Cattolicesimo romano e forma politica. La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica 8814010099, 9788814010095

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Cattolicesimo romano e forma politica. La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica
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PILORI POLITICI NUOVA SERIE

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Cari Schmitt

Cattolicesimo romano e forma politica La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica a cura di Carlo Galli

GIUFFRÈ EDITORE

1986

Cattolicesimo romano e forma politica

è un momento importante della critica schmittiana alla logica della modernità, di cui registra — in pagine acute e vi­ branti — la crisi storica e di legittima­ zione, contrapponendovi la Gloria e la Maestà della Chiesa cattolica. Di là da ogni dimensione apologetica o tradizionalistica, Cattolicesimo roma­ no contiene, implicito, un serrato con­ fronto con alcune tesi di Max Weber: daH’opposizione tra Chiesa e società moderna Schmitt fa emergere nuclei in­ tellettuali che svilupperà poi in tutto l'arco della propria impresa scientifica, come il nesso forma/decisione, il pro­ blema della legittimità, della rappresen­ tanza, dell'ordine politico, del rapporto — nella vicenda del razionalismo occi­ dentale — tra fede, teologia e politica.

Cari Schmitt, nato a Plettenberg in Westfalia nel 1888, fu professore di diritto pub­ blico nelle università di Greifswald, Bonn (1922), Berlino (1926), Colonia (1932) e di nuovo a Berlino dal 1933 al 1945. Costretto a lasciare l'insegnamento universitario dopo la caduta del nazionalsocialismo cui aveva aderito, si ritirò a vita privata nella nativa Plettenberg dove è morto nell'apri­ le del 1985. Opere principali: Gesetz und Urteil (1912); Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen (1914); Die Diktatur (1921); Politische Theologie (1922); Die geistesge­ schichtliche Lage des heutigen Parlamen­ tarismus (1923); Römischer Katholizismus und politische Form (1923); Verfassungs­ lehre (1928); Der Hüter der Verfassung (1931); Der Begriff des Politischen (1932); Legalität und Legitimität (1932); Ober die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens (1934); Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes (1938); Positionen und Begriffe (1940); Land und Meer (1942); Ex captivitate salus (1950); Donoso Cortés in gesamteuropäischer In­ terpretation (1950); Der Nomos der Erde (1950); Hamlet oder Hekuba (1956); Ver­ fassungsrechtliche Aufsätze (1958); Theorie des Partisanen (1963); Politische Theolo­ gie II (1970). Traduzioni italiane: Principi politici del nazionalsocialismo (1935); // concetto d’Im­ pero nel diritto internazionale (1941); Le categorie del ‘politico’ (1972); La dittatura (1975); Teoria del partigiano (1981); Il cu­ stode della costituzione (1981)*; Romanti­ cismo polìtico (1981)*; Scritti politico-giu­ ridici (1983); Amleto o Ecuba (1983); Dottri­ na della costituzione (1984)*; Terra e mare (1986)*; Scritti su Thomas Hobbes (1986)*. (I titoli con asterisco in Italia sono editi da Qiuffrè).

Titolo originale: CARL SCHMITT

Römischer Katholizismus und politische Form Theatiner Verlag, München, 1925’ Klett-Cotta, Stuttgart, 1984’ Traduzione italiana e presentazione a cura di Carlo Galli

Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastische Erwägung. In: Summa, I, 1917/18, n. 2, pp. 71-80, per concessione della rivista II Centauro Traduzione italiana di Carlo Sandrelli

Revisione di Carlo Galli

PILORI POLITICI NUOVA SERIE

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Cari Schmitt

Cattolicesimo romano e forma politica La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica a cura di Carlo Galli

GIUFFRÈ EDITORE 1986

ISBN 88-14-01009-9

Tutte le copie devono recare il contrassegno della S.I.A.E.

©

Dott. A. Giuffrè Editore, S.p.A., Milano La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi.

(1986) Tipografia MORI & C. S.p.A. - 21100 Varese - Via F. Guicciardini 66

CARLO GALLI

PRESENTAZIONE

I.

Cattolicesimo romano e forma politica è un saggio ‘ leggenda­ rio ’ e al tempo stesso mal noto (1), spesso frainteso e non poco (1) Una leggenda è innanzi tutto quella per cui si tratterebbe, qui, di un testo apologetico o trionfalistico. A costituirla non concorrono soltanto la letteratura secondaria d’epoca — su cui vedi infra, nota 8 — ma anche The 'National Union Catalog (USA), che assegna il nostro testo agli Apologetic Wortes e perfino lo stesso Schmitt che — in una lettera a Giuseppe Duso (che qui ringrazio per la cortesia con cui me l’ha resa disponibile) del 4 agosto 1981 — affermava: «Eine neue Publikation meiner Schrift Römischer Katholizismus von 1923 (besser 1925) kommt zur Zeit nicht in Frage. Ich habe soviele neue Thesen zu formulieren, dass ich mich nicht gern den alten Erwiderungen von 1923 aussetzen und als ‘ Triumphalister ’ abtun lassen mag ». Un’altra leggenda è che il libro sia stato ritirato dal commercio dello stesso Schmitt, come afferma E. Fraenkel, Il doppio Stato (1940), Torino, Einaudi, 1983, p. 257; la circostanza è in­ vece negata da P. Tommissen, Cari Schmitt e il ‘ renouveau ’ cattolico nella Germania degli anni Venti, in «Storia e Politica », 1975, n. 4, pp. 481-500 (: 491). È però certo che Cattolicesimo romano non è stato molto utilizzato, dallo stesso Schmitt, nella sua produzione matura, per riemergere in­ vece nell’avanzatissima vecchiaia: si segnala qui, tra l’altro, un’intervista rilasciata da Schmitt nel 1972 e pubblicata in « Eclectica » nn. 21-22-23, 1975, pp. 89-110 (è uno dei tre Unveröffentlichte Dokumente compresi in questo fascicolo monografico curato da P. Tommissen, recante il titolo complessivo Over en in zafy; Cari Schmitt), in cui, alle pp. 95-96 si tratta esplicitamente di Römischer Katholizismus und politische Form, definito da Schmitt una testimonianza del momento in cui l’impulso cat­ tolico era in lui ancora intatto (posizione certo riduttiva come si mostrerà, e tendente ad emarginare questo scritto dall’alveo principale della presta­ zione scientifica schmittiana nel suo complesso); in questa sede Schmitt ricorda l’enorme risonanza che il testo ebbe in ambienti cattolici e non (tanto da assecondare conversioni di cui peraltro lo stesso Schmitt non mostra di volersi ritenere responsabile al di là di un certo limite). La letteratura recente su Schmitt non ha prestato molta attenzione al libretto: J. M. Beneyto, Politische Theologie als politische Theorie, Berlin, Duncker

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problematico per chi lo voglia inserire all’interno della complessi­ va prestazione scientifica schmittiana. Collocato nel renouveau cattolico del primo dopoguerra, e dunque nell’ambito del «rien­ tro del cattolicesimo dall’esilio » (2), è stato percepito ora come mo­ mento di una nuova riflessione teologica adialettica e trionfalisti­ ca (3), ora come potente stimolo all’allontanamento dei catto­ lici tedeschi dalla democrazia weimeriana (4), ora come appello & Humblot, 1983, pp. 81-89 lo colloca all’interno della teologia politica come variante ‘ istituzionale ’ (qui si sosterrà, invece, che la capacità isti­ tuzionale della Chiesa non si determina in via teologico-politica, che è al contrario propria dello Stato). A p. 82 Beneyto dà una breve rassegna della letteratura sul tema specifico di Cattolicesimo romano, e cita, tra l’altro, il fraintendimento di P. Schneider, Ausnahmezustand und Norm, Stuttgart, Deutsche Verlagsanstalt, 1957. Acuto come sempre, H. Hofmann (Le­ gitimität gegen Legalität, Neuwied, Luchterhand, 1964, p. 58) riferisce, anche sulla scorta di Hugo Ball, l’atteggiamento schmittiano a posizioni neokantiane alla Rickert (Videa è in verità un elemento trascendentale, nell’accezione che Schmitt dà al ‘ politico ’ nel 1923) più che a dogmatismi cattolici. Piuttosto articolata la posizione di K.-M. Kodalle, Politi^ als Macht und Mythos, Stuttgart, Kohlhammer, 1973, pp. 111-122, che tut­ tavia conclude su di una tesi di ‘ politicità ’ e di ‘ ideologismo ’ del libretto schmittiano. Solo espositivo H. Rumpf, Carl Schmitt und Thomas Hobbes, Berlin, Duncker & Humblot, 1972, pp. 17-22, e lo stesso dicasi di E. Sampay, Cari Schmitt y la crisi de la ciencia juridica, Buenos Aires, Abeledo-Perrot, 1965, p. 36. Utile anche A. Schindler - F. Scholz, Die Theo­ logie Carl Schmitts, in J. Taubes (hrsg.), Der Fürst dieser Welt, MünchenPaderborn-Wien-Zürich, Fink-Schöningh, 1983, pp. 153-173. Cfr. infine, P. P. Portinaro, La crisi dello Jus Publicum Europaeum, Milano, Comunità, 1982, pp. 121-123. (2) Secondo il titolo di un saggio di P. Wust, apparso il 1924 in « Kölnische Volkszeitung », e citato da Tommissen, Renouveau. Sull’am­ biente cattolico, con riferimento a Schmitt e a Guardini, cfr. ora R. Esposito, Teologia politica. Modernità e decisione in Schmitt e Guardini (di prossima pubblicazione in « il Centauro », n. 16) e, dello stesso, La Jor­ ma politica, in « il Mulino», 1986, n. 3, pp. 519-526. (3) Per l’influenza, riconosciuta apertamente, di Schmitt su Guar­ dini, cfr. Esposito, Teologia politica-, si segnala anche H. Urs von Bal­ thasar, Il complesso antiromano (1974), Brescia, Queriniana, 1974, che ha, come titolo originale, l’espressione che apre anche Cattolicesimo roma­ no, e cioè Der antirömische Affekt (ma in tutto il libro Schmitt non è mai citato). In Politische Theologie II, Berlin, Duncker & Humblot, 1970, p. 27 nota 4, Schmitt ricorda che questa frase fu usata dal leader del Zentrum, Kaas, in Parlamento, contro Ludendorff. (4) H. Lutz, I cattolici tedeschi dall’impero alla repubblica (1914-

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ad un’alleanza fra cattolicesimo e liberalismo contro il bolsce­ vismo (5). Lo si può inoltre riguardare come un brano della po­ lemica antitecnologica e in fondo antimoderna tipica di una parte dell’intelligenza europea tra le due guerre, oppure come un sin­ tomo di una modalità della percezione, da parte cattolica, della ri­ voluzione russa; come un saggio teologico-politico sulla rappresen­ tanza oppure come un Elogium, un trattato apologetico della majestas ecclesiastica (6); come un momento del dibattito tra formalismo e filosofia dei valori o come una ‘ risposta ’ a Max Weber (7); come una critica irrazionalistica della modernità op­ pure come un esercizio di razionalità ‘ latina * (8). Da un punto 7925), (1963), Brescia, Morcelliana, 1970, p. 120. Notevole la letteratura sui rapporti fra il cattolicesimo e il nazismo, per cui si rinvia ad Esposito, Teologìa, cit., cui adde G. C. Zahn, 7 cattolici tedeschi e le guerre di Hitler (1962), Firenze, Vallecchi, 1973. (5) J. W. Bendersky, Carl Schmitt, theorist for thè Reich, Princeton University Press, 1983, p. 49. (6) G. Nardone, S.J., La gloria della forma, in « il Mulino », 1986, n. 3, pp. 527-535; il principale momento d’attenzione a questo lavoro di Schmitt, in ambito ecclesiastico, è da riscontrare nella produzione di H. Barion, critico verso la teologia post-conciliare e attento a cogliere quanto, delle indicazioni schmittiane, sia ancor oggi valido, di fatto, per la Chie­ sa: cfr. H. Barion, Ordnung und Ortung im kanonischen Recht, in Fest­ schrift für Carl Schmitt zum 70. Geburtstag, hrsg. von. H. Barion, E. Forsthoff, W. Weber, Berlin, Duncker & Humblot, 1959, pp. 1-34, e, so­ prattutto, Id., Kirche oder Partei? Römischer Katholizismus und politische Form, in « Der Staat », 1965, pp. 131-176 (con rassegna della critica; il ti­ tolo riprende un altro saggio di Barion: Kirche oder Partei? Der Katho­ lizismus im neuen Reich, in « Europäische Revue », 1933, pp. 401-409); dello stesso, anche Weltgeschichtliche Machtform? Eine Studie zur politischen Theologie des II. Vatikanischen Konzils, in Epirrhosis. Festgabe für Carl Schmitt (hrsg. von H. Barion, E.-W. Böckenförde, E. Forsthoff, W. We­ ber), Berlin, Duncker & Humblot, 1968, voi. I, pp. 13-59. ’(7) G. Du so, Tirannia dei valori e forma politica in C. Schmitt, in «il Centauro», 1981, n. 2, pp. 157-165. Il rapporto con Weber è espli­ citato da Schmitt in Politische Theologie ll, cit., p. 100. Sul nesso Schmitt/ Weber, si veda infra. Di rilievo, in questo contesto, C. Schmitt, La tiran­ nia dei valori (V&J1'), in « Rassegna di diritto pubblico » 1970, n. 1, pp. 1-28. (8) H. Ball, Cari Schmitt Politische Theologie, in « Hochland », 1924, n. 2, pp. 261-286, ora in Taubes, cit., pp. 100-115. Questo scritto, di un dadaista poi rifluito nella Chiesa cattolica, è favorevolmente citato da

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di vista interno all’ermeneutica schmittiana, poi, il lettore non tar­ derà a porsi il problema del rapporto fra Cattolicesimo romano e le tesi espresse l’anno precedente in Teologia politica^ allo stesso modo, non può non sollevare interrogativi l’uso del termine neu­ tro ‘ politico ’ in un contesto dominato dall’ ‘ idea ’ (9). Credo che un tentativo di chiarire la complessità di uno scritto atteggiato, tra l’altro, in guise di ‘ grande retorica ’ e pertanto di decifrabilità meno immediata che non un lavoro scientificamente redatto (10), debba partire da un’attenta analisi testuale e da una comprensione autentica della strategia argomentativa di Schmitt. Questa si presenta — ancorché non in modalità perfetta­ mente lineari — come orientata ad un obiettivo polemico, cioè la privatizzazione e la strumentalità moderna e contemporanea dell’esperienza politica, e si articola intorno ad un duplice para­ dosso: che la Chiesa cattolica — portatrice della capacità di far coesistere forma e decisione — è oggi impotente al livello politico effettuale, e che nella situazione presente la politica è al tempo stesso impossibile e necessaria. Sullo sfondo, la questione che guida e sorregge tutta l’opera di Schmitt, con quali categorie, Schmitt (che di Ball era, tra l’altro, amico personale), in Politische Theolo­ gie II, cit., p. 28 ed è senz’altro l’intervento più acuto fra quelli coevi alle prime opere schmittiane. Tra gli altri, si vedano: F. Sternthal, Über eine Apologie der römischen Kirche, in « Der neue Merkur », 1922/24, pp. 764-768; H. Port, Römischer Katholizismus und politische Form, in «Gelbe Hefte», 1925/26, 1. Halbband, pp. 451-456; E. Gerber, Römischer Katholizismus und politische Form, in « Augsburger Postzeitung », 30/ Vili e 6/IX, 1925; H. Hefele, Zur Problem einer Politi^ aus dem katho­ lischen Glauben, in « Abendland », aprile 1927, pp. 195-197. Sul rap­ porto fra Schmitt e le riviste cattoliche in epoca di Weimar ci raggua­ glia brevemente H. Berger, Zur Staatslehre Carl Schmitts, in « Hochland », 1965, n. 1, pp. 67-76 (: 67-69). (9) C. Schmitt, Teologia politica (1922), in Id., Le categorie del ‘ po­ litico ’, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 27-86. Gli altri testi schmittiani di rilievo a cui Cattolicesimo romano è associabile sono Romanticismo poli­ tico (1919), Milano, Giuffrè, 1981 e Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, M[iinchen-Leipzig, Duncker & Humblot, 1923. (10) Politische Theologie U, cit., pp. 27-28.

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cioè, e su quale terreno sia possibile individuare lo spazio per la costruzione di un ordine politico efficacemente determinato dal confronto con i dati oggettivi dell’epoca, ma non solo strumentale. Fra le molte chiavi di lettura di quest’opera sarebbe senz’altro interessante sviluppare quella relativa all’attualità e alla corret­ tezza teologica dell’immagine schmittiana della Chiesa, con ri­ guardo sia alla recente riproposizione — anche ad altissimo livel­ lo — di una convinta ‘ filosofia dei valori ’ sia al dibattito sulla ‘ teologia politica ’ (nell’accezione, ad esempio, di Metz); ma in sede di Presentazione pare più opportuno leggere questo saggio con una metodologia ‘ immanente all’oggetto ’, cioè come un la­ boratorio in cui Schmitt mette alla prova alcune sue decisive in­ tuizioni storiche ed alcuni usi categoriali (ciò non implica, però, che si intenda dare a Cattolicesimo romano il rango di intervento militante politico-partitico). La principale ipotesi ermeneutica è che in questa sede la realtà della Chiesa (da Schmitt definita complexio oppositorum) sia qualcosa di diverso da quel nodo ca­ tegoriale che si intende sotto il nome schmittiano di teologia po­ litica. Corollario di quest’ipotesi è che, mentre il saggio del 1922 e quello del 1929 (11) che ne costituisce l’indispensabile comple­ mento forniscono una « sociologia dei concetti giuridici » ed un modello in nuce di teoria del mutamento politico, con riferimento allo Stato e ad una accezione attiva del termine ‘ neutralizzazio­ ne ’, Cattolicesimo romano, invece (in cui il termine ‘ teologia po­ litica ’ non compare mai), è solo indirettamente un testo di teolo­ gia politica e direttamente un’analisi macrosociologica del Mo­ derno; questo è colto non a partire dal versante istituzionale del­ l’ordine politico, ma dall’altro, da quello della società civile indi­ vidualistica e dello Stato che ad essa massimamente si confà, lo Stato costituzionale di diritto, liberale e borghese, nel momento (11) C. Schmitt, L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929), in Le categorie del ‘politico', cit., pp. 167-183.

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della sua crisi storica, e dello scivolamento verso la democrazia di massa. Così, il termine ‘ neutralizzazione ’ indica in questo contesto primariamente un’automatica neutralità processuale pas­ siva, l’entropia moderna che rende sempre più difficile, precario e instabile l’ordine e che, soprattutto, si nutre dell’utopia che le for­ me politiche scaturiscano dalla presunta capacità morfologica della tecnica (ma da questa come si vedrà, emerge solo conflitto).

Assunta la modernità a questo secondo livello, si capisce bene come Schmitt si collochi in sintonia con il problema (non con la soluzione) affrontato dalla ‘ filosofia dei valori ’, e, insieme, co­ me colga il carattere ‘ vuoto ’ di ogni proposta valorativa, che, del resto, non va certo esente dalla ‘ sradicata ’ conflittualità a cui vorrebbe porre freno (12). Vale anzi la pena di ricostruire bre­ vemente la lettura che Schmitt dà, in questo saggio, dell’esperienza politica moderna, per cogliere quanto esuli dalle intenzioni del­ l’autore ogni intento restaurativo, neofondazionistico o ingenuamente trionfalistico. II.

«Non ci sono più ceti » : su questa affermazione si impernia l’interpretazione schmittiana della modernità. L’esigenza hobbesiana della tabula rasa, dell’ordine come artificio costruttivo nella dimensione ‘ semplificata ’ dell’immanenza, è realizzata pienamente soltanto nel momento rivoluzionario francese: lì, nella hegeliana « furia del dileguare » (13) (poiché vi è una continuità specificamente tedesca nella critica alla ‘ grande ’ rivoluzione), scompaiono,

(12) La tirannia dei valori, cit. (13) G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), Firenze, La Nuova Italia, 1967, voi. II, p. 129. Ha probabile derivazione dalla Fenomenologia anche l’opposizione/identità fra borghese e bohémien (qui, P- 49).

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sommerse nella libertà assoluta, non solo le differenze organiz­ zate, gli ordini stabiliti, ma anche la concretezza stessa della persona. Ordine e rivoluzione coincidono nella strumentalità e nella manipolabilità. Ne risulta impossibile la rappresentazione simbolico-pontificale, propria dell’antico regime: alla mediazio­ ne immediata della Chiesa si sostituisce l’immediatezza mediata (l’effettualità artificiale) di uno Stato ossesionato da quella maxima unitas che, secondo Tommaso citato in un altro luogo da Schmitt, destruit civitatem (14). Se il rappresentante implicava autorità, rap­ porto con la trascendenza, personalità concreta, allora l’immagine del Leviatano segnala l’estraneità dello Stato moderno e della sua Vertretung individualistica e nominalistica rispetto alla Repräsen­ tation. Le ‘antitesi ’ (in linguaggio romantico) o le ‘ contradddizioni ’ (in un contesto dialettico) di cui si compone la modernità e che in essa si scontrano e si ‘ rovesciano ’ vicendevolmente, per poi presumersi placate nell’oggettività della ragione tecnico-utopica, non producono, di per sé, neppure nella sintesi più alta e radicale, cioè nella spiritualizzazione hegeliana della storia come memoria di sé del Geist, alcuna rappresentazione. Né lo Stato borghese co­ stituzionale di diritto, d’altra parte, ha vera capacità rappresenta­ tiva : lo dimostra — tesi costante, implicita o esplicita, in tutta l’ope­ ra di Schmitt — il crollo della fittiza unità che il Terzo aveva costruito intorno a se stesso, autoproclamatosi nazione. Assor­ bita a stento la prima grande crisi epocale, quella del 1848, l’al­ tro annus mirabilis (15), il 1918 ha dimostrato con la catastrofe di una Kultur umanistico-borghese che si credeva, e che per molti versi era di fatto, il vertice del progresso europeo, l’instabilità della forma moderna (intendendosi per ‘ forma ’ tanto una cul(14) C. Schmitt, Staatsethil^ und pluralistischer Staat (1930), in Id., Positionen und Begriffe, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940, pp. 133-145 (:137). Osservazioni su questo testo schmittiano in P. Pa­ squino, Considerazioni intorno al ‘ criterio politico ' in Cari Schmitt, di imminente pubblicazione in « il Mulino », n. 4, 1986. (15) Così Tommissen, cit., p. 481.

