Erkenntnis] sia il padre della filosofia, ma che piuttosto un altro istinto [ein andrer Trieb], in questo come in altri casi, si sia servito della conoscenza (e della errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento. Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni ispiratori (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che certamente una volta essi hanno tutti praticato la filosofia – e che ognuno di questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo volentieri a presentare precisamente se stesso come l’ultimo fine dell’esistenza e come il più legittimo signore di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come tale cerca di filosofare» (JGB 6).

28 zione, poi abitudine, poi bisogno, poi inclinazione naturale (istinto).34

La prospettiva di Rée, Spencer e affini, dalla quale risulta una valutazione unilaterale di determinati affetti35, denuncia allora una particolare conformazione pulsionale: quella “gregaria”, nella quale a dominare è ancora una volta la paura, cattiva consigliera delle loro scelte assiologiche. Ma questo significa la fine di ogni credibilità di questo genere di moralisti, che pongono come risultato della loro indagine ciò che il loro istinto, svilito e decadente, desidera trovare36. Questa operazione è viziata e manca di storicità: difetto che Nietzsche imputerà sempre a quel tipo di dotti, incapaci di percorrere la complessa e vasta regione che si chiama morale; e se costoro – come aveva dichiarato Rée di se stesso – sono geologi delle conformazioni attuali, Nietzsche avverte che il passato morale dell’uomo è piuttosto una pergamena, raschiata e più volte riscritta (per riprendere una nota immagine di Michel Foucault)37, che non si accontenta della descrizione, ma vuol essere finemente interpretata. 34.  NF 1884 25[460]. 35.  «Esiste oggi una dottrina morale, fondamentalmente errata, che è molto celebrata, segnatamente in Inghilterra: stando ad essa i giudizi “buono” e “cattivo” sono la collezione delle esperienze su ciò che è “adeguato al fine” e “inadeguato al fine”; stando ad essa ciò che chiamiamo buono è ciò che conserva la specie, cattivo ciò che la danneggia. Ma in verità i cattivi istinti sono adeguati al fine, utili alla conservazione della specie e indispensabili allo stesso grado in cui lo sono i buoni: soltanto la loro funzione è diversa» (FW 4). 36.  «Il valore dell’altruismo non è il risultato della scienza; ma, dall’istinto oggi predominante [jetzt vorherrschenden Trieb], gli uomini di scienza si lasciano indurre a credere che la scienza confermi il desiderio del loro istinto (cfr. Spencer)» (NF 1879-1881 8[35]). Cfr. anche NF 1881 11[98]; GD, Scorribande di un inattuale, 37. 37.  Celeberrimo, su questa distinzione metodologica, lo scritto di M. Foucault, Nietzsche, La généalogie, l’histoire, in S. Bachelard et al., Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971, pp. 145-172; tr. it. di G. Procacci e P. Pa-

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Se volessimo rintracciare un ulteriore elemento di cambiamento sopravvenuto con l’indagine nietzscheana, segnalerei dunque questo atteggiamento prudenziale: nessuna morale può sottrarsi all’indagine circa la propria provenienza (Herkunft) e, una volta ben esercitata l’osservazione psicologica38, troveremo che a parlare dietro ogni assetto valoriale sono davvero le leggi prospettiche di un uomo o di un’intera epoca.

4. Un’occhiata all’oggi Mi permetto di concludere con un brevissimo rimando alle teo­rie contemporanee, nelle quali si indicano – ancora una volta – come “naturali” atteggiamenti di altruismo, di spontanea cooperazione e di socialità39. Certamente, molto è cambiato con l’aiuto della tecnologia, in particolare con le tecniche di brain imaging: non possiamo negare che determinate aree cerebrali si attivino in presenza dei conspecifici (basti pensare alla nota teoria dei mirror-neurons) o che certi dilemmi morali vengano risolti prediligendo statisticamente un esito piuttosto che il suo opposto. Ma dire, con ciò, che siamo buoni “per natura” – come sembra suggerire numerosa letteratura sul tema – significa, in termini nietzscheani, passare dalla ricerca delle condizioni biologiche e fisiologiche di una capacità morale umana (affascinante oggetto di indagine della neurosquino, Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54. 38. Cfr. MA 35. 39.  Cfr. ad es. il testo molto conosciuto di M.D. Hauser, Moral Minds. How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Ecco Press, New York 2006; tr. it. di A. Pedeferri, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, il Saggiatore, Milano 2007.

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biologia del comportamento morale) al tentativo di ratifica di un determinato sistema morale40. La petizione di principio non sfugge a Paul Ricoeur, il quale, in dialogo con Pierre Changeux su questi temi, si chiede se, oggi, «è ancora una volta sotto l’egi­ da di uno sguardo retrospettivo il quale parte dalla moralità che supponiamo costituita, che mettiamo in evidenza i tratti di comportamento che anticipano la moralità»41. Non troppo distante da ciò che Nietzsche rimproverava ai suoi contemporanei: segno di quanto, del disincantato sguardo nietzscheano, o quantomeno del suo invito alla prudenza, ci sia ancora bisogno.

40.  Si passa, cioè, dal fatto che la capacità morale è un risultato dell’evoluzione, ed è biologicamente vincolata, alla tesi che allora la morale, intesa quale sistema di determinati valori e giudizi, sia biologicamente fondata o fondabile. 41.  J.-P. Changeux - P. Ricoeur, La nature et le règle (1998); tr. it. di M. Basile, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Cortina, Milano 1999, p. 190. O ancora: «Tutti i problemi relativi alla disposizione naturale alla moralità sono problemi retrospettivi, in cui il dato normativo cerca anticipazione del suo passato» (ivi, p. 182).

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Quid est veritas? Statuto ambiguo di una nozione nel pensiero di Nietzsche Carlo Gentili

Il tema della verità è certamente uno dei più vasti tra quelli trattati da Nietzsche. Si può dire che l’intero suo pensiero potrebbe essere raccolto sotto questo titolo1. Per poter esaminare questo argomento entro limiti ragionevoli, si è assunta come guida la domanda che affiora come un torrente carsico nei suoi scritti – Quid est veritas? –, di cui si cercherà di mettere in evidenza il significato che, a seconda del contesto, essa vi assume.

1. La domanda di Pilato Il luogo originario in cui la domanda è posta è, com’è noto, il Vangelo di Giovanni: «Gli disse allora Pilato: “Dunque, sei tu re?”. Rispose Gesù: “Tu dici bene che sono re. Io per que-

1.  Una delle trattazioni più complete sull’argomento è il libro di J. Granier, Le problème de la vérité dans la philosophie de Nietzsche, Seuil, Paris 1966, in cui la questione è esaminata sullo sfondo di tutta la tradizione metafisica occidentale, del razionalismo scientifico, dell’idealismo tedesco, ecc.; un libro che è anche all’origine di molte delle immediatamente successive interpretazioni della filosofia di Nietzsche in ambito francese.

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sto sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”. Gli dice Pilato: “Che cosa è la verità?”» (Gv 18,3738) – Quid est veritas?, secondo la traduzione latina della Vulgata. Occorre soffermarsi, in primo luogo, sulla traduzione italiana della domanda. Se si chiede, infatti, “che cosa è la verità?”, si chiede – o, per lo meno, si dà l’impressione di chiedere – una definizione dell’essenza della verità. Se si chiede, invece, “che cosa è verità?” (senza far precedere il sostantivo dall’articolo determinativo), la domanda assume un senso lievemente diverso; quasi Pilato chiedesse a Gesù di cosa sia possibile predicare la verità: “che cosa possiamo definire come vero?”. In questo secondo caso, la domanda assume manifestamente una tonalità scettica. Ciò detto, va sottolineato che la traduzione latina non poteva essere ovviamente diversa da Quid est veritas?, dal momento che la lingua latina non contempla l’uso dell’articolo determinativo. Nell’originale greco la domanda suona: Τί ἐστιν ἀλήϑεια. Pur se la lingua greca prevede l’uso dell’articolo, in questo caso esso è assente. È ben vero che l’aggiunta dell’articolo determinerebbe un senso lievemente diverso della domanda2. In ogni caso, nella sua traduzione, Lutero, rende la frase con: Was ist Wahrheit?; priva, dunque, dell’articolo. Il contesto nel quale la domanda è collocata è l’interrogatorio di Gesù di fronte a Ponzio Pilato, il prefetto romano della Giudea, dopo il quale Gesù viene avviato alla crocifissione. Si è

2.  Chiedere in greco Τί ἐστιν ἥ ἀλήϑεια, oppure, in tedesco, Was ist die Wahrheit?, oppure ancora, in inglese, What is the truth? significherebbe chiedere “qual è la verità?”; ossia ciò che si risponde quando si viene posti di fronte a un’alternativa tra due verità possibili. Cfr. in proposito A. White, Truth, Macmillan, London-Basingstoke 1970, p. IX: «“What is truth?” and “What is the truth?” are quite different questions. The second asks what things are true; the first asks what it means to say that these are true».

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sempre notato non solo che Gesù non risponde alla domanda, ma che nemmeno Pilato si aspetta che risponda. Anzi, egli torna subito davanti al popolo dei Giudei e dice loro: «“Io non trovo in lui alcuna colpa”» (Gv 18,38). Questa dichiarazione è la premessa di ciò che Pilato dirà poco dopo quando, tornando davanti alla folla dopo la flagellazione di Gesù, dice di nuovo: «“Ecco, ve lo conduco fuori affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa”». A questo punto Gesù esce fuori, «portando la corona di spine e il pallio di porpora», e Pilato dice alla folla: «“Ecco l’uomo!” [Ecce homo]» (Gv 19,4-5). Pilato si avvale dunque del silenzio di Gesù interpretandolo come l’incapacità di rispondere alla domanda “che cosa è verità?”; incapacità con la quale Gesù dimostrerebbe di essere di natura umana e non divina e con ciò, agli occhi di un romano, del tutto innocente. Pilato risolve la questione sul piano politico, rimandando l’eventuale disputa religiosa o teologica agli ebrei. È a questo punto che si colloca il celebre episodio che, però, soltanto Matteo riporta: Pilato «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti al popolo dicendo: “Io sono innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi”» (Mt 27,24). I filosofi si sono molto dati da fare per comprendere il senso della mancata risposta di Gesù. Secondo Kierkegaard, per esempio, il silenzio di Gesù sta a significare che egli stesso è la verità, per cui è del tutto superfluo che egli risponda alla domanda di Pilato3. Ma, prima di Kierkegaard, già Francis Ba-

3.  Cfr. S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Id., Opere, tr. it., a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 792: «“Cos’è la verità?” domanda Pilato a Cristo […] e, poiché Cristo era la verità, la domanda era molto a proposito […]. Ma dove sta la confusione fondamentale della domanda di Pilato? Essa sta nel pensare di dover fare a Cristo quella domanda e infatti, così facendo, egli denuncia se stesso mostrando che la vita di Cristo non l’ha illuminato su ciò ch’è la verità. Come potrebbe infatti Cristo istruir­lo a parole se la sua vita, ch’è la verità, non è bastata ad aprirgli gli occhi su ciò ch’è la verità?».

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con aveva dato un’interpretazione che ci avvicina, in qualche modo, alla lettura che ne darà Nietzsche. Ad apertura del primo dei suoi Essays, che porta il titolo Of Truth, egli afferma: «“Cos’è la verità?” [What is truth?] disse scherzando [jesting] Pilato; e non s’aspettava una risposta»4. Chiedersi “che cos’è verità?” non può essere, dunque, che uno “scherzo” (jest); una domanda che non dev’essere presa sul serio, al punto che non c’è neppure da aspettarsi che qualcuno davvero risponda.

2. L’interpretazione di Nietzsche Se, come abbiamo detto, la domanda affiora ripetutamente nei testi di Nietzsche, ne seguiamo ora il percorso a partire dall’ultimo testo in cui essa compare, L’anticristo, in cui Nietzsche scrive: Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano […]. Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola «verità», ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore – la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: «che cos’è verità?».5

Come si vede, Ferruccio Masini, che traduce l’Anticristo per l’edizione Colli-Montinari, rende alla lettera, senza l’articolo, il Was ist Wahrheit? di Nietzsche, che è anche quello di Lutero. Nietzsche attribuisce dunque alle parole di Pilato, senza mezzi termini, un’intenzione scettica. La domanda, posta in questo modo, distrugge alla radice la pretesa di verità dell’intero 4.  F. Bacone, Saggi (1625), tr. it., a cura di C. Guzzo, UTET, Torino 1961, p. 67. 5.  AC 46, KSA 6, 225; OFN, VI/III, 229.

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Nuovo Testamento. In quello che egli definisce «il nobile sarcasmo di un romano» si riassume, ai suoi occhi, il senso dell’intero scetticismo antico. Pilato viene in questo modo elevato alla dignità di un filosofo, cosa che la figura storica del prefetto romano certamente non meritava6. Se ora facciamo un passo indietro, restando pur sempre nel testo dell’Anticristo, vediamo che la domanda assume un senso non poco diverso, che introduce all’ambiguità del concetto di verità nel pensiero di Nietzsche. Qui, infatti, egli se la prende con i teologi – cosa ricorrente nell’Anticristo –, affermando che la propria «antitesi» è rappresentata da «tutti coloro che hanno nelle vene sangue teologico», ossia «l’intera nostra filosofia»7. Dopodiché dichiara: «Il puro spirito è la pura menzogna . . . Fintantoché il prete sarà ancora ritenuto una specie superiore di uomo, questo negatore, calunniatore, avvelenatore per professione della vita, non ci sarà risposta alla domanda: che cos’è verità?»8. Sembra quasi potersi dedurre che, ove

6.  Pilato fu tutt’altro che un uomo colto; veniva dalla carriera militare e il suo stesso incarico di prefetto della Giudea ebbe una fine ingloriosa. Fu infatti destituito, nel 36 o 37, dal governatore della Siria, Lucio Vitellio, per la durezza con la quale aveva represso la rivolta dei Samaritani. Richiamato a Roma da Tiberio per rispondere del suo operato, vi giunse subito dopo la morte dell’Imperatore e, da allora, le notizie sulla sua vita si perdono. La figura di un Pilato mite, che si sarebbe adoperato in ogni modo per salvare la vita di Gesù – al punto che la Chiesa copta lo onora come un martire e quella etiope addirittura come un santo –, è frutto di una mera mitizzazione. 7.  AC 8, KSA 6, 174; OFN, VI/III, 173 s. Per «nostra» Nietzsche intende palesemente la filosofia tedesca; cfr. AC 10, KSA 6, 176; OFN, VI/III, 175 s.: «Tra i Tedeschi mi si comprende subito quando dico che la filosofia è corrotta dal sangue dei teologi. Il pastore protestante è nonno della filosofia tedesca, lo stesso protestantesimo e il suo peccatum originale […]. Basta pronunziare la parola “seminario di Tübingen”, per capire che cos’è, in fondo, la filosofia tedesca – una scaltrita teologia». Com’è noto, presso lo Stift di Tübingen avevano studiato Schelling, Hegel e Hölderlin. 8.  AC 8, KSA 6, 175; OFN, VI/III, 174.

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noi non tenessimo in alcun conto la parola dei teologi, sarebbe ancora possibile rispondere alla domanda sulla verità; vale a dire, sarebbe possibile decidere che cos’è verità. Siamo dunque posti di fronte a un’oscillazione che deriva dalla domanda e, con ciò, a una fondamentale ambiguità della verità stessa. Proseguendo nel nostro percorso a ritroso leggiamo, da Opinioni e sentenze diverse (1878), l’aforisma Scetticismo di cristiani: Pilato, con la sua domanda “che cos’è la verità?” [Was ist Wahrheit?] viene ora volentieri presentato come avvocato di Cristo, per tacciare di parvenza tutto il conosciuto e il conoscibile e per innalzare la croce sul raccapricciante sfondo del non-poter-sapere.9

Nietzsche sembra assumere qui una posizione addirittura anti­ scettica10. Non se la prende tanto con Pilato, quanto con l’interpretazione interessata che il cristianesimo dà della sua domanda: visto che, scetticamente, non possiamo conoscere nulla, dal momento che non ci vengono restituite che parvenze, allora è necessario credere. Nietzsche sembra dunque voler mettere in guardia dallo scetticismo come possibile presupposto della fede. Questa conclusione non è che un modo diverso in cui si presenta il cosiddetto “paradosso dello scettico”: poiché occorre dubitare di tutto, si finisce con l’accettare come vero quel che la realtà ci presenta per tale. Un paradosso del gene9.  VM 8, KSA 2, 383 s.; OFN, IV/III, 15. 10.  Non mancano, nell’opera di Nietzsche, prese di posizione negative nei confronti della scepsi. Valga, per tutte, quanto egli scrive nell’aforisma della Gaia scienza intitolato Provenienza del logico: «In sé e per sé ogni alto grado di cautela nel trarre conclusioni, ogni inclinazione scettica rappresenta un grave pericolo per la vita»; perché ogni essere vivente si conservi occorre piuttosto «l’inclinazione opposta: affermare piuttosto che sospendere il giudizio, errare e inventare piuttosto che attendere, assentire piuttosto che negare» (FW 111, KSA 3, 472; si cita dall’edizione italiana a cura di C. Gentili: F. Nietzsche, La gaia scienza, Einaudi, Torino 2015, p. 129, d’ora in avanti indicata con la sigla GS seguita dal numero di pagina).

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re è quello denunciato da Hegel, il quale definisce la «coscienza scettica» quell’«inconsapevole vaneggiamento che consiste nell’oscillare da un estremo all’altro: dall’autocoscienza uguale a se stessa alla coscienza accidentale». In questa oscillazione, essa passa dal dubitare delle apparenze – attraverso le quali soltanto, però, la realtà può darsi a noi – all’accogliere, paradossalmente, quelle stesse apparenze come realtà ultima: la coscienza scettica «va enunciando la nullità del vedere, dell’udi­ re, e via di seguito, eppure essa stessa vede, ode eccetera»11. Tenendo presente questa insidia anche da Nietzsche avvertita nella scepsi, possiamo avvicinarci alla genuina interpretazione che egli dà della questione della verità; vale a dire, l’enunciazione di una verità dev’essere posta in relazione al contesto nel quale essa è utilizzata. Non esiste una verità generale, tanto meno esiste una verità assoluta, ma possono tuttavia esistere delle verità, il cui contenuto è pertanto di natura pragmatica e si misura con le esigenze che il contesto presenta. Nietzsche illustra questo concetto in maniera curiosa, costruendo un dialogo tra Schwarzert (Melantone) e Lutero in un aforisma del Viandante e la sua ombra (1879/1880) che reca nuovamente, come titolo, il nostro Was ist Wahrheit?: Schwarzert (Melantone): «Spesso si predica la propria fede proprio quando la si è perduta e la si cerca per tutte le strade, – e non la si predica allora nel modo più cattivo!». – Lutero: «Tu dici oggi il vero come un angelo, fratello!». – Schwarzert: «Ma è il pensiero dei tuoi nemici, ed essi lo applicano a te». – Lutero: «Allora era una menzogna uscita dal sedere del diavolo».12

11.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, a cura di H.-F. Wessels e H. Clairmont, con una intr. di W. Bonsiepen, Meiner, Hamburg 2011, p. 143; tr. it. di G. Garelli, Fenomenologia dello spirito, Einaudi, Torino 2008, p. 143. 12.  WS 66, KSA 2, 581 s.; OFN, IV/III, 169.

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Al di là dell’abituale invettiva contro Lutero, ricorrente in Nietzsche, vediamo qui comparire l’alternativa alla verità: la menzogna. Verità e menzogna, tuttavia, si scambiano di ruolo a seconda del contesto. Quel che Lutero, nella prima risposta a Melantone, aveva giudicato una verità – detta addirittura da un angelo – diventa ora menzogna in quanto attribuita ai nemici di Lutero stesso. Verità e menzogna sono, dunque, concetti relativi. In questo relativismo può annidarsi, secondo i critici dello scetticismo, l’ulteriore rischio di ogni posizione scettica; quello, cioè, di far scadere la dialettica filosofica a mera chiacchiera. È Hegel, ancora una volta, a denunciare il fatto che la «chiacchiera» (Gerede) della coscienza scettica è «un litigio fra ragazzi ostinati, l’uno dei quali dice A quando l’altro dice B, per poi dire B quando l’altro dice A; ciascuno di loro – a prezzo della contraddizione con se stesso – si guadagna la soddisfazione di rimanere in contraddizione con l’altro»13.

3. Nietzsche e la scepsi antica Se vogliamo parlare a ragion veduta di una componente scettica del pensiero di Nietzsche, dobbiamo quindi pensare che egli porti la scepsi a un livello talmente radicale da superare il vacuo palleggiamento di opinioni e contro-opinioni, enunciazioni e contro-enunciazioni, denunciato da Hegel. Per arrivare a tanto, tuttavia, dobbiamo prendere atto che lo scetticismo, fin dal modo in cui l’aveva concepito l’antichità, si prendeva del tutto consapevolmente un tale rischio; e che la via per esorcizzarlo era di natura essenzialmente pragmatica. Se ci riferiamo a un autore che Nietzsche conosceva molto bene fin dagli anni della sua formazione di filologo, Diogene Laer13.  Ibidem.

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zio14, leggiamo che questi pone in generale gli scettici sotto una premessa che ci è utile anche per chiarire il senso dello scetticismo nietzscheano in ordine, precisamente, al senso della verità: essi «sono detti Zetetici o ricercatori perché ricercano sempre e soprattutto la verità, sono detti Scettici o indagatori perché indagano e non trovano mai» (IX, 70). Lo scettico cerca dunque la verità nella consapevolezza di non trovarla mai; e, semmai trovasse qualcosa che appare come verità, non sarà tuttavia, perciò stesso, la verità. Poche pagine avanti Diogene si era soffermato sulla figura principale dello scetticismo antico: quel Pirrone di Elide dal cui nome deriva il termine pirronismo, col quale si suole indicare una forma di scepsi particolarmente radicale. Pirrone infatti, riferisce Diogene (IX, 61), «applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello». Tutto è quindi uguale nella misura in cui nulla è. Diogene riporta tuttavia, subito dopo, le parole di Enesidemo, altro filosofo scettico, il quale riferiva che, «nella filosofia», Pirrone «applicava il principio della sospensione del giudizio, ma che nella vita quotidiana si comportava con cautela e preveggenza» (IX, 62). Pur attenendosi quindi, nella teoresi, all’impossibilità di prendere una qualunque decisione, nella vita ordinaria Pirrone non poteva prescindere dal seguire un qualche criterio pragmatico. Le parole riferite da Diogene sono probabilmente alla base dell’osservazione che si legge nel libro di Victor Brochard, Les sceptiques grecs, pubblicato nel 1887: «Pyrrhon n’attend rien,

14.  Ancor prima di laurearsi Nietzsche aveva pubblicato su due numeri della rivista «Rheinisches Museum», rispettivamente nel 1868 e nel 1869, un importante studio sull’autore della tarda grecità; cfr. F. Nietzsche, De Laertii Diogenis fontibus, ora in KGW II/1, 77-167.

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n’espère rien, ne croit à rien: pourtant il vit comme ceux qui croient et espèrent. Il n’est soutenu par rient et il se tient debout»15. Nietzsche legge questo libro nel 188816. È dopo questa data, infatti, che il nome di Pirrone ricorre con particolare insistenza nei suoi scritti e nelle sue annotazioni, nelle quali appare prevalentemente come un “nichilista” dell’antichità. Prima del 1888, se si esclude qualche fugace riferimento nei lavori filologici, il nome di Pirrone compare una sola volta negli scritti di Nietzsche. È quindi inevitabile dedurne che la sua fonte non possa essere, in questo caso, che Diogene Laerzio17. Si tratta dell’aforisma del Viandante e la sua ombra intitolato Il fanatico della diffidenza e la sua garanzia. Benché non ci si trovi, qui, di fronte a un riferimento rigoroso dal punto di vista filologico18, il contenuto di pensiero dell’aforisma è di assoluto rilievo e originalità19.

15.  V. Brochard, Les sceptiques grecs, Imprimerie Nationale, Paris 1887, p. 73. 16.  Il libro di Brochard è tuttora conservato nella biblioteca di Nietzsche a Weimar; cfr. G. Campioni - P. D’Iorio - M.C. Fornari - F. Fronterotta A. Orsucci (a cura di), Nietzsches persönliche Bibliothek, de Gruyter, Berlin-­ New York 2003, p. 154. 17.  Jessica Berry documenta come, già dal 1872, Nietzsche avesse lavorato con particolare intensità sul libro IX delle Vite, in cui Diogene si sofferma su Pirrone di Elide e sul suo immediato seguace Timone di Fliunte; cfr. J.N. Berry, Nietzsche and the Ancient Skeptical Tradition, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 26. 18.  Secondo A.U. Sommer, Nihilism and Skepticism in Nietzsche, in K. Ansell Pearson (a cura di), A Companion to Nietzsche, Wiley-Blackwell, Chiches­ ter 2009, pp. 250-269: p. 260, il personaggio di Pirrone qui tratteggiato «has nothing in common with the historic figure of Pyrrho of Elis». Della stessa opinione è C. Zittel, Der Dialog als philosophische Form bei Nietzsche, in «Nietzsche-Studien», vol. 45, n. 1, 2016, pp. 81-112: p. 102. 19.  Cfr. E. Müller, Die Griechen im Denken Nietzsches, de Gruyter, Berlin-­ New York 2005, p. 180, nota 433, per il quale l’aforisma rappresenta «una summa della prima concezione nietzscheana della scepsi».

