Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa

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Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa

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Lucia Re

Carcere e globalizzazione Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006 Seconda edizione 2010 www.laterza.it Questo volume è frutto della ricerca «La crisi dello Stato di diritto e la tutela dei diritti soggettivi in Europa», svoltasi presso il Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto dell’Università degli Studi di Firenze, e viene pubblicato con un contributo del MIUR 2004.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2010 Digital Print Service srl Via Torricelli, 9 - 20090 Segrate (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7932-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Mon stylo me démange [...] Il ne s’agit pas des bruits de clé, du claquement de la porte, du couvre-feu, des matons, des humiliations, du suicide d’un copain, du mitard, des fouilles à poil, de l’incertitude corrosive, de la paranoculture, des cauchemars obsédants, des coups, de la masturbation inqualifiable, du racket, des viols, de la promiscuité infernale de 3 ou 4 souffrances dans 9 m2, des numéros déshumanisateurs, du vide d’un non-être absolu. Il ne s’agit pas de dire l’indicible, car bien sur ces mots ne font que qualifier des souffrances sans évoquer un seul instant l’intensité infinie de leur réalité. (Bruno)*

Negli ultimi decenni il numero delle persone detenute nelle carceri delle democrazie occidentali è cresciuto costantemente, fino ad assumere in molti paesi dimensioni drammatiche. Il dibattito pubblico non sembra interessato al fenomeno, dominato com’è, sia negli Stati Uniti che in Europa, dai temi della sicurezza e della diffusione della criminalità. In questi anni un coro di voci ha invocato la «tolleranza zero» nei confronti di un’ampia gamma di comportamenti considerati antisociali, incoraggiando l’adozione di politiche penali severe e un crescente ricorso alla detenzione. Questa «passione punitiva» ha impedito che si sviluppasse un’adeguata riflessione politica sullo stato delle carceri. Il carattere duramente afflittivo della pena detentiva è stato giustificato in nome dell’esigenza di difendersi dalla criminalità. Alcune campagne di denuncia hanno rivelato le terribili condizioni di vita dei detenuti in * J.-P. Guéno (a cura di), Paroles de détenus, Radio France, Paris 2000, p. 28.

V

molte carceri europee e statunitensi, facendo luce sulla sistematica violazione dei loro diritti e suscitando per brevi periodi l’indignazione generale. Tuttavia, lo scandalo è sempre stato oscurato da nuovi allarmi per la sicurezza. Così, dopo l’ampio dibattito pubblico sulla funzione della pena sviluppatosi nel corso degli anni Settanta, il carcere è tornato nell’ombra e oggi è al più un argomento specialistico. Questo silenzio copre il processo di profonda trasformazione delle istituzioni penitenziarie attualmente in corso. In molti paesi, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la trasformazione è stata favorita dal cambiamento delle «culture esperte»: si sono sviluppati nuovi «discorsi» sul carcere che hanno influenzato direttamente le politiche penitenziarie. In altri casi, il discorso sul penitenziario è rimasto sostanzialmente inalterato, mentre è cambiato il modo di affrontare il problema della criminalità e sono cambiate le condizioni politiche e sociali in cui le istituzioni penitenziarie si trovano a operare. L’aumento della popolazione detenuta ha trasformato dall’interno gli istituti penitenziari, alterandone i meccanismi di gestione. Le carceri sono sempre più affollate e i detenuti assomigliano sempre meno a quelli che il dibattito criminologico e politico degli anni Sessanta e Settanta aveva posto al centro dell’attenzione pubblica: non sono più i «diavoli popolari» che suscitano simpatia. Nelle carceri europee molti detenuti sono migranti o figli d’immigrati, mentre negli Stati Uniti sono afroamericani e latinos. Le carceri occidentali sono «carceri nere» che si candidano, nell’indifferenza generale, a essere il principale strumento di segregazione razziale del terzo millennio. Negli Stati Uniti il sistema penitenziario «trattamentale», che mirava alla risocializzazione dei detenuti, è stato per lo più abbandonato. Si è affermata al suo posto una concezione secondo la quale la pena detentiva deve «incapacitare», ovvero neutralizzare i devianti. In Europa è ancora attuale il richiamo a un modello penitenziario che appare attento alla tutela dei diritti dei detenuti e orientato alla loro risocializzazione. Questo «modello penitenziario europeo», delineatosi a partire dalla seconda guerra mondiale e consolidatosi attraverso l’attività del Consiglio d’Europa, è spesso evocato nei documenti ufficiali dell’Unione Europea e nelle linee guida delle politiche penitenziarie nazionali. Il suo rilievo è tuttavia quasi esclusivamente teorico; mentre la cultura penitenziaria europea continua a fare riferimento a questo paradigma filosofico e giuridico, i penitenziari se ne distanziano ogni giorno di più. Il sovraffollamento, l’alta percentuale di stranieri reclusi e la crisi VI

del welfare State, che ha coinvolto i servizi ai detenuti, hanno reso impossibile non solo la realizzazione di un modello penitenziario avanzato, ma anche la tutela dei più elementari diritti delle persone recluse. Nelle carceri di molti paesi europei i detenuti vivono ammassati in pochi metri quadrati. Il diritto alla privacy è una chimera: spesso le celle sono interamente occupate dalle brande o dai letti a castello e non vi è separazione fra lo spazio in cui si dorme e si cucina e quello riservato ai servizi igienici. La maggioranza dei detenuti non svolge alcun’attività lavorativa, né riceve un’istruzione. Le carceri sono, inoltre, luoghi patogeni, nei quali si contraggono malattie e si è curati in modo del tutto inadeguato, a causa sia degli impedimenti burocratici, sia dell’insufficienza dei servizi sanitari. L’elenco dei diritti violati e delle sofferenze che si aggiungono alla privazione della libertà potrebbe continuare a lungo. Si pensi, ad esempio, alla negazione di ogni esperienza affettiva e sessuale e alla lesione del diritto alla propria identità sessuale che è norma nella maggioranza dei sistemi penitenziari occidentali. Il disconoscimento della dimensione affettiva e sessuale della personalità umana è una delle principali crudeltà del carcere, poiché incide direttamente sulla psicologia e sull’identità della persona reclusa e comporta la violazione di altri fondamentali diritti, come quello alla maternità e alla paternità. Per queste ragioni, il carcere non è uno strumento di risocializzazione; esso è piuttosto uno strumento di tortura, come lo ha definito persino il direttore del carcere milanese di San Vittore, Luigi Pagano, e come testimonia l’alto tasso di suicidi, di tentati suicidi e di atti di autolesionismo. Questo è addebitabile in parte ai recenti sviluppi delle politiche penali e penitenziarie, in parte al carattere stesso dell’istituzione penitenziaria. L’aumento della popolazione detenuta e il declino dell’ideale riabilitativo hanno senza dubbio contribuito a peggiorare le condizioni di vita nei penitenziari. Tuttavia, il carcere è sempre stato un luogo di sofferenza, nel quale la funzione retributiva della pena prevale su ogni altra finalità di carattere sociale o «umanitario». Non si tratta dunque di rimpiangere il vecchio modello rieducativo, ma di denunciare le derive che la crisi di questo modello ha generato. La denuncia non dovrebbe tuttavia limitarsi a far luce sugli abusi più gravi: essa dovrebbe stimolare una riflessione sul carcere e sulla funzione della pena detentiva che consenta di immaginare un’alternativa sia al paternalismo rieducativo, sia al «carcere-deposito» destinato a neutralizzare i devianti. VII

Il carcere è un’istituzione secolare e la pena detentiva si è affermata nelle democrazie liberali come la punizione per eccellenza. A chi vorrebbe abolirlo si obietta che è difficile trovare uno strumento di controllo penale altrettanto efficace. Secondo questa prospettiva, si possono al più migliorare le istituzioni penitenziarie e renderle compatibili con la tutela dei diritti fondamentali. Queste posizioni trascurano tuttavia che la funzione principale del carcere – come Michel Foucault ha mostrato – è quella di organizzare «uno spazio chiuso di delinquenza» e di gestire gli illegalismi segnando i limiti della tolleranza. Le carceri occidentali sono popolate dai «poveri» e dai «neri» e la loro funzione primaria è di garantire la marginalizzazione di queste categorie sociali. Migliorare le condizioni detentive non è dunque sufficiente. Sarebbe necessario anche contrastare il primato della pena detentiva, tornando a concepire il crimine come un problema sociale complesso che richiede risposte differenziate. Sarebbe opportuno ridefinire i confini di ciò che consideriamo «devianza» e potenziare le politiche sociali che possono contenerla, rilanciando la proposta di un «diritto penale minimo». Si può abolire il carcere? La domanda non andrebbe posta in astratto. Ci si dovrebbe chiedere piuttosto: quali carceri possiamo cominciare a chiudere? Quali soluzioni alternative alla detenzione possono essere promosse? Potremmo iniziare, ad esempio, a ridurre il numero dei detenuti, ad abolire i regimi più duri di detenzione, ad avviare sperimentazioni, ad aprire le carceri verso l’esterno. Potremmo sostituire definitivamente la pena detentiva per i tossicodipendenti con l’accoglienza nelle comunità terapeutiche, o con altri strumenti di aiuto e di cura. Le European Prison Rules e le raccomandazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa potrebbero essere un’utile guida per realizzare queste riforme. Infine, le carceri che dovremmo e potremmo chiudere subito sono gli istituti penali per i minorenni. I loro «ospiti» sono selezionati, da un sistema giudiziario e carcerario che tutela solo alcuni minori, in base all’origine e al censo. Fra i minori la recidiva è altissima e l’ingresso negli istituti penali minorili è quasi sempre la prima tappa di una lunga carriera penitenziaria. Potremmo iniziare da qui: anche la chiusura degli ospedali psichiatrici appariva trent’anni fa come un’utopia. L.R. VIII

Ringraziamenti Sono grata a Danilo Zolo, che mi ha incoraggiato a pubblicare questo studio e che ha letto queste pagine dandomi preziose indicazioni, e a Emilio Santoro, con il quale ho discusso più volte, nel corso di questi anni, i temi trattati in questo volume. I loro consigli sono stati per me importanti nelle diverse fasi della ricerca. Ho iniziato a studiare i sistemi penitenziari contemporanei frequentando il Dottorato in giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa e desidero ringraziare Eugenio Ripepe e Luca Baccelli per le numerose occasioni di dialogo e di formazione che mi sono state offerte. L’attività svolta con il gruppo IPM dell’associazione «L’altro diritto» è stata per me una fonte continua di riflessione e di motivazione. Di questo ringrazio in particolare Valentina Adduci, Desdemona Balducci, Laura Basilio, Silvia Calistri, Leonardo Marconi, Giulia Martini, Matteo Piccini, Stefano Pietropaoli, Sara Plebani e Simone Stefani.

Carcere e globalizzazione

Capitolo 1

La globalizzazione penitenziaria

1.1. Il boom penitenziario Negli ultimi decenni del Novecento e nei primi anni Duemila si è verificato in Occidente un aumento senza precedenti dei processi di carcerizzazione. Negli Stati Uniti, in particolare, la crescita della popolazione reclusa è stata impressionante, tanto che la letteratura sociologica non ha esitato a parlare di «boom penitenziario»: dal 1980 il numero dei detenuti è più che triplicato, raggiungendo la cifra record di 2.131.180 detenuti a metà del 20041. La crescita è avvenuta a un ritmo vorticoso: basti pensare che solo dal 1992 al 2001 si è verificato un aumento di quasi 700.000 unità. Nelle prigioni federali, la popolazione penitenziaria è passata dalle 21.000 persone registrate nel 1970 alle 169.370 presenti nel 2004, con un aumento dell’800 per cento2. Dal 1995 al 2004 la popolazione penitenziaria complessiva è aumentata in media del 3,5 per cento l’anno3. Nell’ultimo anno la crescita è rallentata (+2,3 per cento), ma la lieve flessione, pur segnalata dal Bureau of Justice Statistics4, non pare ancora segnare un’inversione di tendenza. Benché il tasso di crescita sia leggermente diminuito, in termini assoluti il numero dei detenuti continua a crescere notevolmente: dal giugno 2002 al giugno 2003 l’aumento della popolazione carceraria era stato di 40.983 unità5; l’anno successivo vi sono stati 48.452 detenuti in più6. 1.2. I due aspetti della severità penale Uno degli indici più usati nelle statistiche ufficiali e nella letteratura per valutare i sistemi penitenziari dei diversi paesi è quello del «tasso di detenzione», che si calcola confrontando il numero di detenu3

ti presenti in una certa data nelle carceri di un paese con il numero d’abitanti di quel paese nella stessa data. Il tasso di detenzione indica quindi lo «stock» della popolazione incarcerata in un certo paese a una certa data. Sulla base di questo dato si stabiliscono solitamente le comparazioni fra i vari paesi, allo scopo di individuare uguaglianze e differenze nelle politiche penitenziarie. Il tasso di detenzione degli Stati Uniti è il più alto del mondo, con 726 cittadini incarcerati ogni 100.000 (fra le persone residenti negli Stati Uniti, una ogni 138 è in carcere)7. Nel 1992 lo stesso dato, pur essendo molto alto rispetto agli altri paesi occidentali, era di molto inferiore, pari a 505 detenuti ogni 100.000 abitanti. Per un’analisi completa della situazione carceraria di un determinato paese si è soliti accostare alla misura del tasso di detenzione quella del «tasso d’incarcerazione» (o «tasso d’ingresso in carcere»), che indica il numero di ingressi in carcere dalla libertà in un dato anno in rapporto al numero degli abitanti. Il tasso d’incarcerazione permette di tenere conto dei «flussi». Il dato relativo agli ingressi nelle carceri statali statunitensi è cresciuto fra il 2000 e il 2002 del 5,8 per cento: il totale degli ingressi è passato da 581.487 nel 2000 a 615.377 nel 2002. Nelle carceri federali, nello stesso periodo, il numero degli ingressi è aumentato del 10,1 per cento; si è così passati dai 43.732 ingressi del 2000 ai 48.144 del 20028. All’aumento del numero degli ingressi in carcere non ha corrisposto un incremento dei rilasci: il tasso di rilascio nelle carceri statali nel 1990 era di 37 detenuti su 100. Nel 1995 esso si era ridotto a 31 su 100 e da allora è rimasto sostanzialmente stabile9. Negli Stati Uniti è molto alto il numero di ingressi in carcere di persone sottoposte a forme di libertà vigilata (parole): nel 1997 questi sono stati il 35 per cento del totale10; dal 1990 al 1998 i detenuti entrati in carcere in seguito alla violazione dei programmi di parole sono aumentati del 58 per cento, mentre i detenuti provenienti dalla libertà sono aumentati solo del 7 per cento. Dal 1998 al 2003, tuttavia, l’aumento dei detenuti provenienti dai programmi di parole è stato solo dell’1 per cento, mentre l’aumento dei detenuti provenienti dalla libertà è stato del 13 per cento11. Questi dati potrebbero segnalare sia un progressivo miglioramento nell’attuazione dell’istituto di parole, sia un aumento considerevole delle condanne alla detenzione legato alle politiche penali adottate a partire dalla fine degli anni Novanta. Il tasso di incarcerazione è dunque cresciuto meno del tasso di detenzione negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. Dall’anali4

si del tasso di detenzione e del tasso d’incarcerazione è possibile ricavare un’ulteriore informazione: la durata media della detenzione. Questa emerge dalla relazione fra il numero dei detenuti presenti nelle carceri di un paese alla fine di un dato anno e il numero dei detenuti presenti all’inizio dell’anno, al quale si è aggiunto il numero degli ingressi meno le uscite12. La durata media della detenzione nelle carceri federali degli Stati Uniti era stimata in 18 mesi nell’anno 200013. Alla base del «boom penitenziario» statunitense vi è dunque, come tutti gli analisti concordemente affermano, l’aumento della durata della detenzione. Negli Stati Uniti si tende a incarcerare un grande «stock» di persone per lunghi periodi di tempo. Come James Austin e John Irwin rilevano nel saggio It’s about Time, «la pratica corrente non è di incarcerare un maggior numero di persone ma di rimandare in carcere le stesse persone più spesso, e/o di detenerle per periodi di tempo più lunghi»14. L’esperienza carceraria sembra quindi pesare su una porzione fissa della popolazione statunitense, come confermano anche i dati sulla composizione razziale della popolazione detenuta15. Se oltre ai dati relativi agli ingressi nelle carceri federali e statali si analizzano quelli riguardanti gli ingressi nelle prigioni delle città o di contea (city e county jails), si può osservare un altro interessante fenomeno: ogni anno, negli Stati Uniti, entrano in carcere 11 milioni di persone. Per le piccole carceri di contea è stato persino creato un sistema di prenotazione in base al quale la pena detentiva viene eseguita al momento in cui si libera un posto16. Nelle carceri delle città e delle contee spesso la detenzione è limitata a un lasso di tempo inferiore alle 48 ore17. Molti cittadini statunitensi entrano dunque in contatto con il carcere, anche solo per brevi periodi, a causa dell’elevato tasso di punitività del sistema penale statunitense, che prevede la detenzione anche per violazioni che in molti paesi europei non sono sanzionate penalmente (infrazioni al codice della strada, abuso di alcolici ecc.). Il quadro mostra quindi, da una parte, una fascia sociale soggetta a un controllo penale permanente ed estremamente severo e, dall’altra, la familiarità di molti cittadini «per bene» con l’esperienza della detenzione. 1.3. Cittadini sotto controllo Il controllo della fascia della popolazione statunitense che gravita nella sfera penale assume forme anche diverse dalla carcerazione. I 5

dati statunitensi appaiono ancor più sorprendenti se si considera che la popolazione adulta reclusa rappresenta solo un quinto della popolazione soggetta a controllo penale: negli Stati Uniti, nel 2001, 3.932.751 persone erano sottoposte al regime di probation e 732.351 al regime di parole, per un totale di 6.594.000 sottoposte a controllo penale, pari a circa il 2,8 per cento degli adulti statunitensi18. Alla fine del 2003 il totale delle persone sottoposte alla carcerazione o a misure alternative negli Stati Uniti era salito a 6,9 milioni, pari al 3,2 per cento della popolazione adulta residente (1 adulto ogni 32). Nel 1985 il rapporto era invece di 1 adulto su 9119. L’aumento del numero dei detenuti si è dunque accompagnato a un rilevante incremento delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, con il risultato di un’espansione complessiva del controllo penale sulla popolazione. Questo dato va poi interpretato alla luce del fatto che, come si è accennato, tale controllo non si esercita su tutta la popolazione degli Stati Uniti in modo equamente ripartito, ma tende a concentrarsi su particolari categorie sociali. Sono poche le donne che entrano nell’area penale (alla metà del 2004 le donne recluse nelle carceri statali e federali erano l’8,1 per cento del totale della popolazione detenuta20) e anche le fasce d’età sono limitate: la carcerazione riguarda prevalentemente i giovani maschi d’età compresa fra i 20 e i 30 anni, in maggioranza afroamericani. Al 30 giugno 2003, il 12,6 per cento dei detenuti nelle carceri statunitensi era costituito da afroamericani d’età compresa fra i 20 e i 30 anni, il 3,6 per cento da ispanici e l’1,7 per cento da bianchi nella stessa fascia d’età21. I neri d’età compresa fra i 20 e i 39 anni erano 577.30022. A metà del 2004, ogni 100.000 maschi afroamericani residenti negli Stati Uniti, 4.919 si trovavano in carcere. Per i latinos la proporzione era di 1.717 ogni 100.000 e per i bianchi di 71723. 1.4. Molti detenuti, pochi diritti Gli Stati Uniti oggi incarcerano più persone di paesi, come il Sudafrica o il Brasile, che emergono da difficili anni di transizione verso la democrazia24. In questo quadro, nonostante il programma di costruzione di penitenziari intrapreso da molti Stati americani negli ultimi anni, le condizioni di detenzione non possono che essere pessime e il dato del sovraffollamento carcerario molto rilevante: le carceri statunitensi sono popolate da 2.131.180 detenuti a fronte di una capacità ufficiale complessiva (che, com’è noto, è di solito sovrasti6

Tabella 1.1. Principali dati relativi al sistema penitenziario USA al 30 giugno 2005 (carceri federali e statali) Popolazione penitenziaria totale (inclusi detenuti in attesa di giudizio e detenuti non definitivi) 2.131.180 Tasso di detenzione (ogni 100.000 abitanti) 726 Detenuti in attesa di giudizio e detenuti non definitivi (percentuale sul totale popolazione penitenziaria) 20,2 Donne (percentuale sul totale popolazione penitenziaria) 8,7 Minori e giovani detenuti (fino ai 21 anni, percentuale sul totale popolazione penitenziaria) 0,45 Numero istituti 5.069 Capacità ufficiale del sistema penitenziario 1.951.650 Tasso di occupazione in base alla capacità ufficiale (percentuale) 107,6 Trend di crescita della 1995 1998 2001 popolazione penitenziaria 1.585.586 (600)1 1.816.931 (669)1 1.961.247 (685)1 Tasso di detenzione ogni 100.000 abitanti. Fonte: Bureau of Justice Statistics, «Bulletin», maggio 2005. 1

mata) di 1.951.650 posti. Questo dato, essendo il risultato di una media calcolata sull’intero paese, non riflette particolari situazioni di sovraffollamento che riguardano le principali carceri federali e i grandi penitenziari delle maggiori città. Human Rights Watch25 ha lanciato un grido d’allarme riguardo alle carceri statunitensi, sia per il dato quantitativo della popolazione reclusa, sia per le condizioni di detenzione e la frequenza di istituti sovraffollati. Le spese per la costruzione di nuovi stabilimenti e per il mantenimento di una così grande quantità di detenuti hanno determinato una drastica riduzione delle attività rieducative nei penitenziari statunitensi, «per la resistenza dei contribuenti ad aumentare il già alto budget annuo di 41 miliardi di dollari dedicato alla spesa penitenziaria e per il prevalere di un’ideologia punitiva che approva dure condizioni di detenzione»26. Gli Stati Uniti violano sistematicamente i diritti fondamentali dei detenuti, a causa di tali condizioni di detenzione e del grado di violenza fra detenuti tollerato negli istituti di pena27. Preoccupanti, secondo Human Rights Watch, sono anche i dati sulla reclusione dei minori (nel 2001 più di 100.000 minori erano detenuti in istituti di pena negli Stati Uniti). 7

1.5. Un’Europa delle carceri? I dati statunitensi sono eccezionali, ma la tendenza all’incremento della popolazione detenuta si riscontra anche in molti paesi d’Europa. I dati sulle carceri europee forniti dalle statistiche del Consiglio d’Europa e dalle statistiche redatte a livello nazionale28 segnalano quasi ovunque un rilevante aumento della popolazione carceraria negli ultimi quindici anni, nonostante il già alto numero di detenuti presenti nelle carceri europee negli anni Ottanta del Novecento. In alcuni casi, come in Italia, Spagna, Paesi Bassi e Germania, l’aumento è stato considerevole, ma il numero di detenuti reclusi nelle carceri di questi paesi alla fine degli anni Ottanta era più basso rispetto alla media dei paesi europei. Il tasso di detenzione in Italia è quasi raddoppiato dal 1988 al 2003, passando dai 60,4 detenuti ogni 100.000 abitanti nel 1988 ai 100 nel 2003 (nel 2004 si è registrata una lieve flessione, ma nel 2005 il numero dei detenuti è tornato a crescere29). L’incremento della popolazione penitenziaria è stato di 21.412 unità in Spagna, dal 1988 al 2002 (il tasso di detenzione è cresciuto da 75,8 a 125 tra il 1988 e il 2002 e nel 2004 è balzato a 144); di 9.141 unità nei Paesi Bassi dal 1988 al 2001, (qui il tasso di detenzione è passato da 40 a 93 dal 1988 al 2001, salendo a 123 nel 2004); e di 22.828 unità in Germania, dal 1988 al 2002 (con una crescita del tasso di detenzione da 84,9 a 93). In quest’ultimo caso c’è da tener conto anche della riunificazione del paese. Dal 2002 al 2004 si è comunque registrato un ulteriore incremento: il tasso di detenzione è salito a 96 detenuti ogni 100.000 abitanti. L’impressione è che questi paesi si siano conformati alla media del continente. In altri casi, come quello dell’Inghilterra e del Galles, il numero già molto alto di detenuti è andato ancora aumentando nel corso degli anni Novanta (+15.452 dal 1988 al 2003). Il tasso di detenzione nel 2005 è arrivato a 143 detenuti ogni 100.000 abitanti. Questi dati fanno pensare a un «modello anglosassone» che pone il Regno Unito in continuità con le scelte politiche degli Stati Uniti. In Francia la crescita della popolazione penitenziaria, piuttosto rilevante alla fine degli anni Ottanta, è stata abbastanza contenuta nel decennio successivo (+4.291 dal 1988 al 2003). Nello stesso periodo il tasso di detenzione è passato da 81,1 a 95. La tendenza francese sembrerebbe dunque diversa da quelle in atto nella maggior parte dei paesi europei, ma in soli diciotto mesi, dall’ottobre 2001 all’aprile 2003 la popolazione penitenziaria è cresciuta, passando da 8

56.957 al 1.3.2004

56.068 al 31.12.2004

60.649 al 20.5.2005

19.9997 al 1.7.2004

79.329 al 31.8.2004

Francia

Italia

Spagna

Paesi Bassi

Germania

969

1238

1415

983

952

1431

Tasso di detenzione (ogni 100.000 abitanti)

19,7 al 31.8.2004

35,2 al 1.7.2004

22,8 al 24.5.2005

36,0 al 31.12.2004

37,4 al 1.3.2004

16,3 al 30.4.2005

Detenuti in attesa di giudizio e non definitivi (percentuale sul totale popolazione penitenziaria)

5,1 al 31.8.2004

8,8 al 1.7.2004

7,8 al 24.5.2005

4,6 al 31.12.2004

3,8 al 1.3.2004

5,9 al 27.5.2005

Donne (percentuale sul totale popolazione penitenziaria)

0,3 al 31.12.20006 under 18 1,0 al 1.7.2004 under 18 4,2 al 31.8.2004 (solo in custodia cautelare) under 18

3,0 al 30.4.2005 under 18 1,4 al 1.4.2003 under 18 0,87 al 31.12.20044 under 18

Minori (definizione inclusiva, percentuale su totale popolazione penitenziaria)

1995 1998 1995 1998 1998 1999 2000 2001 1995 1998 1995 1998 1995 1998

51.047 65.298 51.623 50.744 49.000 51.814 53.165 55.275 40.157 44.763 10.249 13.333 66.146 78.584

Trend recenti della popolazione penitenziaria

3

2

1

Basato su una stima della popolazione nazionale di 53,09 milioni di abitanti a fine maggio 2005 (Office for National Statistics Figures). Basato su una stima della popolazione nazionale di 59,97 milioni di abitanti al marzo 2004 (Consiglio d’Europa). Basato su una stima della popolazione nazionale di 58,1 milioni di abitanti al giugno 2004 (Consiglio d’Europa). 4 Elaborazione su dati ministero della Giustizia. 5 Basato su una stima della popolazione nazionale di 43,08 milioni di abitanti al maggio 2005 (Consiglio d’Europa). 6 Consiglio d’Europa. 7 Include 1.351 malati psichici detenuti in apposite strutture, 16.199 tossicodipendenti reclusi in appositi istituti e circa 2.449 minori detenuti in istituti minorili. 8 Basato su una stima della popolazione nazionale di 16,32 milioni di abitanti al giugno 2004 (Consiglio d’Europa). 9 Basato su una stima della popolazione nazionale di 82,60 milioni di abitanti al 31.8.2004 (Consiglio d’Europa). Fonte: alcuni dei dati riportati sono tratti da International Centre for Prison Studies, World Prison Brief, http://www.kcl.ac.uk/depsta/rel/icps.

76.017 al 27.5.2005

Regno Unito

Popolazione penitenziaria totale (inclusi detenuti in attesa di giudizio e non definitivi)

Tabella 1.2. Principali dati relativi ad alcuni paesi UE

circa 47.000 detenuti a più di 55.000. Il 1° marzo 2004 i detenuti erano 56.957 e il tasso di detenzione era pari a 95. I tassi di detenzione europei si assestano intorno al valore di 100 detenuti ogni 100.000 abitanti e sono quindi molto inferiori al tasso statunitense. Tuttavia, anche a causa della mancata destinazione di fondi alle amministrazioni penitenziarie e della tendenza europea a non promuovere la costruzione di nuovi istituti, il sovraffollamento carcerario e il deficit di servizi destinati ai detenuti sono molto gravi. La crescita della popolazione penitenziaria ha generato un forte sovraffollamento degli istituti penitenziari europei. Pierre Tournier30, tra gli altri, ha rilevato con preoccupazione questo dato, sottolineando come esso sia più grave laddove venga misurato istituto per istituto e non su scala nazionale, come avviene in quasi tutte le statistiche ufficiali: a fronte di istituti scarsamente popolati ve ne sono molti caratterizzati da un forte sovraffollamento. Il numero di detenuti che vivono in condizioni di sovraffollamento nei paesi europei è quindi superiore a quello che emerge dalla lettura del valore nazionale del cosiddetto occupancy level (tasso d’occupazione dello spazio carcerario). Questo è pari al 110,4 per cento in Inghilterra e Galles (percentuale superiore a quella statunitense pari al 107,6 per cento), al 124,7 per cento in Francia, al 134,2 per cento in Italia, al 114,1 per cento in Spagna, al 97,5 per cento nei Paesi Bassi e al 99,9 per cento in Germania. Questi dati sono stati più volte al centro delle preoccupazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) costituito in seno al Consiglio d’Europa, che ha spesso sollecitato ufficialmente i paesi membri a porre fine al sovraffollamento e ha suggerito loro una revisione delle politiche penitenziarie nazionali. Il CPT ha inoltre specificato l’inopportunità di costruire nuovi istituti, consigliando piuttosto una revisione della normativa penale e delle pratiche giudiziarie che determinano un ricorso frequente alla detenzione e mettendo l’accento sulla necessità di utilizzare soluzioni alternative31. Se le cifre europee rimangono distanti da quelle statunitensi, la tendenza a uniformarsi al trend statunitense è tuttavia leggibile soprattutto se si osserva la rapidità della crescita della popolazione detenuta negli ultimi anni. A incoraggiare un’interpretazione di questo tipo è anche l’analisi più approfondita delle dinamiche sociali e politiche in atto in molti paesi europei e, in particolare, la stretta connessione fra le politiche penitenziarie e quelle migratorie e sociali. La retorica politica e mediatica europea sembra inoltre sempre più as10

Tabella 1.3. Dati relativi alla capacità degli istituti di pena di alcuni paesi UE

Regno Unito Francia Italia Spagna Paesi Bassi Germania

Numero istituti

Capacità ufficiale del sistema penitenziario (numero posti)

Livello di occupazione basato su capacità ufficiale (in %)

141 (2004) 185 (2002) 222 (31.12.2004)1 77 (2004) 102 (2004)3 237 (2004)

68.880 (27.5.2005) 45.660 (1.3.2004) 42.641 (1.9.2003)2 48.420 (1.9.2003) 20.522 (1.7.2004)4 79.378 (31.8.2004)

110,4 (27.5.2005) 124,7 (1.3.2004 ) 134,2 (1.9.2003) 114,1 (1.9.2003) 97,5 (1.7.2004) 99,9 (31.8.2004)

17 istituti penali minorili. Compresi 718 posti negli istituti penali minorili. 61 istituti penitenziari per adulti, 10 cliniche psichiatriche, 24 istituti penali minorili, 7 istituti per tossicodipendenti. 4 15.071 in istituti penitenziari per adulti, 2.515 in istituti penali minorili, 1.371 in cliniche per malati psichici, 1.565 in istituti per tossicodipendenti. Fonte: alcuni dei dati riportati sono tratti da International Centre for Prison Studies, World Prison Brief, http://www.kcl.ac.uk/depsta/rel/icps. 1 2 3

somigliare a quella elaborata negli Stati Uniti proprio all’alba del «boom penitenziario» degli anni Novanta. 1.6. La globalizzazione penitenziaria: un quadro complesso I dati sulla popolazione penitenziaria segnalano inequivocabilmente un aumento consistente della quantità di persone detenute nelle democrazie occidentali e il conseguente peggioramento delle condizioni di detenzione32. Più difficile è stabilire quali sono le radici di questo fenomeno. La letteratura appare divisa in due principali filoni: l’uno ricollega l’aumento dei processi di carcerizzazione soprattutto a ragioni di natura «strutturale», come il mutamento dei sistemi di produzione, l’espandersi della globalizzazione, la crisi dello Stato sociale ecc.; l’altro ne indica invece l’origine nelle politiche penali e penitenziarie adottate negli ultimi decenni del Novecento negli Stati 11

Uniti e in Europa. Il primo approccio è stato chiamato «deterministico»33, mentre il secondo può essere definito policy-choice34. Analizzando gli studi prodotti in questi decenni, la divisione fra questi due orientamenti interpretativi appare piuttosto netta ed è difficile trovare ricerche analitiche e complete sulla questione penitenziaria contemporanea. Pur ritenendo che sia i fattori strutturali sia le policies debbano essere presi in considerazione per analizzare il «boom penitenziario», nel ricostruire l’attuale dibattito sul carcere appare utile mantenere la distinzione fra interpretazioni «deterministiche» e policy-choice. Essa, pur con alcune inevitabili forzature, rispecchia le posizioni adottate in questi anni dalla maggior parte della letteratura35. In questa prospettiva appare, ad esempio, riconducibile al filone delle interpretazioni policy-choice il saggio di Loïc Wacquant, Les prisons de la misère36, che pure prende in considerazione anche i fattori sociali alla base dell’aumento della popolazione carceraria nei paesi occidentali. L’autore tuttavia, nell’interpretare la situazione penitenziaria europea, attribuisce un ruolo primario alla diffusione di quella che egli chiama la nuova «ideologia penale» statunitense e mette l’accento sulle nuove pratiche di polizia adottate negli Stati Uniti e sulla tendenza giudiziaria a fare sistematico ricorso alla detenzione anche per i reati non violenti. Secondo Wacquant la «nuova penologia» statunitense, elaborata, sottraendo il primato del sapere criminologico agli ambienti accademici, da criminologi ed esperti provenienti dalle amministrazioni, si è radicata in Europa attraverso una rete di diffusione appositamente strutturata per promuoverla a livello globale. La «tolleranza zero»37, divulgata dai criminologi della nuova destra statunitense, è divenuta il cardine della politica del sindaco di New York Rudolph Giuliani e ha consacrato New York a modello indiscusso della nuova politica di controllo del territorio e di repressione della criminalità. Partendo da New York, la nuova ideologia penale si è rapidamente globalizzata, in particolare grazie alla pronta ricezione delle nuove teorie da parte dell’amministrazione britannica. Non solo i paesi europei hanno adottato il paradigma newyorkese, ma anche in molti paesi dell’America latina la «tolleranza zero» ha attecchito con una velocità che Wacquant definisce «fulminante»38. In Messico, in Brasile, in Francia, in Germania, in Italia, in Austria, nella seconda metà degli anni Novanta, il nuovo linguaggio si è consolidato. Wacquant ricostruisce tappa dopo tappa il diffondersi della cul12

tura della «tolleranza zero» e mostra come essa sia alla base delle scelte politiche dei governi di diversi paesi. Nella sua analisi, le condizioni economiche, sociali e politiche nelle quali la nuova ideologia penale ha riscosso successo a livello mondiale restano in secondo piano: egli ricostruisce le fasi di un’operazione orchestrata da specifici centri politici e istituzionali e consapevolmente portata a compimento. Se Loïc Wacquant pone l’accento sulle scelte di politica penale, autori come Dario Melossi e Alessandro De Giorgi39, insieme a una parte della sociologia europea e statunitense, riconducono l’aumento dei processi di carcerizzazione soprattutto a cause di carattere strutturale. Il grande internamento degli anni Novanta sarebbe da mettere in relazione con l’avvento di un nuovo paradigma economico che ha determinato una radicale trasformazione dei meccanismi di produzione e del modo di strutturarsi delle relazioni sociali in rapporto al lavoro40. 1.7. Il nuovo primato del penitenziario Nell’analizzare le cause del «boom penitenziario» privilegeremo in questo volume l’approccio policy-choice, pur non rinunciando a indicare le connessioni fra le evoluzioni in corso nei settori penale e penitenziario e le trasformazioni economiche e sociali indotte dai processi di globalizzazione. Cercheremo inoltre di tener conto del fatto che le nuove politiche di sicurezza si inscrivono in una più generale riconfigurazione delle politiche sociali. Il dibattito sulla sicurezza coinvolge infatti numerosi settori dell’agire istituzionale e della vita sociale: dall’organizzazione del sistema penitenziario all’educazione, passando per la sanità, l’ambiente, l’urbanistica, solo per menzionarne alcuni. Il nuovo approccio al problema della criminalità tende inoltre ad allargare il campo del sapere penale e di polizia e a riformulare molti temi sociali come temi d’ordine pubblico. Del resto, la continuità dell’azione istituzionale e la sinergia dei saperi – almeno per quanto concerne i campi dell’educazione scolastica, della salute (in particolare della salute mentale), del trattamento delle tossicodipendenze e del carcere – oltre a essere esperienza comune in tutte le democrazie avanzate è ormai da più di mezzo secolo oggetto di studio da parte della sociologia del controllo sociale41. A questa continuità si aggiunge oggi la tendenza a banalizzare la reclusione come strumento di mantenimento dell’ordine sociale e di in13

capacitazione dei soggetti considerati potenzialmente devianti. Non solo il carcere torna a svolgere una funzione primaria fra gli strumenti della repressione penale, dopo anni in cui si era cercato – senza per altro esserci mai riusciti – di ridurlo a un istituto residuale, ma la detenzione appare di nuovo come il mezzo in grado di risolvere un’ampia gamma di problemi sociali. La situazione penitenziaria contemporanea ricorda l’analisi foucaultiana del «grande internamento» dell’età classica42 e tuttavia il carcere sembra aver acquisito un primato: non è più l’hôpital général il paradigma e il contenitore dell’umanità reclusa. Non si tratta di curare i devianti, di organizzare dei luoghi di trattamento. Le istituzioni di reclusione sono chiamate a svolgere un ruolo meramente contenitivo e la prigione diviene il modello cui ispirarsi anche per istituzioni che non fanno parte del sistema penale. Inoltre, la detenzione non è più appannaggio della sfera penale, ma si generalizza, assumendo spesso un carattere amministrativo. Alla detenzione sono costretti sempre più spesso soggetti che non hanno commesso reati: il caso europeo dei centri di permanenza temporanea previsti dal Trattato di Schengen per trattenere persone, fermate per il solo fatto di non possedere titoli validi per il soggiorno nel territorio degli Stati aderenti al Trattato, è un esempio di questa tendenza ad adottare la detenzione come rimedio generalizzato di natura amministrativa. Nello stesso senso sembrano andare le riforme in corso negli Stati Uniti e in molti paesi europei nel campo del diritto penale minorile e del trattamento dei minori in stato di abbandono. È frequente la creazione di istituti nei quali minori che non hanno commesso reati vivono in stato di detenzione. La detenzione – ancora una volta di natura amministrativa – è vista come il mezzo per risolvere un problema in termini esclusivamente logistici, quasi «spaziali». La rete del carcere si estende su nuove categorie di soggetti che secondo la tradizione penale liberale non dovrebbero essere presi nelle maglie del potere punitivo. Tuttavia, il fine non pare più essere il «buon addestramento»43; la diffusione della detenzione non crea più un «continuum carcerario»44, un «panoptismo»45 disciplinare. Interessante è in proposito l’analisi che Roger Matthews ha condotto sulla cosiddetta «transcarcerazione»46. Con questo termine Matthews indica il proliferare di agenzie eredi dello Stato sociale (istituzioni di carattere medico, educativo, sociale ecc.) che, pur essendo incaricate di fornire servizi, operano come anelli della catena carce14

raria. Il fenomeno non è nuovo: la sociologia del controllo sociale ha da tempo portato alla luce l’esistenza di meccanismi disciplinari che tendono a creare una continuità fra assistenza e repressione. Tuttavia, oggi tale continuità risponde a una logica nuova: la finalità non è più il trattamento e neppure il suo correlativo, il disciplinamento, ma la mera incapacitazione, la limitazione della possibilità di agire e muoversi di persone appartenenti a specifiche categorie sociali. Questa nuova visione del trattamento emerge in modo chiaro dall’analisi delle proposte in tema di lotta alle tossicodipendenze che stanno riscuotendo successo a livello globale. Secondo lo studio condotto da James Austin e John Irwin sul rehabilitation movement47 che sta prendendo piede negli Stati Uniti, alcuni settori dell’amministrazione penitenziaria stanno rivalutando l’approccio trattamentale alla devianza, sostenendo che questo può avere successo qualora sia affiancato da politiche custodialistiche. Il rehabilitation movement promuove l’adozione di programmi di trattamento dei condannati da eseguirsi in stato di rigorosa detenzione in carcere. Così, ad esempio, un vasto programma d’attuazione del trattamento delle tossicodipendenze in stato di detenzione si sta diffondendo nei penitenziari statunitensi. Il nuovo modello sta soppiantando quello delle comunità terapeutiche. La tendenza che si diffonde poggia sul binomio della criminalizzazione del consumo delle sostanze stupefacenti e del trattamento della tossicodipendenza in stato di detenzione48. In una direzione analoga vanno i numerosi progetti di internamento dei malati psichici. La convinzione è che la detenzione non solo prevenga le condotte pericolose di soggetti percepiti come devianti, ma che sia anche lo strumento migliore per «prendersi cura» delle persone in difficoltà e per prestare loro un servizio. La limitazione della libertà viene così legittimata dalla necessità della cura; quest’ultima tuttavia persegue finalità d’ordine, riducendosi alla medicalizzazione del trattamento. Il consenso che accompagna questi provvedimenti sorprende ancor più perché la discussione sull’esigenza di abbandonare la «custodia» come soluzione dei problemi sociali è stata approfondita e largamente condivisa per molti anni sia negli Stati Uniti sia nella gran parte dei paesi europei49. È in atto una regressione verso forme di internamento nelle quali la funzione punitiva assorbe esplicitamente altre funzioni sociali e sostituisce le attività indirizzate al reinserimento. Le carceri sono sempre più delle warehouses, dei depositi, nei quali è reclusa una popolazione variegata che presenta tratti differenziati di problemati15

cità. Sembrano tornare forme di carcerazione antiche, che si consideravano ormai superate. Il dato dell’eterogeneità della popolazione penitenziaria e il tasso elevato di detenuti con problemi psichici e di tossicodipendenza forniscono un’immagine di molte carceri occidentali più simile a quella degli istituti visitati da Tocqueville nella Francia del XIX secolo50 che a quella delle case di reclusione di democrazie liberali avanzate. Un rapporto dell’Inspection générale des affaires sociales (IGAS) del 1992 stimava che nelle carceri francesi vi fossero fra i 7.000 e i 10.000 detenuti affetti da malattie psichiche e tra le 500 e le 1.000 persone affette da handicap mentale51: nel complesso un numero oscillante fra il 14 e il 20 per cento della popolazione detenuta. Un detenuto tossicodipendente su due dichiarava di avere avuto dei problemi psichiatrici per i quali era stato ricoverato prima della reclusione. Jean-Paul Jean, magistrato ispettore dei servizi giudiziari, commenta così il rapporto dell’IGAS: «la prigione sembra assolvere sempre più una ‘funzione di asilo’ per persone destrutturate che sono episodicamente seguite dai servizi psichiatrici territoriali»52. Il carcere è dunque il luogo ultimo d’accoglienza di soggetti malati, che non si è riusciti a curare in libertà: l’«accoglienza» si riduce tuttavia alla mera custodia in condizioni di sovraffollamento e di carenza di servizi anche sanitari. Anche negli Stati Uniti «assistenza» è sempre più spesso sinonimo di reclusione in carcere: secondo il Bureau of Justice Statistics nel 1998 179.200 detenuti nelle prigioni statali, 7.900 detenuti nelle carceri federali, 96.700 detenuti nelle jails e 547.800 persone soggette al regime di probation sono stati dichiarati mentally ill (malati psichici) e 118.300 detenuti delle carceri statali, 5.000 reclusi nei penitenziari federali, 60.500 detenuti nelle jails e 281.200 persone soggette a probation sono stati ricoverati in ospedali psichiatrici per più di un giorno53. In Italia, dove il numero dei detenuti tossicodipendenti è diminuito negli ultimi dieci anni, è tossicodipendente il 27,7 per cento della popolazione detenuta54 e dati analoghi sono stati registrati negli altri paesi europei. 1.8. Per un «pluralismo penitenziario» Al di là degli strumenti di indagine utilizzati e delle differenze che esistono fra le varie realtà nazionali, gran parte della letteratura sociologica sul carcere concorda nell’affermare che i processi di carce16

rizzazione in atto nel mondo occidentale e l’ormai consolidata inversione di tendenza rispetto agli anni Sessanta-Settanta sono l’indice di un vero e proprio «esperimento penitenziario». Molti utilizzano questa nozione per indicare la valenza sociale e quasi antropologica del nuovo «grande internamento». È nota la tesi di Zygmunt Bauman secondo la quale il nuovo carcere di massima sicurezza di Los Angeles, Pelican Bay, completamente automatizzato, è un luogo di sperimentazione di nuove forme di società. A Pelican Bay non è attuato alcun progetto rieducativo nei confronti dei detenuti; questi sono reclusi in totale isolamento in celle prive di finestre, non lavorano e non possono avere alcun contatto né con altri detenuti né con le guardie. Bauman considera questo carcere come un «laboratorio della società globalizzata»55. Anche Nils Christie si è chiesto se l’incarcerazione di massa degli ultimi decenni non sia «la via occidentale al Gulag»56 e ha dato avvio alla sua analisi partendo dalla constatazione che solo la Federazione russa, con la sua pesante eredità sovietica, è in grado di rivaleggiare con gli Stati Uniti quanto a numero di detenuti. Secondo Christie la crescita della popolazione detenuta a livello globale pone l’esigenza di fondare una nuova branca della criminologia: la «geografia penale»57. La constatazione di somiglianze fra i tassi di detenzione di paesi diversi mette in luce, infatti, «effetti di imitazione e di diffusione [delle politiche penali] da un paese all’altro»58. La globalizzazione investe dunque anche il settore penitenziario che pure parrebbe quello maggiormente ancorato alla sovranità degli Stati nazionali. Nel «mondo globale» le differenze nazionali tendono a scomparire e con esse anche le diverse culture criminologiche e penologiche. Steven Messner e Richard Rosenfeld, nel saggio significativamente intitolato Crime and the American Dream59, hanno sostenuto che il modello penitenziario statunitense, con il suo particolare intreccio di punitività e reazione all’alto tasso di violenza presente nella società, è parte integrante del sogno americano. Del resto già Alexis de Tocqueville, autore di quell’approfondita analisi delle istituzioni e dei costumi statunitensi che è la Démocratie en Amérique, aveva messo in luce il legame esistente fra il sistema penitenziario e l’assetto sociale e istituzionale della democrazia statunitense. Scriveva Tocqueville: «mentre la società degli Stati Uniti fornisce l’esempio della più estesa libertà, le prigioni di questo stesso paese offrono lo spettacolo del più completo dispotismo»60. Senza risalire alle origini del sistema penitenziario statunitense, è sufficien17

te considerare le sue recenti evoluzioni per concordare con Monika Platek, secondo la quale le attuali politiche sicuritarie statunitensi «riflettono la tendenza a rifiutare l’essenza dei legami sociali: la mutua simpatia, la cooperazione, la fiducia e l’aiuto reciproco»61 e che «il messaggio è: impedisci al crimine di raggiungerti, prenditi cura della tua incolumità personale e lascia stare il resto»62. La «peculiarità americana», come Tocqueville aveva saputo prevedere, divenuta il paradigma delle democrazie liberali, tende ad assumere caratteri di universalità63. In questo quadro è difficile non considerare il fatto che gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale dell’incarcerazione come indice di un processo di «globalizzazione penitenziaria» che ha condotto a un aumento della detenzione in quasi tutto il mondo occidentale. Come ha scritto Christie: «Le prigioni hanno valore di simboli culturali»64 e le decisioni politico-culturali in materia «esprimono e definiscono allo stesso tempo il tipo di società al quale scegliamo di appartenere»65. Come per altri processi di globalizzazione, anche per le politiche penali e penitenziarie appare centrale la decisione politica degli Stati nazionali di aderire a un modello culturale importato che assume valenza globale o, al contrario, di resistere mantenendo le proprie tradizioni nazionali. Di fronte all’espandersi del ricorso alla carcerazione nelle democrazie liberali è importante comprendere le radici di questo processo e i legami che esso intrattiene con le patologie che affliggono in modo più generale i sistemi politici occidentali. Inoltre, in una prospettiva europea, appaiono obiettivi irrinunciabili la difesa delle culture penali e penitenziarie nazionali e il potenziamento di un sapere specialistico. Solo così sarà possibile opporre alle istanze populiste che promuovono la carcerazione di massa le pratiche sperimentate e condivise che pongono molti paesi europei all’avanguardia nell’elaborazione di politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione.

Capitolo 2

L’incarcerazione di massa negli Stati Uniti

2.1. I prodromi della «grande incarcerazione» Per un’analisi dell’aumento della popolazione detenuta negli Stati Uniti è utile assumere come data di partenza il 1973, poiché è da allora che i tassi d’incarcerazione sono cresciuti in modo sempre più rapido. Anche il 1968 è una data importante per comprendere la svolta repressiva in campo penale e penitenziario: la campagna elettorale per l’elezione alla presidenza di Richard Nixon pose per la prima volta al centro dell’attenzione pubblica il tema della sicurezza, facendo della promessa di contrastare la criminalità crescente uno dei principali punti del programma del futuro presidente. La letteratura ha generalmente messo l’accento sull’una o sull’altra di queste date e tuttavia, dal punto di vista della genealogia delle attuali politiche penali, esse sono legate. L’emergere di una politica sicuritaria e l’avvio della crescita penitenziaria sono fenomeni strettamente correlati. Due «discorsi» andavano tessendosi negli Stati Uniti fra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta: quello sulla sicurezza e quello sull’inefficienza delle istituzioni penitenziarie così com’erano state concepite dopo le due guerre mondiali, come luoghi di trattamento finalizzati alla rieducazione. Il primo era prevalentemente un discorso politico e mediatico che pretendeva di interpretare il sentire popolare. Il secondo era invece un discorso esperto, condotto da criminologi e sociologi del controllo sociale, che spesso muoveva da un approccio critico nei confronti dell’ideologia del trattamento e dal desiderio di superare forme d’etichettamento e di controllo ritenute illegittime ed eccessivamente coercitive. Sembra che, almeno in un primo momento, questi due discorsi non si siano incontrati e così, mentre 19

i criminologi – basandosi sul livello bassissimo raggiunto dai tassi di detenzione alla fine degli anni Sessanta – profetizzavano l’abbandono della carcerazione come strumento di controllo sociale, il discorso sulla sicurezza preparava il terreno alla stretta repressiva degli anni Ottanta. Nella recente storia del sistema penale statunitense sono dunque rilevanti due date che la storiografia ha sempre considerato centrali per l’analisi delle trasformazioni sociali e politiche della fine del secolo scorso1. Come si vedrà più avanti, analizzando l’andamento dei tassi di detenzione nel Novecento, si può rinvenire una relazione fra i mutamenti nei trend di crescita dell’incarcerazione e i grandi eventi storici che hanno segnato il secolo. Per quanto riguarda l’incremento della popolazione carceraria a partire dal 1973, non si deve tuttavia trascurare il ruolo svolto da specifiche retoriche e da determinati orientamenti politici che segnarono una cesura rispetto al discorso politico fino ad allora predominante. 2.1.1. La crescita della popolazione penitenziaria La campagna elettorale del 1968 era stata preceduta da un dibattito sull’aumento della criminalità che aveva coinvolto il mondo accademico e alcuni settori dell’amministrazione. L’anno precedente il Congresso aveva votato il Safe Streets Act istituendo la Law Enforcement Assistance Administration (LEAA), il cui compito principale era di stanziare fondi in favore delle polizie locali impegnate nella lotta alla criminalità di strada. Dal 1968 al 1974 il budget di quest’amministrazione aumentò, passando da 300 milioni di dollari a 1,25 miliardi2. La creazione di quest’agenzia fu la prima tappa verso l’avocazione da parte del governo federale di competenze sempre maggiori nel campo della guerra alla criminalità ordinaria che fino a quel momento era stata gestita esclusivamente a livello locale. A partire dagli anni Settanta, soprattutto a causa della legislazione penale sugli stupefacenti, l’FBI e altre agenzie governative avrebbero giocato un ruolo sempre più importante nel contrastare la criminalità, con un impiego massiccio di mezzi e di uomini che avrebbe determinato una forma di militarizzazione della lotta al crimine, ribattezzata non a caso war on crime. L’avocazione di competenze a livello centrale avrebbe promosso inoltre la riformulazione delle politiche penali in termini sempre più astratti e quindi sempre più ideologici. 20

Nello stesso anno nel quale il Congresso votava il Safe Streets Act, la President’s Commission on Law Enforcement and Administration of Justice, un organismo indipendente formato da esperti al quale era stato affidato dal presidente Johnson il compito di riferire sullo stato della giustizia, pubblicava un rapporto in cui rilevava la progressiva diminuzione della popolazione reclusa (–1 per cento l’anno). Nel 1967 erano detenute nelle carceri degli Stati Uniti 425.000 persone3; non si registravano problemi di sovraffollamento e, ciononostante, s’intendeva favorire la riduzione della popolazione carceraria, promuovendo il ricorso alle misure alternative alla detenzione. Sei anni dopo, nel 1973, Nixon ricevette a sua volta il rapporto sullo stato della giustizia redatto da un’altra commissione indipendente, la National Advisory Commission on Criminal Justice Standards and Goals4, in cui si segnalava che la popolazione penitenziaria aveva smesso di decrescere. La commissione, tuttavia, non mostrava particolari preoccupazioni a riguardo e consigliava una moratoria nella costruzione di nuove carceri e la chiusura progressiva degli istituti penali minorili, giudicando il carcere un’istituzione in via di superamento che si era dimostrata inadatta a contrastare la criminalità. Nel 1973 non era facile prevedere che la fine della tendenza deflativa della popolazione penitenziaria segnava l’inizio di una nuova era: la cifra di 204.000 detenuti5, pur essendo aumentata del 4 per cento rispetto all’anno precedente, rimaneva una delle più basse nella storia statunitense. Dall’analisi dei dati di lungo periodo relativi alla popolazione penitenziaria statunitense si può notare che nei 75 anni intercorsi dal 1925 al 2000 essa è sempre andata crescendo, salvo che per due brevi intervalli di tempo: gli anni della seconda guerra mondiale e il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta al 1973. Come si può vedere dal grafico 2.1, il dato del 1973 era analogo a quello del 1970 e ai dati registrati agli inizi degli anni Sessanta. Nel lungo periodo il tasso di detenzione appare relativamente stabile fino alla seconda metà degli anni Ottanta: dal 1925 al 1973 ha oscillato fra i 90 e i 120 detenuti ogni 100.000 abitanti. Per quanto riguarda le prigioni statali, il tasso di 100 detenuti ogni 100.000 abitanti fu superato solo negli anni della Grande depressione, con il valore massimo di 120 detenuti ogni 100.000 abitanti riscontrabile solo nel 1939, alle soglie del secondo conflitto mondiale. 21

1931

0– 1925

60.000 –

100.000 –

1937

1943

1940-1944 Seconda guerra mondiale

1961

1949

1996

Popolazione carceri federali, 1925-1966

1955

1961

1967

1964-1973 Guerra del Vietnam

1973

1979

1980 305.000 detenuti

1985

1991

Fonte: Bureau of Justice Statistics, Crime and Justice Atlas 2000, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 2001, p. 42.

0– 1925

300.000 –

600.000 –

900.000 –

1.200.000 –

Grafico 2.1. Andamento della popolazione penitenziaria statunitense 1925-1997 (carceri statali e federali)

1997

2.1.2. Un punto di non ritorno Nel 1973 il tasso di detenzione negli Stati Uniti era di 96 detenuti ogni 100.000 abitanti6 ed era quindi lontano dal costituire il segnale di una nuova era nella storia della carcerazione statunitense. Il tasso di detenzione medio che aveva caratterizzato il periodo 1925-1975 fu superato soltanto a partire dal 1979, ma già dal 1973 l’incremento della popolazione carceraria divenne sempre più rapido. Nel 1975 il tasso di detenzione era salito dai 98 detenuti ogni 100.000 abitanti del 1973 a 111. Cinque anni dopo esso sarebbe risultato ancora più alto, raggiungendo i 138 detenuti ogni 100.000 abitanti per poi balzare a 202 nel 1985. Lungi dallo stabilizzarsi, questa tendenza è andata rafforzandosi nel corso degli anni Novanta (nel 1990 il tasso di detenzione aveva raggiunto i 297 detenuti ogni 100.000 abitanti, nel 1995 il balzo in avanti era stato ancor più impressionante: il tasso di detenzione era passato a 411)7, fino al dato attuale di 726 detenuti ogni 100.000 abitanti. Sono questi i numeri che fanno parlare di «boom penitenziario» e che hanno suscitato le reazioni preoccupate di molti analisti, alcuni dei quali hanno stilato previsioni allarmanti per gli anni Duemila. In particolare, James Austin e John Irwin nella prima edizione di It’s about Time avevano previsto che la popolazione detenuta negli Stati Uniti avrebbe raggiunto 7.500.000 unità nei primi anni Duemila8. Nella terza edizione del saggio, pubblicata nel 2001, gli autori hanno rivisto al ribasso questa previsione, preconizzando un incremento della popolazione di circa 260.000 detenuti nei successivi due-tre anni nelle sole carceri statali9. Pur ipotizzando un ritmo di crescita minore rispetto a quello che ha caratterizzato gli anni Novanta, Austin e Irwin ritengono che la popolazione carceraria degli Stati Uniti continuerà ad aumentare. Tale conclusione trova un largo consenso nella letteratura sociologica e negli studi condotti dalle stesse amministrazioni penitenziarie sia a livello federale, sia a livello locale. Benché dal 2001, a causa soprattutto dell’investimento di risorse pubbliche nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, si sia assistito al tentativo di molte amministrazioni statali di tagliare i fondi destinati al settore penale, ridimensionando la popolazione detenuta, la tendenza all’aumento della popolazione carceraria non solo è stata confermata ma si è accentuata negli ultimi anni10. Le strategie di riduzione del ricorso all’incarcerazione messe in atto all’indomani dell’11 settembre11 non sembrano aver avuto particolare efficacia, soprattutto perché, a fronte del tentativo di alcuni Stati di non aumentare12 il numero dei detenuti, vi è stata una forte espansione del sistema peni23

tenziario federale. Solo nel 2003 la popolazione penitenziaria delle carceri federali è aumentata del 5,8 per cento13. L’impressione che si ricava dalla lettura delle statistiche penitenziarie è dunque quella di un’«esplosione» della popolazione carceraria, di un «boom» che non accenna a esaurirsi. Tale interpretazione emerge anche dallo studio dei dati di lungo periodo14. Restano da individuare la radice di questo fenomeno e, soprattutto, gli effetti che esso è destinato ad avere nei prossimi anni. Considerando la storia del sistema penitenziario statunitense, è possibile notare che i principali sbalzi nelle statistiche relative alla popolazione detenuta hanno coinciso con periodi storici caratterizzati da crisi di grande rilievo: la Grande depressione, il 1939 e il 1973 sembrano coincidere con tre fasi particolarmente critiche anche per quanto riguarda l’aumento della popolazione penitenziaria. Tuttavia quest’ultima data segna una svolta decisiva nei processi di carcerizzazione in atto negli Stati Uniti. 2.2. L’aumento della criminalità Da alcuni anni la critica s’interroga sulle motivazioni del «boom penitenziario» statunitense. Le ipotesi formulate sono molte, benché nessuna di queste – come ha ricordato Massimo Pavarini15 – sia stata in grado di misurare in termini precisi l’influenza delle diverse variabili sui tassi di detenzione. Una delle spiegazioni più frequenti dei processi di carcerizzazione è quella che lega l’aumento del numero dei detenuti all’aumento della criminalità. Si tratta di una delle interpretazioni più semplici, poiché assume l’esistenza di una relazione diretta fra criminalità e carcere, fra delitto e pena, accogliendo una convinzione di senso comune. Al di là della plausibilità di questo paradigma esplicativo, non si può non rilevare che l’inversione di tendenza nei tassi di detenzione statunitensi è avvenuta alla fine di un decennio caratterizzato dall’aumento del numero dei reati. Il dato dell’aumento della criminalità nel corso degli anni Sessanta appare difficilmente confutabile, benché molti autori sottolineino che le statistiche relative alla criminalità degli anni Sessanta non hanno un grado elevato di affidabilità16. Analizzando l’andamento del tasso di criminalità nel lungo periodo – com’è rappresentato nel grafico 2.2 – si rileva una certa uniformità negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta del Novecento e un consistente aumento della criminalità negli anni Sessanta. Dagli ini24

Grafico 2.2. Tasso di criminalità USA 1933-1998 ogni 100.000 abitanti

5.950 al 1980

5.898 al 1991

6.000 –

4.000 –

2.000 –

0– 1933 1938 1943 1948 1953 1958 1963 1968 1973 1978 1983 1988 1993 1998 Fonte: Bureau of Justice Statistics, Crime and Justice Atlas 2000, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 2001, pp. 36-37.