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tura centrata sulla Bildung del soggetto quanto un sistema d’isti­ tuzioni che muovendo dalla molteplicità, pretendeva — nel parla­ mento — di rappresentare l’unità politica): la fine della tradizio­ nale articolazione ordinata e ‘ pluralistica ’ dell’assetto politico e sociale europeo realizza così una situazione di anarchia e contem­ poraneamente un bisogno nichilistico di dittatura.

In quello che molto più tardi definirà, con una formula tratta da un Padre greco (16), to Hen stasiazon pros heauto, Schmitt coglie così il paradosso radicale della modernità, quello che as­ sumerà come punto di partenza nel maturo II concetto di ‘po­ litico': che cioè il Moderno, nella sua carenza di forma e d’isti­ tuzione, nella sua logica individualistica e strumentale, nel suo scivolare dal giuridico all’economico al tecnico, è sì immanenza, tendenza entropica, ma proprio per questo non è la liquidazione del conflitto, sì il momento in cui questo si ‘ libera ’ da ogni ordine ed appare, in forma semplificata e potentissima, a determi­ nare, e a destabilizzare, ogni ‘ artificio ’ politico. In Cattolicesimo romano il fallimento delle prognosi pacifiste e progressiste del positivismo ottocentesco è colto da Schmitt proprio nell’analisi del marxismo: questo è assai acutamente interpretato — al di là delle sue pretese dialettiche — come momento critico-conflittuale di una realtà sociale tendenzialmente monodimensionale, priva di ele­ menti trascendenti; è cioè un portato inevitabile della scissione immanente all’unità moderna.

(16) Politische Theologie li, p. 116. Schmitt cita da Gregorii TheoNazianzeni Opera quae extant omnia, in Patrologiae cursus completus, accurante J.-P. Migne, Brepols-Turnhout, s. d., tomus 36, coll. 75-76 (è la Oratio XXIX, T¡teologica Tenia, De Filio-, testo di rilevan­ tissimo interesse, perché prende in esame le condizioni di ‘ stabilità ’ lo­ gica e ontologica di una visione unitaria — monarchica — della divinità, giungendo ad affermare che la Trinità possiede maggior consistenza che non la semplice unità, la quale ultima — se assunta in sé — potrebbe an­ che essere in conflitto con se stessa). logi vulgo

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Si potrebbe pensare che risuoni, in queste pagine schmittiane, l’eco della «battaglia finale» donosiana tra cattolicesimo e so­ cialismo, magari filtrata attraverso Sorci (17): in realtà, il dato di originalità di Schmitt rispetto sia al controrivoluzionario cat­ tolico sia al sindacalista rivoluzionario è che uno dei due sog­ getti nemici non è il cattolicesimo in quanto tale, ma l’Europa accanto alla quale la Chiesa non può non schierarsi; d’altra parte, lo scopo dello scontro è ancora, per Schmitt, una forma politica e non, come in Sorel, il puro dominio dei produttori. E proprio nelle pagine finali di questo libretto si dimostra che il ‘ trionfa­ lismo’ non ha valore politico; una Chiesa che si schiera non è una Chiesa che trionfa: la capacità di mediazione e di complexio tipi­ camente ecclesiastica vien meno politicamente, e resta soltanto mo­ dello di ordine, come « rappresentazione della rappresentazione », come ‘ riserva escatologica ’, e lo Schmitt che aveva accusato i romantici di voler insegnare alla Chiesa che cosa dovesse fare (18) si trova nella situazione — non romantica ma realistica — di dise­ gnare una mappa della realtà in cui la Chiesa è necessariamente una parte. III.

Qual è dunque il significato deWElogium che in Cattolice­ simo romano si fa della Chiesa? Quale rapporto intercorre tra la complexio oppositorum (19) attuata dall’Erede della Promessa e

(17) Il luogo a cui si deve rinviare è il IV capitolo di Die geistesgeschitliche Lage, cit., pp. 77-99. Il Ili capitolo, poi, Die Difyatur im marxistischen Denl^en, sviluppa gli accenni al marxismo contenuti in questa sede. (18) Romanticismo politico, cit., p. 80. La Premessa (pp. 1-26) del 1924 riporta, alle pp. 18-20, considerazioni intorno alla mancanza di forma dell’epoca moderna del tutto consonanti con le tesi di Cattolicesimo romano. (19) L’espressione, derivata da Nicola Cusano e presente anche in C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934-54), Torino, Boringhieri, 1977, p. 26, ha anche valenze alchemiche; e del resto, un certo civettare di Schmitt con tematiche alchemiche (si veda qui l’accenno al-

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il suo schierarsi? A prima vista, questo saggio non solo è un’ana­ lisi radicale delle contraddizioni della modernità (‘ neutra ’ e iconoclastica (20); oscillante fra la strumentalità immediata di Papageno e la strumentalità mediata, progettante attraverso la rinuncia, del sacerdote massone; rivoluzionaria eppure costi­ tuente una continuità di ‘ mani potabilità che permette la coin­ cidenza di bolscevismo e capitalismo sulle questioni principali — cioè il distacco ‘ utopico ’ dalla terra, il rifiuto delta dimensione politico-ordinativa e l’assenza di comprensione del ruolo politicamente centrale delle idee —), ma è anche giocato su di una serie di relazioni antitetiche fra civiltà cattolica e Moderno : la concretezza spazio-temporale delta Chiesa è opposta all’utopica progettualità delta modernità, il grande eloquio ecclesiastico al silenzio ‘ oggetti­ vo ’ delta tecnica, il paesaggio dell’Europa cristiana al freddo cu­ bismo delta metropoli e all’incolta steppa ‘ scitica ’, la trionfale visibilità delta Chiesa alta doppiezza scenico-teatrale di una ra­ gione politica che — pur pretendendo, come già Donoso aveva no-

l’erinafrodito, p. 33) e di analisi del profondo in chiave polemica rispetto al freudismo (p. 43) è il segno del rifiuto della contraddizione inefficace di ragione e razionalismo: il concreto razionalismo della Chiesa (che è mo­ dello formale per Schmitt) comprende anche, pur senza sintesi o com­ promessi, l’irrazionale. In altri termini, l’ordine ecclesiastico non è osses­ sionato (e qui c’è la vera distanza, al di là delle intenzioni, rispetto alla riflessione schmittiana) dal problema di escludere il caos e il nemico, almeno secondo Schmitt. (20) In fondo, l’espressione di Freud « Wo es war, soli Ich tverden » non è se non lo sforzo di far riemergere la soggettività dal ‘ neutro ’, sen­ tito come potenziale minaccia. Ciò non è tuttavia sufficiente a definire la psiconanalisi freudiana come un pensiero della forma, proprio perché — secondo Schmitt — il freudismo sarebbe tutto interno al razionalismo occidentale e alle sue contraddittorie logiche di dominio e di antitetica se­ parazione di forma e contenuto. Su ciò, accenni in C. Schmitt, Die geschichtliche Strufyur des heutigen Welt-Gegensatzes von Osi und West. Bemerfytngen zu Ernst Jùngers Schrift: « Der Gordische Knoten », in Freundschajtliche Begegnungen. Festschrijt filr Ernst Jùnger zum 60. Geburtsag, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1955, pp. 135-167 (a p. 140 la psicoanalisi è definita « ein ilfono^lasticher Einbruch in eine bisherige alte Ityonographie »).

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tato, di voler vedere tutto (21) — non può fare altro che masche­ rare la propria intrinseca ‘ tecnicità ’ (di origine, secondo Schmitt — qui un po’ affrettato — machiavelliana) con riferimenti gene­ rici al generico ‘ valore ’ dell’ ‘ umanità ’ (è questo, la polemica contro la moralizzazione indiretta della politica, un tema centrale in tutta l’opera schmittiana). La Chiesa, quindi, non è solo la diffe­ renza organizzata che resiste alla tabula rasa dello Stato, né è sol­ tanto una società intermedia; il suo principio, la complexio oppositorurn, non ottiene solo di far coesistere ‘ debolmente ’ elementi contrastanti (non è cioè né un’indecisione romantica né soltanto una decisione ‘forte’ ed assoluta): piuttosto, è il segno di una ‘ superiorità ’ sulla semplificazione moderna, di una complessità irriducibile che si esprime nella coesistenza di forma e decisione, di rappresentazione e di presenza, di concretezza personale e tra­ sfigurazione gloriosa.

In sintesi, la vera opposizione tra Chiesa e modernità, che genera il « sentimento antiromano » come oscura percezione della superiorità della forma sull’informe movimento, consiste in un punto specifico: a fronte della vuota immagine moderna (22), nella Chiesa il trascendente è presente, e non solo rappresentato come assente: la Chiesa, cioè, nella propria visibilità, rappresenta realmente il corpo di Cristo; ed è interessante notare come Schmitt usi, per esprimere questo concetto, il termine « repräsentieren », mentre nel riferirsi al papa — per definire la modalità con cui questi ‘ rappresenta ’ Cristo — utilizza espressioni come « Stellver­ treter » e « Statthalter » : insomma, ciò che conta è l’istituzione, non

(21) C. Schmitt, L’unità del mondo (1951), in «Trasgressioni», 1986, n. 1, pp. 117-128 •(: 118); J. Donoso Cortes, Discorso sulla dittatura (1849), in I controrivoluzionari, antologia di scritti politici a cura di Carlo Galli, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 241. (22) Sul tema, C. Galli, Immagine e rappresentanza politica. Ipotesi introduttive, in AA.VV., La rappresentanza politica. Atti del convegno del 14-15 dicembre 1984, Bologna, Pitagora, 1985, pp. 27-52.

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l’individuo terreno, e ciò proprio perché è presente, nella Chiesa, la rappresentazione della Persona trascendente di Cristo. Ciò implica la differenziazione tra un potere (quello ecclesiastico) che è anche autorità e che è quindi sostanziale e stabile, ed un potere (quello moderno, orientato allo scopo) sempre o troppo soggettivo o troppo oggettivo e che ha comunque bisogno di giustificazione (e qui coin­ cidono sia la demonizzazione dostoevskijana sia l’autoassoluzione hegeliana). Ciò spiega anche la contrapposizione, operata in Catto­ licesimo romano, fra l’unità complessa della Chiesa e l’unità scissa della modernità, fra complexio e sintesi dialettica (ovvero dialogo liberale): infatti, la forza per attuare la complexio, per far coesi­ stere forma e decisione, è data alla Chiesa da un ‘ contenuto ’ personale e concreto, da un referente simbolico e specifico, cioè da Cristo stesso, la cui nascita e la cui morte, come eventi sin­ golari ed irripetibili, non solo spezzano la ciclicità pagana della storia, ma interrompono anche, ove correttamente intesi in tutta la loro portata, la fuga ‘ progettuale ’ del tempo politico moder­ no. La ‘ superiorità ’ della Chiesa è così trascendenza e concretez­ za insieme, eccedenza e realismo, ovvero, per dirla con Schmitt, «forma sostanziale»: proprio perché in Cristo conosce un Herr personale, la Chiesa non esperisce le contraddizioni che caratteriz zano la Herrschaft, la moderna impresa di dominio sulla natura e sull’uomo stesso; la Chiesa non ha bisogno, cioè, di separare ma­ teria e forma, apparenza ed essenza, mezzo e fine: il suo raziona­ lismo è essenzialmente realismo, rispetto della realtà e contempo­ raneamente capacità di Schmitt di individuare una modalità di pensiero politico efficace (ma non solo strumentale): titolare della vera pubblicità — fondata sulla maestà della Persona, sul suo va­ lore a un tempo concreto e trasfigurata — la Chiesa non entra nella dicotomia di pubblico e privato. Capace di forma sostanziale (di istituzione) non ha neppure il problema delle forme di governo e del loro conflitto, così come, assumendo l’uomo nella sua inte-

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graie concretezza, non ha bisogno di decidersi per un’antropologia positiva o negativa (23).

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Pur essendo, una critica radicale del cristianesimo ‘ liberale ’, non è questa una proposta di cattolicesimo politico: per Schmitt, infatti, una cosa è la capacità formale della Chiesa, sempre presen­ te poiché determinata dal suo rapporto con Cristo, altra cosa è l’effi­ cacia politica diretta ed immediata di questa capacità formale. Per­ ché questa seconda abbia senso, sarebbe necessario che il con­ tenuto di mediazione della Chiesa potesse avere ancora valenza politica, che, in un’Europa cristiana, vigesse l’alleanza di trono ed altare. Ma Schmitt non è Novalis (24), e sa benissimo che la realtà effettuale non è più quella dei troni, sì quella delle fabbriche; in altri termini, che proprio sui contenuti della forma rappresentativa ecclesiastica si è generata una scissione irresistibi­ le e non più recuperabile (la Riforma) e che per limitarne gli effetti devastanti (le guerre civili di religione, l’inizio tragico dell’età secolarizzata) è stato necessario costruire quell’impresa tecnico-individualistica e contemporaneamente istituzionale (teologico-politica) che è lo Stato moderno, nel quale prevale non più

(23) Tale decisione, proclamata inevitabile e implicita in ogni teoria politica da C. Schmitt, Il concetto di ‘politico' (1927), in Le categorie, cit., pp. 87-165 (: 143-146), non è stata ovvia, in ultima analisi, per lo stesso Schmitt, il quale nella sua fase più giovanile e cattolica accede ad un’in­ terpretazione positiva della natura umana, anche se non certo con accenti umanitari (qui, p. 82). In séguito, pur criticando il meccanicismo esclusi­ vamente conflittuale di Hobbes (Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes (1938), in C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 61-143) ha, molto tardi, riconosciuto di praticare un’an­ tropologia negativa (del resto, senza di essa i principali problemi di Schmitt, e soprattutto il problema dell’ordine, sarebbero incomprensibili). (24) Novalis, La cristianità, ossia l'Europa (1799), in Opere, Milano, Guanda, 1982, pp. 563-581.

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la complexio, sì la decisione per la razionalità : nella sua doppia lo­ gica, questo è da una parte istanza e non sostanza (25) (quindi momento di pace e di concretezza, e coincidente, per un certo momento storico, con il ‘ politico ’, in quanto ordine), dall’altra è esposto al rischio dell’oblio del proprio sforzo attivamente neu­ tralizzante, al rischio cioè di lasciarsi andare alla dinamica dell’im­ manenza, già innescata nel momento della secolarizzazione. Il riferimento alla Chiesa assume tutto il proprio peso strate­ gico, all’interno del pensiero di Schmitt, appunto come richiamo ad un’esigenza di ordine, di ‘ freno ’ (26) della logica secolariz­ zata della politica moderna: la teologia politica è precisamente il ‘ ricordo ’ (non atteggiato come dialettica ‘ memoria ’ né come Erinnerung) delle procedure argomentative della teologia, che permette allo Stato di contrastare, attraverso la sovranità, la dia­ lettica entropia/energia (neutralizzazione passiva/emergenza del conflitto) che pertiene alla modernità, e di porsi come societas perfecta a fianco della Chiesa. E ciò implica lo jus discretionis, la decisione statuale sulla delimitazione di temporale e spiritua­ le, la decisione, cioè, sul significato di ‘ trascendenza ’ e di ‘ su­ periorità ’ : per la Chiesa — che è nel mondo ma non del mon­ do — questi termini significano la ‘ riserva escatologica ’, la garan­ zia implicita nella promessa che «portae inferi non praevcdebunt »; per lo Stato, si tratta invece della superiorità metagiuridica della decisione sull’ordinamento, e dell’ordinamento su di ogni differen­ za ‘qualitativa’ residua; infine, per l’irresponsabilità romantica — prodotto speculare della ‘ debolezza ’ liberale — la ‘ superiori-

(25) Politische Theologie II, cit., p. 106. '(26) Il concetto paolino di kat’echon (Tess. II, 2, 6) appare in Schmitt, La lotta per i grandi spazi e l’illusione americana (1942), « Lo Stato », 1942, pp. 173-180 e, in accezione positiva, nella produzione post-bellica, da Der Nomos der Erde (Köln, Greven Verlag, 1950) a Politische Theo­ logie II.

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tà ’ è un goffo, e fallito, tentativo individualistico di sfuggire la dialettica del reale (è da notare che per Schmitt ‘ superiorità ’ im­ plica, nella sua accezione positiva, ‘ responsabilità ’ diretta, risposta a sfida : la polemica contro la Chiesa cattolica — portatrice di una potestas indirecta irresponsabile, cioè di un atteggiamento politi­ camente inadeguato in età moderna — si svilupperà poi, dagli anni Trenta in avanti e fino praticamente aH’ultimissima produzione schmittiana, proprio in parallelo all’esigenza politica — almeno nel­ l’ottica di Schmitt — di stabilire in Germania un ordine ‘ totale ’ e diretto) (27).

La ‘ trascendenza ’ che agisce come logica istituzionale nello Stato è quindi diversa da quella che agisce nella Chiesa: la loro analogia funzionale è la teologia politica. Così, è un’analisi teologico-politica quella che rileva l’analogia tra la complexio eccle­ siale e quella giuridica, tra il ruolo della decisione nella dottrina dell’infallibilità pontificia e nelle teorie della sovranità, tra il rappresentare della Chiesa e il momento rappresentativo dello Stato. In breve, si può affermare che per Schmitt lo Stato, privo di contenuti ‘ dati ’, può far coesistere forma e decisione (tenden­ zialmente avviate a divaricarsi) solo imitando l’azione rappre­ sentativa della Chiesa e sostituendo alla persona di Cristo una funzione analoga, un’idea. Lo sforzo istituzionale dello Stato è una razionalità efficace, orientata allo scopo, e lo scopo è prima­ riamente l’unità politica: ora, questa non si dà senza idea, il che

(27) Sul donum discretionis, un accenno incidentale in Politische Theologie II, p. 79; sul concetto di jus discretionis come costitutivo della moder­ nità, C. Schmitt, Il compimento della Riforma (1965), in Scritti su Tho­ mas Hobbes, cit., pp. 159-190, e Politische Theologie II, pp. 96-108. Per il tema della ‘ superiorità ’, si veda Romanticismo politico, cit.; per la critica alla potestas indirecta, cfr. Scritti su Thomas Hobbes, Der Nomos der Erde, cit., nonché C. Schmitt, Ex captivitate salus, Kòln, Greven Verlag, 1950 (di imminente pubblicazione presso l’editore Adelphi, ¡Milano).

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significa che l’azione statale è un ‘ mettere in forma * attraverso un tentativo di render presente l’assente (28) (e l’idea — che nella Chiesa coincideva con la persona di Cristo — si fa così ‘ imma­ gine ’, del tutto priva di sostanza, trascendentale e non trascenden­ te, mera funzione unificante). Che ci sia unità politica solo nella rappresentazione implica che l’unità non è data, che l’ordine po­ litico, nella modernità, non è un bene abbondante (che non si costruisce automaticamente grazie ad una ‘ mano invisibile ’ o a una teleologia naturale), che, infine,' la forma è in controten­ denza rispetto alla dinamica uniformante dell’immanenza. A questo punto è chiara anche la differenza tra Chiesa e Stato per quanto riguarda la decisione : in ambito statuale questa è decisione sovrana su quell’idea unificante che sostituisce il contenuto dato alla Chiesa nella Promessa; se nell’esperienza ecclesiale la deci­ sione pontificia è momento di chiarezza dogmatica, nello Stato è secondo Schmitt, necessariamente molto di più, è vera creazione di ordine attraverso {'esclusione di ipotesi esistenzialmente contrapposte (il nemico). La forma giuridica e istituzionale dello Stato è posta in essere, sospesa epocalmente su di un abisso, dal nulla normativo della decisione (29), o dalla Persona. La complexio ‘ debole ’ del diritto ha bisogno, per esistere, di una de­ cisione ‘forte’, secondo la logica dello Stato: la Chiesa, al con­ trario, crea diritto, per Schmitt, grazie alla propria complessiva ca­ pacità istituzionale e formale. (28) C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano, Gìuffrè, 1984: qui, all’interno del § 16 (Stato borghese di diritto e jorma politica, pp. 265-290), il motivo della rappresentanza è declinato secondo modalità chiaramente riferibili al tema dell’idea (trascendentale) che fa esistere l’unità politica, altrimenti impossibile, tema proprio di Cattolicesimo romano', quest’ultimo testo è abbondantemente presente, poi, in G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation (1929), Berlin, Duncker & Humblot, I9603. Si veda infine G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, in « il Cen­ tauro», 19851, n. 15, pp. 35-70. (29) Teologia politica, cit-, p. 56. Sulla lettura dei controrivoluzionari cattolici come decisionisti, cfr. pp. 75-86.