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Nietzsche immagina un dialogo – costruito sul modello dei Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata e dei Dialogues des morts di Bernard de Fontenelle20 – tra un vecchio e Pirrone: «Rizzatevi contro la verità – dichiara Pirrone – per nausea di colui che ne è il propugnatore»; ossia di lui stesso: tanto più gli uomini «diffideranno della verità, se essa passa per la mia bocca». A questo punto chiede il vecchio: «Vuoi dunque insegnare la diffidenza verso la verità?»; e Pirrone: «La diffidenza verso tutto e tutti. È la sola via che porta alla verità». «Per decine d’anni – prosegue – dovrete inghiottire le menzogne a manciate per non morir di fame, nonostante sappiate che sono menzogne»; verrà, però, il «giorno del raccolto», dopo che «quei grani verranno seminati»21; questo, tuttavia, nessuno può prometterlo, «a meno che non sia un fanatico»; ma le tue parole, obietta il vecchio, sono proprio «quelle di un fanatico!»; hai ragione, conclude Pirrone: occorre essere diffidenti anche verso le parole; e allora, commenta il vecchio, «dovrai tacere»; non solo, replica Pirrone, ma dirò agli uomini «che essi devono diffidare del mio silenzio». «Ti ritiri dunque dalla tua impresa?», chiede il vecchio; al contrario, risponde Pirrone: «Mi hai or ora mostrato la porta per la quale devo passare»22. A questo punto il vecchio costringe Pirrone alla conclusione: – Il vecchio: Io non so –: ci comprendiamo ancora appieno? – Pirrone: Probabilmente no. – Il vecchio: Purché tu comprenda appieno te stesso! – Pirrone si gira e ride. – Il vecchio: 20.  L’opera di Fontenelle è infatti citata nell’aforisma immediatamente successivo: Libri europei; cfr. WS 214, KSA 2, 646 s.; OFN, IV/III, 221 s. 21.  Evidente è l’allusione alla parabola in cui Gesù, nei tre Vangeli sinottici, paragona il regno di Dio a un granello di senape; cfr. Mt 13,31-32; Mc 4,3032; Lc 13, 18-19. 22.  Nuovo riferimento ai Vangeli; cfr. Mt 7,14: «Quanto stretta è la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e come sono pochi quelli che la trovano!»; e Lc 13,24: «Sforzatevi di entrare per la porta angusta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non potranno».

42 Oh amico! Tacere e ridere – è ora questa tutta la tua filosofia? – Pirrone: Non sarebbe poi la più cattiva [die schlechteste].23

È stato giustamente osservato che, con questo aforisma, Nietzsche anticipa il concetto di una gaya scienza24. Una scienza dev’essere necessariamente fröhlich nel momento in cui prende atto che non può darsi alcuna conoscenza dell’assoluto, di una verità incondizionata. Nell’aforisma che apre la Gaia scienza Nietzsche mette in relazione questa scienza direttamente con il riso: «Ridere di se stessi, come si dovrebbe ridere per ridere a partire dalla verità nel suo complesso [aus der ganzen Wahrheit heraus]». In questo modo «il riso si sarà forse unito alla saggezza, allora soltanto ci sarà forse ancora “gaia scienza”»25.

4. Scetticismo kantiano Una domanda come “che cos’è (la) verità?” fa naturalmente parte del corredo d’ordinanza di qualunque filosofo. Anche Kant, infatti, se la pone e, per quanto la formulazione da lui usata riprenda alla lettera il Was ist Wahrheit? di Lutero, non è obbligatorio pensare che si riferisca specificamente alla domanda di Pilato. Circostanza che in ogni caso, data la formazione protestante, con sfumature pietistiche, di Kant, non può nemmeno essere completamente esclusa, considerando che una diretta e profonda conoscenza delle Scritture era tra

23.  WS 213, KSA 2, 645 s.; OFN, IV/III, 220 s. 24.  Cfr. A.C. Bertino, Nietzsche und die hellenistische Philosophie. Der Übermensch und der Weise, in «Nietzsche-Studien», vol. 36, 2007, pp. 95130: p. 128: di fatto, «Nietzsche attribuisce a Pirrone la capacità di inaugurare il futuro di una gaia scienza». 25.  FW 1, KSA 3, 370; GS, 30 s.

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le premesse della Riforma. Nella Dottrina trascendentale degli elementi della Critica della ragion pura Kant osserva: L’antica e famosa domanda, con cui si credeva di mettere i logici con le spalle al muro, cercando di portarli di fronte all’alternativa per cui o dovessero farsi cogliere in un circolo vizioso, o dovessero ammettere la propria ignoranza, e dunque la vanità di tutta la loro arte, è la domanda: che cos’è la verità? [Was ist Wahrheit?]. (A 58)26

Di fronte a una tale domanda occorre dare «per acquisita e presupposta» la «definizione nominale [Namenerklärung] di verità», ossia «l’accordo della conoscenza con il suo oggetto»; tuttavia, al di là di ciò, quel che si tratta piuttosto di sapere è «quale sia il criterio generale e sicuro della verità di una qualsiasi conoscenza»27. Ora, se la verità è l’accordo della conoscenza con l’oggetto, è anche vero che ogni oggetto è sempre distinto dagli altri; mentre un criterio generale della verità dovrebbe essere vero per ogni conoscenza, a prescindere dalla distinzione degli oggetti. Questa verità generale non potrebbe quindi coincidere con il contenuto di verità riguardante i singoli oggetti. E dunque, se il contenuto di una conoscenza è «la materia di essa», ne segue che «non è possibile richiedere alcun segno caratteristico generale della verità della conoscenza, per il motivo che si tratta di una cosa in sé contraddittoria» (B 83-A 59)28. I criteri generali della verità potranno riguardare, al più, «la semplice forma della conoscenza (con l’esclusione di ogni contenuto)»; cosa che, però, può spettare solo alla logica, che espone «le regole generali e necessarie dell’intelletto». Tali criteri riguar-

26.  I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it., con testo a fronte, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 177. 27.  Ibidem. 28.  Ivi, pp. 177-179.

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deranno quindi «soltanto la forma della verità»; una verità che non dovrà contraddirsi sul piano, appunto, formale, ma potrà esser sempre contraddetta dai contenuti (B 84)29. Com’è noto, la logica – che si avvale, per Kant, di sole proposizioni analitiche – è utile nella misura in cui conferisce un ordine ai pensieri, ma non può produrre conoscenza in quanto questa deriva solo dai contenuti dell’esperienza e, dunque, dalle proposizioni sintetiche. Questa riduzione della portata della verità generale alla sua dimensione meramente formale può essere considerata il risultato dell’applicazione di una metodica scettica. Una tale concezione della verità – pur nel riconoscimento di una sua utilità, per così dire, di secondo grado – resta di fatto esclusa dall’ambito della conoscenza. Per quanto Nietzsche sia largamente debitore a Kant in merito alla propria concezione della conoscenza – che assume quasi sempre la posizione kantiana, solo in forma più radicale30 –, i suoi riconoscimenti espliciti nei confronti del «grande cinese di Königsberg»31 sono alquanto rari. È dunque significativo che uno di questi pochi apprezzamenti riguardi proprio lo “scetticismo” di Kant. Nell’aforisma della Gaia scienza intitolato Per il vecchio problema: “che cos’è tedesco?”, Nietzsche scrive: «In quanto Tedeschi, dubitiamo insieme a Kant della validità ultima delle conoscenze che ci forniscono le scienze della natu-

29.  Ivi, p. 179. 30.  Cfr. H. Heit, Wozu Wissenschaft? Nietzsches Wissenschaftskritik als Radikalisierung Kants, in B. Himmelmann (a cura di), Kant und Nietzsche im Widerstreit, de Gruyter, Berlin-New York 2005, pp. 47-56. 31. Cfr. JGB 210, KSA 5, 144; OFN, VI/II, 119: «Anche il grande cinese di Königsberg era soltanto un grande critico». Per la spiegazione di questa definizione rimando a C. Gentili, Nietzsche and ‘the Great Chinese of Königsberg’, in M.J. Mayer Branco - K. Hay, Nietzsche’s Engagement with Kant and the Kantian Legacy, vol. III, Nietzsche and Kant on Aesthetics and Anthropology, Bloomsbury, London-New York 2017, pp. 179-194.

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ra e, in generale, di tutto ciò che si fa conoscere causaliter: il conoscibile ci sembra già, in quanto tale, di scarso valore»32.

5. Verità e tropos Concludiamo il nostro percorso a ritroso esaminando la prima ricorrenza della domanda Was ist Wahrheit?. Nell’estate del 1873 Nietzsche detta all’amico Carl von Gersdorff uno scritto intitolato Su verità e menzogna in senso extramorale33. Incontriamo qui la nostra domanda: Che cos’è dunque la verità? [Was ist also Wahrheit?] Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile.34

La congiunzione also, inserita nella domanda, è un semplice rimando alle considerazioni – che vedremo tra breve – svolte da Nietzsche nelle righe immediatamente precedenti, delle quali la definizione della verità costituisce la conclusione. Se non si può dare assolutamente per scontato che Nietzsche si 32.  FW 357, KSA 3, 599; GS, 266. 33.  Nietzsche aveva progettato un libro, che avrebbe dovuto intitolarsi Das Philosophenbuch, composto di due parti: una teorica – appunto Su verità e menzogna in senso extramorale – e una storica. Questa seconda avrebbe dovuto intitolarsi, nel progetto originario, Il filosofo come medico della cultura. Nietzsche rinuncia tuttavia al progetto e alla parte storica assegna il titolo di La filosofia nell’epoca tragica dei Greci. Entrambi gli scritti saranno pubblicati prima della sua morte, ma dopo l’avvento della malattia. 34.  WL 1, KSA 1, 880 s.; OFN, III/II, 361.

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riferisca qui intenzionalmente alla domanda di Pilato, si tratta però di un’ipotesi da considerarsi più che plausibile35. Sulla scorta della lettura del primo volume del libro di Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst36, Nietzsche abbraccia qui la tesi della natura tropica della lingua. In quanto si assegna a quest’ultima un’intrinseca autonomia creativa, ogni ipotesi di corrispondenza tra lingua e realtà, tra parola e cosa, risulta non più percorribile. La verità è il risultato di un accordo tra i parlanti; vale a dire, è stabilita unicamente per convenzione. La parola diviene concetto non in quanto conservi la memoria di una qualunque «esperienza primitiva», ma perché si adatta «a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale [durch Gleichsetzen des Nicht-Gleichen]». Quando io pronuncio la 35.  Di questa opinione è, ad es., S. Scheibenberger, Kommentar zu Nietzsches Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, de Gruyter, Berlin-Boston 2016, p. 50: «Con questa frase N. cita una nota figura della Bibbia», cui segue il rimando a Gv 18,38. Per tale questione, e per altre considerazioni su questo scritto di Nietzsche, rimando a C. Gentili, Quid est veritas? Skeptische Implikationen von Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, di prossima pubblicazione in «Nietzsche-­Studien», vol. 51. 36.  G. Gerber, Die Sprache als Kunst, vol. I, Mittler’sche Buchhandlung, Bromberg 1871. Dal catalogo della biblioteca dell’Università di Basilea risulta che Nietzsche prende a prestito il volume il 28 settembre 1872; cfr. L. Crescenzi, Verzeichnis der von Nietzsche aus der Universitätsbibliothek in Basel entliehenen Bücher (1869-1879), in «Nietzsche-Studien», vol. 23, 1994, pp. 388-442: p. 418. Si vedano in proposito A. Meijers - M. Stingelin, Konkordanz zu den wörtlichen Abschriften und Übernahmen von Beispielen und Zitaten aus Gustav Gerber: Die Sprache als Kunst (Bromberg 1871) in Nietzsches Rhetorik-Vorlesung und in Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, in «Nietzsche-Studien», vol. 17, 1988, pp. 350368; A. Meijers, Gustav Gerber und Friedrich Nietzsche. Zum historischen Hintergrund der sprachphilosophischen Auffassungen des frühen Nietzsche, ivi, pp. 369-390.

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parola “foglia”, e ne penso il concetto corrispondente, non indico alcunché di realmente presente in natura; questo concetto si forma nella misura in cui io lascio cadere tutte le «differenze individuali»37. Già a questa data, dunque, Nietzsche prende commiato dal concetto di verità adottando una metodica scettica che si applica, in quest’occasione, sul solo piano linguistico. Squisitamente scettica può definirsi la conclusione che ne trae: la verità «è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia “vero in sé”, reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo». Chi cerca la verità cerca, in fondo, «soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo»38.

37.  WL 1, KSA 1, 879 s.; OFN, III/I, 360. 38.  WL 1, KSA 1, 883; OFN, III/I, 364.

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La “riflessione radicale” di Nietzsche sul linguaggio Alice Giordano

A 24 anni appena compiuti, nel mezzo di un appunto dedicato alla filologia classica, Friedrich Nietzsche scrive: «Il linguaggio è la cosa più quotidiana: ci vuole un filosofo per occuparsene. Chi trova il linguaggio di per sé interessante è diverso da chi vi riconosce solo il mezzo di comunicazione di pensieri interessanti»1. Tale affermazione si presta a due considerazioni: è, anzitutto, un invito ante litteram a ridiventare “buoni vicini” – secondo quello che sarà il leitmotiv de Il viandante e la sua ombra – di una “cosa prossima”, in questo caso il linguaggio. E se la formazione filologica di Nietzsche lo aveva già reso un minuzioso frequentatore delle parole, il proposito esposto nel 1868 non sarà mai disatteso: «ci vuole un filosofo per occuparsene», sosteneva, e sarà difatti la riflessione filosofica di Nietzsche a non trascurare mai il problema linguistico, che si può senza troppa esitazione annoverare tra gli snodi tematici centrali per l’autore. La seconda considerazione riguarda il legame di Nietzsche con l’intera filosofia di quel secolo XX che egli varcò, per qualche

1.  OFN I/II, p. 489.

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mese e ormai incosciente, ma che per molti versi anticipò. È possibile considerare il linguaggio – parafrasando quell’appunto giovanile – sia come un mezzo di comunicazione di pensieri interessanti, sia come un “oggetto” di studio di per sé degno di interesse. Questa seconda opzione andrà a caratterizzare buona parte della filosofia del Novecento, conosciuto grazie al saggio di Rorty del 1967, Metaphysical Difficulties of Linguistic Philosophy2, come il secolo del Linguistic Turn. La “filosofia linguistica” porta agli estremi la seconda parte dell’osservazione nietzscheana, non solo considerando il linguaggio un problema filosofico a sé stante, ma riducendo tutti i problemi filosofici a problemi di linguaggio3: si pensi alla critica di Gottlob Frege all’imperfetto e impreciso linguaggio naturale, o al Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, che dichiara “risolti” i problemi filosofici più importanti relegandoli al regno di ciò che non può entrare nella sfera logica del discorso. Si pensi ancora a Rudolf Carnap, che tenta di superare la metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, o alla teoria degli atti linguistici di John Austin, che ambisce a una chiarificazione del linguaggio ordinario e di ciò che è possibile fare con esso. L’interesse del XX secolo per il linguaggio non si limita, però, alla filosofia di ambito analitico, ma investe anche buona parte della filosofia cosiddetta continentale. Il saggio heideggeriano

2.  Il saggio di Rorty era l’introduzione a un’antologia di testi: The Linguistic Turn. Recent Essays in Philosophical Method, The University of Chicago Press, Chicago-London 1967. 3.  D. Marconi, Dopo la svolta linguistica, in R. Rorty, La svolta linguistica, tr. it. di S. Velotti, Garzanti, Milano 1994, pp. 7-21: p. 8. Pensando al secolo XX, scrive Cimatti: «La scoperta filosofica del ’900 è stata invece la scoperta che noi coincidiamo con il linguaggio. Homo sapiens significa letteralmente Homo loquens» (F. Cimatti, Verso il reale. Lacan e Baudrillard, in «Lo sguardo. Rivista di filosofia», n. 23, 2017, pp. 177-192: p. 178).

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del 1959, In cammino verso il linguaggio, esemplifica magistralmente l’atteggiamento filosofico che ipotizzava Nietzsche, ossia “trovare il linguaggio di per sé interessante”: «Quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio»4; secondo Heidegger, difatti, la capacità espressiva umana non è una facoltà al pari delle altre, ma si annoda al problema dell’Essere come donazione di senso e costringe allo sforzo filosofico di «portare il linguaggio in quanto linguaggio al linguaggio»5. Nell’ontologia ermeneutica di Hans-Georg Gadamer l’orizzonte del linguaggio coincide con il mondo: «nel linguaggio si presenta il mondo stesso. L’esperienza linguistica del mondo è “assoluta”»6. I riferimenti possibili sono ancora numerosi, tra essi Paul Ricoeur, Jacques Derrida, Hans Blumenberg, Michel Foucault. Considerato l’invito del presente volume a pensare “cosa cambia con Nietzsche”, si è ritenuto essenziale dedicare una riflessione al linguaggio, proprio in virtù del ruolo che esso avrà nel ’900 anche grazie (più o meno consapevolmente) alle analisi nietzscheane. Se n’era accorto Foucault, che, difatti, così scriveva ne Le parole e le cose: Il linguaggio tornò direttamente e di per sé nel campo del pensiero solo sul finire del XIX secolo. Potremmo quasi dire nel XX, se Nietzsche il filologo – che anche in questo campo era così saggio, la sapeva tanto lunga, scriveva libri così buo-

4.  M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959; tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 196. 5.  Ivi, p. 190. 6. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960; tr. it., con testo a fronte, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, intr. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 915.

52 ni – non avesse per primo avvicinato il compito filosofico a una riflessione radicale sul linguaggio.7

Tale «riflessione radicale» non ha, come per la maggior parte delle tematiche affrontate da Nietzsche, una trattazione monolitica, sistematica, sempre coerente. Si è scelto, pertanto, di presentare al lettore una rapida panoramica che passa attraverso il commento di specifici luoghi testuali, selezionati da diversi periodi della sua attività filosofica senza pretesa di esaustività, ma nell’intento di far emergere alcuni snodi fondamentali di un percorso: cosa cambia in Nietzsche, con Nietzsche, rispetto al tema del linguaggio.

1. Sull’origine del linguaggio Un breve testo del 1869-1870 attesta il precoce interesse filosofico di Nietzsche per il linguaggio, del quale viene indagata – come il titolo stesso annuncia, Vom Ursprung der Sprache8 – l’origine. Questa viene presentata come un antico indovinello, che le popolazioni di ieri e di oggi si pongono e che fatica a trovare la sua risposta. Le ipotesi sull’origine del linguaggio sono molteplici, e Nietzsche le passa in rassegna secondo due macro categorie: da un lato, le teorie che sostengono l’origine divina del linguaggio; dall’altro, quelle che lo reputano un’invenzione umana. 7.  M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. di E. Panaitescu, BUR, Milano 2015, p. 329. 8.  KGW II/2, 185-189 (le traduzioni dal tedesco, per questo testo, sono di chi scrive). Per un’analisi approfondita di Vom Ursprung der Sprache si rimanda alla monografia: C. Crawford, The Beginnings of Nietzsche’s Theory of Language, de Gruyter, Berlin 1988. Si veda anche C. Mangion, A Critical Commentary on Nietzsche’s “On the Origin of Language”, in «New Nietzsche Studies», vol. 8, n. 3-4, pp. 40-51.

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Quanto alle prime, il riferimento è all’Antico Testamento, che contiene un mito della genesi del linguaggio e che, tuttavia, presuppone ciò che dovrebbe spiegare. Adamo nomina le cose del mondo, istituendo con esse una relazione umana; ciò nonostante, l’atto del nominare implica già la presenza di un linguaggio che Dio e l’uomo condividono e che usano per comprendersi. Sin dal Cratilo di Platone è evidente l’arbitrarietà di tale nomenclatura: «questo punto di vista presuppone una lingua prima della lingua»9, presuppone che il mondo sia già categorizzato secondo significati e aspetti solo di essere nominato. Se il linguaggio non è un dono divino è allora, forse, frutto di un accordo umano; sono le teorie convenzionaliste, per le quali Nietzsche fa riferimento a tre autori – de Brosses, Maupertuis e Lord Monboddo – le cui posizioni vengono liquidate in poche battute, giudicate preconcette, precarie o contraddittorie. Nel 1770, l’Accademia di Berlino seleziona il contributo di Herder sul tema Origine del linguaggio. Nietzsche ne apprezza alcuni aspetti e ne critica altri: in particolare, trova che Herder condivida, erroneamente, con i suoi predecessori la convinzione che “madri” del linguaggio siano le esclamazioni, suoni espressi che, successivamente, vengono resi interni e interiori. Approva invece l’intuizione – dal sapore novecentesco – che «l’uomo è nato per il linguaggio»10 con la stessa urgenza con cui un feto nasce quando la gravidanza arriva al suo termine. La metafora herderiana del corpo materno non è ripresa da Nietzsche casualmente, ma in coerenza con la soluzione che egli stesso prospetta al problema della genesi del linguaggio. La proposta che, in questo testo, egli abbraccia si può difatti

9.  KGW II/2, 187. 10.  Ibidem.

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comprendere solo alla luce della teleologia kantiana degli organismi viventi. La giusta conoscenza è divenuta comune solo a partire da Kant, il quale, ne La critica del giudizio, riconosce la teleologia nella natura come qualcosa di reale ma, allo stesso tempo, mette in rilievo l’eccezionale antinomia secondo cui qualcosa può essere intenzionale senza una coscienza. Questa è l’essenza dell’istinto.11

L’istinto qui evocato non è riducibile, per Nietzsche, né alla coscienza riflessa né al puro meccanismo. Non è, in altri termini, il prodotto spontaneo dell’organizzazione del corpo o di un circuito cerebrale, e nemmeno il risultato di un pensiero cosciente; si configura, piuttosto, come «la conquista più autentica dell’individuo, o di una massa, che emerge dalla sua propria natura»12. L’istinto da cui scaturirebbe il linguaggio è lo stesso istinto che regola la vita delle api o delle formiche, lasciando così emergere un paradosso: l’elemento autenticamente umano, il linguaggio appunto, deriva da una componente animale, l’istinto13. Non è difficile scorgere la coerenza di questa posizione con le future riflessioni di Nietzsche: anche gli ideali filosofici più alti non sono altro che istinti mascherati, come si legge nella pre-

11.  KGW II/2, 188. In conclusione a Sull’origine del linguaggio, Nietzsche riporta inoltre una citazione di Schelling, a supporto dell’idea che nel linguaggio vi sia una teleologia simile a quella degli organismi, istintiva e non cosciente. 12.  KGW II/2, 186. 13.  Come nota Mangion, la soluzione di Nietzsche all’indovinello sull’origine del linguaggio implica un cambio di prospettiva: l’origine non è più da intendersi diacronicamente, come un momento passato di cui riscoprire le tracce, ma sincronicamente, ossia come una genesi sempre al lavoro  attraverso l’istinto. Cfr. C.  Mangion, A Critical Commentary, cit., pp. 43-44.

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fazione alla seconda edizione de La gaia scienza14. E il motivo principale del radicamento dei pensieri metafisici nella componente istintiva è proprio il linguaggio, come è, in realtà, già evidente da questo testo del 1869-1870. Nel primo paragrafo è annunciato, difatti, uno dei punti fondamentali che caratterizzeranno le successive analisi di Nietzsche sul linguaggio – e, come conseguenza, la sua critica a tutti gli ambiti dell’umano che se ne servono, dalla filosofia alla morale, dalla religione alla scienza. Ogni pensiero cosciente è possibile solo grazie all’aiuto del linguaggio. È assolutamente impossibile avere un pensiero tanto intelligente, ad esempio, con un linguaggio che consiste di meri suoni animali: l’organismo meraviglioso, pensoso [tiefsinnige]. Le conoscenze filosofiche più profonde sono già implicitamente contenute nel linguaggio. Kant dice: «Una gran parte, forse la parte maggiore del lavoro della ragione consiste nell’analizzare i concetti che l’uomo trova preesistenti dentro di sé». Basti pensare a soggetto e oggetto; il concetto del giudizio è astratto dalla frase grammaticale. Il soggetto e il predicato sviluppati nelle categorie di sostanza e accidente.15

Oltre ad attestare, in questa fase aurorale della filosofia nietzscheana, l’esplicita influenza di Kant e di Schopenhauer (al quale l’autore rimanda in nota), il brano include un’affermazione cruciale, che Nietzsche riprende dalla Filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann, facendola propria: le conoscenze filosofiche più profonde – scrive – sono già implicitamente contenute nel linguaggio. Ciò significa che è la struttura del linguaggio a imprimere al mondo la sua ontologia, come nel caso emblematico del soggetto e del predicato grammaticali

14.  «L’inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli» (FW, Prefazione alla seconda edizione, 2). 15.  KGW II/2, 185.

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che diventano, in metafisica, sostanze e accidenti, sostrati separati dalle azioni, entità sganciate dalla loro stessa forza. Se il pensiero umano è in grado di concepire separatamente un lampo dal suo bagliore, è perché la frase “il lampo illumina”16 è possibile, ossia perché la grammatica ha abituato a pensare una realtà fatta di soggetti e predicati. Si tratta di uno snodo imprescindibile per comprendere che cosa cambia con Nietzsche – e non solo rispetto al linguaggio ma, più in generale, alla concezione di una realtà il cui tessuto ontologico non separa agente e agito, ma in cui «il fare è tutto»17.

2. Finzione e metafora Nel testo del 1873 Su verità e menzogna in senso extramorale Nietzsche si pone la domanda: «Il linguaggio è dunque espressione adeguata di tutte le realtà?»18. La risposta che dà è negativa, perché le parole sono definite «delimitazioni arbitrarie»19 della realtà e collocate, dunque, agli antipodi di una «espressione adeguata». Lo snodo epistemologico fondamentale di queste pagine coincide con la inappellabile estromissione della verità dal processo genetico delle parole. Nella sua argomentazione, Nietzsche fa riferimento alle figure acustiche di Chladni, increspature prodotte sulla sabbia dalla vibrazione 16.  «Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio, questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa» (GM, Buono e malvagio, buono e cattivo, 13). 17.  GM, Buono e malvagio, buono e cattivo, 13. 18.  WL 1, p. 358. 19.  WL 1, p. 359. Cfr. ibidem: «Le diverse lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né un’espressione adeguata».

