Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011 9788842095323

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Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011
 9788842095323

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Storia e Società

Mario Del Pero

Libertà e impero Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011

Editori Laterza

© 2008, 2011, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2008 Nuova edizione ampliata febbraio 2011 2

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Le cartine sono state realizzate da Luca De Luise.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9532-3

a Veronica

INTRODUZIONE

Questo libro discute il modo in cui gli Stati Uniti hanno agito sulla scena mondiale dalla loro nascita a oggi. Nel farlo, si propone di offrire una storia della politica estera statunitense, che non si limiti esclusivamente al momento diplomatico e alla discussione dell’interazione degli USA con gli altri soggetti del sistema internazionale. Questi aspetti sono infatti analizzati nel contesto delle idee e delle ideologie che hanno informato le scelte di politica estera degli USA, modellandone discorso e rappresentazioni. Non trattandosi di una ricostruzione storica rigorosamente fattuale, ho selezionato eventi e processi che ritenevo più rilevanti e illustrativi, tralasciandone altri, certamente importanti, ma meno utili per la mia discussione. L’obiettivo è stato quello di offrire al lettore una cornice interpretativa e concettuale capace di contenere più di due secoli di storia degli Stati Uniti e della loro politica estera. Per raggiungere questo obiettivo ho cercato di individuare delle chiavi di lettura che permettessero di comprendere e spiegare tutta la parabola storica che ha portato le tredici colonie nord-americane della Gran Bretagna a trasformarsi col tempo nella potenza egemone e dominante del sistema internazionale. Tre, in particolare, sono le tesi avanzate nel libro e usate come fili con cui unire le sue diverse parti. La prima è relativa al carattere per molti aspetti peculiare del nazionalismo statunitense: un nazionalismo eccezionalista, fondato sulla convinzione non solo che gli USA siano paese unico e diverso, ma che l’eccezione statunitense si fondi primariamente sulla loro possibilità di sottrarsi al corso ineluttabile di un percorso storico cui tutti gli altri Stati devono invece sottostare. Se la premessa dell’eccezione risiede nell’asserita esenzione dalle leggi della storia, il suo esito è una vocazione messianica, che spesso conferisce a questo nazionalismo eccezionalista una con-

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notazione e un’ambizione universalistiche: il convincimento, cioè, che sia compito e destino degli Stati Uniti intervenire per plasmare, e possibilmente trasformare, l’ordine internazionale in accordo con i propri principi, valori e interessi. Le fondamenta di questa presunzione eccezionalista, e della vocazione universalista che ne deriva, sono assai controverse. Molti studiosi hanno evidenziato le tante somiglianze e interdipendenze che hanno legato e accomunato da subito gli Stati Uniti agli altri soggetti del sistema internazionale1. Nondimeno, un’autorappresentazione eccezionalista – costantemente invocata, sollecitata e affermata – ha scandito la storia dell’azione internazionale degli Stati Uniti, qualificandone il discorso e condizionandone in modo determinante pratiche, scelte e comportamenti. E questo mi porta alla seconda tesi che propongo nel libro. Sia tra gli storici sia, e ancor più, tra gli scienziati politici vi è la tendenza a separare i diversi paradigmi interpretativi, facendone non di rado un uso esclusivo e preclusivo. Ancor oggi è comune la convinzione che una lettura centrata sulla dimensione ideologica debba giocoforza escludere il ruolo esercitato invece da interessi tangibili e misurabili; o che, soffermandosi esclusivamente su questi ultimi, non si possa comprendere il ruolo svolto dall’identità nel plasmare la loro definizione. In questo studio, ho cercato di qualificare e contestare questa separazione, che ritengo analiticamente debole e metodologicamente fallace. Tra queste diverse dimensioni vi è infatti una mutua dipendenza e un’interazione strettissima: nella storia degli Stati Uniti, identità (il modello di libertà affermatosi negli USA e la sua rappresentazione), ideali (l’ambizione a universalizzare tale modello) e interessi (la convinzione che ciò fosse necessario per rafforzare questa libertà) si sono frequentemente uniti e intrecciati, condizionando il processo decisionale ovvero definendo il perimetro del dibattito politico e pubblico2. Questo intreccio ha conferito una dimensione intrinsecamente espansionistica agli USA e alla loro politica estera. È questa la terza tesi del libro, da cui trae origine il suo titolo: che fra tutela e ampliamento della libertà interna ed espansione e crescita – territoriale, commerciale, culturale – degli Stati Uniti vi sia stato sempre un legame strettissimo; che la politica estera degli Stati Uniti abbia avuto storicamente una natura imperiale e che gli USA, di conseguenza,

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possano essere caratterizzati anche nella loro storia recente come un impero3. Si tratta di una tesi – gli Stati Uniti come impero – che negli ultimi anni è tornata con forza, in un dibattito però altamente politicizzato e inevitabilmente presentista4. Alcuni colleghi che hanno gentilmente letto e commentato il libro durante la sua stesura hanno contestato questa caratterizzazione. Per quanto riguarda le prime due delle tre parti in cui il volume è diviso, essa non presenta in realtà grandi problemi. Nel loro primo secolo di vita gli Stati Uniti furono un impero – un «impero continentale» – e si rappresentarono come tale. La comune appartenenza all’impero aveva costituito l’unico e fondamentale fattore che univa e legava tredici colonie, dal Massachusetts alla Georgia, che al momento dell’indipendenza erano ancora assai diverse da un punto di vista politico, economico, sociale e culturale. E la stessa dimensione imperiale continuò a rappresentare un vettore coesivo dopo l’indipendenza. Da prospettive e con motivazioni diverse, vi fu infatti un ampio consenso sulla necessità di dare corso al destino imperiale del paese, tanto che per molti – a partire da Thomas Jefferson – impero e unione rappresentarono sostanzialmente dei sinonimi. La costruzione di un «impero continentale» fu perseguita con modalità assai peculiari e alimentò, soprattutto dopo il 1820, tensioni crescenti che si legavano principalmente alla questione della schiavitù e al modello di società e di economia che sarebbe stata esportata nei territori occidentali. Nondimeno, il progetto fu realizzato e dopo la guerra con il Messico del 1845-48 si portò a compimento quella visione continentalista che da subito aveva affermato la necessità di espandere gli Stati Uniti dalla costa atlantica a quella pacifica. Analogamente, caratterizzare gli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento sino alla Seconda guerra mondiale come un periodo imperiale non è operazione particolarmente controversa e contestata. Fu in questi anni che gli USA si gettarono nella competizione imperiale e divennero, di fatto, un «impero tra gli imperi», per quanto assai limitato nelle dimensioni. Il modello propugnato dagli imperialisti statunitensi ricordava da vicino quello liberale britannico, rifletteva visioni strategiche e geopolitiche che all’epoca accomunavano le élite delle due sponde dell’Atlantico e trovava investitura ampia nel nazionalismo democratico e di massa degli USA di fine Ottocen-

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to. La visione imperiale fu però vieppiù contestata da un fronte anti-imperialista variegato ed eterogeneo, ma capace d’imporre progressivamente i propri termini e le proprie categorie nel dibattito pubblico, su tutte l’idea che esistesse una contrapposizione ineludibile tra l’essere una repubblica e il diventare un impero. Nella seconda fase dell’epoca in cui gli USA furono un «impero tra gli imperi», il vocabolario e le categorie dell’anti-imperialismo divennero così progressivamente egemoni. Dopo il 1945, gli Stati Uniti assunsero una posizione di netto ripudio dell’imperialismo, mitigato al massimo durante i primi anni della Guerra Fredda dalla necessità di appoggiare alleati vitali come la Francia e la Gran Bretagna. Gli USA costruirono una rete di alleanze ampia e decisamente nuova per le forme – multilaterali, cooperative e consensuali – con cui essa fu gestita e riuscirono a proiettare su scala mondiale un modello di egemonia senza precedenti per diffusione e profondità. Si trattava però anche di un impero? La risposta, mia e di molti colleghi di orientamenti storiografici assai diversi, è positiva, ancorché del tutto neutra e a-valutativa: anche dopo il 1945 gli USA hanno continuato a costituire un impero, un «impero globale»5. Un impero di tipo non tradizionale, ma capace di utilizzare a proprio vantaggio una serie di asimmetrie di potenza che non solo non si ridussero negli anni, ma si consolidarono ed estesero. Nello specifico, nell’ultimo sessantennio gli USA hanno goduto di almeno cinque caratteristiche (e vantaggi) imperiali, oltre a quelli – alleanze ed egemonia culturale – appena menzionati6. Innanzitutto, gli Stati Uniti hanno mantenuto un elemento caratterizzante le forme imperiali più convenzionali e ortodosse: il controllo diretto di territori posti al di fuori dei propri confini, utilizzati principalmente per dare vita a una rete diffusa e capillare di basi militari dispiegate in tutto il mondo. Con tali territori gli Stati Uniti continuano a relazionarsi secondo pratiche tradizionalmente imperiali, esercitando su di essi pieno controllo politico e amministrativo7. In secondo luogo, il gap di potenza militare tra gli Stati Uniti e il resto del mondo non solo non si è mai ridotto, ma è cresciuto esponenzialmente negli ultimi sessant’anni, fino a raggiungere lo straordinario squilibrio odierno, che non ha precedenti nella storia; solo l’altro grande impero della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica, è riuscita a competere con gli USA sul terreno militare e ciò è avvenuto per un periodo breve e limitato. Terzo: questo primato militare è stato corredato da

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un universalismo ideologico di nuovo sfidato senza successo, durante la Guerra Fredda, solo da quello marxista-leninista. Quarto: sono stati (e sono) gli USA, più di qualsiasi altro soggetto, a definire norme e regole del sistema internazionale, decidendo punizioni e ricompense per «coloro che vivono entro l’imperium»8. Quinto e ultimo: assieme alla dimensione territoriale vi è una ben più importante dimensione post-territoriale che ha qualificato l’impero statunitense dopo il 1945, contribuendo alla sua informalità, pervasività e successo. È questo un tratto che troviamo già nel corso dell’Ottocento, soprattutto nelle modalità con cui gli Stati Uniti cercarono di penetrare commercialmente in Estremo Oriente, e che si è diffuso poi in modo crescente nel corso del XX secolo. Per scelta e per necessità, quello statunitense è andato vieppiù configurandosi come un imperialismo senza colonialismo, in grado di produrre ordine, aprire mercati, limitare la sovranità altrui: capace in altre parole di controllare lo spazio senza annettere il territorio9. In parte post-territoriale, con una rete globale di basi e impareggiabili capacità militari, dotato di una magnetica capacità di fascinazione, l’«impero globale» statunitense è però dovuto sottostare vieppiù a forme di dipendenza e vincoli assai maggiori rispetto ai ben più modesti imperi statunitensi delle due fasi precedenti. È questa la grande contraddizione sulla quale si soffermano gli ultimi due capitoli del libro: l’ascesa degli Stati Uniti a grande e unica potenza del sistema internazionale è avvenuta sfruttando (e consolidando) una rete d’interdipendenze, create anche e soprattutto dagli USA, che hanno poi finito per costringere gli stessi Stati Uniti, limitandone la libertà d’azione e riducendone in una qualche misura la sovranità. Anche tra chi riconosce la natura imperiale degli Stati Uniti, il dibattito storiografico e politico rimane aspro e si concentra in particolare sui benefici ovvero sui costi derivanti dal far parte dell’impero globale statunitense. La discussione continua a oscillare – spesso polarizzata, semplicistica e altamente politicizzata – tra le caricature estreme di chi considera gli USA come un oscuro impero del male e chi come una forza intrinsecamente progressiva e liberatrice. La storia della libertà statunitense e dell’impero edificato, e costantemente ridefinito, per proteggere questa libertà è in realtà una storia complessa e per nulla univoca, entro la quale sono coesistiti processi diversi e apparentemente non complementari: espansione democratica e rimozione violenta delle popolazioni native; imperialismo con-

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quistatore e utopie modernizzatrici; sostegno all’autodeterminazione e razzismo; impegno per la preservazione della pace in Europa e interventi destabilizzanti in varie parti del mondo, America Latina su tutte. Ho fatto del mio meglio in questo libro per sottrarmi a moralismi e giudizi facili, senza però rinunciare a offrire interpretazioni e chiavi di lettura. Come sempre, spetterà al lettore dire se sono riuscito nell’intento.

RINGRAZIAMENTI

I debiti che ho contratto durante la stesura di questo lavoro sono molteplici e temo non sarò mai in grado di ripagarli. La Facoltà di Scienze Politiche «Roberto Ruffilli» di Forlì e il Dipartimento Politica, Istituzioni e Storia dell’Università di Bologna non solo sono stati la mia casa accademica in questi anni, ma mi hanno fornito le risorse materiali con cui svolgere gran parte della ricerca per questo libro. Il personale della Biblioteca «Roberto Ruffilli» del Polo universitario di Forlì ha soddisfatto celermente tutti i miei ordini di acquisto e di prestito interbibliotecario, nella speranza, puntualmente disattesa, di contenere le mie richieste future. Un ringraziamento particolare mi sento di doverlo al collega e amico Marco Cesa, ora al Bologna Center della School of Advanced Studies della Johns Hopkins University. Ho potuto scrivere l’ultima parte del libro presso il Kluge Center della Library of Congress a Washington: un paradiso per qualsiasi ricercatore, reso tale dalla disponibilità e preparazione del suo personale e di Mary Lou Reker, JoAnne Kitching e Carolyn T. Brown in particolare. Il manoscritto è stato letto nella sua interezza dai colleghi Nando Fasce e Raffaella Baritono, che mi hanno fornito consigli, suggerimenti e indicazioni utili e mai scontati. Due miei ex studenti, ora avviati sulla strada di una carriera come studiosi, Eleonora Mattiacci ed Emiliano Alessandri, hanno letto il volume, fornendo commenti pertinenti e, talora, impertinenti, come imposto dal loro ruolo, dalla loro freschezza e dalla loro età. Su singole parti e capitoli del libro mi sono giunti commenti e suggerimenti da Tiziano Bonazzi, Fulvio Cammarano, David Ellwood, Mark Gilbert, Roberto Gualtieri, Marco Mariano, Silvio Pons, Francesco Davide Ragno, Francesca Rivelli e Arnaldo Testi. I temi presentati nel libro sono stati oggetto

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Ringraziamenti

di frequenti discussioni con Marilyn Young e Anders Stephanson, dai quali non ho mai smesso d’imparare in questi anni. Infine, come sempre fin dai tempi dell’università, Federico Romero ha seguito passo passo la stesura dell’intero libro, con una severità che sembra crescere al passare degli anni e con un rigore, un acume e una precisione che, come tanti colleghi sanno, non hanno pari. Per questi preziosi e generosi aiuti non posso che esprimere qui tutta la mia riconoscenza; penso però sia superfluo sottolineare come la responsabilità per quanto scritto rimanga solo ed esclusivamente mia. A mia figlia, Sofia, che si è chiesta molte volte perché suo padre passi così tanto tempo davanti ai libri e al computer, e a mia moglie, Veronica, che ha ormai smesso di porsi questa domanda, va un grazie particolare per la loro pazienza e il loro amore.

LIBERTÀ E IMPERO GLI STATI UNITI E IL MONDO 1776-2011

Parte prima IMPERO CONTINENTALE

I LE ORIGINI DELLA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI

1. «La nascita di un mondo nuovo»: Thomas Paine e il senso comune dell’internazionalismo statunitense All’inizio del 1776 le tredici colonie nord-americane dell’impero britannico discutevano, con paura e preoccupazione, della possibilità di proclamare la propria indipendenza, dando vita a un nuovo Stato. Due congressi continentali erano stati convocati, nel 1774 e nel 1775. In essi le voci più moderate, che auspicavano un compromesso con Londra e una ridefinizione della relazione imperiale, erano state messe più volte in minoranza. Le colonie avevano deciso di dotarsi di un esercito per affrontare un eventuale scontro con la madrepatria e avevano discusso vari provvedimenti che prefiguravano già una guerra commerciale. Nel corso del 1775 vi erano stati alcuni sanguinosi scontri tra l’esercito britannico e le milizie coloniali, che avevano reso ancor più difficili i tentativi di mediazione promossi dai fronti moderati di entrambe le parti. Nondimeno, l’auspicio di gran parte della leadership coloniale rimaneva quello di giungere a un compromesso che evitasse una rottura definitiva con la Gran Bretagna: la maggioranza dei membri del Congresso si manteneva ancora a debita distanza dall’«orribile e spaventoso suono» prodotto dalla parola «indipendenza». Nel documento in cui si difendeva la necessità di prendere le armi contro la madrepatria (la Dichiarazione delle cause e della necessità di prendere le armi redatta da Thomas Jefferson e adottata dal secondo Congresso continentale nel luglio del 1775) fu ribadita una volta di più l’intenzione di «non dissolvere» l’unione con la Gran Bretagna: «Non abbiamo mobilitato il nostro

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Parte prima. Impero continentale

esercito – affermava la dichiarazione – con l’intenzione ambiziosa di separarci [...] e di creare degli Stati indipendenti»1. La strada era però in larga misura tracciata. Le aperture del Congresso non potevano essere accettate dalla corona britannica senza mettere in discussione la natura stessa dell’impero. Nel Parlamento londinese predominavano le voci contrarie a qualsiasi indietreggiamento. Nelle colonie acquisivano crescente centralità coloro che premevano per rompere gli indugi e procedere alla secessione. Il problema principale, per i coloni, era vincere la paura e affrontare l’ignoto. Trovare le parole, le formule e le categorie con cui giustificare l’indipendenza e immaginare la nuova comunità nazionale che si sarebbe costituita. Immaginare, cioè, un’America non più britannica e nemmeno europea. A fare ciò, a compiere quel regicidio fondativo di cui il nuovo paese necessitava, provvide, paradossalmente, un inglese emigrato da meno di due anni in Nordamerica: Thomas Paine. Di madre anglicana e padre quacchero, Paine era stato educato senza successo a entrambe le fedi (che abbandonò in tenera età non senza aver maturato una profonda conoscenza della Bibbia). La carriera scolastica e professionale del giovane Paine si era caratterizzata per i suoi «inesorabili fallimenti». Nel 1774 Paine si era imbarcato per quelli che saranno gli Stati Uniti, dopo aver perso vari lavori, essere stato licenziato e denunciato due volte dal governo e con due matrimoni falliti alle spalle (grazie alla seconda separazione, peraltro, egli aveva ottenuto i mezzi necessari per emigrare)2. Una volta in America, Paine si era gettato nell’arena politica, lavorando come giornalista a Philadelphia e prendendo posizione a favore della causa delle colonie. Nel pieno della disputa tra la madrepatria e le colonie, Paine diede alle stampe un pamphlet incendiario, in cui si denunciava la monarchia britannica e si affermava la necessità dell’indipendenza. Common Sense, questo il titolo del breve libello, uscì nel gennaio del 1776. In poche settimane, esso vendette più di 100.000 copie diventando il primo best-seller nella storia americana. Letto nelle chiese, nelle taverne, nelle assemblee pubbliche e in circoli privati, il messaggio di Common Sense raggiunse gran parte degli abitanti delle colonie (circa un quinto della popolazione adulta, secondo stime recenti). «Non c’è dubbio – hanno affermato gli storici Stanley Elkins e Eric McKitrick – che Thomas Paine fece più di qualsiasi altro individuo per preparare» gli americani «alla se-

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parazione totale». Il rappresentante del Massachusetts e futuro presidente, John Adams, pur critico nei confronti di Paine per il suo radicalismo e per la sua scarsa consapevolezza della complessità del governo costituzionale, espresse grande ammirazione per la «forza e la concisione» di Common Sense. In tempi recenti – avrebbe poi ammesso Adams, non senza frustrazione – nessun altro uomo aveva avuto la stessa influenza di Paine sugli «abitanti e sugli affari del mondo»: questa era stata «l’età di Paine»3. In Common Sense, Paine contestò apertamente due tesi care al fronte lealista: che il legame con la Gran Bretagna fosse vantaggioso economicamente e indispensabile per garantire la sicurezza delle colonie nord-americane. Il contrario, affermò Paine, era invece vero. Il vincolo commerciale imperiale inibiva le possibilità economiche delle colonie, impedendo loro di commerciare liberamente con paesi terzi. Gli antagonismi tra la Gran Bretagna e le altre potenze europee trascinavano le colonie in conflitti nei quali esse non avevano alcun interesse, con immensi sacrifici di uomini e di risorse. Il legame con la Gran Bretagna implicava ipso facto un legame con le guerre europee: «Non c’è alcun vantaggio che questo continente può raccogliere dall’essere collegato alla Gran Bretagna», proclamò Paine. «Qualsiasi sottomissione alla Gran Bretagna o dipendenza da essa tende direttamente a coinvolgere questo continente nelle liti e nelle guerre europee [...] poiché l’Europa è il mercato per il nostro commercio, dovremo evitare legami parziali con qualsiasi sua parte. È nel vero interesse dell’America tenersi alla larga dalle contese europee»4. Per Paine l’indipendenza era tanto necessaria quanto possibile. Soprattutto, non vi era più spazio per ulteriori mediazioni e per nuove petizioni al re. La monarchia diventava anzi essa stessa il problema. Un problema che andava risolto creando (e immaginando) una repubblica in Nordamerica. Ma il messaggio di Paine, e la sua straordinaria forza politica, ideologica e retorica, non si limitavano a questo. Nel giustificare l’indipendenza, Paine offriva anche una visione del ruolo dei futuri Stati Uniti nel sistema internazionale e del tipo di politica estera che tale ruolo avrebbe loro imposto. Una visione e un’ideologia estera spiccatamente internazionalista, ottimista e radicale, ma fondata al contempo su alcune aporie costitutive che avrebbero reso spesso contraddittori e ambivalenti sia il messaggio di Paine sia le sue successive realizzazioni. Gli elementi fondamentali su cui poggiava l’internazionalismo di

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Paine, che sarebbero poi stati in larga misura interiorizzati dalla giovane repubblica, erano cinque: la centralità del commercio; l’universalismo della missione dei futuri Stati Uniti; l’interdipendenza tra politica interna e politica estera; la peculiarità, ossia l’eccezionalità della nuova nazione prossima a sorgere; il rapporto tra gli obiettivi che le colonie si ponevano e gli strumenti che esse avrebbero necessariamente dovuto utilizzare. Quella di Paine si presentava a tutti gli effetti come un’«ideologia del commercio»5. Gli scambi commerciali – ostacolati dalla permanenza delle colonie nell’impero – avrebbero arricchito e rafforzato il nuovo Stato nord-americano. Era infatti «nell’interesse di tutta l’Europa» – sostenne Paine – che l’America fosse «un porto libero». Soprattutto, il commercio avrebbe concorso a trasformare il sistema internazionale stimolando i contatti e le relazioni tra le genti, costruendo intrecci d’interessi comuni, mostrando l’inutilità della guerra e dei tradizionali antagonismi nazionali. Secondo Paine, il commercio avrebbe avuto un «effetto civilizzatore» sugli Stati che vi avessero partecipato: la guerra, affermò, non «era mai nell’interesse di una nazione commerciante»6. Questa centralità del commercio originava da una visione liberale e progressiva della storia, che attribuiva ai futuri Stati Uniti un ruolo e una funzione centrali nella trasformazione dell’ordine internazionale. La formazione di una repubblica in Nordamerica era la conditio basilare per la creazione di un nuovo ordine mondiale: essa avrebbe costituito «la nascita di un mondo nuovo», come affermò Paine, l’inizio di un’epoca destinata a trasformare l’ambiente internazionale, ponendo fine alle guerre e alla logica di potenza che avevano fino ad allora prevalso. Per questo la causa americana diventava da subito la «causa dell’umanità». Il distacco dall’impero doveva produrre per Paine un «nuovo modo di pensare» e una «nuova era per la politica»: l’America «aveva preso una posizione non per se stessa ma per il mondo». L’indipendenza avrebbe assegnato al nuovo Stato il compito e, soprattutto, la forza per «far ricominciare il mondo di nuovo» («the power to begin the world over again»). Una forza, questa, che sembrava essere conferita proprio dalle potenzialità commerciali delle colonie, che già consentiva loro di «sfidare l’intero mondo»7. Ma l’internazionalismo di Paine si esprimeva anche nella convinzione che la natura del sistema politico di un dato Stato lo avrebbe

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reso idoneo o meno a partecipare al processo di cui l’America avrebbe presto assunto la guida. L’attacco alla monarchia britannica si trasformava in una denuncia più ampia dell’istituzione monarchica e in un sostegno, che si sarebbe intensificato nella successiva produzione letteraria di Paine, alla repubblica come unica forma politica capace di permettere il processo catalizzato dalla nascita degli Stati Uniti. Non solo la monarchia minacciava la libertà interna, ma essa costituiva il pericolo principale per la pace mondiale: i monarchi, affermava Paine, avevano poco altro da fare se non coprire «il mondo di sangue e di cenere»8. Per questo il nuovo paese che sarebbe sorto in Nordamerica si configurava da subito come diverso e superiore, come un’eccezione alla quale veniva assegnato il compito di rifare il mondo. Quello di Paine non era un eccezionalismo isolazionista, legato all’idea di una separazione tra il vecchio e il nuovo mondo, come erroneamente affermato da alcuni studiosi9. Il nuovo Stato nord-americano era diverso, ma non separato dall’Europa. Invero, l’internazionalismo di Paine esprimeva su questo aspetto un’aporia che avrebbe accompagnato tutta la storia degli Stati Uniti, un’irresolubile contraddizione che la stessa biografia di Paine – inglese e nazionalista statunitense – incarnava in modo paradigmatico. L’America nasceva cioè come Europa e come anti-Europa. Come espressione dell’Europa e di idee politiche circolanti da tempo negli ambienti radicali britannici e come manifestazione di rigetto dell’Europa medesima, delle sue dinamiche di potenza, dei suoi sistemi chiusi, delle sue tradizioni monarchiche e della sua raison d’état. Per questo, l’America s’immaginava da subito come un nuovo mondo. Per questo s’investiva della missione di «far ricominciare il mondo di nuovo». Ma per questo non si poteva mai liberare completamente dell’Europa medesima, il cui misconoscimento finiva per esprimerne in realtà un «acuto bisogno». L’eccezionalismo americano si sarebbe nutrito storicamente di tale «retorica dell’assenza», che espungeva «i difetti e i mali di un mondo esterno universalizzato», ma in virtù della quale gli Stati Uniti, ponendo «la propria identità» nella «differenza», erano obbligati a mantenere un legame oppositivo con l’«altro europeo»10. I mezzi per dare corso al progetto e al compito che la futura nazione americana s’assegnava esprimevano la natura visionaria e radicale dell’internazionalismo di Paine. Quella intrapresa dalle colonie americane era una sfida per la civiltà e per l’umanità. In quanto tale,

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essa non poteva che essere espressa attraverso un linguaggio estremo, rabbioso e semplice, binario e antinomico. Un linguaggio che dava voce all’ira dei coloni, ma ne soddisfaceva anche le pulsioni più estreme. Un linguaggio denso «d’immagini di sangue, ceneri, sofferenza, crudeltà, corruzione, mostruosità, dannazione e malvagità»11. In esso, Paine si mostrava capace di attingere sia a un immaginario biblico sia a uno secolare, mescolando millenarismo puritano, utilitarismo lockiano e sogni illuministi di un nuovo ordine mondiale. Nel farlo, Paine poneva le premesse di un tratto che avrebbe contraddistinto il discorso di politica estera statunitense nei decenni e nei secoli successivi. La combinazione che si trova in Paine tra protestantesimo radicale e pensiero liberale e repubblicano era il primo contributo alla formazione di un linguaggio internazionalista «specificamente americano [...] impensabile altrove. Un linguaggio fatto di cospirazioni diaboliche, peccati e peccatori, demoni e salvatori, corruzione e redenzione, scelte drammatiche compiute in nome dell’umanità da [...] leader sull’orlo dell’abisso». Se questi erano i termini della questione, se questa era la sfida che il nuovo Stato americano avrebbe dovuto fronteggiare, tutti gli strumenti sarebbero stati leciti per farvi fronte e per adempiere al proprio destino. Ecco quindi che il pacifista Paine, che sognava interdipendenze commerciali globali capaci di liberare i popoli dal male della guerra, non esitava a giustificare il ricorso alla medesima per raggiungere tale scopo. Già in Common Sense Paine rivendicava la necessità di formare un forte governo centrale e dotarsi di una marina militare, indispensabile per proteggere i traffici commerciali del paese. In breve, Paine si dimostrava da subito un acceso nazionalista, per nulla restio a utilizzare la forza, e anzi convinto che in assenza di questa lo Stato che sarebbe presto nato in Nordamerica non avrebbe mai potuto raggiungere i propri scopi e compiere la propria missione12.

2. Un trattato modello L’internazionalismo di Paine dovette ben presto fare i conti con la realtà dei fatti. I rapporti di forza internazionali e l’originaria debolezza della nuova nazione statunitense avrebbero obbligato gli Stati Uniti ad accantonare molte delle loro ambizioni. Secondo al-

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cuni studiosi, la fase dell’internazionalismo idealista sarebbe rapidamente rientrata, lasciando spazio a un approccio più realista, non dissimile da quello della tradizione di politica estera europea13. I cinque tratti fondamentali della visione internazionalista di Paine, e le loro contraddizioni, avrebbero però accompagnato la storia del paese e concorso a qualificare il peculiare internazionalismo statunitense. In quanto tali, essi sarebbe stati abbracciati – sia pure in modi diversi – sia dalla prima generazione di leader statunitensi sia dai loro successori. Abbracciati e non necessariamente applicati, ché le ambizioni (e l’ideologia ad esse sottostanti) dovevano giocoforza confrontarsi con le capacità e con la conseguente limitatezza delle possibilità. Che la visione eccezionalista e internazionalista di Paine fosse destinata a diventare egemone nel discorso di politica estera degli Stati Uniti lo si vide in uno dei primi veri atti diplomatici compiuti dal Congresso continentale: la stesura di un trattato modello (Model Treaty) che avrebbe dovuto rappresentare la stella polare, formale e sostanziale, della diplomazia del nuovo Stato. Il trattato fu in larga misura opera di John Adams, il leader rivoluzionario maggiormente attento e interessato all’evoluzione del diritto internazionale. Adams cominciò a lavorarvi nel marzo del 1776, dopo avere raccolto una serie di testi britannici, che compendiavano gli accordi diplomatici più rilevanti dell’ultimo secolo. Fortemente influenzato da Common Sense, Adams aveva già avuto modo di esprimere la sua concezione dei rapporti che il nuovo Stato avrebbe dovuto intrattenere con il resto del mondo. Per Adams, era necessario evitare qualsiasi coinvolgimento in tutte le «future guerre europee». Un’«indipendenza reale» – affermò Adams – si sarebbe ottenuta solo «attraverso la neutralità»: per evitare di diventare «la preda degli intrighi e della politica europea», era necessario che la nazione nord-americana si limitasse a «stipulare trattati di commercio», che offrivano l’«apertura al mercato americano»14. L’«ideologia del commercio» espressa in Common Sense dominava da subito il discorso e le pratiche di politica estera delle tredici colonie prossime all’indipendenza: «Non sono favorevole a sollecitare alcuna connessione politica o assistenza militare, o addirittura navale dalla Francia – avrebbe affermato Adams – non desidero null’altro che il commercio, un mero trattato marittimo»15. Nel giugno del 1776 il Congresso continentale, prossimo a pro-

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clamare l’indipendenza, assegnò a una commissione di cinque membri (John Dickinson, Benjamin Harrison, Robert Morris, Benjamin Franklin e John Adams) il compito di redigere un «piano di trattati da proporre alle potenze straniere». L’obiettivo era quello di giungere a un accordo con la Francia, che sola sembrava poter garantire l’appoggio necessario a sconfiggere i britannici. Il trattato fu completato nel settembre dello stesso anno, a indipendenza già proclamata16. Il testo finale incapsulava le considerazioni di Adams dei mesi precedenti. In quanto tale, esso risultava «interamente coerente con lo spirito diplomatico dell’epoca» e con la visione di politica estera abbracciata dall’élite indipendentista. Il trattato rivendicava completa libertà di commercio per gli Stati Uniti come per la Francia. I mercanti americani avrebbero dovuto beneficiare degli stessi diritti dei mercanti francesi e viceversa: «Nel commercio, in altre parole, non ci sarebbe stata alcuna nazionalità». Questa visione liberista e antimercantilista fu ulteriormente messa in rilievo dall’enfasi posta dal trattato modello sulla possibilità di commerciare liberamente anche in tempo di guerra, in nome dei cosiddetti «diritti dei neutrali» (neutral rights), che da allora in poi avrebbero rappresentato un caposaldo e una costante rivendicazione della politica estera statunitense. Il trattato prevedeva la possibilità che qualora una delle parti contraenti fosse stata coinvolta in una guerra, l’altra avrebbe potuto continuare a commerciare liberamente anche con gli avversari del proprio partner. Alle clausole assai liberali relative al commercio non corrispondeva, nella bozza di trattato, alcun impegno politico e militare: la difesa del diritto internazionale e della libertà dei mari non era cioè integrata dalla disponibilità degli Stati Uniti a impegnarsi a fianco dell’alleato in caso di guerra tra questo e un paese terzo. Nel trattato si affermava solamente che in caso di guerra tra la Francia e la Gran Bretagna, gli Stati Uniti non avrebbero aiutato quest’ultima. «Ciò che sorprende – ha affermato lo storico Felix Gilbert – è quanto poco gli americani fossero disposti a offrire»17. Il trattato effettivamente firmato con la Francia due anni più tardi sarà assai diverso. La possibilità vagheggiata da Adams d’imporre al resto del mondo un «trattato modello» si rivelerà illusoria e utopica. Nondimeno, il Model Treaty, come del resto Common Sense, evidenziava alcune premesse fondative dell’approccio statunitense ver-

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so le questioni internazionali, che sarebbero riemerse non appena il paese avesse avuto la forza di attuarle e la possibilità di imporle. La centralità del commercio era la più evidente. Questa centralità – e l’enfasi sui neutral rights che da essa originava – rifletteva una peculiare combinazione di ideali e interessi, ideologia e Realpolitik. Nel commercio, Adams e gli altri leader rivoluzionari individuavano lo strumento con cui rafforzare e consolidare il giovane Stato appena nato. Quella americana appariva a tutti gli effetti come una nazione mercantile, le cui sorti erano legate alla possibilità di estendere e ampliare i traffici commerciali, liberandoli dal rapporto esclusivo e inibitore con l’ex madrepatria britannica. La tutela e la promozione del commercio statunitense avrebbe da allora in poi rappresentato uno degli obiettivi fondamentali della politica estera del paese, in un intreccio che rese spesso inestricabile il nesso tra commercio e diplomazia. La centralità dell’elemento commerciale avrebbe spesso indotto a errori di valutazione e a proposte impraticabili. Il Model Treaty sarebbe stato solo il primo esempio della tendenza di Washington a sopravvalutare la possibilità di usare l’accesso al mercato statunitense come leva diplomatica. L’iniziale scarso realismo di Adams stava principalmente in questo: nell’ingenua «sopravvalutazione della seduzione esercitata dal commercio americano»18. Oltre a essere espressione dell’interesse della giovane repubblica nord-americana, e quindi manifestazione di una spregiudicata Realpolitik, l’enfasi sul commercio incarnava anche l’elemento ideale e universalistico che da subito connotò la politica estera degli Stati Uniti. Come già in Thomas Paine, idealismo e realismo erano strettamente intrecciati. La rivendicazione della libertà di commercio era in parte strumentale agli interessi percepiti del nuovo Stato. Ma il commercio veniva concepito anche come forza stabilizzatrice del sistema internazionale. Il Model Treaty serviva alla causa dell’indipendenza e del rafforzamento degli Stati Uniti. Ma questa indipendenza avrebbe al contempo portato con sé una trasformazione dell’ordine internazionale che proprio il Model Treaty, forma esemplare di accordo diplomatico da offrire non solo alla Francia ma a tutto il mondo, esprimeva in modo emblematico19. Il Model Treaty – e in particolare la rivendicazione dei diritti dei neutrali – costituiva una precoce manifestazione di come l’identità statunitense, e la visione del ruolo degli Stati Uniti nel contesto internazionale che essa alimentava, influenzavano la politica estera e le

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pratiche diplomatiche del nuovo Stato. Il trattato era però anche il frutto della lettura, spregiudicata ancorché fallace, che Adams e gli altri leader rivoluzionari davano delle relazioni diplomatiche europee e di come esse dovessero essere sfruttate per ottenere l’indipendenza20. Questa combinazione di realismo e idealismo esprimeva (e al contempo alimentava) un’autorappresentazione eccezionalista, pratiche marcatamente unilaterali e una profonda ambiguità nel modo con cui gli Stati Uniti si relazionavano all’Europa. L’eccezionalismo si manifestava nel ritenere possibile un’alterazione radicale e irreversibile delle relazioni tra gli Stati attraverso l’elaborazione di un trattato che avrebbe, per l’appunto, costituito un modello per il futuro. Un trattato che solo gli Stati Uniti – paese eccezionale e diverso – potevano permettersi di proporre al resto del mondo. Perché ad essi vantaggioso, in quanto funzionale al loro primario interesse contingente (ottenere l’indipendenza), ma anche perché tramite esso sarebbe stato possibile procedere a quella trasformazione dell’ambiente internazionale, delle sue regole e delle sue pratiche a cui gli Stati Uniti ambivano e di cui si attribuivano la missione e la responsabilità. In questo il Model Treaty bene esprimeva il convincimento e l’auspicio, già espressi da Paine, che alla giovane repubblica americana sarebbe spettato il compito di «far ricominciare il mondo di nuovo». Un convincimento, questo, a cui nemmeno John Adams, uno dei leader rivoluzionari più realisti e pragmatici, si era mai sottratto: secondo Adams, la colonizzazione dell’America e la sua indipendenza avrebbero costituito «l’avvio di un grande [...] disegno della Provvidenza per l’illuminazione e l’emancipazione in tutto il mondo della parte schiavizzata dell’umanità»21. L’eccezionalismo permetteva di saldare strettamente interessi, valori e autorappresentazioni, idealismo e realismo. Ciò che era bene per gli Stati Uniti diventava, da allora in poi, bene per il resto del mondo. La separazione tra le due dimensioni – nazionale e universale – si andava anzi offuscando: il nazionalismo statunitense acquisiva subito un afflato e una vocazione universalistici. Le clausole commerciali del Model Treaty, che rigettavano le discriminazioni nazionali, mettevano in evidenza questo aspetto. Che fossero gli Stati Uniti a proporlo, in modo esemplare (nella forma cioè di un modello offerto al resto del mondo), esprimeva la peculiarità del nazionalismo universalista statunitense22.

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Questa autorappresentazione eccezionalista giustificava pratiche (e alimentava illusioni) scopertamente unilateraliste. Il Model Treaty pretendeva molto – l’appoggio di una grande potenza, la Francia, a un paese ancora in stato embrionale – e offriva molto poco, se non una futuribile visione universalistica: un modello, e non uno specifico accordo bilaterale, assai poco attraente per i francesi. L’unilateralismo si sarebbe rivelato impraticabile negli anni successivi. Esso fu però solo temporaneamente accantonato. E questo sarebbe avvenuto per necessità e non in conseguenza di una maturazione alle dure leggi della politica internazionale. L’unilateralismo avrebbe in altre parole costituito assieme all’eccezionalismo un’altra grande tradizione della politica estera degli Stati Uniti, se non la «trasposizione sul piano internazionale del nazionalismo eccezionalista»23. Eccezionalismo e unilateralismo producevano, nuovamente, un modo ambiguo e contraddittorio di rapportarsi all’Europa. Anche se per molti aspetti era vero il contrario, gli Stati Uniti si presentavano come indispensabili all’Europa – cui offrivano da subito un modo nuovo di conduzione delle relazioni diplomatiche – ma non come parte di essa. Essi prendevano a prestito idee e modelli europei, tanto che il Model Treaty s’ispirava in larga misura a un trattato del 1713 tra Francia e Gran Bretagna, ma le rimodulavano e le mettevano al servizio di un universalismo che rigettava il particolarismo e la raison d’état degli europei. Riconoscevano e studiavano l’equilibrio di potenza europeo, ma cercavano di sfruttarlo senza divenirne parte. In altre parole, erano costitutivamente proiezione dell’Europa e al contempo qualcosa di altro e antinomico ad essa, come la Dichiarazione d’indipendenza, di poche settimane antecedente al Model Treaty, aveva chiaramente affermato24.

3. Testi sacri 1: la Dichiarazione d’indipendenza Nel giugno del 1776 il delegato della Virginia Richard Henry Lee introdusse una risoluzione al secondo Congresso continentale riunito a Philadelphia, nella quale si proclamava l’indipendenza delle colonie dalla Gran Bretagna. Il Congresso non la pose subito ai voti, ma affidò a una commissione il compito di redigere una dichiarazione che illustrasse le ragioni per cui le colonie intendevano com-

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piere questo atto. La Dichiarazione d’indipendenza fu stesa in larga parte da Thomas Jefferson, il più giovane rappresentante dello Stato della Virginia. Modificata, tagliata ed emendata prima dagli altri membri della commissione (in particolare da John Adams e Benjamin Franklin) e poi dal Congresso, la Dichiarazione fu approvata il 4 luglio 1776. La risoluzione di Lee era stata a sua volta approvata due giorni prima. Le colonie americane si proclamavano così indipendenti25. La Dichiarazione era divisa in due parti. La prima – di matrice fortemente lockiana – difendeva i diritti dell’individuo da una prospettiva contrattualista e giusnaturalista: i governi, si affermava nel documento, erano creati per salvaguardare «certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Nella seconda parte il documento si trasformava invece in un testo giuridico, nel quale venivano puntigliosamente elencati i crimini di cui si sarebbero macchiati la corona e il Parlamento della Gran Bretagna. Dichiarazioni generali e fatti concreti, filosofia politica e diritto erano intrecciati e combinati per convincere «a vari livelli, empirici, giuridici, ideologici e simbolici della politica» gli americani, ma anche il mondo, «della necessità di un atto inaudito»26. La Dichiarazione era fortemente influenzata dalla filosofia e dalla retorica dell’epoca, ma anche dalle pratiche politiche in uso in Gran Bretagna e nelle stesse colonie. In quanto tale, ha affermato la storica Pauline Maier, il documento «era evidentemente non eccezionale (unexceptional) nel 1776». In esso si manifestava il retaggio, molto forte, della tradizione dei documenti di protesta inglesi nei confronti del re e del Parlamento, peraltro già espressa in altre dichiarazioni approvate nei mesi precedenti dal primo e dal secondo Congresso continentale. E vi si trovava ovviamente l’influenza del pensiero politico britannico contemporaneo27. La Dichiarazione rientrava, in altre parole, in una «tradizione di cultura politica inglese». Nel farlo evidenziava una volta di più il legame profondo tra l’Europa e la nuova nazione, ma anche tutte le peculiarità e le contraddizioni di questo legame. Non solo perché la Dichiarazione portava a definitivo compimento quel «regicidio simbolico» iniziato da Thomas Paine, ma anche perché la tradizione politica (e giuridica) europea a cui Jefferson attingeva veniva torta e trasformata «per aprire un universo politico diverso in cui anche il termine rivoluzione muta[va] di senso da quello tradizionale di ritorno

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a un antico ordine turbato e tradito e acquista[va] il significato moderno di cesura e mutamento totale rispetto al passato». Anche la Dichiarazione, come in modi diversi il Model Treaty, era simultaneamente espressione sia dell’appartenenza degli Stati Uniti all’Europa sia del loro rigetto di essa, espressione cioè di quella che Tiziano Bonazzi ha felicemente descritto come una «continuità eccentrica» degli Stati Uniti con l’Europa, in virtù della quale la nascita della nuova nazione americana si collocherebbe «pienamente in ambito europeo», ma lo farebbe assumendo caratteri che facevano del nuovo paese un (volontario) «elemento innovativo e disturbatore». Uno degli elementi cruciali di «disturbo» e di «innovazione» era rappresentato proprio dalla volontà (e dall’asserita necessità) di modificare le pratiche e le regole di condotta delle relazioni internazionali28. Questo aspetto si ritrova anche nella Dichiarazione del 1776. Per molti aspetti, la proclamazione dell’indipendenza e la stesura della Dichiarazione rappresentarono prima d’ogni altra cosa un atto di politica estera. Proprio su quest’aspetto si sarebbero concentrate le critiche più serrate di chi, come il delegato della Pennsylvania John Dickinson, si opponeva a una precoce indipendenza: essa era infatti la premessa di un’alleanza con quella Francia cattolica, autoritaria e assolutista che agli occhi di molti coloni costituiva ancora il principale nemico29. Proclamarsi indipendenti costituiva un passaggio fondamentale per aprire i negoziati con gli Stati europei e ottenere da essi gli aiuti indispensabili per la conduzione della guerra contro Londra. Questo era già stato reso esplicito da Richard Henry Lee, secondo il quale «nessuno Stato in Europa avrebbe commerciato o trattato» con gli Stati Uniti fintanto che essi avessero continuato a «proclamarsi sudditi della Gran Bretagna»: «Non è la scelta ma la necessità che chiama all’indipendenza», affermò Lee nel 1776; solo l’indipendenza avrebbe fornito «i mezzi attraverso i quali potevano essere stipulate alleanze» con potenze straniere. Questa posizione fu esplicitata nella risoluzione d’indipendenza presentata da Lee e infine approvata il 2 luglio dal Congresso. In essa si affermava infatti l’opportunità di «prendere tutte le misure maggiormente efficaci per formare alleanze». Indipendenza, alleanze e – come vedremo – unione, nella forma iniziale di una confederazione, erano strettamente interrelate: la que-

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stione dell’indipendenza e quella delle alleanze avanzarono «mano nella mano»30. L’indipendenza delle colonie americane e la nascita della repubblica statunitense costituirono «prima di tutto un evento di storia internazionale». La Dichiarazione d’indipendenza era a tutti gli effetti una «dichiarazione al mondo», al quale si comunicava che le colonie avevano abbandonato ogni intento riconciliatorio con la madrepatria. Solo proclamandosi indipendenti esse avrebbero potuto ambire a ottenere «piena ed eguale partecipazione nel mondo europeo e civilizzato, il pinnacolo dell’ambizione provinciale» della leadership coloniale31. Annunciando al mondo (un candid world, come si affermava nella Dichiarazione) l’arrivo di un nuovo attore sulla scena internazionale, Lee, Jefferson, Adams e gli altri leader indipendentisti si ponevano l’obiettivo di trasformare una guerra civile in una guerra tra Stati, convertendo così «ribelli individuali e traditori» in «combattenti legittimi». Ciò appariva particolarmente necessario di fronte alla prospettiva – fortemente temuta dai coloni – di una possibile partizione del continente americano tra le grandi potenze europee, non dissimile da quella che aveva visto come oggetto la Polonia nel 177232. Per questo, la Dichiarazione aveva per oggetto il potere e le capacità di uno Stato tanto quanto i diritti e i doveri degli individui. Un documento, cioè, in cui il discorso di riferimento diventava spesso quello del diritto delle genti, lo ius gentium. Nella Dichiarazione si affermava, in modo inequivocabile, la prerogativa dei neonati Stati Uniti d’America di essere «Stati liberi e indipendenti», in quanto tali dotati del «pieno potere di dichiarare guerra, concludere pace, contrarre alleanze, istituire rapporti commerciali e fare ogni altro atto e cosa che gli Stati indipendenti possono di diritto fare»33. Ma nella Dichiarazione è possibile scorgere anche una nuova manifestazione di quell’internazionalismo e di quel cosmopolitismo liberale che avevano informato sia Common Sense sia il Model Treaty. La Dichiarazione legava strettamente il momento politico interno a quello esterno. Lo sviluppo del secondo, anzi, era conditio indispensabile alla nascita e alla sopravvivenza del primo. Su questo la dichiarazione evidenziava una volta di più la difficoltà per gli angloamericani del XVIII secolo di distinguere nitidamente tra politica interna, politica estera e dinamiche imperiali. La Dichiarazione d’in-

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dipendenza costituiva un «atto d’unione» tra le colonie, come affermò Jefferson, o, meglio, «l’atto fondamentale che impegnò gli americani a procedere all’unione dei loro Stati». Indipendenza, alleanze con l’estero e unione erano strettamente intrecciati e interdipendenti34. Ma l’unione che si intendeva creare allora costituiva altresì ab origine un progetto imperiale, aperto e offerto al resto del mondo. I primi Stati Uniti – ha sottolineato Emily Rosenberg – non costituivano un posto isolato e lontano: essi erano «profondamente coinvolti negli affari internazionali» e costituivano un’«entità cangiante che solo nelle relazioni con gli altri poteva derivare la sua definizione, spazialmente e culturalmente». L’indipendenza e la rivoluzione che seguì non furono però solo condizionate dal quadro internazionale. Esse non solo si svolsero dentro un contesto globale, ma ebbero come loro questione centrale la ridefinizione di quello stesso contesto: delle sue pratiche, delle sue politiche, dei suoi meccanismi di funzionamento. «Invero – ha affermato Peter Onuf – la dichiarazione di Jefferson doveva costituire un ordine mondiale maggiormente perfetto per gli Stati-colonie, un’identità nazionale trascendente e inclusiva per il popolo americano, e un governo legittimo (e riconoscibile) che rappresentasse la nazione e l’unione, gli Stati e i popoli, nel mondo»35. Nella cultura politica dell’epoca, la distinzione tra concetti quali «unione», «confederazione» e «impero» era assai labile e indefinita. Quella che Jefferson esprimeva in nuce era però già la visione di un ordine imperiale repubblicano, destinata a essere affinata ed esplicitata con maggiore chiarezza negli anni e nei decenni successivi. Un impero «della e per la libertà», come Jefferson stesso affermò. Un impero fondato positivamente sugli universali e «inalienabili diritti» dell’individuo, per come questi erano definiti nella Dichiarazione, e negativamente sul «rigetto dei vecchi regimi aristocratici e monarchici e dei loro corrotti apparati statuali» (un punto, questo, su cui tornavano le considerazioni di Thomas Paine e il legame da lui stabilito tra la natura interna di un dato paese e la sua politica estera)36. L’impero di Jefferson ambiva a promuovere la progressiva unione federale di Stati repubblicani liberi, a partire dalle tredici colonie: Stati sovrani, essi, prossimi a unirsi in una tenue (fin troppo tenue, come si sarebbe ben presto scoperto) confederazione. Questo impero repubblicano, universale nelle aspirazioni, avrebbe costituito la

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migliore risposta possibile al particolarismo dell’equilibrio di potenza europeo e al tradimento dell’originale progetto imperiale britannico da parte del re e del Parlamento di Londra. Di nuovo, erano gli Stati Uniti ad avviare un processo che avrebbe dovuto rapidamente acquisire una portata globale e lo facevano saldando la visione imperiale con la concezione di libertà affermata nella Dichiarazione. Tra i due – impero e libertà – veniva a stabilirsi una strettissima e naturale interdipendenza. La libertà repubblicana faceva degli Stati Uniti uno stadio storico e di civiltà più avanzato rispetto al resto del mondo: un «laboratorio della libertà di fronte al mondo civilizzato», come ebbe a definirlo il futuro presidente James Madison. In quanto tali, essi venivano investiti di una missione (concettualmente e potenzialmente imperiale) di trasformazione dell’ordine internazionale. Ma quella trasformazione risultava altresì indispensabile per tutelare, difendere e far crescere l’eccezionalità americana; per preservare il germe di un impero repubblicano, la cui esistenza era minacciata nelle sue prime fasi dall’autoritarismo monarchico e dal balance of power europeo37. La libertà imponeva agli americani una responsabilità imperiale. Solo con l’edificazione di un impero repubblicano questa libertà sarebbe stata però difesa e salvaguardata. A lungo gli USA non avrebbero avuto la forza e i mezzi per dare corso al progetto imperiale globale sognato e auspicato da Jefferson. Per più di un secolo l’impero si sarebbe però potuto espandere sul continente nord-americano. Continente ‘vergine’, quest’ultimo, perché la Dichiarazione d’indipendenza e la definizione dei diritti dell’individuo da essa offerta poggiavano, oltre che su un «drammatico silenzio», su quello che definirei un ‘assordante rumore’. Il silenzio produceva esclusione; il rumore giustificava espansione e rimozione. Il silenzio era quello relativo alla schiavitù, ‘istituzione peculiare’ dominante l’economia di piantagione di larga parte delle colonie sudiste (Jefferson stesso era proprietario di molti schiavi e da una di essi, Sally Hemings, aveva avuto più figli). In una prima versione della dichiarazione, Jefferson condannò – non senza ambiguità – la schiavitù, assegnandone la responsabilità alla corona britannica, rea di averla introdotta in Nordamerica, violando così «i sacri diritti alla vita e alla libertà». Il passaggio fu però cassato dal Congresso e tolto dalla versione finale: la Dichiarazione d’indipendenza – ha sottolineato Tiziano Bonazzi – «nasceva così su un silenzio oscuro e minaccioso a proposito della

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violazione dei diritti umani che gli americani stessi perpetravano». Un silenzio che nei decenni successivi avrebbe concorso a lacerare il paese, condizionarne il processo di espansione e influenzarne la politica estera38. A questo silenzio corrispondeva invece una presa di posizione chiara, invero un ‘assordante rumore’, sulle popolazioni native: le innumerevoli nazioni d’indiani-americani presenti in Nordamerica. Tra i tanti crimini attribuiti al re vi era, nella Dichiarazione, anche quello di avere fomentato contro i coloni «gli spietati e selvaggi indiani, la cui nota norma di guerra è lo sterminio senza distinzione d’età, di sesso e di condizioni». Gli indiani-americani diventavano da subito quel «deserto ululante» e barbaro che la nuova nazione s’impegnava a conquistare e colonizzare. Erano il simbolo e l’espressione di quelle «forze oscure» che ancora si frapponevano al pieno dispiegamento del progetto imperiale e civilizzatore statunitense. La conquista dell’indipendenza prima, e l’espansione della libertà poi, imponevano la rimozione di quelle che Jefferson avrebbe definito come delle «macchie» e «impurità». Il nuovo Stato nasceva inevitabilmente come una realtà in divenire, come un progetto poggiante su un’esclusione che alla lunga sarebbe stata insostenibile e su una volontà di rimozione che invece sarebbe stata ben presto pienamente attuata39.

4. La diplomazia della guerra d’indipendenza Le tredici colonie, ora unitesi negli Stati Uniti d’America, si trovavano in uno stato di guerra con la Gran Bretagna sin dal 1775. La proclamazione dell’indipendenza mutava la natura della guerra – conflitto tra Stati e non più semplice conflitto civile – e, in parte, la conduzione delle operazioni militari. In una prima fase (1775-76), gli scontri si erano infatti concentrati nel New England e nelle colonie settentrionali. Dopo la fallita invasione americana del Canada, controllato dai britannici, Londra aveva spostato il teatro delle operazioni verso le colonie centrali (la regione del cosiddetto Mid-Atlantic, che va all’incirca dallo Stato di New York al Maryland), ottenendo alcuni importanti successi, tra cui la conquista della città di New York. A questa fase, che durò fino al 1778, ne sarebbe seguita

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una terza (1778-81) durante la quale i principali scontri militari si svolsero nelle colonie meridionali (Virginia, Georgia e le due Caroline)40. La seconda fase della guerra cominciò in corrispondenza con la stesura della Dichiarazione d’indipendenza e la proposta del Model Treaty. Essa evidenziò la debolezza politica, diplomatica e soprattutto militare del nuovo Stato. Le tredici colonie si sarebbero presto unite con un vincolo confederativo, ma rimanevano gelose delle proprie prerogative e della propria sovranità. Questo particolarismo statale incideva sulla capacità di dotarsi di un esercito ampio ed efficace. Le varie milizie statali agivano in maniera poco coordinata, con reclutamenti su base volontaristica, periodi di leva troppo brevi e conseguenti episodi frequenti di indisciplina e diserzione: l’esercito continentale affidato al comando di George Washington non superò mai le 25.000 unità complessive e si ritrovò, in taluni passaggi nodali, a poter disporre di un numero limitatissimo di uomini in armi. La superiorità britannica sui mari – e con essa la capacità di ‘affamare’ le colonie americane – era schiacciante, anche se gli immensi problemi logistici derivanti dalla conduzione di una guerra su un vasto territorio a più di 5.000 chilometri di distanza dalla madrepatria avrebbe limitato grandemente l’efficacia dell’azione di Londra. Le sconfitte militari, e le difficoltà politiche e sociali causate dalla guerra e dalla necessità di fare fronte ai suoi ingenti costi, generarono una rapida disillusione negli Stati Uniti. Soprattutto, esse evidenziarono quanto infondate fossero le speranze e le previsioni formulate da Paine e Adams. L’attrattiva dell’accesso al mercato statunitense (in condizioni peraltro di assoluta reciprocità) si mostrava strumento diplomatico debole e sterile. Di questo molti rappresentanti al Congresso furono acutamente consapevoli. Negli ultimi mesi del 1776, il Model Treaty fu emendato e modificato per renderlo più allettante agli occhi della Francia, l’unico paese che poteva fornire l’aiuto necessario agli USA affinché essi conquistassero militarmente la propria indipendenza41. Il Congresso si spinse fino al punto di promettere un sostegno americano alla riconquista francese del Canada. La Francia però tentennò a lungo, costringendo gli Stati Uniti a ripensare, e rendere più generosi, i termini di una possibile alleanza bilaterale. Parigi era consapevole della propria impreparazione militare e degli altissimi costi di una nuova, lunga guerra con la Gran Bretagna. Da parte francese

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vi era inoltre un forte e motivato scetticismo sulla capacità delle ex colonie di reggere militarmente l’urto con la grande potenza britannica. Lo stesso governo era diviso, con una parte (guidata dal ministro degli Esteri, conte de Vergennes) favorevole a un’alleanza con gli Stati Uniti e un’altra (guidata dal ministro delle Finanze, marchese de Turgot) dichiaratamente ostile, non ultimo per l’antipatia verso una causa repubblicana quale quella statunitense. Ad alimentare i tentennamenti francesi vi era infine un elemento machiavellico: la volontà cioè di attendere per accrescere la dipendenza degli Stati Uniti dalla Francia42. A modificare questo stato di cose contribuirono sia fattori politici interni francesi, con il prevalere della linea di Vergennes, sia soprattutto alcuni sorprendenti risultati militari, in particolare la clamorosa vittoria riportata nell’ottobre del 1777 dall’esercito continentale nella battaglia di Saratoga, nello Stato di New York. Saratoga costituì per molti aspetti la svolta decisiva della guerra. La Francia, che fino a quel momento aveva solo fornito aiuti materiali, temette che USA e Gran Bretagna potessero giungere a un compromesso, e decise giunto il momento di ratificare un vero e proprio accordo diplomatico con gli Stati Uniti. Accordo, questo, negoziato per parte americana da Benjamin Franklin, lo statista-filosofo, che guidava (e dominava) la delegazione statunitense inviata in Francia già nel 1776 e che si presentò a Parigi vestito in abiti semplici e con i capelli non incipriati a enfatizzare il suo rappresentare «un mondo nuovo e incorrotto»43. Firmato nel febbraio del 1778, l’accordo tra Francia e Stati Uniti consisteva in realtà di due trattati. Il primo, di natura esclusivamente commerciale, era in larga misura improntato al Model Treaty. Il secondo, che sarebbe stato successivamente ratificato dal Congresso, dava vita a un’alleanza vera e propria, i cui termini risultavano assai impegnativi per gli Stati Uniti. A dispetto di quanto auspicato fino ad allora, esso «trascinava» il nuovo Stato nella «politica mondiale» e, soprattutto, nell’equilibrio di potenza europeo. L’accordo dichiarava scopo fondamentale dell’alleanza il mantenimento della «libertà, sovranità e indipendenza assoluta e illimitata» degli Stati Uniti. Per questo, esso proibiva a una delle due parti contraenti di «concludere una pace o una tregua con la Gran Bretagna» senza il consenso dell’altra. L’articolo 11 dell’accordo fissava però un importante vincolo, che legava sine die gli Stati Uniti alla Francia e sul quale

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si sarebbero concentrate le successive polemiche. Esso infatti impegnava gli USA a garantire «per sempre contro tutte le altre potenze [...] i possedimenti della corona francese in America, così come quelli che essa avrebbe acquisito in un futuro trattato di pace»44. L’accordo del 1778 si connotava quindi come un tipo vecchio d’alleanza, un matrimonio di convenienza che secondo alcuni studiosi esprimeva l’acquisizione forzosa da parte della leadership statunitense delle spregiudicate pratiche diplomatiche europee. Una maturazione accelerata e inevitabile al realismo e – si afferma – una conseguente rinuncia all’utopico internazionalismo idealista delle origini45. È una lettura, questa, non del tutto condivisibile. Il trattato difensivo del 1778 costituiva un evidente indietreggiamento rispetto alle posizioni e ai propositi espressi due anni prima. Ma si trattava di un indietreggiamento tattico, reso necessario dall’urgenza di ottenere gli appoggi e gli aiuti che soli avrebbero permesso di ottenere l’indipendenza, ossia di giungere a quella condizione – l’indipendenza appunto – indispensabile per dare corso al progetto imperiale e universale sostenuto da Jefferson e da larga parte della leadership rivoluzionaria. Idealismo e realismo, principi liberali e compromessi pragmatici, non erano antitetici e incompatibili: un punto, questo, che anche il visionario Paine aveva sottolineato in Common Sense. Se possibile, proprio la portata della missione di cui gli Stati Uniti erano investiti legittimava pratiche spregiudicate e compromessi disinvolti. Quello degli Stati Uniti si configurava quindi come un internazionalismo al contempo radicalmente «idealista» e sprezzantemente «pratico»46. La guerra d’indipendenza e i difficili rapporti con la Francia avrebbero anzi accentuato questi due aspetti: la volontà di modificare il sistema internazionale, emancipandolo dalle pratiche in uso in Europa, e la disponibilità a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale obiettivo. La Francia entrò infatti in guerra con la Gran Bretagna nel giugno del 1778, seguita, pochi mesi più tardi, dalla Spagna. Di fatto, la guerra in America si trasformava in una parte, minore e tangenziale, di un nuovo grande conflitto europeo e come tale veniva più volte trattata dal governo francese, che pur collaborando con l’alleato nord-americano espresse in più occasioni la sua avversità a continuare il conflitto solo per aiutare gli Stati Uniti. Da parte statunitense si chiese invece insistentemente alla Francia di in-

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crementare il proprio impegno in Nordamerica, in particolare in ambito navale. Più volte John Adams, nominato ministro plenipotenziario con il compito di giungere a un accordo con la Gran Bretagna, chiese a Francia e Spagna di spostare negli Stati Uniti il teatro principale delle loro operazioni47. La terza fase della guerra, nel Sud, non vide delle decisive vittorie britanniche, ma una serie di battaglie che logoravano tutte le parti in causa, oltre ad alcuni preoccupanti episodi di tradimento e defezione. Su tutti, quello di Benedict Arnold, uno degli eroi della prima fase della guerra, quando aveva guidato l’invasione in Canada, che nel 1780 congiurò per consegnare la fortezza di West Point ai britannici. Episodi come questo, il protrarsi della guerra, l’insufficiente collaborazione e coordinamento tra i vari Stati, la crescente inflazione, la difficile relazione con la Francia e l’avvio di negoziati con la Gran Bretagna evidenziarono una volta di più agli occhi dei leader rivoluzionari il rischio che gli Stati Uniti correvano laddove si fossero legati all’Europa. A dare voce a queste preoccupazioni fu John Adams. L’autore del Model Treaty, peraltro sempre più critico nei confronti della Francia e di Vergennes, tornò ad affermare che il vero interesse statunitense doveva essere quello di avere un «libero commercio con tutti» i paesi europei e di «essere neutrali in tutte le loro guerre». Per Adams la minaccia principale rimaneva l’«universale monarchia britannica»: dovessero la Gran Bretagna e gli Stati Uniti «essere nuovamente uniti sotto una singola dominazione [...] ci sarebbe la fine della libertà sui mari di tutte le altre nazioni. Tutto il commercio e la navigazione del mondo verrebbero ingoiati da uno spaventoso dispotismo»48. Ma la ribadita avversione alla Gran Bretagna si coniugava con una crescente diffidenza nei confronti della Francia. Diversamente da Franklin, Adams sostenne che il trattato del 1778 non fosse perenne e non dovesse durare «più a lungo» della guerra stessa. Secondo Adams, la Francia non solo stava fornendo un aiuto insufficiente alla causa statunitense, ma di fronte alle proprie difficoltà e ai costi del conflitto stava addirittura considerando la possibilità di imporre al più debole alleato americano una pace che non dava ad esso quanto dovuto. Una tregua in quel particolare momento avrebbe infatti privato gli Stati Uniti, oltre che del Canada e della Nuova Scozia, anche dei diritti di pesca (fondamentali per l’economia del New England), dell’alto Maine, della Georgia, delle due Caroline e, pro-

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babilmente, di parti della stessa New York. La Francia, affermò Adams alla fine del 1780, voleva mantenere gli Stati Uniti «poveri», «depressi» e «deboli»49. Era questa la prima lezione che sembrava essere confermata dalla guerra: il rischio cioè di diventare dipendenti dall’Europa, di ottenere un’indipendenza puramente nominale, passando da una subordinazione diretta nell’impero britannico a una indiretta in quello francese. Il secondo rischio che parve pienamente concretizzarsi era che la debole unione formatasi tra le colonie potesse essere divisa e lacerata dalle ingerenze esterne, che i diversi interessi regionali, in primis economici, fossero esasperati dai legami con i paesi europei e dalle pressioni che questi ultimi erano in grado di esercitare. Su questo punto si tornerà nel prossimo paragrafo; qui è importante sottolineare come proprio nella fase finale del conflitto, e durante i negoziati di pace, andò delineandosi la formazione di fazioni distinte e divise in Nordamerica, le cui linee di frattura erano molteplici, ma che trovavano nei rapporti privilegiati con una potenza esterna di riferimento, la Gran Bretagna o la Francia, una delle loro matrici fondamentali. Realizzando una delle originarie fobie dei leader rivoluzionari, l’Europa sembrava poter trasferire nel nuovo mondo le sue divisioni e i suoi scontri. Per questo Adams, in una lettera al Congresso inviata alla fine del 1780, riaffermava i principi che avevano già ispirato il Model Treaty: «Ricordiamoci di quanto è dovuto a noi stessi e alla nostra posterità», affermava il documento. «Più di tutto evitiamo per quanto possibile di legarci alle loro guerre e alle loro politiche. I nostri affari con loro e i loro con noi sono il commercio, non la politica e tanto meno la guerra. L’America è stata sufficientemente a lungo il passatempo delle guerre e della politica dell’Europa»50. Questa esortazione poté solo in parte essere ascoltata. E questo non solo perché molti membri del Congresso e numerosi influenti giornalisti si trovavano sul libro paga del governo francese. La debolezza della confederazione impediva infatti di assumere quella posizione netta invocata da Adams. La dipendenza dagli aiuti francesi non permetteva a sua volta di ribellarsi ai condizionamenti di Vergennes. A partire dal 1780, l’obiettivo di ottenere tutti i possedimenti britannici in Nordamerica, incluso il Canada, fu sostanzialmente abbandonato. Sia la Francia sia gli Stati Uniti miravano al raggiungimento di una pace più minimalista di quanto inizialmente auspica-

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to. Il Congresso manifestò addirittura la disponibilità a cedere i diritti di navigazione sul Mississippi alla Francia e/o alla Spagna. La Francia cercava a sua volta una mediazione internazionale che ponesse fine al conflitto. Vergennes preferiva giungere a un compromesso che avrebbe mantenuto una presenza britannica in Nordamerica: in questo modo, gli Stati Uniti, deboli e minacciati da un potente vicino, sarebbero rimasti a lungo dipendenti dall’alleato francese51. Questa dipendenza si stava già manifestando in modo eclatante. I denari francesi indirizzavano il comportamento di diversi membri del Congresso, suscitando lo sdegno di molti colleghi e, successivamente, quello di alcuni storici nazionalisti52. Nel 1781 John Adams, che aveva fino ad allora condotto i negoziati di pace, fu sollevato dal suo incarico in seguito alle richieste di Parigi. Al suo posto venne insediata una commissione di cinque membri, che includeva lo stesso Adams. Le istruzioni fornite dal Congresso alla commissione furono redatte da John Witherspoon, rappresentante del New Jersey e tra i maggiori beneficiari delle ‘donazioni’ francesi. In tali istruzioni si chiedeva addirittura alla commissione di fornire «ai ministeri del nostro generoso alleato, il Regno di Francia, le informazioni confidenziali relative a tutte le questioni» discusse durante i negoziati e a non «intraprendere nulla [...] senza la loro conoscenza e partecipazione», seguendone invece «i consigli e l’opinione»53. A modificare questa linea di condotta furono l’indipendenza di alcuni negoziatori – Adams, Franklin e Jay in particolare –, l’andamento delle operazioni militari e, soprattutto, un mutamento di linea da parte del governo britannico. Nell’ottobre del 1781, dopo un lungo periodo di stallo, l’esercito statunitense e quello francese ottennero una vittoria cruciale nella battaglia di Yorktown, in Virginia. Alla Camera dei Comuni ripresero forza gli oppositori della prosecuzione del conflitto in Nordamerica. Pochi mesi più tardi il governo di Lord North si dimise. I suoi due successori, il marchese di Rockingham e, soprattutto, il conte di Shelburne, decisero di aprire i negoziati con gli Stati Uniti. Anche per la Gran Bretagna i costi di un conflitto che durava ormai da sei anni erano divenuti insopportabili. A monte vi era però anche una considerazione strategica non priva di fondamento: la consapevolezza, sempre più forte, che i legami commerciali tra Stati Uniti e Gran Bretagna, uniti alla possibilità di quest’ultima di escludere il nuovo paese da mercati per esso

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vitali (come quelli delle Indie Occidentali), avrebbero reso il nuovo Stato nord-americano comunque dipendente da Londra54. I negoziati durarono più di un anno. A dispetto delle indicazioni del Congresso, essi furono condotti senza che il governo francese ne fosse informato. Un accordo tra Gran Bretagna e Stati Uniti fu raggiunto nel novembre del 1782. Gli Stati Uniti vedevano riconosciuta l’indipendenza e definiti i propri confini: i grandi laghi a nord (il confine, dividendoli tra Stati Uniti e Canada, attraversava i laghi Superiore, Huron, Erie e Ontario); il Mississippi a ovest; il 31° parallelo a sud (dove gli Stati Uniti non ottenevano invece la Florida, che Londra cedeva alla Spagna). Agli Stati Uniti veniva riconosciuto, non senza ambiguità, il diritto di pesca nelle acque britanniche attorno a Terranova. La Gran Bretagna otteneva l’impegno statunitense al pagamento dei debiti contratti dai coloni con la madrepatria prima della guerra e all’indennizzo delle proprietà perse dagli americani lealisti (circa 200.000) durante il conflitto. La navigazione del Mississippi rimaneva aperta sia a navi statunitensi sia a navi britanniche55. Gli Stati Uniti, violando de facto i termini dell’accordo con la Francia del 1778, avevano ratificato una pace separata. Vergennes si mostrò indignato per il comportamento statunitense, ma valutò positivamente l’accordo, manifestando anzi sorpresa per la generosità britannica: «I britannici comprano la pace invece di farla», avrebbe commentato. L’accordo anglo-statunitense fu firmato dalle due parti nel settembre del 1783, a margine della ratifica dei trattati preliminari tra le potenze europee coinvolte nel recente conflitto. «Gli americani che avevano causato il conflitto appena terminato – ha ricordato lo storico Bradford Perkins – in questa occasione non furono invitati a far parte della società dei grandi Stati» e dovettero invece accontentarsi di firmare il trattato nella residenza dei rappresentanti britannici56.