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Pur instabile nel suo nichilismo, il moderno principio d’or­ dine è accettato da Schmitt che non sogna certo impossibili re­ staurazioni: il problema schmittiano è semmai se portatore di capacità formale sia ancora lo Stato, o se questo non abbia defi­ nitivamente soggiaciuto alla logica immanentistica (che dentro di esso coesiste con quella istituzionale), se non appaiono, al­ l’orizzonte, principi nuovi di organizzazione, veicolati da nuove emergenze e da nuove sfide. Ma di ciò in questa sede non vi sono che accenni: l’esigenza di fondo che anima queste pagine è in ogni caso che la politica sia qualcosa di più che potenza tecnica o protezione efficace, che la rappresentanza sia altro dalla sem­ plice traduzione immediatamente pubblica della privatezza bor­ ghese, che l’etica della convinzione sia non un accidente indivi­ duale del soggetto ma inerisca alle stesse istituzioni. Insomma, ancora una volta la questione di fondo agitata da Schmitt è quella della legittimità del Moderno (30): più che come una filosofia della storia declinata sul motivo della modernità ‘ decadente ’ alla quale opporre un nuovo organicismo fonda­ tivo (che è la forma facilior della critica cattolica al Moderno), la riflessione schmittiana si articola come riconoscimento del diverso statuto logico ed epistemologico che governa la realtà pre­ moderna della Chiesa (realismo simbolico), lo Stato (razionalismo metaforico) e la società (astrazione progettuale). Siamo qui di fronte ad un pensiero politicamente impegnato che rileva, nella esperienza politica contemporanea, un’assenza di legittimità come assenza di autorità e che tuttavia non pare argomentare sulla base del principio «rnnnis potestas a Deo»‘ la complexio ecclesiastica (30) Ovvio il riferimento a H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1966 e alla polemica schmittiana in Politische Theologie II, cit., pp. 109-126. Tra la letteratura sull’argomento, cfr. da ultimo W. Hübener, Carl Schmitt und Hans Blumenberg oder über Kette und Schuss in der historischen Textur der Moderne, in J. Taubes (hrsg.), Der Fürst dieser Welt, cit., pp. 57-76.

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non è teologia politica, né Schmitt è animato dalla ratto di fare della Chiesa uno Stato, o dello Stato una Chiesa (per usare una terminologia weberiana, non c’è qui l’indicazione del modello ierocratico, e neppure di quello teocratico) (31). Piuttosto che agire come « memoria costantiniana », mi sembra che il cattolicesimo, in Schmitt (32), abbia la funzione — riscontrabile in tutto l’arco della (31) M. Weber, Economia e società (1922), Milano, Comunità, 1981, voi. IV, p. 270. (32) Sul ruolo del cattolicesimo in Schmitt in relazione al problema della discontinuità o della continuità fra produzione giovanile e matura, cfr. M. Nicoletti, Alle radici della « teologia politica » di Cari Schmitt. Gli scritti giovanili (1910-1917), in « Annali dell’istituto storico italo-germanico in Trento », 1984, pp. 255-316 e C. Galli, Mediazione e decisione: il rap­ presentare secondo Cari Schmitt, in « il Centauro », 1985, n. 15, pp. 168-176. In generale gli interpreti — tranne il polemicissimo Fraenkel, che, in il doppio Stato, cit., p. 155, accomuna Schmitt a Goebbels come « aposta­ ti » — hanno sempre rilevato la distanza intercorrente tra pensiero au­ tenticamente cattolico (centrato sul diritto naturale, sulla persona, sul bene comune e sul sommo bene) e prestazione schmittiana, che dal cattoli­ cesimo trae soprattutto suggestioni e analogie, essendo piuttosto dominata da problematiche di effettualità politica (così, tra gli altri, Ball e 'Rumpf, citt.). In ogni caso, mi pare che l’incontro di Schmitt con Weber inter­ venga a modificare sostanzialmente l’assetto intellettuale schmittiano, orientandolo sul nesso decisione/istituzione che va oltre la tematica catto­ lica della mediazione. Per quanto riguarda il rilievo del cattolicesimo schmittiano da un punto di vista più strettamente biografico, va osservato, sulla scorta di Bendersky, cit., e di G. Schwab, Cari Schmitt. La sfida del­ l’eccezione (1970), Roma-Bari, Laterza, 1986, che non furono certo senza conseguenze — del resto richiamate dallo stesso Schmitt a più riprese — circostanze quali la nascita in Renania da un famiglia d’origine francese e profondamente religiosa (Schmitt aveva tre prozìi sacerdoti cattolici coin­ volti nel Kultur^ampf), l’educazione in convento parallela agli studi su­ periori nel ginnasio di Attendorn (1900-1907) e la formazione ‘ latina ’, tomistica e controrivoluzionaria. Fino al 1917 si può — schematizzando — notare in Schmitt una forte componente cattolica, sia culturale sia politica, pur con le riserve sopra indicate; negli anni Venti permane una certa vicinanza a personalità del Zentrum e a riviste cattoliche, mentre dalla fine degli anni Venti in poi si assiste ad un intensificarsi della polemica politica contro la Chiesa e la sua espressione partitica (appunto, il Zen­ trum), tutta centrata sulla tematica della potestas indirecta (ma forse non furono estranee a questo distacco anche vicende personali e familiari); in pratica. Cattolicesimo romano è l’ultimo momento di relativa vicinanza po­ litica fra Schmitt e la Chiesa. Dunoue. il cattolicesimo privato e intellettuale fu sempre costante, anche se in forme peculiari, nella biografia schmittiana.

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sua produzione (33) — di promuovere quel realismo concreto che non cede alla logica processuale dell’immanenza e che, pur senza appellarsi a ‘ valori si impegna a rispondere alle sfide che il Mo­ derno via via presenta. Così, Vintentio schmittiana è più politica che ecclesiologica, e l’affermazione che la Chiesa sia descritta, qui, in modo ‘ trionfalistico ’ è accettabile solo se con ciò si vuole signi­ ficare che l’assunzione schmittiana di un soggetto non patiens ma vittorioso (il Cristo che regna) impoverisce il contenuto cristolo­ gico di Cattolicesimo romano e getta seri dubbi sull’effettivo ‘ per­ sonalismo ’ di Schmitt e anche sulla capacità schmittiana di fare i conti con la moderna dimensione del ‘ lutto ’ se non in termini di ‘ umanistica ’ e classica ‘ tragicità ’ (34). Da un punto di vista politico, poi, se l’effettualità è il vero obiettivo di questo libretto l’esigenza di autorità e di legittimità, da cui pure muove il ragio­ namento schmittiano, potrebbe sembrare in parte disattesa, sosti­ tuita dalla « decisione dei giorni presenti » : ma per cogliere ap­ pieno il significato del « decisionismo» di Schmitt è necessario un ultimo ordine di considerazioni che mostrino come, nella decisio­ ne, non si tratti di semplice arbitrio, ma di quell’apertura ‘ meta­ forica ’ alla trascendenza (all’idea) che rende possibile lo Stato ra­ zionale, giuridico, istituzionale. Si tratta del rapporto di Schmitt con Weber. V.

È Weber, infatti, l’interlocutore privilegiato di questo sag­ gio; e non solo per alcuni riferimenti impliciti ed espliciti (35), ma (33) Anche la lettura di Donoso Cortes (C. Schmitt, Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation, Köln, Greven Verlag. 1950) è orien­ tata a ritrovare nel controrivoluzionario la percezione effettuale del ‘ poli­ tico (34) Così Kodalle, Politi^, cit., pp. 112 e 118. Sulla perdita schmittia­ na della dimensione del ‘ lutto ’, in Cattolicesimo romano, cfr. M. Cacciari, La scena del lutto, in « il Centauro», 1985, n. 15, pp. 24-34 (: 33). (35) Il « pezzo d’antiquariato sicuramente autentico » di p. 40 ri­

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soprattutto per la ratio complessiva dell’argomentare schmittiano. Ciò che dà origine alla riflessione di Schmitt è infatti lo sforzo di mostrare come la Chiesa cattolica — di cui anche Weber ha riconosciuto l’elasticità e la specifica razionalità giuridica (36) — non sia portatrice, pure essendo istituzione, solo di un carisma d’ufficio (il che la renderebbe omogenea alle forme organizza­ tive che riposano nella pura immanenza), ma abbia il suo proprium nel riferimento ad una Persona concretamente trascen­ dente, al « Cristo concreto nella Sua costellazione » (37). Così, la Chiesa può sfuggire alla dicotomia ufficio/carisma e valoriz­ zare — secondo Schmitt — la persona senza farsi coinvolgere nella dialettica dei ‘ valori ’. Ma la concretezza istituzionale del­ la Chiesa, la sua capacità di far coesistere forma e decisione, diritto e politicità, servono a Schmitt anche e soprattutto per affermare che principio della modernità non è soltanto l’etica pro­ testante (con i suoi esiti già aporetici, secondo lo stesso Weber); vi è un altro principio, razionalistico-giuridico-istituzionale, che — patrimonio della Chiesa e secolarizzato nella forma-Stato — può realizzare il « compimento della Riforma », può frenacorda il bisogno degli intellettuali moderni di « arredare » [...] la loro anima con oggetti antichi garantiti originali » di M. Weber, La scienza co­ me professione (1919) in Id., Il lavoro intellettuale come professione, To­ rino, Einaudi, 1980, pp. 3-43 (: 41), così come le « figure rappresentative» medievali di p. 48 richiamano « il monaco [...] il cavaliere il bor­ ghese » di M. Weber, La politica come professione (1919), in 11 lavoro in­ tellettuale, cit., pp. 45-121 (: 114). (36) M. Weber, Economia e società, cit., voi. Ili, p. 151, citato da Schmitt, in Politische Teologie 11, p. 100. Il contesto in cui Weber tratta diffusamente il carisma d’ufficio in relazione alla Chiesa è la sezione VI del IV volume di Economia e società, cit., particolarmente pp. 275-278: il passo è tutto segnato dalla forte contrapposizione fra carisma personale (per­ duto, secondo Weber) e carisma d’ufficio, tipico della ierocrazia e anche della Chiesa cattolica. Accanto a intuizioni di grande portata, c’è in queste pagine vveberiane una incomprensione — almeno secondo Schmitt — del fatto che l’ufficio del sacerdote « risale al mandato personale ed alla persona di Cristo » (qui, ip. 43). (37) È questo il titolo del capitolo IV di H. Urs von 'Balthasar, Il complesso antiromano, cit. (pp. 161-181).

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re (in quanto aperto all’idea, al « più che razionale») un ra­ zionalismo che troppo facilmente diviene irrazionalistico, può controllare (e non solo manipolare) il dinamismo del sub-razio­ nale, del mito che al razionalismo occidentale (e non solo alla sua dimensione ‘ strumentale ’) si associa ineluttabilmente (38). L’evi­ denza di questa doppia radice del Moderno non implica intenti restaurativi, ed anzi si pone come risposta specifica al ‘ politico ’ in quanto conflitto; al nesso razionalismo/irrazionalismo/mito, che pure per molti versi ha affascinato Schmitt (39), si oppone quindi implicitamente — in Cattolicesimo romano e in buona parte della produzione successiva — l’alternativa costituita dal nesso idea (trascendentale)/rappresentanza/ istituzione / decisione.

Quella che qui si è definita « doppia radice del Moderno » (e che trascura, poiché ci si muove in un’ottica interna a Schmitt, tutto il versante della virtù repubblicana, il «momento machia­ velliano », concentrandosi sul « momento hobbesiano ») spiega anche l’uso sconcertante del termine neutro ‘ politico ’ in associa­ zione all’idea. Si può ragionevolmente sostenere che in questa sede la terminologia schmittiana sia ad uno stadio ancora di formazione e che all’espressione ormai formalmente ‘ matura ’ corrisponda qui un contenuto diverso da quello riscontrabile nel Begriff del 1927: qui, insomma, ‘politico’ indica l’ordine, l’unità politica attingibile per via rappresentativa, mentre là designa,

(38) H. Ball, Cari Schmitts Politische Theologie, cit., p. 108, dove tra l’altro si esprime una tesi che mi pare condivisibile: « mòchte ich Schmitt selbst als einen Rationalisten in der staatlichen, als Irrationalisten aber in der theologischen Reihe bezeichnen ». (39) La IV parte (pp. 77-90) di Die geistesgeschitliche Lage, cit., in­ titolata Irrationalistische Theorien unmittelbarer Gewaltantvendung è stata ripubblicata in Schmitt, Positionen und Begrifie, cit., pp. 9-18, col ti­ tolo Die politische Theorie des Mythus-, del resto, si potrebbe sostenere che il saggio su Hobbes del 1938 sia un brano della schmittiana ‘ mitologia politica ’. È tesi di Kodalle che la teologia politica sia già, di fatto, una mitologia.

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com’è noto « il grado d’intensità di un’associazione o di una disso­ ciazione di uomini» (40): qui la forma aperta alla trascendenza, là il conflitto come elemento dinamico ed energetico dell’imma­ nenza. Questa seconda accezione, semmai, è adombrata, ma non esplicitata, dalla descrizione finale dell’ostilità tra Russia ed Europa. Emergono così tre valori differenti del concetto di « neces­ sità della politica»: per quanto riguarda la Chiesa, la politica come potere è necessaria, nel senso che il potere non ha, lì, bi­ sogno di giustificarsi, non esercitandosi, secondo Schmitt, ratìone peccati (e neppure strumentalmente, ratìone boni perficiendi), ma, per così dire, ratìone majestatìs (almeno in un primo momento decisivo e qualificante). ‘ Necessità ’, poi, in un contesto secola­ rizzato, indica la perdita della datità naturale, la stringente ur­ genza — dato che la tecnica, in cui culmina il Moderno, è di per sé priva di capacità morfogenetica — che l’ordine sia costruito ar­ tificialmente (e qui ‘ politico ’ si associa a ‘ idea ’ come teologia po­ litica); nell’ambito del sociale, poi, ‘ necessità ’ implica l’inesorabile ripresentarsi del conflitto nell’immanenza, e spiega la radice ulti­ ma del paradosso moderno cui ci si riferiva in apertura, che cioè l’ordine è, secondo Schmitt, impossibile (perché continuamente minacciato strutturalmente da un principio, il ‘ politico ’, che però di quell’ordine garantisce anche l’efficacia transitoria) e ne­ cessario (nel senso di indispensabile a perficere quel bonum che nel Moderno è ridotto all’evitare il summum malum, la morte fisica) (41).

(40) Il concetto di ' politico cit., p. 121. (41) L. Strauss, La filosofia politica di Hobbes (1936), in Id., Che cos’è la filosofia politica?, Urbino, Argalia, 1977, pp. 117-350 (: 151); cfr. an­ che, sulla « semplificazione » hobbesiana, E. Voegelin, La nuova scienza politica (1952), Torino, Boria, 1968, pp. 229-238.

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Il potere (legittimo) non ha, nella Chiesa, bisogno di giustifi­ carsi; il Moderno, d’altra parte, proprio nella sua ansia di giu­ stificare il potere dimostra di viverlo essenzialmente come ille­ gittimo e cerca di occultarlo o di imputarlo a ‘ servizio ’, a rag­ giungimento di valori; d’altra parte, la legittimazione razionale del potere strumentale genera proprio quelle contraddizioni di cui Weber è stato critico ma, dal punto di vista schmittiano, an­ che subalterno. Il rapporto fra carisma personale e burocrazia istituzionale è infatti una di quelle ‘ antitesi ’ tutte coinvolte nella loro stessa aporeticità a cui Schmitt oppone non la Chiesa in sé, ma la Chiesa come modello: in questa implicita risposta a Weber, in questo tentativo di affrontare l’abisso della modernità senza sprofondarvi sta il significato profondo, per la carriera intellettua­ le di Schmitt, di Cattolicesimo romano. Estraneo a problematiche immediatamente politiche (42) e forse volutamente ambiguo su tale punto, questo saggio (mentre La Visibilità della Chiesa (43), pur proponendo tematiche affini soprattutto in relazione alla con­ cretezza della mediazione cattolica, pare meno politico, più interno al punto di vista ecclesiale e complessivamente più vicino al gio­ vanile cattolicesimo schmittiano) non soltanto presenta un’impres­ sionante ricchezza di osservazioni storico-politiche ma è anche un importante momento della polemica antiprivatistica ed antili­ berale di buona parte della cultura politica e religiosa degli anni Venti. L’elemento provocatorio di questo saggio sta forse nel fatto che vi si mostra come possa darsi un pensiero politico cattolico più ‘ vicino ’ allo Stato che alla società (a patto, naturalmente, che la (42) Molto impegnato nel senso di una lettura partitica è Hefele, cit.; lo stesso Schmitt, al contrario, in Politische Theologie li, cit., p. 27, nega che il suo saggio del 1923 parlasse di un’affinità tra la Chiesa e questa o quella forma politica, e individuava il nucleo del libretto nella « welt­ geschichtlich sichtbare Repräsentation ». (43) Per cui si rinvia a Nicoletti e a Galli, citt.

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esperienza statuale sia interpretata come forma aperta alla tra­ scendenza), proprio in nome della ‘ logica ’ ecclesiastica. Il por­ tare a nudo l’irripetibile segreto della Chiesa, la sua gloria sot­ tratta alla dialetica di produzione e consumo, la sua forma con­ trapposta all’informalità uniforme della tecnica, ha quindi co­ stituito, per Schmitt, uno dei primi passi nella carriera di giu­ rista attento alla concretezza delle istituzioni ed aperto a rico­ noscere l’irruzione, nell’ambito del diritto, di categorie e di pro­ blemi politico-epocali. E per assolvere il compito scientifico che si era assegnato, di essere « osservatore della secolarizzazio­ ne » (44), di assumerla senza accettarne passivamente la logica, Schmitt ha dovuto fornire, con Cattolicesimo romano, il modello di una propria — originale e tuttavia non priva di rischi — ‘ critica della ragione strumentale ’.

AVVERTENZA EDITORIALE La prima edizione di Römischer Katholizismus und politische Form è apparsa, il 1923, in Hellerau, « im Verlag von Jakob Hegner ». La seconda, recante Vimprimatur « Monachii, die 17.VII.1925 i.V. G. Degenbenck », è uscita, appunto a Monaco il 1925, per Theatiner-Verlag, come Band XIII della collana Der Katholische Gedanke. Veröffentlichungen des Verbandes der Vereine Katholischer Akademiker zur Pflege der ka­ tholischen Weltanschauung. Presenta, rispetto alla prima edizione, le va­ rianti di cui si dirà oltre. ■La terza edizione è quella di Klett-Cotta, Stuttgart, 1984; nel con­ trofrontespizio si avverte: Erstmals veröffentlich 1923 bei ]akpb Hegner in Hellerau. Der Text dieser Ne u ausgäbe folgt der 1925 im Theatiner-Ver­ lag, München, erschienenen 2. Auflage. L’edizione del 1925 ha conosciuto una sua fortuna in area anglosas­ sone, grazie ad una traduzione del 1931: The necessity of politics; an essay on the representative idea in the Church and modern Europe, by Carl Schmitt, with an introducion by Christopher Dawson; translation by Elsie M. Codd, London, Sheed and Ward 1931 (ripubblicato come n. 5 nella collana Vital realities. New York, The Macmillan company, 1932). Nel testo sono state segnalate, in nota, le principali varianti di conte­ nuto fra la seconda edizione (da cui si è tradotto) e la prima; sono inter(44)

Tommissen, cit., p. 485.

PRESENTAZIONE

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venti minimi, a carattere esplicativo o prudenziale. Poche altre, non ri­ portate, rilevano solo sotto il profilo stilistico, sintattico o grammaticale. Nella seconda edizione è poi caduta una specificazione cronologica rela­ tiva all’anno di stesura del testo (1922) (qui, p. 60). Per quanto riguarda la traduzione, si avverte che, a fronte di un uso schmittiano palesemente non formalizzato, la costellazione Herrschaft, Macht, Kraft non ha trovato rese univoche (tranne che per Kraft, sempre «forza»): infatti, si è tradotto Herrschaft con l’alternanza « potere/dominio » e Macht più spesso con « potere » ma a volte anche con « po­ tenza ». Gegensatz è stato reso con « opposto », « opposizione », (è infatti, certamente, il calco tedesco del latino apposita, come del resto Verbindung — « combinazione » — corrisponde a complexio)-, altra cosa, concettual­ mente, sono 1’« antitesi » (Antithese), la « contraddizione » (Widerspruch) e la « contrapposizione » (termine, quest’ultimo, molto più generico, im­ plicito nei verbi entgegensetzen, gegenüberstellen). Infine, di decisiva importanza la distinzione fra « rappresenta­ zione » (Repräsentation) e « rappresentanza » (Vertretung o Stellver­ tretung).

Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastische Erwägung è stato pubblicato in « Summa » (hrsg. von F. Blei und J. Hegner), anno 1 (1917/ 18), n. 2, pp. 71-80. La traduzione che qui se ne dà deriva da quella ap­ parsa in « il Centauro », n. 15 (settembre-dicembre 1985), pp. 177-184, con modificazioni.