Grafico 2.3. Tasso di omicidi USA 1900-1998 ogni 100.000 abitanti

12 – 1930 Grande depressione

9–

1914-1918 Prima guerra mondiale

1939-1945 Seconda guerra mondiale

1961-1975 Guerra del Vietnam

6–

3–

0– 1900 1907 1914 1921 1928 1935 1942 1949 1956 1963 1970 1977 1984 1991 1998 Fonte: Bureau of Justice Statistics, Crime and Justice Atlas 2000, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 2001, p. 38.

25

zi degli anni Settanta, in concomitanza con l’aumento dei tassi di detenzione, il tasso di criminalità presenta un andamento altalenante, ma decresce significativamente dalla fine degli anni Ottanta a oggi. L’impressione che gli anni Sessanta abbiano segnato una fase di aumento della criminalità è ancor più netta se si considerano i tassi di omicidio registrati nel lungo periodo. Come si può notare dal grafico 2.3, proprio all’inizio degli anni Sessanta si segnala un vero e proprio balzo in avanti nel tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti. Alla luce di queste statistiche è legittimo affermare che negli anni che hanno preceduto la «grande incarcerazione» si è registrato un considerevole aumento dei crimini commessi e in particolare dei crimini violenti che destano allarme sociale. Questo dato non è certo sufficiente a dimostrare la validità della tesi che postula una correlazione diretta fra aumento della criminalità e incremento della popolazione penitenziaria; tuttavia, esso non può essere omesso sulla base di assunzioni aprioristiche riguardo all’autonomia della sfera punitiva. Esso appare come un dato rilevante, senza che sia necessario ipotizzare l’esistenza di una relazione diretta fra aumento della criminalità ed «esplosione penitenziaria». 2.3. Un successo solo apparente La tesi di una correlazione diretta fra l’andamento della criminalità e l’andamento dei tassi di detenzione è stata sostenuta da molti fautori delle politiche penali ispirate alla logica del law and order17. Uno dei principali motivi per cui l’opinione pubblica statunitense ha sostenuto queste politiche risiede del resto proprio nella presunta capacità dell’approccio repressivo di eliminare o di ridurre significativamente la criminalità, la cui diffusione è avvertita dai cittadini degli Stati Uniti come uno dei maggiori problemi del paese. Il dibattito sull’efficacia delle politiche repressive è oggi – a circa trent’anni dalla svolta punitiva – molto acceso negli Stati Uniti. Nonostante quasi tutti gli analisti siano concordi nel constatare il declino dei tassi di criminalità negli ultimi venticinque anni, i giudizi sulle cause e sull’interpretazione di questo fenomeno sono divergenti. I difensori delle politiche penali «dure» sostengono che la riduzione della criminalità è la conseguenza delle politiche di «tolleranza zero» e affermano che vi è una correlazione diretta fra l’aumento dei tassi di detenzione e la diminuzione dei tassi di criminalità. Questa tesi è tuttavia criticata sotto molti aspetti. Numerosi sono gli autori che, a 26

partire da alcune osservazioni riguardo alla relazione fra l’andamento degli indici di carcerizzazione e l’andamento dei tassi di criminalità, hanno sostenuto che l’interpretazione data dai fautori del tough on crime movement è il risultato di un’illusione ottica. Una parte dei critici ha sollevato dubbi di ordine tecnico sulla redazione delle statistiche relative alla criminalità, rimproverando agli studi che hanno avvalorato la tesi della correlazione diretta fra politiche penali «dure» e riduzione della criminalità di aver preferito il sistema di misurazione fornito dallo Uniform Crime Report (UCR) a quello ritenuto più preciso ed efficace del National Crime Victimization Survey (NCVS)18. Il primo è redatto dall’FBI sulla base degli arresti compiuti dalla polizia in tutti i distretti degli Stati Uniti; tale rilevazione tenderebbe, secondo i critici, a sovrastimare il fenomeno della criminalità, poiché è probabile che il numero degli arresti sia superiore al numero dei reati commessi. Da una parte, infatti, molti reati sono commessi da più persone e, dall’altra, una persona può incorrere in più provvedimenti di arresto connessi ad altrettante violazioni che tuttavia confluiscono in un unico fatto delittuoso. Più accurato sarebbe il sistema di misurazione fornito dal National Crime Victimization Survey, che consiste in un’indagine telefonica condotta dal Census Bureau a livello federale su un campione di cittadini ai quali viene chiesto se sono stati vittime di una serie di reati in un certo periodo di tempo. L’inchiesta è realizzata seguendo le più aggiornate tecniche demoscopiche ed è considerata da molti analisti non solo più affidabile dal punto di vista scientifico, ma anche più utile, poiché mette in luce gli aspetti della criminalità che affliggono maggiormente i cittadini. In base a questo sistema di rilevazione, l’allarme criminalità negli Stati Uniti con riferimento ai decenni Sessanta-Ottanta andrebbe notevolmente ridimensionato e, di conseguenza, andrebbe ridotta la portata della flessione dei tassi di criminalità registrata negli anni Novanta, che è considerata uno degli indici di successo delle politiche di law and order inaugurate dalle amministrazioni repubblicane e adottate anche sotto la presidenza Clinton. Qualunque sia il sistema di rilevazione utilizzato – come si può notare dalla lettura dei grafici redatti dal Bureau of Justice Statistics sulla base dei dati dell’UCR19 – i dati indicano una sostanziale stabilità dei tassi di criminalità negli anni Trenta-Cinquanta del Novecento, un aumento significativo negli anni Sessanta-Settanta e una consistente riduzione a partire dagli anni Novanta. Benché la riduzione 27

della criminalità possa essere enfatizzata dall’utilizzo del sistema di rilevazione dell’UCR, essa appare comunque rilevante. Le critiche alla tesi del successo delle politiche repressive si appuntano però soprattutto su altri aspetti, di cui illustriamo i principali. 1) La correlazione fra l’aumento della carcerazione e la riduzione della criminalità non è dimostrata: i dati di lungo periodo suggeriscono un andamento del fenomeno criminale negli Stati Uniti legato più a periodi di crisi economiche e sociali che non all’adozione di specifiche politiche penali. Inoltre esistono altre possibili spiegazioni del calo del numero dei reati. 2) Per quanto la riduzione della criminalità a partire dal 1990 sia innegabile, l’andamento dei tassi di criminalità è molto altalenante e, soprattutto se analizzato nel lungo periodo, fa pensare più a una stabilizzazione della criminalità che non a una riduzione destinata a durare nel tempo. Ci sono anzi segnali che fanno preconizzare un incremento della criminalità nei prossimi anni. 3) La riduzione della criminalità che emerge dalle statistiche nazionali non è il risultato di una diminuzione omogenea: la criminalità si è molto ridotta in alcuni Stati, ma è molto aumentata in altri. Inoltre, negli Stati nei quali la criminalità è stata sconfitta, il teorema dell’efficacia della carcerazione di massa non è confermato. 4) La sproporzione fra i dati relativi all’incarcerazione di massa e quelli riguardanti la riduzione della criminalità induce a pensare che tali fenomeni non siano legati fra loro e deve far riflettere sull’opportunità di tenere in stato di detenzione una porzione così rilevante della popolazione per ottenere un risultato così modesto. 5) La violenza, che dev’essere tenuta distinta dalla criminalità, è complessivamente aumentata nella società statunitense in questi anni e il sentimento d’insicurezza è oggi più forte di qualche decennio fa, sebbene la criminalità sia stata ridimensionata. Fra le ipotesi che sono state formulate per interpretare la riduzione della criminalità è da segnalare quella che lega l’andamento dei tassi di criminalità alle variazioni nelle occasioni di guadagno illecito, dovute ai mutamenti economici e sociali. Si tratta di una tesi «classica», condivisa da molti, che riconduce l’impennata dei tassi di criminalità alla maggior ricchezza conquistata dalle classi medio-basse in seguito al boom economico degli anni Sessanta20. Altre interpretazioni considerano determinante per l’andamento della criminalità il grado di legittimità di cui godono le istituzioni politiche, economiche e sociali di un determinato paese. Gary La Free, ad esempio, ha 28

connesso l’aumento della criminalità negli anni Sessanta e Settanta alla crisi di legittimazione delle istituzioni, crisi che sarebbe stata risolta nel corso degli anni Novanta21. Al di là della plausibilità di queste tesi22, appare difficile accettare un’interpretazione univoca della riduzione della criminalità negli anni Novanta: il dato stesso della riduzione dei reati è talmente controverso da non poter costituire l’unico fondamento di una politica di incarcerazione di massa che ha costi economici e sociali molto elevati. 2.3.1. Crimine e violenza A partire dal 1990 la criminalità negli Stati Uniti è complessivamente diminuita e tuttavia il numero di reati che destano allarme sociale e il tasso di vittimizzazione sono ancora molto elevati23, soprattutto se confrontati con quelli degli altri paesi occidentali. La strategia impiegata dalle politiche di law and order ha prodotto il risultato paradossale di porre in stato di detenzione un numero altissimo di cittadini condannati per reati commessi contro la proprietà e di lasciare invece in secondo piano la lotta alla criminalità violenta. Negli Stati Uniti un ladro ha il 70 per cento di possibilità di essere condannato alla carcerazione, mentre in Gran Bretagna le possibilità per un ladro di essere condotto in carcere si riducono al 40 per cento24. Anche la lunghezza delle pene detentive inflitte per i reati contro la proprietà è molto più elevata negli Stati Uniti che negli altri paesi occidentali, non solo per quanto riguarda la pena comminata, ma anche per quanto attiene alla pena effettivamente scontata. La sproporzione fra mezzi impiegati e risultati ottenuti dalle politiche di law and order è sottolineata da molti, tanto più che i sondaggi mostrano che il senso di insicurezza degli statunitensi è aumentato. L’incarcerazione di massa invece che avere un effetto tranquillizzante sembra essere un fattore di destabilizzazione e d’allarme. La sensazione di essere circondati da concittadini che entrano ed escono dal carcere, la diffusione e la capillarità del controllo poliziesco, l’attenzione dei mass media al tema della criminalità contribuiscono ad alimentare il senso di insicurezza. Questa percezione è rafforzata dall’effettiva tensione che la familiarità con il carcere determina nelle comunità soggette al controllo di polizia e alla repressione penale. Molte famiglie sono disgregate dalla continua sottrazione degli adulti maschi alla vita civile dovuta alla loro frequente reclusione in carcere. Il tessuto sociale delle comunità nere è messo a dura prova da un sistema di detenzione di massa che rompe i lega29

mi familiari, lasciando orfani molti minori a causa dell’incarcerazione di entrambi i genitori. Queste dinamiche mostrano che la scelta di utilizzare l’incarcerazione di massa come sistema di mantenimento dell’ordine sociale non ha funzionato e che essa ha anzi contribuito alla produzione del disordine e del panico sociale. La violenza è molto diffusa fra i giovani, in particolare fra i giovani afroamericani abitanti nelle innercities25. La crisi dei ghetti neri – iniziata negli anni Settanta e aggravatasi con la diffusione delle droghe pesanti nel corso degli anni Ottanta – non è stata risolta dalle politiche di law and order, che hanno così trascurato uno dei principali problemi della società statunitense. Anche la National Criminal Justice Commission nel suo rapporto sottolinea la necessità di distinguere fra crimine e violenza, rilevando come l’obiettivo di un sistema penale democratico dovrebbe essere non tanto la diminuzione della criminalità in generale, quanto l’eliminazione della violenza. Il pericolo maggiore per i cittadini sta nella diffusione della violenza, che non sempre dà luogo a una violazione della legge penale26. Le politiche repressive finiscono invece per contribuire al consolidamento di una cultura della violenza, alimentando la paura sociale, favorendo l’autodifesa e la conseguente diffusione delle armi. Queste politiche possono produrre una riduzione dei crimini violenti soltanto parziale, poiché nella maggior parte dei casi i reati di questo genere sono commessi in condizioni nelle quali l’autore del reato non tiene in considerazione le conseguenze penali del suo gesto. Come ricorda Donziger La maggior parte dei crimini violenti sono commessi da amici o in famiglia. L’omicidio più comune non è quello casuale ma è quello commesso da una persona che spara a qualcuno che conosce, spesso dentro casa. Da uno studio sugli omicidi nelle aree urbane commissionato dal governo nel 199427 emerse che, su dieci persone vittime di omicidi, otto erano state uccise da un familiare o da un conoscente28.

2.3.2. Il caso New York Il mito dell’efficacia delle politiche penali «dure» è stato alimentato dalla forte riduzione della criminalità registrata a New York alla fine degli anni Novanta. New York è stata la patria del movimento di law and order, la città nella quale l’approccio severo al crimine è stato teorizzato e messo in pratica con 30

maggiore determinazione. Da molti fautori della «tolleranza zero» il modello di gestione dell’ordine pubblico a New York è considerato come un esempio al quale guardare; dai detrattori della nuova filosofia penale New York, al contrario, è considerata la fucina di una nuova razionalità penale orientata al governo della miseria29. La «tolleranza zero» non è soltanto un particolare metodo di polizia adottato nella New York degli anni Novanta da un’amministrazione intenzionata a sconfiggere la criminalità; già nel corso degli anni Ottanta erano state sperimentate nello Stato di New York strategie di controllo particolarmente severe, quali la Operation Pressure Point, finalizzata a eliminare il business degli stupefacenti. La «tolleranza zero» appare piuttosto come un’ideologia coerente che trova applicazione anche al di fuori dell’ambito penale. Rudolph Giuliani, due volte sindaco di New York negli anni Novanta, ha sempre rivendicato la «tolleranza zero» come l’elemento centrale del suo più generale programma di governo. Nel corso dei suoi mandati Giuliani ha potenziato gli organici di polizia e ha destinato ingenti risorse alla lotta alla criminalità comune, realizzando un controllo territoriale capillare. La «tolleranza zero» si è indirizzata non solo nei confronti della criminalità in senso stretto, ma anche nei confronti di una gamma molto ampia di atteggiamenti considerati contrari all’ordine pubblico: ha preso di mira l’accattonaggio, il consumo di droghe leggere, le attività di strada dei gruppi giovanili, l’utilizzo di particolari zone della città come i parchi o la metropolitana da parte dei senza fissa dimora che vi costruivano i propri rifugi ecc. Si tratta di habitus sociali che in molte democrazie liberali non sono sanzionati penalmente; tuttavia, in base alla convinzione per la quale sono i piccoli disordini quotidiani a predisporre le condizioni per il successo della criminalità30, l’amministrazione di New York ha perseguito scrupolosamente questo genere di comportamenti. La «tolleranza zero» si distingue del resto da altre politiche di polizia proprio perché si basa sulla convinzione che vi sia continuità fra i cosiddetti atti di «inciviltà» e i reati veri e propri. Lo slogan stesso, zero tolerance, indica l’abbassamento della soglia di tolleranza nei confronti dei comportamenti considerati devianti e suggerisce il ritorno ai valori d’ordine che si ritiene fossero condivisi nel passato. Questa strategia di lotta alla criminalità è stata associata alla significativa riduzione del tasso di omicidi registrata a New York negli anni Novanta31. I sostenitori della «tolleranza zero» utilizzano questo dato per accreditare l’efficacia delle politiche repressive. 31

Il successo del «modello New York» è riconosciuto anche da molti critici delle politiche di law and order, che sottolineano tuttavia come le stesse politiche adottate a New York non abbiano in altre città condotto agli stessi risultati. L’andamento della criminalità negli Stati Uniti nel corso degli anni Novanta è in effetti molto disomogeneo. Secondo Currie, ad esempio, la criminalità si è spostata: è stata ridimensionata in alcune grandi metropoli come New York, ma è nuovamente esplosa in altre. Sebbene la criminalità violenta sia diminuita a livello nazionale, un numero esiguo di città contribuisce in modo determinante alla formazione del dato nazionale. In città come Los Angeles, che hanno adottato politiche di «tolleranza zero», i reati gravi non sono diminuiti e in Stati come la Louisiana e il Texas, che guidano le classifiche statunitensi della carcerazione, la criminalità è aumentata. Inoltre i risultati di New York vanno ridimensionati alla luce dell’aumento straordinario della criminalità registrato nel corso degli anni Ottanta. Fra il 1985 e il 1990 gli omicidi a New York erano aumentati del 62 per cento, raggiungendo il record di 2.245 ogni 100.000 abitanti32. Franklin Zimring e Jeffrey Fagan, disaggregando i dati relativi agli omicidi commessi a New York fra il 1985 e il 1997 e distinguendo gli omicidi commessi con armi da fuoco da quelli commessi con altri mezzi, hanno mostrato che dal 1986 al 1997 questi ultimi sono diminuiti del 60 per cento: il merito di un simile calo non va certo alla «tolleranza zero», inaugurata soltanto alla metà degli anni Novanta. Il numero degli omicidi commessi con armi da fuoco invece ha cominciato a diminuire significativamente solo a partire dal 199633. Fino al 1996 esso non era mai sceso al di sotto del dato registrato nel 1985. La «tolleranza zero» non ha dunque influito sulla generale riduzione del tasso di omicidi, ma solo sulla diminuzione degli omicidi commessi con armi da fuoco. Essa ha contribuito a limitare l’ondata di violenza scatenatasi, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, fra le bande che si contendevano il mercato degli stupefacenti, ma non può essere considerata una strategia di polizia efficace in ogni situazione. Fino al 1997 non si può parlare di vera e propria diminuzione della violenza; si tratta piuttosto di un regresso. Tanto più che molti indici fanno pensare che l’andamento della violenza legata al consumo e allo spaccio di stupefacenti sia ciclico e che sia connesso più all’arrivo sul mercato di nuove sostanze e alla diffusione di nuove subculture della droga che non alla severità delle diverse politiche penali e di polizia34. Il «caso New York» appare caratterizzato non tanto dal succes32

so delle politiche penali adottate nel corso degli anni Novanta, quanto dalla grave anomalia rappresentata dall’esplosione di violenza verificatasi nella seconda metà degli anni Ottanta in concomitanza con la diffusione del crack presso i giovani dell’inner-city. Se poi si intende sostenere che l’amministrazione Giuliani ha avuto successo nella lotta al crimine si deve comunque ammettere che esso è dipeso semmai dalla strategia di polizia adottata e non dal più generale aumento di punitività del sistema penale. Il «pacchetto punitivo» degli anni Novanta era composto da due distinte strategie di contrasto della criminalità che, pur facendo parte di uno stesso modello e pur essendo state elaborate dalla stessa cultura criminologica, non sempre si sono integrate. La prima strategia consisteva nell’adozione di un sistema di controllo totale del territorio, attraverso la presenza stabile della polizia in determinate aree, l’impiego di molti uomini e mezzi e l’adozione di un atteggiamento di grande rigore nella tutela dell’ordine pubblico. La seconda consisteva invece nell’adozione da parte dei tribunali e degli operatori del sistema di giustizia penale di criteri di giudizio ispirati alla massima severità, criteri che si sono tradotti nel frequente ricorso alla detenzione anche per gli autori di reati minori. Spesso tali strategie si sono integrate, creando un circuito nel quale l’assiduo controllo di polizia ha determinato un aumento degli arresti e un incremento delle denunce di reato. Questo ha condotto all’immissione nel circuito penale di un numero molto elevato di persone, che sono state poi giudicate dai diversi operatori del sistema di giustizia penale (pubblici ministeri, giudici ecc.) secondo criteri molto rigidi. Si è così creato uno stretto legame fra le politiche di «tolleranza zero» in campo poliziesco e le politiche del just deserts35, di stampo retributivistico, in campo penitenziario. Tale circuito non pare tuttavia essersi formato ovunque: proprio a New York la «tolleranza zero» è consistita nell’adozione di un controllo territoriale diffuso e invasivo da parte della polizia e nella repressione di una gamma molto ampia di comportamenti che non apparivano conformi al senso comune e allo stile di vita del cittadino medio. Quest’approccio all’ordine pubblico non si è tradotto però in un forte aumento della detenzione, anzi l’incremento della popolazione penitenziaria nello Stato di New York è stato inferiore all’aumento registrato a livello nazionale. Il numero di detenuti nelle carceri statali di New York è lievemente diminuito nella seconda metà degli anni Novanta36. Secondo Mauer il «caso New York» può essere assunto come controprova dell’efficienza dell’incarcerazione di 33

massa come sistema di contenimento della criminalità37 e tale controprova appare avvalorata anche dal confronto con i dati degli Stati leader della carcerazione – la Louisiana e il Texas – dove la criminalità è invece aumentata. Il segreto del successo di New York, se di successo si deve parlare, è dovuto più alle modalità operative e organizzative adottate dal New York Police Department che all’efficacia della pena detentiva. L’esito dell’esperimento newyorkese è dunque molto controverso e non appare determinante al fine di giustificare l’incarcerazione di massa. Il successo della «tolleranza zero» come strategia di controllo sociale è anch’esso molto dubbio, se si considerano l’eccezionalità della situazione dell’ordine pubblico verificatasi a New York negli anni Ottanta e la disomogeneità dei risultati ottenuti a livello nazionale. A queste osservazioni si deve aggiungere che tale strategia di controllo ha mostrato di avere rilevanti controindicazioni. Come Amnesty International ha più volte denunciato38, i metodi di polizia adottati a New York hanno determinato un forte aumento delle violazioni dei diritti delle persone fermate e arrestate. Molti casi di abuso della polizia hanno condotto alla morte delle vittime. Secondo le statistiche dello stesso New York Police Department in un solo anno, dal 1993 al 1994, le uccisioni di civili con armi da fuoco da parte della polizia sono aumentate del 34,8 per cento, mentre le morti di civili tenuti in custodia dalla polizia sono cresciute del 53,3 per cento39. Inoltre, la «tolleranza zero» ha mostrato apertamente il suo volto discriminatorio: basti pensare che nel 1995 il 50,3 per cento delle denunce al Civil Complaint Review Board, che giudica degli abusi commessi dalla polizia, erano state sporte da afroamericani, il 25,6 per cento da latinos e solo il 21,2 per cento da bianchi, che pure sono la maggioranza della popolazione di New York40. 2.4. I costi economici dell’incarcerazione di massa Il carcere è per i cittadini di molte democrazie liberali ancora un luogo oscuro, nel quale finisce chi viola la legge, un posto immaginario di cui le persone oneste devono disinteressarsi. L’opinione pubblica si sente appagata quando apprende che un criminale è stato condannato alla carcerazione e per lo più non ritiene di doversi interessare alla sorte che attende il reo una volta uscito dall’aula del tribunale. La maggioranza dei cittadini si accorge del carcere solo quando viene a sapere che un detenuto è evaso o che un criminale cui era stato 34

concesso un permesso per uscire dalla prigione ha di nuovo commesso un reato e a queste notizie reagisce invocando maggior rigore e auspicando condizioni di detenzione più severe. Pur lamentandosi del carico eccessivo di tributi che gli viene inflitto dallo Stato, quasi mai il cittadino medio s’interroga sui costi del sistema penale: è come se il carcere, essendo appunto un non-luogo, non dovesse costare niente, come se le tasse non servissero anche a pagare la costruzione dei penitenziari, la loro gestione e le spese necessarie al mantenimento dei detenuti. È così che la maggioranza dei cittadini statunitensi non si è accorta della grande quantità di risorse pubbliche investite in questi anni nel settore penitenziario; ha continuato a invocare la «tolleranza zero» e a plaudere all’incarcerazione di massa, senza chiedersi a quali servizi stesse rinunciando per pagare la detenzione di 726 cittadini ogni 100.000 abitanti. Ogni anno un detenuto costa in media ai contribuenti statunitensi circa 22.000 dollari. Il costo della detenzione aumenta con l’aumentare dell’età del detenuto: per un detenuto di 55 anni vengono spesi in media 69.000 dollari l’anno41. Ancor più alti sono i costi per la carcerazione dei minori, che sono più di centomila nelle carceri statunitensi: la detenzione di un minore costa circa 100.000 dollari l’anno e il sistema penale statunitense spende nel complesso 3,2 miliardi di dollari l’anno per la detenzione minorile42. A questi costi di gestione si aggiungono i costi di costruzione di nuove carceri, che si aggirano intorno ai 54.000 dollari di costo base per ogni nuova cella edificata43, a cui devono essere sommati gli interessi che gli Stati sono di solito costretti a pagare a causa dei mutui accesi per finanziare la costruzione dei penitenziari: cosicché alla fine una cella nuova costa circa 100.000 dollari44. Negli Stati Uniti la costruzione di nuove carceri è stata continua e generalizzata negli ultimi trent’anni: i penitenziari federali e statali sono passati da 592 nel 1974 a 1.704 nel 200045. Per quanto riguarda le jails, solo dal 30 giugno 2002 al 30 giugno 2003 sono stati resi disponibili 22.572 posti in più46. Vi sono poi le spese sostenute per i servizi ai detenuti, che fanno aumentare del 25 per cento i costi della carcerazione47, e i «costi nascosti» della detenzione, come quelli sostenuti per il mantenimento dei figli dei detenuti, che sono circa 2 milioni. Inoltre, la detenzione di una proporzione così grande di cittadini sottrae allo Stato i proventi che potrebbero derivare dalla loro attività lavorativa se fossero liberi. Fra i «costi nascosti» dell’incarcerazione vi è poi quello dovu35

to al carattere patogeno dell’istituzione penitenziaria. Donziger ricorda che «alla fine del 1992 c’erano più di 48.000 casi di tubercolosi nelle carceri statali e federali» e che «il tasso di infezione da AIDS fra la popolazione penitenziaria è superiore di quasi 14 volte a quello della popolazione libera»48. Secondo Austin e Irwin, tenendo conto dei «costi nascosti» della detenzione «la vera spesa annua eccede probabilmente i 30.000 dollari per ogni detenuto»49, il che fa aumentare la spesa penitenziaria totale dai 30 miliardi di dollari50, che costituiscono il budget ufficialmente allocato al sistema penitenziario, fino a 45 miliardi. Queste cifre non comprendono i costi delle attività di polizia e i costi, molto alti, del sistema giudiziario investito di un numero elevatissimo di procedimenti penali. Una parte consistente della ricchezza pubblica degli Stati Uniti è investita nel sistema penitenziario e più in generale nella conduzione della war on crime. Questa ricchezza è sottratta ad altre aree d’intervento dello Stato e, in particolare, alla sfera dei servizi sociali, della formazione e della cultura. In California, ad esempio, Stato famoso per le sue eccellenti università, il budget destinato all’amministrazione penitenziaria era aumentato di dieci volte già nel corso degli anni Ottanta. Dallo studio condotto dal Center on Juvenile and Criminal Justice e significativamente intitolato Trading Books for Bars: The Lopsided Funding Battle between Prisons and Universities, pubblicato nel 1994, è emerso che dal 1984 al 1994 lo Stato della California ha costruito 19 carceri e solo un’università statale. L’organico dell’amministrazione penitenziaria in questo stesso periodo è aumentato di 25.864 unità, mentre quello del sistema d’istruzione universitaria si è ridotto di 8.082. Il budget dell’amministrazione penitenziaria, che nel 1984 era circa un terzo di quello destinato all’istruzione universitaria, nel 1994 era divenuto pari a quest’ultimo e nel 1996 lo aveva superato. Dal 1980 al 1996 le risorse pubbliche per l’istruzione universitaria sono aumentate del 116 per cento, quelle per le carceri dell’868 per cento51 e questo a fronte di un aumento delle richieste di posti nelle università pubbliche. Com’è noto, le università statali statunitensi sono frequentate da chi non può permettersi di pagare le altissime rette dei college privati: la maggioranza di questi studenti è composta da afroamericani e latinos. A queste stesse minoranze sono state spalancate le porte delle carceri statali e federali. Nel 1996 gli afroamericani iscritti a un corso di laurea quadriennale nelle università statali della California erano 22.555, mentre 44.792 (quasi il doppio) erano gli afroameri36

cani reclusi nelle carceri statali (senza contare i giovani blacks sottoposti a provvedimenti di probation o di parole); e si tenga conto che il numero complessivo degli studenti iscritti nelle università pubbliche della California era superiore al numero dei detenuti nelle carceri statali52. Si tratta soltanto di alcuni esempi utili a illustrare quello che può essere considerato uno dei principali mutamenti della politica sociale statunitense dagli anni Settanta: le risorse pubbliche destinate al sistema del welfare sono state indirizzate verso il sistema penitenziario, con gravi conseguenze per le minoranze e particolarmente per gli afroamericani. L’aumento della discriminazione razziale è una delle conseguenze dell’incarcerazione di massa e uno dei suoi «costi sociali» più rilevanti. 2.5. I costi sociali della detenzione Trattare dei costi sociali della detenzione può apparire riduttivo, poiché è impossibile determinare l’impatto sociale dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. La detenzione è un’esperienza lacerante sia per chi la subisce, sia per il contesto sociale e familiare sul quale si ripercuote. Di solito l’ingresso in carcere si traduce per il detenuto nell’immissione in un circuito – il circuito penale – dal quale non uscirà più e nel quale verranno indirettamente coinvolte le persone che gli sono affettivamente legate. Quando la detenzione diviene di massa, come nel caso degli Stati Uniti, l’effetto lacerante di quest’esperienza individuale si allarga a interi settori sociali e produce effetti politici rilevanti; tanto più quando, come accade negli Stati Uniti, la popolazione interessata dalla carcerazione tende a coincidere con una minoranza razziale. Forse un libro come Hard Time Blues di Saskia Abramsky53 illustra meglio di ogni cifra l’effetto devastante delle politiche di law and order54. Questo reportage giornalistico narra la vicenda di Billy Ochoa, un cittadino afroamericano di 53 anni, «piccolo scroccone del welfare», che è stato condannato a 25 anni di carcere da un tribunale della California per una truffa di 2.100 dollari ai danni dei servizi sociali. Tuttavia, per quanto sia insufficiente, è importante ricordare alcuni dati che spesso vengono trascurati da chi si limita ad analizzare le statistiche sulla criminalità per valutare il successo o l’insuccesso delle politiche penali. Una delle conseguenze più gravi dell’incarcerazione di massa è la sottrazione alla vita civile d’intere generazioni di maschi poveri, per 37

lo più neri e ispanici. Questa situazione produce due risultati gravi: sottrae alle comunità nere e ispaniche le loro migliori risorse non solo economiche ma anche sociali e culturali e le priva degli uomini e delle donne che dovrebbero guidarle e promuoverne il progresso e il rinnovamento, determinando così il logorio di quel tessuto sociale e politico delle comunità minoritarie che aveva sempre resistito alla ghettizzazione55. L’incarcerazione di massa accentua la segregazione delle comunità nera e ispanica, rivelando la fragilità del sogno multiculturale statunitense. La letteratura ha definito l’attuale stato dei rapporti fra minoranze e maggioranza bianca negli Stati Uniti come un vero e proprio racial divide, denunciando la costante presenza di pregiudizi razziali nel sistema di giustizia e la spirale che dalla dismissione del welfare State conduce all’incarcerazione degli afroamericani. La discriminazione razziale nel sistema penale e penitenziario statunitense non è un fenomeno nuovo; essa è andata tuttavia aumentando a partire dagli anni Ottanta del Novecento (da allora il numero dei detenuti neri è triplicato), proprio mentre il razzismo e le forme più esplicite di segregazione venivano condannati dalla maggioranza degli statunitensi. Molti osservatori concordano nel ritenere che il razzismo «classico» negli Stati Uniti è oggi al suo minimo storico. La lunga battaglia dei neri per i diritti civili ha reso possibile per una larga parte della classe media afroamericana un grado d’integrazione sociale soddisfacente e non mancano i rituali simbolici e le figure pubbliche che presentano la società statunitense come una società pacificata e multiculturale. Il principio della color blindness (della «cecità rispetto al colore»), sostenuto a partire dalla fine dell’Ottocento da una parte del costituzionalismo statunitense e consacrato dalla Corte suprema nella sentenza Brown v. Board of Education56 del 1955, che decretò la fine del sistema di segregazione dei neri nelle scuole pubbliche, informa il modo di operare delle istituzioni statunitensi57. Secondo questo principio tutti i cittadini sono uguali di fronte la legge «a prescindere dal colore della loro pelle». Tuttavia, essere neri negli Stati Uniti è ancora oggi un grave svantaggio sociale: la segregazione ufficiale si è dissolta, ma per la maggior parte degli afroamericani la discriminazione razziale è un’esperienza quotidiana. È utile a questo proposito ricordare alcuni dati: il 49 per cento della popolazione penitenziaria è composto da afroamericani, benché i neri siano il 12-13 per cento della popolazione58. Ogni giorno 1 su 3 afroamericani maschi d’età compresa fra i 20 e i 38

29 anni (il 32,3 per cento) è in carcere o sottoposto ai regimi di parole o probation (nel 1990 la proporzione era di 1 su 4). Per i bianchi – maggioranza nel paese – la percentuale è invece di 1 su 1559. Molti studi hanno cercato di comprendere i motivi alla base della sovrarappresentazione dei neri nelle carceri statunitensi60. Secondo alcuni, essa è dovuta alla loro maggiore esposizione ai controlli della polizia e agli arresti. Ciò si può imputare in parte a un più alto tasso di devianza degli afroamericani e in parte alle pratiche discriminatorie della polizia. Secondo altri, sono le condizioni economiche e sociali in cui vivono gli afroamericani a determinare la loro alta presenza in carcere: i neri delinquono di più e non hanno i mezzi per assicurarsi una difesa adeguata o per accedere alle misure alternative alla detenzione. Non mancano inoltre ricerche che mostrano la disparità di trattamento dei bianchi e dei neri nel processo penale: studi recenti mostrano che l’appartenenza razziale dell’imputato e quella della vittima concorrono a determinare l’esito dei processi penali61. A livello federale, ad esempio, un imputato nero riceve in media condanne alla detenzione più lunghe di un bianco imputato dello stesso reato, mentre un ispanico ha più probabilità di essere condannato rispetto a un imputato bianco nella stessa situazione62. Ciò non significa necessariamente che le decisioni delle corti dipendano da un atteggiamento razzista nei confronti delle minoranze. Il trattamento più severo che ricevono gli imputati neri e i latinos può dipendere anche dalle valutazioni che le corti fanno in merito alla loro pericolosità; a questo farebbe pensare il fatto che la maggiore disparità di trattamento fra bianchi e neri si registra proprio nelle condanne per i reati minori. È difficile però accertare se le valutazioni di pericolosità sono neutrali o se invece sono influenzate da pregiudizi e da stereotipi razziali. Rilevante appare in questo senso il fatto che non solo sono puniti più severamente gli imputati neri rispetto ai bianchi, ma lo sono ancora di più gli imputati neri per reati nei quali la vittima è bianca63. È poi da menzionare il dato relativo alle condanne a morte, benché non sia determinante per capire i motivi dell’elevata presenza degli afroamericani in carcere. Uno studio del Department of Justice ha mostrato che dal 1995 al 2000 il ministro della Giustizia degli Stati Uniti (US Attorney General) ha approvato 159 procedimenti per reati puniti con la pena di morte da parte dei procuratori federali; il 72 per cento di questi riguardava imputati appartenenti a minoranze razziali64. Di questi 159 casi, il 48 per cento di quelli riguardanti 39

imputati bianchi si è risolto con un patteggiamento che ha escluso la condanna a morte. Questa soluzione ha invece riguardato solo il 25 per cento degli imputati neri e il 28 per cento dei latinos. Per quanto riguarda l’appartenenza razziale della vittima, dallo stesso studio emerge che, dal 1995 al 2000, nel 36 per cento dei procedimenti per pena capitale autorizzati dal ministro della Giustizia degli Stati Uniti l’imputato era nero e la vittima bianca e solo nel 20 per cento dei casi sia l’imputato che la vittima erano neri. Risultati analoghi sono stati ottenuti dagli studi che hanno analizzato le condanne a morte pronunciate dalle corti statali65. La disparità di trattamento fra bianchi, neri e latinos nelle condanne alla pena detentiva è certamente una delle cause della sovrarappresentazione delle minoranze razziali nelle carceri statali e federali. Sono però i risultati delle politiche di contrasto al consumo e allo spaccio di stupefacenti a chiarire meglio d’ogni altra considerazione perché il numero dei blacks e dei latinos è così alto nelle carceri degli Stati Uniti. Gli afroamericani e gli ispanici sono circa il 90 per cento dei condannati alla detenzione nelle prigioni statali per essere stati trovati in possesso di stupefacenti66. Dal 1983 al 1993 i detenuti per reati di droga sono aumentati a livello nazionale del 510 per cento; gli afroamericani sono il 13 per cento dei consumatori abituali di droga e tuttavia il 35 per cento degli arresti, il 55 per cento delle imputazioni e il 75 per cento delle condanne per detenzione di stupefacenti riguarda afroamericani67. È evidente dunque che alcune specifiche politiche penali hanno notevolmente contribuito all’aumento della percentuale dei detenuti neri. Michael Tonry ha polemicamente intitolato il suo saggio sulla discriminazione razziale nel sistema penale statunitense Malign Neglect68 per denunciare che i fautori delle politiche di law and order non si preoccupano delle conseguenze negative che esse producono nella società statunitense aggravando la discriminazione dei neri. Secondo Tonry gli effetti negativi delle politiche penali inaugurate negli anni Ottanta sarebbero stati colpevolmente sottovalutati da una classe politica in cerca di legittimazione: «la disonestà intellettuale e il cinismo politico – scrive – hanno a lungo caratterizzato sia le politiche di controllo della criminalità sia le politiche sociali negli Stati Uniti»69. La situazione attuale è il risultato di campagne politiche a favore dell’incarcerazione e contro il welfare State che hanno manipolato l’opinione pubblica, trascurando il fatto che, se ben informata, la maggioranza dei cittadini considera le politiche di sostegno so40

ciale alle famiglie in difficoltà il miglior strumento di contrasto della criminalità. «Le politiche di controllo della criminalità e le politiche di welfare degli ultimi anni – scrive Tonry – sono state fondate su premesse erronee»70. Da una parte, la critica al welfare State nel valutare l’effetto delle politiche sociali sul contenimento della criminalità non ha considerato l’insufficienza degli aiuti pubblici alle famiglie svantaggiate; dall’altra, è stata alimentata la falsa credenza che le politiche penali abbiano un effetto diretto sull’andamento della criminalità. Soprattutto sono state scelte consapevolmente delle politiche dai risultati discriminatori. È stato proprio il principio della color blindness delle politiche pubbliche a consentire l’adozione di politiche dagli esiti discriminatori come la war on drugs. Secondo quest’ottica, se i neri spacciano più dei bianchi non si può non punirli e gli effetti discriminatori, non essendo voluti, sono trascurabili; l’intento deliberato di discriminare è assente nelle politiche penali «dure». Non solo, ma i reati commessi dai neri nella maggioranza dei casi hanno vittime nere: lo spaccio di crack, ad esempio, affligge le inner-cities e rende difficile la vita delle comunità afroamericane. Lo spaccio di stupefacenti nelle inner-cities è tuttavia legato al disagio sociale e alla discriminazione che i blacks subiscono in tutti i settori della vita sociale; non a caso sono gli stessi afroamericani a considerare le politiche penali come uno dei principali strumenti d’imposizione della discriminazione razziale. Senza contare che alcune scelte legislative nascondono, dietro la classificazione di alcuni tipi di reato in base alla loro gravità, un chiaro intento discriminatorio: è il caso della distinzione che la legge e le linee guida federali fanno fra la detenzione di cocaina in polvere e la detenzione di crack71. La legge federale e le linee guida redatte per i giudici considerano equiparabile ai fini della determinazione della durata della pena detentiva 1 grammo di crack a 100 grammi di cocaina, punendo in modo difforme la detenzione di stupefacenti derivanti dalla stessa sostanza. Alla base di questa scelta c’è senza dubbio la considerazione della tipologia di consumatori delle due sostanze: la cocaina in polvere viene consumata in luoghi privati, all’interno di ristretti circoli di conoscenti che acquistano la sostanza attraverso contatti personali, il crack è invece consumato e spacciato in strada. Questa differenza influisce sul grado di disturbo che la pratica illecita arreca alla collettività e sulla potenziale pericolosità dei consumatori. Essa tuttavia si accompagna alla differente appartenenza sociale e razzia41

le dei consumatori: il crack è la droga dei giovani blacks delle innercities; la cocaina in polvere è la droga diffusa fra i bianchi appartenenti alla classe media. Come in altri ambiti, così anche in ambito penale la «cecità rispetto al colore» si traduce dunque nella cecità rispetto alla discriminazione. Alcuni autori sono molto più severi di Tonry e sostengono che i fautori del law and order promuovono consapevolmente la discriminazione. Le politiche penali «dure» sarebbero i nuovi strumenti con i quali perpetuare la sottomissione della comunità afroamericana e il suo sfruttamento da parte dei bianchi. Loïc Wacquant considera l’incarcerazione di massa come l’ultima delle «peculiar institutions»72 attraverso le quali la segregazione dei neri è stata mantenuta nel corso dei secoli73. La politica d’incarcerazione di massa comporta costi molto elevati per le finanze pubbliche; con queste risorse lo Stato sostiene un’impresa per lo più di natura pubblica che impiega in prevalenza bianchi. Paul Street ha parlato in proposito di «correctional keynesianism»74, sostenendo che il boom della costruzione di nuove carceri, alimentato dal crescente «mercato dei detenuti neri», crea lavoro nelle piccole comunità rurali composte in maggioranza da bianchi. I nuovi penitenziari sono spesso costruiti nelle zone rurali con l’intento di rimediare alla disoccupazione creata dai processi di deindustrializzazione. Si assiste così a una riallocazione delle risorse economiche, che vengono sottratte alle comunità urbane nere e indirizzate verso le comunità rurali bianche. Se non fosse «rimosso» dalla propria comunità, un afroamericano residente in un’inner-city spenderebbe i suoi soldi in prevalenza nella sua zona di residenza; una volta in carcere, il detenuto spende invece i propri soldi per l’acquisto di beni e servizi forniti dagli abitanti della zona nella quale ha sede il penitenziario. Inoltre, il carcere dà lavoro a chi ci abita vicino: è stato stimato che ogni detenuto procura un’entrata di 25.000 dollari alla comunità in cui ha sede il penitenziario75, senza contare le entrate derivanti dalla costruzione di nuove carceri. David Cole, nel suo studio sulla discriminazione razziale ai diversi livelli del sistema penale, ha sostenuto che da parte della classe politica statunitense vi è stato non un atteggiamento di indifferenza nei confronti degli effetti discriminatori delle politiche penali «dure», ma la decisione consapevole di porre la disuguaglianza fra bianchi e neri e fra le classi sociali alla base del sistema di giustizia76. Per Cole il bilanciamento fra le esigenze legate alla tutela dei diritti e delle 42

libertà costituzionali e quelle derivanti dalla necessità di contrastare e reprimere la criminalità è stato realizzato ai danni delle minoranze. Il sistema penale statunitense ha adottato un «doppio standard», differenziando il grado di tutela delle libertà costituzionali assicurato ai membri delle minoranze da quello, ben più elevato, garantito ai bianchi. La prospettiva di Cole è radicale e tende a sopravvalutare la discriminazione diretta, che pure è presente nel sistema. Tuttavia Cole mette opportunamente in evidenza l’ostilità che una parte consistente delle cultura penale e della cultura politica statunitense ha mostrato nei confronti delle minoranze, ignorando il problema del racial divide e avallando politiche e pratiche di polizia esplicitamente discriminatorie. La discriminazione razziale operata dal sistema penale statunitense rischia di creare negli Stati Uniti una società simile a quella del Sudafrica degli anni Cinquanta e Sessanta, ossia di favorire la formazione di un vero e proprio regime d’apartheid. La segregazione dei neri è prodotta non solo attraverso la reclusione nelle carceri statali e federali, ma anche attraverso il dissesto sociale che l’incarcerazione di massa determina nelle comunità afroamericane. Le conseguenze sociali della politica di incarcerazione di massa sono pesanti; è sufficiente citarne alcune: i figli di detenuti e detenute sono circa 2 milioni negli Stati Uniti, il 78 per cento delle donne in carcere ha figli77 e molti di questi hanno sperimentato la carcerazione insieme alle loro madri nei primi anni di vita. Secondo alcuni studi condotti dalle organizzazioni che si occupano dei figli dei detenuti, questi hanno maggiori probabilità degli altri minori di fare esperienza del carcere una volta cresciuti. Inoltre, la detenzione di massa scompagina l’assetto sociale d’intere comunità, ponendo un alto numero di minori in condizioni economiche, sociali e psicologiche gravi78. Il 40 per cento dei minori neri e ispanici negli Stati Uniti vive al di sotto della soglia di povertà79; a questo contribuisce la struttura monoparentale di molte famiglie afroamericane e ispaniche. La presenza in famiglia di un solo genitore, e quindi di un solo reddito, è non di rado dovuta alla carcerazione dell’altro genitore. Oltre al dissesto economico della famiglia, l’esperienza della detenzione di un genitore causa danni psicologici gravi ai figli80; drammatico in questo senso è l’aumento della carcerazione femminile, poiché, come mostra Donziger: «quando la madre viene incarcerata, il padre di solito non si prende cura dei figli. Il 75 per cento dei figli delle detenute è affidato a parenti diversi dal padre o è internato in istituti»81. Come per la 43

detenzione maschile, così anche per la carcerazione femminile la disparità fra bianchi e neri è molto rilevante: verso la metà degli anni Novanta 1 su 37 giovani afroamericane d’età compresa fra i 18 e i 29 anni si trovava in stato di detenzione, rispetto alla proporzione di 1 ogni 56 per le donne ispaniche e di 1 ogni 100 per le donne bianche82. Da questa situazione discendono una serie di conseguenze che rischiano di trasformare il sistema della giustizia penale statunitense in un sistema di produzione di instabilità sociale. Schematicamente se ne possono individuare alcune. 1) La creazione di un’osmosi fra il carcere e la strada: l’ethos violento dei penitenziari influenza i comportamenti delle fasce sociali che sperimentano la carcerazione, ed esse fanno proprio tale ethos assumendo lo stigma come un mezzo per difendersi da uno Stato e da una società considerati nemici83. In questo quadro l’esperienza della detenzione consente di acquisire uno status di persona rispettabile e, soprattutto fra i giovani, persino di persona «alla moda»84. 2) La riduzione delle possibilità di trovare un impiego per coloro che sono stati in carcere. La difficoltà per gli ex detenuti di reinserirsi nel mondo del lavoro alimenta un circolo vizioso notoriamente connesso all’esperienza carceraria: chi ha commesso un reato, è stato incarcerato e ha finito di scontare la pena non riesce, una volta uscito dal carcere, a trovare un lavoro e resta così privo dei mezzi di sostentamento necessari a se stesso e alla propria famiglia. Ne derivano effetti intergenerazionali rilevanti quando l’incarcerazione diviene un fenomeno di massa che interessa in modo costante determinate fasce della popolazione: i figli dei disoccupati hanno molte più probabilità degli altri minori di commettere reati e il fatto di tenere comportamenti criminali rende a sua volta probabile la loro condizione futura di disoccupati. Quando l’incarcerazione riguarda per decenni alcuni specifici gruppi sociali, queste dinamiche comportano un rilevante aumento della disuguaglianza sociale85, che a sua volta favorisce la criminalità86. 3) L’indebolimento dei legami familiari nelle comunità nere e lo squilibrio fra il numero delle donne e il numero degli uomini liberi. Mentre il rapporto fra uomini e donne afroamericani al momento della nascita è di 102-103 maschi ogni 100 femmine, nella fascia d’età fra i 40 e i 44 anni questo rapporto si modifica e vi sono 86 maschi ogni 100 femmine; nella stessa fascia d’età il rapporto maschi-femmine fra i bianchi è di 100 a 100. Il carcere, insieme all’AIDS e all’al44

to tasso d’omicidi fra i neri, è uno dei fattori che conducono a questo risultato87. L’invasività del penitenziario nelle comunità afroamericane determina inoltre una crescente difficoltà per i maschi neri, e conseguentemente per le loro donne, di formare liberamente la propria identità sessuale. I maschi che entrano ed escono dal carcere sono spesso costretti a mantenere anche fuori dalla prigione l’identità da «duri» che si sono forgiati nell’ambiente carcerario monosessuale e questo rende loro difficile sia instaurare relazioni durevoli con le donne, sia assumere ruoli genitoriali88. 4) La distruzione delle relazioni sociali all’interno delle comunità interessate dall’incarcerazione di massa. In queste comunità il controllo costante della polizia è motivo di divisione in due gruppi contrapposti: i protettori dei criminali e gli informatori della polizia. La vita delle comunità è così assorbita dalle dinamiche che riguardano la criminalità e si affievolisce il ruolo delle istituzioni che assicurano il controllo sociale primario (le scuole, le associazioni, i gruppi religiosi ecc.)89. 5) La sospensione o addirittura la soppressione del diritto di voto per un numero elevato di non-bianchi. Andrew Shapiro90 ha stimato che agli inizi degli anni Novanta 4 milioni di cittadini statunitensi avevano perduto il diritto di voto a causa della reclusione in carcere. Gli afroamericani il cui diritto di voto è stato soppresso o sospeso sono 1,4 milioni (il 13 per cento della popolazione maschile adulta nera). Sono quattordici gli Stati che hanno adottato leggi che prevedono la perdita del diritto di voto per molte categorie di condannati e nella metà di questi Stati si stima che 1 maschio nero ogni 4 sia stato definitivamente privato del diritto di voto91. La sospensione del diritto di voto per i detenuti durante l’esecuzione della pena è prevista dalle legislazioni di quasi tutti gli Stati. Anche se non sempre in modo definitivo, dunque, questo sistema impedisce di votare a una larga porzione della popolazione afroamericana. 2.6. Complessità sociale del crimine e questione penitenziaria Si è seguito fino a qui, prevalentemente, l’approccio scelto da gran parte della sociologia statunitense per contestare il successo delle politiche di law and order. Molti critici statunitensi, seguendo un metodo pragmatico, preferiscono confutare le tesi dei sostenitori del law and order riferendosi ai «fatti», ossia ai dati statistici prodotti dalle stesse agenzie governative, piuttosto che adottare una prospet45

tiva radicalmente diversa. Parlare di costi economici e di costi sociali della war on crime significa, almeno in parte, accettare la base ideologica sulla quale la nuova filosofia penale ha costruito il proprio consenso. Molti autori mostrano di condividere con i fautori della severità penale l’idea che il sistema penale è indirizzato alla pacificazione sociale e che i suoi effetti destabilizzanti sono per lo più involontari. Sociologi come Marc Mauer, James Austin, John Irwin – pur fra i più smaliziati analisti della discriminazione razziale nel sistema penale statunitense – si mostrano convinti della democraticità di tale sistema e auspicano una correzione di rotta. Ancora più moderata appare la prospettiva di chi, come la National Criminal Justice Commission, considera corretta l’assunzione di base del movimento sicuritario secondo la quale il sistema penale ha il compito prioritario di dare una risposta alla paura e al senso d’insicurezza; in quest’ottica, l’insicurezza soggettiva dei cittadini è il metro per misurare l’efficacia delle politiche penali. Gli argomenti addotti dalla maggioranza dei critici statunitensi contribuiscono a mettere in luce il carattere essenzialmente ideologico delle nuove politiche penali. Tuttavia, a tali argomenti è necessario affiancare un più radicale rifiuto della prospettiva adottata dai fautori della severità penale, a partire dalla considerazione che i fenomeni studiati hanno un carattere complesso sia dal punto di vista sociale, che da quello culturale. Limitare il dibattito sul sistema penale alla discussione del successo ottenuto da specifiche politiche penitenziarie e di polizia nel ridurre i tassi di criminalità è insufficiente, poiché non è chiaro che cosa tali tassi indichino, né quali siano le cause del crimine e i fattori che ne influenzano maggiormente lo sviluppo. I tassi di criminalità sono il prodotto di dinamiche sociali complesse: al loro andamento contribuiscono fenomeni legati all’aumento o alla diminuzione della popolazione nazionale e alla sua composizione, oltre a variabili come il tasso di disoccupazione, l’aumento o la diminuzione del numero delle ragazze madri, la diffusione del benessere sociale ecc. Sostenere che l’aumento della severità penale riduce la criminalità è semplicistico: anche il tasso d’istruzione superiore della popolazione, il tasso di divorzio, l’aumento o la diminuzione dei salari minimi hanno un impatto sulla criminalità. Un’analisi della relazione fra sistema penitenziario e criminalità deve pertanto tener conto della complessità della questione e dev’essere collocata in questo più ampio orizzonte; non solo, ma la comples46

sità del tema può persino indurre a considerare irrilevante la relazione fra penitenziario e crimine. La «storiografia revisionista»92 e, prima ancora, la teoria marxista della pena hanno contestato l’esistenza di un nesso pena-delitto93. Quest’opzione teorica, che a molti filosofi della pena appare consolidata, non sembra essere stata acquisita da gran parte della sociologia statunitense impegnata nella critica del tough on crime movement. E questo, nonostante sia stata proprio la sociologia statunitense negli anni Settanta del Novecento a invertire il rapporto tradizionalmente istituito fra devianza e controllo sociale, mettendo in luce il ruolo attivo svolto dal controllo sociale nella produzione della devianza e della criminalità94. Molti autori, pur criticando le tesi dei fautori dell’incarcerazione di massa à la Charles Murray95, mostrano di credere nell’efficacia della detenzione come strumento d’incapacitazione dei criminali, particolarmente dei criminali abituali ai quali attraverso la reclusione s’impedirebbe di commettere nuovi reati96. Queste teorie tendono a sottovalutare i limiti della detenzione come strumento di prevenzione della criminalità e ad avallare la funzione neutralizzante della pena detentiva anche in assenza di risultati convincenti97. I tassi di detenzione possono influire sulla criminalità, ma questo non autorizza a stabilire una relazione causale fra l’aumento della detenzione e la diminuzione della criminalità. Alcuni studi hanno mostrato come in molti casi il carcere favorisce persino la diffusione della criminalità. L’incapacitazione di chi commette un reato determina spesso la sua sostituzione nel mercato del lavoro illegale98, con l’effetto di iniziare al crimine i giovani, soprattutto i minorenni. Non solo, ma, com’è stato più volte rilevato, la normalizzazione dell’esperienza detentiva presso determinati gruppi sociali, specialmente presso i gruppi economicamente più svantaggiati, riduce notevolmente l’effetto deterrente dell’incarcerazione99; in alcune inner-cities il rischio di finire in prigione è considerato quasi come una tassa da pagare per poter svolgere traffici illeciti100. Il sistema penale diviene così uno dei tanti apparati burocratici con cui si ha a che fare, senza contare che gli effetti indiretti dell’incarcerazione sulle famiglie dei detenuti e sulle comunità povere alimentano un disordine sociale che favorisce il prosperare della criminalità e della violenza. Ancora attuale appare dunque il monito della storiografia revisionista secondo il quale la relazione fra pena e delitto non è univoca, poiché il carcere ha come funzione principale «l’organizzazione 47

di uno spazio chiuso di delinquenza»101 e la penalità è in primo luogo «un modo per gestire gli illegalismi e per segnare i limiti della tolleranza»102. È dunque utile analizzare il campo penitenziario per gli effetti che esso produce e per i fattori che lo influenzano, senza considerare al contempo l’andamento della criminalità. Si tratta non di rifiutare a priori l’analisi dei dati relativi alla criminalità, ma di tenere presente, nell’interpretazione di tali dati, la specifica razionalità del sistema penitenziario, il suo carattere politico e la sua finalità non meramente repressiva: la sua «logica produttiva»103.