5. Testi sacri 2: la Costituzione La guerra d’indipendenza ebbe un effetto duplice e contraddittorio sulla nuova nazione. Da un lato essa contribuì a rafforzare la coesione nazionale, rinsaldando almeno in parte i vincoli fra i tredi-

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ci Stati e le tre diverse macroregioni (New England, Mid-Atlantic e Sud) in cui il paese si divideva. Anche nel caso degli Stati Uniti, la presenza di una minaccia esterna – reale o immaginata – costituiva una condizione basilare per rendere possibile l’esistenza dello Stato e definirne l’identità. Dall’altro, il conflitto aveva evidenziato l’estrema fragilità e vulnerabilità del nuovo paese e la sua esposizione alle pressioni e alle ingerenze esterne. Più di tutto, esso aveva mostrato i limiti dell’architettura istituzionale della confederazione definita tra il 1776 e il 1777 e la sua tendenza a esasperare i conflitti tra gli Stati piuttosto che a ricomporli, acuendo i particolarismi localistici invece di risolverli. Gli articoli che definivano le competenze e la struttura della confederazione erano stati redatti in gran parte dal rappresentante della Pennsylvania, John Dickinson. Presentati nell’estate del 1777, gli articoli furono approvati in via definitiva solo nel 1781, quando anche l’ultimo Stato, il Maryland, decise di votarli. Essi ben esprimevano sia la riluttanza degli Stati a cedere le proprie prerogative e competenze sia la convinzione – che permeava l’ideologia della leadership indipendentista – che vi potesse essere un’armonia naturale tra gli Stati repubblicani che avrebbe reso possibile e naturale la loro pacifica collaborazione. Invero, la logica sottostante la creazione della confederazione – un embrione di unione imperiale, secondo le categorie dell’epoca – rifletteva l’internazionalismo idealista e utopico del discorso politico statunitense dell’epoca. La confederazione si connotava infatti primariamente come una «lega difensiva», nella quale i singoli Stati preservavano una sorta di diritto di veto sulle decisioni maggiormente rilevanti: qualsiasi modifica degli articoli avrebbe richiesto l’unanimità, mentre le decisioni più importanti necessitavano, per essere approvate, di una maggioranza assai qualificata (nove Stati su tredici)57. Nella confederazione l’organo decisionale era il Congresso, una sorta di assemblea legislativa unicamerale nella quale ogni Stato disponeva di un voto. Il Congresso era l’unica istituzione capace d’incarnare l’autorità nazionale e simboleggiare l’unità degli Stati Uniti. Esso rappresentava l’organo deliberante della confederazione, ma era privo di un vertice esecutivo (un «governo parlamentare privo di primo ministro», nella celebre definizione di Arthur Schlesinger Jr.58). Le funzioni esecutive erano svolte da molteplici commissioni congressuali ad hoc, una delle quali responsabile per la politica este-

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ra (la «Commissione della corrispondenza segreta», poi «Commissione per gli affari esteri»). Al Congresso era attribuita la responsabilità di dichiarare guerra, condurre le relazioni con gli altri paesi (e con le nazioni indiane) ed emettere moneta. Ad esso mancavano però due attributi fondamentali della sovranità: dettare la disciplina nella materia del commercio e imporre le tasse. Nel periodo della guerra d’indipendenza, queste deficienze si sommarono alle tensioni tra gli Stati, relative in particolare alla ripartizione degli oneri e dei costi del conflitto, e alla competenza rivendicata dagli Stati medesimi sull’espansione nei territori occidentali non ancora colonizzati. Fu però con la fine del conflitto che si evidenziarono l’estrema debolezza della struttura confederale e la necessità conseguente di modificare radicalmente la struttura dell’Unione, ridefinendo i termini del legame fra i suoi tredici membri. Nel 1783 gli Stati Uniti, infatti, non erano in grado di adempiere alle funzioni fondamentali di uno Stato – garantire la sicurezza dei propri cittadini – e di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati con l’indipendenza: lo sviluppo del commercio, l’espansione del paese, la diffusione delle loro idee. Le difficoltà economiche postbelliche originarono primariamente dalla perdita di mercati fino ad allora accessibili, su tutti quelli delle Indie Occidentali. Dopo la guerra, la Gran Bretagna pose varie restrizioni alle merci statunitensi, rivelando l’assoluta dipendenza commerciale degli Stati Uniti dall’ex madrepatria. I vari accordi commerciali stipulati dal Congresso con Francia, Olanda, Svezia, Prussia e Marocco non potevano compensare la perdita dei mercati britannici. Già nel 1783 il rapporto tra merci importate dalla Gran Bretagna e merci esportate verso di essa era di tre a uno. La chiusura dei mercati britannici non si limitava a colpire molti prodotti statunitensi; i suoi effetti erano moltiplicati dall’importanza che tali mercati avevano per tutta l’economia americana. A essere colpita era anche un’attività molto redditizia come quella dei trasporti via mare, e, con essa, il principale settore manifatturiero degli Stati Uniti, quello delle costruzioni navali. «Le nostre navi giacciono a marcire [...] escluse da quasi tutti i porti del mondo», scriveva la «Pennsylvania Gazette». «In ogni parte del globo il nostro commercio è ridotto [...] a chiedere l’elemosina», gli faceva eco la «New Haven Gazette». Per John Jay non vi era porto «dove gli americani potevano portare un carico di farina e di sale». «Gli algerini» avevano addirit-

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tura escluso i vascelli americani «dal Mediterraneo e dai paesi adiacenti»: «Non siamo nemmeno capaci», affermò Jay, di «imporre o almeno comprare il libero utilizzo di quei mari»59. La crisi commerciale produceva effetti rilevanti, e strettamente interdipendenti, sul piano interno così come su quello delle relazioni con l’estero. Essa costituiva una delle cause fondamentali, ancorché non l’unica, della depressione economica postbellica e delle tensioni sociali e politiche che questa catalizzava. Diversi Stati reagirono con l’ulteriore emissione di carta moneta e l’approvazione di varie moratorie sui debiti contratti da privati. La prima acuiva una spirale inflazionistica iniziata già durante la guerra; le seconde impedivano l’adempimento dei termini della pace del 1783 (la restituzione dei crediti ai coloni lealisti e filobritannici), legittimando l’ulteriore rappresaglia di Londra, in una spirale viziosa che non sembrava avere punti di rottura60. Ma gli effetti della contrazione del commercio statunitense erano, se possibile, più ampi. Gli USA si vedevano trascinati in una nuova dipendenza dall’estero, che nella sostanza avrebbe potuto mettere in discussione l’indipendenza appena conquistata. Le difficoltà economiche e sociali e i diversi interessi regionali alimentavano divisioni e volontà secessioniste, che sarebbero esplose pienamente nel 1786. Più di tutto, il commercio, lo strumento al servizio della politica estera statunitense e del suo disegno imperiale e trasformatore, si trasformava nel mezzo con cui la «crudele matrigna» britannica (nella definizione di Benjamin Franklin) tornava a condizionare le sorti delle ex colonie. Di ciò la leadership postcoloniale era acutamente consapevole. Già durante i negoziati di pace, gli Stati Uniti avevano tentato senza successo di ottenere da Londra un accordo bilaterale di reciprocità in materia di commercio, che aprisse i porti britannici e americani ai rispettivi beni e imbarcazioni. Nei mesi successivi, più voci avevano indicato negli articoli della confederazione e nell’impossibilità del Congresso di agire in modo unitario sulle questioni commerciali i principali responsabili della crisi del paese. Una crisi che da subito ne metteva a rischio l’esistenza e che rendeva necessaria, invero vitale, la costituzione di un forte governo centrale capace di rispondere alle discriminazioni della Gran Bretagna e delle altre potenze europee. Perché non era solo il restringimento dei traffici commerciali che

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minacciava la nuova nazione, né la Gran Bretagna l’unica potenza da cui guardarsi. Come risposta al mancato pagamento dei debiti, Londra manteneva propri forti e stazioni commerciali sui Grandi Laghi, a sud del confine tra Canada e Stati Uniti, collaborava (e mercanteggiava) con varie tribù indiane e cercava di attrarre i coloni del Vermont (non ancora Stato membro dell’Unione) offrendo loro vari vantaggi commerciali. La Spagna, che possedeva i territori a ovest del Mississippi, arrivò a chiudere nel 1784 il porto di New Orleans, il cui accesso era essenziale per il commercio di prodotti statunitensi. Nel Mediterraneo le navi statunitensi, non più protette dalla marina britannica, erano oggetto di atti di pirateria, che avrebbero portato alla requisizione di numerose imbarcazioni, alla perdita dei loro carichi e al sequestro di cittadini americani, liberati solo (e non sempre) dietro il pagamento di un riscatto. Nemmeno gli «Stati barbari» del Nordafrica temevano e rispettavano la giovane nazione statunitense. James Cathcart, uno dei circa trenta cittadini statunitensi sequestrati da pirati algerini in quegli anni, avrebbe affermato di ritenersi «vittima dell’indipendenza». Gli atti di pirateria subiti dalle navi americane contribuivano anch’essi a quel senso d’«impotenza nazionale» prodotto dalle diverse crisi del periodo. Questo senso d’impotenza faceva riemergere la paura che gli Stati Uniti potessero diventare oggetto di una qualche spartizione tra le potenze europee; che agli USA, in una fobia assai ricorrente, sarebbe toccata la stessa sorte della Polonia. «Se continuiamo così», affermò il rappresentante dell’assemblea del Connecticut Oliver Ellsworth, «sarà facile per loro [le potenze europee] dividerci in cantoni e spartirci come hanno fatto con il Regno di Polonia»61. La crisi raggiunse il suo apice nel 1786. Il numero di navi sequestrate nei mari mediterranei aumentò esponenzialmente (da due a nove). Divenne sempre più difficile tenere sotto controllo le tensioni sociali catalizzate dalle difficoltà economiche. Il rischio di una secessione – a nord come nei territori occidentali – si fece particolarmente forte. Nel New England la necessità di giungere a un qualche accomodamento commerciale con Londra alimentava le critiche e i risentimenti contro la confederazione. Nei territori occidentali l’insufficiente difesa offerta dall’esercito continentale contro gli attacchi indiani induceva molti a cercare la protezione e l’aiuto della Gran Bretagna, che rimaneva la potenza dominante nella regione. Dimensione economica, politica, sociale e internazionale s’in-

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trecciarono nel più famoso episodio di quell’anno: la «ribellione di Shays», in Massachusetts, dal nome dell’ex capitano dell’esercito continentale, Daniel Shays, che la guidò. La ribellione fu provocata primariamente dalla decisione dello Stato del Massachusetts di pagare i propri debiti (dovuti principalmente ai ricchi mercanti bostoniani) alzando le tasse e non aumentando la massa monetaria circolante. Il provvedimento era essenziale per preservare la credibilità delle istituzioni statali e tenere sotto controllo l’inflazione. Esso andava però a colpire soprattutto gli agricoltori poveri delle aree occidentali, già in grave sofferenza e privi dei mezzi per far fronte alle nuove imposte. Shays, agricoltore andato in fallimento, guidò per alcuni mesi un gruppo armato di circa mille uomini. La ‘banda’ di Shays ebbe più di un contatto con le autorità britanniche in Canada, mostrando una volta di più «il collegamento tra il malcontento nelle aree rurali dell’interno e il lungo braccio insidioso del Canada britannico». Shays e i suoi uomini furono infine sconfitti dalla milizia statale. La ribellione mostrò però una volta di più l’estrema fragilità della confederazione, in balia di pressioni esterne e interne che ne rendevano precaria l’esistenza e incerta la sopravvivenza62. Alcuni tentativi di rafforzare la confederazione, attribuendo al Congresso il potere di imporre una tariffa del 5% sulle importazioni, erano stati bloccati dall’indisponibilità di molti Stati a cedere anche parte delle proprie prerogative. La vicenda mostrava l’impossibilità di riformare la struttura confederale e la necessità di una svolta radicale che desse vita a un forte governo centrale, capace di relazionarsi al resto del mondo in modo coerente ed efficace. La politica estera ebbe quindi un peso determinante nel portare alla decisione, nel 1787, di convocare una convenzione costituzionale a Philadelphia. La maggior parte della classe politica aveva maturato la convinzione che «un governo più forte e unito fosse necessario per confrontarsi efficacemente con il mondo esterno». Formalmente incaricata di riesaminare e modificare gli articoli della confederazione, la convenzione andò ben oltre il proprio mandato. Essa procedette alla stesura di una nuova Costituzione, che ridefinì profondamente l’architettura istituzionale degli Stati Uniti, centralizzando le competenze primarie relative alla conduzione delle relazioni estere dello Stato e distribuendole tra un organo esecutivo nuovo e un organo legislativo radicalmente ripensato63. Il commercio e la sua regolamentazione costituirono l’oggetto

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primario delle discussioni a Philadelphia. La maggioranza dei partecipanti concordava sull’incapacità degli Stati di negoziare con le potenze straniere. La necessità di potenziare l’Unione in quest’ambito era quindi riconosciuta da tutti: non si poteva più permettere agli Stati di innalzare autonomamente dazi e tariffe. La competenza in tale materia doveva essere centralizzata. Come questo potenziamento dovesse avvenire fu invece oggetto di aspre discussioni. Al riguardo emerse una spaccatura secondo linee regionali, tra gli Stati del Sud e quelli del Nord. I primi esportavano vari prodotti (riso e tabacco in particolare) e temevano che i propri interessi potessero essere danneggiati dall’imposizione di tasse sull’esportazione, eventualmente decisa per danneggiare una nazione importatrice di beni statunitensi. Dopo lunghe discussioni si giunse a un «grande compromesso» finale, reso possibile dalla mediazione del delegato della Virginia James Madison. Esso assegnava al Congresso la competenza di regolamentare il commercio e di adottare a maggioranza semplice i provvedimenti necessari a tale scopo (art. 1, sezione VIII: «Il Congresso avrà le seguenti attribuzioni: imporre [...] dazi sulle importazioni», che «dovranno essere uniformi in tutti gli Stati Uniti» e «disciplinare il commercio con le nazioni straniere»). In cambio, però, il Nord accettava che il commercio degli schiavi, sul cui lavoro poggiava una parte rilevante dell’economia sudista, continuasse fino al 1808 (art. 1, sezione IX: «L’immigrazione o l’‘importazione’ di quelle persone che ciascuno degli Stati attualmente esistenti ritenga opportuno ammettere, non sarà vietata dal Congresso prima dell’anno 1808»). La formulazione opaca serviva per preservare quel «silenzio drammatico» sulla schiavitù che già era stato della Dichiarazione del 1776, ma che durante la guerra d’indipendenza e negli anni immediatamente successivi sembrava potesse essere finalmente rotto64. La seconda riforma fondamentale fu rappresentata dalla creazione dell’istituzione della presidenza e dalla trasformazione del Congresso in un’assemblea legislativa bicamerale. Quest’ultima era formata dalla Camera dei rappresentanti, i cui membri erano eletti direttamente dai cittadini ogni due anni, e dal Senato, rappresentante gli Stati, le cui assemblee legislative sceglievano i due senatori che li avrebbero rappresentati. Diplomazia e guerra, oltre al commercio, costituivano le competenze primarie e dirette in materia di politica estera. Esse furono distribuite tra presidenza e Congresso, anche se

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fu il secondo a ricevere la maggior parte delle attribuzioni costituzionali. La Costituzione del 1787 assegnava infatti al presidente «pochi e modesti» poteri nel campo della politica estera, che solo la storia e un’interpretazione flessibile (e spesso spregiudicata) dei dettami costituzionali avrebbe accresciuto. Le competenze attribuite al presidente sono infatti quelle di «concludere trattati, sentito il parere e con il consenso del Senato, purché vi sia l’approvazione di due terzi dei senatori presenti» (art. 2, sezione II) e di proporre e nominare «ambasciatori, altri diplomatici e consoli [...] sentito il parere e con il consenso del Senato». In aggiunta al presidente è attribuita la carica di «comandante in capo dell’Esercito, della Marina degli Stati Uniti», ma solo «quando questa sarà chiamata al servizio effettivo degli Stati Uniti» (art. 2, sezione I)65. Assai maggiori furono invece le competenze esplicitamente attribuite al Congresso: «Il Congresso – ha sottolineato Louis Henkin – non ha bisogno di interpretazioni costituzionali stravaganti e non comuni per sostenere la legittimità dell’esercizio dei suoi poteri di politica estera»66. Le attribuzioni, enucleate in larga misura nella sezione VIII del primo articolo della Costituzione (che include, come abbiamo visto, anche la responsabilità di «regolamentare il commercio»), includono «dichiarare guerra» (e quindi prepararsi ad essa, «reclutando e mantenendo eserciti») e, questione vitale allora, «definire gli atti di pirateria, i reati gravi compiuti in alto mare, nonché i reati contro il diritto delle genti». In aggiunta, vanno considerati i poteri attribuiti al Senato, su tutti quello di ratificare, a maggioranza qualificata, i trattati negoziati e firmati dal presidente. Infine, al Congresso era attribuita piena e unica competenza sui territori dell’Ovest non ancora soggetti a controllo statale67. Pur privilegiando grandemente il Congresso, sui temi di politica estera la Costituzione lasciava ampie isole di ambiguità relativamente alla distribuzione dei poteri tra organo legislativo e organo esecutivo. In quanto tale, essa avrebbe rappresentato, nelle celebri parole di uno dei suoi principali studiosi, un «invito alla lotta» tra i due rami del governo. Facendo leva su trasformazioni storiche all’epoca non ancora immaginabili e su un’interpretazione estensiva di alcune attribuzioni costituzionali (in particolare quella che gli assegna la carica di «comandante in capo»), il presidente avrebbe col tempo aumentato grandemente i suoi poteri e le sue prerogative, in un pro-

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cesso peraltro affatto lineare, in cui il Congresso ha frequentemente cercato di riappropriarsi delle proprie competenze68. Ci si soffermerà successivamente sul ricco e serrato dibattito che seguì la stesura della Costituzione. In conclusione di capitolo, è però necessario comprendere se e come la Costituzione abbia rappresentato un momento di svolta e un abbandono dell’originario idealismo rivoluzionario. Se anche rispetto alla politica estera essa, come ha affermato Eric Foner, abbia costituito una «ritirata dall’esuberante sollevamento democratico che aveva accompagnato la lotta per l’indipendenza». Un’abiura, cioè, dei sogni trasformatori di Paine e una conseguente rimodulazione conservatrice del «senso comune» dell’internazionalismo statunitense69. Vi è più di un elemento che suffraga la lettura di Foner e di molti altri studiosi. Esigenze di sicurezza imponevano processi di rafforzamento del governo nazionale che in precedenza sarebbero stati considerati malsani e pericolosi. Durante, e ancor più dopo i lavori della convenzione, la discussione ruotò attorno all’equilibrio che doveva esservi tra libertà e sicurezza. Una discussione, questa, che avrebbe in seguito scandito tutta la storia degli Stati Uniti. I timori si concentrarono in particolare sulla natura quasi monarchica della figura del presidente: sul rischio che l’unica risposta all’anarchia fosse il ritorno a una qualche forma di autocrazia. Thomas Jefferson diede voce a queste paure affermando che «il nuovo presidente» sembrava «una cattiva replica del re di Polonia». La Costituzione rischiava di normalizzare gli Stati Uniti, mettendo fine alla loro presunzione di eccezionalità. Ma anche Jefferson, pur manifestando perplessità verso le decisioni prese a Philadelphia, era consapevole della necessità di rafforzare gli Stati Uniti per permettere loro di sopravvivere: «Desidero che i nostri Stati siano trasformati in un’unica entità rispetto alle questioni esterne, e rimangano molteplici per quanto concerne quelle interne», avrebbe affermato Jefferson nel 178770. La Costituzione serviva dunque per creare quella cornice di sicurezza entro cui la libertà appena conquistata potesse essere preservata e fatta crescere. Non poneva termine all’eccezionalismo, ma forniva gli strumenti essenziali per la sua difesa e per il suo consolidamento. Difesa e consolidamento che soli avrebbero permesso agli Stati Uniti di dare corso all’obiettivo, messianico e utopico, di giungere nel tempo a una trasformazione dell’ordine internazionale. Il

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patto costituzionale fra i tredici Stati, sviluppando un elemento già presente negli accordi che avevano portato all’indipendenza e alla confederazione, rappresentava anzi un modello di accordo di pace tra Stati sovrani che si sarebbe dovuto estendere nel tempo, partendo dai territori occidentali del Nordamerica. Era la premessa di quell’impero federale e decentralizzato sognato da Jefferson71. La sicurezza che la Costituzione avrebbe garantito non serviva solo per difendere la libertà interna, né la sua ricerca costituiva una presa d’atto della necessità di adottare strumenti e pratiche della diplomazia europea72. La Costituzione non esprimeva una maturazione realista, imposta dalla disillusione e dalla paura. Perché realismo e spregiudicatezza non erano mai mancati, nemmeno a Thomas Paine. E perché realismo e spregiudicatezza non erano antitetici all’idealismo internazionalista, ma condizioni (e strumenti) essenziali per la sua affermazione: «La Costituzione – ha affermato Bernard Bailyn – non è stata scritta da boss politici duri e conservatori determinati a rovesciare gli entusiasmi progressisti dei primi anni, ma da idealisti temperati, che avevano riconosciuto, con riluttanza, la necessità di creare gli strumenti pericolosi di un potere centralizzato»73. Per questo, la Costituzione rappresentava – per quanto riguardava la politica estera – un ulteriore momento fondativo, la cui continuità con Paine, il Model Treaty e, soprattutto, la Dichiarazione d’indipendenza non conosceva soluzione. Essa prendeva atto della debolezza dell’Unione di Stati formatasi in Nordamerica e del rischio di una sua disgregazione, ma lo faceva ribadendo le straordinarie possibilità degli Stati Uniti e l’inevitabilità della loro espansione futura. Dava risposta a quello che appariva come un «dilemma intrattabile» causato dal fatto che «le prospettive di lungo termine della nuova nazione indipendente americana fossero straordinariamente, quasi illimitatamente, promettenti», mentre quelle di «breve periodo» erano «tetre all’estremo» e preconizzavano un futuro prossimo fatto di divisioni, guerre e spartizioni74. La Costituzione difendeva gli Stati Uniti nell’immediato per permettere loro di proiettarsi nel futuro. Evitando che venissero soffocate sul nascere le illimitate possibilità della nuova nazione, si garantiva che essa avrebbe potuto in un secondo tempo dare corso alle sue utopiche e universali ambizioni. La Costituzione difendeva la libertà per garantirne la diffusione, a cominciare dallo sterminato Ovest. Era una libertà, questa, la cui definizione del 1776 veniva con-

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fermata nel 1787 e che divideva in tre categorie i soggetti presenti sul territorio statunitense: i cittadini degli Stati Uniti, titolari dei diritti loro assegnati dalla Costituzione; gli indiani-americani, membri di tribù sovrane e di nazioni straniere, e in quanto tali non beneficiari di tali diritti; le «altre persone», gli schiavi, privi di diritti (ma che contavano ognuno per tre quinti di un cittadino normale nel computo per la distribuzione proporzionale dei seggi nella Camera dei rappresentanti). La Costituzione s’impegnava a difendere la libertà, con tutte le sue omissioni e i suoi drammatici silenzi. Ma essa s’impegnava anche e soprattutto a promuovere l’espansione di tale libertà e del progetto imperiale che vi sottostava. Rimovendo quegli ostacoli (le «macchie» e le «impurità» descritte da Jefferson), questi sì assordantemente urlati, che ancora si ponevano sul suo cammino.

II «UN IMPERO, PER MOLTI ASPETTI IL PIÙ INTERESSANTE DEL MONDO»1

1. Alle origini dell’espansionismo statunitense La debolezza della confederazione aveva infine indotto alla radicale trasformazione costituzionale di Philadelphia. Ma non aveva impedito che tra il 1783 e il 1787 fossero poste le basi del processo di espansione continentale che avrebbe connotato nel secolo successivo l’esperienza storica degli Stati Uniti. Lo aveva anzi stimolato e sollecitato, contribuendo all’idea che senza espansione l’esperimento repubblicano statunitense non sarebbe potuto sopravvivere. Che l’unica alternativa all’avanzamento verso ovest sarebbe stata la disintegrazione o la dipendenza da una potenza straniera, e in ultima istanza la sottomissione ad essa. Che per preservare, consolidare e, nel tempo, diffondere la libertà faticosamente conquistata con l’indipendenza fosse necessario espandersi e ingrandirsi. L’espansione continentale costituiva uno strumento al servizio della libertà e della sua difesa. Al contempo, però, essa era concepita da subito come espressione e realizzazione di tale libertà, come suo elemento intrinseco e per molti aspetti costitutivo: manifestazione e prova tangibile del successo dell’esperienza statunitense, nella forma di uno spazio di cittadinanza e libertà che cresceva e si riproduceva senza sosta. Un impero decentralizzato che nel suo ampliamento, potenzialmente perpetuo e illimitato, trovava conferma del significato della sua parabola storica. Vari fattori concorsero dopo il 1783 ad alimentare e giustificare le spinte espansionistiche della giovane nazione statunitense: la cultura geografica allora dominante; la ricerca di sicurezza e indipen-

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denza; l’ideologia e le autorappresentazioni eccezionaliste; la volontà di acquisire rapidamente le risorse attraverso cui dare corso alla virtù repubblicana affermatasi in Nordamerica. Prevaleva, allora egemone nel discorso pubblico, una visione «continentalista» dei destini statunitensi, che individuava nei continenti le unità geografiche basilari e naturali del mondo ed ereditava l’esperienza coloniale e le sue visioni di «grandeur anglo-americana». Secondo questa prospettiva, la società costituitasi in Nordamerica, e ora incorporata nella nuova nazione indipendente, era una società continentale, come ben evidenziavano gli originari charters delle colonie della Virginia e del Massachusetts, che entro latitudini definite assegnavano loro terre «da mare a mare». L’unità naturale del Nordamerica rappresentò da subito elemento forte del discorso nazionalista statunitense, trovando in Thomas Jefferson il suo più abile sostenitore e apologeta2. Se l’unità naturale del continente, sotto il controllo degli Stati Uniti, costituiva uno dei sostrati concettuali e discorsivi che giustificavano l’espansionismo, gli imperativi di sicurezza ne rappresentavano il catalizzatore immediato e più forte. Il trattato di Parigi del 1783 aveva lasciato il giovane Stato in condizioni di estrema debolezza e vulnerabilità: nei confronti delle due potenze europee, Spagna e Gran Bretagna, ancora presenti sul suolo nord-americano, così come verso le numerose nazioni indiane, private ora dell’appoggio britannico, ma per nulla inclini ad accettare passivamente l’avanzata verso ovest dei coloni. La Gran Bretagna manteneva alcune fortificazioni nel territorio del Nord-Ovest a sud dei Grandi Laghi: otto in tutto, la più importante delle quali era quella di Detroit. Per quanto più debole, anche la Spagna rappresentava una minaccia. Essa controllava a sud le due Floride e la Louisiana, altre aree ambite dai pionieri nord-americani, e soprattutto il Mississippi e la città di New Orleans: via di navigazione e scalo commerciale fondamentali per le merci americane, la cui importanza sarebbe solo aumentata negli anni successivi. Entrambi gli Stati europei intendevano ostacolare l’espansione della frontiera statunitense: per evitare il rafforzamento degli Stati Uniti; per consolidare, nel caso spagnolo, la propria precaria posizione; per attrarre verso di sé quei coloni che nella loro marcia a ovest non si fossero visti protetti dagli Stati Uniti3. La presenza europea generava una triplice minaccia per gli Stati Uniti. Innanzitutto, preservava il balance of power europeo in Nor-

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damerica. La guerra d’indipendenza era stata combattuta proprio per liberarsi dall’equilibrio di potenza dell’Europa, che limitava le possibilità di scelta e trascinava automaticamente nelle guerre altrui. I grandi conflitti tra gli Stati europei avevano spesso finito per coinvolgere anche le loro colonie nord-americane, trasformandole in taluni casi nel principale teatro di battaglia. Secondo la leadership indipendentista, questo rischio sarebbe rimasto fino a quando il continente non fosse stato definitivamente liberato dalla presenza dell’Europa e dalle vestigia residue dei suoi perenni scontri. In secondo luogo, era forte la paura che Spagna e, soprattutto, Gran Bretagna stimolassero le tentazioni separatiste dei pionieri e dei coloni irritati dalla debole protezione garantita loro dal governo statunitense. Non spaventava tanto la nascita di nuove repubbliche, prossime per interesse e affinità politico-culturale a quella statunitense. Era, anzi, questa, una prospettiva congruente con il disegno imperiale jeffersoniano, che si basava sul sogno di una riproduzione cellulare infinita del modello affermatosi con la nascita degli Stati Uniti. Ciò che si temeva maggiormente era la nascita di comunità non legate alla confederazione, destinate a gravitare verso la ben più forte orbita britannica. In tal caso, affermò George Washington, la popolazione residente nelle aree occidentali «sarebbe divenuta distinta e separata dagli Stati Uniti». Invece di «aggiungere forza all’Unione», essa avrebbe finito per costituire un «vicino formidabile e pericoloso», destinato a minacciare gli Stati Uniti e a costringerli a uno sforzo permanente di difesa4. Infine, la semplice presenza di Gran Bretagna e Spagna poneva di fatto una barriera ai sogni continentalisti statunitensi, che concepivano l’espansione come strumento fondamentale del rafforzamento della nuova nazione e come premessa della sua ascesa a grande potenza. Un’ascesa che, laddove coltivata e promossa con attenzione e sagacia, era considerata inevitabile, anche da leader statunitensi assai diversi per formazione e per orientamento. Gli Stati Uniti erano un «Ercole nella culla», affermò il futuro segretario del Tesoro, Alexander Hamilton; uno Stato capace nella sua inarrestabile avanzata di rimuovere «gli impedimenti» che storicamente avevano «ostruito il progresso della società verso la perfezione», proclamava nel 1783 il presidente dell’Università di Yale, il teologo Ezra Stiles; un paese capace di raggiungere quelli che Thomas Jefferson considerava essere «destini inaccessibili all’occhio mortale»5.

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Ambiziose visioni del futuro e ben più tangibili esigenze contingenti imponevano a loro volta di non fermarsi. L’espansione serviva per dare corso alla missione del paese e per garantire il pieno raggiungimento dell’indipendenza e, con essa, della libertà; ma serviva altresì per soddisfare gli interessi commerciali e agricoli, che invocavano l’acquisizione di nuove terre, per ottenere il pieno controllo del Mississippi e per garantire, attraverso la vendita disciplinata e ordinata delle terre, quelle risorse finanziarie indispensabili alla sopravvivenza del nuovo Stato. Coniugando interessi e ideali, l’espansionismo avrebbe costituito nei primi anni della repubblica il vero, comune denominatore capace di unire la classe dirigente statunitense. Non sarebbero mancate le polemiche e le controversie, destinate a inasprirsi nella prima metà dell’Ottocento. Ma l’idea che fosse necessario, invero vitale, allargare lo spazio repubblicano in Nordamerica raccolse un ampio sostegno trasversale, rivelandosi collante fondamentale per l’unità della nazione ed elemento essenziale dell’identità nazionale immaginata e costruita nei primi Stati Uniti. L’espansione prometteva simultaneamente di rafforzare il paese, preservandone l’indipendenza e consolidandone l’autonomia, e di tutelare i diritti individuali e le virtù repubblicane. Al contempo, essa avrebbe permesso di riaffermare la diversità, invero l’eccezionalità, di una nazione che proprio nell’espansione verificava la differenza tra il suo destino e quello degli Stati europei. Tra espansione e libertà, tra impero e repubblica, venne subito a determinarsi un’interdipendenza strettissima, ideologica, teorica e pratica. La «realizzazione del destino dell’America nella storia mondiale dipendeva» dalla sopravvivenza dell’Unione e questa dipendeva a sua volta dall’ampliamento, dal rafforzamento e dallo sviluppo: qualsiasi «alternativa» – ha sottolineato lo storico Peter Onuf – era semplicemente «impensabile»6. L’espansione andava però promossa, organizzata e giustificata: per garantirne la realizzazione e per evitare il caos e l’anarchia che sarebbero derivati in assenza di pianificazione e guida. Fu questo uno dei compiti fondamentali che lo Stato sorto con la guerra d’indipendenza dovette affrontare e uno dei temi che animarono il dibattito costituzionale del 1787, sul quale si concentrarono alcune delle riflessioni più acute e innovative di chi si batté per l’approvazione della Costituzione. L’incameramento delle terre occidentali, fino al Mississippi, fu ge-

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stito e organizzato attraverso due passaggi fondamentali: i provvedimenti del 1784-85 e la Northwest Ordinance del 1787. Essi definirono le modalità con cui i nuovi territori sarebbero entrati a far parte dell’Unione, procedendo a edificare delle barriere: flessibili e modificabili da un punto di vista geografico, ma rigide nel determinare inclusione ed esclusione, politica, sociale e razziale. Con la Northwest Ordinance si ebbe, infatti, una prima fondamentale trasformazione del territorio nord-occidentale: da terra di frontiera (borderland) – porosa, sincretica e meticcia – in una frontiera (border) vera e propria. Una frontiera inflessibile, esclusiva ed escludente7. Nel 1784-85 il Congresso approvò due primi provvedimenti con cui procedere alla definizione dello status delle terre occidentali, al loro rilevamento e alla loro successiva alienazione. A ciò contribuirono anche le pressioni spontanee dei pionieri che si muovevano verso ovest sotto la spinta di una crescita demografica destinata a intensificarsi negli anni successivi. In assenza d’intervento si rischiava di provocare una nuova serie di guerre con gli indiani o, ancor peggio, di permettere che le terre cadessero in mano a squatters inaffidabili e poco virtuosi, lontani dal modello del contadino indipendente che avrebbe dovuto costituire la spina dorsale della nuova repubblica8. Preceduti dalla cessione da parte della Virginia della sovranità sui territori occidentali (cui sarebbero seguite quelle di Massachusetts e Connecticut), i provvedimenti del 1784-85 anticiparono la filosofia che avrebbe contraddistinto la Northwest Ordinance. Il provvedimento del 1784 prevedeva che, superati determinati standard, i nuovi territori sarebbero entrati nell’Unione in condizioni di assoluta eguaglianza. Una volta popolati, sarebbero divenuti non colonie da amministrare, ma Stati a pieno titolo, costituendo così la prima realizzazione del peculiare impero vagheggiato da Jefferson. I provvedimenti incarnavano, infatti, lo spirito dell’imperialismo della libertà jeffersoniano. Un imperialismo il cui tratto caratterizzante era rappresentato dall’assenza di colonialismo, ovvero dalla convinzione che la fase coloniale avrebbe avuto natura transitoria e contingente; che essa si sarebbe rapidamente conclusa quando i territori occidentali avessero raggiunto le precondizioni basilari dell’autodeterminazione. La condizione di Stato sovrano – statehood – dei territori fu quindi immediatamente riconosciuta e fissata. Il provvedimento del 1784 prevedeva la formazione di sedici nuovi Stati, di cui ve-

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nivano definiti i confini. Raggiunti i 20.000 abitanti, questi Stati si sarebbero potuti dotare di una Costituzione. Quando il loro numero di abitanti avesse eguagliato quello dello Stato meno popolato dell’Unione (che all’epoca era il Delaware, con circa 35.000 abitanti) essi avrebbero potuto presentare domanda di ammissione all’Unione9. Al provvedimento del 1784 fece seguito la Land Ordinance del 1785. Essa prevedeva una mappatura del territorio nord-occidentale e una sua divisione in sezioni (di un miglio quadrato ciascuna) e in distretti amministrativi (townships), composti da 36 sezioni (36 miglia quadrate). Una volta rilevati e mappati, sezioni e distretti furono messi in vendita con una base d’asta, invero assai alta, di 1 dollaro per acro. La razionalità del disegno ben evidenziava sia la volontà geopolitica di stabilire un controllo sui nuovi territori sia quella di costruire una griglia razionale e perfetta capace non solo d’imporre ordine e disciplina a uno spazio altrimenti frastagliato e complesso, ma anche di riprodursi perfettamente e senza fine. Quella della Land Ordinance era la «visione di un gigantesco reticolo nazionale», che esprimeva «la passione per la ragione e la simmetria tipica della mentalità illuminista dei padri fondatori», ma che «presupponeva prima di tutto la propria stessa crescita». Il reticolo costituiva infatti «un modello infinitamente riproducibile, una macchina perfetta per l’espansione nazionale»10. Il terzo provvedimento fu la Northwest Ordinance del 1787. Adottato alla quasi unanimità dal Congresso, sotto la spinta fondamentale degli interessi di alcuni grandi speculatori, esso ridefinì i termini stabiliti nel provvedimento del 1784. Non ne alterò il significato e la filosofia di fondo, ma modificò tempi e stadi del processo che avrebbe portato i nuovi territori – da un numero minimo di tre a uno massimo di cinque – a divenire membri dell’Unione. Tale processo sarebbe consistito di tre fasi: nei primi insediamenti, il Congresso avrebbe inizialmente assunto funzioni dirette di governo, attraverso la nomina di un governatore; una volta raggiunti i 5.000 abitanti, i territori avrebbero potuto eleggere un organo legislativo; una volta raggiunti i 60.000 abitanti, sarebbe stato loro concesso di presentare istanza di ammissione all’Unione e, una volta accettata, divenire Stati, godendo degli stessi diritti dei tredici membri originari. La Ordinance prevedeva inoltre l’estensione della common law inglese nei territori nord-occidentali, vietava l’estensione della schiavitù, garan-

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tiva libertà di culto e imponeva che una sezione di ogni distretto fosse destinata alla costruzione di scuole pubbliche11. La Northwest Ordinance rifletteva le paure e le debolezze dei primi anni dell’indipendenza. Per questo anticipava di fatto la decisione di redigere una nuova Costituzione. Essa invertiva l’ordine di causalità previsto dai provvedimenti precedenti: fissando criteri più stringenti per la statehood, si prevedeva che l’insediamento e lo sviluppo avrebbero anticipato l’espansione della repubblica. Un’espansione, questa, che rimaneva però ineluttabile e anzi necessaria e che continuava ad avvenire in assenza di colonizzazione, ovvero attraverso l’imposizione ai nuovi territori di una fase coloniale più lunga di quella prevista nel 1784, ma comunque temporanea e limitata. Era un impero, questo, che s’ingrandiva e si riproduceva senza colonie e senza domini. Il suo ingrandimento territoriale comportava di per sé l’estensione della sfera della libertà. Ma era anche un impero che prevedeva da subito conquiste, rimozioni e ‘civilizzazioni’ forzate, i cui effetti sarebbero stati drammatici e radicali. Il razionalismo illuminista alla base della Land Ordinance del 1785 aveva una dimensione fortemente moderna. Il giovane Stato disciplinava lo spazio, al contempo impossessandosene e trasferendo ad esso le proprie norme, i propri diritti e le proprie istituzioni. La precisione cartografica del reticolo imposto sul territorio del NordOvest – incongruente e illogico nel suo non considerare l’eterogeneità topografica della regione – garantiva però la definizione cristallina di chi faceva e di chi non faceva parte della comunità politica in formazione: di chi stava dentro e fuori di essa. Attraverso la demarcazione del territorio si procedeva alla costituzione del popolo repubblicano. Il confine chiariva e precisava, rimovendo le impurità, i sincretismi e le ambiguità della terra di frontiera12. Ma oltre alla razionalizzazione e alla disciplina dello spazio, si assisteva anche alla sua celebrazione e appropriazione. Di nuovo, fu Thomas Jefferson a incarnare alla perfezione questo spirito: a trasformare l’appropriazione della terra nella realizzazione di un destino; a fare della natura, che si acquisiva e che si voleva controllare, uno dei vettori fondamentali del nazionalismo, espansionista ed eccezionalista, degli Stati Uniti. Il passato – riscoperto e inventato – a cui qualsiasi disegno nazionalista si deve affidare fu individuato da Jefferson nella natura: «La natura era l’America per Jefferson», ha sottolineato lo storico Charles Miller. «Il suo interesse nella natura e il suo uso del ter-

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mine» costituivano «una forma di nazionalismo. In Europa il sentimento nazionale» veniva «espresso attraverso una storia comune, una famiglia reale, una cultura, una letteratura. In America e per Jefferson esso era espresso attraverso, e in quanto, natura». L’espansione e la piena affermazione dell’esperimento statunitense rappresentavano la realizzazione di un ordine immanente alla natura nordamericana, il suo compimento e la sua esaltazione13. Ciò produceva un atteggiamento duplice, e non di rado ambivalente, nei confronti delle popolazioni native presenti in Nordamerica14. Da un lato esse rappresentavano un ordine già presente in quella natura che offriva il passato necessario al progetto nazionalista jeffersoniano. Se la democrazia – come sostenuto da Jefferson – era autoctona all’America, allora esisteva un continuum tra gli indiani americani e gli Stati Uniti. I primi offrivano infatti un «ponte [...] tra la natura americana e la nazione americana»: gli indiani americani – affermò Jefferson – avevano promosso una «resistenza» naturale «alle forme patriarcali e monarchiche», che anticipava quella repubblicana delle tredici colonie e che mostrava come quest’ultima realizzasse e portasse a compimento gli «impulsi della natura umana». Dall’altro, però, gli stessi indiani costituivano l’ostacolo che maggiormente si frapponeva al pieno dispiegamento dell’espansionismo continentalista statunitense. Erano premessa e antecedente dell’impero della libertà di Jefferson: «reliquie viventi di un passato antico», e comunque «americano», ma anche impedimento che ne ostacolava e rallentava la piena realizzazione15. Questa duplicità avrebbe caratterizzato da subito l’atteggiamento statunitense nei confronti della questione indiana. Esso oscillò tra il desiderio di incorporare e assorbire il proprio passato, portandolo gradualmente a uno stadio di sviluppo e di «civiltà» più avanzato, e la tentazione ricorrente di procedere alla sua rapida rimozione per soddisfare l’insaziabile desiderio di terre della nuova nazione. «Civilizzazione o morte per tutti i selvaggi americani», si proclamava in un brindisi nel terzo anniversario della dichiarazione d’indipendenza16. E civilizzazione o morte fu anche l’alternativa di fronte alla quale sarebbero state poste le diverse nazioni indiane. «I due principi sui quali deve essere fondata la nostra condotta verso gli indiani sono la giustizia e la paura», affermò Jefferson dopo la ratifica della Costituzione. «Non ci possono amare, dopo le ferite che abbiamo inferto loro e questo non ci lascia altra alternativa che la paura per im-

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pedire loro di attaccarci. Ma non dovremo mai perdere di vista la giustizia e, col tempo, potremo riacquistare la loro stima»17. Fin dal 1783, la politica degli Stati Uniti verso le nazioni indiane si mosse quindi tra gli estremi di un ‘espansionismo umanitario’, legalista e ‘civilizzatore’ – che presupponeva l’educazione, la cristianizzazione, la conversione dal nomadismo alla stanzialità contadina e la stipula di precisi contratti di acquisto – e l’azione di conquista e di sterminio. Da presidente, Jefferson esplicitò con chiarezza questa sua visione a un gruppo di indiani americani: se vi «civilizzerete» e trasformerete in piccoli agricoltori indipendenti – affermò Jefferson – «vi mescolerete con noi attraverso il matrimonio. Il vostro sangue scorrerà nelle nostre vene e si diffonderà con noi su questa grande terra»; ma se ciò non fosse avvenuto, il destino delle nazioni indiane del Nordamerica sarebbe stato quello di «precipitare nuovamente nella barbarie e nella miseria» e gli Stati Uniti sarebbero stati «obbligati a spingerle assieme alle bestie verso le montagne rocciose»18. A favore delle speranze integrazioniste e civilizzatrici erano addotte anche grossolane motivazioni razziali, ovvero veniva apertamente esplicitata la convinzione della continuità ‘naturale’ tra l’esperienza dei nativi americani e quella degli Stati Uniti. Diversamente dagli afro-americani, il cui destino era in larga misura segnato, gli indiani americani potevano aspirare a sollevarsi, «civilizzarsi» e integrarsi nella società statunitense: mentre sembrava che «la natura avesse» assolutamente negato all’uomo nero «anche solo la possibilità di acquisire la carnagione dei bianchi» – affermava il reverendo James Madison, presidente del College of William & Mary (da non confondersi con il futuro presidente) – ciò non era vero per gli indiani, al punto che «era addirittura giunta voce di un indiano nei pressi di Albany divenuto completamente bianco in pochi anni»19. La fine della guerra d’indipendenza pose in una difficile situazione le nazioni indiane che risiedevano nei territori nord-occidentali. Private dell’appoggio britannico, si trovarono a fronteggiare l’espansionismo statunitense senza poter fare leva su quel delicato equilibrio di potenza che avevano sfruttato abilmente nei decenni precedenti. I territori del Nord-Ovest erano stati ceduti agli Stati Uniti con il trattato di Parigi del 1783; in virtù di questo e della loro ostilità durante la guerra, esse furono poste di fronte all’obbligo di cedere come compensazione parte delle proprie terre e di accettare un nuovo confine. George Washington si dichiarò infatti certo che

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gli indiani si sarebbero «ritirati», tanto erano «pronti a vendere» le loro terre quanto lo erano gli statunitensi a comprarle: «L’estensione graduale dei nostri insediamenti – sostenne Washington – obbligherà i selvaggi ad arretrare come i lupi, essendo entrambi animali predatori, per quanto di forma differente»20. Tra il 1783 e il 1786, diverse nazioni indiane cedettero con tre trattati le loro rivendicazioni sui territori nord-occidentali, ottenendo formalmente in cambio delle terre dove vivere e cacciare. Questa prima fase fu però caratterizzata da una logica di conquista e di trasferimento delle popolazioni native. Una logica che in realtà rifletteva la debolezza della confederazione e che finì per alimentare l’ostilità e l’opposizione indiana. Le tensioni crescenti nei territori nordoccidentali, l’avanzata dei coloni, la nascita di nuove città, l’indisponibilità britannica ad abbandonare i propri forti e la ritrovata unità di molte nazioni indiane portarono alla ripresa delle ostilità nel 1786 e indussero a cambiare strategia. L’‘espansionismo umanitario’ e civilizzatore si sostituì temporaneamente alla conquista: l’art. 3 della Northwest Ordinance esplicitò questo cambiamento, laddove affermava che i territori indiani potevano essere acquisiti solo con il loro consenso. Permaneva l’obiettivo di espandersi verso ovest e di acquisire ulteriori territori; cambiavano però i metodi e le politiche rivelatisi inefficaci negli anni precedenti e si cominciava a dare corso al sogno jeffersoniano di civilizzare i progenitori della civiltà americana. Le terre andavano conquistate per espandere e diffondere l’impero della libertà. Gli indiani non dovevano essere sterminati, ma protetti (prima di tutto da loro stessi) ed educati, salvandone le tradizioni e le consuetudini per costruire un passato musealizzato, messo al servizio del disegno nazionalista ed eccezionalista degli Stati Uniti. La politica di rimozione lasciò temporaneamente il passo a quella di sottomissione e incorporazione. Come già in passato, l’inasprimento delle tensioni con la Gran Bretagna e una nuova ondata di guerre intraeuropee sembrò offrire alle nazioni indiane del Nordamerica un’opportunità per fermare l’avanzata degli Stati Uniti e della loro «civiltà». Una opportunità destinata a non durare e che non sarebbe mai più tornata21.

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2. Divisioni, fazioni, partiti Vi era un consenso ampio e trasversale nella leadership indipendentista sulla necessità di ingrandire la nuova nazione e di espandere un impero che «per molti aspetti» era già – asseriva Alexander Hamilton – «il più interessante del mondo»22. Espandendo la nazione e procedendo alla creazione di un impero continentale sarebbe stato possibile fronteggiare le sfide che attendevano lo Stato americano; si sarebbe acquisita quella sicurezza necessaria per garantire una vera indipendenza e, con essa, una piena libertà; si sarebbe contribuito a moltiplicare gli interessi presenti nel paese, prevenendo così accentramenti di poteri e nuovi dispotismi; ci si sarebbe dotati di quella forza e di quella «energia» indispensabili per entrare nella politica internazionale23. L’espansione e l’impero risultavano necessari per difendere il repubblicanesimo e per consolidare e diffondere la libertà. Portando inevitabilmente a un’interrelazione, spesso conflittuale, con altre nazioni, native ed europee, essi conferivano alla politica estera un’assoluta rilevanza e centralità: non solo «scudo della repubblica» e strumento della sua difesa, come avrebbe sostenuto Walter Lippmann, ma anche mezzo di affermazione della sua potenza e della sua missione24. Questo elemento fu esplicitato con chiarezza nella serie di articoli a sostegno della Costituzione scritti durante la discussione sulla sua ratifica da Alexander Hamilton, John Jay e James Madison: i Federalist Papers. Particolarmente originale e innovativa fu in particolare la riflessione di James Madison, che legò teoricamente espansione, libertà e repubblicanesimo, fornendo una giustificazione destinata a dominare i termini del dibattito politico e filosofico sul federalismo statunitense25. Nei Federalist, infatti, Madison contestò l’idea classica secondo la quale una repubblica, per poter sopravvivere ed evitare centralizzazioni di potere e tirannie delle maggioranze, doveva essere piccola e contenere una popolazione omogenea, da un punto di vista sociale, culturale e linguistico. E si sottrasse al dilemma posto da Montesquieu, per il quale una repubblica virtuosa sarebbe stata giocoforza limitata nelle dimensioni e nella popolazione, e quindi esposta al rischio della distruzione da parte di forze esterne. La soluzione – sostenne Madison (in particolare nel Federalist n. 10 e nel Fed-

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eralist n. 51) – stava proprio nell’allargamento della sfera repubblicana, nell’espansione dell’Unione, nella creazione di un impero. Le fazioni e le divisioni – affermò Madison – inquinavano la vita dell’Unione e ne mettevano a rischio la sopravvivenza. Vi erano due modi di «rimuovere le cause della faziosità»: distruggendo «la libertà che è condizione essenziale alla sua sopravvivenza» ovvero conferendo «a ogni cittadino le stesse opinioni, le stesse passioni e gli stessi interessi». Se «il primo rimedio» era «peggiore del male», «il secondo» era «impraticabile». «Esisteranno opinioni differenti fino a che la ragione umana non diverrà infallibile e fino a quando l’uomo sarà libero di esercitarla» – sostenne Madison; «le cause latenti della faziosità sono intrinseche alla natura dell’uomo [...] non possono essere curate [...] ma ne possono essere controllati gli effetti»: attraverso la sovranità duale propria di una federazione e, soprattutto, attraverso un ingrandimento territoriale della sfera repubblicana. Creando un impero decentralizzato che non colonizza, ma che ingrandendosi assorbe e dà rappresentanza a diversi interessi e convinzioni politiche, ideologiche e religiose. Una «repubblica di grande estensione territoriale», questa, «divisa in tanti interessi, parti e categorie di cittadini da far sì che i diritti degli individui o quelli della minoranza non potranno essere minacciati dalla maggioranza»26. L’espansionismo offriva quindi un comune denominatore capace di unire la leadership statunitense e di definirne le scelte politiche e costituzionali; un fattore di coesione destinato a svolgere un ruolo fondamentale nelle scelte compiute dalla giovane nazione nei suoi primi anni di vita27. Proprio la centralità della politica estera era però destinata a incrinare questa coesione e questa unità. Le tensioni intraeuropee continuavano a condizionare la vita politica in Nordamerica. Dopo l’indipendenza degli Stati Uniti, esse entrarono prepotentemente nel dibattito politico interno, esasperando proprio quelle divisioni e quella faziosità su cui si era soffermato Madison. Al rinnovarsi delle tensioni tra Francia e Gran Bretagna e all’avvicinarsi di una nuova, grande guerra in Europa corrispose la formazione di due fazioni politiche negli Stati Uniti: quella filobritannica e federalista, che avrebbe avuto in Alexander Hamilton il suo principale rappresentante, e quella accesamente filofrancese e repubblicana di James Madison e Thomas Jefferson. Una divisione, questa, in cui fattori politici, economici, sociali e culturali interagivano con la po-

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litica estera e che avrebbe portato alla nascita del primo sistema partitico della storia degli Stati Uniti. 2.1. «Pensiamo tutti in inglese»: Alexander Hamilton e la «special relationship» con la Gran Bretagna Alexander Hamilton rappresenta una delle figure più originali e controverse del primo periodo repubblicano. La sua infanzia difficile, la sua partecipazione in prima linea alla guerra d’indipendenza, la sua straordinaria e vorace curiosità intellettuale, le sue decisioni impopolari da segretario del Tesoro, il suo coraggio e la sua spregiudicatezza, la sua tragica morte in duello per mano dell’ex vicepresidente Aaron Burr: questi e altri elementi hanno concorso alla fama di Hamilton28. Figlio illegittimo di un mercante di poco successo («il marmocchio bastardo di un venditore ambulante scozzese», nella brutale definizione di John Adams), orfano di madre dall’età di undici anni, Hamilton trascorse la propria infanzia sulle isole caraibiche di St. Croix e di Nevis, nelle Indie Occidentali britanniche: «Un paradiso esotico per un’élite di coltivatori famosa per la stravaganza e l’edonismo – ha sottolineato John Harper – ma anche un ambiente vulnerabile e volatile, soggetto praticamente a ogni calamità: guerre, epidemie, siccità, tempeste mortali, eruzioni vulcaniche, rivolte di schiavi, boom economici e improvvise crisi»29. L’unico tra i padri fondatori ad avere origini così umili, Hamilton, rivelò una precocità e un’intelligenza straordinarie, finendo sotto la protezione di alcuni grandi commercianti locali, presso i quali cominciò a lavorare giovanissimo come contabile. Grazie al loro aiuto e a quello di parenti residenti a New York, Hamilton riuscì a lasciare le Indie Occidentali per studiare in Nordamerica. Si iscrisse al King’s College di New York (l’attuale Columbia) e cominciò una rapida e inarrestabile scalata sociale e politica: polemista indipendentista dalla penna sagace e tagliente; capitano d’artiglieria e aiutante di campo di Washington durante la guerra; avvocato, delegato alla convenzione di Philadelphia, sostenitore della causa costituzionale e autore assieme a Jay e Madison dei Federalist Papers; segretario del Tesoro ed eminenza grigia dell’amministrazione di George Washington. L’esperienza a St. Croix e Nevis lasciò un marchio indelebile su Hamilton e influenzò fortemente la sua visione politica, decisamente anglofila e antifrancese. Era la Gran Bretagna il modello di riferi-

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mento per Hamilton; il paese cui i neonati Stati Uniti si sarebbero dovuti ispirare e il paese cui essi erano – per natura e interesse – maggiormente legati. Almeno quattro elementi concorrevano all’anglofilia di Hamilton: la sua sensibilità verso gli interessi della classe mercantile, ritenuta la spina dorsale dell’economia di un paese; la sua ammirazione sia per il modello finanziario britannico sia per la stabilità e l’ordine garantito dalla monarchia britannica (così stridente con il caos e l’anarchia che avrebbe attraversato la Francia dopo il 1789); la consapevolezza della strettissima interdipendenza economica e commerciale tra gli Stati Uniti e l’ex madrepatria; il fascino verso il mondo aristocratico generato dall’«invidia e dall’ambizione» propria di un «gentiluomo britannico déclassé»30. Il ceto mercantile – nell’accezione estensiva tardo-settecentesca, che includeva svariate forme d’iniziativa imprenditoriale e non solo il commercio – rappresentava per Hamilton la fonte di forza e di ricchezza di una nazione. Quella hamiltoniana era una ‘visione mercantile’, a cui contribuiva sia la sua parabola personale sia la sua cultura economica e politica fortemente moderna e cosmopolita. Erano il commercio e l’industria a determinare la potenza di un paese ed erano i suoi esponenti ad avere – per sensibilità e necessità – una visione mondiale. Questi uomini andavano quindi sostenuti e cooptati, abbracciando gli strumenti prodotti in Gran Bretagna dalla rivoluzione finanziaria di fine Seicento, che aveva portato alla creazione di un debito pubblico consolidato e all’istituzione di una banca nazionale. Strumenti, questi, attraverso cui dotare il paese di un capitale flottante indispensabile per lo sviluppo economico; e strumenti che avrebbero legato il ceto mercantile alle sorti della nazione, garantendo la sua sopravvivenza e crescita. L’adozione del modello britannico poteva però avvenire solo instaurando con Londra buoni rapporti diplomatici e superando acredini e rancori della guerra d’indipendenza. L’economia degli Stati Uniti e le sorti del ceto mercantile dipendevano dal commercio con la Gran Bretagna: quasi il 90% dei manufatti importati dagli Stati Uniti tra il 1787 e il 1790 proveniva dalle isole britanniche e i tentativi di sostituirlo con prodotti francesi si rivelarono impraticabili. Le finanze statunitensi dipendevano primariamente dai dazi sulle importazioni: bloccare o ridurre i traffici commerciali con Londra significava perdere una fonte essenziale per il mantenimento e la sopravvivenza dello Stato. Solo la Gran Bretagna disponeva dei capi-

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tali necessari allo sviluppo economico degli Stati Uniti e la credibilità finanziaria del paese, conquistabile anche assumendo e pagando i debiti contratti in passato, era premessa indispensabile per poter attrarre tali capitali. Infine, la Gran Bretagna, che controllava il Canada e manteneva stretti rapporti con le nazioni indiane, era l’unica potenza che poteva davvero mettere a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. Tutti questi fattori rendevano una qualche forma di accomodamento doppiamente necessaria31. Interessi, ideali e identità concorrevano ad alimentare e talora esasperare l’anglofilia hamiltoniana. Ad essa contribuiva anche un elemento derivato e negativo: una francofobia cui non erano estranee le origini ugonotte della madre di Hamilton, ma che originava primariamente dalla convinzione che la Francia volesse mantenere gli Stati Uniti in una condizione di debolezza e dipendenza. La monarchia britannica rappresentava quindi la vera fonte d’ispirazione per Hamilton: un modello di come coniugare «libertà interna e impero», potenza e diritti. «Ho sempre preferito un legame con voi rispetto a quello con qualsiasi altro paese – avrebbe detto Hamilton a George Beckwith, l’aiutante di campo del governatore generale del Canada, Lord Dorchester – noi pensiamo in inglese [...] abbiamo gli stessi pregiudizi e le stesse predilezioni»32. 2.2. «La nostra repubblica sorella»: James Madison, Thomas Jefferson e la Francia L’elemento derivato era ancora più marcato nella posizione della fazione filofrancese, capeggiata da Thomas Jefferson e James Madison. Il catalizzatore, in questo caso, era infatti rappresentato da un’ostilità profonda e viscerale nei confronti della Gran Bretagna. Un’anglofobia che avrebbe connotato l’operato di Jefferson come segretario di Stato nelle prime amministrazioni di George Washington, ma che aveva radici assai più antiche e trovava in James Madison il suo esponente più capace e inflessibile. Rappresentante della Virginia, della sua economia di piantagione centrata sulla coltivazione e l’esportazione del tabacco, dei suoi stili di vita bizzarri e talvolta megalomani, Madison incarnava come pochi altri una combinazione di spirito ‘virginiano’ e nazionalismo indipendentista, che lo rendeva naturalmente predisposto all’ostilità nei confronti dell’ex madrepatria. Figlio di un grande coltivatore della Orange County, nell’area pedemontana della Virginia, Madison aveva sperimentato direttamente le forme di una dipendenza

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economica e creditizia che si era fatta molto forte negli anni Sessanta e Settanta del Settecento. La Virginia aveva una precisa collocazione nell’economia imperiale e dipendeva dal credito e dall’intermediazione commerciale dei mercanti britannici. Era, quella della Virginia, una posizione in larga misura passiva, che la rendeva particolarmente esposta alle congiunture economiche e alle fluttuazioni del prezzo del tabacco. La drastica riduzione di quest’ultimo nel decennio precedente la Dichiarazione d’indipendenza aveva largamente accresciuto la dipendenza finanziaria dei grandi coltivatori virginiani. Nel 1775 la Virginia era indebitata verso la madrepatria più di qualsiasi altra colonia. A determinate condizioni, il debito costituiva, allora come oggi, «un fatto della vita e un male necessario»; ma quelle condizioni erano state superate, al punto da minacciare gli stili di vita (e con essi l’identità, l’indipendenza e l’amor proprio) dei grandi piantatori della Virginia e da indurli a individuare un colpevole (e un capro espiatorio) nei mercanti britannici e più in generale nelle modalità di funzionamento dell’economia imperiale. I debiti – sostenne Thomas Jefferson, che mai riuscì a vivere senza di essi – «venivano ereditati di padre in figlio, per molte generazioni, così da fare dei piantatori una sorta di proprietà annessa alle grandi case mercantili londinesi»33. La guerra d’indipendenza era stata combattuta anche per sottrarsi a questa dipendenza e per riguadagnare la libertà perduta e aveva contribuito ad alimentare l’anglofobia virginiana. Nella fase finale del conflitto, le truppe britanniche avevano infatti occupato la Virginia, distruggendone i raccolti, eliminandone gran parte del bestiame e dando alle fiamme la capitale, Richmond. La conquista dell’indipendenza non aveva però posto fine al legame commerciale e creditizio e alla subordinazione che ne derivava. I rapporti commerciali tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si erano anzi intensificati, anche perché gli accordi del 1783 prevedevano la restituzione da parte statunitense dei crediti britannici inevasi e delle proprietà confiscate ai lealisti durante il conflitto. Tutto ciò concorse ad alimentare una «sindrome virginiana»: il timore che quella conquistata non fosse una vera indipendenza; che la «lotta per l’indipendenza dalle spire economiche della madrepatria continuasse anche dopo il 1783»34. James Madison assorbì questa sindrome e vi diede voce politica, chiedendo l’adozione di misure doganali discriminatorie nei con-

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fronti della Gran Bretagna e un riorientamento dei traffici commerciali che, solo, avrebbe garantito una vera indipendenza. Il «commercio tra l’America e la Gran Bretagna» – sostenne Madison – eccedeva «ciò che poteva essere considerato come il suo limite naturale»: Londra aveva «ammanettato commercialmente» gli Stati Uniti, giungendo «molto vicina a sconfiggere l’obiettivo della loro indipendenza». Parallelamente, Madison avversò le proposte del segretario del Tesoro, Hamilton, in particolare sul debito pubblico35. Secondo Hamilton, Madison era «un uomo acuto, ma con poca familiarità con il mondo»36. Un giudizio secco, questo, che conteneva però un fondo di verità. Spinto dal padre, Madison si era gettato a capofitto negli studi, leggendo i classici e apprendendo il greco e il latino così come il francese e lo spagnolo. Aveva rinunciato a una comoda istruzione al College of William & Mary, in Virginia, per studiare nel più prestigioso College of New Jersey (l’attuale Princeton), dove aveva completato nella metà del tempo un percorso di studi quadriennale, ricavandone non solo un’istruzione, ma anche un pesante esaurimento nervoso. A Princeton era stato introdotto da John Witherspoon all’illuminismo scozzese e aveva scoperto Voltaire, Locke e Rousseau. Era stato successivamente membro del Congresso continentale dal 1779 al 1783 e della convenzione di Philadelphia. Le sue insuperate riflessioni nei Federalist evidenziavano una capacità di innovazione e una propensione al dialogo con la riflessione coeva che lo rendevano intellettualmente aperto e cosmopolita quanto e più di Hamilton. Eppure, rimaneva in Madison un fondo virginiano, premoderno, ad alto contenuto morale, che ne condizionava la visione, in particolare di politica estera. L’anglofobia e l’esperienza della Virginia s’intrecciavano con la riaffermazione di una concezione classica della virtù repubblicana, che rigettava la corruzione del commercio e i vincoli del debito. Se quest’ultimo era, per Hamilton, lo strumento di rafforzamento della nazione e quindi di acquisizione di una vera autonomia, per Madison (e Jefferson) esso costituiva la forma ultima di obbligo e di dipendenza: la catena che tornava rapidamente a legare gli Stati Uniti, a impedire il pieno raggiungimento della libertà, a bloccare sul nascere il compimento della missione. Vi era, sì, un ampio consenso sull’impero e la necessità dell’espansione, ma era un consenso che originava da premesse non condivise: parte di un processo di rafforzamento del paese e di estensione della sua rete commerciale, per Hamilton; veicolo per raffor-

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zare la natura agraria, ideologica e sociale, della repubblica statunitense per Madison e Jefferson. La rivoluzione francese, la nascita di una seconda grande repubblica e soprattutto la nuova ondata di guerre intraeuropee acuirono queste divisioni e concorsero a spaccare l’amministrazione Washington. «Preferirei vedere metà della terra devastata» piuttosto che il fallimento della rivoluzione francese, affermò Jefferson; per il segretario di Stato, «la libertà del mondo intero» dipendeva infatti da quanto stava avvenendo in Francia. Hamilton accusò Jefferson e Madison di avere un «attaccamento femmineo (womanish) nei confronti della Francia e un risentimento femmineo verso la Gran Bretagna». Altri fattori si sommavano così a quelli che già concorrevano a dividere paese e mondo politico su quale atteggiamento si dovesse tenere nei confronti della Gran Bretagna e su quale corso avrebbe dovuto assumere la politica estera degli Stati Uniti37. 2.3. Il trattato di Jay Fatto salvo per due brevi interruzioni, tra il 1792 e il 1815 l’Europa fu lacerata da uno dei conflitti più lunghi della sua storia. Un conflitto che avrebbe trasformato gli assetti geopolitici europei, il sistema delle relazioni internazionali e il modo stesso di condurre una guerra; e un conflitto destinato ad avere profonde ripercussioni sugli Stati Uniti, sulla loro politica estera così come sulla loro situazione interna. Una guerra in Europa era destinata a coinvolgere, direttamente e indirettamente, la giovane nazione statunitense: perché proprio rispetto alla questione europea erano emerse profonde divisioni nella leadership statunitense così come nell’opinione pubblica del paese; perché rimanevano ancora molti nodi irrisolti nei rapporti con la Gran Bretagna; perché gli Stati Uniti erano pur sempre legati alla Francia da un’alleanza, quella del 1778, assai impegnativa e vincolante; perché, soprattutto, una guerra in Europa avrebbe inevitabilmente colpito il commercio degli USA verso il vecchio continente. Diversamente da quanto sostenuto da Paine, la capacità degli Stati Uniti di commerciare liberamente in tempi di guerra altrui non era legata solo alla possibilità di spezzare il legame imperiale con la Gran Bretagna e di assumere una posizione di neutralità38. Negli Stati Uniti, anglofilia e anglofobia antedatavano la grande crisi europea di fine Settecento e rendevano il paese particolarmen-

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te predisposto a venir lacerato da un rigurgito delle tensioni europee e dell’antagonismo franco-britannico. Ma ad acuire le difficoltà e inasprire le tensioni contribuivano anche le molte questioni irrisolte nelle relazioni tra la nuova nazione e gli avversari (Gran Bretagna) e amici (Francia) della guerra d’indipendenza. Con la Gran Bretagna, i rapporti rimanevano condizionati da vari fattori e dalla sostanziale volubilità della politica britannica verso le sue ex colonie, che oscillava tra il disinteresse, il punitivismo e la volontà di giungere a un accomodamento facilitato dall’oggettiva interdipendenza commerciale e finanziaria. Le questioni pendenti tra i due paesi erano tre, tra loro strettamente legate. In primo luogo, la volontà statunitense di non venire esclusi dai traffici assai profittevoli con le Indie Occidentali britanniche (le più importanti delle quali erano le Barbados e la Giamaica). In secondo luogo, le fortificazioni che la Gran Bretagna ancora controllava nel territorio del Nord-Ovest, di cui gli USA chiedevano l’abbandono per poter dar corso ai propri progetti imperiali e continentali e per sottrarre alle nazioni indiane un potenziale appoggio e sostegno. Terzo e ultimo, la restituzione da parte statunitense dei debiti contratti con l’ex madrepatria e delle proprietà confiscate ai coloni lealisti durante la guerra d’indipendenza39. Queste tre problematiche s’inserivano nel contesto di una relazione che rimaneva profondamente asimmetrica in termini sia di rapporti di forza sia d’interessi: oltre a essere immensamente superiore, la Gran Bretagna era assai più importante per gli Stati Uniti di quanto non fosse il contrario. Il fortissimo interesse statunitense a giungere a una qualche soluzione dei problemi pendenti con Londra era solo in minima misura reciprocato da quest’ultima. Solo alla fine del 1791 la Gran Bretagna si premurò d’inviare una propria rappresentanza diplomatica negli USA. Per alcuni anni tale rappresentanza operò in assenza di indicazioni precise e coerenti e fu costretta a interagire con una classe politica dove l’anglofobia era sentimento diffuso e radicato. Gli Stati Uniti rimasero a lungo meta poco ambita per i giovani diplomatici britannici. Il secondo ministro di Londra negli Stati Uniti, Robert Liston, lo esplicitò con franchezza poco prima di imbarcarsi per Philadelphia: «A questo stadio della mia vita, preferirei andare in qualsiasi altro posto. Il clima severo, il duro lavoro e l’essere circondato da yankee dottrinari e maldisposti mi darà probabilmente un colpo decisivo in un anno o due»40.