CARL SCHMITT

CATTOLICESIMO ROMANO E FORMA POLITICA (Seguito da LA VISIBILITÀ’ DELLA CHIESA. UNA RIFLESSIONE SCOLASTICA)

C’è un sentimento antiromano. Di esso si nutre quella lotta contro il papismo, il gesuitismo ed il clericalismo che agita alcuni secoli di storia europea, con un gigantesco spiegamento di ener­ gie religiose e politiche. Non soltanto fanatici settari, ma intere generazioni di pii protestanti e di cristiani greco-ortodossi hanno visto in Roma l’Anticristo, o la prostituta babilonese dell’Apocalisse. Quest’immagine, con la sua forza mitica, operò con pro­ fondità e potenza maggiori di ogni calcolo economico. Le sue conseguenze sono di lunga durata: in Gladstone o nei Gedanften und Erinnerungen di Bismarck è ancora percepibile, quando entrano in scena prelati oppure gesuiti segretamente intriganti, una nervosa inquietudine. Tuttavia, l’arsenale sentimentale o addirittura — se così posso esprimermi — mitico del Kulturkampf e di tutte le battaglie contro il Vaticano, ed anche l’armamentario teorico che ha sostenuto la lotta francese per la separazione di Chiesa e Stato, si rivelano innocui se confrontati con la rabbia demoniaca di Cromwell. Dal XVIII secolo in poi (1), le argo­ mentazioni si fanno sempre più razionalistiche o umanitarie, sem­ pre più utilitaristiche e superficiali. Soltanto in un russo ortodos­ so, Dostoevskij, il terrore antiromano si innalza ancora una volta alla sua grandezza secolare, con il ritratto del Grande Inquisitore. Ma in tutte queste diverse gradazioni e sfumature c’è, costante, la paura davanti all’inconcepibile potenza politica del cattolice-

(1) Questa del 1925.

determinazione

cronologica

è

aggiunta

nell’edizione

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simo romano. Posso ben capire che un protestante anglosassone provi, di fronte alla « macchina papista », tutta l’antipatia che gli è possibile, quando si accorge dell’esistenza di un mostruoso ap­ parato gerarchico amministrativo che vuole controllare la vita religiosa, diretto da uomini che rifiutano per principio di avere una famiglia. Una burocrazia di celibi, dunque. E ciò non può non atterrirlo, dato il suo senso della famiglia e la sua avversione ad ogni controllo burocratico. Tuttavia, questo è, più che altro, un sentimento inespresso. Il più delle volte si ode l’accusa, incessante­ mente ripetuta in tutto il XIX secolo democratico e parlamentare, che la politica cattolica non sarebbe altro che opportunismo senza limiti. La sua elasticità è in effetti sorprendente. È infatti capace di unirsi a correnti e a gruppi contrapposti, e migliaia di volte si è potuto rinfacciarle, ed enumerarle, con quali diversi regimi e partiti, in paesi diversi, sia entrata in coalizione; come, secondo la congiuntura politica, si sia alleata con gli assolutisti e con i monarcomachi; come, durante la Santa Alleanza, dopo il 1815, sia stata scudo della reazione e nemica di tutte le libertà liberali, mentre, in altri paesi, esercitando una dura opposizione, rivendicava per sé quelle stesse libertà, e particolarmente la libertà di stampa e d’insegnamento; come infine predichi, nelle monarchie europee, il legame di trono e altare mentre, nelle democrazie contadine dei cantoni svizzeri o nel Nord America, sa schierarsi a favore di una convinta democrazia. Uomini di grande valore come Montalembert, Tocqueville, Lacordaire, potevano già professare e difendere un cattolicesimo liberale mentre, contemporaneamente, molti loro fratelli di fede religiosa continuavano a vedere nel liberalismo l’Anticristo o almeno il suo precursore; cattolici realisti e legitti­ misti vanno a braccetto con cattolici difensori della repubblica; vi sono cattolici tatticamente alleati con quel socialismo che altri cattolici considerano diabolico; dei cattolici trattavano, di fatto, col bolscevismo mentre dei borghesi, difensori della sacralità della proprietà privata, vi vedevano soltanto una banda di delinquenti

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hors la loi. Ad ogni mutamento della situazione politica cambiano, a quanto pare, tutti i princìpi, meno uno: la potenza del catto­ licesimo. «Si pretende dall’avversario ogni libertà, in nome dei suoi stessi princìpi, e gli si negano tutte le libertà in nome dei princìpi cattolici». Assai spesso è dato di vedere lo scenario proposto da pacifisti borghesi, socialisti e anarchici, di alti pre­ lati che benedicono i cannoni di tutte le potenze in guerra; oppure intellettuali « neocattolici » che sono parte monarchici, parte comunisti; oppure infine — per parlare di un’impressione socio­ logica di altro tipo — VAbbé viziato dalle dame di corte e, accanto a questi, il francescano irlandese che esorta gli scioperanti a resi­ stere. E sempre di nuovo analoghe figure ed analoghi legami con­ traddittori ci vengono posti davanti agli occhi. Parte di questa multilateralità ed ambiguità, il doppio volto, la testa di Giano, l’ermafroditismo (come si è espresso Byron a proposito di Roma), è facilmente spiegabile con paralleli politici o sociologici. Ogni partito che abbia una solida Weltanschauung può, nella tattica della lotta politica, formare coalizioni con i gruppi più disparati. E questo vale per i socialisti convinti, nella misura in cui hanno princìpi radicali, non meno che per i cat­ tolici. Anche il movimento nazionalista, secondo la situazione di ciascun paese, ha stretto patti ora con la monarchia legittima ora con la repubblica democratica. Dal punto di vista di una Weltan­ schauung tutte le forme e le possibilità politiche diventano meri strumenti dell’idea da realizzare. Inoltre, alcuni aspetti che pos­ sono sembrare contraddittori sono soltanto la conseguenza, il fe­ nomeno d’accompagnamento, di un universalismo politico. Che la Chiesa cattolica romana come sistema storico e come apparato amministrativo continui l’universalismo dell’impero romano, le è riconosciuto con sorprendente consenso da ogni parte. Naziona­ listi francesi, fra cui, quale esponente caratteristico, può essere citato Charles Maurras, teorici germanici del razzismo come

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Houston Stewart Chamberlain, professori tedeschi di ascenden­ za liberale come Max Weber, un poeta e vate panslavistico come Dostoevskij, tutti fondano le loro costruzioni su questa continuità fra Chiesa cattolica e impero romano. Ora, è tipico di ogni impero mondiale manifestare un certo relativismo verso la variegata moltitudine dei possibili punti di vista, una fredda supe­ riorità rispetto alle particolarità locali e, contemporaneamente, un opportunistica tolleranza di ciò che non ha valore centrale. A questo proposito l’impero romano e quello inglese si mostrano abbastanza simili. Ogni imperialismo, che sia più di un semplice schiamazzo, porta in sé degli opposti : conservatorismo e li­ beralismo, tradizione e progresso, perfino militarismo e paci­ fismo. Nella storia politica inglese ve ne è testimonianza quasi in ogni generazione, dalla contrapposizione fra Burke e Warren Hastings fino a quella tra Lloyd George e Churchill o Lord Curzon. Ma col riferirci alle peculiarità deH’universalismo non abbiamo per nulla ancora definito l’idea politica del cattoli­ cesimo: vi si deve accennare solo perché spesso la paura che prende di fronte ad un apparato amministrativo universale si spiega come una legittima reazione di sentimenti nazionali e locali. So­ prattutto nel sistema cattolico romano, fortemente centralizzato, qualcuno, col suo patriottismo nazionale, può sentirsi messo in disparte e defraudato. Un irlandese, nell’esasperazione della sua coscienza nazionale gaelica, ha coniato il motto secondo cui l’Irlanda sarebbe soltanto « a pinch of snuff in thè Roman snuffbox » (molto più volentieri avrebbe detto : « a chicken thè prelate would drop into thè caldron which he was boìling for thè cosmopolitan restaurant »). Ma d’altro lato proprio nazioni cattoliche come il Titolo, la Spagna, la Polonia e l’Irlanda, devono al cattolicesimo la maggior parte della loro capacità di resistenza nazionale, e non soltanto nel caso in cui l’oppressore era un nemico della Chiesa. Il cardinale Mercier di Mechelen e il vescovo Korum di Treviri hanno rappresentato l’onore e l’autocoscienza nazionale con gran­

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diosità ed efficacia maggiori che non la stessa industria o il com­ mercio; e ciò, proprio di fronte ad un avversario che non si pre­ sentava come nemico della Chiesa, ma che cercava piuttosto di allearvisi. Simili fenomeni non potranno certo essere spiegati con semplici giustificazioni politiche o sociologiche, tendenti a farli derivare dalla natura dell’universalismo; allo stesso modo, non si può spiegare quel sentimento antiromano interpretandolo come una reazione nazionale o locale contro l’universalismo e il centralismo, anche se nel corso della storia ogni impero ha provocato simili reazioni.

Io credo che quel sentimento antiromano diventerebbe infinita­ mente più profondo se si comprendesse, in tutta la sua portata, fino a qual punto la Chiesa cattolica sia una complexio oppositorum. Pare non possano darsi opposizioni che essa non riesca ad abbracciare. Da molto tempo la Chiesa si gloria di riunire in sé tutte le forme di Stato e di governo, di essere cioè una monarchia autocratica il cui capo è eletto dall’aristocrazia dei cardinali e in cui c’è tuttavia tanta democrazia che — senza alcun riguardo per il ceto o per l’origine — anche l’ultimo pastore d’Abruzzo, secondo la formula di Dupanloup, può diventare quel sovrano autocratico. La sua storia conosce esempi del più stupefacente accomodamento ma anche della più rigida intransigenza, di una capacità della più virile resistenza e insieme di femminea arrendevolezza, in uno strano miscuglio di orgoglio e di umiltà. È a stento concepibile che un rigoroso filosofo della dittatura autoritaria come il diplo­ matico spagnolo Donoso Cortes ed un ribelle come Padraic Pearse — che con carità francescana si è dedicato con abnegazione al povero popolo irlandese, alleandosi coi sindacalisti — siano stati en­ trambi buoni cattolici. Ma anche da un punto di vista teologico la complexio oppositorum domina ovunque. Il vecchio e il nuovo Testamento valgono entrambi, l’uno accanto all’altro, e dNaut-aut marcionita si risponde qui con un « sia-sia ». Nella dottrina della

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Trinità, al monoteismo ebraico ed alla sua assoluta trascendenza vengono aggiunti tanti elementi di immanenza divina che anche in questo caso si possono pensare molte mediazioni; atei francesi e metafisici tedeschi — che nel XIX secolo hanno riscoperto il poli­ teismo — hanno elogiato la Chiesa per il suo culto dei Santi, poiché credevano di trovarvi un sano paganesimo. La tesi fondamentale a cui possono ricondursi tutte le dottrine anarchiche fondate su di una consequenziale filosofia dello Stato e della società, cioè la dottrina dell’uomo «buono per natura» contrapposta a quella dell*uomo « malvagio per natura », questo problema, decisivo per ogni teoria politica, non è stato per nulla risolto, dal dogma tridentino, con un semplice Sì o un semplice No; piuttosto, il dogma — a differenza della dottrina protestante che vede la na­ tura umana completamente corrotta — parla soltanto di una natura umana vulnerata, indebolita ed offuscata, ammettendo così, nella pratica, parecchie sfumature ed accomodamenti. Questa combinazione di opposti si estende fino alle estreme radici sociopsicologiche delle motivazione e delle concezioni umane. Il papa tre il nome da Padre, e la Chiesa è Madre dei credenti e Sposa di Cristo: una meravigliosa combinazione dell’elemento pa­ triarcale con quello matriarcale, che permette di rivolgere e di orientare verso Roma le due correnti che determinano gli istinti e i complessi più primitivi, e cioè il rispetto per il padre e l’amore per la madre; c’è forse una ribellione contro la madre? E infine la cosa più importante: questa infinita ambiguità si combina di nuo­ vo col più preciso dogmatismo e con un Wille zur Dezision, nel momento in cui culmina nella dottrina dell’infallibilità pontificia.

Considerata dal punto di vista dell’idea politica del cattolicesimo, l’essenza di questa complexio appositorum romano-cattolica consi­ ste in una specifica superiorità formale nei confronti della materia della vita umana, quale finora nessun impero ha conosciuto. In questo caso ad una formazione sostanziale della realtà sto-

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rica e sociale è riuscito — nonostante il suo carattere formale — di rimanere dentro l’esistenza concreta, di essere piena di vita e tutta­ via razionale nel grado più alto. Questa peculiarità formale del cattolicesimo romano si basa sulla rigorosa attuazione del principio di rappresentazione. Nella sua specificità ciò appare chiaramente in opposizione rispetto al pensiero tecnico-economico, oggi egemo­ nico. Ma, prima, occorre ancora sgombrare il campo da un ma­ linteso.

Muovendo da una promiscuità spirituale che cerca fraterne affi­ nità, di tipo romantico o hegeliano, col cattolicesimo (come del resto con molti altri fenomeni), qualcuno potrebbe fare della complexio oppositorum una delle proprie molte sintesi, e credere precipitosa­ mente di avere ricostruito l’essenza del cattolicesimo. I metafisici della filosofia speculativa postkantiana erano infatti soliti ricom­ prendere l’essenza di tutta la vita organica e spirituale all’interno di un processo eternamente svolgentesi fra antitesi e sintesi. Quin­ di, i ruoli potevano essere assegnati a piacimento. Quando Gòrres presenta il cattolicesimo come un principio virile e il protestantesi­ mo come un principio femminile, fa del cattolicesimo il semplice membro di un’antitesi, per cercare poi la sintesi in un « terzo supe­ riore». Va da sé che le cose possono anche essere presentate vice­ versa, e cioè il cattolicesimo come il principio femminile ed il pro­ testantesimo come quello virile. È ancora concepibile che i filosofi speculativi, costruttori di sintesi, rappresentino di quando in quan­ do il cattolicesimo come il « terzo superiore ». Ciò è tipico dei romantici cattolicizzanti, anche se questi non rinunciano volen­ tieri alla velleità di insegnare alla Chiesa a liberarsi dal gesuitismo e dalla scolastica, per fare così dell’esteriorità schematica della Forma e dell’invisibile interiorità del protestantesimo un terzo superiore e « organico ». È chiaro che quel peculiare malinteso ha qui il proprio fondamento. Ma queste costruzioni sono più che fantasie campate in aria : sono — anche se ciò suona inverosimile —

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massimamente cònsone allo spirito del tempo, poiché la loro strut­ tura spirituale corrisponde ad una precisa realtà. Il loro punto d’origine è in effetti una frattura realmente esistente, una scis­ sione ed un sistema di antitesi che hanno bisogno di una sin­ tesi, ovvero una polarità che ha un « punto di indifferenza », una situazione di problematica lacerazione e di profondissima inde­ cisione a cui non è possibile altro sviluppo che il negarsi e, ne­ gandosi, pervenire ad una posizione. Ogni àmbito dell’epoca presente è in effetti governato da un dualismo radicale; e, nel­ l'ulteriore corso di questa trattazione, tale dualismo, con le sue disparate configurazioni, dovrà ancora essere spesso men­ zionato. Il suo fondamento generale sta in un concetto di natura che ha trovato la propria realizzazione nella terra at­ tuale, modificata dalla tecnica e dall’industria. Oggi la natura appare ormai come il polo opposto al mondo meccanico delle me­ tropoli che, coi loro cristalli di pietra, di ferro e di vetro, stan­ no sulla terra come mostruosi cubismi. L’antitesi di questo regno della tecnica è la natura selvaggia, barbarica, non toccata dalla civiltà, una riserva in cui « non giunge l’uomo con il suo affanno ». Al concetto cattolico-romano di natura è del tutto estra­ nea questa separazione fra un mondo razionalisticamente tecniciz­ zato dal lavoro umano ed una natura romanticamente inviolata. Pare che i popoli cattolici abbiano, col suolo e con la terra, un rapporto diverso da quello dei protestanti; forse perché quelli, al­ l’opposto dì questi, sono per lo più popoli contadini, che non conoscono la grande industria. Il fatto, in generale, ad ogni modo resta. Come si spiega che non ci sia un’emigrazione cattolica, al­ meno un’emigrazione grandiosa come quella degli ugonotti o dei puritani? Ci sono stati innumerevoli emigranti catto­ lici, irlandesi, polacchi, italiani, croati; il più delle volte era inevi­ tabile che gli emigranti fossero proprio cattolici, poiché la popola­ zione cattolica era di solito più povera di quella protestante. Mise­ ria, bisogno, persecuzione, hanno sospinto i cattolici ad emigrare,

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ma essi non cessano mai di provare nostalgia per la patria. Gli ugonotti e i puritani, a paragone di questi poveri esuli, hanno una forza e un orgoglio di dimensioni spesso disumane : sono capaci di vivere su ogni suolo, ma sarebbe un’immagine sbagliata raffermare che mettono radici in ogni suolo. Possono ovunque costruire le loro industrie, possono fare di ogni suolo il campo in cui esercitare la loro vocazione al lavoro e la loro « ascesi intramondana » ; in con­ clusione, possono ovunque avere una dimora confortevole, ma tutto ciò perché si fanno signori della terra, soggiogandola. Il loro mo­ dello di dominio resta inaccessibile al concetto romano-cattolico di natura. Sembra che i popoli cattolici amino il suolo, la Madre Terra, in modo ben diverso: hanno tutti il loro terrisme. La natura non è per loro l’opposto dell’artificio e dell’operare umano, e neppure dell’intelletto e del sentimento o del cuore; piuttosto, lavoro umano e crescita organica, natura e ratio, sono un’unità. La viticoltura è il più bel simbolo di quest’unione, ma anche le città, edificate secondo questo spirito, appaiono come prodotti naturali del suolo, che si inseriscono nel paesaggio e rimangono fedeli alla loro terra. Nel concetto, in loro essenziale, di « urba­ no », queste città esprimono un’umanità che resta sempre inacces­ sibile al meccanismo di precisione di una moderna città industriale. Come il dogma tridentino non conosce la lacerazione protestante fra natura e grazia, così la Chiesa cattolica romana non concepisce tutti quei dualismi, fra natura e spirito, natura e intelletto, natura e arte, natura e macchina, e neppure il loro pathos alterno. Come l’opposizione di forma vuota e materia informe, così è estranea al cattolicesimo la sintesi di quest’antitesi: la Chiesa cattolica è in­ somma qualcosa di assolutamente diverso da quel « terzo superio­ re » (del resto sempre mancante) di cui parlano i filosofi tedeschi dello Spirito e della Natura. Non le si addicono né la dispera­ zione delle antiesi né l’illusoria alterigia delle loro sintesi. Perciò un cattolico dovrebbe prendere come un elogio equivoco l’affermazione di chi volesse fare della sua Chiesa il polo opposto

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dell’epoca meccanicistica. È una vistosa contraddizione, di nuo­ vo indice di quella singolare complexio oppositorum, che uno dei più forti sentimenti protestanti veda nella Chiesa catto­ lica una degenerazione ed un abuso del cristianesimo — poiché il cattolicesimo romano meccanicizzerebbe la religione in un for­

malismo senz’anima —, mentre contemporaneamente proprio i pro­ testanti ritornano, con una fuga romantica, alla Chiesa cattolica, ricercandovi la salvezza dalla mancanza d’anima di un’epoca razio­ nalistica e meccanicistica. Se la Chiesa avesse accettato di non essere niente più che il polo ' animato ’ contrapposto alla mancanza d’ani­ ma, sarebbe stata dimentica di se stessa: sarebbe diventata infatti solo un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sani­ tario per curare i dolori della libera concorrenza, la gita domenicale, o la vacanza estiva, dell’uomo metropolitano. Esiste, naturalmente, un importante effetto terapeutico della Chiesa; solo, l’essenza di un’istituzione siffatta non può consistere in ciò. Rousseauiani e romantici possono certo godere del cattolicesimo, come del resto di molte altre cose, vedendovi una grandiosa rovina o un pezzo d’anti­ quariato sicuramente autentico e, seduti « nella poltrona delle conquiste dell’Ottantanove », anche di esso possono fare un arti­ colo di consumo per una borghesia relativistica. Molti cattolici, soprattutto tedeschi, sono, a quel che sembra, assai orgogliosi di essere riscoperti dagli storici dell’arte. Ma non ci sarebbe qui bi­ sogno di ricordare la loro gioia, in sé irrilevante, se un pensa­ tore politico ricco di idee originali come Georges Sorel non avesse voluto individuare, nella nuova combinazione di Chiesa e irraziona­ lismo, la crisi del pensiero cattolico. Secondo la sua opinione, in­ fatti, mentre l’apologetica ecclesiastica aveva preteso, fino al XVIII secolo, di poter dimostrare la fede con argomenti razionali, appa­ rirebbe invece chiaro che nel XIX secolo proprio le correnti irra­ zionalistiche giocano a favore della Chiesa. In effetti, è vero che nel XIX secolo il cattolicesimo è stato rivivificato da tutti i tipi possibili di opposizione all’illuminismo e al razionalismo.

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Tendenze tradizionalistiche, mistiche e romantiche, hanno origina­ to molte conversioni. Ed anche oggi, a quanto mi è dato giudi­ care, domina fra i cattolici una forte insoddisfazione per l’apologetica tradizionale, da molti percepita come pseudoargomentazione e vuoto schema. Ma tutto ciò non tocca l’essenziale, poiché identi­ fica razionalismo e pensiero scientifico trascurando che all’argo­ mentazione cattolica è sottesa una specifica mentalità, interessata a guidare normativamente la vita sociale degli uomini e capace di utilizzare, nei propri procedimenti dimostrativi, una logica speci­ ficamente giuridica.