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di corde: un individuo completamente sordo, vedendo quei disegni, può credere di capire quale sia la “verità” del suono, ma si tratta di una convinzione illusoria. In maniera analoga, l’uomo è sordo alla realtà: suppone di comprendere la verità delle cose attraverso il linguaggio, ma lo strumento di cui dispone è fuorviante e falsificante. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie.20

La parola non è dunque conoscenza, ma metafora. Essa è, aggiunge Nietzsche, «il riflesso in suoni di uno stimolo nervo­ so»21. Lo stimolo nervoso in quanto “cosa in sé” che “causa” la raffigurazione resta, però, tanto inaccessibile quanto la musica all’uomo non udente che osserva i disegni sulla sabbia. Non si può, inoltre, parlare di un vero e proprio nesso causale, poiché lo stimolo è “trasferito” metaforicamente in un’immagine che è poi “plasmata” in un suono. Anche supponendo che le cose abbiano un’essenza – l’«enigmatico x della cosa in sé»22 –, secondo Nietzsche il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l’intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità, l’indagatore, il filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle cose.23

È uno dei punti in cui la filosofia di Nietzsche si dimostra un “platonismo alla rovescia”: il concetto corrispondente alla parola “foglia” non è il modello razionale e originario che le singole foglie imitano, più o meno fedelmente, ma il risultato di 20.  WL 1, pp. 359-360. 21.  WL 1, p. 358. 22.  WL 1, p. 360. 23.  Ibidem.

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una metafora dimenticata. La “sordità” degli uomini si configura, in queste pagine del 1873, come Vergesslichkeit. Dimenticare l’individualità delle cose genera l’illusione che esse possano essere accomunate, addirittura poste come uguali le une alle altre: «ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale»24. L’origine del linguaggio non ha dunque nulla a che fare con una Urform, con forme originarie, ma coincide piuttosto con un «arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali»25, come se non sussistessero. Ammessa e non concessa una metafisica in cui le cose hanno la loro “essenza”, tale essenza è destinata dal linguaggio all’oblio. Derrida dirà, a un «oblio radicale»26. Le parole non descrivono la realtà, ma la inventano a immagine e somiglianza dell’uomo; ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia per Nietzsche un “buon uso” del linguaggio, tenendo ferma la sua struttura falsificante. In prima battuta e a partire dal testo del 1873, un buon uso pare essere quello che risponde all’obbligo sociale di servirsi delle «delimitazioni arbitrarie» usuali, consolidate, approvate: L’espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire schierati, in uno stile vincolante per tutti.27 24.  Ibidem. 25.  Ibidem. 26.  J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, tr. it. di G. Berto, Cortina, Milano 1996, p. 19. «Secondo Derrida, la metafisica occidentale è una mitologia bianca, fondata sulla rimozione del tessuto metaforico dei propri enunciati, sull’oblio dell’elemento mitico all’origine della supremazia del logos» (M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel, Liguori, Napoli 1998, p. 18). 27.  WL 1, pp. 361-362. Cfr. NF 1869-1874 19[229].

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Fa buon uso delle parole chi dice la “verità”, laddove la verità non è la corrispondenza tra cose e parole, bensì l’adozione di quelle partizioni della realtà condivise e comprese da una comunità. Essere veritieri non è altro che “mentire schierati”, allo scopo di comprendersi reciprocamente e conservare la specie. Nietzsche, però, guarda con favore al soggetto artisticamente creativo che si sforza di uscire dalle suddette schiere linguistiche. Anche la sua personale e instancabile attività di homo scribens – come lo ha definito Giorgio Colli28 – risponde all’esi­ genza di ricercare un linguaggio che non replichi le trame concettuali vigenti, ma che sia quanto più possibile individuale. Nel Tentativo di autocritica del 1886, Nietzsche si rimprovererà di essersi servito di formule schopenhaueriane e kantiane ne La nascita della tragedia, invece di aver adottato un linguaggio personale29. Già nel 1874 però si appuntava: Dovrebbe piuttosto valere come legge, che il diritto di esprimere le proprie esperienze interiori spetta soltanto a colui che sappia altresì trovare un proprio linguaggio al riguardo.30 Ci si deve perciò comportare artisticamente di fronte alla lingua, per evitare il disgusto […]. Oggi certo lo scrivere diventa più difficile di quanto non lo fosse un tempo: ci si deve costrui­ re la propria lingua. Non si tratta di un desiderio esteriore, quasi che si fosse sazi di un certo abbigliamento e si desiderasse una nuova moda.31

«Costruire la propria lingua» è un compito problematico, perché richiede una torsione della natura stessa del linguaggio. Per

28.  Colli attribuisce l’epiteto a Nietzsche con sfumatura polemica: «Lui, il dissacratore di ogni eccellenza, non ha saputo dissacrare l’attività dello scrittore» (G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 19965, p. 131). 29. Cfr. GT, Tentativo di autocritica, 6. 30.  NF 1869-1874 34[20]. 31.  NF 1869-1874 37[7].

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assolvere alla sua funzione comunicativa, esso deve di necessità essere semplificatore, gregario e intersoggettivo. Nietzsche è consapevole di tale problematica, ma esercitare il proprio linguaggio affinché trovi la forma più adeguata, che lo liberi dalle “schiere” linguistiche esistenti, è un compito che egli sentirà sempre proprio. Se le parole sono – come afferma Nietzsche nel testo del 1873 – «delimitazioni arbitrarie», allora Deleuze contribuirà a specificare la missione linguistica del filosofo in questi termini: rivedere, rinnovare e riplasmare in continuazione tali delimitazioni arbitrarie. «Il genio di una filosofia si misura innanzi tutto secondo le nuove distribuzioni che essa impone agli esseri e ai concetti»32, scriverà, memore dell’invito nietzscheano a comportarsi artisticamente di fronte alla lingua.

3. Linguaggio e coscienza Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo – solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, i pensieri, i sentimenti, i movimenti siano anche oggetto di coscienza – almeno una parte di essi – è la conseguenza di un terribile «dovere» che domina l’uomo da lungo tempo: essen-

32.  G. Deleuze, Logique du sens, Minuit, Paris 1969; tr. it. di A. Verdiglione, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 20146, p. 13. Fondamentale anche la tematica deleuziana dell’“uso minore” di una lingua, definito non dalla potenza delle costanti ma delle variazioni: gli scrittori «[i]nventano piuttosto un uso minore della lingua maggiore in cui si esprimono interamente […]. Questo va oltre le possibilità della parola, per raggiungere il potere della lingua e anche del linguaggio» (G. Deleuze, Critica e clinica, tr. it. di A.  Panaro, Cortina, Milano 1996, pp. 143-144).

61 do l’animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno di aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile – e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, la «coscienza», gli fu necessario anche «sapere» quel che gli mancava, «sapere» come si sentiva, «sapere» quel che pensava. Perché, lo ripeto ancora una volta: l’uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non lo sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto la più piccola parte, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore: infatti soltanto questo pensiero consapevole si determina in parole, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela l’origine della coscienza medesima. Per dirla in breve, lo sviluppo della lingua e quello della coscienza (non della ragione, ma soltanto del suo divenire auto­ cosciente) procedono di pari passo.33

Questo brano, tratto dall’aforisma 354 de La gaia scienza intitolato Del «genio della specie», consente di compiere un ulteriore passo nell’analisi della concezione nietzscheana del linguaggio, e in modo particolare della sua origine. Se nel secondo paragrafo si è mostrato il carattere falsificante delle parole, nell’aforisma ora preso in esame Nietzsche accantona momentaneamente le questioni epistemologiche: l’opposizione tra soggetto e oggetto, il contrasto tra “cosa in sé” e fenomeno – spiega – sono questioni da lasciare «ai teorici della conoscenza, che sono rimasti penzoloni nei lacci della grammatica (la metafisica popolare)»34. Si riprende, invece, la tematica affrontata nel primo paragrafo, ossia l’origine del

33.  FW V, 354. Si veda a commento di questo aforisma: L. Lupo, Linguaggio e coscienza nel pensiero di Nietzsche negli anni 1880-88, in D. Gambarara - E. Sergio - A. Givigliano, Filosofia & Linguaggio in Italia: nuove ricerche in corso. Incontro dei Dottorati di Ricerca, Atti del VIII Convegno di Arcavacata di Rende, 20-22 settembre 2001, Dipartimento di Filosofia, Rende 2002, sez. 2, pp. 23-32. 34.  FW V, 354.

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linguaggio, ma allo scopo di metterne ora a fuoco le motivazioni essenziali. Se l’origine del linguaggio ha a che fare con un istinto, occorre capire di che tipo di istinto si tratti e a quale bisogno risponda. Per affrontare la domanda del “perché” del linguaggio, Nietzsche deve passare attraverso un’altra domanda, che riguarda il “perché” della coscienza. Lo sviluppo delle due cose, linguaggio e coscienza, difatti, procede di pari passo – questa la tesi nietzscheana. Attento agli studi scientifici e in particolare fisiologici del suo tempo, ma anche anticipatore della grande rivoluzione psicoanalitica del secolo successivo, Nietzsche concepisce l’uomo come un corpo che solo parzialmente è in grado di pensare se stesso: la materia vivente possiede sì una sua “ragione”, che è, però, solo in parte infinitesimale autocosciente – parte di cui potrebbe tranquillamente fare a meno. La coscienza non è il risultato di un processo di sviluppo, se per risultato si intende il prodotto più nobile, ma un epifenomeno di fatto marginale; il problema della coscienza, come viene spiegato in questo aforisma, si presenta in tutta la sua forza solo quando si comprende quanto essa sia inessenziale. «La vita intera sarebbe possibile senza che essa si vedesse, per così dire, nello specchio: in effetti, ancor oggi la parte di gran lunga prevalente di questa vita si svolge in noi senza questo rispecchiamento» e sorge, pertanto, spontanea la domanda: «A che scopo in generale una coscienza, se essa è in sostanza superflua?»35. Il fatto che la vita non abbia bisogno di guardarsi allo specchio presenta, tuttavia, una riserva per la specie umana: la più debole, costantemente in pericolo e bisognosa di aiuto – perché priva di artigli, zanne, veleni –, ha da sempre avuto bisogno, per sopravvivere, di trovare un mezzo di comunicazione tra i singoli individui che fosse quanto più rapido ed efficace possibile. 35.  Ibidem.

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L’uomo diventa capace di comunicare, secondo Nietzsche, perché ha bisogno di comunicare: ossia non in quanto uomo isolato, ma in quanto animale sociale. La coscienza è una “rete di collegamento” tra uomo e uomo che consente non solo di pensare, sentire, agire, fare, lottare, e così via, ma di “sapere” tali attività. Così sorge il linguaggio, per utilità evolutiva di una specie precaria. È a questo punto che Nietzsche rivela l’intreccio inscindibile tra coscienza e linguaggio: quando il pensiero “si determina in parole” nasce la coscienza, e quando la coscienza si esprime in “segni di comunicazione” sorge il linguaggio. All’enorme vantaggio per la sopravvivenza della specie corrisponde, però, un’altrettanto significativa perdita per l’individuo: Tutte quante le nostre azioni sono in fondo incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente individuali, non v’è dubbio; ma appena le traduciamo nella coscienza, non sembra che lo siano più… questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io: la natura della coscienza animale implica che il mondo di cui possiamo avere coscienza è solo un mondo di superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato – che tutto quanto si fa cosciente diventa per ciò stesso piatto, esiguo, relativamente stupido, generico, segno, segno distintivo del gregge; che a ogni farsi della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione, falsificazione, riduzione alla superficialità e generalizzazione.36

Se linguaggio e coscienza sorgono di pari passo a scopi comunicativi, è evidente come essi debbano di necessità assumere un carattere generico e grossolano; al contrario, se fossero cioè strumenti adeguati a comunicare esperienze individuali e precise, non assolverebbero al loro scopo primario. Di qui la celebre critica che Nietzsche muove al linguaggio, in questo aforisma come in molti altri luoghi testuali: tanto la coscienza quanto le parole che la esprimono non dicono nulla del puro 36.  Ibidem.

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e profondo vissuto individuale perché non ne sono costitutivamente in grado. “Spudorati”, quindi, quei poeti che sfruttano le loro esperienze più intime traducendole in parole37, perché non appena si comunica qualcosa, si smette di “amarlo”38. Nietzsche dissemina i suoi scritti di simili moniti, se ne riporta uno per tutti, dal Crepuscolo degli idoli: Non abbiamo più abbastanza stima per noi quando apriamo il nostro animo. Le nostre particolari esperienze non sono per nulla ciarliere. Esse non potrebbero comunicarsi neppure se lo volessero. Il fatto è che manca loro la parola. Noi siamo anche già ben oltre le cose per cui abbiamo parole. In ogni discorso c’è un granello di disprezzo. Si direbbe che il linguaggio sia stato inventato soltanto per le cose di qualità media, mediocre, per qualcosa di comunicabile. Con il linguaggio, chi parla già si va volgarizzando.39

Un computo quantitativo delle riflessioni che Nietzsche dedica al linguaggio nei suoi scritti rivela un giudizio complessivamente “negativo”: il linguaggio non è adatto a esprimere la realtà, ma è destinato a falsificarla, a omologare le differenze, a volgarizzare l’esperienza, a irrigidire il movimento. Ciò nonostante, il filosofo esperisce in prima persona una tensione costante tra la sfiducia nei confronti delle parole e la volontà di trasvalutarle. Vuole essere letto bene40, ma anche frainteso41, scrive per tutti e per nessuno. A tali contrastanti esigenze risponde l’inesausta sperimentazione stilistica di Nietzsche. La presente rassegna, per quanto rapida e non esaustiva, degli snodi teorici della filosofia nietzscheana del linguaggio dovrà

37.  JGB, Sentenze e intermezzi, 161. 38.  JGB, Sentenze e intermezzi, 160. 39.  GD, Scorribande di un inattuale, 26. 40. Cfr. M, Prefazione, 5. 41. Cfr. FW V, 381.

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allora, di necessità, dedicare un ultimo spazio alla questione dello stile.

4. Lo stile: al crocevia tra linguaggio e corpo L’ipotesi di un linguaggio che non sia soltanto falsificazione della realtà, ma anche sua viva espressione42, è inestricabilmente connessa alla questione dello stile. Alla staticità dello «stile vincolante per tutti» di Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche si sforza di contrapporre – attraverso molteplici sperimentazioni43, dall’aforisma44 sino al linguaggio poetante dello Zarathustra45 – la mobilità di uno stile “vi-

42.  La sostenibilità di una concezione “affermativa” del linguaggio, nell’ambito del pensiero nietzscheano, è un tema di ricerca ancora poco sondato ma potenzialmente fecondo. Ad avere colto questa direzione di ricerca, pur senza svilupparla, Scarlett Marton (S. Marton, Le problème du langage chez Nietzsche. La critique en tant que création, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 74, 2012, pp. 225-245). 43.  «Come scrivere di, e attraverso, un linguaggio che semplifica e falsifica la vita e continua “a parlare di antitesi laddove esistono solo gradi e una sottile gamma di variazioni” [JGB, Lo spirito libero, 24]? Le risposte che il filosofo scrittore dà a questi interrogativi non stanno tanto in una teoria quanto in diversi esperimenti stilistici» (D. Morea, Il respiro più lungo. L’aforisma nelle opere di Friedrich Nietzsche, ETS, Pisa 2011, p. 90). Secondo l’autrice, l’aforisma è l’esperimento stilistico più riuscito in assoluto di Nietzsche da un punto di vista filosofico (cfr. ivi, p. 10). 44.  «Dunque, nell’aforisma Nietzsche tenta la decostruzione del Logos “evocando” il potere della parola viva. L’aforisma è Memoria di tale parola – Memoria, poiché la parola viva è comunque, nell’aforisma, conficcata nello spazio della scrittura» (M. Cacciari, Aforisma, tragedia, lirica, in «Nuova Corrente», vol. 68-69, 1975-1976, pp. 464-492: p. 475). 45.  «In particolare Così parlò Zarathustra appare, per alcuni aspetti, il tentativo più conseguente, anche a livello di linguaggio, di superare i limiti della comunicazione gregaria, nella volontà poetica di un’espressione dionisia-

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vente”. «La prima cosa che è necessaria è la vita: lo stile deve vivere»46. Per questa ragione, la lingua parlata gode di un naturale vantaggio rispetto a quella scritta: quest’ultima è più limitata, deve compensare la mancanza del ritmo e dell’accentuazione impressi dalla viva voce, attraverso stratagemmi quali, ad esempio, i segni di interpunzione. L’arte di scrivere esige soprattutto surrogati per i modi di esprimersi che solo chi parla ha: cioè per i gesti, gli accenti, i toni, gli sguardi. Perciò lo stile dello scrivere è affatto diverso da quello del parlare, e qualcosa di molto più difficile: esso vuole con meno farsi capire altrettanto di quello. Demostene tenne i suoi discorsi in modo diverso da come li leggiamo: egli li ha rimaneggiati proprio in vista del fatto che sarebbero stati letti.47

La sfida della scrittura è assumere l’atteggiamento del corpo vivente di chi parla, mimarne i movimenti (i gesti, gli accenti, i toni, gli sguardi) ricreandoli all’interno del testo. «Il mio stile è una danza»48, scrive nel 1884 a Rohde, confermando la saldezza del legame tra stile e corpo in movimento. Si tratta di questioni sulle quali Nietzsche riflette lungo tutto il suo percorso intellettuale, ma che si impongono a partire dal confronto filologico con i testi classici: studiando gli antichi oratori e analizzando le produzioni poetiche e letterarie greche e romane, il giovane professore di Basilea si era interrogato circa le effettive modalità di lettura degli antichi – problematica che funge anche da motore nelle sue ricerche sul ritmo greco

ca delle forze inconsce, a lode della grande ragione superiore del corpo» (G. Campioni, Scienza e filosofia della forza in Nietzsche, in «Il Pensiero», XIX, n. 1-2, 1974, pp. 46-72: p. 64). 46.  NF 1881-1882 23[32]. 47.  WS 110. 48.  A Erwin Rohde, 22 febbraio 1884, BVN, vol. IV, 490, p. 455.

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e latino49. Gli studi filologici sono, tuttavia, il luogo di maturazione di riflessioni che infrangono sia i rigidi confini della disciplina accademica, sia quelli dell’antichità, per diventare problematica (in)attuale50. Il linguaggio ha una funzione comunicativa che lo costringe, come si è accennato, a equiparare ciò che non è uguale, a lasciar cadere le differenze individuali e a “fossilizzare” il movimento. Non per questo, però, Nietzsche dispera totalmente del potere espressivo del linguaggio: l’intera sua attività di scrittura è ricerca incessante di uno stile che renda manifesto il fiume dell’esperienza, senza pietrificarlo. Un autore deve sempre comunicare movimento alle sue parole. […] Virgole, punti interrogativi e esclamativi – il lettore dovrebbe prestare il suo corpo e far vedere che viene messo in movimento dall’autore. Eccolo. È completamente cambiato.51

Il compito di un autore è comunicare movimento alle sue parole e, analogamente, quello del lettore è essere messo in movimento dall’autore. I segni di interpunzione sono le tracce scritte dei gesti che devono “muovere” e animare un corpo: virgole, punti interrogativi ed esclamativi prendono vita attraverso respiri, accenti, sussurri, pause: «La ricchezza di vita si rivela nella ricchezza di gesti. Bisogna imparare a sentire tutto come un gesto: la lunghezza o la brevità delle frasi, l’inter49.  Per una disamina del tema del ritmo nella filosofia di Nietzsche, a partire dalle lezioni basileesi di ritmica e metrica antiche, mi sia consentito rimandare a A. Giordano, Friedrich Nietzsche. L’arte del grande ritmo, Contemplazioni, Milano 2022. 50.  Del 1872 è il progetto di una considerazione inattuale Sul leggere e scrivere (cfr. NF 1869-1874 19[330]; 26[20; 23]; 29[163; 164]). 51.  NF 1878-1879 47[7].

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punzione, la scelta delle parole, le pause, la successione degli argomenti»52. Anche la verità più astratta, per essere comunicata efficacemente, ha bisogno anzitutto di persuadere i sensi. Chi impara a leggere bene presta il proprio corpo ai movimenti del linguaggio, che lo mettono in moto, lo attraversano, lo modificano. Un buon uso delle parole deve allora seguire – per riadat­tare un’espressione nietzscheana – il «filo conduttore del corpo»53. Ciò è difficile da intendersi per i moderni, lontani dalla cultura dell’oralità e abituati ormai da secoli a una fruizione in buona parte “intellettuale” della letteratura. Diverso era per gli antichi che, anche quando leggevano tra sé e sé, lo facevano di norma ad alta voce. Il nesso tra corpo e linguaggio era allora molto più marcato, tanto che una frase veniva considerata una “totalità fisiologica”, perché racchiusa all’interno di una sola respirazione54. La ricerca stilistica di Nietzsche guarda, in conclusione, a un linguaggio che non si riduca allo sforzo – vano – di essere espressione veritiera della realtà, ma che recuperi l’antica commistione tra senso, corpo e linguaggio. Riscoprire il tempo e il ritmo come elementi costitutivi del senso delle proposizioni, riacquistarne la sensibilità, allenare i polmoni e l’orec­chio alla ricerca del tempo giusto delle parole, sono tutte operazioni che contribuiscono allo sviluppo di quel «gran52.  NF 1881-1882 23[32]. 53.  Si tratta di un concetto ricorrente negli appunti nietzscheani, sebbene non negli scritti pubblicati, a partire dal 1884 (ad esempio cfr. NF 1884 26[374]). Su questo tema, si rimanda al testo di Lupo che mette in relazione centralità del corpo e limiti del linguaggio: L. Lupo, Nietzsche e il «filo conduttore del corpo». «Was wir “Leib” nennen», in P. Colonnello (a cura di), Il soggetto riflesso. Itinerari del corpo e della mente, Mimesis, MilanoUdine 2014, pp. 105-121. 54.  JGB, Popoli e patrie, 247.

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de stile»55 che Nietzsche si sforzava di teorizzare e soprattutto esercitare. Il problema dello stile diventa, in questa prospettiva, il luogo di una rideterminazione dei rapporti tra corpo e linguaggio e si pone come risposta possibile all’invito a rimanere “fedeli” al corpo e alla terra, anche filosofando, dunque anche servendosi delle tanto vituperate, quanto in attesa di essere trasvalutate, parole.

55.  EH, Perché scrivo libri così buoni, 4.

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Realtà, verità, finzione Pietro Gori

Fino a che punto la verità sopporta di essere incorporata? FW 110 La verità non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da crea­re e che dà il nome a un processo. NF 1887 9[91]

Tra le molte questioni relativamente alle quali si può dire che Nietzsche abbia offerto un contributo originale e rilevante per la storia del pensiero, il tema della conoscenza si distacca per la sua centralità, continuità e coerenza nell’intero arco di attività del filosofo tedesco. Su di esso Nietzsche riflette infatti a più riprese, stimolato da un contesto culturale in cui le fondamenta stesse della relazione teoretica tra uomo e mondo vengono messe in questione e minate su più fronti. Nel fare questo, egli risponde pertanto all’esigenza di un’epoca che necessita di nuovi principi, di nuovi punti di riferimento a partire dai quali orientare il proprio agire (teorico e pratico). Meglio ancora, tale epoca sembra essere alla ricerca di un nuovo modello di principio, di un nuovo tipo di fondamento, dal momento che il modello precedente – il modello dogmatico o metafisico – ha rivelato i propri limiti e la propria inadeguatezza. Possiamo dire fin da ora che l’intervento di Nietzsche

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si orienta esattamente in tal senso. Il suo contributo non si riduce infatti a dare una nuova risposta a vecchi problemi, ma consiste prima di tutto nel guardare a tali problemi in modo nuovo. Per questo motivo, la sua originalità risiede a mio avviso nell’approccio che il suo pensiero esemplifica e nel percorso che Nietzsche intende delineare per l’umanità del futuro. Se si volesse esprimere la stessa cosa in altri termini, potremmo dire che Nietzsche ci invita a ripensare lo statuto epistemico e ontologico degli oggetti del nostro interrogare, da cui dipende il tipo di risposta che è possibile elaborare relativamente a questi ultimi. In un certo senso, con Nietzsche cambia il mondo in cui ci muoviamo quotidianamente; cambiano gli enti con cui ci relazioniamo; cambiano le forme di sapere con cui ci confrontiamo e da cui dipende il nostro spazio di azione. Il modo in cui Nietzsche si interessa al problema della conoscenza e affronta più in particolare la questione della verità rientra nel contesto delineato in queste considerazioni introduttive, che cercherò ora di svolgere in maniera più elaborata. In un certo qual modo, il mio discorso potrebbe essere un commentario alle due osservazioni di Nietzsche poste in esergo. La prima frase è tratta dal fondamentale e particolarmente noto paragrafo 110 della Gaia scienza in cui Nietzsche presenta una concezione evolutiva della conoscenza che riporta il valore di quest’ultima alla sua funzione biologica di sussidio per la conservazione della specie; la seconda proviene invece da un interessante frammento postumo del 1887 che rappresenta il punto di intersezione tra le considerazioni che Nietzsche svolge nel primo periodo di produzione filosofica (fino all’epo­ca della prima edizione della Gaia scienza, diciamo, quindi 1882) e le riflessioni epistemologiche della fase matura di produzione (1886-1888). Tornerò su questi passi nella sezione seguente. Per il momento vorrei solo osservare che essi esemplificano in maniera estremamente efficace la duplice prospettiva di Nietzsche sulla questione della veri-

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tà; una prospettiva che mette insieme la critica a un modello dogmatico che è al contempo una sterile epistemologia e la necessità di guardare alla questione della verità da un punto di vista più ampio e che include la dimensione pratica dell’agire umano nelle sue molteplici articolazioni (che comprendono ad esempio il piano esistenziale e quello antropologico). La verità, per Nietzsche, non è affatto qualcosa di fisso e immutabile; non è un oggetto del conoscere separato dallo stesso atto del conoscere. Al contrario, essa si fa e si modifica costantemente, e fa tutto questo in relazione a una forma di vita che ad essa reagisce e in riferimento ad essa si determina continuamente. È precisamente a questi due elementi che occorre prestare attenzione: da una parte, il motivo squisitamente epistemologico antimetafisico o anti-fondazionalista, che pone Nietzsche pienamente nel solco di una tradizione post-kantiana che arriva sino ai giorni nostri; dall’altro lato, l’idea che la verità sia sempre intimamente legata a una pratica di vita e che non sia possibile riflettere su di essa in maniera significativa se non alla luce di quest’ultima e nel contesto di tale relazione.