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Non era però solo la disinteressata ostilità britannica a complicare le relazioni anglo-statunitensi. Il governo degli Stati Uniti si trovò ad avere due visioni, e talora due politiche, nei confronti della Gran Bretagna: quella più conciliante del segretario del Tesoro, Hamilton, e quella decisamente ostile del segretario di Stato, Jefferson. Due politiche che godevano di una base indipendente di consenso, nel paese e al Congresso. E due politiche tra le quali il presidente Washington, eletto nel 1789, dovette spesso mediare, anche se non di rado fu la linea anglofila, federalista e certo maggiormente realista di Hamilton a prevalere. Laddove Hamilton premeva per una soluzione consensuale, fatta anche di concessioni alla Gran Bretagna, pur di ottenere i crediti e facilitare il commercio, Jefferson riproponeva l’idea, a lui cara, di ricorrere alla coercizione commerciale per costringere la Gran Bretagna ad accettare il punto di vista statunitense. Sia la posizione di Hamilton sia quella di Jefferson evidenziavano il nesso strettissimo che si era venuto a determinare tra politica fiscale e commerciale da un lato e politica estera dall’altro. Un nesso che legava strettamente la dimensione interna e quella internazionale. Entrambe le posizioni non erano peraltro aliene da errori di lettura e illusioni circa la loro praticabilità: così Jefferson sopravvalutava grandemente l’effettiva capacità coercitiva delle merci e dei mercati statunitensi, mentre Hamilton sottovalutava sia le resistenze interne alla sua politica sia l’effettivo interesse britannico ad accettare un qualche compromesso41. All’incapacità di giungere a un accomodamento con la Gran Bretagna corrispondeva l’impossibilità di dare pieno corso al legame con la Francia, trasformandolo in un’alleanza organica e duratura. La relazione franco-statunitense era minata da un difetto d’origine. Si trattava di un’alleanza negativa, il cui fattore unico di coesione era rappresentato dall’ostilità nei confronti della Gran Bretagna; un cemento tanto forte quanto incapace di fornire contenuti politici positivi. I tentativi di modificare questo stato di cose, trasformando la relazione tra i due paesi, si rivelarono impraticabili. Anche in virtù dei forti interessi che la sostenevano, l’interdipendenza commerciale e finanziaria con la Gran Bretagna non fu scalfita dagli sforzi di Madison di indebolirla a favore di un nuovo rapporto con la Francia. Le proposte di Madison in materia di politica doganale furono bloccate. I tentativi di sostituire i prodotti britannici con quelli francesi fallirono. La struttura economica e manifatturiera della Francia non

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le permetteva di venire trasformata in tempi rapidi in un partner naturale degli Stati Uniti. Tra il 1784 e il 1790 i prodotti francesi importati negli USA non superarono il 5% di quelli britannici e consistettero primariamente di beni di lusso (vino, brandy, frutta mediterranea, costosi abiti femminili). I profitti tratti dalle esportazioni statunitensi in Francia erano quasi sempre riutilizzati per l’acquisto di manufatti inglesi42. Questa situazione sembrò mutare radicalmente con lo scoppio della rivoluzione francese. Salutata con entusiasmo negli Stati Uniti, essa parve offrire un sostrato ideologico e ideale capace di trasformare l’alleanza franco-statunitense. Letto attraverso prismi deformanti e con categorie molto americanocentriche, l’Ottantanove francese fu vissuto negli Stati Uniti come la legittimazione del percorso iniziato con la rivoluzione americana: il secondo passaggio di un processo di cambiamento mondiale intrapreso nel 1775, oltre che un fondamentale ampliamento dello spazio della libertà e la piena affermazione di un «movimento rivoluzionario transnazionale»43. La posizione americana esprimeva peraltro una contraddizione destinata a consolidarsi negli anni e nei decenni successivi: la tendenza, tutta eccezionalista, a misurare le rivoluzioni altrui sulla base della loro aderenza al modello americano. Un modello che veniva rappresentato simultaneamente come unico e definitivo e come potenzialmente riproducibile. Deviazioni da tale modello, e tentativi di modificarlo, lo avrebbero contaminato, determinando giocoforza un’involuzione dispotica, autoritaria e quindi antiamericana44. E di deviazioni, radicali, dal precedente americano ve ne furono molte negli anni turbolenti della rivoluzione francese. La svolta del 1792-93, la proclamazione della repubblica, la decapitazione di Luigi XVI e la decisione francese di muovere guerra a Gran Bretagna e Olanda alterò profondamente le percezioni statunitensi di ciò che avveniva in Francia e indebolì le speranze di poter legare più strettamente Francia e Stati Uniti. Più di tutto, questi eventi concorsero a polarizzare il quadro politico interno, ampliando ed esasperando linee di frattura che già esistevano. Se Jefferson giustificò e difese tenacemente quanto stava accadendo («mai un premio così importante è stato conquistato con poco sangue», affermò), Hamilton e il fronte federalista assunsero una posizione assai diversa: per il segretario del Tesoro la differenza tra «la causa della Francia e quella degli Stati Uniti» non era «meno grande di quella tra la libertà e la li-

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cenziosità»; lo stesso presidente Washington deplorò l’incapacità francese di trovare una via mediana tra «l’oppressione dispotica e la dissolutezza»45. Non solo la rivoluzione francese amplificava le divisioni politiche interne, ma la nuova guerra tra Francia e Gran Bretagna imponeva scelte difficili e compromessi fragili. Molti fattori sembravano spingere gli Stati Uniti verso la Francia, sì da indurre il governo di Parigi a ritenere un aiuto statunitense tanto inevitabile quanto dovuto: la francofilia di ampi settori del mondo politico e dell’opinione pubblica degli Stati Uniti; la posizione del segretario di Stato Jefferson; i termini dell’alleanza del 1778, che era ancora in vigore e che prevedeva il sostegno americano alla Francia in caso di attacco ai suoi possedimenti coloniali nelle Indie Occidentali (Martinica, Guadalupa e parte dell’isola di Santo Domingo). A rafforzare la posizione francese contribuivano inoltre alcuni comportamenti britannici, tra i quali spiccava il sostegno alle tribù indiane del Nord-Ovest, che avevano promosso una serie di azioni militari culminate nel massacro della forza di spedizione del generale Arthur St. Clair nel novembre 179146. Eppure gli Stati Uniti non si schierarono nella nuova guerra europea. Optarono invece per una politica di neutralità congruente con la loro ideologia di politica estera e con i loro interessi contingenti, reattiva ai comportamenti (e agli errori) francesi e britannici e, soprattutto, destinata a costituire un precedente che avrebbe condizionato a lungo l’atteggiamento statunitense sulla scena internazionale. Nell’aprile del 1793, George Washington emise un proclama di neutralità. Gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti nel conflitto in corso e avrebbero adottato «con sincerità e buona fede [...] una condotta amichevole e imparziale verso le potenze belligeranti»47. Il proclama rappresentò la logica espressione di una filosofia politica, di una realistica valutazione delle proprie debolezze e del tentativo di raggiungere un obiettivo ben preciso: quello di continuare a commerciare (e prosperare) anche in epoca di guerre altrui. Ma fu soprattutto un compromesso tra due visioni diverse, quella filofrancese di Jefferson e dei repubblicani e quella filobritannica di Hamilton e dei federalisti. Entrambe le parti ritenevano, infatti, che la potenza esterna di riferimento – Francia o Gran Bretagna – avrebbe tratto i maggiori benefici dalla scelta. La neutralità – una «neutralità virile» (manly neutrality), secondo Jefferson – avrebbe per-

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messo di fornire le necessarie risorse materiali a una Francia affamata e in difficoltà; avrebbe invece costituito il primo passo dell’abbandono dell’alleanza con la Francia e delle sue clausole stringenti, per Hamilton48. Le azioni francesi e britanniche contribuirono in modo rilevante a rendere il neutralismo statunitense più coerente e meno incline a faziosità e partigianeria. Sempre nell’aprile 1793, la Francia inviò un nuovo rappresentante diplomatico negli Stati Uniti, Edmond-Charles Gênet, il «cittadino Gênet». Trentenne, tanto fluente in inglese quanto a digiuno di pratiche diplomatiche, Gênet aveva il compito di negoziare un nuovo trattato tra i due paesi, che chiudesse i rispettivi porti alle merci britanniche, abolisse le tariffe sul peso delle merci scambiate tra Francia e Stati Uniti e rinnovasse la garanzia americana alle Indie Occidentali francesi in cambio dell’apertura dei mercati coloniali della Francia ai prodotti americani. L’arrivo di Gênet fu accolto con entusiasmo dal fronte repubblicano e dai sostenitori della repubblica francese: «Vivo nel mezzo di una festa perpetua – affermò Gênet – e ricevo inviti da ogni parte del continente»49. Gênet non si limitò a cercare di raggiungere i propri obiettivi, di per sé ambiziosi e difficili, ma promosse una serie d’iniziative che finirono per suscitare l’irritazione del governo statunitense e misero in difficoltà anche i più tenaci sostenitori della causa francese: chiese agli Stati Uniti di saldare i debiti ancora pendenti con la Francia (circa 5 milioni e mezzo di dollari); avviò piani stravaganti, miranti alla conquista dei possedimenti nord-americani di Gran Bretagna e Spagna; rivendicò il diritto della Francia di utilizzare i porti statunitensi per trasportarvi le navi britanniche conquistate sull’Atlantico, riarmarle e utilizzarle come navi pirata nella guerra in corso. Le azioni di Gênet costituivano un’evidente violazione della sovranità statunitense e rischiavano di trascinare gli Stati Uniti nel conflitto. Il culmine fu raggiunto quando la Marina francese catturò una nave mercantile britannica, la Little Sarah, la trasportò nel porto di Philadelphia e, con l’aiuto di Gênet e dopo averla opportunamente ribattezzata La Petite Démocrate, la riarmò come nave corsara. Invitato alla moderazione, Gênet espresse l’intenzione di appellarsi direttamente al popolo e al Congresso, nella convinzione che il presidente Washington non ne rispettasse i voleri e che il potere ultimo risiedesse nell’organo legislativo. Hamilton intravide l’opportunità di colpire duramente il fronte filofrancese; Washington espresse

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sconcerto e irritazione e si chiese retoricamente se il «ministro della repubblica francese» potesse «sfidare impunemente» le leggi del governo americano; Jefferson confessò a Madison che «mai vi era stata una nomina più sciagurata» di quella «testa calda» di Gênet50. Tutti i membri del gabinetto furono d’accordo nel dichiarare Gênet «persona non grata» e nel chiedere al governo francese che egli venisse richiamato in patria. Nell’autunno la richiesta fu accettata dal nuovo Comitato di salute pubblica formatosi a Parigi51. Le azioni di Gênet, combinate con il caos e la violenza che laceravano la Francia e l’avvento del Terrore di Robespierre, ridussero il sostegno popolare per la rivoluzione francese e per l’alleanza franco-statunitense. Non ne conseguì però una riduzione dell’anglofobia, alla quale contribuivano in modo decisivo le azioni e le scelte britanniche. Londra non credeva che gli Stati Uniti avrebbero adottato una posizione di vera neutralità; una qualche forma di sostegno e aiuto alla Francia era ritenuta inevitabile. La crescita esponenziale del commercio statunitense nei primi mesi di guerra rendeva inoltre evidenti i vantaggi che gli USA stavano traendo dal conflitto. Gli USA beneficiavano dei blocchi navali delle potenze belligeranti e di una definizione estensiva dei diritti dei neutrali – secondo la quale «navi libere rendevano le merci libere» (free ships makes free goods) – che consentiva loro ampie possibilità di commercio in tempo di guerra e limitava al minimo i beni non commerciabili. Le navi statunitensi sostituivano quelle britanniche nel trasporto delle merci; la cantieristica statunitense cresceva di pari passo e costituiva il settore fondamentale dell’industria statunitense; i prodotti statunitensi trovavano nuovi mercati. Alla fine del decennio le esportazioni statunitensi avrebbero costituito il 3,2% di quelle mondiali, a fronte di una popolazione che non superava lo 0,5%; il commercio con l’estero era assai più importante per gli USA che per l’Europa (il doppio, secondo le stime di Paul Bairoch); tra il 1793, anno del proclama di neutralità, e il 1800, il prodotto interno lordo degli Stati Uniti crebbe a una media del 4,4% annuo52. Per la Gran Bretagna riconoscere i diritti dei neutrali, nell’accezione ampia rivendicata dagli USA e da altre potenze minori, voleva dire rinunciare a uno degli elementi fondamentali sui quali poggiava il suo primato. Per questo, nel corso del 1793 Londra adottò due provvedimenti (orders in Council) che colpivano il commercio statunitense. Il primo proibiva la vendita di grano e farina alla Francia: le

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navi che avessero trasportato questi prodotti sarebbero state dirottate verso porti britannici e i loro carichi sarebbero stati indennizzati a prezzi definiti. Il secondo order in Council del novembre 1793 era assai più draconiano: esso prevedeva la confisca di tutti i carichi in entrata e in uscita dalle Indie Occidentali francesi. Di fatto, esso costituiva il blocco totale di una delle fonti più profittevoli per il commercio statunitense53. Come già in passato, questi provvedimenti non furono applicati in modo coerente. Il secondo order fu presto revocato con un provvedimento meno rigido e discriminatorio nei confronti degli Stati Uniti. Essi però s’intrecciarono con la diffusa ostilità nei confronti della Gran Bretagna, con il sequestro di numerose imbarcazioni americane e con le tensioni nel Nord-Ovest, a cui non era estranea la complicità del governo britannico con le nazioni indiane, nello stimolare una recrudescenza di pulsioni anglofobe e nel portare i due paesi molto vicini alla guerra. Una guerra potenzialmente catastrofica, ritenevano molti federalisti; ma una guerra che spaventava anche Jefferson e i repubblicani: per i suoi costi e, soprattutto, per il rischio che essa avrebbe obbligato ad accettare la creazione di un apparato militare federale54. Per quanto irritato dalle provocazioni britanniche, il governo statunitense ritenne necessario trattare con la Gran Bretagna. Washington affidò a John Jay il compito di negoziare un accordo con l’ex madrepatria. Jay era un federalista convinto, ostile alla Francia e favorevole a una riconciliazione, solida e duratura, con la Gran Bretagna. Per questo la sua nomina, e lo scopo stesso della missione, furono osteggiati subito dal fronte repubblicano55. Jay aveva il compito di evitare la guerra e risolvere i numerosi elementi di contenzioso che ancora rimanevano tra le due parti. Tra le varie condizioni poste dall’amministrazione per il raggiungimento di un accordo, due sole erano fondamentali: evitare che contenesse violazioni esplicite e dirette del patto del 1778 con la Francia e garantire agli Stati Uniti l’accesso ai mercati delle Indie Occidentali britanniche. Pur in una relazione assai squilibrata e asimmetrica, anche la Gran Bretagna era favorevole a un accordo. Londra non aveva alcun interesse ad aprire un ulteriore teatro di guerra. Per questo, era disponibile a evacuare le fortificazioni nel Nord-Ovest e a compensare gli Stati Uniti per le navi e i carichi requisiti nei mesi precedenti. L’accordo era a portata di mano, anche se richiese alcuni mesi prima

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di essere ratificato alla fine del 1794. I suoi contenuti non rispecchiavano però appieno gli obiettivi statunitensi e, soprattutto, esponevano l’amministrazione e Jay agli aspri attacchi del fronte repubblicano filofrancese. Con il trattato – ben presto noto come trattato di Jay – Gran Bretagna e Stati Uniti si accordavano su tre questioni fondamentali: la creazione di una commissione di arbitrato a cui sottoporre le richieste statunitensi d’indennizzo per le confische britanniche sui mari caraibici (oltre che la risoluzione di alcune dispute territoriali ancora pendenti e la definizione dei crediti prerivoluzionari dovuti ai mercanti britannici); l’abbandono britannico delle fortificazioni nei territori del Nord-Ovest; l’apertura agli Stati Uniti di mercati britannici prima inaccessibili, in particolare nelle Indie Orientali (l’India). Sotto la pressione dei negoziati, inoltre, la Spagna acconsentiva a sua volta a firmare un importante trattato, che garantiva agli Stati Uniti il diritto vitale di navigazione sul Mississippi e la possibilità di deposito presso il porto di New Orleans e impegnava la Spagna ad abbandonare le sue rivendicazioni su una parte del territorio sud-occidentale fino al Mississippi (a nord dell’attuale Florida)56. Il trattato di Jay risolveva alcune delle principali fonti di attrito tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, facilitava l’espansione verso ovest ed evitava una guerra che avrebbe messo a grave rischio la giovane repubblica. Ma l’accordo conteneva anche clausole svantaggiose per gli Stati Uniti e intollerabili per i repubblicani. Non accettava la visione estensiva e ampia dei diritti dei neutrali, richiesta dagli USA, proibiva forme di discriminazione commerciale quali quelle più volte proposte da Madison e Jefferson e imponeva condizioni assai vincolanti al commercio statunitense con le Indie Occidentali britanniche: alcune importanti merci (cotone, zucchero, caffè, melassa, cacao) non potevano essere riesportate da porti statunitensi e su navi statunitensi (un traffico, questo, straordinariamente lucroso per i mercanti americani), mentre l’accesso alle Indie Occidentali era concesso solo a imbarcazioni statunitensi di tonnellaggio limitato, per un periodo di due anni. In virtù di ciò, l’accordo evitava una guerra, ma esasperava le tensioni interne e la divisione bipartitica che queste catalizzavano. Politica estera e politica interna s’intrecciavano e condizionavano reciprocamente. Il rischio che esse minassero la coesione e l’unità del paese fu uno dei fattori fondamentali che indussero il presidente

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Washington a redigere un discorso di commiato, destinato a diventare negli anni uno dei testi più citati della storia degli Stati Uniti57.

3. Testi sacri 3: il «Farewell Address» di George Washington La notizia della firma del trattato di Jay, sottolineò Madison, si «diffuse con velocità elettrica in ogni parte dell’Unione». Nessuno, Washington incluso, si dichiarò soddisfatto dei termini dell’accordo. Per il fronte federalista si trattava però di un male necessario: un compromesso al ribasso, che poneva comunque le fondamenta per il graduale e pieno dispiegamento del potenziale degli Stati Uniti. Essi – affermava Hamilton – erano solo «l’embrione di un grande impero» e abbisognavano di almeno un decennio di pace e di prosperità: una guerra avrebbe invece finito per distruggere «il commercio, la capacità di navigazione e il capitale mercantile» del paese, soffocando sul nascere il germoglio imperiale prossimo a fiorire58. La reazione di Jefferson e del fronte antibritannico fu ovviamente diversa. I repubblicani intravidero nell’ampia avversione all’accordo la possibilità di trarre un importante vantaggio politico ed elettorale. Soprattutto, considerarono il trattato di Jay un vero e proprio tradimento: dell’indipendenza; della volontà popolare; dell’alleato francese; degli interessi del paese. Effigi di Jay, «l’arcitraditore», furono bruciate in molte piazze. Hamilton venne colpito al volto da una pietra durante un comizio in difesa del trattato. La stessa abitazione di Washington a Philadelphia fu circondata per alcuni giorni da militanti repubblicani, che chiedevano a gran voce la guerra contro la Gran Bretagna. La posizione del governo statunitense, affermò allora il presidente, poteva essere comparata a «quella di una nave tra le rocce di Scilla e Cariddi». Per Jefferson, il presidente stesso era ora da includere tra coloro «a cui la meretrice Inghilterra aveva svuotato la testa»: il trattato di Jay altro non era che un accordo tra Londra e gli Anglomen statunitensi. Dalla Francia, Paine, miracolosamente sopravvissuto alla ghigliottina giacobina, tuonò contro Washington «traditore nell’amicizia» e «ipocrita nella vita pubblica»59. Al Senato il trattato fu ratificato con molte difficoltà: la maggioranza necessaria dei due terzi fu ottenuta di misura (20 furono i vo-

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ti favorevoli e 10 quelli contrari). Fu quella la prima occasione in cui si evidenziò la capacità potenziale della Camera alta di bloccare iniziative diplomatiche dell’esecutivo. Alla Camera dei deputati Madison montò un’azione finalizzata a rivendicarne la competenza sulle clausole commerciali e a bloccare i fondi necessari per dare corso all’accordo, con l’istituzione delle commissioni arbitrali. Anche in questo caso, i federalisti riuscirono a ottenere i voti necessari (51 a 48), nonostante i tentativi francesi, spesso riusciti, di corrompere molti parlamentari60. Gli scontri e le passioni generati dal trattato di Jay concorsero in modo determinante alla radicale polarizzazione della vita politica statunitense e alla nascita di due partiti. Le elezioni del 1796 costituirono la prima manifestazione di questo stato di cose: le prime elezioni presidenziali bipartitiche della storia del paese. A fronteggiarsi furono il candidato federalista, John Adams, e il leader repubblicano Thomas Jefferson. La vittoria del primo creò una situazione paradossale: la Costituzione prevedeva, infatti, l’assegnazione della vicepresidenza a chi fosse giunto secondo. Tra il 1796 e il 1800 gli Stati Uniti si trovarono quindi ad avere presidente e vicepresidente di due partiti diversi61. Alla divisione in partiti corrispose l’ulteriore intensificazione delle ingerenze di soggetti esterni sulla vita politica statunitense. La Francia sospese temporaneamente l’accordo del 1778 e, attraverso il suo rappresentante negli USA, Pierre Adet, invitò apertamente a non votare il candidato federalista, che si credeva sarebbe stato ancora George Washington. Per Parigi le elezioni costituivano una scelta tra la continuazione dell’amicizia franco-statunitense e il probabile scoppio di una guerra tra i due paesi. «Washington – affermò il nuovo ministro degli Esteri Charles Delacroix – se ne deve andare». Solo l’elezione di Jefferson avrebbe rivitalizzato l’antica alleanza, permettendo alla Francia di «riacquisire l’influenza che essa merita in America». Poco prima del voto, Adet rese pubblica la decisione francese di trattare le navi dei paesi neutrali – incluse quelle statunitensi – allo stesso modo in cui esse erano trattate dalla Gran Bretagna. «Gli americani – avrebbe in seguito sostenuto Adet, affidandosi a uno stereotipo destinato negli anni ad avere molta fortuna – non conoscono alcuna virtù che non sia l’amore dei soldi [...] non capiscono il prezzo della libertà, dell’onore e della gloria [...] e sono

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pronti a trattare gli interessi dei loro alleati come la più volgare delle mercanzie»62. Diversamente da quanto creduto a Parigi, Washington non si ricandidò. Prima delle elezioni, egli compose però un discorso di commiato – il Farewell Address – nel quale si affrontavano direttamente le questioni che stavano lacerando la comunità politica statunitense: le divisioni interne e le pressioni esterne che in parte le causavano. Il Farewell Address apparve il 19 settembre 1796 sull’«American Daily Advertiser», la principale rivista politica di Philadelphia. Nei giorni e nelle settimane successivi fu ripubblicato da tutti i principali quotidiani e riviste statunitensi63. Col tempo, il commiato di Washington avrebbe assunto uno «status trascendentale» destinato a trasformarlo in uno dei «testi seminali dei principi eterni dell’America». Un «documento immortale» – secondo lo storico nazionalista Samuel Flagg Bemis – che avrebbe costituito «la stella polare della politica estera americana». Uno dei più «durevoli artefatti retorici» della storia degli Stati Uniti, per chi ne ha esaminato l’elemento discorsivo64. Gli storici si sono spesso divisi sul significato del Farewell Address e sul messaggio che esso intendeva dare. In tempi diversi, il Farewell Address è stato di volta in volta presentato come l’affermazione di una rivendicazione eccezionalista e unilateralista, la giustificazione di una ritirata isolazionista, l’espressione di un sagace realismo, l’ennesima manifestazione di un mai perduto idealismo65. A complicare le interpretazioni ha contribuito anche una curiosa contraddizione: il fatto che il Farewell Address, scritto anche per ragioni di parte (l’irritazione di Washington verso gli attacchi repubblicani e francofili e la volontà di aiutare i federalisti alle urne), abbia rapidamente acquisito un’aura nazionale, consensuale e bipartisan, trasformandosi nei due secoli seguenti in un documento da venerare, citare, invocare e spesso fraintendere. L’immagine «quasi-monarchica» di Washington, la sua capacità di sottrarsi almeno parzialmente alle dispute partitiche dell’epoca federalista, la sua decisione di non ricandidarsi hanno certamente contribuito alla successiva interpretazione del Farewell Address e alla sua metamorfosi in testo sacro della politica estera statunitense. Ma tutti questi elementi non sarebbero bastati se il testo non fosse stato, di per sé, congruente con la tradizione di politica estera che il paese aveva già maturato; se non avesse incorporato e compendiato gli slogan, le parole d’ordine e le categorie che avevano già definito un

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modo peculiare di considerare le relazioni internazionali; se esso non avesse ripreso e aggiornato un’autorappresentazione eccezionalista del ruolo della giovane repubblica statunitense nella politica mondiale. Nel Washington del Farewell Address ritornano, adeguatamente rimodulati, il Thomas Paine di Common Sense, il John Adams del Model Treaty e, anche, il Thomas Jefferson della Dichiarazione d’indipendenza. Ritorna, cioè, quella commistione sincretica di realismo, identità e ideologia – di unilateralismo, eccezionalismo e messianesimo – che ha qualificato ab origine l’atteggiamento statunitense verso la politica internazionale. Tre sono i temi centrali del Farewell Address: l’esortazione a rigettare le ingerenze straniere nella politica statunitense; la rivendicazione della diversità americana, che proprio nelle relazioni con l’esterno – centrate una volta di più sul pacifico elemento commerciale – trova la sua manifestazione emblematica; l’ottimismo sulle sorti del paese e sul suo ineluttabile destino di grande potenza. Il Farewell Address tornava ad affermare la necessità, invero vitale, per gli Stati Uniti di sottrarsi alle dispute europee e di evitare condizionamenti esterni sulle proprie scelte e decisioni: «È una nostra politica autentica rimanere liberi da alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo esterno [...] il legame appassionato di una nazione per un’altra produce una varietà di mali [...] contro gli stratagemmi insidiosi dell’influenza straniera [...] la gelosia di un popolo libero deve stare sempre all’erta [...] la grande regola di condotta nei rapporti con le altre nazioni deve essere, nell’estendere le nostre relazioni commerciali, quella di avere con esse i minori legami politici possibili». Con argomentazioni prettamente realiste, Washington legava questa indipendenza e autonomia all’interesse nazionale del paese e all’impossibilità di aspettarsi favori da altri Stati, mossi, inevitabilmente, da interessi diversi: «Non ci può essere errore più grande che l’aspettarsi [...] favori veri da parte di una nazione verso un’altra. È questa un’illusione che l’esperienza può curare, e che un orgoglio sano permette di rigettare [...] la nazione che indulge in eccessivo odio o in eccessiva affezione verso un’altra è in una qualche misura schiava». Soprattutto la legava a una visione di grandezza futura che poteva compiersi se essa non fosse stata soffocata sul nascere dall’instaurazione di un legame vincolante con una potenza superiore: «Se rimaniamo uniti, sotto un governo efficiente, non sarà lontano il periodo in cui riusciremo a sopportare i costi delle mole-

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stie esterne [...] saremo allora in grado di scegliere la guerra e la pace, come il nostro interesse, guidato dalla giustizia, ci consiglierà». Ma questo approccio, così apprezzato e sottolineato da molti studiosi di simpatie realiste, non escludeva e anzi rafforzava un’orgogliosa rivendicazione eccezionalista di diversità e, naturalmente, di superiorità. Il realismo induceva a un atteggiamento scettico nei confronti dei comportamenti degli altri paesi, ma non generava, per reazione, un invito a comportarsi nello stesso modo. Siamo ovviamente lontani dalla retorica di Paine o, anche, da quella prevalente nella fase dell’indipendenza; e non potrebbe essere altrimenti, considerate le difficoltà in cui versava la politica estera del paese. Ma a dispetto di questo, prevaleva una volta di più l’idea che in tempi non lontani gli Stati Uniti avrebbero potuto concorrere in modo determinante a modificare modi e pratiche delle relazioni tra gli Stati e a trasformare in profondità la politica internazionale: «Sarà degno di una nazione libera, illuminata e, fra non molto, grande dare al mondo l’esempio magnanimo fin troppo nuovo di un popolo sempre guidato dalla benevolenza e da un’elevata giustizia. Chi può dubitare che nel corso del tempo e delle cose i frutti di questo approccio non ripagheranno qualsiasi vantaggio temporaneo?». Realismo e necessità di agire autonomamente e unilateralmente per tutelare e difendere i propri interessi. Idealismo e convinzione che un giorno le relazioni tra gli Stati sarebbero state condotte con strumenti e metodi diversi da quelli adottati fino ad allora, senza che gli Stati Uniti dovessero vedere i propri principi contaminati dalle pratiche della politica di potenza europea. Eccezionalismo e convinzione di un’identità diversa e superiore della repubblica statunitense, che sola poteva essere preservata laddove essa non fosse corrotta da legami vincolanti con l’Europa, il suo balance of power, le sue guerre. La sintesi del Farewell Address riafferma l’unità e l’interdipendenza di questi tre elementi: l’impossibilità di separarli, così come l’impossibilità di abbandonarli, anche e soprattutto in tempi di divisioni partitiche e di fazioni esterofile che mettevano a rischio la sopravvivenza di una nazione unica, destinata, nel tempo, a divenire indispensabile.

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4. Bucanieri, «alieni» e sediziosi. La quasi guerra con la Francia L’invito di Washington cadde inizialmente nel vuoto. I due anni successivi alle elezioni del 1796 furono contraddistinti da un ulteriore inasprimento della vita politica, che portò il paese vicino alla guerra civile e giustificò un forte attacco federalista al diritto di dissenso politico e alla libertà d’espressione. Ancora una volta fu la situazione internazionale ad acuire i contrasti interni. Il trattato di Jay e l’elezione di Adams avevano inferto un duro colpo alla strategia della Francia e alla sua convinzione di poter ottenere un qualche sostegno statunitense nella guerra in corso. Finito il tempo degli intrighi e dell’appoggio ai repubblicani, il governo francese autorizzò un attacco diretto agli Stati Uniti e alla fonte primaria della loro ricchezza: il commercio sui mari. Questo attacco era già iniziato nel 1796, quando prima i mari caraibici e poi la stessa fascia costiera degli Stati Uniti erano diventati teatro di un costante assalto di pirati e bucanieri francesi alle indifese imbarcazioni commerciali statunitensi. I lucrosi traffici con le Indie Occidentali francesi avevano costituito una delle principali fonti di ricchezza degli Stati Uniti: alla fine degli anni Ottanta del Settecento le esportazioni verso la sola Santo Domingo erano più del doppio di quelle con la Francia metropolitana e circa il 40% di quelle con la Gran Bretagna, che forniva il mercato primario ai beni statunitensi. Dopo il 1796 questi traffici si ridussero drasticamente. I corsari francesi potevano utilizzare vari porti e rifugi in numerose isole dei Caraibi (Portorico, Guadalupa, Martinica); i costi di assicurazione dei carichi americani raggiunsero quasi la metà del loro valore e raramente scesero sotto un terzo66. Un decreto del marzo 1797 pose termine anche al formale rispetto francese dei diritti di neutralità, per come questo era stato definito nel trattato tra i due paesi del 1778. Il decreto autorizzava la confisca di navi di paesi neutrali che trasportavano merci destinate al nemico e di tutte quelle imbarcazioni prive di una lista dei passeggeri e dell’equipaggio modellata sugli standard francesi (il rôle d’équipage). Si trattava, di fatto, di una licenza di pirateria ai danni degli USA. In pochi mesi furono sequestrate altre trecento imbarcazioni americane. Si aprì allora una «quasi-guerra» non dichiarata tra i due paesi, destinata a durare tre anni67. Oltre che a legittimare pratiche adottate ormai da un anno, la de-

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cisione francese originava da tre altre motivazioni. In primo luogo, costituiva una ritorsione differita nei confronti del trattato di Jay, che Parigi considerava un vero e proprio tradimento. In secondo luogo, si poneva l’obiettivo di mettere in difficoltà la Gran Bretagna, riducendo l’accesso di merci dagli Stati Uniti alle isole britanniche, che era grandemente cresciuto nel triennio precedente. Infine, permetteva l’acquisizione di un patrimonio (merci e navi) particolarmente necessario alla Francia per far fronte alle immense difficoltà economiche, militari e finanziarie in cui si dibatteva68. A dispetto della retorica tuonante e della sua forte diffidenza verso la Francia, Adams optò per la strada della diplomazia. In maggio una troika composta dai federalisti Elbridge Gerry, John Marshall e Charles Cotesworth Pinckney fu inviata a Parigi per cercare di risolvere il contenzioso e ottenere un indennizzo per i carichi e i vascelli confiscati69. Giunti in Francia in ottobre, Gerry, Marshall e Pinckney ottennero dal nuovo ministro degli Esteri francese, Charles Talleyrand, i documenti necessari per evitare la deportazione e aprire dei negoziati. Non videro però accolte le loro richieste, peraltro assai irrealistiche, stante lo squilibrio di potenza esistente tra i due Stati. La Francia non voleva una guerra, che avrebbe sottratto uomini e risorse dal fronte principale dello scontro, quello europeo, ma poneva agli Stati Uniti condizioni particolarmente onerose per fermare le azioni di pirateria e ritirare il decreto di marzo: la ritrattazione delle critiche mosse da Adams all’iniziativa francese; l’assunzione da parte del governo statunitense dei crediti vantati da cittadini americani nei confronti della Francia e degli indennizzi per le merci perdute nelle confische sui mari; la concessione di un prestito di quasi 13 milioni di dollari per finanziare l’acquisto di merci statunitensi; il pagamento di una tangente (una pot de vin o douceur, come fu definita) a Talleyrand e ai membri del Direttorio dell’ammontare di 50.000 sterline70. Le condizioni poste dai negoziatori francesi – e identificati da Marshall come messieurs X, Y e Z – erano inaccettabili e umilianti. Inaccettabili, perché esse avrebbero quasi certamente trascinato gli Stati Uniti nella guerra: la concessione del prestito sarebbe stata considerata da Londra un atto ostile, passibile di rappresaglia. Umilianti, perché evidenziavano una volta di più tutta la fragilità della gio-

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vane repubblica statunitense, alla quale si chiedeva ora addirittura di contribuire all’arricchimento personale di Talleyrand. Leggenda vuole che Gerry, Marshall e Pinckney abbiano risposto con fermezza e dignità alle pretese francesi, esprimendo indignazione di fronte all’invito di pagare il pot de vin richiesto. In realtà, era proprio quest’ultima richiesta quella che meno preoccupava i rappresentanti statunitensi. La posizione francese andava rigettata per altre ragioni. Fare altrimenti avrebbe costituito un’evidente presa di posizione nel conflitto in corso e un conseguente abbandono della posizione di neutralità degli Stati Uniti. Ragioni geopolitiche e una definizione precisa dell’interesse nazionale concorrevano a rendere inaccettabile un simile Diktat: gli Stati Uniti erano legati alla Gran Bretagna, che indirettamente contribuiva alla loro sicurezza bilanciando la forza francese e preservando un balance of power il cui mantenimento – argomentavano ora i federalisti – era vitale per gli stessi Stati Uniti. Ma soprattutto, rifiutare le condizioni poste da Talleyrand e renderle pubbliche offriva ai federalisti un’arma da sfruttare nel dibattito politico interno. Su richiesta della Camera dei rappresentanti, Adams rese pubblici i documenti sui negoziati parigini. L’affaire XYZ, come divenne noto, irruppe prepotentemente nella discussione politica statunitense, stimolò un’ondata forte ed emozionale di patriottismo, mise in estrema difficoltà il fronte repubblicano e indusse Gran Bretagna e Stati Uniti a collaborare come mai era avvenuto in precedenza. L’idea jeffersoniana che esistesse una connessione stretta e organica tra Francia e Stati Uniti – le due «repubbliche sorelle» – fu travolta assieme al nazionalismo transnazionale che essa aveva concorso ad alimentare. Furono sciolti gran parte dei club e delle società repubblicane filofrancesi create negli anni precedenti. Il patriottismo alimentato dalla vicenda XYZ si nutrì di una xenofobia antifrancese forte, crescente e sempre più diffusa, alla quale concorreva ora anche la propaganda federalista: «La versione più estrema di americanità francofobica (francophobic Americaness) – ha sottolineato lo storico Matthew Rainbow Hale – raggiunse una forza e una prominenza senza precedenti»71. La risposta dell’amministrazione Adams fu triplice: vennero abrogati i trattati con la Francia; si promossero misure atte a rafforzare militarmente il paese, per renderlo in grado di sostenere una guerra e per proteggere le navi mercantili dagli assalti corsari; ven-

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nero approvate una serie di leggi finalizzate a consolidare la coesione e l’unità interna. Furono così riattivati programmi di potenziamento della Marina militare approvati nel 1794 per fronteggiare le azioni di pirateria nel Mediterraneo, ma successivamente sospesi. Soprattutto, il Congresso stanziò fondi generosi per creare un Dipartimento della Marina (posto sotto la guida di Benjamin Stoddert), dotare il paese di grandi fregate capaci di scortare le imbarcazioni commerciali, procedere all’armamento di queste ultime e fortificare i porti per permetterne la difesa. La Marina statunitense ottenne successi straordinari, riducendo il numero di imbarcazioni conquistate dai pirati, riconquistando imbarcazioni perdute e permettendo una graduale riduzione dei costi di assicurazione sui carichi commerciali72. Parallelamente, fu approvata la creazione di un esercito provvisorio di 10.000 uomini, da mobilitarsi in caso di dichiarazione di guerra o di invasione da parte della Francia. A guidare questo esercito fu richiamato George Washington, che scelse come suo vice Alexander Hamilton. Più modesto per dimensioni e obiettivi rispetto al progetto di Hamilton e dei federalisti più radicali (gli High Federalists), il nuovo esercito rischiava però di diventare uno strumento utilizzabile anche nella disputa politica interna: un fatto, questo, di cui il presidente Adams era acutamente consapevole e che lo indusse ad adoperarsi per prevenire un simile esito73. Le tensioni politiche tra federalisti e repubblicani erano state inasprite da una serie di leggi che andavano a colpire gli oppositori politici e coloro che per qualche motivo erano sospettati di avere posizioni filofrancesi. Si manifestò allora per la prima volta un fenomeno destinato a ritornare nella storia del paese: la tendenza a sacrificare la libertà in nome degli imperativi di sicurezza; a trasformare il dissenso politico in tradimento; l’opposizione al governo e alle sue scelte di politica estera in sedizione74. Tra il giugno e il luglio del 1798 il Congresso aveva approvato quattro leggi, divenute note come Alien and Sedition Acts. La prima, il Naturalization Act, allungava da cinque a quattordici anni il periodo di residenza negli Stati Uniti necessario per poter presentare la richiesta di cittadinanza. La seconda, l’Alien Enemies Act, prevedeva che in caso di guerra il presidente potesse definire come «nemici» i cittadini di nazioni rivali residenti negli USA, la cui presenza fosse considerata pericolosa. La terza, l’Alien Act, autorizzava il presiden-

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te a espellere gli stranieri presenti negli Stati Uniti ritenuti «pericolosi per la pace e la sicurezza degli Stati Uniti». Infine la quarta, il Sedition Act, il più famoso e impopolare dei quattro provvedimenti, rendeva illegale e penalmente perseguibile la pubblicazione di scritti o l’enunciazione di discorsi «falsi, scandalosi o maliziosi» contro il governo, il Congresso e il presidente, atti a «mobilitare contro di essi [...] l’odio del popolo statunitense e a incitare alla sedizione»75. Il contenuto delle quattro leggi era stato emendato e moderato durante il passaggio parlamentare. La loro applicazione fu limitata. A dispetto dei timori, non si scatenò quella caccia alle streghe temuta e paventata dal fronte repubblicano e da Jefferson in particolare. L’obiettivo dell’Alien Act erano soprattutto gli irlandesi filofrancesi (i Wild Irish) emigrati negli USA dopo la ribellione irlandese contro la Gran Bretagna del 1798, che si temeva potessero andare a ingrossare le fila repubblicane. La legge rimase in vita due anni senza che Adams vi facesse ricorso; nonostante le pressioni del segretario di Stato, Timothy Pickering, non vi fu alcuna deportazione, anche se un numero consistente di irlandesi e francesi decise volontariamente di abbandonare il paese. Il Sedition Act fu invece applicato con maggiore risolutezza: vi furono diversi arresti, inclusi quelli di alcuni personaggi di spicco della vita politica statunitense, come l’editore del giornale repubblicano «Aurora», William Duane, e il parlamentare del Vermont Matthew Lyon. Delle quattro leggi, approvate peraltro con margini molto ristretti, solo l’Alien Enemies Act rimase in vigore oltre il periodo della crisi e della quasi-guerra con la Francia76. Nondimeno, l’approvazione degli Alien and Sedition Acts fu rilevante per diverse ragioni. Innanzitutto, essa evidenziò una volta di più il legame stretto e ineludibile venutosi a determinare tra la politica estera degli Stati Uniti e le modalità con cui veniva definita e declinata la libertà interna della giovane democrazia statunitense. In modo spesso simbiotico, le tensioni con gli altri Stati s’intrecciavano con lo scontro politico interno, esasperandolo e venendone esasperate. Le guerre o «quasi-guerre» finivano per alimentare un patriottismo dai toni e contenuti talora scopertamente nativisti. Questi operavano come meccanismi di alienazione ed ‘etnicizzazione’ del nemico politico, del quale si caricaturava l’alterità per delegittimarne le posizioni e le critiche. Facendolo, veniva temporaneamente indebolito – ma non rimosso – l’originario afflato cosmopolita della rivoluzione americana e del suo messaggio.

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In altri momenti della storia degli Stati Uniti l’attivazione di processi di esclusione e di marginalizzazione avrebbe concorso a rafforzare l’unità e la coesione del paese. Nell’atmosfera aspramente partigiana di fine Settecento ciò non avvenne e il paese parve prossimo allo scontro civile. Le assemblee legislative della Virginia e del Kentucky (divenuto membro dell’Unione nel 1792) votarono due risoluzioni di condanna degli Alien and Sedition Acts, scritte rispettivamente da Madison e Jefferson. Nelle risoluzioni si rivendicava agli Stati il diritto di contrastare l’esercizio da parte del governo federale di poteri non espressamente attribuitigli dalla Costituzione. Con le leggi contro la sedizione e il dissenso, si affermava nei due documenti, il governo federale si era investito di attribuzioni che non solo non gli erano proprie, ma che erano «espressamente e positivamente proibite» dal primo emendamento sulla libertà di parola. Per questo gli Stati avevano il «dovere di frapporsi per arrestare la continuazione del danno (the progress of the evil)»77. Le risoluzioni rappresentavano una forma di protesta non violenta, ancorché radicale per il loro contenuto politico e ancor più costituzionale. Invitati a fare altrettanto e a dichiarare nulli gli Alien and Sedition Acts, gli altri quattordici Stati si guardarono bene dall’intraprendere alcuna iniziativa. Molti però ritenevano inevitabile un conflitto armato. Per i repubblicani virginiani, ostili alla creazione di un qualsiasi apparato militare, il nuovo esercito di Washington e Hamilton serviva non a fronteggiare la Francia, ma a colpire la Virginia. L’assemblea della Virginia approvò provvedimenti finalizzati a permettere la difesa dello Stato. Hamilton e altri flirtarono con l’idea di promuovere un’azione militare contro la Virginia o quanto meno di utilizzare le forze armate per esercitare delle pressioni e costringerla alla «prova della resistenza»78. Al contempo, gli High Federalists sostennero che, in assenza di progressi diplomatici, fosse giunto il momento di dichiarare guerra alla Francia. Il rischio era che l’inazione e i successi militari francesi potessero riportare la Francia in Nordamerica, attraverso un trasferimento ad essa della Louisiana (e di New Orleans), che erano sotto il controllo della Spagna. Il Mississippi e la sua bocca – argomentava Hamilton – avevano una funzione strategica vitale per gli Stati Uniti, che andava preservata a ogni costo. Adams, al contrario, era ostile a qualsiasi azione offensiva e riteneva indispensabile evitare un’estensione della «quasi-guerra».

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Approfittando di alcune aperture francesi, dell’impegno di Talleyrand e dei successi britannici sui mari, Adams decise di inviare una nuova missione diplomatica in Francia, composta da tre federalisti: il presidente della Corte suprema, Oliver Ellsworth, il governatore della North Carolina, William Richardson Davie, e il rappresentante diplomatico in Olanda, William Vans Murray. I negoziati furono ostacolati e rallentati da vari fattori, su tutti l’instabilità politica francese e l’ostilità a un accordo di ampi settori della Camera bassa (il Consiglio dei Cinquecento), dove gli interessi dei bucanieri erano ben rappresentati79. Il colpo di Stato del 18 brumaio e l’avvento al potere di Napoleone permisero di superare anche questi ostacoli: «Per la prima volta in undici anni di esistenza della repubblica federale – hanno sottolineato gli storici Elkins e McKitrick – un governo francese sembrò prendere sul serio l’America»80. Nell’ottobre del 1800, dopo alcuni mesi di negoziati, fu raggiunto un accordo tra le due parti (la convenzione di Mortefontaine). Gli Stati Uniti rinunciavano a qualsiasi indennizzo per i beni confiscati nel quadriennio precedente, che ammontavano a circa 20 milioni di dollari, e si facevano carico di rimborsare i mercanti americani delle perdite subite; la Francia accettava la cancellazione dei trattati del 1778. «L’America – si afferma in una famosissima storia diplomatica degli Stati Uniti – acconsentì a pagare 20 milioni di dollari in alimenti per poter ottenere un divorzio e la fine di un matrimonio [...] durato 21 anni»81. Negli USA non mancarono le polemiche per i termini dell’accordo, che non accoglieva le richieste statunitensi e che si rivelava quindi assai oneroso. La convenzione di Mortefontaine permetteva però di completare il processo iniziato con il trattato di Jay. Gli Stati Uniti si liberavano di un legame costrittivo – quello stipulato con la Francia nel 1778 – che aveva contribuito in modo determinante all’indipendenza, ma che aveva poi condizionato costantemente sia la politica estera sia quella interna. Questa esperienza costituì una lezione e un precedente destinato a influenzare negli anni a venire l’azione internazionale del paese. Solo un secolo e mezzo più tardi, ratificando il Patto atlantico, gli Stati Uniti avrebbero infatti accettato nuovamente di far parte di un’alleanza militare permanente.

III UN CONTINENTE, UN IMPERO

Il discorso inaugurale di Thomas Jefferson, il primo pronunciato nella nuova capitale federale di Washington, sarebbe divenuto negli anni uno dei «grandi testi della tradizione libertarian americana». Esso fu utilizzato da Jefferson per ribadire la sua fede in un governo limitato, «saggio e frugale», capace di proteggere e difendere i propri cittadini, ma anche di lasciarli liberi di «esprimere la propria ricerca di operosità e crescita», evitando di sottrarre «alla bocca del lavoro il pane che essa ha guadagnato»1. Ma il discorso servì al nuovo presidente anche per cercare di riconciliare un paese lacerato: dalle divisioni partitiche del decennio precedente; da una campagna elettorale aspra e talora brutale; da un’elezione, quella presidenziale, nella quale i due candidati democratici (Jefferson e Aaron Burr) avevano ottenuto lo stesso numero di voti e vi era stato bisogno di ben 36 votazioni al Congresso prima di avere un nuovo presidente. Quella del 1800, affermò Jefferson, costituiva una «rivoluzione» tanto «importante per quanto riguardava i principi di governo, quanto quella del 1776 lo era stata per la sua forma». Una rivoluzione che tornava a unire gli americani, mostrando la possibilità di un pacifico avvicendamento al potere delle fazioni, consolidando l’indipendenza e la libertà conquistate nel 1776, ponendo finalmente termine all’eresia federalista, anglofila e quasi-monarchica e riaffermando così gli originali principi federali, invano sfidati da Hamilton e dai suoi seguaci2. «Siamo tutti repubblicani, siamo tutti federalisti», proclamò enfaticamente Jefferson. Questa ritrovata unità si fondava sulla sottolineatura, ripetuta, di quei fattori che univano gli americani: l’eccezionalismo; l’espansionismo; il diritto dei paesi neutrali a commer-

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ciare liberamente e senza restrizioni. L’America costituiva secondo il nuovo presidente «una nazione in ascesa», che avanzava verso «destini irraggiungibili all’occhio mortale». Il suo governo rappresentava «la migliore speranza per il mondo». Era suo diritto commerciare con nazioni che troppo spesso «sentivano la potenza e dimenticavano il diritto» (feel power and forget right). Ripetendo l’esortazione del Farewell Address di George Washington, Jefferson ribadiva come gli obiettivi della politica estera statunitense dovessero essere «la pace, il commercio, e l’onesta amicizia con tutte le nazioni; le alleanze vincolanti con nessuna». Solo in questo modo sarebbe stato possibile dare corso al destino di un popolo, che «la natura e un vasto oceano avevano benevolmente separato dalle devastazioni sterminanti (exterminating havoc) di un quarto del globo»; un popolo «troppo magnanimo per tollerare la degradazione degli altri» e dotato di spazio sufficiente per accogliere i propri «discendenti per migliaia e migliaia di generazioni»3. Pace, libertà di commercio ed espansione costituirono da subito gli obiettivi primari dell’azione del nuovo governo. Obiettivi, questi, giustificati attraverso un discorso di politica estera a forte contenuto morale e moralista. E obiettivi da perseguirsi riducendo al minimo le capacità e il ruolo del governo federale. In pochi mesi furono abolite le imposte interne. I dazi doganali e l’alienazione dei territori occidentali diventarono le uniche fonti d’introito. Il debito pubblico, l’odioso lascito dell’era federalista, fu significativamente diminuito (da 83 a 45 milioni di dollari). L’Esercito e la Marina subirono inizialmente una drastica riduzione4. Non solo l’avanzata verso ovest e la crescita inarrestabile del commercio statunitense dovevano (e potevano) essere promossi da un governo limitato e debole; essi costituivano anche la precondizione per la sopravvivenza e lo sviluppo di una repubblica, quella statunitense, priva di un forte potere centrale. Si trattava di un esperimento azzardato e senza precedenti. Fortuna, spregiudicatezza e abilità permisero a Jefferson e al suo successore, James Madison, di raggiungere i propri obiettivi. Sotto le loro presidenze, l’impero statunitense raddoppiò le proprie dimensioni, vide grandemente ridotta la presenza europea in Nordamerica e uscì indenne da una nuova guerra con la Gran Bretagna. Nel farlo, si accettò uno stravolgimento del dettame costituzionale, furono esasperate quelle divisioni che s’intendeva ricomporre e ci si trovò spesso in balia dell’equilibrio di

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potenza europeo, che Jefferson sperava invece di eludere, controllare e sfruttare. Se mai vi fosse stato bisogno di una prova, i fortunati (e fortunosi) successi dell’epoca jeffersoniana parvero confermare la natura speciale, e invero eccezionale, della giovane nazione statunitense e offrire la dimostrazione che la Provvidenza la aveva investita di un destino davvero unico ed eccezionale5.

1. L’acquisto della Louisiana e «l’unità dell’impero» La libertà di navigazione sul Mississippi – aveva sottolineato Alexander Hamilton – era condizione «essenziale all’unità dell’impero». Il Mississippi – affermò qualche anno più tardi James Madison – «corrispondeva all’Hudson, al Delaware, al Potomac e a tutti i fiumi navigabili degli Stati atlantici uniti in un unico flusso». «Al mondo», gli fece eco Thomas Jefferson, vi era un «solo luogo che faceva del suo possessore il naturale [...] nemico» degli Stati Uniti. Quel luogo era New Orleans6. Ragioni commerciali, strategiche e ideologiche rendevano vitale l’accesso al Mississippi e a New Orleans. Quasi il 40% dei prodotti del paese aveva accesso ai mercati, domestico e ancor più atlantico, attraverso il porto di New Orleans. Per molte merci – come farina, cotone, zucchero, pellami, tabacco – la lenta discesa del Mississippi costituiva la prima tappa di un lungo viaggio verso i mercati mondiali. Un viaggio, questo, che si stava facendo sempre più frequente e intenso. Le guerre dell’epoca napoleonica alimentavano infatti la richiesta incessante di beni prodotti negli Stati Uniti. Le regioni dell’Ovest ne erano tra i principali beneficiari: nel 1803 un milione di statunitensi, residenti nelle regioni a ovest degli Appalachi, dipendeva da questi commerci. Ma ne beneficiavano gli stessi Stati orientali, legati al Nord-Ovest da una crescente interdipendenza commerciale e finanziaria, in un sistema economico che si andava integrando e unificando. Tutto il paese era ormai «Mississippi-minded»7. Lo era, perché la stessa sopravvivenza dell’Unione sembrava dipendere dal Mississippi e dalla possibilità di usare il grande fiume come mezzo di trasporto. Se questa possibilità fosse venuta meno, i territori del Nord-Ovest sarebbero potuti sopravvivere solo accettando un compromesso con la potenza, all’epoca la Spagna, sotto la

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cui giurisdizione cadevano sia New Orleans sia il Mississippi. Le «pressioni economiche» che il possessore del Mississippi e di New Orleans poteva esercitare «avrebbero messo in pericolo l’ordine sociale repubblicano», per come questo era stato edificato nel ventennio precedente. A quel punto persino una secessione sarebbe stata immaginabile8. Al contempo, il permanere del Mississippi in mani altrui limitava l’indipendenza, e con essa la libertà, della giovane repubblica. Ne soffocava oggettivamente la crescita, fissando una linea invalicabile a ovest e ponendo fine ai sogni imperiali e continentalisti. Minacciava di frenarne sul nascere l’ampliamento nord-occidentale, facendo venir meno le condizioni essenziali alla sua realizzazione. Ne bloccava l’espansionismo, che di quella libertà costituiva sia il compimento sia il presupposto, e dal quale si riteneva dipendesse la sicurezza, presente e futura, del paese9. Questo rischio appariva limitato e futuribile fintanto che la sovranità sul Mississippi, la sua bocca e il vasto territorio a ovest del fiume fosse rimasta nelle mani della Spagna, che lo aveva ottenuto dalla Francia nel 1763, alla fine della guerra dei Sette anni. Impero debole e in balia delle grandi guerre europee, la Spagna non era in grado di fronteggiare le pressioni e le richieste statunitensi se non attraverso l’appoggio di una delle due potenze ancora presenti in Nordamerica, la Francia e soprattutto la Gran Bretagna. Lo si era visto chiaramente in occasione del rapprochement anglo-statunitense, culminato con il trattato di Jay. Una delle prime conseguenze era stata la firma del trattato di San Lorenzo (o trattato di Pinckney), con il quale la monarchia spagnola garantiva agli USA il diritto di navigazione sul Mississippi, accettava di fissare il confine meridionale statunitense con la Florida occidentale all’altezza del 31° parallelo e concedeva addirittura la possibilità di deposito a New Orleans (dove i carichi americani potevano quindi essere scaricati o trasferiti senza pagare alcun dazio)10. Lo sviluppo statunitense dipendeva quindi dall’accondiscendenza spagnola, la quale a sua volta derivava dall’isolamento della Spagna, oltre che dalla sua debolezza. Di questo, la leadership statunitense era acutamente consapevole: Rufus King, il rappresentante diplomatico statunitense a Londra, ebbe a rimarcare come fosse «ottima cosa per le potenze commerciali il fatto che Dio avesse acconsentito a che spagnoli e turchi fossero di questo mondo»; «di tutte le

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nazioni», infatti, essi erano «quelli a cui più si addiceva il possesso di un grande impero privo di significato»11. Se eccessiva, però, questa debolezza poteva cessare di essere un vantaggio. Rischiava infatti di favorire una cessione del territorio nord-americano a una potenza terza, assai meno incline ad accettare pedissequamente le richieste statunitensi. Una simile eventualità si realizzò alla fine del 1800, quando la Spagna, ormai ridotta a satellite dell’impero napoleonico, accettò di trasferire alla Francia il cosiddetto territorio della Louisiana. Un’area, questa, dai confini incerti e indefiniti, ma che includeva senza dubbio alcuno sia il Mississippi sia la sua foce12. Gli obiettivi di Napoleone erano molteplici e originavano primariamente dalla volontà di ricostituire un nuovo impero francese nelle Americhe, in luogo di quello andato perso nel cinquantennio precedente. Se considerato isolatamente, il controllo della Louisiana sembrava offrire pochi vantaggi. Scarsamente popolato, privo di vie di trasporto sicure, esposto alle scorrerie di varie nazioni indiane e impervio da un punto di vista orografico e climatico, esso appariva poco allettante a chi lo avesse posseduto13. Il possesso della Louisiana doveva servire ad altri scopi che non quelli di una colonizzazione della regione. Ristabilire una presenza francese in Nordamerica permetteva di sfidare il primato britannico e obbligava Londra a considerare un nuovo, potenziale teatro di scontro. Più di tutto, però, l’acquisizione della Louisiana si legava al tentativo francese di riacquisire il controllo delle sue Indie Occidentali, a cominciare da una parte di Santo Domingo (l’attuale Haiti). L’isola, e lo zucchero che lì si produceva, aveva costituito una risorsa straordinariamente profittevole per la Francia. La rivoluzione e la successiva decisione della Convenzione nazionale di porre termine alla schiavitù nelle colonie avevano però catalizzato una forte reazione anche ad Haiti, dove quasi il 90% della popolazione era costituito da schiavi importati dall’Africa occidentale. Ne era conseguita una confusa fase rivoluzionaria, cui aveva temporaneamente posto termine nel 1801 l’ascesa al potere di un ex schiavo, FrançoisDominique Toussaint L’Ouverture14. Toussaint L’Ouverture riuscì a stabilizzare la situazione politica ed economica dell’isola, adottando in taluni casi metodi draconiani. A dispetto delle attese, non proclamò inizialmente l’indipendenza di Haiti e confermò anzi la sua lealtà alla Francia. Napoleone intende-

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va però riaffermare il pieno controllo francese su Haiti, per sfruttarne appieno le potenzialità in un sistema economico mercantilistico, integrato e autosufficiente, indispensabile ai suoi progetti imperiali. Approfittando di una pace temporanea (1801-03) con la Gran Bretagna, Napoleone decise d’inviare sull’isola caraibica un imponente contingente di 22.000 uomini, affidandone la guida al cognato, il generale Charles Victor Emmanuel Leclerc15. Da questa prospettiva, il controllo e lo sfruttamento della Louisiana servivano per fornire le risorse – materie prime e cibo – necessarie ad Haiti, la quale avrebbe invece garantito all’impero una produzione costante di caffè, cotone e, soprattutto, zucchero e suoi derivati. Il trasferimento della Louisiana alla Francia concretizzava però anche la principale paura degli Stati Uniti: una grande potenza europea prendeva possesso di un territorio vitale, strategicamente ed economicamente, per gli USA. Questa paura fu esacerbata nell’ottobre del 1802 dalla decisione spagnola di sospendere il diritto di deposito delle merci statunitensi a New Orleans16. Da più parti si chiese a Jefferson di promuovere un’azione militare volta a tutelare gli interessi statunitensi. I federalisti cercarono di sfruttare politicamente la situazione e denunciarono l’inettitudine e la francofilia del presidente e del suo segretario di Stato, James Madison. Anche molti repubblicani erano favorevoli a una prova di forza con la Francia. Le diversità erano relative al metodo da utilizzarsi per risolvere il problema: la diplomazia per la maggioranza dei repubblicani, la guerra per la gran parte dei federalisti. Il senatore James Ross (federalista della Pennsylvania) arrivò a presentare al Senato una risoluzione con cui si chiedeva di autorizzare l’esecutivo a creare una forza di 50.000 uomini da utilizzarsi per la conquista manu militari di New Orleans17. Jefferson condivideva questi timori, al punto da valutare l’eventualità di un’alleanza con l’odiata Gran Bretagna. Scelse però un approccio cauto, dettato dall’ottimismo, dal pregiudizio, ma anche da una realistica valutazione delle possibilità sia statunitensi sia francesi18. Diversamente da quanto aveva fatto John Adams negli anni della quasi-guerra, Jefferson non appoggiò i rivoltosi haitiani. Optò invece per una politica assai ambigua, in cui la consapevolezza del legame tra la situazione di Haiti e quella della Louisiana s’intrecciò con la convinzione che il controllo francese dell’isola fosse comunque preferibile: perché ripristinava l’equilibrio di potenza nei mari

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caraibici, evitando un incontrastato primato britannico; perché garantiva maggiore disciplina e controllo a un teatro ancora infestato da azioni di pirateria di cui erano spesso vittime le navi statunitensi; perché, soprattutto, la nascita di una ‘repubblica nera’ come quella haitiana spaventava per le ripercussioni che essa avrebbe potuto avere sugli USA e sui loro Stati del Sud, Georgia e South Carolina in particolare, dove si temeva una ribellione degli schiavi ispirata da quanto stava accadendo ad Haiti19. Pur non accettando la richiesta francese di porre un embargo sui commerci con l’isola, Jefferson optò per la diplomazia. Inviò in Francia un suo rappresentante speciale, il governatore della Virginia James Monroe. La missione di Monroe serviva per negoziare un accordo con Napoleone, ma anche per placare le pressioni di chi chiedeva una qualche iniziativa diplomatica o militare. Monroe partì per Parigi nel marzo del 1803, dopo aver venduto a Madison la sua argenteria personale per far fronte ai costi di viaggio e soggiorno. L’obiettivo dei negoziati era di convincere la Francia a ripristinare i diritti sanciti dal trattato del 1795. In aggiunta, e se le circostanze lo avessero concesso, s’intendeva chiedere a Parigi la disponibilità a cedere agli USA sia New Orleans sia i territori a est della città: la Florida occidentale (corrispondente a una parte degli attuali Louisiana e Mississippi) e quella orientale (corrispondente all’attuale Florida). L’obiettivo fondamentale era però quello di ottenere nulla più di una «piccola enclave per un nuovo deposito americano»20. Si trattava di un obiettivo limitato e addirittura minimalista rispetto all’accordo che fu poi effettivamente raggiunto. Monroe non ebbe nemmeno il tempo di giungere a Parigi, che Napoleone aveva già risposto alla proposta statunitense, offrendo di cedere agli Stati Uniti tutto il territorio nord-americano in possesso della Francia in cambio di 11,25 milioni di dollari e della cancellazione del debito francese, ammontante a 3,75 milioni. La somma era assai superiore a quella che Monroe era autorizzato a offrire. Ma lo era, di molto, anche il territorio che la Francia era disposta a cedere. Monroe e il rappresentante diplomatico statunitense a Parigi, Robert Livingston, decisero di accettare l’offerta. Il territorio della Louisiana passava così agli Stati Uniti21. Vari fattori concorsero alla decisione, repentina e inaspettata, di Napoleone. La breve tregua con la Gran Bretagna era terminata e si stava riaprendo un nuovo capitolo della grande guerra europea. Il

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tentativo imperiale di Napoleone era stato stimolato dalla pace con la Gran Bretagna e dalla possibilità quindi di concentrarsi sull’emisfero occidentale e i Caraibi. Ora quella possibilità era venuta meno. Tutte le risorse andavano destinate al conflitto continentale e si doveva evitare l’apertura di altri fronti. Le pressioni statunitensi, e i venti di guerra che avevano attraversato il Congresso, non erano stati quindi inutili. Come non era stata inutile l’offerta di acquisto della Louisiana, particolarmente allettante per un paese (e un imperatore) perennemente alla caccia delle risorse con cui far fronte alle sue guerre. Il fattore decisivo fu però rappresentato da Haiti. La forza guidata da Leclerc incontrò una resistenza intensa e inaspettata. Le navi che avrebbero dovuto trasportare un secondo contingente rimasero a lungo incagliate nei ghiacci dei porti olandesi. 17.000 uomini, incluso le stesso Leclerc, persero la vita in combattimento e, ancor più, a causa della febbre gialla. Assieme a loro, morì il sogno napoleonico di ripristinare un impero francese in America. La Louisiana, il cui controllo aveva un senso solo all’interno di questo disegno imperiale, non serviva più. Così come aveva auspicato Jefferson, gli Stati Uniti potevano «conquistare senza guerre», ovvero espandersi sfruttando le guerre altrui e l’interminabile conflitto apertosi in Europa un decennio prima22. L’acquisto della Louisiana ebbe conseguenze molteplici. La prima fu l’immenso ingrandimento territoriale degli Stati Uniti, pur entro confini ancora vaghi e subito contestati dalla Spagna. «Con un colpo di penna – ha sottolineato D.W. Meinig – la più grande repubblica del mondo raddoppiò le sue dimensioni. Il suo confine interno fu spostato di centinaia di miglia verso gli estremi ancora inesplorati del continente: il margine occidentale dell’immenso bacino del sistema del Mississippi»23. A questo ingrandimento territoriale corrispondeva un significativo consolidamento geopolitico. Gli Stati Uniti controllavano ora entrambe le rive del Mississippi e avevano un accesso senza precedenti al Golfo del Messico. Ciò permetteva una piena integrazione tra la parte orientale del paese e quella occidentale. L’azione europea di contenimento dell’espansionismo statunitense ne risultava molto indebolita. La Spagna costituiva un contrappeso sempre più debole alle ambizioni espansionistiche statunitensi. La Francia aveva abbandonato definitivamente il Nordamerica. La Gran Bretagna con-

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trollava il Canada, ma la sua capacità di contrastare l’avanzata degli USA, in particolare nel Nord-Ovest, si era ora grandemente ridotta. L’immenso ampliamento territoriale obbligava però ad affrontare due ordini di problemi nuovi, potenzialmente sovversivi dell’ordine repubblicano. Il primo era di natura costituzionale; il secondo di natura pratica e amministrativa. La Costituzione non prevedeva la possibilità per il governo federale di acquistare territori stranieri e d’incorporarli nell’Unione. Jefferson aveva sempre difeso un’interpretazione rigida e constructionist della Costituzione, avversando la teoria hamiltoniana dei poteri impliciti, liberale ed estensiva nella sua attribuzione delle competenze dell’esecutivo. Per questo, in un primo momento egli sostenne l’opportunità di un emendamento costituzionale, trovando però l’opposizione di Madison e del segretario del Tesoro Albert Gallatin, che temevano un ripensamento di Napoleone. Jefferson accettò quindi di procedere all’acquisto, senza emendamenti: «Suppongo che meno parliamo di principi costituzionali [...] meglio è», affermò il presidente, «e che quanto sia necessario fare» per aggirare il problema «vada fatto sub silentio». Per promuovere il bene della nazione, riconobbe Jefferson, era necessario agire andando «oltre la Costituzione»24. Questa forzatura costituzionale produsse una prima, rilevante estensione delle prerogative presidenziali. Che ciò sia avvenuto sotto la presidenza antifederalista e anticentralizzatrice di Jefferson è particolarmente ironico e significativo. Il governo debole e limitato voluto da Jefferson poteva operare, e promuovere l’espansione del paese, solo accettando di potenziare il ruolo e le funzioni del presidente. Per essere compatibili, impero, espansione e governo limitato avevano bisogno di un esecutivo radicalmente rafforzato. Il secondo problema era rappresentato dalla definizione delle modalità con cui i nuovi territori sarebbero stati inclusi nell’Unione. La questione dell’espansione geografica s’intrecciava e sovrapponeva con quella dell’espansione demografica. Il problema non era tanto e solo come ‘acquisire’ questi territori – con o senza un emendamento costituzionale – ma come governarli. Il modello della Northwest Ordinance appariva solo parzialmente applicabile. I territori del Sud-Ovest contenevano infatti una popolazione straniera (circa 50.000 creoli di lingua francese), di cui si dovevano definire i termini del processo di naturalizzazione e americanizzazione (tali invece non erano – agli occhi degli Stati Uniti – le nazioni indiane)25.

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L’art. 3 dell’accordo tra Francia e Stati Uniti prevedeva infatti che gli abitanti «del territorio ceduto» fossero «incorporati nell’Unione degli Stati Uniti, in accordo con i principi della Costituzione federale, e beneficiando di tutti i diritti, vantaggi e immunità dei cittadini» statunitensi. Su questo punto si concentrarono le critiche di molti federalisti. Anticipando argomentazioni che sarebbero tornate in altri momenti della storia statunitense, essi contestarono l’‘inclusibilità’ nella repubblica di questi nuovi cittadini non americani e non anglofoni. Gli abitanti della Louisiana erano impreparati, se non inidonei, a diventare americani: «Troppo ignoranti per eleggere uomini adatti» – affermò Timothy Pickering – e quindi «incapaci [...] di adempiere ai compiti o di accogliere la benedizione» che derivavano dal vivere nella repubblica statunitense26. Il Congresso riuscì infine ad approvare una legge che regolamentava il processo d’inclusione della Louisiana. Il territorio fu diviso in due parti: il distretto della Louisiana (parte settentrionale) e il territorio di Orleans (parte meridionale). Il primo cadeva sotto la giurisdizione del governatore del territorio dell’Indiana. Per il secondo veniva nominato un apposito governatore. Un processo di rapida emigrazione verso i nuovi territori ne avrebbe dovuto garantire la successiva assimilazione e americanizzazione. In seguito furono estese le norme della Northwest Ordinance anche ai nuovi territori. Nel 1811 la Louisiana, pur contando solo 35.000 abitanti bianchi e liberi (a cui andavano aggiunti circa 40.000 schiavi), fu ammessa come Stato nell’Unione. La vicenda acuì le preoccupazioni di una parte, politica e geografica, del paese. I federalisti del New England temevano infatti le conseguenze di un potenziamento dell’esecutivo controllato dai repubblicani, combinato con un rafforzamento del peso relativo del Sud e del Sud-Ovest agricolo ai danni del Nord-Est commerciale. Queste obiezioni si scontravano però con il diffuso consenso per un ampliamento territoriale che soddisfaceva interessi, confermava i destini asseriti del paese e pareva rafforzare la natura pluralista della repubblica nord-americana. Come affermò il senatore del Kentucky John Breckinridge, «la dea della Libertà» non poteva essere contenuta entro limiti geografici definiti. L’acquisto della Louisiana si legava a quel moto espansionistico e imperiale che aveva contraddistinto il paese fin dalle sue origini. Per quanto limitata, già la proposta inizialmente avanzata alla Francia – che avrebbe dovuto garanti-

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re libero accesso al Mississippi e a New Orleans – s’inseriva entro un ambizioso disegno espansionistico, che aveva come primo passaggio il Nord-Ovest e la valle dell’Ohio. L’esito fu diverso e inatteso. L’acquisizione della Louisiana, che originava da una filosofia e da una visione espansionistica, finì circolarmente per alimentarla e costituì un ulteriore tassello della realizzazione di un disegno imperiale e continentalista. Per compiersi, tale disegno necessitava però di una definitiva risoluzione delle guerre europee e, con esse, del pieno raggiungimento di una vera indipendenza27.

2. Blocchi, embarghi e guerre Nel 1803, dopo un breve interludio di pace, si riaprì il lungo conflitto europeo. Tutta l’Europa venne coinvolta, anche se la guerra – soprattutto dalla prospettiva statunitense – fu principalmente uno scontro tra Gran Bretagna e Francia. «Tempi straordinari in Europa – affermò allora un eccitato Thomas Jefferson – una vigorosa battaglia, questa tra il leone e la tigre. Con che spirito deve guardare alla contesa la pacifica mandria di buoi? Evitando parzialità, questo è certo. Se Francia e Gran Bretagna si possono molestare reciprocamente fino al punto di vedere cancellata la loro capacità di esercitare la tirannia (tyrannizing), l’una sulla terra e l’altra sui mari, il mondo forse potrà finalmente godersi la pace»28. In una prima fase, però, gli Stati Uniti ebbero modo di godersi assai di più la guerra. Come già in passato, e come previsto da Jefferson, il commercio statunitense trasse ampi vantaggi. Da un lato si fece più intensa la richiesta europea di beni e prodotti americani; dall’altro la campagna navale promossa dalla Gran Bretagna sull’Atlantico impedì al resto dell’Europa di commerciare e aprì possibilità nuove ai mercanti statunitensi. Per un breve lasso di tempo, le navi mercantili statunitensi godettero di una sorta di monopolio dei trasporti sull’Atlantico. Particolarmente profittevole fu la pratica della riesportazione, attraverso la quale era possibile aggirare il blocco britannico importando negli Stati Uniti merci provenienti dalle (o destinate alle) colonie caraibiche di Francia e Spagna per riesportarle in un secondo tempo come carichi statunitensi. La quantità di merci trasportate su navi statunitensi raddoppiò tra il 1803 e il 1810.

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Ci sarebbe voluto più di un secolo per superare il picco massimo degli scambi raggiunto nel 180729. Il paradosso risiedeva nel fatto che proprio il dominio britannico sui mari permetteva agli Stati Uniti questa espansione commerciale, che garantiva tra le altre cose la prosecuzione dei rifornimenti alla Francia. Questa situazione mutò nel 1805-06, quando Londra ritenne giunto il momento di porre vincoli stringenti al commercio statunitense. Nel 1805 la pratica della riesportazione fu esplicitamente vietata. Nell’occasione fu riaffermata la norma del 1756 (Rule of 1756), secondo la quale in tempo di guerra i paesi neutrali avevano diritto a continuare i loro traffici commerciali abituali, ma non a sfruttarne di nuovi su rotte precedentemente vietate. Alcuni mesi più tardi, la Gran Bretagna – galvanizzata dalla vittoria di Nelson a Trafalgar – impose un blocco navale su tutta la costa settentrionale dell’Europa. Si aprì allora una spirale che, almeno formalmente, rendeva inaccessibile l’Europa alle merci e alle navi statunitensi. Con l’editto di Berlino (poi seguito da quello di Milano) Napoleone rispondeva con un contro-blocco navale verso le isole britanniche. La Gran Bretagna reagiva con due orders in Council, che impedivano i commerci con tutto l’impero napoleonico. Sulla carta la guerra commerciale tra Francia e Gran Bretagna sigillava l’Europa. Ma solo sulla carta. Il giovane senatore John Quincy Adams, figlio del secondo presidente, denunciò le azioni di Francia e Gran Bretagna come un «colpo alle radici dell’indipendenza» statunitense. Madison le presentò come una violazione dei «diritti essenziali degli Stati Uniti». Più di 1.500 navi mercantili statunitensi furono sequestrate dalla Marina britannica e da quella francese. Il commercio statunitense, però, continuò a crescere. I due blocchi, in particolare quello francese, erano assai porosi; molti porti europei rimasero aperti; sia la Gran Bretagna sia la Francia, bisognose di risorse e merci, concessero licenze a pagamento che esentavano dal blocco singoli carichi30. Se valutata sulla base del solo interesse economico degli Stati Uniti, la nuova situazione permetteva di preservare un modus vivendi che garantiva la prosecuzione del boom commerciale degli anni precedenti. La reazione di Jefferson fu però condizionata da altre considerazioni. I blocchi, la norma del 1756, gli orders in Council umiliavano gli Stati Uniti, ne sfidavano la dignità e ne mettevano in discussione i diritti di paese neutrale e pacifico. Questi provvedi-

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menti riaffermavano quelle logiche di potenza che il presidente statunitense intendeva sfidare. Più di tutto, essi riaffermavano una volta di più la volontà (e la capacità) britannica di mantenere gli USA in una condizione di dipendenza e subordinazione. Nulla lo evidenziava meglio dell’ampio ricorso britannico alla pratica dell’impressment, attraverso cui gli ufficiali della Marina britannica si riservavano il diritto di ispezionare le imbarcazioni battenti bandiera statunitense per individuare la presenza di eventuali cittadini britannici e imporre loro la coscrizione forzosa nella Royal Navy. La questione era complessa e ambigua. Impegnata in una guerra per la sopravvivenza, la Gran Bretagna aveva un bisogno disperato di arruolare uomini. Sottopagati ed esposti costantemente al rischio della vita, molti marinai britannici preferivano disertare, sfruttare le rapide possibilità di naturalizzazione offerte dagli Stati Uniti e lavorare, ben retribuiti, alle dipendenze delle navi mercantili americane. Il boom commerciale stimolava la richiesta di forza lavoro e agevolava la possibilità di diserzione: secondo alcune stime, i marinai britannici costituivano circa la metà degli uomini in servizio sulle navi statunitensi. Legato com’era alla grande guerra europea, questo boom si scontrava però con l’ancor maggiore necessità britannica di reclutare uomini nella propria Marina: tra il 1803 e il 1806 più di 6.000 marinai furono sottratti alle imbarcazioni statunitensi e arruolati con la forza. Si trattava spesso di disertori; ma l’assoluta impossibilità di distinguere un cittadino statunitense da uno britannico, le diverse norme in vigore nei due paesi (per Londra, un cittadino britannico rimaneva tale per tutta la vita) e le forti tensioni esistenti determinarono talora iniziative arbitrarie, al punto da indurre John Quincy Adams a definire l’impressment come un «sistema autorizzato di rapimento sull’oceano»31. Contro i blocchi e contro l’impressment, Jefferson e il suo successore, James Madison, ricorsero a uno dei loro strumenti diplomatici preferiti: la coercizione commerciale. Un primo provvedimento, meramente simbolico, fu rappresentato dal Non-Importation Act dell’aprile 1806, con il quale gli Stati Uniti minacciavano di porre un embargo su alcuni prodotti britannici. In seguito, Jefferson e Madison rigettarono un accordo raggiunto dai negoziatori statunitensi a Londra, James Monroe e William Pinkney, in quanto non accoglieva le richieste statunitensi sull’impressment e impegnava gli Stati Uniti a non utilizzare il commercio come arma diplomatica32.

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La vera svolta si ebbe però nel 1807. Nel giugno di quell’anno una piccola fregata statunitense, la Uss Chesapeake, fu abbordata da un’imbarcazione militare britannica, la Leopard, con l’intenzione di ispezionarla e verificare l’eventuale (e certa) presenza di disertori. Al rifiuto del comandante della Uss Chesapeake di permettere l’ispezione del suo equipaggio, la Leopard cannoneggiò per dieci minuti l’imbarcazione statunitense, uccidendone tre marinai e costringendola alla resa. Quattro disertori britannici furono catturati; uno di essi venne immediatamente impiccato a Halifax, in Canada33. Ne seguì una violenta reazione nazionalista e antibritannica che sembrò «riprodurre lo ‘spirito del 1776’». Un nuovo «fervore rivoluzionario» attraversò il paese. «Non si vedeva questa nazione così esasperata [...] dai tempi della battaglia di Lexington e nemmeno quella produsse un’unanimità simile», affermò Jefferson, il cui obiettivo divenne ben presto quello di far «rivivere la crociata della generazione precedente»34. Il governo britannico si mostrò disponibile a restituire i tre marinai sequestrati e a pagare una riparazione, ma non a porre termine all’impressment, come invece richiesto dagli USA. Jefferson considerò la possibilità di dichiarare guerra alla Gran Bretagna, ma optò infine per una soluzione intermedia, che non escludeva la possibilità di ricorrere in un secondo tempo allo strumento militare. Nel dicembre del 1807 il Congresso, su indicazione del presidente, approvò un embargo sulle esportazioni dagli Stati Uniti. La legge proibiva alle navi statunitensi d’imbarcarsi verso porti stranieri, con l’eccezione di quelle autorizzate dalla presidenza. Farraginosa e imprecisa, la prima legge d’embargo fu rivista e integrata varie volte nei mesi successivi. I cinque embargo acts approvati tra il 1807 e il 1809 proibirono anche le esportazioni via terra (verso il Canada) e, soprattutto, definirono in modo più severo le modalità di attuazione dell’embargo. Nel farlo, giustificarono una svolta draconiana che estendeva e amplificava i poteri e le prerogative dell’esecutivo35. L’embargo costituiva la sublimazione della filosofia di politica estera di Jefferson e Madison: lo strumento ideale per dare corso ai loro ambiziosi progetti di redenzione dell’ordine internazionale, ma anche l’incarnazione delle tante aporie di tale visione. Esso esprimeva una fiducia antica nel peso che l’elemento commerciale poteva esercitare sulle relazioni internazionali; era cioè manifestazione di una visione mercantile della diplomazia e dei rapporti tra gli Stati che

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esaltava l’interdipendenza e la possibilità di sfruttarla da parte della giovane repubblica americana. Al contempo, questa fiducia permetteva di ribadire, orgogliosamente, la convinzione nell’eccezionalità e nella superiorità morale degli Stati Uniti: perché poteva essere collocata entro un discorso irenico, che esaltava una volta di più la lontananza degli USA dalle pratiche europee; perché poggiava formalmente su una equidistanza rispetto al conflitto in corso che esaltava la magnanimità americana; perché, separando gli Stati Uniti, giustificava il ricorso a un topos classico del repubblicanesimo eccezionalista statunitense, fondato sulla paradossale denuncia della valenza corruttrice degli scambi commerciali. Si riconosceva e cercava di sfruttare l’interdipendenza per affermare e rafforzare una volta di più l’eccezionalità. Si usava il commercio in nome del suo rifiuto. Facendolo, si sognava di trasformare il sistema internazionale attraverso un’iniziativa che di fatto isolava e separava gli Stati Uniti36. Queste contraddizioni vennero rapidamente alla luce. Soprattutto, vennero alla luce tutti gli errori della strategia jeffersoniana: «L’embargo del 1807-09 – ricorda Reginald Stuart – sovrastimava la rilevanza del commercio americano per l’economia britannica, esagerava la disciplina nazionale statunitense e sottovalutava i potenziali effetti interni causati dal blocco delle esportazioni»37. La supposta imparzialità dell’embargo era quanto mai fittizia. I volumi dei traffici commerciali con la Gran Bretagna erano assai superiori a quelli con la Francia. Di questo Jefferson aveva piena consapevolezza: l’embargo serviva principalmente per colpire la Gran Bretagna, il «leviatano del mare», il cui dominio sull’Atlantico limitava sul nascere i sogni e i progetti jeffersoniani. Il commercio statunitense non disponeva però di quella forza coercitiva che Jefferson, e ancor più Madison, gli avevano ottimisticamente attribuito. Impegnate in una lotta per la sopravvivenza, né la Francia né la Gran Bretagna fecero alcuna concessione. La Marina mercantile della seconda, anzi, ne approfittò per riacquisire quel primato sull’Atlantico che solo temporaneamente le era stato sottratto38. Ma fu soprattutto sul piano interno che si fecero maggiormente sentire le conseguenze negative dell’embargo. Tra il 1807 e il 1808 le esportazioni passarono da 108 a 22 milioni di dollari. L’improvvisa limitazione dei traffici commerciali – su cui poggiava la prosperità del paese – generò irritazione e malcontento. La manifestazione politica più significativa fu il revival, tanto aspro quanto temporaneo,

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del clima polarizzato del decennio precedente. Alle elezioni del 1808 i federalisti raddoppiarono il numero di rappresentanti alla Camera bassa. Nel Nord-Est commerciale tornarono a farsi sentire le voci di chi denunciava l’élite virginiana al governo. A dispetto delle sanzioni molto severe, si assistette all’esplosione del contrabbando e di traffici illeciti che le autorità federali non erano assolutamente in grado di controllare39. L’embargo del 1807-09 fu un fallimento, di cui il nuovo presidente, James Madison, eletto nel 1808, era corresponsabile. Nei mesi successivi egli cercò di uscire dalla situazione in cui il paese si trovava, rilanciando e potenziando la coercizione commerciale, nella convinzione che l’insuccesso delle sanzioni fosse dovuto solo alle deficienze della loro attuazione. L’obiettivo, affermò il nuovo presidente, doveva essere «l’invigorimento dell’embargo, la proibizione delle importazioni, l’imposizione di dazi permanenti per incoraggiare le manifatture». Era un adattamento del vecchio progetto che Madison aveva invano cercato di promuovere al Congresso quasi vent’anni prima. Ma si trattava comunque di una via intermedia, che un Congresso e un’opinione pubblica ormai divisi e ostili a compromessi non erano più disposti ad accettare40. Il malcontento causato dall’embargo esacerbava infatti le tensioni e lo scontro politico. Alle linee di frattura regionali (Nord vs. Sud), economiche (interessi mercantili vs. interessi agrari) e partitiche (repubblicani vs. federalisti) si aggiungevano ora tensioni intrapartitiche forti nel mondo repubblicano, che Madison faceva assai fatica a controllare. In un primo tempo prevalsero le posizioni più moderate di chi chiedeva un annacquamento dei provvedimenti del 18070941. Nel marzo del 1809 il Congresso approvò il Non-Intercourse Act, una legge che autorizzava le esportazioni verso i mercati europei con l’eccezione di quello francese e di quello britannico. Più tenue dell’embargo del 1807, il Non-Intercourse Act finì solo per facilitare i traffici di contrabbando: le navi statunitensi abbandonavano i porti dichiarando di essere in viaggio per le destinazioni più bizzarre; una volta in mare era difficile, se non impossibile, controllarne la rotta e la meta finale. Il Non-Intercourse Act fu quindi sostituito da un provvedimento ancor più leggero, il cosiddetto Macon’s Bill numero 2. Il Macon’s Bill abrogava tutte le restrizioni commerciali del triennio precedente, ma impegnava gli USA a porre termine agli scambi con uno dei paesi belligeranti qualora l’altro avesse cessato

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di violare i diritti di neutralità degli Stati Uniti. Se una, tra Francia o Gran Bretagna, avesse esentato gli Stati Uniti dai divieti posti dai loro editti e orders in Council, gli USA l’avrebbero ripagata tornando a chiudere il commercio con la sua avversaria42. Il Macon’s Bill costituiva una sorta d’offerta ultimativa alle due grandi potenze europee. In caso di fallimento, ritenevano i legislatori e lo stesso presidente, rimanevano solo due alternative: la capitolazione o la guerra. Come affermò il rappresentante del Kentucky, Henry Clay, uno dei giovani «falchi di guerra» che invocavano un approccio più intransigente: «Preferisco un difficile oceano di guerra, imposto dall’onore e dall’indipendenza del paese, con tutte le sue calamità e desolazioni, alla pozza putrescente e tranquilla di una pace ignominiosa». Il fallimento delle due leggi del 1809 e del 1810 chiuse le porte ai compromessi; la capitolazione non poteva essere contemplata, pena la disgregazione, se non della repubblica, quanto meno dei repubblicani. La guerra parve allora l’unica strada percorribile43.