Capitolo 3

Le interpretazioni del boom penitenziario

3.1. Le origini del boom penitenziario Molte sono state le analisi che hanno cercato di individuare le cause del «boom penitenziario» statunitense. In alcuni casi le ipotesi formulate sono riferibili alla sola situazione statunitense, in altri esse si prestano a interpretare il fenomeno dell’aumento della popolazione detenuta con riferimento anche ad altre aree geografiche e particolarmente all’Europa. Massimo Pavarini1 ha ricondotto queste proposte interpretative a tre fondamentali ipotesi. 1) I tassi di carcerizzazione sono aumentati perché è aumentata la criminalità. Tale aumento è a sua volta stato interpretato in modi diversi. Una parte della criminologia realista britannica ha ad esempio collegato l’aumento della criminalità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna alla crisi dei sistemi di welfare, all’incremento della disoccupazione, all’inasprimento dei sentimenti di deprivazione relativa da parte dei ceti marginalizzati2; altri autori hanno invece individuato la causa dell’aumento della criminalità nelle politiche repressive in materia di consumo e di spaccio di stupefacenti3. La sociologia europea, pur da prospettive diverse, ha messo infine l’accento sulla connessione fra diffusione della criminalità e incremento dei flussi migratori4. 2) La crescita della popolazione penitenziaria è da ricollegare alle politiche penali repressive adottate dalla fine degli anni Settanta del Novecento. A prescindere dall’aumento della criminalità, i tassi di detenzione sono cresciuti perché si sono affermate delle politiche penali «dure» e una concezione neoretributivistica della pena5. 3) L’aumento della detenzione è da attribuire alla diffusione nelle società occidentali di un sentimento d’insicurezza che si è tradot49

to in una domanda di maggiore repressione. I modelli eziologici hanno collegato l’insicurezza ora all’aumento della criminalità predatoria6, ora alla crisi del welfare State, ora alla disoccupazione; i modelli di costruzione sociale l’hanno invece considerata come il risultato di un processo di costruzione della questione criminale condotto sia dal sistema politico, sia dai mass media. Secondo Pavarini queste tre ipotesi hanno un grado più o meno elevato di plausibilità con riferimento agli Stati Uniti e ad alcuni paesi europei (in particolare la Gran Bretagna). Tutti i fenomeni individuati hanno accompagnato l’aumento della popolazione penitenziaria; essi sono tuttavia compresenti e non è quindi possibile «verificare in termini funzionali precisi se ed eventualmente come ognuna di queste variabili [...] determini o influenzi la lievitazione dei tassi di carcerizzazione»7. Per questo la penologia è per Pavarini una sorta di «patafisica», di «scienza delle soluzioni immaginarie» che ancora non sa comprendere perché e quanto si punisce, nonostante si siano ormai riempite biblioteche per cercare di risolvere la «questione criminale»8. Proprio la grande quantità di variabili che è necessario considerare suggerisce l’opportunità di adottare un paradigma interpretativo complesso che, rinunciando alle spiegazioni deterministiche, consenta di constatare come alcuni fenomeni coincidono e come essi possono influenzarsi reciprocamente9. A questo fine può essere utile incoraggiare l’apertura della sociologia della pena a orientamenti interpretativi maturati in altri campi delle scienze sociali, dalla sociologia generale, che ha da tempo superato il modello della spiegazione causale, all’etnografia, alla filosofia. Se è vero infatti che le diverse ipotesi esplicative sono rilevanti spesso più per le «opzioni ideologico-politiche»10 a esse sottese che per la loro capacità di dare spiegazioni certe dei fenomeni studiati, un approccio plurale che permetta di rendere conto delle diverse dinamiche che hanno favorito l’incarcerazione di massa appare tuttavia irrinunciabile. Come si è accennato, Warren Young, nel redigere una breve rassegna della letteratura sui fattori che influenzano l’uso della carcerazione11, ha suddiviso le differenti interpretazioni in «deterministiche»12 e policy-choice. Le prime pongono l’accento su variabili esterne al sistema penale come i tassi di criminalità, l’andamento del mercato del lavoro, le crisi economiche ecc. Le seconde si concentrano invece sulle politiche penali e sulle culture professionali che influen50

zano coloro cui spetta attuarle (magistrati, agenti di polizia, amministratori penitenziari ecc.). Fra le interpretazioni «deterministiche» Young annovera cinque ipotesi esplicative: 1) quella del legame fra l’incremento dei tassi di detenzione e l’andamento della criminalità13; 2) quella «classica» di Rusche e Kirchheimer14, che considera la pena come uno strumento di regolazione del mercato del lavoro; 3) quella che individua una relazione di proporzionalità inversa fra il tasso di detenzione e il numero dei ricoveri negli ospedali psichiatrici15; 4) l’ormai superata teoria omeostatica della pena16, secondo la quale il numero dei detenuti in una determinata società tende a rimanere costante nel tempo, nonostante lievi fluttuazioni; 5) infine, l’ipotesi secondo cui le variazioni della popolazione carceraria dipendono in modo automatico dal numero dei posti disponibili negli istituti di pena. La distinzione fra modelli «deterministici» e modelli policychoice, come ogni schematizzazione, non può essere considerata esaustiva. Le teorie che sono definite «deterministiche» sono fra loro diversificate e presentano accenti più sfumati di quanto la categoria proposta da Young non lasci pensare. La definizione di «modelli deterministici» coglie solo alcuni aspetti di queste teorie. Essa è tuttavia utile per metterne in luce alcune caratteristiche rilevanti: l’indicazione di fattori esterni al campo penale e penitenziario che sono considerati determinanti nei processi di carcerizzazione; l’individuazione di relazioni causali fra tali fattori e l’aumento della popolazione penitenziaria; la promozione di soluzioni generali e differenziate ai problemi posti dall’incarcerazione di massa. È proprio su quest’ultimo punto che le teorie «deterministiche» e le teorie policychoice differiscono maggiormente. 3.2. I modelli «policy-choice» Secondo la formulazione di Warren Young i modelli teorici policychoice connettono l’andamento dei tassi di carcerizzazione alle politiche penali adottate. Anche questa, come la definizione corrispondente di modelli «deterministici», è un’etichetta che può essere utile per raggruppare alcune teorie al fine di illustrarne le principali caratteristiche, purché non le si attribuisca un valore assoluto. Molte delle tesi che possono essere ascritte alla categoria policy-choice non mancano infatti di rilevare l’importanza di fattori esterni alla sfera penale che influiscono sui tassi di detenzione e sull’andamento degli 51

indici di criminalità. Esse possono tuttavia essere considerate policychoice poiché pongono l’accento sugli specifici effetti prodotti da determinate politiche penali e penitenziarie e insistono sulla necessità di mutare indirizzo politico per correggere le disfunzioni del sistema penale. In quest’ottica, benché l’incremento della popolazione penitenziaria possa essere ricondotto a fattori di carattere strutturale, come l’organizzazione del mercato del lavoro, la dismissione del welfare State, l’aumento della disparità sociale, è alle specifiche politiche di controllo sociale e ai provvedimenti legislativi adottati negli Stati Uniti che si deve guardare per comprendere l’esplosione penitenziaria degli ultimi trent’anni e per porvi rimedio. I modelli policy-choice sembrano rispondere a due logiche distinte che tuttavia possono finire per convergere: da una parte l’idea democratica secondo la quale l’opinione pubblica orienta le scelte dei governanti, giudica il loro operato in termini di funzionalità delle scelte fatte e li invita a «cambiare rotta» quando hanno fallito; dall’altra la convinzione che, al di là degli assetti strutturali, sia sempre possibile operare per il cambiamento. La prima logica è figlia della cultura liberal-democratica statunitense e di un approccio pragmatico alle questioni pubbliche. Essa pretende di valutare in modo «scientifico», politicamente neutro, le scelte che riguardano la gestione delle risorse pubbliche e il mantenimento dell’ordine. Le teorie interpretative del «boom penitenziario» conformi a quest’orientamento mettono a confronto i costi e i benefici delle diverse politiche penali e penitenziarie e ne stilano un bilancio, senza alcun riferimento alle opzioni valoriali che sono sottese a ogni ordinamento penale e penitenziario; esse sembrano considerare evidente che il fine di un ordinamento penale liberal-democratico sia il mantenimento dell’ordine nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. La logica volontaristica che, pur tenendo conto delle variabili strutturali, attribuisce ai singoli, alle organizzazioni sociali e alle istituzioni la possibilità di scegliere di non adeguarsi a tali variabili, ma di governarle e di dirigerle in base a scelte di valore, sembra invece alimentata da una cultura opposta a quella pragmatica. Essa muove dall’assunto secondo il quale ogni scelta è necessariamente politica, è il risultato di un conflitto ed è orientata da assunzioni di carattere valoriale. Come ha scritto Nils Christie: Le cifre della detenzione possono diminuire in periodi durante i quali, secondo le statistiche relative alla criminalità e alle condizioni materia52

li ed economiche, avrebbero dovuto aumentare e possono aumentare nel momento in cui per le stesse ragioni avrebbero dovuto diminuire. Dietro questi movimenti «irregolari», sono in azione idee diverse di che cosa debba considerarsi giusto o sbagliato nei confronti di altri esseri umani, idee che combattono le soluzioni economico industriali «razionali»17.

Gran parte della sociologia statunitense pare assumere la prima prospettiva; molti autori europei sembrano invece assumere la seconda. Come si può notare, nella stessa categoria possono essere classificate teorie molto distanti per impostazione filosofica, che sembrano tuttavia convergere nell’indicare la necessità di elaborare specifiche politiche in grado di influenzare direttamente il campo penale e penitenziario. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, i critici delle politiche penali contemporanee sembrano concordi nel ritenere che la drammatica crescita della popolazione penitenziaria avvenuta negli anni Ottanta e Novanta del Novecento sia da addebitare a tre principali politiche adottate sia a livello federale, sia dalla maggior parte degli Stati. Le critiche sono rivolte in particolare: 1) al movimento per la riforma del sistema di indeterminate sentencing, che permetteva ai giudici di scegliere discrezionalmente fra un minimo e un massimo la pena da comminare per un certo reato e alle autorità di parole di modificarne la durata in corso di esecuzione in base ai progressi del detenuto; 2) alle strategie poliziesche di «tolleranza zero» adottate nel corso di quella che Ronald Reagan definì la war on crime, e in particolare alle politiche repressive in materia di consumo e di spaccio di stupefacenti (la cosiddetta war on drugs); 3) ai provvedimenti legislativi più recenti, ispirati al principio della massima severità penale, come la legge three strikes and you’re out. 3.2.1. Utilità dell’approccio «policy-choice» L’analisi delle politiche penali adottate negli Stati Uniti dalla metà degli anni Settanta non è sufficiente per comprendere i motivi dell’eccezionale aumento del numero dei detenuti verificatosi negli ultimi trent’anni. Questo è senza dubbio connesso alle più radicali trasformazioni che hanno investito la società statunitense e, più in generale, le democrazie occidentali. Tuttavia, le interpretazioni che fanno leva solo sui fattori esterni all’area penale hanno a loro volta il difetto di trascurare l’impatto delle specifiche politiche penali sul ricorso alla detenzio53

ne. Nell’interpretare l’andamento della popolazione detenuta è necessario tener presenti sia le variabili strutturali, o «esterne» (le trasformazioni che avvengono nel mercato del lavoro, i fattori demografici, i mutamenti sociali ecc.), sia le variabili interne al campo penale e penitenziario (le politiche penali, l’andamento della criminalità, l’organizzazione penitenziaria), sia, infine, le variabili «intermedie» (le retoriche politiche e mediatiche). È difficile stabilire una gerarchia fra questi fattori, poiché, com’è stato sostenuto da Massimo Pavarini18, non è possibile misurare in termini esatti l’influenza che essi hanno sui processi di carcerizzazione. Si tratta inoltre di variabili difficilmente definibili e confrontabili. Tuttavia, per comprendere i motivi che hanno condotto al «boom penitenziario» statunitense appare utile muovere – prediligendo un approccio policy-choice – dallo studio delle specifiche politiche penali che sono state adottate nei decenni in cui la popolazione penitenziaria è andata crescendo smisuratamente e giungere solo in un secondo momento a considerare i mutamenti strutturali che hanno investito la società statunitense influendo anche sui tassi di detenzione. I mutamenti strutturali determinano infatti il quadro nel quale determinate politiche sono messe in atto, ma sono queste ultime a indirizzare l’operato delle diverse istituzioni presenti nel campo penale e penitenziario. Le politiche penali e penitenziarie possono inoltre rafforzare o contrastare gli effetti delle variabili «esterne», ad esempio accentuando o limitando la repressione nei confronti di specifiche categorie sociali, ampliando o colmando il racial divide, predisponendo percorsi d’accesso alle misure e alle pene alternative ecc. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’incarcerazione di massa è stata promossa attraverso specifiche riforme legislative, tanto che provvedimenti adottati in Stati diversi presentano spesso la stessa impostazione, rivelando una matrice comune. Al di là delle ragioni strutturali che possono aver determinato il successo di alcune politiche penali, è innegabile il rilievo che alcuni slogan e alcune retoriche hanno avuto nel determinare la svolta punitiva degli anni Ottanta del secolo scorso e nell’assicurare alla severità penale il vasto consenso di cui essa gode tuttora. L’approccio policy-choice consente inoltre di tentare l’elaborazione di politiche alternative. Se i modelli «deterministici» sono utili alla ricerca delle ragioni profonde dei processi di carcerizzazione, essi tuttavia finiscono spesso per promuovere un atteggiamento fatali54

stico, secondo il quale sia le istituzioni, sia i singoli individui sono impotenti di fronte alle dinamiche in atto. I modelli policy-choice permettono invece di individuare i meccanismi attraverso i quali determinate politiche sono scelte sia dalla classe dirigente, sia dall’opinione pubblica e possono incoraggiare l’adozione di politiche alternative a quelle dominanti. Piuttosto che calare una griglia interpretativa rigida sulla realtà penale e penitenziaria contemporanea, è quindi utile prendere in considerazione alcune politiche adottate negli Stati Uniti e partire da queste – e dalle modalità con le quali esse sono state elaborate e attuate – per ricostruire i complessi legami esistenti fra le scelte di politica penale e i più profondi mutamenti che si sono prodotti nella struttura della democrazia statunitense negli anni in cui si andava affermando l’incarcerazione di massa. Per questo, nelle pagine che seguono saranno vagliate le principali critiche mosse alle politiche penali «dure» per quanto attiene sia alla loro efficienza, sia alle scelte di valore ad esse sottese. 3.3. La fiducia nella pena detentiva Le politiche cui è imputato il forte incremento della popolazione penitenziaria statunitense sono suddivisibili in politiche giudiziarie e politiche di controllo sociale. Le prime hanno promosso a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento la severità penale in campo giudiziario, raccomandando agli operatori del diritto (pubblici ministeri, giudici ecc.) l’adozione di criteri di giudizio ispirati alla massima severità penale; le seconde sono le politiche di «tolleranza zero», che hanno esteso il controllo penale attraverso la criminalizzazione di comportamenti «antisociali» fino allora considerati leciti. Le politiche di «tolleranza zero» hanno inoltre rafforzato la repressione penale attraverso la riorganizzazione delle tecniche di polizia. Queste politiche hanno come presupposto la fiducia nell’idoneità dell’istituzione penitenziaria a prevenire e a reprimere la criminalità. Esse promuovono il ricorso alla detenzione: le prime orientano l’attività degli operatori del diritto in modo che essi infliggano la pena della carcerazione più frequentemente e per periodi di tempo più lunghi; le seconde conducono all’immissione di un numero più elevato di persone nel circuito penale. Come si è visto nel caso di New York, non sempre le politiche di polizia e le politiche giudizia55

rie hanno operato in modo sinergico: talvolta il sistema giudiziario ha corretto gli eccessi del rigore poliziesco invece di amplificarne gli effetti. Per lo più, tuttavia, queste politiche sono state adottate contemporaneamente. Esse sono il corollario di una medesima filosofia penale, che rifiuta di considerare le radici sociali della criminalità e gli effetti sociali della detenzione e intende il controllo sociale essenzialmente come controllo penale. Sia le politiche di «tolleranza zero», sia le politiche che promuovono la severità penale trascurano che la criminalità è un fenomeno sociale complesso e tendono a occuparsene come se si trattasse di una calamità naturale o del risultato diretto di scelte e comportamenti individuali. Come si vedrà più avanti, tuttavia, benché tali politiche siano ispirate a una filosofia manageriale, che considera il sistema penale al pari di altri apparati amministrativi pubblici e privati, esse differiscono spesso per l’ispirazione da cui traggono origine. Molte politiche di «tolleranza zero» e alcune politiche che promuovono la severità penale in campo giudiziario sono ispirate a una logica special-preventiva o incapacitante: esse sono cioè finalizzate a impedire a chi ha commesso un reato di tornare a delinquere. Queste politiche intendono neutralizzare sin dal primo reato commesso i potenziali «criminali di carriera», rinchiudendoli in carcere, e si fondano sulla convinzione che il controllo territoriale di determinate aree abitate da gruppi sociali potenzialmente pericolosi abbia un effetto deterrente nei confronti della criminalità e contribuisca al mantenimento della pace sociale. Altre politiche repressive sembrano invece ispirate a una logica meramente retributivistica e alla concezione moralistica secondo la quale la detenzione è in sé il necessario castigo per chi ha violato la legge. Tali concezioni sembrano rifiutare persino la visione illuministica di un diritto penale razionale, secondo la quale la pena deve essere proporzionata al reato commesso e non deve infliggere sofferenze inutili. 3.4. Dalla «truth in sentencing» ai «three strikes and you’re out»: la rivoluzione del sistema di giustizia statunitense Le riforme adottate in campo giudiziario a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento sono connesse alla rivalutazione della funzione del carcere come istituzione finalizzata non solo alla repressione, ma anche alla prevenzione della criminalità. La filosofia penale cui esse s’ispirano si fonda sulla convinzione che la 56

detenzione sia la risposta migliore, la più «giusta» che una società democratica può dare a chi viola le sue leggi. Il movimento per la riforma del sistema di giustizia penale sorto negli anni Settanta mise fin dall’inizio sott’accusa la filosofia trattamentale che aveva ispirato il sistema penitenziario statunitense a partire dal secondo dopoguerra. Secondo i fautori di un sistema di giustizia penale più severo, l’ideologia del trattamento aveva fallito poiché la riabilitazione dei criminali si era rivelata un mero auspicio e il modello penale trattamentale non aveva prodotto risultati soddisfacenti nella lotta alla criminalità. I riformatori contestavano l’eccessiva clemenza del sistema di indeterminate sentencing che permetteva di scegliere la pena da comminare per un certo reato con grande discrezionalità e di modificarne la durata in corso d’esecuzione in base alla condotta del detenuto. Per i conservatori, il sistema di indeterminate sentencing consentiva il rilascio anticipato di condannati che avrebbero dovuto scontare pene più severe. Esso appariva loro come un sistema ideologico ispirato al favore nei confronti dei criminali che non mostrava alcun rispetto per le vittime della criminalità. Secondo questo sistema il giudice poteva infliggere una condanna alla detenzione senza determinarne l’esatta durata, limitandosi a fissare il tempo massimo che il condannato avrebbe dovuto scontare in carcere e consentendo così che questi fosse rilasciato anticipatamente qualora avesse dato prova di essere stato «rieducato». L’indeterminate sentencing è una legislazione premiale, finalizzata a indurre il detenuto a tenere una buona condotta allo scopo di ottenere il rilascio anticipato. Tramite l’indeterminate sentencing, il sistema giudiziario statunitense accordava grande fiducia agli operatori penitenziari cui, nella maggioranza dei casi, spettava il giudizio tecnico sull’eventuale «riabilitazione» del detenuto. Secondo questa visione il carcere era un luogo d’educazione che preparava il reinserimento sociale dei condannati: non era dunque un’istituzione meramente contenitiva. Nel corso degli anni Settanta il binomio di indeterminate sentencing e carcere trattamentale fu attaccato sia dai conservatori, secondo i quali esso era troppo lassista, sia dai liberals, che lo ritenevano arbitrario e paternalista. Il movimento di riforma, nel quale finirono per convergere istanze fra loro molto diverse, condusse all’adozione, prima da parte di molti Stati e poi a livello federale, del cosiddetto sistema di truth in sentencing, in base al quale il giudice è obbligato a condannare il reo a un preciso ammontare di mesi o di anni di re57

clusione, senza che il detenuto possa essere liberato anticipatamente. L’adozione di leggi ispirate alla «verità nel condannare», iniziata negli anni Settanta, è alla base dell’aumento del tasso di detenzione statunitense. A questo principio si sono richiamati diversi provvedimenti legislativi che per lo più hanno coniugato certezza e severità della pena, incoraggiando il ricorso alla detenzione e l’aumento della durata delle pene detentive. Ognuno di questi provvedimenti ha introdotto alcune variazioni rispetto ai provvedimenti legislativi adottati negli anni Settanta, accentuando il rigore del sistema penale statunitense nel suo complesso. Dalle prime leggi d’instaurazione della truth in sentencing si è giunti così ai più recenti provvedimenti ispirati allo slogan – tratto dal mondo dello sport – three strikes and you’re out, provvedimenti orientati da criteri di severità estrema che hanno condotto, come si vedrà più avanti, a esiti paradossali. È interessante notare come tutti questi provvedimenti siano designati, anche ufficialmente, da slogan che riecheggiano frasi e convinzioni popolari: questi slogan sono un chiaro segnale dell’abbandono di una concezione specialistica del diritto e dell’adozione di politiche demagogiche finalizzate ad assecondare l’opinione pubblica. 3.4.1. La «verità» della pena La culla del movimento truth in sentencing fu la città di New York, che poi sarebbe divenuta anche il laboratorio della «tolleranza zero». Lo Stato di New York fu il primo ad adottare una legge che, in contrasto con il sistema di indeterminate sentencing, fissava in modo rigido la durata della pena detentiva che il giudice avrebbe dovuto comminare per alcune tipologie di reato. Il pacchetto legislativo, approvato nel 1973 e denominato Rockefeller Drug Laws dal nome di Nelson Rockefeller, governatore dello Stato di New York, inaspriva il trattamento giudiziario per i reati di consumo e di spaccio di stupefacenti. Esso fissava in modo preciso la durata della pena, mettendo fine al sistema premiale, e stabiliva delle limitazioni alla possibilità per gli imputati di tali reati di chiedere il patteggiamento. Negli anni successivi molti altri Stati adottarono politiche di mandatory sentencing19, quasi sempre decretando la sospensione del sistema premiale ordinario per le tipologie di reato che più destavano allarme sociale: reati connessi all’uso e allo spaccio di stupefacenti, all’illecita detenzione e all’utilizzo di armi da fuoco ecc. Secondo Marc Mauer20 queste politiche ebbero successo non solo per la loro capacità di soddisfare le richieste dell’opinione pubbli58

ca, ma anche perché apparvero in grado di ridurre il tipo di criminalità per cui erano state create. Tuttavia, anche in questo caso, come più tardi nel caso delle politiche di «tolleranza zero», non si trattò che di un’illusione, poiché la riduzione delle condanne per i reati contemplati dalle leggi di mandatory sentencing non fu il risultato di un’effettiva diminuzione della criminalità nei settori considerati, ma fu l’effetto del comportamento adottato da gran parte dei giudici e dei pubblici ministeri che si opposero nella pratica all’eccessiva severità di tali leggi. Molti giudici e pubblici ministeri, ritenendo troppo severe le disposizioni legislative ispirate al principio truth in sentencing, si rifiutarono di intentare l’azione penale o trovarono il modo di far rientrare i casi che avevano di fronte sotto altre categorie di reato in modo da sfuggire alle norme draconiane previste dalla nuova legislazione penale. 3.4.2. Una giustizia neutra Le leggi penali ispirate alla truth in sentencing adottate nei primi anni Settanta si limitavano per lo più a stabilire la pena obbligatoria che avrebbe dovuto essere comminata per determinate categorie di reato. Il progetto di realizzare la «verità nel condannare» – sostenuto da un vasto movimento d’opinione – andava però oltre tale obiettivo: esso intendeva imporre dei vincoli ancora più stretti all’attività dei giudici. La convinzione dei promotori della truth in sentencing era che i giudici fossero dotati di un’eccessiva libertà nel fissare il quantum di pena: secondo i critici del sistema di indeterminate sentencing la decisione sulla sorte dei criminali non doveva essere rimessa alla discrezionalità del magistrato, ma doveva essere definita in sede legislativa. I giudici dovevano essere mere «bocche della legge»: il loro giudizio doveva essere – secondo la nota tesi di Montesquieu – il risultato di un sillogismo, di un calcolo che doveva essere previamente impostato in sede legislativa. Per questo da più parti fu richiesta l’adozione di linee guida legislative in materia penale e la redazione da parte del legislatore di vere e proprie tabelle nelle quali fossero previsti non solo le pene da comminare per determinate tipologie di reato, ma anche gli aumenti e le riduzioni di pena legati alle diverse circostanze che potevano accompagnare il reato o riguardare la «biografia» del reo. Nella seconda metà degli anni Settanta molti Stati adottarono delle linee guida in materia penale e anche a livello federale fu promossa la costituzione di una commissione di riforma. Si giunse così all’emanazione del Sentencing Reform Act nel 1984 e all’istituzione 59

della Sentencing Commission, incaricata di ridisegnare il sistema della giustizia penale federale. Il Sentencing Reform Act riassumeva le diverse esperienze legislative di mandatory sentencing adottate da molti Stati nel corso degli anni Settanta. Molti commentatori sostengono che esso non fosse tuttavia un provvedimento ispirato a una logica meramente punitiva. Come ha sottolineato Christie, «l’obiettivo di fondo della legge era di aumentare la capacità del sistema giudiziario di combattere il crimine per mezzo di un sistema di condanne che fosse efficiente e giusto. Giusto significava soprattutto con meno disparità»21. Molti liberals avevano sostenuto la riforma proprio in nome delle discriminazioni sociali e razziali che il sistema di indeterminate sentencing aveva mostrato di produrre. Essi ritenevano che un sistema automatico di fissazione della pena avrebbe permesso di trattare in modo uguale imputati di diversa origine sia sociale sia etnica. La Sentencing Commission elaborò una tabella delle condanne in base alla quale il giudice, una volta stabilito il tipo di reato commesso dall’imputato, veniva guidato nella determinazione del quantum di pena dal meccanismo degli aggravi e degli sconti di pena previsti dalla tabella per tutte le circostanze che egli doveva considerare rilevanti. La tabella fissava gli anni di pena da infliggere per ogni reato e stabiliva il numero di anni da aggiungere o da sottrarre alla pena base secondo le diverse circostanze che accompagnavano il reato e le caratteristiche soggettive dell’imputato: ammontare del danno patrimoniale arrecato alla vittima, morte della vittima, utilizzo di armi da fuoco per la commissione del reato, premeditazione, recidiva ecc. La tabella, divenuta obbligatoria nel 1987, è tuttora in vigore. Essa appare ispirata a un criterio di uguaglianza formale: non considera nella «biografia criminale» – categoria specificamente prevista – la provenienza sociale dell’imputato, le sue capacità personali, il grado d’istruzione, le eventuali ristrettezze economiche che possono aver motivato il suo comportamento ecc. Per questo sono pochi ormai coloro che, non essendo conservatori, approvano questa legislazione. Molti riformatori liberal, avendo constatato la discriminazione operata dal sistema di giustizia statunitense, avevano promosso l’abbandono del modello trattamentale e della legislazione premiale vigente ritenendo che fossero responsabili della disparità di trattamento. La creazione di un sistema di giustizia cieco nei confronti delle condizioni sociali dell’imputato ha tuttavia aggravato la disuguaglianza del trattamento praticato dal sistema statunitense. 60

Nils Christie22 ha compiuto una diagnosi dell’operato della Sentencing Commission dalla quale emerge la natura ambivalente del progetto approvato nel 1984. Esso fu il risultato di un compromesso fra forze diverse: da una parte i liberals, che denunciavano l’arbitrio dei giudici e auspicavano che la riforma del sistema riducesse il ricorso alla carcerazione, dall’altra i conservatori che intendevano al contrario inasprire il sistema e allungare la durata delle pene detentive. Queste distinte correnti di pensiero finirono per convergere sul progetto di elaborare delle linee guida in materia penale che limitassero la discrezionalità del giudice. L’ideologia retributivistica ispirata al criterio del just deserts (della «giusta punizione») prevalse però sulla filosofia garantista che ispirava i riformatori liberal. La commissione infatti vietò ai giudici di valutare ai fini della fissazione della pena circostanze quali: l’età dell’imputato, l’istruzione e le caratteristiche professionali, le condizioni emotive e mentali, le condizioni fisiche inclusa la dipendenza da stupefacenti e da alcool, la storia professionale dell’imputato, i legami e le responsabilità familiari, i legami con la comunità, la razza, il sesso, le origini nazionali, il credo, la religione, lo stato economico e sociale23. Secondo Christie, se la commissione avesse davvero inteso con queste disposizioni ridurre la disparità di trattamento che penalizza gli imputati appartenenti agli strati più bassi della società, essa avrebbe dovuto, al contrario di come ha disposto, stabilire delle aggravanti per gli imputati più abbienti, più istruiti ecc., e delle attenuanti per gli imputati con basso livello d’istruzione, basso reddito ecc. Non vi è alcuna giustificazione razionale per escludere i fattori sociali dal computo della pena, anche nel caso di un sistema automatico di determinazione della condanna. I criteri adottati dalla commissione sembrano riflettere una precisa concezione della criminalità e della società statunitense: una concezione liberale, secondo la quale i cittadini degli Stati Uniti sono liberi, uguali, sovrani e interamente responsabili delle proprie azioni. Il crimine è, secondo quest’idea, il risultato della scelta razionale di un soggetto perfettamente libero, che ha valutato i pro e i contro della propria azione e ha deciso di violare la legge: la sua responsabilità è dunque politica – poiché egli ha violato una legge che egli stesso si era dato in quanto membro del popolo sovrano – e morale – poiché egli ha scelto deliberatamente il male. Di conseguenza la pena è per il criminale «ciò che si merita»24. Tale concezione, se da una parte s’ispira a una filosofia liberale, dall’altra nasconde un 61

fondamento morale. La teoria del just deserts è una teoria retributivistica che affida al diritto penale un compito etico: punire chi ha scelto il male. L’obiettivo dei sostenitori di quest’impostazione che hanno ispirato l’operato della Sentencing Commission non era dunque ridurre le disparità di trattamento nella sfera giudiziaria, ma era realizzare un ideale di giustizia e indicare alla popolazione la scala dei valori morali che il sistema della giustizia penale si propone di promuovere e di tutelare. Meno vengono considerati i fattori sociali, più chiara diviene la relazione fra l’atto criminale e la pena inflitta. La pena acquista così non solo un valore retributivo, ma anche general-preventivo: indica all’opinione pubblica la responsabilità morale del reo e i valori comuni che questi ha violato, divenendo un monito per chi intendesse imitarlo. I liberals che, unendosi al movimento per la truth in sentencing, inseguivano l’ideale di una giustizia neutra, hanno dunque finito per promuovere una concezione morale della pena, correlata a una visione della cittadinanza tutt’altro che pluralista. La tensione fra liberalismo e comunitarismo – già messa in luce da Tocqueville nella Démocratie en Amérique – appare del resto ancora oggi come il nodo mai sciolto della politica statunitense. Il penitenziario è fin dalla sua origine l’istituzione «di confine», nella quale tale tensione emerge in modo drammatico: il luogo paradossale dove la società che ha fatto della libertà personale il suo vessillo rinchiude coloro che, in virtù di una decisione presa «in nome del popolo sovrano», non hanno più diritto alla libertà. 3.5. La colpa della storiografia revisionista La cultura tradizionalista promotrice di una concezione ottocentesca del penitenziario, come luogo d’espiazione di una condanna al tempo stesso giudiziaria e morale, ha dunque prevalso sulla cultura liberal, che aveva considerato le politiche di mandatory sentencing come uno strumento per ridurre il ricorso alla detenzione e ristabilire la parità di trattamento nella sfera penale. I riformatori progressisti degli anni Settanta sono stati così associati al progetto conservatore che nel corso del decennio successivo avrebbe travolto tutti i settori della vita politica e sociale statunitense. Gran parte della letteratura trae da questa constatazione la conclusione che meglio sarebbe stato non criticare il modello trattamentale che informava sia il sistema giudiziario, sia il sistema penitenziario statunitense: se que62

sto non fosse stato investito dalle critiche del movimento riformatore – si sostiene – non vi sarebbero oggi più di due milioni di cittadini reclusi. Non solo, ma il penitenziario avrebbe conservato il carattere trattamentale che aveva faticosamente acquisito nel corso del Novecento. Il quadro che molti autori tracciano è quello di una cultura penale e penitenziaria che sarebbe improvvisamente mutata a causa delle critiche radicali espresse sia dai conservatori, sia dai progressisti. Queste critiche avrebbero trovato il consenso di un’opinione pubblica fino a pochi anni prima convinta della necessità che il carcere perseguisse il reinserimento sociale dei condannati. A sostegno di questa tesi Marc Mauer cita un sondaggio realizzato nel 1968 dal quale emergeva che «il 48% dell’opinione pubblica riteneva che lo scopo principale del carcere fosse la riabilitazione e che il 72% credeva che si dovesse porre l’accento sulla riabilitazione»25. Scrive Mauer: «durante gli anni Sessanta tuttavia questo consenso fu messo in crisi dalle critiche provenienti da due direzioni molto diverse»26. Da sinistra giunse la critica al concetto stesso di riabilitazione, mentre i conservatori attaccarono il sistema penitenziario per la sua clemenza nei confronti dei criminali. Per i liberals il sistema di indeterminate sentencing era arbitrario e irrispettoso della dignità dei condannati, i quali, oltre a subire lo stigma della condanna e della carcerazione, dovevano anche accettare di essere manipolati e trasformati da un processo di rieducazione imposto coercitivamente e definito, nei metodi e nei contenuti, dagli apparati repressivi dello Stato. Per i conservatori invece il sistema di indeterminate sentencing permetteva il rilascio anticipato di criminali che avrebbero dovuto scontare pene più severe. James Austin e John Irwin27 compiono una diagnosi analoga a quella di Mauer riguardo all’abbandono dell’ideale della rieducazione, accusando indirettamente i critici del penitenziario d’ispirazione liberal di essere stati inconsapevolmente complici della svolta repressiva degli anni Ottanta. Ancor più esplicita è la critica di Loïc Wacquant, il quale ritiene che all’inizio degli anni Settanta: «l’idea che l’incarcerazione miri a riformare il criminale in vista di un reinserimento a termine nella società si è trovata bruscamente screditata dall’inattesa convergenza dei critici di destra e di sinistra»28. Wacquant sostiene che a partire dagli anni Sessanta la «visione retrograda della prigione» propria dei conservatori «trovò un potente sostegno nella critica progressista, per la quale la riabilitazione non era che 63

una facciata e il dosaggio delle pene un esercizio di potere puramente arbitrario»29. Non solo, ma secondo Wacquant: i riformatori degli anni Settanta erano consapevoli del fatto che le loro richieste rischiavano di rendere credibili le proposte radicalmente opposte dei sostenitori di un’estensione dell’apparato carcerario. Ma una riforma, non importa quale, appariva loro preferibile a uno status quo penale giudicato intollerabile alla luce dell’ethos libertario dei Sixties e delle teorie ispirate all’antipsichiatria30.

Così i principali critici del sistema penitenziario, gli esponenti di quella «storiografia revisionista» che ha rivoluzionato l’interpretazione della genesi della penalità liberale, sono spesso accomunati, specialmente dalla sociologia statunitense critica nei confronti delle attuali politiche penitenziarie, ai teorici conservatori fautori del ritorno a una concezione retributivistica della pena. Secondo quest’interpretazione, i promotori del movimento di deistituzionalizzazione, che mettevano in discussione la legittimazione dell’istituzione carceraria accusandola di essere inadatta a svolgere una funzione risocializzante, hanno commesso un errore imperdonabile: basandosi sull’ottimistica previsione della progressiva dismissione del sistema penitenziario come istituzione di controllo sociale, essi si sono spinti troppo oltre nel criticarlo, favorendo il successo di nuove teorie della pena orientate non alla rieducazione dei rei, ma al loro annientamento. Frequente è nella letteratura il richiamo alle diagnosi errate di David Rothman31 e di Alfred Blumstein e Jacqueline Cohen32. Il primo è criticato insieme ad altri storici revisionisti come Michael Ignatieff33 e Michel Foucault34 per aver preconizzato l’avvento di una forma di controllo sociale diffuso, di una «città punitiva» nella quale il carcere avrebbe perduto l’importante ruolo che la modernità gli aveva assegnato. I secondi sono biasimati per essere stati gli autori di un articolo pubblicato nel 1973 – quando il tasso di detenzione degli Stati Uniti aveva appena iniziato a risalire dopo aver toccato il suo minimo storico l’anno precedente – nel quale si sosteneva la cosiddetta «teoria omeostatica del livello di incarcerazione», in base alla quale ogni società tende a raggiungere un determinato livello di punizione e a mantenerlo stabile nel tempo. Secondo questa teoria non è la criminalità a stabilizzarsi, come sosteneva Emile Durkheim, ma è il grado di punizione presente nella società. I vari attori del siste64

ma penale sono le valvole regolatrici del sistema: essi aumentano la severità delle pene inflitte e dell’esecuzione penale nei periodi caratterizzati da bassi tassi di criminalità e si mostrano invece più clementi nelle fasi di aumento della criminalità, così da assicurare la stabilità dei tassi di detenzione. Non è difficile a posteriori constatare la fallacia di questa teoria, mentre più complesso è il giudizio sulla storiografia revisionista e sulle nozioni di «città carceraria»35 e di «società disciplinare»36 teorizzate da Michel Foucault. Spesso sono stati gli stessi autori ad ammettere il proprio errore. È il caso di David Rothman che, oltre vent’anni dopo la pubblicazione di The Discovery of the Asylum, ha condannato il movimento di critica all’indeterminate sentencing sostenendo che il rifiuto della riabilitazione ha aperto la strada alla trasformazione delle carceri in meri depositi nei quali i detenuti sono abbandonati alla propria sorte37. I sociologi e i criminologi liberal degli anni Settanta non sono stati capaci di intravedere ciò che di lì a poco si sarebbe prodotto in campo penale e penitenziario. Tuttavia, il coro di biasimo dell’attuale letteratura sul carcere dovrebbe essere ridimensionato. Appare superficiale ad esempio l’analisi di Wacquant quando sostiene, riferendosi alle teorie del controllo sociale elaborate da Michel Foucault38 e Stanley Cohen39, che «a vent’anni di distanza, quella interpretazione si rivela antiquata, utopica o addirittura fiabesca»40. Il modello tracciato dai teorici del controllo sociale degli anni Settanta dovrebbe essere discusso in modo più approfondito e non è sufficiente constatare l’eccezionale aumento del ricorso alla carcerazione per condannare all’oblio nozioni quali quelle di «disciplina» e di «società disciplinare», che si prestano ancora oggi a illustrare alcune fondamentali dinamiche presenti nelle società contemporanee41. Ancor meno condivisibile appare l’accusa generalizzata e un po’ rudimentale mossa al movimento riformatore al quale viene rimproverato di aver condotto una «campagna di screditamento del modello della riabilitazione»42. Il quadro tracciato da autori come Wacquant mostra una situazione paradossale, nella quale il mondo accademico e professionale, cullandosi nei suoi sogni di riforma, si sarebbe reso strumento di una svolta reazionaria nelle politiche penali statunitensi. Analogamente, appare quanto meno sproporzionato il ruolo che, nella sua ricostruzione della genesi del movimento sicuritario statunitense, Mauer affida al noto articolo di Robert Martinson, What Works: Questions and Answers about Prison Reform43 in cui 65

l’autore, compiendo un’indagine sui risultati riportati dai programmi di riabilitazione dei detenuti in carcere, sosteneva che il penitenziario era inefficiente nel recupero dei condannati. Mauer considera questo saggio la prova che consentì ai riformatori liberal e ai conservatori di sferrare l’attacco finale alla concezione trattamentale del penitenziario. Egli ritiene che la convergenza di questo studio con le tesi sostenute da James Q. Wilson, autore conservatore del saggio Thinking about Crime44 e sostenitore di una funzione meramente punitiva del penitenziario, abbia spianato la strada alle politiche penali degli anni Ottanta. È certo che la concezione trattamentale del carcere è stata oggetto di critica da parte di entrambi gli schieramenti politici nel corso degli anni Settanta del secolo scorso e non si può negare il ruolo che teorie quali quella elaborata da Andrew von Hirsch45 hanno avuto nel favorire la crisi del modello rieducativo e nel promuovere nuove politiche penitenziarie. Sembra inoltre motivato il giudizio di quanti sostengono che il punto di vista conservatore finì per prevalere sulla spinta riformatrice di orientamento progressista. La just deserts theory, ad esempio, che oggi è considerata una teoria retributivistica tipicamente conservatrice, non è il frutto di una filosofia tradizionalista, ma è il cuore della tesi sostenuta da von Hirsch, secondo la quale il detenuto deve essere costretto a scontare la pena senza che si possa pretendere la sua riforma morale. Andrew von Hirsch intendeva porre l’accento sul carattere discriminatorio del sistema fondato sulla riabilitazione che tendeva a consentire un rilascio anticipato di specifiche categorie di detenuti (i bianchi e i detenuti che presentavano fin dall’inizio un elevato livello di integrazione sociale), e la sua tesi ha certamente avuto successo. Essa è stata tuttavia interpretata in senso retributivistico e ha contribuito a diffondere più un’idea della pena come vendetta sociale nei confronti dei criminali che non una nuova concezione della cittadinanza e del rapporto Stato-cittadino ispirata al rispetto della libertà soggettiva e alla consapevolezza del carattere discriminatorio delle politiche penali. È innegabile che si sia creata una convergenza anche politica fra i movimenti riformatori e i conservatori. Come ricorda Mauer a proposito del movimento per la riforma dell’indeterminate sentencing, alla fine degli anni Settanta del Novecento si produsse un’«improbabile alleanza fra i senatori Ted Kennedy e Strom Thurmond, appartenenti a schieramenti opposti al Congresso, per la promozione 66

di una serie di leggi di riforma del sistema di pronuncia delle sentenze a livello federale»46; fu questa alleanza a condurre all’emanazione del Sentencing Reform Act nel 1984. Ciò che è discutibile non è la ricostruzione storica operata da gran parte della letteratura47, ma è l’enfasi che viene posta sull’attacco sferrato al modello trattamentale, che sottende l’assunto della funzionalità e dell’auspicabilità di tale modello. Da una parte, appare incoerente accusare i riformatori di aver prodotto una teoria della pena involontariamente reazionaria e di aver aperto la strada alla svolta repressiva degli anni Ottanta, qualora non si aggiunga a tale accusa una valutazione delle motivazioni per le quali la «coalizione paradossale» di conservatori e liberals ha condotto a un risultato favorevole i primi invece che i secondi; dall’altra, appare aprioristica l’assunzione della desiderabilità del modello rieducativo che è stato smantellato a causa degli attacchi congiunti dei riformatori e della destra statunitense. Tre sono gli elementi trascurati da questa interpretazione: in primo luogo il fatto che le critiche al modello della riabilitazione sono coeve all’instaurazione del modello stesso e non sono nate improvvisamente nel corso degli anni Settanta; in secondo luogo la considerazione che queste critiche si sono accentuate proprio negli anni Settanta quando per la prima volta le corti statunitensi furono sollecitate a occuparsi del rispetto dei diritti dei detenuti, diritti che fino allora erano considerati sospesi per il tempo dell’esecuzione della pena; infine, la necessità di valutare l’opportunità delle critiche mosse al modello trattamentale, al di là della sconfitta strategica del movimento riformatore. 3.5.1. Le radici della critica alla «riabilitazione» Il modello trattamentale è stato alla base della giustificazione dell’istituzione penitenziaria. Come ha mostrato Michel Foucault48, esso è un elemento costitutivo della penalità moderna. Le carceri olandesi del XVI-XVII secolo e i penitenziari statunitensi di Walnut Street e di Auburn, che hanno fornito i paradigmi disciplinari ai quali si sono ispirati i sistemi penitenziari moderni, erano finalizzati alla riforma dei detenuti. Nei modelli di matrice più esplicitamente religiosa questa riforma assumeva i tratti di una riforma morale, di una trasformazione dell’anima, mentre nei modelli laici – come quello di Auburn – aveva il carattere di una rieducazione al lavoro e al rispetto delle regole sociali. Già Alexis de Tocqueville negli anni Trenta dell’Ottocento aveva constatato che il sistema penitenziario perseguiva come prin67

cipali finalità la «punizione del colpevole»49 e la sua «rigenerazione morale»50 e aveva criticato l’idea di riforma morale considerandola inaccettabile in una società liberale. Scrive Tocqueville, a proposito del detenuto uscito dal carcere, che ciò che conta è che anche «se nel profondo egli non è diventato migliore, sia almeno più obbediente alle leggi»51 e aggiunge che l’obbedienza alle leggi «è tutto quello che la società ha il diritto di chiedergli»52. La critica all’ideologia del trattamento ha quindi radici antiche quanto il penitenziario e non è affatto un prodotto – come ha invece sostenuto Loïc Wacquant – «dell’ethos libertario dei Sixties»53. I primi studi sociologici che misero in luce la patologia insita nel meccanismo trattamentale risalgono agli anni Quaranta del Novecento e sono quindi contemporanei alle correnti di pensiero che nel periodo fra le due guerre mondiali diedero slancio alla diffusione dei programmi di reinserimento sociale nei penitenziari statunitensi e in quelli dei principali paesi democratici europei. In The Prison Community54, pubblicato nel 1940, Donald Clemmer aveva studiato il meccanismo della «prigionizzazione», il processo di adattamento dei detenuti alla loro condizione che fa sì che essi, lungi dall’apprendere in carcere le regole che permettono il loro reinserimento sociale una volta scontata la pena, imparino invece a vivere nella società carceraria, una società fondata su leggi diverse e spesso persino contrarie a quelle vigenti nella società dei liberi. Negli anni successivi molti sociologi avevano seguito l’intuizione di Clemmer, provando la validità della sua teoria in diversi contesti nazionali e in diverse istituzioni di reclusione55. Gresham Sykes in The Society of Captives56 aveva sviluppato l’analisi di Clemmer, mostrando come il carcere fosse un’istituzione totalitaria finalizzata al controllo della popolazione detenuta più che alla sua rieducazione. Ha scritto Emilio Santoro a proposito dello studio di Sykes: Il carcere emerge dalle pagine di Sykes come una realtà tutta assorbita dal problema di essere un luogo in cui gli individui vivono in una stretta e prolungata intimità con altri soggetti che spesso hanno alle spalle una lunga storia di violenze e di aggressioni e non di rado continuano a perpetrare queste violenze all’interno dello stabilimento penitenziario. Questo comporta che l’istituzione carceraria sia costretta, nel tentativo di creare un ambiente vivibile, a esercitare la propria «presa» sul corpo dei detenuti, trascurando come secondari aspetti che sono invece determinanti per la qualità della loro vita57. 68

Allo stesso filone di studi appartiene l’articolo pubblicato intorno alla metà degli anni Cinquanta del Novecento da Lloyd W. McCorkle e Richard R. Korn, Resocialization within Walls58, nel quale gli autori, anche alla luce della loro esperienza di operatori penitenziari, sostengono che il carcere non può avere una funzione risocializzante per la reazione psicologica che attiva nei detenuti. Secondo McCorkle e Korn il sistema penale e il sistema penitenziario con le loro regole e i loro rituali sono finalizzati a segnalare il rifiuto della società nei confronti di coloro che ne hanno infranto le leggi. I detenuti sono quindi esplicitamente esclusi dalla società ed è loro rifiutato lo status di membri della comunità dei cittadini. Essi pertanto, «per evitare gli effetti psicologici devastanti dell’interiorizzazione di questo rifiuto sociale e della conversione di tale rifiuto in un rifiuto di se stessi»59, «rifiutano coloro che li rifiutano»60 («reject their rejectors»): ogni progetto rieducativo è quindi improduttivo in un simile contesto, nel quale qualsiasi programma imposto dall’amministrazione penitenziaria è guardato dai detenuti con ostilità. Mi limito qui a citare alcune tappe dell’elaborazione del discorso critico nei confronti del modello trattamentale61 che, lungi dall’essere ideologico ed estemporaneo, affonda le radici nelle critiche coeve alla diffusione dei grandi penitenziari e prosegue nel corso di oltre un secolo, giovandosi di studi rigorosi condotti sul campo e di analisi storiche e filosofiche difficilmente riducibili alla contingenza dei movimenti politici degli anni Settanta del Novecento. Gli studi che ho fin qui menzionato sono precedenti agli anni Sessanta del secolo scorso, precedenti quindi alla nascita della storiografia che è stata definita «revisionista» e che ha messo in discussione la ricostruzione dominante della genesi dei sistemi punitivi, rifiutando di considerare il carcere come uno strumento necessario di controllo della criminalità e affermando la natura politica dell’istituzione penitenziaria. La storiografia revisionista contestava la tesi prevalente secondo la quale la penalità si era evoluta nel tempo divenendo sempre più rispettosa della dignità e del valore della persona umana, rifuggendo dai supplizi, seguendo il progetto illuministico che aveva sostituito il dominio della ragione alla barbarie e alla crudeltà. Autori come Foucault, Rothman, Cohen, Melossi, Pavarini, Ignatieff e David Garland possono essere ascritti a questa corrente, che se da un lato – come sottolinea Santoro – «fu in gran parte dichiaratamente politica»62, dall’altro si è mossa sui binari del rigore scientifico e ha assunto un rilievo indiscusso in ambito storiografico. 69

Le critiche a questo filone interpretativo non sono mancate e spesso sono stati gli stessi storici revisionisti a rivedere le proprie posizioni63. Tuttavia anche i critici del paradigma revisionista per lo più non hanno messo in discussione l’importanza di tale approccio alla storia delle istituzioni penali. Essi hanno piuttosto contestato l’«ermeneutica del sospetto»64 che ha caratterizzato alcuni di questi studi e che talvolta ha ridotto in modo troppo elementare «le filosofie penali, gli ideali riformisti e i valori etici a fattori più duri quali gli interessi economici o la volontà di potere»65. Le critiche e le autocritiche si sono quindi appuntate sull’eccessiva enfasi posta da alcuni revisionisti sulla natura classista del potere di punire e sulle motivazioni sociali della criminalità ma, per lo più, non hanno messo in discussione la «scoperta» revisionista del carattere politico dell’istituzione carceraria e della sua autonomia di funzionamento; esse non hanno respinto l’idea che il carcere non risponde direttamente alla necessità di reprimere la criminalità. I critici del trattamento hanno posto alcune domande imprescindibili circa il funzionamento delle istituzioni penitenziarie e hanno svelato la presenza di meccanismi disciplinari e di finalità non dichiarate che spesso sono state riconosciute dagli stessi operatori del campo penale e penitenziario. Questa lezione non pare riducibile a un paravento teorico per i movimenti sociali degli anni Settanta del secolo scorso. 3.5.2. Critica del trattamento e promozione del rispetto dei diritti dei detenuti Un altro dato spesso trascurato da quanti accusano i movimenti riformatori di aver favorito il successo delle nuove politiche penitenziarie è quello dello stato effettivo del regime penitenziario statunitense che i riformatori miravano a trasformare. Spesso si omette di ricordare che i movimenti che criticavano la nozione di «rieducazione» erano gli stessi che avevano fatto aprire le porte di molti penitenziari e avevano per la prima volta invocato il rispetto dei diritti dei detenuti denunciando l’arbitrio cui questi erano soggetti e le pessime condizioni della vita in carcere. Scrive Emilio Santoro: Negli Stati Uniti almeno fino alla metà degli anni ’60 le corti federali si attenevano alla hands off doctrine secondo la quale il detenuto perdeva tutti i suoi diritti costituzionali e legali sperimentando una «morte civile». La sentenza di condanna trasformava il cittadino in uno «schiavo del70

lo Stato». Le procedure dell’habeas corpus potevano essere utilizzate per contestare le irregolarità processuali e la condanna alla reclusione, non le modalità della reclusione stessa. I detenuti erano di massima esclusi dalla protezione del diritto e delle corti, il regime carcerario era completamente affidato alla discrezionalità degli amministratori66.

Le carceri contestate dai movimenti di riforma non erano quindi istituti modello nei quali si attuava il recupero dei condannati, ma erano luoghi abbandonati alla discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria, nei quali non vi era che uno spazio molto esiguo per il diritto e per la considerazione dei detenuti come soggetti dotati dello status di cittadini. Il trattamento appariva come l’ideologia giustificatrice delle istituzioni di reclusione e non come il fine verso cui indirizzare specifici programmi di recupero. Il carcere era un luogo chiuso, abbandonato a se stesso, nel quale la funzione custodialistica, benché non dichiarata, era prevalente e le condizioni di sovraffollamento erano estremamente gravi nonostante l’esiguo numero di detenuti. Furono proprio i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta ad aprire le porte dei penitenziari per farvi entrare il diritto e per tentare così di restituire ai detenuti lo status di cittadini che sempre era stato loro negato. Come scrivono Austin e Irwin «Sempre più detenuti, ispirati e aiutati dai movimenti di protesta della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta, cercarono di ottenere giustizia per il trattamento che ricevevano in carcere e sempre di più le corti intervennero nella gestione delle carceri»67. Secondo Santoro: «L’estensione delle garanzie dello Stato di diritto all’interno del carcere fu una conseguenza naturale dell’attivismo giudiziario che, sospinto dalla ‘rivoluzione legale’ che conferì pieni diritti di cittadinanza alle minoranze razziali, caratterizzò gli anni ’60 negli Stati Uniti»68. Così nel corso degli anni Settanta, grazie alle denunce dei detenuti, le corti federali e statali presero in considerazione tutti gli aspetti del regime penitenziario e ne controllarono la conformità al dettato costituzionale, ricorrendo a un’interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione delle garanzie dell’habeas corpus. In particolare fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta i sistemi penitenziari di molti Stati furono dichiarati incostituzionali e furono quindi bloccati per violazione dell’VIII emendamento della Costituzione a causa delle condizioni di sovraffollamento. Le proposte di riforma investirono quindi degli istituti per molti 71

aspetti simili a quelli degli Stati Uniti di oggi. È stato notato che l’ingresso dei diritti nel carcere fu un evento traumatico e che esso si tradusse solo in parte in un effettivo miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Se da una parte infatti essi videro riconosciuti i propri diritti, dall’altra furono investiti dalla crisi delle istituzioni di reclusione dovuta al difficile processo di assestamento fra vecchia e nuova cultura penitenziaria. Secondo James Jacobs69 la crisi dell’autorità carismatica dei direttori dei penitenziari rese la vita in carcere più violenta e determinò una reazione repressiva da parte del personale penitenziario. Jacobs ha criticato il movimento per i diritti, sostenendo che esso ha contribuito alla formazione di un regime «benevolo nelle intenzioni ma di fatto confuso e spesso meno tranquillo per la sicurezza fisica dei detenuti e delle guardie di quello autoritario degli anni ’40»70. Austin e Irwin interpretano in modo diverso da Jacobs l’evoluzione del sistema penitenziario statunitense verso un regime burocratico legale-razionale: sottolineano la pessima gestione degli istituti di pena fino agli anni Sessanta e attribuiscono un ruolo decisivo nella burocratizzazione del penitenziario più alla cultura del trattamento che al movimento per i diritti. Secondo i due autori le carceri statunitensi fino alla seconda guerra mondiale erano dirette da guardie autoritarie, provenienti dalla classe rurale bianca di provincia e iscritte in una rigida gerarchia militare. Nelle carceri regnava quella che i due sociologi definiscono una «good ol’boy social organization»71, fondata su una sottocultura carceraria nella quale una forte solidarietà legava gli amministratori alle guardie e agli altri membri dello staff penitenziario. Questa struttura si modificò nel corso degli anni Cinquanta-Sessanta grazie all’adozione del modello trattamentale, che condusse all’assunzione nei ranghi dell’amministrazione penitenziaria di personale laureato e non inquadrato nella polizia. Questo tuttavia non comportò un miglioramento nella gestione penitenziaria, ma determinò una rottura fra il nuovo personale e le guardie penitenziarie la cui cultura professionale era ancora ispirata alla severità punitiva. Secondo Austin e Irwin, nel braccio di ferro che opponeva gli amministratori alle guardie penitenziarie queste ultime ebbero la meglio. L’amministrazione perse il controllo dei propri sottoposti, organizzatisi in potenti sindacati di categoria. Gli operatori penitenziari si divisero in base a criteri quali l’origine, il genere, l’appartenenza ai diversi sindacati, l’estrazione urbana o rurale, facendo pesare divisioni e interessi particolaristici sull’organizzazione delle carceri statunitensi. 72

Queste lobbies penitenziarie hanno avuto un ruolo rilevante nella svolta repressiva e nell’abbandono del trattamento. La visione retributivistica della pena rivendicata dagli agenti penitenziari contro i nuovi professionisti del trattamento ha infine prevalso. La trasformazione della burocrazia penitenziaria e la «managerializzazione» del carcere hanno contribuito all’elaborazione e all’attuazione delle nuove politiche penali. È lecito pensare che tale contributo sia stato più incisivo di quello offerto dai movimenti di protesta, le cui critiche – come si è visto – si erano indirizzate contro un sistema penitenziario altamente discriminatorio, tirannico e inefficiente, e non, astrattamente, contro una concezione della pena che stava ottenendo dei risultati in termini di reinserimento dei detenuti nella società e di lotta alla discriminazione sociale e razziale. Roy King72 ha analizzato il progressivo esaurirsi della spinta riformatrice degli anni Settanta, mostrando come le amministrazioni penitenziarie abbiano reagito all’attacco proveniente dai movimenti trasformandosi e adottando soluzioni che in parte sono alla radice della drammatica situazione attuale. Agli inizi degli anni Ottanta le amministrazioni carcerarie, paralizzate dalle sentenze che decretavano l’incostituzionalità del loro operato, iniziarono a organizzarsi per far fronte alle class-actions condotte contro di loro; in particolare, per quanto riguarda le condanne d’incostituzionalità dovute alle condizioni di sovraffollamento, le amministrazioni penitenziarie presero a «dirottare» i detenuti reclusi nelle carceri statali verso le jails. Inoltre, alcune di esse si avvalsero delle condanne per chiedere all’amministrazione federale di stanziare più fondi in loro favore e di provvedere alla costruzione di nuovi istituti. L’American Correctional Association adottò degli standard di autoregolamentazione: gli istituti che mostravano di rispettarli potevano richiedere una sorta di accreditamento che li metteva al riparo dalle condanne delle corti statali e federali. Tale procedura fu adottata anche a livello centrale dal Federal Bureau of Prisons. Secondo King in questo modo le azioni finalizzate a contestare le istituzioni detentive finirono per promuovere la costruzione di nuove carceri e il potenziamento di quelle già esistenti. Invece che ridurre il numero dei detenuti, le amministrazioni aumentarono la quantità, la capienza e l’efficienza degli istituti, divenendo sempre più potenti fra le istituzioni pubbliche degli Stati Uniti, fino a che furono in grado di condizionare le successive politiche pubbliche orientandole verso un rafforzamento degli apparati repressivi dello Stato. 73

Le analisi fin qui considerate, se lette in parallelo, mostrano un quadro ancora una volta complesso, di fronte al quale appare superficiale fare dei movimenti di riforma il capro espiatorio del mancato sviluppo del sistema trattamentale in una direzione, al contempo, rispettosa dei diritti e capace di rendere i detenuti soggetti attivi sia all’interno degli istituti di pena, sia nella «società dei liberi» destinata ad accoglierli al termine della pena. Più che accusare i riformatori di aver causato la crisi del modello rieducativo, avrebbe senso interrogarsi sulla crisi sociale della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Quello che appare svanire all’inizio degli anni Ottanta del Novecento negli Stati Uniti non è il carcere trattamentale attaccato alle radici dalla rivendicazione dei diritti dei detenuti, ma è un modello sociale in grado di sviluppare meccanismi di controllo della devianza alternativi alla detenzione. Inoltre, la fragilità del modello trattamentale di fronte alle critiche mossegli sembra il sintomo di un mancato funzionamento del sistema rieducativo più che la prova della forza dirompente dell’alleanza fra liberals e conservatori. Come ricorda Thomas Mathiesen, il carcere non ha mai riabilitato nessuno; esso ha invece «de-abilitato»73 i detenuti, che per lo più non sono stati capaci dopo l’esperienza carceraria di reinserirsi nella società. La riabilitazione è essenzialmente un’«ideologia», «un sistema unificato di credenze che fornisce significato e legittimazione a una determinata attività»74. Nel panorama attuale sono molte le voci che, pur avendo in passato criticato le istituzioni disciplinari e il ruolo di controllo svolto dalle agenzie preposte al «trattamento dei devianti», s’interrogano sugli errori compiuti dai movimenti di riforma e auspicano il ritorno a un modello di Stato sociale che, in campo penitenziario, si faccia promotore di programmi di rieducazione dei detenuti. La richiesta di un investimento pubblico nei servizi ai detenuti appare fondata e condivisibile. Essa non deve però indurre a diagnosi inopportune circa le evoluzioni avvenute in campo penale e penitenziario e all’invocazione di rimedi che non hanno mai funzionato. Mai come oggi appare invece importante rilanciare le politiche di decarcerazione e la predisposizione di percorsi alternativi al carcere per chi incorre nella sanzione penale. Non sembra fondata la tesi che postula un legame necessario fra la promozione di politiche di decarcerazione e il prevalere di logiche neoliberiste ispirate al custodialismo. I critici delle criminologie degli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno messo in luce alcuni elementi di continuità fra queste e le ideolo74

gie penali dei decenni successivi, ma ciò non pare giustificare una lettura riduttiva del movimento di deistituzionalizzazione né, tanto meno, la convinzione che fra il paternalismo rieducativo e il custodialismo liberista tertium non datur. 3.6. La «war on drugs» La riforma dell’indeterminate sentencing e il rifiuto dell’ideologia del trattamento hanno contribuito all’affermarsi del primato della detenzione come strumento di controllo della criminalità attraverso l’incapacitazione dei condannati. Tuttavia è possibile ipotizzare che, se le linee guida fossero state orientate alla depenalizzazione invece che a incrementare il numero delle condanne alla detenzione e la durata delle pene, gli effetti delle politiche di mandatory sentencing sugli indici di carcerizzazione avrebbero potuto essere differenti. L’analisi dei risultati della cosiddetta war on drugs indica, del resto, che l’aumento della popolazione penitenziaria verificatosi a partire dagli anni Ottanta del Novecento è attribuibile in larga misura alla severità delle condanne inflitte per i reati di consumo e di spaccio di stupefacenti75. L’impossibilità di considerare l’eventuale «riabilitazione» del condannato ai fini del suo rilascio anticipato ha certamente impedito a molti detenuti per reati di questo tipo di uscire dal carcere76, ma non è stata il principale fattore di lievitazione dei tassi di detenzione. La war on drugs, lanciata da Reagan agli inizi degli anni Ottanta, è stata la più importante politica di contrasto della criminalità adottata negli Stati Uniti nell’ambito della più generale war on crime. Al pari di molte altre «lotte alla criminalità», essa è nata come risposta all’intolleranza dell’opinione pubblica nei confronti della diffusione degli stupefacenti e si è articolata in due diverse strategie di contrasto: l’aumento dei controlli e degli arresti, da una parte, e l’adozione di leggi di mandatory sentencing che prevedevano condanne molto severe, dall’altra. Gli arresti per «reati di droga»77 sono aumentati durante la war on drugs, passando da 581.000 nel 1980 a 1.538.813 nel 200278. Nei primi sei mesi del 2005 sono state arrestate per reati di droga 796.950 persone, di cui 370.582 per detenzione o spaccio di marijuana79. Le possibilità che una persona arrestata per reati di droga fosse condannata alla detenzione sono aumentate del 447 per cento fra il 1980 e il 199280. Nel 2002 il 54,9 per cento dei detenuti nelle carceri federali erano condannati per reati di droga81. 75