1. La questione teorica Per prima cosa vorrei soffermarmi sulla questione teorica che fa da sfondo al plesso tematico che in Nietzsche mette insieme le nozioni di verità e valore. È infatti opportuno osservare fin da subito che il discorso sulla verità, in Nietzsche, esemplifica la questione più generale dei valori o delle valutazioni umane. Questo non vuol dire che esso non trovi uno spazio indipendente nei suoi scritti, naturalmente; egli se ne occupa a più riprese in maniera più o meno approfondita (compatibilmente col suo stile di riflessione avverso alla sistematizzazione – ma non per questo privo di coerenza e lucidità teoretica),

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elaborando alcune tesi non prive di originalità. Semplicemente, è possibile osservare che il tema della verità emerge in Nietzsche sulla scorta di una riflessione epistemologica inizialmente orientata al solo problema della conoscenza, ma a partire dalla quale egli trae gli spunti teorici da applicare a questioni ulteriori. Più in particolare, la messa in questione del valore letterale della nostra descrizione del mondo (giustificata a partire dall’idea che il nostro rapporto col dato esterno sia sempre mediato, fisiologicamente e intellettualmente – ovvero tanto sul piano delle percezioni quanto su quello dei concetti) viene infatti estesa da Nietzsche a qualsiasi giudizio operato dall’uomo, determinando il principio ermeneutico fondamentale per cui in qualsiasi caso ci troviamo a operare con “interpretazioni” (morali, estetiche, teoriche, ecc.) di fenomeni la cui “realtà” ci è costitutivamente preclusa. In altri termini, una volta che si ammetta che nulla si può dire del mondo se non ciò che noi elaboriamo percettivamente e intellettualmente, è possibile difendere l’idea che il senso di ciò con cui si entra in relazione – il senso del nostro mondo – non si possa giudicare al di fuori di questa stessa relazione. Sinteticamente: non possiamo ammettere che il mondo possegga un senso in sé al quale ci sia dato accedere. La questione antimetafisica o anti-fondazionalista, che Nietzsche affronta a più riprese e che esprime nei termini di una necessità di riflettere sul «valore dei valori», risiede sostanzialmente in questo. Si tratta in fondo di una questione filosofica centrale, che si preoccupa di fornire una giustificazione al giudizio umano nella sua forma più generale: se viene a mancare un senso distinto dalla formulazione del giudizio, come sarà possibile operare una valutazione di quest’ultimo? È proprio su questo punto che, a mio avviso, Nietzsche riflette in maniera originale. Egli sposta infatti il fulcro del problema, mettendo in questione lo stesso interrogativo, che a suo avviso riposa su di un presupposto metafisico infondato – il presupposto,

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appunto, che un senso ci sia e che possa essere trovato; che l’unico modo di offrire al nostro giudizio un fondamento solido consista nell’individuare un riferimento esterno, non soggetto al relativismo proprio del giudizio e che per questo ne costituirebbe l’orizzonte fisso di riferimento. Il progetto filosofico maturo di Nietzsche orientato a una «trasvalutazione di tutti i valori» rappresenta in effetti il suo tentativo di intervenire sulla nostra matrice assiologica e proporre un modello alternativo a quello tradizionalmente adottato. L’oggetto dell’interrogare non viene sostituito, ma semplicemente modificato internamente; guardando ad esso in maniera diversa, possiamo di conseguenza operare su di esso (ma anche con esso) in modo radicalmente nuovo. Quello che occorre fare, più concretamente, secondo Nietzsche, è reagire nei confronti del modello di pensiero che ha dominato la cultura europea a partire da Platone, quel dogmatismo metafisico che si ritrova nel pensiero cristiano e che Nietzsche identifica con l’«ideale ascetico»1. Ora, in un modo alquanto significativo – e arrivo finalmente al punto che mi preme sottolineare –, questo ideale ascetico che Nietzsche individua alla base di tutte le espressioni culturali dell’Occidente (arte, religione, filosofia e scienza) viene da lui definito nei termini di una «volontà di verità»2. Il nucleo di tale ideale è infatti, secondo Nietzsche, la «fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità»3. Si noti bene: non la fede nella verità, la fiducia in un particolare tipo di sa-

1.  JGB, Prefazione; GM III. 2.  GM III, 24. Di questo tema mi sono occupato più esaustivamente ad es. in P. Gori, Porre in questione il valore della verità. Riflessioni sul compito della tarda filosofia di Nietzsche a partire da GM III 24-27, in B. Giacomini - P. Gori - F. Grigenti (a cura di), La Genealogia della morale. Letture e interpretazioni, ETS, Pisa 2015, pp. 267-291. 3.  GM III, 24.

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pere; ma piuttosto l’attribuzione a quest’ultimo di uno statuto specifico, che ne giustifica la rilevanza sulla base del fatto che esso possederebbe un fondamento in sé e quindi rimanderebbe a un piano ulteriore rispetto al giudizio stesso. Il passaggio cruciale consiste pertanto nello spostare l’attenzione dal piano ontologico a quello pratico e funzionale, ovvero dal contenuto del conoscere alla stessa attività cognitiva, modificando in questo modo l’approccio che si debba avere nei confronti di tale processo. Una volta riconosciuto questo aspetto, il percorso da intraprendere segue quasi necessariamente: come Nietzsche osserva nei paragrafi conclusivi della Genealogia della morale4, ma anche in apertura di Al di là del bene e del male5, la futura generazione di filosofi sarà infatti chiamata ad affrontare «il problema del valore della verità» e interrogarsi sullo statuto di questa volontà di verità6. Anche qui, occorre notare che l’obiet­tivo critico di Nietzsche resta comunque esclusivamente l’attenzione che tradizionalmente è stata dedicata all’ontologia del sapere, ritenuta l’unico riferimento sulla cui base poter giudicare un determinato contenuto. Il senso di un’attribuzione di valore, il senso di un giudizio (nel caso della verità, di un giudizio epistemico), risiede nella stabilità che tale giudizio dimostri di possedere; una stabilità che a sua

4.  GM III, 24 e 27. 5.  JGB 1. 6.  Oltretutto, questo problema gioca per Nietzsche un ruolo significativo in chiave antropologica, ovvero relativamente alla questione dell’educazione e formazione di un «tipo umano» spiritualmente forte che si contrapporrebbe all’«animale gregario» determinato nel contesto culturale della morale cristiana (GM, Prefazione, 6; JGB 203). Su questo cfr. ad es., R. Schacht, Nietzsche and Philosophical Anthropology, in K. Ansell Pearson (a cura di), A Companion to Nietzsche, Wiley-Blackwell, Chichester 2009, pp. 115-132; P. Gori, Pragmatism, Perspectivism, Anthropology. A Consistent Triad, in «Internationales Jahrbuch für philosophische Anthropologie», n. 7, 2017, pp. 83-102.

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volta viene riportata a una presunta consistenza metafisica o ontologica del giudizio stesso. Da parte sua, Nietzsche invita a considerare l’ipotesi che l’esistenza di una tale consistenza ontologica vada messa in discussione e che sia piuttosto opportuno ammettere che non vi sia (o almeno non sia possibile individuare) alcun contenuto fisso alla base del giudicare (leggi: «Dio è morto»). Ma questo non vuol dire rifiutare del tutto l’idea che esistano verità e valori, e quindi annichilire l’impalcatura assiologica che regge il nostro agire pratico. Semplicemente, come si legge nella prefazione al Crepuscolo degli idoli, Nietzsche intende riflettere criticamente su tale contesto e operare su di esso col martello filosofico «come con un diapason» per rivelare l’inconsistenza ontologica degli «idoli eterni» o «antiche verità» di cui è costituito l’edificio della cultura occidentale. Se sia poi possibile donare loro un senso diverso, se sia cioè possibile trovare nuovi principi e un nuovo criterio di valutazione che renda conto in altro modo (in un modo non metafisico) dell’origine dei punti di riferimento epistemici, morali ed estetici del nostro agire, questo è precisamente ciò che resta da capire.

2. Prospettiva e funzione Il percorso teorico che Nietzsche svolge relativamente al problema della verità da cui emerge il motivo antimetafisico inizia già col celebre testo postumo Su verità e menzogna in senso extra­morale, redatto nel 1873. Le riflessioni contenute in questo scritto, che appartiene alla fase in cui l’interesse di Nietzsche si sposta definitivamente dalla filologia alla filosofia, mostrano chiaramente come si stesse sedimentando in lui l’influsso di due opere molto diverse tra di loro, ma accomunate da una matrice kantiana: Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer e la Storia del materialismo di

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Friedrich Lange7. Sulla scorta dell’ontologia e della teoria della conoscenza che si trovano esposte in questi testi, Nietzsche elabora alcune considerazioni sul tema del linguaggio e della verità che possono essere considerate la vera e propria matrice teorica di tutta la sua riflessione successiva. Esse delineano una concezione del linguaggio orientata evoluzionisticamente e in base alla quale il valore delle parole non va oltre la loro funzione di segni di designazione. Il linguaggio, in altri termini, è considerato da Nietzsche come un sussidio adattativo che rende possibile la costituzione di comunità di individui, riuniti appunto da una designazione del mondo condivisa che permette loro di comunicare efficacemente. Nietzsche riferisce in effetti l’origine della nozione di “verità” a questa esigenza di costituire una società: essa è qualcosa di elaborato, di creato; è il risultato di una convenzione linguistica sulla base della quale si determina «una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante»8. Su questo punto la riflessione di Nietzsche opera la prima significativa considerazione epistemologica: le designazioni e le cose non si sovrappongono – osserva Nietzsche – e il linguaggio non è «l’espressione adeguata della realtà»9. Perché sostiene questo? Su che base è possibile difendere tale posizione? Per rispondere a questa domanda occorre guardare al contesto culturale della seconda metà dell’Ottocento e più in particolare all’ambito dei primi studi relativi alla fisiologia della percezione (riportati, in parte, nel testo di Lange). Molto semplicemente, il lavoro svolto da un ricercatore come Johannes Müller, per esempio, aveva rivelato che gli stessi organi

7.  Il principale riferimento di studio su questo resta G. Stack, Lange and Nietzsche, de Gruyter, Berlin 1983. 8.  WL, KSA 1, 877. 9.  WL, KSA 1, 878.

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di senso operano attivamente sul dato esterno, restituendone un’immagine che non è mai pura o immediata10. Ma se le cose stanno in questi termini, allora va ripensato l’intero modello cognitivo e bisogna ridefinire il concetto stesso di rappresentazione, abbandonando l’ipotesi che esso possa costituire un accesso veridico ovvero diretto alla realtà. Per quanto riguarda il linguaggio, in cui trova espressione il nostro mondo della rappresentazione, tale concezione mette in crisi l’idea che esso possegga un valore letterale e apre la strada a posizioni scettiche o per lo meno agnostiche che ammettono che, di fatto, operiamo con mere finzioni e non piuttosto con “verità” (da intendersi qui nel senso tradizionale di una teoria della corrispondenza). Questa è in effetti la tesi che Nietzsche sostiene nel testo del 1873 e da cui segue l’idea che ogni definizione che adottiamo possiede un valore limitato alla sfera umana (culturale, sociale, ecc.) all’interno della quale è stata elaborata e nel cui contesto risiede il suo senso più proprio. L’immagine del mondo costituita dalla somma di tali definizioni non è quindi in alcun modo “veridica”, se con questo si intende il riportare adeguatamente e in maniera non mediata lo stato delle cose. Tuttavia, questa considerazione confligge col realismo del senso comune, che ripone grande fiducia nella rappresentazione linguistica del mondo che ciascuno di noi adotta quotidianamente con tanto successo. Il linguaggio in effetti funziona bene; ci permette di muoverci nel mondo e in un certo senso di dominarlo, ed è questo il motivo della nostra istintiva convinzione che la sua veridicità debba riposare ben più in profondità della sua mera efficacia operativa. La riflessione critica di Nietzsche insiste particolarmente su questo punto, quando per esempio 10.  Alcune interessanti considerazioni su questo discorso si trovano in F. Moiso, Nietzsche e le scienze, a cura di M.V. D’Alfonso, Rosenberg & Sellier, Torino 2021, pp. 47 ss.

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egli osserva che «l’indagatore della verità […] dimentica che le metafore originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse»11. Anche in Umano, troppo umano, di poco posteriore, Nietzsche ribadisce tale idea, sostenendo che il linguaggio ricopre un ruolo essenziale per lo sviluppo della cultura e osservando che l’uomo istintivamente ripone in esso una fiducia eccessiva, considerandolo veridico nel senso più proprio12. Come in precedenza, la questione risiede nel valore che viene attribuito ai segni linguistici, la cui efficacia quali strumenti di comunicazione non può certo essere negata ma che non per questo devono essere riferiti a un fondamento metafisico. L’impressione generale è che Nietzsche intenda mantenere una netta separazione tra due piani di discorso: quello logicolinguistico dei concetti e della verità (o magari delle verità) e quello ontologico-metafisico del mondo esterno (Außenwelt). Il primo costituirebbe il nostro effettivo spazio di azione e comunicazione, mentre il secondo rimarrebbe completamente fuori dalla nostra portata. Il problema, secondo Nietzsche, si pone nel momento in cui si voglia riflettere su quale sia la relazione tra i due piani e specialmente nel momento in cui si abbia la pretesa che il sussidio logico-linguistico di cui disponiamo rifletta adeguatamente l’articolarsi del mondo esterno. Per usare i termini che Nietzsche adopera in una nota del 1888 in cui torna sulla questione qui esposta, il principale errore che si deve imputare al senso comune è quello di confondere un «criterio della “verità”» (la funzionalità del mezzo linguistico) con un «criterio della “realtà”»13. Diversamente, come leggiamo ancora in Umano, troppo umano, la nostra riflessione

11.  WL, KSA 1, 883. 12. Cfr. MA 1, 11. 13.  NF 1888 14[153].

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critica dovrebbe portarci a considerare il “mondo fenomenico” – l’unico piano di “realtà” che davvero ci riguarda – come un quadro prodotto con l’accumularsi di una quantità di errori e fantasie sorti poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato – come tesoro: perché il valore della nostra umanità riposa su di esso.14

Questo abbozzo di concezione evolutiva della conoscenza pone l’uomo al centro del conoscere, in quanto creatore degli stessi oggetti del suo interrogare. «I coloristi siamo stati noi» – continua Nietzsche –, siamo noi gli autori di questo quadro così variopinto ed elaborato da sembrare qualcosa di indipendente dalla nostra mera attività di rappresentazione. Per quanto l’impianto del discorso sia sostanzialmente in linea con quanto Nietzsche aveva sostenuto nel 1873, va notato che l’attenzione si sposta qui dal piano sensoriale a quello intellettuale. Nietzsche non guarda più al modo in cui un dato sensibile venga modificato dalla nostra fisiologia, ma chiama in causa le forme logiche e i concetti che affollano la nostra descrizione del mondo, costituendo quell’ambito che più tardi prenderà nei suoi scritti il nome di «mondo vero». Alla base vi è comunque sempre la medesima idea: il mondo dei fenomeni riportato nella nostra descrizione linguistica è un mondo umano, dal momento che risulta dal nostro intervento attivo sul dato sensibile. Per quanto ci si possa sforzare di riflettere sui caratteri di un presunto piano metafisico, non ci sarà comunque mai possibile accedere ad esso, dal momento che «noi vediamo tutte le cose con la testa umana, e non possiamo tagliare questa testa»15. Per questo motivo, conclude Nietzsche, ogni 14.  MA 1, 16. 15.  MA 1, 9.

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interrogare metafisico è sostanzialmente poco interessante e anzi indifferente: lo spazio del nostro giudizio non si estende oltre questo limite fenomenico e le nostre valutazioni non dovrebbero prescindere da ciò. Una simile considerazione si trova anche nel paragrafo 110 della Gaia scienza, da cui è tratta la prima delle due frasi poste in esergo e in cui Nietzsche ribadisce l’idea che il nostro piano di discorso sia costituito dal complesso di concetti elaborati nel corso dell’evoluzione della nostra specie e quindi sulla base di un’esigenza adattativa. Nietzsche ammette inoltre che tali concetti siano di fatto erronei, dal momento che risultano da un intervento attivo che modifica il dato originario. Non si tratta quindi di una corrispondenza con lo stato delle cose, di una riproduzione diretta o letterale della realtà, ma piuttosto di una sua elaborazione intellettuale. Da questo segue che il valore di tali concetti non può essere giudicato a partire da un loro confronto con ciò a cui si riferiscono: «La forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità – osserva Nietzsche –, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita»16. Ecco, quindi, come egli passa dal contenuto alla funzione, come avevo anticipato: svincolato dal riferimento a un piano ulteriore, il giudizio può essere valutato solamente a partire dalla sua operatività, dal modo in cui esso interagisce col nostro contesto pratico di azione. Inoltre, assieme agli «errori», tra le «potenze intese alla conservazione della vita» Nietzsche inserisce anche l’«istinto di verità»17, spogliando dunque quest’ultima di ogni connotazione metafisica che le sia stata tradizionalmente attribuita. È a questo punto che egli pone la questione relativa alla possibilità di assimilare una verità – nel momento in cui questa sia stata

16.  FW 110. 17.  Ibidem.

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privata di ogni consistenza e non risulti essere nulla più che una funzione valutativa; nel momento in cui, cioè, essa non possa più costituire l’ago della bussola da utilizzare per orientarsi nei meandri labirintici dell’esistenza. L’attenzione di Nietzsche per le questioni sin qui considerate si mantiene coerente anche negli anni in cui egli introduce uno degli elementi tematici più noti della sua produzione matura: il prospettivismo. Nella prefazione a Al di là del bene e del male, Nietzsche si esprime criticamente nei confronti del dogmatismo platonico radicatosi in Europa (leggi: Occidente), che egli considera un errore che nega di fatto «il carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita». Tale errore si manifesta in forma ancora più evidente nella già menzionata «volontà di verità», che Nietzsche considera essere il nucleo dell’intero sistema di pensiero metafisico contro cui muove la propria crociata filosofica18. Nella volontà di verità, ovvero nella pretesa di poter attribuire un valore in sé ai nostri giudizi di valore e, su questa base, suddividere il mondo in rigide dicotomie del tipo “buono e cattivo”, “vero e falso”, ecc., risiede infatti «il tipico pregiudizio da cui si rendono riconoscibili i metafisici di tutti i tempi»19. Da quanto è stato detto sopra si può capire perché Nietzsche respinga tale posizione. Come egli osserva, «è infatti lecito dubitare […] se quei popolari apprezzamenti e antitesi di valori sui quali i metafisici hanno stampato il loro suggello non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali, prospettive provvisorie»20. La questione principale riguarda il piano di giustificazione di tali antitesi e soprattutto dell’attribuzione di un valore maggiore a uno dei due termini rispetto all’altro. Il contesto che Nietzsche individua è ancora una volta funzionale

18.  JGB 1. 19.  JGB 2. 20.  Ibidem.

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o strumentale e si basa sulle stesse premesse evolutive esposte in precedenza: gli «apprezzamenti di valore» sono infatti per lui mere «esigenze fisiologiche di una determinata specie di vita» e vanno giudicati sulla base dell’«importanza regolativa [che essi hanno] per noi»21. Tra tali apprezzamenti di valore troviamo naturalmente la dicotomia “vero” e “falso”, la cui contrapposizione viene discussa criticamente da Nietzsche. Una volta ammesso che «l’erroneità del mondo, in cui crediamo di vivere, è l’aspetto più sicuro e più saldo di cui possono ancora impadronirsi i nostri occhi», Nietzsche rifiuta infatti di ammettere «che la verità abbia maggior valore dell’apparenza», sottolineando che proprio l’elemento prospettico e illusorio rappresenta il contenuto maggiormente rilevante per noi. Com’è noto, la sua proposta è quindi di abbandonare tale dicotomia e «riconoscere diversi gradi di illusorietà e apparenza», ipotizzando persino che «il mondo, che in qualche maniera ci concerne, – potrebbe essere una finzione»22. Il passaggio che Nietzsche compie in quest’ultimo paragrafo di Al di là del bene e del male è particolarmente rilevante, perché egli adotta una posizione “gradualista” relativamente all’attribuzione del valore di verità e falsità di una conoscenza. Più in particolare, Nietzsche suggerisce l’idea che quello di “verità” sia un concetto fluido, che dipende semanticamente dal polo opposto della relazione in cui si trova inserito (senza un “apparente” e un “falso” non vi può essere un “vero”, e viceversa). Egli cerca quindi di elaborare un nuovo modello di valutazione basato sul fatto che, per esempio, nel caso di un sapere che non potrà mai in alcun modo essere metafisicamente fondato sia comunque possibile determinare una scala di valori. Come dire che non tutte le “falsità” (o “illusioni”) sono ugualmente

21.  JGB 3. 22.  JGB 34.

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false e che piuttosto alcune di esse – per esempio in un certo contesto di azione – possono essere assunte come riferimenti relativamente stabili del giudizio. Il concetto di verità non va quindi completamente respinto, ma piuttosto ripensato dal suo interno e ridefinito per l’appunto semanticamente. La chiave per fare questo consiste secondo Nietzsche nell’incorporare in tale concetto il motivo prospettivistico o comunque relativistico di cui egli parla più espressamente in due altri luoghi fondamentali del suo pensiero. Il primo di questi è GM III, 12, in cui si trova la celebre considerazione di Nietzsche secondo cui: Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere» prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra «obiettività».23

L’idea che sembra emergere in questo caso è quella di una molteplicità di punti di vista che guardano a uno stesso (presunto) elemento, che sarebbe appunto il nucleo fisso del nostro osservare. La somma dei punti di vista, delle prospettive che intervengono su tale nucleo, ne restituirebbe una descrizione “oggettiva” e “completa”. Ma a chi volesse argomentare che in questa sede Nietzsche difende un certo tipo di realismo metafisico si potrebbe obiettare che il suo discorso pare essere prima di tutto orientato a una critica della tesi opposta in base alla quale se si prescindesse da tutte le prospettive possibili di osservazione su un dato “oggetto”, si rimarrebbe col contenuto fisso essenziale di quest’ultimo – ovvero con l’“oggetto in

23.  Cfr. C. Gentili, Prospettiva e ascetismo. Una lettura di GM III 12, in B. Giacomini - P. Gori - F. Grigenti (a cura di), La Genealogia della morale, cit., pp. 211-238, per alcune riflessioni analitiche su questo passaggio (da cui ho tratto le mie considerazioni successive).

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sé”. Un’ipotesi del tutto implausibile, per Nietzsche, e persino contraddittoria, dal momento che la nostra relazione col mondo si svolge per lui sempre a partire da una rappresentazione di quest’ultimo filtrata dal nostro apparato sensoriale e cognitivo. Dal punto di vista puramente teorico, non abbiamo in effetti nessuna garanzia che l’elemento che pensiamo di osservare in effetti vi sia – o per lo meno che vi sia qualcosa che possegga esattamente le proprietà da noi descritte. In altri termini, Nietzsche sembra volersi concentrare sull’idea che quello che una cosa è risulta dalla combinazione delle varie prospettive di osservazione e non dalla loro sottrazione. Ragionando in tal senso, potremmo quindi dire che i concetti di oggettività e completezza che egli chiama in causa in questo paragrafo non sono che concetti limite, punti di arrivo ideali di un percorso di elaborazione degli oggetti della conoscenza di cui non si vede la fine. Il secondo testo in cui il tema del prospettivismo è particolarmente trattato è il paragrafo 354 del quinto libro della Gaia scienza (coevo a Al di là del bene e del male perché aggiunto alla seconda edizione dell’opera nel 1887, ma già redatto nel 1886). Si tratta di un testo estremamente denso e filosoficamente interessante, in cui Nietzsche riprende le considerazioni sull’origine del linguaggio come mezzo comunicativo elaborate nel 1873 e le svolge ulteriormente collegandole a questioni relative alla natura della coscienza. Nella parte finale del paragrafo, Nietzsche definisce il “prospettivismo” come l’idea che «il mondo di cui possiamo avere coscienza è solo un mondo di superfici e di segni» e «che a ogni farsi della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione e falsificazione»24. 24.  FW 354. Su questo tema centrale della riflessione di Nietzsche si veda ad es. L. Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla coscienza negli anni 1880-1888, ETS, Pisa 2006; M. Riccardi, Nietzsche’s Philosophical Psychology, Oxford University Press, Oxford 2021.

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Il piano della conoscenza (ciò di cui diventiamo coscienti) è per Nietzsche il momento finale di un percorso cognitivo per nulla passivo, ma che anzi modifica il dato originario e ce ne restitui­sce un’immagine – almeno con buona probabilità – alterata. A partire da questo presupposto, egli conclude in effetti che non vale neppure la pena prendere in esame «il contrasto tra “cosa in sé” e fenomeno: giacché siamo ben lontani dal “conoscere” abbastanza, per poter pervenire anche solo a una tale distinzione. Non abbiamo appunto alcun organo per conoscere, per la “verità”»25. In quanto posizione che prende in considerazione come significativo il solo piano della conoscenza umana, senza preoccuparsi della sua effettiva corrispondenza con la real­tà esterna e anzi dando rilievo proprio al fatto che la prima intervenga attivamente sul dato esterno, il prospettivismo costituisce il modello di conoscenza alternativo a quello dogmatico dal quale Nietzsche cerca di allontanarsi26. A suo avviso, infatti, quest’ultimo resta vincolato alla necessità di giustificare il sapere a partire da un riferimento metafisico al quale molto semplicemente non ci è dato di accedere e che quindi resterà sempre al di fuori dalla nostra portata. La sfida di Nietzsche, il suo contributo originale, consiste precisamente nell’invitarci a fare nostro questo principio scettico e riorientarlo in un senso nuovo, che non si fermi a uno sterile relativismo o a un nichilismo incapaci di comprendere che un tipo alternativo di valutazione sia comunque possibile. Il percorso di riflessione di Nietzsche ha come punto di arrivo l’idea espressa nel secondo passo che ho posto in esergo e che si trova in un frammento postumo del 1887. In questa nota, 25.  FW 354. 26.  In FW 354, Nietzsche in effetti mette in relazione prospettivismo e fenomenalismo. Cfr. su questo P. Gori, Il pragmatismo di Nietzsche. Saggi sul pensiero prospettivistico, Mimesis, Milano-Udine 2016, capp. 2 e 3; C. Gentili, Introduzione a Nietzsche, il Mulino, Bologna 2017, cap. 3.