3. Una seconda indipendenza: la guerra del 1812-14 Napoleone sembrò incline ad accettare le condizioni poste dal Macon’s Bill. Nell’agosto del 1810 la Francia annunciò l’abrogazione degli editti di Milano e di Berlino. Si trattava però di un bluff, uno dei tanti dell’imperatore. Dopo un breve intervallo, le imbarcazioni statunitensi ricominciarono a essere confiscate dalle navi francesi. Ansioso di vedere confermata la sua fiducia nella forza coercitiva del commercio e, ancor più, di colpire la Gran Bretagna, Madison si fidò dell’impegno di Napoleone. Alla fine dell’anno gli Stati Uniti reimposero il Non-Intercourse Act: alle merci trasportate da navi britanniche era nuovamente interdetto l’accesso ai porti statunitensi44. La decisione tornò a inasprire sia il clima politico interno al paese sia i rapporti anglo-statunitensi. I federalisti criticarono la scelta, presentandola come l’ennesima manifestazione di una francofilia che sacrificava, sull’altare dei pregiudizi, i veri interessi del paese. I repubblicani si divisero tra chi invocava la guerra, chi chiedeva l’adozione di iniziative più incisive contro la Gran Bretagna e chi invece assumeva posizioni non distanti da quelle federaliste. Il governo

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di Londra denunciò la natura fraudolenta delle promesse di Napoleone e la faziosità della finta equidistanza statunitense. Tra il 1811 e il 1812 si cercò invano un accordo. La Gran Bretagna versava in difficili condizioni economiche, figlie di una crisi a cui concorrevano varie cause, incluso l’embargo statunitense. Combinata con il peso politico crescente dei liberali, questa crisi indusse Londra a cercare un accomodamento. Nel giugno del 1812 furono quindi revocati i due orders in Council che avevano scatenato la risposta di Jefferson e Madison. La decisione era però accompagnata da una specificazione e da un’omissione particolarmente rilevanti. Da un lato fu ribadito il diritto britannico a dare corso, in futuro, a provvedimenti simili per tutelare il proprio commercio e riaffermare il proprio primato sui mari; dall’altro nulla fu detto riguardo all’impressment 45. La retromarcia era probabilmente insufficiente. Comunque, essa giungeva troppo tardi: da pochi giorni, infatti, gli Stati Uniti avevano ufficialmente dichiarato guerra alla Gran Bretagna. Non si poteva più «rimanere passivi di fronte alle [...] usurpazioni e alle ingiustizie», annunciò Madison il 1° giugno 1812. Bisognava «opporre forza alla forza nella difesa dei propri diritti naturali»46. Gli storici hanno spesso rigettato questa giustificazione, per concentrarsi su interessi più tangibili e immediati capaci di spiegare la scelta, che si rivelò assai azzardata, di Madison. Molti studi hanno sottolineato l’importanza della situazione politica interna. I cosiddetti war hawks erano meno rilevanti e influenti di quanto non si sia a lungo creduto, ma costituivano una delle tante fazioni di un Partito repubblicano diviso, nel quale la stessa ricandidatura di Madison nel 1812 appariva in discussione. Sommando le posizioni dei falchi di guerra con quelle di chi criticava l’inefficacia e la timidezza dei provvedimenti d’embargo fin lì adottati e con gli intrighi di coloro che speravano d’indebolire la presidenza, si può comprendere come la guerra fosse l’ultimo strumento che Madison aveva a disposizione per compattare il fronte repubblicano. Assieme all’«onore della nazione», anche la «salvezza politica del presidente e l’unità del Partito repubblicano» spingevano verso il conflitto47. A sostenere questa scelta vi era anche chi individuava in essa lo strumento con cui promuovere una nuova azione espansionistica, a ovest, sud e nord. Sconfiggere la Gran Bretagna voleva dire rimuovere, questa volta in modo definitivo, l’unico appoggio esterno di cui

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godevano le nazioni indiane. La guerra poteva giustificare un’azione offensiva nel Sud, volta a conquistare i territori a est di New Orleans: la Florida occidentale e quella orientale, sotto debole giurisdizione spagnola e potenziali prede future della Gran Bretagna, all’epoca alleata di Madrid. Ma era soprattutto il Canada ad allettare gli appetiti degli «espansionisti del 1812». Si trattava di un’ambizione antica che aveva assunto negli anni, e con l’embargo, un significato nuovo. Attraverso il confine, permeabile e mal controllato, con il Canada passava gran parte del contrabbando che aveva concorso a rendere inefficace e fallimentare l’embargo. Il Canada era vulnerabile e offriva una delle poche opportunità per un’offensiva. E sempre il Canada, infine, con il suo legname e i suoi prodotti agricoli, aveva permesso alla Gran Bretagna di meglio sopportare l’embargo, surrogando almeno in parte le merci statunitensi fino ad allora necessarie per la sopravvivenza dell’economia imperiale48. Politica e aspirazioni espansionistiche ebbero pertanto una funzione cruciale nel portare alla guerra. Più di tutto, però, la scelta del 1812 costituì il logico portato di una filosofia e di una visione della politica estera di cui Madison era solo l’ultimo rappresentante. Una visione che intrecciava e mescolava identità, interessi e ideologia e che trovava un suo basilare comune denominatore nell’affermazione dei diritti di neutralità. Secondo questa visione la salvaguardia e la promozione dei neutral rights tutelava l’interesse degli Stati Uniti, garantendo la crescita del loro commercio; costituiva il primo, fondamentale momento di un processo di redenzione dell’ordine internazionale schiavo della politica di potenza europea e delle sue pratiche discriminatorie; evidenziava una volta di più al mondo la diversità, e invero la superiorità, degli Stati Uniti. Non a caso, Madison giustificò la sua scelta in nome della salvaguardia della natura e dell’intima essenza dell’esperimento repubblicano statunitense. «Quando gli Stati Uniti hanno assunto e stabilito il loro rango tra le nazioni della terra – scrisse il presidente poco dopo la dichiarazione di guerra – hanno assunto e stabilito una sovranità comune sugli oceani tanto quanto una sovranità esclusiva all’interno dei propri limiti territoriali». La Gran Bretagna aveva sfidato questa doppia sovranità; facendolo aveva umiliato gli Stati Uniti e messo in discussione «la natura del loro governo», come affermò la rivista repubblicana «National Intelligencer»49. In passato, Madison – come Paine e come Jefferson – si era più

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volte scagliato contro la guerra, lo strumento classico con cui le monarchie europee risolvevano le loro dispute e preservavano il controllo dispotico sui loro cittadini. «Di tutti i nemici della libertà pubblica – aveva scritto Madison nel 1795 – la guerra è, forse, quello che più va temuto, perché contiene e sviluppa i germi di tutti gli altri. La guerra è la madre degli eserciti, da cui discendono i debiti e le tasse; e gli eserciti, i debiti e le tasse sono strumenti noti per imporre ai molti il dominio dei pochi»50. Per poter essere legittimata, questa guerra necessitava pertanto di una giustificazione e di un’investitura morale forte. Ricorrendo a un topos che sarebbe tornato spesso negli anni successivi, la guerra con la Gran Bretagna fu presentata come una guerra giusta e salvifica, come una guerra alla guerra o, paradossalmente, una «non-guerra». Un conflitto che doveva riprodurre gli schemi della guerra d’indipendenza, con un popolo in armi capace di sconfiggere l’Esercito e la Marina di una grande potenza europea, in guerra da quasi un ventennio. «Gli occhi dei virtuosi di tutta la terra sono volti con ansia verso di noi, in quanto unici depositari del sacro fuoco della libertà», affermò Jefferson poco prima dello scoppio del conflitto; «una nostra caduta nell’anarchia segnerebbe per sempre i destini dell’umanità e sancirebbe l’eresia politica secondo la quale l’uomo è incapace di autogovernarsi». Indossata una coccarda sul cappello e fornite alcune indicazioni di massima agli uffici competenti, il presidente partì per le sue lunghe vacanze estive. «Con una Marina minuscola, un Esercito privo di addestramento e senza alcun piano finanziario, gli Stati Uniti andarono in guerra»51. La conseguenza fu una lunga e inevitabile serie d’insuccessi e fallimenti. Come già prima di allora, il fronte nord-americano costituì per la Gran Bretagna un teatro periferico e marginale del grande scontro europeo. Diversamente dal passato, gli USA non poterono però appoggiarsi a potenze esterne, poiché la Francia era impegnata ormai su tutti i fronti e non aveva né la capacità né la volontà di sostenere militarmente gli Stati Uniti. Pur inferiori numericamente, le giubbe rosse canadesi respinsero il tentativo d’invasione statunitense. Le leggere fregate americane vinsero alcuni duelli sui mari, costringendo l’ammiragliato britannico a vietare scontri individuali che avvantaggiavano le imbarcazioni statunitensi. A partire dal 1813 vi fu però un contrattacco della Gran Bretagna che impose con successo un severo blocco navale che dal-

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le coste del New England si estendeva sino alla Florida orientale. Gli Stati Uniti ottennero alcuni importanti successi nella regione dei Grandi Laghi, sconfiggendo la rivolta nativista indiana guidata da Tecumseh, e nel Sud, dove un ricco piantatore del Tennessee, il generale della milizia statale Andrew Jackson, sfruttò la guerra civile scoppiata nella nazione creek e promosse una brutale azione militare contro la fazione filobritannica52. Le vittorie sugli indiani avrebbero facilitato l’azione espansionistica che seguì la fine del conflitto. Sul breve periodo, però, esse non poterono compensare le numerose sconfitte statunitensi. I pirati algerini vennero meno ad accordi precedenti e ripresero a sequestrare imbarcazioni statunitensi nel Mediterraneo. La Florida orientale non fu conquistata, nonostante alcune spregiudicate azioni di filibustieri americani che chiedevano l’annessione della regione agli Stati Uniti. I reiterati tentativi di conquistare il Canada non portarono a nulla. La fine della guerra in Europa, con la sconfitta definitiva di Napoleone, permise a Londra di concentrarsi sul fronte nordamericano. Nell’estate del 1814 un corpo di spedizione britannico entrò a Washington e diede alle fiamme numerosi edifici pubblici, inclusa la stessa Casa Bianca. Passando a fianco della tomba di George Washington a Mount Vernon, in Virginia, uno squadrone navale britannico salutò il primo presidente con ventuno umilianti cannonate. Nel New England federalista l’opposizione alla guerra si fece sempre più forte e si prospettò la seria possibilità di una secessione53. L’offensiva britannica sul suolo statunitense fu però bloccata. Baltimora resistette, evitando un destino analogo a quello di Washington54. Un’invasione britannica da nord, nello Stato di New York, fu respinta. Sorte analoga toccò a un’azione militare promossa da sud, nei pressi di New Orleans; qui Andrew Jackson – alla guida di un improbabile contingente di miliziani del Tennessee e del Kentucky, di creoli, afro-americani e pirati – ottenne la più importante vittoria della guerra, almeno in termini militari, respingendo un battaglione inglese e infliggendogli pesanti perdite55. Come la guerra era iniziata all’insaputa della decisione britannica di revocare gli orders in Council, così essa continuò per alcune settimane anche dopo la ratifica della pace. I tempi fisiologici delle comunicazioni transatlantiche fecero sì che la leggendaria battaglia di New Orleans avvenisse pochi giorni dopo la firma del trattato di Gand, siglato dai rappresentanti britannici e statunitensi nel Natale

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del 1814. Dopo venti settimane di fitti negoziati, Stati Uniti e Gran Bretagna decidevano di lasciare in sospeso le tante questioni oggetto di contenzioso e di ripristinare lo status quo ante. A molti, inclusi i negoziatori, parve più un armistizio che un vero e proprio trattato. Le mutate condizioni internazionali, con la sconfitta di Napoleone e la conseguente riapertura degli scambi sull’Atlantico, e gli effetti tangenziali della guerra negli USA, su tutti le azioni contro le nazioni indiane nel Sud, aprivano le possibilità auspicate da Jefferson e Madison. Sulle ceneri fumanti di Washington, e dopo un’impressionante serie di umiliazioni militari, gli Stati Uniti si apprestavano a dare una prima, ancorché parziale, forma continentale al proprio impero56.

4. Destini transcontinentali e pratiche ‘civilizzatrici’ La guerra del 1812-14 offrì nuove opportunità di conquista territoriale ai danni delle popolazioni native. Nel ventennio precedente, gli Stati Uniti avevano ratificato numerosi trattati con diverse nazioni indiane, a nord e a sud del fiume Ohio. Il trattato di Greenville, del 1795, successivo alla sconfitta della confederazione delle tribù occidentali nella battaglia di Fallen Timbers, aveva assegnato agli Stati Uniti l’Ohio meridionale e orientale. Soprattutto, aveva concesso agli USA il diritto di promuovere azioni militari preventive in tutto il territorio nord-occidentale, incluse le aree che non cadevano sotto la giurisdizione statunitense, e la possibilità di costruire postazioni e forti nella regione. Queste clausole permisero subito di violare i termini dell’accordo e di facilitare la penetrazione nel NordOvest57. Negli anni successivi furono ratificati vari altri accordi con nazioni indiane o con rappresentanti di loro fazioni. Solamente durante i due mandati di Jefferson vennero firmati 32 trattati, che garantirono agli Stati Uniti l’acquisizione di circa 500.000 chilometri quadrati. Jefferson ambiva inizialmente a controllare l’intero territorio tra gli Appalachi e il Mississippi; l’acquisto della Louisiana estese però le ambizioni statunitensi e modificò inevitabilmente i termini della questione. Da un lato, esso offrì la possibilità di barattare le terre a est del Mississippi con quelle a ovest del grande fiume, ovvero di utilizzare queste ultime per deportarvi le nazioni indiane che non avesse-

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ro cooperato. Dall’altra, impose uno sforzo di esplorazione, mappatura e catalogazione dei nuovi territori ceduti da Napoleone, i cui confini erano ancora incerti e apertamente contestati dalla Spagna58. L’atteggiamento di Jefferson verso la questione indiana ricalcò quello dei suoi predecessori, riproponendone tutte le ambiguità e contraddizioni. Jefferson riaffermò la sua fiducia nella possibilità di includere le nazioni indiane nella più alta ‘civiltà’ statunitense, attraverso un processo di loro progressiva assimilazione e integrazione. Le esigenze di sicurezza nazionale, il sostegno all’espansionismo e il «vorace appetito per le terre indiane» lo indussero nondimeno a utilizzare tutti gli strumenti possibili per soddisfare i propri obiettivi. I programmi di ‘civilizzazione’, attraverso cui i nativi dovevano essere trasformati in proprietari agricoli sedentari e indipendenti, andarono di pari passo con la conquista e con l’utilizzo di strumenti particolarmente spregiudicati, su tutti un’azione mirata all’indebitamento dei nativi nei confronti di creditori statunitensi, attraverso cui generare una loro condizione di dipendenza economica (e quindi di controllo)59. Sul breve periodo questa politica sembrò dare i frutti sperati. Ma durante il secondo mandato jeffersoniano molte nazioni indiane, sia nel Nord-Ovest sia nel Sud-Ovest, cominciarono a ribellarsi, rifiutando i termini degli accordi firmati fino ad allora ovvero denunciandone le violazioni e il mancato rispetto. Questa ribellione si legò inestricabilmente con il quadro internazionale e con il rinnovarsi delle tensioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Nei territori nord-occidentali, all’interno della nazione shawnee, si diffuse un’ideologia nativista che chiamava alla resistenza nei confronti della ‘civilizzazione’ forzosa imposta da Washington. Il nativismo shawnee trovò una guida spirituale nel profeta Tenskwatawa e nei suoi inviti a riabbracciare le antiche pratiche aborigene, ridurre al minimo i contatti con i bianchi e porre le premesse per una controffensiva finalizzata a spingere gli americani, la «razza demoniaca», nel mare da cui erano giunti60. Nell’immediato, il profeta shawnee intraprese una campagna di ampio proselitismo nella regione dei Grandi Laghi e promosse una caccia alle streghe nei confronti di quei leader indiani che avevano firmato accordi con gli Stati Uniti, tradendo le popolazioni da loro guidate61. Questa campagna nativista, a sfondo spirituale e religioso, cominciò a preoccupare Jefferson e Madison quando ad essa si

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aggiunse l’iniziativa – tutta politica e militare – del fratello del profeta, Tecumseh. La rinnovata resistenza indiana facilitò il progetto di Tecumseh di creare una vasta confederazione indiana, che includeva sia le nazioni del Nord-Ovest (l’antica confederazione occidentale) sia le cinque nazioni del Sud-Ovest. Questa confederazione avrebbe dovuto bloccare l’avanzata americana, rinegoziare le precedenti cessioni di territorio e creare uno Stato cuscinetto a ovest degli Appalachi, capace di sfruttare il balance of power nord-americano e di appoggiarsi, a seconda delle circostanze, alla Gran Bretagna (in funzione antistatunitense) ovvero agli Stati Uniti (in funzione antibritannica). I progetti di Tecumseh preoccuparono molto il governo statunitense: William Henry Harrison, il superintendente per le questioni indiane di Jefferson, arrivò a ritenere Tecumseh in grado di fondare «un impero capace di rivaleggiare in gloria con quelli del Messico o del Perù»62. I sogni di Tecumseh s’infransero contro la reazione statunitense. Nel novembre del 1811, con un’azione preventiva, l’esercito statunitense riuscì a distruggere le truppe assemblate da Tecumseh. Durante la guerra del 1812-14, il leader shawnee schierò i suoi uomini a fianco della Gran Bretagna trovando la morte nel tentativo di proteggere le truppe britanniche durante la loro ritirata da Detroit. A fianco di Tecumseh combatterono molti esponenti di una fazione dei creek, i Red Sticks. Lo sforzo di confederare le nazioni indiane da nord a sud era fallito, ma la resistenza nativista si era estesa oltre la valle dell’Ohio giungendo fino ai territori sud-occidentali a est del Mississippi. Ciò ebbe una duplice conseguenza: stimolò nel Sud-Ovest la resistenza alla penetrazione americana e acuì le divisioni tra le diverse fazioni dei creek, la principale nazione indiana del Sud-Ovest, alcune delle quali cooperavano da tempo con il governo statunitense. Anche nella regione sud-occidentale gli Stati Uniti avevano ratificato vari trattati con le nazioni indiane attraverso cui queste avevano acconsentito a cedere parte dei propri territori. Di particolare importanza furono gli accordi siglati con i cherokee nel 1806 e con una delegazione dei creek nel 1805. Oltre all’acquisizione di terra in cambio di una retta annuale o di una cessione di aree a ovest del Mississippi (dove le nazioni beneficiarie si scontrarono spesso con popolazioni native che già risiedevano nella zona oggetto di scambio),

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tali accordi concedevano agli Stati Uniti il diritto di costruire collegamenti stradali nelle regioni ancora sotto sovranità indiana63. Le resistenze a questi trattati fecero sì che la guerra del 1812-14 avesse anche un fronte indiano sud-occidentale. Un fronte complicato da vari fattori: le divisioni interne alla nazione creek, che di fatto trasformarono il conflitto in una vera e propria guerra civile; il ruolo della Spagna, sotto la cui debole giurisdizione cadevano questi territori e che cercava di surrogare la propria fragilità militare appoggiando le tribù indiane in funzione antistatunitense; il sostegno britannico alla fazione dei creek ostile agli accordi con gli Stati Uniti; l’impossibilità per Washington d’impegnarsi militarmente in una regione che rimaneva strategicamente secondaria; le mire dello Stato della Georgia sui territori a sud dei propri confini; le opportunità che questa situazione, fluida e caotica, apriva ad avventurieri, filibustieri e ambiziosi comandanti locali come Andrew Jackson64. In un primo momento la guerra dei creek vide scontrarsi l’ala nativista dei Red Sticks, guidati da Aquila Rossa (uno scozzese per parte di padre, il cui primo nome era William Weatherford), e i creek del Sud, alleati degli USA e da questi armati e finanziati. Nell’agosto del 1813 Aquila Rossa guidò un raid contro Fort Mims, nell’attuale Mississippi, sterminandone gli abitanti. L’azione scatenò la risposta sia del governo federale sia del governatore del Tennessee, che inviò nella regione Andrew Jackson e la sua milizia. Ne seguì un conflitto durato quasi sei mesi, perseguito con straordinaria ferocia da entrambe le parti. Una guerra, questa, destinata ad avere un impatto duraturo sulla politica indiana che gli Stati Uniti avrebbero perseguito da allora in poi e che si sarebbe caratterizzata per un progressivo abbandono delle utopie assimilazioniste e ‘civilizzatrici’ di Jefferson. Andrew Jackson esplicitò questo cambiamento, rigettando l’idea che le nazioni indiane costituissero delle entità sovrane con le quali fosse possibile (e necessario) stabilire relazioni paritetiche e firmare accordi. Gli indiani – affermò Jackson – erano «figli della natura» che «risiedevano nel territorio degli Stati Uniti» ed erano quindi soggetti alla «loro sovranità» e «alle loro leggi». Ratificare dei trattati con le nazioni indiane era semplicemente un’«assurdità»65. Jackson, che quindici anni più tardi sarebbe stato eletto presidente, cominciò allora a costruire la sua fama di condottiero coraggioso, capace e implacabile. Dopo aver represso vari episodi di insubordinazione e ammutinamento, Jackson conquistò una vittoria

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decisiva nella battaglia di Horseshoe Bend, sulle rive del fiume Tallapoosa, dove i suoi uomini sterminarono più di mille Red Sticks66. La sconfitta dei creek nativisti permise a Washington d’imporre le proprie condizioni a tutta la nazione creek, inclusa la fazione alleata degli Stati Uniti, che aveva combattuto a fianco di Jackson. Con il punitivo trattato di Fort Jackson dell’agosto 1814, gli Stati Uniti riuscirono a sottrarre ai creek circa la metà dei loro possedimenti territoriali. Una parte dei capi creek, non disposti ad accettare i termini dell’accordo, scappò in Florida con l’intenzione di riprendere in futuro le ostilità67. Combinandosi con la fine della guerra con la Gran Bretagna, la sconfitta dei creek e il trattato di Fort Jackson mutarono radicalmente i termini della questione meridionale. Il problema cessò di essere la vulnerabilità di un fronte di guerra a cui gli USA potevano dedicare poche risorse e nel quale la Gran Bretagna era in grado di sfruttare il risentimento antistatunitense di alcune nazioni indiane. Si ripropose invece l’opportunità di sfruttare la debolezza spagnola per espandersi a sud e incamerare quelle due Floride – orientale e occidentale – che si era cercato senza successo di conquistare dopo l’acquisto della Louisiana. L’annessione delle Floride, in particolare quella orientale, permetteva il raggiungimento di diversi obiettivi. Da un punto di vista geopolitico, avrebbe completato e integrato l’acquisizione di New Orleans, garantendo agli USA una posizione dominante sul Golfo del Messico. Per quanto riguarda la politica di sicurezza, sottrarre le Floride alla Spagna significava ridurre ulteriormente la capacità di quest’ultima di ostacolare le future ambizioni espansionistiche nei territori a ovest del Mississippi. Infine, sarebbe stato possibile sconfiggere in modo definitivo le resistenze indiane – dei creek fuggiti in Florida e dei seminole che vi risiedevano – e sottrarre agli schiavi fuggiaschi l’ultimo rifugio loro rimasto: approfittando della guerra, della debole capacità di controllo spagnola e della possibilità di trovare accoglienza tra i seminole, numerosi schiavi afro-americani erano infatti scappati in Florida, suscitando le ire degli schiavisti meridionali, in particolare di quelli della Georgia68. La strategia perseguita dagli Stati Uniti per ottenere le Floride seguì un duplice binario: il momento diplomatico s’intrecciò con quello militare; il negoziato con la Spagna si sovrappose alle incursioni nella regione dell’esercito statunitense e di alcune milizie statali. Del-

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le operazioni militari fu ovviamente protagonista Andrew Jackson; dell’azione diplomatica si occupò invece, con abilità e spregiudicatezza, il nuovo segretario di Stato, John Quincy Adams69. Per il governo statunitense, i creek, i seminole e la Spagna erano tenuti a rispettare i termini dell’accordo di Fort Jackson. Nessuno di essi era disposto a farlo. La Spagna contestava la vendita di territori indiani che ricadevano nel Sud-Ovest. Gran parte dei leader creek, in particolare dei Red Sticks, e dei seminole non riconosceva la legittimità di un accordo firmato solo dalla fazione alleata degli Stati Uniti. Tutti rimandavano all’art. 9 del trattato di Gand, che prevedeva la restituzione agli alleati della Gran Bretagna delle terre perse durante la guerra e il conseguente ritorno allo status quo ante del 181170. L’amministrazione Madison era incline ad accettare questa interpretazione del trattato e a restituire, sia pure temporaneamente, i territori conquistati. Contro questa eventualità si schierò Jackson, mentre la Gran Bretagna – impegnata in uno sforzo di riconciliazione con gli Stati Uniti – manifestò subito il suo disinteresse per le sorti dei vecchi alleati indiani. Ottenuta una maggiore libertà d’azione, e promosso al rango di generale maggiore, Jackson riprese la sua attività militare nella regione. La presenza di schiavi fuggiaschi e di indiani ostili offriva un pretesto ideale a tali azioni. L’obiettivo ultimo era però quello di sottrarre le Floride alla Spagna per annetterle all’Unione71. Nel 1816 Jackson pianificò un’ardita azione militare, guidata dal generale Gaines, contro la fortificazione di Prospect Bluff, sul fiume Apalichicola, quasi all’altezza del Golfo del Messico. La fortificazione era stata ribattezzata Fort Negro, perché vi vivevano circa 300 schiavi fuggiaschi assieme ad alcuni indiani choctaw. Il forte costituiva «un rifugio di libertà per un numero crescente di schiavi irrequieti, una lanterna cieca di rovina economica e d’insubordinazione violenta per i proprietari di schiavi». Gaines e Jackson lo fecero bombardare, uccidendo quasi tutti gli occupanti72. La distruzione di Fort Negro costituì il preludio di una ripresa delle ostilità contro gli indiani del Sud e dello scoppio della prima «guerra dei seminole». Tra il 1816 e il 1817 gli indiani seminole del Nord della Florida si rifiutarono di liberare le terre concesse agli USA secondo i termini dell’accordo di Fort Jackson e intrapresero una serie di raid contro gli insediamenti bianchi. Gaines rispose distrug-

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gendo il villaggio indiano di Fowltown, nell’area contestata. Per rappresaglia, i seminole sterminarono i cinquanta passeggeri, inclusi donne e bambini, di un’imbarcazione che scendeva l’Apalichicola. Nel dicembre del 1817 il segretario della Guerra, John Calhoun, assegnò a Jackson il comando delle forze statunitensi nella regione, autorizzandolo a penetrare in profondità nella Florida orientale. La guerra offriva l’attesa opportunità di conquistare le Floride: «Il movimento contro i seminole – scrisse il presidente Monroe a Jackson – la porterà in un teatro dove potrà essere costretto a svolgere altri servigi [...]. Sono in ballo grandi interessi [...] non è questo il momento per il riposo»73. Alla guida di circa 5.000 uomini tra soldati regolari, milizie del Tennessee e creek alleati, Jackson promosse una campagna di terrore e devastazione, distruggendo numerosi villaggi indiani, tagliando le fonti di comunicazione e approvvigionamento dei guerrieri seminole, costringendoli a rifugiarsi nelle inospitali paludi della Florida e occupando alcune fortezze spagnole, tra le proteste di Madrid. Nel corso delle operazioni, Jackson catturò due cittadini britannici, Alexander Arbuthnot e Robert Ambrister. Avventurieri abolizionisti e sostenitori della causa indiana, Arbuthnot e Ambrister avevano invano cercato di convincere Londra a sostenere i seminole. Jackson li condannò a morte, senza attendere le indicazioni di Washington, per dare un «esempio terribile ai seminole». Successivamente, Jackson mosse verso Pensacola, la capitale della Florida occidentale, occupandola e deportando il governatore spagnolo all’Havana. Nel resto della regione, in particolare al confine con la Georgia, l’isteria anti-indiana catalizzata dalla guerra dei seminole provocò azioni di distruzione anche dei villaggi di popolazioni native alleate con gli USA74. Di fatto, Jackson aveva conquistato le due Floride. L’incapacità della Spagna di controllare le due province, affermò Jackson, imponeva l’occupazione statunitense per ripristinare l’ordine e tutelare la sicurezza del paese. Ma le sue azioni violavano sia il diritto internazionale, più volte invocato dagli USA negli anni precedenti, sia il dettame costituzionale. Il rappresentante diplomatico spagnolo negli Stati Uniti, don Luis de Onís, denunciò le iniziative di Jackson come «vessazioni enormi senza precedenti nella storia»; analoghi giudizi comparvero sulla stampa statunitense, anche se molti presero subito le difese del generale. Monroe e Calhoun avevano concessa

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ampia autonomia a Jackson, ma non al punto da giustificare iniziative che rischiavano di portare a una guerra con la Spagna o, ancor peggio, al rinnovarsi delle ostilità con la Gran Bretagna. Per questo Calhoun e un altro membro del gabinetto, il segretario del Tesoro William Crawford, chiesero a Monroe di sconfessare Jackson e restituire il territorio conquistato75. La Spagna era però troppo debole per resistere alle mire statunitensi e mantenere le Floride; a dispetto delle accese proteste, l’obiettivo di Onís era quello di giungere a un compromesso che permettesse a Madrid la preservazione di una parte del suo impero nord-americano. L’unica resistenza esterna poteva giungere dalla Gran Bretagna, con la quale era però in atto una distensione diplomatica promossa da John Quincy Adams e dal ministro degli Esteri britannico, Lord Castlereagh. Nel 1817 e nel 1818 Londra e Washington ratificarono anzi due fondamentali accordi che smilitarizzavano la regione dei Grandi Laghi, fissavano all’altezza del 49° parallelo il confine tra il Canada e gli Stati Uniti – dal Lake of the Woods fino alle Montagne Rocciose – e prevedevano la colonizzazione congiunta del vasto territorio nord-occidentale dell’Oregon, corrispondente agli attuali Stati di Washington, dell’Oregon, dell’Idaho e di una parte di Wyoming, Montana e Columbia Britannica76. La conquista delle Floride poteva quindi essere bloccata solo da un’opposizione interna all’operato di Jackson quale quella mossa da Calhoun e Crawford. La posizione dei due segretari fu quasi accolta da Monroe, ma fu contrastata con straordinaria abilità da John Quincy Adams. Predestinato alla leadership, John Quincy era stato l’unico dei tre figli del secondo presidente a soddisfare le aspettative paterne (e, ancor più, materne), sottoponendosi a una formazione durissima e inflessibile e assumendo immediatamente un ruolo pubblico, che lo aveva portato a rappresentare diplomaticamente il suo paese in numerose corti straniere77. John Quincy Adams era un ardente espansionista. Non diversamente da molti suoi predecessori, riteneva che gli USA fossero un paese eccezionale investito dalla responsabilità storica di redimere e trasformare l’ordine internazionale; una responsabilità, questa, che solo il loro rafforzamento e ampliamento avrebbe permesso di soddisfare. Legge naturale – la tradizionale visione continentalista – e legge divina – l’investitura provvidenziale degli Stati Uniti come nazione unica e senza pari – si univano nel giovane Adams nell’alimentare una convinzione inscalfibi-

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le nel destino imperiale del paese. Chi guidava la politica estera degli Stati Uniti diventava uno strumento della «Provvidenza divina», l’agente di un «Dio secondario». «Il mondo» – aveva affermato John Quincy Adams – doveva «familiarizzare con l’idea di considerare come nostro proprio dominio l’intero continente del Nordamerica. Dal giorno in cui siamo diventati indipendenti questa pretesa ha costituito una legge di natura tanto quanto il fatto che il Mississippi debba scorrere verso il mare». L’intero Nordamerica «era stato destinato dalla divina Provvidenza a essere popolato da una nazione che parla una lingua, professa un sistema generale di principi religiosi e politici ed è abituata a un unico tenore generale di costumi e abitudini sociali». La presenza di colonie britanniche e spagnole nel continente a fianco di una «potenza grande, vigorosa, intraprendente e in costante crescita» come quella statunitense costituiva secondo John Quincy Adams «un’assurdità fisica, politica e morale»78. Mosso da questi obiettivi, e non senza tormenti interiori, Adams decise di appoggiare Jackson. Solo in questo modo sarebbe stato possibile sfruttarne diplomaticamente i successi militari, giungere a un accordo con la Spagna e, tramite questo, dare corso al destino. L’azione di Jackson – sostenne Adams in una lettera inviata all’ambasciatore statunitense a Madrid, George Erving – aveva avuto una funzione eminentemente preventiva e difensiva; si era resa necessaria per garantire la sicurezza del paese dai raid indiani. Occupare Pensacola era stato essenziale per ovviare alla palese incapacità spagnola di tutelare l’ordine nella regione: una decisione di «necessaria autodifesa» per proteggere i «pacifici abitanti della Georgia» dalle «orde miste d’indiani e negri fuorilegge»79. L’intervento di Adams salvò politicamente Jackson e pose le premesse del successivo accordo con la Spagna. Non potendo far leva né sull’appoggio britannico né sulle divisioni interne all’amministrazione Monroe, Madrid fu costretta a cedere. Adams sfruttò l’occasione per chiedere e ottenere non solo le Floride, ma anche il riconoscimento del possesso di una ‘finestra’ sul Pacifico. L’accordo raggiunto tra Adams e Onís nel febbraio del 1819 prevedeva infatti la cessione agli Stati Uniti delle due Floride, l’assunzione da parte di Washington dei crediti (circa 5 milioni di dollari) vantati dai suoi cittadini nei confronti del governo spagnolo e la rinuncia della Spagna a qualsiasi rivendicazione sull’area del Nord-Ovest fino al Pacifico.

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I due paesi si accordavano per fissare un confine transcontinentale che iniziava all’altezza del fiume Sabine e proseguiva poi lungo il 42° parallelo (il confine meridionale del territorio dell’Oregon) fino al Pacifico. Gli USA rinunciavano – anche se solo temporaneamente – al Texas, che rimaneva sotto controllo spagnolo. L’accordo rimuoveva le ambiguità e le incertezze che avevano seguito l’acquisto della Louisiana. Completava da nord a sud il processo di acquisizione dei territori a est del Mississippi, che ora includevano anche le ambite Floride. Più di tutto, faceva degli Stati Uniti una repubblica transcontinentale, dando un primo, parziale compimento alle visioni continentaliste che avevano dominato il discorso geopolitico statunitense fin dall’indipendenza. Motivazioni tangibili – il commercio del pellame e il sogno di potersi avvicinare ai mitici mercati asiatici – avevano stimolato la ricerca di un accesso nord-occidentale al Pacifico. Ma il fattore determinante era stato rappresentato dalla convinzione che esso rappresentasse il passaggio obbligato verso una sorte imperiale cui non era possibile sottrarsi; che costituisse la premessa di un futuro il cui pieno compimento imponeva un presente di conquista e di espansione80.

5. Testi sacri 4: la Dottrina Monroe Il «trattato transcontinentale» – come divenne noto l’accordo Adams-Onís – era stato facilitato dall’estrema fragilità dell’impero spagnolo e rispondeva alla volontà degli Stati Uniti di affermare il proprio primato nel continente. In quanto tale costituiva la prima, esplicita manifestazione di un disegno egemonico statunitense nell’emisfero occidentale. Questi due elementi – le difficoltà della Spagna e le aspirazioni continentaliste degli USA – condizionarono le iniziative diplomatiche di John Quincy Adams. La crisi dell’impero spagnolo e il suo prossimo tracollo nell’America Latina s’intrecciarono peraltro con le mire di alcuni paesi europei sulle Americhe e con le volontà restauratrici delle monarchie reazionarie – Austria, Prussia e Russia – unite nella Santa Alleanza. Gli Stati Uniti furono costretti a dare risposta a questa nuova situazione. Nel farlo, consolidarono e raffinarono alcune

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delle categorie fondative di un modo peculiarmente statunitense di fare politica estera e di considerare il sistema internazionale. La conquista della ‘finestra’ sul Pacifico fu subito contestata dalla Russia. Nel 1821, lo zar Alessandro I aveva emesso un decreto (un ukase) che vietava il commercio alle imbarcazioni straniere nelle acque distanti meno di 100 miglia dalla costa che andava dall’Alaska fino al 51° parallelo (corrispondente all’attuale baia di Vancouver). L’ukase colpiva i progetti di sviluppo commerciale nel Nord-Ovest, che erano stati una delle cause del trattato transcontinentale. Soprattutto, il decreto zarista evidenziava la persistenza di aspirazioni coloniali europee sulle Americhe. La Russia rivendicava la sua presenza e la sua sovranità su una regione che Stati Uniti e Gran Bretagna si erano accordati per colonizzare congiuntamente e sulla quale si estendevano già i disegni espansionistici statunitensi. Adams rispose ribadendo il primato continentale degli Stati Uniti e affermando l’inaccettabilità di ulteriori colonizzazioni europee delle Americhe. Era venuto il tempo – affermò il segretario di Stato nel 1823 – per le «nazioni americane d’informare i sovrani d’Europa che i continenti americani non» erano «più aperti agli insediamenti di nuove colonie europee»81. Il principio della non colonizzazione veniva così esplicitamente affermato, anticipando la reazione di Washington alla crisi apertasi in America Latina. Qui si stava completando l’implosione dell’impero spagnolo. A cavallo tra gli anni Dieci e Venti dell’Ottocento nacquero varie repubbliche indipendenti. Una parte della leadership e dell’opinione pubblica degli Stati Uniti salutò con entusiasmo questa ondata decolonizzatrice e indipendentista: perché sembrava replicare il modello statunitense e costituire un ulteriore passaggio nel processo di palingenesi dell’ordine internazionale invocato dagli Stati Uniti; perché apriva profittevoli opportunità commerciali in Sudamerica; perché la fine del dominio spagnolo poteva offrire una nuova direttrice, meridionale, all’espansionismo statunitense. Già nel 1818 Henry Clay, influente senatore del Kentucky e futuro candidato presidenziale, introdusse una risoluzione nella quale si chiedeva il riconoscimento degli Stati nati in America Latina. «I patrioti del Sud stanno combattendo per la libertà e l’indipendenza, esattamente ciò per cui noi combattemmo», affermò Clay, non omettendo peraltro di ricordare che gran parte dei «metalli preziosi» mondiali si trovavano nella regione e che questi «avrebbero attratto i pro-

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dotti richiesti dal Sudamerica»: «La nostra navigazione si avvantaggerebbe da tali trasporti – affermò Clay – e il nostro paese ne trarrebbe dei vantaggi mercantili»82. Adams era però contrario a qualsiasi riconoscimento immediato dei nuovi Stati e, ancor più, a un intervento statunitense in loro appoggio. Varie ragioni spiegano la posizione assunta dal segretario di Stato. Innanzitutto bisognava evitare di irritare la Spagna prima della ratifica del trattato transcontinentale. In secondo luogo gli Stati Uniti non disponevano dei mezzi per intraprendere delle crociate globali («gli americani non vanno in giro in cerca di mostri da distruggere», avrebbe dichiarato Adams in una delle sue massime più note, citate e fraintese). Infine, le popolazioni latine, cattoliche e spesso meticce dell’America Latina non sembravano predisposte a fare proprie quella libertà e quell’indipendenza che aveva trovato invece un fertile terreno in Nordamerica. I latino-americani – affermò Adams nel 1821 – non disponevano «degli elementi di base di un governo libero e capace. Il potere arbitrario, militare ed ecclesiastico» era stato «impresso sulle loro consuetudini e sulle loro istituzioni». Dalla «materia spagnola» – affermò il senatore della Virginia, John Randolph – non era possibile «estrarre la libertà». La «violenza e pigrizia» delle popolazioni sud-americane erano, secondo l’influente «North American Review», «le conseguenze naturali della degenerazione di una razza ibrida, rovinata dalla tirannia e afflitta dalla malvagia influenza delle condizioni climatiche tropicali»83. Nei decenni successivi questo discorso razzista avrebbe vieppiù dominato l’atteggiamento statunitense verso il Sudamerica. Nondimeno, la situazione apertasi nell’area allettava la dirigenza statunitense. I mercati e le ricche risorse naturali dell’America Latina sembravano offrire straordinarie occasioni di profitto per una nazione, quella statunitense, in cui il peso relativo degli interessi commerciali era particolarmente forte. All’inizio degli anni Venti dell’Ottocento, l’America Latina assorbiva il 13% delle esportazioni statunitensi: una cifra già rilevante e destinata a crescere esponenzialmente una volta scardinato il sistema mercantilistico imposto da Madrid. Un intervento europeo a difesa dell’impero spagnolo, quale quello invocato dalle potenze della Santa Alleanza, e dalla Russia di Alessandro I in particolare, poteva mettere a repentaglio questa opportunità. Sappiamo oggi che molte delle paure statunitensi erano prive di fondamento: le potenze del concerto europeo non avevano i mezzi, la

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coesione e la volontà per promuovere un’iniziativa finalizzata alla restaurazione del dominio spagnolo in America Latina. La Gran Bretagna era contraria e si era già creata una prima frattura nel blocco di Vienna. La posta economica in palio, l’agitarsi russo e l’intervento del concerto nella crisi spagnola del 1820-22 alimentarono però il timore genuino di un intervento europeo anche nell’emisfero occidentale84. Adams si adoperò quindi per raggiungere un triplice obiettivo: tutelare gli interessi economici statunitensi; evitare ingerenze europee, riaffermando e consolidando il primato emisferico degli Stati Uniti; prevenire azioni imprudenti di sostegno alle nuove repubbliche, per le quali gli USA non avevano i mezzi e che avrebbero comunque rischiato di ‘contaminare’ la repubblica nord-americana. Vi era ovviamente un calcolo, realistico, di quali fossero le capacità e le possibilità della giovane nazione statunitense e di ciò che era maggiormente conveniente da un punto di vista elettorale. Ma vi era anche la riaffermazione dei principi e dei presupposti che avevano informato fino ad allora il modo di agire degli USA nel sistema internazionale, in particolare la volontà di ridurre l’influenza dell’Europa nelle Americhe e, facendolo, di accrescere quella degli Stati Uniti85. Questi obiettivi spiegano il comportamento assunto da Adams e Monroe nel 1822-23, che sarebbe culminato nel lungo messaggio del presidente al Congresso del dicembre 1823. Verificata l’impossibilità per la Spagna di preservare da sola le sue colonie americane, e completato il processo di ratifica del trattato transcontinentale, nel 1822 gli USA decisero di riconoscere – prima potenza a farlo – gli stati di nuova indipendenza86. Pochi mesi più tardi, il nuovo ministro degli Esteri britannico, George Canning, propose agli Stati Uniti di emettere una dichiarazione congiunta nella quale i due paesi affermavano che nessun nuovo dominio coloniale sarebbe stato realizzato in America Latina e che sia gli Stati Uniti sia la Gran Bretagna avrebbero rinunciato ad acquisire nuovi territori nella regione. Si trattava di un’offerta straordinaria e inaspettata: la principale potenza mondiale offriva agli Stati Uniti una vera e propria partnership strategica, fondata sul comune interesse a evitare la ricolonizzazione dell’America Latina e ad accedere ai suoi mercati e alle sue risorse. Monroe si rivolse ai suoi mentori e predecessori, Jefferson e Madison, per chiedere una valutazione della proposta e un

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consiglio. A dispetto della loro antica, ancorché mitigata, anglofobia, entrambi espressero parere favorevole all’accordo con Londra. Pur esprimendo perplessità rispetto alla clausola dell’accordo che prevedeva la rinuncia a future annessioni, Jefferson sottolineò come la Gran Bretagna fosse «la nazione che maggiormente poteva arrecare danno» agli Stati Uniti: «Con essa dalla nostra parte – affermò Jefferson – non avremo più bisogno del resto del mondo»87. Adams era di parere diverso. Una partnership con la Gran Bretagna avrebbe messo gli USA in una condizione di subalternità e continuato a legare il nuovo mondo all’Europa, al suo balance of power e ai suoi antagonismi. L’interesse britannico a evitare nuove colonizzazioni in America Latina e a prevenire la restaurazione della sovranità spagnola nella regione, e la rottura di Londra con il resto del concerto europeo, erano ormai certi e avvantaggiavano gli Stati Uniti, anche senza la dichiarazione congiunta proposta da Canning. Soprattutto, la richiesta d’impegnarsi a non acquisire nuovi territori si scontrava con i progetti espansionistici di Adams e, più in generale, con la rivendicazione di primato emisferico che sottostava ad essi. A dispetto delle apparenze, la proposta britannica non dava agli USA nulla che essi non avessero già, obbligandoli invece a significative rinunce88. La linea di Adams prevalse dopo un acceso dibattito all’interno dell’amministrazione. La posizione statunitense fu illustrata in un lungo messaggio presidenziale al Congresso, che riprendeva in larga misura le idee e il linguaggio utilizzato da Adams per spiegare la sua contrarietà ad accettare l’offerta britannica. Il messaggio – che negli anni sarebbe divenuto noto come Dottrina Monroe – affermava tre principi basilari che avrebbero a lungo orientato i comportamenti e le decisioni statunitensi verso il Sudamerica89. Il primo principio era rappresentato dalla non colonizzazione, più volte affermata nei mesi precedenti: «D’ora innanzi – si affermava nel messaggio – i continenti americani, in virtù delle condizioni di libertà e d’indipendenza che hanno assunto e mantenuto, non sono da considerarsi soggetti di future colonizzazioni da parte delle potenze europee». Il secondo principio era quello del non intervento: Washington s’impegnava a non interferire nelle questioni europee, ma sottolineava altresì di considerare «qualsiasi tentativo» da parte dell’Europa di «estendere il suo sistema su una parte di questo emisfero» come «pericoloso per la pace e la sicurezza» degli Stati Uniti. Il terzo principio, che se-

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guiva logicamente i primi due, era rappresentato dalla separazione o dalla politica delle due sfere, che divideva Europa e Americhe e le impegnava alla non ingerenza reciproca, che gli Stati Uniti, mai intervenuti «nelle guerre combattute dalle potenze europee su questioni di loro pertinenza», avevano già dimostrato di rispettare. Vi era una certa ingenua arroganza nel messaggio di Monroe e Adams. Gli Stati Uniti – un paese ancora debole, la cui Marina militare era, per dimensioni e capacità di fuoco, più o meno equivalente a quella del Cile – intimavano al resto del mondo di restare fuori dall’emisfero occidentale. In cambio, offrivano magnanimamente di evitare un intervento nelle questioni europee che era assolutamente al di là della loro portata. La reazione europea fu un misto di sorpresa, indignazione e sufficienza: «Gli Stati Uniti» – affermò il cancelliere austriaco Klemens von Metternich – tornavano a «sorprendere l’Europa con un nuovo atto di rivolta», «audace e non provocato» come lo erano stati altri del passato90. Pur mancando della forza retorica e stilistica dei grandi documenti che l’avevano preceduta, la Dottrina Monroe riprendeva, aggiornava e adattava le categorie, le pratiche e l’ideologia che avevano definito fino ad allora la politica estera degli Stati Uniti. Tornava a sintetizzare e a fondere l’identità che il paese si attribuiva, gli ideali di cui esso asseriva di farsi portatore e le modalità con cui veniva declinato l’interesse nazionale. Riaffermava con forza una visione e un’autorappresentazione eccezionalista, che faceva della separazione dall’Europa (e dell’alterità ad essa) il suo elemento fondativo primario. Riproponeva una filosofia internazionalista, anticoloniale e liberale che coniugava la denuncia del mercantilismo imperiale, la rivendicazione del diritto di commercio e il rigetto delle logiche di potenza della Realpolitik europea. Promuoveva con spregiudicatezza l’interesse del paese, riservandosi il diritto di continuare a espandersi e, nell’affermare l’esistenza di un «sistema americano» separato e distinto, di proiettare in un futuro non lontano il pieno raggiungimento di un primato e di un’egemonia emisferici. Questa unione sincretica di principi, interessi e identità non mancava di generare aporie profonde, che nel tempo si sarebbero fatte ineludibili: la separazione dall’Europa e la logica delle due sfere era permessa proprio da quell’equilibrio di potenza che si rigettava e si voleva travolgere; l’universalismo del messaggio strideva sia con la volontà egemonica regionale sia, e ancor più, con il razzismo che informava il modo sta-

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tunitense di rapportarsi al Sudamerica; l’internazionalismo liberale si scontrava con la volontà di costruire canali commerciali esclusivi e discriminatori con i nuovi Stati latino-americani. Stante la debolezza degli Stati Uniti, queste contraddizioni non vennero immediatamente alla luce. Con gli anni, e maturata pienamente la capacità egemonica continentale rivendicata da Adams, la situazione sarebbe cambiata e proprio i comportamenti statunitensi in America Latina avrebbero rivelato le tante antinomie del discorso di politica estera universalista, eccezionalista e liberale abbracciato dagli Stati Uniti.

IV LE MANIFESTAZIONI DEL DESTINO

1. Sentieri di lacrime Nel 1828 Andrew Jackson fu eletto presidente1. Dopo George Washington, un altro eroe di guerra raggiungeva la massima carica elettiva del paese. Lo faceva adottando una piattaforma politica che pochi anni prima sarebbe stata considerata come anti-hamiltoniana, centrata sul riconoscimento dei primato degli Stati, la denuncia dell’invasività del potere federale e lo smantellamento del suo strumento più odioso, la Banca degli Stati Uniti. Una piattaforma, quella jacksoniana, dai forti contenuti democratici, nella quale attenzione particolare era dedicata all’espansionismo e alla questione indiana2. Il tema fu affrontato nel primo discorso presidenziale sullo stato dell’Unione, pronunciato di fronte al Congresso nel dicembre del 1829. In quella occasione Jackson propose una soluzione della questione indiana coerente sia con la sua visione espansionista sia con la sua scarsa fiducia nella ‘civilizzabilità’ delle popolazioni indigene: «Sottopongo alla vostra considerazione l’opportunità di separare un ampio territorio a ovest del Mississippi», affermò allora il neopresidente, «e, al di fuori dei limiti di qualsiasi Stato o territorio già costituito, di assegnarlo alle tribù indiane fino a quando esse lo occuperanno, ogni tribù avendo un preciso controllo sulla porzione ad essa destinata»3. L’obiettivo era limitare allo stretto necessario l’interazione, conflittuale o amichevole, con le popolazioni native senza rinunciare per questo all’incameramento delle loro terre a est del Mississippi. All’idea jeffersoniana di uno scambio non paritetico, fondata sulla responsabilità civilizzatrice degli Stati Uniti ma anche sul riconosci-

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mento dell’esistenza di un legame organico tra nativi e nuovi coloni, si sostituiva così quella della separazione e del distacco. Gli USA dovevano proteggere e tutelare le nazioni indiane, ma non adoperarsi per una loro trasformazione che non appariva né probabile né conveniente. La grande riserva indiana che Jackson chiedeva di creare avrebbe costituito formalmente una zona franca: un imperium in imperio. Si trattava però di un impero chiuso, circoscritto e destinato a un’ineluttabile entropia: custode di una barbarie e di un’arretratezza che il tempo avrebbe inesorabilmente rimosso e non più alterato4. Oltre a questa scarsa fiducia nella trasformabilità delle popolazioni native, almeno altri tre fattori inducevano Jackson a sostenere la necessità di una rimozione verso ovest delle nazioni indiane. In primo luogo, stava diffondendosi nel dibattito pubblico un razzismo scientificamente legittimato e assai popolare, fondato sulla convinzione dell’esistenza di una gerarchia razziale permanente e immutabile. Già nel 1825 Henry Clay poteva affermare che gli indiani, oltre a essere «fondamentalmente inferiori rispetto alla razza anglosassone», costituivano probabilmente una «varietà umana non migliorabile». La frenologia, le scienze ambientali, l’etnologia e molte altre discipline pseudoscientifiche concorrevano ad alimentare un ‘anglosassonismo’ razzista, che invocava la separazione dagli indiani attraverso il loro allontanamento. A questo si aggiungeva un secondo fattore, assai più tangibile e tradizionale: la fame di terre, fattasi più intensa dopo la scoperta di giacimenti auriferi nelle aree sotto la sovranità dei cherokee, in Georgia, e l’indisponibilità conseguente a rispettare gli accordi precedentemente stipulati. La democratizzazione della società americana e la crescita demografica interagivano a loro volta nello stimolare queste richieste di venir meno agli impegni assunti con le nazioni indiane. Un terzo e ultimo elemento era infine rappresentato dalle abituali considerazioni di sicurezza. Che l’espansione fosse funzionale alla sicurezza del paese era ormai cosa accettata. Ad essa si sommava ora l’idea che la stessa presenza indiana non fosse più tollerabile e accettabile; che la convivenza generasse un meticciato potenzialmente contaminante, facilitasse la diffusione di un nemico interno difficilmente controllabile e lasciasse in vita all’interno degli Stati Uniti zone franche capaci di contestare e minacciare la piena autorità statunitense5. Jackson fece leva su questi fattori, ma contribuì in modo decisivo ad alimentarli e rafforzarli. Continuò a firmare trattati con le na-

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zioni indiane (gli accordi furono quasi settanta durante i suoi due mandati), o con loro fazioni maggiormente accondiscendenti, pur affermando in più occasioni l’impossibilità di relazionarsi ad esse come se si trattasse di entità statuali. Più di tutto, Jackson diede corso al primo, grande e drammatico progetto di deportazione a occidente delle nazioni indiane del Sud-Ovest e del Nord-Ovest. Al termine di questa operazione, quasi 50.000 indiani sarebbero stati trasferiti; gli USA avrebbero acquisito circa 100 milioni di acri in cambio di 68 milioni di dollari e di 32 milioni di acri di terre, assai meno ospitali di quelle ottenute, situate nelle regioni corrispondenti all’attuale Stato dell’Oklahoma6. Il passaggio cruciale che diede il via a questa operazione fu l’Indian Removal Act, approvato non senza difficoltà dal Congresso nel 1830 (alla Camera dei rappresentanti i voti favorevoli furono 102 e quelli contrari ben 97). La legge permetteva a Jackson di dare corso al suo progetto di creazione di un grande santuario indiano, ora separato dagli USA e impermeabile a contatti e influenze. Essa autorizzava, infatti, il presidente a scambiare demani pubblici non ancora organizzati a ovest del Mississippi con terre indiane a est del grande fiume. Le nazioni indiane che avessero accettato questo baratto sarebbero state indennizzate e avrebbero acquisito la proprietà perpetua e non alienabile dei nuovi territori. Le spese per il loro trasferimento sarebbero state a carico del governo federale7. La nuova legge era «crudele, arrogante, razzista» e, dato il clima politico e culturale dell’epoca, probabilmente «inevitabile». Jackson e i suoi sostenitori la presentarono come necessaria alla stessa salvaguardia delle popolazioni indiane, minacciate sia dai coloni affamati di terra sia, e ancor più, da una modernità che non poteva né accettarli né redimerli. La rimozione, affermò il rappresentante della Georgia Wilson Lumpkin, costituiva per gli indiani «l’unica loro speranza di salvezza»; era una forma di «benevola violenza», nella definizione datane in uno studio recente8. Nondimeno, l’Indian Removal Act conteneva alcune clausole che lo avevano reso accettabile a molti deputati e senatori. La legge non prevedeva, infatti, né l’abrogazione unilaterale da parte degli Stati Uniti dei trattati precedentemente ratificati con diverse nazioni indiane né la possibilità che il trasferimento degli indiani fosse forzoso e non volontario. L’Indian Removal Act offriva una legittimazione politica al disegno jacksoniano, ma non una copertura legale. Per

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procedere era necessario forzare i termini della legge, attraverso un chiaro «abuso di potere presidenziale»9. Questo «abuso» prese rapidamente forma. Vari accordi furono firmati con fazioni minoritarie e non rappresentative delle grandi nazioni indiane del Sud-Ovest. Il primo fu il trattato di Dancing Rabbit Creek del 1830, con il quale i choctaw accettavano di permutare le loro terre nell’attuale Mississippi con nuovi territori occidentali. La gestione federale del trasferimento dei choctaw – caratterizzata da imperizia, negligenza e violenza – costituì un precedente destinato a segnare il comportamento delle altre tribù indiane. Ancor prima di giungere nei territori promessi, i choctaw scoprirono che parte di essi erano stati destinati ai chickasaw, in seguito a un accordo tra questi e il governo degli Stati Uniti10. Le altre nazioni indiane presero nota della situazione. In Florida, i seminole rigettarono il trattato firmato da una loro fazione nel 1832 e si prepararono per una nuova ripresa delle ostilità. Brutale quanto e più della prima, la «seconda guerra dei seminole» (1835-42) coinvolse un numero significativo di schiavi fuggiaschi, alcuni dei quali avrebbero guidato la resistenza contro l’esercito federale. Le vittime statunitensi furono più di 1.500 e la guerra divenne rapidamente un «imbarazzo nazionale». Più di 3.000 Seminole furono catturati, trasferiti in campi di prigionia a New Orleans e da qui deportati a ovest. Le operazioni militari furono dichiarate concluse nel 1842, ma negli anni successivi una guerriglia di attrito fu condotta dai seminole e dagli ex schiavi nelle paludi e nelle foreste della Florida. Solo nel 1934, un secolo dopo l’inizio delle ostilità, una tregua definitiva sarebbe stata firmata dal governo statunitense e dai discendenti dei seminole11. L’opposizione più incisiva venne però dalle nazioni creek e cherokee, indisposte a trasferirsi a ovest e capaci di utilizzare tutti gli strumenti legali disponibili per difendere i propri diritti. I cherokee, in particolare, costituivano un caso unico. La più ‘civilizzata’ delle tribù ‘civilizzate’ del Sud-Ovest, i cherokee offrivano un esempio emblematico della crescente impossibilità di tracciare confini rigidi ed escludenti: dei sincretismi, delle ambiguità e delle ibridazioni che le terre di frontiera (le borderlands) inevitabilmente generavano. Nei primi trent’anni dell’Ottocento la nazione cherokee – composta da circa 22.000 persone distribuite su un territorio corrispondente all’area dove oggi convergono la North Carolina, il Tennessee, la

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Georgia e l’Alabama – si era data una complessa struttura di governo, che replicava in larga misura quella statunitense. Fondata inizialmente su una serie di leggi scritte e poi su una vera e propria Costituzione, ratificata nel 1827, essa prevedeva una centralizzazione amministrativa e una tripartizione del potere in un organo esecutivo, uno legislativo e uno giudiziario. Il sistema censuale di accesso alle cariche privilegiava l’aristocrazia schiavista, di grandi piantatori e commercianti, spesso eredi di coloni inglesi e statunitensi che avevano trovato fortuna tra i cherokee. Per capacità di produzione e livelli di ricchezza, l’economia della nazione cherokee era più sviluppata di quella di gran parte del Sud degli Stati Uniti. La schiavitù costituiva elemento centrale della società cherokee, tanto che la popolazione era costituita per il 5-10% da schiavi di origine africana. Per alcuni, negli USA, proprio questo elemento costituiva una prova tangibile della effettiva ‘civilizzabilità’ degli indiani12. Per dividere la nazione cherokee e trovare degli interlocutori sufficientemente rappresentativi con i quali firmare un trattato per la cessione delle terre a est del Mississippi, gli Stati Uniti cercarono di far leva proprio sulle tensioni sociali tra l’aristocrazia cherokee, detentrice del potere, e un ceto medio tradizionalista, spesso indebitato, che vedeva soffocate sia le proprie ambizioni politiche sia i suoi tentativi di ascesa sociale. La leadership dei cherokee, guidata da John Ross, rifiutò infatti il trasferimento, in accordo peraltro con i termini dell’Indian Removal Act. Immediatamente dopo il varo della legge, l’assemblea legislativa cherokee approvò una risoluzione nella quale si ribadiva il disinteresse verso qualsiasi «scambio di terre» e s’invitava Jackson a rispettare le garanzie previste dai trattati precedentemente siglati, in particolare l’accordo ratificato da Stati Uniti e cherokee nel 1791. Parallelamente, i cherokee promossero un’azione legale per tutelare i propri diritti e per riaffermare la piena giurisdizione sui propri territori, ora contestata dallo Stato della Georgia e apertamente sfidata da molti coloni, che entravano nel territorio indiano e si arrogavano il diritto di proprietà sulle sue terre13. Difesi dall’ex ministro della Giustizia di Monroe e Adams, William Wirt, un acerrimo rivale di Jackson, i cherokee decisero di denunciare lo Stato della Georgia, portando la questione di fronte alla Corte suprema, nella convinzione che essa avrebbe riaffermato una volta di più il primato del potere federale su quello statale. La sentenza del caso Cherokee Nation vs. Georgia, emessa nel marzo 1831,

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accolse solo in parte la posizione dei cherokee: essa ribadiva la giurisdizione federale sulle questioni indiane, ma non riconosceva ai cherokee lo status di nazione sovrana. I cherokee – affermava il presidente della Corte, John Marshall – non potevano essere considerati uno «Stato straniero», ma «nazioni interne dipendenti» (domestic dependent nations), cui il governo statunitense doveva garantire protezione e tutela14. I cherokee considerarono la sentenza come un successo, anche perché essa fu confermata pochi mesi più tardi da un’altra decisione della Corte suprema, nel caso Worcester vs. Georgia, che tornava a colpire le politiche anti-indiane dello Stato della Georgia15. I suoi effetti furono però diversi. Le nazioni indiane videro ridotti i propri diritti e le proprie prerogative senza ottenere in cambio la protezione promessa. Le tensioni politiche nazionali, e in particolare la cosiddetta «crisi abrogazionista» (nullification crisis), s’intrecciarono con la vicenda dei cherokee, condizionandola fortemente. La nullification crisis originò dallo scontento di molti Stati del Sud verso la politica protezionista e di alti dazi tariffari del governo federale, cui si attribuiva la responsabilità della difficile congiuntura economica. A essere messa in discussione era la natura stessa del patto federale e il grado di sovranità di cui gli Stati erano titolari. In South Carolina si diffuse sempre di più la teoria secondo la quale fossero gli Stati, e non le corti e il Congresso, i giudici ultimi della costituzionalità di una legge. Questa tesi fu fatta propria anche dal vicepresidente John Calhoun, secondo il quale qualora uno Stato avesse ritenuto incostituzionale una legge, esso avrebbe potuto convocare un’apposita convenzione dotata del diritto di abrogare la legge all’interno del medesimo Stato. La crisi raggiunse un picco nel 1832-33, quando gli abrogazionisti assunsero il controllo dell’assemblea legislativa della South Carolina, convocarono la convenzione e fecero abrogare da questa le leggi tariffarie del 1828 e del 183216. Già propenso a sostenere i diritti degli Stati, Jackson doveva isolare la South Carolina per risolvere la crisi e non si poteva permettere quindi uno scontro anche con la Georgia. Pur invitando quest’ultima ad accettare le decisioni della Corte suprema, egli procedette rapidamente al trasferimento dei cherokee. Lo fece facendo leva sull’insoddisfazione del ceto medio cherokee, ma anche sulla convinzione di molti cherokee che una politica di scontro frontale con il go-

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verno statunitense si sarebbe potuta risolvere in una catastrofe e che l’unica via percorribile fosse quella di un qualche accomodamento17. All’interno della nazione cherokee si formò quindi una fazione dissidente e minoritaria, favorevole alla ratifica di un trattato col governo degli Stati Uniti e al trasferimento a ovest. Guidata da oppositori politici dell’aristocrazia cherokee, questa fazione aprì dei negoziati segreti con Washington. Nel dicembre del 1835 essa accettò di firmare un accordo – il trattato di New Echota, dal nome della capitale della nazione cherokee – che prevedeva lo scambio di terre richiesto da Jackson: i cherokee cedevano 8 milioni di acri in cambio di un’area a ovest del Mississippi e di 5 milioni di dollari. Si trattava di un «trattato estorto in modo fraudolento», osteggiato dalla gran parte del popolo cherokee, inclusi i suoi rappresentanti eletti, e ratificato per un solo voto dal Senato statunitense. Ma si trattava altresì di un trattato che offriva a Jackson il pretesto e la giustificazione per procedere all’auspicata rimozione dell’ultimo baluardo indiano nel Sud-Ovest18. Non riconoscendo la legittimità dell’accordo, la maggioranza dei cherokee rifiutò di abbandonare le proprie terre e i propri possedimenti. Una parte minoritaria (circa 1.000 uomini) si rifugiò nelle aree montagnose della North Carolina, dove sarebbe stata in seguito istituita una piccola riserva. Gli altri furono trasferiti con la forza dall’esercito federale, inviato da Jackson per dare corso al trattato di New Echota. La violenza s’intrecciò con l’imperizia e con la «frugalità» della politica di rimozione dell’amministrazione Jackson, caratterizzata da carenza di cibo, disorganizzazione e incompetenza. La lunga marcia dei cherokee verso l’Oklahoma si trasformò in un calvario, che costò la vita a molti di essi: tra i 4 e 10.000, secondo alcune stime recenti, morirono di stenti, malattie, violenze e denutrizione. I sopravvissuti ribattezzarono la marcia Nunna daul Isuny: il «sentiero dove piangemmo». Negli anni, l’odissea dei cherokee sarebbe divenuta nota come il «sentiero delle lacrime» (Trail of tears)19. La vicenda del Trail of tears rappresenta una delle pagine più oscure e drammatiche della storia degli Stati Uniti. Alla tragedia concorsero vari fattori: la disorganizzazione con cui fu gestito il trasferimento, frutto anche degli scontri politici tra Jackson e i suoi oppositori; la volontà di Jackson di ridurre le spese federali e, con esse, la disponibilità di fondi per dare corso alla propria politica indiana; le modalità con cui fu firmato il trattato di New Echota e la natura

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niente affatto volontaria dell’esodo cherokee. Sullo sfondo agiva, prepotente, un milieu culturale sempre più etnocentrico e razzista. Non si trattò di un genocidio, come affermato da alcuni storici, ma della conseguenza tragica di una politica espansionistica e priva di scrupoli, quale quella degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. «Non si potrebbero distruggere degli uomini rispettando meglio le leggi dell’umanità», ebbe a sottolineare Alexis de Tocqueville nell’esaminare la tragedia dei cherokee: «Gli spagnoli, con mostruosità senza precedenti, coprendosi di onta incancellabile, non sono giunti a sterminare la razza indiana e nemmeno a impedirle di condividere i loro stessi diritti»; gli americani – sottolineò Tocqueville – «hanno invece raggiunto questo doppio risultato con una meravigliosa facilità, tranquillamente, legalmente e filantropicamente». Le popolazioni indiane furono così trasferite entro la grande riserva occidentale dell’Oklahoma. Un imperium, quello delle riserve, destinato anch’esso ad avere una vita breve e assai tormentata20.