Nella war on drugs si ritrovano tutte le componenti del «pacchetto punitivo» degli anni Ottanta e Novanta, dalla «tolleranza zero» al mandatory sentencing, alla severità delle pene. Secondo molti, essa non solo ha condotto all’esplosione delle carceri statunitensi, ma non è neppure servita a contrastare la diffusione degli stupefacenti. Come ha sostenuto Michael Tonry, le strategie di contrasto alla diffusione delle droghe possono mirare alla riduzione dell’offerta di stupefacenti sul mercato, attraverso la repressione dello spaccio, oppure alla riduzione della domanda di sostanze stupefacenti, attraverso la penalizzazione del consumo e la predisposizione di interventi sociali finalizzati a scoraggiare l’assunzione di droghe. La war on drugs è stata condotta sia contro gli spacciatori, sia contro i consumatori. Sul primo fronte i risultati sono stati insoddisfacenti, anche perché la repressione si è concentrata più sul piccolo-medio spaccio delle inner-cities che sui grandi trafficanti. Gli spacciatori arrestati sono stati via via sostituiti da nuova manodopera, sempre più giovane. Non si è neppure registrato un aumento del costo delle droghe; al contrario il costo di sostanze come la cocaina è andato continuamente decrescendo durante la war on drugs. Neppure la domanda di stupefacenti si è ridotta. È del resto dubbio che la repressione penale abbia l’effetto di scoraggiare i consumatori: le indagini svolte dal National Institute for Drug Abuse sembrano mostrare il contrario, poiché non individuano alcuna relazione fra il numero di arresti registrati per reati di droga e il consumo di stupefacenti82. In compenso la war on drugs ha contribuito a innalzare notevolmente i costi del sistema penale e penitenziario. Nel 2003 il governo federale ha speso 19 miliardi di dollari per la war on drugs e fra il 2004 e il 2005 il budget è stato ulteriormente aumentato di un miliardo di dollari83, ai quali vanno aggiunti i già citati costi della detenzione. Queste risorse avrebbero potuto essere investite in programmi di trattamento delle dipendenze e nella prevenzione, tanto più che molti dei detenuti per consumo e per spaccio di stupefacenti sono persone inserite socialmente. Contestualmente alla war on drugs si è inoltre registrato un aumento della percentuale di detenuti con un livello medio di scolarizzazione. Infine, come in parte si è già visto, la war on drugs è alla base della sovrarappresentazione degli afroamericani nelle carceri. Fra il 1985 e il 1995 il 42 per cento degli ingressi in carcere dalla libertà di afroamericani sono stati per reati di consumo e di spaccio di stupefacenti84; nello stesso decennio il numero dei detenuti bianchi per 76

reati di droga è aumentato del 306 per cento, mentre il numero dei detenuti neri per gli stessi reati è aumentato del 707 per cento85. Benché nei venticinque anni trascorsi dall’avvio della war on drugs non siano stati registrati risultati significativi, questa politica non pare sottoposta a una revisione. Neppure la disparità fra bianchi e neri che ne è derivata sembra costituire un problema; si sostiene, al contrario, che sono proprio le comunità nere le più preoccupate della diffusione del consumo di stupefacenti. La questione della repressione o, al contrario, della legalizzazione del consumo di droghe è al centro di un acceso dibattito nella società civile statunitense e sono molte le associazioni e i gruppi di pressione che si battono sull’uno o sull’altro fronte. Al di là dell’opportunità di cercare delle alternative alle politiche penali per scoraggiare l’uso delle droghe, resta in capo ai promotori della war on drugs la responsabilità di una larga parte dell’aumento della popolazione penitenziaria dagli anni Ottanta a oggi e, ancor più, della sproporzionata presenza di afroamericani nelle carceri statunitensi. Secondo Tonry86, la mancanza di adeguate verifiche sugli effetti delle politiche «dure» sulla diffusione del consumo e dello spaccio di stupefacenti è indice del carattere demagogico della war on drugs, il cui principale obiettivo è rispondere alle ansie di una parte dell’opinione pubblica statunitense. Se la «guerra alla droga» è rimasta il pilastro indiscusso delle politiche penali statunitensi per venticinque anni senza produrre risultati sicuri, significa se non altro che essa ha pagato sul piano elettorale e ha svolto una rilevante funzione simbolica, legittimando l’operato della classe dirigente e delle agenzie governative incaricate del controllo penale. 3.7. Il «gioco dei tre errori» La severità che è alla base delle riforme legislative degli anni Ottanta ha continuato a ispirare le politiche penali statunitensi sia a livello statale, sia a livello federale anche nel corso del decennio successivo. Emblema delle politiche penali «dure» degli anni Novanta sono i provvedimenti legislativi – adottati nella gran parte degli Stati – che sono stati designati con lo slogan three strikes and you’re out. Questi provvedimenti si pongono in parte in una linea di continuità con le riforme degli anni precedenti che hanno istituito il sistema di mandatory sentencing, in parte se ne discostano per perseguire più ambiziosi obiettivi di prevenzione della criminalità. 77

La letteratura prevalente sottolinea gli elementi di continuità che legano le riforme degli anni Novanta del Novecento a quelle che si sono susseguite a partire dalla fine degli anni Settanta. Austin e Irwin presentano il movimento three strikes come «la più recente politica anticriminalità che ha imperversato negli Stati Uniti»87 e affermano che allo stesso genere di politiche sono ascrivibili i programmi di «incarcerazione dura» attuati negli anni Settanta-Ottanta, i boot camps88, le riforme ispirate ai principi del mandatory sentencing e della truth in sentencing. Tuttavia, i provvedimenti three strikes presentano delle caratteristiche che li differenziano dalle politiche penali adottate in precedenza. Al pari delle riforme degli anni Ottanta, anche le riforme three strikes sono motivate dall’esigenza di inasprire il trattamento penale della devianza. Tuttavia, mentre le riforme che hanno introdotto il mandatory sentencing e la truth in sentencing perseguivano come obiettivo primario la non discrezionalità del giudizio penale – la «verità» della sentenza –, le riforme three strikes sembrano disinteressarsi all’uguaglianza di trattamento nella sfera penale e istituire un meccanismo punitivo che ignora ogni rapporto di proporzionalità fra pena e reato. Three strikes and you’re out significa «tre errori e sei fuori»: lo slogan si riferisce a una regola del gioco del baseball in base alla quale il battitore deve abbandonare il campo quando non è riuscito per tre volte consecutive a colpire la palla tirata dal lanciatore della squadra avversaria89. Applicata al campo penale, la regola si traduce nel modo seguente: quando una persona è condannata per la terza volta per un reato appartenente a una determinata categoria individuata dalla legge, deve «abbandonare il campo», ossia deve essere esclusa dalla vita sociale attraverso una condanna all’ergastolo. I three strikes and you’re out sono una legislazione molto rigida, che non esita a sacrificare sull’altare dell’assoluto rigore i valori che la penalità moderna ha consacrato da molti secoli, primo fra tutti il principio della correlazione fra gravità del reato ed entità della pena. Nell’ottica del legislatore l’ergastolo non è una pena alla quale ricorrere come extrema ratio, quando il reo ha procurato un’offesa grave alla società e danneggiato in modo irreparabile la vittima: esso è piuttosto lo strumento ordinario attraverso il quale è possibile rimuovere dalla comunità chi non cessa di violarne le leggi e offenderne i valori. Il meccanismo istaurato dai three strikes è il frutto di una dichiarata intolleranza nei confronti dei devianti, a prescindere dal78

l’offesa che essi hanno arrecato. L’impressione è che qualsiasi offesa ai valori primari della vita comunitaria sia insopportabile e che la comunità non disponga di strumenti di carattere sociale e politico per contenere la devianza: la condanna penale appare allora come l’unico mezzo di difesa utilizzabile. Nel corso degli anni Novanta, molti Stati hanno adottato leggi three strikes, sebbene le leggi che s’ispirano al principio dei «tre errori e sei fuori» presentino notevoli differenze, soprattutto per quanto concerne i reati che danno luogo a una condanna sulla base del three strikes e il grado di discrezionalità che concedono ai giudici. Lo Stato di Washington ha adottato per primo, nel 1993, un provvedimento three strikes; la legge promulgata a Washington riguarda tuttavia una gamma molto ristretta di reati gravi ed è stata alla base di una legge analoga adottata a livello federale l’anno successivo. Nel 1996 i provvedimenti three strikes adottati negli Stati Uniti erano già ventiquattro e sono diventati ventisei nel 2001. Tutti i provvedimenti three strikes adottati instaurano un meccanismo punitivo che impone al giudice di comminare la condanna all’ergastolo (o a un numero di anni corrispondente di fatto all’ergastolo) nel caso in cui il reo commetta per la terza volta un reato appartenente a una determinata categoria prevista dalla legge (third strike). Molte leggi three strikes prevedono inoltre un rilevante aggravio di pena nel caso di una seconda condanna per uno dei reati inclusi nella lista (second strike). I provvedimenti di questo tipo intendono sanzionare in modo rigido i recidivi che sono considerati dal legislatore come «criminali di carriera» (career criminals), e hanno dunque come scopo la special-prevenzione, mirando all’incapacitazione di soggetti che sono percepiti come pericolosi dal momento che hanno commesso più volte alcuni tipi di reato. Tuttavia essi sembrano perseguire anche una finalità general-preventiva attraverso la manifestazione di una severità penale estrema, alla quale è affidata una funzione deterrente nei confronti dei potenziali criminali. Se questi sono i principali fini delle leggi three strikes, allora è determinante l’individuazione dei reati che attivano il meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge. La maggior parte delle leggi three strikes include nella lista i più gravi fra i «crimini violenti», come l’omicidio, lo stupro, la rapina, le aggressioni gravi ecc. Non sono pochi tuttavia gli Stati che hanno scelto di adottare l’estremo rigore dei three strikes anche per reati non violenti. Molti Stati hanno considerato necessario inserire fra i reati che danno luogo a una prima con79

danna valida per innescare il meccanismo di three strikes (first strike) il reato di spaccio di stupefacenti. In alcune leggi sono inoltre stati inseriti nella lista dei reati che danno luogo a un first strike i reati di evasione, di appropriazione indebita, di corruzione. Le diverse leggi three strikes differiscono inoltre per le «regole del gioco» stabilite. In otto Stati, oltre alla definitiva esclusione prevista al «terzo errore», si è scelto di prevedere anche un forte incremento di pena per il «secondo errore»: chi commette per due volte un reato incluso nella lista – non necessariamente lo stesso reato – dev’essere condannato a una pena notevolmente superiore a quella ordinariamente prevista per il reato che ha commesso (in genere la pena viene raddoppiata). Come si vedrà più avanti, la legge adottata in California nel 1994 si discosta da tutte le altre leggi three strikes, poiché stabilisce che qualsiasi reato possa costituire un third strike. In altre parole, quando una persona è già stata condannata due volte per reati inclusi nella lista di quelli che innescano il meccanismo dei three strikes, è sufficiente che commetta un reato qualsiasi – anche lieve – perché sia condannata all’ergastolo. Tutte le leggi three strikes prevedono l’ergastolo o lunghe condanne alla detenzione (dai venticinque ai quarant’anni) per il «terzo errore»: l’idea è che il recidivo debba «uscire dal gioco». La principale differenza nelle disposizioni relative alla condanna da comminare per il third strike riguarda il grado di discrezionalità che è concesso al giudice. Per lo più le leggi three strikes sono provvedimenti di mandatory sentencing (di condanna obbligatoria) che non lasciano al giudice alcun margine di discrezionalità: questi deve necessariamente pronunciare la condanna prevista dalla legge. In Georgia, Indiana, Louisiana, Montana, New Jersey, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Virginia, Washington e Wisconsin le leggi three strikes prevedono che al «terzo errore» sia inflitta obbligatoriamente la pena dell’ergastolo e che il condannato non possa avere accesso ai provvedimenti di parole90. In California il giudice è vincolato dalla legge a pronunciare una condanna alla detenzione per un minimo di venticinque anni (25 years to life) e il detenuto non può accedere alle misure alternative alla detenzione prima di aver scontato in carcere almeno venticinque anni. Come si può notare, le disposizioni contenute nelle leggi three strikes sono molto rigorose. Esse sembrano disinteressate alle circostanze che hanno condotto alla commissione del reato nel caso concreto, diffidenti nei confronti dei giudici – che sono rigidamente vin80

colati dalla legge – e indifferenti alla sorte del reo, per il quale non si prevede alcuna forma di rieducazione: il reinserimento sociale del resto è esplicitamente escluso dallo slogan stesso adottato dalle leggi che annuncia l’«uscita dal gioco» del criminale. Le disposizioni three strikes appaiono ispirate a principi semplici e chiari, molto lontani dal linguaggio oscuro degli esperti di diritto. I legislatori che le hanno promulgate hanno eletto a modello le regole dello sport e le hanno sostituite alla complessa architettura del diritto penale moderno. Nelle disposizioni three strikes si riscontrano innegabili elementi d’inciviltà, ma anche elementi d’utopia: esse inseguono il sogno di una società senza crimine, nella quale i delinquenti sono stati neutralizzati. Gli studi condotti sull’effettivo funzionamento delle leggi three strikes hanno rivelato che molte di queste hanno svolto una funzione prevalentemente simbolica. Esse hanno «abbaiato più che morso»91, hanno appagato gli istinti di un’opinione pubblica terrorizzata dall’allarme criminalità, ma hanno svolto un ruolo marginale sia perché i sistemi penali coinvolti hanno attivato i propri anticorpi liberali arginando gli effetti destabilizzanti di queste leggi, sia perché il legislatore stesso aveva programmato la legge perché non fosse molto più che uno slogan elettorale. In questo quadro, la legge three strikes adottata in California nel 1994 è una rilevante eccezione: essa è apparsa a molti analisti come una legge penale di una specie nuova, che promuove una visione del potere punitivo in grado di sovvertire non solo i principi del diritto penale liberale ma anche i principi che presiedono al funzionamento delle istituzioni democratiche statunitensi. 3.7.1. Leggi che «abbaiano ma non mordono» James Austin e John Irwin hanno condotto uno studio sui risultati prodotti dalle leggi three strikes adottate negli Stati Uniti negli anni Novanta92. La loro ricerca è stata finanziata dal National Institute of Justice Programs dello US Department of Justice, ma non ha un carattere governativo; essa è molto critica nei confronti del three strikes movement. Gli autori hanno confrontato le leggi adottate dai diversi Stati e ne hanno valutato l’impatto sui sistemi penali di ciascuno Stato e sul sistema statunitense nel suo complesso, rilevando – al pari di altri, come Franklin Zimring, Gordon Hawkins e Sam Kamin93 – la sostanziale somiglianza dei provvedimenti adottati in 23 dei 24 Stati che hanno emanato leggi three strikes94 e l’eccezionalità della legge adottata in 81

California nel 1994. Dalla ricerca condotta si deduce che le leggi three strikes nella maggior parte degli Stati non hanno alterato in modo sostanziale il quadro legislativo precedente, in quanto la riforma del sistema di indeterminate sentencing aveva già prodotto un irrigidimento della legislazione penale. Inoltre, in tutti gli Stati che hanno adottato leggi three strikes esistevano già disposizioni normative che prevedevano aggravi di pena per i recidivi, con riferimento alle stesse categorie di reati contemplate dalle leggi three strikes. Per lo più le nuove leggi hanno aumentato il numero dei reati per i quali sono previste pesanti condanne obbligatorie alla detenzione e hanno aggravato le pene allungandone la durata. Austin e Irwin hanno analizzato i risultati delle leggi three strikes Stato per Stato: in Louisiana, Maryland, South Carolina e Tennessee esistevano già norme che prevedevano l’ergastolo obbligatorio senza possibilità di accesso al regime di parole per i recidivi che avevano commesso alcuni particolari reati. In Virginia, invece, le lunghe condanne alla detenzione già previste dalle leggi in vigore sono state sostituite dalla condanna obbligatoria all’ergastolo; mentre in alcuni Stati si è disposto sia l’allargamento della nozione di recidiva che dà luogo a condanna in base alla regola dei three strikes and you’re out, sia l’aggravio delle pene. In nessuno di questi casi, tuttavia, i meccanismi che regolavano il sistema penale sono stati alterati, né si sono prodotti risultati eccezionali in termini di aumento del numero delle condanne e di promozione della carcerazione95. In California, invece, le caratteristiche della legge e le circostanze della sua promulgazione e applicazione hanno determinato una vera e propria rivoluzione del sistema penale96. Il fatto che le leggi three strikes abbiano avuto, in quasi tutti gli Stati, un valore prevalentemente simbolico, se da un lato indica che l’impatto diretto di questi provvedimenti sui tassi di detenzione non è stato molto rilevante, dall’altro induce a riflettere sulla scelta di attribuire alla legislazione penale il compito di rappresentare i valori collettivi, scelta che è stata fatta da molti Stati in un lasso di tempo molto breve. L’impressione è che si siano volute utilizzare tali leggi in modo demagogico per «lanciare un messaggio», per far credere in una nuova «svolta punitiva» che appariva necessaria. 3.7.2. Oltre la politica penale: il caso California La legge three strikes and you’re out promulgata in California nel 1994 è la versione più severa di legislazione three strikes e, pur condividendo con i 82

provvedimenti dello stesso genere in vigore negli altri Stati alcune fondamentali caratteristiche, appare come un esperimento inedito di legislazione penale. L’impianto della legge è simile agli altri provvedimenti three strikes e tuttavia presenta alcune importanti peculiarità. Analogamente, l’iter di adozione della legge ha segnato una rilevante discontinuità rispetto all’abituale sistema di formazione delle politiche legislative in materia penale. Per quanto riguarda l’impostazione della legge, sono tre le norme che differenziano in modo radicale la versione californiana dei three strikes da quelle adottate negli altri Stati. In primo luogo, la legge californiana prevede una vasta gamma di reati che possono innescare il meccanismo punitivo dei three strikes; fra questi ci sono anche la vendita di stupefacenti ai minori, il furto in appartamento e il possesso illecito di armi, che sono reati non violenti. In secondo luogo, la legge prevede che, una volta che il reo abbia commesso uno dei reati inclusi nella lista delle strikeable offenses – i reati che innescano il meccanismo dei three strikes –, è sufficiente che egli commetta un qualsiasi altro reato, anche lieve, perché incorra nell’aggravio previsto per il «secondo errore», aggravio che consiste nel doppio della pena edittale prevista per il reato commesso. Ma la disposizione che fa della legge californiana un provvedimento legislativo particolarmente eccentrico è senza dubbio quella che prevede che, qualora il reo sia stato già condannato per due reati inclusi nella lista delle strikeable offenses, la commissione di un altro qualsiasi reato inneschi il meccanismo punitivo del third strike, obbligando il giudice a pronunciare una condanna alla detenzione da un minimo di 25 anni fino all’ergastolo. La legge californiana è l’unica legge three strikes a contemplare una simile norma. Si tratta di una disposizione particolarmente severa, in grado di stravolgere l’impostazione tradizionale delle legislazioni penali liberali: in base a questa norma la pena dell’ergastolo, generalmente considerata come una pena cui ricorrere nel caso di crimini gravi, può essere inflitta al termine di un processo per un reato minore se l’imputato ha riportato in precedenza due condanne per reati inclusi nella lista delle strikeable offenses. In tal modo la funzione della pena come risposta al reato per il quale è pronunciata viene stravolta, con risultati paradossali. Nel caso infatti di due persone che abbiano commesso gli stessi tre reati ma secondo una sequenza temporale diversa, la legge californiana non solo istituisce una disparità di trattamento, ma giunge persino a ribaltare una con83

cezione della pena conforme al senso comune, condannando alla pena più severa il soggetto che ha commesso da ultimo il reato meno grave. Ad esempio: una persona che ha commesso, nell’ordine, i reati di rapina, di furto in appartamento e di taccheggio, potrà essere condannata all’ergastolo dal giudice in base alla legge three strikes. Diversamente, un imputato che abbia commesso gli stessi reati ma secondo una sequenza temporale differente – ad esempio taccheggio, rapina e furto in appartamento – riceverà una condanna al doppio degli anni previsti per l’ultimo reato commesso – che in questo caso è un second strike –, cosicché non dovrà scontare più di otto anni di carcere. Oltre a determinare una disparità di trattamento fra le due situazioni, la legge contraddice una percezione di senso comune, che farebbe ritenere che il secondo dei due rei abbia intrapreso una carriera criminale, passando da un reato lieve alla commissione di reati più gravi, mentre il primo abbia intrapreso un percorso opposto, rinunciando a commettere crimini violenti come la rapina e ripiegando su comportamenti illeciti di minore pericolosità. Questo paradosso appare ancora più grave alla luce dell’ampia lista di reati previsti dalla legge three strikes adottata in California. Zimring, Hawkins e Kamin sostengono, in base allo studio che hanno condotto sui risultati prodotti dalla legge a sette anni dalla sua entrata in vigore, che «ciò che fa della legge californiana un caso a parte rispetto alle altre leggi three strikes e a tutte le altre innovazioni penali recenti è il carattere estremo delle sue norme e la natura rivoluzionaria delle sue ambizioni»97. Secondo gli autori la legge californiana, al contrario delle altre leggi three strikes che hanno un taglio propagandistico, sarebbe stata studiata per avere il massimo impatto possibile sul sistema penale dello Stato. La sua applicazione ha inoltre legittimato la violazione di alcuni dei principi cardine della penalità liberale. È stata così affermata la possibilità che attraverso l’adozione di una riforma penale il legislatore alteri alcuni dei valori fondamentali protetti dall’ordinamento giuridico: la concezione individualizzata della pena, la parità di trattamento in materia penale, la proporzionalità fra reato commesso e pena. 3.8. Populismo e diritto penale La letteratura criminologica e sociologica che si è occupata del «boom penitenziario» statunitense e in particolare dell’esperimento californiano98 concorda per lo più nel ritenere che alcuni gruppi 84

d’interesse abbiano giocato un ruolo centrale nella crescita del sistema penitenziario promuovendo l’adozione di leggi penali estremamente severe. In particolare, molti autori mettono l’accento sul ruolo svolto dall’importante lobby delle armi, rappresentata dalla National Rifle Association, e dal sindacato degli agenti penitenziari, divenuto negli ultimi anni uno dei gruppi di pressione più potenti degli Stati Uniti. Questo fenomeno di lobbying è connesso alla privatizzazione di molti istituti penitenziari e alla quotazione in borsa di grandi società private che si occupano della gestione delle carceri – vere e proprie multinazionali che si sono in breve tempo affermate sul mercato finanziario grazie alla sicurezza degli investimenti in campo penitenziario99. Nils Christie100 e Loïc Wacquant101 hanno studiato questo «business penitenziario» sostenendo che l’ingresso di gruppi industriali nel settore penitenziario è alla base dell’esplosione delle carceri; queste sono divenute un florido affare trasformando l’approccio della classe politica alle questioni penali. Le lobbies dell’industria carceraria sono interessate a promuovere indefinitamente l’aumento della detenzione, sostenendo l’adozione di progetti di legge particolarmente duri verso i criminali e incoraggiando una cultura della «paura del crimine» finalizzata a tenere alto il consenso nei confronti della severità penale. La National Rifle Association – l’associazione dei detentori di armi da fuoco – a sua volta avrebbe affiancato l’industria carceraria sostenendone le battaglie politiche e legislative allo scopo di dirottare una campagna iniziata dai democratici nel corso degli anni Ottanta a favore della limitazione del commercio delle armi a scopi civili. L’industria delle armi da fuoco ha inoltre finanziato ricerche e campagne volte a sostenere che l’aumento dei tassi di vittimizzazione registrato negli Stati Uniti è collegato non alla diffusione delle armi, ma alla particolare ferocia di singoli criminali che devono essere posti in condizione di non nuocere attraverso la detenzione in carcere. Un altro elemento da non trascurare per comprendere l’aumento della popolazione penitenziaria statunitense è il ruolo che le associazioni delle vittime del crimine hanno avuto nel promuovere la severità penale. I gruppi di pressione legati alla lobby dell’industria penitenziaria non avrebbero mai ottenuto leggi così severe e così favorevoli alla carcerazione se non fossero stati sostenuti da un consenso popolare consistente. Tale consenso non appare interamente manipolato dalle rappresentazioni della criminalità costruite dai mass media per compiacere l’industria penitenziaria, ma sembra l’emble85

ma di un nuovo modo di percepire l’intervento delle istituzioni statali nella lotta alla criminalità da parte dei cittadini. L’iter della legge three strikes adottata in California ha, in questo senso, un carattere paradigmatico. La legge three strikes della California è infatti stata proposta da un comune cittadino, Mike Reynolds, padre di una vittima della criminalità, e si è imposta all’opinione pubblica californiana in seguito all’assassinio di una ragazza di dodici anni da parte di un detenuto che era stato condannato due volte per crimini violenti e si trovava in semilibertà. L’omicidio, avvenuto in una piccola città della provincia californiana, ha alimentato nell’immaginario popolare la convinzione che il crimine possa colpire a sorpresa ovunque e che la causa della vulnerabilità dei cittadini debba essere ricercata nell’impunità garantita ai criminali da un sistema penitenziario troppo clemente. Il caso californiano è esemplare per la compresenza di alcuni elementi che si riscontrano anche in occasione di altre campagne contro la criminalità: il risalto dato dai media a un episodio di cronaca, il rafforzamento delle posizioni delle associazioni delle vittime del crimine, la presenza sul territorio di forti lobbies economiche e sindacali interessate all’espansione del sistema carcerario, l’uso elettorale delle passioni popolari suscitate dalla criminalità da parte di uomini politici in cerca di legittimazione. Tutti questi elementi possono essere considerati tipici del modo in cui sono affrontate, non solo negli Stati Uniti, le questioni relative alla criminalità e sono senza dubbio riscontrabili anche negli altri Stati che hanno promulgato leggi three strikes. Tuttavia, come hanno notato Zimring, Hawkins e Kamin, nel caso della California ciò che più sorprende è l’assoluta mancanza di mediazione politica che ha caratterizzato l’iter della legge. La proposta di Mike Reynolds è divenuta legge senza subire alcuna modifica; si è giunti ai risultati paradossali che la legge produce, senza che nessun politico e nessun esperto sollevasse perplessità sulle norme in essa previste. La legge, che dichiara fra le proprie principali finalità l’incapacitazione selettiva dei criminali destinati a commettere un gran numero di crimini violenti, è stata promulgata senza che fosse stato fatto alcuno studio sull’impatto che essa avrebbe potuto avere sulla criminalità e sul sistema penale californiano nel suo complesso. Non sono state compiute neppure valutazioni economiche accurate dei costi che lo Stato avrebbe dovuto sostenere a causa dell’aumento della carcerazione che la legge era destinata a produrre. Niente di 86

più lontano quindi dalla scienza statistica che pure, secondo il linguaggio adottato dalla legge e secondo gli intenti dichiarati dal legislatore, è alla base del provvedimento. Zimring, Hawkins e Kamin non esitano a definire la legge «una pratica senza una teoria»102, una legge che non segue alcun principio, come dimostra il fatto che essa, ponendosi come obiettivo l’incapacitazione dei «criminali di carriera», finisce poi per punire più duramente il criminale che ha commesso da ultimo il reato meno grave. La legge è inoltre irrazionale poiché collega l’aggravio di pena per il secondo reato alla gravità del reato commesso, prevedendo il raddoppio dei termini edittali, mentre sancisce la pena dai venticinque anni all’ergastolo per il terzo strike prescindendo dal tipo e dalla gravità del reato commesso. Che un provvedimento così incoerente sia entrato in vigore senza subire alcun emendamento appare agli studiosi sorprendente; essi ritengono tuttavia che non si tratti di un’eccezione, bensì di un mutamento nel modo di elaborare le politiche penali, destinato ad affermarsi. Il disegno di legge della three strikes californiana è stato pensato direttamente dalle vittime del crimine per punire i criminali, in un gioco a somma zero fra vittime e aggressori nel quale il ruolo delle istituzioni è stato percepito come meramente strumentale. A essere stati espulsi dal processo legislativo sono non solo gli esperti provenienti dagli ambienti accademici, da tempo invisi sia ai politici sia a una parte dell’opinione pubblica per la loro clemenza nei confronti dei criminali103, ma anche i tecnici dell’amministrazione penale e penitenziaria. La legge three strikes adottata in California anticipa una tendenza destinata a consolidarsi: le politiche penali sono sempre più il prodotto di gruppi di pressione che trovano negli eletti i portavoce delle loro richieste. I politici si limitano a formalizzare le proposte elaborate da associazioni e lobbies in modo che queste possano essere sottoposte all’attenzione generale e approvate o respinte da referendum confermativi; la stessa legge three strikes adottata in California è entrata in vigore a seguito di un referendum popolare che l’ha ratificata. Secondo Zimring, Hawkins e Kamin sono i cittadini a desiderare che venga aggirata l’amministrazione e che le questioni penali possano essere governate in base ai loro auspici, senza che fra le vittime – o le potenziali vittime – della criminalità e i criminali s’interpongano i detentori di saperi specialistici. I cittadini tenderebbero a considerare irrilevante il sapere tecnico-amministrativo. Tale concezio87

ne è il segnale di una mancanza di legittimazione non solo degli esperti, ma anche delle istituzioni statali, considerate marginali nella gestione di un problema primario come quello del governo della devianza. Quando l’interesse delle vittime è contrapposto in modo frontale all’interesse dei criminali non vi è più spazio per considerazioni di ordine generale e per la tutela dell’interesse collettivo; il pubblico s’identifica con le vittime e non è più possibile al sapere esperto mostrare come il governo della criminalità necessiti di interventi complessi: «in quest’ottica quelli che si oppongono all’aumento della punitività necessariamente appaiono come quelli che preferiscono l’interesse degli aggressori a quello delle vittime»104. Ai politici rimane una libertà di scelta molto limitata, poiché non possono apparire di fronte all’opinione pubblica come i difensori del crimine: è così aperta la strada al populismo. Secondo Zimring, Hawkins e Kamin il declino degli esperti è una delle cause principali dell’aumento della detenzione negli Stati Uniti. Esso spiegherebbe l’andamento dei tassi di detenzione meglio delle teorie che affidano un ruolo centrale nello sviluppo della severità penale alla paura del crimine. I cittadini statunitensi hanno sempre temuto i criminali e incoraggiato i politici ad adottare leggi repressive e tuttavia il sapere specialistico, legittimato all’interno di un’amministrazione forte, ha limitato la spinta punitiva e ha messo il processo legislativo al riparo dalle istanze populiste. Le attuali politiche penali, direttamente elaborate all’interno di specifici gruppi di pressione, possono divenire il modello delle politiche pubbliche del terzo millennio, compromettendo la divisione dei poteri caratteristica delle democrazie liberali e trasformando i meccanismi che hanno caratterizzato gli Stati di diritto. Al di là del caso californiano, le nuove politiche penali s’inseriscono in una più generale trasformazione del rapporto fra cittadini e istituzioni rappresentative. Nelle democrazie contemporanee, il carattere tecnico e la complessificazione del diritto contribuiscono a una disaffezione dei cittadini nei confronti delle norme e al loro allontanamento dai luoghi della partecipazione democratica. Il vuoto così formatosi tende a essere colmato da sentimenti d’insicurezza e dal bisogno di ottenere risposte forti: nella sfera penale prevale la volontà di vendicarsi in modo violento nei confronti di chi è accusato di aver tenuto comportamenti criminali. Il fatto che l’elaborazione delle politiche penali sia sottratta ai tecnici del diritto e agli specialisti del settore e sia affidata a una classe politica inesperta che, inter88

pretando l’opinione pubblica, non tiene conto della complessità sociale della funzione penale, favorisce il prevalere delle concezioni più arcaiche della pena, intesa come vendetta sociale e come rito catartico. La pena detentiva riacquista così un ruolo primario e il carcere, quanto più rivela la sua incapacità di funzionare, tanto più appare legittimato. 3.9. Non solo retorica: le «pratiche attuariali» I provvedimenti three strikes sono spesso indicati dalla letteratura come l’esempio tipico di un nuovo indirizzo penale sia sul piano teorico, sia sul piano politico. Essi sono considerati rappresentativi della cosiddetta new penology, ispirata alla gestione della devianza secondo criteri manageriali. L’espressione new penology è stata utilizzata da Malcom Feeley e Jonathan Simon, in un articolo dei primi anni Novanta105, per indicare un pensiero penale che si pone come obiettivo il governo della devianza su basi nuove. Secondo gli autori, la nuova teoria penale sostituisce al paradigma classico della punizione individualizzata del reo una penalità incentrata sul controllo di gruppi e di aggregati di soggetti considerati potenzialmente devianti. Questo nuovo pensiero penale non è più interessato alla punizione del colpevole né, tanto meno, alla sua rieducazione: esso si preoccupa unicamente di gestire la devianza come se questa fosse una calamità naturale. Secondo Simon e Feeley, le nuove politiche penali si strutturano intorno a una serie di «tecniche per l’identificazione, la classificazione e la gestione di aggregati costruiti in base alla pericolosità»106. Il pensiero penale ha dunque rotto l’alleanza novecentesca con la psicologia e la psichiatria, incaricate d’indagare la mente dei devianti per decretare la loro pericolosità sociale, e si è alleato con le scienze statistiche ed economiche: la pericolosità degli aggregati sociali è definita attraverso calcoli statistici analoghi a quelli usati in campo assicurativo per determinare le classi di rischio107. La «nuova penologia» abbandona la nozione di «individuo pericoloso» sostituendola con quella di «soggetto portatore di rischio»: si passa così dall’habitual offender – il delinquente abituale – all’high-rate offender, al soggetto che ha alte probabilità di commettere un reato. Le nuove politiche penali non s’interessano più alla dimensione morale della criminalità, al problema della colpa e del89

l’equità nella sfera penale, ma si limitano a porsi degli obiettivi manageriali ancorati a una logica puramente utilitaristica. In questo quadro mutano sia le politiche di controllo della devianza, sia le politiche di repressione: le prime divengono essenzialmente politiche di controllo del territorio, le seconde abbandonano definitivamente il paradigma trattamentale e perseguono la mera incapacitazione dei potenziali criminali. Una parte della letteratura ha definito «attuariale» questa nuova penologia, riferendosi ai calcoli matematici impiegati per la definizione del rischio assicurativo. L’espressione «penologia attuariale» sta entrando nel lessico di una parte della sociologia della pena, in particolare in Gran Bretagna e in Italia108, eppure essa non sembra essere stata discussa in modo sufficientemente chiaro e approfondito. Il riferimento alle tecniche assicurative e, più specificamente, al calcolo attuariale del rischio appare come una metafora utile più a illustrare alcuni aspetti delle politiche penali contemporanee che non a indicare un mutamento nel paradigma teorico delle scienze penalistiche. Le nozioni di «controllo attuariale» e di «penologia attuariale» sono state elaborate sulla base di un parallelo fra le tecniche impiegate per la definizione dell’ammontare dei premi assicurativi e le tecniche di controllo adottate dalla polizia nei confronti di particolari classi di soggetti portatori di un «rischio penale». Le tecniche assicurative mirano a socializzare il rischio, definendo attraverso un calcolo attuariale la ripartizione degli assicurati in classi di rischio e determinando l’ammontare del premio assicurativo che ogni assicurato deve corrispondere alla società d’assicurazioni sulla base dell’appartenenza all’una o all’altra di queste classi. Analogamente, la scienza penale contemporanea ripartirebbe i cittadini in gruppi sulla base del tasso di «rischio penale» di cui essi sono portatori, definendo il grado di controllo e di repressione che spetta a ciascuno di loro. Come le tecniche assicurative non intendono eliminare il rischio, così le nuove tecniche di controllo penale muovono dalla convinzione che la devianza è ineliminabile e che in una società complessa non è possibile evitare un alto tasso di criminalità. L’obiettivo delle nuove politiche penali è pertanto non la riduzione del crimine, ma la gestione efficiente del sistema penale; compito primario delle politiche penali è prevedere il tasso di rischio di cui sono portatori i diversi gruppi sociali e individuare le strategie d’incapacitazione più effi90

cienti. Le politiche penali non devono quindi perseguire i singoli comportamenti devianti, né mirare alla prevenzione della criminalità genericamente considerata: esse devono individuare le classi di soggetti da tenere sotto controllo, in quanto tendenzialmente portati a commettere determinate infrazioni. Le forze di polizia e i diversi attori del sistema penale non sono più i «tutori della legge», incaricati di far rispettare le norme, ma sono i fautori dell’«ordine pubblico», incaricati di mantenere un ordine sociale complessivamente considerato. Secondo questa prospettiva, nella gestione amministrativa dell’ordine pubblico le tecniche «attuariali» hanno sostituito le tradizionali strategie di prevenzione e di repressione della criminalità. Questa visione critica ha il merito d’indicare la cesura che si è prodotta nel discorso penale contemporaneo negli Stati Uniti e in Europa e di segnalare come una parte rilevante della scienza penale, soprattutto angloamericana, abbia iniziato a teorizzare in modo esplicito la necessità di un approccio alla penalità ispirato esclusivamente al principio dell’efficienza economica e funzionale del sistema penale. In documenti ufficiali redatti al fine di delineare le nuove politiche penali109, così come in alcuni testi di scienza penale, si è mostrato chiaramente di rinunciare al linguaggio dei diritti e al principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questo mutamento di linguaggio è indice della tendenza a trasformare in linee guida delle nuove politiche penali alcune tecniche tipiche del modus operandi della polizia e di altri operatori del sistema penale (pubblici ministeri, giudici di sorveglianza ecc.). Attribuire ad esso il carattere di un vero e proprio cambiamento di paradigma delle tecniche di controllo appare tuttavia eccessivo, né sembra condivisibile l’enfasi posta sul parallelismo fra le tecniche del controllo penale e le tecniche assicurative. Nell’individuazione del «paradigma del controllo attuariale» sono messe in ombra le molte differenze che intercorrono fra il calcolo attuariale applicato alle assicurazioni e il calcolo che si sostiene essere impiegato dalla «nuova penologia» angloamericana. In primo luogo, la sociologia della pena che ha sostenuto l’emergere del paradigma attuariale trascura la differenza che esiste fra la considerazione dei singoli individui come soggetti esposti a un rischio, che è propria delle tecniche assicurative110, e la considerazione dei singoli individui come portatori di rischio per i terzi, che caratterizzerebbe la nuova scienza penale. In secondo luogo, il parallelo fra le nuove stra91

tegie di controllo e le tecniche assicurative accomuna in un’unica prospettiva critica due fenomeni sociali che appaiono distinti. Come le nuove politiche penali sono criticate perché mirano a gestire e non a ridurre la criminalità, così le imprese di assicurazione sono accusate di considerare il rischio ineliminabile e di occuparsi solo della sua distribuzione all’interno della classe degli assicurati, sfruttandolo a fini di lucro111. Non è chiaro perché il presupposto della non eliminabilità del rischio su cui si fondano le tecniche assicurative dovrebbe essere interpretato come il frutto di una concezione tipicamente liberista orientata a «gestire collettività determinate, ricavando da ciò un profitto»112. Nel caso della criminalità, poi, la convinzione della sua non eliminabilità appare conforme ai principi di un ordinamento penale liberale: la pretesa di sradicare la devianza implica necessariamente l’adozione di leggi liberticide. I teorici del modello attuariale finiscono per attribuire a una tecnica di calcolo – quella attuariale appunto – e a un sistema di distribuzione dei rischi – il sistema assicurativo – una connotazione negativa, accusandoli di essere di per sé fonte di sfruttamento e d’ingiustizia sociale. Per quanto una critica del business delle assicurazioni private e della correlativa erosione dei sistemi di welfare State appaia condivisibile, l’attribuzione di una simile connotazione a strumenti tecnici, che potrebbero essere usati in diversi contesti anche nel rispetto di criteri di equità sociale e senza fini di lucro, sembra eccessiva. Infine, è difficile riscontrare nell’approccio al problema della criminalità definito attuariale un mutamento di paradigma della scienza penale e delle tecniche di polizia, sebbene si possano rilevare importanti cambiamenti. A fronte di un rilevante mutamento della retorica penale, i nuovi compiti che il sistema penale si è assunto, pur determinando delle trasformazioni, non appaiono stravolgere i compiti tradizionali della polizia: le classes dangereuses della Francia di Guizot e i ghetti afroamericani degli Stati Uniti di oggi non sembrano differire molto nel grado di sottoposizione al controllo di polizia. Inoltre, il mutamento innegabile del linguaggio penale non è interpretabile in modo univoco. Spesso le teorie che promuovono l’adozione di paradigmi razionalistici ispirati all’efficienza manageriale s’intrecciano con filosofie penali incentrate sul carattere valoriale delle scelte politiche in materia penale. Così, se è innegabile che una parte della criminologia angloamericana degli anni Ottanta e Novanta113 ha teorizzato l’ado92

zione di tecniche statistiche per la definizione delle strategie di controllo della criminalità, le modalità con le quali queste teorie si sono tradotte nelle scelte di politica legislativa e giudiziaria appaiono meno evidenti. Le leggi three strikes, ad esempio, sembrano rappresentative di un paradigma penale nuovo in quanto mostrano una radicale indifferenza nei confronti della persona del reo, dell’eziologia del suo comportamento, dell’analisi delle conseguenze che su di lui può avere la carcerazione. Esse condividono inoltre con le altre disposizioni ispirate al mandatory sentencing l’aspirazione alla costruzione di un sistema di giustizia automatizzato, nel quale il giudice «bocca della legge» può essere sostituito da un computer in grado di elaborare meccanicamente la sentenza, senza alcun riferimento al caso concreto oggetto di giudizio. In linea con la «nuova penologia», le leggi three strikes hanno come obiettivo l’incapacitazione dei potenziali criminali. Esse sono incentrate sulla nozione di high-rate offender, mirando a incapacitare i soggetti ad alto potenziale criminale, che sono individuati dal dispositivo legislativo in base alla commissione di uno o più reati precedenti in modo automatico. In sede di condanna al giudice non è consentito prendere in considerazione i legami esistenti fra i diversi reati commessi dall’imputato, le ragioni del suo comportamento, né individuare la personalità del reo: il fatto stesso di aver commesso alcuni reati rende il soggetto pericoloso, a prescindere dalle sue caratteristiche personali e dalle circostanze nelle quali i reati sono stati commessi. Inoltre, l’incapacitazione si basa sul principio secondo il quale alcuni crimini sono commessi soltanto da alcune categorie di soggetti: l’incapacitazione selettiva di tali soggetti attraverso la limitazione della loro libertà di agire determina pertanto la riduzione delle probabilità che tali crimini siano commessi. Almeno in teoria quindi i provvedimenti three strikes sono emblematici della «nuova penologia»: essi tendono a «colpire duro» determinate categorie di soggetti considerate oggettivamente pericolose, distribuendo su queste un grosso carico penale. Gli high-rate offenders sono individuati nelle leggi three strikes attraverso criteri che solo apparentemente fanno riferimento al soggetto deviante e alle azioni che questi ha commesso; di fatto, prescindendo dalle circostanze in cui i comportamenti devianti sono stati tenuti e dalle loro motivazioni, i criteri previsti dalle leggi three strikes impongono di ignorare la personalità del reo. I fautori dei three strikes sostengono inoltre che queste leggi mirano a incapacitare un certo tipo di crimi93

nali in base a un ragionamento di tipo statistico, secondo il quale è probabile che chi ha commesso alcuni reati di un certo genere (strikes) ne commetta molti altri. I provvedimenti three strikes sono figli della nuova criminologia degli anni Ottanta e Novanta, e non a caso essi sono stati adottati in un lasso di tempo molto breve verso la metà degli anni Novanta, quando tale criminologia aveva ormai assunto una forma compiuta sul piano teorico e aveva da tempo riscosso il plauso di alcuni ambienti amministrativi. Come si è accennato, tuttavia, nelle disposizioni three strikes si rileva, accanto all’ispirazione tecnocratica, anche la presenza di elementi riconducibili a un’ideologia penale arcaica ed elementare; del resto, nel gioco del baseball, il battitore è escluso dal gioco perché ha sbagliato tre volte, senza che vi sia alcuna rilevazione statistica a segnalare la probabilità che sbagli di nuovo. Inoltre le leggi three strikes non hanno prodotto risultati significativi in termini di riduzione della criminalità, né sembrano aver tenuto fede alla promessa di un bilancio in attivo fra costi e benefici. La razionalità tecnica delle nuove pratiche penali appare allora come una retorica che consente di giustificare agli occhi degli operatori del diritto una severità penale tutt’altro che efficiente e moderna. Tuttavia questa retorica è in grado di produrre effetti rilevanti, di modificare la percezione stessa della penalità, di determinare il progressivo abbandono del linguaggio dei diritti a favore di un discorso manageriale e tecnocratico che consente la depoliticizzazione delle questioni penali. 3.9.1. Una politica contro il diritto I principi teorizzati dalla «nuova penologia» tendono a trasformare la concezione tradizionale della sfera penale, ponendosi in aperto contrasto con alcuni dei più importanti principi che caratterizzano il diritto penale liberale. Le nuove politiche penali tendono, ad esempio, a ignorare il principio di proporzionalità fra la gravità del fatto commesso e l’afflittività della sanzione penale e ad avallare una visione del controllo di polizia come controllo preventivo che si indirizza nei confronti di gruppi individuati sulla base della loro pericolosità sociale. Accettare una legislazione che viola apertamente questi principi significa ammettere che il sistema penale è in primo luogo un sistema di carattere amministrativo e che la tutela dei diritti individuali può essere subordinata agli obiettivi manageriali che l’amministrazione è chiamata a realizzare. Anche se non sortiscono effetti ecla94

tanti sul piano pratico, leggi come le three strikes producono dal momento stesso della loro promulgazione una trasformazione del discorso sulla penalità e sul controllo del crimine, contribuendo al successo di una nuova concezione del sistema penale. Non a caso i provvedimenti three strikes sono caratterizzati da una diffidenza profonda nei confronti degli operatori del diritto – in primo luogo dei giudici – e mirano alla soppressione della giurisprudenza. La sentenza è trasformata nel risultato di un elementare calcolo matematico, al pari delle decisioni legislative, che sono presentate come orientate da calcoli statistici. Il legislatore – nei three strikes come negli altri provvedimenti di mandatory sentencing – si arroga il compito del giudice impedendogli di soppesare il caso concreto. La pena non è più individualizzata e il criminale non è più considerato come un agente morale: questi viene percepito come una casella in una tavola statistica che prevede una serie di variabili. La sostituzione dell’attività interpretativa del giudice con un’attività di calcolo è conforme ai principi di efficienza ed economia del sistema penale che ispirano le nuove politiche penali. Tali principi sono presentati come politicamente neutrali: al sistema di valori consacrato dagli ordinamenti liberali le nuove politiche penali pretendono di sostituire una tecnologia neutra, priva di riferimenti valoriali. Nelle leggi three strikes la stessa adozione del linguaggio sportivo per designare i criminali rimanda a un processo retorico di depoliticizzazione della sfera penale. Dietro la neutralità e la pretesa scientificità della «nuova penologia» sembra tuttavia di poter cogliere – come si è già accennato – anche un ritorno a un discorso penale arcaico, fondato su un’idea della pena come vendetta sociale e della punizione come strumento di lotta nei confronti di una criminalità assunta a simbolo del «male». L’impressione è che la retorica funzionalistica della nuova criminologia s’intrecci con una retorica moraleggiante intesa a promuovere l’ordine come valore assoluto, e che entrambe queste retoriche contribuiscano a erodere la dottrina dei diritti soggettivi e a delegittimare il potere giudiziario. In entrambe le retoriche scompaiono i conflitti culturali, politici e sociali: razionalità tecnica e irrazionalismo primitivo sembrano convivere e rafforzarsi a vicenda. In conclusione, è difficile rinunciare a porre una domanda tanto provocatoria quanto importante: sebbene le leggi three strikes siano sostenute da un sapere criminologico che mira a conferire razionalità alle scelte operate dal legislatore e a rassicurare l’opinione pub95

blica circa la loro efficacia, i cittadini degli Stati Uniti accetterebbero la patente violazione dei principi cardine della penalità liberale che queste leggi producono se l’immagine che essi hanno del criminale nel mirino dei provvedimenti three strikes – del battitore che sbaglia il colpo – non fosse quella del giovane nero appartenente all’underclass?114

Capitolo 4

L’Europa penale fra passato e futuro

4.1. Verso un penitenziario europeo? La tendenza alla crescita della popolazione penitenziaria caratteristica degli Stati Uniti è presente anche in altri paesi occidentali e in particolare in molti paesi europei. Nella maggioranza dei paesi europei i tassi di carcerizzazione sono andati crescendo nel corso degli ultimi quindici anni, ma le cifre relative all’aumento del numero dei detenuti in Europa, pur essendo elevate, sono inferiori rispetto a quelle statunitensi1. Se di «boom penitenziario» si può parlare anche per l’Europa, esso è stato però più contenuto del boom statunitense. Mentre negli Stati Uniti la crescita percentuale della popolazione detenuta nel corso degli anni Novanta del Novecento è stata del 62 per cento, solo nella metà dei paesi europei occidentali si sono registrati incrementi superiori al 40 per cento2 e anche nella maggioranza dei paesi dell’Est le percentuali di crescita sono state più moderate di quella statunitense. Per quanto riguarda i trend di crescita della popolazione detenuta negli anni Novanta è difficile tracciare un quadro europeo unitario: il continente appare diviso in diverse aree geografiche all’interno delle quali sono riscontrabili dinamiche analoghe; se ne possono individuare in particolare tre. 1) L’Europa del Nord, nella quale l’aumento della popolazione penitenziaria negli anni Novanta è stato contenuto, raggiungendo al massimo il 19 per cento in Norvegia. Alcuni paesi scandinavi in particolare si confermano restii all’uso della carcerazione: significativi sono i dati della Svezia e della Finlandia, che hanno registrato, rispettivamente, un incremento nullo e una riduzione dei detenuti pari al 17 per cento nel corso degli anni Novanta3. 97

2) Il Regno Unito e l’Irlanda, dove la popolazione penitenziaria, già molto cresciuta nel corso degli anni Ottanta, è ulteriormente aumentata del 40 per cento4. 3) L’Europa meridionale, dove l’aumento registrato è stato per lo più superiore al 40 per cento5. Nel resto dei paesi europei non sembra possibile rinvenire un’omogeneità dei trend di crescita su basi geografiche: analogie sono riscontrabili ad esempio fra la situazione francese (+13 per cento) e quella austriaca (+12 per cento), ma Svizzera e Belgio hanno conosciuto un incremento maggiore (rispettivamente +27 e +24 per cento). La Germania, nota prima della riunificazione per essere un paese incline alla decarcerizzazione, ha conosciuto un aumento della popolazione penitenziaria pari al 40 per cento. Anche nei paesi dell’Europa dell’Est i dati mostrano situazioni molto differenziate: nella Repubblica ceca l’aumento dei detenuti negli anni Novanta è quasi un record mondiale (+282 per cento), mentre in Estonia l’aumento è stato appena del 3 per cento. L’incremento della popolazione detenuta è stato superiore al 60 per cento in Lituania e in Bulgaria, mentre i dati slovacchi ricordano quelli dei paesi dell’Europa del Sud. In Moldavia, Macedonia e Slovenia invece si sono registrate riduzioni del numero dei detenuti superiori a quella verificatasi in Finlandia6. Dalla fine degli anni Novanta a oggi la tendenza alla crescita della popolazione penitenziaria europea è stata confermata e in alcuni casi si è accentuata. Analizzando l’andamento della popolazione detenuta nei paesi membri del Consiglio d’Europa negli anni dal 1999 al 20037, emerge una flessione soltanto in alcuni paesi che sono entrati a far parte dell’Unione Europea nel 2004 – in particolare nella Repubblica ceca (–25,1 per cento), in Lettonia (–1,7 per cento) e in Lituania (–25,1 per cento)8 – e in alcuni paesi che sono attualmente candidati all’ingresso – ad esempio in Turchia (–14,8 per cento) e in Romania (–9,1 per cento). Una riduzione si è inoltre registrata in Svizzera (–18,6 per cento), ma nel 2003 la popolazione detenuta è tornata a crescere. In alcuni casi questi dati sembrano da collegare alle vicende storiche e politiche che hanno caratterizzato questi paesi – per i nuovi membri dell’Unione anche alla necessità di adeguarsi ai parametri europei9 –, mentre in altri sono collegati a una riduzione «fisiologica» conseguente alla crescita record degli anni precedenti. Con l’eccezione delle lievissime flessioni tedesca (–1,9 per cento) e danese (–0,9 per cento), dal 1999 al 2003 la popolazione peniten98

ziaria è aumentata in tutti gli altri paesi membri del Consiglio d’Europa, anche in quelli tradizionalmente inclini alla decarcerizzazione come la Svezia (+22,1 per cento), la Finlandia (+31 per cento)10 e i Paesi Bassi (+34,2 per cento). Al quadro disomogeneo che emerge dall’analisi dei trend di crescita della popolazione detenuta si contrappone la relativa uniformità dei tassi di detenzione registrati nei diversi paesi europei. Sulla base del tasso di detenzione registrato11, è possibile ricondurre i principali paesi europei a cinque diversi gruppi. Il gruppo maggioritario è quello dei paesi che presentano un tasso di detenzione fra i 50 e i 100 detenuti ogni 100.000 abitanti. A questo gruppo appartengono i paesi del Nord Europa, quelli dell’Europa continentale, Irlanda, Grecia, Italia12, la maggior parte delle repubbliche dell’ex Jugoslavia e l’Albania. Regno Unito, Spagna, Portogallo, Lussemburgo e Bulgaria fanno invece parte di un secondo gruppo – in crescita – di paesi nei quali il tasso di detenzione supera i 100 detenuti ogni 100.000 abitanti, ma resta al di sotto dei 150. Il terzo gruppo, nel quale il tasso di detenzione è fra 150 e 199, comprende alcuni paesi dell’Europa dell’Est come la Repubblica ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania. In Polonia e in Lituania il tasso di detenzione supera i 200 detenuti ogni 100.000 abitanti. Infine, un gruppo di repubbliche ex sovietiche (Estonia, Lettonia, Ucraina e Moldova) si caratterizza per un tasso di detenzione compreso fra i 300 e i 499 detenuti ogni 100.000 abitanti: più ci si sposta verso Est dunque, più aumentano i tassi di carcerizzazione13. I paesi dell’Europa occidentale e la maggioranza dei paesi membri dell’Unione Europea rientrano quindi nei primi due gruppi; il primo è ancora maggioritario, ma il secondo cresce di anno in anno. Una certa uniformità può inoltre essere riscontrata per quanto riguarda i principali paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione nel 200414. L’omogeneità dei tassi di detenzione nell’Unione Europea appare in alcuni casi come una conseguenza della crescita avvenuta negli ultimi anni, tanto da rendere credibile l’ipotesi che nei paesi membri dell’Unione vi sia stato un processo di uniformazione penitenziaria. Tale processo sembra aver determinato un incremento dei tassi di detenzione nei paesi che all’inizio degli anni Novanta avevano un numero esiguo di detenuti. I processi d’integrazione europea sembrano aver favorito finora un assestamento dei tassi di detenzione fra i 50 e i 100 detenuti ogni 100.000 abitanti ma, complessivamente, la popolazione detenuta in Europa è in aumento: i paesi eu99

ropei sono per lo più impegnati in una «corsa all’incarcerazione» più lenta di quella statunitense ma altrettanto irresistibile. Le radici di questo processo non sono evidenti: è credibile che esso sia da attribuire a fenomeni di carattere strutturale connessi al più generale processo di globalizzazione che tende a esportare in Europa il modello statunitense. Tuttavia, almeno in parte, l’aumento della popolazione penitenziaria in Europa può essere ricondotto a determinate politiche favorevoli all’incarcerazione adottate negli ultimi anni sia a livello nazionale, sia a livello comunitario. 4.2. Il «modello penitenziario europeo» Dopo la seconda guerra mondiale si affermò in quasi tutti i paesi democratici dell’Europa occidentale un modello penitenziario ispirato al principio secondo il quale la pena doveva avere una funzione rieducativa e mirare alla risocializzazione dei detenuti. Il sistema penitenziario diveniva così un’istituzione dello Stato sociale, la cui missione era di formare (o di ri-formare) dei «buoni cittadini». Michel Foucault15 ha tracciato la genealogia di questo modello carcerario, il cui consolidamento nel corso del Novecento s’iscrive nel più generale sviluppo delle «istituzioni disciplinari». Esso aveva una duplice ispirazione: da una parte, si presentava come un sistema penitenziario «umanitario» che, seguendo un orientamento sia cristiano, sia socialdemocratico, affrontava il problema della devianza come un problema di «mancata socializzazione». Dall’altra, il modello rieducativo aveva un’impronta paternalistica: considerava il deviante come l’oggetto di un «trattamento» finalizzato a correggerne le cattive inclinazioni e a trasformarlo in un individuo adulto, in grado di vivere secondo le regole di una società i cui valori non potevano essere messi in discussione. Questo modello penitenziario dalla metà degli anni Sessanta del Novecento fu sottoposto in Europa a critiche analoghe a quelle che investirono il sistema carcerario statunitense16. Come negli Stati Uniti, così in Europa i critici attaccarono in primo luogo il sistema rieducativo per il suo carattere paternalistico; le critiche dei conservatori, che intendevano imprimere ai sistemi penitenziari europei una svolta repressiva, si aggiunsero solo in un secondo momento. L’impressione è tuttavia che in Europa, nonostante l’affermarsi di nuovi orientamenti penologici (soprattutto nel Regno Unito e nei paesi più influenzati dalla cultura statunitense), le critiche al sistema 100

trattamentale non abbiano condotto a interventi di riforma paragonabili a quelli attuati negli Stati Uniti. Il principio rieducativo è stato nella maggioranza dei casi reinterpretato alla luce di una concezione pluralistica delle società europee, ma non è stato ufficialmente abbandonato. La connessione fra funzione rieducativa della pena e welfare State, stabilita dalle costituzioni postbelliche di molti Stati europei, aveva del resto già prodotto una trasformazione culturale: la risocializzazione era divenuta un «diritto di cittadinanza» del detenuto, una delle prestazioni che lo Stato era obbligato a fornire ai cittadini17. Nelle legislazioni e nelle culture penitenziarie europee, a partire dagli anni Settanta del Novecento, ha prevalso l’attenzione alla tutela dei diritti dei detenuti, all’apertura del carcere verso l’esterno, alla predisposizione di pene alternative alla detenzione. La filosofia trattamentale è stata mitigata – almeno nella teoria – da una nuova attenzione per i diritti dei detenuti e per il loro ruolo di soggetti attivi all’interno del sistema penitenziario: quest’attenzione, come si vedrà meglio più avanti18, ha trovato la sua consacrazione nelle European Prison Rules. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, in alcuni paesi19 è stata posta una nuova enfasi sulla funzione di difesa sociale svolta dalla pena detentiva; la detenzione come sanzione in sé è divenuta in alcuni casi un obiettivo del sistema penitenziario da affiancare al perseguimento della risocializzazione dei detenuti. In tutti i documenti europei si ritrova tuttavia la centralità della funzione rieducativa della pena rispetto agli altri obiettivi della politica penitenziaria. Ben diverso è stato il discorso dominante in campo penale: qui l’orientamento repressivo e l’insistenza sulla sicurezza hanno determinato il progressivo abbandono in tutta l’Europa di un approccio alla criminalità intesa come questione sociale, a favore dell’adozione di politiche ispirate al movimento law and order che hanno determinato l’aumento dei processi di carcerizzazione. È questa una delle ragioni per cui il «modello penitenziario europeo», orientato alla risocializzazione dei detenuti e sensibile alla tutela dei loro diritti, appare oggi come un modello teorico e giuridico al quale la realtà penitenziaria non assomiglia affatto. L’aumento dei processi di carcerizzazione, il sovraffollamento degli istituti di pena e la sovrarappresentazione dei migranti fra la popolazione detenuta hanno contribuito ad accelerare la crisi di questo modello. Le critiche al welfare State, diffusesi in Europa negli anni Ottanta del Novecento, hanno inoltre 101

favorito l’emergere di filosofie penali orientate alla neutralizzazione dei devianti. La trasformazione del sistema welfaristico ha coinvolto il «welfare penitenziario» – ovvero l’insieme dei servizi destinati ai detenuti – sottoponendolo a interventi di ridimensionamento; i tagli fiscali hanno colpito gli istituti di pena, nonostante l’aumento della popolazione penitenziaria, determinando l’inasprimento delle condizioni detentive. Sostenere questo non significa rimpiangere nostalgicamente il sistema penitenziario trattamentale e tuttavia l’ideologia rieducativa è stata spesso in Europa un’alleata della tutela dei diritti dei detenuti. La filosofia trattamentale è stata la principale retorica di legittimazione dell’istituzione penitenziaria fin dal suo sorgere. Il «trattamento penale» non ha mai prodotto i risultati promessi eppure, a partire dalla metà del Novecento, ha fornito agli operatori penitenziari un’utile indicazione: «se si deve punire il condannato, privandolo della sua libertà, che lo si faccia cercando di evitare la sua definitiva de-socializzazione». Come ha ricordato Luciano Eusebi, oggi l’orientamento alla risocializzazione non esige tanto una pena che (terapeuticamente) risocializzi, quanto che l’intervento punitivo, da un lato, implichi il minor sacrificio dei diritti essenziali all’inserimento sociale di ciascun individuo e, dall’altro, assuma preferibilmente modalità significative sotto il profilo dei valori di solidarietà sociale20.