Si può osservare, quasi in ogni discorso, quanto profondamente il metodo tecnico-scientifico domini oggi il pensiero: ad esem­ pio, nelle tradizionali dimostrazioni dell’esistenza di Dio, 1 Dio che regge il mondo come il re lo Stato è inconsapevolmente di­ ventato il motore che muove la macchina del cosmo. L’immagi­ nario dei moderni abitanti delle metropoli è tutto pieno, fino nei suoi ultimi atomi, di concezioni tecniche ed industriali, che ven­ gono proiettate nella dimensione cosmica o metafisica. Per questa ingenua mitologia meccanicistica e matematica tutto il mondo è diventato una gigantesca dinamo; e qui non c’è nessuna distin­ zione di classe. L’immagine del mondo di un moderno impren­ ditore industriale assomiglia a quella del proletario industria­ le come un gemello assomiglia all’altro. Perciò si intendono re­ ciprocamente tanto bene, quando lottano uniti per il trionfo del pensiero economico. Divenuto la religione del proletariato indu­ striale metropolitano, il socialismo contrappone un favoloso anti­ meccanismo al grande meccanismo del mondo capitalistico: il proletariato, con la propria coscienza di classe, si reputa il legit­ timo signore (vale a dire, il signore adeguato, e nulla più) di questo apparato, e considera contemporaneamente la proprietà privata del­ l’imprenditore capitalistico un residuo, ormai del tutto inadeguato, di un’epoca tecnicamente arretrata. Il grande imprenditore non ha

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un ideale diverso da quello di Lenin, e cioè una «Terra elettrifi­ cata » : sono soltanto in disaccordo sul metodo migliore per attuare l’elettrificazione. Finanzieri americani e bolscevichi russi si trovano uniti nella lotta per il pensiero economico, cioè contro i politici e i giuristi. A questa alleanza appartiene anche Georges Sorel e qui, nel pensiero economico, sta uno dei momenti essenziali dell’oppo­ sizione fra il nostro tempo e l’idea politica del cattolicesimo. Questa contraddice infatti tutto ciò che il pensiero economico sente come elemento della propria oggettività, della propria probità e della propria razionalità. Il razionalismo della Chiesa cattolica abbraccia moralmente la natura psicologica e sociologica degli uo­ mini e non concerne, come l’industria e la tecnica, l’impresa di do­ minio e di utilizzazione della materia. La Chiesa ha la propria specifica razionalità. È noto il detto di Renan : « tout victoire de Rome est une victoire de la raison ». In lotta contro i fanatismi più settari, la Chiesa si è sempre schierata al fianco del sano intelletto umano, e per tutto il medioevo, come ha ben dimostrato Duhem, ha represso la superstizione e la magia. Lo stesso Max Weber ha riconosciuto che nella Chiesa sopravvive il razionalismo di Roma e che essa ha saputo egregiamente aver ragione degli entusiastici culti dionisiaci, delle estasi, delle tendenze a sprofondare nella contemplazione. Questo razionalismo sta nella dimensione istitu­ zionale, ed è essenzialmente giuridico; la sua grande prestazione consiste nel fare del sacerdozio un ufficio, ma anche qui — di nuovo — in modo del tutto peculiare. Il papa non è il profeta, ma il Vicario di Cristo. Tutta la rozzezza fanatica degli sfrenati profetismi è così tenuta lontana grazie a quest’opera di ‘ for­ mazione ’. Dal fatto che l’ufficio è reso indipendente dal carisma, il sacerdote riceve una dignità che pare astrarre interamente dalla sua persona concreta. Tuttavia egli non è né il funzionario né il commissario del pensiero repubblicano, né la sua dignità è impersonale come quella del moderno ‘ufficiale’; al contrario, il

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suo ufficio, in una catena ininterrotta, risale al mandato personale ed alla persona di Cristo. Questa è certamente la complexio oppositorum più sorprendente. In queste distinzioni stanno la forza crea­ trice razionale del cattolicesimo e, contemporaneamente, la sua uma­ nità; quella forza riposa nell’umano e, insieme, nello spirituale e, senza trascinare violentemente alla luce l’oscurità irrazionale del­ l’anima umana, le fornisce una direzione; a differenza del raziona­ lismo tecnico-economico, non dà ricette per la manipolazione della materia.

Il razionalismo economico è tanto lontano da quello cattolico che può suscitare, contro di sé, una paura specificamente cattolica. La tecnica moderna si pone semplicemente al servizio di qualsivo­ glia bisogno. Nell’economia moderna, ad una produzione estre­ mamente razionalizzata corrisponde un consumo completamente irrazionale. Un meccanismo meravigliosamente razionale obbedi­ sce ad ogni tipo di istruzioni, sempre con lo stesso rigore e con la stessa precisione, che la domanda concerna camicie di seta, gas tos­ sici o qualunque altra cosa. Il razionalismo del pensiero economico si è abituato a fare i conti con bisogni certi e a vedere soltanto quello che può « soddisfare ». Nella metropoli moderna il pensiero economico si è costruito un edificio in cui tutto procede in base a calcoli. Questo sistema d’infallibile oggettività può spaventare un buon cattolico, e proprio in forza della sua razionalità. Si potrebbe dire che oggi sono forse più numerosi i cattolici che credono anco­ ra nell’Anticristo, e se Sorel vede nella capacità di creare simili « miti » la testimonianza di una forza vitale, fa però torto al cattoli­ cesimo con l’affermare che i cattolici non credono più alla loro escatologia e che nessuno di loro aspetta più il Giudizio finale. Ma nella realtà effettuale ciò è falso, anche se già Maistre, nelle Soirée; de Saint-Petersbourg, fa dire qualcosa di simile al senatore russo. In uno spagnolo come Donoso Cortes, in un cattolico francese come Louis Veuillot o come Leon Bloy, in un convertito inglese come

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Robert Hugh Benson, l’attesa del Giudizio finale ha ancora una immediata forza vitale, come in qualsiasi protestante del XVI e del XVII secolo, che vedeva in Roma l’Anticristo. Ma si deve prestare attenzione al fatto che è appunto il moderno apparato tecnico-eco­ nomico a suscitare nei cattolici un diffuso sentimento di orrore e di terrore.

L’autentica paura dei cattolici deriva dal constatare che qui il concetto di 4 razionale ’ è distorto in un modo che per la sensibilità cattolica è fantastico, proprio perché 4 razionale ’ significa ormai soltanto un meccanismo di produzione posto al servizio della sod­ disfazione di qualunque bisogno materiale, senza che ci si inter­ roghi sulla razionalità dello scopo — l’unica cosa importante — a cui quel meccanismo supremamente razionale è disponibile. Il pensiero economico non è in grado neppure di percepire questa pau­ ra cattolica; ogni cosa gli va bene, se può essere procurata dai suoi mezzi tecnici, e nulla sa di un sentimento antiromano, e nemmeno dell’Anticristo e dell’Apocalisse. La Chiesa è per quel pensiero uno strano fenomeno, ma non più strano di altre cose «irrazionali». Ci sono uomini che hanno bisogni religiosi: bene, si tratta di soddisfarli adeguatamente. La religiosità non sembra più irrazionale di parecchi capricci insensati della moda, che ven­ gono pur assecondati. Quando finalmente le lampade perpetue di tutti gli altari cattolici saranno alimentate dalla stessa centrale elettrica che fornisce energia ai teatri e alle sale da ballo della città, allora il cattolicesimo sarà diventato una faccenda comprensibile e del tutto evidente anche alla sensibilità del pensiero economico. Questo ha la propria correttezza e il proprio punto d’onore nel rimanere del tutto ed assolutamente oggettivo, cioè aderente alle cose. Per il pensiero economico, dunque, il 4 politico ’ (2) è (2) Qui, e tutte le volte che compare fra apici, come sostantivo neutro.

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qualcosa di non oggettivo, perché deve richiamarsi a valori non semplicemente economici. Ma il cattolicesimo è politico (3) in senso eminente, a differenza di questa assoluta oggettività economica. Politico, infatti, non significa qui la manipolazione ed il dominio di certi fattori di potenza, sociali ed internazionali, come vuole il concetto machiavellico che, isolando un singolo momento esteriore della vita politica, la riduce a semplice tecnica. La meccanica po­ litica ha le proprie leggi, ed il cattolicesimo vi rientra esattamente come ogni altra entità storica che sia coinvolta nella politica. Che 1’« apparato » della Chiesa, dopo il XVI secolo, sia divenuto più rigido, che oggi la Chiesa (nonostante il romanticismo, o forse pro­ prio per renderlo inoffensivo) sia un’organizzazione burocratica più centralizzata che non nel medioevo, tutto ciò, che può essere sociologicamente descritto come « gesuitismo », non si spiega sol­ tanto con la lotta contro il protestantesimo ma anche come reazio­ ne al meccanismo dell’epoca. Il sovrano assoluto col suo « mercantili­ smo» è stato il battistrada della moderna mentalità economica e di un assetto politico che si trova circa nel punto d’indifferenza fra dit­ tatura e anarchia. Insieme all’immagine meccanicistica della natura si sviluppano, nel XVII secolo, un apparato di potere statuale e, contemporaneamente, la tanto spesso descritta « oggettivazione » di tutti i rapporti sociali; in questo milieu anche l’organizzazione della Chiesa si fa più compatta e più rigida, come una corazza pro­ tettiva. Ma di per sé ciò non è ancora segno di debolezza o di senescenza politica; la questione è solo se in tale processo resti ancora viva un’idea. Nessun sistema politico può durare, anche sol­ tanto per una generazione, con la sola tecnica della conservazione del potere. Al ‘ politico’ inerisce l’idea, dato che non ce politica senza autorità, né c’è autorità senza un ethos della convinzione.

Dalla pretesa di essere qualcosa di più rispetto all’economico, deriva al * politico ’ la necessità di richiamarsi a categorie diverse (3)

Qui come aggettivo attributivo.

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da quelle della produzione e del consumo. Stranamente, ripetia­ mo, l’imprenditore capitalistico ed il proletario socialista concor­ dano nel considerare semplice arroganza le pretese del 4 politico’ e, dal punto di vista del loro pensiero economico, percepiscono come « non oggettivo » il dominio dell’uomo politico. In termini coerentemente politici ciò significa, ad ogni modo, soltanto che determinati gruppi sociali di potere — potenti imprenditori pri­ vati o gli operai organizzati di determinate fabbriche o di un set­ tore dell’industria — si servono della loro posizione all’interno del processo produttivo per prendere nelle loro mani il potere sta­

tale. Quando quei gruppi si volgono contro gli uomini politici e con­ tro la politica in quanto tale, hanno in mente un concreto potere politico che per il momento è ancora loro d’ostacolo. Una volta riu­ sciti a metterlo da parte, perderanno anche interesse per la contrap­ posizione sistematica di pensiero economico e pensiero politico, e sorgerà un nuovo tipo di politica, consono ad un potere stabilito su basi economiche. Ma ciò che faranno sarà ancora politica, e ciò im­ plica un modo specifico di vigenza dell’autorità: si appelleranno alla propria insostituibilità sociale, alla salut public, giungendo così sul terreno dell’idea. Nessuna grande contrapposizione sociale può essere risolta solo economicamente. Se l’imprenditore dice agli operai « io vi do da vivere », quelli gli rispondono « noi diamo da vivere a te » ; questo non è un conflitto relativo alla produzione e al consumo — non è affatto qualcosa d’economico — ma sorge dal pathos di differenti convinzioni morali o giuridiche. La que­ stione concerne la definizione morale o giuridica di chi sia pro­ priamente il produttore, il creatore e di conseguenza il signore della ricchezza moderna. Nel momento in cui la produzione è diven­ tata completamente anonima, ed il velo delle società per azioni e di altre persone « giuridiche » rende impossibile l’individuazione di un responsabile concreto, la proprietà privata di chi non è altro che capitalista dovrà essere spazzata via come un’appendice

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inammissibile. E ciò avverrà, anche se, almeno per adesso, ci sono ancora imprenditori che sanno farsi valere, rivendicando la pro­ pria personale insostituibilità. In questa battaglia difficilmente il cattolicesimo potrebbe esser tenuto in qualche conto, almeno fin tanto che le due parti pensano in termini economici. Il suo potere non si fonda su mezzi eco­ nomici; anche se la Chiesa può avere possedimenti terrieri e svariate « partecipazioni », ciò è innocuo ed idilliaco, a fronte dei grandi interessi industriali nelle materie prime e nei mercati. Il possesso delle risorse petrolifere della terra può presumibilmente decidere la lotta per il dominio mondiale, ma a questa lotta il Vicario di Cristo in terra non prenderà parte. Il papa insi­ ste nell’affermare di essere il sovrano dello Stato della Chiesa: ma che cosa può significare ciò, nello strepito dell’economia mon­ diale e degli imperialismi? Il potere politico del cattolicesimo non si fonda né su mezzi di potenza economica né su mezzi militari. Indipendentemente da questi, la Chiesa possiede quel pathos del­ l’autorità nella sua piena purezza. Anche la Chiesa è una « persona giuridica », ma diversa da una società per azioni. Questa, il tipico prodotto dell’epoca della produzione, è un sistema di computo, ma la Chiesa è la concreta rappresentazione personale di una perso­ nalità concreta. Tutti quelli che l’hanno conosciuta hanno sempre ammesso che è la depositaria, in grande stile, dello spirito giuridico, e la vera erede della giurisprudenza romana. Nella sua capacità di forma giuridica sta uno dei suoi segreti sociologici. Ma la forza di attuare questa forma, come ogni altra, la Chiesa la possiede solo in quanto ha la forza della rappresentazione. La Chiesa rap­ presenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rap­ porto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica. Nel rappresentare sta la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico.

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Della capacità medievale di formare figure rappresentative — il papa, l’imperatore, il monaco, il cavaliere, il mercante — oggi la Chiesa è l’ultimo solitario esempio; di quelle quattro « colon­ ne » che un accademico (4) una volta enumerò (la Camera Alta inglese, lo Stato Maggiore prussiano, l’Accademia francese, il Vaticano), la Chiesa è sicuramente l’ultima: tanto sola che chi vi vede soltanto forma esteriore può dire, con motto epigramma­ tico, che essa rappresenta, in generale, soltanto la rappresentazio­ ne. Il XVIII secolo aveva ancora alcune figure classiche, come il législateur', perfino la Dea Ragione può sembrare rappresen­ tativa, se solo si pensa all’improduttività del XIX secolo. Per con­ statare fino a che punto la capacità rappresentativa sia scomparsa, basta pensare al tentativo di contrapporre alla Chiesa cattolica un’impresa concorrenziale modellata sul moderno spirito scienti­ fico. August Comte voleva fondare una Chiesa «positivistica»: ma quello che risultò dal suo sforzo è un’imitazione dall’effetto penoso. Nonostante ciò, si può solo ammirare la nobile intenzione di quest’uomo, dato che la sua imitazione è ancora qualcosa di grandioso a paragone di altri tentativi consimili. Questo grandissi­ mo sociologo ha riconosciuto i tipi rappresentativi del medioevo, il chierico e il cavaliere, e li ha raffrontati ai tipi della società mo­ derna, l’intellettuale e il commerciante industriale. Ma conside­ rare l’intellettuale e il commerciante moderni quali tipi rappresen­ tativi è stato un errore. L’intellettuale fu rappresentativo soltanto in un’epoca di transizione, cioè durante la lotta contro la Chiesa, ed il commerciante è stato un’entità spirituale solo in quanto individualista puritano. Da quando funziona la macchina della moderna vita economica, entrambi sono sempre più diventati sem­ plici servitori della grande macchina, ed è ormai difficile dire che cosa specificamente rappresentino. Non ci sono più ceti. La borghesia francese del XVIII secolo, il Terzo Stato, si è autono(4)

Paul Bourget, come risulta dall’edizione del 1923.

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mamente dichiarata «nazione». La celebre espressione «le tiers état c’est la nailon » è stata più rivoluzionaria di quel che si sup­ ponesse, poiché quando un singolo ceto si identifica con la nazione viene superata l’idea stessa di ceto, che implica una pluralità di ceti perché vi sia ordine sociale. Da quel momento la società civile non fu più capace di rappresentazione; soggiacque al destino del dualismo generale che si riproduce in tutta questa epoca e dispiegò le proprie « polarità » : da una parte il bor­ ghese, dall’altra il bohémien che non rappresenta nulla, o, al massimo, solo se stesso. La risposta consequenziale fu il con­ cetto proletario di * classe Questo raggruppa la società oggetti­ vamente, cioè secondo la posizione di ciascuno all’interno del pro­ cesso di produzione, ed è quindi conforme al pensiero economico, dimostrando così come sia immanente al suo spirito il rinunciare ad ogni rappresentazione. L’intellettuale e il commerciante sono diventati fornitori oppure lavoratori dirigenti. Il commerciante

siede nel suo ufficio e l’intellettuale nella sua stanza o nel suo laboratorio. Entrambi, se sono davvero moderni, svolgono una fun­ zione. Entrambi sono anonimi. È privo di senso pretendere che rappresentino qualcosa. O sono privati cittadini o sono ‘ espo­ nenti ’, ma non ‘ rappresentanti ’.

Il pensiero economico conosce soltanto un tipo di forma, cioè la precisione tecnica, che è lontanissima dall’idea di rappresenta­ zione. L’ ‘ economico ’, nel suo combinarsi con il ‘ tecnico ’ — ma dovremo ancora accennare all’intrinseca diversità delle due dimen­ sioni — richiede la presenza reale della cosa. Ad esso corrispondono nozioni come « riflesso », « emanazione », « rispecchiamento », espressioni, cioè, che indicano un rapporto materiale, stati diversi di aggregazione della medesima materia. Con queste immagini si pretende di spiegare l’ideale con l’incorporarlo nella materialità. Ad esempio, secondo la celebre concezione « economica » della storia, le opinioni politiche e religiose sono il « riflesso » ideolo­

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gico dei rapporti di produzione, il che non significa altro — se dobbiamo considerare questa dottrina secondo il suo stesso metro — che nella sua gerarchia sociale i produttori devono precedere gli «intellettuali»; e nelle discussioni psicologiche si sente spesso un termine come « proiezione ». Metafore come « proiezione » « ri­ flesso », « rispecchiamento », « emanazione », «transfert », denotano la ricerca della base oggettiva « immanente ». L’idea della rappre­ sentazione, al contrario, è così dominata dal pensiero dell’autorità personale che tanto il rappresentante quanto il rappresentato de­ vono conservare una dignità personale. Non si tratta di un con­ cetto 4 inerente a cose ’. Solo una persona può rappresentare in senso eminente, e appunto una persona dotata di autorità — ciò che segna la differenza rispetto al semplice « stare per altri » —, oppure un’idea che, non appena viene rappresentata, parimenti si personifica. Contenuti concepibili di una rappresentazione sono Dio ovvero, in un’ideologia democratica, il Popolo o ancora idee astratte come Libertà e Uguaglianza, ma non certo Produzione e Consumo. La rappresentazione conferisce una particolare dignità alla persona del rappresentante, poiché chi rappresenta un alto valore non può essere privo di valore. Ma non si richiede solo che abbiano valore il rappresentante ed il rappresentato, sì anche lo stesso Terzo, il destinatario a cui si rivolgono. Non si può rappresentare davanti ad automi e a macchine, né queste possono rappresentare o essere rappresentate; quando lo Stato diventa Leviatano scompare dall’universo rappresentativo. Questo ha la propria gerarchia di valori e la propria umanità; in esso vive l’idea politica del cattolicesimo, con la sua forza capace di dar vita alla triplice grande forma: la forma estetica della dimensione artistica, la forma giuridica del diritto e infine il glorioso splendore di una forma di potere storico-mondiale.

Ciò che nell’ordine storico e naturale è l’ultimo fiore e l’ultimo ornamento che corona tutta la crescita, cioè la bellezza estetica

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della forma, è l’elemento che più colpisce un’epoca orientata al piacere artistico. Dalla grande rappresentazione derivano sponta­ neamente forma, figura e simbolo visibile. L’astrattezza della fabbrica moderna è incapace di rappresentazione, e trae i propri simboli da un’altra epoca: la macchina è a tal punto priva di tradizione e così poco atta all’immagine che perfino la repubblica russa dei soviet non ha trovato, per il proprio stemma, altri simboli che la falce e il martello, corrispondenti ad uno stadio della tec­ nica vecchio di millenni ed inadeguati ad esprimere il mondo del proletariato industriale. Si può riguardare questo stemma con spi­ rito satirico, come un’allusione al fatto che la proprietà privata dei contadini economicamente reazionari ha sconfitto il comuniSmo degli operai industriali, e che la piccola economia agraria ha trionfato sulla grande industria meccanicizzata e tecnicamente più perfezionata. Tuttavia, questo simbolismo primitivo ha qualcosa che manca alla più evoluta tecnologia delle macchine, qualcosa d’umano : ha un linguaggio. Non ce da meravigliarsi che il tempo dell’ ‘ economico ’ sia colpito dalla bella esteriorità più che da ogni altra cosa: infatti, gli manca il Tutto. Ma anche nella dimensione estetica il nostro tempo si ferma di solito alla superficie. La capaci­ tà formativa, di cui qui ci si interessa, ha infatti il proprio nòc­ ciolo nella capacità linguistica di una grande retorica. A questa si deve qui pensare, non all’ammirazione snobistica per gli abiti dei cardinali, o al fasto esteriore di una bella processione, con tutto ciò che vi inerisce di bellezza poetica. Neppure la grande architet­ tura, la pittura ecclesiastica, la musica o i grandi lavori poetici sono il criterio della capacità formale di cui qui si parla. Oggi c’è senza dubbio una separazione fra Chiesa e arte creativa. Francis Thompson, uno dei pochi grandi poeti cattolici delle ultime generazioni, ha espresso questo concetto in un magnifico saggio su Shelley: la Chiesa, un tempo madre della poesia non meno che dei Santi, di Dante come di san Domenico, oggi custodisce per sé solo la gloria della santità e abbandona l’arte agli estranei.