2. Destini, divisioni e guerre Il «destino manifesto» (manifest destiny) della grande nazione statunitense è quello di «occupare e conquistare l’intero continente» assegnatole «dalla Provvidenza per realizzare il grande esperimento della libertà e dell’autogoverno federale»21. Siamo nel 1845. Il paese e il Congresso dibattevano la possibilità e la convenienza di proseguire l’avanzata imperiale, a nord-ovest (territorio dell’Oregon) come a sud-ovest (Texas e altre aree sotto giurisdizione messicana). A parlare era John O’Sullivan, editor della «Democratic Review», rivista politica e letteraria colta e sofisticata, impegnata in quegli anni a fornire sostanza e, soprattutto, retorica e simboli all’espansionismo statunitense. Lo slogan e il suo sostrato discorsivo non erano ovviamente nuovi. Da quasi dieci anni il gruppo di O’Sullivan era impegnato a promuovere uno sforzo di difesa, legittimazione e diffusione dell’espansionismo statunitense. Lo faceva attingendo a piene mani all’armamentario stilistico e concettuale del nazionalismo cristiano americano, innervandolo di slogan e formule nuovi e alimentando così un’«ideologia teologizzata» dalla straordinaria forza retorica. Già nel 1839 O’Sullivan aveva proclamato gli

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USA la «nazione del progresso umano»; chi mai avrebbe voluto o potuto «porre dei limiti» alla sua marcia, si chiese allora retoricamente O’Sullivan? La nascita degli Stati Uniti aveva costituito l’«inizio di una nuova storia». «Il futuro a lungo termine, il futuro dell’eternità» avrebbe invece costituito «l’era della grandezza americana»; «la nazione delle molte nazioni» era infatti «destinata a manifestare (destined to manifest) all’umanità la virtù dei principi divini»; il «tempio» che essa era pronta a erigere per «venerare l’Altissimo» non poteva che avere come suo «suolo» l’intero «emisfero»22. «Roba forte», avrebbe affermato un ammirato storico conservatore un secolo e mezzo più tardi, commentando la roboante prosa di O’Sullivan. E il messaggio di O’Sullivan – incapsulato in uno slogan, il manifest destiny, dall’immensa popolarità, pubblica e, successivamente, anche storiografica – potente lo era sul serio. Le parole di O’Sullivan si collocavano entro una controversia sempre più aspra sul futuro degli Stati Uniti e sul corso della loro politica estera. Ma le matrici dello slogan erano antiche, ed esso le compendiava con efficacia e secchezza senza pari, rimandando all’idea, tutta eccezionalista, degli Stati Uniti come «nazione redentrice» dell’ordine mondiale, investita di un compito provvidenziale e salvifico. Una nazione dalle virtù uniche, dalla missione conclamata e, affermava ora O’Sullivan, dal destino certo e segnato23. Il manifest destiny arricchiva e integrava la mitologia nazionalista americana. Proclamava l’ineluttabilità di un dato corso storico, il destino per l’appunto. Invitava a vedere e riconoscere tale destino: il suo essere manifesto e sotto gli occhi di chiunque lo avesse voluto scorgere24. Come sempre, dentro l’involucro offerto dall’ideologia del manifest destiny risiedevano interessi tangibili e vecchie certezze. Il manifest destiny serviva per riaffermare una visione continentalista che poggiava sull’asserita e naturale unità del continente americano e sulla necessità conseguente di darvi corso, realizzando un impero dall’Atlantico al Pacifico; esprimeva convinzioni etnocentriche ormai radicate, basate sulla conclamata superiorità della razza anglosassone e sul suo diritto a conquistare, sottomettere ed eventualmente civilizzare i popoli ad essa inferiori; conseguiva alla tradizionale fame di terre, figlia della crescita demografica, dell’immigrazione e degli interessi speculativi; rifletteva l’ansia di giungere verso un

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Ovest che non costituiva più solo un punto d’arrivo, ma la porta d’accesso verso un lontano Oriente dorato e chimerico25. Il discorso quasi religioso del manifest destiny legittimava e abbelliva le tante ragioni, brutali e terrene, di chi premeva per riavviare il processo espansionistico. Ma il surplus retorico che esso offriva, la sua roboante forza discorsiva, non erano tanto, e solo, conseguenza della necessità di occultare le reali motivazioni di chi chiedeva la conquista di nuove terre a ovest26; non rispondeva esclusivamente alla necessità di offrire una patina ipocrita e furba alle ambizioni conquistatrici di coloni, speculatori e commercianti e alle angeliche utopie di missionari e predicatori, anch’essi proiettati sempre più verso ovest e, per il tramite di questo, verso l’Asia e la Cina in special modo. Questo surplus originava dalla paura, più che dalla forza o dall’astuta strumentalità. Era reattivo a una necessità duplice e strettamente interdipendente: quella di sedare ansie e paure che attraversavano l’America di metà Ottocento e soprattutto quella di rispondere alla contestazione, politicamente e culturalmente forte come mai in passato, di chi rifiutava la necessità di continuare a espandersi; di chi riteneva completato e concluso il processo di crescita imperiale del paese e invitava con forza a perfezionare l’esperimento repubblicano più che a esportarlo verso nuovi territori. Così come la retorica e le metafore, anche le ansie e le paure dell’America del 1830-40 non erano sconosciute. A preoccupare e spaventare un numero crescente di americani concorrevano però alcuni fattori nuovi: le grandi trasformazioni sociali; l’urbanizzazione; la prima industrializzazione; i flussi migratori che incrinavano l’omogeneità degli Stati Uniti; un fermento democratico che, se mal gestito, minacciava di inasprire e rendere ancor più violenta la società statunitense. Queste paure erano a loro volta intensificate dalla grave recessione economica, provocata dalla crisi finanziaria del 1837 e durata più di tre anni27. Come già in passato, l’espansionismo appariva a molti una risposta ai problemi del paese e un modo per calmare le preoccupazioni che questi catalizzavano. E alla duplice valenza – sedativa e progressiva – dell’espansionismo si appellarono i suoi sostenitori e apologeti. In puro stile jeffersoniano, essi sostennero che l’acquisizione di nuove terre avrebbe permesso di preservare la natura agraria dell’impero statunitense, contenendo le forze contaminanti scatenate dalla modernizzazione industriale e urbanizzatrice. Che avrebbe

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continuato a garantire quelle opportunità di crescita individuale, minacciate da una stratificazione sociale e da una rigidità di classe a cui nessuna società industriale, nemmeno quella statunitense, poteva sottrarsi. Che avrebbe ulteriormente rafforzato il paese, costretto a fronteggiare una nuova sfida britannica a un primato emisferico, tanto conclamato quanto incerto28. Per molti, l’allargamento dell’Unione doveva costituire la risposta ai tanti fattori potenzialmente sovversivi di un’idealizzata armonia repubblicana. La realtà si sarebbe dimostrata assai diversa. Lungi dal costituire veicolo capace di riconciliare fratture e divisioni, l’espansionismo e le polemiche che esso provocò rappresentarono ulteriori fattori divisivi. Il discorso del manifest destiny non fu il comune denominatore retorico di una nuova, grande unità nazionale, ma l’espressione estrema e radicale di una faziosità partigiana che indusse molti, incluso l’anziano John Quincy Adams, a preconizzare la prossima disgregazione del paese. Esso anticipò il dramma della guerra civile, acuendo le tensioni invece di ricomporle. Sullo sfondo agiva prepotente la questione della schiavitù e una frattura regionale, tra il Sud schiavista e il resto degli Stati Uniti, nella quale s’intrecciavano elementi politici, culturali ed economici. La svolta vi era stata nel 1819-20. La ratifica del trattato Adams-Onís, che definiva e completava il Louisiana Purchase, aveva costituito la sublimazione del primo, grande momento espansionista. Il suo apogeo, ma anche, nell’intenzione di alcuni, la sua tappa conclusiva. Col trattato transcontinentale, gli Stati Uniti arrivavano sì al Pacifico, ma lo facevano abbandonando qualsiasi rivendicazione sui territori sudoccidentali e sul Texas in particolare29. Inizialmente vissuta come un espediente per convincere la Spagna ad accettare l’accordo, questa scelta fu vieppiù considerata come necessaria da Adams e da molti altri esponenti politici del NordEst. Essi temevano, infatti, che l’espansione verso sud-ovest portasse nell’unione nuovi Stati schiavisti, capaci di alterare gli equilibri al Congresso e di prevenire quella graduale scomparsa della schiavitù che si auspicava e si riteneva inevitabile. Una paura, questa, rafforzata dalla discussione che aveva portato alla ratifica nel 1820 del compromesso del Missouri, un provvedimento in larga misura complementare al trattato transcontinentale, che di fatto vietava la diffusione della schiavitù nei territori al di sopra della linea del parallelo 36° e 30’. Per Adams, il fragile compromesso non poteva soprav-

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vivere a una nuova frenesia espansionista. La nazione era ormai minacciata dalla combinazione tra «l’estensione incontrollabile del suo territorio e la questione della schiavitù»: acquisire nuove terre, a partire dal Texas, avrebbe riportato la schiavitù al centro del dibattito, rischiando di «spaccare» il paese «in due»30. Da questo momento in poi, l’acquisizione o meno dei territori sud-occidentali divenne oggetto di aspra contesa politica. L’espansionismo cessò di costituire vettore di coesione e unità politica, come era stato in larga misura fino ad allora, per trasformarsi in fattore di divisione e scontro. La situazione in quel che rimaneva dell’impero spagnolo non favorì il fronte contrario all’espansione. Dopo una guerra durata più di dieci anni, le province messicane della Spagna conquistarono la propria indipendenza. Gli Stati Uniti del Messico – come fu ribattezzato il nuovo Stato – costituivano una potenza comparabile, per dimensioni e potenzialità, a quelli d’America. In pochi anni questo rapporto di fittizia eguaglianza sarebbe però stato radicalmente alterato a vantaggio degli USA, provocando un’«enorme modifica dell’equilibrio di forze in Nordamerica»31. Ancor prima della nascita della repubblica messicana, che seguì alla breve avventura imperiale di Iturbide (1822-23), i coloni statunitensi avevano iniziato a insediarsi in Texas. I 300 nuclei familiari emigrati nel 1821 costituirono l’avanguardia di un movimento assai più ampio. L’emigrazione dagli USA verso le province settentrionali del Messico fu incoraggiata dallo stesso governo messicano, ansioso di colonizzare territori ancor poco abitati, per sfruttarli economicamente e aumentare il proprio gettito fiscale e poco lungimirante nel credere di poter controllare con facilità tale processo. Una legge approvata nel 1824 offriva a chiunque si fosse trasferito in Texas terre a prezzi trenta volte inferiori a quelli del mercato statunitense. L’unico vincolo – mai rispettato – era quello di non portare con sé schiavi, poiché la schiavitù era stata abolita in tutto il Messico, anche se di fatto il sistema federale messicano lasciava ampia autonomia nella definizione dei termini della legge e nella sua applicazione alla provincia settentrionale di cui il Texas faceva ora parte (lo Stato di Coahuila e del Texas)32. Uno Stato giovane, debole e con una limitata capacità di controllo del suo vastissimo territorio non poteva amministrare efficacemente quel che sarebbe seguito. Speculatori e intermediari (gli empresarios) gestirono il processo di vendita delle terre ai coloni; assie-

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me ad alcuni di questi ultimi essi costituirono rapidamente dei centri di potere autonomo, sui quali il governo messicano non era in grado di esercitare la dovuta autorità. In pochi anni, il Texas fu popolato da coloni provenienti dagli Stati Uniti, con la loro religione e, almeno un quarto di essi, con i loro schiavi. Nel 1830 la popolazione anglofona del Texas raggiungeva le 20.000 unità; quella di lingua spagnola era di almeno tre-quattro volte inferiore33. Il governo messicano cercò allora di riportare la situazione sotto controllo. L’inviato speciale di Città del Messico, Manuel de Mier y Terán, denunciò con forza la progressiva colonizzazione statunitense della provincia texana: «Senza che il mondo lo notasse – affermò Mier y Terán – gli americani hanno acquisito tutto quello che hanno trovato sul loro cammino [...] invece di eserciti, battaglie e invasioni [...] essi iniziano inventandosi dei diritti come in Florida [...] e avanzando pretese ridicole basate su fatti storici». I liberali messicani, che a lungo avevano guardato agli USA come a un modello politico e costituzionale da emulare, cominciarono a fare fronte comune nel denunciare l’imperialismo statunitense34. Il Messico non disponeva però dei mezzi, della forza e della coesione interna necessari per bloccare la sotterranea colonizzazione statunitense. Nel 1830 fu approvata una nuova legge che proibiva l’ulteriore emigrazione dagli Stati Uniti verso il Texas, sospendeva i contratti già ratificati ed esplicitava con maggior chiarezza il divieto della schiavitù anche per il Texas. La legge fu in larga misura ignorata dai coloni, che continuarono a trasferirsi nella regione e a portarvi i propri schiavi. Tra la popolazione angolofona venne a crearsi una prima frattura tra chi chiedeva una maggiore autonomia entro la federazione messicana e chi invece sosteneva una posizione indipendentista, prima tappa di una futura annessione agli Stati Uniti. Tra i secondi si distinse David Crockett, il leggendario avventuriero e scout, da poco trasferitosi in Texas. Le tensioni e l’instabilità politica in Messico esasperarono la situazione. Nel 1834 il generale Antonio López de Santa Anna assunse il potere, instaurando una dittatura. Uno dei suoi primi atti fu quello di sospendere la Costituzione e di estendere le prerogative e competenze del governo federale a discapito di quelle degli Stati. Il provvedimento colpiva ovviamente il Texas e rafforzava, di riflesso, il fronte indipendentista. Nel 1835 vi fu una prima rivolta. Santa Anna mosse le sue truppe verso nord per sedarla e, se necessario, per

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giungere fino a Washington e «porre la bandiera messicana sul Campidoglio». Pur simpatizzando con i rivoltosi, Jackson applicò le leggi di neutralità, giudicando la rivolta «imprudente e prematura»35. Dopo avere subito alcune pesanti sconfitte militari, in particolare nella battaglia di Fort Alamo (dove Crockett perse la vita), gli indipendentisti texani, guidati da Sam Huston, sconfissero Santa Anna nella battaglia di San Jacinto dell’aprile 1836. Fatto prigioniero, Santa Anna fu costretto a firmare un trattato in cui riconosceva l’indipendenza del Texas. Il nuovo Stato presentò subito domanda di ammissione all’Unione36. Si aprì allora uno scontro, interno e internazionale, che sarebbe durato per un decennio e che si sarebbe concluso solo con la guerra tra Stati Uniti e Messico del 1845-48. Il governo messicano rifiutò di riconoscere il trattato estorto a Santa Anna. Quello statunitense ritenne avventato annettere il Texas: per evitare una guerra con il Messico che avrebbe lacerato il paese; per potersi concentrare sulla difficile situazione economica interna; più di tutto, per la consapevolezza che il difficile compromesso sulla questione della schiavitù non avrebbe retto a una simile decisione. Per un decennio il Texas sopravvisse come una «sgangherata repubblica», divisa in molte fazioni e certo incapace di reggersi da sola. Sia Jackson sia il suo successore, Martin Van Buren, rigettarono le richieste di annessione, pur riconoscendo diplomaticamente il nuovo Stato37. La questione fu congelata per alcuni anni, anche se essa finì per polarizzare ancor più il quadro politico statunitense. Fu in questo contesto che irruppero l’ideologia e il discorso del manifest destiny. Il fronte contrario all’annessione del Texas poteva anch’esso affidarsi a slogan e topoi forti e consolidati. L’elemento religioso permeava e ispirava l’esperienza degli abolizionisti, tra i quali vi erano alcuni dei più incisivi oppositori dell’annessione del Texas, come Lydia Maria Child, Wendell Phillips, Charles Sumner, il quacchero Benjamin Lundy e, soprattutto, il ministro della Chiesa unitaria di Boston William Ellery Channing, che proclamò la «rivolta texana» un atto «criminale» e immorale38. Nel discorso antiannessionista questo elemento religioso s’intrecciava e sovrapponeva con il rilancio del «vocabolario civico» di un repubblicanesimo classico, sconfitto durante il grande dibattito costituzionale e privo di una vera base «istituzionale», ma mai com-

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pletamente defunto. Tra individuo, cittadinanza e libertà – affermavano gli oppositori della schiavitù – vi era un legame stretto e ineludibile. La schiavitù minacciava le virtù repubblicane e, con esse, le fondamenta della res publica. A farsi latore di queste posizioni fu l’ex presidente John Quincy Adams, che da poco aveva iniziato una seconda carriera politica come rappresentante del Massachusetts alla Camera bassa39. Adams denunciò in modo veemente l’immoralità della schiavitù e i suoi effetti divisivi sulla repubblica statunitense. Nel farlo tornò ad attingere a Montesquieu e alle ‘lenti’ che la classicità ancora offriva per comprendere il presente e per meglio affrontare il futuro. Secondo Adams, conquistare territori messicani ed esportarvi la schiavitù significava stravolgere i principi repubblicani e porre le premesse per la trasformazione degli Stati Uniti in un impero dispotico. In caso di conflitto, affermò inorridito Adams, «i vessilli della libertà» sarebbero stati quelli messicani, mentre gli USA avrebbero potuto esporre solo «quelli della schiavitù». La frontiera sud-occidentale posta all’altezza del fiume Sabine non andava modificata, pena la corruzione imperiale e autoritaria della repubblica. L’azzardo madisoniano era stato spinto fino al suo limite estremo: i confini dell’impero repubblicano avevano raggiunto il loro margine naturale e non si poteva farli avanzare ulteriormente senza stravolgere la natura stessa degli Stati Uniti. Era tempo ora di concentrarsi sul perfezionamento di una nazione fragile e nella quale la schiavitù non sembrava destinata a scomparire, come a lungo auspicato e previsto40. Il manifest destiny di O’Sullivan e della «Democratic Review» costituì pertanto la risposta alla sfida di un messaggio antiespansionista forte e capace di raccogliere consensi numerosi e trasversali, culturalmente e politicamente. Esso rilanciò categorie, slogan e concetti a cui Adams stesso aveva attinto da segretario di Stato, ma li storpiò ed esasperò come mai era avvenuto fino ad allora. Per i propugnatori del manifest destiny, il destino di cui la Provvidenza aveva investito gli USA trascendeva il diritto internazionale; obbligava ad agire anche laddove ciò fosse andato contro gli interessi immediati del paese; alimentava e giustificava disegni visionari. Gli USA, sostenne O’Sullivan, erano stati posti «in prima linea nella battaglia tra la causa dell’umanità e le forze del male»; «la Provvidenza» – affermò il senatore della Pennsylvania James Buchanan – aveva «assegnato agli Stati Uniti una missione grande e importante [...] diffondere la be-

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nedizione della libertà e delle leggi cristiane da una parte all’altra dell’immenso continente americano»; «confinare gli USA nei loro confini» sarebbe equivalso a «limitare le stelle nei loro percorsi o imbrigliare lo spumeggiante fiume Niagara»; questo, gli fece eco il deputato dell’Ohio, William Sawyer, perché gli Stati Uniti «avevano ricevuto i loro diritti» direttamente «dal Creatore, dal destino»41. A contrapporsi erano la posizione di chi chiedeva di fortificare e migliorare quanto fino ad allora costruito e quella di chi sosteneva la necessità e l’inevitabilità dell’espansione, dell’accumulazione e della crescita. Su entrambe queste posizioni soffiava forte il vento di un razzismo sempre più diffuso e pervasivo. La superiorità della razza anglosassone poteva essere allo stesso tempo invocata da chi affermava il suo diritto alla conquista e alla sottomissione di razze inferiori ovvero da chi vi si opponeva, denunciando il rischio di contaminazione e l’impossibilità di riscattare e sollevare popoli, come quello cattolico messicano, per natura corrotti e irredimibili42. Il dibattito si fece più aspro e polarizzato all’inizio degli anni Quaranta. La crisi economica era quasi superata. Le pressioni per annettere il Texas tornarono a farsi intense. Il rischio che la repubblica texana potesse legarsi alla Gran Bretagna alimentava le paure di molti, a nord come a sud. Alle abituali considerazioni di sicurezza e al rinnovato timore di un accerchiamento britannico in Nordamerica si aggiungeva il timore che un Texas filobritannico avrebbe abrogato la schiavitù. Le conseguenze, asserivano i propugnatori dell’annessione, sarebbero state plurime. Un Texas senza schiavi avrebbe costituito un pericoloso precedente, offrendo al contempo una nuova via di fuga agli schiavi e dando ulteriore forza al fronte abrogazionista. I sostenitori dello schiavismo sostennero addirittura che l’interesse britannico sul Texas originasse dalla volontà di piegare commercialmente gli Stati Uniti. Secondo questa tesi, la soppressione della schiavitù nell’impero britannico, avvenuta nel 1834, aveva reso la Gran Bretagna meno competitiva rispetto agli USA, soprattutto per quanto riguardava la produzione del cotone. Solo abrogando la schiavitù anche negli USA Londra avrebbe potuto riconquistare il primato perduto. Duff Green, confidente del presidente Tyler (1841-44) e suo rappresentante informale in Gran Bretagna, arrivò ad affermare che la campagna britannica contro la schiavitù costituiva «una guerra contro [...] il commercio e le manifatture» degli Stati Uniti, promossa attraverso il tentativo di alterare

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«le istituzioni interne» degli USA. Secondo John Calhoun, un Texas indipendente, legato alla Gran Bretagna e senza la schiavitù, avrebbe permesso al governo britannico di dare compimento al suo «grande disegno di monopolio commerciale» e avrebbe causato una guerra a sfondo razziale negli USA; un conflitto, questo, che per Calhoun era destinato a concludersi con «l’ascesa di una delle razze più misere e selvagge e con un ritorno al barbarismo». Andrew Jackson, ancora molto influente, sollecitò l’immediata annessione del Texas, «con mezzi pacifici se possibile, con la forza se necessario»43. Tra il 1840 e il 1845 il Texas tornò a dominare il dibattito politico negli USA e a spaccare il paese, contrapponendo whig e democratici, sud e nord, interessi agrari e interessi industriali. Fu proprio Calhoun, da segretario di Stato, a cercare di forzare la mano. Nel 1844 egli negoziò con i leader texani un nuovo trattato, convincendoli a ripresentare domanda di ammissione all’Unione. Motivando l’annessione solo in relazione alla salvaguardia della schiavitù e alla difesa del Sud, Calhoun finì però per favorire il fronte antiannessionista. Sottoposto al voto del Senato, il trattato fu bocciato con 35 voti contrari e solo 16 favorevoli. Molti espansionisti del Nord e dell’Ovest votarono in quell’occasione contro l’accordo, rigettando le giustificazioni razziste e regionalistiche di Calhoun. Si trattava però di una scelta contingente, destinata a essere rovesciata laddove l’annessione del Texas fosse avvenuta tenendo conto della pluralità di ragioni per cui essa era appoggiata dai più44. L’elezione alla presidenza di James Polk, democratico del Tennessee, modificò la situazione. Diversamente da Calhoun e da molti esponenti sudisti, Polk non era un’espansionista a una dimensione. Per Polk l’annessione del Texas era funzionale a un disegno più ampio, che s’integrava con la parallela colonizzazione del territorio dell’Oregon a nord-ovest. L’obiettivo finale doveva essere quello di raggiungere la costa pacifica e ottenere il controllo della California, con le sue ricchezze naturali e con i suoi ambiti porti, San Diego e San Francisco su tutti. Solo in questo modo si poteva dare un’ampiezza nazionale all’espansionismo, sottraendolo almeno in parte alle dispute partigiane e regionali e garantendo ad esso un consenso più ampio di quello raggiunto fino ad allora. Alla missione del manifest destiny, alla difesa degli interessi agrari e, con essi, della società sudista, alla fame di nuove terre si aggiungeva ora un elemento capace di alterare l’equilibrio tra favorevoli e contrari all’annessione del

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Texas: i vantaggi che sarebbero derivati al commercio e all’industria del paese dall’accesso al Pacifico e dall’apertura di una porta verso il mitico e lontano Oriente45. Non fu però Polk a sottoporre al Congresso il nuovo trattato di annessione del Texas. Lo fece il suo predecessore, Tyler, nel periodo d’interregno che caratterizza la transizione da un’amministrazione all’altra (e che all’epoca durava fino al marzo successivo all’elezione). L’impossibilità di ottenere il voto dei due terzi dei senatori indusse Tyler a una mossa assai spregiudicata: l’annessione fu sottoposta al Congresso per mezzo di una risoluzione presentata congiuntamente alle due Camere, per la ratifica della quale bastava una maggioranza semplice. Il Senato la approvò con 27 voti favorevoli e 25 contrari; alla Camera dei rappresentanti i voti favorevoli furono 120 e quelli contrari 98. Il paese rimaneva diviso, ma il fronte espansionista disponeva ora di quella maggioranza, sia pure esile, che gli era invece mancata nel 1836. L’audacia e il cinismo di Tyler indignarono molti: «Oggi è stata consumata la più terribile calamità che si sia mai abbattuta su di me e sul mio paese», scrisse John Quincy Adams sul suo diario; «la considero l’apoplessia della Costituzione». Polk assistette compiaciuto a una decisione che gli evitava un duro scontro politico al Senato46. Il trattato rappresentò una provocazione inaccettabile per il Messico. Ancor più lo fu la richiesta di fissare il nuovo confine all’altezza del Rio Grande, molto a sud del limite riconosciuto quando il Texas era ancora una provincia messicana. Il conflitto si stava avvicinando. Molti negli USA, incluso lo stesso presidente, lo auspicavano, nella consapevolezza che una guerra avrebbe permesso di sottrarre al Messico ulteriori territori, riunificato un paese lacerato e offerto una dimostrazione aggiuntiva della superiorità della civiltà anglosassone47. Il casus belli, atteso e auspicato, fu infine causato dal Messico. Nel maggio del 1846 un contingente messicano attraversò il Rio Grande e attaccò le forze statunitensi dislocate nell’area contesa dai due governi. Polk presentò l’azione messicana come un’aggressione. Gli USA entravano in guerra per difendersi: l’esercito messicano – affermò Polk – aveva «invaso il territorio» degli Stati Uniti e «sparso sangue sul suo suolo»; la guerra era un dato di fatto, «a dispetto degli sforzi» compiuti dagli Stati Uniti per evitarla, e lo era a causa di «un’azione compiuta dal Messico»48.

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La guerra scatenò un fervore patriottico che parve poter cicatrizzare antiche ferite. Lo stato di guerra proclamato da Polk fu approvato a larghissima maggioranza dalle due Camere, anche se vi fu un numero significativo di astensioni (inclusa quella di Calhoun). Più di 100.000 uomini, in larga parte del Sud, si arruolarono. La febbre della guerra si diffuse in tutti gli Stati Uniti. «Sì, il Messico deve essere opportunamente castigato – proclamò il poeta Walt Whitman – lasciamo che le nostre armate siano trasportate da uno spirito capace d’insegnare al mondo che, anche se non cerca lo scontro, l’America è capace di annientare tanto quanto di espandersi»49. A dispetto delle terribili condizioni igieniche, dell’indisciplina e delle immense difficoltà logistiche, l’esercito statunitense ottenne una serie di facili vittorie, penetrando nella parte settentrionale del Messico e annettendo la California, dove si era formato un movimento indipendentista, esplicitamente ispirato all’esperienza del Texas50. L’andamento del conflitto, e il suo protrarsi, fecero però rapidamente riaffiorare le divisioni che lo avevano preceduto. Nonostante le continue sconfitte militari, il Messico si rifiutava di arrendersi, prolungando la guerra e, con essa, l’avanzata delle forze statunitensi, che nel settembre del 1847 occuparono addirittura la capitale, Città del Messico. Malattie, epidemie e scontri provocarono circa 14.000 vittime tra i soldati statunitensi e alimentarono le recriminazioni sulla guerra: la necessità di farla, così come le modalità con le quali essa era condotta. I successi militari, inebrianti per molti, stimolarono nuovi appetiti espansionistici e la formazione di un movimento, l’All Mexico Movement, che chiedeva ora l’annessione di tutto l’immenso territorio messicano: «Una benedizione per i conquistati – proclamò il ‘Boston Times’ – e la responsabilità degna di un grande popolo che si appresta a rigenerare il mondo, proclamando il primato dell’umanità sulle disgrazie della nascita e della fortuna». Per William Swain, il giovane e influente direttore del «Public Ledger» di Philadelphia, inglobare tutto il Messico nell’Unione avrebbe permesso di «trasferire le vaste risorse messicane per il bene» degli USA e del «mondo; redimere il popolo messicano dall’anarchia, dalla tirannia, dallo sconforto; assicurare la sicurezza, la civiltà, il progresso». «Non è nella natura delle cose», proclamò un editoriale della «Democratic Review», «che una razza di intraprendenti avventurieri permetta che ricche miniere e terre fertili rimangano inoccupate,

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solamente perché esse ricadono sotto la competenza di un governo il cui popolo è troppo imbecille per sfruttarle»51. Il razzismo generava però reazioni opposte e finiva per essere uno dei fattori maggiormente capaci di contenere la frenesia espansionista dell’All Mexico Movement. Dentro la «Democratic Review» vi era chi, a partire da O’Sullivan, s’interrogava sulla possibilità d’integrare nell’impero repubblicano statunitense popolazioni inferiori e non civilizzabili come quella messicana. Calhoun, in particolare, insistette con vigore affinché vi fosse corrispondenza tra il confine fisico e quello razziale. La frontiera fisica e quella della razza, la color line, dovevano corrispondere: gli USA, proclamò Calhoun, non avevano mai incorporato al loro interno una «razza non caucasica»; annettendo il Messico, gli Stati Uniti, un «governo degli uomini bianchi», avrebbero compiuto «l’errore fatale di mettere la razza di colore sullo stesso livello di quella bianca»52. Lo scontro fra determinismo razziale e diritti naturali lacerò e divise il fronte espansionista, già in difficoltà per il protrarsi del conflitto e per l’opposizione sempre più forte alla possibilità di portare la schiavitù nei nuovi territori. Con un occhio alle elezioni presidenziali, Polk decise infine di accettare un trattato di pace negoziato contro le sue indicazioni dall’inviato del governo statunitense, Nicholas Trist. Il trattato, firmato nel febbraio del 1848 presso il villaggio di Guadalupe Hidalgo, concedeva agli USA solo una parte minima di quanto essi avevano conquistato militarmente. L’accordo garantiva però il raggiungimento dei principali obiettivi per i quali era stata combattuta la guerra, ponendovi termine ed evitando di dover affrontare un ben più lungo e logorante conflitto con la guerriglia che spontaneamente stava sorgendo in Messico. Con il trattato di Guadalupe Hidalgo, il Messico accettava la perdita del Texas e il confine del Rio Grande; soprattutto, cedeva agli Stati Uniti la California e il New Mexico in cambio di una somma complessiva di circa 18 milioni di dollari. Il Messico – che nel conflitto aveva perso più di 50.000 uomini – era così costretto a cedere circa un terzo dei suoi territori; gli Stati Uniti vedevano invece ulteriormente ampliato il proprio vastissimo territorio e completavano il processo di unificazione continentale del paese, da costa a costa. La fine del conflitto era però destinata a far riemergere le divisioni che lo avevano preceduto: sulla possibilità di espandere o meno la schiavitù nei territori appena conquistati si aprì uno scontro che i compromessi parziali e

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fragili degli anni successivi sarebbero riusciti solo temporaneamente a placare53.

3. La «finestra» sul Pacifico La crisi sul Texas era strettamente interconnessa con un altro fronte di tensione, quello apertosi con la Gran Bretagna sul territorio dell’Oregon. Corrispondente a un’area che include gli attuali Stati di Washington, dell’Oregon e dell’Idaho e porzioni del Montana, del Wyoming e della British Columbia in Canada, il territorio dell’Oregon era stato soggetto nella prima metà dell’Ottocento alla colonizzazione congiunta di Gran Bretagna e Stati Uniti. Nel 1818 i due paesi avevano ratificato un accordo che garantiva uguali diritti ai loro cittadini che si fossero trasferiti nella regione, scarsamente popolata ma attraente per il commercio del pellame. Nel ventennio successivo il flusso migratorio dagli Stati Uniti s’intensificò. Replicando modelli già visti in azione altrove, e destinati a caratterizzare successivamente la presenza statunitense in Estremo Oriente, la colonizzazione statunitense dell’Oregon fu promossa dal binomio commercianti-missionari. Dollaro e Bibbia, commercio e filantropia cristiana s’accompagnarono nel rivendicare la missione civilizzatrice degli Stati Uniti e nell’alimentare un espansionismo nazionalista anche nella regione nord-occidentale54. La richiesta di annettere il territorio dell’Oregon si fece più intensa nei primi anni Quaranta e costituì uno dei temi più dibattuti nella campagna per le elezioni presidenziali del 1844. Polk si schierò a favore dell’annessione. Lo fece per inclinazione politica, ma anche nella consapevolezza che legando Texas e Oregon sarebbe stato più facile ottenere un ampio consenso al suo disegno espansionista. Il territorio dell’Oregon risultava infatti assai allettante per molti interessi commerciali e agrari, che guardavano invece con scetticismo alla crociata espansionista del Sud verso i territori messicani. A fare gola non erano tanto e solo le potenziali risorse dell’Oregon, quanto la sua collocazione geografica: una «finestra americana» su quel Pacifico che nelle fantasie di molti avrebbe presto rappresentato la via di comunicazione più breve verso il lontano Oriente, i suoi mercati così come i suoi prodotti e le sue materie prime. Il commercio

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sul Pacifico avrebbe così completato e integrato quello sull’Atlantico, facendo degli USA il più grande impero mercantile della storia. «Gli abitanti della grande valle del Mississippi», proclamò estasiato il rappresentante dell’Indiana Andrew Kennedy, che «hanno in loro possesso il giardino del mondo e il granaio dell’universo», sarebbero riusciti a «estendere un [...] braccio verso le Indie orientali attraverso la catena del Pacifico e l’altro verso l’Europa per il tramite del canale atlantico» e avrebbero «afferrato così il commercio del mondo civilizzato poiché possessori dei mezzi con cui garantire il sostentamento dell’intera famiglia umana»55. La facile navigazione dello stretto di Juan de Fuca faceva dell’area il naturale complemento settentrionale dei porti di San Diego e di San Francisco, offrendo una duplice direttrice alle comunicazioni transpacifiche. In un primo momento, la Gran Bretagna resistette alle richieste statunitensi di estendere sino al Pacifico il confine fissato al 49° parallelo. Ciò stimolò il fronte espansionista più radicale, che premeva per l’annessione del territorio fino al 54° parallelo e 40’ (che includeva anche una parte significativa dell’attuale British Columbia). Come sul Texas, anche sull’Oregon si venne a determinare una frattura, che non contrapponeva però espansionisti e antiespansionisti, ma versioni diverse – massimaliste e moderate – di un comune espansionismo. Questo aspetto, unito alla propensione al dialogo e al compromesso del ministro degli Esteri britannico, Lord Aberdeen, facilitò nel 1846 il raggiungimento di un’intesa. Gran Bretagna e Stati Uniti si accordarono per estendere il confine sul 49° parallelo fino al Pacifico, lasciando l’isola di Vancouver al Canada. Tre altri fattori, oltre alla volontà di concentrarsi sul Texas, spiegano l’accordo. Innanzitutto, la Gran Bretagna non era il Messico. Non lo era in termini di potenza, e questo aiuta a comprendere la volontà di evitare un conflitto. Ma non lo era nemmeno in termini ‘razziali’ e di ‘civiltà’; un elemento, questo, che nel discorso etnocentrico e razzista dell’epoca aveva un suo peso rilevante. In secondo luogo, l’idea che il Nord-Ovest fosse, fino al Pacifico, parte integrante degli USA era stata in larga misura accettata e interiorizzata e aveva costituito l’elemento centrale della visione continentalista di John Quincy Adams, sigillata dal trattato Adams-Onís. Infine, aspetto che qui maggiormente interessa, l’annessione dell’Oregon non causava quelle divisioni che invece contraddistinguevano il dibattito sull’espansione a sud-ovest. Perché non si poneva la questione della schia-

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vitù, e perché sembrava aprire possibilità commerciali e d’investimento di cui avrebbero in teoria beneficiato tutti: commercianti, industriali, agrari. Queste possibilità erano legate alla penetrazione di mercati nuovi, quello cinese in special modo, dalle dimensioni potenzialmente illimitate. Grazie all’accordo del 1846 e al raggiungimento del Pacifico, affermò il segretario del Tesoro Robert J. Walker nel 1848, «l’Asia è improvvisamente divenuta un nostro vicino, separata da un oceano calmo che invita le nostre navi a vapore sul sentiero di un commercio più grande di quello di tutta l’Europa messa assieme»56. 3.1. Oppio, commercio e missione: l’apertura della Cina Nel febbraio del 1784 l’Empress of China salpò dal porto di New York. La nave, sulla quale sventolava la nuova bandiera statunitense, era diretta verso il Capo di Buona Speranza, l’India e il lontano Oriente. L’obiettivo ultimo dei finanziatori del viaggio era avviare relazioni commerciali con il grande impero cinese. Il carico consisteva di ginseng, pellami, cotone e piombo. Dopo sei mesi di viaggio, l’Empress of China raggiunse il porto di Canton, dove rimase per quattro mesi, vendendo i propri articoli e caricando una serie di merci cinesi, in particolare tè e seta. Queste, assieme alla nave, furono rivendute al ritorno negli USA, garantendo agli investitori un ritorno, buono ancorché non straordinario, del 25%57. Il viaggio dell’Empress of China inaugurò i rapporti commerciali tra Stati Uniti e Cina. Negli anni successivi, numerose imbarcazioni statunitensi si recarono a Canton, l’unico porto cinese che l’«Impero celeste» aveva acconsentito ad aprire agli scambi con i rappresentanti degli Stati ‘barbari’. Il commercio statunitense con la Cina fu subito connotato da tratti che lo avrebbero contraddistinto per quasi tutto il XIX secolo. Spesso profittevole, se non speculativo, per chi lo intraprendeva, esso non si tradusse in un’apertura di un mercato, quello cinese, virtualmente illimitato. I sogni sui potenziali «400 milioni di clienti» rimasero a lungo tali: fantasie alimentate da un’ideologia, quella del commercio, che permeava il modo statunitense di fare politica estera. Il mercato cinese si rivelò una chimera, ambita e fantasticata, ma irraggiungibile se non addirittura immateriale. Le importazioni dalla Cina furono assai maggiori delle esportazioni verso di essa e questo deficit commerciale fu spesso aggravato da una ragione di scambio sfavorevole alle merci statunitensi.

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Molti prodotti cinesi – tè e seta sopra tutti – trovarono subito un mercato in Europa e in Nordamerica. Questo squilibrio obbligò Stati Uniti e Gran Bretagna a utilizzare quantità crescenti d’argento per pagare i prodotti cinesi. Proprio la comune difficoltà nei rapporti con l’impero cinese costrinse i due paesi a intensificare la collaborazione, a dispetto del loro antagonismo commerciale e delle tensioni che ancora esistevano. Nelle relazioni con la Cina si venne progressivamente a formare un fronte occidentale, cristiano e imperialista guidato da Londra e al quale si sarebbero vieppiù legati gli stessi Stati Uniti58. Queste caratteristiche s’intensificarono negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, quando i volumi degli scambi statunitensi con la Cina crebbero, al punto da superare quelli della Gran Bretagna, e la presenza di mercanti statunitensi a Canton fu affiancata da quella di un crescente numero di missionari. Mercanti e missionari costituirono pertanto l’avanguardia di uno sforzo di penetrazione culturale che si sarebbe fatto più intenso negli anni e nei decenni successivi, ma che avrebbe sortito risultati ambivalenti e causato frequenti frustrazioni59. Negli anni Trenta dell’Ottocento, una serie di processi ed eventi alterarono in profondità i rapporti tra la Cina e l’asse Gran Bretagna-Stati Uniti. Nel 1834 Londra pose termine al monopolio commerciale della British East India Company, liberalizzando gli scambi con la Cina. Da parte sua, il governo statunitense decise di garantire una protezione crescente ai mercanti che operavano in Cina e nel 1835 istituì l’East India Squadron, una squadra della Marina militare incaricata formalmente di proteggere le imbarcazioni commerciali statunitensi, vittime frequenti di assalti pirateschi, ma da utilizzarsi in futuro anche come strumento di pressione su quei paesi – Cina e Giappone in particolare – che si fossero rifiutati d’interagire commercialmente con gli USA e l’Occidente60. La svolta principale si ebbe però nelle modalità di gestione degli scambi con la Cina. La carenza d’argento e lo squilibrio della bilancia commerciale indussero la Gran Bretagna a utilizzare sempre più l’oppio indiano come succedaneo dell’argento e come strumento di pagamento dei prodotti cinesi. Canton fu invasa dall’oppio, fumato mescolato a tabacco spesso importato dagli stessi Stati Uniti. Per quanto illegale in Cina, il commercio dell’oppio era gestito informalmente dalla British East India Company. Al traffico partecipava-

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no anche numerosi mercanti statunitensi, suscitando l’orrore dei missionari e le loro proteste con il governo degli USA. Proteste a cui spesso erano contrapposte giustificazioni razziali ed etnocentriche di un traffico, quello dell’oppio, che non sarebbe mai stato tollerato negli USA e in Gran Bretagna: l’asserita alterità e inferiorità dei cinesi divenne infatti la spiegazione principale di chi giustificava questo commercio e partecipava ai suoi lauti dividendi61. A partire dal 1837 il governo cinese cercò di bloccare la vendita d’oppio e inviò a tale scopo a Canton un commissario imperiale, Lin Zexu. Alla volontà di riaffermare la sovranità cinese e d’imporre il rispetto delle leggi si accompagnava la consapevolezza degli svantaggi economici causati alla Cina dall’importazione crescente d’oppio. Per un breve periodo i mercanti britannici abbandonarono Canton, rifiutando di sottostare alle condizioni poste da Lin, tra le quali vi era anche l’impegno a non importare mai più oppio in Cina. Il governo britannico sostenne militarmente questa posizione, intravedendo la possibilità di utilizzare il contenzioso per imporre alla Cina nuove condizioni nei rapporti commerciali e diplomatici. Ne conseguì un conflitto, la «guerra dell’oppio», che durò tre anni (183942) e che si risolse in un pesante insuccesso per le forze cinesi. Al termine della guerra, Cina e Gran Bretagna firmarono il trattato di Nanchino (1842). Integrato da un secondo trattato dell’anno successivo, esso accoglieva molte delle richieste britanniche e apriva una nuova fase nei rapporti tra la Cina e l’Occidente, ponendo termine al sistema di Canton e aprendo altri quattro porti al commercio con la Gran Bretagna, tra cui quello di Shanghai. Londra acquisiva inoltre il possesso perpetuo dell’isola di Hong Kong, otteneva delle riparazioni economiche, vedeva fissate tariffe certe e garantito lo status di nazione più favorita62. A dimostrazione che nei rapporti con la Cina l’Occidente operava in modo diplomaticamente e culturalmente unitario, gli Stati Uniti seguirono (e sfruttarono) l’iniziativa britannica. La lobby dei mercanti operanti in Cina e dei loro sostenitori politici convinse il presidente Tyler a inviare una missione per negoziare un accordo simile a quello ottenuto dalla Gran Bretagna. A guidare la missione fu chiamato Caleb Cushing, rappresentante del Massachusetts, presidente della commissione Esteri della Camera e futuro ministro della Giustizia. Cushing credeva tanto nelle immense potenzialità del commercio con la Cina quanto nella superiorità della civiltà cristiana e

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occidentale. Un discorso, il secondo, che nei rapporti esterni operava sempre più da vettore coesivo e unitario, offrendo un ponte tra espansionisti e antiespansionisti, nord e sud. Ecco quindi John Quincy Adams difendere la posizione britannica nella guerra dell’oppio, denunciando la natura oppressiva della «dinastia ManchuTartara del dispotismo». Ed ecco lo stesso Cushing ammettere di non poter considerare come propri «eguali i pellerossa dell’America, gli uomini gialli dell’Asia o quelli neri dell’Africa»63. Dopo lunghi negoziati, anche Cushing riuscì a raggiungere un accordo con il governo cinese. Il trattato di Wangxia, ratificato nel giugno 1844, concedeva agli USA gran parte di ciò che la Gran Bretagna aveva ottenuto due anni prima: l’accesso agli stessi cinque porti; la clausola di nazione più favorita; il riconoscimento del principio di extraterritorialità e il diritto per i cittadini statunitensi di essere comunque giudicati in base alle leggi statunitensi dagli uffici consolari degli Stati Uniti. Anche in virtù delle pressioni di alcuni missionari statunitensi, che avevano svolto un ruolo fondamentale di intermediari linguistici e culturali, l’accordo si differenziava da quello di Nanchino su alcune questioni fondamentali. Agli statunitensi presenti in Cina si riconosceva infatti esplicitamente il diritto di apprendere la lingua cinese e la possibilità di acquistare beni immobili nelle cinque città portuali ora aperte al commercio, per costruirvi le strutture (chiese e ospedali) necessarie per svolgere attività missionaria. Inoltre l’accordo conteneva una clausola che vietava esplicitamente il commercio dell’oppio64. Gli accordi di Nanchino e di Wangxia agevolavano la penetrazione occidentale in Cina e riducevano grandemente la capacità di resistenza cinese. Nel decennio successivo alla loro ratifica il volume degli scambi tra Stati Uniti e Cina crebbe in modo significativo. Le esportazioni verso la Cina quadruplicarono; le importazioni raddoppiarono. Le seconde rimasero comunque assai maggiori delle prime e nella seconda metà dell’Ottocento la bilancia commerciale tornò a essere assai sfavorevole agli USA (in alcuni anni, come il 1873 e il 1880, il rapporto tra importazioni ed esportazioni fu di venti a uno). Cinque nuovi porti erano un risultato significativo, ma certo non sufficiente per intercettare i «400 milioni di clienti» che il mercato cinese avrebbe dovuto garantire. Pur crescendo in termini assoluti, esso continuò ad assorbire una frazione limitata degli scambi commerciali complessivi degli Stati Uniti, di molto inferiore a quel-

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la garantita dai mercati dell’Europa, del Canada e dell’America Latina. Il commercio dell’oppio tornò a fiorire a dispetto di divieti e denunce. Se ne fecero progressivamente una ragione gli stessi missionari statunitensi, che potevano beneficiare di una timida liberalizzazione garantita proprio dalla guerra dell’oppio e dai trattati che ne erano scaturiti. Come ha sottolineato lo storico Peter Fay, «solo Cristo poteva salvare la Cina dall’oppio»; ma solo la guerra per l’oppio stesso aveva potuto «aprire la Cina a Cristo»65. I successivi tentativi cinesi di riacquistare parte della sovranità perduta si scontrarono contro gli interessi delle potenze occidentali e la loro netta superiorità tecnologica e militare. Tra il 1856 e il 1858 Francia e Gran Bretagna combatterono due guerre contro l’impero cinese e le loro truppe arrivarono a occupare Pechino. Come nel caso dell’accordo di Wangxia, gli americani sfruttarono le guerre altrui per ottenere le facilitazioni e i privilegi delle altre potenze occidentali. Con i trattati di Tientsin del 1858, gli USA videro riconfermata la clausola di nazione più favorita e, grazie ad essa, ottennero le stesse concessioni estratte da Francia, Gran Bretagna e Russia: l’apertura di altri dieci porti; la possibilità di navigazione sullo Yangtze; la costituzione di una propria legazione a Pechino; l’autorizzazione agli spostamenti interni e, grazie ad essi, all’attività missionaria e al proselitismo religioso66. Nel corso del successivo quarantennio la sovranità cinese si ridusse grandemente e il paese divenne oggetto di spartizione tra le principali potenze mondiali (incluse ora la Germania e il Giappone). Gli Stati Uniti avevano completato l’espansione continentale anche per potersi proiettare verso l’Asia: verso i suoi mercati così come verso le sue risorse. Nel farlo, avevano accettato di seguire la leadership britannica e di sfruttare le opportunità che questa aveva offerto. Non erano mancati i momenti di tensione con Londra e la competizione commerciale era sempre rimasta viva. Erano però prevalsi gli interessi condivisi e un comune pregiudizio razziale che il tempo aveva solo consolidato. Quelli mossi dagli USA verso la Cina erano i primi passi di un imperialismo che ora cominciava a guardare anche oltre l’emisfero occidentale. Debitore del modello britannico, ma con una vena messianica e redentrice che a questo in parte mancava, l’imperialismo statunitense mostrava già nel caso cinese alcuni tratti distintivi, destinati a consolidarsi nei decenni successivi. Si trattava di un imperialismo fondato su un’ideologia del commercio che non era

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necessariamente espressione degli interessi immediati degli USA. Un’ideologia dell’espansione economica e commerciale che informava e giustificava scelte potenzialmente controverse e si mostrava capace di ottenere un consenso politico e culturale ampio e trasversale. L’impero che si andava così costituendo diventava un impero dai limes incerti, tenui e potenzialmente infiniti. Un impero non (e per certi aspetti già post) territoriale, dove le frontiere diventavano meno importanti ovvero dove l’obiettivo ultimo era rendere tali frontiere sempre più permeabili e porose. Una via imposta dalla necessità, ché gli USA non avevano i mezzi per ambire all’edificazione di un tradizionale impero rigidamente territorializzato; e una via permessa in larga misura dal fatto che un impero di quel tipo lo si era già costruito in Nordamerica. A monte operava l’afflato universalista dell’internazionalismo statunitense, che giustificava, legittimava e alimentava tale via. Alla piena affermazione di un impero statunitense post-territoriale si sarebbe giunti solo nel XX secolo. Alcuni dei suoi prodromi sono però rintracciabili già nella vicenda dell’apertura della Cina e in particolare in quella clausola della giurisdizione extraterritoriale che abbiamo visto riconosciuta nel trattato di Wangxia. In un mondo moderno e sempre più territorializzato, l’affermazione dell’extraterritorialità scardinava modelli che apparivano consolidati. Nel farlo – e nel giustificare tale possibilità – Stati Uniti e Gran Bretagna si appellavano a un discorso religioso e di civiltà di matrice quasi medievale; rimandavano a un antico modello di diritti transnazionali e a una definizione tutta cristiana ed euroatlantica dei limini legittimi della comunità internazionale. Questa dimensione mutava e si radicalizzava, però, laddove ad essa si aggiungeva una rivendicazione di superiorità, invero di eccezionalità, che segnava e qualificava l’espansionismo statunitense. In una simile ottica, la rivendicazione di un privilegio comune ed esteso – l’extraterritorialità per tutti i soggetti civilizzati nei loro rapporti con i popoli ‘barbari’ e inferiori – si trasformava nell’affermazione di un diritto esclusivo e non condivisibile: l’extraterritorialità come eccezione resa possibile dall’essere nati (o diventati) cittadini statunitensi. In Cina si cominciava per la prima volta ad affermare un principio, tutto eccezionalista, che sarebbe poi tornato con frequenza, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale: l’idea che «la legge americana non si legava al territorio» degli USA, ma al «corpo dei citta-

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dini americani, ognuno dei quali» diveniva così «un’isola flottante di sovranità americana»67. 3.2. Il commodoro Perry e l’apertura del Giappone Una volta portati i confini statunitensi alla sua altezza, il Pacifico era diventato una sorta di estensione dell’Ovest. Il concetto di far west – proclamava nel 1852 un famoso magazine statunitense – non si applicava più solo a un «territorio prefissato e definito», ma poteva essere esteso anche «alle isole dell’impero giapponese e alle coste della Cina»68. L’espansione commerciale americana avrebbe finalmente consentito di «destare le nazioni dormienti e indolenti dell’Oriente»69. In un primo momento, però, l’attenzione si concentrò quasi esclusivamente sulla Cina. Povero di risorse (almeno fino a quando non si scoprì l’importanza del carbone) e dal mercato potenziale assai più limitato, il Giappone attirò meno interesse e stimolò una minore curiosità. A ciò contribuì anche la clausura imposta al paese dalla dinastia Tokugawa, che sigillò per più di due secoli il Giappone attraverso un blocco del commercio con l’estero – dal quale erano esonerati solo alcuni mercanti olandesi – e il divieto di diffusione del cristianesimo. Questa condizione mutò nel corso della prima metà dell’Ottocento, in concomitanza con lo sforzo anglo-statunitense d’apertura della Cina. La guerra dell’oppio, in particolare, ebbe un impatto decisivo. La possibilità di commerciare a Shanghai rese più importante la rotta navale transpacifica, facendo del Giappone un importante scalo intermedio, ricco per giunta di quel carbone che sempre più alimentava le imbarcazioni delle principali potenze. Lo stesso mercato giapponese, per quanto subordinato a quello cinese, cominciò ad allettare alcuni commercianti statunitensi. La caccia alle balene, metafora per eccellenza del superamento dell’ultima grande barriera rappresentata dal Pacifico, portò un numero crescente di navi statunitensi ad avvicinarsi alle coste giapponesi e stimolò forme d’interazione, non sempre amichevole, tra le due parti70. Tra il 1790 e il 1850 circa trenta navi statunitensi avevano cercato, senza successo, di recarsi in Giappone e di avviare relazioni commerciali tra i due paesi. Nel 1851 il presidente Millard Fillmore ritenne giunto il momento di sostenere questi sforzi, ponendo termine all’isolamento che il Giappone si era autoimposto. Incaricò quindi il capitano John Aulick, comandante dell’East India Squadron, di

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negoziare un trattato commerciale con il Giappone che permettesse di risolvere la questione dei naufraghi incarcerati e, soprattutto, di acquistare il carbone giapponese: un «dono della Provvidenza», questo, che secondo il segretario di Stato Daniel Webster si trovava in Giappone per «il giovamento dell’intera famiglia umana»71. Aulick cadde ben presto in disgrazia con i suoi superiori e fu rimpiazzato dal commodoro Matthew Calbraith Perry. Perry era uno dei più importanti ufficiali della Marina statunitense: aveva partecipato da giovane alla guerra del 1812-14, guidato l’African Squadron a metà degli anni Quaranta ed era stato protagonista di alcune importanti operazioni durante il conflitto con il Messico. Soprattutto, Perry era un navalista ante litteram, convinto che la Marina potesse svolgere un ruolo cruciale non solo nella difesa degli «specifici interessi economici e politici» degli USA, ma anche nella promozione delle cause, strettamente interdipendenti, «del commercio, della civiltà e della democrazia»72. Molto interessato alle trasformazioni tecnologiche e alla possibilità di applicarle all’arte della guerra, Perry era incuriosito dalla Cina più che dal Giappone. Si gettò però con foga nell’impresa, documentandosi per mezzo dei pochi libri disponibili sull’impero giapponese e attraverso una serie di colloqui con gli uomini d’affari che sostenevano la necessità di accompagnare l’apertura della Cina con quella del Giappone. La missione di Perry ebbe inizio nell’ottobre del 1852, quando partì dalla Virginia in direzione del Giappone; nel luglio dell’anno successivo le quattro imbarcazioni della squadra guidata da Perry giunsero nella baia di Edo (l’attuale Tokyo), dove aveva sede il governo militare giapponese (lo shogun; l’imperatore risiedeva invece a Kyoto). Perry era stato investito di poteri ampi e discrezionali da Fillmore: l’uso della forza non era escluso, anche se il commodoro riteneva possibile imporre le proprie richieste ai giapponesi attraverso una semplice esibizione delle potenzialità tecnologiche degli Stati Uniti. La visita ebbe quindi una dimensione coreografica, funzionale a dimostrare la superiorità – tecnologica e di civiltà – degli Stati Uniti e l’impossibilità per il Giappone di resistervi. Un centinaio di marines armati si disposero su due file per accompagnare la discesa di Perry; i marinai e due bande musicali intonarono l’inno statunitense dell’epoca, Hail Columbia; le credenziali di Perry furono portate da due giovani marinai, accompagnati ognuno da «guardie negre, alte e muscolose». La cerimonia fu se-

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guita dalla consegna di doni, anch’essi tesi a dimostrare il primato della tecnologia statunitense, e dalla visita di alcuni dignitari giapponesi sulle due moderne imbarcazioni a vapore che avevano capeggiato la flotta statunitense73. I giapponesi guadagnarono tempo e obbligarono Perry a ripartire in direzione della Cina per rifornire le sue navi. La squadra di Perry riapparve, più numerosa e armata, pochi mesi più tardi. Anche in questo caso, Perry utilizzò i doni come modo per esibire lo squilibrio di forza, progresso e civiltà tra i due paesi: egli presentò ai suoi interlocutori un primitivo telegrafo che Samuel Morse stesso aveva aiutato ad assemblare e, soprattutto, la miniatura funzionante di un treno a vapore. Dopo un mese di negoziati, i due paesi ratificarono finalmente un trattato alla fine di marzo del 1854. Il trattato di Kanagawa accoglieva solo parte delle richieste statunitensi e determinava di conseguenza un’apertura assai limitata del Giappone: due porti (Shimoda e Hakodate) erano dischiusi ai vascelli americani; i cittadini statunitensi avevano libertà di movimento entro un raggio di 80 chilometri dai due porti, ove sarebbero stati consegnati anche gli eventuali naufraghi recuperati presso le coste giapponesi; si accettava la possibilità che fosse istituita una rappresentanza consolare degli Stati Uniti in Giappone (a Shimoda); agli USA era concesso lo status di nazione più favorita (che avrebbe esteso agli USA eventuali concessioni ottenute da altri Stati). Il trattato non conteneva però clausole precise rispetto al commercio tra i due paesi né vi erano riferimenti al carbone giapponese e al suo possibile acquisto74. I termini dell’accordo erano assai più limitati di quelli del trattato di Wangxia, negoziato con la Cina nel 1844. Nondimeno, l’accordo di Kanagawa aveva per gli Stati Uniti una rilevanza politica – simbolica e pratica – assai superiore. Diversamente dalla Cina, erano stati gli USA a guidare e in ultima istanza imporre l’apertura, per quanto parziale, del Giappone. Lo avevano fatto minacciando il ricorso alla forza, anche se difficilmente avrebbero corso il rischio di scatenare una guerra. E lo avevano fatto sfruttando e magnificando i successi tecnologici del paese, dimostrandone la spendibilità diplomatica e commerciale. Nel farlo, Perry ricorse a un topos dell’eccezionalismo statunitense che sarebbe poi tornato con vigore negli anni e nei decenni successivi e avrebbe progressivamente rappresentato uno dei pilastri della rivendicazione di superiorità degli USA: l’idea che gli Stati Uniti costituissero la «nazione della tecnologia» e

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che essi fossero in grado di utilizzare tale tecnologia come strumento e giustificazione di una missione ora legittimata anche in termini di civiltà. La capacità, in altre parole, di fare della superiorità tecnologica un elemento ulteriore con cui informare e motivare «una teleologia antica che celebrava» da tempo «l’espansione americana come parte di un grand design universale»75. Con il viaggio di Perry e il trattato di Kanagawa, gli USA si ponevano almeno simbolicamente alla testa del mondo cristiano e occidentale in Estremo Oriente. Un mondo, questo, affatto unito e coeso, ché persistevano elementi di competizione geopolitica e commerciale, tanto che la stessa missione di Perry era stata accelerata per anticipare un’analoga iniziativa russa. E un mondo in cui l’impero britannico era ancora dominante e gli Stati Uniti relegati in una posizione subalterna. Ma un mondo che tendeva nondimeno a relazionarsi in modo unitario ai soggetti altri dell’Asia e che accettava e riconosceva l’esistenza di una basilare partizione di civiltà tra l’Occidente e l’Oriente, la cui dimostrazione tangibile e incontrovertibile stava anche nel profondo gap tecnologico. Non a caso, altri Stati – Gran Bretagna, Francia, Russia e Olanda – ottennero subito concessioni analoghe a quelle estratte da Perry. E non a caso, furono le pressioni plurime di tutti i ‘soggetti civilizzati’ a imporre di lì a poco un’ulteriore capitolazione al Giappone. Nel luglio del 1858, infatti, l’impero del Sol levante accettò di ratificare un «trattato di amicizia e commercio» con Washington. L’accordo aprì nuovi porti alle imbarcazioni statunitensi, permise agli USA di istituire una rappresentanza diplomatica a Edo (e al Giappone di aprirne una a Washington), ridusse le barriere tariffarie e garantì l’extraterritorialità ai cittadini statunitensi residenti in Giappone76. Anche in questo caso le altre potenze seguirono gli USA, ottenendo concessioni simili dal governo militare giapponese. La stampa statunitense magnificò il successo ottenuto. Nel 1860 la prima visita della delegazione giapponese negli USA fu oggetto di curiosità quasi morbosa e stimolò una volta di più la penna superba di Walt Whitman, che nel poema The Errand Bearers celebrò l’«apertura del commercio» e la fine del «sonno dei secoli», lodò «l’Asia venerabile, madre di tutti», che visitava ora la «Libertà del Mondo» e, soprattutto, acclamò il «nuovo impero, più grande di tutti quelli venuti prima»77. La fascinazione per l’Oriente era destinata a scontrarsi però con

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una reazione, quella del Giappone, che si sarebbe rivelata assai diversa da quella cinese. Le pressioni occidentali e i «trattati ineguali» del 1854 e del 1858 finirono per destabilizzare il precario ordine feudale giapponese. Molti signori feudali (daimyo) si ribellarono a quella che era percepita come un’eccessiva arrendevolezza dello shogun verso gli USA e le potenze europee. Nei primi anni Sessanta si assistette a un’intensificazione delle violenze contro gli stranieri, che colpirono la stessa legazione statunitense a Edo e alcune imbarcazioni commerciali americane. L’azione unitaria e cooperativa delle potenze occidentali sedò temporaneamente le violenze e impose al Giappone un nuovo accordo, che ridefiniva le tariffe sulle esportazioni e le importazioni. La guerra civile che ormai attraversava il Giappone portò però nel 1868 alla caduta dello shogunato Tokugawa, alla restaurazione Meiji e alla formazione di un nuovo governo basato sul primato riconosciuto dell’imperatore. Soprattutto, avviò un processo di rapida modernizzazione del paese, trasformandolo in una potenza regionale senza pari. Il Giappone divenne in poco tempo un concorrente nella competizione imperiale in Estremo Oriente, e in Cina in special modo. Non più oggetto di colonizzazione, ma soggetto colonizzatore spregiudicato e aggressivo. Questa trasformazione ridefinì i rapporti del Giappone con gli Stati Uniti e catalizzò una serie di contraddizioni destinate a intensificarsi negli anni. Diventando una potenza moderna, il Giappone mise in discussione i radicati stereotipi razziali che avevano informato l’espansionismo degli USA, condizionandone le politiche e i comportamenti anche in Estremo Oriente. Paese asiatico ma moderno, pagano ma civilizzato, barbaro ma progredito, il Giappone rappresentò una sfida, categoriale ancor prima che politica, con la quale gli USA avrebbero da allora in poi dovuto fare i conti. Lo sforzo di razionalizzazione di questa sfida generò aporie profonde. In momenti diversi della sua storia il Giappone fu riconosciuto come membro, peraltro mai pienamente legittimo, di quell’Occidente di cui anche gli USA facevano parte. Paese un tempo «mezzo cristiano», secondo la «Democratic Review», e quindi potenzialmente recuperabile alla civiltà, ovvero paese paradossalmente «non asiatico» e includibile quindi nell’«ovile della cristianità anglosassone», secondo alcuni missionari statunitensi che vi operavano. Né pienamente «uguale», né completamente «altro», il Giappone finì però più spesso per occupare una posizione intermedia, oscillando a seconda del-

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le circostanze: oggetto di una particolare responsabilità civilizzatrice degli Stati Uniti (ma anche della Germania), che si sarebbe concretizzata già nell’Ottocento nell’attivazione di programmi di scambio per studenti giapponesi che avessero voluto studiare nelle università statunitensi, ovvero rivale geopolitico, e in ultima istanza barbaro e dispotico, capace di usare strumentalmente la modernità e il progresso per sfidare il primato statunitense sul Pacifico78.

4. Una «casa» non più «divisa»: la guerra civile e il suo impatto sulla politica estera La guerra con il Messico completò il processo di espansionismo continentale: realizzò quella visione continentalista che aveva informato l’atteggiamento della leadership statunitense fin dalla nascita della repubblica e offrì finalmente due coste e due mari alla grande potenza commerciale americana. Le acquisizioni del trattato di Guadalupe Hidalgo furono poi completate nel dicembre del 1853 dal Gadsden Purchase, attraverso il quale gli USA comprarono dal Messico una parte di territorio corrispondente a porzioni degli attuali New Mexico e Arizona, sul quale doveva passare l’asse meridionale di un collegamento ferroviario transcontinentale79. Gli anni Cinquanta dell’Ottocento furono segnati da altri tentativi di aumentare il territorio degli Stati Uniti. Indirizzati verso i Caraibi e il Centro America, e in particolare verso Cuba, essi finirono per incocciare contro scogli che si rivelarono insormontabili. Si trattava infatti di zone abitate da popolazioni ritenute dalla maggioranza degli americani non idonee ai «riti della cattedrale repubblicana». Ciò evidenziò come il fattore razziale potesse ostruire, e non solo giustificare, l’espansionismo. Quando non integrato da altri fattori (continentalismo, missione, interesse commerciale forte) e, soprattutto, laddove avesse imposto l’ammissione nella repubblica di razze diverse e non più la loro rimozione o trasformazione, l’espansionismo non poteva procedere secondo i canoni fissati a partire dalla Northwest Ordinance né fungere da fattore coesivo di una nazione che sulla questione razziale era sempre più divisa e polarizzata80. Una volta superato il momento di unità forzosamente imposto dalla guerra del 1845-48, la frattura regionale tra il Nord e il Sud del

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paese riesplose e divenne sempre più difficile contenerla e ricomporla. Varie dinamiche vi concorrevano: le profonde differenze sociali e culturali; visioni e interessi economici assai lontani, con un Nord protoindustriale e protezionista e un Sud agricolo, legato all’esportazione di cotone e inevitabilmente liberista; le ambizioni e gli opportunismi politici di una nuova generazione di leader di partito; la perenne tensione tra chi voleva estendere e consolidare il potere federale e chi rivendicava il primato degli Stati. La schiavitù e la questione razziale costituivano però i fattori che sottendevano tutti gli altri; il comune denominatore che li univa ed esasperava. Le soluzioni che dalla Costituzione in poi avevano permesso di evitare uno scontro divennero sempre più difficili da mantenere. I nuovi compromessi – elaborati e complessi – si rivelarono fragili e insufficienti. Gli scontri tra opposte fazioni si fecero più violenti e intensi. Il cleavage tra Nord e Sud divideva ormai il Partito democratico. L’opposizione all’espansione della schiavitù nei territori rappresentava invece uno degli elementi fondamentali che avevano portato, nel 1854, alla nascita del Partito repubblicano81. Le elezioni del 1860 rappresentarono lo spartiacque cruciale. I democratici si presentarono divisi, con un candidato del Nord (Stephen Douglas) e uno del Sud (John Breckinridge). I repubblicani scelsero come loro candidato Abraham Lincoln, dell’Illinois. Tra i fondatori del partito, Lincoln aveva acquisito fama e visibilità nazionale nel 1858, quando aveva sfidato senza successo Douglas alle elezioni per il Senato. Fu in quella occasione che Lincoln pronunciò uno dei più celebri discorsi nella storia degli Stati Uniti: «Se una casa è divisa in se stessa – affermò Lincoln citando un celebre passaggio del Vangelo secondo Marco (3, 25) – essa non può reggersi [...] credo che questo governo non possa sopravvivere [...] per metà libero e per metà schiavo»82. Lincoln era in realtà un moderato. Assai lontano dalle posizioni dell’abolizionismo radicale del Nord, egli mirava a preservare l’Unione e a evitare la diffusione della schiavitù dei nuovi territori dell’Ovest, nella convinzione che la peculiare istituzione fosse destinata all’estinzione; che essa rappresentasse – economicamente e culturalmente – un anacronismo prossimo a essere travolto dalle trasformazioni in atto. Lincoln fu eletto con meno del 40% del voto popolare; il suo partito non ottenne la maggioranza al Congresso. Per questo molti repubblicani cercarono inizialmente un compromesso, che

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si rivelò però impraticabile. Il Sud rilanciò una rivendicazione cara alla sua storia e a una parte del pensiero costituzionale statunitense: l’idea, difesa e argomentata con forza in passato da John Calhoun, secondo la quale gli Stati avevano il diritto di separarsi dall’Unione. Il Nord e i repubblicani rigettavano questa tesi e riaffermavano l’idea della indissolubilità di un’Unione la cui nascita precedeva la stessa Costituzione83. Si trattava di due visioni inconciliabili, di una frattura non ricomponibile. Il primo Stato ad abbandonare l’Unione fu la South Carolina. All’inizio del 1861 altri sei Stati optarono per la secessione: il Mississippi, la Florida, l’Alabama, la Georgia, la Louisiana e il Texas. Nel febbraio del 1861 essi crearono gli Stati confederati d’America e incamerarono tutte le proprietà federali presenti sul loro territorio. Poche settimane più tardi le forze confederali conquistarono con la forza la guarnigione federale di Fort Sumter in South Carolina. Cominciava così la guerra civile americana. Per durata, estensione, coinvolgimento dei civili e mobilitazione economica e industriale, la guerra civile americana è considerata da molti studiosi la prima guerra moderna. Guerra totale e assoluta per il livello di distruzioni che essa produsse, ma anche per l’impossibilità di giungere a una fine che non comportasse la capitolazione senza condizioni di uno dei due contendenti, ovvero del Sud confederale84. A confrontarsi erano due parti assai disuguali per capacità economica e militare: un Nord industrializzato, dotato di un’efficace rete di trasporti ferroviari e con una popolazione più che doppia rispetto a quella della confederazione, anche dopo l’adesione a quest’ultima nell’aprile-maggio del 1861 di altri quattro Stati (Virginia, Arkansas, Tennessee e North Carolina), e un Sud agricolo e assai più povero. La confederazione beneficiava però di una serie di vantaggi, effettivi e potenziali. Combatteva sul proprio territorio una guerra difensiva e inizialmente assai popolare tra la sua popolazione bianca. Poteva sperare nell’effetto logorante che un conflitto lungo e violento avrebbe potuto esercitare sull’opinione pubblica e il mondo politico del Nord. Più di tutto, riteneva di poter sfruttare a proprio vantaggio il contesto internazionale e l’arma offerta dal suo cotone, vitale per l’industria tessile europea e per quella britannica in special modo. Un’ingerenza forte dell’Europa nel conflitto avrebbe potuto alterarne il corso e il risultato. Le principali potenze europee reagiro-

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no però diversamente alla crisi apertasi negli Stati Uniti. La Russia guardava con sfavore alla nascita di una seconda repubblica in Nordamerica, consapevole che uno Stato americano forte e attivo sui mari avrebbe potuto contribuire all’equilibrio di potenza, bilanciando almeno in parte il primato navale britannico. La Francia di Napoleone III sperava al contrario di poter sfruttare la situazione per tornare a svolgere un ruolo nel continente americano. Il soggetto decisivo, nondimeno, era come sempre la Gran Bretagna85. L’interdipendenza economica e commerciale tra il Sud e la Gran Bretagna era grandemente aumentata nel decennio precedente. Gli Stati della Confederazione dominavano il mercato mondiale del cotone, di cui producevano circa i due terzi. Il cotone costituiva il 60% delle esportazioni statunitensi verso le isole britanniche. Quello raccolto nel Sud rappresentava l’85% del cotone consumato in Europa, negli USA e nelle isole britanniche. È stato calcolato che il lavoro di almeno 4 milioni di inglesi dipendesse dal cotone prodotto nel Sud degli USA. Come ebbe a sostenere il senatore della South Carolina Jesse Hammond, «cosa accadrebbe se nessun cotone fosse fornito per tre anni? [...] la vecchia Gran Bretagna ruzzolerebbe a testa all’ingiù e trascinerebbe il resto del mondo civilizzato con sé [...] nessuna potenza al mondo ha il coraggio di muovere guerra al cotone. Il cotone è re (cotton is king)!». Il governatore del Mississippi John Pettus arrivò addirittura a sostenere che «lo Stato sovrano del Mississippi avrebbe potuto fare più facilmente a meno della Gran Bretagna che non la Gran Bretagna del Mississippi»86. La Gran Bretagna era consapevole di questa dipendenza e timorosa per gli effetti che una lunga guerra avrebbe potuto avere sul suo settore tessile. Il paese era però diviso sul corso da seguire e incerto sull’esito del conflitto. I conservatori parteggiavano in larga parte per la Confederazione in nome dell’affinità sociale e culturale con l’aristocrazia sudista e della profonda avversione per la democrazia statunitense. Le posizioni dei liberali e dei radicali britannici erano invece più composite e variegate. La diffusa ostilità nei confronti della schiavitù induceva a simpatizzare per l’Unione. Essa era però mitigata da altri, potenti fattori: l’avversione al protezionismo nordista; l’insufficiente afflato abrogazionista di una guerra che Lincoln inizialmente giustificò come finalizzata a preservare l’Unione più che ad abolire la schiavitù; la simpatia di molti liberali verso una rivendicazione, quella al diritto di secessione, spesso presentata come una

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forma legittima e nobile di autodeterminazione. Sullo sfondo agiva inoltre la preoccupazione per la possibile sorte dei territori nordamericani; un conflitto con l’Unione avrebbe potuto indurre quest’ultima – ora militarmente rafforzata – ad attaccare il Canada87. A queste divisioni interne si aggiungeva una profonda incertezza su quale fosse l’esito del conflitto maggiormente vantaggioso per gli interessi britannici. La nascita di due repubbliche più deboli in Nordamerica avrebbe prodotto un’alterazione degli equilibri geopolitici regionali dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Le sollecitazioni di Napoleone III a formare un fronte comune antiunionista si scontravano con una diffidenza forte nei confronti della Francia e del suo leader. I legami commerciali con il Nord erano a loro volta assai importanti per l’economia inglese e la guerra li stava anzi consolidando, in virtù dell’imponente crescita delle esportazioni britanniche verso l’Unione. L’effetto fu per certi aspetti paradossale. La guerra civile statunitense – il suo andamento e le sue dinamiche – finirono per condizionare assai più i comportamenti della Gran Bretagna e degli altri Stati europei di quanto questi non influenzarono le sorti del conflitto. Una serie di scelte britanniche irritarono i leader unionisti e sembrarono avvicinare la possibilità di un conflitto. Ma in ultima istanza una guerra atlantica fu evitata e il «re cotone» rivelò tutta la sua debolezza diplomatica: attraverso un accorto uso delle riserve e trovando fonti alternative di approvvigionamento (soprattutto in India) la Gran Bretagna riuscì a sopportare l’improvvisa carenza di cotone, provocata sia dal blocco navale imposto dall’Unione sia dalla riduzione della produzione e poi dall’embargo informale adottato dalla Confederazione88. La tempistica della guerra dettò quindi i comportamenti britannici; questi ultimi, a loro volta, furono decisivi nell’influenzare le scelte degli altri soggetti internazionali, in particolare della Francia. Il primo biennio di guerra, segnato dall’efficace resistenza sudista, non indusse Londra a intervenire, ma sembrò legittimare scelte che il Nord percepì come chiaramente ostili ai propri interessi. Di particolare importanza fu la dichiarazione britannica di neutralità del maggio 1861. Se da un lato non soddisfaceva le richieste più ambiziose della Confederazione, con la quale Londra non istaurava rapporti diplomatici formali, tale decisione irritò profondamente il Nord. Optando ufficialmente per la neutralità, la Gran Bretagna

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metteva infatti sullo stesso piano i due contendenti e riconosceva così i diritti di belligeranza del Sud. Soprattutto, concedeva alle navi del Sud la possibilità di accedere ai propri porti, così come previsto da quei «diritti dei neutrali» la cui difesa e tutela era sempre stata invocata dagli USA. Proprio sui diritti dei neutrali si assisteva a un curioso ribaltamento di ruoli rispetto al passato. La dichiarazione di neutralità era stata preceduta dalla decisione dell’Unione di attuare un blocco navale al largo delle coste del Sud, che andava dalla South Carolina al Rio Grande. Sull’efficacia di tale blocco gli storici non sono concordi. Il dato rilevante è che esso – attuabile solo riconoscendo uno status di belligerante al Sud – finì per favorire la posizione britannica, che vide legittimata la propria successiva scelta della neutralità; poté denunciare l’ingiusta (e ipocrita) violazione dei diritti dei neutrali, ma si guardò bene dallo sfidare o contestare il blocco navale, nella consapevolezza che esso avallava una pratica di cui avrebbe sempre tratto beneficio la maggiore potenza navale, quella in grado di imporre blocchi navali ampi ed efficaci, ossia la Gran Bretagna stessa89. Questo primo biennio di guerra fu segnato da tre crisi nei rapporti tra Gran Bretagna e Unione: la vicenda del Trent, nell’ottobre del 1861, la dura reazione nordista ai tentativi di mediazione britannici del 1862 e le tensioni del 1862-63 suscitate dalla vendita di navi inglesi alla Confederazione. Da parte dell’Unione si fece subito chiaro che un riconoscimento diplomatico della Confederazione avrebbe costituito ragione sufficiente per una dichiarazione di guerra. Londra non si spinse quindi oltre la neutralità e l’invocazione, non particolarmente convinta, dei neutral rights. Nei primi mesi di guerra, l’azione diplomatica della Confederazione ebbe come obiettivo quello d’indurre la Gran Bretagna e le altre potenze europee a modificare tale linea. Rappresentanti della Confederazione furono inviati a tale scopo nelle principali capitali europee. Il loro ricevimento suscitò le aspre rimostranze dell’Unione e del suo segretario di Stato, William Seward. Le tensioni raggiunsero un picco quando un’imbarcazione nordista fermò al largo di Cuba una nave britannica, la Trent, e arrestò due agenti confederali – James Mason e John Slidell – in viaggio verso la Gran Bretagna. La vicenda suscitò un’ondata di fervore patriottico e antibritannico nel Nord. Secondo il «New York Tribune», «i volti degli americani leali si allargarono» allora «in un ghigno univer-

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sale». Si trattava però di una violazione, eclatante e per Londra non tollerabile, dei diritti di neutralità. Il governo britannico chiese delle scuse ufficiali e il rilascio immediato dei rappresentanti confederali. La Francia espresse la sua disponibilità a schierarsi a fianco della Gran Bretagna in una guerra contro l’Unione. Henry Adams, il figlio di John Quincy, diede voce alle perplessità di molti quando denunciò la decisione di «abbandonare i grandi principi» dei «padri» degli Stati Uniti, adottare pratiche contro le quali in passato «ogni Adams aveva protestato e combattuto» e «ritornare» così nel «vomito del cane britannico». Seward e Lincoln infine capitolarono e rilasciarono Slidell e Mason, permettendo loro di raggiungere l’Europa. Fu così evitata una guerra che nessuno, a parte Napoleone III, davvero voleva90. Una seconda crisi si aprì nel corso del 1862. A causarla furono i tentativi britannici di mediare nel conflitto per giungere a una sua soluzione negoziata. Le difficoltà militari incontrate dall’Unione sembravano evidenziare l’impossibilità per il Nord di sconfiggere il Sud e la conseguente inevitabilità della secessione. Fu il cancelliere dello Scacchiere, il liberale William Gladstone, a dare voce a questa posizione laddove affermò che «popolazioni degli Stati del Nord» cercavano ancora «di tenere lontano dalle proprie labbra [...] il calice che il resto del mondo» aveva invece «compreso che esse» dovevano «bere». Per quanto contrario alla schiavitù, Gladstone muoveva dalla convinzione che il Sud avesse diritto alla secessione e all’autodeterminazione e dall’orrore provocato da una guerra sempre più brutale e sanguinaria, che danneggiava pesantemente alcune regioni dell’Inghilterra, il Lancashire in particolare, e che creava una pericolosa condizione d’instabilità sulla scena internazionale91. L’offerta di mediazione britannica non aveva però possibilità di successo e, anzi, esasperò nuovamente le tensioni con l’Unione. A confrontarsi erano due posizioni non conciliabili: la rivendicazione del diritto alla secessione per il Sud e l’affermazione della natura perpetua e indivisibile dell’Unione per il Nord. L’atteggiamento britannico, e la sua formale imparzialità ed equidistanza, era inaccettabile per l’Unione così come lo era stata la scelta della neutralità. Seward ribadì che un’offerta formale di mediazione sarebbe stata considerata alla stregua di una dichiarazione di guerra. Il governo britannico indietreggiò, condizionato nella sua decisione anche dai primi

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successi nordisti, che anticipavano un capovolgimento del corso della guerra a vantaggio dell’Unione92. La terza e ultima crisi si ebbe nel 1863. La Gran Bretagna stava traendo benefici economici crescenti dalla vendita di armi e altro materiale militare alle due parti. Più complessa era la questione relativa alla possibilità di vendere navi all’Unione e/o alla Confederazione. Secondo i termini della legislazione britannica, le imbarcazioni vendute a paesi belligeranti dovevano essere disarmate. Questo vincolo fu aggirato da alcuni costruttori, che vendettero alla Confederazione navi destinate a essere armate non appena abbandonati i porti neutrali della Gran Bretagna. Dopo varie schermaglie diplomatiche, il rappresentante diplomatico dell’Unione a Londra, Charles Francis Adams (fratello di Henry), fece chiaro che la prosecuzione delle vendite avrebbe causato una guerra. Anche in questo caso, la Gran Bretagna ripiegò93. La moderazione della Gran Bretagna rifletteva sia i limiti della sua capacità di intervenire nel conflitto sia la progressiva evoluzione, a vantaggio del Nord, del corso della guerra. Nel 1863 le vittorie unioniste a Vicksburg, Mississippi e, soprattutto, a Gettysburg, in Pennsylvania, segnarono un punto di non ritorno. Il conflitto sarebbe durato altri due anni, con costi umani altissimi per entrambe le parti. La capacità difensiva del Sud era stata però vinta. Come il convincimento che il Nord non potesse vincere aveva inizialmente indotto la Gran Bretagna alla neutralità e a promuovere vani tentativi di conciliazione, così la consapevolezza dell’inevitabilità di una vittoria nordista persuase Londra a evitare ulteriori coinvolgimenti e ad attendere pazientemente la fine del conflitto. A ciò contribuì anche la decisione di Lincoln di trasformare la guerra in uno scontro per la decisiva abolizione della schiavitù. Una decisione, questa, culminata con il proclama di emancipazione del gennaio 1863, che affermava la libertà di tutti gli schiavi residenti negli Stati della Confederazione. Il peso che il tema della schiavitù ebbe nell’orientare le scelte e i comportamenti della Gran Bretagna fu però limitato. Garantì all’Unione una generica simpatia tra una parte dell’opinione pubblica britannica, temperata però dalla brutalità della guerra e dalla tendenza di molti liberali – come Gladstone – a ritenere che gli Stati del Sud avessero il diritto di abbandonare l’Unione, ma non permise mai di trasformare il conflitto nella «guerra santa» invocata dalla scrit-

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trice abrogazionista Harriet Beecher Stowe, capace di unire i riformatori illuminati delle due sponde dell’Atlantico94. I costi del conflitto furono immensi. Le vittime sfiorarono il milione: per un terzo civili e per due terzi combattenti. Il numero di militari morti nella guerra civile fu superiore a quello combinato dei soldati statunitensi caduti nelle due guerre mondiali e nei conflitti in Corea e in Vietnam. Il territorio della Confederazione fu devastato. Si aprì una lunga e controversa ricostruzione, che non riuscì a sanare il dualismo che lacerava la società e l’economia statunitense. Eppure, se misurata sul terreno delle relazioni internazionali e della politica di potenza, anche la guerra civile contribuì al rafforzamento e all’ascesa della repubblica statunitense. Rafforzò economicamente il Nord, ponendo le premesse del grande boom industriale che sarebbe seguito. Risolse, in modo definitivo, uno dei fattori che maggiormente avevano diviso il paese, affermando la supremazia incontrastata del potere federale su quello statale, a sua volta condizione essenziale per l’affermazione di una politica estera assertiva e ambiziosa. Soprattutto, il non intervento europeo evidenziò come gli Stati Uniti – in virtù della loro espansione continentale, della loro crescita demografica e del loro imponente sviluppo economico – avessero maturato un primato emisferico che anche le grandi potenze europee ormai riconoscevano e rispettavano. Rimaneva, forte, la questione razziale a ostruire sogni espansionistici extracontinentali; e pesava la necessità di consolidare quanto acquisito, popolando e colonizzando l’Ovest, prima di promuovere nuovi progetti al di fuori dei confini del paese. Che gli USA fossero ormai una potenza, destinata a breve a svolgere un ruolo nell’equilibrio globale, era però una verità che pochi in Europa osavano ormai mettere in discussione.