La sostituzione della concezione rieducativa della pena con una filosofia secondo la quale la pena deve avere una funzione incapacitante e retributiva non può che determinare un peggioramento delle condizioni di vita nei penitenziari. La crisi del sistema trattamentale europeo non ha infatti condotto a una sfiducia verso l’istituzione penitenziaria e a politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione: essa si è accompagnata, al contrario, al consolidamento del primato del carcere come strumento di controllo penale, secondo la tendenza affermatasi negli Stati Uniti. Nel corso degli anni Novanta del Novecento, alle dinamiche fin qui osservate si è affiancato il lento ma costante processo di comunitarizzazione delle politiche penali. La costruzione dell’Unione Europea ha determinato – come si è visto anche per l’andamento dei tassi di detenzione – la progressiva armonizzazione degli orientamenti di politica penale e penitenziaria nei paesi membri. Le decisioni assunte a livello comunitario influenzano le politiche peniten102

ziarie nazionali ed è probabile che questo fenomeno si accentui nei prossimi decenni poiché l’Unione Europea può intervenire nel settore penitenziario sia direttamente, sia attraverso le politiche adottate in campo penale e migratorio. L’Unione può scegliere di difendere il «modello penitenziario europeo», favorendo il passaggio da politiche ispirate all’ideologia trattamentale a politiche orientate alla decarcerizzazione, oppure può incoraggiare l’abbandono di questo modello a favore di politiche penitenziarie fondate su una concezione retributiva e incapacitante della pena. Il modello giuridico che l’Unione promuove sembra andare nella prima direzione: benché la Carta dei diritti dell’Unione Europea non contenga una disposizione che stabilisce la funzione rieducativa della pena21, il quadro normativo europeo in materia penitenziaria sottende un modello carcerario orientato alla risocializzazione dei condannati e all’apertura del carcere verso l’esterno. Tale modello emerge ad esempio dalle raccomandazioni del Parlamento europeo, dalle decisioni della Corte europea dei diritti umani, dai rapporti del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti istituito in seno al Consiglio d’Europa e dalle European Prison Rules – gli standard minimi europei – adottate dal Consiglio d’Europa22. Alle posizioni espresse da queste istituzioni debbono inoltre aggiungersi alcune tendenze presenti nelle legislazioni nazionali e alcuni indirizzi dottrinali e scientifici che informano la cultura penitenziaria di molti paesi europei. Ciononostante, l’orientamento attuale delle politiche migratorie e delle politiche di contrasto al terrorismo messe in atto sia a livello comunitario, che a livello nazionale sembra condurre a una trasformazione delle istituzioni penitenziarie europee nella seconda direzione e favorire la diffusione di politiche penali «dure» e l’aumento dei processi di carcerizzazione. 4.2.1. Il richiamo ai diritti fondamentali Il richiamo al riconoscimento e alla tutela dei diritti fondamentali è un elemento costante dei documenti dell’Unione Europea. Anche prescindendo dall’incerto riferimento alla Carta dei diritti fondamentali, i trattati e i documenti normativi e politici dell’Unione rimandano generalmente, oltre che alle convenzioni delle Nazioni Unite, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. In particolare, l’art. 6 del Trattato UE, così come è stato modificato dal Trattato di Amsterdam, dopo aver affermato 103

che «l’Unione si fonda sui principi di libertà, di democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri» (art. 6.1), dichiara che «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario» (art. 6.2). Il successivo art. 7 prevede inoltre un meccanismo di sanzione laddove esista «un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di uno o più principi di cui all’articolo 6 paragrafo 1». Il meccanismo sanzionatorio, che può essere attivato dal Consiglio su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione, può condurre alla sospensione di alcuni dei diritti di cui lo Stato gode in base al Trattato dell’Unione. Questo meccanismo rafforza il richiamo alla tutela dei diritti fondamentali da parte degli Stati membri oltre che delle istituzioni comunitarie. Tale tutela è stata incoraggiata, oltre che dall’approvazione della Carta dei diritti fondamentali, dai numerosi tentativi che le istituzioni comunitarie e, in particolare, il Parlamento europeo hanno compiuto per integrare il diritto comunitario con il complesso di norme e di principi elaborati nell’ambito del Consiglio d’Europa. Si tratta non solo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali23, ma anche della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e – per quanto concerne più specificamente il sistema penitenziario – delle Regole minime europee in materia penitenziaria. Il Parlamento europeo ha espresso in più occasioni posizioni molto critiche nei confronti sia degli Stati membri, sia dell’Unione, ravvisando in molti casi una tutela insufficiente dei diritti dei detenuti, e delle persone recluse in genere, e raccomandando l’adozione di criteri più rigorosi di controllo dell’operato delle forze di polizia. I richiami del Parlamento europeo non sono stati meramente formali: il Parlamento ha inteso raccomandare agli Stati membri l’adozione di specifiche misure di tutela dei diritti fondamentali, delineando in alcuni casi gli interventi legislativi e amministrativi che gli Stati dovrebbero realizzare. In particolare, in occasione della stesura della Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali dell’Unione Europea 104

nel 2000 (A5-0223/2001), il Parlamento europeo ha dedicato una sezione apposita alla proibizione dei trattamenti inumani o degradanti. In tale sezione esso non si è limitato a invitare alcuni Stati a ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura o a ottemperare ad alcuni obblighi previsti da tale convenzione, ma ha suggerito agli Stati i risultati da conseguire. Più specificamente, per quanto riguarda le forze di polizia, il Parlamento ha invitato gli Stati membri a perseguire i seguenti obiettivi: l’adozione di politiche di formazione e di diversificazione del personale di polizia e lo scambio delle prassi migliori su scala europea (punto 21); la predisposizione della possibilità per le persone arrestate e detenute nelle sedi di polizia di conferire con un legale, di usufruire di assistenza medica e di un interprete se necessario (punto 22); l’istituzione di autorità indipendenti con poteri di inchiesta sulle attività di polizia. Per quanto riguarda le carceri, il Parlamento europeo si è preoccupato delle condizioni di vita dei detenuti e ha ribadito «l’obiettivo prioritario del reinserimento» (punto 24). Esso ha inoltre invitato gli Stati a migliorare la formazione del personale dei penitenziari e a tutelare specifiche categorie vulnerabili di popolazione carceraria, fra cui i tossicodipendenti, ai quali il Parlamento raccomanda che sia garantita la possibilità di partecipare a programmi non coattivi di disintossicazione e cura (punto 28). Le raccomandazioni relative alle carceri contenute nella Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea nel 2000 convergono nel delineare un «modello penitenziario europeo» garantista non solo per quanto riguarda le condizioni di vita in carcere, ma anche per quanto riguarda il ricorso alla pena detentiva. Il Parlamento raccomanda infatti: «la ricerca e la messa in atto di pene alternative alle pene di detenzione brevi ogni volta che ciò sia possibile» (punto 25); «la riduzione al minimo del periodo di detenzione preventiva e l’imposizione di restrizioni per quanto riguarda il ricorso alla segregazione cellulare» (punto 26); «l’attuazione di regimi di pene amministrative e/o pecuniarie per i delitti minori, promuovendo pene di sostituzione come il lavoro di interesse pubblico, sviluppando, per quanto possibile i regimi delle prigioni aperte o semiaperte e ricorrendo ai permessi condizionati» (punto 27). In questo quadro, il richiamo alla collaborazione fra gli Stati e allo scambio d’informazioni per la promozione a livello europeo delle prassi migliori elaborate nelle istituzioni penitenziarie dell’Unione Europea (punto 30) deve essere interpretato come un invito alla 105

promozione di un modello garantista: le prassi in uso nei diversi sistemi penitenziari nazionali devono essere valutate non dal punto di vista della loro efficienza o del rapporto fra costi e benefici, ma dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e della realizzazione di un modello carcerario aperto, nel quale la segregazione rappresenti un’extrema ratio cui ricorrere solo qualora non sia possibile comminare una pena meno afflittiva e dalla quale preservare il più possibile i soggetti più deboli (i minori, le donne incinte e le madri, i malati mentali, i portatori di handicap, i tossicodipendenti). La Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea nel 200124 sembra conferire un ulteriore impulso all’armonizzazione dei sistemi penitenziari e delle garanzie penali previste nei diversi paesi europei. In particolare il Parlamento mostra di riporre fiducia nella trasformazione della Carta dei diritti dell’Unione Europea in un elenco di diritti giuridicamente vincolanti, richiamandone esplicitamente il divieto della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti contenuto nell’art. 4. La risoluzione del 2001 appare ancora più decisa di quella del 2000 nel condannare gli abusi commessi dalle forze di polizia all’interno dei penitenziari e nei commissariati e nel lamentare la carenza delle investigazioni relative agli abusi e ai decessi di persone detenute o fermate. Il modello penitenziario che emerge da questa risoluzione è identico a quello presente nella risoluzione precedente sia per quanto concerne l’invito a incentivare il ricorso a pene alternative alla detenzione, sia per quanto concerne la centralità affidata alle misure di risocializzazione dei condannati. La risoluzione relativa al 2001 estende inoltre la tutela che dev’essere garantita nei penitenziari ai centri di accoglienza per i richiedenti asilo, raccomandando che la detenzione in questi centri sia limitata al minimo e che sia evitata in ogni modo la detenzione di bambini25. La posizione del Parlamento europeo in materia di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti è andata consolidandosi nel corso degli anni: ne sono prova le stringenti raccomandazioni che il Parlamento ha voluto introdurre nella Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea nel 2002, approvata il 4 settembre 200326. Tali raccomandazioni s’inseriscono in una risoluzione che tenta di rafforzare il più possibile il ruolo attribuito al Parlamento nella tutela dei diritti fondamentali, attraverso una serie di ulteriori raccomandazioni: l’auspicio che la Carta dei diritti fondamen106

tali dell’Unione Europea sia integrata nella Costituzione europea; la proposta di realizzare una sinergia fra i diversi strumenti di monitoraggio e di tutela dei diritti di cui dispongono le diverse istituzioni comunitarie; il potenziamento del ruolo del relatore annuale del Parlamento europeo sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea; la pubblicazione costante dei risultati ottenuti dalle istituzioni comunitarie in materia di tutela dei diritti; la predisposizione di un calendario che preveda le diverse azioni che le istituzioni europee intendono annualmente intraprendere nel settore della salvaguardia dei diritti fondamentali. La risoluzione relativa al 2002 non ha mancato di rilevare che in molti paesi membri si sono verificati regressi nella tutela dei diritti. Tali regressi sono collegati alle misure adottate sia a livello comunitario, sia a livello nazionale per condurre la lotta al terrorismo. Non a caso il Parlamento si preoccupa di ricordare che «essendo il terrorismo volto innanzitutto a destabilizzare lo Stato di diritto, le politiche di prevenzione e di repressione del terrorismo devono in primo luogo mirare al mantenimento e al rafforzamento dello Stato di diritto» (punto 11). Nella risoluzione il Parlamento torna ripetutamente a raccomandare il rispetto dei principi dello Stato di diritto nella lotta al terrorismo e non manca di esprimere la propria preoccupazione per le conseguenze della cooperazione internazionale con gli Stati Uniti, che applicano norme diverse e meno elevate rispetto a quelle dell’Unione Europea, sia che si tratti della trasmissione di dati di carattere personale richiesti dalle compagnie aeree o da Europol27 sia che si tratti della sorte di cittadini comunitari detenuti nella base di Guantanamo (punto 14).

Per quanto concerne più specificamente i sistemi penitenziari europei, il Parlamento osserva che la situazione dei detenuti nell’Unione Europea si è deteriorata nel corso del 2002 soprattutto a causa del sovraffollamento carcerario, che è indicato come «elemento generatore di tensione fra detenuti e guardiani, di violenza fra detenuti, di una carenza di sorveglianza (aumento del numero di suicidi o di tentativi di suicidio) e di numerosi ostacoli a ogni misura di reinserimento sociale» (19). La soluzione al problema del sovraffollamento è indicata non nella costruzione di nuove carceri, ma nella riduzione del ricorso alle pene detentive e nella rigorosa applicazione del principio di risocializzazione in base al quale la detenzione cessa di essere 107

giustificata qualora il detenuto mostri di essere in grado di tornare a inserirsi nella società. Per questo il Parlamento invita sia gli Stati membri sia l’Unione a monitorare l’«effettiva legittimità del protrarsi della detenzione dei detenuti il cui vissuto carcerario e la cui attività civile e sociale, successiva al compimento dei reati loro ascritti, dimostrino compiuta la funzione della detenzione quale strumento di recupero e di positiva reintegrazione sociale» (punto 19). Sempre in tema di reinserimento, la risoluzione procede addebitando alla mancanza di politiche d’integrazione degli immigrati e all’adozione di politiche repressive l’aumento di cittadini stranieri e di tossicodipendenti tra la popolazione carceraria e ribadendo l’urgenza di adottare specifiche misure di depenalizzazione e di tutela dei diritti dei detenuti (punti 19 e 20). 4.2.2. Le «European Prison Rules» Nei documenti del Parlamento europeo vi è un tentativo ripetuto di integrare la normativa comunitaria con le regole stabilite dal Consiglio d’Europa in materia di salvaguardia dei diritti fondamentali e di proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Fra queste sono particolarmente importanti, ai fini dell’individuazione di un «modello penitenziario europeo», le European Prison Rules, adottate dal Consiglio d’Europa nel 1987. Si tratta di una serie di standard minimi ai quali gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono chiamati ad attenersi nell’amministrazione degli istituti di pena. Pur non avendo valore vincolante sul piano giuridico, a meno che non siano state recepite dalle legislazioni nazionali, queste regole sono un importante codice di principi in grado di influenzare le politiche penitenziarie degli Stati che le hanno sottoscritte. Esse impongono agli Stati un’obbligazione politica e consentono di esercitare una sanzione morale sulle autorità nazionali incaricate di garantirne il rispetto. Le European Prison Rules hanno origine dalla concertazione fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa e non sono in grado di imporsi direttamente alle legislazioni nazionali, né possono istituire diritti in capo ai detenuti. Benché non possano fondare un ricorso giudiziario, esse possono tuttavia considerarsi come il codice più avanzato in campo penitenziario che sia mai stato sottoscritto a livello internazionale: vi si richiamano numerose convenzioni e accordi internazionali che riguardano specifici ambiti dell’attività penitenziaria. Inoltre, un orientamento che è andato progressivamente formandosi in seno al Direttorato generale per i diritti dell’uomo ha sostenu108

to che, benché la Corte europea dei diritti dell’uomo possa pronunciarsi sulle condizioni di detenzione solo qualora siano state violate le norme contenute nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo, esiste ormai un «codice virtuale per il trattamento dei detenuti»28 rappresentato dalle European Prison Rules. Se dunque è dalla Società delle Nazioni e poi dalle Nazioni Unite che sono stati elaborati e adottati i primi documenti relativi alla tutela dei diritti dei detenuti29, il Consiglio d’Europa ha conferito, con la stesura e l’adozione delle European Prison Rules, un valore di maggiore cogenza agli standard minimi di detenzione nei paesi europei. Il processo che ha portato all’adozione delle European Prison Rules ha tenuto conto delle precedenti esperienze condotte a livello internazionale: il Consiglio d’Europa non solo ha inteso stilare un corpus di regole adeguato alla civiltà giuridica europea, ma si è anche proposto di recepire le riflessioni teoriche più avanzate in materia di trattamento dei detenuti. Una prima versione delle Regole minime per il trattamento dei detenuti fu adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 1973; essa obbligava gli Stati membri a riferire al segretario generale ogni cinque anni sui progressi fatti nella promozione del rispetto di tali regole in ambito nazionale. Nel 1978 gli Stati, nel rendere conto dell’attuazione delle regole adottate cinque anni prima, rilevarono l’inadeguatezza di tale codice di fronte alle evoluzioni avvenute nel panorama penitenziario europeo. Si giunse così all’istituzione di un comitato incaricato di stendere un nuovo testo che fu definitivamente adottato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 1987. La procedura impiegata per la revisione degli standard minimi europei permise di tener conto dei risultati ottenuti dai singoli Stati nella promozione del rispetto degli standard adottati nel 1973, nonché delle pratiche professionali e della letteratura scientifica più aggiornata30. Kenneth Neale, che era il presidente del Comitato europeo per la cooperazione in materia penitenziaria negli anni in cui furono elaborate le European Prison Rules, sostiene che il comitato che stilò le Regole minime si preoccupò sia di recepire le precedenti esperienze e i principali saperi scientifici e professionali in materia (tenendo conto anche dei cambiamenti economici e sociali che erano in corso nelle società europee), sia di fornire alle European Prison Rules una chiara base filosofica, operando una scelta decisa in favore della concezione rieducativa della pena31. Tre possono considerarsi i presup109

posti filosofici posti a fondamento delle European Prison Rules32: 1) la detenzione, attraverso la privazione della libertà, è di per sé una pena e gli ordinamenti penitenziari non devono contenere disposizioni che aggravino la sofferenza dei detenuti33; 2) i sistemi penitenziari devono essere principalmente orientati alla rieducazione e alla risocializzazione del reo34; 3) l’amministrazione penitenziaria deve rispettare i diritti fondamentali degli individui e la dignità umana dei detenuti35. Un altro elemento interessante delle European Prison Rules è che esse individuano sin dal Preambolo i soggetti ai quali intendono rivolgersi: i responsabili delle politiche penitenziarie a livello statale, l’amministrazione penitenziaria e gli operatori carcerari. L’indicazione esplicita dei destinatari è indice della volontà degli estensori delle European Prison Rules di definire un corpus di regole a fini operativi e non una mera dichiarazione di principi. Essa tuttavia è anche l’espressione della cultura penitenziaria e giuridica sviluppatasi negli anni in cui le maggiori carceri europee avevano conosciuto una rivoluzione nell’amministrazione penitenziaria: la professionalizzazione del personale in servizio nelle carceri e la creazione di nuove figure professionali non appartenenti alla polizia penitenziaria e specificamente incaricate del trattamento dei detenuti. Le European Prison Rules fissano un punto di non ritorno nell’evoluzione dei sistemi penitenziari europei, proprio negli anni in cui questi avevano subito riforme innovative. Le regole, benché intendano stabilire dei «criteri realistici»36 con i quali le amministrazioni penitenziarie possano confrontarsi, manifestano il chiaro intento di promuovere «il progresso verso standard ancora più elevati»37. Per questo esse ribadiscono alcuni dei principi che hanno ispirato la cultura penale e penitenziaria europea, quali: il rispetto dei diritti individuali dei detenuti e la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria per la loro tutela, il rispetto dei diritti di difesa, il divieto assoluto di sanzioni collettive, delle pene corporali, della segregazione in celle buie e di punizioni crudeli, inumane o degradanti, il principio della detenzione in celle individuali, la necessità di stabilire un regime a parte per i minori, l’esigenza di provvedere a regolari ispezioni nei penitenziari, l’opportunità di procedere a un’adeguata classificazione dei detenuti ecc. Le regole presentano aspetti innovativi per quanto riguarda le condizioni di detenzione e il diritto alla salute dei detenuti e sottolineano l’esigenza di promuovere l’apertura delle carceri al mondo esterno. Le European Prison Rules affermano 110

quindi non solo una concezione rieducativa della pena, ma anche il principio di un penitenziario «aperto», nel quale i detenuti possano comunicare con i familiari e abbiano accesso alle informazioni e alla cultura38. Le European Prison Rules disciplinano in modo dettagliato il trattamento dei detenuti, stabilendo che esso dev’essere individualizzato e assumendo implicitamente un’ampia definizione di «trattamento», che include ogni misura utile a mantenere o a stabilire la salute fisica e mentale dei detenuti, a promuovere il loro reinserimento sociale e a migliorare le condizioni di detenzione39. Inoltre, le regole tengono conto degli effetti di «prigionizzazione» che il carcere ha sui detenuti e si preoccupano di incoraggiare l’adozione delle misure necessarie a «minimizzare gli effetti nocivi della detenzione e le differenze fra la vita carceraria e la vita libera che tendono a indebolire il rispetto dei detenuti per se stessi e il loro senso di responsabilità personale»40. Esse considerano infine che «la preparazione del detenuto al rilascio deve iniziare appena possibile dopo l’ingresso in un istituto di pena. Il trattamento deve pertanto porre l’accento non sull’esclusione dei detenuti dalla comunità, ma sul fatto che essi continuano a farne parte»41. 4.2.3. Il ruolo del Comitato per la prevenzione della tortura Le European Prison Rules, come si è detto, non sono cogenti sul piano giuridico. Esse tuttavia sono state rafforzate dalla pratica del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) istituito dal Consiglio d’Europa che, seppure informalmente, le ha adottate come criteri in base ai quali misurare il rispetto del divieto della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti nelle istituzioni detentive dei paesi membri. Il CPT, com’è noto, è stato istituito dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti42 adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 1987, stesso anno in cui vennero approvate le European Prison Rules. Secondo tale convenzione è compito del CPT esaminare, attraverso un sistema di visite, il trattamento delle persone private della libertà in base a un atto della pubblica autorità, che siano trattenute nelle istituzioni pubbliche e private degli Stati aderenti alla convenzione, allo scopo di rafforzare la protezione di tali persone. Il CPT affianca quindi la Corte europea dei diritti umani al fine di rafforzare la tutela dei diritti, che tale organismo assicura a livello in111

dividuale, attraverso uno strumento di pressione politica sugli Stati. Le visite e i mezzi di persuasione utilizzati dal CPT43 intendono inoltre assicurare una tutela preventiva dei detenuti nei confronti della tortura e dei trattamenti o delle pene inumane o degradanti, mentre la Corte interviene a sanzionare le violazioni già avvenute. Ciò consente al CPT non solo di denunciare condizioni detentive inaccettabili, ma anche – come ha scritto Antonio Cassese che lo ha presieduto dal 1989 al 1993 – d’«identificare situazioni che sono al limite fra l’accettabile e l’inaccettabile, che sono in una zona per così dire crepuscolare, perché potrebbero degenerare in condizioni o trattamenti disumani»44. Il Comitato ha sempre utilizzato al massimo le proprie facoltà, adottando implicitamente una nozione molto ampia di «trattamento inumano o degradante» alla quale è giunto attraverso la definizione su basi pragmatiche di alcuni criteri45. In questo quadro si è imposto ufficiosamente il riferimento alle European Prison Rules che sono menzionate in molti dei rapporti del CPT. La sinergia fra la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e le European Prison Rules, rafforzata dal controllo del CPT, dà vita a livello europeo a un sistema di tutela dei diritti dei detenuti, che non si limita a denunciare i più gravi abusi ma promuove l’adozione di un «modello penitenziario europeo» avanzato e attento ai diversi aspetti che caratterizzano l’esperienza carceraria. Attraverso la lettura dei rapporti stilati dal CPT è possibile rintracciare gli elementi principali di tale modello, fra i quali vi è l’opzione per la detenzione cellulare. Le European Prison Rules prevedono che i detenuti siano reclusi durante la notte in celle individuali. L’esigenza di porre fine alla pratica dei dormitori è richiamata dal CPT in molti dei suoi rapporti46. Inoltre, il «modello europeo» appare, come si è ricordato, inscindibilmente connesso alla concezione rieducativa della pena. Il CPT, oltre a interessarsi delle condizioni materiali di detenzione, ha insistito in ogni sua visita sull’importanza delle attività finalizzate al reinserimento dei condannati: il lavoro, l’educazione, la cultura, lo sport ecc. Esso ha inoltre posto l’accento, in conformità con le regole europee, sulla necessità che sia consentito ai detenuti svolgere attività all’aria aperta. Un altro elemento caratterizzante il «sistema europeo» è il rifiuto dell’isolamento come strumento ordinario di detenzione: in particolare il CPT si è mostrato contrario al proliferare di unità di massima sicurezza e ha sempre richiamato gli Stati a limitare la deten112

zione in questo tipo di sezioni allo stretto necessario. Come l’isolamento, così l’ergastolo è considerato dalle istituzioni europee incaricate della tutela dei diritti umani come una misura eccezionale, proprio perché estranea alla finalità rieducativa della pena. Tratto caratterizzante del «modello europeo» è anche l’attenzione riservata alla formazione del personale penitenziario. Più specificamente il CPT, in linea con le European Prison Rules, richiama gli Stati alla necessità di promuovere una cultura professionale adeguata alla funzione risocializzante del penitenziario; chiara appare l’opzione per un personale penitenziario non appartenente a corpi di polizia e specificamente formato per operare nelle carceri. Infine, sia dai rapporti del Comitato, sia dalle European Prison Rules emerge la consapevolezza della speciale attenzione che deve essere riservata a particolari categorie di detenuti, primi fra tutti gli stranieri e i tossicodipendenti. Questi sono dunque i tratti principali del «modello europeo» così come emerge dalle direzioni impartite dagli organi del Consiglio d’Europa. Tuttavia, in questi anni il CPT ha inteso orientare le politiche penitenziarie europee non solo verso l’attuazione del modello penitenziario appena descritto, ma anche verso l’adozione di specifiche soluzioni a due dei principali problemi del sistema penitenziario europeo: l’aumento dei processi di carcerizzazione e il sovraffollamento che ne consegue. Il Comitato ha costantemente invitato gli Stati membri a porre fine al sovraffollamento che caratterizza i principali penitenziari europei, considerato come il principale fattore di crisi del sistema carcerario europeo: in un carcere sovraffollato non è possibile mantenere buone condizioni detentive, né svolgere le attività rieducative che dovrebbero costituire il fulcro della vita carceraria. Il CPT è spesso giunto a considerare il sovraffollamento come un «trattamento inumano o degradante» in sé. Un tale orientamento è stato confermato anche dalla Corte europea dei diritti umani che in una sentenza del 2002 ha affermato che: benché non vi fosse indizio della presenza di una precisa intenzione di umiliare o di degradare il ricorrente, le sue condizioni di detenzione, in particolare l’ambiente sovraffollato e insano e gli effetti nocivi di questo sulla sua salute e sul suo benessere, combinati con la lunghezza del periodo durante il quale egli è stato detenuto in tali condizioni, equivaleva a trattamento degradante47. 113

L’attenzione al problema del sovraffollamento ha indotto il CPT a suggerire una precisa strategia agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Il Comitato ha più volte espresso la sua contrarietà alla costruzione di nuove carceri e la sua preferenza per una politica di decarcerizzazione che conduca alla riduzione del numero di ingressi in carcere48. Indirettamente quindi il Consiglio d’Europa auspica una correzione non solo delle politiche penitenziarie europee, ma anche delle politiche penali. In sintesi, dai documenti e dall’attività del Consiglio d’Europa e delle altre istituzioni europee che si occupano della tutela dei diritti fondamentali emerge un «modello penitenziario europeo» improntato alla tutela dei diritti umani, ispirato alla concezione rieducativa della pena, attento all’esigenza di assicurare il controllo delle istituzioni carcerarie e l’interazione fra carcere e società civile. Emerge inoltre un orientamento di politica penale ispirato alla decarcerizzazione, indirizzato a privilegiare strumenti penali diversi dalla detenzione, considerata come un’extrema ratio, come una misura eccezionale alla quale porre fine non appena il condannato sia in grado di reinserirsi nella società. Si tratta di un modello avanzato, consapevole dello stretto legame che esiste fra penitenziario e politiche penali. Il modello delineato ha inoltre il merito di non essere un modello teorico astratto, ma di rappresentare la sintesi delle migliori esperienze europee in campo penitenziario, di essere il risultato di una cultura penitenziaria elaborata nelle istituzioni carcerarie, nelle amministrazioni e nelle società europee. Di tale modello oggi non si può tuttavia non constatare la crisi, crisi che, nella gran parte dei paesi europei, appare motivata, oltre che dalle dinamiche strutturali legate al declino dello Stato sociale, dalle scelte attuate in campo penale. Contrariamente a quanto rilevato a proposito degli Stati Uniti, non appare invece che vi sia un deliberato intento delle istituzioni europee, sia a livello nazionale, sia a livello comunitario, di abbandonare il modello trattamentale. Molte politiche europee appaiono segnate da «strabismo»: da una parte, molti Stati si sono impegnati a migliorare le condizioni di detenzione49, dall’altra, in quasi tutta l’Europa si è assistito all’adozione di politiche penali che hanno finito per criminalizzare intere fasce sociali e, in particolare, i migranti. Anche nei casi in cui i governi europei hanno operato per il miglioramento dei sistemi penitenziari nazionali, la separazione fra politiche penali e politiche penitenziarie ha mantenuto inalterata la centralità della pena detentiva e ha impedito che le riforme legislative 114

attuate in campo penitenziario si traducessero in un effettivo miglioramento delle condizioni di detenzione. 4.3. La durata della detenzione La contraddizione fra politiche penitenziarie e politiche penali è un tratto comune a molti paesi europei. Vincenzo Ruggiero, nel ripercorrere la storia del sistema penitenziario italiano, ha messo in luce come attraverso la costruzione di una serie di «emergenze» e di «allarmi» la centralità del carcere sia stata rilanciata di decennio in decennio, nonostante le riforme orientate alla decarcerizzazione che hanno interessato il settore penitenziario; secondo Ruggiero «senza queste emergenze, il sistema penale nel suo complesso avrebbe perso parte della sua funzione simbolica»50. L’identificazione di specifici gruppi di criminali come particolarmente pericolosi e il conseguente sviluppo di legislazioni e di politiche giudiziarie volte alla loro incapacitazione hanno consentito al sistema penitenziario di mantenere un ruolo centrale fra gli strumenti di controllo penale, non solo in Italia, ma anche negli altri paesi europei. La domanda di sicurezza è stata costantemente alimentata. Ruggiero, nell’analizzare le politiche penali italiane dagli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta del Novecento, sostiene che le categorie identificate sono state, rispettivamente: i rapinatori negli anni Sessanta, i terroristi negli anni Settanta, i tossicodipendenti e gli spacciatori negli anni Ottanta, i mafiosi fra gli anni Ottanta e Novanta e, infine, i politici corrotti nel corso di «mani pulite» nei primi anni Novanta. A quest’elenco si potrebbero aggiungere: i migranti negli anni Novanta-Duemila e gli integralisti islamici nella fase attuale. Al di là di alcuni gruppi tipicamente italiani (i mafiosi e i politici corrotti in particolare), le categorie individuate possono essere riferite ai principali paesi europei occidentali. In ognuno dei periodi storici considerati, l’individuazione di specifiche classi di criminali come bersagli delle politiche penali ha condotto a una più generale criminalizzazione della popolazione. Fatta eccezione per i migranti e per i tossicodipendenti, i gruppi criminali oggetto della repressione penale non hanno contribuito in modo decisivo all’incremento della detenzione. L’inasprimento delle politiche penali e di polizia ha determinato un aumento delle condanne e della durata delle pene inflitte per tutti i tipi di reato. In questo quadro, le politiche di decarcerizzazione attuate in alcuni paesi ap115

paiono più come una risposta obbligata delle istituzioni al problema del sovraffollamento generato dall’aumento della popolazione carceraria che non come una scelta consapevole di politica penale e penitenziaria. Una delle variabili che hanno influenzato l’incremento del numero dei detenuti in Europa a partire dagli anni Ottanta del Novecento è stata l’aumento delle condanne a pene detentive di lunga durata. Il fenomeno ha assunto un rilievo tale che nel 2001, al termine della XXIV Conferenza dei ministri della Giustizia dei paesi membri del Consiglio d’Europa51, è stata adottata una risoluzione sull’applicazione delle condanne di lunga durata, nella quale s’invitavano gli Stati membri a prendere provvedimenti per limitare il ricorso a questo genere di pene, considerate fra le principali cause del sovraffollamento penitenziario e della scarsa tutela dei diritti dei reclusi. Nel rapporto presentato in quell’occasione dal ministro della Giustizia russo si sosteneva che l’aumento delle condanne a pene detentive lunghe registrato in molti paesi europei era attribuibile, da una parte, all’abolizione della pena di morte, ma dall’altra a un mutamento nella pratica dei tribunali penali. Nel 2000 in più di metà dei paesi membri del Consiglio d’Europa i detenuti che scontavano pene superiori ai 5 anni di carcere superavano il 40 per cento del totale52. All’aumento delle condanne a pene detentive lunghe si è spesso accompagnato un più generale incremento delle condanne alla pena detentiva; contemporaneamente è aumentata anche la durata effettiva della pena scontata in carcere. Considerando sia i dati relativi alla lunghezza delle pene inflitte, sia quelli relativi alla durata delle pene effettivamente scontate in alcuni paesi europei, l’opzione a favore della detenzione appare chiaramente caratterizzare i sistemi penali europei contemporanei. In Belgio, ad esempio, l’aumento delle condanne a pene detentive lunghe verificatosi dagli anni Ottanta ha favorito la crescita della popolazione detenuta; nel 2001 la metà dei detenuti era condannata a pene detentive superiori ai 5 anni53. Nei Paesi Bassi, dal 1975 al 1992, la durata media della pena detentiva scontata è passata da 33 a 152 giorni54. Il numero di detenuti che scontavano una pena alla detenzione superiore ai 4 anni è aumentato nove volte dal 1982 al 199255. Nel corso degli anni Novanta e nei primi anni Duemila questo dato si è stabilizzato, fatta eccezione per il numero dei detenuti condannati a più di 12 anni di car116

cere che è andato aumentando (erano il 2,6 per cento del totale nel 1997, mentre nel 2002 erano divenuti il 4,2 per cento)56. Il rilevante aumento della popolazione carceraria olandese dagli anni Ottanta è dunque attribuibile alla severità delle pene detentive, all’aumento dei provvedimenti di custodia cautelare e all’aumento dei detenuti stranieri. La maggiore severità delle pene, in particolare, appare collegata al mutamento di politica penale prodottosi a partire dagli anni Ottanta. Nei Paesi Bassi, a lungo noti per l’orientamento favorevole alla decarcerizzazione e alla depenalizzazione, si è affermato negli ultimi due decenni un progetto di riforma finalizzato all’aumento del ricorso alla pena detentiva e alla costruzione di nuovi istituti di reclusione. Il progetto di nieuwe inrichting («nuova prigione») ha posto fra i suoi obiettivi la crescita della popolazione penitenziaria, rivendicata come un indice dell’aumento della sicurezza57. Nel Regno Unito l’aumento della durata delle pene detentive è stato costante dalla metà degli anni Sessanta in poi: nel 1965 i detenuti maschi che scontavano pene superiori ai 4 anni erano l’11 per cento, mentre nel 2000 erano diventati il 41 per cento58. I detenuti (uomini, donne e minori) che scontavano una pena superiore ai 4 anni nel 2002 erano il 48 per cento del totale59. Il numero delle condanne alla detenzione e la durata media delle pene inflitte sono aumentati contemporaneamente. Secondo l’Home Office, i principali fattori che influenzano la crescita della popolazione penitenziaria in Inghilterra sono l’incremento delle condanne alla detenzione da parte delle corti, l’allungamento della durata media delle pene detentive inflitte e l’aumento del numero dei processi penali. Dal 1992 al 2002 la percentuale delle condanne a pene detentive sul totale delle sentenze di condanna (custody rate) è più che triplicata, passando dal 5 al 17 per cento60. È da segnalare inoltre l’incremento degli ingressi in carcere di detenuti condannati all’ergastolo a partire dalla metà degli anni Novanta: nel 2001 sono stati 51261. Il Regno Unito è fra i paesi membri del Consiglio d’Europa quello in cui i detenuti condannati alla pena dell’ergastolo sono più numerosi62. Al 30 giugno 2002 erano 5.150 i detenuti che scontavano una condanna all’ergastolo nelle carceri britanniche: rispetto al 1992, questo dato indica una crescita del numero degli ergastolani in carcere pari al 72 per cento63. Nonostante questi dati, la questione della riduzione del ricorso alla detenzione non appare all’ordine del giorno in Gran Bretagna. 117

L’attenzione dell’amministrazione penitenziaria inglese pare rivolta più agli effetti positivi che l’aumento delle condanne a pene detentive lunghe si sostiene possa avere sull’andamento della criminalità, che non ai problemi posti dal sovraffollamento carcerario e dall’ineffettività della pena detentiva ai fini della risocializzazione dei detenuti. Nei Paesi Bassi e nel Regno Unito è stata compiuta una scelta a favore del ricorso alla detenzione, scelta connessa al declino dell’ideologia rieducativa e all’affermarsi di una concezione della pena come strumento di difesa sociale attraverso l’incapacitazione dei detenuti. Tuttavia, anche nei paesi che si sono posti come obiettivo la riduzione della popolazione penitenziaria, si è registrato un aumento delle condanne a pene detentive lunghe. In Francia, nel corso degli anni Ottanta le condanne all’ergastolo sono aumentate del 19 per cento, le condanne a più di 10 anni di reclusione del 50 per cento e le condanne dai 5 ai 9 anni del 120 per cento64. Dalla metà degli anni Ottanta al 2004 la durata media della detenzione è passata da 5,165 a 8,4 mesi66. Al primo aprile del 2005 i detenuti che scontavano pene detentive di più di 5 anni erano il 35,7 per cento del totale67. Dal 1996 al 2001 l’aumento della durata delle pene detentive ha compensato la riduzione degli ingressi in carcere registrata dalla seconda metà degli anni Novanta. Soltanto negli ultimi anni l’aumento della durata delle pene detentive, che pure rimane costante, non ha impedito che la crescita della popolazione penitenziaria francese rallentasse. In controtendenza rispetto alla maggioranza dei paesi europei, questo dato appare ricollegabile al forte incremento delle condanne a pene alternative alla carcerazione e alla notevole riduzione del numero dei detenuti in attesa di giudizio determinata dall’approvazione nel 2000 di una legge sulla presunzione di innocenza che consente la custodia cautelare soltanto nel caso in cui la persona sia sottoposta a processo per un reato che comporta una condanna alla detenzione di almeno 3 anni68. In Germania, analizzando i dati relativi agli anni 1976, 1980, 1990, 1995, 2000, 2002 e 200369, emerge che il numero delle condanne brevi – inferiori ai 6 mesi di reclusione – è rimasto stabile, mentre le condanne a 6 mesi di carcere e quelle da 6 a 9 mesi sono leggermente aumentate e le condanne da 1 a 2 anni sono più che raddoppiate, passando da 8.138 nel 1976 a 18.944 nel 2003 (l’aumento è stato registrato in particolare dal 1990). È raddoppiato il numero delle condanne dai 2 ai 3 anni, dai 3 ai 5 e dai 5 ai 10, mentre il nu118

mero delle condanne dai 10 ai 15 anni e degli ergastoli è rimasto sostanzialmente invariato. Anche in Germania dunque il ricorso alla detenzione appare complessivamente aumentato, nonostante la tendenza a contenere il numero delle condanne a pene detentive molto brevi e molto lunghe. L’Italia si è sempre caratterizzata rispetto agli altri paesi europei, non solo occidentali, per il ricorso a pene detentive lunghe. Il numero dei detenuti che scontano pene superiori ai 5 anni è rimasto relativamente costante nel corso degli anni. Esso è tuttavia elevato: al settembre 2001, il 24 per cento dei detenuti nelle carceri italiane scontava una pena da 5 a 9 anni e il 20,6 per cento una pena superiore ai 10 anni70. Una percentuale simile di condannati a una pena detentiva superiore ai 10 anni era riscontrabile nello stesso anno in Francia (22,7 per cento), dove tuttavia i condannati a una pena dai 5 ai 9 anni di reclusione era inferiore (15,6 per cento). Solo in Grecia i condannati a pene superiori ai 10 anni e dai 5 ai 9 anni erano più che in Italia (rispettivamente il 35,9 e il 26,8 per cento). I dati dei paesi scandinavi confermano la tendenza europea a incrementare il ricorso alla detenzione: in Svezia e in Danimarca il numero dei detenuti che scontano pene lunghe è in aumento, benché la durata media delle pene detentive resti più bassa che in molti altri paesi d’Europa. Persino in Finlandia, dove la popolazione detenuta si è ridotta negli ultimi decenni e dove il sistema penitenziario è improntato alla decarcerizzazione, la durata media della pena detentiva è aumentata, passando da 19 mesi nel 1986 a 28 mesi nel 2000; la percentuale di detenuti che scontavano una pena superiore ai 5 anni è passata nello stesso periodo dal 9 al 20 per cento71. In questo caso tuttavia si deve tener conto del fatto che le politiche di decarcerizzazione e di depenalizzazione attuate in Finlandia hanno condotto a una drastica riduzione delle condanne a pene brevi. In Finlandia il 50 per cento dei detenuti presenti in carcere nel 2001 era stato condannato per reati violenti o per reati connessi al consumo e allo spaccio di stupefacenti, mentre i condannati per reati contro la proprietà si sono dimezzati dagli anni Settanta a oggi. L’aumento della percentuale di detenuti condannati a pene lunghe può dunque essere interpretato come il risultato di una scelta di politica penale che, considerando il carcere come extrema ratio, riserva la pena della detenzione agli autori di reati gravi72. Sebbene in alcuni casi si possa dunque notare una biforcazione delle politiche penali e giudiziarie – per cui, a fronte dell’aumento 119

delle condanne a pene detentive lunghe, si è registrata una riduzione delle condanne a pene brevi – nella maggioranza dei paesi europei l’incremento delle condanne a pene lunghe si è accompagnato a un generale aumento delle condanne alla detenzione. Non si è realizzata quella politica d’incapacitazione selettiva dei gruppi criminali più pericolosi che pure è stata propagandata da molte retoriche penali degli ultimi decenni. Il sovraffollamento ha inoltre impedito di fornire ai detenuti definitivi, condannati a molti anni di carcere, i servizi necessari a contrastare la loro definitiva desocializzazione. L’idea – emersa in alcune analisi degli anni Ottanta e Novanta – che si potesse distinguere fra gli autori di reati minori, da tenere lontani dal carcere, e i criminali pericolosi, da tenere in prigione per lunghi periodi di tempo e da sottoporre a programmi di trattamento adeguati, sembra tramontata. Infine, le legislazioni premiali promulgate in molti paesi d’Europa non sono per lo più riuscite a impedire che un numero molto elevato di detenuti rimanesse in carcere. Queste leggi, che consentono la liberazione anticipata dei detenuti che hanno scontato una parte della pena o l’attuazione di misure alternative alla carcerazione, si sono rivelate inadeguate a fronteggiare la crescita della popolazione detenuta, sia perché la costruzione di un sistema penitenziario flessibile e la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione ha indotto i giudici a infliggere un numero maggiore di condanne alla reclusione, sia perché in molti paesi – è il caso dell’Italia – una percentuale rilevante di detenuti si trova in custodia cautelare o non ha subito una condanna definitiva e accede con difficoltà ai benefici previsti dalla legge. 4.4. Il carcere dei non condannati In molti paesi europei la percentuale di detenuti in attesa di giudizio e non definitivi si aggira intorno al 30 per cento e in alcuni grandi paesi europei si avvicina al 40 per cento. La porzione di detenuti non definitivi è molto alta nei paesi nei quali i processi penali hanno tempi lunghi sia a causa delle disfunzioni del sistema giudiziario, sia a causa di iter processuali articolati in più gradi di giudizio: è, ad esempio, il caso del Belgio, della Francia e dell’Italia. Tuttavia, la presenza in carcere di molti detenuti che non sono stati condannati in via definitiva è spesso anche il sintomo della tendenza dei giudici a ri120

correre alla detenzione cautelare in carcere, pur disponendo di soluzioni alternative. In Italia i detenuti non definitivi sono oggi il 36 per cento: si tratta della percentuale più bassa degli ultimi 35 anni73. Dal 1975 al 1987 la percentuale dei detenuti non sottoposti a condanna definitiva è stata sempre superiore al 57 per cento e, dal 1978 al 1984, i detenuti non definitivi sono stati circa i due terzi del totale74. Negli anni Novanta si è registrata un’inversione di tendenza: i detenuti definitivi sono divenuti la maggioranza. Ciononostante, l’Italia è, con il Belgio, in testa alla classifica europea dei paesi con il maggior numero di detenuti in attesa di condanna definitiva. In Francia, dopo l’approvazione nel 2000 di una legge sulla presunzione d’innocenza che rende meno frequente l’incarcerazione preventiva75, il numero dei detenuti in attesa di giudizio è notevolmente diminuito. Dal 1996 al 2001 i detenuti in attesa di sentenza sono diminuiti del 27 per cento: la riduzione del numero dei detenuti in attesa di giudizio è responsabile per più dell’80 per cento della flessione del trend di crescita della popolazione carceraria francese dal 1996 al 200176. Ciononostante, al 1° giugno 2005, su 59.786 reclusi negli istituti di pena, i condannati erano 38.876 e quelli in attesa di giudizio 20.910, con una durata media della detenzione preventiva di 4,3 mesi77. I dati europei sono eterogenei: in molti paesi si considerano definitivi i detenuti che hanno ottenuto una prima condanna, benché il processo a loro carico continui. Anche se si distingue fra detenuti in attesa di prima sentenza e detenuti non definitivi, la percentuale italiana resta al di sopra della media dei paesi europei occidentali78. La presenza in carcere di un numero elevato di detenuti non definitivi determina indirettamente la riduzione degli istituti di pena a luoghi di mera incapacitazione. Il tempo della detenzione per i detenuti non definitivi è un tempo d’attesa: non essendo stati condannati in via definitiva da un tribunale penale, essi scontano una pena anticipata. Poiché nel sistema italiano, come in altri sistemi europei, vige la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, il sistema trattamentale opera difficilmente nei confronti di questa categoria di detenuti. In Italia i detenuti non definitivi, anche se condannati in primo o in secondo grado, sono esclusi dal «trattamento rieducativo», benché possano fare richiesta di partecipare alle attività rieducative. La presenza di molti detenuti la cui posizione giuridica è in evoluzione è un ostacolo al funzionamento degli isti121

tuti di pena e un incentivo per gli operatori penitenziari a considerare il carcere un luogo di sosta dove i detenuti sono reclusi per motivi di sicurezza. Tabella 4.1. Detenuti non definitivi in alcuni paesi UE Detenuti in attesa di giudizio e non definitivi (in %)

Austria Belgio Finlandia Francia Germania Grecia Italia Norvegia Paesi bassi Polonia Portogallo Spagna Svezia Regno Unito

26,9 39,1 12,7 37,4 19,7 28,2 36,0 20,6 35,2 19,9 23,7 22,8 20,5 16,3

al 1.2.2005 al 1.3.2004 al 15.4.2004 al 1.3.2004 al 31.8.2004 al 16.12.2004 al 31.12.2004 al 1.9.2004 al 1.7.2004 al 30.10.2004 al 31.5.2005 al 24.5.2005 al 1.10.2004 al 30.4.05

Fonte: International Centre for Prison Studies, World Prison Brief, http://www.klc.ac.uk/depsta/ rel/icps.

4.5. Carceri «nere» Una delle principali caratteristiche dei sistemi penitenziari europei è la forte presenza di detenuti stranieri o di origine straniera: gli stranieri sono sovrarappresentati negli istituti penitenziari dei principali paesi europei. Questo fenomeno è alla base di una trasformazione della funzione del carcere che contrasta con il «modello penitenziario europeo» orientato alla risocializzazione dei detenuti. La percentuale media degli stranieri reclusi nelle carceri europee supera il 30 per cento della popolazione detenuta, a fronte di una presenza straniera sul territorio europeo che si aggira intorno al 7 per cento della popolazione79. La sproporzione è evidente e ricorda il fenomeno del racial divide osservato negli Stati Uniti80. La percentuale della popolazione detenuta di nazionalità straniera è inferiore alla media europea in alcuni dei paesi europei di più 122

antica immigrazione, ma nei penitenziari di questi stessi paesi vi è una percentuale elevata di cittadini «non bianchi», figli di genitori immigrati. Le amministrazioni penitenziarie europee non distinguono questa categoria di detenuti da quella dei cittadini di origine autoctona, per la comprensibile preoccupazione che tale distinzione possa avere effetti discriminatori. Tuttavia, così facendo, se da un lato si è formalmente corretti nei confronti dei cittadini di origine straniera, dall’altro si occulta un dato preoccupante: in molti paesi europei una percentuale elevata di detenuti è di origine o di nazionalità straniera. Non solo, ma, soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale, è di religione islamica e non è bianca. Nel Regno Unito, seguendo l’esempio statunitense, si è invece scelto di introdurre categorie etniche nella classificazione dei detenuti a fini statistici e dal 2003 si è iniziato a raccogliere i dati sulle origini dei detenuti. Le statistiche sulla composizione etnica della popolazione penitenziaria sono ancora in via d’elaborazione; si può tuttavia già sapere che, fra le persone entrate nelle carceri pubbliche fra l’aprile 2004 e il marzo 2005, gli appartenenti a minoranze etniche erano 26.043. Inoltre, sul totale delle persone entrate in carcere per la prima volta nel periodo considerato, i bianchi erano il 78 per cento, i neri il 12 per cento, gli asiatici il 6 per cento, mentre il 3 per cento era di origine mista e l’1 per cento apparteneva a gruppi etnici non altrimenti classificati81: ciò significa che il 22 per cento delle persone entrate in carcere per la prima volta apparteneva a minoranze etniche. Il dato, se paragonato alla composizione della popolazione residente nel Regno Unito, segnala che i «non bianchi» sono incarcerati molto di più dei bianchi. È credibile che anche in Francia, se si tenesse conto dell’origine dei detenuti, la percentuale di detenuti stranieri e di origine straniera sarebbe molto elevata: Salvatore Palidda ha sostenuto che essa sarebbe più elevata della percentuale di afroamericani reclusi nelle carceri statunitensi82. I detenuti di nazionalità straniera sono particolarmente numerosi nei paesi di recente immigrazione come l’Italia e la Grecia, dove sono, rispettivamente, il 31,8 per cento83 e il 41,7 per cento84 del totale. La sovrarappresentazione degli stranieri è ancora maggiore con riguardo alle donne e ai minori; il fenomeno è particolarmente rilevante in Italia, dove le donne straniere sono il 42 per cento85 della popolazione detenuta femminile e i minori stranieri reclusi negli istituti penali minorili sono il 47 per cento del totale86. Inoltre, gli ingressi in carcere di minori stranieri sono in continuo aumento, con 123

punte che giungono sino all’80 per cento nei penitenziari del centronord87, a fronte di una progressiva diminuzione degli ingressi in carcere dei minori italiani: a questo proposito Dario Melossi ha ipotizzato che sia in atto un vero e proprio processo di specializzazione degli istituti penali minorili italiani in direzione degli stranieri88. È interessante notare come la composizione della popolazione detenuta straniera tenda a rispecchiare le comunità immigrate più numerose sul territorio e in particolare le nazionalità appartenenti ai paesi confinanti con l’Unione Europea. Più dell’85 per cento dei detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane provengono dal Maghreb e dai Balcani, ossia dalle «periferie dell’Unione Europea»89. I detenuti stranieri reclusi nelle carceri europee si assomigliano molto fra loro: provengono da paesi che hanno subito forti processi di destrutturazione economica e sociale in seguito all’affermarsi della globalizzazione e ai mutamenti geopolitici dei primi anni Novanta. Inoltre essi non sono molto diversi dai cittadini europei di origine straniera che risiedono nelle periferie metropolitane dei paesi dell’Unione: le «periferie euromediterranee» condividono con le periferie metropolitane europee alcuni caratteri essenziali, come la diffusione fra i giovani di modelli devianti, della tossicodipendenza, di relazioni sociali fondate sulla violenza. La popolazione delle periferie urbane europee ha poi generalmente le stesse caratteristiche etniche, culturali e religiose di quella che proviene dai paesi che si trovano alle frontiere dell’Unione. Sono queste due periferie i luoghi dai quali proviene la quasi totalità delle persone recluse nei penitenziari europei90. Le carceri europee sono dunque «carceri nere», così come sono «carceri nere» le carceri degli Stati Uniti. Questo dato è l’indice di una nuova forma di razzismo che sopravvive e prospera nelle liberal-democrazie occidentali. Come ricordato, Loïc Wacquant ha sostenuto che il carcere è negli Stati Uniti la nuova «peculiar institution»91 finalizzata a perpetuare la segregazione degli afroamericani. In Europa esso sembra lo strumento di una nuova forma di «colonizzazione». I detenuti nelle carceri francesi e inglesi sono cittadini delle ex colonie e nel resto d’Europa la sovrarappresentazione dei migranti è strettamente connessa alle politiche migratorie restrittive che consentono la formazione di una classe di lavoratori non-cittadini.

124

Tabella 4.2. Detenuti stranieri in alcuni paesi UE (percentuale sul totale della popolazione detenuta) Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi bassi Portogallo Spagna Svezia

33,0 40,9 15,5 7,9 21,1 29,9 41,7 9,1 31,8 73,6 33,2 12,0 25,4 25,0

Inghilterra e Galles Scozia Irlanda del Nord

12,2 1,2 1,5

al 1.9.2002 al 1.9.2002 al 5.10.2004 al 15.4.2004 al 1.4.2005 al 31.3.2002 al 16.12.2004 al 29.9.2004 al 31.12.2004 al 16.2.2005 al 1.7.2004 al 1.9.2002 al 1.9.2002 al 1.1.2004 solo definitivi al 31.10. 2004 al 1.9.2002 al 1.9.2002

Fonte: la maggioranza dei dati qui riportati è tratta da International Centre for Prison Studies, World Prison Brief, http://www.klc.ac.uk/depsta/rel/icps.

4.5.1. Devianza e discriminazione Il numero dei detenuti stranieri nelle carceri europee è in continua crescita92. È evidente che una presenza così elevata di stranieri nei penitenziari europei corrisponde, almeno in parte, a un reale livello di devianza degli immigrati. È però altrettanto chiaro che la sovrarappresentazione degli stranieri nelle carceri europee dipende da forme più o meno latenti di discriminazione razziale presenti a tutti i livelli del sistema penale: dalle pratiche di polizia alla fase d’esecuzione della pena, passando per il processo. Queste discriminazioni sono solo in parte consapevoli: spesso derivano da scelte tecniche finalizzate a rendere efficiente in termini di risultati quantitativi l’operato delle forze di polizia, o dipendono dalle caratteristiche proprie di un sistema penale e penitenziario pensato per i cittadini, che non si adatta allo status giuridico e sociale dei migranti, determinando così una costante violazione dei loro diritti più elementari. 125

Salvatore Palidda ha sostenuto che nei paesi europei è in atto una sostituzione nell’ambito della popolazione criminalizzata degli autoctoni con gli immigrati e con i cittadini di origine straniera. Tale sostituzione dipende da una «etnicizzazione (o ‘razzializzazione’) dell’azione repressiva penale e della devianza, che si traduce in una tendenza alla diminuzione della percentuale dei detenuti che hanno la cittadinanza e in un aumento del numero dei detenuti stranieri o di origine straniera»93. La sostituzione degli autoctoni con gli immigrati è il risultato non solo di un corto circuito sicuritario fra opinione pubblica, media, polizie e istituzioni, ma anche di un processo di autocriminalizzazione degli immigrati indotto dalla difficoltà di inserirsi in modo regolare nella società d’arrivo, dall’etnicizzazione delle attività informali e illegali e dalla degradazione sociale prodotta nei paesi di emigrazione dalle dinamiche migratorie e dal rapporto con le società europee94. La sovrarappresentazione dei migranti e dei cittadini di origine straniera nelle carceri europee è dunque il risultato di una serie di fattori fra loro connessi. Gli immigrati sono spesso oggetto di attività di controllo discriminatorie: le polizie europee ricorrono a pratiche di controllo e di repressione che penalizzano i migranti. I dati relativi alle persone fermate e perquisite dalla polizia (secondo la tecnica di stop and search) nel Regno Unito nell’anno 2003-2004, riportati dall’Home Office, mostrano che i neri sono stati fermati sei volte più dei bianchi e gli asiatici il doppio dei bianchi. Rispetto all’anno precedente, i provvedimenti di stop and search che hanno riguardato i bianchi sono aumentati del 4 per cento, quelli che hanno riguardato i neri del 66 per cento e quelli relativi agli asiatici del 75 per cento95. Le strategie di contrasto al terrorismo tendono a favorire la pratica dell’arresto e della perquisizione selettiva dei cittadini di origine musulmana e dei migranti. Nel marzo 2005 il ministro dell’Interno britannico ha esplicitamente ammesso che le misure antiterrorismo sono destinate a colpire in prevalenza i musulmani, poiché la minaccia proviene dal mondo islamico. All’indomani dell’attentato terroristico di Londra nei principali paesi dell’Unione si è discusso dell’opportunità di incentivare i controlli sugli immigrati e si è dato avvio a una serie di operazioni di polizia espressamente indirizzate verso le comunità musulmane, al di là delle esigenze di controllo imposte dalle indagini in corso. Le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato l’uso dell’ethnic profiling, ossia di criteri etnici per l’orientamento 126

delle azioni di polizia e per la schedatura dei dati da parte delle forze di polizia europee, soprattutto dopo l’11 settembre 200196. Secondo alcuni analisti la forza di polizia comunitaria, Europol, incaricata principalmente della prevenzione e della repressione del crimine organizzato, opera assumendo che la criminalità si organizza su basi etniche97. L’opinione pubblica europea sostiene queste pratiche discriminatorie nella convinzione che siano efficaci a contrastare il terrorismo e la criminalità internazionale. A queste politiche di polizia si devono aggiungere le discriminazioni arbitrarie che si verificano nei casi in cui le forze di polizia si sentono legittimate a tenere comportamenti razzisti perché l’opinione pubblica richiede una risposta dura alla criminalità. Studi sociologici98 e indagini giornalistiche hanno messo in luce i comportamenti razzisti tenuti dalle forze di polizia e dai tribunali penali; tali comportamenti non sembrano discendere tanto da atteggiamenti ideologici, quanto dall’idea che i migranti, non essendo cittadini, non abbiano diritto alle garanzie previste dagli ordinamenti liberali. Per Palidda: la diffusione di comportamenti discriminatori tra le polizie, come tra magistrati, operatori sociali e altre categorie professionali, sembra essere dovuta innanzitutto al crescente consenso che riscuotono la definizione dell’immigrazione come reato di fatto e l’enfasi sulla criminalità attribuita agli immigrati99.