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«.The separatimi has been ili for poetry; it has not been tueli for religi&n ». Tutto ciò è vero, e nessuno potrebbe formularlo meglio e più correttamente: la situazione presente non è buona per la religione, ma non è ancora una malattia mortale per la Chiesa.

Al contrario, la forza che rende capaci di parola e di eloquio — retorica nel suo senso più grande — è un segno di vita umana. Parlare così oggi è forse pericoloso. Il misconoscimento del valore della retorica è uno degli effetti da ascrivere a quel dualismo polare del nostro tempo, che in questo caso si manifesta col pro­ durre da una parte una musica esageratamente 4 cantante ’ e dal­ l’altra una muta oggettività, e col cercare di fare della « pura » arte qualcosa di romanticamente musicale e irrazionale. È noto che c’è uno stretto rapporto fra retorica ed esprit classique\ resta uno dei più grandi meriti di Taine averlo riconosciuto e descritto. Solo, egli ha ucciso il vivente concetto di * classico ’ ponen­ dolo in antitesi con il * romantico ’ e, senza neppure crederci davvero, si è sforzato di dimostrare che il classico coincide con il 4 retorico ’ e dunque, a suo parere, con l’artificioso, con la vuota simmetria e con l’affettata languidezza. Tutto un gioco delle bocce con le antitesi! Nella contrapposizione fra razionalismo e gene­ rico « irrazionale », il classico viene assegnato al razionalistico e il romantico all’irrazionale, e il retorico è ricompreso nel classico­ razionalistico. E tuttavia, ciò che decide è proprio l’eloquio che non discute e non ragiona, ma, per dir così, rappresenta: si muove fra antitesi che però non sono ‘ opposti ’, quanto piuttosto i di­ versi elementi a cui viene data forma in una complexio perché l’elo­ quio stesso abbia vita. Si può comprendere Bossuet con le ca­ tegorie di Taine? Quegli ha più intelletto di molti razionalisti e più forza intuitiva di tutti i romantici. Ma il suo eloquio è possibile soltanto sulla base di un’imponente autorità. Senza scadere nel ‘ dialogo ’, nel diktat o nella dialettica, si muove den­

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tro la propria architettura. Lo stile ‘ alto ’ della sua oratoria è più che semplice musicalità : è una dignità umana che si rende visibile nella razionalità di un linguaggio che si dà forma di sé. Tutto ciò presuppone una gerarchia, poiché la risonanza spirituale della gran­ de retorica deriva dalla fede nella rappresentazione richiesta dal­ l’oratore. In Bossuet si dimostra che, per la storia mondiale, il sa­ cerdote appartiene alla stessa specie del soldato e dello statista. Il sacerdote può stare al fianco di questi, come figura rappresenta­ tiva, poiché anche essi sono siffatte figure, ma non può stare ac­ canto al commerciante e al tecnico che ragionano economicamen­ te, che gli danno solo elemosine e che scambiano la sua rappresen­ tazione per mera decorazione. È impossibile una riunificazione fra la Chiesa cattolica e l'odierna forma deH’industrialismo capitalistico. All’alleanza di trono e altare non seguirà quella di ufficio e altare, né quella di fabbrica e altare. Ci potranno essere imprevedibili conseguenze, se il clero cattolico-romano d’Europa non si recluterà più, in larga misura, dalle popolazioni contadine, e se la grande maggioranza de­ gli ecclesiastici risulterà formata da abitanti delle metropoli; ma quell’impossibilità resterà tale. Rimane tuttavia ben vero che il cat­ tolicesimo saprà adattarsi ad ogni ordine sociale e politico, anche a quello in cui dominano gli imprenditori capitalistici o le organiz­ zazioni dei lavoratori e dei consigli di fabbrica. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il potere basato su di una situa­ zione economica sarà divenuto politico, cioè se i capitalisti o i la­ voratori giunti al potere si assumeranno la responsabilità, in tutte le forme, della rappresentazione statale. Allora, il nuovo potere sarà costretto a far valere situazioni diverse da quelle puramente economiche o di diritto privato; il nuovo ordine non può esau­ rirsi nella gestione del processo di produzione e di consumo, poiché deve essere formale; ogni ordine è ordine giuridico, ed ogni Stato è Stato di diritto. Non appena ciò sarà avvenuto, la

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Chiesa potrà ristabilire un rapporto con questi nuovi ordini, così come ha fatto con ogni ordine politico. Essa non è per nulla te­ nuta a stringere rapporti solo con quegli Stati che siano retti da una classe di nobili proprietari terrieri oppure di contadini: ha bisogno di una forma statuale, poiché altrimenti non vi è nulla che corrisponda alla sua attitudine essenzialmente rappresentativa. Il dominio del « capitale », esercitato dietro le quinte, non è an­ cora una forma, anche se può certamente svuotare una forma po­ litica esistente e ridurla a vuota facciata. Se il capitale riesce in questo intento, potrà dire di avere completamente « spoliticizzato » lo Stato; se il pensiero economico riesce a realizzare i propri fini utopistici, di condurre la società umana ad una condizione asso­ lutamente impolitica, la Chiesa resterà l’unica depositaria di pen­ siero politico e di forma politica: deterrebbe così un monopolio mostruoso, e la gerarchia ecclesiastica sarebbe allora più vicina al dominio politico mondiale di quanto lo sia mai stata nel me­ dioevo. Ma secondo la sua stessa teoria e la sua struttura ideale, la Chiesa non dovrebbe affatto desiderare una situazione di questo tipo, dato che presuppone accanto a sé lo Stato politica, una società; perfecta e non un trust d’interessi. La Chiesa vuole convivere con lo Stato, in quella particolare forma di comunità in cui due rap­ presentazioni si stanno di fronte come partner;. Come si può osservare, al diffondersi del pensiero economico corrisponde anche la scomparsa dell’intelligenza di ogni genere di rappresentazione. Tuttavia l’odierno parlamentarismo — almeno secondo i suoi fondamenti ideali e teorici — implica il pensiero della rappresentazione e si basa persino su quello che, con espres­ sione tecnica, viene chiamato «principio rappresentativo». Nella misura in cui con tale espressione non si fa altro che indicare una rappresentanza — e cioè la rappresentanza degli individui che votano — la cosa non avrebbe alcun valore caratteristico. Nella let­ teratura politica e giuridica dell’ultimo secolo si è inteso con que-

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sta parola una rappresentanza popolare, cioè una rappresentazione del popolo contrapposta ad un altro rappresentante, al re; ma entrambi, oppure — nel caso di costituzioni repubblicane — il solo parlamento, rappresentano « la nazione ». Si dice quindi della Chiesa che non ha « istituzioni rappresentative », dato che non ha parlamento e che i suoi rappresentanti non traggono dal popolo l’autorizzazione del loro potere. Coerentemente, la Chiesa rappresenta « dall’alto ». Durante il XIX secolo, nella lotta della rappresentanza popolare contro il principio monarchico, la giuri­ sprudenza ha perduto il senso ed il concetto specifico della rap­ presentazione. Particolarmente la dottrina dello Stato tedesca ha elaborato, a questo riguardo, una mitologia intellettuale al tempo stesso mostruosa e ingarbugliata: il parlamento, in quanto organo statuale secondario, rappresenta un altro organo primario (e cioè il popolo), ma questo 4 primario ’ non ha altra volontà all’infuori del secondario, almeno per quei casi che non gli competono come « ri­ serva particolare » ; due persone ne sono così una sola, formano due organi e tuttavia soltanto una persona, e così via. A questo proposi­ to, si legga solo il curioso capitolo « Repräsentation und repräsenta­ tive Organe-» nella Allgemeine Staatslehre di Georg Jellinek. II semplice senso del principio rappresentativo è dunque questo, che i deputati attuano la rappresentanza di tutto il popolo, ed hanno per­ ciò, rispetto agli elettori, una dignità autonoma, senza cessare tut­ tavia di trarla dal popolo (non dai singoli elettori). « Il deputato non è vincolato da mandati né da ordini, e risponde solo alla propria coscienza ». Ciò significa che nella personificazione del po­ polo e dell’unità del parlamento come suo rappresentante c’è una complexio oppositorum almeno dal punto di vista ideale: infatti la molteplicità degli interessi e dei partiti è pensata in modo ten­ denzialmente unitario, in via rappresentativa e non economica. Il sistema proletario dei * consigli ’ cerca di eliminare proprio que­ sto residuo di un tempo che pensa in forma non economica, sottolineando che i delegati sono semplici agenti e commissari dei

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produttori, mandatari sempre revocabili, sottomessi a mandat im­ perativ, servitori amministrativi del processo di produzione. Il po­ polo come «intero» è solo un’idea; il processo economico come « intero » è una faccenda reale. Sono imponenti le conseguenze spirituali di quell’atteggiamento antispirituale con cui, sull’onda montante del socialismo, i giovani bolscevichi fecero della batta­ glia per il pensiero economico una lotta contro l’idea, contro ogni idea in generale. Infatti, fintanto che rimane un residuo di idea, domina ancora l’attitudine a concepire qualcosa di precedente alla datità effettuale della materia, qualcosa di trascendente; e ciò si­ gnifica sempre un’autorità dall’alto. E questo, ad un pensiero che vuole trarre le proprie norme dall’immanenza della dimensione tecnico-economica, appare come un’intromissione dall’esterno, una interferenza nell’automatismo della macchina; un uomo intelli­ gente e dotato d’istinto politico, che combatte contro gli uomini politici, scorge subito, nell’appello all’idea, la pretesa alla rappre­ sentazione e quindi all’autorità, una presunzione che invece non c’è nella mancanza di forma tipica del proletariato e neppure nella massa compatta della realtà « corporea » : in tali contesti gli uo­ mini non hanno più bisogno di governo, e anche « le cose si go­ vernano da sé».

Di fronte alla consequenzialità del pensiero economico, le forme giuridiche e politiche sono a un tempo secondarie e fonti di distur­ bo; ma soltanto dove si è verificato il paradosso che ci fossero fana­ tici di tale pensiero — il che è certo possibile solo in Russia — que­ sto ha rivelato per intero tutta la propria ostilità contro l’idea e contro ogni altra forma d’intelligenza non economica e non tecnica. Da un punto di vista sociologico, è questo il vero istinto della rivoluzione. Intellettualismo e razionalismo non sono rivolu­ zionari in sé; lo è bensì il pensiero esclusivamente tecnico, del tutto estraneo ad ogni tradizione sociale. La macchina è priva di tradizione. Che sia la tecnica il vero principio rivoluzionario, e

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che a suo paragone tutte le rivoluzioni fondate su principi giusna­ turalistici non siano che giochi arcaicizzanti, è una delle feconde intuizioni sociologiche di Karl Marx. Una società esclusivamente fondata sul progresso tecnico sarebbe di conseguenza compietamente rivoluzionaria; ma ben presto si autodistruggerebbe, insie­ me alla propria tecnica. Il pensiero economico non è così assolu­ tamente radicale e, malgrado la sua attuale alleanza col tecnicismo assoluto, può anche contrapporvisi. Infatti, all’4 economico f ineri­ scono ancora alcuni concetti giuridici come ‘ possesso ’ o 4 contrat­ to ’, anche se il pensiero economico li limita al minimo, e soprat­ tutto li circoscrive alla sfera del diritto privato. In questo contesto si può solamente accennare alla flagrante contraddizione tra il fine, che è di fare dell’economico un principio sociale, e lo sforzo, nonostante ciò, di rimanere ben fermi al diritto privato e particolarmente alla proprietà privata. Qui interessa il fatto che la tendenza giusprivatistica presente nell’economico costituisce una limitazione della capacità di forma giuridica. Ci si aspetta che la vita pubblica si governi da sé; deve esser domi­ nata dall’opinione pubblica, cioè dai privati, e l’opinione pub­ blica, d’altronde, è dominata da una stampa che sta in mano alla proprietà privata. In questo sistema nulla è rappresentativo e tutto è affare privato. Storicamente, la « privatizzazione » co­ mincia dal fondamento, cioè dalla religione. Il primo diritto indi­ viduale, nel senso dell’ordinamento sociale borghese, era la libertà religiosa; e questa resta l’inizio e il principio di tutto quel cata­ logo di diritti di libertà — di fede e di coscienza, d’associazione e di riunione, di stampa, di commercio e d’industria — che si è sviluppato in séguito. Ma ovunque si collochi la dimensione re­ ligiosa, questa dimostra sempre la propria efficacia assorbente ed assolutizzante, e quando la religione è privata, allora, di riman­ do, il 4 privato’ viene santificato religiosamente. Le due dimen­ sioni non sono separabili l’una dall’altra. La proprietà privata,

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quindi, è sacra proprio in quanto affare privato. Lo sviluppo sociologico della moderna società europea è spiegato da questo rap­ porto, finora non del tutto consapevole. Anche nella società mo­ derna ce religione, quella del ‘ privato ’: senza di essa andrebbe distrutta tutta la compagine di questo ordine sociale. Che la re­ ligione sia affare privato dà al ‘ privato ’ una sanzione religiosa; e anzi la garanzia di un’assoluta proprietà privata, al di sopra di ogni rischio, c’è propriamente soltanto là dove la religione è un af­ fare privato. Nell’universo borghese, dunque, ma anche in ogni altra dimensione politica. Quando nel programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca s’incontra quell’affermazione, così spesso citata, esser cioè la religione un affare privato, vi si può vedere una interessante deviazione verso il liberalismo. In Karl Kautsky, il teologo di questo programma, si trova al riguardo — nel suo scritto del 1906 sulla Chiesa cattolica e il cristianesimo (5) — una correzione, assai sintomatica nella sua innocua accidentalità: la religione non è tanto un affare privato quanto piuttosto solo un affare di cuore. In contrapposizione alla fondazione liberale sul ‘ privato ’, la capacità di forma giuridica della Chiesa cattolica è di tipo pubbli­ cistico. Anche questo inerisce alla sua essenza rappresentativa e le rende possibile, in tal modo, di ricomprendere giuridicamente il fatto religioso. Perciò, un nobile protestante come Rudolf Sohm ha potuto definire la Chiesa come qualcosa di essenzialmente giu­ ridico, pur considerando egli la religiosità cristiana come essenzial­ mente non giuridica. La compenetrazione con elementi giuridici ha in effetti un’ampiezza straordinaria, così che parecchi dei com­ portamenti politici apparentemente contraddittori che vengono spesso rimproverati al cattolicesimo trovano la loro spiegazione nel­ la peculiarità giuridica e formale di quello. Anche la giurispru(5) Der Ursprung des Christentums. Eine historische Untersuchung, che è però del 1908.

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denza laica rivela, nella realtà sociale, una certa complexio d’interes­ si e di tendenze contrastanti. Anche in essa, come nel cattolicesi­ mo, c’è una peculiare miscela di attitudine conservatrice tradizio­ nale e di resistenza giusnaturalistico-rivoluzionaria. Si può consta­ tare come ogni movimento rivoluzionario veda nei giuristi — « i teologi dell’ordine costituito» — il proprio specifico nemico e come, contemporaneamente, certi giuristi stiano dalla parte della rivoluzione, conferendole il pathos per affermare il diritto umi­ liato e offeso. Con la sua superiorità formale, la giurisprudenza può facilmente assumere, nei confronti di forme politiche diverse, un atteggiamento simile a quello del cattolicesimo, proprio col­ legandosi positivamente a disparati complessi di potere, con questo unico presupposto, che già il solo fatto che ci sia un « ordine co­ stituito » è sufficiente a far esistere un minimo di forma. Non ap­ pena la nuova situazione politica permette di riconoscere una autorità, lì c’è il terreno per una giurisprudenza, il fondamento concreto per una forma sostanziale. Ma nonostante tutta questa affinità per quanto concerne la forma, il cattolicesimo va molto più in là, proprio perché rappre­ senta qualcosa di diverso e di maggiore rispetto alla giurispru­ denza laica, e cioè non solo l’idea della giustizia, ma anche la persona di Cristo. Così il cattolicesimo arriva a pretendere di avere un proprio potere ed una propria dignità; può trat­ tare con lo Stato come controparte parimenti legittima, e può pertanto creare un nuovo diritto, mentre la giurisprudenza laica è soltanto l’applicazione mediata di un diritto già vigente. All’inter­ no dello Stato, la legge da applicare è fornita al giudice dalla collettività nazionale; così, fra l’idea di giustizia e il caso singolo si inserisce una norma più o meno formata. Un tribunale interna­ zionale che fosse indipendente, e cioè non legato a direttive politi­ che ma solo ai princìpi giuridici, sarebbe senz’altro più vicino al­ l’idea di giustizia. In quanto autonomo dai singoli Stati quel tri­

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bunale, a differenza di quelli statali, sarebbe capace di opporsi an­ che allo Stato, proprio rivendicando di rappresentare qualcosa di autonomo e cioè l’idea di giustizia, indipendentemente dalla vo­ lontà e della decisione di un singolo Stato. La sua autorità si fon­ derebbe così sull’immediata rappresentazione di questa idea e non sulla delega dei singoli Stati, anche se quel tribunale sopranna­ zionale fosse istituito da un’unione di Stati. Dunque, si presen­ terebbe necessariamente come un’istanza originaria e quindi anche universale. Sarebbe questo lo sviluppo naturalmente consequenzia­ le, in termini logici; in termini psicologici, poi, si tratterebbe di una conseguenza di quel potere politico che è implicito nel porre originariamente il diritto. Si possono ben comprendere le obiezioni che oggi vengono avanzate, a proposito di un tribunale siffatto, da parte di pubblicisti di potenti Stati: derivano tutte dal concetto di sovranità. Il potere di decidere chi sia sovrano significherebbe una nuova sovranità e il tribunale che avesse tale facoltà sarebbe un sopra-Stato e un sopra-sovrano che — se ad esempio fosse determinan­ te nel decidere il riconoscimento di un nuovo Stato — potrebbe esso stesso creare un nuovo ordine. Non un tribunale, sì una Lega di nazioni, avrebbe il diritto di avanzare simili pretese; ma quel tribunale diventerebbe così un soggetto autonomo, vale a dire che oltre alle proprie funzioni giuridiche e amministrative — che forse implicano un’autonomia patrimoniale, di bilancio ed altre formalità — avrebbe valore anche per se stesso. La sua attivi­ tà non si limiterebbe all’applicazione delle norme vigenti, come avviene per i tribunali della magistratura. Sarebbe anche qualcosa di più che un arbitro, poiché avrebbe un proprio interesse di auto­ affermazione in tutti i conflitti decisivi. Cesserebbe così anche di rappresentare esclusivamente la giustizia, cioè, politicamente par­ lando, lo status quo. E se quel tribunale prendesse come base e come principio determinante la situazione politica internazionale in continuo mutamento, dovrebbe anche decidere, con potere auto­ nomo, che cosa debba essere riconosciuto come nuovo ordine e

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come nuovo Stato, e che cosa non. E questo riconoscimento non potrebbe neppure essere dedotto automaticamente dall’attuale si­ tuazione giuridica internazionale, dato che la maggior parte dei nuovi Stati si è costituita contro la volontà dei precedenti sovrani. Un’istanza siffatta implicherebbe dunque la possibilità che nel mo­ mento del suo affermarsi si generi antagonismo fra il diritto e questa autoaffermazione: verrebbe così a rappresentare, al di là dell’idea della giustizia impersonale, anche una autonoma e po­ tente personalità. Nella sua grande storia la Chiesa romana non ha avuto solo Yethos della giustizia ma anche quello del proprio potere, che si è ancora innalzato ad ethos della gloria, dello splendore e del­ l’onore. La Chiesa vuol essere la Sposa regale di Cristo e rap­ presenta il Cristo che regge, che regna, che vince. La sua pretesa alla gloria e all’onore si fonda, in senso eminente, sul pensiero della rappresentazione e genera la perenne opposizione fra giu­ stizia e splendore glorioso. Questo antagonismo è presente in tutto ciò che è umano, benché buoni cristiani vi vedano spesso una particolare forma di malvagità. Il grande tradimento che si im­ puta alla Chiesa romana è proprio che non concepisce Cristo come un privato né il cristianesimo come affare privato e puramente interiore, facendone anzi un’istituzione formale e visibile. Rudolf Sohm credette di riconoscere il peccato originale nella dimen­ sione giuridica, ed altri lo vedono, più rilevante e profondo, nella volontà di dominio mondiale. Come ogni imperialismo univer­ sale anche la Chiesa, se consegue il proprio fine, porterà al mondo la pace, ma appunto in ciò una paura ostile alla forma vede la vittoria del demonio. Il Grande Inquisitore di Dostoevskij con­ fessa di aver ceduto, in piena coscienza, alle tentazioni del dia­ volo perché sa che l’uomo è per natura vile e malvagio, un co­ dardo ribelle che ha bisogno di un padrone e perché solo il sacer­ dote cattolico può avere il coraggio di caricarsi della dannazione

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che è implicita in tale forma di potere. Qui Dostoevskij, con grande violenza, ha proiettato sulla Chiesa cattolica il proprio po­ tenziale ateismo. Per il suo istinto fondamentalmente anarchico — cioè a dire sempre ateo — ogni potere era qualcosa di malvagio e d’inumano (6). Nella dimensione temporale la tentazione del Male, che è presente in ogni potere, è senza dubbio perenne, e l’op­ posizione fra bene e potere è superata, senza residui, soltanto in Dio; tuttavia, il volersi sottrarre a quell’opposizione, rifiutando ogni potere mondano, sarebbe la peggiore inumanità. Una Stimmung oscura ed ampiamente diffusa sente la freddezza istituzio­ nale del cattolicesimo come malvagia, mentre l’informe enormità di Dostoevskij è percepita come vero cristianesimo. Ma ciò è ba­ nale, come tutto quello che resta prigioniero della Stimmung e del­ la sensazione; e non si vede neppure quanto poco cristiana sia la teoria che Cristo — fra la Sua esistenza terrena e il Suo glorioso avvento il giorno del Giudizio — possa apparire una o più volte fra gli uomini, per così dire a mo’ d’esperimento (7). Con maggior concisione di Dostoevskij e tuttavia con una latitudine d’orizzonte infinitamente più ampia, lo spirito di un cattolico francese ha in­ ventato un’immagine che racchiude tutta la tensione di quell’anta­ gonismo (fra giustizia e splendore glorioso) e che contempora­ neamente (con la formulazione di un appello rivolto contro il giu­ dizio di Dio) spinge dialetticamente la giustizia all’estremo, con­ servando la categoria giuridica proprio con l’introdurre formal­ mente una sentenza ed un appello. Ernest Hello ha avuto il co­ raggio di dipingere un’incredibile scena del Giudizio universale: una volta che il Giudice del mondo ha emesso la propria sentenza,

(6) In questa seconda edizione, del 1925, cadono qui, rispetto a quella del 1923, alcune righe in cui Schmitt faceva riferimento al Sermo XIII di Innocenzo III (« il più grande di tutti i papi, almeno in senso mondano ») paragonandolo, come più umano, a Dostoevskij. (7) Dall’ultimo punto e virgola fin qui si tratta di un’aggiunta della seconda edizione.