Parte seconda IMPERO TRA GLI IMPERI

V DOLLARI, GUERRE E PORTE APERTE

1. Il momento imperiale La guerra civile rappresentò uno spartiacque decisivo per gli Stati Uniti. Chiuse in modo definitivo una disputa – quella tra chi rivendicava il primato del potere federale e chi difendeva le prerogative degli Stati – che aveva segnato la storia del paese sin dalla sua nascita. Lasciò ferite difficili da cicatrizzare in breve tempo. Determinò la fine della schiavitù, ma non della condizione di subordinazione e discriminazione degli afro-americani. Permise finalmente di concentrarsi sullo sviluppo e il popolamento delle regioni occidentali incamerate negli anni precedenti. Per quasi un trentennio le energie e l’impegno del governo furono indirizzati primariamente a tale scopo: procedere alla costruzione della rete di collegamenti ferroviari necessari per unificare il paese, integrandone economicamente le diverse macroregioni; facilitare e incoraggiare il processo di migrazione interna con cui fornire l’Ovest della necessaria forza lavoro; gestire il processo di ammissione dei nuovi Stati nell’Unione1. Soprattutto, lo sforzo di sviluppo e integrazione dell’Ovest obbligò una volta di più a ripensare le politiche adottate fino ad allora nei confronti delle diverse nazioni indiane, sia quelle che popolavano le regioni occidentali sia quelle che erano state forzosamente trasferite oltre il Mississippi negli anni Venti e Trenta. L’enclave indiana, che doveva essere impermeabile alla colonizzazione bianca, non sopravvisse all’avanzata verso Ovest. Al suo posto furono costituite nel 1867 due altre riserve, una nel South Dakota e l’altra nell’attuale Oklahoma, mentre la caccia ai bufali produceva la graduale estin-

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Parte seconda. Impero tra gli imperi

zione di quella che era stata la principale fonte di sostentamento di molte nazioni indiane nomadi dell’Ovest. Anche la soluzione delle due riserve si rivelò impraticabile, soprattutto quando la scoperta di giacimenti auriferi in South Dakota ripropose situazioni già verificatesi altrove. A partire dal 1850 erano peraltro cominciate una serie di guerre tra nativi ed esercito federale che, intermittenti per frequenza e straordinariamente brutali per intensità, sarebbero durate per più di trent’anni. Alcune nazioni indiane, in particolare i Sioux (in Montana) e gli Apache (nel Sud-Ovest), ottennero importanti vittorie militari, ma non furono mai veramente in grado di bloccare l’avanzata bianca né di far rispettare gli accordi precedentemente stipulati. Le diverse nazioni indiane furono infine trasferite in varie riserve, ridotte per dimensioni e sparse in alcuni territori occidentali. Al finire dell’Ottocento la politica del trasferimento e della separazione perseguita a partire dall’amministrazione di Andrew Jackson lasciò di nuovo spazio a uno sforzo di «civilizzazione» e assimilazione, attraverso l’educazione e la cristianizzazione dei giovani indiani, che erano sottratti alle famiglie e istruiti in scuole appositamente create2. Oltre alla colonizzazione dell’Ovest e alle guerre indiane, l’impegno del governo federale s’indirizzò al rafforzamento militare, primariamente in ambito navale, e alla promozione di uno sforzo di penetrazione economica e commerciale sia nell’emisfero occidentale sia in Estremo Oriente. Tra i due processi esisteva una stretta interdipendenza: una Marina potenziata e capace di competere sugli oceani era funzionale a proteggere le imbarcazioni commerciali battenti bandiera statunitense. Il tutto avvenne nel quadro di una collaborazione sempre precaria e fragile con le altre principali potenze mondiali, soprattutto in Asia. Con esse, Washington condivideva l’obiettivo di aprire terre lontane, garantendosi così l’accesso ai loro mercati e alle loro risorse, in un contesto però di competizione latente che rischiava costantemente di sfociare in scontro aperto3. Il trentennio che seguì la guerra civile non fu quindi per gli Stati Uniti un periodo di espansione territoriale. Non mancarono ambiziosi progetti di conquista di nuovi territori nelle Americhe e sul Pacifico. Cuba, il Nicaragua, Santo Domingo, le Isole Vergini danesi, le Hawaii, le Samoa furono di volta in volta individuate – da politici e militari – come possibili obiettivi strategici da conquistare o quanto meno da controllare. Vari fattori ostruirono però questi progetti,

V. Dollari, guerre e porte aperte

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in particolare la convinzione che fosse meglio optare per una forma di penetrazione indiretta, economica e commerciale, e, ancor più, l’ostilità a riaprire nuovamente la questione razziale, annettendo agli USA terre abitate da popolazioni non bianche, ritenute congenitamente non idonee all’inclusione nella comunità repubblicana e democratica statunitense4. L’unica eccezione fu rappresentata dall’acquisto dell’Alaska nel 1867, ceduta dalla Russia zarista agli Stati Uniti per la cifra di 7,2 milioni di dollari. Ragioni economiche e strategiche indussero il segretario di Stato William Seward a negoziare l’accordo. Il controllo dell’Alaska sembrava poter preludere all’annessione di tutta la Columbia britannica, se non del Canada intero, ed era coerente con lo storico interesse commerciale statunitense nelle regioni nord-occidentali. L’accordo fu ratificato con facilità al Senato, ma la Camera si mostrò riluttante a fornire i fondi necessari per darvi corso. Le ricchezze minerarie della «ghiacciaia di Seward» – come fu ribattezzata l’Alaska dagli oppositori dell’accordo – non erano ancora note e a molti il prezzo richiesto parve spropositato, soprattutto dopo una guerra così costosa e nel pieno della difficile ricostruzione del Sud. La somma fu infine stanziata, ma i successivi tentativi di Seward di acquisire altri territori nei Caraibi si scontrarono contro un Congresso sempre più riluttante a finanziare certe operazioni5. Un cambiamento radicale di rotta si ebbe solo a partire dagli anni Novanta. La politica estera statunitense si fece allora più assertiva e spregiudicata. La tentazione imperiale si rivelò irresistibile. Diverse dinamiche – interne e internazionali – concorsero a determinare questo cambiamento. Innanzitutto, esso fu stimolato dal mutato contesto mondiale e dal nuovo ruolo che gli Stati Uniti – potenza in ascesa – potevano ambire a svolgervi. Alla graduale erosione dell’incontrastato primato britannico stava corrispondendo un’intensificazione della competizione imperiale che coinvolgeva ormai tutte le principali potenze europee. Etnocentrismo, obiettivi commerciali e ragioni strategiche concorrevano nell’alimentare e giustificare la radicale svolta imperialista dell’ultima parte dell’Ottocento. Una svolta, questa, che rendeva il mondo vieppiù unito e interdipendente e alla quale una parte dell’élite cosmopolita statunitense riteneva doveroso, invero vitale, partecipare: perché l’imperialismo rappresentava la forma d’internazionalismo all’epoca egemone; perché in tale svolta si sarebbe manifestato, una volta di più, il destino civiliz-

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zatore e benigno dell’espansionismo statunitense; perché avrebbe soddisfatto precisi interessi; perché gli USA disponevano ora dei mezzi, anche militari, per dare corso a una politica imperiale emisferica e, se necessario, extracontinentale. L’impetuosa crescita economica, il boom industriale, la colonizzazione dell’Ovest e il potenziamento della Marina avevano fatto degli USA una grande potenza: «Le vecchie nazioni della terra si trascinano al passo della lumaca», ma gli USA «procedono rombando con la furia di un espresso», proclamò estasiato il magnate dell’acciaio Andrew Carnegie6. Se l’imperialismo delle altre potenze e il rafforzamento assoluto e relativo degli USA costituivano le precondizioni dell’ingresso statunitense nell’arena della competizione imperiale, la strategia, le nuove correnti geopolitiche, alcuni interessi economici e antiche certezze, adattate alla nuova epoca, ne fornivano la giustificazione e il sostrato ideologico. Informavano un discorso – quello dell’imperialismo extracontinentale degli Stati Uniti – che avrebbe assunto caratteristiche per molti aspetti peculiari e uniche. Per quanto concerne la cultura strategica, era egemone nel dibattito pubblico dell’epoca la visione navalista, popolarizzata dalle opere del capitano della Marina Alfred T. Mahan, secondo la quale il controllo dei mari e delle vie di comunicazione navali costituiva la premessa indispensabile della potenza di un paese. Ciò – affermavano i navalisti – imponeva il rafforzamento della Marina militare e, soprattutto, l’acquisizione di una serie di basi che, visti gli interessi geopolitici e commerciali degli USA, non potevano che trovarsi nei Caraibi e nel Pacifico. Per quanto riguarda l’ideologia, il nuovo imperialismo di fine Ottocento poteva affidarsi agli stereotipi di un discorso – quello del «destino manifesto» e della missione civilizzatrice – dalle matrici antiche, ma sempre attuali, e al quale in forme diverse attingevano anche altri imperialismi, quello francese e quello britannico su tutti. Il sostegno di alcuni interessi economici a una politica estera assertiva ed espansionistica – soprattutto sul Pacifico e nell’emisfero occidentale – aveva anch’esso una lunga storia, peraltro non sempre coronata da successo7. Se una serie di fattori strutturali catalizzavano la tentazione imperiale degli Stati Uniti, altri la ostacolavano o vi si frapponevano esplicitamente. L’eccezionalismo – etnocentrico e razzista – che informava una parte del discorso imperialista connotava anche quel-

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lo anti-imperialista, che a dispetto di tutto rimase straordinariamente popolare e politicamente influente. L’eccezione americana poteva, in altre parole, essere evocata per sollecitare un rifiuto delle pratiche della politica di potenza europea e per invitare a evitare di contaminare l’esperimento repubblicano statunitense, europeizzandolo nei metodi o ammettendovi popolazioni e razze inadatte a farne parte. Discutendo nel 1898 la possibilità di annettere le Filippine, il quotidiano «The Republican» avrebbe dato voce in modo emblematico a queste posizioni: la popolazione dell’arcipelago – proclamò «The Republican» – era composta da «negritos, una razza quasi selvaggia, quel che resta della popolazione aborigena [...] malesi, cinesi, e meticci cinesi»; bastava «considerare per un momento il carattere degli abitanti delle Filippine per comprendere che il possesso permanente era impensabile». Allo stesso modo, esponenti d’importanti interessi economici (come lo stesso Carnegie e il magnate bostoniano del tessile Edward F. Atkinson) e una parte non irrilevante del mondo politico guardavano con perplessità se non con aperta ostilità a un impegno imperiale che distoglieva risorse ed energie, s’indirizzava verso territori e mercati – in particolare la Cina – il cui potenziale effettivo si era rivelato in passato assai più limitato del previsto e rischiava di trasformare gli USA in quella nazione coloniale che essi non erano mai stati. Il navalismo, infine, per quanto popolare, era dottrina destinata a breve a essere apertamente contestata e sfidata8. Condizioni ben precise erano quindi necessarie per sbloccare, a vantaggio dei primi, questo scontro tra imperialisti e anti-imperialisti. Tali condizioni emersero nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Fu allora che una pesantissima crisi economica interna s’intrecciò con alcune rinnovate tensioni in America Latina e con le difficoltà di un impero, quello spagnolo, ormai allo stadio terminale nell’alterare gli equilibri politici statunitensi e nel rendere, per un breve lasso di tempo, semplicemente irresistibile la tentazione imperiale. 1.1. La guerra contro la Spagna A partire dal 1893 gli Stati Uniti furono investiti dalla più drammatica crisi economica che avessero mai dovuto fronteggiare. La recessione fu provocata da diverse concause: il fallimento di alcune grandi compagnie ferroviarie e il suo effetto sul sistema bancario e sulla borsa di Wall Street; il costante ca-

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lo dei prezzi dei prodotti agricoli, con le conseguenti ripercussioni sul potere d’acquisto degli agricoltori; l’esplosione di una bolla speculativa che era cresciuta senza freni negli anni precedenti. Il dato che qui interessa è che la recessione s’intrecciò, esacerbandole, con forme di tensione politica e sociale che da alcuni anni attraversavano la società statunitense. Ne conseguirono scontri, agitazioni sindacali e una temporanea, ancorché radicale, sfida al sistema bipartitico, con l’ascesa del movimento populista e la richiesta di tornare a un sistema bimetallico, abbandonando il gold standard 9. Questi problemi spaventarono un’élite che già osservava con preoccupazione, e talvolta con vera e propria paura, la trasfigurazione della società americana prodotta dall’imponente nuova ondata migratoria iniziata negli anni Ottanta, in conseguenza della quale cominciarono a giungere negli Stati Uniti migliaia di immigrati provenienti da un Sudeuropa prevalentemente cattolico e latino, che si riteneva essere lontani – per cultura, religione e tradizioni – da quegli standard minimi che avrebbero garantito una facile assimilazione nella comunità repubblicana statunitense. Crisi economica, scontri sociali e tensioni interetniche sembrarono preludere – agli occhi di molti – all’ineluttabile degenerazione della società americana, alla decadenza degli Stati Uniti. Una decadenza, questa, cui secondo alcuni contribuivano i processi di urbanizzazione e industrializzazione: che inibivano l’intraprendenza e il coraggio attraverso i quali si erano formate le generazioni passate, modificavano il supposto dinamismo culturale del paese, riflettevano un surplus di civilizzazione e benessere dal quale la civiltà statunitense rischiava di essere travolta, così come accaduto per altre grandi civiltà del passato. A dare voce a queste fobie – a invocare il ritorno a un primitivismo marziale, mascolino e virile, simile a quello che si sarebbe temprato sulla frontiera dell’Ovest – provvide soprattutto il futuro presidente Theodore Roosevelt: «Una civiltà pacifica e commerciale – argomentò Roosevelt nel 1894 – corre sempre il pericolo di perdere le virili qualità combattenti in assenza delle quali nessuna nazione – per quanto acculturata, prospera e rigogliosa – potrà mai ambire a essere qualcosa»10. Secondo i suoi sostenitori, una svolta imperialista – e le guerre che essa avrebbe portato con sé – poteva costituire sia un modo per sedare ansie e paure sempre più diffuse sia per rivitalizzare una nazione e una civiltà compiaciuta, passiva e a rischio di degenerazione.

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Le crisi che alla fine dell’Ottocento esplosero in Centro e Sudamerica, e che parvero mettere in discussione la Dottrina Monroe e le fondamenta della politica emisferica degli USA, offrirono la possibilità di dare corso a questa svolta imperiale e al «nazionalismo muscolare» che essa conteneva in sé11. Un anticipo si ebbe con la vicenda venezuelana del 1895, provocata da un contenzioso tra Venezuela e Gran Bretagna causato dalla scoperta di giacimenti d’oro in prossimità del confine che separava il primo dalla Guyana britannica. In modo inatteso, l’amministrazione democratica di Grover Cleveland intervenne nello scontro anglo-venezuelano, sollecitando le due parti a raggiungere un accordo, ma facendo chiaro che se ciò non fosse avvenuto gli Stati Uniti avrebbero arbitrariamente definito il confine. Il segretario di Stato Richard Olney riaffermò con forza la validità della Dottrina Monroe, ampliandone peraltro il significato: «Oggi gli Stati Uniti sono praticamente sovrani su questo continente e i loro ordini sono legge», proclamò Olney. Il potente senatore del Massachusetts Henry Cabot Lodge gli fece eco: «Se la Gran Bretagna può estendere il proprio territorio in Sudamerica senza alcuna rimostranza da parte nostra, ogni altra potenza europea potrà fare lo stesso e in breve vedrete il Sudamerica frazionato così come è accaduto per l’Africa». Londra indietreggiò; gran parte del pubblico statunitense applaudì; in nome dell’anti-imperialismo e della Dottrina Monroe gli USA affermarono, con formule roboanti e intimidatorie, la loro volontà imperialista continentale12. Nello stesso anno della crisi venezuelana ricominciò a Cuba la guerra che contrapponeva la Spagna e il fronte indipendentista cubano. Già in passato vi erano state rivolte e scontri provocati dalle azioni dei separatisti cubani. L’insurrezione del 1895 fu però diversa. Catalizzata anche da una nuova tariffa statunitense sulle importazioni di zucchero, che mise in ginocchio l’economia cubana, essa non ebbe carattere locale, si estese a gran parte dell’isola e coinvolse un numero crescente di uomini (circa 50.000), ben presto addestrati e organizzati in truppe efficienti, capaci di sfidare l’esercito imperiale spagnolo. Si aprì allora un triennio di guerra brutale, durante il quale s’evidenziò ben presto l’incapacità della Spagna di mantenere il controllo dei propri possedimenti coloniali13. La situazione cubana fu seguita con molta attenzione a Washington. Pur meno influenti di quanto sottolineato da alcuni studiosi, gli

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investitori statunitensi a Cuba avevano una capacità di lobbying non marginale e chiedevano al governo statunitense una qualche forma di tutela e garanzia. Soprattutto, Cuba aveva da sempre rappresentato uno degli obiettivi più ambiti dell’espansionismo statunitense. Vari fattori avevano impedito di dare corso all’annessione dell’isola. Il debole controllo spagnolo aveva però costituito negli anni una forma di garanzia: non impediva la penetrazione economica e commerciale statunitense; evitava un intervento nella regione di altre, ben più solide potenze europee; preveniva il controllo di Cuba da parte di forze nazionaliste che avrebbero potuto assumere posizioni antistatunitensi14. Le difficoltà spagnole furono subito evidenti agli osservatori statunitensi. La Spagna non era in grado di mantenere militarmente il controllo dell’isola. Si riteneva però che un’indipendenza non tutelata e controllata dagli Stati Uniti avrebbe prodotto caos e instabilità. Come sottolineò il rappresentante diplomatico statunitense a Madrid, Stewart L. Woodford, Washington non vedeva «alcuna altra possibilità al di fuori del disordine, dell’insicurezza e della distruzione delle proprietà. La bandiera spagnola» non era «in grado di portare la pace. Così come non» era «in grado di farlo la bandiera dei ribelli». Esisteva «solo una potenza e una bandiera che» potevano «assicurare e imporre la pace». «Quella potenza», affermò Woodford, «sono gli Stati Uniti e quella bandiera è la nostra bandiera»15. In un primo momento, Madrid reagì in modo brutale, ancorché inefficace, alla sfida indipendentista. Il nuovo governatore spagnolo, il generale Valeriano Weyler, creò un sistema concentrazionario – basato sulla cosiddetta politica del reconcentrado – con lo scopo di sottrarre agli insorti la base di sostegno di cui essi godevano tra la popolazione rurale. Donne e bambini furono trasferiti in città fortificate, prive dei più elementari servizi igienici e sanitari. Decine di migliaia di persone morirono in poco più di due anni. La stampa scandalistica americana – ormai popolare e influente – denunciò (e talvolta ingrandì) gli orrori della politica spagnola, sollecitando un intervento militare statunitense: «Fornitemi le fotografie e io vi fornirò la guerra», disse il magnate dell’editoria William Randolph Hearst (che avrebbe ispirato la figura di Charles Foster Kane in Quarto potere di Orson Welles). Ma anche media più moderati invitarono l’amministrazione di Cleveland a intervenire presso il gover-

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no spagnolo. Un’opinione pubblica sempre più volatile e infiammabile si schierò a sua volta a sostegno del fronte indipendentista16. Alla fine del 1897 Madrid – che si trovava a fronteggiare un’altra rivolta nella colonia delle Filippine – abbandonò la politica del reconcentrado e introdusse una serie di riforme che riconoscevano ampia autonomia a Cuba. Era troppo poco per gli indipendentisti e troppo per i lealisti conservatori spagnoli, che percepirono la decisione come un tradimento. Il tentativo di concedere una forma d’autogoverno a Cuba evidenziava in modo inequivoco le difficoltà in cui versava la Spagna. La sua perdita dell’isola appariva ormai certa. E ciò – argomentavano molti negli USA – imponeva un’azione rapida di Washington per condizionare il processo che avrebbe portato all’indipendenza. Nel 1895-96, l’amministrazione Cleveland aveva cercato di mediare nel conflitto, evitando un intervento degli Stati Uniti. Il nuovo presidente repubblicano William McKinley, eletto nel 1896, si rivelò da subito maggiormente propenso ad agire. Fattori diversi, e non sempre complementari, alimentavano le pressioni di chi invocava una maggiore partecipazione degli Stati Uniti alla crisi: la convinzione che essa offrisse un’utile occasione per guadagnare avamposti dall’alto significato commerciale e strategico; il timore che qualche altra potenza europea potesse trarre vantaggio dalla situazione; la volontà di tutelare ed espandere gli interessi statunitensi a Cuba; l’orrore genuino verso il colonialismo spagnolo e per la violenza del conflitto, che ha indotto alcuni studiosi a presentare il successivo intervento statunitense come il primo esempio di «guerra umanitaria»; gli opportunismi politici di chi – dentro il Partito repubblicano – scorgeva nella situazione l’opportunità per raccogliere consensi ampi e trasversali e per contenere la sfida proveniente dal fronte radicale e da quello populista17. Di fronte al riaccendersi degli scontri, all’inizio del 1898 McKinley decise d’inviare all’Havana la corazzata Uss Maine. Si trattava di un’esibizione di muscoli il cui scopo era quello di comunicare la preoccupazione del governo statunitense e la sua volontà di tutelare le vite e gli interessi dei cittadini americani presenti sull’isola. Il 15 febbraio la Maine affondò in conseguenza di un’esplosione, provocando la morte di 266 marinai. I media e molti politici attribuirono immediatamente la colpa alla Spagna. Una prima commissione d’inchiesta assegnò la paternità dell’esplosione a una mina sottomarina.

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Si era trattato invece di un incidente, causato probabilmente da un incendio nei depositi della sala macchine. Ma l’incidente offrì un pretesto aggiuntivo a un’amministrazione già orientata all’intervento e alimentò ancor più le pulsioni antispagnole di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica18. McKinley presentò un ultimatum alla Spagna, nel quale si chiedeva un armistizio temporaneo e, soprattutto, la possibilità per gli USA di agire come arbitro nella disputa. Gli storici hanno a lungo discusso se la Spagna fosse o meno disponibile ad accettare tali condizioni. Di certo non lo erano i cubani, che non interruppero le operazioni militari. L’11 aprile 1898 McKinley inviò un messaggio al Congresso in cui sottolineava come la strada della forza fosse ormai l’unica possibile. Due settimane più tardi, una risoluzione congiunta delle due Camere autorizzava l’intervento militare. Accogliendo le richieste dell’amministrazione, la risoluzione non prevedeva il riconoscimento del governo rivoluzionario cubano. Essa incorporava però un emendamento, proposto dal senatore Teller del Colorado, nel quale si affermava esplicitamente che gli USA non avevano intenzione di «esercitare alcuna sovranità, giurisdizione o controllo» su Cuba e che l’unico scopo dell’intervento era quello di giungere a una «pacificazione», una volta raggiunta la quale si sarebbe «lasciato il governo [...] dell’isola al suo popolo»19. L’emendamento Teller evidenziava sia la popolarità della lotta per l’indipendenza di Cuba sia la persistenza, all’interno degli Stati Uniti, di posizioni anti-imperialiste, spesso motivate sulla base di considerazioni razziali. A ciò si aggiungeva l’interesse preciso dei produttori statunitensi di zucchero – non a caso assai forti nello Stato di Teller, il Colorado – che temevano la concorrenza cubana. L’emendamento però legava le mani all’amministrazione McKinley, come si sarebbe visto di lì a poco20. La guerra fu rapida, ancorché non semplice e indolore per un esercito, quello statunitense, mobilitato con fretta e imperizia e costretto a includere al proprio interno anche reggimenti irregolari, come i Rough Riders guidati da Theodore Roosevelt. Il putrescente impero spagnolo non poteva certo competere con una potenza in ascesa quali erano gli Stati Uniti, ma la guerra estiva a Cuba non fu affatto la «splendida, piccola guerra» celebrata retrospettivamente dal futuro segretario di Stato, John Hay, allora ambasciatore a Londra. Si trattò invece di un conflitto feroce, combattuto in condizioni as-

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sai difficili, nel quale un ruolo decisivo sarebbe stato svolto dai rivoluzionari cubani e, in alcune importanti battaglie, dagli irregolari guidati da Roosevelt e dalle unità segregate di soldati afro-americani. I caduti statunitensi furono circa 3.500. Solo il 10% morì in combattimento; il resto fu vittima di malattie, la febbre tifoide su tutte21. La strategia di guerra adottata dagli USA, e gli obiettivi che essi si prefiggevano di raggiungere, estesero immediatamente il conflitto ad altri teatri. Facendo leva sulla loro indiscussa superiorità navale, gli Stati Uniti ebbero facilmente ragione della Spagna nelle Filippine. Le forze statunitensi invasero inoltre l’isola di Portorico, per privare la Spagna di un’importante base nei Caraibi e acquisire così un possedimento che aveva una funzione vitale nelle rotte di comunicazione navale. Diversamente da Cuba, le vittime statunitensi di questi altri due conflitti furono poche (quattro) e le Filippine e Portorico si avviarono a diventare a tutti gli effetti dei possedimenti coloniali degli Stati Uniti. La guerra vera e propria durò poco più di tre mesi. Spagna e Stati Uniti siglarono la pace a Parigi nel dicembre del 1898. L’accordo fu ratificato due mesi più tardi, non senza difficoltà, dal Senato statunitense. Il trattato di Parigi garantiva a Cuba l’indipendenza. Gli Stati Uniti acquisivano il possesso di Portorico, dell’isola di Guam (destinata a diventare una base militare americana nel Pacifico) e delle Filippine, per le quali versavano alla Spagna 20 milioni di dollari22. Il problema che si pose immediatamente fu cosa fare di Cuba. Si trattava di un obiettivo ambito da decenni, ma che era ormai indipendente e quindi non annettibile agli Stati Uniti: perché l’emendamento Teller – che l’ex segretario di Stato Richard Olney definì «futile e mal pensato» – lo vietava esplicitamente; perché minacciava di far riesplodere il problema razziale, proprio quando un elaborato sistema di segregazione era stato costruito nel Sud e legittimato dalle sentenze della Corte suprema; perché il fronte contrario all’annessione rimaneva ampio e politicamente influente. Si trattava quindi di trovare il modo per mantenere un qualche controllo di Cuba, evitando però di violarne formalmente l’indipendenza appena conquistata. Cuba andava trasformata in un protettorato degli Stati Uniti, poiché incapace di autogovernarsi e vitale per gli interessi statunitensi. In nome della pacificazione del paese, della stabilità regionale e del compimento della missione civilizzatrice assegnata agli USA dalla storia e dal destino, le truppe statunitensi rimasero sull’isola an-

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che una volta cessate le ostilità. Come sottolineò il «Philadelphia Enquirer», a una piena indipendenza si sarebbe potuti giungere solo quando i cubani si fossero dimostrati capaci di «governare l’isola in accordo con i principi americani di ordine, libertà e giustizia»23. Una qualche forma di tutela e vigilanza degli USA su Cuba appariva quindi indispensabile. Le forme di questa tutela furono definite dall’emendamento alla legge sul finanziamento dell’esercito presentato nel 1901 dal senatore repubblicano del Connecticut Orville Platt. L’emendamento era stato in realtà ideato dal segretario della Guerra, Elihu Root, e da uno dei comandanti delle forze statunitensi a Cuba, James Harrison Wilson. Esso vincolava il ritiro dei soldati statunitensi a precise condizioni: l’impossibilità per Cuba di stipulare alleanze con paesi terzi e di contrarre un debito pubblico che non fosse sopportabile attraverso le semplici entrate correnti; la concessione agli Stati Uniti di una base navale sull’isola, che fu poi costruita nella baia di Guantanamo; l’accettazione del diritto statunitense a intervenire, se necessario con la forza, per preservare «l’indipendenza di Cuba» e, con essa, la sopravvivenza di un governo capace di garantire la «protezione della vita, della proprietà e della libertà individuale»24. Molti leader cubani protestarono con forza contro quella che era a tutti gli effetti una pesante limitazione della libertà appena conquistata. L’alternativa era però rappresentata dalla permanenza dell’esercito statunitense sull’isola. Nel 1901 l’emendamento fu incorporato nella Costituzione cubana. Due anni più tardi esso rappresentò la base dell’accordo bilaterale ratificato dagli Stati Uniti e da Cuba. Non sarebbe passato molto tempo prima che gli Stati Uniti, nel 1906 e poi nel 1912, intervenissero militarmente a Cuba secondo i dettami dell’emendamento Platt25. Con la guerra del 1.2. Porta aperta: gli USA e la questione cinese 1898 gli USA acquisivano un impero: limitato, rispetto a quelli delle altre grandi potenze dell’epoca, ma ortodosso nella forma e nella natura. Per quanto piccolo, quello statunitense era un impero tra gli imperi, lontano sia dal modello d’imperialismo senza colonialismo promosso durante la fase dell’espansione continentale sia dai prodromi di impero post-territoriale cui si era dato vita negli anni della prima penetrazione commerciale in Estremo Oriente. Gli imperialisti, come Roosevelt e Cabot Lodge, guardavano anzi all’imperiali-

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smo europeo come a un modello da seguire e con il quale, se necessario, mettersi in competizione. Come il caso delle Filippine avrebbe di lì a poco rivelato, questa forma imperiale convenzionale avrebbe subito posto gli Stati Uniti di fronte a una serie di dilemmi – interni e internazionali – e avrebbe obbligato una rapida rimodulazione delle pratiche dell’impero extracontinentale. Per alcuni anni essa convisse contraddittoriamente con la riaffermazione della validità di principi antichi, con la denuncia dell’imperialismo europeo e la conseguente riaffermazione dell’eccezionalità statunitense. Il lessico dell’anti-imperialismo statunitense non cadde in disuso, ma fu utilizzato sia nella polemica politica interna sia in quella che contrappose gli USA alle potenze europee, di cui fu denunciata la tendenza a ostruire l’interdipendenza economica, creando nelle proprie aree imperiali sfere d’influenza esclusive e inaccessibili alle merci e ai capitali di altri Stati26. Ciò fu particolarmente evidente in Cina, verso cui s’indirizzavano ormai da un secolo gli interessi, ma anche le fantasie e i sogni della nazione statunitense. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il Celeste impero fu soggetto a pressioni crescenti da parte di tutte le principali potenze, incluso ora il Giappone, che sconfisse la Cina nella guerra del 1894-95, ottenendo in cambio importanti acquisizioni territoriali. Preoccupate dall’attivismo giapponese e intenzionate a contestare il primato britannico, Russia, Francia e Germania si attivarono per ridimensionare le conquiste del Giappone e, soprattutto, per ottenere zone d’influenza proprie, nelle quali investire e costruire profittevoli monopoli commerciali. Il governo cinese – debole e diviso – non oppose resistenza e garantì loro una serie di concessioni. La Gran Bretagna si accodò ottenendo anch’essa una zona d’influenza esclusiva. Gli Stati Uniti guardarono con preoccupazione crescente alla situazione che si era venuta a determinare in Cina. Non erano in grado di competere militarmente con gli Stati europei. Dovevano fronteggiare la crisi apertasi a Cuba e nelle altre colonie spagnole. Erano attraversati da divisioni politiche forti provocate dalla discussione sull’impero che essi stavano edificando. Tutti, imperialisti e anti-imperialisti, riconoscevano però l’importanza – pratica e simbolica – della Cina. Come sottolineò un rapporto del Dipartimento di Stato, la Cina aveva rappresentato «per molti anni uno degli ambiti più promettenti per l’impresa, l’industria e il capitale americani». L’ac-

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cesso al mercato cinese avrebbe garantito «guadagni immensi» per le «manifatture» degli Stati Uniti. Era quindi essenziale evitare che la politica spartitoria in atto non escludesse gli USA27. Ragioni strategiche e di potenza e giustificazioni ideologiche integravano queste considerazioni economiche e commerciali. Con poche variazioni su un tema antico e consolidato, la necessità di modernizzare e civilizzare la Cina era riaffermata con forza, a maggior ragione laddove potenze razzialmente altre, come quella giapponese, ambivano ora a svolgere un ruolo di primo piano nell’arena internazionale. Nella seconda metà dell’Ottocento la Cina era stata oggetto di un impressionante sforzo di proselitismo ed evangelizzazione da parte di molte missioni protestanti nord-americane. L’ascesa della Germania, impegnata nel potenziamento accelerato della propria Marina, e il rinnovato attivismo russo in Estremo Oriente obbligavano a considerare scenari nuovi, in termini sia di alleanze sia di iniziative diplomatiche. L’incapacità britannica di fare fronte alla sfida e l’ascesa imperiale degli USA, infine, imponevano una politica statunitense nella regione assai più attiva che in passato28. Questo attivismo doveva però dispiegarsi al di fuori di prassi imperiali tradizionali, impraticabili nel contesto cinese, visti i rapporti di forza che lì regnavano, e comunque vieppiù contestate all’interno degli Stati Uniti. Il punto di compromesso fu trovato nella cosiddetta «politica della porta aperta». Nel settembre del 1899 il segretario di Stato John Hay inviò alle potenze presenti in Cina una nota. Decisa senza consultare il governo cinese, la prima «nota della porta aperta» (Open Door Note) di Hay chiedeva che la spartizione della Cina tra le grandi potenze non producesse discriminazioni nel commercio con la Cina e all’interno della stessa. Affinché ciò fosse possibile, Hay indicava tre condizioni: che gli «interessi acquisiti» in passato da paesi terzi nelle «cosiddette ‘sfere d’influenza’» fossero rispettati; che in tali sfere e nei loro porti si applicassero uniformemente i dazi cinesi; che le potenze concessionarie non utilizzassero in modo discriminatorio le tariffe ferroviarie e portuali. Solo in questo modo sarebbe stato possibile «rimuovere le cause d’irritazione e assicurare al tempo stesso il commercio di tutte le nazioni in Cina»29. Pur riluttanti, Gran Bretagna, Giappone, Francia, Russia e Germania accettarono infine di firmare questa prima nota di Hay. Lo fecero anche nella convinzione che si trattasse di un gesto simbolico, destinato ad avere poche ripercussioni concrete. La situazione cine-

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se fu però scossa dalla rivolta nazionalista dei Boxer, stimolata proprio dalle ripetute violazioni della sovranità cinese. La rivolta prese di mira cittadini stranieri e le stesse rappresentanze diplomatiche occidentali. Essa fu infine sedata dall’intervento di un contingente multinazionale di circa 20.000 soldati, un quarto dei quali statunitensi30. Per gli USA si pose allora il problema di riaffermare la validità dei principi della porta aperta, a fronte della volontà degli altri Stati presenti in Cina di mantenere le proprie truppe a Pechino e procedere eventualmente a un’ulteriore spartizione del paese. Hay decise di far circolare una seconda nota della porta aperta, nella quale invitava esplicitamente le altre potenze a impegnarsi a rispettare «l’integrità territoriale e amministrativa» della Cina. L’amministrazione McKinley valutò però la possibilità di acquisire con la forza un porto cinese, qualora non fosse stata data una risposta positiva alla seconda nota. All’inizio del 1901, le truppe straniere furono finalmente ritirate da Pechino e venne accettata anche la seconda nota della porta aperta. La Cina fu però costretta a pagare una gigantesca indennità di 333 milioni. Ciò indebolì ulteriormente l’impero cinese e pose le condizioni per la sua fine, che sarebbe avvenuta nel 191231. Il comportamento di McKinley e Hay è stato valutato in modo diverso dagli storici. Come espressione di un ingenuo ottimismo, cieco alle leggi della diplomazia e della politica di potenza, per alcuni; come simbolo di spregiudicatezza e concretezza, secondo altri che non hanno esitato a presentare le note sulla porta aperta come il vero «trionfo» di McKinley32. Entrambe le tesi colgono una parte di verità, ma ne omettono un’altra ben più importante. A dispetto degli auspici di Washington, la competizione imperiale, in Cina e altrove, non era destinata ad assumere forme consensuali e collaborative e il suo inasprimento avrebbe anzi concorso a portare al primo, grande conflitto mondiale. I rapporti di forza esistenti in Cina lasciavano nondimeno margini d’azione assai limitati agli USA. La porta aperta garantì una parziale tutela degli interessi statunitensi e permise all’amministrazione McKinley di influenzare almeno in parte la situazione cinese. Negli anni la porta aperta è divenuta per gli storici la metafora e il simbolo di un modo peculiarmente statunitense di fare politica estera e di costruire un impero sui generis, assai diverso da quello convenzionale europeo. Secondo questa lettura, l’impero della por-

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ta aperta avrebbe rappresentato la coerente espressione di una Weltanschauung tutta nord-americana, centrata sulla convinzione che la sopravvivenza dell’esperimento repubblicano statunitense, e del tipo di libertà che esso incarnava, dipendesse dalla possibilità di espandere continuamente i volumi di scambi commerciali. Solo in questo modo sarebbe stato possibile trovare nuovi sbocchi per una produzione interna fisiologicamente limitata dalla chiusura della frontiera e a rischio, come nel 1893, di fronteggiare frequenti crisi di surplus dagli esiti politicamente e socialmente incontrollabili. «Nuovi mercati» cui destinare il «surplus americano» – proclamò nel 1898 lo storico e influente commentatore Brooks Adams, dando voce a tesi e fobie assai diffuse – erano indispensabili per prevenire «declini salariali» e «disordini sociali» quali quelli che avevano caratterizzato l’ultimo decennio dell’Ottocento33. Sottoposto a critiche sempre più aspre, e stravolto dall’utilizzo spesso dogmatico e rigido che molti storici hanno fatto delle sue categorie, il paradigma della porta aperta conserva una sua validità laddove se ne utilizzino alcuni elementi e si abbandonino le velleità ‘onniesplicative’ che lo hanno invece a lungo contraddistinto. Ciò permette di meglio comprendere l’atteggiamento tenuto da McKinley e Hay durante la crisi cinese e di collegarlo con quanto lo precedette (guerra di Cuba e svolta imperialista) e con quel che sarebbe seguito (controversie interne e diplomazia del dollaro)34. Più che espressione di un disegno predeterminato e applicato con coerenza ed efficacia, la porta aperta sembra costituire invece lo sforzo estremo di giungere a una mediazione tra diverse posizioni che si confrontavano allora sulla direzione della politica estera del paese così come sulla definizione dei suoi confini ideologici e discorsivi. Una sintesi – in altre parole – tra posizioni contraddittorie e tendenzialmente antagonistiche. Non tanto una via mediana tra imperialismo e anti-imperialismo, quanto il tentativo paradossale di dare una connotazione anti-imperiale al nuovo imperialismo statunitense. Attraverso la formula della porta aperta si poteva preservare, e anzi riaffermare, un’identità anti-imperiale e commerciale che era messa in discussione dalla natura tutta territoriale dell’impero acquisito con la guerra del 1898 e dallo scontro politico sempre più aspro che ciò produceva sul piano interno. Al contempo, la porta aperta costituiva lo sforzo estremo di tutelare al meglio gli interessi americani in un teatro, quello cinese, dove la condizione di subal-

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ternità e di debolezza relativa degli USA era inequivoca. Infine, essa permetteva di dare voce alla dimensione ideologica tradizionale, per quanto riadattata al nuovo contesto e alla trasformazione del ruolo degli USA nel sistema internazionale. Contro le guerre imperiali, gli antagonismi di potenza e il trasferimento del balance of power europeo in Asia, gli USA si proponevano una volta di più di guidare il concerto internazionale verso forme nuove di collaborazione, centrate sul riconoscimento del primato dell’elemento commerciale nelle relazioni tra gli Stati e sul suo effetto civilizzatore su popoli e Stati più arretrati, quale quello cinese. La porta aperta provava nuovamente a riunire in sintesi quell’intreccio di identità, interessi e ideologia che fin dalle origini aveva connotato il modo statunitense di fare politica estera. Uno sforzo, questo, che negli anni successivi fu integrato dalla diplomazia del dollaro e dal tentativo di promuovere una collaborazione con le altre potenze per garantire quella pace e quella stabilità che rappresentavano a loro volta le precondizioni della piena ascesa degli USA sulla scena globale.

2. Guerra e dollari: la politica estera di Theodore Roosevelt 2.1. Civilizzazione e guerra: il caso delle Filippine McKinley fu rieletto in un’elezione, quella del 1900, nella quale i temi di politica estera e il dibattito sull’impero ebbero un’assoluta centralità. Non si trattò di un trionfo: il candidato democratico William Jennings Bryan ottenne pur sempre il 45,5% del voto popolare e 155 grandi elettori su 447. Ma la chiara vittoria di McKinley fu interpretata come un’investitura della politica imperiale intrapresa con la guerra del 189835. McKinley non ebbe il tempo di godere della vittoria. Pochi mesi più tardi fu assassinato per mano di un giovane anarchico di origine russo-polacca, Leon Czolgosz. Il vicepresidente Theodore Roosevelt entrò così alla Casa Bianca. A 42 anni, Roosevelt era il più giovane presidente nella storia degli Stati Uniti. Celebratore dell’epica conquista dell’Ovest, allevatore e cow-boy nelle Badlands del Dakota, sottosegretario alla Marina, eroe di guerra e, infine, governatore dello Stato di New York per due anni (18991901), Roosevelt è una delle figure più complesse, contraddittorie e

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studiate nella storia degli Stati Uniti e della loro politica estera. Campione quintessenziale di un nazionalismo aggressivo, che enfatizzava la virilità mascolina e la superiorità razziale degli Stati Uniti, Roosevelt rigettava però le visioni anglosassoniste di molti imperialisti dell’epoca, a partire da Cabot Lodge, e irrideva le visioni deterministe e pseudo-oggettive di un volgare darwinismo sociale, assai popolare in quegli anni. Ad esse Roosevelt contrapponeva una visione lamarckiana centrata sull’idea di una ‘migliorabilità’ delle razze e sul rilancio, sul piano interno, di un nazionalismo civico, che magnificava le capacità di assimilazione e integrazione nel melting pot statunitense di gruppi nazionali ed etnici diversi da quelli dominanti anglosassoni e nord-europei. La fonte primaria del nazionalismo rooseveltiano – e quella che egli riteneva essere la matrice della superiorità statunitense – risiedeva nella storia stessa degli Stati Uniti: nella lezione che essa offriva al resto del mondo. L’eccezione storica statunitense era, per Roosevelt, la condicio dell’eccezionalismo degli Stati Uniti. Un eccezionalismo, questo, che poteva e doveva però essere utilizzato sia per collaborare con le altre potenze in un’azione tesa a garantire l’ordine e la stabilità internazionale sia per elevare (uplift) le civiltà inferiori: per innalzarle verso destini che erano potenzialmente raggiungibili da tutti e, nel farlo, dare corso a una missione civilizzatrice la cui responsabilità era degli Stati Uniti in quanto essi rappresentavano lo stadio ultimo del progresso dispiegatosi in Occidente. Fu proprio in relazione alle Filippine appena conquistate che Roosevelt espresse questo suo convincimento evoluzionista e, per certi aspetti, universalista: «Possiamo aiutare i nostri fratelli delle isole filippine», proclamò il futuro presidente nel 1900, «verso la strada dell’autogoverno e della libertà ordinata cosicché quello splendido arcipelago possa diventare un centro di civiltà per tutta l’Asia orientale»36. Entro questa visione e questo disegno s’inseriva, non sempre coerentemente, il tema della guerra e la sua valenza rigeneratrice, ordinatrice e civilizzatrice. Per Roosevelt la guerra serviva per evitare il rischio di un ripiegamento e di una degenerazione che minacciavano tanto il singolo quanto la nazione. Era fonte di un re-invigorimento spirituale, morale e fisico. La guerra serviva però anche per garantire l’ordine necessario a dare corso all’auspicata evoluzione lamarckiana dei soggetti inferiori, con i quali non ci si poteva ovviamente relazionare da pari a pari. Si trattava, infatti, al meglio d’indi-

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sciplinati bambini da crescere, allevare e far maturare e al peggio di barbari da rimuovere ed eliminare. E comunque di soggetti con i quali non si poteva rinunciare all’uso della violenza, come Roosevelt fece chiaro nel denunciare coloro che erano contrari all’annessione delle Filippine e all’opera di pacificazione militare promossa dagli USA nell’arcipelago: «Con gente come quella, meticci cristiani, musulmani bellicosi e pagani selvaggi», affermò Roosevelt riferendosi ai guerriglieri indipendentisti filippini, «la debolezza è il più grande dei crimini»37. La guerra come medium di rinascita, palingenesi, ordine e civiltà era destinata però a entrare immediatamente in conflitto con gli effetti destabilizzanti che essa e l’impero avrebbero invece catalizzato, sul piano interno come su quello internazionale. Ciò fu immediatamente evidente nelle Filippine. Almeno cinque diversi fattori avevano indotto l’amministrazione McKinley ad annettere l’intero arcipelago. Il primo fu rappresentato dalle contingenze militari. I piani d’emergenza preparati dalla Marina nel 1898 prevedevano un’azione contro la flotta spagnola di stanza a Manila. L’attacco e il rapido successo misero gli USA nella condizione di controllare il principale porto delle Filippine e contribuirono ad alimentare una dinamica per certi aspetti indipendente: per quale motivo – sostennero subito gli imperialisti – gli Stati Uniti avrebbero dovuto rinunciare a un bottino di guerra così prezioso? Quale altra potenza lo avrebbe mai fatto?38 A maggior ragione – e questo era il secondo fattore in azione – se la conquista era sostenuta da settori maggioritari dell’opinione pubblica e del mondo politico, inebriati dai successi militari e dall’ondata patriottica che essi avevano finito per attizzare. Il terzo fattore era ovviamente rappresentato dalle considerazioni economiche: nel 1898 l’amministrazione McKinley aveva abbandonato le remore del passato e aveva annesso le isole Hawaii, formalmente indipendenti dal 1893 dopo una sollevazione promossa dai piantatori statunitensi, ma che attendevano solo il momento dell’unione con gli Stati Uniti. Le Hawaii rappresentavano un’importante stazione commerciale nel Pacifico; una base intermedia verso gli agognati mercati e risorse dell’Asia. Le Filippine completavano per certi aspetti quel disegno espansionistico che durante l’Ottocento aveva portato nel territorio dell’Oregon e poi in California39. E offrivano altre importanti basi navali – come quella di Subic Bay, che gli USA avrebbero controllato fino al 1991 – capaci di soddisfa-

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re le richieste del fronte navalista. Questo quarto fattore, che per convenienza definiremo strategico, si nutriva peraltro di un’ancor più importante dimensione negativa: gli Stati Uniti rimanevano nelle Filippine anche, e soprattutto, per evitare che queste cadessero nelle mani di potenze terze. A preoccupare era soprattutto la Germania, sempre più attiva nel Pacifico, al punto da giungere assai vicina a una guerra con gli USA per le isole Samoa e da indurre sia la Gran Bretagna sia il Giappone a sollecitare Washington a non lasciare l’arcipelago40. Il quinto e ultimo fattore era quello ideologico: era proprio nelle Filippine che Kipling sollecitava gli USA ad assumersi il «fardello dell’uomo bianco»: a farsi carico di quella missione civilizzatrice che informava e giustificava molti imperialismi dell’epoca. Entro una guerra che era stata vissuta e presentata anche come una ‘guerra umanitaria’, l’annessione delle Filippine poteva essere presentata come l’assunzione di una responsabilità storica, l’adempimento di una missione, la nuova manifestazione di un destino sempre in divenire e mai pienamente compiuto. Come sottolineò McKinley nel giustificare la decisione, «non c’era null’altro da fare per noi che prenderceli tutti, educare i filippini, sollevarli, cristianizzarli e civilizzarli, e con la grazia di Dio fare del nostro meglio verso dei fratelli anche per i quali Dio è morto»41. Per gran parte dell’establishment statunitense dell’epoca, l’imperialismo rappresentava una forma aggiornata d’internazionalismo, se non addirittura di cosmopolitismo. Era il modo, naturale, attraverso cui gli USA potevano e dovevano entrare a far parte del club degli Stati più potenti e progrediti. Combinandosi con il patriottismo acuito dalla guerra del 1898, ciò alimentò sul breve periodo un’esaltazione imperiale che McKinley e i repubblicani stimolarono e cercarono di sfruttare politicamente. Questa esaltazione ebbe però un decorso assai breve. Le avvisaglie si ebbero già durante il dibattito senatoriale sulla ratifica del trattato di Parigi. Il fronte contrario al trattato e, soprattutto, all’annessione delle Filippine si rivelò più ampio e combattivo del previsto. Le argomentazioni addotte dagli anti-imperialisti erano diverse, ma due sottostavano a tutte le altre: l’incompatibilità dell’annessione e della svolta imperialista con il modello di espansionismo repubblicano adottato fino ad allora e l’impossibilità d’includere nell’Unione razze altre e inferiori, come si asseriva essere quella filippina. L’espansione senza colonie che aveva caratterizzato l’incessante

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avanzata verso ovest del secolo precedente tornò a essere presentata dagli avversari di McKinley come un modello, capace di conciliare potenza e libertà, interesse e missione. Come un processo capace di espandere, in modo inclusivo e integrazionista, lo spazio dell’esperimento repubblicano statunitense e la libertà che esso incarnava e proiettava. Derogare da questa tradizione significava abbandonare ciò che aveva reso gli Stati Uniti una realtà unica ed eccezionale, europeizzandone sia il modo di agire sulla scena internazionale sia la cultura politica. Come affermò con forza il senatore repubblicano George Hoar del Massachusetts, uno dei più tenaci oppositori dell’annessione delle Filippine, gli USA fronteggiavano «il più grande pericolo [...] da quando i pellegrini erano attraccati a Plymouth»: la possibilità di «essere trasformati da una repubblica, fondata sulla Dichiarazione d’indipendenza», in «un impero volgare e ordinario, basato sulla forza fisica»42. Ma era soprattutto la non assimilabilità dei filippini, l’impossibilità di includerli nella comunità repubblicana statunitense, a essere sottolineata con forza dal fronte anti-imperialista. Il razzismo costituiva il fattore cui ricorrevano con maggior frequenza gli oppositori del trattato di Parigi. Era, questo, un fattore trasversale politicamente, culturalmente e socialmente, che offriva un comune denominatore a voci assai diverse. L’industriale Andrew Carnegie s’interrogava così retoricamente sul destino di un paese, che poteva (e doveva) «rimanere un’unità omogenea, un popolo unito», ma che rischiava invece di trasformarsi in un «aggregato disperso e disaggregato di razze in larga misura separate e aliene le une alle altre». Il leader sindacale Samuel Gompers invitò a fermare l’annessione delle Filippine per «salvare il lavoro americano dall’influenza malefica [...] della competizione di milioni di lavoratori semibarbari». Durante il dibattito al Senato, John McLaurin, della South Carolina, inveì contro la possibilità d’«incorporare» nella compagine statunitense una «popolazione ibrida» come quella filippina43. Matrici razziste informavano le posizioni anche di molti imperialisti. Secondo il senatore dell’Indiana Albert Beveridge, quella filippina era una «razza decadente», bisognosa di custodia e cura. McKinley non perse l’occasione per sottolineare come gli USA avessero l’obbligo di liberare la popolazione filippina da «tradizione e indolenza selvagge» per porla «sulla strada della migliore civiltà del mondo»44.

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Il dibattito, aspro e a tratti infuocato, verteva su due questioni, strettamente interrelate: la ‘civilizzabilità’ dei filippini e il rischio che uno sforzo in questa direzione potesse contaminare e abbruttire gli stessi Stati Uniti. Entrambe le parti muovevano da una comune matrice eccezionalista; quella imperialistica, però, ne derivava una visione universalista della storia e del ruolo degli Stati Uniti che era esplicitamente rigettata dagli anti-imperialisti. Il Senato approvò di misura, con un solo voto più dei due terzi richiesti, il trattato di Parigi. Portorico e Filippine diventavano così possedimenti degli USA. Ad essi non sarebbero però stati estesi i diritti derivanti dall’entrare a far parte dell’Unione. Portorico e Filippine erano acquisiti dagli Stati Uniti come «territori non incorporati»: aree nelle quali la Costituzione degli Stati Uniti non avrebbe automaticamente seguito la «bandiera», come ebbe a sottolineare una successiva sentenza della Corte suprema45. La posizione degli anti-imperialisti fu però rafforzata dal corso degli eventi nelle Filippine, che parve confermare tutte le perplessità sulla fattibilità del disegno di McKinley. Pochi mesi prima del trattato di Parigi, le Filippine avevano proclamato la loro indipendenza. La decisione degli Stati Uniti di annettere l’arcipelago provocò la reazione militare degli indipendentisti filippini, guidati da Emiliano Aguinaldo, che era stato proclamato presidente nel gennaio 1899. Si aprirono così tre anni di conflitto brutale, che costarono la vita a più di 4.000 soldati americani; le vittime militari filippine del conflitto furono circa 20.000; si stima che quelle civili siano state più di 200.000. Nell’esercito statunitense il rapporto tra caduti in combattimento e caduti per malattia fu molto più alto rispetto a quello che vi era stato in occasione della guerra a Cuba, a testimonianza dell’estrema ferocia dello scontro. Gli USA non esitarono a fare ricorso a pratiche utilizzate nell’ultima ondata di guerre con i popoli nativi dell’Ovest: la quasi totalità (26 su 30) dei generali che guidarono le operazioni nell’arcipelago era rappresentata da veterani delle guerre indiane. Il segretario della guerra, Elihu Root, invitò apertamente a fare uso di «metodi che si erano rilevati vincenti» nei «campi indiani dell’Ovest». Le atrocità commesse da entrambi i contendenti divennero di dominio pubblico e furono avidamente divulgate dalla stampa46. Da più parti si sollecitarono prima McKinley e poi Roosevelt a modificare e possibilmente porre termine all’intervento statuniten-

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se. Le critiche si fecero più frequenti e severe. Il filosofo William James le sintetizzò, denunciando pubblicamente una guerra che aveva prodotto la «demoralizzazione dell’esercito» statunitense e «la trasformazione dell’amicizia dei nativi in disprezzo»; mentre la «falsificazione era decorata, la tortura occultata, i massacri condonati», affermò James, si assisteva alla «creazione di un’anarchia cronica [...] e alla deliberata scelta di rinfocolare antiche animosità tribali». Qualche anno più tardi lo scrittore Mark Twain, uno dei più attivi oppositori della guerra, avrebbe presentato le gesta dei militari statunitensi come quelle di «macellai cristiani»47. McKinley e poi Roosevelt cercarono di prevenire queste critiche, dichiarando chiuse le operazioni militari e trasferendo successivamente il potere a un governatore civile di nomina presidenziale. Il primo governatore sarebbe stato il futuro presidente William Howard Taft. La guerriglia continuò però a operare, sia pure con intensità decrescente, per tutto il primo decennio del Novecento, e le polemiche interne agli USA non si placarono48. Gli stessi sostenitori dell’intervento manifestarono perplessità crescenti per quanto stava avvenendo. L’idea secondo la quale la guerra avrebbe corrotto gli stessi Stati Uniti sembrò trovare conferma nelle testimonianze, sempre più frequenti e dibattute, della brutalità dell’azione militare statunitense. Riflettendo fobie antiche ma sempre attive, si tornò a sottolineare l’effetto degenerante e abbruttente provocato dal contatto troppo stretto con razze diverse, in situazioni climatiche e ambientali non idonee a europei e anglosassoni, la cui natura selvaggia trasformava il soldato civile americano in un barbaro alla mercé degli elementi. Il connubio tra discorso razzista e discorso anti-imperialista parve forte come non mai. Le tante fobie e ansie che in prima battuta avevano nutrito la tentazione imperiale erano peraltro state superate o sedate. Gli USA erano usciti dalla terribile recessione del 1893-98; il radicalismo populista o socialista era stato vinto o pareva controllabile; un impero era stato edificato; le basi e gli avamposti desiderati erano stati infine conquistati. Si trattava ora di fronteggiare gli effetti divisivi che la gestione dell’impero stava catalizzando sul piano interno, di modificare le pratiche di una politica imperiale che sembrava davvero contaminare la repubblica, stravolgendone la natura e l’intima essenza. Bisognava, in altre parole, immaginare una forma diversa d’imperialismo: un imperialismo anti-imperialista, che raccogliesse almeno al-

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cune delle sollecitazioni degli oppositori della guerra del 1898 e che permettesse una rimodulazione, meno controversa, delle forme del nuovo dominio statunitense49. 2.2. Civilizzazione, ordine e dollari: l’America Latina e il corollario Roosevelt Mentre la discussione sull’impero divideva e lacerava gli Stati Uniti, la competizione imperiale minacciava di estendersi anche all’emisfero occidentale, destabilizzandolo e mettendo in discussione il primato statunitense nella regione. Fu questo il problema principale di politica estera con cui dovette fare i conti Theodore Roosevelt durante i suoi due mandati presidenziali (1901-09). Un problema acuito dalle conseguenze della guerra con la Spagna e, successivamente, dalla decisione di costruire un canale istmico a Panama, che univa finalmente l’Atlantico e il Pacifico. Aprire una via tra i due oceani, evitando la lunga e complessa circumnavigazione dell’America del Sud, era un antico sogno di Washington. L’ascesa imperiale di fine Ottocento conferì nuova urgenza al progetto. La costruzione del canale avrebbe permesso di aumentare il volume di traffici commerciali e di valorizzare appieno il controllo statunitense dei Caraibi, soddisfacendo il design navalista di Mahan e di Theodore Roosevelt. Grazie al canale la proiezione degli interessi e della potenza degli USA avrebbe potuto così acquisire una dimensione quasi globale50. Dopo alcune schermaglie al Congresso, il Senato ratificò nel novembre 1901 il trattato Hay-Paunceforte che assegnava agli USA il diritto di costruire un canale fortificato che avrebbe collegato i due oceani. Pur presentando maggiori difficoltà ingegneristiche, Panama fu preferita al Nicaragua. Gli USA comprarono da una compagnia francese i diritti che questa aveva acquisito in passato e stipularono un accordo con lo Stato della Colombia, di cui la regione panamense era parte: in cambio di un pagamento di 10 milioni di dollari e di un affitto annuale di 250.000 dollari, la Colombia accettava di cedere in prestito per novant’anni agli Stati Uniti una fascia ampia circa 10 chilometri all’altezza dell’istmo di Panama. Il Senato colombiano bocciò però il trattato, sostenendo che le condizioni fossero eccessivamente favorevoli a Washington e andassero rinegoziate. Roosevelt denunciò i «pitecoidi» colombiani e i «banditi di Bogotà»: con «quella gente», affermò il presidente, «non voglio più avere a che fare»51. Gli USA decisero quindi di appoggiare gli indi-

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pendentisti panamensi, che da tempo rivendicavano la propria autonomia dalla Colombia, fomentando una nuova ribellione. Conquistata l’indipendenza alla fine del 1903, la neonata repubblica di Panama fu costretta ad accettare un accordo in virtù del quale gli Stati Uniti acquisivano «l’uso, l’occupazione e il controllo perpetui» di una fascia di territorio istmico di circa 16 chilometri, che tagliava a metà la nuova nazione. I termini economici dell’accordo, 10 milioni di dollari più un affitto annuo di 250.000 dollari, rimanevano quelli concordati a suo tempo col governo colombiano52. La spregiudicata azione di Roosevelt suscitò le critiche di molti esponenti del Partito democratico, che cercarono di bloccare la ratifica dell’accordo. Con il suo tipico linguaggio, Roosevelt caratterizzò i suoi oppositori come un «piccolo gruppo di eunuchi starnazzanti». In realtà l’opposizione al trattato e, più in generale, ai metodi utilizzati nella crisi di Panama era ampia e politicamente trasversale. Anche per questo, Roosevelt presentò l’acquisizione del canale non tanto come la definitiva affermazione di una logica imperiale che gli USA avevano pienamente interiorizzato, ma come espressione di un nuovo internazionalismo, che assegnava agli Stati Uniti un ruolo di leadership regionale nel quadro di una cooperazione sempre più estesa tra le potenze ‘civilizzate’. Così interpretato, il canale di Panama – grazie allo stimolo che avrebbe fornito ai commerci mondiali – diventava null’altro che la «via principale per la civiltà di cui avrebbe beneficiato il mondo intero», e non strumento d’esclusivo dominio regionale statunitense53. Con il canale di Panama gli USA consolidavano quindi il loro indiscusso primato emisferico. Facendolo, assumevano però a tutti gli effetti il ruolo di garanti del libero commercio e dell’interdipendenza tra le potenze superiori e ‘civilizzate’. Un ruolo che li avrebbe indotti a fissare tariffe uguali per tutte le navi in transito nel canale, quando questo fu finalmente inaugurato nel 1914. Ed era proprio questo difficile equilibrio fra necessità diverse che avrebbe negli anni successivi condizionato e definito le scelte e la rappresentazione della politica estera di Roosevelt. Il dominio degli Stati Uniti nelle Americhe imponeva uno sforzo costante per evitare che altre potenze lo contestassero e che le rivalità imperiali si trasferissero nella regione. La volontà degli USA di diventare membri a pieno titolo di una comunità internazionale vieppiù definita in termini di civiltà e potenza obbligava Washington a impegnarsi in un’a-

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zione finalizzata alla promozione dell’ordine e della stabilità globali. Le tensioni politiche interne inducevano a cercare forme d’influenza indiretta sui soggetti coloniali e ‘non civilizzati’, rinunciando a modelli d’imperialismo ortodosso applicati senza successo nelle Filippine. La tutela degli interessi economici statunitensi richiedeva infine politiche innovative, che rischiavano di acuire le tensioni con le altre potenze e che stimolavano quelle ingerenze negli affari interni di paesi terzi che molti, negli USA, ora rigettavano. Roosevelt cercò di conciliare queste esigenze e di portarle a sintesi. Lo fece in due modi: rilanciando e in parte stravolgendo la Dottrina Monroe; ponendo le premesse di un modo nuovo di fare politica internazionale, che sarebbe divenuto noto come «diplomazia del dollaro». L’occasione per attuare questa svolta fu offerta dalla crisi apertasi nel 1904 nella Repubblica Dominicana. Nel decennio precedente, il piccolo Stato caraibico era stato oggetto d’investimenti crescenti da parte sia degli Stati Uniti sia di altri Stati, Francia e Germania in particolare. Nel 1893 una compagnia newyorchese, la Santo Domingo Improvement Company (SDIC), aveva assunto il debito estero della Repubblica Dominicana, acquisendo così de facto il controllo delle sue finanze. Strettamente legata al presidente dominicano, Ulises Heureaux, la SDIC aveva collocato in Europa vari prestiti emessi dallo Stato dominicano, ripagandoli con i proventi delle entrate doganali che erano state poste sotto la sua supervisione. L’assassinio di Heureaux nel 1899, le tensioni politiche che ne conseguirono e la crisi economica che si abbatté sullo Stato caraibico a cavallo tra Otto e Novecento misero in ginocchio la SDIC, che fu espulsa dal paese nel 190154. La SDIC si rivolse allora al governo statunitense. Gli Stati europei cominciarono ad agitarsi di fronte alla prospettiva di un default sul debito dominicano e della mancata restituzione dei titoli in scadenza. Il precedente venezuelano del 1902-03, quando Gran Bretagna, Germania e Italia avevano utilizzato la forza e bombardato alcuni porti e città per ottenere la restituzione dei crediti, preoccupava Washington. L’instabilità regionale e l’inettitudine di molti governi rischiava di destabilizzare l’area, favorire la penetrazione europea e impedire la tutela degli interessi economici statunitensi. Era soprattutto il nuovo attivismo della Germania a spaventare gli USA. La possibilità prospettata dal governo dominicano di aprire i propri porti

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alle navi tedesche indusse Washington ad agire. L’annessione della Repubblica Dominicana era impossibile e il mondo politico statunitense era già in agitazione contro questa eventualità. Roosevelt ne era consapevole: «Il mio desiderio di annettere» l’isola – affermò il presidente – «è uguale a quello che può avere un pitone boa [...] di ingoiare un porcospino dall’estremità sbagliata». Gli Stati Uniti – sostenne Roosevelt – dovevano invece agire da «poliziotto» e porre termine al caos55. Roosevelt enunciò questa posizione nel discorso annuale al Congresso del 1904, poche settimane dopo la sua trionfale rielezione. In quella occasione egli fece un esplicito riferimento alla Dottrina Monroe e il discorso divenne immediatamente noto come il «corollario Roosevelt» alla dottrina del 1823. Gli Stati dell’America Latina che si fossero dimostrati capaci di «operare con ragionevole efficienza e decenza nelle questioni politiche e sociali [...] mantenere l’ordine e pagare le loro obbligazioni» non avrebbero avuto motivo di «temere l’interferenza degli Stati Uniti», proclamò Roosevelt. «Trasgressioni croniche (chronic wrongdoing) o debolezza risultante in un generale allentamento dei legami della società civilizzata», affermò però il presidente, «potranno in America, come altrove, richiedere [...] un intervento di qualche nazione civilizzata». «Nell’emisfero occidentale, l’osservanza da parte degli Stati Uniti della Dottrina Monroe potrebbe obbligare gli Stati Uniti, nei casi in cui tale trasgressione e debolezza si manifestasse in modo flagrante, all’esercizio di un’azione di polizia internazionale»56. Il corollario Roosevelt riprendeva la Dottrina Monroe, stravolgendone però il significato originario. Più che invocare una separazione tra Europa e Stati Uniti, tra il vecchio e il nuovo mondo, affermava la loro crescente interdipendenza, sulla base del comune denominatore rappresentato dalla forza e dalla civiltà. Gli Stati Uniti s’investivano del ruolo di garanti – di «poliziotti» appunto – dell’ordine emisferico. Nel farlo rivendicavano il loro primato nelle Americhe, ma affermavano anche di essere membri a pieno titolo di una comunità internazionale che doveva preservare per vie collaborative e consensuali l’ordine e la stabilità. Si proclamavano, gli USA, avamposti della civiltà disciplinatrice in un teatro dove prevaleva ancora la trasgressione, la dissolutezza e il disordine. Assumevano, ora in America Latina e con strumenti assai diversi, il «fardello dell’uomo bianco» di cui si erano già fatti carico nelle Filippine. S’impegnava-

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no al mantenimento di un «equilibrio di potenza nel quale le nazioni più virili e avanzate avrebbero amichevolmente condiviso il compito di civilizzare gli Stati riottosi» e meno progrediti. Come ha sottolineato lo storico Frank Ninkovich, il riferimento di Roosevelt alla «polizia internazionale» si collocava nella «lingua franca della civiltà e non in quella monroviana del particolarismo»57. Come si sarebbe dato corso a questa ambiziosa missione civilizzatrice e disciplinatrice, senza ricorrere a quelle forme d’intervento imperiale così contestate all’interno degli Stati Uniti? La risposta fu offerta proprio dall’esperienza della Repubblica Dominicana. Qui gli Stati Uniti avevano avviato il primo, pieno esperimento di quella che sarebbe rapidamente divenuta nota come la «diplomazia del dollaro». Essa poggiava su una relazione triangolare fra tre soggetti statunitensi: i banchieri, alla ricerca di occasioni remunerative e di Stati pronti a emettere titoli ad alto tasso d’interesse da collocare sui mercati internazionali; gli esperti, cui sarebbe stato delegato il compito di porre ordine nella struttura finanziaria e fiscale di quei governi a rischio che necessitavano della supervisione e del controllo degli USA; i funzionari governativi e il Dipartimento di Stato, che dovevano gestire questi interventi in accordo con gli interessi della diplomazia statunitense. La premessa fondamentale era l’estensione del gold standard, che avrebbe permesso di ancorare le valute locali al dollaro e – instaurando un sistema di cambi fisso e stabile – facilitare gli scambi ed estendere un’interdipendenza commerciale che Washington considerava quasi sinonimo di civiltà58. La diplomazia del dollaro permetteva di esercitare una forma stringente di controllo su uno Stato indisciplinato e ‘non civilizzato’, evitando al contempo di doverlo annettere o di trasformarlo in un protettorato degli Stati Uniti. Tutelava gli interessi statunitensi, garantiva l’ordine e offriva agli USA la «possibilità di guidare uno Stato dipendente attraverso un processo di riforma fiscale» senza che si «dovessero assumere gli oneri e i rischi della sovranità politica»59. Nella Repubblica Dominicana Roosevelt si avvalse pienamente di questo approccio. Scaricò di fatto la SDIC, nella convinzione che essa avesse contribuito alla crisi con le sue pratiche spregiudicate e avesse operato al di fuori di una sana e stretta collaborazione con il governo statunitense. Stipulò un accordo con il governo dominicano, in virtù del quale quest’ultimo accettava di porre le proprie do-

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gane – la fonte primaria se non unica d’introiti del paese – nelle mani di un amministratore statunitense, nominato dallo stesso Roosevelt. Impose alla Repubblica Dominicana che il suo debito pubblico non potesse crescere senza l’autorizzazione degli Stati Uniti. Infine, concordò con la banca d’investimenti newyorchese di Kuhn e Loeb l’impegno al collocamento di una nuova emissione di titoli dominicani a scadenza cinquantennale. Secondo i termini dell’accordo, il 45% delle entrate doganali amministrate dagli USA sarebbe stato destinato al governo dominicano, il restante 55% doveva invece essere utilizzato per pagare i crediti inevasi del passato60. Il governo statunitense risolveva così una situazione di crisi senza ricorrere alle armi. I grandi investitori americani trovavano nuove occasioni d’investimento assai profittevoli, garantite proprio dall’interesse diplomatico degli Stati Uniti, in nome del quale essi erano anzi stati in prima istanza mobilitati. Quelli europei recuperavano i propri crediti e potevano compartecipare all’acquisto di titoli remunerativi e teoricamente a basso rischio (i bonds cinquantennali erano stati emessi al tasso del 5%, che per l’epoca era molto alto). La sovranità del piccolo Stato dominicano ne usciva grandemente ridotta, ma ciò appariva come la conseguenza inevitabile delle sue colpe passate e, più in generale, del suo appartenere a uno stadio dello sviluppo e della civiltà ancora arretrato, che imponeva alla potenza regionale di riferimento – gli USA – di assumerne la custodia e di garantirne la guida. Si assisteva così all’affermazione anche su scala internazionale di alcuni dei precetti che qualificavano il capitalismo manageriale e progressista dominante all’interno degli Stati Uniti. La collaborazione tra pubblico e privato e il controllo esercitato dal primo sul secondo erano promossi in nome della stabilità, dell’efficienza e dello sviluppo ordinato. Servivano per dare corso a processi di crescita, progresso e – nel caso di Stati minori – civilizzazione, pilotandone il percorso e prevenendo così deragliamenti e conseguenti destabilizzazioni. Permettevano a Washington di condizionare gli avvenimenti in teatri strategicamente vitali, evitando forme costose, e politicamente controverse, d’intervento militare. Nel caso dell’America Latina, sottraevano alle altre potenze un pretesto per interferire nelle vicende regionali e sfidare il primato emisferico degli USA. La diplomazia del dollaro appariva ai suoi ideatori come la perfetta quadratura del cerchio: da estendere e da completarsi diplomaticamen-

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te con l’attivazione di forme pienamente collaborative e multilaterali di gestione delle controversie internazionali, per superare una volta per tutte le forme di antagonismo interstatuale e dare così vita a un’autentica comunità internazionale delle potenze civilizzate.