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Nietzsche ripercorre quanto considerato precedentemente, per esempio in merito al valore fittizio della categorizzazione logica del mondo in antitesi che «non esistono in sé», ma «esprimono solo diversità di grado, che si presentano come antitesi per una certa misura prospettica»27, per poi osservare che l’attribuzione di un valore di verità si riduce a un’operazione di sistematizzazione e inclusione in uno spazio categoriale rigido e (pertanto) artificiale. «La volontà di verità è un rendere saldo, un rendere vero-durevole»; di conseguenza: La verità non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo […]: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa ‹ che › sia «in sé» fisso e determinato.28

Pur trattandosi di una nota postuma e quindi di una pagina di appunti, per quanto elaborati e articolati, questo frammento è per me rilevante perché Nietzsche rende esplicito qualcosa di nuovo relativamente al tema della verità: l’idea di una processualità dinamica quale piano di senso della stessa valutazione del conoscere. In questo passo, la verità perde completamente ogni riferimento sostanzialistico e diviene pura funzione. L’“essere vero” diviene un “farsi vero”; la verità non è più, per l’appunto, qualcosa che si possa ricercare e magari scoprire, ma è piuttosto qualcosa che occorre costantemente creare e che si determina all’interno di un contesto di riferimento in continuo mutamento. A mio avviso, questa osservazione rappresenta il contenuto più originale della riflessione di Nietzsche, l’elemento di novità che egli introduce nel panorama filosofico occidentale. Tale aspetto può essere però valutato in maniera ancor più significativa se lo si osserva dal

27.  NF 1887-1888 9[91]. 28.  Ibidem.

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punto di vista della storia del pensiero e lo si considera come momento di passaggio di un percorso che inizia con Kant e arriva sino ai giorni nostri. A questo aspetto dedicherò le mie considerazioni conclusive.

3. Percorsi contemporanei La tesi epistemologica che Nietzsche elabora nel corso della propria attività filosofica sembra potersi inserire in una matrice pragmatista orientata a risolvere il problema del relativismo che segue dalla premessa generale antifondazionalista (epistemica e assiologica). Tale matrice si fonda sulla più ampia considerazione che il nostro approccio al mondo è e sempre sarà situato nella prospettiva di osservazione umana e che quindi non vi sia o perlomeno non ci sia possibile accedere a un piano metafisico di valutazione del giudizio. Se si vuole mantenere la possibilità di esprimere tale giudizio, occorre quindi spostare l’attenzione al piano di applicazione di quest’ultimo, alla sua funzione operativa. L’esito di tale giudizio, il modo in cui esso determinerà per esempio lo svolgersi di un ragionamento o, in maniera ancora più concreta, lo svolgersi di un’azione pratica, costituirà per noi il riferimento dell’attribuzione di valore. In altre parole, un giudizio non avrà più un valore in sé, ma per noi; un valore che quindi sarà relativo a un dato spazio di azione teorica o pratica (non per forza individuale, ma che può essere condiviso come nel caso di un ambito culturale o sociale). Quello che importa è che tale valutazione possa in effetti svolgersi e che quindi il motivo relativistico non rappresenti un vicolo cieco inevitabile. A mio avviso, si può dire che Nietzsche sostenga tale posizione. La sua critica al modello dogmatico di valutazione si concentra infatti sull’inconsistenza di questa idea sul piano metafisico

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(l’attribuzione di un “valore in sé” ai nostri giudizi epistemici e assiologici) e guarda alla funzione del giudizio, al modo in cui esso opera concretamente nel contesto di azione cui si riferisce, quale fondamento per una determinazione di valore comunque coerente e carica di senso. Nietzsche respinge quindi l’idea che un giudizio – nel nostro caso epistemico – possegga un valore letterale, ovvero che esso sia una rappresentazione diretta dello stato di cose, ma non nega che un qualche tipo di valore possa comunque essergli attribuito. Tale valore sarà naturalmente limitato, relativo, ma non per questo meno significativo sul piano della sua efficacia operativa. Questo cambiamento operato da Nietzsche è rilevante perché corrisponde a un mutamento di prospettiva che si mantiene nella contemporaneità filosofica, soprattutto nell’ambito dell’epistemologia e della filosofia della scienza. Sono esemplificative, in tal senso, alcune posizioni che recuperano e sviluppano ulteriormente i medesimi stimoli di matrice kantiana che si ritrovano nella riflessione di Nietzsche, adottando oltretutto una terminologia che appartiene allo stesso testo nietzscheano. Mi riferisco al finzionalismo e al prospettivismo scientifico. La prima di queste posizioni si rifà all’opera del post-kantiano Hans Vaihinger, che nel 1911 diede alle stampe un’opera dal titolo La filosofia del come-se in cui si proponeva di trattare sistematicamente il modello finzionale con cui ci orientiamo nel mondo29. Le “finzioni” sono per Vaihinger le varie credenze ed

29.  Su Vaihinger cfr. M. Neuber (a cura di), Fiktion und Fiktionalismus, Beiträge zu Hans Vaihingers ‘Philosophie des Als Ob’, Königshausen & Neumann, Würzburg 2014. Per un confronto tra Vaihinger e Nietzsche (e, più in generale, sul tema del finzionalismo relazionato a quest’ultimo) cfr. ad es. C. Gentili, Hans Vaihinger e la proposta di un “prospettivismo idealistico”. Nietzsche e Kant nella prospettiva del “come-se”, in «Dianoia», n. 22, 2016, pp. 87-105; J. Remhof, Scientific Fictionalism and the Problem of Inconsistency in Nietzsche, in «Journal of Nietzsche Studies», vol. 47, n. 2, 2016,

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“errori ottici” che elaboriamo nei diversi ambiti del sapere e ai quali pertiene un mero valore strumentale. Senza entrare nel merito di una ricostruzione delle tesi di Vaihinger, basti dire che egli fonda le proprie riflessioni sulle stesse considerazioni psico-fisiologiche che si trovano in Lange e Nietzsche (ai quali oltretutto fa diretto riferimento). In particolare, Vaihinger osserva che le finzioni costituiscono di fatto il nostro concreto spazio di azione e che il compito della “filosofia critica” deve semplicemente essere quello di mettere in evidenza la loro inconsistenza metafisica. La funzione dei concetti quali «principi di orientamento pratico nel mondo»30 è l’unico criterio di cui abbiamo bisogno per poter dire che essi siano o meno validi, e questo naturalmente implica la necessità di ripensare il significato più proprio di nozioni come “conoscenza”, “verità” e “falsità”. Più in particolare, dal momento che possiamo solo avere a che fare con una realtà mediata e quindi modificata in qualche modo, occorre ammettere che «il mondo della rappresentazione che tradizionalmente chiamiamo “verità” sia solamente l’errore più efficace, ovvero il sistema di idee che ci permette di operare con e sulle cose nella maniera più rapida, semplice e sicura»31. Infine, Vaihinger sostiene che «i limiti tra verità ed errore sono mobili, come qualsiasi altro limite, per esempio quello tra caldo e freddo. […] La differenza tra questi due concetti è solamente una differenza di grado»32. Come dicevo, questi fondamenti epistemologici – che, come si vede, rispecchiano nettamente la riflessione nietzschea-

pp. 238-246; P. Gori, Il pragmatismo di Nietzsche, cit., cap. 4; P. Gori, Nietzsche’s Fictional Realism. A Historico-Theoretical Approach, in «Estetica. Studi e ricerche», IX, 2019, pp. 169-184. 30.  H. Vaihinger, Die Philosophie des Als-ob, Meiner, Leipzig 19227, p. 92. 31.  Ivi, p. 193. 32.  Ibidem.

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na – sono stati recuperati in epoca recente per discutere il valore ascrivibile a elaborazioni astratte che descrivono eventi empirici quali sono ad esempio i modelli teorici. In questo contesto finzionalista è stata per esempio suggerita l’opportunità di abbandonare la pretesa che il linguaggio scientifico sia espressione di una «verità letterale», dal momento che è sufficiente che esso sia «abbastanza vero [true enough]» per poter essere adoperato con efficacia33. Tale premessa comporta però la necessità di attribuire un valore differente alla stessa dicotomia tra verità e falsità e, di conseguenza, di abbandonare l’idea che tale dicotomia riporti a una separazione radicale. Come osserva Paul Teller34, nella pratica scientifica vi è in effetti spazio per una concezione moderata che si riferisca a gradi di illusorietà nel momento in cui si sia chiamati a determinare la veridicità di una rappresentazione del mondo. Questo significa che alcuni modelli teorici dichiaratamente falsi (ovvero non veri letteralmente) possono essere adeguatamente adottati come se fossero veri, beninteso in un determinato spazio di azione e di studio. Teller rimanda alle mappe quale esempio di «rappresentazione della realtà accurata ma non completamente esatta»35 alla quale è possibile attribuire un grado di verisimiglianza soddisfacente. Tali modelli ci permettono in effetti di relazionarci efficacemente con la realtà esterna cui si riferiscono e per questo vengono adottati senza bisogno di assumere nei loro

33.  Questo accade in particolare nel momento in cui sia possibile accertarne una “adeguatezza relativa” al contesto in cui si sta operando o agli interessi di ricerca che si perseguono. Cfr. P. Teller, Fictions, Fictionalization, and Truth in Science, in M. Suárez (a cura di), Fictions in Science. Philosophical Essays on Modeling and Idealization, Routledge, New York-London 2009, pp. 235-247: p. 236. 34.  Ivi, p. 237. 35.  Ibidem.

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confronti un compromesso metafisico radicale. Naturalmente, resta sempre in piedi una premessa empirista per cui il modello teorico deve confrontarsi in qualche misura col dato che descrive, ma proprio in questo aspetto risiede il punto di incontro tra realismo e costruttivismo. Su tale considerazione si regge per esempio l’argomentazione di Ronald Giere a favore del prospettivismo scientifico, una posizione che per diversi aspetti si muove sulla falsariga del finzionalismo: se il realismo metafisico è difficile da sostenere in ambito scientifico, un più moderato realismo prospettico che incorpora elementi costruttivisti potrebbe avere maggiore successo. L’idea di Giere è abbastanza semplice, ma proprio per questo, a mio avviso, molto efficace. Soprattutto, come nel caso precedente possiamo ritrovare alcuni aspetti propri del ragionamento nietzscheano e del cambiamento da lui apportato alla questione epistemologica. Molto in breve, Giere osserva che l’attività scientifica è talmente impregnata di giudizi e valori umani da non poter elaborare una descrizione letterale della struttura del reale36. Questa idea trova ulteriore fondamento in una concezione naturalistica fallibilista per cui nulla di quello che possiamo dire, per quanto possegga una buona base empirica, potrà mai essere completamente oggettivo, ossia “vero” in un senso metafisico37. Secondo Giere, però, da tale considerazione non segue necessariamente una conclusione relativistica scettica che nega la possibilità di elaborare una visione condivisa della realtà. Al contrario, vi sono diversi esempi di come questo si possa realizzare: uno di essi è quello delle mappe, di cui si è detto sopra; un altro esempio – forse più interessante per via della sua base biologica – è quello della visione dei co-

36.  Cfr. R. Giere, Scientific Perspectivism, Chicago University Press, Chicago 2006, p. 8. 37.  Cfr. ivi, p. 11.

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lori. Quest’ultima rappresenta per Giere il caso maggiormente esemplificativo di un vedere prospettico: pur essendo il prodotto di un’elaborazione sensoriale, Giere osserva che i colori sono infatti “abbastanza reali” perché dipendono dalla relazione tra una componente attiva (umana, individuale) e una base empirica che non può in alcun modo essere trascurata38. D’altra parte, la componente fisica non offre comunque un riferimento naturalistico univoco, perché è possibile che proprietà fisiche diverse restituiscano la medesima sensazione di colore (sempre nel momento in cui interagiscano con l’apparato visivo umano, indipendentemente dal quale il solo parlare di colori è privo di senso39). Per Giere40, i colori non sono quindi proprietà che appartengono solamente alla luce e/o alla superficie di rifrazione, né esclusivamente all’apparato visivo; essi vanno piuttosto considerati come “predicati relazionali” che risultano dall’interazione tra l’organismo e il suo ambiente41. Sulla base di tali considerazioni, si può dire che risultato di questo processo percettivo non sia mai una determinazione obiettiva del reale, ma neppure una costruzione soggettiva che non abbia presa sullo stato delle cose. Secondo Giere, questo discorso vale anche per la strumentazione scientifica e financo per i modelli teorici adottati nei vari campi di ricerca. In entrambi i casi si ha a che fare con qualcosa che si applica solamente ad aspetti specifici del mondo e mai con una precisione completa. «L’aspetto ineludibile, per quanto banale – osserva Giere (ma potrebbe essere Nietzsche a parlare) –, riguarda il fatto che la strumentazione

38.  Cfr. ivi, p. 14 e cap. 2. 39.  Cfr. ivi, p. 27. 40.  Cfr. ivi, p. 31. 41.  Cfr. S.E. Palmer, Vision Science. Photons to Phenomenology, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1999, p. 95, a cui Giere rimanda.

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e le teorie scientifiche sono una creazione umana. Molto semplicemente, non possiamo oltrepassare la nostra prospettiva umana»42. Questo elemento di contingenza può però essere positivamente incorporato, senza con questo dover difendere la tesi relativista tanto radicale quanto la posizione opposta dell’oggettivismo metafisico. Giere suggerisce pertanto di riconsiderare i limiti e le potenzialità del sapere scientifico, ammettendo che «il realismo prospettico è il maggior grado di realismo che la scienza ci possa offrire»43 e che la stessa semantica del nostro modello conoscitivo vada ridefinita, a partire dai concetti di “verità”, “oggettività” e “realtà”. Non mi soffermo ulteriormente su questo discorso se non per osservare che tali concezioni si fondano su un percorso teorico che ha origine in Kant e al quale Nietzsche contribuisce in maniera determinante44. È precisamente questo l’aspetto su cui vorrei chiudere, recuperando quanto osservato in precedenza. Quando ci si domanda che cosa cambi con un autore, penso sia importante chiedersi anche “perché cambia qualcosa?”. Nel caso di Nietzsche, il “cosa” sono gli oggetti del nostro sapere – non gli oggetti in sé, naturalmente, ma il loro statuto, il loro valore, che con Nietzsche perde definitivamente qualsia­si riferimento metafisico. Tale cambiamento avviene perché Nietzsche osserva il contenuto del nostro sapere da un punto di vista diverso, facendo propri i principi di una tradizione che alla sua epoca si sta diffondendo in vari ambiti disciplinari. Nietzsche intercetta questa traiettoria e ne trae alcune conclusioni filosoficamente rilevanti (in questo sen42.  R. Giere, Scientific Perspectivism, cit., p. 15. 43.  Ivi, p. 16. 44.  Cfr. su questo ad es. M. Massimi - C.D. McCoy (a cura di), Understanding Perspectivism. Scientific Challenges and Methodological Prospects, Routledge, London 2019; M. Massimi, Perspectival Realism, Oxford University Press, Oxford 2022.

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so il suo contributo è ulteriormente originale), ed è pertanto possibile rendere conto del motivo per cui le sue riflessioni possano dialogare – seppur indirettamente – con tradizioni di pensiero solo apparentemente lontane da quella cui egli appartiene. L’esempio del recupero contemporaneo di finzionalismo e prospettivismo serve precisamente a mostrare come le novità che Nietzsche introduce nel pensiero occidentale posseggano una continuità che conduce sino ai giorni nostri e ancora adesso possano offrire spunti di riflessione mantenendosi sostanzialmente inalterate. Il processo di alterazione semantica dei concetti chiave dell’epistemologia e della teoria della conoscenza che egli ben identifica ha infatti determinato dei cambiamenti significativi che restano tutt’oggi in vigore non solo nelle nozioni con cui opera la filosofia, ma anche – e aggiungerei in maniera ancor più decisiva – nei concetti che definiscono il nostro concreto spazio di azione teorica e pratica.

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Una potenza senza possibilità Nietzsche megarico Rocco Ronchi

1. Sanctus Januarius Il titolo avrebbe forse dovuto contemplare un punto interrogativo. È infatti una ipotesi ermeneutica sulla più celebre espressione nietzscheana, der Wille zur Macht. Da dove partire, allora, per provare a rispondere a questa strana domanda che pone il più “moderno” e il più controverso dei filosofi sulla scia di un pensiero arcaico apparentemente degno soltanto di una erudita curiosità storiografica? Per rispondere prenderò le mosse dall’aforisma 276 della Gaia scienza, Zum neuen Jahre, che apre il quarto libro intitolato Sanctus Januarius. Scritto nel gennaio del 1882, esso contiene i buoni propositi del filosofo «per l’anno nuovo». C’è qualcosa di fanciullesco in queste righe. Nietzsche, da bambino coscienzioso, si sta impegnando per il futuro prossimo, enunciando la legge, il pensiero supremo al quale si atterrà in tutti i suoi comportamenti a venire (l’anno che si apre sarà in realtà assai agitato, segnato com’è dalla rottura con Lou Andreas Salomé e dalla cocente delusione che ne seguirà, fatto che metterà a dura prova i propositi della notte di Capodanno1). Ecco cosa si augura Nietzsche ri1.  Oppure, come sostiene Rossella Fabbrichesi, verificandoli. Nietzsche dovrà infatti assumere e fare propria una ferita narcisistica. Cfr. R. Fabbri-

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volgendosi a se stesso come all’Altro verso il quale si impegna solennemente: Per l’anno nuovo. Io vivo ancora, io penso ancora: io devo vivere ancora perché devo ancora pensare. Sum, ergo cogito; cogito, ergo sum. Oggi ognuno si permette di esprimere il suo augurio e il suo più caro pensiero: ebbene, voglio dire anch’io che cosa oggi mi sono augurato da me stesso e quale pensiero quest’anno, per la prima volta, m’è venuto nel cuore – quale pensiero deve essere per me fondamento, garanzia, dolcezza di tutta la vita futura! Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che v’è di bello in loro: così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore! Non voglio muovere guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori. Guardare altrove sia la mia unica negazione! E, insomma: quando che sia, voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!2

2. Guardare altrove Il pensiero che deve essere «fondamento, garanzia, dolcezza di tutta la vita futura», il pensiero che riscatta e che salva, il pensiero che segna una metamorfosi radicale in colui che lo pensa, è il pensiero della «necessità». Apprendere a vedere la «necessità» in tutte le cose è contemplarne infine la bellezza e divenire, grazie a questo apprendimento per nulla semplice, “belli e buoni”. «Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore!». Cioè, volgere le spalle al negativo, non muovere guerra al brutto, guardare altrove (Wegsehen), essere soltanto ein

chesi, Vita e potenza. Marco Aurelio Spinoza Nietzsche, Cortina, Milano 2022, pp. 142 s. 2.  FW, Sanctus Januarius, 159.

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Jasagender. Nietzsche è costretto a queste immagini non per l’enfasi retorica che talvolta vizia la sua prosa, ma per sfuggire (almeno per provare a sfuggire) alla paralizzante obiezione sofistica: se infatti si limitasse ancora a negare il negativo confermerebbe in actu exercito quanto sconfessa in actu signato. Perciò guardare altrove sarà la sua unica negazione. Bisogna prenderlo in parola per comprendere il suo proposito di inizio anno: guardare altrove non è negare. Per negare bisogna dire di no, bisogna rapportarsi a un giudizio affermativo precedente o a un giudizio “possibile” per contestarne il valore di verità. La negazione non è simmetrica all’affermazione, non ha nessuna apofanticità, non mostra uno stato di cose; il “no” si rivolge al detto di un altro facendolo emergere come tale, in quanto detto. Se “X è A” è un’immagine di uno stato di cose X, l’enunciato “X non è A” non è apofantico, non mostra qualcosa di X, ma si riferisce, per negarlo, al contenuto proposizionale di un enunciato. Il suo oggetto non è X, ma il detto “che X è A”. Solo in questo senso indiretto e totalmente semiotico “dire di no” ha allora una dimensione apofantica. Ciò di cui abbiamo notizia nel giudizio negativo non è “qualcosa”, come nell’affermazione, ma un oggetto di nuovo tipo, un «oggettivo [Objektiv]», che, come ha notato Alexius Meinong, non ha bisogno di essere reale per «consistere»3. Per negare bisogna insomma dialogare, la negazione è, come scrive Bergson, un inizio o, forse, è l’inizio stesso della società e perciò anche della guerra, che di ogni società chiusa è l’ombra funesta che sempre, per ragioni di struttura, l’accompagna4. Guardare altrove è invece un atto puramente afferma3.  Cfr. A. Meinong, Teoria dell’oggetto, tr. it., a cura di E. Coccia, Quodlibet, Macerata 2003. 4.  Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, ed. it. a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2002, pp. 223 s. Per Bergson la societas nasce chiusa ed è regolata solo dal dualismo amico-nemico. La società aperta differisce per natura

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tivo. Ed è un atto pacifico come il fiorire dei fiori o il cadere dagli alberi dei frutti troppo maturi, che sono delle negazioni (l’altrove rimanda infatti a un non-questo: il fiore è la “negazione” del seme, il frutto quella del fiore, ecc.) soltanto per noi che parliamo. Nei processi naturali però non ci sono negazioni così come non ci sono errori. Nei processi naturali c’è cambiamento, anzi in natura c’è solo del passaggio senza che questo comporti negazione alcuna. Per il filosofo Nietzsche, amor fati significa dunque farla finita con il negativo. Bisogna però assumere fino in fondo tutta l’aporeticità segnalata dall’obie­zione sofistica. Il “fato” che il filosofo deve apprendere ad amare non è infatti la luce del sole alla quale si volge fiducioso il giglio del campo, che nulla ne sa del nulla. Il fatum è dopotutto il participio neutro di fari (dire), il fato è ciò che è stato detto una volta per tutte con valore performativo. La societas e il polemos sono presupposti5. Anche il sovrano sì del filosofo è frutto di un “dire”: «quando che sia – scrive Nietzsche – voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!”». Per evitare che il sofista ottenga allora una troppo facile vittoria, ribadendo il suo argomento circolare, bisognerà che il dire sia emancipato dal negare. Si dovrà trovare al fondo del rimando del segno, come sua causa, qualcosa che non è più rinvio, qualcosa che è presenza immediata della cosa stessa senza distanza e senza relazione, senza che questo significhi, come troppo spesso è stato fatto, porre accanto al dire logico-veritativo un dire “poetico” che, chissà perché, godrebbe di un qualche accesso all’immediatezza. Vi torneremo in conclusione. dalla chiusa e richiede per esistere un superamento della forma umana di vita (cfr. Id., Le due fonti della morale e della religione, tr. it. di M. Vinciguerra, SE, Milano 2001, pp. 211 s.). 5.  È ciò che mostra Maurizio Bettini a proposito di Roma, città della parola performativa. Nello “stile culturale romano” la civitas fungerebbe sempre da presupposto del fas (stressa radice di fari, da cui fatum). Cfr. M. Bettini, Roma, citta della parola, Einaudi, Torino 2022, cap. XI, § 4.

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3. Ricomporre in uno l’orrida casualità Sono partito da questo proposito nietzscheano per provare a comprendere il senso della volontà di potenza e per avanzare la mia ipotesi “megarica”. Che cos’è l’amor fati di cui parla Nietzsche nella Gaia scienza? Si tenga presente che in altri luoghi della sua opera il fatalismo ha spesso un valore negativo. È indice di un atteggiamento deteriore che deve essere abbandonato dal filosofo: significa infatti la peggior forma di nichilismo, quello passivo6. Qui invece è proposto come chiave d’accesso a una «grande salute». L’amor fati incrocia il tema della “redenzione” o della “salvezza” (die Erlösung) che di lì a pochi anni sarà affrontato nella parte seconda di Così parlò Zarathustra e si trova perciò all’origine dell’altra grande intui­ zione nietzscheana: l’Eterno Ritorno dell’Uguale la cui connessione con la volontà di potenza ha sempre suscitato non poche perplessità negli interpreti. Come può infatti la volontà di potenza essere l’essere dell’ente, se il modo in cui l’ente è nella sua totalità è l’Eterno Ritorno dell’Uguale? Se il «volere» è «ciò che libera e procura la gioia», come coniugarlo con il sentimento deprimente della necessità inviolabile? Nell’aforisma Della redenzione, die Erlösung nomina il compito precipuo del filosofo. Il filosofo per Nietzsche è al servizio dell’Uno. Se è veramente tale, il suo esercizio consisterà nel ricomporre in Uno «ciò che è frammento […] e orrida casualità [grause Zufälle]»7. Il “caso” torna insistentemente nella pagina di Nietzsche, indicando la malattia che la filosofia deve curare. Si noti come Nietzsche individui l’elemento antifilosofico nel sentimento della contingenza dell’ente, che normalmente si pone alla base della pratica filosofica. Che ci sia qualcosa invece del nulla non è per Nietzsche lo starting point 6. Cfr. NF 1887-1888 17, 18. 7.  ZA, Della redenzione, 170.