Come ha scritto Abdelmalek Sayad100, l’immigrazione, anche quando non è direttamente criminalizzata, è di per sé ricondotta nelle menti degli autoctoni e nel modo di operare degli apparati statali all’idea di «colpa, di anomalia o di anomia»101. Essa è una «colpa generatrice»102, poiché è alla colpa originaria di «non essere rimasti a casa propria» che gli autoctoni fanno risalire la responsabilità per ogni azione successiva dell’immigrato. Ne consegue l’opinione comune secondo la quale l’immigrato che viola la legge è doppiamente colpevole, poiché non solo ha commesso un reato, ma ha anche violato la legge non scritta dell’ospitalità, in base alla quale egli non è solo tenuto a rispettare le regole, ma ha anche un dovere di «cortesia»103. Gli stranieri non possiedono quel «diritto» a una certa soglia di devianza che è generalmente riconosciuto ai cittadini. La concezione secondo la quale l’immigrato deve dimostrare la propria affidabilità sembra ispirare anche molte norme europee sul127

la concessione e sul rinnovo dei permessi di soggiorno, concepito per lo più come un premio concesso allo straniero che non solo sia riuscito a costruirsi una posizione di regolarità, ma abbia avuto anche la tenacia di sottostare a tutte le corvées burocratiche richieste dalla legge. La gestione amministrativa delle regolarizzazioni è altamente discriminatoria: da una parte richiede agli immigrati di decifrare norme complicate e contraddittorie e di ottemperare a una serie di obblighi amministrativi onerosi, dall’altra approda, a causa della discrezionalità delle procedure, a una forma di selezione della popolazione immigrata in base a criteri che violano i diritti soggettivi dei migranti. Queste discriminazioni tuttavia possono raramente considerarsi come ideologiche e volontarie: per quanto gli studi che pongono l’accento sulle inclinazioni al razzismo di alcuni operatori del sistema penale siano condivisibili, appare difficile imputare il fenomeno della sovrarappresentazione degli stranieri nelle carceri europee all’arbitrio della polizia e del sistema giudiziario104. L’impressione è che a esporre i migranti alla repressione penale, più che i consapevoli atteggiamenti discriminatori e razzisti di alcuni attori del sistema penale siano, da una parte, la «discriminazione strutturale»105 dovuta alla condizione sociale degli stranieri, dall’altra, la scelta di una politica di controllo selettiva che, come negli Stati Uniti tende a rendere gli afroamericani l’oggetto preferito del controllo penale, così in Europa sceglie di concentrarsi sui migranti. Sotto quest’ultimo aspetto è evidente come le politiche adottate nel corso degli anni Novanta dalla maggior parte dei paesi europei in materia d’immigrazione abbiano condotto a un’intensificazione dei controlli nei confronti degli stranieri: le polizie nazionali hanno reso abituali operazioni finalizzate a mostrare l’impegno delle forze dell’ordine nel contrasto all’immigrazione clandestina. Come tutte le devianze, anche la devianza degli immigrati viene gestita dalla polizia, che così finisce per contribuire alla criminalizzazione dei migranti in un duplice senso: da una parte gli stranieri oggetto di continui controlli tendono ad accumulare denunce, imputazioni e condanne divenendo così dei «delinquenti abituali», dei plurirecidivi; dall’altra «l’azione di polizia contribuisce a professionalizzare la devianza stabilendo un rapporto privilegiato con gli stranieri che imparano a rispettare le ‘regole del disordine’106, tra cui quella di collaborare con la polizia»107. Fra le forme di discriminazione strutturale appare particolar128

mente grave quella che deriva dall’inadeguatezza di molti sistemi giudiziari europei a trattare i migranti come gli altri cittadini. Federico Quassoli108 ha messo in luce le discriminazioni operate nei tribunali italiani nei processi a carico degli stranieri. Interpretando la sua indagine emerge come tali discriminazioni sono per lo più involontarie e inconsapevoli e dipendono dalle specifiche condizioni di vita dei migranti nella società d’arrivo. L’esempio più illuminante è quello relativo all’uso di non concedere agli stranieri misure cautelari alternative alla custodia in carcere: tale prassi, insieme all’analoga prassi di non concedere ai detenuti stranieri la sospensione condizionale della pena o altre pene alternative alla detenzione, è una delle cause principali dell’elevato numero di stranieri detenuti nei penitenziari europei. Essa tuttavia non sembra derivare da una particolare sfiducia dei tribunali nei confronti degli stranieri in quanto tali, ma dal fatto che gli stranieri per lo più non dispongono dei requisiti necessari per la concessione di queste misure: non hanno ad esempio quasi mai una residenza fissa. Legislazioni particolarmente repressive, come la legge italiana sull’immigrazione, detta anche legge Bossi-Fini, hanno inoltre aggravato la discriminazione degli stranieri in sede processuale e di esecuzione della pena, prevedendo reati di immigrazione e sanzioni «speciali» nei confronti dei migranti. Il fatto che la discriminazione dei migranti sia per lo più di carattere strutturale o sia imposta da specifiche disposizioni normative non giustifica una prassi che diviene routinaria e indifferente nei confronti dei singoli casi. La presunzione che sia difficile ottenere informazioni certe sugli imputati e sui condannati stranieri è spesso un dogma che trasforma ogni immigrato in un falsificatore di documenti, dotato di infinite identità. La diffusione di prassi di questo genere è sintomo dell’incapacità dei sistemi penali e delle istituzioni giudiziarie europee di fornire una tutela sufficiente agli imputati e ai detenuti non-cittadini109. La denuncia dei comportamenti razzisti non dovrebbe perciò occultare l’esigenza di realizzare delle riforme strutturali e di fornire ai sistemi giudiziari europei le risorse umane ed economiche necessarie per assicurarne il corretto funzionamento anche nei confronti dei migranti, la cui comparizione di fronte ai tribunali non può certo considerarsi come un fatto eccezionale. 4.5.2. Un «trattamento» finalizzato all’espulsione I detenuti stranieri nelle carceri europee sono in gran parte irregolari o perché erano in una posizione di irregolarità al momento della commissione del 129

reato, o perché l’ingresso in carcere, determinando la rottura del rapporto di lavoro in base al quale potevano godere di un permesso di soggiorno, fa sì che essi si trovino in posizione irregolare una volta scontata la pena. Il carcere diviene così per la maggior parte degli stranieri un luogo di passaggio in attesa dell’espulsione; la conseguenza principale di questa situazione è la trasformazione della pena detentiva in un mezzo di incapacitazione dei migranti. Gli stranieri reclusi tendono a rifiutare l’istituzione penitenziaria e a suddividersi nelle diverse comunità etniche presenti all’interno del carcere, la cui protezione è spesso necessaria alla sopravvivenza stessa del detenuto straniero che altrimenti rischia di trovarsi esposto agli abusi perpetrati dai compagni di detenzione di diversa nazionalità. Inoltre, gli stranieri raramente possono usufruire degli istituti giuridici di carattere premiale ai quali la legislazione penitenziaria della maggior parte dei paesi europei attribuisce un ruolo centrale nel processo di reinserimento sociale dei detenuti. Nei confronti dei detenuti stranieri i tradizionali strumenti rieducativi non sono in grado di operare110, dal momento che a loro mancano i requisiti minimi per partecipare a molte delle attività rieducative proposte dal carcere, prima fra tutte un’adeguata conoscenza della lingua111. Il concetto stesso di «reinserimento sociale» presuppone che il detenuto, prima di commettere il reato che lo ha portato in carcere, fosse inserito in un tessuto sociale e che sia stato il reato a emarginarlo dalla società. Questa rappresentazione, che è alla base del modello penitenziario rieducativo, è sempre stata illusoria, ma lo è ancor di più nel caso dei migranti che passano dalla clandestinità alla detenzione. L’apprendistato lavorativo, ad esempio, non ha nessun senso per il detenuto straniero che, una volta uscito dal carcere, anche quando non incorre direttamente in un provvedimento di espulsione, difficilmente troverà un lavoro corrispondente al mestiere imparato durante la detenzione. Se i sistemi penitenziari dei principali paesi europei tendono a divenire più afflittivi con il dissolversi dell’illusione rieducativa, il grado di afflittività della pena risulta ancor più elevato per i detenuti stranieri, tanto che è lecito sostenere che in molti paesi europei si è creato un sistema di esecuzione penale per gli stranieri distinto da quello riservato ai cittadini. In particolare, il binomio carcere-espulsione pone i detenuti stranieri in una posizione diversa da quella dei detenuti «autoctoni», tanto più in quei paesi, come l’Italia, in cui l’espulsione è configurata come una pena alternativa (o aggiuntiva) al130

la detenzione in carcere. Secondo Emilio Santoro, la trasformazione del carcere in un luogo di transito, dove rinchiudere gli stranieri destinati a essere espulsi, è la nota caratterizzante della legge 30 luglio 2002, n. 189, ossia della normativa italiana in materia d’immigrazione112. La legge prevede che ogni straniero entrato in carcere per uno dei reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale e per qualsiasi reato attinente alla droga o alla libertà sessuale debba essere espulso una volta scontata la pena. Ma la norma più indicativa della tendenza a trasformare la condanna alla pena detentiva per gli stranieri da strumento di rieducazione a provvedimento che si limita a dilazionarne l’espulsione è quella contenuta nell’art. 16 del Testo Unico sull’immigrazione, così come è stato modificato dal provvedimento del 2002, nel quale si prevede l’utilizzo dell’espulsione come misura alternativa alla detenzione. Secondo tale norma il magistrato di sorveglianza deve procedere all’espulsione di tutti i detenuti stranieri irregolari che siano identificabili e abbiano meno di due anni di pena detentiva da scontare. Per Santoro, questa disposizione configura un percorso per gli italiani, che a partire da tre anni (quattro se sono tossicodipendenti) dal «fine pena» possono accedere alle misure alternative, e uno diverso per gli stranieri, che sono destinati a scontare in carcere la loro pena fino a due anni dalla sua fine per poi essere espulsi113. La legge Bossi-Fini del resto ha stabilito che gli immigrati che hanno commesso un reato per cui è previsto l’arresto in flagranza non possano ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno e vadano dunque incontro all’espulsione: l’espulsione diviene così esplicitamente una pena, configurando un regime penale ad hoc per i migranti. La legge aveva inoltre previsto l’arresto obbligatorio dello straniero irregolare che non avesse ottemperato all’ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale o che avesse violato l’obbligo di reingresso, arresto finalizzato a renderne possibile l’immediata espulsione; la Corte costituzionale ha sancito l’incostituzionalità di questa norma114. Il meccanismo sanzionatorio speciale è stato, tuttavia, ripristinato dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, che ha trasformato la violazione dell’ordine di lasciare il paese da contravvenzione in delitto, rendendo legittimo l’arresto obbligatorio in flagranza e permettendo che lo straniero sia prima arrestato e poi espulso. Espulsione e pena detentiva sono dunque state equiparate. In questo modo la funzione rieducativa della pena è definitivamente cancellata ed è esplicitamente istituito un sistema penale differen131

ziato per gli stranieri. Il diritto di espellere lo straniero sembra restituire al sistema penale l’arcaico strumento dell’esclusione del reo – del bandito – dalla comunità, coerentemente con i principali sviluppi della penalità contemporanea osservabili anche nel sistema penale statunitense115. Scrive Santoro: La politica penale, fino a ora costretta alla scelta tra la soppressione fisica e la necessità di rendere il soggetto inoffensivo, vuoi attraverso la deterrenza, vuoi attraverso la rieducazione (o il disciplinamento), riacquista una dimensione andata perduta dopo i fallimentari tentativi di deportazione di fine Settecento e sconosciuta alla penalità del secolo scorso: l’espulsione dallo spazio politico116.

Detenzione ed espulsione divengono due strumenti fungibili, in grado di assicurare la neutralizzazione dei condannati stranieri. Il caso italiano ha certamente un carattere estremo e tuttavia esso non è in controtendenza rispetto all’orientamento diffuso nel resto d’Europa. La configurazione dell’espulsione come alternativa alla pena per i clandestini è presente nelle legislazioni di molti paesi europei, tanto da far pensare che nell’Unione Europea si stia creando un «sistema penale dei migranti» che si differenzia dal «sistema penale dei cittadini» e si integra invece nel più generale sistema di controllo e di repressione dell’immigrazione. In Francia il dibattito sulla «doppia pena» – pena detentiva ed espulsione – che colpisce gli stranieri è stato molto acceso dalla seconda metà degli anni Novanta. L’espressione «doppia pena» fa riferimento sia all’espulsione amministrativa degli stranieri che finiscono di scontare una condanna penale, sia all’espulsione decisa in sede giudiziaria – interdiction du territoire français – contestualmente a una condanna penale. Il movimento di protesta ha ottenuto che la riforma della legge sull’immigrazione del 2003 contemplasse la modifica del regime della «doppia pena». Tuttavia, la legge Sarkozy non ha eliminato l’istituto della «doppia pena» per gli stranieri: si è limitata a identificare alcune categorie di stranieri «protetti», per i quali è esclusa l’espulsione a fine pena. Si tratta degli stranieri nati in Francia o entrati in Francia prima dell’età di tredici anni, dei coniugi di francesi o di persone legalmente residenti in Francia, dei genitori di cittadini francesi e degli stranieri legalmente residenti in Francia da almeno vent’anni. Sono i cosiddetti «quasi-francesi»: persone che sono francesi dal punto di vista sociologico, benché abbia132

no ufficialmente una diversa cittadinanza. L’espulsione di questi quasi-cittadini provocava gravi danni a famiglie francesi e contravveniva all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che protegge la vita privata e i legami familiari, motivo per il quale la Francia era stata più volte condannata dalla Corte di Strasburgo. Per i migranti, tuttavia, la legge del 2003 non ha previsto alcuna protezione, né le associazioni di volontariato sembrano essersi mobilitate particolarmente in loro favore: poiché non sono quasi-cittadini ma ospiti temporanei, per loro l’esigenza della tutela dei legami familiari è secondaria rispetto alla necessità di bandirli dal territorio nazionale. In questo quadro si rileva una continuità fra misure penali e misure amministrative e fra carcere e centri di permanenza temporanea. La fungibilità della pena detentiva con l’espulsione mette in luce una nuova concezione della detenzione come strumento d’incapacitazione: l’obiettivo non è reinserire i condannati, ma espellerli dalla società. Nel caso dei migranti l’espulsione è uno strumento più efficace e meno costoso della reclusione in carcere. Allo stesso tempo, la detenzione in carcere e la detenzione amministrativa nei centri di permanenza temporanea tendono ad assomigliarsi: la prima perde il carattere trattamentale, mentre la seconda acquista i tratti propri di una pena inflitta al di fuori di sufficienti garanzie procedurali e scontata in condizioni spesso disumane117. Nei centri di permanenza temporanea i migranti irregolari sono detenuti in virtù di un atto amministrativo sottratto a un effettivo controllo giurisdizionale. Le carceri, a loro volta, perduta ogni illusione di riforma dei detenuti, si trasformano in centri di permanenza temporanea per «clandestini» in attesa di essere espulsi, in zone di attesa. Questi fenomeni pongono in discussione l’intera civiltà giuridica europea, non solo perché determinano la violazione costante di fondamentali diritti civili, ma anche perché tale violazione sembra essere socialmente, politicamente e istituzionalmente accettata in nome della tacita assunzione che le vittime non sono cittadini. 4.6. La «sicurezza» europea Fra le politiche penali e penitenziarie dei paesi europei e le politiche migratorie esiste dunque una stretta interdipendenza. Se le politiche penitenziarie restano di competenza quasi esclusiva dei governi nazionali, le politiche penali e le politiche migratorie, almeno a partire 133

dalla fine degli anni Novanta, sono state poste al centro dell’azione dell’Unione Europea. Per questo, i dati riguardanti le condizioni detentive nei paesi dell’Unione devono essere letti anche alla luce delle recenti evoluzioni della politica e del diritto dell’Unione in materia di immigrazione e di cooperazione nei campi della giustizia e degli affari interni. L’Unione Europea si è infatti impegnata negli ultimi anni nella creazione di una politica comune in questi settori. Il quadro europeo in materia è complesso, poiché comprende sia le modifiche apportate ai trattati comunitari in vista di una sempre maggiore integrazione fra i paesi membri, sia le politiche più direttamente influenzate dalle volontà dei governi nazionali che, per quanto riguarda gli affari interni e il controllo dell’immigrazione, si sono spesso opposti, sia singolarmente sia attraverso il Consiglio, agli indirizzi espressi dalle istituzioni comunitarie. Una parte consistente della letteratura ha rilevato che l’Unione Europea ha tentato attraverso l’istituzione di uno «spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia»118 d’invertire la tendenza di molti governi nazionali a impostare i temi della «sicurezza» e del controllo dell’immigrazione in termini esclusivamente repressivi, ma non è riuscita a elaborare in questi campi una politica alternativa a quella dei governi nazionali, né a disegnare un quadro normativo coerente, in grado di contrapporsi alle politiche preesistenti. In particolare, appare difficile attribuire alla nozione di «sicurezza» che è stata posta al centro di quasi tutti i documenti comunitari in materia di giustizia e affari interni un significato diverso da quello che il termine ha assunto da alcuni anni nei dibattiti politici dei diversi paesi europei. Se mai l’impressione è che, in una prospettiva continentale, la nozione di «sicurezza» acquisti un significato ancora più ampio di quello che essa ha nei singoli contesti nazionali, essendo associata alla minaccia del terrorismo internazionale119. Se infatti a livello nazionale il dibattito sicuritario si è quasi sempre incentrato su una concezione della «sicurezza» come tutela dell’integrità fisica dei cittadini e come difesa delle loro proprietà nei confronti dell’attacco sferrato dalla criminalità comune, a livello europeo questa nozione sembra dilatarsi e assumere una valenza di carattere internazionale: sicurezza dei confini e ordine interno si fondono. Il terrorismo, la criminalità organizzata, i disordini urbani, la delinquenza giovanile, l’immigrazione sono trattati come aspetti diversi di un unico problema di governo. «Sicurezza» in Europa non sembra significare in modo inequivocabile «sicurezza dei diritti»120, certezza per i cittadini che le loro 134

aspettative giuridiche saranno tutelate e che non mancheranno loro i beni elementari per poter organizzare la propria esistenza. La nuova ampia nozione di «sicurezza» ha messo in secondo piano questa precedente accezione, caratteristica delle esperienze degli Stati sociali nazionali. La «sicurezza europea» comprende aspetti diversi delle politiche di polizia, penali e migratorie e si pone come base per la giustificazione di orientamenti politici e amministrativi che spesso non sono coerenti con gli ideali di «libertà» e di «giustizia» che l’Unione si propone di realizzare. In particolare, molti governi nazionali si fanno scudo di questa nozione per promuovere politiche repressive in campo sia penale sia migratorio che inesorabilmente conducono a un aumento del ricorso alla carcerazione. L’auspicio di molti è invece che l’Unione Europea, pur fra i mille impedimenti che il suo sistema di governance pone allo sviluppo di politiche innovative in questi settori, accordi un’attenzione maggiore alla trasformazione che i penitenziari europei stanno subendo, al preoccupante aumento del numero dei detenuti, al fatto che la popolazione carceraria è costituita in misura sempre maggiore da stranieri, all’abbandono della cultura del trattamento e all’emergere di una concezione della pena come mero strumento d’incapacitazione. Le istituzioni comunitarie dovrebbero tentare di sviluppare una politica migratoria e una politica penale comuni adeguate all’ambizioso progetto di costruire un’Europa unita nel segno della tutela dei diritti. Non si può trascurare che molte delle politiche di cooperazione di polizia e di trattamento dell’immigrazione illegale adottate negli ultimi anni sono in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. È grave dover constatare che nell’Europa in cui operano istituzioni come il Consiglio d’Europa, da tempo impegnato nella tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e nella promozione di una cultura penitenziaria garantista, si possano concepire centri di permanenza temporanea per migranti nei quali si recludono migliaia di persone che non hanno commesso alcun reato, deportazioni d’immigrati irregolari verso i paesi di origine e, addirittura, «centri di trattamento in transito» fuori dai confini europei dove rinchiudere i richiedenti asilo121. Se non porrà fine a questo «strabismo» e non svilupperà una politica penale e migratoria coerente con le sue premesse culturali e sociali, l’Unione Europea rischia di divenire strumento di logiche globali contrarie alla civiltà giuridica che le nazioni europee hanno costruito nei secoli. Il Parlamento europeo, la Corte di 135

giustizia dell’Unione Europea e, per alcuni aspetti, la Commissione europea sembrano impegnati a conferire priorità alla tutela dei diritti intesa nel senso più ampio possibile. In direzione opposta si sono invece mossi negli ultimi anni i governi nazionali, sia separatamente sia come membri del Consiglio europeo. La mediazione fra gli orientamenti espressi dalle istituzioni comunitarie e quelli sostenuti dai governi nazionali ha condotto a esiti insoddisfacenti. L’integrazione della Carta dei diritti fondamentali nella Costituzione europea, nonostante i limiti relativi alla sua applicazione, potrebbe segnare un progresso ai fini della tutela dei diritti dei migranti e dei detenuti, ma resta comunque uno strumento insufficiente122. 4.7. La cultura della pena La politica europea è dunque ambivalente: da un lato, alcune istituzioni comunitarie e nazionali sostengono un modello politico e giuridico fondato sulla tutela dei diritti individuali, dall’altro le agenzie della sicurezza promuovono l’adozione di misure di lotta alla criminalità, al terrorismo e all’immigrazione che spesso non sono conciliabili con tale modello. Per quanto concerne più specificamente i sistemi penitenziari, nonostante il forte impatto che su di essi hanno avuto le nuove politiche penali e migratorie, il «modello penitenziario europeo»123 sembra godere ancora di un consenso politico e sociale. La resistenza di questo modello può essere ricondotta al ruolo centrale che le diverse culture penali svolgono nel legittimare o delegittimare l’operato delle istituzioni penitenziarie. La promozione del «modello penitenziario europeo» da parte di alcune istituzioni e di alcune forze politiche si fonda su valori che sovrastano gli aspetti meramente gestionali del sistema penitenziario e che sembrano ancora condivisi da una parte consistente dell’opinione pubblica europea. Come ha sostenuto Nils Christie, il diritto è in primo luogo un’istituzione culturale, connessa all’esperienza umana124. In una società liberale e democratica «la pena può essere vista come un riflesso della nostra comprensione e dei nostri valori, e perciò viene regolata dagli standard che le persone applicano ogni giorno riguardo a ciò che è possibile o non è possibile fare agli altri»125. L’Europa può dunque raccogliere la sfida di mantenere aperto il campo penale alla riflessione e alla sperimentazione, di affermare la possibilità di ridurre l’intervento penale riproponendo una visione del carcere come extrema ratio. 136

Senza indulgere a un eccessivo volontarismo, si può condividere la domanda posta da alcuni sociologi, in particolare da quelli legati alla tradizione garantista scandinava: «Vogliamo una società che divenga sempre più dipendente dall’uso della carcerazione come metodo primario di risoluzione dei conflitti?»126. Rimettere al centro della discussione sulle politiche penali e penitenziarie i conflitti di valore che sono sottesi alle scelte operate in questo campo potrebbe contribuire a invertire il rapporto istituitosi negli ultimi vent’anni fra politiche penali e politiche penitenziarie, a partire dalla consapevolezza che l’enfasi che è stata posta sul «diritto alla sicurezza» rischia di tradursi nella compressione dei diritti fondamentali che sono alla base degli ordinamenti giuridici europei e, più in generale, degli ordinamenti liberal-democratici. L’opinione pubblica europea, quando è adeguatamente informata sui diversi aspetti della questione penale e penitenziaria, appare favorevole a molti interventi di depenalizzazione, allo sviluppo di un sistema di pene alternative alla detenzione, alla sostituzione di forme di mediazione penale al tradizionale processo127. Essa appare inoltre attenta alla tutela dei diritti umani all’interno delle istituzioni penitenziarie. Molti studi hanno mostrato, ad esempio, che se informati sulle pene alternative alla detenzione i cittadini tendono a indicarle come strumenti di controllo penale migliori della carcerazione128. Fra gli altri, Julian Roberts, in una ricerca sulle opinioni dei cittadini britannici riguardo alla pena, ha rilevato che pochissimi conoscono le sanzioni alternative alla detenzione. Da una serie di sondaggi è tuttavia emerso che, se informata al riguardo, la maggioranza degli intervistati le preferiva al carcere, considerandole più efficaci ai fini della rieducazione del condannato e della riparazione del danno subito dalla vittima e dalla comunità. Analoghi risultati sono stati riportati con riferimento agli Stati Uniti da Loretta Stalans129. Il sapere scientifico e la comunicazione politica potrebbero dunque contribuire a decostruire la domanda di sicurezza proveniente dall’opinione pubblica, informando i cittadini. La richiesta di una maggiore punitività, spesso invocata per giustificare le politiche penali «dure», è in molti casi da interpretare come una richiesta simbolica di maggiore giustizia e protezione, che tuttavia non si traduce nella volontà di rivoluzionare i principi che guidano l’esecuzione della pena nelle società liberali, né nell’intento consapevole di incoraggiare il ricorso alla detenzione. 137

Capitolo 5

Politiche penali della globalizzazione

5.1. Processi di globalizzazione e politiche penali Nei capitoli precedenti sono state analizzate le principali evoluzioni delle politiche penali e penitenziarie statunitensi ed europee. Si è preferito un approccio policy-choice, ritenendo che la tendenza all’aumento della popolazione carceraria negli Stati Uniti e in Europa sia da addebitare principalmente alle politiche legislative e amministrative inaugurate nella seconda metà degli anni Ottanta del Novecento. Considerare centrale il ruolo delle scelte politiche compiute negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi anni Duemila non significa tuttavia disconoscere i rapporti che le recenti evoluzioni in campo penale e penitenziario intrattengono con le grandi trasformazioni avvenute in altri settori della vita sociale. Si è già accennato all’esistenza di relazioni significative, da tempo messe in luce dalla sociologia della pena, fra l’organizzazione del lavoro e il funzionamento dei sistemi penali e penitenziari. Può ora essere utile approfondire le connessioni fra i mutamenti in corso nella sfera penale e penitenziaria e le più generali trasformazioni sociali indotte dai processi di globalizzazione. Come si è visto, ci sono delle analogie fra le dinamiche penali e penitenziarie oggi in atto in Europa e quelle in atto negli Stati Uniti, che non sembrano interpretabili soltanto come indici della diffusione in Europa degli orientamenti di cultura penale emersi negli Stati Uniti. Sebbene siano riscontrabili – come ha rilevato Nils Christie – degli «effetti di imitazione e di diffusione [delle politiche penali e penitenziarie] da un paese all’altro»1, sarebbe semplicistico sostenere che le nuove tendenze che vanno affermandosi in Europa siano solo il risultato dell’importazione nel vecchio continente di teorie e 138

pratiche elaborate negli Stati Uniti. Per interpretare le trasformazioni in atto è opportuno collocare l’analisi delle politiche penali e penitenziarie nell’orizzonte più generale della globalizzazione. Dallo studio delle politiche penali e penitenziarie adottate negli Stati Uniti e in Europa a partire dagli ultimi decenni del Novecento si ricava l’impressione che si sia avviato un processo di uniformazione che – in controtendenza rispetto agli orientamenti emersi dopo la seconda guerra mondiale – promuove il penitenziario come lo strumento principale del controllo sociale2. L’enfasi che è stata posta in questi anni sulla «sicurezza» è alla base di questo processo: il controllo penale tende a divenire un elemento fondante delle politiche nazionali e si assiste a un potenziamento dei sistemi penali e penitenziari. L’espansione delle strutture e del ruolo degli apparati di controllo penale sembra derivare dall’attribuzione a tali apparati di funzioni di prevenzione sempre più complesse che sostituiscono le tradizionali funzioni repressive. Questa trasformazione conduce a un’integrazione delle politiche penali con le politiche sociali: l’imperativo della «sicurezza» tende a strutturare le politiche sociali e le politiche migratorie in funzione delle esigenze di controllo. Per molti osservatori, attraverso questi processi si è giunti negli Stati Uniti alla sostituzione delle agenzie del welfare State con quelle del controllo penale, tanto che una parte della letteratura sociologica ha ipotizzato che si sia creato un nuovo modello: lo «Stato penale»3. La nozione di «Stato penale» è criticabile sotto diversi aspetti4 e tuttavia non si può negare che non solo negli Stati Uniti, ma anche in molti paesi europei si sia affermata la tendenza alla dismissione delle agenzie dello Stato sociale, come non si può negare che queste agenzie sono spesso sostituite dagli apparati del controllo penale e dal sistema penitenziario, ai quali sono accordati importanti finanziamenti5. Gli Stati europei, conformemente all’orientamento affermatosi negli Stati Uniti, investono una quota rilevante delle loro risorse economiche nell’area penale e penitenziaria. 5.2. «Stati deboli»: le politiche penali fra globale e locale Secondo una tesi diffusa nella letteratura filosofico-politica e sociologica contemporanea, nella generale riconfigurazione delle istituzioni e delle funzioni statali indotta dai processi di transnazionalizzazione l’attività repressiva e di controllo degli apparati nazionali è prevalentemente indirizzata a garantire che il territorio non presen139

ti rischi per le imprese che vi operano. Zygmunt Bauman, in particolare, ha sostenuto che gli Stati nazionali, indeboliti dalla globalizzazione, sono ormai ridotti a «commissariati locali di polizia, che assicurano quel minimo di ordine necessario a mandare avanti gli affari»6. Bauman denuncia la subordinazione delle politiche penali statali alle esigenze dell’economia globale, subordinazione che egli ritiene indice di una perdita di controllo degli Stati-nazione, divenuti meri esecutori delle volontà degli investitori globali. Gli Stati nazionali sono per Bauman «Stati deboli»7 che, pur essendo impotenti nei confronti delle élite transnazionali, conservano il monopolio dell’esercizio legittimo della forza fisica verso l’interno e usano il potere di punire per riaffermare la propria sovranità. Secondo Bauman lo Stato nazionale non è più in grado di funzionare come apparato di razionalizzazione e di controllo delle forze economiche, sociali, politiche e tecnologiche e rinsalda la propria autorità «riarmandosi» verso l’interno contro quelle categorie di cittadini che non sono in grado di partecipare al mercato globale e che trascorrono le loro vite prigionieri di mondi locali8. Lo Stato, spogliato delle sue principali funzioni di governo, troverebbe così nell’ideologia della «tolleranza zero» e nell’incarcerazione di massa un’occasione per riaffermare la propria potenza. Bauman ha tratto questa tesi dalle analisi di Pierre Bourdieu e del suo allievo, Loïc Wacquant. Bourdieu, in un articolo del 1997, aveva criticato il modello dello «Stato caritatevole» teorizzato dalla destra statunitense che, a suo avviso, andava imponendosi anche al di qua dell’Atlantico come modello statale dominante, rivoluzionando le politiche sociali europee e inaugurando un sistema duale nel quale lo Stato avrebbe avuto, al contempo, il carattere di uno Stato sociale minimo, in grado di garantire soltanto la sicurezza delle classi medie, e di uno Stato repressivo forte, incaricato di contrastare la violenza generata dalle condizioni precarie in cui si sarebbe trovata a vivere una fascia sempre più larga della popolazione9. Le ricerche di Wacquant si sono concentrate sulle politiche penali contemporanee10. Egli ha teorizzato la formazione di un nuovo modello statuale, lo «Stato penale», che risulterebbe da un processo di ipertrofizzazione delle strutture repressive degli Stati nazionali. Tale processo sarebbe funzionale alla riaffermazione della sovranità statale e deriverebbe dalla dismissione dei sistemi di Welfare. Secondo Wacquant la globalizzazione comporta una ridefinizione della missione dello Stato che, ritirandosi dall’arena economica e riducen140

do il proprio intervento sociale, potenzia la propria azione nella sfera penale attraverso severe politiche repressive. Le politiche di «tolleranza zero», con il loro lessico bellicista, sono per Wacquant funzionali all’imposizione dello «Stato penale», attraverso l’elezione delle fasce più povere della cittadinanza a nuovi nemici della nazione. I mendicanti, i senza fissa dimora, i tossicodipendenti, gli stranieri sono assimilati a degli invasori da cacciare dal territorio: la loro esclusione – laddove non sia possibile procedere a una vera e propria espulsione come nel caso dei clandestini – è realizzata attraverso la reclusione in carcere per lunghi periodi di tempo, senza alcuna prospettiva di reinserimento sociale. Risultato di queste politiche è la criminalizzazione della miseria e della disoccupazione, considerate come atteggiamenti politici che denotano ostilità nei confronti dello Stato e dell’ideologia di mercato. Wacquant fonda la sua tesi in particolare sul «nuovo paternalismo» propugnato da Lawrence Mead11, esponente della destra neoconservatrice statunitense e fautore del superamento del welfare State. La destra statunitense ha teorizzato a partire dagli anni Ottanta del Novecento uno Stato forte, tutore dei valori morali tradizionali, in grado di imporre ai poveri, che sarebbero stati deresponsabilizzati dalle politiche d’intervento sociale degli anni Settanta, una nuova disciplina. Wacquant sostiene che Mead e gli altri pensatori della nuova destra12 hanno favorito la riconversione del welfare State statunitense in uno «Stato penale» nel quale la politica sociale si è saldata con politiche repressive particolarmente rigide. Le tesi di Bauman, di Wacquant e degli altri autori che hanno teorizzato la nascita dello «Stato penale» hanno riscosso un notevole successo sia nel mondo anglosassone, sia in Europa13. Esse hanno il merito di mettere in evidenza la connessione esistente fra l’indebolimento delle strutture del welfare State e la diffusione delle nuove politiche penali e tuttavia eccedono nell’attribuire una coerenza e un significato univoco alle politiche penali contemporanee, che presentano invece un carattere ambiguo e contraddittorio. La tesi del passaggio dallo Stato sociale allo «Stato penale» è fondata sull’idea che – come ha scritto Bauman – la globalizzazione riduce «quel che ancora lo Stato-nazione, sempre più debolmente, conserva dell’iniziativa politica di un tempo alle questioni della legge e dell’ordine»14. Questa tesi tende, da una parte, a sottovalutare il ruolo che gli Stati nazionali giocano come attori della globalizzazione in campo economico e finanziario e, dall’altra, a conservare una concezione unitaria 141

dello Stato che appare tributaria di una visione tipicamente moderna dello Stato-nazione. La teoria dello «Stato penale» non tiene conto delle nuove potenzialità che gli Stati hanno assunto come protagonisti della globalizzazione e, allo stesso tempo, enfatizza il ruolo degli apparati statali nella gestione della sfera penale. La tesi di uno «Stato penale» debole verso l’esterno e forte verso l’interno appare inoltre poco credibile laddove sostiene l’inevitabile declino degli Stati nazionali investiti dalla globalizzazione e, assieme, l’esistenza di una forte «volontà statale» che guida le dinamiche in corso in campo penale e penitenziario. Alla luce di un’analisi accurata delle politiche penali adottate negli Stati Uniti e in Europa, la tesi che lo Stato sia il principale artefice delle politiche di «tolleranza zero» e dell’incarcerazione di massa non appare convincente: se sul piano simbolico le politiche ispirate alla severità penale sono idonee alla riaffermazione del potere dello Stato15, è tuttavia evidente che tali politiche non sono di esclusivo monopolio statale e che esiste un’accesa competizione per la gestione del controllo penale fra diversi attori sovranazionali, regionali e locali, sia pubblici che privati. Lungi dal conservare il monopolio esclusivo della forza nel settore penale e penitenziario, le autorità statali sono sfidate dai nuovi attori globali e locali della sicurezza, tanto che il monopolio statale in campo penale – ammesso che si sia mai del tutto realizzato – sembra essersi trasformato in un primato costantemente conteso. Come ha rilevato Bertrand Badie16, la globalizzazione produce una riconfigurazione del territorio, una riterritorializzazione delle strutture politiche e sociali su una scala nuova rispetto al passato: da una parte, essa determina la creazione di grandi aree regionali che si caratterizzano per una relativa omogeneità economica e sociale, dall’altra, esalta una microdimensione iperlocalistica. La globalizzazione conduce dunque a una nuova articolazione dei poteri che tende a iscrivere anche gli interventi punitivi in un orizzonte «glocale», configurando un sistema decisionale a più livelli nel quale è difficile rinvenire un’unica razionalità. Come gli altri campi, così anche il campo penale è sottoposto dalla globalizzazione a processi di frammentazione e di segmentazione che spesso sono la causa principale dell’affermazione di politiche penali particolarmente repressive e del ricorso all’incarcerazione di massa (com’è emerso dallo studio della legge californiana three strikes and you’re out17). Da un lato, la nuova importanza alla quale la località assurge nel contesto della globa142

lizzazione induce lo Stato a delegare alle comunità locali importanti funzioni di controllo; dall’altro, nuove istanze globali e regionali – è il caso ad esempio dell’Unione Europea – contendono allo Stato il diritto di amministrare la sfera penale e penitenziaria e di legiferare in questa materia. In questo quadro può accadere che lo Stato nazionale assuma un ruolo di mediatore fra le diverse forze sociali che intendono intervenire nell’area penale e penitenziaria e si faccia garante della tutela dei diritti dei cittadini18. Se dunque di «legge globale e ordini locali»19 si può parlare, appare però anacronistico attribuire allo Stato la responsabilità esclusiva dell’imposizione di questi ultimi e considerarlo come un’istituzione monolitica, forte e decisa nell’attuazione delle politiche di «tolleranza zero». Queste politiche sono nate all’interno di specifici contesti urbani: sono state sperimentate a livello locale e quindi si sono globalizzate, come dimostra il successo del «modello New York»20. Molto più degli Stati nazionali sono dunque le metropoli globali – quelle che Saskia Sassen ha definito «global cities»21 – i laboratori delle politiche penali contemporanee, così come della maggior parte degli orientamenti politici e culturali che si affermano a livello mondiale. Sono queste città, caratterizzate da una forte polarizzazione economica e sociale, ad aver sperimentato per prime la spazializzazione del controllo tipica delle politiche di «tolleranza zero» e promosso le forme di intervento penale particolarmente dure che caratterizzano l’epoca dell’incarcerazione di massa. Come si è visto per la maggior parte dei paesi europei, le carceri più grandi e più sovraffollate sono concentrate nelle aree metropolitane, dove la severità penale è stata spesso promossa in risposta alla crisi delle strutture urbane create nella modernità e al dilagare delle nuove paure esistenziali connesse alle radicali trasformazioni del mercato del lavoro e dell’organizzazione sociale. 5.3. Il governo delle paure: dalla città globale alla comunità sotto controllo La «crisi urbana», innescata dalla ristrutturazione delle economie dei paesi industrializzati, ha cambiato il volto delle metropoli statunitensi ed europee, modificandone sia il tessuto urbano, sia la composizione sociale. Questa trasformazione è uno dei principali fattori della crescita del sentimento d’insicurezza e della paura della criminalità che hanno motivato la scelta di politiche penali ispirate al143

la «tolleranza zero». In seguito ai processi di disintegrazione e di frammentazione dello spazio urbano che hanno condotto alla progressiva polarizzazione economica e socio-spaziale di molte città statunitensi ed europee, si è diffusa nell’opinione pubblica una forte preoccupazione per la «criminalità di strada»: negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, il tema della violenza urbana è stato posto al centro del dibattito pubblico sia negli Stati Uniti, sia in Europa22. Politici e mass media si sono concentrati sulla diffusione fra le fasce più povere della popolazione metropolitana, e in particolare fra i giovani, di nuove forme di devianza, enfatizzandone la pericolosità sociale e sostenendo che esse erano la causa principale del «degrado» in cui versavano molte grandi città. Così un insieme di comportamenti antisociali e di condotte criminali diffusi nelle periferie delle metropoli – che una parte della penologia ha riassunto sotto l’ambigua etichetta di «disordine urbano»23 – è stato elevato al rango della criminalità più minacciosa. È in primo luogo nei confronti di queste fasce sociali, per lo più costituite da giovani poveri di origine straniera, privati del sostegno delle agenzie del welfare State, che è stata invocata per la prima volta la «tolleranza zero» e sono state sperimentate le nuove strategie di controllo. Alla base di una risposta così dura è rinvenibile, come molti hanno notato24, un uso strumentale dei temi sicuritari da parte delle élite politiche, finalizzato a celare i problemi economici e sociali causati dalla ristrutturazione del welfare State. Tuttavia, l’attenzione suscitata dal problema della sicurezza urbana è motivata anche dalla percezione diffusa che questo genere di disordini siano il sintomo di una conflittualità che va radicalizzandosi. Negli Stati Uniti il fenomeno della violenza urbana ha radici più antiche che in Europa e ha avuto per lo più un carattere estremo. È il caso delle «rivolte urbane» (urban riots), determinate dall’esasperazione dei conflitti fra diversi gruppi etnici, che sono scoppiate in alcune metropoli statunitensi nel corso degli anni Ottanta e Novanta25. Tuttavia, anche molte città europee sono state attraversate in questi ultimi anni da processi di trasformazione che ne hanno stravolto l’assetto sociale e urbanistico, facendo sorgere nuove conflittualità. Si è assistito così a un fenomeno analogo a quello manifestatosi già da alcuni decenni nelle grandi divided cities26 degli Stati Uniti, nelle «città duali», «capitali» della globalizzazione, in cui la classe media tende a scomparire per lasciare spazio a una contrapposizione fra i membri della nuova élite globale e i gruppi sociali margi144

nali, ghettizzati in specifiche aree urbane27. La fine della «città del Welfare»28 ha determinato la crisi del modello europeo della città come «macchina di integrazione»29 sociale e la riemersione di antiche forme di segregazione. In molte città europee si è assistito alla proliferazione d’interventi urbanistici che segmentano lo spazio urbano, attraverso la delimitazione di aree protette, spesso ad accesso controllato, riservate all’esercizio di specifiche attività. In alcuni casi, queste enclaves30 sono destinate ad accogliere le fasce più marginali della popolazione, come accade nei complessi di edilizia popolare, e ripropongono il modello del ghetto tipico delle metropoli statunitensi; in altri, invece, le aree riservate sono destinate alla residenza e alle attività lavorative e di svago delle classi agiate, che si sottopongono a una sorta di autosegregazione. All’interno di queste aree l’attenzione per la sicurezza è massima sia che s’intenda difendere la propria incolumità personale e i propri beni dalle aggressioni provenienti dall’esterno – come nei quartieri residenziali borghesi e nei centri commerciali – sia che si provveda a controllare i comportamenti degli stessi residenti, attraverso forme di sorveglianza esercitate dalle agenzie sociali e penali statali o attraverso il controllo comunitario svolto da gruppi organizzati di residenti. In Europa la dislocazione spaziale di queste aree, per lo più ai margini delle città, è considerata sufficiente per determinare il loro isolamento dal contesto urbano e tracciare il limite che separa gli abitanti e gli utenti delle enclaves dal resto della popolazione. La collocazione in zone ben definite, quasi sempre periferiche, appare anche come una garanzia nei confronti della criminalità: i soggetti che si muovono all’interno di questi spazi delimitati sono in genere identificabili e controllabili attraverso gli strumenti tradizionali di controllo sociale o con meccanismi di sorveglianza discreta, come la videosorveglianza, senza che ci sia bisogno di costruire muri particolarmente alti o di ingaggiare veri e propri corpi di guardia. Negli Stati Uniti invece – e ancor più in alcune metropoli globali sudamericane31 e asiatiche – le enclaves sono spesso concepite come vere e proprie «città fortezza»32, circondate da mura inespugnabili e controllate da custodi armati. Le «città fortezza» hanno nella paura per la violenza urbana e per il crimine la loro principale giustificazione, tanto che il movimento architettonico che le ha ideate e promosse accetta che il proprio stile sia definito come «defensible architecture»33. Queste cittadelle private, isolate fisicamente dal resto delle installazioni urbane grazie a muri e accorgimenti architet145

tonici che impediscono ogni rapporto fra gli edifici in questione e la strada pubblica, sono controllate da guardie private armate e da sistemi di sicurezza che assicurano un monitoraggio completo degli ingressi e delle uscite. Al loro interno si formano ambienti sociali omogenei, cosicché i dispositivi di sicurezza assurgono al rango di status symbols che segnalano un’elevata condizione sociale. Paradossalmente l’effetto di queste soluzioni urbanistiche sembra essere un aumento della paura: in primo luogo perché il diffondersi di zone private protette determina una frammentazione del tessuto urbano, che si traduce in una progressiva riduzione degli spazi pubblici e delle interazioni sociali spontanee. Le strade tendono così a diventare luoghi pericolosi, frequentati solo da soggetti marginali ai quali è negato l’ingresso nelle aree riservate34. La sensazione d’insicurezza aumenta tuttavia anche all’interno delle enclaves protette sia a causa degli effetti ansiogeni prodotti dal controllo, sia perché la rottura delle relazioni con il mondo esterno e il senso d’isolamento accrescono la diffidenza nei confronti di ciò che sta fuori dalle aree riservate e la percezione di essere circondati da un ambiente ostile. La paura della criminalità rischia così di trasformarsi in paura della contaminazione della «comunità pura»35, del gruppo socialmente coeso rifugiatosi nell’enclave, generando un clima di sospetto continuo36. Attraverso queste dinamiche, l’autosegregazione della classe media finisce per sortire alcuni degli effetti tipici della segregazione coatta imposta nei ghetti delle metropoli statunitensi e di molte banlieues europee. Come ha scritto Zygmunt Bauman, «i ghetti volontari condividono con quelli reali la terrificante capacità di far sì che il proprio isolamento si autoperpetui e si autoalimenti»37. L’enfasi sulla protezione dal crimine crea un circolo sicuritario per il quale la sorveglianza, evocando la minaccia esterna, accresce il sentimento d’insicurezza e promuove un ulteriore investimento nella sorveglianza, facendo dei promotori dei controlli i carcerieri di se stessi. La città globale divisa in enclaves ripropone i miti comunitari che hanno sempre animato i movimenti di deurbanizzazione: la società civile attraversata dai processi di globalizzazione si atomizza rinunciando alla complessità e frammentandosi in tante comunità omogenee e intolleranti. Alla fine della città come progetto sociale unitario38 si contrappone una risposta comunitaria dalle forti implicazioni politiche e sociali che entra in tensione con il progetto liberal-democratico. Da queste dinamiche «glocali» sembrano muovere le 146

principali politiche penali contemporanee: la logica concentrazionaria dei ghetti coatti e dei ghetti volontari appare conforme al mito dell’incarcerazione di massa come rimedio al disordine sociale. Quando la segregazione urbana non è più sufficiente a imporre l’ordine, il carcere è chiamato a sancire la definitiva esclusione dei marginali dalla società, attraverso la forma estrema di segregazione: la detenzione incapacitante. 5.4. La sicurezza comunitaria fra democrazia e intolleranza Le «città-fortezza» sono il caso estremo di localizzazione del controllo sociale ma, in parallelo con le nuove ideologie penali, si sono diffuse anche altre forme di controllo comunitario. La preoccupazione per la «sicurezza della comunità» è alla base delle tipologie d’intervento penale che nel mondo anglosassone hanno assunto il carattere del controllo autogestito dalle comunità dei residenti, mentre in molti paesi europei, tra i quali l’Italia e la Francia, hanno condotto a una ridefinizione dei compiti delle forze di polizia e alla creazione di strumenti d’intervento nell’area penale che consentono la collaborazione fra la polizia e le comunità locali39. Il community patrolling, la justice de proximité, la justitie in de buurt e il poliziotto di quartiere sono alcune delle risposte che sono state date nei vari contesti nazionali alla stessa domanda popolare di garantire la sicurezza delle comunità locali, laddove per comunità locali s’intende quasi sempre comunità ristrette di residenti che coincidono al massimo con l’estensione di un quartiere cittadino. L’adozione di questi strumenti di controllo locale è solo in parte fondata sulla convinzione che il controllo localizzato sia più adeguato del controllo statale tradizionale a prevenire la violenza urbana e la microcriminalità. Essa appare motivata soprattutto dall’esigenza di rispondere al senso d’insicurezza collettiva, avvicinando la polizia ai cittadini o incaricando i cittadini stessi di garantire la propria sicurezza secondo le modalità che essi giudicano più opportune. C’è tuttavia alla radice del successo delle forme di polizia comunitaria anche la percezione da parte dei cittadini che esse siano conformi alla generale ristrutturazione degli apparati pubblici, idonee a integrare l’intervento dello Stato e a privatizzare le forme di controllo e che rispondano quindi alle ineludibili domande di cambiamento poste dai processi di globalizzazione che investono gli Stati nazionali. Massimo Pavarini40, analizzando le esperienze italiane di controllo co147

munitario, ha indicato fra le ragioni della torsione verso il governo locale della sicurezza, oltre alla diffusa percezione dell’incapacità dello Stato di gestire i conflitti e le loro conseguenze sociali, la sintonia fra queste nuove forme di controllo e le «strategie del farsi carico» storicamente proprie delle politiche socio-assistenziali degli enti locali che sono subentrati nei ruoli prima svolti dai sistemi nazionali del welfare State. Attraverso la collaborazione fra cittadini e forze dell’ordine o attraverso la delega che lo Stato conferisce ai cittadini perché gestiscano la propria sicurezza, passa anche una ridefinizione del rapporto fra le istituzioni e la società civile, soprattutto nei paesi come la Francia e l’Italia nei quali lo Stato ha per molto tempo difeso il suo monopolio in campo penale. Salvatore Palidda ha messo in luce il ruolo svolto in Italia dai comitati di quartiere e dagli altri «imprenditori della sicurezza»41 nella riorganizzazione del rapporto fra le comunità locali e le agenzie pubbliche. Secondo Palidda le relazioni intessutesi in Italia negli anni Novanta fra comitati di cittadini e polizia hanno riempito il vuoto lasciato dal declino della politica: «la mediazione tra società locale e polizie – scrive Palidda – sembra prendere il posto della ‘mediazione politica’ attraverso la quale i partiti gestivano i vari segmenti della loro clientela»42. Fra forze di polizia e «imprenditori della sicurezza» si crea spesso una forma di scambio che consente la legittimazione reciproca: la polizia accredita i cittadini che sceglie come interlocutori nella gestione dell’ordine pubblico come esponenti autorevoli della comunità locale43 e questi, a loro volta, riconoscono gli sforzi prodotti dalla polizia per combattere il crimine e il carattere democratico della sua azione, contribuendo alla costruzione di un’immagine positiva delle forze dell’ordine. La sperimentazione di forme di controllo locale determina così una nuova articolazione del rapporto fra i cittadini e lo Stato e fra la sfera privata e la sfera pubblica; essa comporta inoltre la caratterizzazione dell’azione penale come un’azione di natura sociale concordata con le comunità locali, che si struttura come un’offerta di «controllo su misura». Le funzioni delle agenzie penali si moltiplicano: queste sono incaricate non solo di prevenire e di reprimere la violazione dell’ordine pubblico, ma anche di costruire le condizioni per una buona «qualità della vita», assumendosi un compito tradizionalmente riservato alla politica. La sicurezza comunitaria è poi in molti casi un surrogato della solidarietà sociale, intesa sia come solidarietà fra gli in148

dividui, sia come impegno statale e collettivo a provvedere alle esigenze dei cittadini più deboli. Il controllo comunitario si propone di supplire al venir meno su scala locale dell’intervento dello Stato sociale. Il «cittadino brutto e cattivo»44, ossessionato dalla paura della criminalità, è paradossalmente anche uno dei pochi attori sociali rimasti a presidiare l’esistenza di una sfera pubblica, per quanto ridotta alla scala di un quartiere o di un condominio45. Questo processo comporta il rischio che la società si trasformi in una «comunità di comunità», in contrasto con l’immagine della società civile come insieme di individui che sembrerebbe dover caratterizzare, oltre al paradigma liberale classico, anche il sistema politico neoliberale. Molti autori hanno sostenuto che esiste una contraddizione fra le politiche penali «comunitarie» e le politiche penali neoliberali. Alcuni hanno persino considerato il modello di autogoverno comunitario nella sfera penale come uno strumento di resistenza all’ideologia neoliberale. Quest’interpretazione è diffusa nella letteratura angloamericana ed è stata sostenuta anche da autori molto critici nei confronti delle politiche di incarcerazione di massa come Elliott Currie46 e Steven Donziger47. Negli Stati Uniti il controllo di comunità è stato considerato da una parte della letteratura come l’unico mezzo in grado di porre fine alle violenze della polizia e come il sistema più giusto e più efficace per consentire alle minoranze di autogestirsi. La nuova criminologia britannica e una parte della criminologia italiana hanno a loro volta sostenuto il carattere alternativo del controllo di comunità rispetto al controllo penale invasivo da parte dello Stato: la nascita di comitati per la sicurezza nei quartieri, in particolare nelle periferie popolari, è stata interpretata come una risposta democratica e non autoritaria alla paura della criminalità48. Benché abbiano tutti origine nella richiesta di sicurezza locale, i modelli di controllo comunitario non sono dunque tutti uguali. Due sono i paradigmi principali: il primo, più vicino alle esperienze delle enclaves fortificate analizzate nel paragrafo precedente, si pone in esplicito contrasto con il sistema politico liberale, liquidato come un paradigma politico superato che non è in grado di evitare la conflittualità etnica e sociale; il secondo è invece un modello che tenta di sviluppare una risposta democratica alla domanda di sicurezza proveniente dalla cittadinanza. Esso cerca di assimilare il controllo comunitario ad altre forme di democrazia partecipativa che si pongono come strumenti per la deburocratizzazione e per la ricerca di soluzioni adeguate ai contesti locali. Anche i sentimenti che sono alla 149

base della richiesta di sicurezza nei due modelli di controllo localizzato sono distinti: da una parte vi è la ricerca della «purezza» e dell’omogeneità sociale (e spesso anche razziale), dall’altra si assiste piuttosto a reazioni provenienti da differenti gruppi sociali accomunati dall’«indignazione morale»49 per la rottura dei legami di solidarietà e per il declino di valori etici considerati irrinunciabili. In quest’ultimo caso, il controllo comunitario è percepito dai suoi promotori anche come uno strumento d’integrazione sociale50 conforme a una visione solidarista dello Stato e della società. Le esperienze italiane e francesi che vanno in quest’ultima direzione si distinguono dal modello angloamericano, affermatosi in parte anche in Germania e in altri paesi del Nord Europa, in quanto assomigliano più a forme di governance penale che ai modelli comunitari statunitensi. In queste esperienze la comunità non è mai l’unico attore del controllo, ma è coinvolta nelle attività preventive svolte dalle forze dell’ordine. Si tratta di forme di «partenariato»51 nelle quali alla definizione delle politiche penali concorrono agenzie pubbliche, privati cittadini e il cosiddetto «privato sociale», ossia le associazioni di volontariato e le altre forme di organizzazione collettiva52. Nonostante queste differenze, la critica che è stata mossa anche a queste ultime forme di sorveglianza localizzata appare condivisibile. È stato notato in particolare come esse tendano, al pari delle forme comunitarie statunitensi, a fondarsi su una nostalgia del passato, su un’idea di ordine sociale che non coincide con il rispetto delle norme giuridiche ma tende a dilatarsi, in contrasto con quel «politeismo dei valori» che è una delle principali conquiste della modernità occidentale. Le forme di controllo comunitario tendono a confondere controllo penale e controllo sociale introducendo una nozione estesa di devianza che comprende tanto i comportamenti propriamente criminali, quanto gli atteggiamenti antisociali inoffensivi. Entrambi i modelli analizzati contribuiscono inoltre alla costruzione sociale del senso d’insicurezza incoraggiando la formulazione di problemi sociali e politici di diversa natura in termini sicuritari53. Inoltre, neppure i modelli democratici di controllo comunitario sembrano contrastare l’erosione della sfera pubblica, poiché, come i modelli estremi, tendono a promuovere una visione della società come insieme di comunità che solo in alcune specifiche condizioni (quali quelle che hanno caratterizzato alcune esperienze italiane54) evita di condurre al rifiuto del modello sociale liberal-democratico fondato sull’integrazione e sulla partecipazione individuale alla vita 150

politica. E ancora: tutti i sistemi di controllo dal basso, poiché vincolano le forze dell’ordine a fornire risposte penali ad hoc, si prestano a incentivare la discriminazione e le disuguaglianze. In queste condizioni, come scrive Palidda, per la polizia – alla quale rimane anche nei casi estremi di controllo comunitario il compito d’intervenire di fronte alla commissione di reati – «la chiamata da un certo quartiere, o da parte di una persona che si qualifica in un certo modo, vale più di quella che viene da una zona qualsiasi della periferia e da parte di un ‘illustre sconosciuto’»55. Palidda, che fonda quest’affermazione su un’indagine etnografica dei comportamenti della polizia italiana, mostra come la collaborazione fra polizia e privati possa avere un carattere «pericoloso», poiché istituisce un canale privilegiato per alcuni gruppi e per alcune formazioni sociali. È evidente che discriminazioni di questo genere esistono anche in un modello penale tradizionale e tuttavia ciò che non pare accettabile nel modello comunitario è il fatto che tali discriminazioni siano istituzionalizzate e legittimate pubblicamente56. Infine, è importante segnalare come la richiesta di sicurezza dal basso tenda a invocare risposte rapide e immediatamente efficaci a problemi complessi e di difficile soluzione, finendo per incoraggiare l’inasprimento della repressione penale. Benché sia legittimo notare che la «sicurezza comunitaria» nelle sue diverse forme si fonda su una visione della società e della politica diversa da quella che anima il sistema politico neoliberale, fra la «razionalità comunitaria» e la «razionalità neoliberale» si possono trovare alcuni importanti punti di contatto, tanto che nella maggioranza delle politiche, non solo penali, che vanno affermandosi a livello globale può essere rinvenuta una combinazione di queste due razionalità. Come si è visto nei capitoli precedenti, le nuove politiche penali elaborate negli Stati Uniti tendono a sommare gli elementi tipici dell’ideologia neoliberale, come l’approccio tecnico alle questioni penali e la neutralità delle tecniche statistiche, con elementi comuni ai modelli comunitari, quale ad esempio il principio per cui sono i cittadini i responsabili della propria sicurezza. Si potrebbe fare un lungo elenco dei tratti delle politiche penali contemporanee che possono essere associati ora all’uno ora all’altro modello politico. I provvedimenti three strikes and you’re out sono fra gli esempi più significativi della complementarietà fra politiche penali neoliberali e approccio comunitario: come si è visto, essi recano con sé l’idea arcaica dell’espulsione del reo dalla comunità e un 151