3. Arbitrati e dollari: la politica estera di William Howard Taft La nuova assertività della politica estera statunitense rifletteva l’inarrestabile ascesa della potenza statunitense. Superata la crisi del 1893-98, l’economia statunitense ricominciò a crescere a tassi accelerati. Il gap industriale che aveva separato in passato gli USA dalle altre potenze fu progressivamente colmato. In alcuni settori strategici – come quello siderurgico – gli USA stavano maturando una condizione di superiorità netta e indiscussa. Ciò alimentava ottimismo e fiducia, sia sul futuro del paese sia, più in generale, sul corso della storia mondiale, di cui si era certi che gli Stati Uniti sarebbero stati protagonisti indiscussi. Ne conseguiva un forte attivismo diplomatico e un impegno, nuovo, a intervenire nelle grandi crisi internazionali, dove gli USA assumevano spesso il ruolo di mediatori e s’impegnavano per giungere a un loro superamento per via contrattata e consensuale. Theodore Roosevelt, ad esempio, promosse i negoziati di Portsmouth tra Giappone e Russia dopo la guerra del 1904-05, ricevendo il premio Nobel per la pace, e fu protagonista alla conferenza di Algeciras del 1906, che pose termine alla prima crisi marocchina. Tale protagonismo sulla scena internazionale aveva una chiara dimensione simbolica: intendeva mostrare, tanto all’opinione pubblica interna quanto a quella internazionale, che gli Stati Uniti erano una potenza di primo rango, i cui pareri andavano ascoltati e le cui richieste dovevano essere accolte. Ma esprimeva altresì un convincimento sempre più radicato negli USA: che si fosse ormai entrati in un’epoca nuova, nella quale i tradizionali antagonismi di potenza potessero essere superati a favore di un approccio collaborativo tra gli Stati più ricchi e forti, che costituivano la comunità internazionale sviluppata e civilizzata. A questo convincimento diede voce il successore designato di Roosevelt, William Howard Taft. Ex governatore delle Filippine e

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futuro presidente della Corte suprema, Taft raccolse l’eredità di Roosevelt e cercò di estendere alcune delle pratiche adottate dal suo predecessore. Nel farlo elaborò un discorso di politica estera che riprendeva, adattandoli ai tempi, alcuni radicati topoi dell’internazionalismo statunitense, in particolare l’enfasi sul primato della dimensione commerciale nelle relazioni internazionali61. Per Taft la promozione del commercio internazionale doveva costituire tanto un mezzo quanto un fine della politica estera statunitense. Costituiva la condizione dell’ascesa degli Stati Uniti alla leadership mondiale. Ma era anche lo strumento con cui rafforzare l’interdipendenza globale, unendo i diversi Stati in un reticolo d’interessi condivisi e ponendo così le premesse per il superamento di rivalità consolidate. Per il tramite del commercio e dei legami che esso generava – riteneva Taft – sarebbe stato possibile dare forma a un’autentica comunità internazionale, capace di autogestire pacificamente le proprie tensioni e diversità e di superare forme «ataviche» e superate di colonialismo. Questa comunità di potenze imperiali sarebbe stata investita del compito di sollevare i soggetti inferiori, ‘civilizzandoli’ e facilitando così il raggiungimento di una condizione sistemica di ordine, pace e stabilità. Si trattava di formule antiche, che rimandavano a Paine, al model treaty e alle origini della repubblica. Ma si trattava anche di logiche e visioni alimentate dalle trasformazioni industriali, dalla rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni e da processi senza precedenti di globalizzazione finanziaria e commerciale. A fronte di un sistema internazionale che si stava unificando e integrando era necessario trovare meccanismi collettivi e negoziali di risoluzione delle dispute e di disciplinamento degli affari mondiali62. Quello di Taft era un internazionalismo ottimistico, fondato su alcune basilari convinzioni. La prima era che il corso della storia avesse raggiunto un punto di non ritorno, nel quale l’uso della forza cessava di essere contemplato. La seconda era che gli USA avessero ormai interiorizzato una visione globalista del proprio ruolo sulla scena mondiale. La terza e ultima era che la competizione interstatuale si giocasse, pacificamente, in una sfera, quella dell’economia e del commercio, nella quale non ci dovevano necessariamente essere vincitori e vinti. In altre parole, era finalmente giunto il momento in cui i «dollari avrebbero potuto sostituire i proiettili», come affermò il vicesegretario di Stato, Francis Huntington Wilson63.

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Come tre erano i convincimenti alla base dell’internazionalismo ottimistico di Taft, tre erano anche i processi che il presidente e il suo segretario di Stato, Philander Knox, ritenevano necessario attivare per assecondare e accelerare questo processo: l’estensione e, se possibile, l’universalizzazione della diplomazia del dollaro; la promozione di un impegno congiunto tra le potenze imperiali per garantire l’ordine internazionale e modernizzare i soggetti ancora arretrati e non sufficientemente ‘civilizzati’; la definizione di forme concordate di risoluzione dei contenziosi tra i membri riconosciuti di questa costituenda comunità internazionale e la conseguente, piena diffusione di un’«ideologia liberale transculturale» e transnazionale64. Taft promosse con vigore la diplomazia del dollaro. Fu anzi durante il suo mandato (1909-13) che le pratiche adottate per la prima volta nella Repubblica Dominicana assunsero tale nome. Ciò avvenne soprattutto in America Latina, dove gli Stati Uniti ritenevano di avere ormai maturato il doppio ruolo di egemone regionale e di avamposto della comunità internazionale. Qui Taft affinò ed estese il modello del prestito condizionato adottato già da Roosevelt. Agli Stati indisciplinati e in crisi gli USA offrivano le risorse necessarie per evitare il default, pagare i propri debiti e preservare la credibilità internazionale. In cambio chiedevano che il soggetto beneficiario del credito statunitense accettasse di porre la gestione delle proprie finanze nelle mani di esperti statunitensi, che avrebbero monitorato e talvolta gestito direttamente le dogane, usando le entrate per riportare la necessaria disciplina finanziaria e fiscale. La valuta locale sarebbe stata agganciata all’oro divenendo, de facto, convertibile. Le riserve definenti la massa monetaria circolante sarebbero state depositate a New York, per evitare qualsiasi rischio e tutelare la stabilità monetaria. Il gold standard diventava lo strumento, ma anche il simbolo, dell’ordine così introdotto e dell’avvio di un percorso graduale, ma ineluttabile, che avrebbe portato lo Stato posto sotto tutela verso la modernità. L’intero disegno poggiava infatti sulla fiducia nelle «virtù scientifiche del gold standard che si integravano con le ideologie imperiali dell’epoca» nell’alimentare la convinzione che «gli Stati Uniti stessero portando il progresso e la civiltà moderna nella regione». Knox diede voce come pochi altri a questi convincimenti: «Il problema del buon governo – affermò il segretario di Stato – si lega inestricabilmente alla prosperità economica e a una fi-

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nanza solida [...] la vera stabilità si raggiunge non per via militare, ma attraverso mezzi sociali ed economici»65. Inizialmente, la diplomazia del dollaro si concentrò sull’America Centrale. Un prestito condizionato fu concesso all’Honduras nel 1911 e processi simili furono attivati in Nicaragua, Guatemala e Costarica. Knox e Taft valutarono però da subito la possibilità di promuovere azioni analoghe in Cina e in Liberia, a dimostrazione della natura vieppiù globale del loro disegno e delle loro ambizioni66. Che la Cina potesse diventare teatro d’azione della diplomazia del dollaro non può sorprendere. Da sempre oggetto della curiosità e delle ambizioni statunitensi, la Cina attrasse l’interesse e le attenzioni di Knox e Taft. Fu anzi proprio in Cina che si cercò di mettere alla prova gli assunti universalistici della diplomazia del dollaro e, con essi, la convinzione che per il tramite del commercio fosse possibile stimolare una coscienza globale condivisa dai diversi membri della comunità internazionale. Nel decennio precedente si era assistito a un aumento dell’influenza religiosa e culturale statunitense nel Celeste impero. Combinandosi con la più generale fiducia internazionalistica dell’amministrazione Taft e con la crescita della potenza statunitense, ciò stimolò un atteggiamento ambizioso e interventista negli affari cinesi. Per Taft e Knox la Cina doveva diventare sia il test di un grande esperimento modernizzatore, che l’avrebbe rapidamente portata nel club delle potenze civilizzate e progredite, sia il laboratorio dove i membri della comunità internazionale avrebbero agito in modo consensuale (e razionale) in nome del raggiungimento di un obiettivo condiviso. La Cina doveva quindi essere il palcoscenico di un modello nuovo di relazioni internazionali – il «teatro dove si sarebbe recitata la pièce cooperativa della civiltà moderna» – nel quale gli USA riproponevano la logica della porta aperta di Hay e McKinley, abbandonandone però il carattere precipuamente difensivo e affermando senza remore il ruolo di guida e di faro assunto dagli USA nel consesso degli Stati più evoluti. Era in Cina – ha sottolineato lo storico Frank Ninkovich – che «l’America, l’Oriente e l’Occidente» avrebbero dovuto «operare assieme in una nuova diplomazia globale»67. Il pretesto fu offerto dalla riconosciuta necessità di potenziare la rete di trasporti cinese, per ampliare e integrare un mercato potenzialmente illimitato. Taft premette affinché gli USA fossero inclusi nel consorzio tripartito franco-tedesco-britannico che avrebbe dovuto

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costruire una linea ferroviaria di quasi 1.000 chilometri, che univa Pechino e Canton. Nel farlo, pose le premesse per trasformare l’originaria iniziativa europea in un consorzio davvero globale, di cui avrebbero dovuto far parte anche le altre potenze imperiali presenti in Cina: il Giappone e la Russia. L’iniziativa congiunta doveva servire sia per modernizzare la Cina sia per superare gli antagonismi e le sfere d’influenza a favore di un approccio collaborativo e comunitario. Taft sperava che il modello potesse essere esteso anche alla Manciuria, nel Nord della Cina, dove era invece in atto una spartizione de facto tra Russia e Giappone, che controllavano le linee ferroviarie regionali e rigettavano le richieste della porta aperta68. Nelle intenzioni di Taft questa collaborazione tra potenze civilizzate doveva però estendersi anche ad altri ambiti. La sua formazione giuridica induceva il presidente a sostenere ambiziosi processi di «giuridificazione» delle relazioni internazionali e di attivazione di meccanismi e norme con cui regolamentare e disciplinare i rapporti tra gli Stati, sottoponendo i loro contenziosi al giudizio ultimo, oggettivo e imparziale di un diritto internazionale, che si nutriva di una coscienza globale sempre più diffusa e i cui precetti erano prossimi a essere universalmente riconosciuti69. Il primo passaggio doveva essere l’istituzione di apposite corti arbitrali incaricate di giudicare delle dispute sorte tra gli Stati. Si trattava di un progetto sostenuto con forza negli USA da una serie di associazioni pacifiste nelle quali un ruolo di primo piano era svolto da avvocati e da imprenditori che in alcuni casi – come quello di Andrew Carnegie – si erano schierati contro la svolta imperiale di fine Ottocento e che da tempo denunciavano gli effetti destabilizzanti delle guerre di conquista sulle relazioni internazionali e sul commercio mondiale. Per il pacifismo statunitense dell’epoca, il cui approccio era precipuamente legalistico e conservatore, la risoluzione per via legale di un contenzioso avrebbe dovuto rappresentare il sostituto razionale della guerra. Si trattava di proiettare su scala internazionale quelle pratiche adottate già con successo sulla scena interna, in particolare negli USA. Taft fece proprie queste sollecitazioni e riuscì a firmare, nell’agosto del 1911, due trattati di arbitrato internazionale con la Gran Bretagna e la Francia. I «grandi gioielli» della propria amministrazione, come ebbe a definirli il presidente, i due trattati prevedevano la possibilità di sottoporre all’arbitrato della corte permanente dell’Aja o di altra corte tutti quei contenziosi tra i

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firmatari dei quali era possibile una «valutazione legale» (justiciable), inclusi quelli relativi all’«onore nazionale». Qualora i governi dei due Stati non si fossero trovati d’accordo sulla possibilità di mettere a giudizio una loro disputa, si sarebbe costituita una commissione d’inchiesta composta da sei membri (tre per ogni parte), che avrebbe dovuto decidere a maggioranza qualificata (con non più di un dissenso) della «giudicabilità» del contenzioso70. Taft credeva possibile estendere i trattati d’arbitrato a tutte le altre potenze ‘civilizzate’, incluso lo stesso Giappone. I trattati rappresentarono per molti aspetti il picco dell’internazionalismo ottimistico statunitense pre-Prima guerra mondiale. Questo internazionalismo investiva gli USA di un ruolo di guida della costituenda comunità internazionale e poggiava su un assunto – l’obsolescenza della guerra come strumento ancora utilizzabile dai grandi Stati – che di lì a poco sarebbe stato drammaticamente smentito. Ma poggiava altresì su una doppia precondizione, destinata a condizionare qualsiasi politica estera attiva e internazionalista promossa dagli USA durante tutto il XX secolo: la capacità, ovvero la necessità, di garantire a tale politica un consenso sia interno sia internazionale. Il fiducioso internazionalismo taftiano fu travolto dalla Grande guerra. Le sue tre manifestazioni principali – la diplomazia del dollaro, il multilateralismo collaborativo nella modernizzazione della Cina e la giuridificazione delle relazioni internazionali – mostrarono però da subito una limitata capacità di generare consenso, dentro e fuori dagli USA. La diplomazia del dollaro ebbe un successo limitato. Per molti studiosi, essa finì per sortire effetti contrari a quelli auspicati, determinando nei paesi cui fu imposta forme di dipendenza economica dagli USA dagli effetti socialmente e politicamente destabilizzanti71. Certo è che tale nuova modalità di esercizio dell’egemonia emisferica degli Stati Uniti catalizzò spesso le resistenze dei soggetti locali, che la denunciarono come una forma camuffata d’imperialismo vecchio stile. In America Latina si assistette all’intensificazione e radicalizzazione dell’opposizione verso gli USA. Casi emblematici furono quelli del Nicaragua e della stessa Repubblica Dominicana, dove l’ingerenza statunitense alimentò reazioni nazionaliste e antistatunitensi per sedare le quali Taft ricorse a forme tradizionali d’intervento militare. Incapace di ottenere il docile consenso dei soggetti verso cui era indirizzata, la diplomazia del dollaro fu contestata anche all’in-

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terno degli USA, dove il Congresso si oppose frequentemente alle iniziative di Taft, criticandone l’eccessivo interventismo e denunciando l’estensione delle prerogative della presidenza, simboleggiata dalla decisione di evitare la codificazione in forma di trattati degli accordi della diplomazia del dollaro (che avrebbero richiesto l’approvazione a maggioranza qualificata del Senato) e di ricorrere invece a contratti di natura privata tra i soggetti coinvolti (creditori e debitori)72. I tentativi statunitensi di avviare un’azione multilaterale e cooperativa in Cina s’infransero su scogli non dissimili. Le altre potenze presenti nel Celeste impero manifestarono un interesse limitato nei confronti delle proposte di Taft e Knox. Russia e Giappone non avevano alcuna intenzione di rinunciare al vantaggio acquisito in Manciuria e di neutralizzare e internazionalizzare le linee ferroviarie nella regione. Gli altri Stati osservarono con perplessità l’attivismo statunitense e, più in generale, la filosofia che vi sottostava. La stessa Gran Bretagna si rifiutò di esercitare pressioni sul Giappone, con il quale era legata da un’importante alleanza. Infine, le interferenze esterne stimolarono una recrudescenza delle proteste dei nazionalisti, che sollecitavano il governo cinese ad assumere il controllo delle proprie ferrovie come primo passo verso la riacquisizione della sovranità perduta nel ventennio precedente. Come con l’insurrezione dei Boxer, la protesta prese di mira le rappresentanze straniere e le diverse missioni religiose occidentali. Diversamente da dieci anni prima, però, le contestazioni non furono sedate e si diffusero in tutto il paese, portando al crollo dell’impero e alla fine della dinastia Manchu. Di lì a poco il nuovo presidente statunitense, Woodrow Wilson, avrebbe deciso di uscire dal consorzio internazionale creato in Cina, ponendo di fatto fine al grande esperimento multilateralista di Taft e Knox73. I trattati di arbitrato, infine, si rivelarono una parentesi anomala e non l’auspicata premessa di una palingenesi della politica internazionale e del suo modus operandi. Non vi furono altri accordi dopo quelli stipulati con Francia e Gran Bretagna. Soprattutto, i trattati furono aspramente contestati all’interno degli USA. Dopo un iniziale momento di popolarità – che indusse il «Los Angeles Times» a presentarli come l’atto presidenziale più importante dai tempi del proclama di emancipazione – i trattati di arbitrato furono soggetti a critiche sempre più intense, provenienti dal mondo politico, da quello giuridico e da settori importanti dell’opinione pubblica. Influen-

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ti senatori repubblicani, guidati da Cabot Lodge, denunciarono l’usurpazione delle prerogative senatoriali provocata dalla decisione di affidare la competenza sulla «giudicabilità» dei contenziosi alla commissione d’inchiesta dei sei membri. Nazionalisti come Theodore Roosevelt e Mahan contestarono la limitazione alla sovranità degli Stati Uniti provocata dalle clausole degli accordi. Pacifisti ortodossi e giuristi neopositivisti criticarono la vaghezza degli accordi, la limitata codificazione dei nuovi principi giuridici e l’idea che si potessero creare tribunali ad hoc e non un sistema giurisprudenziale stabile e strutturato. Da più parti si chiese che il primato emisferico degli USA non fosse contestato e si riaffermasse la validità della Dottrina Monroe. Taft cercò senza grande successo di sollevare l’opinione pubblica a favore dei trattati con una serie di discorsi in varie città del paese, nei quali l’intento pedagogico s’intrecciava con quello propagandistico. In ultima istanza, egli fu costretto ad accettare un compromesso al ribasso con il Senato, in virtù del quale quest’ultimo si riservava il diritto di confermare la nomina dei membri statunitensi delle eventuali commissioni d’inchiesta e, cosa ancor più importante, di decidere della «giudicabilità» di un contenzioso e della conseguente possibilità di sottoporlo ad arbitrato74. Né i tempi, né gli altri paesi, né l’America stessa sembravano essere pronti per Taft e per il suo internazionalismo fiducioso e, per taluni aspetti, apolitico. Taft e gran parte dell’establishment internazionalista statunitense ritenevano si trattasse solo di attendere che la storia facesse il suo decorso naturale e che il rafforzamento ulteriore degli USA fornisse loro leve aggiuntive con cui convincere il resto del mondo della bontà e dell’ineluttabilità dei propri progetti. Determinismo storico ed eccezionalismo convergevano nell’alimentare un fideistico ottimismo sull’avvenire. La prima guerra mondiale acuì l’idea di un eccezionalismo statunitense, ma travolse l’ottimistica fede nel futuro. La civiltà e i suoi custodi, le grandi potenze della comunità vagheggiata da Taft, non solo non avevano bandito la guerra, ma l’avevano dotata di capacità distruttive inimmaginabili. Proprio quando sembrava realizzarsi l’originaria profezia di una leadership statunitense del mondo civilizzato, quel mondo precipitava in un abisso e sembrava prossimo al suicidio. Tutto ciò imponeva un ripensamento, ancor più radicale, dell’internazionalismo statunitense del primo Novecento e l’elaborazione di un disegno capace di fronteggiare la crisi e d’impedire una sua ripetizione.

VI «RENDERE IL MONDO SICURO PER LA DEMOCRAZIA». WILSONISMO E ANTIWILSONISMO

1. La Prima guerra mondiale: la fase della neutralità, 1914-17 Il 28 luglio 1914 l’Europa precipitò nell’abisso della guerra più lunga e devastante mai conosciuta fino ad allora. La dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia fece scattare i meccanismi automatici dei sistemi di alleanze messi a punto nei tre decenni precedenti. La Russia accorse in aiuto dell’alleato serbo (30 luglio 1914); la Germania scese nella contesa a fianco dell’impero asburgico (1° agosto 1914); Francia e Gran Bretagna entrarono in guerra a sostegno della Russia (rispettivamente il 3 e il 4 agosto 1914). La partecipazione giapponese al conflitto conferì subito un carattere extraeuropeo e globale alla guerra. Mentre i soldati di tutta Europa si recavano al fronte ignari dell’interminabile carneficina che li attendeva, l’America osservava confusa e sgomenta il suicidio di quel mondo ‘civilizzato’ che nel decennio precedente aveva cercato di educare e guidare. La guerra demoliva i sogni dell’internazionalismo ottimistico di Taft; si rivelava strumento per nulla obsoleto e delegittimato della politica di potenza; mostrava come la supposta comunità internazionale – in nome della quale si pensava possibile dare vita a un nuovo ordine mondiale basato sul primato del diritto e della ragione – esistesse solo nelle fantasie di molti politici e commentatori statunitensi. Soprattutto, lo scoppio della guerra rivelava l’incapacità degli Stati Uniti di tradurre la propria forza e il proprio primato economico in effettiva influenza politica e diplomatica. Per condizionare il corso delle relazioni internazionali non era sufficiente produrre un terzo dei manu-

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fatti mondiali e una quantità d’acciaio – bene strategico per eccellenza – pari a quella combinata di Germania, Gran Bretagna, Russia e Francia. Si poteva al massimo aspirare all’egemonia regionale nelle Americhe e a un attivismo in Estremo Oriente tanto frenetico quanto raramente coronato da successo. Non bastava certo a fermare una guerra che sembrò travolgere il mondo ‘civilizzato’, per come questo era definito allora1. Negli Stati Uniti lo shock fu forte. Di quel mondo ‘civilizzato’ gli Stati Uniti si sentivano parte e, per molti aspetti, faro. «Che i tedeschi e i francesi, con un’intera, complessa e delicata civiltà in comune possano usare immensi motori di morte per abbattere uomini e città è talmente difficile da credere», proclamò il settimanale «Harper’s Weekly», «che vaghiamo storditi sperando di risvegliarci presto dal più orribile degli incubi». «Alla luce di ciò che speravamo il mondo europeo potesse diventare», affermò il presidente Woodrow Wilson, il «terrificante conflitto» non poteva che causare incredulità e «profondo dolore»2. Il trauma provocato dallo scoppio di una guerra inattesa lasciò rapidamente spazio alla scelta, inequivoca e inizialmente incontestata, della neutralità. Essa permetteva di ribadire una volta di più la diversità, e invero l’eccezionalità, etica e politica degli Stati Uniti; appariva in sintonia con la tradizione e la cultura della politica estera del paese; prometteva, laddove fossero stati rispettati i diritti dei neutrali, occasioni di profitto per l’economia e la finanza degli Stati Uniti; soddisfaceva un’opinione pubblica disorientata e perplessa, con i tanti gruppi nazionali presenti negli USA schierati a sostegno del proprio paese d’origine. Era questo un dato nuovo, che Wilson non mancò di cogliere e sottolineare. Gran parte dell’establishment politico ed economico, a partire dallo stesso presidente, simpatizzava per gli alleati e per la Gran Bretagna in particolare. Lo faceva in nome di un comune denominatore culturale, politico e linguistico (l’anglosassonismo), degli stretti legami commerciali e finanziari (che la guerra avrebbe intensificato) e dell’avversione per l’autoritario militarismo tedesco, che aveva dato l’ennesima prova di sé nella violazione della neutralità del Belgio, immediatamente invaso dalle forze tedesche. Ma una nazione d’immigrati come quella statunitense non poteva non essere lacerata dal conflitto. Varie comunità presero posizione a sostegno degli imperi centrali: quella tedesca, ovviamente, ma anche quella ebraica e quella svedese (ostili, per ra-

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gioni diverse, alla Russia zarista), oltre a quella, influente in alcune città della costa orientale, degli irlandesi-americani, mossi dall’avversione alla Gran Bretagna. Solo la neutralità, sottolineò Wilson durante una conversazione con l’ambasciatore tedesco a Washington, avrebbe permesso di evitare che i diversi gruppi nazionali presenti negli USA «movessero guerra gli uni agli altri»3. Facilitata dalla convinzione che il conflitto si sarebbe comunque risolto rapidamente, la neutralità garantiva l’indispensabile consenso interno e poteva anzi essere presentata come una scelta patriottica, che univa sul piano interno e distingueva su quello internazionale. L’affermazione dei diritti dei neutrali rimandava alle grandi rivendicazioni di principi che nei primi anni della repubblica avevano spesso messo gli Stati Uniti in rotta di collisione con le potenze europee e con la Gran Bretagna in particolare. Nel corso dell’Ottocento tali diritti avevano conosciuto una parziale definizione e codificazione. In teoria, ciò garantiva agli USA la possibilità di continuare le transazioni commerciali e finanziarie con i paesi belligeranti, ma riconosceva a questi ultimi alcune prerogative, tra le quali quella d’ispezione delle imbarcazioni del neutrale4. La scelta della neutralità s’intrecciava a sua volta con la riaffermazione da parte di Wilson della denuncia della politica di potenza europea. Già alla fine del 1914 Wilson anticipò una posizione che avrebbe sviluppato nei mesi successivi: la convinzione, cioè, che una vera pace sarebbe stata possibile solo se non vi fossero stati vincitori e vinti. La soluzione migliore – confidò Wilson al giornalista del «New York Times» H.B. Brougham – era quella in cui «nessuna nazione» avesse raggiunto i suoi obiettivi «con le armi»: «Il pericolo di una pace ingiusta» destinata a «invitare future calamità» derivava invece dalla possibilità che «una qualche nazione, o gruppo di nazioni riuscisse a imporre la sua volontà sugli altri»5. Le logiche della politica di potenza e la natura vieppiù totale dello scontro misero però subito in difficoltà gli Stati Uniti. La neutralità non era ovviamente una scelta isolazionista. Optando per essa, gli Stati Uniti partecipavano anzi virtualmente al conflitto, come si sarebbe visto di lì a poco in concomitanza con l’aumento degli scambi commerciali con gli alleati. E nella prima fase della guerra lo facevano subendo la violazione dei diritti di neutralità compiuta dalla Gran Bretagna prima e dalla Germania poi6. Cercando di far leva su quello che era stato un suo storico ele-

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mento di forza, Londra promosse un efficace blocco navale che impediva l’accesso di beni alla Germania. La Germania rispose con la guerra sottomarina dei suoi U-Boot, che non esitò a prendere di mira navi commerciali e passeggeri. Wilson rispose con moderazione al blocco navale britannico, il cui impatto sul commercio statunitense era peraltro assai limitato. Gli USA non disponevano ancora di forti strumenti di pressione nei confronti della Gran Bretagna e l’opinione pubblica era contraria a iniziative troppo assertive, che rischiavano di trascinare gli Stati Uniti nel conflitto7. La guerra sottomarina tedesca, pur costituendo una rappresaglia nei confronti dell’iniziativa britannica, rappresentava invece una violazione ben più eclatante dei diritti di neutralità. Per le sue caratteristiche, l’azione degli U-Boot suscitava l’orrore di una parte maggioritaria degli americani, che vi scorgeva l’ennesima manifestazione della natura barbara dell’impero prussiano. Il primo momento di svolta per gli Stati Uniti si ebbe nel maggio del 1915, quando fu affondata una delle più importanti navi di linea britanniche, la Lusitania, che trasportava un carico d’armi. Tra le 1.198 vittime vi erano anche 128 cittadini americani8. Wilson si trovò costretto a offrire una risposta capace di soddisfare una duplice, contraddittoria richiesta che proveniva dal mondo politico e dall’opinione pubblica: manifestare fermezza di fronte all’affronto tedesco ed evitare il coinvolgimento degli USA nella guerra. Lo fece denunciando la barbarie della guerra sottomarina, sollecitando un impegno tedesco a porvi termine, ma riaffermando una volta ancora la scelta della neutralità e, con essa, l’eccezionalità degli USA. «L’esempio dell’America deve essere un esempio speciale», affermò Wilson in un celebre discorso tenuto pochi giorni dopo l’affondamento della Lusitania. «La pace [...] guarisce ed eleva il mondo [...]. Vi sono uomini troppo orgogliosi per combattere. Vi sono nazioni talmente nel giusto che non hanno bisogno di usare la forza per convincere gli altri di ciò». Wilson chiese alla Germania l’impegno ad abbandonare la guerra sottomarina e il pagamento di riparazioni per la vicenda della Lusitania9. La risposta di Wilson non soddisfece né il fronte filobritannico, guidato da Theodore Roosevelt, né chi sollecitava maggior cautela e l’adozione di un’assoluta neutralità, come il segretario di Stato William Jennings Bryan, che si dimise. Il presidente riuscì però a consolidare la credibilità internazionale degli USA, da spendersi diplo-

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maticamente, e a rafforzare il consenso interno sulle scelte di politica estera dell’amministrazione. La Germania era divisa al suo interno tra militari intransigenti e civili più inclini al compromesso e timorosi di una possibile partecipazione degli Stati Uniti alla guerra. In un primo momento, l’impero tedesco non accolse le richieste di Wilson. In agosto fu affondata un’altra nave passeggeri britannica, la Arabic, su cui viaggiavano anche due cittadini americani. Di fronte alle proteste statunitensi, il governo tedesco assicurò che qualsiasi azione futura degli U-Boot sarebbe stata promossa solo dopo aver garantito la sicurezza dei passeggeri delle navi prese di mira. L’«impegno dell’Arabic» (Arabic Pledge) – come divenne noto – fu disatteso pochi mesi più tardi dall’affondamento di un’altra nave passeggeri, la Sussex, nello stretto della Manica. Anche in questo caso vi furono delle vittime statunitensi (quattro). All’interno dell’amministrazione vi era chi – come il consigliere speciale di Wilson, il colonnello Edward House, e il nuovo segretario di Stato, Robert Lansing – chiedeva la rottura dei rapporti diplomatici con Berlino. Anche in questo caso Wilson scelse una via intermedia, consapevole che la maggioranza degli americani era favorevole alla neutralità e che ciò poteva risultare decisivo alle elezioni presidenziali del 1916. Alla Germania fu intimato una volta di più di porre termine alla guerra sottomarina indiscriminata. Negoziati segreti permisero però di raggiungere un compromesso. L’azione degli U-Boot non sarebbe terminata, ma sarebbe avvenuta in accordo con le regole internazionali e tutelando la vita dei passeggeri delle navi di linea (il cosiddetto Sussex Pledge); in cambio gli USA s’impegnavano a intensificare la loro azione diplomatica per porre termine al blocco navale britannico, che stava di fatto strangolando la Germania10. La doppia crisi sui mari scosse la neutralità statunitense. A dispetto delle pressioni di molti repubblicani anglofili, Wilson non portò però il paese in guerra. Il coinvolgimento, sia pure indiretto, degli USA nel conflitto si fece nondimeno più intenso. Il volume di scambi commerciali con gli alleati aumentò a dismisura: tra l’agosto 1914 e il marzo 1917 gli USA avrebbero venduto armi a Francia e Gran Bretagna per un valore di 2,2 miliardi di dollari, equivalenti più o meno all’intero ammontare delle esportazioni statunitensi del 1913; le importazioni francesi e britanniche dagli Stati Uniti quadruplicarono nel biennio 1914-16; nel 1917 l’11% del PIL statuni-

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tense era costituito da esportazioni, più del doppio rispetto al 1914. Per permettere tali esportazioni era indispensabile garantire crediti crescenti ai governi francese e britannico. Mosse sia da anglofilia sia dalle prospettive di guadagno, alcune importanti banche d’affari – come la J.P. Morgan & Co. – finanziarono lo sforzo bellico degli alleati e garantirono il collocamento dei titoli emessi da Parigi e da Londra. La guerra concorreva all’ulteriore crescita della potenza economica americana; ciò avveniva, però, in conseguenza dell’accresciuta interdipendenza con gli alleati e legando il futuro di tale potenza alle sorti del conflitto, ovvero alla vittoria (o quanto meno alla non sconfitta) di Francia e Gran Bretagna11. Al contempo, il prolungarsi e globalizzarsi del conflitto provocò un maggiore attivismo diplomatico degli Stati Uniti e un rafforzamento militare reso necessario dalla prospettiva, sempre più plausibile, che prima o poi gli Stati Uniti sarebbero dovuti entrare nella contesa. Soprattutto, indusse Wilson – che dopo le dimissioni di Bryan aveva assunto il pieno controllo della politica estera del paese – a elaborare una riflessione originale sia sulle ragioni della guerra sia sulle trasformazioni che era necessario apportare al sistema internazionale per evitare il ripetersi di una catastrofe simile. Un’analisi – quella wilsoniana – che riprendeva alcuni elementi dell’internazionalismo del decennio precedente, ma li declinava entro un contesto completamente mutato e mettendo da parte quella fiducia nell’avvenire che il conflitto aveva inevitabilmente travolto12. Era, quello wilsoniano, un «internazionalismo della crisi» basato sulla paura che la guerra – interminabile e immensamente distruttiva – stesse scuotendo alle fondamenta l’edificio della civiltà moderna13. Per Wilson la guerra aveva confermato una volta di più l’indispensabilità degli Stati Uniti. Solo gli USA si erano sottratti alla follia collettiva che aveva contagiato tutti i membri della comunità internazionale. Solo gli USA avevano ormai la forza materiale e l’integrità etica per trascinare il mondo fuori dall’abisso. Per farlo, però, dovevano accettare responsabilità storiche cui in passato si erano sottratti. Su tutte quella di concorrere a creare e poi guidare una grande organizzazione internazionale; una società delle nazioni nella quale si sarebbe affermato il primato del diritto internazionale e di modalità multilaterali di gestione delle crisi. Era questo il primo, fondamentale elemento del disegno internazionalista che Wilson stava gradualmente maturando: l’idea che non vi potessero essere vie

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unilaterali alla sicurezza; che essa potesse solo essere collettiva, di tutti, o non essere. Nell’affermarlo, Wilson ribadiva il convincimento, che già era stato di Taft, secondo il quale le forze della modernità avevano unito il mondo in un reticolo di ineludibili interdipendenze. Ma l’interdipendenza non esisteva solo nelle comunicazioni, nei trasporti, negli scambi commerciali e culturali. Accanto a questa dimensione virtuosa, aveva dimostrato di possedere un lato oscuro e immensamente distruttivo, che si manifestava nelle forme e nelle dimensioni della guerra. Una guerra che, proprio in virtù dell’interdipendenza, non poteva che essere globale e devastante, come ben evidenziato dall’allargamento pandemico di un conflitto in fondo locale quale quello tra Austria-Ungheria e Serbia. Una guerra che proprio la modernità e il progresso avevano dotato di strumenti la cui capacità annientatrice sarebbe stata inimmaginabile sino a pochi anni prima. E una guerra, infine, che non solo era globale, ma anche totale; che tendeva a ridurre la distinzione tra civili e combattenti, come mostravano sia le azioni degli U-Boot sia la scelta britannica di affamare la popolazione tedesca con il blocco navale. Un modo nuovo di fare diplomazia, invero un mondo nuovo, andava immaginato e realizzato. E solo il nuovo mondo, gli Stati Uniti, avevano la capacità di farlo. L’antico strumento di autoregolamentazione delle relazioni internazionali – l’equilibrio di potenza – non solo non funzionava più, ma, intrecciandosi con la competizione imperiale, finiva per esasperare e diffondere i conflitti. Al suo posto andava creata una comunità di potenza; una struttura collettiva, fondata su un patto fondativo (un Covenant) tra i suoi membri, provvista anche della capacità d’imporre le sue decisioni: dotata, per l’appunto, della potenza. Che andava dispiegata per prevenire la guerra e per imporre il diritto, facendo così inclinare il piano della modernità verso il suo lato virtuoso, preservandone la globalità e mettendone a tacere la potenziale distruttività. Sicurezza collettiva, ripudio della guerra, denuncia dell’equilibrio di potenza, enfasi sia sui pericoli sia sulle possibilità offerte dall’interdipendenza e dalla modernità non esaurivano però il progetto wilsoniano, per come questo andò definendosi nel corso della guerra. Complemento essenziale era la natura il più possibile rappresentativa dei governi dei membri della costituenda comunità internazionale. La democrazia doveva diventare il comune denominatore che univa le potenze civilizzate e rendeva davvero omogenea tale co-

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munità. Solo in tal modo sarebbe stato possibile dare voce a un’opinione pubblica mondiale sulla cui saggezza Wilson non nutriva alcun dubbio. Un’opinione pubblica le cui naturali inclinazioni pacifiste non potevano che essere state consolidate dalla brutalità del conflitto. Era un disegno davvero universalistico, quello wilsoniano, non privo di contraddizioni, ambiguità e ipocrisie14. Per quanto esagerata da alcuni studiosi, la sua funzionalità agli interessi statunitensi era evidente: il sistema aperto, la liberalizzazione degli scambi commerciali e l’interdipendenza virtuosa cui s’intendeva dare corso servivano per riportare sulla retta strada un processo storico dal quale gli USA avevano tratto i maggiori vantaggi. Al contempo, l’universalismo wilsoniano non strideva con il nazionalismo eccezionalista statunitense, ma ne costituiva anzi il pieno compimento. Erano gli USA, infatti, ad avere la consapevolezza che fosse necessario un nuovo inizio; ed erano gli USA che, in virtù di tale consapevolezza, avrebbero assunto la guida della comunità internazionale. Wilson riteneva anzi che proprio questa riaffermazione e sublimazione dell’eccezionalità americana potesse rendere accettabile il suo universalismo all’opinione pubblica interna: quelli che si proponeva, sostenne Wilson, erano «principi americani, politiche americane»; ma in quanto tali erano anche ipso facto «i principi e le politiche di tutti gli uomini e le donne lungimiranti, di ogni nazione moderna, di ogni comunità illuminata»: erano «i principi dell’umanità»15. L’enfasi crescente sulla democrazia e, successivamente, sull’autodeterminazione stridevano con l’idea che si potesse mantenere un’equidistanza tra le parti in causa e preludevano a un’intensificazione dell’ostilità verso gli imperi centrali: autoritari e militaristi (nel caso della Germania), multinazionali e centralisti (nel caso dell’Austria-Ungheria). Infine, il discrimine fondamentale rappresentato dalla civiltà – per quanto normale per l’epoca – limitava la portata dell’universalismo wilsoniano e conferiva ad esso una chiara qualificazione razziale. Come per molti suoi contemporanei, anche per Wilson civiltà e razza erano quasi sinonimi. La comunità internazionale prospettata inizialmente da Wilson poggiava sull’idea che vi fosse una gerarchia di civiltà, al cui vertice stava il mondo euro-americano, con l’aggiunta, possibile, ma contestata dallo stesso presidente, del Giappone. In questo, e non poteva essere altrimenti, Wilson si rivelava a tutti gli effetti un uomo del suo

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tempo, a dispetto dei tentativi successivi di trasformarlo in preconizzatore e profeta di trasformazioni all’epoca inimmaginabili16. Wilson cominciò a delineare i contorni della sua visione in una serie d’interventi pubblici, finalizzati tanto a sondare l’umore della nazione quanto a educarla e prepararla a un futuro nel quale l’idea del non intervento degli Stati Uniti negli affari internazionali sarebbe stata impraticabile e controproducente. Nel 1916 Woodrow Wilson fu riconfermato alla presidenza: primo presidente democratico in carica a essere rieletto dai tempi di Andrew Jackson. Per quanto limitata, la vittoria elettorale rimosse i freni e le inibizioni residui. Il mandato quadriennale che lo attendeva permise a Wilson di assumere un atteggiamento ancor più attivo nella crisi e di abbandonare molte delle cautele del passato. A cavallo tra il 1916 e il 1917 il presidente statunitense lanciò una nuova offensiva di pace. Una pace – affermò Wilson in un celebre discorso nel gennaio del 1917 – che per risultare davvero tale doveva essere «senza vittoria»: il successo di uno dei contendenti avrebbe infatti significato una «pace imposta allo sconfitto [...] accettata nell’umiliazione, per mezzo della coercizione e di un intollerabile sacrificio», lasciando «un dolore acuto, un risentimento, una memoria amara sulla quale le condizioni di tale pace poggerebbero, in modo non permanente, ma come se fossero inscritte sulla sabbia». «Solo una pace tra eguali», sostenne profeticamente Wilson, sarebbe potuta «durare». Per ottenerla era necessario che le potenze belligeranti accettassero almeno tre condizioni fondamentali: il ripristino dello status quo ante, con la conseguente rinuncia ad ambizioni di conquista territoriale; l’avvio di un processo di disarmo; la creazione di un’organizzazione internazionale, cui sarebbe stato delegato il compito di mediare e arbitrare i contenziosi tra i suoi membri. Nessuno dei paesi in guerra – con la parziale eccezione dell’Austria-Ungheria – manifestò però serio interesse per queste proposte. Per giungere alla pace divenne così necessaria quella partecipazione al conflitto che Wilson aveva a lungo sperato di scongiurare. La «pace senza vittoria» diventava raggiungibile solo attraverso la vittoria di una delle due parti in causa. Una contraddizione e un paradosso, questi, che avrebbero segnato sia l’ultima fase della guerra sia i successivi negoziati di pace17.

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2. La Prima guerra mondiale: la fase dell’intervento, 1917-18 Nel gennaio del 1917 la Germania comunicò agli Stati Uniti di non sentirsi più vincolata dal Sussex Pledge. Cominciava così la guerra sottomarina indiscriminata, che colpiva tutte le navi dirette verso la Francia e la Gran Bretagna. La svolta era rilevante e colpiva come non mai i diritti di neutralità. Nelle intenzioni dello Stato maggiore tedesco, l’azione degli U-Boot e una nuova grande offensiva di terra avrebbero posto termine al conflitto prima che gli Stati Uniti potessero mobilitare appieno la propria potenza a sostegno della causa alleata. Poche settimane più tardi gli USA ruppero i rapporti diplomatici con Berlino. Il paese non era ancora pronto per entrare in guerra, ma si fece ancora più intensa la pressione causata dalla doppia, contraddittoria richiesta dell’opinione pubblica di preservare tanto la pace quanto l’onore del paese. Il dilemma con cui Wilson era costretto a confrontarsi fu in una qualche misura risolto dalla stessa Germania. Nel marzo del 1917 i servizi d’intelligence britannici intercettarono un telegramma inviato dal ministro degli Esteri tedesco, Arthur Zimmerman, all’ambasciatore del Reich a Città del Messico. Nel documento, Zimmerman enfatizzava la necessità di coinvolgere il Messico in una guerra contro gli Stati Uniti e discuteva l’eventualità di promettere al governo messicano non solo ingenti aiuti economici, ma anche la restituzione di parte dei territori – Arizona, New Mexico e Texas – perduti sessant’anni prima. Il telegramma Zimmerman fu reso pubblico negli USA e provocò un’ondata di proteste superiore anche a quella che aveva seguito l’affondamento della Lusitania. Pochi giorni più tardi, gli U-Boot affondarono tre navi mercantili statunitensi. L’intero gabinetto, a quel punto, si schierò a favore della piena belligeranza. Il 2 aprile 1917 Wilson chiese al Congresso che fosse riconosciuto lo stato di guerra con la Germania18. La dichiarazione di guerra di Wilson fu approvata a larga maggioranza sia dal Senato (82 a 6) sia dalla Camera (373 a 50), anche se non mancò la battagliera opposizione di alcuni progressisti dell’Ovest e del Midwest, guidati dai senatori LaFollette del Wisconsin e Norris del Nebraska. Wilson giustificò l’intervento come conseguenza della violazione dei diritti di neutralità, come necessario per un più rapido raggiungimento della pace, ma lo presentò anche come una guerra della democrazia e per la democrazia contro il barbaro autoritarismo militarista degli imperi centrali. «La civiltà stes-

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sa sembra essere in gioco», affermò il presidente; per questo gli Stati Uniti dovevano partecipare «alla più terribile e disastrosa delle guerre»: vi erano infatti momenti in cui «il diritto era più importante della pace» e gli USA erano pronti a «combattere per quanto di più caro essi avessero: la democrazia»19. Proprio in nome della democrazia, Wilson fu inizialmente molto attento a distinguere tra il popolo tedesco e il suo governo. Le responsabilità del secondo andavano separate da quelle del primo. In un futuro non lontano la diffusione della democrazia avrebbe permesso di porre termine a questa discrasia, di dare voce all’opinione pubblica tedesca e d’impedirne la manipolazione e lo sfruttamento. Avrebbe però imposto anche una riflessione sulla necessità di riconoscere le richieste delle nazionalità presenti nei due imperi centrali che invocavano non solo maggiore autonomia, ma anche l’indipendenza e la creazione di un proprio Stato. Pace e democrazia (future), libertà (presenti e passate, a partire da quella di commerciare) e missione (antica) furono quindi gli elementi, intrecciati, che Wilson utilizzò per giustificare la partecipazione alla guerra. Interessi, ideali e identità tornarono a combinarsi in una forma e con modalità del tutto nuove: gli USA partecipavano per la prima volta a una grande guerra europea e lo facevano in nome di un progetto di palingenesi dell’ordine mondiale del quale non si limitavano ad asserire la necessità, ma di cui si assumevano ora la piena responsabilità. Che fosse necessario «far ricominciare il mondo di nuovo» era stato proclamato fin dalle origini della repubblica; che a questo proclama seguisse un impegno come quello del 1917 era invece senza precedenti. La guerra intrapresa dagli USA, proclamò Wilson, era una guerra alla guerra: un intervento «necessario per rendere simili guerre impossibili»20. Dentro questo grande disegno, quattro ragioni specifiche inducevano Wilson a entrare in guerra proprio in quel momento: le già menzionate iniziative tedesche, guerra sottomarina e telegramma Zimmerman; l’intensificazione dell’interesse a una vittoria britannica e francese, resa ancor più indispensabile dalla necessità di recuperare i crediti stanziati, ma soprattutto espressione della consapevolezza che i legami commerciali e finanziari con Londra e Parigi costituivano il cuore e la spina dorsale dell’interdipendenza mondiale; il maturare, ancora incompleto, di una coscienza geopolitica che induceva a guardare con terrore all’idea che una singola potenza, nel-

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la fattispecie la Germania, potesse dominare l’intero continente europeo; più di tutto, la convinzione che la fine del conflitto si stesse avvicinando e che solo l’intervento, risolutivo, degli Stati Uniti avrebbe garantito loro la possibilità di dettare i termini della pace successiva. La caduta del regime zarista in Russia, per quanto non decisiva, rimosse un elemento d’imbarazzo nella crociata della democrazia e per la democrazia intrapresa da Wilson. Nel progetto wilsoniano, e nella retorica che lo accompagnava, vi erano elementi rilevanti e per certi aspetti radicali di novità. Era una visione pienamente moderna e uni-mondiale, quella di Wilson, basata sulla consapevolezza dell’interdipendenza: delle possibilità che essa apriva e dei pericoli – totali – che essa generava. Ma l’internazionalismo wilsoniano rappresentava anche la sublimazione e il compimento di un percorso dalle matrici antiche. Esprimeva in forma estrema la natura universalistica ed eccezionalista del nazionalismo statunitense. Riaffermava la diversità degli Stati Uniti proprio quando questi entravano pienamente nell’arena delle relazioni internazionali, offrendo ai suoi membri la prospettiva d’intraprendere assieme un percorso verso una destinazione finale – la democrazia e la società delle nazioni – comune e accomunante. Gli Stati Uniti tornavano a proclamare di essere il mondo: lo annunciavano a un mondo che purtroppo non era ancora gli Stati Uniti, ma che – asseriva Wilson – poteva e doveva diventarlo21. Proprio per questo, Wilson fu da subito assai attento alla necessità di separare l’intervento statunitense dalle matrici tutte europee della guerra; di riaffermare – anche una volta entrati in guerra – un topos, antico ma sempre attuale: quello che contrapponeva vecchio e nuovo mondo, l’America pura e incontaminata all’Europa corrotta e da redimere. «Non vi è un singolo elemento di egoismo [...] nella causa per cui combattiamo», proclamò Wilson; gli USA agivano al contrario in quanto «amici e servi dell’umanità». «Non cerchiamo alcun profitto [...] non accetteremo alcun vantaggio da questa guerra», affermò enfaticamente Wilson. Per rimarcare questa distinzione, gli USA entrarono in guerra come «potenza associata» e non come alleati di Francia, Gran Bretagna e Russia. Wilson istruì i suoi collaboratori e gli altri membri del gabinetto a non riferirsi alle tre potenze dell’Intesa come se fossero «alleati» degli Stati Uniti22. La guerra degli Stati Uniti si combatté su tre fronti: quello interno, quello militare e quello delle idee e per il futuro del sistema in-

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ternazionale. Sul piano interno vi fu una mobilitazione senza precedenti della società e dell’economia statunitense. S’intensificò la collaborazione tra pubblico e privato e furono create ex novo varie agenzie federali, la più importante delle quali fu il War Industries Board, cui fu assegnato il compito di coordinare la produzione industriale. L’aumento delle spese, che in un anno e mezzo crebbero di circa 25 volte, fu impressionante: i costi della guerra finirono per essere superiori alla somma di tutte le spese federali sostenute dagli USA nei loro 130 anni di storia. Per farvi fronte, s’incrementarono le imposte dirette e indirette e, soprattutto, ci s’indebitò con l’emissione dei famosi liberty bonds, i «titoli di Stato della libertà». Parallelamente, crebbe l’ammontare dei prestiti concessi a Gran Bretagna e Francia e da queste utilizzati per acquistare beni statunitensi, incrementando così la loro dipendenza dagli Stati Uniti. La mobilitazione e la gestione economica del conflitto fu contraddittoria: impressionante per impegno e dimensioni, spesso incoerente e inefficiente nei metodi e nei risultati. Rappresentò nondimeno un precedente rilevante, che concorse a mutare almeno in parte il volto della società americana23. Ma la mobilitazione totale non si limitò all’economia e alla produzione industriale. Una dimensione importante fu rappresentata dall’azione propagandistica promossa dal governo statunitense. Un’apposita struttura, il Committee on Public Information (CPI), guidato dal giornalista George Creel, fu incaricata di coordinare l’attività d’informazione in quella che doveva essere una vera e propria campagna pubblicitaria a sostegno dello sforzo bellico: una «lotta per le menti degli uomini e per le loro convinzioni», come ebbe a definirla lo stesso Creel. Il CPI adottò metodi e strategie del marketing moderno. Particolarmente efficace e innovativo fu l’elemento iconografico: i poster che invitavano ad arruolarsi e ad adempiere all’obbligo patriottico di acquistare i liberty bonds24. L’attività del CPI, e più in generale la mobilitazione patriottica provocata dall’ingresso in guerra, assunsero rapidamente tratti negativi. Un elemento importante fu rappresentato dalla censura e dalla repressione del dissenso, che prese di mira i principali oppositori interni dell’intervento: la comunità tedesco-americana e il fronte pacifista e neutralista. Le forme assunte da tale repressione furono in alcuni casi grottesche e in altri drammatiche. I pretzel furono rimossi dai bar di Cincinnati, i pastori tedeschi ribattezzati «cani di polizia»;

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le musiche di Brahms e Beethoven furono bandite; sorte analoga toccò a molti testi della letteratura tedesca, tolti dagli scaffali di numerose biblioteche pubbliche e in taluni casi bruciati. Non mancarono, soprattutto su scala locale, episodi drammatici di violenza e intolleranza contro cittadini di origine tedesca. A questo inasprimento interno corrispose la denuncia sempre più severa da parte di Wilson dell’autoritarismo tedesco e delle responsabilità primarie della Germania nello scoppio della guerra: «I padroni militari della Germania», affermò il presidente nel giugno del 1917, si erano macchiati di «insulti e aggressioni straordinarie» nei confronti degli Stati Uniti; avevano «riempito le [...] inconsapevoli comunità» degli USA con «cospiratori e spie malvagie», cercando «di distruggere con la violenza le [...] industrie e il commercio» degli Stati Uniti25. Non si trattò però solamente di un’ondata, ingiustificabile ma comprensibile, d’isteria, né dell’eccesso di zelo, che pure vi fu, di amministrazioni locali e statali e di organizzazioni patriottiche. Il governo promosse deliberatamente un’azione di soffocamento della discussione e di soppressione del dissenso, giustificandolo in nome delle esigenze di sicurezza e delle necessità belliche. Due leggi, in particolare, colpirono la libertà di parola e di critica: l’Espionage Act del luglio 1917 e il Sedition Act del maggio 1918. La prima legge infliggeva pene molte severe a chiunque avesse ostacolato il reclutamento, invitato alla diserzione o provocato insubordinazione nelle forze armate. La seconda estendeva i divieti alla libertà di espressione, includendo de facto tra i reati anche la semplice critica all’azione del governo. La censura colpì soprattutto le organizzazioni pacifiste e socialiste e le loro pubblicazioni. Il culmine fu raggiunto con l’arresto e la successiva condanna a dieci anni di carcere emessa da una corte dell’Ohio nei confronti del leader socialista Eugene Debs, reo di avere criticato la guerra e le violazioni del primo emendamento da parte del governo federale. Come 120 anni prima, con gli Alien and Sedition Acts, e come in tempi recenti, con il Patriot Act, l’emergenza sicurezza finiva per limitare grandemente, ancorché temporaneamente, la libertà interna: in nome di una guerra per la democrazia si assisteva a una drammatica sospensione dei diritti all’interno degli Stati Uniti26. Per quanto meno draconiana che in molti altri paesi, la repressione del dissenso lasciò ferite profonde e suscitò l’imbarazzo e talora l’opposizione di molti liberal e progressisti che sostenevano Wil-

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son e l’intervento. Meno controversa, ma comunque difficile, fu la definizione delle modalità con cui gli USA avrebbero partecipato al conflitto. Due, in particolare, erano i problemi: come organizzare in tempi rapidi le forze armate e come coordinare l’intervento assieme ai paesi formalmente non alleati a fianco dei quali si sarebbe dovuto combattere. Il rafforzamento militare dell’anno precedente si era concentrato principalmente sulla Marina, che fece subito la sua parte nella campagna per limitare le azioni degli U-Boot tedeschi. Per uomini e mezzi, l’esercito rimaneva invece assai limitato. Proprio di uomini, la carne da cannone che fu la principale protagonista del dramma della Prima guerra mondiale, vi era assoluto bisogno. Le offensive tedesche, le difficoltà italiane – che culminarono nella disfatta di Caporetto – e, soprattutto, la rivoluzione russa e la successiva pace di Brest-Litovsk resero la situazione drammatica per Francia e Gran Bretagna. Gradualmente Wilson comprese la necessità sia politica sia militare d’inviare quanto prima un esercito in Europa. Per farlo si ricorse allo strumento della coscrizione. Contestato da molti all’interno degli USA, esso fu presentato come espressione quintessenziale della natura democratica della guerra che si andava combattendo; come provvedimento progressista e liberale che riecheggiava il popolo in armi della rivoluzione. Non a caso Wilson comparò l’esercito di coscritti alle milizie coloniali e, soprattutto, giustificò la scelta come il migliore antidoto possibile alla contaminazione militaristica che sarebbe conseguita alla costituzione di un largo esercito di professionisti27. Fu quindi creato un corpo di spedizione americano (American Expeditionary Force, AEF), posto sotto il comando del leggendario generale John Pershing. La prima divisione statunitense raggiunse la Francia nel giugno 1917. In poco tempo l’esercito poté contare su più di 4 milioni di uomini, tra coscritti e volontari. Ci vollero diversi mesi prima che esso fosse pienamente utilizzabile nel conflitto. Quando ciò avvenne, però, la presenza statunitense si rivelò decisiva: tra maggio e giugno del 1918 le truppe americane furono fondamentali nel fermare una delle ultime, grandi offensive tedesche. Pochi mesi più tardi le divisioni statunitensi – che contavano più di 1 milione di uomini – parteciparono alla decisiva controffensiva delle Argonne. Sempre nei mesi finali della guerra, Wilson decise di partecipare a un intervento militare congiunto con il Giappone nel Nord della Russia, dove era ormai in corso una guerra civile tra i bol-

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scevichi e i loro oppositori. L’intervento serviva per recuperare materiali militari alleati prima che questi cadessero in mani tedesche, per porre sotto controllo le ambizioni imperiali giapponesi nella regione e per recuperare una legione di militari cecoslovacchi pronti a combattere a fianco degli alleati in nome dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Deliberato o meno, l’intervento aveva però anche un chiaro connotato antisovietico e anticomunista, e contribuiva all’apertura di una fase di competizione e antagonismo che sarebbe poi deflagrata con la Guerra Fredda28. I prodromi della rivalità bipolare erano anche di natura ideologica. La rivoluzione bolscevica offrì al mondo un potente messaggio universalista: un messianismo rivoluzionario, anticapitalista e antiimperialista la cui capacità di seduzione si legava inestricabilmente al dramma della guerra. In forme paradossalmente speculari alla riflessione di Wilson, anche quella di Lenin e dei bolscevichi originava dal convincimento che una trasformazione radicale dell’ordine internazionale fosse necessaria; che la guerra non rappresentasse un’aberrazione e una parentesi, ma il portato inevitabile di un percorso storico29. Era stato anche per rispondere alla sfida ideologica del bolscevismo, e alla controffensiva di pace lanciata dal governo sovietico, che Wilson aveva promosso alcuni mesi prima la più eclatante iniziativa pubblica del periodo in cui gli USA furono in guerra: l’annuncio di un programma di pace articolato in quattordici punti. I celeberrimi «Quattordici punti» furono illustrati l’8 gennaio 1918 davanti al Congresso riunito in sessione congiunta. Essi riprendevano molti dei suggerimenti di una commissione (The Inquiry) creata da Wilson per elaborare dei progetti per il dopoguerra e guidata dal giovane giornalista progressista Walter Lippmann. I Quattordici punti si dividevano in tre parti. Nella prima (punti 1-5) si enunciavano alcuni principi generali cari all’internazionalismo progressista statunitense: la diplomazia aperta e il rigetto dei trattati segreti; la libertà dei mari; la rimozione delle barriere economiche al commercio e la riaffermazione della porta aperta; la risoluzione delle dispute coloniali in accordo con il principio dell’autodeterminazione. Nella seconda parte (punti 6-13) si affrontavano invece specifiche questioni territoriali e si prospettava la possibile ridefinizione della mappa postbellica dell’Europa. In taluni casi – il ripristino dell’indipendenza del Belgio, la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, la crea-

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zione di uno Stato polacco con accesso al mare – le raccomandazioni erano precise e circostanziate. In altri, Wilson era inevitabilmente più vago: per quanto riguardava le nazioni degli imperi asburgico e ottomano si faceva riferimento a un generico «sviluppo autonomo». Il principio dell’autodeterminazione, come elemento intrinseco del fondamento democratico su cui avrebbe dovuto poggiare il nuovo ordine internazionale, era però affermato e con esso l’impossibilità di terminare la guerra con un preciso ritorno allo status quo ante: con «una pace senza vittoria», come affermato solo un anno prima. Infine, il quattordicesimo punto, il più importante per Wilson, era quello che prevedeva la creazione di una grande organizzazione internazionale: «Un’associazione di nazioni da costituirsi attraverso appositi patti (covenants) con l’obiettivo di fornire mutue garanzie d’indipendenza e integrità territoriale tanto agli Stati grandi quanto a quelli piccoli»30. L’enunciazione dei Quattordici punti costituì uno straordinario successo politico e diplomatico per Wilson. Il suo contenuto progressista e internazionalista riconciliò col presidente quella parte dell’intellighenzia liberal statunitense inorridita dalle modalità con le quali era stato gestito l’intervento in guerra degli USA, soprattutto sul piano interno. I Quattordici punti furono accolti positivamente in Europa, inclusa la stessa Germania, che ad essi si sarebbe successivamente appellata per chiedere una pace non punitiva e «senza vincitori». Per Wilson ciò parve confermare l’appoggio di un’opinione pubblica mondiale il cui ruolo e la cui influenza non era più possibile sottovalutare31. In realtà, i Quattordici punti e l’entusiasmo che essi generarono fuori e dentro gli Stati Uniti rappresentarono il picco del successo dell’internazionalismo wilsoniano. Il momento, cioè, in cui la doppia esigenza di costruire un consenso interno e internazionale attorno al disegno di Wilson parve essere pienamente soddisfatta. Nei mesi successivi, gli avversari politici di Wilson e gli alleati cominciarono a manifestare insofferenza verso l’azione del presidente statunitense e, in taluni casi, a contestarla apertamente. Negli USA i repubblicani guidati da Theodore Roosevelt e Henry Cabot Lodge, pur sostenendo la partecipazione alla guerra, espressero critiche crescenti sia verso l’atteggiamento centralizzatore e quasi dispotico di Wilson sia, soprattutto, verso l’approccio del presidente nei confronti del nemico tedesco, che ritenevano troppo conciliante. La pa-

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ce da imporre alla Germania una volta terminato il conflitto – affermavano Roosevelt e Lodge – doveva essere una pace punitiva. Si trattava di una posizione coerente con la linea assunta sin dal 1914 dai repubblicani filobritannici. Nel nuovo contesto, essa serviva però anche per costruire un ponte con i settori conservatori e nazionalisti in Francia e Gran Bretagna e per indebolire politicamente Wilson in vista delle elezioni di mid-term. L’ondata patriottica e sciovinista stimolata dalla guerra non rendeva infatti popolare un atteggiamento indulgente e accomodante nei confronti del nemico tedesco. Questa critica interna si combinava a quella mossa dagli alleati, che si fece particolarmente acuta quando, all’approssimarsi della fine del conflitto, Wilson sembrò accogliere una richiesta tedesca d’armistizio. Francia e Gran Bretagna temevano che quello della Germania fosse un tentativo per guadagnare tempo in un momento di forte difficoltà militare. Ma sapevano, altresì, che terminare la guerra con una vittoria netta e indiscussa avrebbe ridotto la capacità di condizionamento garantita agli USA dalla partecipazione al conflitto, permettendo a Parigi e Londra di meglio contenere i progetti wilsoniani32. La guerra terminò l’11 novembre 1918. La capitolazione tedesca era stata preceduta dall’abdicazione del Kaiser Guglielmo II, a simboleggiare la fine dell’autocratico militarismo prussiano. Si aprivano a questo punto i negoziati di pace che avrebbero dovuto portare alla realizzazione effettiva del disegno di Wilson. Le elezioni di midterm del 1918 avevano però gettato una prima, fosca luce sulla capacità di Wilson di fronteggiare le forze che si opponevano al suo progetto. Deliberatamente politicizzate dal presidente per rafforzare la sua posizione in vista delle trattative di pace, le elezioni si conclusero invece con una netta vittoria dei repubblicani, che conquistarono il Senato, assumendo così il controllo di entrambi i rami del Congresso. La guerra aveva catalizzato una forte passione internazionalista nel paese; si trattava però di un internazionalismo intriso di ostilità nei confronti della Germania, di cui si auspicava una punizione esemplare, e che tendeva a preferire gli inviti di Roosevelt e Lodge a tutelare gli interessi statunitensi ai progetti, ancora vaghi, di Wilson di riforma radicale del sistema internazionale. La «pace senza vittoria» invocata meno di due anni prima da Wilson mal si conciliava col fatto che la pace era stata infine raggiunta con una vittoria, dagli immensi costi umani e materiali per tutti i contendenti, in-

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clusi gli stessi Stati Uniti, che nella guerra avevano perso circa 120.000 uomini. Una pace basata sui Quattordici punti, affermò Theodore Roosevelt, avrebbe prodotto non la necessaria «resa incondizionata della Germania, ma la resa condizionata degli Stati Uniti». Una parte consistente degli americani e, soprattutto, dei membri del Senato aveva maturato lo stesso convincimento. Si apriva così per Wilson un difficile, doppio negoziato dal quale il presidente sarebbe infine uscito sconfitto33.

3. Il fallimento del progetto wilsoniano, 1918-20 La Prima guerra mondiale causò più di 10 milioni di morti tra i soli combattenti. Devastò il continente europeo come mai prima di allora. Modificò in profondità la struttura politica, economica e sociale di tutti gli Stati che vi presero parte. Lasciò ferite e rancori impossibili da cicatrizzare. Di fronte a questo era impensabile ripristinare lo status quo ante o immaginare che le potenze vincitrici non imponessero a quelle sconfitte, e alla Germania in particolare, una qualche punizione. Di ciò Wilson era consapevole. Il suo obiettivo era però limitare la natura punitiva della pace, affermare i principi dei Quattordici punti e, più di tutto, giungere a un compromesso che permettesse la nascita della sua creatura prediletta: la Società delle Nazioni. Alcune cessioni sulla Germania, ed eventualmente su altre questioni, erano anzi ritenute una contropartita indispensabile per creare l’organizzazione internazionale invocata da Wilson e per dotarla dei poteri e delle prerogative necessari al suo effettivo funzionamento. Ma Wilson era fiducioso sulla capacità degli Stati Uniti di dettare i termini fondamentali dell’accordo. Il ruolo svolto dagli USA nella guerra, il gap di potenza che questa aveva alimentato tra gli Stati Uniti e gli altri vincitori, l’indiscussa supremazia economica americana, i debiti contratti dagli alleati, il sostegno dell’opinione pubblica mondiale, la possibilità di fare leva sulle tensioni intraeuropee: questi e altri fattori inducevano Wilson all’ottimismo. La conferenza di pace delle potenze vincitrici si svolse a Parigi e durò sei mesi, dal gennaio al giugno del 1919. Wilson vi partecipò personalmente, primo presidente nella storia degli Stati Uniti a re-

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carsi in Europa durante il proprio mandato e a trascorrere un periodo così lungo fuori dal paese. A dispetto dei proclami wilsoniani, i negoziati si svolsero tra i soli vincitori, riuniti inizialmente in un Consiglio dei Dieci che includeva i capi di Stato e i ministri degli Esteri di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone34. La mappa dell’Europa fu sostanzialmente ridisegnata a Parigi e nei successivi accordi siglati con Austria e Ungheria. La decisione di punire i paesi sconfitti si combinò con le ambizioni territoriali delle potenze vincitrici e con la volontà di applicare il principio d’autodeterminazione nel produrre una profonda trasformazione degli assetti europei. Al posto dei due imperi centrali sorgevano (e in taluni casi risorgevano) una serie di Stati il più possibile omogenei da un punto di vista linguistico e nazionale. Secoli di contatti, scontri e ibridazioni rendevano però impossibile tracciare confini chiari e precisi, a maggior ragione se a ciò si aggiungeva un’applicazione selettiva dell’autodeterminazione, che spesso fu sacrificata ai danni della popolazione tedesca per soddisfare le richieste di uno dei paesi vincitori. A dispetto dei trasferimenti di popolazione e dei lunghi negoziati, la nuova Europa post-Prima guerra mondiale sarebbe nata precaria e subito lacerata da confini inter e intranazionali. Alcuni studiosi, in particolare Eric Hobsbawm, avrebbero imputato a un supposto «nazionalismo wilsoniano» la responsabilità primaria per la fragilità del nuovo ordine europeo. Il nazionalismo, democratico e non, aveva però radici ben più antiche e la sua forza contestatrice si era già rivelata in passato. Se l’Europa emersa dalla guerra era un’Europa fragile e vulnerabile, essa rifletteva nondimeno lo Zeitgeist dell’epoca e rappresentava la presa d’atto geopolitica dell’esito del conflitto35. La mappa dell’Europa centro-orientale fu sconvolta dal crollo dell’impero tedesco e di quello austro-ungarico. Ungheria e Austria furono divise e ridotte in due Stati separati. Rinacque uno Stato polacco e furono create la repubblica cecoslovacca e la Jugoslavia. I tre nuovi Stati si spartirono le province slave dell’impero asburgico. La Polonia e la Cecoslovacchia ottenevano inoltre vari territori dell’impero tedesco; la città di Danzica era separata dalla Germania e posta sotto il controllo della Società delle Nazioni, per permettere allo Stato polacco un accesso al Mar Baltico. Fu però sui confini occidentali, sul disarmo e, infine, sulle riparazioni che la natura punitiva e unilaterale della pace imposta alla

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Germania si rivelò pienamente. Nel complesso la Germania perse quasi il 15% del suo territorio e della sua popolazione. Il ritorno di Alsazia e Lorena alla Francia era scontato e non contestato. La Francia chiese però che alla Germania fosse sottratto tutto il territorio a ovest del Reno, la Renania, prospettando la possibilità di far sorgere una repubblica indipendente, e che fosse ceduta alla Francia la ricca regione carbonifera della Saar. Wilson si adoperò per giungere a un compromesso finale, che mal si conciliava sia con l’autodeterminazione sia con lo slogan, ancora in uso, della «pace senza vincitori». La Francia poté ottenere il carbone della Saar, che fu posta per quindici anni sotto il controllo della Società delle Nazioni, al termine dei quali era previsto un plebiscito per decidere delle sorti della regione (nel 1935 essa votò a larga maggioranza per tornare a far parte della Germania). La Renania rimase nello Stato tedesco, ma ne fu prevista la smilitarizzazione permanente e la possibilità per gli alleati di rioccuparla unilateralmente qualora la Germania non avesse rispettato i termini del trattato. Il disarmo doveva a sua volta rappresentare uno dei principi fondamentali del nuovo sistema internazionale; alla corsa agli armamenti, e alla sua natura incontrollata, era imputata la responsabilità di aver esasperato la conflittualità che aveva portato alla guerra e di aver causato la lunghezza e la straordinaria distruttività del conflitto. Anche in questo caso l’applicazione del principio fu però selettiva e unilaterale. Solo alla Germania s’impose di disarmare, con modalità peraltro draconiane: l’esercito era ridotto a 100.000 unità; era vietata la coscrizione obbligatoria; la Marina subiva drastiche limitazioni e non poteva essere dotata di sottomarini; s’impediva al nuovo Stato tedesco di dotarsi di un’aeronautica militare36. La questione nodale – che avrebbe maggiormente condizionato gli anni a venire – fu però quella delle riparazioni. Qui si venivano a intrecciare dimensione interna e internazionale e si rivelava pienamente uno dei volti dell’interdipendenza, che il conflitto non solo non aveva risolto, ma aveva anzi finito per esasperare. Sollecitati dalle rispettive opinioni pubbliche, i governi di Gran Bretagna e, soprattutto, Francia intendevano usare le riparazioni per punire la Germania e per indebolirla anche negli anni a venire. L’ostilità a questa logica da parte di Wilson si scontrava con l’indisponibilità statunitense a rinunciare ai crediti concessi agli alleati, che raggiungevano quasi i 10 miliardi di dollari, e alla consapevolezza che le ripara-

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zioni tedesche servivano a Parigi e Londra per fare fronte ai debiti contratti. Tra crediti alleati e riparazioni tedesche venne a determinarsi un legame strettissimo, che nessuno fu in grado di sciogliere: nemmeno gli Stati Uniti, che pure erano emersi dalla guerra in una posizione di superiorità relativa largamente accresciuta e che erano maggiormente interessati a evitare un eccessivo indebolimento tedesco. A Parigi fu deciso il principio che la Germania dovesse pagare delle riparazioni, ma non il loro ammontare, la cui definizione fu demandata a un’apposita commissione. Questa concluse i propri lavori due anni più tardi fissando la somma che Berlino avrebbe dovuto pagare alla cifra, astronomica, di 33 miliardi di dollari37. L’ultima concessione di Wilson si ebbe sulla questione delle colonie tedesche e, più in generale, sull’imperialismo. Residui di un’epoca passata e antitesi dell’autodeterminazione, i grandi imperi europei sopravvissero alla Prima guerra mondiale. Non poteva essere altrimenti e Wilson stesso si era guardato bene dall’invocare nei Quattordici punti l’indipendenza per le popolazioni coloniali e non ‘civilizzate’ di Francia e Gran Bretagna. Il confronto si svolse invece sulla distribuzione delle spoglie dell’impero tedesco (e di quello ottomano) e sulla definizione di un processo che avrebbe dovuto portare alla graduale emancipazione e indipendenza delle colonie dei due imperi. Rispetto a questo secondo aspetto, a Parigi si decise d’istituire un sistema di mandati a seconda del presunto grado di maturità e autonomia del soggetto colonizzato. I mandati – di tre tipi – furono assegnati alle potenze vincitrici, che avrebbero dovuto amministrare le colonie per conto della Società delle Nazioni avviandole sulla strada dell’indipendenza, ma che videro di fatto accresciuta la propria influenza imperiale. Particolarmente controversa fu la gestione delle colonie asiatiche della Germania. Il Giappone aveva partecipato alla guerra con lo specifico obiettivo di acquisire parte dei territori controllati dalla Germania in Estremo Oriente. Cosa che puntualmente avvenne: i possedimenti tedeschi a sud dell’Equatore passarono sotto il controllo di Australia e Nuova Zelanda; quelli a nord (alcune isole minori) furono invece assegnati al Giappone. Tokyo chiese però di ottenere il controllo della sfera d’influenza tedesca in Cina, nella regione di Shantung. Anche in questo caso un compromesso fu infine raggiunto: il Giappone mantenne i privilegi di cui godeva la Germania a Shantung; la regione tornò formalmente sotto la sovranità cinese; in cambio Cina e Giappone ri-

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nunciarono alla richiesta di fare inserire nel Covenant della Società delle Nazioni una dichiarazione di uguaglianza razziale che avrebbe contestato quella gerarchia di ‘civiltà’ (e razze) in cui gli statisti occidentali ancora credevano38. I tanti compromessi accettati a Parigi apparivano necessari a Wilson per giungere a un trattato di pace onnicomprensivo, che incorporasse anche la nascita della Società delle Nazioni. Ma riflettevano anche mediazioni necessarie per conciliare esigenze e punti di vista assai diversi. A dispetto di quanto affermato da alcuni studiosi, Wilson non peccò d’ingenuità né fu sconfitto diplomaticamente dagli scaltri statisti europei. Fu al contrario protagonista consapevole di un negoziato aspro e difficile, che parve spesso sul punto di fallire. I termini degli accordi e le modalità attraverso cui questi furono raggiunti resero però Wilson maggiormente vulnerabile sul piano interno, dove l’opposizione repubblicana guidata da Lodge (Theodore Roosevelt era morto all’inizio del 1919) si preparava a una dura battaglia. E fu proprio sul piano interno che a Wilson mancò quella capacità di mediazione e quella disponibilità al compromesso che avevano invece contraddistinto il suo operato a Parigi. Anche perché il compromesso che Wilson avrebbe dovuto accettare negli USA riguardava proprio quella Società delle Nazioni per la cui creazione si era accettato di indietreggiare più volte durante i negoziati di pace. Una parte importante delle trattative parigine era stata dedicata proprio alla creazione di una grande organizzazione internazionale per il dopoguerra. Anche in questo caso, i propositi e i proclami del tempo di guerra si erano rapidamente infranti contro gli scogli di una pace raggiunta attraverso una vittoria, che separava i vincitori dai vinti. Lo si vide bene quando si trattò di risolvere due nodi caratterizzanti la Società delle Nazioni: la definizione di chi ne avrebbe fatto parte e il suo assetto istituzionale. La Germania e le altre potenze sconfitte non furono incluse (come del resto la Russia sovietica). La struttura dell’organizzazione rifletté invece sia la gerarchia di potenza (e di civiltà) del sistema internazionale sia l’esito del conflitto. Accanto all’Assemblea, formata dai rappresentanti di tutti i paesi membri, e a un Segretariato investito di funzioni amministrative, fu infatti creato un Consiglio in cui sedevano membri permanenti (le potenze vincitrici) e non permanenti, eletti a rotazione dall’Assemblea. Assemblea e Consiglio dovevano adottare le loro deliberazioni all’unanimità, cosa che di fatto garantiva un diritto di veto generalizzato39.