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della filosofia, ma lo pseudo-problema che si deve dissolvere per ricomporre in uno l’esistenza. L’errore consiste ancora una volta nel privilegio concesso al negativo come chiave d’accesso all’ente. Per chiarire questo punto occorre tornare a uno dei luoghi decisivi della metafisica moderna. Va da sé, affermava Leibniz nel paragrafo 7 dei Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714), che il nulla per l’intelletto «è più semplice e più facile» di qualcosa8. L’affermazione è di straor­dinaria portata, sebbene appaia quasi incidentalmente e sia poco commentata dai filosofi. Essa si trova subito dopo la celebre enunciazione della domanda metafisica fondamentale: perché qualcosa invece del nulla? A rigor di logica “nulla” è per Leibniz e per la metafisica tutta lo stato di default del sistema “ente”. Lungi dal configurarsi come il parossismo della contraddizione, il nulla è per l’intelletto giudicante l’ovvietà indiscutibile. È piuttosto l’esserci di qualcosa che dovrà giustificarsi al suo cospetto esibendo per il suo esserci (invece che non essere o essere altrimenti) una ragione sufficiente. La contingenza è dunque un sentimento ben poco immediato. In real­tà è il frutto di una inferenza che ha la propria premessa nel nulla che va da sé, senza bisogno di ragioni. Appare solo nella sua luce buia. Guardare altrove, per il filosofo, significa allora misurarsi con l’evidenza abissale che non è, come generalmente si crede, l’evidenza del negativo, ma l’evidenza dell’essere come tale: l’evidenza di un’immanenza assoluta dell’essere a se stesso che non conosce via d’uscita alcuna, un’immanenza che rende informulabile a priori la domanda metafisica. Nietzsche la battezzerà Ewige Wiederkunft des Gleichen. Sarà, appunto, il suo «pensiero abissale» sul quale fonderà la possibilità della “redenzione”.

8. G.W. Leibniz, Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, in Id., Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, UTET, Torino 1967, vol. I, pp. 274-282: p. 278.

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Ma come ricomporre in Uno l’orrida casualità? Nietzsche sa bene che il sentimento della contingenza non si può cancellare con un colpo di bacchetta magica. Esso pesa sulla nostra esistenza nella forma del «così fu». La cosa è abbastanza bizzarra. La contingenza, il poter essere altrimenti, indossa infatti nella nostra esperienza ordinaria i panni della necessità inviolabile. L’irrevocabiltà del passato evoca un accadere contingente che, avendo avuto luogo, costituisce per la volontà di potenza il macigno che essa non può spostare. Non c’è infatti un volere a ritroso. Non si delibera sul passato. Temporalizzata, la contingenza assume il volto pietrificato della necessità, non la necessità logica, certo, perché ciò che è stato avrebbe potuto senz’altro non essere stato, ma una necessità metafisica o, come dicono i filosofi, ipotetica, perché sottoposta alla condizione del suo “quando” (otan). Aristotele era stato chiarissimo in proposito: ogni cosa quando è in atto gode di una necessità irrevocabile9. Poco importa che si tratti delle cose di infimo rango, come i capelli, il fango o il sudiciume, che angosciavano il giovane Socrate, o di quelle più sublimi come gli astri del cielo. Ciò che è stato, per il semplice fatto di essere stato, sfugge alla presa della volontà. Il presentarsi della contingenza (del poter esser altrimenti) nella forma della necessità ipotetica, sulla quale non si può nulla, è dunque il senso della «orrida casualità» che inquina la nostra esistenza e che la filosofia dovrebbe sanare.

4. L’equazione megarica Come redimerla allora? La risposta nietzscheana ricorda in prima battuta l’apologo della volpe e dell’uva: trasformare il 9. Arist., De int., 9, 19a 23-24.

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«così fu» in un «così volli che fosse», come egli propone, pare essere solo un escamotage per mettere a tacere, in malafede, un’impotenza radicale. Non arrivo al grappolo d’uva? Poco male, perché non lo desideravo affatto. Amo il fato, insomma, perché non lo posso modificare, ma della genuinità di questo amor è lecito dubitare. In esso si cela un risentimento messo artatamente a tacere. E non vi sarebbe risentimento se l’aro­ma del nulla non pervadesse ogni cosa facendo di essa una possibilità che si è realizzata a scapito di altre che continuano a librarsi come fantasmi intorno ad essa. I rimpianti si nutrono del possibile. Ma la risposta nietzscheana è in realtà assai più sofisticata e assai più onesta di quella in malafede della volpe. Essa chiama in causa la storia della filosofia e riabilita, nel cuore della modernità, il vilipeso argomento megarico. Per i megarici valeva l’equazione perfetta physis : dynamis : energheia, dove i due punti posti al posto del classico segno di eguaglianza stanno a indicare che non vi è relazione (identità) tra i termini evocati, ma immediata e istantanea reversibilità, come nella «azione simultanea» (Wechselwirkung) che, secondo Hegel interprete di Spinoza (anche lui un megarico…), determinerebbe il nesso tra sostanza infinita e modi finiti10. L’equazione megarica afferma che la natura non è nient’altro che potenza e che la potenza non è nient’altro che atto in atto, nient’altro che energheia (nel senso più preciso del termine energheia: essere in esercizio), senza residui di sorta, quando invece tutta la scienza platonico-aristotelica consisterà, lo sappiamo, nell’articolare e nel differenziare questi sensi dell’essere sganciando la potenza dall’atto, la sostanza dalle sue disposizioni, l’essere dai suoi accidenti. L’equazione megarica è l’anticipazione solenne e generalmente trascurata della mas-

10.  Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. II, pp. 233 s.

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sima pragmatica di Charles Sanders Peirce, secondo la quale quello che una cosa significa non è dato dalla sua forma trascendente, ma dagli abiti di condotta che essa effettivamente comporta: una cosa non è nient’altro che ciò che essa può e fin dove e fin quando può11. È stato giustamente notato come il pragmatismo avesse una sua premessa nella definizione dell’ente contenuta nel Sofista platonico, quando per bocca dello Straniero to on è identificato con la dynamis e la dynamis è pensata come produzioni di effetti, per quanto piccoli essi siano12; tuttavia quanto lì viene proposto, per altro all’interno di un contesto dialettico ben delimitato, non è che la pallida eco della tesi megarica, e più in generale presocratica, secondo la quale la dynamis è la ratio essendi e la ratio cognoscendi dell’ente: un ente non è nient’altro che ciò che esso può, la sua individuazione è data dalla sua energheia, dal suo essere in esercizio, cioè da ciò che i pensatori presocratici e i medici ippocratici chiamavano la sua “virtù”.

5. Potenza assoluta e potenza ordinata Nietzsche non si ricollega affatto ai megarici “storici”, che non cita, ma quello che propone al fine di ricomporre in uno l’«orrida casualità» è, di fatto, una revisione dell’argomento megarico alla luce della immensa discussione metafisico-teologica che esso aveva suscitato nel pensiero occidentale (spesso senza che ne fosse riconosciuta l’originaria paternità). Con una formula azzardata potremmo dire che “redimere” signi11.  Ch.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee (CP 5.388-410), in Id., Le leggi dell’ipotesi, tr. it. di M. Bonfantini, R. Grazia e G. Proni, Bompiani, Milano 1984, pp. 115 s. 12. Plat., Soph., 247d 6-e 5.

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fica per Nietzsche ricomporre quella scissione tra “potenza assoluta” e “potenza ordinata” che, nel XIII secolo, era stata introdotta proprio per arginare il megarismo implicito che animava il razionalismo (ad esempio, di un Abelardo) e che si ritrovava agente nel pensiero arabo. Se niente è possibile che non sia realizzato, come sostenuto dai megarici, il margine di manovra di un Dio onnipotente e creatore pareva ai solerti teologi pericolosamente circoscritto al mondo effettivamente creato13. Dio non avrebbe potuto far altro che quello che ha effettivamente fatto. Dunque, per garantire a Dio l’infinità del possibile, bisognava assegnargli, come è stato scritto, una capacity che andasse ben oltre la sua volition14. La distinzione tra potenza assoluta e potenza ordinata era funzionale a questo progetto. La prima designa un insieme più ampio di quello descritto da ciò che Dio ha effettivamente voluto. È la potenza del possibile, cioè del non-contraddittorio. Il possibile in questione è il possibile bilaterale; la potenza del possibile è la potenza dei contrari, la potenza «razionale» che Aristotele, in Metaph., 9, 3, aveva contrapposto all’«irrazionale» potenza dei megarici che è immediatamente il suo atto, senza esitazioni di sorta. La mediazione tra le due potenze era poi data dalla insondabile volontà creatrice di Dio alla quale non era assegnabile alcuna ragione, pena la sua sottomissione a una legge trascendente che ne avrebbe annullato la libertà. Francis Oakley, in un bellissimo saggio di molti anni fa, ha giustamente detto che questa è stata la più potente «contro-idea» partorita dal medioevo teologico e c’è chi ne ha fatto la scaturigine della stessa modernità scientifica, per la quale la contingenza

13.  Per una magistrale ricostruzione della vicenda, si veda E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio. Due immagini di Dio nel dibattito sulla «potentia absoluta» fra XIII e XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1987. 14.  Cfr. W.J. Courtenay, Capacity and Volition. A History of the Distinction of Absolute and Ordained Power, Lubrina, Bergamo 1990.

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radicale dell’ente creato funge da premessa per una indagine spregiudicata (cioè ipotetica-congetturale) del reale15. Di che cosa tale articolazione della potenza era la contro-idea se non della equazione perfetta dei megarici, sconosciuta come tale al pensiero medievale, ma ben presente nella forma del principio di pienezza e di continuità che aveva animato il razionalismo teologico? Per questo principio la potenza infinita di Dio non è altro che l’attualità infinita della sua creazione, la quale non può conoscere vuoti o pause. Tutto è pienezza sebbene in gradi diversi. Il male non ha consistenza in questo universo. Tutto è bene. Ebbene, che cosa Nietzsche pensa con la sua strana formula Wille zur Macht? Gli esegeti ne hanno sottolineato l’ambiguità. Volontà di potenza, è stato detto e ripetuto, non significa “volere la potenza”. Non ha il senso del desiderare qualcosa che non si possiede. Non è il sentimento lacerante di una mancanza vissuta. Nella formula nietzscheana i termini in gioco sono certamente due, volontà e potenza, e questo sembrerebbe implicare una volontà sovrana che si decide per la libera realizzazione di uno dei due corni dell’alternativa, confermando lo schema aristotelico. In realtà, le cose non stanno affatto così. Non c’è una soggettività sovrana che, disponendo del potere come di una capacity, vuole qualcosa. C’è piuttosto una potenza che “vuole” incrollabilmente se stessa e c’è una volontà che, lungi dall’evocare la libertà sovrana del soggetto che può i contrari, ha la strana forma di una obbedienza a un imperativo – l’intensificazione della potenza – al quale è impossibile sottrarsi. Il soggetto della volontà di potenza è la potenza stessa e la volontà di potenza nomina il non poter non attuarsi della potenza: il soggetto non è nient’altro che la potenza e la potenza non è nient’altro che il suo atto in atto. 15.  F. Oakley, Omnipotence, Covenant, & Order. An Excursion in the History of Ideas from Abelard to Leibniz, Cornell University Press, New York 1984.

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L’equazione perfetta dei megarici è così riproposta da Nietzsche e con essa il principio di continuità e di pienezza (nella sua metafisica, esso prenderà la forma della dottrina dell’Eterno Ritorno). Facendo della volontà di potenza l’essere dell’ente e dell’Eterno Ritorno dell’Uguale la modalità in cui l’essere dell’ente si dispiega, Nietzsche si ricollega così a una tradizione tanto illustre quanto minoritaria, se si giudicano gli effetti che questa tradizione ha avuto nel discorso pubblico della filosofia contemporanea, presso il quale è dato invece per scontato che l’ambito del possibile sia più esteso di quello del reale16. Abbiamo come sua fonte senz’altro Spinoza con la sua radicale contestazione della contingenza dell’ente – contingenza che costituiva il dogma della metafisica teologica almeno a partire dal fatidico 7 marzo 1277, quando a Parigi la tesi megarica, nella sua riformulazione araba, fu messa definitivamente all’indice come la più atea delle tesi17 –, ma abbiamo anche Hobbes del De corpore, X, e, soprattutto, Giordano Bruno, per il quale la peggiore blasphemia consisteva proprio nell’articolazione della potenza in assoluta e ordinata18. Se infatti si conferma il modello aristotelico antimegarico proposto in Metaph., 9, 3, allora, secondo Bruno, la semplicità di Dio risulterebbe compromessa. Avremmo, infatti, un Dio che può assolutamente e un Dio che vuole determinatamente, selezionando possibili, come una sorta di monarca assoluto. La sua decisione (potenza ordinata) sarebbe conseguente a una scelta (potenza asso16.  A questo proposito, mi permetto di rimandare al mio La lampada di Vitiello. Sulla potenza e sul possibile, in M. Adinolfi - M. Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello, Inschibboleth Edizioni, Roma 2017, pp. 603-622. 17.  Cfr. L. Bianchi, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990. 18.  Cfr. M.A. Granada, Il rifiuto della distinzione fra potentia absoluta e potentia ordinata di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista di storia della filosofia», n. 3, 1994, pp. 495-532.

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luta). Dovremmo supporre in Dio una potenza maggiore della sua volontà, con la conseguenza di riabilitare l’immagine idolatrica di un Dio sterile, geloso, che si astiene dal comunicarsi integralmente, che rimane in pausa. Si riconfermerebbe così la visione antropomorfica di Dio come di un sovrano capriccioso che dispone liberamente della potenza, mentre per Spinoza come per Bruno Dio è piuttosto il puro automatismo di un atto infinitamente in atto. Tuttavia Nietzsche si discosta da questa tradizione “panteista” perché la sua volontà di potenza, proprio in quanto volontà di potenza e non sola potenza in atto, mantiene un fuoco centrale, conserva cioè un nucleo di irriducibile soggettività che rimanda alla esperienza del limite come sua caratteristica precipua. La volontà di potenza di Nietzsche, a differenza del Dio di Spinoza o di Bruno, è infatti strutturalmente “finita”.

6. Il divenire Sappiamo che la volontà di potenza nomina in Nietzsche l’atto del vivente, l’accadere della vita come vita che vive, dunque essa ha a che fare con la dimensione del divenire, un divenire, però, che non è il flusso omogeneo pseudo-eracliteo. Per Nietzsche, come per tutti i futuri filosofi del processo, da Bergson a Whitehead, il divenire coniuga la continuità con l’eterogeneità zampillando in gocce che sono delle autentiche creazioni. Divenire è creativity, divenire è durata creatrice di imprevedibili novità. Come avviene allora la creazione? Nietzsche risponde: attraverso la posizione dei valori, vale a dire prospetticamente. Ne consegue che essendo incessante posizione del valore, la vita, come tale, non può essere messa a sua volta in prospettiva, cioè giudicata: la vita è al di là del bene e del male. Il valore è un punto di vista immanente alla vita che vive:

110 è il punto di vista di condizioni di conservazione, potenziamento [Erhaltungs-Steigerungs-Bedingungen], la cui vita ha durata relativa entro il divenire.19

I valori “scandiscono” la volontà di potenza segnandone quel­ l’attuazione incessante che ne costituisce l’essenza. Volontà di potenza come intensificazione e come creatività: pieno che crea il pieno, secondo una logica che non prevede per la potenza vacanza alcuna. Un altro aforisma della Volontà di potenza recita: divenire come inventare, volere, negazione di sé, superamento di sé; non un soggetto, ma un fare, un porre, creativamente, niente «cause ed effetti».20

Il sé “negato” e “superato” nell’ubbidienza assoluta all’imperativo “formale” della intensificazione della potenza (ubbidienza dal tratto profondamente kantiano) è il sé immaginario che si reputa padrone dell’agire: in realtà non c’è nessun soggetto siffatto, ma solo un “fare”, un “agire”, solo un “porre creativamente”. È semmai quell’agire senza Io che può meritare il titolo di «soggetto». Il soggetto nel senso psicologico, il soggetto che “vuole” questo o quello, il soggetto morale che “sceglie” e che è responsabile delle proprie azioni, è piuttosto un effetto di rimbalzo del processo, secondo quella strana logica della supplementarità che sarà portata alla luce, nella sua struttura formale, da Whitehead. Quel soggetto è infatti solo il supergetto del processo, il suo risultato che immaginariamente si pone alla sua origine. Non c’è, scriverà Whitehead (riprendendo su questo tema quasi letteralmente Nietzsche, che per altro non conosceva…), un Ego che pensa, c’è un pensiero insonne che si pensa incessantemente, in una presenza fuori

19.  NF 1885-1887 73[247]. 20.  NF 1885-1887 54[297].

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dal tempo. C’è un “esso” che pensa: l’Ego che cogita è un suo pensato, il quale, per una fallacia della concretezza malposta, si insignorisce, après-coup, del fondamento del pensare, divenendo il fantasma del vero soggetto, che è l’agire senza ego, il puro porre creativo21. Non ci sono, quindi, nemmeno cause ed effetti: il divenire scandito dalla posizione dei valori non è un processo lineare-omogeneo. Non si può stabilire un rapporto analitico tra la causa e l’effetto: l’effetto differisce dalla causa per natura e non per grado e l’effetto è qualcosa che contiene altro e “di più” rispetto alla sua causa.

7. La volontà di potenza Essere : agire significa dunque che la potenza non si può esautorare dalla sua attuazione. Gli ambasciatori ateniesi lo rammentano agli abitanti dell’isola di Melo quando reclamano la loro resa incondizionata, nonostante la loro dichiarata neutralità22. Potere, dicono, non è una sostanza e non è un sostantivo. Potere è un verbo ed è un verbo in diatesi media. Dynasthai non esprime un’azione fatta o subita da un soggetto presupposto, come i verbi in diatesi attiva o passiva. La diatesi media indica un processo all’interno del quale si costituisce un soggetto solo di rimbalzo, come l’effetto del processo. Il che significa che a differenza di altre azioni, non si può il potere. Potere non rientra nell’ambito delle disponibilità. Piuttosto si è disposti da esso: non si può che esercitarlo. Il che non significa affatto passività perché grazie a questo esercizio ci si individua come quel soggetto potente che si è e non si può non essere.

21.  A.N. Whitehead, Processo e realtà, tr. it. di M.R. Brioschi, Bompiani, Milano 2019, cap. I, Fatti e forma, § 2. 22.  Cfr. Tucidide, La guerra del Peloponneso, V, 8 5-114.

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La cosa faceva inorridire Simone Weil, che vi leggeva la claustrofobica chiusura del soggetto umano in una immanenza assoluta23. Per rimediare a tale orrore non restava che la via della trascendenza (Weil faceva appello alla giustizia del Dio cristiano), vale a dire il passo fuori dall’immanenza. Ma come compiere questo passo? Come è fatta, in ultima analisi, la “trascendenza” che salva? Essa ha la natura della “riflessione” o, più precisamente, di una certa riflessione oggettivante (e soggettivante) che permette l’articolazione del potere. La trascendenza che salva è il dynasthai che si riflette in se stesso e che si raddoppia in un punto “sovrano”, il punto del soggetto, nella forma di un potere di secondo grado – un meta-potere “più” grande di ogni potere effettivo (mega dynasthai24) – il quale, invece di esercitarsi automaticamente, può il suo stesso esercizio. Il potere diventa così una disposizione del soggetto sovrano. Grammaticalmente è espresso dalla forma echein dynamin, “avere” il potere o la capacità di, la quale prende progressivamente il posto dell’equazione megarica a cui ancora si attenevano gli ambasciatori ateniesi. Potere è ora qualcosa che si possiede (ktesis) e che si può liberamente usare (chresis). Potere è una facoltà. La sua unità di misura non è più data dal suo esercizio ma dalla messa in pausa del suo esercizio, dal potere-di-non (“facoltà” significa potere-di-non). Di questo meta-potere e della libertà che pare assicurare al soggetto che ne dispone Nietzsche si è fatto beffe in tutta la sua opera. La sua critica della morale platonico-cristiana ha lì la sua radice. Ma questo non significa che Nietzsche sposi la necessità del more geometrico spinoziano. La sua potenza, pur non essendo in alcun modo una potenza del possibile, resta infatti una volontà di potenza. Non è solo potenza che si attua, 23.  S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it. di G. Hourdin, Bompiani, Milano 2002. 24.  Espressione usata da Platone in Gorgia, 466e 3, per indicare la tecnica retorica.

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ma in quanto volontà di potenza conserva un fuoco centrale, un nucleo di soggettività ineliminabile. Ciò si deve al fatto che, come abbiamo detto, nell’ipotesi megarica la potenza funziona come ratio essendi e ratio cognoscendi dell’ente. La potenza individua in modi sempre differenti. Possiamo allora dire che Wille zur Macht è il nome che Nietzsche dà a ciò che la “forza” – titolo che assegniamo all’esercizio della potenza in generale, alla energheia (essere : agire) – “può” caso per caso. Chi è Achille? Achille è l’eroe invincibile segnato dal limite strutturale del suo tallone. Chi sono in generale gli eroi? Coloro che sono assegnati a un destino dalla finitezza della loro natura. Non c’è fatum da amare senza fissazione di un limite: ciò che dunque è detto (fatum) una volta per tutte e per sempre dal dire performativo (fari) è il limite. Potenza, in questa prospettiva megarica, che è la prospettiva di Nietzsche, è dunque definizione e il limite è il differenziale della forza. La volontà di potenza, ha scritto Gilles Deleuze, va intesa come un principio essenzialmente plastico non più ampio di ciò che condiziona […]. La volontà di potenza si aggiunge dunque alla forza, ma come un elemento differenziale e genetico, come l’elemento interno della sua produzione.25

Riassumendo: 1) la volontà di potenza non è la forza genericamente intesa (senza che possa essere separata da essa); 2) la volontà di potenza è ciò che la forza può, caso per caso; 3) la volontà di potenza individua (la potenza di Achille non è la potenza di Ettore); 4) la volontà di potenza è definizione; 5) il limite è il differenziale della forza. Conclusione: 6) il limite articola la forza in una pluralità di enti (= potenze) tra loro indefinitamente differenti e tra di loro in relazione (relazioni che sono rapporti di forza).

25.  G. Deleuze, Nietzsche, tr. it. di S. Tassinari, Colportage, Milano 1978, pp. 84-85.

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Ne consegue che alla domanda “che cosa è volontà di potenza?” possiamo rispondere che essa in prima istanza denota una quantità intensiva e non estensiva. Il limite non è una cornice che delimita qualcosa dal di fuori, ma della cosa esprime la immanente potenza reale. Come tale la volontà di potenza è soggettività, è tendenza, è processo. Le “cose” si animano, si fanno “normative” e non più semplicemente “normate”: sono potenze in atto e non il risultato della determinazione di una materia inerte da parte di forme trascendenti. A differenziare gli enti tra di loro e a relazionarli non è la loro pretesa “essenza”, ma il grado intensivo di potenza che essi sono e che non possono non essere. L’esempio canonico fornito da Deleuze ai suoi studenti è quello della grande foresta26. Dove/quando termina? Risposta: dove/quando la sua potenza di radicamento si esaurisce. Fino a quel punto c’è della foresta in atto, secondo l’equazione megarica physis : dynamis : energheia. L’attuosità della potenza è tutta l’essenza della cosa, così come per Spinoza l’essenza di Dio era la sua stessa potenza infinita. Ma proprio l’esempio della foresta, come quello del Dio spinoziano, permette di fare un passo ulteriore nella comprensione della volontà di potenza di Nietzsche. Abbiamo visto che, in quanto potenze, le cose, tutte le cose, nessuna esclusa, sono virtualmente dei “soggetti”. Il sentimento (non il concetto!) del limite immanente alla forza – una sorta di sensus sui della forza – qualifica allora in aggiunta la volontà di potenza nel senso propriamente nietzscheano del termine. La volontà di potenza di Nietzsche è questa esperienza del limite immanente alla forza. La foresta non ha il sentimento del limite, che è così, come il Dio spinoziano non ha il sentimento dell’infinito, che è e non può non essere. Dobbiamo allora supporre

26.  G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, tr. it. di A. Pardi, Ombre corte, Verona 2010, pp. 143-144.

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che ovunque sia presente un “sentire”, vi sia, a livelli diversi, una riflessione della potenza su se stessa, una riflessione d’altra natura, però, rispetto a quella “posizionale” che permetteva una via di fuga dall’immanenza assoluta dell’essere. Quella era appunto un vedersi della potenza come tale, come oggetto posto a distanza e messo a disposizione di un soggetto che ne sarebbe il titolare e ne avrebbe “facoltà”. Quella riflessione era rappresentazione. Qui, nell’immanenza del “sentire”, c’è invece una riflessione senza rappresentazione, senza dualismo soggetto-oggetto. Il vocabolario della intuizione sarebbe forse quello più adeguato a descrivere questa autoaffezione senza distanza, senza rapporto cogitativo di sé a sé. E il vocabolario dell’intuizione, lo ricordo senza poterlo approfondire, ha, non a caso, da sempre privilegiato il sensorio tattile a scapito di quello ottico27. Intuire è toccare/toccarsi/essere toccato, l’intuizione è trauma, non un vedere a distanza nella luce della trascendenza. Sta di fatto che è nel sentimento del limite che la potenza fa esperienza di sé, si dota di un fuoco soggettivo e diviene volontà di potenza. Ma come si esperisce?

8. Eterno Ritorno dell’Uguale E qui ritorna in gioco il fatum che il bambino coscienzioso Nietzsche si impegna ad amare per l’anno che verrà. Nel limite la potenza fa esperienza di sé come Eterno Ritorno dell’Uguale. Nel limite la potenza si riflette in se stessa, ma non si raddoppia in un meta-potere (potere-di-non). Essa è certamente una potenza che, megaricamente, non può non attuarsi, ma,

27.  Si veda R. Ronchi, Metodo dell’intuizione, in R. Lanfredini (a cura di), Filosofia: metodi e orientamenti contemporanei, Carocci, Roma 1922, pp. 99-115.