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un dannato, carico di delitti, se ne starà fermo e, fra l’orrore del­ l’universo, dirà al giudice: « j’en cappelle ». «A queste parole si spengono le stelle ». Ma nell’idea del Giudizio universale è impli­ cito che le sue sentenze siano assolutamente definitive, «effroyablement sans appel ». « A chi ti appelli, contro il mio giudizio? », gli chiede Gesù Cristo, il Giudice; in un tremendo silenzio il dan­ nato risponde: «j’en appelle de ta justice à ta gioire».

In ciascuna delle tre grandi forme del rappresentare la complexio delle contraddizioni della vita viene formata ad unità di rappresentazione personale. Ciascuna delle tre forme può quindi suscitare anche particolari turbamenti e inquietudini, e richiamare di nuovo in vita il sentimento antiromano. Nessuno dei settari e degli eretici ha voluto vedere quanto, nel suo personalismo, il pensiero della rappresentazione sia umano nel senso più profondo. Perciò fu un tipo nuovo e particolare di lotta quello che la Chiesa cattolica dovette sostenere quando, nel XVIII secolo, trovò avver­ sari che le opposero proprio l’idea di umanità. Il loro entusiasmo aveva un nobile fervore. Ma quando ebbero conseguito rilevanza storica esperirono di nuovo anch’essi il destino di quell’antagoni­ smo (fra giustizia e gloria) il cui spettacolo aveva suscitato tante energie contro la Chiesa. Finché l’idea d’umanità dimostrò la pro­ pria forza primitiva, i suoi rappresentanti trovarono anche il corag­ gio di perseguirla con inumana grandezza. I filosofi umanitari del XVIII secolo predicavano il dispotismo illuminato e la ditta­ tura della ragione (8). Erano degli aristocratici ben consapevoli. Sul fatto di rappresentare l’idea d’umanità fondavano la loro autorità e le loro società segrete, associazioni rigorosamente esoteriche (9). In questo, come in ogni altro esoterismo, c’è un’inumana superiorità rispetto ai non iniziati, all’uomo comune, alla democrazia di

(8) Nel 1923 si aggiungeva «cioè della loro ragione». (9) Nel 1923 si aggiungeva che le società segrete erano « sociologica­ mente il veicolo principale del movimento illuministico ».

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massa (10). Chi, al giorno d’oggi, ha ancora un simile coraggio? A questo proposito sarebbe straordinariamente istruttivo osservare a quale destino sia andato incontro un tipico monumento tedesco di questo grande atteggiamento spirituale umanitario, cioè un’ope­ ra come II flauto magico di Mozart. È forse oggi considerata qual­ cosa di diverso da un brano di gradevole musica tedesca, da un idillio o da un’anticipazione dell’operetta viennese? Ma quella — tutti lo assicurano — è anche il canto deìVAuflflarung, della lotta del sole contro la notte, della luce contro le tenebre. Fin qui, natu­ ralmente, tutto andrebbe perfettamente, anche per la sensibilità di un’epoca democratica. Potrebbe già suscitare maggiore perplessità il fatto che la Regina della Notte, contro cui combatte il sacerdote massone, sia, specificamente, la Madre. Ma infine: per gli uomini del XIX e del XX secolo come risulta tremenda e in­ trepida l’autocoscienza e come sicuro di sé l’autoritarismo che domina in questi sacerdoti! E quale diabolica ironia contro gli uomini comuni, contro Papageno, il buon padre di famiglia, in­ tento all’appagamento dei propri bisogni economici e liquidato una volta soddisfatti i suoi desideri e le sue necessità! Non c’è nulla di più terribile di quest’opera tanto popolare, se solo ci si sforza di osservarla in un grande profilo di storia delle idee. È inevitabile confrontarla con la Tempesta di Shakespeare, e riconoscere come da Prospero sia derivato un sacerdote mas­ sone e da Calibano un Papageno. Il XVIII secolo era ancora ben sicuro di sé, ed aveva ancora il coraggio di far valere il concetto aristocratico di 4 segreto In una società che non ha più questo coraggio non ci saranno più arcana, né gerarchia, né diplomazia segreta: soprattutto, non ci sarà più politica, poiché ogni grande politica implica Yarcanum. Tutto si svolgerà davanti alle quinte (davanti ad una platea di Papageni). Potranno ancora esserci segreti professionali o di fabbrica? Sembrerebbe che questo (10) La specificazione < di massa» non appariva nel 1923.

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tipo di segreto possa trovare particolare comprensione presso un pensiero tecnico-economico, e da qui potrebbe ripresentarsi l’inizio di un nuovo potere incontrollato. Il segreto rimane ancora provvisoriamente intatto nella dimensione economica, scarsamente concepibile come rappresentativo; finora solo i soviet proletari hanno pensato di ribellar visi. Si sentirà sempre parlare solo di ' umanità ’ e perciò non si vedrà che anche l’idea di umanità, non appena si realizza, soggiace alla dialettica di ogni realizzazione e, disumanamente, deve cessare di essere soltanto umana.

La Chiesa cattolica non ha oggi in Europa alcun avversario che le si opponga apertamente come ad una nemica, con quello stesso entusiasmo con cui le si oppose lo spirito del XVIII secolo. Il pacifismo umanitario non è capace di ostilità, poiché il suo ideale si perde nella giustizia e nella pace; per molti, anche se non per i migliori fra i pacifisti, si tratta inoltre solo del calcolo, assai plausibile, che la guerra il più delle volte è un cattivo affare, cioè del sentimento razionalistico per cui non ci si sa dar pace del fatto che in guerra vengono sprecate tante energie e tanti materiali. La Lega delle Nazioni, quale esiste al giorno d’oggi, può essere un’istituzione utile ma non si presenta certo come avversaria della Chiesa universale, né soprattutto come guida ideale dell’umanità. L’ultimo avversario europeo della Chiesa è stata la massoneria. Non sapiei se in questa sopravviva ancora l’ar­ dore della sua epoca eroica; ma per quanto riguarda le sue pretese ideali, la massoneria dovrebbe risultare, ad un pensiero economico conseguente, del tutto indifferente, proprio come il cattolicesimo e la Lega delle Nazioni. Per tale pensiero tutto ciò è soltanto ombra, alcune cose forse ombre del futuro, altre, come il cattoli­ cesimo, ombre del passato; e, veramente, qualcuno ha detto che è del tutto irrilevante se le ombre si tendano la mano oppure siano in conflitto tra di loro. L’umanità è un’idea tanto astratta che, a suo paragone, il cattolicesimo sembra ancora comprensibile, dato

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che, almeno, può interessare a fini di consumo estetico. Di nuovo, per la terza volta, anche qui l’oggettività del capitalista che pensa in termini economici si rivela assai prossima alla convinzione del comunista radicale. Né gli uomini né le cose hanno bisogno di «governo», se si lascia che il meccanismo della tecnica e della economia proceda secondo le proprie leggi immanenti. Se con queste argomentazioni si rifiuta qualunque autorità politica, allora Bakunin, il più grande anarchico del XIX secolo, può sembrare a qualcuno l’istintivo Berser\er (11) che ha precorso di generazioni questa lotta contro l’idea e lo spirito, per sgombrare il cammino da tutte le remore metafisiche ed ideologiche, e che ora, con im­ peto da Scita (12), ingaggia battaglia contro religione e politica, contro teologia e giurisprudenza.

La sua lotta contro l’italiano Mazzini è come il simbolico scon­ tro d’avanguardie di un mostruoso rivolgimento mondiale che ha dimensioni maggiori delle migrazioni barbariche. Per Bakunin la fede in Dio del massone Mazzini era, come ogni fede in Dio, sol­ tanto un segno di schiavitù, la vera causa di ogni male e di ogni autorità statale e politica; era centralismo metafisico. Anche Marx ed Engels erano atei; tuttavia operava in loro, come criterio ulti­ mo, l’opposizione fra la loro cultura e quella di Bakunin. L’insu­ perabile antipatia che opponeva i due tedeschi occidentale all’orien-

(11) I guerrieri berserfyr sono, nella mitologia nordica, i seguaci della schiera di Odhinn (ted. Wotan); rivestiti di una pelle d’orso (Bar) ovvero metamorfosati in questo o in altri animali feroci, hanno come destino ambito di perdere la vita in combattimento e di essere portati dalle Valchirie nella Valhòll, dove conducono un’esistenza di duelli e di banchetti. Nelle saghe, poi, appaiono, degenerati in compagnie di bri­ ganti, a terrorizzare contadini e contadine. (12) Lettera di Bakunin a Ruge, maggio 1843: «io, il russo, il barbaro [...] non abbandono la Germania [...] Voglio sciogliere i vostri ceppi, o germani che volete diventare greci, io, lo Scita! [...] e ancora una volta vorrò scrivere nel cielo della storia a lettere di fuoco: morte ai Persiani!».

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tale Lassalle era più che un trascurabile capriccio: ma la lotta rabbiosa all’interno della Prima Internazionale ha rivelato che l'odio contro il russo Bakunin proveniva dagli strati più profondi del loro istinto. E viceversa: tutto spingeva l’anarchico russo a ribellarsi contro 1’«ebreo tedesco» (che era pure nato a Treviri) e contro Engels. Era il loro intellettualismo ad irritare, sempre ed ogni volta di più, l’anarchico. Quei due avevano troppe « idee », troppo « cervello ». La parola « cervelle » Bakunin può pronun­ ciarla solo con un sibilo di furore: vi fiuta, a ragione, la pretesa all’autorità, alla disciplina, alla gerarchia. Per lui, ogni sorta di ce­ rebralismo è nemica della vita. Il suo incorrotto istinto barbarico è qui pervenuto ad un concetto apparentemente accessorio, ma in realtà decisivo, a quel concetto di Lumpenproletariat che i rivolu­ zionari tedeschi, quando forgiavano il « proletariato » come classe combattente, stigmatizzavano con un pathos stranamente mora­ listico. Questa definizione, Lumpenproletariat, — à la fois méprisant et pittoresque — può ben valere da sintomo, carica com e di un intestirpabile giudizio di valore. Tutte le parti della società, infatti, hanno a che fare con quello straordinario miscuglio che è il Lumpenproletariat-, è un «proletariato», ma vi appartengo­ no anche il bohémien dell’epoca borghese, il mendicante cri­ stiano, e tutti gli umiliati e gli offesi. Ha inoltre giocato un ruolo finora poco chiarito ma essenziale in tutte le rivoluzioni e in tutte le ribellioni. Negli ultimi anni gli scrittori bolscevichi lo hanno ripetutamente riabilitato. Ora, quando Marx e Engels erano tutti intenti a distinguere il loro ' autentico ’ proletariato da que­ sto « marcio servidorame », tradivano con ciò quanto tradizional­ mente fossero ancora tributari a concezioni culturali morali e ‘ occidentali ’ : volevano dare al loro proletariato una dignità so­ ciale, il che è possibile sempre e soltanto con concetti morali. Ma a questo proposito Bakunin ha avuto lo straordinario coraggio di vedere appunto nel Lumpenproletariat il portatore dell’avvenire, il coraggio di fare appello alla canaille. Quale fulminante retorica!

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« Con 4 fiore del proletariato ’ intendo proprio la grande massa, i milioni di non-civilizzati, di diseredati, di miserabili, di anal­ fabeti che il signor Engels e il signor Marx vorrebbero sottomet­ tere al regime paterno di un governo ‘ fortissimo Con ‘ fiore del proletariato’ intendo proprio quell’eterna carne da cannone dei governi, quella grande canaille che non è quasi ancora toccata dalla civiltà borghese e che porta dentro di sé, nelle proprie pas­ sioni e nei propri istinti, tutti i germi del socialismo del futu­ ro » (13). La contrapposizione decisiva fra due culture mai si è mostrata con tanta potenza come qui; qui si spalancano le scene su ciò che è ancor oggi essenziale: su questo punto si può rico­ noscere da quale parte stia oggi il cattolicesimo come entità politica.

Dal XIX secolo ci sono in Europa due grandi masse che si oppongono come estranee alla tradizione europeo-occidentale e alla sua cultura, due grandi correnti che premono contro i propri argini: il proletariato industriale metropolitano, con la sua lot­ ta di classe, e lo spirito russo, che volge le spalle all’Europa. Dal punto di vista della tradizione culturale occidentale entrambe sono barbare e, quando hanno coscienza di sé, tali si definiscono orgogliosamente. Che poi queste due correnti si incontrino in terra russa, nella repubblica russa dei soviet, ha una sua profonda verità dal punto di vista della storia delle idee. Quest’alleanza non è un accidente storico, per quanto eterogenei e perfino opposti siano quei due elementi — lo spirito russo e il proletariato indu­ striale metropolitano — e per quanto inspiegabile possa risultare in futuro l’intero processo dal punto di vista di tutte le teorie tradizio­ nali ed anche per lo stesso marxismo. Io so che nell’odio russo contro la cultura occidentale può esserci più cristianesimo che non nel

(13) La citazione da Bakunin nel 1923 era in francese e un po’ più lunga. Si tratta di un passo deU’Écrit cantre Marx. Fragment jormant une suite de l’Empire Knouto-Germanique (Bakunin, Oeuvres, V, Paris, 1910, p. 414).

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liberalismo e nel marxismo tedesco, che grandi cattolici hanno considerato il liberalismo un nemico peggiore dell’aperto ateismo socialista e che, infine, nell’assenza di forma potrebbe forse esserci la forza potenziale capace di una nuova forma, capace cioè di dar forma anche all’epoca tecnico-economica. Sub specie della sua 4 durata ’, che a tutto sopravvive, non importa che su questo punto la Chiesa cattolica si decida; anche a tale riguardo essa sarà la complexio di tutto ciò che sopravvive. Essa è l’Erede. Ce tuttavia una decisione dei giorni presenti, dell’attuale situazione, di ogni singola generazione, e questa non può essere rinviata. Qui, anche se non può dichiararsi per alcuno dei partiti in lotta, è inevitabile che la Chiesa si schieri di fatto da una parte, a quello stesso modo, ad esempio, in cui, nella prima metà del XIX secolo, si schierò dalla parte dei controrivoluzionari. E questo io credo: che, in quello scontro d’avanguardie fra Mazzini e Bakunin, la Chiesa cattolica e il concetto cattolico d’umanità siano stati dalla parte dell’idea e della civiltà occidentale, più vicini (14) a Maz­ zini che non al socialismo ateo dell’anarchico russo.

(14) Il testo del 1923 diceva «accanto (neben) a Mazzini e non al socialismo [...] ».

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Due affermazioni costituiscono il fondamento di tutto quel che si può dire sulla visibilità della Chiesa : « l’uomo non è solo al mondo» e «il mondo è buono, e ciò che in esso v’è di cattivo è la conseguenza del peccato degli uomini ». Entrambe le afferma­ zioni traggono il loro significato religioso dalla circostanza che Dio si è fatto uomo, e possono semmai essere discusse non come se si dovessero convincere dei pagani o dei trascendental-gradassi, ma presupponendo che si parli ad un cristiano. Infatti qui importa la verità, non l’inconfutabilità. Quegli storici del cristianesimo primitivo che sono giunti alla conclusione che i primi cristiani e perfino lo stesso Cristo erano indifferenti alle cose mondane in quanto attendevano di giorno in giorno la fine del mondo con ansia escatologica, parlano di una esperienza psico-patologica ben nota, che vogliono applicare ai primi cristiani e perfino allo stesso Cristo. Se essi abbiano ragione, con la loro psicologia, non è cosa che interessi alcun uomo reli­ gioso, al quale piuttosto importa se sia giusto lasciare che le cose di questo mondo seguano il loro corso, tenuto conto che il mondo, domani o tra milioni di anni, perirà. Quanto sia misera quella psicologia, da un punto di vista religioso, lo può constatare chiun­ que provi vivo sgomento per la certezza della propria morte. Per il credente, la fine del mondo è stabilita domani o tra breve tempo; l’effetto psicologico della mancanza di preoccupazioni e dell’indifferenza può prodursi anche perché, anziché alle ricerche storiche o alla mia carriera, io penso alla mia morte, che pure mi

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sta davanti in una prevedibile lontananza o piuttosto in una imprevedibile vicinanza. Il fatto che, nonostante l’attesa dei fedeli cristiani, il mondo oggi non è ancora finito, non confuta la reli­ gione di questi cristiani; e viceversa sono morti anche milioni di uomini che si aspettavano di vivere ancora cent’anni. Perché i cristiani si interessano tanto alla fine del mondo, mentre un odierno spiritualista autonomo ritiene evidente di doversela vedere solo con se stesso, essendo ogni uomo il proprio giudice (e perciò anche il proprio carnefice)? Quando l’uomo si presenta davanti a Dio, il mondo intero sprofonda nel nulla con tutti i suoi uomini. Dinnanzi a Dio nessu­ no può comparire a braccetto col suo amico o con la sua amica; nel regno di Dio non si incontrano conoscenti, non si celebrano matrimoni e non si stipulano contratti. Inoltre, sul regno di Dio non si possono scrivere libri, e tutte le parole tanto toccanti che sono state inventate su questo argomento venivano da chi, nel momento in cui le trovò o le pronunciò, non stava nel regno di Dio. L’ultima parola non è stata ancora pronunciata da nes­ suno, nemmeno da un genio, ed anche della parola di Dio si può soltanto dire che nessun orecchio l’ha mai sentita. Infatti, chi parla non è più solo al mondo.

Sarebbe però un’obiezione errata l’affermare che in conse­ guenza di ciò l’uomo, nel proprio rapporto con Dio, è solo al mondo; questa sarebbe non già un’alternativa, bensì una somma dei due corni dell’alternativa. L’uomo o è solo o è nel mondo, poiché fino a quando è solo nella verità non è nel mondo, cioè non è più uomo, e fino a quando è uomo ed è in questo mondo non è solo. Soltanto Dio è solo. La sensazione, a cui nes­ sun uomo di valore si è mai potuto sottrarre, di una solitudine indefinibile e insuperabile, la certezza di non poter mai contare, nelle cose più importanti, sull’aiuto di un altro uomo, la consa­

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pevolezza che nessun uomo può consolarne un altro e che ogni consolazione prodotta dall’approvazione di altri uomini o da qual­ siasi rapporto con essi è soltanto un sollievo mondano, una perico­ losa illusione, tutti questi argomenti, veri, non dimostrano che l’uo­ mo è in realtà solo al mondo: dimostrano che il mondo è nel pec­ cato, e sono i segni della nostalgia di Dio, che è solo. Sarebbe un sofisma che denoterebbe il materialismo più grossolano o che, pre­ suntuosamente, non distinguerebbe più l’uomo da Dio, se dalla solitudine di Dio si volesse concludere che l’uomo nella più grande solitudine fisica e psichica è vicinissimo a Dio — come se il potente Tamerlano fosse stato particolarmente simile a Dio onni­ potente —, che i suoi rapporti con Dio lo riguardano solo come singolo, e che è più giusto pregare il « Padre mio » del « Padre nostro». Dio è solo, eppure è ovunque, anche nel mondo. Rifu­ giarsi in Dio non significa fuggire dal mondo, o addirittura, nel più puro spiritualismo, abbandonare il mondo a se stesso, come un oggetto incommensurabile per la religione, e trarre da quello la sua legalità (allora, il meglio al mondo sarebbe un comando) anziché apprenderla dalla bocca di Dio. Gli attimi nei quali il desiderio umano della solitudine in Dio è soddisfatto già in questa vita sono concessi a pochi eletti come ricompensa e conforto per uno sforzo lungo e impegnativo. Ma nessuno può fare di una esperienza soggettiva il criterio della retta vita cristiana. In tutte le cose essenziali càpita che ci si debba sforzare ma che il successo non sia l’effetto degli sforzi, manifestandosi invece sempre come una grazia di Dio. La via ad un’esperienza religiosa non può essere desunta dall’esperienza medesima in quanto processo psi­ chico. Un sistema pedagogicopolitico al quale riuscisse di indiriz­ zare il comportamento degli uomini in modo tale che questa esperienza si verificasse con sicurezza (e che fosse tenuta lontana con altrettanta certezza l’illusione di una qualsiasi sensazione pri­ vata), non spenderebbe probabilmente nessuna parola al riguardo, e si costruirebbe un sistema esoterico che fosse per sempre al sicuro

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da ogni profanazione. Infatti, se Dio è la vera solitudine, allora la strada che conduce l’uomo a Dio non deve essere il rifiuto della comunità con altri uomini, così come il suicidio non può mai essere, in senso cristiano, un atto di mortificazione. Se qual­ cuno possa esser definito un vero cristiano, è questione che non può essere decisa in base all’intensità dell’impazienza con la quale vuole legarsi a Dio, ma in base alla via che intraprende. La via è stabilita dalla legge di Dio: questo è il rcav pvjpa che Cristo contrappose al Tentatore che Lo aveva sfidato a trasformare le pietre in pane. Ciò comporta il rifiuto dell’immediatezza che vor­ rebbe saltare Cristo, il Mediatore, ed il suo Mezzo, la Chiesa, per placare la fame di Dio che è nell’uomo.