integralismo punitivo che affonda le radici in una concezione moralistica della società, ma allo stesso tempo si mostrano funzionali alla precarizzazione delle condizioni di vita di intere fasce sociali assunte come target delle politiche di controllo, attraverso il ricorso al linguaggio statistico ed economico. La complementarietà del modello comunitario con quello neoliberale è confermata anche dall’integrazione – realizzatasi nelle politiche penali «dure» adottate a New York e importate in Europa – di strategie di controllo che a un’analisi superficiale sembrerebbero molto diverse, come la zero tolerance e le attività di lotta alla degradazione dell’ambiente urbano propugnate dai teorici del fixing broken windows57. La prima è considerata come il simbolo stesso delle politiche penali neoliberali, mentre la seconda, proposta da James Q. Wilson, George Kelling e Catherine Coles, si colloca nel filone delle teorie della sicurezza comunitaria, tanto che il sottotitolo al volume pubblicato da Kelling e Coles è appunto Restoring Order in Our Communities. Kelling e Coles, sviluppando un articolo scritto dallo stesso Kelling e da James Q. Wilson all’inizio degli anni Ottanta58, propongono una strategia di lotta alla criminalità fondata sull’impegno delle amministrazioni pubbliche e dei cittadini a «riparare le finestre rotte», ossia a contrastare in modo efficace il degrado urbano, attraverso un’attenzione costante al territorio. Benché i due autori si dichiarino favorevoli alla sostituzione delle strategie di polizia più repressive con un modello non razzista e non violento di polizia comunitaria, questa teoria – che ha riscosso grande successo anche in Europa – è complementare alle azioni di lotta dura alla criminalità di strada intraprese dall’amministrazione di New York59. La teoria del fixing broken windows è conforme all’ideologia di zero tolerance, per la quale è necessario reprimere ogni minima offesa all’ordine pubblico e alla pace sociale. Il decadimento dell’ambiente urbano non è per Kelling e Coles il risultato di politiche sociali, edilizie, urbanistiche e ambientali sbagliate, ma è il prodotto dei comportamenti antisociali di alcuni gruppi, particolarmente dei giovani afroamericani60. La teoria delle «finestre rotte» contribuisce così a rafforzare una concezione penale secondo la quale non rileva tanto l’importanza del bene offeso, quanto l’impatto che il reato ha sulla vita della comunità; conseguentemente, le condotte di alcuni soggetti sociali, come i «senza fissa dimora», i tossicodipendenti, i transessuali, i giova152

ni stranieri, gli afroamericani o i latinos vengono criminalizzate per la loro indesiderabilità sociale, anche quando sono inoffensive. Le politiche di «tolleranza zero» e le politiche di «sicurezza comunitaria» si integrano in un modello penale complesso e ambivalente che ha come obiettivo la riaffermazione dell’ordine pubblico come bene supremo e il coinvolgimento della maggioranza dei cittadini in attività finalizzate all’esclusione di particolari categorie sociali. L’esclusione promossa da entrambi questi modelli d’intervento penale è conforme sia alle esigenze del mercato del lavoro destrutturato dal neoliberalismo, sia al bisogno di riaffermare i valori morali tradizionali espresso dalle categorie sociali che più si sentono minacciate dalla globalizzazione. David Garland ha formulato un’interessante ipotesi interpretativa riguardo al peculiare connubio fra politiche neoliberali e politiche conservatrici che ha caratterizzato gli orientamenti penali statunitensi ed europei negli anni Ottanta e Novanta. Per Garland gli Stati nazionali (in particolare la Gran Bretagna e gli Stati Uniti) hanno risposto all’indebolimento della propria capacità di controllo, anche in campo penale, attraverso provvedimenti penali di due tipi: da una parte, essi si sono adattati alle esigenze imposte dalla globalizzazione e alla perdita di molte delle proprie prerogative sovrane, dall’altra hanno tentato di riaffermare sul piano simbolico il proprio potere di governo, attraverso l’adozione di politiche penali dure. Garland definisce «adattative» le risposte degli apparati amministrativi dello Stato che, piegandosi al dogma neoliberale della razionalizzazione delle risorse pubbliche e della riduzione dell’intervento statale, hanno promosso la professionalizzazione della giustizia, la privatizzazione di molti servizi dell’area penale, il ridimensionamento del concetto di devianza, la ridefinizione verso il basso dei criteri di successo dell’intervento statale in campo penale, lo spostamento dell’attenzione pubblica dalle cause del crimine alle sue conseguenze e il passaggio di responsabilità e di competenze dalle amministrazioni centrali agli enti locali e ai privati. A queste risposte, conformi all’ideologia neoliberale, si sono alternate risposte ispirate a quello che Garland definisce il «diniego forzato» della perdita di sovranità da parte degli Stati; queste ultime, che Garland chiama «espressive», sono state elaborate non tanto dagli apparati amministrativi quanto dal ceto politico allo scopo di compiacere l’opinione pubblica. Le politiche penali dure degli anni Novanta – in particolare i provvedimenti three strikes and you’re out – hanno avuto principalmente una 153

funzione catartica, sono state dei messaggi inviati dallo Stato ai cittadini, tesi a rassicurare l’elettorato dell’efficacia delle funzioni di governo ai fini della risoluzione dei loro problemi quotidiani61. 5.5. Politiche postmoderne: insicurezza esistenziale e società del rischio Sia le politiche penali «dure», ispirate all’ideologia della «tolleranza zero», sia le politiche di controllo comunitario rappresentano una rottura rispetto ai modelli d’intervento penale sperimentati nelle democrazie liberali moderne: per questo una parte della letteratura sociologica le considera politiche tipiche della postmodernità. L’impressione è, tuttavia, che quest’interpretazione tenda a esagerare il carattere inedito delle attuali tendenze di politica penale. Molte analisi prodotte in questi anni trascurano che, come ha rilevato Ulrich Beck, la postmodernità presenta in vari campi i caratteri propri di una «contromodernità modernizzata»62, riproponendo vecchi paradigmi che il XX secolo sembrava aver definitivamente superato. Le politiche di «tolleranza zero» non sono un portato esclusivo della globalizzazione, né sono completamente nuove. Molte delle politiche penali contemporanee sono direttamente ispirate a ideologie e parole d’ordine che ebbero grande successo negli Stati Uniti e in Europa già alla fine del XIX secolo e sono motivate dall’esigenza di rispondere a paure diffuse che non possono considerarsi appannaggio delle società contemporanee. Il pensiero conservatore, del resto, propone esplicitamente un ritorno a politiche sociali tipicamente ottocentesche. Charles Murray, ad esempio, denuncia nei suoi scritti la filosofia egualitaria affermatasi con la Rivoluzione francese63, promuovendo una concezione classista tipica dei regimi censitari ottocenteschi per la quale, poiché lo status economico è una diretta conseguenza delle capacità intellettive individuali, esiste una piena corrispondenza fra intelligenza e rango sociale: a un basso livello sociale corrisponde uno scarso quoziente intellettivo e viceversa. La condanna, costantemente ripetuta negli scritti dei fautori della «tolleranza zero», della deresponsabilizzazione delle classi popolari causata dalle politiche sociali interventiste è un altro elemento tipico del conservatorismo liberale ottocentesco. Infine, il richiamo ai valori patriarcali e l’appello a un «nuovo paternalismo» – non solo teorizzato dai conservatori ma anche sotteso alle principali riforme penali statunitensi e britanniche degli ultimi vent’anni – ricorda l’i154

deologia vittoriana studiata da Michel Foucault64 e ripropone un modello disciplinare fondato sulla condanna morale della povertà. Le strategie di controllo delle classi marginali sono giustificate dai sostenitori della severità penale contemporanea con argomenti di tipo morale: il povero è un irresponsabile, incapace di farsi «imprenditore di se stesso» e di cogliere le occasioni che la società globale gli offre. La «tolleranza zero» si avvale così di una delle retoriche tipiche del liberalismo ottocentesco che rifiutò di prendere in considerazione la «questione sociale» e che, non a caso, si fece promotore nella seconda metà dell’Ottocento del ricorso alla carcerazione come strumento principale di controllo sociale65. La criminalizzazione della miseria, denunciata da Wacquant come uno dei tratti principali delle nuove politiche penali, è il prodotto di un’ossessione che ha attraversato il XIX secolo: l’idea che esistano delle «classi pericolose»66 e dei «nemici interni» che compongono una «società organizzata di criminali»67 incuneata nella società civile. Anche l’insicurezza urbana che caratterizza le metropoli contemporanee ha radici antiche: come ha ricordato Agostino Petrillo68, il rifiuto della città, rappresentata come luogo conflittuale e pieno d’insidie, è un tema caro ai primi pensatori repubblicani statunitensi, a partire da Thomas Jefferson. Questa corrispondenza fra le ideologie neoliberali e il credo sociale del primo liberalismo trova forse una giustificazione in alcune analogie che si possono riscontrare fra il clima politico che caratterizza le democrazie liberali contemporanee e quello che si respirava negli Stati Uniti e in alcune democrazie censitarie europee alla fine del XIX secolo. La Francia di fine Ottocento, uscita dall’epoca delle rivoluzioni, sembra in particolare presentare una situazione politica per alcuni aspetti assimilabile alla situazione statunitense ed europea degli anni Novanta del Novecento: scomparso il nemico politico – il rivoluzionario per la Francia ottocentesca, il comunista sovietico per gli Stati Uniti e l’Europa del dopo 1989 – si è assistito all’emergere di un nuovo nemico dell’ordine interno cui si è attribuito il ruolo un tempo assegnato al cospiratore. I conflitti politici e sociali sono stati così riformulati come problemi di ordine pubblico e le tensioni interne sono state nuovamente indirizzate verso un nemico comune che minaccia la maggioranza dei cittadini69. Affermare che esistono analogie fra le politiche penali e penitenziarie contemporanee e le politiche liberali ottocentesche non significa però disconoscere il significato diverso che tali politiche assu155

mono oggi e il carattere peculiare che deriva loro dall’essere riproposte in condizioni sociali e politiche differenti. Se quindi dall’analisi della storia delle politiche sociali e penali degli ultimi due secoli è lecito concludere che esiste «una sorta di continuità per intervalla che giunge fino ai timori e alle insicurezze che attraversano la città contemporanea»70, è tuttavia innegabile che i timori e le insicurezze odierne presentano alcune caratteristiche originali. In primo luogo è necessario rilevare che le retoriche e le politiche repressive ottocentesche erano più esplicite nel teorizzare l’esclusione, mentre oggi solo alcuni autori «ultras», come quelli citati da Wacquant, si spingono fino a teorizzare il ritorno a una società classista ed etnicamente pura. In generale la retorica politica tende ad accreditare l’idea che sia possibile conciliare le nuove ideologie penali e penitenziarie con la tutela dei diritti e con il rispetto del principio di uguaglianza71. Inoltre, mentre le politiche ottocentesche si dispiegavano nei confronti delle «masse pericolose» del sottoproletariato urbano, in presenza di un conflitto sociale aspro e violento, le attuali politiche di «tolleranza zero» s’indirizzano a categorie di soggetti che si percepiscono come individui isolati e che per lo più non adottano consapevolmente atteggiamenti conflittuali nei confronti del sistema politico o del sistema sociale dominante. Accanto a queste differenze, relative alle funzioni e al modo di strutturarsi delle nuove politiche penali rispetto alle politiche liberali classiche, si devono notare anche alcune differenze che riguardano le forme di ansia e d’insicurezza che oggi sono spesso alla base della promozione della severità penale. Appare condivisibile l’analisi che Zygmunt Bauman ha condotto sulla diffusione dell’«Unsicherheit»72 nelle società postmoderne, ossia di un particolare senso d’insicurezza che è il risultato di tre componenti: l’insicurezza esistenziale (insecurity), l’incertezza circa le scelte da compiere (uncertainty) e la sensazione di essere esposti a pericoli (unsafety)73. Benché si possa riscontrare una continuità fra le paure di oggi e quelle del passato, l’insicurezza contemporanea si collega a una condizione antropologica nella quale l’«incertezza esistenziale», tipica dell’uomo moderno occidentale, non trova più un argine né nelle istituzioni statali, né nell’organizzazione sociale. La globalizzazione e l’affermazione dell’ideologia neoliberale promuovono una concezione identitaria fondata sull’adattabilità dell’individuo alle esigenze sempre nuove impostegli dal mercato, sulla capacità individuale di costruirsi quella che Ulrich Beck ha de156

finito una «biografia del fai-da-te»74, una personalità che può essere continuamente modificata, in un processo di perpetua «autocreazione»75. La mancanza di certezza circa la possibilità di esercitare un determinato mestiere, di ricoprire un incarico definito e la conseguente sfiducia riguardo alla capacità di mantenere un certo status sociale sono fattori che contribuiscono alla costruzione di un sentimento d’insicurezza. I sentimenti d’insicurezza connessi alla perdita di un’identità certa e alla mancanza di garanzie circa il proprio benessere economico sono convogliati dalla classe politica, cui spetterebbe il compito di porvi rimedio, verso la paura della criminalità: l’insecurity e l’uncertainty sono così assorbite dall’unsafety, dalla preoccupazione per l’incolumità fisica e per la difesa della proprietà privata. In questo quadro, la paura della criminalità non è più connessa a cause specifiche e chiaramente individuabili: l’«allarme sicurezza» ha una valenza simbolica e prescinde da un’analisi fattuale. La criminalità può anche decrescere, il tasso di vittimizzazione può anche essere irrisorio, ma la maggioranza dei cittadini statunitensi ed europei continuerà a sentire a rischio la propria incolumità fisica. La paura del crimine diviene così da paura individuale un’«esperienza culturale collettiva»76. Le radici del sicuritarismo contemporaneo sono dunque solo in parte remote: alla base delle nuove politiche penali vi è una condizione esistenziale che incoraggia l’adozione di politiche repressive. Ciò non significa che i cittadini statunitensi ed europei siano consapevoli della relazione che esiste fra le loro paure esistenziali e le politiche penali e penitenziarie che vanno affermandosi nei loro paesi. Il rapporto non è per lo più percepito consapevolmente e non sembra rintracciabile nelle società occidentali assillate dalla paura del crimine una volontà diffusa di rinunciare ai modelli giuridici e politici moderni in nome della sicurezza77. Accogliere le tesi di autori come Bauman e Beck non implica affermare che l’insicurezza contemporanea è oggettiva e inevitabile. Com’è stato da più parti rilevato, e com’è emerso dall’analisi puntuale delle diverse politiche penali adottate negli Stati Uniti e in Europa, l’insicurezza è in gran parte un dato socialmente costruito, frutto di una rappresentazione diffusa della realtà che tende a oscurare la presenza dei legami di solidarietà sociale che uniscono gli individui. Essa è, ancor più, una «realtà mediaticamente costruita»78, ossia una percezione indotta dal sistema dei mass media79, impegnato nella promozione di una visione della società come insieme di in157

dividui isolati e assediati dal crimine. La «società del rischio» è dunque in primo luogo una società dei rischi adombrati da una «politica della paura quotidiana»80 che, almeno in parte, può considerarsi funzionale all’imposizione di un ordine politico e sociale che deve apparire necessario. 5.6. Controllo penale ed esclusione sociale Nel corso di questo studio sono emerse più volte alla base delle nuove politiche penali e penitenziarie due razionalità distinte: una riconducibile al modello neoliberale e una riconducibile a un modello «comunitario». Le politiche penali della globalizzazione inoltre sono apparse ora come il risultato di scelte tecnocratiche, ora come la risposta a istanze populiste81. Più volte si è tentato di mettere in evidenza i punti di contatto fra queste due razionalità, fino ad affermare che esiste fra loro una sostanziale complementarietà. Una rapida analisi delle forme attuali del controllo sociale consentirà di comprenderne meglio i motivi. Zygmunt Bauman ha sostenuto che la relativa omogeneità delle società occidentali si è incrinata e che le grandi differenze economiche e sociali che hanno sempre caratterizzato il rapporto fra la popolazione occidentale e quella dei paesi non occidentali si riscontrano oggi anche all’interno delle società avanzate. Il mondo globale è abitato da una minoranza globalizzata, alla quale la globalizzazione concede nuove immense opportunità, e da una maggioranza di soggetti localizzati sempre meno capaci di scegliere il proprio destino. Il quadro tracciato da Bauman può apparire esagerato e tuttavia è sufficiente analizzare i mutamenti sociali avvenuti nelle diverse società occidentali e nei paesi non occidentali negli ultimi trent’anni per constatare che esiste un processo di globalizzazione delle disparità sociali che, se non ha ancora raggiunto la fase illustrata da Bauman, si avvicina molto a un simile scenario. Luciano Gallino ha ad esempio ricordato come a livello mondiale sono «cresciute, con una forte accelerazione negli ultimi venti anni, le disuguaglianze di reddito ai due estremi della piramide»82 sociale. Gallino ricorda che: secondo i dati via via riportati dai rapporti annuali del United Nations Development Program, nel 1960 il quinto più ricco della popolazione mondiale [...] si divideva il 70,2 per cento del PIL del mondo, mentre al quin158

to più povero [...] toccava il 2,3 per cento: il rapporto tra il primo e l’ultimo quintile era dunque di 30 : 183. Nel 1997, cui si riferiscono i dati del Rapporto 1999, il primo quintile è giunto a disporre dell’86 per cento del PIL mondiale, mentre il quintile più povero è sceso all’1 per cento [...] il rapporto tra i più ricchi e i più poveri, a livello mondo, è ora, in riferimento al PIL disponibile, pari a 86 : 184.

Fra i paesi nei quali le disuguaglianze sono maggiormente aumentate vi sono gli Stati Uniti, dove nel 1975 il reddito medio dei dirigenti esecutivi di massimo livello era pari a 326.000 dollari l’anno e quello degli operai e degli impiegati a 8.000 dollari, mentre a metà degli anni Novanta il reddito medio dei primi era giunto a 3.700.000 dollari e quello dei secondi era aumentato solo fino a 20.000. La differenza fra i due strati sociali è così passata in vent’anni dalla proporzione di 41 a 1 alla proporzione di 185 a 185. Non solo, ma il dato che pare confermare la tesi di Bauman è che nelle società avanzate «sono comparse o ricomparse nuove forme di disuguaglianza, sia in assoluto (nel senso che quasi nessuna società avanzata le conosceva), sia localmente (nel senso che disuguaglianze già esistenti in altre società sono ora osservabili in società dov’erano pressoché ignote)»86. Per questo le società occidentali contemporanee sono state definite da una parte della sociologia come società «divise in due»87. In queste società all’aumentare della produzione corrisponde un drastico ridimensionamento della quantità di lavoro necessaria per produrre. La globalizzazione consente alle imprese multinazionali, sia attraverso la delocalizzazione delle attività produttive, sia attraverso le migrazioni, un ricambio continuo di manodopera a basso costo che, nei settori produttivi a basso livello di tecnologia, permette di trascurare le rivendicazioni dei lavoratori. Ne consegue l’esclusione di fasce sempre più larghe della popolazione dalla partecipazione alla vita economica e l’inasprirsi dei conflitti sociali. Queste trasformazioni hanno condotto a una riconfigurazione dei meccanismi di controllo sociale: il controllo sociale contemporaneo non mira più a disciplinare gli individui che non si conformano ai modelli dominanti allo scopo di assimilarli, ma cerca di impedire a questi soggetti di partecipare alla vita collettiva. Il controllo diviene così un «border control»88, un controllo dei confini, il cui scopo non è l’integrazione dei devianti ma la loro esclusione. In questo 159

quadro il carcere non ha più l’antica funzione disciplinare studiata da Foucault, ma diviene uno strumento centrale per la definitiva esclusione dalla società di chi non è in grado di accedere ai benefici del mercato. Il controllo degli «esclusi» tende a differenziarsi dal controllo degli «inclusi», ossia di coloro che, avendo accesso al mercato, possono essere controllati attraverso i dispositivi di conformizzazione tipici del modello consumistico89. Il controllo sociale nelle società postmoderne tende dunque a sdoppiarsi disegnando due differenti circuiti di sorveglianza e di disciplinamento (uno per gli «inclusi», che godono della cittadinanza piena in quanto possono partecipare al mercato, e uno per gli «esclusi», che sono definitivamente marginalizzati)90. Se si accetta quest’interpretazione, non è difficile comprendere come la razionalità funzionalistica che contraddistingue l’ideologia penale neoliberale possa operare nella definizione del confine fra i due circuiti e come le istanze populiste e comunitarie possano invece trovare soddisfazione nelle modalità adottate per la gestione del circuito dell’esclusione. Le nuove tecniche di controllo, con la loro aura scientifica, rispondono alle esigenze di una società democratica e liberale che non tollera la fissazione di criteri d’esclusione rigidi e immodificabili. Nelle società occidentali contemporanee gli individui non possono essere definitivamente stigmatizzati a causa della loro appartenenza sociale, poiché essa è reputata sempre precaria e dev’essere sempre suscettibile di cambiamento: l’ascesa e il declino sociale sono dogmi ai quali il neoliberalismo non può rinunciare. Almeno a livello retorico il sistema del welfare State e l’ideologia trattamentale erano dunque più stigmatizzanti delle nuove tecnologie punitive. Secondo i nuovi orientamenti di politica penale e le nuove teorie criminologiche, l’individuo sottoposto al potere penale non è un soggetto che viene giudicato per la sua personalità o per la sua psicologia, ma per il grado di rischio di cui è portatore: nel processo sociale che conduce alla sua esclusione dalla società non vi è dunque apparentemente alcun giudizio definitivo di carattere morale. Se non tollera la cristallizzazione delle differenze sociali, tanto meno il neoliberalismo può tollerare regimi di trattamento differenziato su basi etniche o di genere: la razza e il sesso possono tuttavia essere assunti come indicatori di rischio. Il controllo che produce l’esclusione viene così riformulato: esso non ha più come oggetto l’accettabilità morale o sociale dell’individuo, né la conformità alla legge dei suoi comportamenti e non mira a esercitare una sanzione. Co160

me hanno scritto Michael Lianos e Mary Douglas, la normatività propria di ogni società viene sostituita nelle società neoliberali da un parametro neutro indipendente da decisioni e valori, cosicché «non vi è più distinzione fra ciò che è normativo e ciò che è praticabile»91. Coloro che sono esclusi non sono giudicati, ma non «possono» più compiere certe azioni, avere accesso a certi luoghi ecc. La reclusione in carcere è lo strumento principale per sancire quest’«impossibilità» di movimento, per stabilire una «non-libertà». Il carcere perde la sua funzione correzionale e diviene un’istituzione di mero contenimento. L’obiettivo delle istituzioni penali non è più disciplinare i reclusi, ma garantire l’ordine nel mondo esterno, promuovendo alcuni comportamenti e disincentivandone altri. I criteri d’esclusione fissati nelle nuove politiche penali – si pensi alle three strikes laws – assumono un carattere neutro e possono essere giudicati da tutti, senza ricorrere a saperi arcani e insondabili come, ad esempio, la psichiatria. Nonostante l’apparente omaggio alla democrazia e al divieto di discriminazioni, le nuove tecniche di controllo riproducono però le vecchie divisioni sociali e non fanno altro che apporre il suggello della «scienza» agli antichi pregiudizi. È qui che trovano spazio le forme più arcaiche di «comunitarismo», che inneggiano alla segregazione dei «diversi», siano essi gli afroamericani, gli stranieri, i giovani disoccupati ecc. La gestione di queste categorie di «esclusi» può essere condotta secondo i dogmi della severità penale più arcaica, proprio perché l’ideologia neoliberale non è interessata a manipolare la soggettività di questi individui: una volta tracciato il confine dell’esclusione, la pena può assumere una forma qualsiasi, purché non sia finalizzata a immettere nuovamente nel «gioco» coloro che ne sono usciti. La neutralità del paradigma neoliberale solo apparentemente bandisce la discriminazione: essa non impedisce affatto che criteri di ordine morale o etnico riemergano, né che antiche forme di abuso e di sopraffazione rivivano dentro i territori dell’esclusione. Proprio l’adozione di tecnologie punitive prive di radicamento culturale consente che la sfera penale e penitenziaria sia abbandonata agli istinti più primitivi e diventi il campo d’azione d’istanze populiste. L’assenza di una cultura della pena e l’avversione per i saperi complessi quali la psicologia, la sociologia, il diritto, non apre il campo penale alla partecipazione democratica ma lo rende vulnerabile a strumentalizzazioni di ogni genere, sottraendolo non solo al potere degli esperti, ma anche al giudizio politico. Come mostrano le espe161

rienze dell’«authoritarian populism»92 reaganiano e thatcheriano – del quale le nuove politiche penali sono state il fiore all’occhiello – il neoliberalismo cerca nel populismo e nella seduzione delle istanze comunitarie uno strumento efficace per imporre le proprie logiche nelle società democratiche, nelle quali rischierebbero altrimenti di levarsi molte opposizioni alle politiche antisociali che esso promuove. Le scelte di politica penale compiute negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi trent’anni disegnano per il futuro uno scenario nel quale i processi di carcerizzazione sono destinati ad aumentare in parallelo con l’aumento delle disparità sociali. Alcuni elementi fanno tuttavia pensare che le tendenze in atto possano essere contrastate. In particolare, non è trascurabile la resistenza di quello che ho chiamato il «modello penitenziario europeo». Le istituzioni europee possono ancora scegliere di affrontare diversamente la questione penitenziaria e l’esclusione sociale, iniziando con il promuovere politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione.

Note

Capitolo 1 Bureau of Justice Statistics, «Bulletin», maggio 2005. Ibid. 3 Ibid. 4 Ibid. 5 Ivi, maggio 2004. 6 Ivi, maggio 2005. 7 Ibid. I dati sono aggiornati al 30 giugno 2004. Un anno prima il tasso di detenzione era di 715 detenuti ogni 100.000 abitanti. 8 Ivi, maggio 2004. 9 Ibid. 10 Ivi, maggio 1999. 11 Ivi, maggio 2004. 12 Vedi in proposito P. Tournier, Prisons d’Europe, inflation carcérale et surpeuplement, in «Questions pénales», 2, 2000, e J. Muncie, R. Sparks (a cura di), Imprisonment. European Perspectives, Harvester Wheatsheaf, London 1991. 13 Bureau of Justice Statistics, Compendium of Federal Justice Statistics, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 2002; il calcolo è fatto tenendo conto dell’anno fiscale. 14 J. Austin, J. Irwin, It’s about Time: America’s Imprisonment Binge, Wadsworth, Belmont 20013, p. 20, traduzione mia. 15 Cfr. infra, cap. 2. 16 S.R. Donziger (a cura di), The Real War on Crime, Harper Collins, New York 1996. 17 Nel 1998 i due quinti dei detenuti dimessi dalle jails erano stati reclusi per un giorno o meno di un giorno: R.S. Frase, Jails, in M. Tonry (a cura di), The Handbook of Crime and Punishment, Oxford University Press, Oxford-New York 1998. 18 Bureau of Justice Statistics, Sourcebook of Criminal Justice Statistics, US Department of Justice Statistics, Washington D.C. 2001, p. 478. Dati aggiornati al 31 dicembre 2001. Elaborazione di dati tratti da Id., Probation and Parole in the United States 2001, in «Bulletin NCJ», 195669, 2002. 19 Austin, Irwin, It’s about Time, cit. 20 Bureau of Justice Statistics, «Bulletin», maggio 2005. Tutte le statistiche se1 2

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gnalano tuttavia la tendenza all’aumento della carcerazione femminile (+5 per cento dal 1° luglio 2002 al 30 giugno 2003 e +2,9 per cento dal giugno 2003 al giugno 2004, secondo il Bureau of Justice Statistics). Le donne sembrano aumentare più velocemente degli uomini. 21 Ivi, maggio 2004. 22 Ibid. 23 Ivi, maggio 2005. 24 Gli Stati Uniti hanno un tasso di detenzione superiore anche a quello del Sudafrica sotto il regime d’apartheid. 25 Human Rights Watch, Prisons Conditions in the United States 2002, Human Rights Watch, New York 2003; Id., Prisons Conditions in the United States 2003, Human Rights Watch, New York 2004. 26 Ivi, 2002, traduzione mia. 27 Nel 2002 Human Rights Watch ha dedicato uno specifico dossier all’abuso sessuale subito dai detenuti da parte di altri detenuti. 28 Per il Regno Unito i dati in seguito riportati sono tratti dal National Prison Administration web site; per la Francia i dati sono forniti dal ministère de la Justice France métropolitaine; per l’Italia i dati sono quelli del ministero della Giustizia; per la Spagna si sono utilizzati i dati ufficiali forniti dall’amministrazione penitenziaria spagnola; per i Paesi Bassi i dati della National Prison Administration; infine, per la Germania i dati sono del ministero della Giustizia federale tedesco. 29 Vedi infra, tab. 1.2. Nel 2005 i detenuti in Italia sono divenuti 59.649 (dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 31 agosto 2005). Si tratta della cifra più alta nella storia della Repubblica. 30 Tournier, Prisons d’Europe, cit. 31 CPT, 11th General Report. Vedi anche Council of Europe, Committee of Ministers, Recommendation N° R (99) 22. 32 Il peggioramento delle condizioni detentive è confermato dal rilevante aumento dei suicidi e degli atti di autolesionismo fra i detenuti. L’aumento è stato registrato sia negli Stati Uniti, sia nei paesi europei. In Italia nel 2001 si sono suicidati in carcere 13 detenuti ogni 10.000 (i suicidi sono stati 72). L’aumento del numero di suicidi nelle carceri italiane è direttamente riconducibile alla crescita della popolazione penitenziaria: tra il 1991 e il 1992 si è registrato un aumento record dei suicidi in carcere (da 29 a 47). Nello stesso periodo la popolazione carceraria italiana era passata da poco più di 31.000 unità a oltre 44.000. Nel 2001, quando la popolazione penitenziaria ha raggiunto i 55.275 detenuti, il numero dei suicidi è più che triplicato rispetto al 1990 (passando da 23 a 72). Nel 2003 i suicidi nelle carceri italiane sono stati 65, due dei quali in istituti minorili. Analogamente, gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi sono aumentati in parallelo all’aumento del numero dei detenuti (dati tratti da L. Manconi, Suicidi e atti di autolesionismo: i dati di una ricerca, in «Golem», 1, 2003, e da L. Manconi, A. Boraschi, E. Lo Voi, Secondo rapporto sui suicidi nelle carceri romane e italiane, A Buon Diritto, Roma 2004, http://www.socialpress.it/IMG/ABuonDiritto-rapportocarceresuicidi.pdf). 33 Il termine è stato usato polemicamente da Andrew Rutherford in A. Rutherford, Prisons and the Process of Justice, Heinemann, London 1984. 34 La distinzione fra modelli «deterministici» e modelli policy-choice è stata proposta da Warren Young in W. Young, Influences upon the Use of Imprisonment: A Review of the Literature, in «The Howard Journal of Criminal Justice», 25, 2, 1986. 35 Il tema sarà approfondito infra, cap. 3.

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L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raisons d’agir, Paris 1999 (trad. it., Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano 2000). 37 Lo slogan zero tolerance nacque negli anni Novanta nella New York di Rudolph Giuliani per indicare la volontà delle forze dell’ordine di reprimere duramente qualsiasi atto d’insubordinazione sociale. 38 Wacquant, Les prisons de la misère, cit., p. 22, traduzione mia. 39 Vedi D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2002, e A. De Giorgi, Zero tolleranza, Derive Approdi, Roma 2000. 40 Questo tema è ampiamente sviluppato anche da una sociologia di orientamento marxista che ha contribuito all’elaborazione e alla discussione della nozione di «postfordismo». 41 Cfr. l’opera di Michel Foucault e, per la fondamentale nozione di «istituzione totale», E. Goffman, Asylums. Essays on the Social Situations of Mental Patients and Other Inmates, Doubleday, New York 1961 (trad. it., Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino 1968). 42 M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1972 (trad. it., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1973). 43 Id., Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. it., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 186). 44 Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 334. 45 Ivi, p. 213. 46 R. Matthews, Le trasformazioni della carcerazione minorile in Europa, inedito, Firenze 2002; vedi anche R. Matthews, P. Francis (a cura di), Prisons 2000. An International Perspective on the Current State and Future of Imprisonment, Macmillan Press, London 1996. 47 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., p. 160. 48 Questa tendenza si riscontra anche nelle politiche relative alle tossicodipendenze adottate da molti paesi europei. 49 Penso in primo luogo all’esperienza italiana della chiusura degli ospedali psichiatrici che condusse alla promulgazione della legge 13 maggio 1978, n. 180, oggetto oggi di un radicale progetto di revisione, solo temporaneamente accantonato. Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1978. 50 A. de Tocqueville, Scritti penitenziari, a cura di L. Re, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. 51 IGAS, Rapport 1992, in J.-P. Jean, L’inflation carcérale, in «Esprit», 215, 1995. 52 Ivi, p. 120, traduzione mia. 53 Bureau of Justice Statistics, Mental Health and Treatment of Inmates and Probationers, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington 1999. 54 Ministero della Giustizia. Dati riferiti al 31 dicembre 2004. 55 Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press Blackwell, Cambridge-Oxford 1998 (trad. it., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 124). 56 N. Christie, Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western Style, Routledge, London 1994 (trad. it., Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Eleuthera, Milano 1996). 57 Id., Eléments de géographie pénale, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 124, 1998. 36

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Ivi, p. 74, traduzione mia. S.F. Messner, R. Rosenfeld, Crime and the American Dream, Wadsworth, Belmont 20013. 60 Tocqueville, Scritti penitenziari, cit., p. 51. 61 M. Platek, We Never Promised Them a Rose Garden, in Matthews, Francis (a cura di), Prisons 2000, cit., p. 61, traduzione mia. 62 Ibid. 63 Vedi sul tema M. Albrow, La giustizia globale e il sogno americano, in D. D’Andrea, E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2002. 64 Christie, Il business penitenziario, cit., p. 69. 65 Ivi, p. 68. 58 59

Capitolo 2 1 Il 1968 fu, com’è noto, l’anno che vide nascere negli Stati Uniti i movimenti politici studenteschi che si sarebbero poi diffusi in Europa. Il 1973, anno della crisi petrolifera, è stato convenzionalmente assunto da una parte della storiografia contemporanea come data d’inizio della cosiddetta epoca postmoderna o, con riferimento ai mutamenti avvenuti nella sfera della produzione, del «postfordismo». Secondo quest’interpretazione la crisi economica del 1973 segnò l’inizio di una lunga fase di recessione nelle economie dei principali paesi occidentali determinando la fine del cosiddetto «sistema fordista», ossia di quel sistema di produzione industriale fondato sull’innovazione tecnologica, sulla produzione in gran serie di beni di consumo durevoli e su una politica di salari relativamente elevati finalizzata a consentire alla classe operaia di accedere sul mercato ai beni che essa stessa produceva. 2 Sul punto vedi M. Mauer, Race to Incarcerate, The New Press, New York 1999, p. 50. 3 L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Ombre Corte, Verona 2002, p. 26. 4 Ibid. 5 Il dato comprende i detenuti delle carceri statali e federali e i reclusi nelle carceri locali (jails). 6 Bureau of Justice Statistics, Sourcebook of Criminal Justice Statistics, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 2001, p. 494, dato comprensivo dei detenuti delle carceri federali e statali e delle jails. 7 Dati riportati in J. Austin, J. Irwin, It’s about Time: America’s Imprisonment Binge, Wadsworth, Belmont 20013. 8 J. Austin, J. Irwin, It’s about Time: America’s Imprisonment Binge, Wadsworth, Belmont 1995, p. 160. 9 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., 20013, p. 241. L’incremento è stato di molto inferiore: si è passati da un totale di 1.961.247 detenuti nel 2001 a 2.131.180 nel 2004 (+169.933 detenuti fra carceri statali, carceri federali e jails). 10 Come già detto, fa eccezione il 2004 che ha visto il tasso di crescita della popolazione detenuta ridursi lievemente. 11 Per un’analisi di tali strategie vedi R.S. King, M. Mauer, State Sentencing and Corrections in an Era of Fiscal Restraint, The Sentencing Project, Washington D.C. 2002. Più ottimista è la prospettiva di Jon Wool e Don Stemen che, in un rappor-

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to pubblicato nel 2004 dal Vera Institute of Justice, auspicano che le riduzioni nei bilanci delle amministrazioni penitenziarie statali conducano a una revisione delle politiche penali adottate finora. Tuttavia anche dal loro dossier si ricava che le riforme hanno ridotto gli stanziamenti già altissimi al settore penitenziario, ma con il risultato di tagliare in primo luogo i servizi destinati ai detenuti (vedi J. Wool, D. Stemen, Changing Fortunes or Changing Attitudes? Sentencing and Corrections Reforms in 2003, Vera Institute of Justice, Washington D.C. 2004). Inoltre i tagli operati in altri settori, e particolarmente nel settore della scuola e della formazione, sono stati più forti e più diffusi dei tagli al settore penitenziario (vedi D.F. Wilhelm, N.R. Turner, Is the Budget Crisis Changing the Way We Look at Sentencing and Incarceration?, Vera Institute of Justice, Washington D.C. 2002). 12 La quasi totalità delle misure adottate mira non a ridurre la popolazione carceraria, ma a non aumentarla ulteriormente o a ridurne l’aumento; si tratta per lo più di moratorie nella costruzione o nell’apertura di nuove carceri. Spesso poi gli Stati hanno preferito tagliare i fondi destinati al trattamento dei detenuti tossicodipendenti o all’istruzione in carcere. 13 A. Cheung, New Incarceration Figures: Rising Population despite Falling Crime Rates, The Sentencing Project, Washington D.C. 2004. 14 Lo stesso non può invece dirsi della crescita della popolazione penitenziaria in molti paesi europei, dove i dati di lungo periodo mostrano una riduzione della popolazione detenuta. 15 M. Pavarini, Uno sguardo ai processi di carcerizzazione nel mondo: dalla «ronda dei carcerati» al «giromondo penitenziario», in «Rassegna penitenziaria e criminologica», 1-2, 2002. 16 Negli anni Sessanta non era ancora stato realizzato un sistema di raccolta dei dati a livello federale e molti dipartimenti di polizia non prendevano parte alle rilevazioni nazionali dei dati relativi alla criminalità (Uniform Crime Reports). Poiché il sistema di raccolta dei dati era lacunoso fino all’inizio degli anni Settanta, l’incremento del numero degli arresti registrato in seguito dev’essere interpretato solo in parte come indice di un effettivo aumento della criminalità. Esso riflette anche il completamento del sistema di raccolta dei dati, al quale partecipano oggi tutti i dipartimenti di polizia degli Stati Uniti. 17 Notevole successo ha ottenuto ad esempio il saggio di Charles Murray, Does Prison Work? (Institute of Economic Affairs, London 1997), nel quale si sosteneva l’esistenza di una relazione inversa fra il tasso di criminalità di un determinato paese e il rischio per gli autori di reati di essere condannati a una pena detentiva. Quest’interpretazione del rapporto fra criminalità ed espansione della pena detentiva considera che l’incarcerazione abbia sia un effetto deterrente nei confronti dei potenziali autori di reato, sia un effetto incapacitante. 18 Vedi, ad esempio, S.R. Donziger (a cura di), The Real War on Crime, Harper Collins, New York 1996, e Austin, Irwin, It’s about Time, cit. 19 Supra, grafici 2.2 e 2.3. 20 Recentemente questa tesi è stata sostenuta da Marcus Felson (vedi M. Felson, Trend e cicli del tasso di criminalità: i cambiamenti nella società moderna, in M. Barbagli, a cura di, Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 89-107). 21 G. La Free, Le istituzioni sociali e il calo dei reati negli Stati Uniti degli anni ’90, in Barbagli (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, cit. 22 Se ne potrebbero menzionare molte altre, ad esempio quelle che legano la

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diffusione della criminalità al disagio sociale e all’aumento della disoccupazione, oppure quelle che connettono la criminalità a variabili demografiche a partire dalla constatazione che il maggior numero di reati è commesso da giovani d’età compresa fra i 20 e i 30 anni ecc. Per queste analisi vedi, tra l’altro, Barbagli (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, cit. 23 Non tutti i cittadini statunitensi sono però potenziali vittime della criminalità. Sono soprattutto i giovani afroamericani – gli stessi che hanno grandi probabilità di essere reclusi in carcere – a essere le vittime privilegiate del crimine. Le ferite d’arma da fuoco sono la prima causa di morte per i giovani maschi neri fra i 15 e i 24 anni negli Stati Uniti. Per loro la possibilità di morire è aumentata del 66 per cento dal 1985 al 1993, nonostante l’aumento delle chances di vita che ha riguardato il resto della popolazione. 24 Vedi E. Currie (a cura di), Crime and Punishment in America, Henry Holt and Company, New York 1998. Nel riferire questi dati Currie ricorda che la Gran Bretagna è fra i paesi europei il più severo nei confronti della criminalità comune e quello con il sistema penale più simile al sistema statunitense. 25 Il termine inner-city si traduce letteralmente con «centro della città»; tuttavia, poiché non vi è corrispondenza fra la struttura urbanistica delle città italiane e quella delle metropoli statunitensi, si preferisce mantenere il termine inglese. Nelle città europee, e in particolare in quelle italiane, il centro storico è per lo più la parte antica della città e il suo cuore sociale e amministrativo; nelle metropoli americane invece il centro, abbandonato dalla classe media trasferitasi nei suburbi, è il luogo più degradato della città, spesso sede del ghetto nero il cui tessuto sociale è ormai lacerato. Le inner-cities negli Stati Uniti sono perciò generalmente rappresentate come luoghi assediati dalla criminalità, dove regnano illegalità e violenza. Cfr. R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, The City, The University of Chicago Press, Chicago 1938 (trad. it., La città, Edizioni di Comunità, Torino 1999). 26 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit. 27 J.M. Dawson, P.A. Langan, Murder in Families, US Department of Justice, Office of Justice Programs, Bureau of Justice Statistics, Washington D.C. 1994. 28 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit., p. 10, traduzione mia. 29 L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raisons d’agir, Paris 1999 (trad. it., Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano 2000). 30 Quest’approccio è stato promosso dalla broken windows theory, secondo la quale vi è uno stretto rapporto fra degrado urbano e criminalità. Questa teoria ha avuto grande successo anche presso alcuni governi europei guidati da amministrazioni progressiste. Vedi infra, cap. 5. 31 Dal 1990 al 1995 il tasso si è ridotto del 48 per cento. 32 Dati tratti da Mauer, Race to Incarcerate, cit. 33 F.E. Zimring, J. Fagan, Le cause della diminuzione dei reati: alcune riflessioni sull’analisi degli omicidi a New York, in Barbagli (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, cit. 34 Vedi ad esempio A. Blumstein, Tendenze recenti nei tassi di violenza negli Stati Uniti, e B.D. Johnson, A. Golub, E. Dunlap, Il declino delle subculture della droga, dei mercati della droga e della violenza a New York negli anni ’90, in Barbagli (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, cit.; P.A. Bellucci, H.H. Brownstein, P.J. Goldstein, P.J. Ryan, Crack and Homicide in New York City: A Case Study in the Epidemiology of Violence, in H.G. Levine, C. Reinarman (a cura

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di), Crack in America: Demon Drug and Social Justice, University of California Press, Berkeley 1997. 35 Con questa formula, che letteralmente significa «giustamente meritato», si è soliti designare le teorie della pena che, criticando il modello trattamentale, sostengono la necessità di tornare a una funzione della pena come «giusto castigo» che il criminale è costretto a espiare. 36 Mauer, Race to Incarcerate, cit. 37 Ibid. 38 Un rapporto esauriente di Amnesty International in merito è stato pubblicato nel 1996 (Amnesty International, Police Brutality and Excessive Force in the New York City Police Department, Amnesty International, Washington D.C. 1996, http:// web.amnesty.org/library/Index/ENGAMR510361996?open&of=ENGUSA). Un secondo documento più breve è stato redatto nel 1999 (Amnesty International, United States of America: Race, Rights and Police Brutality, Amnesty International, Washington D.C. 1999). Amnesty International è tornata più volte anche negli anni successivi sugli abusi commessi dalla polizia negli Stati Uniti, insistendo in particolare sull’illegittimità del sistema di racial profiling (l’individuazione e la schedatura dei sospetti sulla base dell’appartenenza etnica) ammesso dalla maggioranza degli Stati e largamente usato dalla polizia, ancor più dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. A giudizio dell’organizzazione, come anche di altri osservatori, le pratiche di polizia restano negli Stati Uniti altamente discrezionali e discriminatorie. 39 Statistiche del New York Police Department, in Civilian Complaint Review Board, Status Report July-December 1994, Civilian Complaint Review Board, New York 1995. 40 Amnesty International, Police Brutality and Excessive Force, cit. 41 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit. 42 Ibid. 43 The Edna McConnel Clark Foundation, Americans behind Bars, The Edna McConnel Clark Foundation, New York 1993. 44 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit. 45 International Centre for Prison Studies, Prison Brief for United States of America, http://www.kcl.ac.uk/depsta/rel/icps. 46 Bureau of Justice Statistics, «Bulletin», maggio 2004. 47 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit. 48 Ivi, p. 53, traduzione mia. 49 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., p. 221, traduzione mia. 50 Criminal Justice Institute, The 1998 Corrections Yearbook, Criminal Justice Institute, Washington D.C. 1999. 51 K. Connolly, D. Macallair, L. McDermid, V. Schiraldi, From Classrooms to Cell Blocks: How Prison Building Affects Higher Education and African American Enrollment in California, Center on Juvenile and Criminal Justice, San Francisco 1996. 52 Ibid. 53 S. Abramsky, Hard Time Blues, St. Martin’s Press, New York 2002. 54 La detenzione di massa è un tema complesso di cui spesso le statistiche non riescono a cogliere i risvolti sociali e umani più tragici, né le pesanti ricadute politiche. Il reportage di Abramsky, con il suo stile cronachistico, permette invece di avvicinare la realtà sottesa alle cifre e di scoprire il funzionamento paradossale di una retorica divenuta scelta politica.

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Sul tema vedi ad esempio A.E.O. King, The Impact of Incarceration on African American Families. Implications for Practice, in «Families in Society», 3, 1993, e J. Moore, Bearing the Burden. How Incarceration Weakens Inner-City Communities, in Vera Institute of Justice, The Unintended Consequences of Incarceration, Vera Institute of Justice, New York 1996. 56 349 US 294 (1955). 57 Sul tema vedi N. Gotanda, «La nostra costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica, in K. Thomas, G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005. 58 M. Mauer, The Crisis of the Young African American Male and the Criminal Justice System, The Sentencing Project, Washington D.C. 1999. 59 M. Mauer, T. Huling, Young Black Americans and the Criminal Justice System: Five Years Later, The Sentencing Project, Washington D.C. 1995. 60 Per una rassegna di alcuni fra i più importanti studi sul tema vedi S. Kalogeras, Annotated Bibliography. Racial Disparities in the Criminal Justice System, The Sentencing Project, Washington D.C. 2003. 61 C. Spohn, Thirty Years of Sentencing Reform. The Quest for a Racially Neutral Sentencing Process, in «Criminal Justice», 3, 2000. 62 Ibid. 63 T. Kansal, Racial Disparity in Sentencing. A Review of the Literature, The Sentencing Project, Washington D.C. 2005, in particolare p. 11. 64 US Department of Justice, Survey on the Federal Death Penalty Systems: 1988-2000, http://www.usdoj.gov/dag/pubdoc/dpsurvey.html. 65 Vedi Kansal, Racial Disparity in Sentencing, cit. 66 Austin, Irwin, It’s about Time, cit. 67 Mauer, Huling, Young Black Americans, cit. 68 M. Tonry, Malign Neglect. Race, Crime and Punishment in America, Oxford University Press, New York 1995. 69 Ivi, p. 7, traduzione mia. 70 Ivi, p. 12, traduzione mia. 71 Distinzione stabilita dalle leggi federali di mandatory sentencing (condanna obbligatoria) adottate nel 1986 e nel 1988. 72 L. Wacquant, Deadly Symbiosis: When Ghetto and Prison Meet and Mesh, in «Punishment and Society», 3-1, 2000 (trad. it., Simbiosi mortale. Quando ghetto e prigione si incontrano e si intrecciano, in Id., Simbiosi mortale, cit., p. 53). 73 Le altre sono: la schiavitù (1619-1865), il sistema «Jim Crow» (il regime di apartheid adottato dagli Stati del Sud dal 1865 al 1965) e il ghetto (presente in tutte le città del Nord degli Stati Uniti a partire dal 1914 e fino al 1968). 74 P. Street, Color Blind. Prisons and the New American Racism, in T. Herivel, P. Wright (a cura di), Prison Nation. The Warehousing of America’s Poor, Routledge, New York 2003, p. 36. 75 D.C. McDonald, The Cost of Corrections. In Search of the Bottom Line, in «Research in Corrections», 2, 1989. 76 D. Cole, No Equal Justice. Race and Class in the American Criminal Justice System, The New Press, New York 1999. 77 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit. 78 Per un’analisi degli effetti che l’incarcerazione dei genitori produce sui figli vedi J. Hagan, The Next Generation. Children of Prisoners, in Vera Institute of Justice, The Unintended Consequences of Incarceration, cit. 55

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Austin, Irwin, It’s about Time, cit. Vedi ad esempio S. Gabel, Children of Incarcerated and Criminal Parents. Adjustment, Behavior and Prognosis, in «Bulletin of American Academic Psychiatry Law», 20, 1992; Id., Behavioral Problems in Sons of Incarcerated or otherwise Absent Parents. The Issue of Separation, in «Family Process», 31, 1992; A. Lowstein, Temporary Single Parenthood. The Case of Prisoner’s Families, in «Family Relations», 35, 1986. 81 Donziger (a cura di), The Real War on Crime, cit., p. 153, traduzione mia. 82 Ibid. 83 Un’analisi approfondita di questo fenomeno si trova in Wacquant, Simbiosi mortale, cit., il cui titolo allude appunto alla simbiosi fra ghetto nero e carcere. 84 Secondo Joan Moore, poiché la moda statunitense per i giovani trae spesso ispirazione dalla cultura del ghetto e dalle subculture della criminalità giovanile, i giovani delle inner-cities si appropriano anche delle esperienze più stigmatizzanti, come l’esperienza detentiva, rendendole parte di una routine tanto dolorosa quanto accettata e considerata immodificabile (Moore, Bearing the Burden, cit., p. 77). 85 Secondo i più recenti rapporti sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti sono fra i paesi industrializzati quello nel quale la forbice fra ricchi e poveri è più ampia. La disuguaglianza sociale è andata crescendo costantemente negli ultimi trent’anni (vedi L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 20027). 86 Vedi ad esempio sul tema J. Braithwaite, Inequality, Crime and Public Policy, Routledge, London 1979. 87 D.T. Courtwright, The Drug War’s Hidden Toll, in «Issues in Science and Technology», 13, 1996-1997. 88 Spesso queste difficoltà si combinano con il trauma psicologico derivante dall’aver intrattenuto in carcere relazioni omosessuali di cui gli uomini si vergognano una volta usciti. 89 Sul tema vedi M. Felson, Crime and Everyday Life. Insights and Implications for Society, Pine Forge Press, Newbury Park (Cal.) 1994. 90 A. Shapiro, Challenging Criminal Disenfranchisement under the Voting Rights Act: A New Strategy, in «The Yale Law Journal», 103, 1993. 91 J. Fellner, M. Mauer, Losing the Vote. The Impact of Felony Disenfranchisement Laws in The United States, Human Rights Watch and the Sentencing Project, Washington D.C. 1998. 92 Con il termine «storiografia revisionista» si è soliti indicare quel filone interpretativo che nel corso degli anni Sessanta mise in discussione la ricostruzione dominante della genesi dei sistemi punitivi, rifiutando di considerare il carcere come uno strumento necessario di controllo della criminalità e affermando la natura politica dell’istituzione penitenziaria. Per una rassegna delle principali tesi di tale storiografia cfr. E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 20042. 93 Cfr. O. Rusche, G. Kirchheimer, Punishment and Social Structure, Russel and Russel, New York 19682 (trad. it., Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1978), e M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. it., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976). 94 La «teoria dell’etichettamento», sviluppata dai neochicagoans a partire dalla fine degli anni Cinquanta, si propose di studiare il controllo sociale come processo che produce la devianza attraverso un etichettamento sociale che induce il devian79 80

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te ad autocriminalizzarsi assumendo l’identità che gli viene attribuita nell’interazione con le agenzie di controllo sociale. 95 Murray, Does Prison Work?, cit. 96 È il caso ad esempio di Jock Young (J. Young, The Exclusive Society, Sage, London 1999). 97 Cfr. le critiche mosse a quest’impostazione in F.E. Zimring, G. Hawkins, Incapacitation. Penal Confinement and the Restraint of Crime, Oxford University Press, New York 1995. 98 Ibid. Vedi anche A.J. Reiss, Co-offending and Criminal Careers, in M. Tonry, N. Morris (a cura di), Crime and Justice. An Annual Review of Research, University of Chicago Press, Chicago 1988, vol. X; S. Ekland-Olson et al., Justice under Pressure. A Comparison of Recidivism Patterns among Four Successive Parolee Cohorts, Springer Verlag, New York 1993. 99 Sul tema vedi J.O. Finckenauer, Scared straight. The Panacea Phenomenon, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1982. 100 Moore, Bearing the Burden, cit. 101 Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 299. 102 Ivi, p. 300. 103 Cfr. ibid.

Capitolo 3 1 M. Pavarini, Uno sguardo ai processi di carcerizzazione nel mondo: dalla «ronda dei carcerati» al «giromondo penitenziario», in «Rassegna penitenziaria e criminologica», 1-2, 2002. 2 J. Lea, J. Young, What Is to Be Done about Law and Order?, Penguin, Harmondsworth 1984; R. Kinsey, J. Lea, J. Young, Losing the Fight against Crime, Basil Blackwell, Oxford 1986; I. Taylor, Crime and Justice in Europe, in «Criminal Justice Matters», 24, 1997; J. Young, The Exclusive Society, Sage, London 1999. 3 P.J. Goldstein et al., Taking Care of Business: the Economy of Crime by Heroin Users, Lexington Books, Lexington (Mass.) 1985. 4 M. Barbagli, Immigrazione e criminalità, Il Mulino, Bologna 1998; D. Melossi, Le crime de la modernité: sanctions, crime et migration en Italie (1863-1997), in «Sociologie et sociétés», 1, 2001; S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo-ISMU, Milano 1994. 5 Pavarini indica come rappresentativo di questa corrente interpretativa il numero monografico della rivista «Punishment and Society» dedicato all’incarcerazione di massa negli Stati Uniti (Mass Imprisonment in the United States, in «Punishment and Society», 1, 2001). 6 Con il termine «criminalità predatoria» la criminologia indica l’insieme dei comportamenti criminali che, anche se sono di scarsa gravità, comportano violenza sulle vittime dei reati o violenza nella commissione del reato benché non vi siano vittime (aggressioni, scippi, appropriazione di beni altrui, danneggiamenti ecc.). 7 Pavarini, Uno sguardo ai processi di carcerizzazione nel mondo, cit., p. 116. 8 Ivi, p. 124. 9 Massimo Pavarini è tornato su questo punto in un intervento alla Fondazione Michelucci di Fiesole nel corso del seminario tenutosi nell’anno 2003 intitolato Sicurezza sociale e sicurezza urbana (Fiesole, 13 giugno 2003).