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appunto, a differenza di quanto presumibilmente accade alla potenza della foresta e di Dio, si sente come un siffatto nonpoter-non. L’eroe omerico, che abbiamo preso ad esempio, non può sottrarsi a una decisione che non dipende da una sua scelta. La necessità (ipotetica) lo individua come quel “chi” che è e che non può non essere. Se la mamma lo ha immerso nello Stige tenendolo per un tallone, i giochi sono fatti: «così fu». Ma il suo tratto eroico dipende dal suo sentirsi assegnato a una necessità inevadibile e a volerla per quel Sé – un Sé radicalmente finito e differente dagli altri – che la potenza in atto ha individuato: «così volli che fosse». L’eroe vuole la potenza che è e che non può non essere, l’eroe vuole assolutamente il suo limite. Le sue scelte operative sono orientate da una decisione irrevocabile che non è, a sua volta, il frutto di una scelta. Bisognerebbe rileggere in questa luce le celeberrime pagine deleuziane sul poeta ferito28. Essere all’altezza dell’evento – nel caso di Joë Bousquet, una schiena spezzata dalla pallottola – significa fare qualcosa di ciò che l’altro ha fatto di me, essere uno che dice di sì, ricomporre in Uno l’«orrida casualità». Ma forse è sufficiente sfogliare le lettere dei condannati a morte della Resistenza per ritrovare sistematicamente confermata questa interpretazione megarica della volontà di potenza. Mai, nelle ultime parole rivolte ai propri cari, si fa riferimento alla dimensione della scelta. Sempre si richiama una necessità inflessibile, un “dovere” che l’occasione ha reso inevadibile. L’eroe è tale perché non ha scelta. Fa, nelle circostanze date, quello che semplicemente non può non fare. L’eroe ama il fato. Figurativamente: morde la testa del serpente che rischia di soffocarlo. Vale per lui quanto Plotino, nel trattato 39, scriveva dell’Occasione (kairos). Quando il kairos si manifesta, il “può” diventa un “si deve” (to deon). 28.  Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, tr. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 133-137.

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Se, come potrebbe obiettare il sofista, l’occasione fa anche l’uomo ladro, se, cioè, è possibile evadere il fatum in una libertà immaginaria (nella libertà della trasgressione), è perché l’apparizione del destino (circulus vitiosus deus) suscita angoscia. L’angoscia non si genera, come crede tutto il Novecento, di fronte all’abisso del nulla, ma gettando un colpo d’occhio nell’abisso dell’essere in atto, nell’abisso del non-poter-non. Zarathustra ne sa qualcosa. Sa quale sia il prezzo esistenziale da pagare per il pensiero dell’Eterno Ritorno. Infatti bistratta il nano e rampogna, seppure con dolcezza, i suoi cari animali. Il primo ha fatto del sentimento del non-poter-non una facile filosofia, ne ha tratto, insomma, un concetto, i secondi ne hanno fatto una poesia, hanno cantato, insomma, una bella «canzone da organetto». Sul piano del detto (fatum) la versione del nano, quella degli animali e quella di Zarathustra sono la medesima versione. Concetto, poesia e intuizione dell’Eterno Ritorno non divergono sul piano del contenuto. La differenza (il differenziale) la fa il sentimento del limite della forza, vale a dire l’amore del fato, che non è né concetto né poesia, ma etica, cioè una ontologia pragmatica e una etologia degli effetti/affetti, come scriverà Deleuze lettore di Spinoza. Potremmo aggiungere che questa etica è, in ultima analisi, anche una estetica trascendentale e una pedagogia dei sensi, perché amare significa imparare a sentire la differenza (l’infinito in atto) come causa immediata di ogni ente finito: Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che v’è di bello in loro: così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore! Non voglio muovere guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori. Guardare altrove sia la mia unica negazione! E, insomma: quando che sia, voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!

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Nietzsche un anti-classico? Carlotta Santini

1. Che cosa cambia con Nietzsche? In introduzione a questo contributo, credo sia utile provare a rispondere alla domanda che costituisce il filo conduttore di tutti gli interventi di questo volume: Che cosa cambia con Nietzsche? Spero con questo di creare le migliori premesse per cercare di rispondere a un’altra domanda, quella posta a titolo del mio intervento: Nietzsche un anti-classico? Che cosa cambia con Nietzsche? Tutto e nulla. Quella di Nietzsche può essere considerata l’ultima grande rivoluzione copernicana della modernità: la sua opera ha avuto un impatto incalcolabile su ogni aspetto della cultura, della società e della visione del mondo contemporanee. Nonostante il mancato riconoscimento e quasi l’anatema da parte dei suoi più diretti contemporanei, nonostante le vicende della Seconda guerra mondiale l’abbiano travolto suo malgrado assieme al fior fiore della cultura tedesca, Nietzsche è stato per tutto il XX secolo un pensatore ineludibile, un riferimento ineliminabile, esplicito o implicito, col quale tutti, le destre come le sinistre, i filologi classici come gli artisti, i filosofi e altrettanto i teologi (nemmeno papa Benedetto XVI si è tirato indietro) si sono

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sentiti in dovere di confrontarsi. Il “fenomeno Nietzsche” ha nutrito tutta la vita culturale e intellettuale del XX secolo, e la nostra “modernità” – o la nostra eventuale “post-modernità” – sarebbe impensabile senza questo evento culturale di portata epocale che chiamiamo Nietzsche. Se Friedrich Nietzsche, per la portata rivoluzionaria del suo pensiero, può essere considerato il primo pensatore del XX secolo, egli è però anche, e non solo anagraficamente, l’ultimo grande pensatore del XIX secolo. Nietzsche è il depositario della cultura – artistica, storica, filologica – del suo secolo, una cultura che potremmo a ben diritto definire l’ultima veramente classica prima della nostra contingente modernità. Contro il suo tempo, contro la cultura del suo tempo Nietzsche rivolge, certo, le armi della sua critica, ma da questa stessa cultura egli non può prescindere, e, a mio parere, forse nemmeno lo vuole. Cosa cambia, dunque, dopo Nietzsche? Tutto, ma in fondo nulla; se non forse (e non è poco) il modo con il quale guardiamo al vecchio mondo di sempre. Il pensiero di Nietzsche si fonda sul passato: la conoscenza del passato ne è il presupposto. Il suo pensiero è stato certo un pensiero critico, ma la sua critica è in primo luogo epistemologica, una critica al nostro sguardo sul mondo e sul passato. Possiamo così riconoscere quanto antropomorfa sia la nostra visione del passato e quali meccanismi creativi e produttivi siano implicati nella nostra coscienza di esso. Come critico della cultura, tanto contemporanea quanto nel suo divenire storico, Nietzsche è consapevole del ruolo che egli stesso riveste all’interno di questa tradizione. Egli è consapevole dei meccanismi attraverso i quali opera la cultura e si fa creatrice di valori. Il suo obiettivo non è quello di smantellare il passato sotto il “martello” della sua critica – quanti fraintendimenti ha generato questo “filosofare col martello” –; egli aspira piuttosto ad agire sulla storia deviandone il corso, generando nel presente quei germi che produrranno mutamenti storici e

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culturali nel futuro. Più che distruttiva la sua critica è “eversiva”, in senso meramente etimologico, poiché fa leva sul passato e sul presente per ribaltare le conseguenze che potremmo trarne nel futuro. Ma senza il peso di questo passato, senza il peso della cultura che egli pur critica, non ci sarebbe nulla su cui fare leva, non si darebbe dunque nessuna possibilità di futuro.

2. Nietzsche un anti-classico? Tra i molti elementi di novità del suo pensiero, Nietzsche è noto in primo luogo per la sua rivoluzionaria interpretazione del mondo antico. La “scoperta” (come vuole Aby Warburg)1 o, se si vuole, l’invenzione delle due anime – apollinea e dionisiaca – del mondo greco ha aperto il vaso di Pandora dell’antichità. Il mondo antico si rivela al XX secolo molto più complesso, profondo e tragico di quanto le precedenti visioni antiquarie, estetizzanti o finanche moraleggianti avessero sospettato. Questa rinnovata visione del mondo antico viene solitamente interpretata come essenzialmente anti-classica. Se per “classico” si intende una particolare interpretazione dell’arte del secolo d’oro ateniese secondo un modello ieratico, irenico, la summa della edle Einfalt und stille Größe di cui parla Johann Joachim Winckelmann, senz’altro la rivalutazione da parte di Nietzsche dell’arcaismo del mondo greco e dei culti orgiastici dionisiaci si situa agli antipodi di questa visione. Ma, a ben vedere, questo modello pacificato della Grecia antica, granitica espressione di divina quiete e splendore, era stato già messo in crisi da molti autori prima di lui. Per restare solamente nel campo della storia dell’arte, già Anselm Feuerbach nel suo

1.  A. Warburg, Schlusssitzung der Burckhardt Übung (1927), in Id., Werke in einem Band, a cura di M. Treml et al., Suhrkamp, Berlin 2010, pp. 695-699.

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Der Vatikanische Apollo (1833) rivendicava i diritti del colore nella statuaria contro la pretesa monocromia spiritualizzata e idea­lizzata di un Winckelmann2, e quelli del movimento convulso delle menadi e dei satiri – si pensi alla statuaria di uno Skopas – contro l’immobilità ieratica di una concezione del divino che a ben vedere è molto più europea e medioevale che greco-orientale e antica. Se per “classico” intendiamo invece in senso più proprio quella particolare operazione culturale intrapresa, tra gli altri, dagli eruditi alessandrini, che consiste nell’innalzare delle forme a canone, nel definire strutture e regole di riferimento a cui ricondurre le forme dell’arte greca a partire dall’epoca del suo maggior splendore (quella che appunto chiamiamo l’epoca classica); se per “classico” intendiamo inoltre la maniera in cui questo repertorio selezionato, una volta assurto a canone, abbia influenzato durevolmente e influenzi ancora oggi la nostra cultura: in questo caso il rapporto di Nietzsche con il “classico”, con questo specifico meccanismo culturale, non è facilmente decidibile. La mia impressione è che, ancora una volta, Nietzsche conservi della tradizione molto di più di quanto non rigetti. È dunque Nietzsche davvero un anti-classico? E su questo punto di domanda che dovremo concentrarci nella trattazione che segue. Quello che mi propongo è di tracciare un percorso un po’ anomalo nell’opera di Nietzsche, un percorso che tocca alcuni testi non ancora editi in lingua italiana – in particolare i corsi che Nietzsche tenne all’Università di Basilea – e dei testi già noti – come gli appunti per l’Inattuale Noi filologi – che vengono generalmente rubricati a sostegno della tesi di un Nietzsche critico della classicità, per cercare di darne una nuova lettura. 2.  Un pregiudizio, questo, duro a morire, se si pensa che lo si trova ancora ed estesamente argomentato nella per altro validissima Storia dell’arte italiana di Giulio Carlo Argan.

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3. Il compito del filologo Friedrich Nietzsche, come è noto, non nasce per formazione filosofo, bensì filologo classico. Dopo gli studi classici all’internato di Pforta e nelle Università di Bonn e Leipzig, nel decennio che intercorre tra il 1869 e il 1879 Nietzsche insegna Letteratura greca all’Università di Basilea. In quegli anni, a fianco del suo impegno come professore, Nietzsche riflette sul valore degli studi classici nella società a lui contemporanea, partendo da un’autoanalisi della sua formazione classica e del suo mestiere di filologo e insegnante. Queste riflessioni troveranno un’espressione più sistematica in alcuni scritti molto interessanti e ancora poco conosciuti: le lezioni sull’Enciclopedia della filologia classica (1871) e l’abbozzo per la Considerazione inattuale Noi filologi (1875). Ben nota è la critica di Nietzsche a una filologia classica concepita come una scienza fine a se stessa, che mummifica il passato, finalizzata al mero compiacimento erudito: posizioni, queste, che aveva espresse tra l’altro nel suo libro più famoso, la Nascita della tragedia (1872), ma che possiamo leggere fin dalla Lezione inaugurale all’Università di Basilea Omero e la filologia classica (1869). Meno nota è invece la difesa di Nietzsche del sistema di studi classici e dell’educazione dei giovani attraverso le opere dell’antichità greco-romana, un’apologia che ritroviamo in queste pagine del Nachlass e che “redime” in un certo senso la sua disciplina, ponendo come condizione che il suo sapere venga vivificato nell’insegnamento. Le lezioni sull’Enciclopedia della filologia classica rivestono un ruolo particolarmente importante in questa riflessione. Partiamo anche qui dal titolo di questo corso. Per “Enciclopedia” nel senso più comune e diffuso del termine si intende oggi un’opera compilativa a carattere sistematico che racchiude e ordina il sapere universale. L’Enciclopedia più celebre dell’età moderna è l’impresa di Diderot e d’Alembert, che oltre a dif-

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fondere il sapere umanistico, scientifico e tecnico, aspirava a riformare i costumi e la mentalità dei contemporanei. Nell’Ottocento l’estensione dei saperi ha già raggiunto dimensioni notevoli, ma non tali da far desistere gli studiosi da ogni pretesa di “enciclopedismo” e “universalismo”. Quanto anacronistiche potessero però apparire queste aspirazioni già nell’Ottocento lo lascia intendere la feroce satira di Gustave Flaubert all’insensata impresa di Bouvard et Pécuchet (1881). La concezione delle Enciclopedie necessariamente si trasforma nell’Ottocento, e la definizione stessa di “Enciclopedia della filologia classica” prende il significato di “metodo”, “metodica”, “metodologia della filologia classica”. Non più dunque l’ambizione di racchiudere tutto il sapere universale enumerandolo, bensì quella di ordinarlo in categorie, o meglio ancora di tracciare dei percorsi conoscitivi che rendano fruibile questo sapere. Si potenzia dunque la funzione pedagogica di questo strumento, che lo renderà l’antesignano dei nostri manuali odierni. Come intende Nietzsche la sua Enciclopedia della filologia classica ci viene detto in incipit a questo corso, dove si trova una critica del termine a partire dalla sua etimologia. Il termine nasce dalla fusione di due termini, l’aggettivo enkyklios associato al sostantivo paideia citati dal greco da Plinio il Vecchio nell’Epistola dedicatoria della sua Storia naturale. L’enkyklios paideia dovrebbe tradursi secondo Nietzsche come “educazione circolare”. Tradizionalmente intesa come una educazione completa, esaustiva, dunque enciclopedica nel senso che coinvolge tutte le discipline e tutto il sapere, l’educazione “circolare” può anche significare una educazione – mi si passi il termine – “a tutto tondo”, che mira a sviluppare tutte le facoltà umane. Ed è proprio quest’ultimo senso quello che intende Nietzsche. Per via del doppio statuto della loro destinazione, come nel caso delle molte altre “Enciclopedie della filologia classica”

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della stessa epoca3, ci troviamo di fronte a opere concepite secondo una duplice finalità: da una parte l’insegnamento universitario delle tecniche, degli strumenti, ma anche dello spirito della filologia classica, rivolto dunque ai giovani aspiranti filologi; dall’altra, questi testi costituiscono per i loro autori degli importanti momenti di autoriflessione sulle finalità e le modalità scientifiche della pratica filologica, e dei luoghi d’incontro e di scambio per i filologi loro contemporanei. Sebbene si trattasse essenzialmente di lezioni universitarie, le Enciclopedie più celebri hanno avuto una diffusione straordinaria, grazie alle trascrizioni degli studenti, ma anche in alcuni casi alla pubblicazione. In questo importante testo, dunque, anche Nietzsche si rivolge almeno a tre interlocutori: ai suoi giovani studenti, ai filologi suoi colleghi, e non ultimo a se stesso, per una auto-riflessione sulle ragioni della sua scelta di divenire filologo. La domanda che viene posta in queste pagine è dunque come e perché si diventa filologi. E per rispondere a questa domanda Nietzsche si rivolgerà alla psicologia. Nietzsche identifica tre elementi (che chiamerà alternativamente tendenze, istinti o bisogni) alla base della formazione di un buon filologo. Questi tre elementi devono essere sapiente-

3.  Dopo l’opera pionieristica di Friedrich August Wolf (F.A. Wolf, Darstellung der Altertumswissenschaft nach Begriff, Umfang, Zweck und Wert, Lange & Sprinter, Berlin 1807; Id., Encyclopädie der Philologie. Nach dessen Vorlesungen von 1798-1799, a cura di G.M. Stodmann, Expedition des europäischen Aufsehers, Leipzig 1831; Id., Vorlesungen über die Altertumswissenschaft, a cura di J.D. Gürtler, vol. I, Lehnhold, Leipzig 1831) uno degli esempi più celebri e più compiuti è quello delle lezioni di August Boeckh, pubblicate postume (A. Boeckh, Encyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften, a cura di E. Bratuscheck, Teubner, Leipzig 1877), ma se ne contano molte altre, concepite di regola sottoforma di corsi universitari: da Otto Jahn, a Gottfried Bernhardy, a Friedrich Ritschl, di cui purtroppo non si è tramandato quasi nulla. Ma anche la celebre Hermeneutik und Kritik (1838) di Friedrich Schleiermacher appartiene a questo novero.

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mente dosati ed equilibrati, oltre a essere sempre compresenti senza che nessuno di questi prenda il sopravvento sugli altri. Come condizione preliminare, un buon filologo deve essere innanzitutto ben disposto, nel senso proprio e ben poco metaforico di essere necessitato al suo lavoro dal bisogno. Si tratta qui non tanto del bisogno materiale (guadagno, posizione, prestigio), che fa della filologia un mestiere (Beruf), quanto di un bisogno interiore, quello che potremmo chiamare vocazione (Berufung), ma che Nietzsche preferisce definire, in maniera più appropriata e al contempo disincantata, istinto (Trieb). Gli istinti, più propriamente i bisogni (Bedürfnisse), che Nietzsche individua alla base della scelta del percorso di formazione di un filologo sono tre: l’inclinazione pedagogica (pädagogische Neigung), la predilezione per l’antichità e il piacere che si trae da essa (Freude am Altertum), e per finire la pura sete di conoscenza (reine Wissensgier)4. Ognuno di questi istinti, preso isolatamente e non sviluppato in maniera armonica con agli altri, segue una deriva autonoma e diviene il carattere dominante (la monomania, si potrebbe dire) di figure di filologi idiosincratici, dei quali la filologia moderna offre, secondo Nietzsche, molti tristi esempi: ottusi iperspecializzati, filologi micrologici che vanno a caccia di vermi (come il Wagner di Faust), dogmatici o estetizzanti. A una eccessiva ossessione pedagogica che non renda giustizia delle istanze estetiche e conoscitive del mestiere della filologia, corrisponderà la figura di un insegnante concentrato nella limitatezza del suo compito specifico: un maestro di lingua, dunque, nel caso del filologo, che concentra tutti i suoi sforzi nell’acquisizione e nell’insegnamento dei mezzi del sapere. Questo genere di uomini non sa distinguere tra il mezzo e il fine, tra l’insegnamento e quello che è il fine dell’insegnamen-

4.  EkP, KGW II/3, 366.

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to, l’edu­cazione, e sacrificano quest’ultimo al primo. Così facendo privano il loro sapere di qualunque istanza che potrebbe dargli senso, unità e tensione verso l’esterno, verso uno scopo. Il secondo istinto è quello che potremmo definire “estetico”, che spinge gli uomini verso l’antichità poiché essa è bella e il suo studio è una inesauribile fonte di piacere. Questo secondo elemento è meno scontato di quanto possa sembrare, e questo non perché richieda di rispondere alla domanda “che cos’è il bello”, vexata quaestio dell’estetica di ogni tempo. In realtà, l’apprezzamento estetico per l’antichità è secondo Nietzsche un sentimento molto complesso, non propriamente naturale e spontaneo, bensì di difficile acquisizione. L’antichità è un terreno pericoloso per chi vi diriga autonomamente i propri passi. L’educazione giovanile attraverso i classici è un azzardo, per via dei discutibili contenuti etici e pedagogici che il mondo antico offre senza alcun filtro al sentimento moderno. Si tratta però di un azzardo che vale la pena di essere tentato. Il sorgere di un gusto per l’antichità difficilmente si può manifestare in giovane età. Esso appartiene piuttosto alla seconda giovinezza, che prelude all’età adulta: è un sentimento costrui­to e già retrospettivo, che va di pari passo con lo sviluppo del senso storico. Si tratta di una consapevolezza acquisita durante i lunghi anni di studio, spesso indifferente e svogliato, che solo all’ultimo si riscopre come intimamente posseduto. Vorrei sottolineare questo punto. Parlando di gusto per l’antichità, di piacere estetico per l’antichità, possiamo a buon diritto parlare di “antichità classica”. Lasciando da parte le periodizzazioni che lasciano il tempo che trovano, “classica” è l’antichità nella misura in cui essa diviene oggetto di una vera e propria trasvalutazione da parte di chi ne fruisce – in questo caso dei moderni – che vi riconoscono le forme del bello e dell’esemplare. Nietzsche ci dice che questo particolare gusto per l’antichità non è innato, ma si può ottenere: è una facoltà

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che si sviluppa e si costruisce, che si manifesta dunque solo col tempo. Ma proprio per questo, forse, per tornare alle formule care all’estetica romantica, il sentimento per la classicità è paradossalmente l’unica vera forma di coscienza estetica davvero naïve. Quando infatti si manifesta, quando cioè il percorso di educazione arriva a configurare il gusto e lo rende capace di concepire la classicità dell’antichità, la meraviglia che si offre a quel punto alla coscienza educata è di quelle che non sfumano dopo il primo istante, ma si riproduce ogni volta e nuovamente con la stessa immediatezza e vividezza. I nostalgici della “naïveté assoluta” dimenticano che essa è un concetto limite: se si rincorresse ogni volta un’impressione per la sua assoluta unicità, primordialità e immediatezza, si finirebbe per divenire schiavi di un consumismo delle emozioni. Cercare l’immediatezza e l’originalità a ogni nuova esperienza: questa è una vera condanna a vita. Vista una chiesa si sono viste tutte: ma a un occhio educato e a uno spirito coltivato ogni singola chiesa romanica, ogni paesaggio, ogni singolo tempio greco appariranno ogni volta, giorno per giorno, o ad anni di distanza, come unici e irripetibili, con tutto il loro splendore intatto. Essi potranno generare ogni volta una meraviglia nuova, diversa da quella meraviglia “prima” solo nella misura in cui diverso è lo spirito che la coglie: più maturo, più consapevole, o semplicemente più vecchio. Questa possibilità di costruire il gusto, di godere di un paesaggio, di un’opera d’arte, di un poema, iscrivendoli nell’oriz­ zonte della classicità, è un privilegio di cui siamo ancora troppo poco consapevoli. Nella fin troppo sbandierata ricerca dell’“au­ tenticità”, dell’“immediatezza” e della “spontaneità” diamo la caccia sempre più a dei fantasmi e ci agitiamo in pose scomposte che tutto sono tranne che “spontanee”. Un gusto educato e educabile è invece una grandissima risorsa spirituale: basti pensare che noia sarebbe arrivare a 90 anni, dopo aver provato tutto, visto tutto, fatto di tutto, e non essere più in grado di

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stupirsi di niente. E invece anche a 90 anni, eccoci riprendere in mano Tucidide, che ci aveva annoiato mortalmente al Liceo, leggere le pagine “classiche” sugli Ateniesi o su Temistocle, e magari capirle per la prima volta, o ritrovarle piuttosto intatte, come le ricordavamo, riconfermarsi nel nostro ricordo. Questo è davvero un privilegio incredibile e una forma di piacere tanto complessa quanto appagante e duratura. Anche questo istinto rischia però di scavalcare i giusti confini che gli sono più propri e di perdere di vista il suo obiettivo. Il rischio è qui quello dell’estetizzante compiacimento dell’antichità, del vuoto estetismo, dell’esasperato spirito antiquario del collezionista. Chi incorre in questi eccessi non sarà certamente un buon insegnante, poiché non avrà alcun interesse di comunicare ad altri di ciò che ritiene essere sua proprietà esclusiva, un lusso riservato al proprio godimento privato. Più in generale, si rischia di ricadere in una sterile nostalgia per un passato ormai morto, che si continua a venerare in quanto tale, mummificato e privato del suo potere attivo e educativo. Il terzo e ultimo istinto è quello secondo Nietzsche dominante nella filologia a lui contemporanea. È l’istinto scientifico, dello studioso delle scienze naturali, degli aridi e astratti “vivisezionatori” dell’antichità, che le si accostano come a un oggetto immoto da conoscere e analizzare. Nella sua forma estrema questo istinto conoscitivo è avulso da ogni considerazione estetica e da ogni approccio che abbia un fine altro rispetto a quello della conoscenza e del dominio dell’oggetto. Il pathos conoscitivo (Pathos der Wahrheit o Wille zur Wahrheit) – conviene ricordarlo – è per Nietzsche una delle forme potenzialmente degenerabili della volontà di potenza. Il risultato di un tale approccio unilaterale sarà l’erudizione fine a se stessa, che è irrimediabilmente cieca nei confronti dei fenomeni estetici e pertinenti alla sfera etica, che esulano dall’interesse scientifico erudito.

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4. Canone e classicità Isolati, dunque, questi tre istinti – pedagogico, estetico, scientifico – conducono inevitabilmente ognuno a una deriva differente, e solo uniti e bilanciati riescono a dare vita all’esperienza completa e fruttuosa del filologo classico, a un tempo custode, conoscitore dell’antico, e insegnante capace di comunicare il frutto del suo sapere. Qual è ora l’orizzonte nel quale si inscrive l’azione di un tale filologo “enciclico” (in senso non pontificale), di un filologo dunque dotato organicamente di queste tre qualità, un filologo “enciclopedico”, “a tutto tondo”? La risposta è tanto ovvia quanto sorprendente: che esso comprenda (verstehen) la tendenza “classica” dell’antichità (Die Tendenz des klassischen Altertums)5. Che cosa rappresenta per Nietzsche la comprensione della tendenza classica dell’antichità e per quale motivo essa è alla base della formazione del filologo e rappresenta la meta alla quale le tre tendenze fondamentali devono mirare? In primo luogo, dunque, occorre riflettere più sistematicamente di quanto non abbia fatto finora sul significato del termine “classico”. Secondo la sua definizione e la sua storia, “classico”, termine latino, ha in origine un’accezione socio-politica che sta a indicare l’appartenenza a un gruppo, non necessariamente ordinata secondo una gerarchia. Il termine viene poi progressivamente a identificare una distinzione non solo di fatto, ma anche di valore: classicus inteso come “di prima classe” (o “il primo della classe”, come diremmo noi). Ed è in questo senso che verrà poi utilizzato per definire il canone (altro termine fondamentale per concepire il classico) delle opere antiche greche e romane, non tutte indifferentemente, ma quelle considerate migliori, le prime, le classiche, dal punto di vista stilistico6. “Classico” 5.  Ibidem. 6.  EkP, KGW II/3, 341, nota 1.