Le leggi che governano questo mondo annullano ogni singola­ rità. L’affermazione che di fronte alla legge tutti gli uomini sono uguali, ha l’esattezza di un giudizio analitico, così che, viceversa, una legge può essere definita come ciò di fronte a cui si è uguali. Una legge naturale, come il suo modello, la legge giuridica che sussiste tra gli uomini, non conosce distinzione o particolare ri­ guardo per chicchessia. Il primo e più primitivo accenno di contratto fece, delle persone individuali che lo conclusero, parti contraenti che poi non poterono più appellarsi al fatto che avevano cambiato idea, che « in verità » avevano voluto qualcos’altro, e che sarebbe una violenza sulla loro « autentica natura » costringer­ le a rispettare il contratto, o cose simili. Che l’uomo non è solo al mondo ha come conseguenza che la sua singolarità non è più importante; e se le norme delle relazioni umane vengono orga­ nizzate secondo una logica immanente e puramente monda­ na, anche nella realtà storica non ci sarà più alcun rispetto per nessun singolo: tutte le istituzioni create per garantirgli di manifestare la propria personalità — nella sua cameretta o nel suo appartamento o nei limiti della legge o in qualsiasi altro spazio — non lo difenderanno dall’essere un giorno strappato dalla

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sua camera; comprenderà allora che cosa significhi non essere soli in un mondo abbandonato da Dio. Davanti a Dio l’uomo è nulla, ma nel mondo è più che mai annullato. Nessun legislatore sarà mai tanto saggio e ben disposto da consentirgli di sottrarsi a quanto prescritto dalla legalità ter­ rena. Ma Dio lo salva, in questo mondo, mediante un favoloso rivolgimento, fondando in Se stesso ogni norma e facendola scatu­ rire dalla propria bocca. Quando il cristiano ubbidisce all’autorità, poiché essa — limite e fondamento — viene da Dio, ubbidisce a Dio e non all’autorità. Questa è l’unica rivoluzione della storia mondiale che meriti l’attributo di grande: il riconoscimento da parte del cristianesimo ha conferito un nuovo fondamento all’auto­ rità mondana. L’immane riserva, che fa di quel riconoscimento se non qualcosa di simulato almeno qualcosa di condizionato, si presenta agli storici come « una peculiare miscela di radicalismo e conservatorismo » (Troeltsch). Per gli schemi di una politica di partiti — che considera la proprietà, il reddito o anche l’educazione come elementi costitutivi — questa miscela appare comunque del tutto assurda. Ma la sua contraddittorietà, di cui ci sono molti riscontri (ad esempio, la mescolanza di orgoglio ed umiltà nella formula devozionale «per grazia di Dio»), è solo un’espressione del fondamentale dualismo che domina il mondo dall’introduzione del cristianesimo in poi.

Ciò che a ragione può essere designato e percepito come 4 perso­ nalità umana ’, esiste soltanto nell’ambito della mediazione fra Dio e il mondo terreno. L’uomo completamente assorbito in Dio è una persona singola tanto poco quanto lo è l’uomo compietamente travolto dalla vita terrena. La singolarità dell’uomo si fonda soltanto sul fatto che Dio lo mantiene nel mondo; è un singolo nel mondo, e perciò nella comunità. Il suo rapporto ad se ipsum non è possibile senza un rapporto ad alterum. In­

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fatti, essere nel mondo significa essere con altri: ogni visibilità, da un punto di vista spirituale, significa quindi che si costituisce una comunità. Se i suoi membri conseguono la propria dignità direttamente da Dio, e perciò non possono essere annullati dalla comunità pur potendo ritornare a Dio soltanto attraverso la co­ munità, allora c’è una Chiesa visibile. L’uomo non è solo al mondo: Dio gli sta accanto; per questo il mondo non può annul­ larlo, e anzi, in senso originario, egli non è nemmeno solo nel mondo: rimane in comunità con altri uomini, e quindi anche nel rapporto con Dio rimane nella comunità e nella condizione di mediatezza che questa determina. La visibilità della Chiesa ri­ posa su qualcosa d’invisibile, il concetto di Chiesa visibile è esso stesso qualcosa d’invisibile. Come ogni realtà perde la propria realtà se viene fondata su Dio, poiché Dio diventa l’unica vera realtà, così la vera visibilità della Chiesa diviene invisibile, e non ce nessuna Chiesa invisibile che non sia visibile, e nessuna Chiesa visibile che non sia invisibile. Così essa può essere in questo mon­ do senza essere di questo mondo.

Un’organizzazione volta a far valere l’invisibile nel visibile deve radicarsi nell’invisibile ed apparire nel visibile; il Mediatore scende quaggiù perché la mediazione può avvenire solo se è com­ piuta dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto: la reden­ zione consiste nel fatto che Dio si fa uomo (non che l’uomo si fa Dio). La similitudine sempre ricorrente, «come Cristo aveva un corpo reale, così anche la Chiesa deve avere un corpo », contiene effettivamente un argomento di grandissimo valore, poiché rivela un’identità nella struttura logica di entrambi i processi e, ren­ dendo con un’immagine concreta il risultato di una riflessione estrema, esprime la grandiosa struttura della stessa « mediazione » che costituisce l’essenza della Chiesa. Non si può credere che Dio si è fatto uomo senza credere che, fino a quando ci sarà il mondo, ci sarà anche una Chiesa visibile. Tutte le sette spiritua­

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listiche che hanno volatilizzato il concetto di Chiesa da quello di comunità visibile di cristiani osservanti in quello di un corpus mere mysticum, in fondo hanno dubitato dell’umanità del Figlio di Dio e hanno falsificato la realtà storica dell’incarnazione di Cristo, trasformandola in un processo mistico-irreale. In questo modo si soddisfa, certo, un postulato d’immediatezza (cioè che Cristo nasce in ogni tempo e in ogni luogo — non soltanto nel­ l’anno 1 a Betlemme in Palestina — per il singolo uomo); ma questa non è più quell’incarnazione visibile e materiale che an­ che il più interiore di tutti i cristiani, Kierkegaard, ha sempre tenuto ferma con tanta forza. Nessuna epoca, nessun popolo, nes­ sun singolo possono osare pretendere che Cristo nasca per loro ancora una volta in realitate. Ognuno percepisce la temerarietà di una simile pretesa, e questa percezione è ben motivata dal fatto che nessuno può ignorare la mediazione che lega il concreto processo storico dell’incarnazione di Cristo con il presente concreto, cioè l’istituzione visibile che tramanda il legame ininterrotto. Ma sebbene Dio si sia fatto uomo e gli uomini abbiano udito la Sua parola espressa in linguaggio umano, il dualismo che si è introdotto nel mondo con il peccato dell’uomo ha coinvolto anche la parola ed ha trasformato il corpo divino del pensiero divino in un mezzo per scopi terreni; così ha anche fatto del diritto uno strumento di potere materiale, ha trasformato in contrapposizione l'uguaglianza di buono e di utile ed ha provocato l’antitesi fuor­ viarne di autonomia ed eteronomia. Questa terribile confusione, questa perdita di chiarezza nella vita, nel pensiero e nel linguaggio sono lo strumento più efficace del peccato; questo produce una totale impossibilità ad intendersi, rafforza la malvagità presen­ tandola come utile e genera la logica irresistibile del punto di vista orientato all’interesse. Con la tremenda contrapposizione di diritto e potere il peccato ha fatto sì che la visibilità della Chiesa possa essere qualcosa d’invisibile in senso materiale e che divenga neces­

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saria una distinzione tra vera visibilità e concretezza solo fattuale. Dato che la visibilità della Chiesa nasce dalla sua essenza, che è mediazione, rimanendo tuttavia la mediazione un compito che de­ v’essere continuamente assolto momento per momento, è possibile che una qualsiasi realtà storica che agisce politicamente come Chie­ sa, cioè la Chiesa « ufficiale » nel senso corrente, pure non corri­ sponda alla Chiesa visibile. Tuttavia, l’uso corrente contiene, di nuovo, una falsificazione. La Chiesa visibile è sempre quella uffi­ ciale, cioè fa parte della sua essenza la trasformazione di facoltà e funzioni spirituali in uffici, la separazione dell’ufficio dalla per­ sona casuale che lo assume. Se però la Chiesa ufficiale rimuove la distinzione tra essenziale ed accidentale, e una dichiarazione ufficiale, nel senso mondano-politico, fa diventare essenziale l’inessenziale o vero il falso, allora la Chiesa ufficiale dev’essere distinta da quella visibile. Le singole persone e i provvedimenti che nei singoli momenti hanno il potere di rappresentare la Chiesa non sono identici alla Chiesa visibile. Altrimenti, il potere — ciò che è puramente fattuale — sarebbe di nuovo diventato diritto; ciò equivarrebbe alla peccaminosa affermazione che il peccato e le sue conseguenze sono scomparsi dal mondo assieme alla Chiesa. Quello che in Cristo non era ammesso, cioè porre in conflitto l’uma­ no col divino e contrapporre la realtà concreta e fattuale all’idea, è possibile nel grado successivo della mediazione, nella Chiesa, che è già esposta agli effetti del mezzo da influenzare. La possibilità del protestantesimo, da un punto di vista reli­ gioso, riposa sulla distinzione tra Chiesa visibile e Chiesa concreta, che sussisterà fino all’ultimo giorno, finché ci sarà peccato nel mondo e gli uomini saranno peccatori. Ma tale giustificazione, che cioè questa possibilità esiste, non si estende fino alla divisione della Chiesa. La Chiesa visibile contiene in sé anche la protesta contro la Chiesa peccaminosamente concreta e meramente sto­ rico-fattuale, e con la protesta non mira ad una nuova Chiesa.

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La visibilità della Chiesa non può affatto essere negata da una Chiesa visibile, poiché, conformemente al suo concetto, ogni Chiesa è visibile; la negazione è diretta solo contro l’elemento concreto-accidentale: ognuno è grande quanto ciò che nega. Le obiezioni che potevano essere rivolte alla Chiesa umana e con­ creta vennero indirizzate alla Chiesa divinamente visibile; da una visibilità malintesa si trasse la conclusione che la visibilità renderebbe impossibile una riforma razionale e, come tutto quanto è mondano, sarebbe prodotto del diavolo. Ma la visibilità della Chiesa è tanto poco invenzione del diavolo quanto poco il mondo è da lui creato; d’altra parte rimane pur sempre un compito, solo attraverso il cui assolvimento la Chiesa concreta diventa Chiesa visibile, ma che non può essere completamente assolto. Perciò non viene mai meno il fondamento alla critica del singolo. Non appena si stabilisce il contatto con Dio, anche se attraverso molte articolazioni, la forza rivoluzionaria della fede in Dio non può più essere contenuta; anche nella Chiesa sussiste il principio secondo cui bisogna ubbidire più a Dio che agli uomini, e la riserva che così viene ad introdursi nel potere di ogni singolo è tanto ineliminabile e sublime da esser valida persino di fronte all’istanza infallibile. È infatti sempre valida l’obiezione, che rice­ vette la sua formulazione storica dai gesuiti, per cui il papa è certo infallibile, ma il singolo papa non può affermare di essere autentico e legittimo appellandosi alla propria infallibilità. Fra molti antipapi può esserci solo un papa legittimo. Così, se si radicalizza quest’idea, si apre persino la possibilità che in tempi di estrema confusione, quando Dio lo permette, l’Anticristo diventi papa, non già un papa legittimo e perciò non il Vicario di Cristo in terra, ma una sua contraffazione dall’apparenza fattuale di «papa legittimo». L’incongruenza tra la Chiesa visibile e la Chiesa concreta sarebbe allora diventata un’aperta contraddizione, la punizione più terribile della malvagità umana, più terribile della divisione della Chiesa, che pure è una punizione pesante per en­

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trambe le parti. Anche allora, però i pochi fedeli continuerebbero a costituire la Chiesa visibile nonostante ogni ottenebramento; essi conserverebbero la continuità visibile, cioè giuridica, dell’ininter­ rotta catena della successione degli uffici di sacerdote, maestro e pastore. Nemmeno essi potrebbero maledire il mondo ed abban­ donarlo alla sua malvagità. La fine del mondo che attendereb­ bero, e la cui attesa continuerebbero a predicare, non porterebbe ad alcun Nirvana bensì allo stesso mondo, pur nuovo e trasfigu­ rato. Certo, l’uomo perdutosi nel peccato non vedrebbe la Chiesa visibile, non si accorgerebbe di nulla e non si farebbe in alcun modo distogliere dalle proprie attività. Ma se non si accorgesse mai di nulla non potrebbe nemmeno vedere, nella più grande not­ te terrena della Chiesa, da quali segni la Chiesa visibile può essere riconosciuta anche nello splendore del mondo : essa rimane sempre, come ognuno dei suoi membri, peregrina in saeculo et pertinens ad civitatem Dei. Chi riconosce così in profondità il peccato degli uomini è costretto, dall’incarnazione di Dio, ad aver fede nella «bontà naturale » dell’uomo e del mondo. Infatti Dio non vuole nulla di male. Chi ha occhio per le identità vede che la dottrina del Para­ diso, dell’uomo buono nella sua condizione originaria, « per natu­ ra», coincide, trasposta nella filosofia naturale, con la dottrina della priorità della vita rispetto alla morte. La natura organica non si è sviluppata da quella inorganica, né la vita dalla morte; la vita non è un fungo nato sulla morte, ma è la morte una caduta dalla vita; Dio non è neppure il prodotto della selezione naturale dei diavoli, ma, piuttosto, è il diavolo un miserabile prodotto del distacco da Dio, così come tutto il male risulta da un allontana­ mento dal bene. Per questo, secondo la concezione cristiana, la le­ galità del mondo visibile è parimenti buona per natura; la rego­ lazione giuridica dei rapporti umani esisteva prima della malva­ gità e del peccato, e non ne è la conseguenza. Della relazione umana

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più importante, che venne elevata a sacramento e ad istituzione giuridica, il matrimonio, Agostino ritiene necessario sottolineare che Dio l’ha istituita ante peccatum hominis ab initio (De ritritate Dei, XIV, 22), così come creò anche la donna traendola dall’uomo ante pecca>tum (ivi, XIII, 14). Ma il matrimonio è dive­ nuto il fondamento di un paragone il cui significato profondo con­ siste in una consacrazione di tutte le sue componenti; che cioè la donna si comporti con l’uomo come l’uomo con la sua Chiesa, e come la Chiesa con il Mediatore, Cristo. In questo modo si apre un’intera gerarchia di mediazioni, alla cui base sta la parola stessa di Dio. Anche il consolidamento di queste relazioni in rapporti giuridici, anche il passaggio alla più solida condizione di aggre­ gato, qual è sperimentato dalla religiosità quando si fa Chiesa e dall’amore quando si fa matrimonio, anche la limitazione del­ l’elemento pneumatico dentro l’ambito giuridico, seguono il ritmo secondo cui ciò che è visibile nasce dal Dio invisibile; questo processo mantiene però sempre la propria unità perché anche Dio è solo Uno.

Il pensiero consegue la propria visibilità nella parola, così come un soffio diventa suono solo se lo si fa passare attraverso la strettoia di una canna. Nonostante la limitatezza, la formularità, l’appar­ tenenza ad un’altra legalità, com’è quella che si manifesta nella parola e nel linguaggio, il Verbo era Dio. Solo il Verbo poteva farsi carne, poiché il farsi Verbo è già un farsi visibile, e il farsi uomo è un passo ulteriore di questa incarnazione. Come un uomo quando parla si si sottomette ad un potere estraneo, le cui leggi non può trasgredire, così prima la divinità si calò nell’umanità e poi la grande istituzione mediatrice, la Chiesa, si costituì in un’organiz­ zazione. Se tutto ciò fosse male, non avrebbe potuto esserci alcun Verbo di Dio. Nella storicità di una mediazione che passa attra­ verso uomini mortali, l’unità di Dio assume la forma di una successione legale, e solo così può manifestarsi nella temporalità.

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Un Dio, una Chiesa. Oggi i monoteisti arrivano al punto di affer­ mare che possono senz’altro ritenere impossibile il Verbo, e sono tanto presuntuosi da pensare che la libertà del loro sentimento del divino non può essere incatenata dall’organizzazione eccle­ siale. È come se un uomo andasse in bordello perché la sua illi­ mitata fedeltà monogamica non può sopportare le catene di un rapporto monogamico. E certi cristiani rendono tanto invisibile il loro cristianesimo, che nel mondo si vedono ormai soltanto paga­ nesimo e idolatria.

Dato che Dio si è realmente fatto uomo visibile, nessun uomo visibile può abbandonare a se stesso il mondo visibile. Altrimenti, troncherebbe il legame fra Dio e il mondo nel punto centrale, cioè proprio nell’uomo visibile. Allora dimostrerebbe di non avere, per così dire, due anime, quanto piuttosto nessuna; avrebbe invece due ruoli: il cristiano «puro» serve Dio nella più totale invisibi­ lità, per poi servire separatamente Mammona nella più palese visibilità, orgoglioso di avere così liberato gli spiritualia dalla commistione logicamente impura con i tempordlia. Entro il mon­ do, dall’imitazione di Cristo si sviluppa — e ciò non avviene senza l’autorità — un’imitazione di Dio, un’arrogante caricatura del­ l’ordinamento divino, e ora anche Dio misericordioso se ne deve fuggire; Egli rimane presso i peccatori e i criminali, e perfino pres­ so l’uomo che, disperato, Lo bestemmia, ma non là dove si osa assegnarGli le Sue funzioni e delimitare la Sua giurisdizione e la Sua competenza rispetto a quelle della Sua scimmiottatura. Infatti, anche il diavolo ha la propria legalità; non è un nulla, ma è anzi qualcosa, anche se qualcosa di miserabile. Se fosse nulla, il mondo non sarebbe cattivo, bensì sarebbe un nulla. Il diavolo non è la negazione di Dio, ma la Sua misera, cattiva caricatura, che viene punita dal fatto stesso di avere una propria, orribile norma di svi­ luppo. La fede senza opere conduce ad opere senza fede; l’uomo, che era così rigoroso da considerare contraddittoria e disonesta ogni

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formulazione dell’infinità di Dio, e che per autentica onestà ta­ ceva, perché ogni parola sarebbe stata menzogna, domani, se nello stesso giorno non pratichi sul serio l’annullamento della propria concreta visibilità, parlerà di nuovo; ma allora, per autentica onestà, mentirà, affermando che solo la menzogna è l’espressione onesta di una natura mendace. Al posto della Chiesa visibile su­ bentra una Chiesa del visibile, una religione dell’evidenza mate­ riale; e questi uomini che rifiutavano tutto ciò che è ufficiale, perché mendace, pervengono a qualcosa che è in se stesso più men­ dace di tutto quanto è ufficiale, cioè al rifiuto ufficiale dell’uf­ ficialità.

INDICE

Presentazione di Carlo Galli

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Cattolicesimo romano e forma politica

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La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica

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La Collana Valori politici, nuova serie, allarga i suoi quadri di riferimento, pur re­ stando coerentemente e dili­ gentemente fedele a quella nozione del politico, che con­ tinua, o riprende, a specchiar­ si in opere di filosofia del­ la politica. Gli scrittori validi, in questo campo così vario di interessi, e così aperto alle appassionanti avventure spe­ culative, provengono da tutte le parti. Alle loro opinioni, trattate ora in scritti di am­ pio respiro ora in dense pa­ gine di occasione, si chiede in questa collana non una complicata ed inutile genea­ logia di appartenenze, ma la dignità di un illustre, o anche oscuro, magistero.

Volumi pubblicati: 1. H. Arendt La disobbedienza civile e altri saggi

2. Raymond Polin Etica e politica 3. E. Castrucci La forma e la decisione. Studi critici

4. C. Schmitt Terra e mare 5. C. Schmitt Cattolicesimo romano e forma po­ litica

In corso di stampa: H. Heller Il fascismo europeo

R. Michels Socialismo e fascismo B. Barry La teoria liberale della giustizia

L. 7.000

I.V.A. inclusa - 5091 08

ISBN 88-14-01009-9