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Pavarini, Uno sguardo ai processi di carcerizzazione nel mondo, cit., p. 116. W. Young, Influences upon the Use of Imprisonment: A Review of the Literature, in «The Howard Journal of Criminal Justice», 2, 1986. 12 Young utilizza questo termine per designare i modelli esplicativi che ricercano le cause remote delle dinamiche penali contemporanee, senza attribuirgli una connotazione negativa. 13 Si tratta dell’ipotesi esplorata supra, cap. 2. 14 O. Rusche, G. Kirchheimer, Punishment and Social Structure, Russel and Russel, New York 19682 (trad. it., Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1978). 15 L.S. Penrose, Mental Disease and Crime: Outline of a Comparative Study of European Statistics, in «British Journal of Medical Psychology», 18, 1939; D. Biles, G. Mulligan, Mad or Bad? The Enduring Dilemma, in «British Journal of Criminology», 13, 1973. 16 Vedi A. Blumstein, J. Cohen, A Theory of the Stability of Punishment, in «The Journal of Criminal Law and Criminology», 2, 1973, e A. Blumstein, J. Cohen, D. Nagin, The Dynamics of a Homeostatic Punishment Process, ivi, 3, 1976. 17 N. Christie, Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western Style, Routledge, London 1994 (trad. it., Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Eleuthera, Milano 1996, pp. 10-11). 18 Vedi supra, § 3.1. 19 Mandatory sentencing significa letteralmente «condanna obbligatoria»: l’espressione fa riferimento alla soppressione della discrezionalità del giudice nella determinazione della durata della pena fissata nella sentenza di condanna. 20 M. Mauer, Race to Incarcerate, The New Press, New York 1999. 21 Christie, Il business penitenziario, cit., p. 127. 22 Ibid. 23 Dal manuale per il giudice redatto dalla Sentencing Commission, parr. 5.355.37. 24 Just deserts è l’espressione utilizzata da Andrew von Hirsch nel suo noto saggio del 1976 (A. von Hirsch, Doing Justice, Hill and Wang, New York 1976). 25 Mauer, Race to Incarcerate, cit., p. 44, traduzione mia. Dati tratti da F.T. Cullen, K.E. Gilbert, Reaffirming Rehabilitation, Anderson, Cincinnati (Oh.) 1982. 26 Ibid., traduzione mia. 27 J. Austin, J. Irwin, It’s about Time: America’s Imprisonment Binge, Wadsworth, Belmont 20013, p. 20, traduzione mia. 28 Wacquant, Simbiosi mortale, cit., p. 37. 29 Ivi, pp. 37-38. 30 Ivi, p. 38. 31 D. Rothman, The Discovery of the Asylum: Social Order and Disorder in the New Republic, Little Brown, Boston 1971. 32 Blumstein, Cohen, A Theory of the Stability of Punishment, cit. 33 Cfr. M. Ignatieff, A Just Measure of Pain. The Penitentiary in the Industrial Revolution 1750-1850, Random House, London 1978 (trad. it., Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850, Mondadori, Milano 1982). 34 M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. it., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976). 35 Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 339. 10 11

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Ivi, p. 228. D. Rothman, American Criminal Justice Policies in the 1990s, in T.G. Blomberg, S. Cohen (a cura di), Punishment and Social Control, Aldine de Gruyter, New York 1995. 38 Foucault, Sorvegliare e punire, cit. 39 S. Cohen, The Punitive City: Notes on the Dispersal of Social Control, in «Contemporary Crisis», 3, 1979. 40 Wacquant, Simbiosi mortale, cit., p. 7. 41 Ho approfondito questo tema in L. Re, «Panopticon» e «disciplina»: possono ancora servire?, in E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 20042. 42 Wacquant, Simbiosi mortale, cit., p. 38. 43 R. Martinson, What Works: Questions and Answers about Prison Reform, in «The Public Interest», 35, 1974. 44 J.Q. Wilson, Thinking about Crime, Basic Books, New York 1975. 45 Von Hirsch, Doing Justice, cit. 46 Mauer, Race to Incarcerate, cit., p. 58, traduzione mia. 47 Roy D. King ha parlato di «unholy alliance» fra liberals e conservatori (R.D. King, Prisons, in M. Tonry, a cura di, The Handbook of Crime and Punishment, Oxford University Press, Oxford-New York 1998). 48 Foucault, Sorvegliare e punire, cit. 49 A. de Tocqueville, Oeuvres Complètes, vol. IV, Gallimard, Paris 1984, p. 54, traduzione mia. 50 Ibid., traduzione mia. 51 Id., Scritti penitenziari, a cura di L. Re, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 62. 52 Ibid. 53 Wacquant, Simbiosi mortale, cit., p. 38. 54 D. Clemmer, The Prison Community, Holt, Rinehart and Winston, New York 1940. 55 Per gli studi in ambito scandinavo cfr. T. Mathiesen, Prison on Trial, Waterside Press, London 20002, pp. 50 sgg. 56 G.M. Sykes, The Society of Captives. A Study of a Maximum Security Prison, Princeton University Press, Princeton 1958. 57 Santoro, Carcere e società liberale, cit., pp. 45-47. 58 L.W. McCorkle, R.R. Korn, Resocialization within Walls, in «Annals of American Academy of Political and Social Science», 293, 1954. 59 Ivi, p. 88, traduzione mia. 60 Ibid., traduzione mia. 61 Tralascio ad esempio la nota analisi delle istituzioni totali condotta da Erving Goffman (E. Goffman, Asylums. Essays on the Social Situations of Mental Patients and Other Inmates, Doubleday, New York 1961; trad. it., Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino 1968). 62 Santoro, Carcere e società liberale, cit., p. 13. 63 È il caso in particolare di Rothman, Ignatieff e Garland. 64 Ivi, p. 12. 65 Ibid. 66 Ivi, p. 48. 67 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., p. 95, traduzione mia. 68 Santoro, Carcere e società liberale, cit., p. 48. 36 37

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J.B. Jacobs, Stateville: The Penitentiary in Mass Society, Chicago University Press, Chicago 1977. 70 Santoro, Carcere e società liberale, cit., p. 50. 71 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., p. 95. 72 King, Prisons, cit. 73 Mathiesen, Prison on Trial, cit., p. 53, traduzione mia. 74 Ivi, p. 29, traduzione mia. 75 Secondo Tonry le condanne per reati di droga sono la causa principale dell’aumento della popolazione penitenziaria statunitense dagli anni Ottanta (M. Tonry, Malign Neglect. Race, Crime and Punishment in America, Oxford University Press, New York 1995). 76 I condannati per reati di droga che sono usciti di prigione nel 1990 avevano scontato in media 30 mesi di carcere, mentre i condannati per gli stessi reati nel 1990, una volta entrate in vigore le disposizioni di mandatory sentencing, avevano come aspettativa quella di scontare in media 66 mesi di carcere (vedi Mauer, Race to Incarcerate, cit.). 77 L’espressione traduce l’inglese drug offenses e indica i reati di consumo e di spaccio di stupefacenti previsti dalle legislazioni antidroga, non indica invece altre tipologie di reato connesse al consumo o allo spaccio di stupefacenti che implicano il ricorso alla violenza. Si tratta quindi di reati senza vittime. 78 Office of National Drug Control Policy, National Drug Control Strategy, Data Supplement, The White House, Washington D.C. 2004 (dati del Federal Bureau of Investigation, Crime in the United States, Uniform Crime Reports). 79 Federal Bureau of Investigation, Crime in the United States. Uniform Crime Report, US Department of Justice, Federal Bureau of Investigation, Washington D.C. 2005. 80 Mauer, Race to Incarcerate, cit. 81 Office of National Drug Control Policy, National Drug Control Strategy, Data Supplement, cit. (dati del Bureau of Justice Statistics). 82 Ibid. 83 Ivi, Budget Summary. 84 Mauer, Race to Incarcerate, cit. 85 Ibid. 86 Tonry, Malign Neglect, cit. 87 Austin, Irwin, It’s about Time, cit., p. 184, traduzione mia. 88 I boot camps sono istituzioni penali ispirate ai campi di addestramento militare. Essi sono considerati come un’alternativa alla carcerazione tradizionale: i detenuti vi sono trattati con estrema durezza e la disciplina impartita loro è di tipo militare. La rieducazione in questo genere d’istituzioni è perseguita attraverso un programma di addestramento incentrato sul corpo, anziché attraverso programmi di reinserimento sociale e di apprendistato lavorativo. I boot camps sono stati istituiti anche in Gran Bretagna, dove sono considerati dai loro fautori come uno strumento di rieducazione particolarmente adatto ai minori autori di reato. 89 Si è scelto di tradurre con «errore» il termine inglese strike («colpo»), perché nel baseball lo strike è considerato un errore del battitore. 90 Austin, Irwin, It’s about Time, cit. 91 F.E. Zimring, G. Hawkins, S. Kamin, Punishment and Democracy. Three Strikes and You’re Out in California, Oxford University Press, New York 2001, p. IX, traduzione mia. 69

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J. Austin, J. Irwin, The Three Strikes and You’re out Movement, in Idd., It’s about Time, cit. 93 Zimring, Hawkins, Kamin, Punishment and Democracy, cit. 94 L’analisi di Austin e Irwin risale al 1996, quando erano 24 le leggi three strikes adottate. Zimring, Hawkins e Kamin confermano tuttavia questa stessa diagnosi a cinque anni di distanza, dopo che sono state promulgate altre due leggi three strikes. 95 Alla fine del 1998 in 14 dei 26 Stati che avevano adottato leggi three strikes erano state emesse meno di 10 condanne in base a tali leggi. Trentacinque condanne erano state pronunciate in base alla legge three strikes federale del 1994, mentre in Georgia e nella Carolina del Sud le nuove norme avevano condotto a un numero di condanne inferiore a mille (ibid.). 96 Qui, nel 1998, a 4 anni dall’entrata in vigore della legge, le condanne three strikes erano state più di 40.000, pari al 94 per cento delle condanne three strikes emesse fino allora negli Stati Uniti. 97 Zimring, Hawkins, Kamin, Punishment and Democracy, cit., p. IX, traduzione mia. 98 L’importanza delle politiche adottate in California deriva, oltre che dal ruolo trainante di questo Stato sul piano sia politico sia culturale, dal fatto che il sistema penitenziario californiano è il più grande del mondo occidentale, con più di 250.000 detenuti, e presenta una crescita esponenziale del tasso di detenzione che non ha pari in nessun altro paese democratico. 99 La privatizzazione della gestione delle carceri e della fornitura dei servizi ai detenuti è in costante crescita negli Stati Uniti e in molti altri paesi del mondo. Secondo il Private Corrections Project dell’University of Florida nel 1998 negli Stati Uniti vi erano 116.923 posti in 160 istituti penitenziari privati. Le imprese operanti nel settore erano 14. Lo Stato con più carceri private era il Texas, che ne aveva 43. 100 Christie, Il business penitenziario, cit. 101 Wacquant, Les prisons de la misère, cit. 102 Zimring, Hawkins, Kamin, Punishment and Democracy, cit., p. 7, traduzione mia. 103 Su questo vedi anche Wacquant, Les prisons de la misère, cit. 104 Zimring, Hawkins, Kamin, Punishment and Democracy, cit., p. 14, traduzione mia. 105 M. Feeley, J. Simon, The New Penology: Notes on the Emerging Strategy of Correction and Its Implications, in «Criminology», 4, 1992. 106 Ivi, pp. 451-52, traduzione mia. 107 Sul tema vedi anche R. Castel, From Dangerousness to Risk, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (a cura di), The Foucault’s Effect. Studies in Governmentality, Harvester Wheatsheaf, London 1991. 108 Vedi A. De Giorgi, Zero tolleranza, Derive Approdi, Roma 2000. 109 Si pensi, ad esempio, al britannico Floud report dove si teorizza la necessità che il sistema penale concentri le misure repressive e di controllo su una «classe di infrattori molto ristretta» allo scopo di ridistribuire «un carico di rischio che non siamo capaci di ridurre» (J. Floud, Dangerousness and Criminal Justice, in «The British Journal of Criminology», 3, 1982, p. 218). 110 Gli assicurati sono tutt’al più considerati portatori di rischio nei casi di as92

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sicurazione obbligatoria, ad esempio, nelle assicurazioni della responsabilità civile per danni derivanti da incidenti automobilistici. 111 Vedi De Giorgi, Zero tolleranza, cit. 112 Ivi, p. 37. 113 Vedi ad esempio A. Blumstein, Making Rationality Relevant: The American Society of Criminology 1992 Presidential Address, in «Criminology», 1, 1993. 114 Sono numerosi gli studi sociologici che hanno rilevato lo stereotipo del criminale nero come uno dei più diffusi fra i cittadini degli Stati Uniti. A questo immaginario hanno senza dubbio contribuito le politiche penali degli anni Ottanta e Novanta e le stesse politiche three strikes, che hanno determinato un incremento notevole degli arresti e delle condanne degli afroamericani. Tale stereotipo è inoltre alimentato dai media statunitensi che rappresentano i criminali come giovani afroamericani sia nella fiction, sia nei programmi di informazione.

Capitolo 4 1 Fanno eccezione alcuni paesi dell’Est come la Repubblica ceca, la Romania e l’Ucraina, dove l’aumento dei detenuti è stato superiore a quello statunitense. In Bulgaria e in Lituania il dato della crescita percentuale della popolazione carceraria è stato uguale a quello degli Stati Uniti. 2 R. Walmsley, World Prison Populations. An Attempt at a Complete List, in D. Van Zyl Smit, F. Dunkel (a cura di), Imprisonment Today and Tomorrow. International Perspectives on Prisoners’ Rights and Prison Conditions, Kluwer Law International, The Hague-London-Boston 2001. 3 Ibid. 4 Il dato esatto relativo all’Irlanda è +39 per cento (Walmsley, World Prison Populations, cit.). 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Council of Europe, Space I. Survey 2003, Council of Europe Annual Penal Statistics, Strasbourg 2004. 8 Per Cipro non vi sono dati per il periodo 1999-2003, ma dal 2002 al 2003 la popolazione penitenziaria è diminuita del 2 per cento. 9 L’ipotesi è tuttavia da verificare, poiché in molti paesi entrati di recente nell’Unione Europea si è al contrario registrato un notevole incremento della popolazione detenuta (è il caso della Polonia, della Slovacchia, della Slovenia). 10 Nel caso della Finlandia, l’aumento della popolazione detenuta negli anni considerati va messo in relazione con la forte riduzione registrata negli anni Novanta. Fra il 2002 e il 2003 i detenuti sono nuovamente diminuiti (–1 per cento). In termini assoluti si è passati da 2.598 detenuti nel 1999 a 3.437 nel 2003. 11 Mi riferisco sia ai dati forniti dal Consiglio d’Europa (Council of Europe, Space I. Survey 2003, cit.), sia a quelli raccolti dal Centre for Prison Studies del King’s College di Londra. 12 Qui il tasso di detenzione ha oscillato negli ultimi anni fra 100 e 101 ogni 100.000 abitanti. 13 Com’è noto la Federazione russa, a lungo in testa alla classifica penitenziaria mondiale, è oggi, dopo gli Stati Uniti, fra i paesi con più detenuti. 14 Le repubbliche baltiche e la Slovacchia fanno come si è visto eccezione.

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M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. it., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 186). 16 Vedi supra, cap. 3. 17 Per un’interpretazione analoga del collegamento fra principio rieducativo e principio dello Stato sociale con riferimento alla Germania vedi C. Messner, V. Ruggiero, Germany: the Penal System between Past and Future, in V. Ruggiero, M. Ryan, J. Sim (a cura di), Western European Penal Systems. A Critical Anatomy, Sage, London 1995. 18 Vedi infra, § 4.2.2. 19 È il caso del Regno Unito e, più di recente, dei Paesi Bassi. 20 L. Eusebi, Politica criminale e riforma del diritto penale, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, p. 153. 21 Gli unici principi che la Carta dei diritti dell’Unione Europea sancisce con specifico riguardo alla pena sono quelli della legalità della pena e della proporzionalità della pena inflitta al reato commesso espressi nell’art. 49 della Carta, che è stato recepito dall’art. II-109 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. 22 Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa n. R (87) 3. 23 Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa si richiama in più passi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (vedi ad esempio art. I-9.2, 3). 24 INI (2001) 2014. 25 La risoluzione del 2001 dedica ampio spazio ai diritti sia dei richiedenti asilo, sia dei migranti. In particolare il Parlamento europeo raccomanda: l’abolizione della doppia pena per i migranti (condanna ed espulsione), il rispetto del principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, indicando nella Convenzione di Dublino, nei concetti di «terzo paese sicuro» e di «paese di origine sicuro», nelle norme che sanzionano i vettori e i trasportatori per avere trasportato clandestini ecc. una minaccia al rispetto di queste convenzioni. Inoltre, la risoluzione condanna le espulsioni collettive verificatesi nel 2001, ricordando agli Stati membri che tali espulsioni sono vietate dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 19) e dall’art. 4 del IV protocollo addizionale alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. 26 INI (2002) 2013. 27 Europol è l’ufficio di polizia dell’Unione Europea, incaricato di attività di intelligence ai fini della lotta alla criminalità. La struttura mira a potenziare l’efficacia dell’azione delle polizie nazionali nel contrasto alla criminalità organizzata, promuovendo la cooperazione fra le competenti autorità degli Stati membri dell’Unione Europea. 28 K. Neale, Aspects of the European Prison Rules, in J. Muncie, R. Sparks (a cura di), Imprisonment. European Perspectives, Harvester Wheatsheaf, London 1991, p. 211, traduzione mia. 29 Nel 2003 è iniziato un nuovo processo di revisione finalizzato ad aggiornare le regole tenendo conto dell’avvenuto allargamento del Consiglio d’Europa e del processo di costruzione dell’Unione Europea. La nuova versione ribadirà i principi di base affermati nel 1987. 30 Nel 1935 l’assemblea della Lega delle Nazioni adottò un codice di standard 15

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minimi per il trattamento dei detenuti (Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners) e un codice analogo fu adottato dalle Nazioni Unite nel 1955. 31 Neale, Aspects of the European Prison Rules, cit. 32 I tre principi che seguono sono espressamente formulati nelle European Prison Rules e trovano più di un’applicazione nei vari settori disciplinati dalle Regole. 33 Questo principio è espresso nella Parte IV delle European Prison Rules all’art. 64 dove si afferma: «La carcerazione è, attraverso la privazione della libertà, una pena in sé. Le condizioni di detenzione e gli ordinamenti penitenziari non devono quindi, salvo nei casi di segregazione legittima o nei casi in cui sia necessario per il mantenimento della disciplina, aggravare le sofferenze connesse alla detenzione». 34 Il principio della risocializzazione del condannato è espresso nella prima parte delle European Prison Rules, dove sono elencati «I principi di base». L’art. 3 sancisce che: «Gli obiettivi del trattamento delle persone recluse devono essere tali da assicurare la loro salute e il loro rispetto per se stesse e, per quanto possa permetterlo la lunghezza della pena, devono sviluppare il loro senso di responsabilità e incoraggiare i comportamenti e le conoscenze che le aiuteranno a tornare nella società con il massimo delle possibilità di condurre una vita rispettosa delle leggi ed economicamente autosufficiente una volta rilasciate». 35 Questo principio trova nelle European Prison Rules più di una formulazione; la sua principale espressione si trova tuttavia nell’art. 1 che stabilisce: «La privazione della libertà deve essere attuata in condizioni materiali e morali che assicurino il rispetto della dignità umana e siano conformi alle regole seguenti». 36 European Prison Rules, Preambolo, lettera d. 37 Ibid. 38 L’art. 67, 3 delle European Prison Rules stabilisce, fra le altre cose, che «Deve essere compiuto ogni sforzo perché i detenuti siano alloggiati in istituti caratterizzati dall’apertura e che offrano ai detenuti ampie opportunità di avere contatti con la comunità esterna». 39 Ivi, Parte IV, art. 65. 40 Ivi, art. 65b. 41 Ivi, art. 70, 1. 42 L’art. 1 della convenzione stabilisce che: «deve essere costituito un Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti». 43 Il CPT ha il diritto di visitare, nei paesi aderenti alla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, ogni genere di istituto detentivo, pubblico o privato, nel quale delle persone siano detenute non per propria volontà. Le visite sono preannunciate agli Stati, ma viene lasciato un certo margine di sorpresa che consente al CPT di ispezionare gli istituti secondo un calendario che esso stesso predispone. Dopo ogni visita, il CPT redige un rapporto e lo indirizza allo Stato nel quale si è svolta la visita, chiedendogli di approntare le soluzioni necessarie per porre fine alla violazione della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Lo Stato deve rispondere al CPT e può autorizzare la diffusione del rapporto e delle risposte fornite. Se uno Stato non coopera con il CPT durante le visite o non prende i provvedimenti che il Comitato ritiene necessari per porre fine alle violazioni riscontrate, il CPT può, sentito lo Stato, denunciare pubblicamen-

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te la sua reticenza a collaborare. In genere gli Stati cooperano con il CPT, tanto che la facoltà di rilasciare una dichiarazione pubblica di sanzione nei confronti di uno Stato è stata utilizzata raramente. Inoltre, gli Stati tendono a chiedere essi stessi la pubblicazione dei rapporti del CPT e, nei casi in cui non lo facciano, sono sottoposti alla pressione dell’opinione pubblica. 44 A. Cassese, Umano-Disumano. Commissariati e prigioni nell’Europa di oggi, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 55. 45 Vedi ivi, pp. 56-57. 46 È opportuno segnalare che il modello cellulare è stato sottoposto a forti critiche. In particolare il CPT ha più volte richiamato la Turchia a istituire la detenzione in celle individuali. Nelle carceri turche si è sviluppato un vasto movimento di protesta contro l’abolizione dei dormitori sostenuta dal CPT e promossa dal governo turco. Molti detenuti sono morti praticando lo sciopero della fame. La protesta viene condotta soprattutto dai detenuti politici e dai detenuti kurdi, che sostengono che la reclusione in celle individuali favorisce gli abusi della polizia nei loro confronti. 47 Corte europea dei diritti umani, sentenza 15 luglio 2002, Kalashnikov v. Russian Federation, citato in M. Palma, Prisons in Europe, Relazione al Convegno sull’osservatorio europeo sulla giustizia penale e le carceri, Roma 10 aprile 2003. 48 Cfr. la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa n. R (99) 22. 49 È il caso ad esempio delle politiche penitenziarie italiane degli anni Novanta, in particolare dell’adozione della legge Simeone-Saraceni che ha potenziato le modalità di accesso all’affidamento in prova ai servizi sociali per i detenuti e di una serie di provvedimenti che hanno inteso promuovere la decarcerizzazione per i malati di AIDS e per le detenute madri, il miglioramento dei servizi sanitari per i detenuti ecc. 50 V. Ruggiero, Flexibility in the Italian Penal System, in Ruggiero, Ryan, Sim (a cura di), Western European Penal Systems, cit., p. 64, traduzione mia. 51 Mosca, 4-5 ottobre 2001. 52 The Implementation of Long-Term Prison Sentences. Report Presented by the Minister of Justice of the Russian Federation, in «Penological Information Bulletin», 23-24, 2002 (http://www.coe.int/T/E/Legal_affairs/Legal_co-operation/Prisons _and_alternatives/Bulletin/Bull.P-2324E.pdf). 53 Belgium. Memorandum Presented by the Minister of Justice, ivi. 54 R. Van Swaaningen, G. De Jonge, The Dutch Prison System and Penal Policies in the 1990s: From Humanitarian Paternalism to Penal Business Management, in Ruggiero, Ryan, Sim (a cura di), Western European Penal Systems, cit. 55 Ivi. 56 Dienst Justitiële Inrichtingen, Feiten in cijfers 2005, http://www.dji.nl/ main.asp?pid=40. 57 Cfr. Id., Open to Reform. Annual Report 2004, Dienst Justitiële Inrichtingen, The Hague 2005. 58 United Kingdom. Memorandum presented by the Minister of State, Home Office and the Parliament Secretary, Lord Chancellor’s Department, in «Penological Information Bulletin», 23-24, 2002. 59 Home Office, The Prison Population in 2002. A Statistical Review, TABS, London 2003. 60 Ibid.

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Id., The Prison Population in 2001. A Statistical Review, TABS, London 2003. Council of Europe, Space I. Survey 2003, cit. 63 Home Office, The Prison Population in 2002, cit. 64 P. Tournier, Les transformations du sentiment d’insécurité, in C. Faugeron (a cura di), Les politiques pénales. Problèmes politiques et sociaux, La documentation française, Paris 1992. 65 Administration pénitentiaire, Rapport Annuel 1993, La documentation française, Paris 1994. 66 Ministère de la Justice, Les chiffres-clés de la Justice, La documentation française, Paris 2004. 67 Id., Les chiffres-clés de la Justice. L’administration pénitentiaire 2005, http://www.justice.gouv.fr/minister/DAP/chiffres2005.htm. 68 Loi 15 juin 2000. 69 I dati sono tratti da Statistisches Bundesamt, Rechtspflege. Ausgewählte Zahlen für Rechtspflege, Fachserie 10/Reihe 1, Statistisches Bundesamt, Wiesbaden 2004. 70 L.M. Solivetti (a cura di), Il sistema penitenziario italiano. Dati e analisi, Ministero della Giustizia, Roma 2003. I dati si riferiscono ai detenuti condannati con sentenza definitiva. 71 Finland. Memorandum Presented by the Minister of Justice, in «Penological Information Bulletin», 23-24, 2002. 72 Con alcune significative differenze, un’analisi di questo tipo è in parte adattabile anche al caso italiano. Alcune leggi garantiste adottate alla fine degli anni Novanta (ad esempio la legge Simeone-Saraceni) hanno ridotto la percentuale dei detenuti condannati a pene brevi. 73 Solivetti (a cura di), Il sistema penitenziario italiano, cit. Lo stesso dato è riportato dal Centre for Prison Studies del King’s College di Londra con riferimento al 30 giugno 2004. 74 Ivi. 75 Loi 15 juin 2000. 76 Administration pénitentiaire, Rapport annuel sur les prisons, La documentation française, Paris 2002. 77 Ministère de la Justice, Les chiffres-clés de la Justice. L’administration pénitentiaire 2005, cit. 78 Solivetti (a cura di), Il sistema penitenziario italiano, cit. 79 Si noti che la media europea non è particolarmente significativa poiché la percentuale di immigrati residenti varia nei diversi paesi europei. Inoltre non vi è una correlazione fra il numero degli stranieri residenti e il numero dei detenuti stranieri: nei paesi dell’Europa meridionale, dove si registrano le percentuali più elevate di detenuti stranieri, la porzione della popolazione residente immigrata ammonta al massimo al 5 per cento. 80 Vedi supra, § 2.5. 81 Home Prison Service, Annual Report and Accounts. April 2004-March 2005, Home Prison Service, London 2005. 82 S. Palidda, La criminalisation des migrants, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 129, 1999. Palidda cita a sostegno di questa tesi sia le testimonianze degli operatori sociali raccolte in Francia, sia i dati ufficiali riportati in B. Agozino, S. Palidda, Immigrant Delinquency: Social Construction of Deviant Behaviour and Criminality of Immigrants in Europe, European Union, Bruxelles 1996, e P.V. 61 62

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Tournier, Space I: enquête 1998 sur les populations pénitentiaires, in «Bulletin d’information pénologique», 22, 2000. 83 Ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2004. 84 Dati dell’amministrazione penitenziaria greca al 16 dicembre 2004. 85 Mia elaborazione sui dati forniti dal ministero della Giustizia che registrano la situazione al 30 giugno 2002. 86 Ministero della Giustizia, dati riferiti al primo semestre del 2003. 87 Ibid. 88 D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2002. 89 S. Palidda, La devianza, in ISMU, Settimo rapporto sulle migrazioni 2001, Franco Angeli, Milano 2002, p. 179. 90 Si può sostenere che la popolazione penitenziaria europea sia composta essenzialmente da queste categorie sociali, cui si aggiungono persone provenienti da alcune zone scarsamente modernizzate dei paesi europei come il Sud d’Italia, le quali presentano a loro volta forti analogie con le «periferie euromediterranee» individuate da Palidda. In Italia la quasi totalità dei detenuti è di nazionalità straniera o proviene dalle regioni del Sud. 91 Vedi supra, § 2.5. 92 L’Ispettorato delle carceri britannico nel suo rapporto annuale del 2002 sottolinea in proposito che nei penitenziari del Regno Unito è stato creato un servizio di presa in carico da parte dell’amministrazione penitenziaria dei problemi derivanti dalla crescente presenza di detenuti sia stranieri, sia cittadini britannici di origine straniera (vedi Chief Inspector, Annual Report of HM Chief Inspector 2002, The Stationery Office, London 2002). In Francia la percentuale di detenuti stranieri è passata dal 25 per cento al 32 per cento dal 1986 al 1996 (dati del ministero della Giustizia francese). In Italia in un solo anno, il 2002, si è registrato un vero e proprio boom dell’incarcerazione degli stranieri: la percentuale di detenuti stranieri è passata da 29,5 per cento al 31 maggio 2001 a quasi il 32 per cento al 30 giugno 2002. Da allora è rimasta stabile. 93 Palidda, La criminalisation des migrants, cit., p. 39, traduzione mia. 94 In primo luogo attraverso le televisioni satellitari che diffondono immagini di benessere e attraverso i resoconti, spesso falsati, degli emigrati che tornano nei paesi d’origine. 95 Statewatch, UK. Ethnic Injustice: More Black and Asian People Are Being Stopped and Searched More Than Ever Before, http://www.statewatch.org/news/ 2004/aug/stop-and-search.pdf. 96 Il tema è trattato esaustivamente nel dossier redatto dall’Open Society Justice Initiative (Ethnic Profiling by Police in Europe, Open Society Justice Initiative, London 2005). 97 Vedi S. Peers, EU Justice and Home Affairs Law, Longman, London 2000. 98 Vedi ad esempio F. Quassoli, Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori del diritto, in «Rassegna italiana di sociologia», 1, 1999. 99 S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 233. 100 A. Sayad, Immigration et pensée d’Etat, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 129, 1999. 101 Ivi, p. 8, traduzione mia. 102 Ibid.

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Ivi, p. 9. È invece questa l’opinione di Wacquant: cfr. L. Wacquant, «Suitable Enemies»: Foreigners and Immigrants in the Prisons of Europe, in «Punishment and Society», 1-2, 1999 (trad. it., «Nemici convenienti». Stranieri e migranti nelle prigioni d’Europa, in Wacquant, Simbiosi mortale, cit.). 105 Il termine richiama la sociologia di Pierre Bourdieu e fa riferimento alla discriminazione che deriva dalla povertà di capitale economico, sociale e culturale che caratterizza i migranti sospingendoli nella marginalità. Con questo termine mi riferisco tuttavia anche alla «non-idoneità» degli stranieri a relazionarsi con un apparato penale che prevede garanzie pensate per i cittadini, ossia per soggetti ben inseriti nel tessuto sociale e dotati di strumenti economici, sociali e culturali di cui i migranti non dispongono. 106 Con l’espressione «regole del disordine» Palidda designa un codice informale che può in alcuni casi regolare i rapporti fra la polizia e la criminalità. Le «regole del disordine» permettono una gestione pragmatica da parte delle forze dell’ordine della molteplicità delle situazioni d’illegalità presenti sul territorio. Questa modalità di gestione dell’ordine pubblico può prescindere dalle norme giuridiche e condurre all’adozione di criteri discrezionali tali da scivolare nella discriminazione (cfr. Palidda, La devianza, cit., p. 174). 107 Id., Polizia postmoderna, cit., p. 233. 108 Quassoli, Immigrazione uguale criminalità, cit. 109 Lampante è ad esempio la violazione continua del diritto alla difesa che assume molteplici forme: dal pessimo funzionamento del servizio d’interpretariato, alla difficoltà per i migranti di nominare un difensore di fiducia, alla mancata traduzione – nonostante le disposizioni di legge – delle comunicazioni indirizzate agli stranieri detenuti. 110 Questo non significa che tali strumenti, se adottati nei confronti dei detenuti che godono della cittadinanza, conducano a un effettivo reinserimento sociale. Tuttavia, nonostante l’inadeguatezza del carcere a esercitare una funzione risocializzante, le attività trattamentali possono contribuire ad alleviare la sofferenza dei detenuti e a «utilizzare» in qualche modo il tempo vuoto della detenzione. 111 Negli istituti penali minorili l’emarginazione dei detenuti stranieri a causa delle loro difficoltà linguistiche è evidente. I minori stranieri sono spesso esclusi dall’attività scolastica (che è l’attività più importante per evitare la desocializzazione dei minori) o sono inseriti in classi di cui non sono in grado di seguire il programma di studi. Gli operatori spesso si dichiarano incapaci di entrare in comunicazione con loro per motivi linguistici e li trascurano apertamente. 112 E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 20042. 113 Ivi, pp. 55-56. 114 Corte costituzionale, sentenza 8-13 luglio 2004, n. 223. 115 Mi riferisco in particolare ai provvedimenti three strikes and you’re out nei quali è presente l’idea di «far uscire dal gioco» il criminale, di bandirlo per sempre dalla comunità. 116 E. Santoro, Carcere e criminalizzazione dei migranti: una politica da tre soldi, in F. Berti, F. Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento, Franco Angeli, Milano 2004, p. 54. 117 Vedi la denuncia del giornalista Federico Gatti che, fingendosi migrante, è riuscito a entrare nel centro di detenzione temporanea di Lampedusa (F. Gatti, Io clandestino a Lampedusa, in «L’espresso», 40, 2005). Gatti ha sostenuto che la sua 103 104

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presenza a Lampedusa, come quella di molti migranti entrati con lui nel centro nella settimana fra il 24 e il 30 settembre 2005, non è mai stata convalidata dal giudice. Le condizioni igieniche del centro sono, secondo il giornalista, gravissime. Inoltre egli sostiene di aver assistito, durante la sua reclusione, ai comportamenti razzisti di molti carabinieri in servizio nel centro, a percosse e a forme di violenza psicologica nei confronti dei detenuti. Il tema dei centri di permanenza temporanea meriterebbe di essere trattato approfonditamente. Qui si può solo accennare ad alcuni degli aspetti più gravi che riguardano la detenzione in questi centri. Per un esame della questione in chiave sia sociologica, sia filosofico-politica, vedi F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona 2003. 118 Lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia è stato istituito dal Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999. 119 Cfr. J. Solana, For the Common Foreign and Security Policy, European Council, Tessalonica, 20 giugno 2003. 120 A. Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?, in Anastasia, Palma (a cura di), La bilancia e la misura, cit., pp. 19-36. 121 Fra le istituzioni europee il dibattito su queste realtà appare aperto: da una parte il Parlamento europeo ha più volte richiamato l’Unione e i singoli Stati membri a porre fine alla pratica delle espulsioni collettive (vietate anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e ha posto in discussione la legittimità dei centri di permanenza temporanea, dall’altra singoli Stati membri hanno spesso avanzato nell’ambito del Consiglio proposte drastiche di contrasto all’immigrazione clandestina senza alcun riguardo per l’esigenza di tutelare i diritti degli stranieri migranti o richiedenti asilo. È il caso della proposta britannica di costituire appunto dei «centri di trattamento in transito» collocati fuori dai confini europei dove recludere i richiedenti asilo in attesa dell’esito della procedura di concessione dell’asilo. Nel luglio del 2004 il Consiglio ha adottato delle conclusioni relative ai rimpatri collettivi con voli aerei che, violando la Carta dei diritti dell’Unione e ignorando la condanna del Parlamento europeo, definiscono le espulsioni così realizzate «un modo efficace e umano di rimpatriare le persone». Tali conclusioni seguono alla decisione adottata dal Consiglio il 29 aprile 2004 relativa all’organizzazione di espulsioni collettive con voli aerei, decisione che era stata respinta dal Parlamento europeo. È bene notare in proposito che il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa ha integrato l’articolo della Carta dei diritti relativo al divieto di espulsioni collettive (art. II-79 relativo alla «Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione»). 122 Il processo di ricezione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa da parte dei paesi membri è inoltre, com’è noto, in una fase di stallo. 123 Vedi supra, § 4.2. 124 N. Christie, Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western Style, Routledge, London 1994 (trad. it., Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Eleuthera, Milano 1996, p. 180). 125 Ivi, pp. 183-84. 126 T. Mathiesen, Prison on Trial, Waterside Press, London 20002, p. 24, traduzione mia. 127 Su questo punto vedi G. Mosconi, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti sull’istituzione penitenziaria, in Anastasia, Palma (a cura di), La bilancia e la misura, cit.

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Fra gli studi citati da Mosconi: per gli Stati Uniti J.V. Roberts, L.J. Stalans, Public Opinion, Crime and Criminal Justice, Westview Press, Boulder (Col.) 1997; per l’Europa G. Mosconi, A. Toller, Criminalità, pena e opinione pubblica. La ricerca in Europa, in «Dei delitti e delle pene», 1, 1998, e F. Vianello, D. Padovan, Criminalità e paura. La costruzione sociale dell’insicurezza, ivi, 3, 1999. Da segnalare inoltre i risultati emersi nell’ambito del progetto Città sicure dell’Emilia Romagna in «Quaderni di città sicure», vari numeri. 129 Vedi J.V. Roberts, M. Hough (a cura di), Changing Attitudes to Punishment. Public Opinion, Crime and Justice, Willan, Portland (Or.) 2002. 128

Capitolo 5 1 N. Christie, Eléments de géographie pénale, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 124, 1998, p. 74, traduzione mia. 2 Vedi supra, cap. 1. 3 Cfr. L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raisons d’agir, Paris 1999 (trad. it., Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano 2000) e il numero monografico degli «Actes de la recherche en sciences sociales» dedicato all’analisi di questo passaggio: De l’Etat social à l’Etat pénal?, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 124, 1998. 4 Vedi infra, § 5.2. 5 Tale processo non è sempre il risultato di specifiche politiche orientate alla sostituzione delle agenzie del welfare State con gli apparati di polizia e con il sistema penitenziario. Si tratta spesso del risultato delle politiche di riduzione della spesa pubblica e dell’automatismo con il quale si sviluppano le politiche penali e penitenziarie. Come già accennato, sembra mancare una politica che affronti in modo specifico e approfondito i problemi del controllo sociale, senza cedere alle richieste populistiche di una severità fine a se stessa. 6 Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press, Blackwell, Cambridge-Oxford 1998 (trad. it., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 77). 7 Ivi, p. 76. 8 Si tornerà più avanti su questa polarizzazione individuata da Bauman fra global elite e localized majority, che è considerata da Bauman stesso, ma anche da altri autori, come uno dei più gravi effetti della globalizzazione e una minaccia per la libertà e per la democrazia. 9 P. Bourdieu, L’architecte de l’euro passe aux aveux, in «Le Monde diplomatique», 9, 1997, p. 19. 10 Vedi in particolare Wacquant, Les prisons de la misère, cit. 11 Fra le opere di Mead analizzate da Wacquant: L. Mead, Beyond Entitlement: The Social Obligations of Citizenship, Free Press, New York 1986; Id., The New Politics of Poverty: The Nonworking Poor in America, Basic Books, New York 1992; Id. (a cura di), The New Paternalism: Supervisory Approaches to Poverty, Brookings Institution Press, Washington D.C. 1997 e Id., From Welfare to Work: Lessons from America, Institute of Economic Affairs, London 1997. 12 Fra questi anche Charles Murray. 13 In questo filone s’iscrive, oltre a una parte della sociologia francese, inglese e statunitense (vedi in particolare il numero monografico degli «Actes de la recher-

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che en sciences sociales», 124, 1998), la critica neomarxista italiana (vedi ad esempio A. De Giorgi, Zero tolleranza, Derive Approdi, Roma 2000). 14 Bauman, Dentro la globalizzazione, cit., p. 113. 15 Cfr. D. Garland, The Limits of the Sovereign State: Strategies of Crime Control in Contemporary Society, in «British Journal of Criminology», 4, 1996 e Id., The Culture of Control, Oxford University Press, Oxford 2001 (trad. it., La cultura del controllo, Il Saggiatore, Milano 2004). 16 B. Badie, La fin des territoires. Essai sur le désordre international et sur l’utilité sociale du respect, Fayard, Paris 1995 (trad. it., La fine dei territori. Saggio sul disordine internazionale e sull’utilità sociale del rispetto, Asterios, Trieste 1996). 17 Vedi supra, cap. 3. 18 Gli Stati di diritto sono caratterizzati da un bilanciamento istituzionale che spesso costituisce un baluardo per la tutela dei diritti soggettivi nei confronti degli interventi repressivi sollecitati dalla sorveglianza privata, da forme di autorità familiare o comunitaria e da specifiche agenzie anche statali incaricate della repressione penale. È il caso ad esempio della condanna pronunciata dalla Corte suprema degli Stati Uniti per la sospensione del rule of law nelle carceri di Guantanamo o delle inchieste svolte dalla magistratura italiana per le violenze della polizia durante il vertice del G8 di Genova nel 2001. La concezione dello Stato che i teorici dello «Stato penale» mostrano di avere sembra mancare di complessità sia di fronte ai processi di frammentazione indotti dalla globalizzazione, sia di fronte all’articolazione istituzionale che caratterizza le democrazie liberali contemporanee. 19 «Legge globale, ordini locali» è il titolo del cap. 5 di Dentro la globalizzazione di Zygmunt Bauman: Bauman, Dentro la globalizzazione, cit., p. 113. 20 Cfr. supra, cap. 2. 21 S. Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton University Press, Princeton 2001 (trad. it., Città globali. New York, Londra, Tokyo, UTET, Torino 1997). 22 Come ha notato Massimo Pavarini, oggi il tema della sicurezza si declina essenzialmente come una questione di governo delle città (M. Pavarini, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria. Note teoriche sul caso italiano, http://www. seguridadurbana.azul.gov.ar/pavarini2001.pdf). 23 L’espressione è stata impiegata in particolare dalla penologia e dalla sociologia francese negli anni Novanta. 24 Cfr. L. Bonelli, Des quartiers en danger aux «quartiers dangereux», in «Le Monde diplomatique», 2, 2001, pp. 18-19, ed E. Klinenberg, Patrouilles conviviales à Chicago, ivi, pp. 1, 18-19. 25 Cfr. M. Davis, Ecology of Fear, Henry Holt and Company, Los Angeles 1998 (trad. it., Geografie della paura, Feltrinelli, Milano 1999). 26 Cfr. S. Fainstein, I. Gordon, M. Harloe (a cura di), Divided Cities. New York and London in the Contemporary World, Blackwell, Oxford 1992. 27 Cfr. Sassen, Città globali, cit. 28 A. Petrillo, La città perduta, Dedalo, Bari 2000, cap. 1. 29 Ivi, Introduzione. 30 T.P. Caldeira, Fortified Enclaves. The New Urban Segregation, in M.S. Low (a cura di), Theorizing the City. The New Urban Anthropology Reader, Rutgers University Press, New Brunswick (N.J.)-London 20022. 31 È il caso ad esempio di São Paulo, dove le enclaves di questo tipo si caratterizzano per l’ostentazione degli apparati di sicurezza e assumono spesso un carat-

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tere estremo trovandosi a confinare con aree residenziali poverissime come le favelas. Cfr. ibid. 32 L’espressione fortress cities ricorre nella sociologia statunitense. Cfr. M. Davis, City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles, Verso, London 1990 (trad. it., La città di quarzo, Manifestolibri, Roma 2000). 33 Cfr. C. Jenks, Heteropolis: Los Angeles, the Riots and the Strange Beauty of Hetero-architecture, Ernst and Sohn, London 1993, p. 93. Per Jenks, fautore dell’architettura difensiva, il fatto che le enclaves tendano a negare la complessità sociale ed etnica delle società liberali contemporanee per riprodurre comunità omogenee deve essere accettato in nome della constatazione realista del fallimento delle strategie integrazioniste del modello del melting pot angloamericano (cfr. Caldeira, Fortified Enclaves, cit.). 34 Per un’analisi di queste dinamiche riferita in particolare alla città di Los Angeles vedi S. Zukin, The Culture of Cities, Blackwell, Oxford 1995. 35 R. Sennett, The Uses of Disorder. Personal Identity and City Life, Norton and Company, New York 1970 (trad. it., Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli, Costa e Nolan, Ancona-Milano 1999). 36 Cfr. Petrillo, La città perduta, cit. 37 Z. Bauman, Community. Seeking Safety in an Insecure World, Polity Press, London 2000 (trad. it., Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 114). 38 J. Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, Modern Library, New York 1961. 39 Per l’Italia vedi S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000. 40 Pavarini, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria, cit. 41 Palidda definisce «imprenditore della sicurezza» «un attore sociale che si propone come personaggio chiave nel governo delle paure e della rassicurazione a livello locale». L’«imprenditore della sicurezza» può essere sia un esponente delle forze dell’ordine che assume un ruolo di mediazione fra queste e le comunità locali (un prefetto, un questore, un comandante di polizia municipale), sia un privato cittadino (ad esempio il presidente di un comitato di quartiere). Cfr. Palidda, Polizia postmoderna, cit., p. 145. 42 Ivi, p. 146. 43 Palidda sottolinea come spesso i presidenti dei comitati di quartiere che hanno svolto una simile mediazione fra comunità locali e polizia siano poi stati candidati alle elezioni amministrative e abbiano assunto un ruolo più direttamente politico. 44 U. Beck, I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2000, Prefazione di S. Mezzadra, p. XI. 45 Significative sono in questo senso le esperienze di controllo comunitario realizzate a Modena. Cfr. «Quaderni di città sicure», in particolare il numero monografico su Modena: un’azione di prevenzione comunitaria, in «Quaderni di città sicure», 3, 1996. 46 E. Currie (a cura di), Crime and Punishment in America, Henry Holt and Company, New York 1998. 47 S.R. Donziger (a cura di), The Real War on Crime, Harper Collins, New York 1996. 48 Un esempio di questo approccio è il progetto Città sicure della Regione Emi-

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lia Romagna che è stato il primo di questo tipo in Italia. Cfr. «Quaderni di città sicure», vari numeri. 49 Cfr. C. Poletti, intervento al Seminario su Sicurezza sociale e sicurezza urbana, presso la Fondazione Michelucci di Fiesole (Firenze), il 17 gennaio 2003, e Pavarini, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria, cit., p. 15. 50 Secondo Massimo Pavarini nell’esperienza di sorveglianza comunitaria svoltasi nel quartiere Reno a Bologna i membri dei comitati incaricati di garantire la sicurezza si sono battuti per l’assegnazione di appartamenti di proprietà cooperativa presenti nel loro quartiere ai profughi provenienti dalla ex Jugoslavia che si accampavano lungo il fiume vicino all’area residenziale dove erano sorti i comitati. Cfr. Bologna: fare prevenzione alla Barca. Sicurezza e opinione pubblica in città, in «Quaderni di città sicure», 4, 1996. Analogamente, nelle ricerche svolte da Poletti sui comitati istituiti nel quartiere di Modena Est è emerso il coinvolgimento degli stranieri residenti nelle attività di sorveglianza. Cfr. Poletti, intervento, cit. Vedi anche Id., Ricerca sui comitati securitari a Modena, con interviste ai presidenti dei comitati stessi, in «Dei delitti e delle pene», 1, 2003. 51 Partenariat è l’espressione usata dalla sociologia e dall’amministrazione francese per definire queste forme di collaborazione fra agenzie di controllo pubbliche e soggetti privati. L’espressione è stata tradotta in italiano per riferirsi alle principali esperienze di questo tipo che, coordinate dagli enti locali, si svolgono sul territorio italiano. 52 L’analisi dell’istituto del «partenariato» e delle diverse forme di governance penale dovrebbe essere molto più complessa. Le esperienze di questo tipo sono numerose e differenti e molto è stato scritto a riguardo (vedi ad esempio: A. Crawford, The Local Governance of Crime: Appeals to Community and Partnerships, Clarendon, Oxford 1997; Pavarini, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria, cit.; «Quaderni di città sicure», vari numeri). Mi limito qui a prendere in considerazione alcune caratteristiche di questo modello di gestione penale, nella consapevolezza che il quadro che traccio è lacunoso. Penso tuttavia che sia possibile valutare i problemi che anche questa forma di controllo localizzato presenta dal punto di vista politico e sociale, senza per questo concludere che esso debba essere in toto liquidato e che non sia suscettibile di miglioramenti. La mia convinzione è tuttavia che è in ogni caso rischioso confondere le politiche sociali con le politiche penali e che l’intervento del cosiddetto «terzo settore» nella sfera sociale debba tenersi il più possibile distinto dalle diverse forme di intervento penale. Compito della società civile e delle sue organizzazioni dovrebbe essere, mi pare, non il controllo penale ma il controllo sull’operato degli apparati di polizia e sull’amministrazione penitenziaria in funzione della tutela dei diritti individuali e collettivi. 53 Naturalmente questo giudizio è opinabile ed è fortemente contestato dai promotori del controllo comunitario, i quali sostengono invece la necessità di rispondere al senso d’insicurezza soggettivo nutrito dai cittadini e l’idoneità del controllo locale a questo fine. 54 Le esperienze toscane ed emiliane di controllo di comunità si sono svolte in quartieri nei quali era già presente una forte cultura democratica e una visione politica progressista ed egualitaria. Anche qui tuttavia sembrano essersi manifestate relazioni di tipo gerarchico, com’è accaduto a Modena Est dove, secondo le ricerche di Poletti, i residenti hanno teso ad addebitare ai «giovani» la responsabilità del degrado e della criminalità. 55 Palidda, Polizia postmoderna, cit., p. 135.

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Massimo Pavarini ha riconosciuto le ragioni politiche che fondano l’opzione a favore del controllo penale tradizionale, sostenendo che un modello penale nel quale la «mission» delle forze di polizia è «fare rispettare professionalmente la legge nel rispetto della legge» tutela «sul piano garantistico un’autonomia relativa del sistema di polizia dal potere politico». Egli ritiene tuttavia che questo modello non sia più attuale a causa del venir meno di alcune precondizioni storiche e materiali che lo rendevano possibile. Fra queste: la dimensione ridotta della sfera dell’illecito penale che era limitato alla protezione dei soli diritti soggettivi, la larga coincidenza tra legalità formale e sentimento sociale diffuso di legalità, e l’ampia e diffusa rete di pratiche di socializzazione e di controllo informali capaci di governare autonomamente molte condotte devianti (Pavarini, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria, cit.). L’analisi di Pavarini è molto interessante e tuttavia si potrebbe obiettare che queste precondizioni non sono dati naturali il cui declino debba essere considerato necessariamente irreversibile. Inoltre, ci si potrebbe chiedere se le energie impiegate nella costruzione dei nuovi strumenti di controllo penale a livello locale non sottraggano agli enti locali e alle comunità di cittadini impegnati in questo genere di attività le risorse finanziarie e umane che potrebbero invece essere utilizzate per ricostruire le suddette precondizioni. Queste appaiono infatti almeno in parte come il risultato dell’affievolirsi di una serie di fattori politici e sociali che potrebbero invece essere nuovamente valorizzati. 57 G.L. Kelling, C.M. Coles, Fixing Broken Windows. Restoring Order in Our Communities, The Free Press, New York 1996. 58 G.L. Kelling, J.Q. Wilson, Broken Windows: The Police and Neighbourhood Safety, in «Atlantic Monthly Review», 3, 1982. 59 Tanto che Kelling e Coles indicano nel New York Police Department l’esempio migliore del modello che essi propugnano (cfr. Kelling, Coles, Fixing Broken Windows, cit., cap. 4). Anche Wacquant, nella sua analisi delle politiche di «tolleranza zero», non si preoccupa di distinguere la teoria di Kelling e Coles dalle altre strategie di controllo adottate dall’amministrazione Giuliani (cfr. Wacquant, Les prisons de la misère, cit.). 60 Preoccupati delle accuse di razzismo mosse alle loro teorie, Kelling e Coles mettono in evidenza il carattere interclassista e interrazziale della domanda di ordine, la quale – insistono i due autori – proviene non dalle classi agiate ma dalle classi popolari che sono costrette a convivere con il degrado. Per questo Kelling e Coles accusano i loro critici di dare un’immagine caricaturale delle strategie di polizia che essi raccomandano. L’analisi di Kelling e Coles coglie nel segno laddove considera la domanda di sicurezza come una domanda popolare, proveniente dal basso e quindi anche dagli afroamericani abitanti nei ghetti che sono costretti a convivere con il degrado. Tuttavia essa trascura che i target individuati dalle strategie di polizia ispirate alla teoria delle broken windows sono quasi esclusivamente i giovani afroamericani, accusati da Kelling e Coles di aver liberamente scelto una condotta deviante. Le critiche alla teoria delle broken windows non riguardano il fatto che le politiche a essa ispirate creano una contrapposizione fra ricchi e poveri o fra neri e bianchi – contrapposizione che giustamente Kelling e Coles negano – ma riguardano la scelta di non problematizzare la devianza, abbandonando gran parte dei membri delle comunità afroamericane al loro destino di esclusione sociale. 61 Garland, La cultura del controllo, cit., in particolare pp. 205 sgg. 62 U. Beck, Freiheit oder Kapitalismus. Gesellschaft neu denken, Suhrkamp, 56

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Frankfurt a.M. 2000 (trad. it., Libertà o capitalismo? Varcare la soglia della modernità, Carocci, Roma 2001, p. 53). 63 C. Murray, R. Herrnstein, The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, Free Press, New York 1994. 64 M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 (trad. it., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978). 65 Per una sintetica ricostruzione di questo dibattito cfr. A. de Tocqueville, Scritti penitenziari, a cura di L. Re, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. 66 Vedi L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIX siècle, Hachette, Paris 1984. 67 L’espressione è di Tocqueville, cfr. Tocqueville, Scritti penitenziari, cit., p. XLVII. 68 Petrillo, La città perduta, cit. 69 Con gli anni Duemila un nuovo nemico si è imposto sulla scena internazionale: il terrorismo. Come si è accennato nel cap. 4, tuttavia, la paura del terrorismo e quella della criminalità si confondono in un’unica paura che pone al centro delle preoccupazioni dei cittadini quella per la propria incolumità fisica. Il terrorista e il criminale sono percepiti come figure affini, che operano in modo analogo, aggredendo in modo casuale cittadini innocenti: l’immagine tipica di entrambi è l’uomo non bianco di religione musulmana. L’interpretazione proposta non pare dunque perdere la sua efficacia di fronte ai recenti sviluppi internazionali. È tuttavia necessario segnalare che quest’interpretazione ha un carattere parziale: non si deve dimenticare che la paura della criminalità e l’insicurezza urbana non sono mai scomparse dal dibattito pubblico, neppure nel corso del Novecento (si pensi non solo alla letteratura popolare e al successo della cronaca nera nei quotidiani, ma anche ai molti tentativi della teoria urbanistica e sociologica di elaborare sistemi di protezione e di controllo in grado di arginare la paura delle classi medie per il crimine). L’impressione è tuttavia che dal dopoguerra fino agli anni Ottanta fosse abbastanza diffusa la fiducia nelle capacità delle strutture del welfare di contenere i conflitti e di controllare la devianza, nonché nella capacità della società civile, percepita come un insieme relativamente coeso, di autocontrollarsi attraverso forme di mediazione e di integrazione fra le diverse classi sociali. 70 Petrillo, La città perduta, cit., p. 177. 71 Come si è visto, tuttavia, il fatto che le politiche di «tolleranza zero» e l’incarcerazione di massa siano indirizzate negli Stati Uniti e in Europa nei confronti, rispettivamente, degli afroamericani e degli stranieri mette in luce un passaggio che sembra compiersi in modo inconsapevole nelle democrazie liberali occidentali: una riformulazione in senso non universalistico del catalogo dei diritti soggettivi che lo Stato di diritto è chiamato a tutelare, nonché l’emergere di un nuovo concetto di cittadinanza che non può essere esteso a specifiche categorie sociali, individuate in base a caratteristiche non solo economiche, ma anche etniche e razziali. 72 Bauman utilizza il termine tedesco perché esso consente – come il termine italiano «insicurezza» – di riassumere le tre accezioni dell’insicurezza che in inglese sono invece designate da tre diversi termini. 73 Z. Bauman, In Search of Politics, Polity Press, London 1999 (trad. it., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 13). 74 U. Beck, Riskante Freiheiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994 (trad. it., L’individualizzazione nelle società moderne, in Beck, I rischi della libertà, cit., p. 6). 75 Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., p. 30.

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Garland, La cultura del controllo, cit., pp. 254-55. Il caso della forte compressione dei diritti civili che il governo degli Stati Uniti ha imposto negli ultimi anni in nome della lotta al terrorismo non pare smentire questa tesi. I cittadini statunitensi hanno accettato solo temporaneamente le limitazioni imposte dal governo e lo hanno fatto in nome di esigenze più stringenti di quelle relative alla prevenzione della criminalità. Negli Stati Uniti si è inoltre levata una protesta diffusa nei confronti delle scelte governative. L’immagine bellica che gli europei hanno della società statunitense dopo l’11 settembre 2001 non restituisce la complessità sociale e l’articolazione istituzionale degli Stati Uniti, dove alcuni attori sociali e istituzionali, opponendosi al sicuritarismo dell’amministrazione in carica, hanno dato vita in questi anni a un confronto politico vivace sui temi della gestione penale e della tutela dei cittadini dagli abusi delle forze di polizia. 78 Su questo tema vedi T. Mathiesen, Driving Forces Behind Prison Growth: The Mass Media, in «FECL», 41 1996, http://www.fecl.org/circular/4110.htm, e Z. Bauman, Social Issues of Law and Order, in «British Journal of Criminology», 2, 2000. 79 Può essere interessante notare come talvolta le autorità statali abbiano ritenuto eccessiva l’insistenza dei mass media sui temi della criminalità e della violenza. Contrariamente a un’opinione diffusa nella letteratura sociologica contemporanea, i media sembrano interessati a promuovere la percezione di una società assediata dal crimine anche autonomamente, ad esempio allo scopo di ottenere facilmente audience, senza che vi sia necessariamente una complicità con la classe politica. In Gran Bretagna, alla fine degli anni Ottanta, l’Home Office ha incaricato una commissione presieduta da Michael Grade, direttore di Channel Four, di monitorare gli effetti della copertura mediatica della criminalità da parte dei media inglesi. Nel suo rapporto la commissione ha segnalato con preoccupazione il risultato emerso dall’indagine, secondo il quale la copertura mediatica dei temi sicuritari produce nel pubblico un aumento rilevante della paura (vedi M. Grade, Report of the Working Group on the Fear of Crime, relazione presentata alla Home Office Standing Conference on Crime Prevention, Londra, 1° dicembre 1989). 80 Cfr. B. Massumi (a cura di), The Politics of Everyday Fear, University of Minnesota Press, Minneapolis 1993. 81 Utilizzo il termine «populista», pur nella consapevolezza dell’ampiezza della nozione (cfr. A. Taguieff, L’illusion populiste, Berg International Éditeurs, Paris 2002; trad. it., L’illusione populista, Mondadori, Milano 2003), per indicare le richieste di alcune forze sociali che si caratterizzano per il rifiuto dei saperi esperti, oltre che, spesso, del sistema partitico e del sistema politico nel suo complesso. Queste forze sono populiste perché contrappongono una visione armoniosa della «società dei cittadini», uniti da valori e da appartenenze comuni, alla complessità e alla differenziazione sociale che caratterizzano le società liberali. In genere, le istanze populiste, per quanto concerne il campo penale, chiedono di adottare soluzioni semplici in risposta a problemi difficili e delicati e mostrano insofferenza per la logica giuridica, ispirata, a loro avviso, a un individualismo eccessivo che esagera l’importanza della tutela dei diritti soggettivi, ai danni degli interessi della comunità. 82 L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2002 7 , p. 70. 83 Ibid. 84 Ivi, p. 71. 85 Ibid. 76 77

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Ibid. P. Glotz, Manifest für eine neue europäische Linke, Wolf Jobst Siedler, Berlin, 1985 (trad. it., Manifesto per una nuova sinistra europea, Feltrinelli, Milano 1986). 88 R. Boyne, Post-Panopticism, in «Economy and Society», 2, 2000, p. 287. 89 Sul tema vedi ad esempio: Z. Bauman, Freedom, Open University Press, Buckingham 1988 (trad. it., La libertà, Città aperta, Enna 2002); T. Mathiesen, The Viewer Society, in «Theoretical Criminology», 1, 1997. 90 Ho approfondito questo tema in L. Re, «Panopticon» e «disciplina»: possono ancora servire?, in E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 20042. 91 M. Lianos, M. Douglas, Dangerization and the End of Deviance: The Institutional Environment, in «The British Journal of Criminology», 2, 2000, p. 266, traduzione mia. 92 Questa è la definizione che fu data da Stuart Hall delle politiche di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Per una ricostruzione del dibattito sull’authoritarian populism vedi S. Hall, Authoritarian Populism. A Reply to Jessop et al., in «The New Left Review», 151, 1985. 86 87

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Indice

Introduzione

V

1. La globalizzazione penitenziaria

3

1.1. Il boom penitenziario, p. 3 - 1.2. I due aspetti della severità penale, p. 3 - 1.3. Cittadini sotto controllo, p. 5 - 1.4. Molti detenuti, pochi diritti, p. 6 - 1.5. Un’Europa delle carceri?, p. 8 - 1.6. La globalizzazione penitenziaria: un quadro complesso, p. 11 - 1.7. Il nuovo primato del penitenziario, p. 13 1.8. Per un «pluralismo penitenziario», p. 16

2. L’incarcerazione di massa negli Stati Uniti

19

2.1. I prodromi della «grande incarcerazione», p. 19 - 2.1.1. La crescita della popolazione penitenziaria, p. 20 - 2.1.2. Un punto di non ritorno, p. 23 - 2.2. L’aumento della criminalità, p. 24 - 2.3. Un successo solo apparente, p. 26 - 2.3.1. Crimine e violenza, p. 29 - 2.3.2. Il caso New York, p. 30 - 2.4. I costi economici dell’incarcerazione di massa, p. 34 - 2.5. I costi sociali della detenzione, p. 37 - 2.6. Complessità sociale del crimine e questione penitenziaria, p. 45

3. Le interpretazioni del boom penitenziario 3.1. Le origini del boom penitenziario, p. 49 - 3.2. I modelli «policy-choice», p. 51 - 3.2.1. Utilità dell’approccio «policychoice», p. 53 - 3.3. La fiducia nella pena detentiva, p. 55 - 3.4. Dalla «truth in sentencing» ai «three strikes and you’re out»: la rivoluzione del sistema di giustizia statunitense, p. 56 - 3.4.1. La «verità» della pena, p. 58 - 3.4.2. Una giustizia neutra, p. 59 - 3.5. La colpa della storiografia revisionista, p. 62 - 3.5.1. Le radici della critica alla «riabilitazione», p. 67 - 3.5.2. Critica del trattamento e promozione del rispetto dei diritti dei detenuti, p. 70 - 3.6. La «war on drugs», p. 75 - 3.7. Il «gioco dei tre errori», p. 77 - 3.7.1. Leggi che «abbaiano ma non mordono», p.

211

49

81 - 3.7.2. Oltre la politica penale: il caso California, p. 82 - 3.8. Populismo e diritto penale, p. 84 - 3.9. Non solo retorica: le «pratiche attuariali», p. 89 - 3.9.1. Una politica contro il diritto, p. 94

4. L’Europa penale fra passato e futuro

97

4.1. Verso un penitenziario europeo?, p. 97 - 4.2. Il «modello penitenziario europeo», p. 100 - 4.2.1. Il richiamo ai diritti fondamentali, p. 103 - 4.2.2. Le «European Prison Rules», p. 108 - 4.2.3. Il ruolo del Comitato per la prevenzione della tortura, p. 111 - 4.3. La durata della detenzione, p. 115 - 4.4. Il carcere dei non condannati, p. 120 - 4.5. Carceri «nere», p. 122 4.5.1. Devianza e discriminazione, p. 125 - 4.5.2. Un «trattamento» finalizzato all’espulsione, p. 129 - 4.6. La «sicurezza» europea, p. 133 - 4.7. La cultura della pena, p. 136

5. Politiche penali della globalizzazione

138

5.1. Processi di globalizzazione e politiche penali, p. 138 - 5.2. «Stati deboli»: le politiche penali fra globale e locale, p. 139 5.3. Il governo delle paure: dalla città globale alla comunità sotto controllo, p. 143 - 5.4. La sicurezza comunitaria fra democrazia e intolleranza, p. 147 - 5.5. Politiche postmoderne: insicurezza esistenziale e società del rischio, p. 154 - 5.6. Controllo penale ed esclusione sociale, p. 158

Note

163

Bibliografia

193