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corrisponde a “canonico”, ciò che fornisce il canone, cioè l’uni­ tà di misura di tutto il resto. A partire da questa definizione, risulterà dunque evidente come la tendenza classica dell’antichità non possa essere compresa da un filologo che non abbia sviluppato il senso estetico al punto da comprendere i motivi per i quali si distingue tra ciò che è classico e ciò che non lo è. Si presuppone infatti una capacità critica, nel senso più proprio del termine: una capacità di giudizio, e in particolare un giudizio estetico. Ma non è solo la formazione del senso estetico a essere qui chiamata in causa per la comprensione del classico, bensì anche quella pedagogica: «Per essere pedagogo nel senso più alto del termine, il filologo deve comprendere [begreifen] il classico»7. La comprensione, in questo caso il Begreifen, non indica qualcosa di granitico, di dogmatico, ma la capacità di comprendere una pluralità in unità. La definizione di “classico”, quando viene data a un gruppo particolare di opere dell’antichità sulla base di un giudizio formale ed estetico, porta con sé un secondo ordine di considerazioni. Questo giudizio non è infatti fine a se stesso: “classico” è un giudizio che riconosce a un patrimonio letterario di testi delle qualità stilistiche che ne fanno un oggetto valido per l’imitazione. “Classico” significa dunque il modello per l’imi­tazione, il modello da imitare, ed è in questo che il valore pedagogico della tendenza classica dell’antichità si rivela per Nietzsche decisivo. Le due istanze, quella estetica e quella pedagogica, che devono guidare il filologo nell’approccio al mondo antico e che occorre dunque vigilare si sviluppino nel giovane educato a questo fine, sono magnificamente esemplificate nell’ultimo passo della celebre definizione che Nietzsche darà della filologia classica all’inizio della prolusione del 1869. Delle diverse istanze della

7.  EkP, KGW II/3, 368.

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filologia, citate in questa definizione, la terza, quella estetica, comprende quella pedagogica nella misura in cui al riconoscimento della bellezza fa seguito l’imitazione: [La filologia è un po’] estetica, infine, perché muovendo dal­ l’ambito delle antichità definisce la cosiddetta antichità classica con la pretesa e l’intenzione di riportare alla luce un mondo ideale sepolto e di porgere al presente lo specchio del classico, dell’eternamente esemplare [Spiegel des Klassischen und Ewigmustergültigen].8

La riflessione di Nietzsche sul rapporto imitativo che si instaura con la classicità è molto travagliato. In apertura all’ultimo semestre (Winter Semester 1875/1876) del suo corso sulla Storia della letteratura greca, Nietzsche pone una domanda che suona piuttosto sorprendente in questo contesto: come giunsero i Greci alla loro letteratura classica9? Questa domanda nasconde un’altra, implicita, che farà l’oggetto della trattazione del primo capitolo di questa terza parte10: possiamo noi (noi moderni) produrre a nostra volta una letteratura che possa essere considerata classica? Due domande come queste, poste agli studenti che avevano già seguito con lui ben due semestri del corso sulla storia della “letteratura” greca, hanno a mio parere il valore di una provocazione: una provocazione non solo per gli studenti, ma per il professore stesso. Si potrebbe quasi dire infatti che tutta la terza parte di queste Lezioni di storia della letteratura greca di Nietzsche sia­no un tentativo di mostrare come queste due domande siano in realtà illegittime. Il primo problema che si pone è che ciò che chiamiamo “letteratura greca” per i Greci non era affatto “letteratura”, ma evento (Ereignis), opera d’arte, realtà performativa: recitazione, espo-

8.  HkP, KGW II/1, 249-250. 9.  GGL, KGW II, 5, 271. 10.  GGL, KGW II, 5, 275 ss.

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sizione, rappresentazione. “Letteratura” è termine moderno, preso in prestito ai latini, che presuppone non solo che vi sia un patrimonio di scritti, ma anche che questo patrimonio sia considerato per il suo valore esemplare. Intrinsecamente legato al concetto di “letteratura” è dunque anche quello di “classico”, non a caso anch’esso un termine latino. Nella terza parte di queste lezioni Nietzsche traccia una sorta di schema chiastico, affine a un quadrato semantico, che gli permette di problematizzare le relazioni reciproche sviluppate dai concetti di “classico” e di “letterario”. “Classico” sta a “letterario” nella più stretta relazione, poiché l’idea di una cultura “classica” o della “classicità” di una cultura può nascere solo all’interno di una cultura letteraria, che si fonda cioè su un canone di opere considerate esemplari. Una cultura eminentemente “non letteraria” come quella greca antica non poteva, secondo Nietzsche, concepire l’idea del classico, poiché il suo rapporto con la tradizione non era mediato, non richiedeva alcuna presa di distanza epistemologica, ne tantomeno alcun altro giudizio se non quello piuttosto immediato del “ben fatto”. Su questo certo si potrebbe discutere, ma su un punto possiamo essere facilmente d’accordo con Nietzsche: i Greci non sapevano di essere “classici”; essi lo sono certamente per noi, poiché solo per noi questa definizione ha un senso. Alla prima domanda, “come i Greci siano giunti alla loro letteratura classica”, si potrebbe dunque rispondere: perché non sapevano di essere classici o, meglio ancora, poiché la loro cultura non riposava sui “classici”. Alla seconda domanda, “se possiamo noi moderni produrre una cultura che sia a sua volta considerata classica”, Nietzsche risponde in maniera esplicita e impietosa con un verdetto negativo. Anche su questo punto la sua posizione presta il fianco a legittime critiche, ma ci invita comunque a riflettere. Qualche cosa probabilmente ci sfugge del complesso meccanismo di creazione del classico

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se l’espe­rimento di Harold Bloom di un Canone occidentale (1994) ha incontrato cosi tante resistenze da più parti, e se i tentativi delle case editrici di fornire una lista definitiva dei “classici” della modernità si lascia fin troppo spesso influenzare da giudizi partigiani e mode effimere. Ci vorranno forse alcuni secoli o qualche evento catastrofico (una nuova caduta di Roma, un nuovo incendio della Biblioteca di Alessandria) che metta di nuovo in movimento i fata libellorum, prima che qualche nostro successore possa redigere un canone occidentale degno di questo nome. Ma questo a Nietzsche non interessa. Per lui i moderni non saranno mai classici, e proprio perché la loro cultura si è fondata, nutrita e sviluppata a partire dai classici. Si sarebbe creato un circolo, virtuoso o vizioso che sia, per cui d’ora innanzi la cultura non potrà prodursi che a partire da modelli, in opposizione o in accordo con essi. Sembrano risuonare qui le rimostranze già sollevate dall’estetica romantica: l’arte non nasce più dalla vita, ma dall’arte stessa, dall’imitazione non più della natura, ma di altra arte, e rinuncia dunque all’immediatezza della fonte. Si sente in queste pagine delle Lezioni di storia della letteratura greca emergere una certa ambiguità di fondo, un nucleo ancora indeciso dell’estetica nietzscheana. Da una parte abbiamo la riflessione sulla decadenza dell’arte, già sviluppata nella Nascita della tragedia, e sul destino di epigonismo a cui sono chiamati tutti gli artisti essenzialmente dopo Omero, a maggior ragione i moderni. Dall’altra sembra però che Nietzsche conservi l’aspirazione a una rifondazione dell’arte, alla possibilità per l’uomo moderno di divenire nuovamente un creatore, cioè produttore di cultura viva. Se vogliamo tentare di essere più consequenti di quanto Nietzsche stesso non sia in queste pagine, si potrebbe dire che l’arte o la letteratura moderne non possono divenire classiche perché lo sono già. Esse infatti nascono e prosperano all’interno di quel meccanismo culturale, inventato dagli alessandrini e protrat-

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tosi fino ai giorni nostri, che crea canoni e impone modelli. Questo meccanismo aumenta le potenzialità dell’arte al quadrato: non più semplice imitazione della natura, ma imitazione di quella imitazione della natura che è l’arte stessa.

5. Per un’autocritica: l’Inattuale Wir Philologen (1875) Contestualmente alla trattazione delle lezioni di Basilea, la questione del classico viene ripresa nel 1875 negli appunti preparatori a Noi filologi, quella che doveva essere la IV Considerazione inattuale (prima di Richard Wagner a Bayreuth) rimasta inedita. Per quello che possiamo dedurre dai materiali preparatori, questo scritto doveva avere l’aspetto e la struttura di un contro-testo rispetto all’Enciclopedia11. Negli appunti del 1875 Nietzsche si rivolge proprio contro quegli aspetti del mestiere di filologo che avevamo visto nell’Enciclopedia essere considerati gli atteggiamenti fondamentali nell’approccio all’antichità: quello estetico e quello pedagogico. Ciò che prima era auspicabile sembra ora divenire l’oggetto della critica più feroce. Il punto centrale che viene messo in questione è la predilezione, il gusto per l’antichità e la sua idealizzazione, l’idea cioè che il mondo greco e latino abbiano un valore qualitativamente più alto rispetto al resto del passato e siano con ciò degni di imitazione. In una parola, Nietzsche mette qui in dubbio il valore classico dell’antichità e di conseguenza con ciò delegittima il compito di educatore del filologo. Apparentemente dunque, punto per punto, Nietzsche sembrerebbe smontare le tesi dell’Enciclopedia. Vediamo ora in 11.  Si veda anche il parallelismo tra i titoli dei capitoli di questi due scritti, secondo la bozza di indice dell’Inattuale di cui disponiamo. NF 1875, KGW IV/1, 2[3] (KSA 8, 2[3]).

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che maniera proceda questa demolizione. La predilezione per l’antichità sarebbe frutto di pregiudizi del mondo moderno e risultato di una falsa idealizzazione (falsche Idealisierung) del passato greco-romano, che porta i nomi di classicità e umanesimo. «Falsche Idealisierung zur Humanitäts-Menschheit»12: in questi appunti Nietzsche contrapporrà i due concetti di menschlich e di human13, che ritiene siano stati confusi nella considerazione dell’antichità. Il mondo antico è sì menschlich, nel senso che in esso si svela più facilmente l’elemento umano, ma non per questo deve essere considerato umanistico (se vogliamo provare a tradurre il binomio quasi tautologico del tedesco), human, nel senso di una trasfigurazione dell’ideale umano, come invece vollero in origine gli artefici del Rinascimento e come continuano a volere i moderni filologi e gli esponenti delle correnti neo-umanistiche. Anche in questo caso l’apparente assolutismo delle posizioni nietzscheane può a buon diritto essere mitigato. Si consideri solamente come il rifiuto della trasfigurazione dell’ideale umano non impedisca a Nietzsche di conservare l’esemplarità e dunque la classicità del “tipo uomo”, individuato con l’aggettivo menschlich, come si sarebbe pienamente espresso in Grecia. A ogni modo, poiché l’educazione classica impartita dal filologo poggia su questa idealizzazione, e dunque su questa falsificazione dell’antichità, la necessità dell’imitazione dell’antico, la capacità educativa dell’antichità, dunque il classico in generale, sembrerebbero dei residui condannabili di superstizione culturale. Il sodalizio tra antichi e moderni, reso possibile dall’educazione classica, sembrerebbe dunque essersi spezzato: «Il mio compito è quello di istituire una ostilità assoluta [volle Feindschaft] tra la nostra “cultura” attuale e l’antichità. Chi vuole

12.  NF 1875, KGW IV/1, 3[4] (KSA 8, 3[4]). 13.  NF 1875, KGW IV/1, 3[12] (KSA 8, 3[12]).

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servire la prima deve odiare quest’ultima»14. Ma quali culture Nietzsche vuole mettere in guerra tra loro? Il sodalizio che Nietzsche vuole rompere non è quello tra la cultura e l’antichità, ma quello tra un certo tipo di “cultura” contemporanea – si noti l’uso delle virgolette –, che dell’antichità si pretende l’ere­ de, e l’antichità stessa. In un appunto aggiunto al quaderno dell’Inattuale Nietzsche chiarisce il suo pensiero: Che solo attraverso l’antichità [Altertum] si possa acquistare cultura [Bildung], non è vero. Partendo dall’antichità si può certo acquistare una qualche cultura, non già tuttavia la cultura che oggi è chiamata tale. La nostra cultura è costruita unicamente su di uno studio dell’antichità, che è del tutto evirato [ganz kastriert] e bugiardo. Ora, per vedere quanto inefficace sia questo studio, non si ha che da guardare i filologi: eppure essi dovrebbero, meglio di ogni altro, essere educati dall’antichità.15

Ecco dunque che ricompare l’educazione attraverso l’antichità. Essa manca proprio là dove si pretende a gran voce che debba essere presente, ma ciò non toglie che essa rimanga valida di principio, sebbene non sembri realizzarsi di fatto ancora nella nostra epoca. Io credo che l’Inattuale Noi filologi e l’Enciclopedia, nonostante la loro apparente contraddittorietà, siano in realtà due testi di natura affine. Essi condividono infatti la natura dei desiderata. In entrambi questi testi Nietzsche discute la realizzabilità, e non la realizzazione, beninteso, di una visione virtuosa del compito, della vocazione del filologo, che costituisce anche la giustificazione per la pratica del suo mestiere. Nell’Enciclopedia ci viene detto ciò che “dovrebbe essere”, nell’Inattuale ci viene denunciato ciò che “purtroppo non è”. Ma non per que-

14.  NF 1875, KGW IV/1, 3[68] (KSA 8, 3[68]). 15.  NF 1875, KGW IV/1, 3[18] (KSA 8, 3[18]).

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sto la validità del progetto in sé viene meno, né la possibilità (la virtualità) della realizzazione. Se andiamo poi a vedere qual è infine la proposta dell’Inattuale riguardo al rapporto che occorre tenere nei confronti dell’antichità, ci troviamo nuovamente a essere d’accordo con quanto sostenuto nell’Enciclopedia. Nel frammento sopra citato Nietzsche proponeva di istituire una Feindschaft tra gli antichi e i moderni. Nei frammenti 5[167] e 5[172] dello stesso anno questa ostilità si rivela un sentimento agonale, una competizione emulatoria (Wetteifer). Abbiamo già visto come Nietzsche giudicasse nell’Enciclopedia il godimento estetico dell’antichità come una delle conquiste più difficili per una mente moderna, e come raramente un giovane potesse raggiungere questo traguardo con piena consapevolezza. L’antichità è per lui un modello altissimo e di difficile comprensione. Tutto ciò che la compone risulta estraneo all’uomo moderno, che ne rimane costantemente spiazzato. L’idea che l’antichità greca sia costitutivamente estranea all’esperienza della modernità, finanche di una modernità che si nutre dei classici, ha una storia lunga. Già i primi traduttori di Omero in Inghilterra e Germania disperavano di poter raggiungere una completa consapevolezza del testo omerico e di poterne comprendere a fondo l’atmosfera che vi veniva espressa e i significati sottesi alla sua lingua così lontana ed estranea alla sensibilità moderna. Johann Gottfried Herder rifletteva su questa distanza e si mostrava dubbioso di fronte alla fiduciosa e totale adesione di un Winckelmann al mondo greco16. Senza contare poi la fiducia di molti uomini del ’700, convinti che i moderni potessero non solo ereditare lo spirito

16.  Si confronti per questo J.G. Herder, Saemtliche Werke. Zur schoenen Literatur und Kunst, vol. I, Fragmente zur deutschen Literatur, a cura di I.F. Heyne, im Bureau der deutsche Classiker, Carlsruhe 1821, parte IV, Von der griechischen Literatur in Deutschland, sez. A, Wie weit kennen wir die Griechen?, pp. 54-67.

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degli antichi Greci, ma sostituirsi ad essi per divenire a propria volta dei creatori all’altezza degli antichi o a loro addirittura superiori. Questa fiducia ottimistica Nietzsche non l’ebbe mai, nemmeno nei momenti della sua più intensa infatuazione per l’antichità. I Greci per Nietzsche non ritornano, sono tramontati, e questo è il meglio che si possa dire di loro. I Greci sono infatti gli unici, fino ad ora, ad aver dimostrato la grande virtù di Zarathustra, quella del tramonto. Proprio per questa estraneità radicale sancita dalla storia, l’antichità è il miglior lievito dell’educazione, poiché la sua lontananza dalle nostre esperienze abituali ci stimola a un paragone potenzialmente inesauribile tra essa e noi: Tutto ciò che vediamo e tutto ciò che siamo ci sfida al confronto [Vergleichung], ed è per questo che il filologo deve avere uno spirito contemplativo. Dovrebbe educarsi a questo confronto. Con ciò egli non diventa ancora un greco, ma si esercita sul più alto materiale educativo [Bildungsmaterial].17

Già nella descrizione dei tre istinti del filologo nell’Enciclopedia, il valore conoscitivo dell’antichità passava in secondo piano rispetto a quello estetico e a quello pedagogico. Il venire in possesso di una conoscenza certa sul mondo antico è infatti subordinato al valore educativo che una tale conoscenza riveste. In quest’ottica avranno ancora più valore lo stupore e l’incomprensione di fronte all’antichità stessa. Considerare l’antichità come l’oggetto di studio di una scienza è una pratica che appare a Nietzsche decisamente troppo unilaterale: non c’è in gioco altro che il filologo stesso, che attraverso la sua personale erudizione conosce e giudica il mondo antico. Invece il valore educativo dell’antichità sta proprio nel mettere da parte questa unilateralità e nell’istituire un rapporto conoscitivo continuo e reciproco, che non può mai dirsi esaurito.

17.  EkP, KGW II/3, 372.

140 La filologia come scienza [Wissenschaft] che riguarda l’antichità non ha ovviamente una durata eterna [keine ewige Dauer], e il suo materiale deve esaurirsi. Inesauribile è invece il sempre nuovo accomodarsi [Accomodation] di ogni epoca all’antichità, il misurarsi rispetto a quest’ultima [das sich daran Messen]. Se al filologo si propone il compito di comprendere meglio la sua epoca mediante l’antichità, allora questo è un compito eterno [so ist seine Aufgabe eine ewige].18

Il giovane che viene educato all’antichità non rivolge il suo acume critico, la sua capacità di discernimento e di giudizio alla sola antichità: egli bensì conosce se stesso, la sua epoca e il suo mondo a partire dal confronto con essa. Come appare ora capovolta la figura del filologo! Egli non è l’insegnante dell’antichità, ma il maestro del presente. Questo è quello che il Nietzsche del 1875 chiamerà «l’antinomia della filologia [die Antinomie der Philologie]: in realtà si è sempre compresa l’antichità partendo dal presente, e ora si dovrà comprendere il presente partendo dall’antichità?»19. La leva su cui fa forza questo ribaltamento del rapporto con il passato, secondo il quale guardando il passato non impariamo più qualcosa su di lui, bensì su di noi, è quella differenza (Differenz) che sperimentiamo costantemente nel rapporto col mondo antico, quella distanza ed estraneità che diventano per noi ideali, modelli, verso i quali proviamo nostalgia (Sehnsucht), e che ci spingono a competere con essi. «La cosa più importante (e la più difficile) [Das Wichtigste (und das Schwerste)] è calarsi con amore [liebevoll hineinzulegen] nell’antichità e sentire la differenza [die Differenz zu empfinden]. Solo allora si può essere educati dall’antichità»20. La forza di questa differenza, lo 18.  NF 1875, KGW IV/1, 3[62] (KSA 8, 3[62]). Cfr. anche EkP, KGW II/3, 405. 19.  NF 1875, KGW IV/1, 3[62] (KSA 8, 3[62]). 20.  EkP, KGW II/3, 368.

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stimolo che da essa proviene, è per Nietzsche una delle energie più produttive che possano collaborare alla crescita della consapevolezza e alla formazione del giovane. Al filologo, all’educatore, resta il ruolo più difficile e importante in questo processo. Egli infatti è come un mediatore tra due mondi, il Caronte della modernità: [Il filologo] deve essere l’insegnante ideale [der ideale Lehrer] per le età più valide: insegnante e portatore del materiale educativo [Träger der Bildungsstoffe], il mediatore [der Mittler] tra i grandi geni e i nuovi geni che verranno, tra il grande passato e il futuro. Enorme riproduttività [Reproduktivität]21, un virtuoso geniale [genialer Virtuos] rispetto al genio produttivo. Questa è la sua tendenza per tutta la vita.22

E qui ci appare per la prima volta chiaramente la paradossalità della figura del filologo. Che cosa è un filologo? Qual è il suo posto nel mondo, quale il suo posto nella storia? Egli sta tra gli antichi e i moderni, ma a quale dei due mondi appartiene? Si è educato all’antichità per educare ad essa la gioventù, ma ha potuto farlo solo in quanto uomo moderno e con ciò irrimediabilmente estraneo al mondo antico: solo chi infatti è distante da quel mondo può percepire quella differenza che è l’essenza del classico. La condizione del filologo in quanto insegnante è dunque la condizione di coloro che sono sospesi tra due mondi, senza appartenere propriamente a nessuno dei due. Egli non appartiene all’antichità, innanzitutto, poiché ne è turbato come uomo moderno e proprio questo turbamento lo rende capace di apprendere da essa. Se il filologo fosse simile ai Greci, non sarebbe un filologo, non studierebbe gli

21.  Il termine è di origine burckhardtiana. Burckhardt aveva parlato di “geni riproduttivi”, nel caso dei grandi umanisti della sua Storia del Rinascimento in Italia. 22.  EkP, KGW II/3, 368.

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antichi, non sarebbero per lui un modello: nessun greco infatti è andato a scuola “dai Greci”, poiché per essi la scuola era la vita, la cultura stessa nella quale vivevano. Ma è il filologo un uomo moderno a tutti gli effetti? Non lo frena, non lo trascina indietro questo suo amore per gli antichi? Sebbene il filologo guardi indietro al passato per rendere più vivo e significativo il presente e spingere i suoi allievi verso il futuro, ebbene a ben vedere anche questo futuro non gli appartiene. Come ogni maestro, come ogni medio di sapere, come ogni traghettatore, il filologo è destinato a fare continuamente la spola tra le due sponde senza approdare mai a nessuna. Egli è come il poeta-ponte di hölderliniana memoria. Il futuro è dei giovani che ha formato, a loro appartiene l’azione nel mondo. Il filologo rimane prigioniero invece del suo ruolo di educatore: a lui non si confà l’azione, ma la riproduzione, il mettere continuamente in mostra la differenza della quale egli, vita natural durante, sarà il testimone. Per questo il filologo, un buon filologo, è un monito perenne per la società moderna: poiché non essendole mai integrato, resta sempre una voce fuori dal coro, con la sua persona e con il suo insegnamento. Così come l’antichità è irriducibilmente estranea e inquietante per l’uomo moderno e su questo si fonda il suo valore di modello eternamente esemplare, così il filologo rappresenta un elemento perenne di inattualità nella sua epoca. Egli è un maestro pericoloso, che insegna attraverso il più alto Bildungsmaterial, che è capace di porre costantemente in crisi la fiducia nell’eccellenza del mondo presente.

Indice

Nota editoriale

p. 9

Introduzione

p. 13

Maria Cristina Fornari, Il geologo dei fatti morali

p. 17

Carlo Gentili, Quid est veritas? Statuto ambiguo di una nozione nel pensiero di Nietzsche

p. 31

Alice Giordano, La “riflessione radicale” di Nietzsche sul linguaggio

p. 49

Pietro Gori, Realtà, verità, finzione

p. 71

Rocco Ronchi, Una potenza senza possibilità. Nietzsche megarico

p. 97

Carlotta Santini, Nietzsche un anti-classico?

p. 119

Gulliver

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da Francesco Valagussa

1. Luca Basile, Morte della sovranità. 2. Daniel Innerarity, Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale. 3. Federico Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile. 4. Leonel Ribeiro dos Santos, Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano. 5. Federica Buongiorno - Vincenzo Costa - Roberta Lanfredini (a cura di), La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni. 6. Charles-François Tiphaigne de la Roche, Giphantie. 7. Félix Duque, Gastrosofia divina. Il cibo dello Spirito nel­ l’èra tecnologica. 8. Gaetano Basileo - Giannino Di Tommaso (a cura di), Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca. 9. Giulio Goria - Giacomo Petrarca (a cura di), Figure della crisi.

10. Carlo Grassi, La facoltà di giudicare. Sociologia dell’agire normativo. 11. Johann Michel - Carla Canullo (a cura di), Renewing Hermeneutics – thinking with Paul Ricœur / Renouveler l’herméneutique – penser avec Paul Ricoeur. 12. Bachisio Meloni, Etica del fondamento e fondamenti del­ l’etica. Dialoghi per «InSchibboleth». 13. Alice Giordano (a cura di), Che cosa cambia con Nietzsche?

Gulliver - 13

“Terremoto dell’epoca”, con l’appellativo di Gottfried Benn, o “dinamite”, come egli stesso si definiva, Friedrich Nietzsche è il filosofo che per eccellenza cambia il volto, le movenze e lo stile della filosofia. Tale trasformazione avviene su molteplici fronti concettuali, tra i quali spiccano: la “morale”, che diventa terreno di indagine geologica e genealogica; la “verità”, secondo una trama scettica che dall’antichità arriva a Kant; la “scienza”, contesa tra prospettivismo e relativismo; il “linguaggio”, che rivoluziona i rapporti tra coscienza, parole e corpo; la “potenza”, nella Wille zur Macht, che guarda e al contempo trasforma la potenza dei megarici; la “classicità”, di cui Nietzsche era grande conoscitore e amatore. Ciascun saggio del volume non si pone nella prospettiva di indagare “che cosa ha veramente detto” Nietzsche, ma piuttosto “che cosa cambia”, nelle pagine nietzscheane, nel modo di guardare a questi temi fondamentali per la storia del pensiero.

Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati

ISBN ebook 9788855293846

Con saggi di Maria Cristina Fornari, Carlo Gentili, Alice Giordano, Pietro Gori, Rocco Ronchi, Carlotta Santini.

€ 9,00