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Caposaldo dell’intera struttura, e fondamento del sistema di sicurezza collettivo cui s’intendeva dare forma, era l’art. 10 del Covenant istitutivo della Società delle Nazioni, con il quale ci s’impegnava a «rispettare, e a proteggere contro ogni aggressione esterna, l’integrità territoriale e l’attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società» e che prevedeva, «in caso di aggressione, minaccia o pericolo di aggressione», che il Consiglio suggerisse le modalità con le quali tale «obbligo» doveva essere «adempito»40. Si trattava di una formulazione deliberatamente vaga e generica, che rifletteva l’esigenza politica di evitare impegni troppo vincolanti, ma che era coerente con la filosofia di fondo che ispirava Wilson. Il presidente statunitense credeva fermamente nella necessità di edificare un nuovo sistema globale, modificando pratiche e strumenti delle relazioni interstatuali per disciplinare virtuosamente l’interdipendenza e prevenire nuove guerre. Il suo, però, era un orientamento pragmatico, lontano dai formalismi neopositivisti dei profeti del diritto internazionale, ma anche dalle visioni di Taft, il quale, pur da un fronte politico diverso, sosteneva con convinzione la creazione della Società delle Nazioni. Quello di Wilson era un approccio cauto ed evoluzionistico, centrato sulla convinzione che fosse fondamentale far partire il progetto affinché esso potesse gradualmente sedimentarsi e costituire parte integrante – e invero architrave – dello scenario mondiale. Vi era un elemento burkiano e organicistico in tutto ciò: solo inserendo la nuova organizzazione internazionale nel corpo, ormai unitario e integrato, delle relazioni internazionali sarebbe stato possibile far sì che la Società delle Nazioni diventasse elemento vitale di tale organismo. Ma vi era, in questo atteggiamento prosaico, anche una compensazione dell’audacia sia dell’analisi wilsoniana della modernità e dei suoi pericoli sia della risposta che vi si doveva dare. La cautela, il pragmatismo, la spregiudicatezza, i compromessi, tutto era lecito per creare e istituzionalizzare un sistema di sicurezza collettivo capace di prevenire nuove catastrofi e di salvare la civiltà dall’abisso in cui essa aveva dimostrato di poter precipitare. La nuova Società delle Nazioni – affermò Wilson – rappresentava la «speranza del mondo»: una «garanzia definitiva di pace [...] contro l’aggressione» basata sulla «forza morale dell’opinione pubblica mondiale» e, laddove tale forza non fosse stata sufficiente, anche su quella «fisica»41. Proprio tale vaghezza, in particolare sull’uso della forza e sul-

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l’impegno richiesto ai paesi membri, rese però la Società delle Nazioni vulnerabile negli Stati Uniti. Per essere approvato, un trattato necessita del voto a maggioranza qualificata del Senato (i due terzi dei senatori presenti in aula al momento del voto). Già durante i negoziati parigini, Lodge – che dopo le elezioni del 1918 aveva assunto la presidenza della commissione Esteri del Senato – annunciò che non avrebbe sostenuto la nascita di un’organizzazione che non tutelava a sufficienza gli interessi statunitensi. Il proclama di Lodge fu appoggiato da 39 senatori su 100: un numero più che sufficiente per bloccare qualsiasi trattato. «Un improvvido tentativo di raggiungere la pace eterna», affermò il senatore del Massachusetts, non doveva portare a sacrificare «tutto quello che era stato vinto attraverso la guerra e il sacrificio»42. Le obiezioni all’accordo raggiunto a Parigi erano diverse, ma avevano un comune denominatore nella denuncia delle limitazioni alla sovranità degli Stati Uniti imposte dalla partecipazione alla Società delle Nazioni. Per questo, la richiesta fondamentale mossa dal gruppo di Lodge nei mesi della conferenza di Parigi era stata quella di giungere a una modifica dei termini dell’accordo che riconoscesse il primato degli USA nell’emisfero occidentale, riaffermando quindi la validità della Dottrina Monroe, e determinasse la cancellazione dell’art. 10, o quanto meno una sua radicale riformulazione. Beneficiando della mediazione di Taft, Wilson riuscì a far inserire nel Covenant un esplicito riferimento al fatto che la nuova organizzazione non avrebbe messo in discussione «accordi regionali come la Dottrina Monroe» (art. 21). Ma il presidente non era in alcun modo disponibile a mettere in discussione l’art. 10: «La spina dorsale dell’intero Covenant», come ebbe a definirla Wilson43. E fu sull’art. 10 che si consumò la battaglia politica interna che avrebbe portato alla sconfitta di Wilson. A confrontarsi erano una pluralità di posizioni, ovvero una varietà d’internazionalismi. Perché lo scontro non era tra isolazionisti e internazionalisti. I primi – contrari alla partecipazione statunitense alla Società delle Nazioni, qualsiasi fosse stata la sua forma – costituivano un’eterogenea minoranza politica e intellettuale, per quanto influente e, in alcuni suoi componenti, assai più sofisticata di quanto non si sia spesso sostenuto. Guidati dal senatore repubblicano e progressista dell’Idaho William Borah e dal senatore della California Hiram Johnson, gli isolazionisti contestavano la struttura di pace edificata a Parigi come espres-

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sione degli interessi imperiali britannici, rivendicavano la tradizione statunitense del non intervento negli affari mondiali e invitavano a concentrarsi sulle riforme sociali ed economiche interne. L’America – affermava Borah – poteva ambire a guidare il mondo con l’esempio, abbandonando l’utopia di un interventismo palingenetico che avrebbe finito per contaminarla ed europeizzarla. Per questo – sostenne il senatore dell’Idaho – invece di lanciarsi in crociate globali era necessario «rinnovare lo spirito nazionale» e ciò significava «non l’isolamento, ma la libertà di fare» ciò che il popolo statunitense riteneva «saggio e giusto»44. Minoritario nel paese, l’isolazionismo progressista e pacifista di Borah e Johnson poteva contare su circa una quindicina di sostenitori al Senato, che sarebbero divenuti noti come «inconciliabili» (irreconcilables) per la loro indisponibilità a qualsiasi compromesso45. Un approccio internazionalista era quindi decisamente predominante, sia al Congresso sia tra l’opinione pubblica: perché rifletteva la condizione di primato ormai maturata dagli USA sulla scena mondiale; perché era stimolato dall’esperienza della guerra e dalla paura che essa aveva catalizzato; perché, a dispetto degli appelli degli isolazionisti al Farewell Address di Washington e alla Dottrina Monroe, l’internazionalismo era maggiormente in sintonia con la cultura e la tradizione della politica estera statunitense, rispetto alle quali proprio l’isolazionismo anti-imperialista degli «inconciliabili» rappresentava un’eccentricità radicale e minoritaria. Il fronte internazionalista era però variegato e composito: separato da diverse visioni dell’ordine internazionale, diviso dal giudizio sugli accordi raggiunti a Parigi, lacerato da antagonismi politici e personali che, quelli sì, si sarebbero davvero rivelati inconciliabili. A confrontarsi erano almeno quattro diverse posizioni: quella del gruppo wilsoniano, corrispondente alla quasi totalità dei senatori democratici (45 su 47), favorevole all’approvazione senza cambiamenti del trattato concordato a Parigi; quella dei repubblicani favorevoli alla Società delle Nazioni, guidati da Taft e rappresentati da un’influente organizzazione internazionalista creata nel 1915, la League to Enforce Peace, anch’essi sostenitori della Società delle Nazioni, ma disponibili a ulteriori revisioni del Covenant pur di garantirne l’approvazione; i repubblicani legati a Lodge e Theodore Roosevelt, filobritannici durante tutta la guerra, sostenitori di una drastica punizione della Germania e disponibili a votare a favore di un’organizza-

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zione internazionale che non avesse violato l’autonomia e la sovranità statunitense (per questo furono ribattezzati reservationists, in quanto favorevoli con delle «eccezioni», o reservations, al Covenant); una parte dell’intellighenzia liberale e progressista, che in Wilson aveva riposto forte fiducia, ma che si sentiva tradita dai tanti compromessi parigini (in particolare quello su Shantung), dal carattere vago e annacquato del Covenant, incluso l’art. 10, e dal fatto che la Società delle Nazioni sarebbe stata utilizzata per preservare uno status quo iniquo e discriminatorio. A prendere le distanze da Wilson furono non solo i magazine della sinistra progressista come «The Nation» e la «New Republic», ma anche molti giovani membri della delegazione statunitense a Parigi, come il futuro ambasciatore statunitense a Mosca, William Bullit, che si dimise per protesta annunciando che sarebbe andato in «spiaggia a osservare il mondo che precipitava verso l’inferno». La «New Republic» diede voce a questo disappunto quando ammise che gli oppositori conservatori di Wilson avevano infine avuto ragione: «Su Wilson avevano ragione loro e torto noi», proclamò il settimanale nel maggio 1919; «noi abbiamo sperato e perso. Loro non hanno sperato e non hanno perso»46. La defezione di molti liberal aveva un impatto politico relativo al Congresso, ma rappresentava un danno d’immagine non secondario per Wilson. Soprattutto, avrebbe dovuto obbligarlo a uno sforzo negoziale maggiore con i suoi vecchi avversari politici per compensare la perdita di appoggio e sostegno a sinistra e per contrastare gli isolazionisti. Il presidente seguì invece una linea opposta. Come già prima della conferenza di Parigi, quando si era rifiutato di dare una connotazione bipartisan alla delegazione statunitense, Wilson scelse la strada dello scontro frontale. Rientrato in patria, difese il Covenant e assunse una posizione inflessibile rispetto a una sua qualsiasi modifica. Nel farlo attinse a un lessico roboante e millenarista, esasperando una contesa nella quale ognuna delle parti in causa accusava l’altra di tradire tanto gli interessi quanto i principi degli Stati Uniti. La «mano di Dio» – affermò Wilson richiamando toni da manifest destiny – aveva «guidato» gli Stati Uniti verso la posizione in cui si trovavano: essi non potevano permettersi di rifiutare una simile chiamata e, facendolo, «spezzare il cuore del mondo». Dichiarazioni, queste, povere di «vero americanismo» per il senatore (e futuro presidente) William Harding, dell’Ohio; «bolle di sa-

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pone e soufflé verbali» secondo il senatore Frank Brandagee del Connecticut47. Alla rigidità di Wilson si contrappose quella di Lodge. Facendo leva su un’eurofobia dalle radici antiche (e che strideva assai con la sua anglofilia patrizia ed elitaria), il senatore del Massachusetts presentò gli accordi di Parigi e la Società delle Nazioni come una replica aggiornata del concerto di potenza creato dal Congresso di Vienna più di un secolo prima: un’alleanza incaricata di preservare lo status quo globale e d’intervenire per mantenere l’ordine e la stabilità. «Questa lega per l’imposizione della pace», proclamò Lodge in un celebre intervento al Senato, «fa molto per l’imposizione e molto poco per la pace»; la Società delle Nazioni era la «realizzazione deforme di un nobile obiettivo»; gli USA non potevano accettare di vedere «il loro vigore esaurito e la loro forza morale indebolita dalla continua e disorientante ingerenza in ogni disputa, grande e piccola, che avviene nel mondo»48. Oltre alla dimensione politica, la contrapposizione esprimeva anche uno scontro istituzionale tra una presidenza che aveva largamente esteso le sue prerogative e un Congresso desideroso di riaffermare il proprio ruolo, ripristinando così un equilibrio di poteri venuto progressivamente meno durante la guerra. Al contempo, entrambe le parti calibravano le proprie posizioni e i propri interventi con un occhio alle elezioni presidenziali del 1920. Wilson, anzi, riteneva che un eventuale affossamento della Società delle Nazioni da parte del Senato non avrebbe chiuso la contesa, ma avrebbe costituito la ragione per candidarsi a un terzo mandato che non aveva precedenti, trasformando così le prossime elezioni presidenziali in un referendum sulla Società delle Nazioni e, più in generale, sull’internazionalismo wilsoniano49. Anche per questo, nel settembre del 1919 Wilson decise d’intraprendere un lungo tour negli Stati Uniti per spiegare le ragioni che obbligavano il paese ad approvare il trattato di pace e a diventare membro della Società delle Nazioni. Di fronte alle difficoltà politiche, Wilson tornava così ad appellarsi a quell’opinione pubblica che egli riteneva più illuminata, onesta e in ultima istanza pacifica e cosmopolita dei suoi rappresentanti politici50. Il viaggio di Wilson partì da Columbus, Ohio, e proseguì nel cuore degli Stati Uniti. Il presidente tenne spesso due discorsi al giorno di fronte a folle che raggiungevano a volte le 20.000 persone e senza

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alcun impianto di amplificazione. I trasferimenti notturni in treno erano utilizzati per dormire. Più di venti corrispondenti furono autorizzati a viaggiare con Wilson, con l’obiettivo di dare la massima copertura giornalistica possibile al tour. Nei suoi discorsi, non sempre coerenti e strutturati, Wilson difese con forza crescente la Società delle Nazioni e gli accordi di pace: che non offrivano una «garanzia assoluta contro la guerra», ma almeno un’«assicurazione a copertura del 98% del rischio». Facendolo, intrecciò sempre più internazionalismo e nazionalismo, avvolgendo il suo progetto di sicurezza collettiva nel manto del patriottismo. Agli Stati Uniti spettava il compito di «garantire la salvaguardia della civiltà o di abbandonarla»: se «l’America» avesse «voltato le spalle all’umanità, l’umanità non» avrebbe avuto «nessun altro a cui rivolgersi». Gli USA dovevano accettare quanto era stato offerto loro, «la guida del mondo», perché questo era il loro destino e la loro responsabilità. A dispetto di quanto affermavano i suoi avversari, internazionalismo e americanismo erano facce della stessa medaglia: «Il più grande nazionalista», proclamò Wilson, «è colui che vuole che la propria nazione sia la più grande al mondo». Se gli USA non avessero assunto tale responsabilità, «entro una generazione vi sarebbe stata una nuova guerra», di fronte alla quale gli USA si sarebbero trovati soli, armati e inevitabilmente governati da un governo militare di tipo «prussiano». Come la guerra, anche la campagna per l’approvazione della pace che ne era seguita andava combattuta per salvare la democrazia statunitense: tra questa, la nuova struttura di sicurezza collettiva e l’egemonia statunitense che essa imponeva vi era, secondo Wilson, una mutua dipendenza, strettissima e ineludibile51. Inasprito dalle altitudini delle Montagne Rocciose e da una fine estate particolarmente calda, l’immane sforzo fisico imposto dal viaggio rese ancora più precario lo stato di salute di Wilson, già debilitato da problemi cardiaci e respiratori. Alla fine del mese il viaggio fu interrotto e Wilson tornò a Washington. Pochi giorni più tardi, fu colpito da un infarto che ne paralizzò una parte del corpo e ne danneggiò gravemente la vista. Wilson usciva così dalla contesa pubblica. Lo faceva al termine del «maggiore sforzo di persuasione mai compiuto da qualsiasi presidente a difesa della propria politica estera», nel quale l’obiettivo di «educare» l’opinione pubblica s’intrecciava con quello di ottenere da essa un’investitura forte da utilizzare nello scontro con Lodge e i repubblicani52.

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Se è impossibile misurare il successo del viaggio di Wilson, gli storici sono invece concordi nel ritenere minima la sua influenza sul dibattito al Senato. Eletti con mandati di sei anni, i senatori sono meno condizionabili dalle contingenze e dalla volatilità del dibattito pubblico. La sfida di Wilson finì anzi per irrigidire le posizioni dei diversi campi. La quindicina di «inconciliabili» erano schierati sulla linea del rifiuto pregiudiziale; i 45 democratici wilsoniani seguivano il presidente, anche se alcuni di essi non ne condividevano l’inflessibilità; Taft cercava di mediare; Lodge e la maggioranza dei repubblicani erano disponibili ad approvare solo la nascita di una Società delle Nazioni assai diversa rispetto a quella negoziata a Parigi. La commissione Esteri del Senato presentò una relazione di maggioranza in cui si proponevano 45 emendamenti e quattro reservations agli accordi di Parigi. Gran parte degli emendamenti fu bocciata al Senato (con maggioranza semplice). Alla fine di ottobre, Lodge presentò quattordici reservations, tante quante i famosi punti di Wilson. Esse prevedevano tra le altre cose il diritto di ritirarsi unilateralmente dalla Società delle Nazioni, l’esclusione delle questioni interne e della Dottrina Monroe dalla giurisdizione della Società, la possibilità di eccedere i limiti fissati sugli armamenti, il rifiuto della soluzione trovata su Shantung. Ma il vero obiettivo era l’art. 10. La reservation su di esso («Gli Stati Uniti non assumono alcun impegno alla preservazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di qualsiasi altro paese») limitava grandemente gli obblighi che l’articolo avrebbe imposto e richiedeva il voto di entrambe le Camere per autorizzare l’eventuale uso della forza53. Alcuni senatori democratici cercarono senza successo di convincere Wilson ad accettare l’approvazione del trattato con le eccezioni. Il trattato con le reservations fu bocciato con 55 voti contrari (quasi tutti i democratici e gli «inconciliabili») e 39 favorevoli; quello senza reservations fu bocciato con 53 voti contrari (i repubblicani di Lodge e gli «inconciliabili») e 38 favorevoli. Il sogno di Wilson di trasformare le elezioni del 1920 in un grande referendum sulla politica estera e sulla Società delle Nazioni si infranse contro le precarie condizioni di salute del presidente (che non recuperò mai dall’infarto e morì nel 1924), il crescente disinteresse dell’opinione pubblica e la richiesta di tornare a una normalità minacciata sia dalle tensioni sociali e politiche del dopoguerra sia da uno scontro – quello a cui si era assistito al Senato e nel paese – che non sembrava avere mai

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termine. Il candidato democratico, il governatore dell’Ohio James Cox, e soprattutto il suo vice, il futuro presidente Franklin Delano Roosevelt, sostennero la Società delle Nazioni e il disegno wilsoniano. Le elezioni costituirono però una disfatta per i democratici. Il repubblicano Warren Harding fu eletto presidente con uno scarto di 26 punti percentuali rispetto a Cox, il margine più ampio nella storia delle elezioni presidenziali del XX secolo. La Società delle Nazioni sorgeva senza la partecipazione degli Stati Uniti. Il sistema di sicurezza post-Prima guerra mondiale mancava dell’unico soggetto in grado di guidarlo e di farlo funzionare: era un sistema parziale e affatto collettivo, come si scoprì di lì a poco, quando si sarebbe realizzata la fosca profezia di Wilson e un nuovo, devastante conflitto mondiale avrebbe visto la luce.

4. Il wilsonismo. Un bilancio Su Wilson e il wilsonismo è stato scritto tutto e il suo contrario. Troppo a lungo ingabbiati entro una polarità fittizia e assai rozza, quella tra realismo e idealismo (di cui Wilson sarebbe stato l’incarnazione estrema), gli studi su Wilson hanno in tempi recenti sofferto della propensione ad attribuirgli capacità profetiche e visioni del futuro che egli non aveva né poteva avere. Come si è visto negli ultimi anni, l’aggettivo «wilsoniano» è divenuto una comoda etichetta da appiccicare a qualsiasi azione di politica estera degli Stati Uniti, quasi sempre in contrapposizione a un’altra categoria, abusata, mal applicata e fraintesa, quella di isolazionismo54. Wilson fu uomo del suo tempo e nel suo tempo, legato a tradizioni e percorsi storici dell’azione internazionale degli Stati Uniti, organico ai canoni ideologici e discorsivi dell’internazionalismo statunitense, obbligato dalle circostanze, da una guerra senza precedenti e dalla crisi autodistruttiva dell’Europa a dare forma concreta a un sogno e a una prescrizione antichi quanto gli USA, ma mai chiaramente definiti e formalizzati: l’idea che il sistema internazionale dovesse conoscere una trasformazione radicale della sua struttura e del suo modus operandi e che spettasse agli Stati Uniti catalizzare e guidare questa palingenesi. Gli elementi di continuità del progetto wilsoniano con il passato

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vicino e lontano furono molti. Wilson diede voce alla storica vocazione universalistica del nazionalismo statunitense: a un’ideologia che in passato si era realizzata nell’espansionismo e nella rivendicazione del ruolo unico assegnato dalla storia alla repubblica nordamericana. A dispetto di molte accuse, coeve e successive, l’elemento eccezionalista connotò l’approccio di Wilson e rappresentò un elemento essenziale del suo disegno internazionalista. Gli storici si sono spesso scontrati sull’influenza esercitata dalla religione sul pensiero wilsoniano55. Intrisi di implicita religiosità o meno, la filosofia, l’approccio e il discorso di Wilson si contraddistinguevano nondimeno per il loro radicale messianismo; per la convinzione che gli USA fossero investiti di una missione esistenziale, il cui compimento era stato reso inderogabile dal dramma della Prima guerra mondiale; per la riproposizione dell’idea che vi fosse un’identità piena e incontestata tra i principi, i valori e gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’umanità, o quanto meno della sua parte ‘civilizzata’ e matura56. Quello wilsoniano era a tutti gli effetti un rinnovato eccezionalismo; un nuovo manifest destiny, ripensato e adattato al mutato scenario internazionale e, ancor più, a equilibri di potenza alterati in profondità dall’ascesa degli Stati Uniti. Un secondo elemento di continuità con il passato era rappresentato dalle modalità con cui si denunciava il tradizionale imperialismo europeo e dal legame fra tale denuncia e l’assunzione da parte degli Stati Uniti della leadership mondiale. Non mi riferisco tanto alle ambiguità – peraltro emblematiche – con cui la questione imperiale fu discussa a Parigi e alla soluzione dei mandati che venne lì concepita. L’elemento fondamentale risiedeva piuttosto nella riaffermazione di un imperialismo anti-imperialista dalle matrici al contempo nuove e antiche. L’universalismo della Società delle Nazioni e del comune denominatore dell’autodeterminazione rimandava per molti aspetti all’antico sogno jeffersoniano di una diffusione cellulare infinita del modello, esemplare e universalmente riproducibile, di libertà affermatasi in Nordamerica. Più prosaicamente, i Quattordici punti e il Covenant della Società delle Nazioni contenevano molte delle rivendicazioni classiche dell’internazionalismo statunitense (porta aperta, libertà dei mari, diritti dei neutrali), che più avevano contribuito all’ascesa di un impero sui generis e post-territoriale entro un ordine internazionale liberale e capitalista, quale era quello statunitense. Non a ca-

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so le logiche e gli strumenti della diplomazia del dollaro furono fatti propri anche da Wilson, come si vedrà nel prossimo capitolo57. Infine, le proposte concrete avanzate da Wilson erano debitrici della riflessione del decennio precedente, in particolare quella delle organizzazioni pacifiste e internazionaliste britanniche e statunitensi. Dalla conferenza dell’Aja del 1899 in poi il tema della trasformazione delle relazioni internazionali, del superamento dell’equilibrio di potenza e dell’edificazione di un sistema di sicurezza collettiva aveva impegnato intellettuali, giuristi e politici. Il dibattito era stato particolarmente serrato negli USA. I progetti wilsoniani furono influenzati da questa discussione, dalla sua parziale ricezione nei trattati d’arbitrato negoziati da Taft e dall’azione di lobbying di organizzazioni assai diverse, come la League to Enforce Peace, le associazioni del pacifismo, incluso quello femminista, i movimenti sindacali e il Partito socialista58. Rispetto a queste continuità, ciò che colpisce del wilsonismo e che lo qualificò e distinse fu la radicalità del discorso più che la novità del progetto. Wilson inserì due aspetti almeno in parte nuovi entro una retorica, quella politica statunitense, mai priva di eccessi e da sempre popolata di peccatori e redentori, tragedie e resurrezioni, abissi e riscatti. Il primo fu rappresentato dalla fiducia nelle opinioni pubbliche, interna e internazionale, nelle loro inclinazioni pacifiche, morali e illuminate e nella possibilità che esse costituissero l’architrave di un sistema mondiale riformato e razionale. A queste opinioni pubbliche Wilson si rivolse come mai era stato fatto prima di allora, in uno sforzo che era simultaneamente pedagogico e politico: per educarle, mobilitarle, convincerle, ma anche per ottenere da esse un sostegno e un’investitura di legittimità attraverso cui fronteggiare i suoi oppositori, dentro e fuori gli Stati Uniti. E proprio la sottolineatura vieppiù intensa dell’autodeterminazione e della democrazia si legava a questa volontà di dare voce alle opinioni pubbliche e di arruolarle nella sua campagna per porre termine a tutte le guerre59. Anche per questo il discorso wilsoniano erodeva vie intermedie e tendeva a polarizzare la contrapposizione tra internazionalismo assoluto e anti-internazionalismo radicale (ossia isolazionismo). Quella via mediana e di sintesi che in passato era stata spesso trovata e percorsa scompariva dall’orizzonte di un dibattito esasperato dalla volontà di mobilitare le opinioni pubbliche, ma condizionato in modo decisivo dalla portata della tragedia in atto. In conseguenza del-

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la guerra l’internazionalismo fiducioso e ottimistico del decennio precedente aveva lasciato spazio a un internazionalismo reattivo alla paura e alla crisi; un internazionalismo, il secondo, che non si poteva permettere pause, compromessi e ritardi, pena il tracollo della civiltà e, con essa, degli stessi Stati Uniti. La radicalità del discorso wilsoniano andò accentuandosi al procrastinarsi del conflitto, all’intensificarsi della sua distruttività e al pieno manifestarsi della sua natura pandemica e globale. Wilson spinse un dibattito antico oltre i suoi limiti usuali, contribuendo alla trasformazione della cultura di politica estera del Partito democratico e ponendo le premesse per l’egemonia di una filosofia internazionalista radicale. A essere messe in discussione dal presidente non furono più le modalità con cui gli USA dovevano calarsi nelle vicende mondiali, ma se essi dovessero farlo, laddove una risposta positiva non comportava solo un impegno moderato, condiviso con gli altri soggetti ‘civilizzati’, come ritenevano Lodge e i repubblicani, ma l’assunzione piena e indiscussa della leadership mondiale. Questa polarizzazione – politica e culturale – non fu immediatamente compresa nel 1919-20, perché la discussione pubblica avvenne allora tra varianti diverse d’internazionalismo. Quando, però, gli Stati Uniti si trovarono a fronteggiare una nuova devastante crisi negli anni Trenta, l’unica alternativa plausibile a una visione radicalmente internazionalista sarebbe stata rappresentata da un isolazionismo estremo, disposto a rinunciare, come vedremo, anche alla rivendicazione storica e fondativa della politica estera statunitense, quella dei diritti di neutralità. Wilson, in altre parole, contribuì in modo decisivo alla formazione di una coscienza internazionalista estrema nella forma, polarizzante nel dibattito politico interno e, spesso, binaria nelle categorie e nelle partizioni usate per leggere il sistema internazionale, definire il ruolo che vi avrebbero svolto gli Stati Uniti e prevedere il futuro. Il terzo e ultimo elemento di novità fu rappresentato dal graduale emergere di una «coscienza geopolitica»60. La piena affermazione di tale «coscienza» si sarebbe avuta solo negli anni Trenta, con l’ascesa dei totalitarismi e il delinearsi del disegno imperiale nazista. Ma la guerra, la sua incontrollata diffusione, la manifestazione del lato oscuro e distruttivo dell’interdipendenza indussero Wilson a esplicitare una visione olistica e globale della sicurezza degli Stati Uniti, fondata sulla convinzione che essa dipendesse dal corso della storia globale e dalla necessità specifica di evitare che una singola po-

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tenza potesse controllare l’Eurasia e le sue risorse. Il pericolo non era tanto e solo che tali risorse venissero mobilitate contro gli Stati Uniti, beneficiari di un credito di sicurezza (gli oceani) che li rendeva ancora inattaccabili. Il rischio era invece che gli USA, e la loro democrazia, fossero costretti a snaturarsi per far fronte a tale sfida; fossero obbligati a uno sforzo di mobilitazione permanente che li avrebbe costretti a «prussianizzarsi» e a trasformarsi in uno «Stato fortezza» (garrison state), per citare due delle metafore maggiormente utilizzate dopo di allora61. Se questi erano, in estrema sintesi, gli elementi di continuità e di rottura di Wilson e del suo progetto, quali furono i suoi principali limiti e le ragioni del suo fallimento ultimo? Gli errori tattici e negoziali, a Parigi così come nella battaglia persa al Senato, furono molti e sono stati debitamente enfatizzati dagli storici. Soprattutto sul piano interno, Wilson poteva cercare una qualche forma di compromesso, che avrebbe reso possibile la partecipazione alla Società delle Nazioni e sarebbe in fondo stato congruente con la sua visione gradualista ed evoluzionistica. Lodge e i reservationists hanno molte responsabilità per il fallimento ultimo del disegno wilsoniano, ma le loro reservations finali rappresentavano un primo indietreggiamento che si sarebbe potuto cogliere. Le condizioni di salute di Wilson, il suo isolamento, la sua notoria inflessibilità e la speranza di fare delle elezioni del 1920 un referendum sulla politica estera lo indussero a una rigidità che si sarebbe rivelata infine perdente62. A monte, però, agivano alcune contraddizioni strutturali del disegno wilsoniano e della sua filosofia universalista. La prima, stridente, era quella tra un universalismo omologante e un particolarismo che era in parte accolto nell’idea dell’autodeterminazione. Wilson era consapevole e preoccupato della forza di un nazionalismo estremo, che la guerra e i revanscismi da essa alimentati avevano finito per esasperare. Ma la soluzione immaginata si rivelò doppiamente contraddittoria. L’universalismo dei principi generali contenuti nei Quattordici punti rimuoveva peculiarità e differenze; rendeva indifferenziata e omogenea una realtà, quella mondiale, frastagliata e complessa, non esauribile entro le categorie dell’internazionalismo liberale wilsoniano o attraverso la partizione, elementare e binaria, tra soggetti ‘civilizzati’ e soggetti ‘non civilizzati’. L’utilizzo dell’autodeterminazione come strumento con cui ridisegnare un’Europa fondata sugli Stati-nazione finì a sua volta per acutizzare quei

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nazionalismi che s’intendeva invece soddisfare e quindi sedare. Secondo alcuni studiosi, una Società delle Nazioni efficace e flessibile, sotto la guida degli USA, avrebbe forse potuto gestire le crisi che sarebbero sorte di lì a poco, attraverso ridefinizioni concordate e consensuali dei precari confini postbellici. È una tesi difficile da accettare. A dispetto di guerre, accordi e trasferimenti di popolazioni, il principio di nazionalità offriva una bussola comunque incompleta e parziale per definire la mappa dell’Europa postbellica: per l’ambiguità stessa del concetto di nazione; per il lascito di secoli d’intrecci, contatti, mescolanze e conflitti; perché una guerra conclusasi con una vittoria non poteva non obbligare a deroghe ed eccezioni63. È questo il secondo grande limite del progetto wilsoniano. L’ordine che Wilson aveva in mente, e la comunità di potenza che sarebbe dovuta sorgere, si fondavano sul presupposto di un’eguaglianza e di una pariteticità tra i suoi membri legittimi (le potenze ‘civilizzate’) che si rivelò invece impossibile da rispettare. Fu anche per poter condizionare i termini della pace che Wilson decise di portare gli Stati Uniti in guerra. Facendolo, però, accettò l’idea che la pace sarebbe stata raggiunta con una vittoria che separava, discriminava, creava una precisa gerarchia di potenza e riduceva ulteriormente la coerenza con cui era applicata l’autodeterminazione. Una vittoria che poneva in altre parole le premesse di una pace punitiva che Wilson avrebbe accettato e in parte giustificato, ma che viziava sul nascere il nuovo ordine internazionale. Si potrebbe argomentare, infine, che proprio l’andamento e la conclusione del conflitto avrebbero impedito la realizzazione del disegno di Wilson. Per quanto drammatica, immensamente costosa e distruttiva, la Prima guerra mondiale non fu sufficiente per catalizzare una volontà di rottura piena con il passato; l’Europa non giunse sufficientemente vicina al precipizio. Soprattutto negli USA si diffuse rapidamente l’idea che la guerra avesse costituito una folle parentesi, un momento delirante di sospensione della razionalità collettiva destinato a non ripetersi. Fu questa la lettura che prevalse nei ruggenti anni Venti. Ma assieme all’idea che essa avesse rappresentato una parentesi, e non un allarmante precedente la cui ripetizione andava prevenuta attraverso una radicale trasformazione del sistema internazionale, la guerra alimentò un ulteriore fattore che contrastava con l’universalismo wilsoniano. Essa stimolò ed esasperò quella «bestia del patriottismo» dalla quale gli USA stessi furono di-

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vorati. In Europa, ciò alimentò punitivismi e revanscismi, come si sarebbe visto di lì a poco. Negli USA stimolò un’ondata repressiva che finì per limitare la base di consenso di cui Wilson disponeva, rafforzando le posizioni dei difensori dell’interesse nazionale, come Lodge, e indebolendo l’internazionalismo wilsoniano. Tante dinamiche che portarono alla sconfitta di Wilson originarono da processi che erano al di fuori del suo controllo. Su quest’ultima, però, le responsabilità e le colpe di Wilson furono gravi e in ultima istanza imperdonabili64.

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1. I ruggenti anni Venti e l’internazionalismo senza responsabilità La Prima guerra mondiale rappresentò un passaggio nodale nell’ascesa degli Stati Uniti a principale, se non unica, potenza globale. La partecipazione degli USA fu decisiva nella risoluzione del conflitto; la loro mancata adesione alla Società delle Nazioni minò da subito la capacità dell’organizzazione di adempiere alle funzioni che le erano state assegnate; la trasformazione degli USA in paese creditore, con il quale il resto del mondo era indebitato per una cifra superiore ai 12 miliardi di dollari, garantì che gli Stati Uniti rimanessero strettamente coinvolti nelle vicende internazionali e ne condizionassero l’andamento come nessun’altra potenza era in grado di fare. Così come la sconfitta di Wilson non rappresentò la vittoria di un isolazionismo tanto radicale quanto minoritario, il decennio postbellico non fu un periodo d’isolamento degli USA. È vero il contrario. Gli Stati Uniti s’impegnarono come mai prima di allora sulla scena internazionale, assumendo una posizione di guida in alcune delle più eclatanti iniziative dell’epoca. Lo fecero in nome di una visione e di una filosofia internazionaliste che accomunarono, pur con alcune differenze, le tre amministrazioni repubblicane del periodo 1921-33 (Harding, Coolidge e Hoover). Lo fecero con una serie di obiettivi precisi, legati in particolare alla situazione di precarietà venutasi a determinare in Europa al termine del conflitto. E lo fecero nella convinzione, in parte fondata, che la posizione di primato maturata dagli USA durante il conflitto garantisse loro una capacità di

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influenzare le scelte delle altre principali potenze di cui non avevano potuto disporre in passato. La filosofia è stata sintetizzata con varie formule: «internazionalismo indipendente», «internazionalismo normale» e «ottimista», «internazionalismo conservatore»1. Le sue premesse erano assai simili a quelle che avevano contraddistinto il decennio che precedette la guerra: ottimismo sul corso della storia e sul ruolo di guida del sistema internazionale che gli USA erano destinati ad assumere; convinzione che il conflitto avesse rappresentato un’aberrazione e una parentesi, un momento di sospensione della razionalità collettiva, destinato a non ripetersi e a lasciare spazio a una rinnovata armonia e collaborazione tra gli Stati; fiducia negli strumenti economici e finanziari e nella loro capacità di catalizzare una convergenza d’interessi tra le potenze ‘civilizzate’ e più progredite; universalizzazione delle logiche della porta aperta e di un linguaggio transnazionale tecnocratico, moderno e liberale, centrato sull’apertura dei mercati, la diffusione degli scambi commerciali e l’adozione di modelli scientifici di produzione ispirati alle pratiche vieppiù sviluppate e diffuse negli USA; fede nell’influenza benefica di un’opinione pubblica internazionale capace ora, con la sconfitta delle autocrazie tedesca e austro-ungarica, di far sentire pienamente la propria voce2. L’obiettivo generale era quello di edificare e consolidare un ordine internazionale liberale, congruente con i valori, gli interessi e l’identità degli Stati Uniti. A questo obiettivo generale ne sottostavano però altri, dipendenti dalla situazione contingente, in particolare in Europa. La costruzione di tale ordine dipendeva dal (ed era funzionale al) raggiungimento di una stabilità che era minacciata dal precario equilibrio europeo, dalle preoccupazioni della Francia per la propria sicurezza e dall’impossibile condizione in cui versava la nuova repubblica tedesca, che da subito si rivelò incapace di far fronte alle riparazioni che le erano state imposte al termine del conflitto. L’armoniosa collaborazione di potenza, sotto la tutela e la leadership degli Stati Uniti, vagheggiata da Washington imponeva un impegno senza precedenti in materia di disarmo e riduzione degli armamenti. L’interesse a tutelare ed espandere gli investimenti privati statunitensi si combinava con quello a evitare forme d’intervento diretto del governo americano che rimanevano assai impopolari negli USA. Sullo sfondo agiva un elemento, e uno spettro, nuovo: il controuniversalismo proiettato dall’Unione Sovietica, la sfida che questo lan-

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ciava all’ordine liberale auspicato dagli USA e la necessità conseguente di contenerne la diffusione, in Europa e nel resto del mondo, fronteggiando i tanti focolai rivoluzionari senza però facilitare una reazione autoritaria, statalista e di destra che in modo diverso confliggeva anch’essa con la visione dominante negli USA. Per questi motivi era necessario sostanziare il nuovo afflato, internazionalista ancorché cauto e conservatore, della visione di politica estera dominante negli USA con un intervento attivo nelle vicende mondiali. Sintetizzando, si può sostenere che le forme assunte da tale internazionalismo fossero sostanzialmente tre e operassero nel campo delle relazioni economiche, di quelle culturali e, infine, degli armamenti, e più in generale della guerra. 1.1. L’internazionalismo conservatore e la messa al bando della guerra È esagerato sostenere, come ha fatto lo storico Akira Iriye, che il pacifismo abbia costituito negli anni Venti un’«ideologia egemonica» sulla scena internazionale. Venti di guerra soffiarono ovunque e il militarismo non fu affatto sconfitto. Ma almeno negli USA maturò il convincimento che la pace rappresentasse la condizione normale, e invero normativa, delle relazioni tra gli Stati e che la guerra dovesse cessare di essere uno strumento al servizio della politica delle grandi potenze per trasformarsi in un’anomalia; in una degenerazione da prevenire, ripudiare e bandire3. Nel nutrire questa convinzione agiva in modo ambivalente il retaggio del primo conflitto mondiale. Da un lato, esso alimentava un desiderio di oblio e una conseguente inclinazione a ritenere si fosse trattato di una parentesi, estrema e anormale, che aveva fermato in modo temporaneo ancorché drammatico un percorso storico che rimaneva progressivo, lineare e ineluttabile. Dall’altro, la memoria della guerra, dei suoi drammi e della minaccia che essa aveva portato al mondo ‘civilizzato’ sembrava conferire nuova urgenza all’attivazione di meccanismi che prevenissero una sua ripetizione e mettessero sotto controllo la distruttiva e incontrollata corsa agli armamenti. In questo secondo caso, operava uno degli elementi cardinali della lettura che Wilson aveva dato della crisi del 1914-18 e della proposta politica che ne era conseguita. Anche nell’era postwilsoniana il disarmo doveva rappresentare il fondamento e la premessa di un nuovo modo di fare politica e della conseguente trasformazione dell’ordine internazionale.

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Il decennio successivo alla Prima guerra mondiale fu caratterizzato da una serie di accordi importanti in materia di armamenti e da un ripudio pubblico della guerra che non aveva precedenti. I momenti più importanti furono le conferenze di Washington (1921-22) e di Londra (1930) e il trattato Briand-Kellog (1928). Sollecitati negli USA da un fronte politico eterogeneo, che includeva sia Borah sia Lodge, accomunato dalla convinzione che le spese militari fossero in larga misura inutili e improduttive, questi vertici produssero accordi dalla forte rilevanza pratica e simbolica. A Washington si decise di limitare il numero di imbarcazioni da guerra di grandi dimensioni – corazzate, incrociatori e portaerei – di cui potevano disporre le principali potenze mondiali: Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Italia e Francia. I cinque s’impegnarono a un periodo di «vacanza navale», durante il quale non avrebbero costruito tali navi. Fu fissato un limite massimo di tonnellaggio e definita sulla base di questo una proporzione tra le capacità dei paesi firmatari. A Stati Uniti e Gran Bretagna si concedeva la possibilità di raggiungere tale limite massimo (525.000 tonnellate per corazzate e incrociatori, 135.000 tonnellate per portaerei). Al Giappone si concedeva un tonnellaggio complessivo equivalente ai tre quinti di quelli di USA e Gran Bretagna; Italia e Francia erano autorizzate a disporre di un tonnellaggio complessivo equivalente ai sette ventesimi di quello britannico e statunitense. Il «trattato delle cinque potenze», come venne ribattezzato, fu integrato da altri due accordi relativi alla Cina e all’Estremo Oriente nei quali si affermava l’impegno alla porta aperta e alla preservazione dell’indipendenza e dell’integrità territoriale della Cina. Anche in questo caso la rilevanza pratica degli accordi si sommava a quella simbolica. Essi incarnavano infatti quello spirito di collaborazione tra le grandi potenze in cui gli USA credevano e che doveva rappresentare una delle fondamenta di un sistema internazionale razionale, maturo e pacifico4. Accolti con entusiasmo negli USA, gli accordi parvero simboleggiare l’inizio di una nuova era o, meglio, la ripresa di un cammino che la Grande guerra aveva solo temporaneamente interrotto. Essi combinavano le tre caratteristiche chiave dell’internazionalismo ottimista e conservatore che dominò l’approccio di politica estera degli USA in quegli anni: la natura consensuale e collaborativa dell’operato delle grandi potenze; la fiducia nella razionalità umana, che trovava realizzazione emblematica nella capacità di limitare e addi-

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rittura mettere al bando strumenti di morte e di distruzione quali erano le navi da guerra (in conseguenza degli accordi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone furono obbligati a distruggere imbarcazioni esistenti e ad abbandonare programmi di potenziamento navale già avviati); il ruolo di guida, politica ed etica, assunto dagli Stati Uniti e simboleggiato dalla posizione di primato in ambito navale che l’accordo garantiva loro, pur in un periodo di denuncia e riduzione delle spese militari5. I trattati di Washington sarebbero stati vieppiù contestati e aggirati, soprattutto dal Giappone e dalla Gran Bretagna. Dopo il fallimento della conferenza di Ginevra del 1927, un secondo accordo fu trovato a Londra nel 1930. In tale occasione, venne lievemente rivista a vantaggio del Giappone la relazione tra il tonnellaggio complessivo delle Marine delle cinque potenze e si ribadì l’impegno, ben presto disatteso, a non costruire nuove imbarcazioni da guerra di grandi dimensioni. L’apice dello spirito pacifista dell’epoca si era però raggiunto con il trattato Briand-Kellog, firmato a Parigi nel 1928. Inizialmente concepito come un accordo bilaterale franco-statunitense, il trattato fu sottoscritto da 33 paesi, inclusa la stessa Unione Sovietica. L’accordo impegnava i contraenti a «rinunciare alla guerra come strumento di politica nazionale», condannandone «l’utilizzo [...] nella risoluzione delle controversie internazionali». Salutato come un momento di svolta nelle relazioni internazionali dalle associazioni pacifiste che lo avevano proposto, il patto di Parigi è stato soggetto a critiche aspre, e talora a vero e proprio scherno, da parte di storici e commentatori, che vi hanno visto l’espressione emblematica delle utopie, ingenuità e ipocrisie di un’epoca che l’ascesa dei totalitarismi e la Seconda guerra mondiale avrebbero poi smascherato. «I trattati», affermò allora con scetticismo l’ambasciatore statunitense a Parigi Myron Herrick, «sono un po’ come i giochi dei bambini: quando un bambino non vuole più giocare rompe il gioco e il tutto finisce lì». L’accordo costituiva infatti una semplice dichiarazione d’intenti e non definiva meccanismi e modalità con cui garantirne il rispetto da parte dei paesi firmatari. Esso però incarnava alla perfezione lo spirito e le contraddizioni dell’internazionalismo statunitense dell’epoca: quella che il diplomatico statunitense Hugh Gibson definì allora una «psicologia di pace» e uno «stato d’animo», nei quali s’intrecciavano il desiderio di dimenticare quanto accaduto solo pochi anni

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prima, la fiducia wilsoniana nell’opinione pubblica e le convinzioni taftiane sull’ineluttabilità della cooperazione tra le grandi potenze6. 1.2. La dimensione economica dell’internazionalismo conservatore Nei due anni che seguirono la fine della guerra, gli USA furono costretti a fronteggiare la più severa recessione dagli anni Novanta dell’Ottocento. Per quanto fisiologica e legata alla difficile transizione postbellica, la crisi alimentò paure e preoccupazioni ed esasperò le tensioni politiche e sociali. Soprattutto, rese evidente la necessità per gli Stati Uniti d’impegnarsi attivamente sulla scena internazionale: per incoraggiare una ripresa economica in Europa dalla quale dipendevano la stabilità politica del continente e il contenimento di spinte radicali e rivoluzionarie; per riattivare le forme virtuose d’interdipendenza finanziaria e commerciale che avevano contribuito all’ascesa degli USA; per stimolare quella crescita attraverso cui gli Stati europei avrebbero ottenuto i mezzi necessari per saldare finalmente i propri crediti di guerra; per evitare squilibri globali che avrebbero finito per penalizzare le esportazioni statunitensi. Tra stabilità internazionale, primato statunitense e recupero dei crediti si venne a determinare un’interconnessione strettissima. In un primo momento, l’amministrazione Harding evitò di partecipare alle conferenze internazionali di Bruxelles (1920) e Genova (1922), nelle quali furono discusse anche la situazione economica europea e la questione delle riparazioni tedesche. Harding rilanciò invece l’impegno statunitense in America Latina, secondo i dettami della diplomazia del dollaro. Gli interventi militari statunitensi in Messico (1914), Repubblica Dominicana (1915) e Haiti (1915) non solo non avevano portato alla risoluzione delle crisi politiche di questi paesi, ma avevano inasprito l’antiamericanismo nella regione e alimentato la richiesta di molti, isolazionisti e non, di ridurre le ingerenze politiche e militari degli USA negli affari latino-americani. Già Wilson aveva progressivamente abbandonato il suo intento di promuovere una crociata per la democrazia nella regione, insegnando ai messicani come «eleggere brava gente», per affidarsi ai meccanismi consolidati della diplomazia del dollaro. Harding e Coolidge intensificarono questo ritorno alle pratiche taftiane, concedendo una serie di prestiti condizionati e ‘stabilizzatori’ a varie repubbliche sudamericane. Come in passato, i prestiti erano vincolati all’accettazione di una supervisione statunitense delle finanze dello Stato debito-

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re e alla sua adozione del gold standard, che avrebbe garantito la necessaria disciplina monetaria, facilitato l’intensificazione degli scambi commerciali e accelerato l’integrazione regionale7. Con vari adattamenti e modifiche, e con un rapporto assai meno asimmetrico tra gli USA e il soggetto beneficiario dei crediti statunitensi, una variante cooperativa e non unilateralista del modello della diplomazia del dollaro fu adottata anche in Europa. Ciò avvenne soprattutto dopo la crisi del 1922-23, quando la precarietà e la fragilità degli assetti postbellici europei si manifestarono pienamente. Fu allora che la Germania, travolta dall’inflazione, sospese il pagamento delle riparazioni di guerra e che Francia e Belgio occuparono per rappresaglia la Ruhr. E fu allora che si rivelarono alcuni dei paradossi e dei limiti della pace raggiunta a Parigi. Una pace, questa, che umiliava la Germania senza però garantire la sicurezza francese e che di fatto concorreva a riportare gli Stati Uniti in Europa a dispetto della loro mancata partecipazione alla Società delle Nazioni. La vicenda evidenziava la stretta interdipendenza tra crediti di guerra e riparazioni e sembrava poter contribuire alla liberazione di quelle forze rivoluzionarie e antisistemiche che Washington riteneva necessario contenere. Per gli USA si trattava quindi di intervenire nella crisi, portandola a risoluzione, ma evitando di abbandonare esplicitamente la politica di non intervento nelle vicende europee sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica americana. Per farlo era necessario appoggiarsi ad alcune grandi banche d’investimento e adottare un approccio multilaterale e cooperativo, centrato prima di tutto sulla collaborazione con la Gran Bretagna, legata agli Stati Uniti sia dall’interesse alla ripresa economica della Germania e alla conseguente stabilizzazione europea sia dalla perplessità verso gli atteggiamenti punitivi francesi8. Furono queste le premesse dell’iniziativa che avrebbe portato all’ideazione del cosiddetto Piano Dawes. Nel 1924, il nuovo presidente Calvin Coolidge (subentrato a Harding dopo la morte di quest’ultimo nell’agosto del 1923) decise di inviare in Europa una delegazione guidata da Charles G. Dawes, il presidente di un’importante banca d’affari dell’Illinois, la Central Trust Company. Il compito di Dawes sarebbe stato quello di guidare i lavori di un sottocomitato della Commissione per le riparazioni e trovare una soluzione all’impasse che si era venuta a determinare. Che gli altri membri della commissione, rappresentanti dei ministeri del Tesoro di Francia,

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Gran Bretagna, Belgio e Italia, accettassero la leadership di un rappresentante non governativo degli Stati Uniti è indicativo di come tutti fossero consapevoli che solo gli Stati Uniti disponevano dei mezzi necessari per garantire la stabilità europea. La commissione elaborò un piano che rivedeva entità, modalità e tempi delle riparazioni. L’ammontare complessivo era ridotto e si prevedeva una crescita graduale della rata annuale a carico della repubblica tedesca. Il perno del Piano Dawes era però rappresentato dall’impegno a concedere alla Germania un primo prestito di 200 milioni di dollari che avrebbe garantito la liquidità necessaria per la ripresa economica, consolidato la credibilità del governo tedesco e posto le premesse per attrarre verso la Germania altri investimenti. Al collocamento di una parte maggioritaria del prestito (110 milioni) provvide la banca Morgan, con modalità di cooperazione pubblico-privato tipiche della diplomazia del dollaro. Il prestito era vincolato a precise condizioni: prevedeva la creazione di una nuova banca centrale in Germania, la stabilizzazione della valuta tedesca, l’adozione di una stretta disciplina fiscale e la supervisione alleata del processo. A tale scopo era creata la figura dell’agente generale per le riparazioni tedesche: carica, questa, che sarebbe stata assegnata a un americano, Seymour Parker Gilbert9. Nel tempo il Piano Dawes avrebbe mostrato molti limiti, sì da rendere necessaria una sua revisione e adattamento solo cinque anni più tardi, quando fu adottato un nuovo schema per le riparazioni tedesche, il Piano Young10. Sul breve periodo, esso sortì però gli effetti economici e diplomatici auspicati e fu salutato con grande entusiasmo, soprattutto negli Stati Uniti, dove la prima tranche del collocamento delle obbligazioni tedesche fu completata in meno di una giornata. Il segretario del commercio e futuro presidente Herbert Hoover presentò l’azione di Dawes come una «missione di pace senza paralleli nella storia internazionale». In pochi mesi furono emessi e collocati sul mercato americano molti altri prestiti obbligazionari tedeschi, pubblici e privati. Nei cinque anni successivi più di un terzo degli investimenti interni tedeschi fu rappresentato da capitali stranieri. Gli investimenti esteri in Germania, per la gran parte di provenienza statunitense, stimolarono la crescita senza sacrificare quelle politiche sociali che erano invocate dalla popolazione tedesca e che risultavano necessarie per la stabilità politica del paese11. Il piano sembrava risolvere alcuni problemi lasciati dalla guerra.

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Poneva le precondizioni per il pieno reintegro della Germania nella comunità internazionale, che fu completato dagli accordi di Locarno del 1925, con i quali la Germania riconosceva le decisioni di Versailles sui suoi confini occidentali, e dalla successiva ammissione della repubblica tedesca nella Società delle Nazioni. I capitali statunitensi si rivelavano strumento fondamentale per costringere sia la Francia sia la Germania ad abbandonare la linea dell’intransigenza, obbligando la prima a moderare il proprio punitivismo e la seconda ad accettare di pagare le riparazioni. La Gran Bretagna si faceva carico di molte delle garanzie formali imposte dalla rete di accordi del 1924-25, su tutte quelle del confine franco-tedesco, ma erano gli Stati Uniti a costituire la vera potenza indispensabile del sistema internazionale. A completamento del processo avviato con il Piano Dawes, gli Stati Uniti e i paesi europei, la Francia su tutti, raggiunsero nel 1926 un compromesso sui crediti di guerra, con l’accettazione da parte dell’amministrazione Coolidge di ridurre i tassi d’interesse sulle somme che erano dovute agli Stati Uniti (la Francia, da parte sua, rinunciò a una «clausola di salvaguardia» che avrebbe permesso di sospendere il pagamento dei debiti in caso la Germania non avesse corrisposto le sue riparazioni). Soprattutto, le principali potenze del mondo capitalistico si accordarono per ritornare, sia pure temporaneamente, a un gold standard ibrido (gold exchange standard), che riconosceva anch’esso la forza e la centralità degli USA, laddove i paesi europei decidevano di utilizzare i dollari, oltre all’oro, come strumento di riserva e valuta di scambio. Ciò ripristinava la convertibilità delle monete delle principali potenze e sembrava porre le premesse per la piena riattivazione degli scambi internazionali12. Gli investimenti diretti e indiretti degli Stati Uniti erano al tempo stesso mezzo e fine dell’azione internazionale degli USA. Rappresentavano lo strumento al servizio della stabilizzazione raggiunta nella seconda metà degli anni Venti. Ma la loro crescita e tutela erano tra gli obiettivi fondamentali in nome dei quali tale stabilizzazione era perseguita. E la crescita, impetuosa, non mancò. Le obbligazioni straniere, pubbliche e private, collocate sul mercato statunitense crebbero di tre volte tra il 1923 e il 1925, assestandosi tra il miliardo e il miliardo e mezzo di dollari nel periodo 1925-28; tra il 1923 e il 1929 gli investitori privati statunitensi prestarono alla Germania una cifra superiore al miliardo di dollari; nello stesso periodo au-

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mentarono esponenzialmente gli investimenti diretti di grandi corporations come la Ford, la General Motors e la General Electric13. Non mancavano le contraddizioni, su tutte quella rappresentata dalla persistenza di politiche protezionistiche, giustificate dai governi statunitensi come necessarie per preservare una bilancia commerciale strutturalmente in attivo, riequilibrando così i flussi di capitali in uscita, ma che di fatto servivano per proteggere le produzioni americane e soddisfare così interessi politici ed economici precisi e influenti. Ma la guerra e la crisi postbellica sembravano davvero appartenere a un’altra epoca. Anche perché alla forza economica di un paese che nel 1929 produceva la metà del reddito mondiale e al primato mondiale del capitale statunitense, con tutte le sue implicazioni politiche e diplomatiche, corrispondevano profonde trasformazioni nel sistema produttivo statunitense e la graduale maturazione di un modello che a molti cominciava ad apparire semplicemente irresistibile e universalmente riproducibile. 1.3. Internazionalismo conservatore, rapporti culturali e «americanizzazione» Il decennio successivo alla Prima guerra mondiale fu contraddistinto dalle profonde trasformazioni del sistema produttivo statunitense. Il loro impatto fu forte sia sugli stili di vita che sul tipo di organizzazione delle relazioni industriali. Esse completavano processi intrapresi da tempo, centrati su forme scientifiche e sempre più efficienti di organizzazione del lavoro, ma anticipavano altresì una tendenza che si sarebbe realizzata pienamente solo dopo il secondo conflitto mondiale, quando si sarebbe assistito all’affermazione di un tipo di crescita economica fondato principalmente su consumi di massa di beni durevoli. Il simbolo di questa continuità con il passato e di questa anticipazione del futuro fu rappresentato ovviamente dal settore automobilistico e dalla Ford in particolare, dove vennero introdotti e perfezionati metodi nuovi di produzione e si riuscì a offrire un prodotto a basso prezzo e larga diffusione (la Ford modello T, che vendette milioni di modelli nel corso del decennio). Lo straordinario potenziamento dell’efficienza industriale fu uno dei fattori alla base del successo economico del periodo, caratterizzato da tassi di crescita del prodotto interno lordo superiori al 4% annuo e dal miglioramento, diffuso ancorché ineguale, degli standard di vita. Prosperità ed estensione del benessere contribuivano

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alla stabilità politica e alla riduzione delle tensioni sociali. Combinandosi con la situazione creditoria maturata con la guerra e con la capacità d’innovazione tecnologica dimostrata dall’industria statunitense, esse concorrevano ad alimentare un primato mondiale, quello degli Stati Uniti, che pochi erano ora disposti a contestare. Questo primato, e le forme apparentemente aconflittuali che lo accompagnavano sia internamente sia esternamente, tornavano a conferire una dimensione fiduciosa e ottimistica all’internazionalismo statunitense. Anche perché esso sembrava finalmente godere di una dimensione aggiuntiva, rivendicata ma mai raggiunta in passato: il pieno riconoscimento, o quanto meno l’accettazione, da parte degli altri paesi ‘civilizzati’ della superiorità statunitense; la loro fascinazione per gli Stati Uniti; la loro ansia di emulare quello che a tutti gli effetti appariva il modello statunitense14. Non mancavano le resistenze e l’aperta ostilità verso una modernità – quella incarnata e proiettata dagli Stati Uniti – di cui molti, a destra come a sinistra, avrebbero denunciato in modo sempre più intenso e stereotipato la natura omologante, materialista e massificatrice. Ma l’attrazione verso le diverse matrici del modello americano fu vasta e diffusa in Europa, offrendo un primo esempio di quella capacità di proiezione egemonica globale destinata a divenire uno degli elementi cardine della potenza degli Stati Uniti. «L’America era una buona idea. La terra del futuro. La casa del suo tempo», sottolineò allora lo scrittore tedesco Hans Joachim. «L’amavamo», affermò Joachim, perché se fino ad allora «la tecnologia si era manifestata in forma di carri armati, mine e bombe [...] in America essa era posta al servizio della vita umana». Per l’ambasciatore francese a Washington Paul Claudel, «la benzina americana e le idee americane» si erano «diffuse attraverso la Francia portando una nuova visione del potere e un nuovo ritmo alla vita». Il posto nella vita culturale francese occupato in passato da Spagna, Italia e infine Gran Bretagna, sostenne Claudel, apparteneva ormai all’America15. Tanti fattori interagivano nell’alimentare questa infatuazione verso gli Stati Uniti e nel fare degli USA un modello, un mito e un simbolo di libertà, progresso, modernità e ordine. Ad agire era una sorta di universalizzazione dell’antico eccezionalismo statunitense. Da qualsiasi punto di vista la si osservasse, l’America appariva diversa e migliore: per i suoi comportamenti sulla scena internazionale, così lontani dalla vecchia politica di potenza europea; per il suo dinami-

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smo industriale; per la sua capacità di sfruttare appieno l’evoluzione tecnologica; per la sua fede pragmatica e tecnocratica; per la sua adattabilità a una società moderna di massa che imponeva una ridefinizione delle forme della partecipazione politica e dell’inclusione sociale. In Europa quella che con gli anni abbiamo finito per chiamare «americanizzazione» si dispiegò per il tramite di tre vettori principali: l’esportazione, assieme ai numerosi investimenti diretti delle corporations statunitensi, di un modello d’impresa ispirato all’esperienza statunitense; la diffusione di forme culturali nuove, massificate, che ebbero la loro espressione più celebre nel cinema; il boom del turismo transatlantico, che portò tra le due guerre centinaia di migliaia di turisti americani in Europa. In modi diversi, i paesi più influenzati da questi processi furono la Germania e la Francia. In quanto maggiore beneficiaria dei capitali statunitensi investiti in Europa, la Germania non poteva non essere condizionata dalle trasformazioni che stavano avvenendo negli USA. Imprenditori, politici e sindacalisti tedeschi osservarono e studiarono il modello statunitense. Le lezioni tratte furono diverse, a seconda del punto d’osservazione. Comune fu però la convinzione che si trattasse di un futuro da prendere a esempio, copiare e riprodurre16. Il successo di Hollywood e del cinema americano in Europa non solo conferiva una dimensione nuova all’influenza statunitense, ma evidenziava come l’interazione culturale transatlantica non fosse più dominio esclusivo delle élite. Ciò favoriva la penetrazione di una cultura popolare straordinariamente pervasiva e di massa quale era quella statunitense. A metà degli anni Venti, i film statunitensi costituivano la quasi totalità di quelli mostrati in Gran Bretagna e tra il 60 e il 70% di quelli proiettati nei cinema francesi e tedeschi. Le resistenze si fecero intense e in Europa furono adottati vari provvedimenti a difesa delle cinematografie nazionali, ma da allora in poi Hollywood continuò a rappresentare una presenza dominante nella vita europea, dalla quale era impossibile prescindere17. Il turismo, infine, costituì un fenomeno nuovo che rivelava anch’esso la natura diffusa e penetrante dell’influenza statunitense in Europa. Il numero di cittadini statunitensi che si recavano annualmente in Europa aumentò esponenzialmente, passando dai 15.000 del 1921 ai 250.000 del 1929. I soldi spesi dai turisti americani in Eu-

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ropa divennero una fonte importante di valuta forte per le economie europee, sempre alle prese con il problema dei debiti di guerra. Alcune capitali europee, Parigi e Berlino su tutte, furono trasfigurate dalla presenza crescente di americani che vi si recavano in visita per periodi brevi e lunghi. Il turismo costituì un fattore aggiuntivo d’interscambio culturale, i cui risvolti politici, diplomatici ed economici non potevano essere più sottovalutati18. La decade postbellica si chiudeva così con l’intensificazione, apparentemente irreversibile, delle tante forme d’interdipendenza che univano le parti più ricche, sviluppate e ‘civilizzate’ del mondo. Gli orrori della guerra erano stati messi alle spalle e in larga misura dimenticati. L’attivismo statunitense sembrava garantire la stabilità internazionale, consolidando la posizione di primato globale degli USA e diffondendo sul piano interno una filosofia internazionalista, moderata e fiduciosa. La drammatica crisi economica che si aprì nel 1929 avrebbe ben presto travolto queste certezze e permesso l’avvento, breve ma radicale, di un isolazionismo che non aveva precedenti nella storia del paese.

2. Il momento isolazionista Nel 1929 gli USA possedevano circa la metà delle riserve aurifere globali e la loro produzione industriale era superiore al 40% di quella mondiale. Una percentuale rilevante del commercio internazionale era rappresentata da esportazioni statunitensi, stimolate da una politica finalizzata a preservare una bilancia commerciale in attivo per garantire al paese i capitali con cui investire in Europa e nel resto del mondo. Stabilità globale e primato statunitense erano strettamente interrelati. Essi dipendevano dalla preservazione ed estensione delle forme virtuose dell’interdipendenza sviluppate nel corso degli anni Venti. Proprio tale interdipendenza avrebbe però reso assai difficile localizzare e circoscrivere una crisi. Se poi questa crisi avesse colpito il perno del sistema, gli Stati Uniti medesimi, la sua diffusione sarebbe stata certa e incontrollabile. È quanto accadde a partire dall’ottobre del 1929, quando la borsa di New York crollò in alcune sedute consecutive aprendo una fase di recessione che sarebbe poi esplosa pienamente nel corso del 1930-31.

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Le cause della crisi furono molteplici e su di esse storici ed economisti continuano a dibattere. I suoi effetti sul sistema internazionale e sulla politica estera degli Stati Uniti furono immediati e radicali. I capitali statunitensi e la disponibilità a investirli in Europa rappresentavano il pilastro di una stabilizzazione destinata a rivelare tutta la sua fragilità. Le esportazioni degli Stati Uniti fornivano uno degli strumenti fondamentali attraverso cui tali capitali erano generati. Le importazioni garantivano ai paesi europei una parte delle risorse con cui far fronte ai propri debiti. Nel momento in cui questo intreccio fu spezzato, tutti i problemi rimasti irrisolti dopo la Grande guerra tornarono alla luce19. Tra il 1929 e il 1932 le esportazioni statunitensi diminuirono del 60%, mentre i volumi complessivi del commercio mondiale si dimezzarono. La decisione degli USA di rafforzare la propria politica protezionistica, con l’adozione nel 1930 della tariffa Smoot-Hawley, rese il mercato degli Stati Uniti ancor meno accessibile alle merci straniere. A loro volta, gli investimenti diretti e indiretti degli Stati Uniti scesero progressivamente: nel 1932 nessun prestito straniero fu collocato su un mercato ormai asfittico e senza liquidità come quello statunitense. La crisi si estese per prima all’anello debole della catena, la Germania, la cui capacità d’importare capitali fu drasticamente ridotta. In assenza di questi, però, la repubblica tedesca non era in grado di pagare le riparazioni indispensabili ai paesi europei, Francia su tutti, per saldare i propri debiti. Il ricorso sul breve periodo ad altri prestiti rese la situazione ancor più insostenibile per la Germania. Il gold standard fu rapidamente abbandonato da tutte le principali potenze, che cercarono di rispondere alla crisi attraverso un mix incongruente di svalutazioni competitive, per aumentare le esportazioni, e provvedimenti protezionistici, per tutelare la produzione nazionale. La conseguenza fu la fine del sistema multilaterale costruito negli anni Venti e l’emergere di un regionalismo economico e monetario che avrebbe dominato la seconda fase del periodo tra le due guerre. Al contempo, sulla scena internazionale cominciava ad affacciarsi sempre più minaccioso un nazionalismo radicale, che sfidava l’ordine internazionale e chiedeva la revisione degli accordi di Parigi. Un’anticipazione si ebbe con la crisi manciuriana del settembre 1931, quando il Giappone si impossessò di fatto della regione settentrionale della Cina e la Società delle Nazioni rivelò tutta la sua impotenza.

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Le scelte e i comportamenti delle amministrazioni statunitensi erano ovviamente cruciali. Essi rivelarono la natura parziale, limitata e per molti aspetti compiaciuta dell’internazionalismo conservatore degli anni Venti. L’amministrazione Hoover cercò di alleviare la crisi, proponendo nel luglio del 1931 una moratoria di un anno su crediti, debiti e riparazioni, che fu poi prorogata per altri sei mesi. Non derogò però dal dogma della bilancia commerciale in attivo, fondato su una politica di alte tariffe sulle importazioni, e, soprattutto, continuò a chiedere il pagamento dei debiti di guerra, per quanto ridotti e rinegoziati. Lo fece nella convinzione che quelle risorse andassero recuperate e sotto la pressione di un Congresso e di un’opinione pubblica sempre più maldisposti verso l’Europa20. Le elezioni del 1932 videro la vittoria del candidato democratico Franklin Delano Roosevelt e l’avvio di un profondo riallineamento elettorale, che avrebbe trasformato gli assetti politici statunitensi. In passato Roosevelt era stato un wilsoniano convinto. Candidato alla vicepresidenza nel 1920, aveva difeso con forza il progetto di Wilson e asserito l’assoluta necessità che gli USA facessero parte della Società delle Nazioni. Lo aveva fatto in nome di una fede internazionalista che, come nel caso di Wilson, era strettamente legata a una visione eccezionalista degli USA, della loro storia e del loro ruolo nella costituenda comunità internazionale. Tale nazionalismo era contraddistinto da una forte avversione nei confronti dell’Europa. Da sempre, l’asserita eccezionalità dell’America era stata rivendicata e affermata anche attraverso la contrapposizione all’Europa. Roosevelt non faceva eccezione21. Nella temperie prodotta dalla crisi del 1929, dalla sfida dei revisionismi e dall’ascesa dei totalitarismi, questa posizione di ostilità e rigetto dell’Europa era destinata a tornare con forza. Era stata l’Europa a scatenare la guerra di cui ancora si pagavano le conseguenze; era stata l’Europa a imporre una pace fragile, precaria e ingiusta come quella di Parigi; ed era stata sempre l’ingrata Europa a venir meno agli impegni assunti e a non saldare i debiti di guerra. Convinzioni antiche e problematiche contingenti rendevano difficile un’azione congiunta tra Europa e Stati Uniti. Lo si vide bene alla conferenza di Londra del 1933, quando Roosevelt contribuì al fallimento dell’ultimo grande tentativo di gestione multilaterale della crisi. Lo fece anche per il timore che la reintroduzione del gold standard potesse colpire una politica inflattiva di sostegno dei prez-

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zi dei prodotti agricoli quale quella adottata dall’amministrazione. Il primato della dimensione interna rappresentava infatti il secondo fattore che avrebbe condizionato la politica estera rooseveltiana almeno fino al 1937-38. La drammatica recessione obbligava a concentrare energie e forze sul piano interno e qualsiasi altra problematica era subordinata alla risoluzione della crisi economica. Fare altrimenti avrebbe comportato delle pesanti conseguenze elettorali, come Hoover aveva potuto verificare. Avversione nei confronti dell’Europa e primato della politica interna convergevano a loro volta nel ridare forza a quelle posizioni isolazioniste radicali che fino ad allora erano rimaste minoritarie. A ciò contribuiva anche una rilettura vieppiù critica della Prima guerra mondiale. Secondo molti, quella guerra era stata combattuta e giustificata per trasformare un mondo (e un’Europa) che erano invece irriformabili. La scelta compiuta era stata grave e ingiustificata, aveva causato la morte inutile di migliaia di giovani americani ed era servita al massimo per arricchire produttori d’armi e grandi speculatori. La partecipazione alla guerra – si cominciò a sostenere da più parti negli USA – era stata un errore, la cui ripetizione andava a ogni costo prevenuta. Queste posizioni trovarono ricezione anche al Congresso, dove il rapporto finale di un’apposita commissione presieduta dal senatore Gerald Nye del North Dakota scioccò il paese, denunciando l’influenza esercitata da alcuni interessi speciali – quello che qualche anno più tardi sarebbe stato chiamato il «complesso militar-industriale» – sulla decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra. La guerra per la democrazia e per porre termine a tutte le guerre di Wilson veniva così trasfigurata in una guerra per l’arricchimento di pochi, in nome del progetto utopico e irrealizzabile di trasformare un’Europa e un mondo in realtà corrotti e irredimibili22. Roosevelt si dimostrò ricettivo verso queste posizioni isolazioniste: per convinzione, in quanto almeno parzialmente congruenti con la sua radicata avversione all’Europa; per necessità, avendo egli bisogno del più ampio sostegno possibile per dare corso al suo programma di riforme interne (il cosiddetto New Deal); per opportunismo, visto il peso elettorale che l’isolazionismo, non più circoscritto socialmente o geograficamente, era in grado di esercitare23. Nel primo biennio, la politica estera di Roosevelt, per quanto caotica e subordinata alle questioni interne, sortì qualche risultato, su tutti l’apertura dei rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica

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(1933) e il tentativo di rafforzare i rapporti interamericani entro una cornice multilaterale, nella quale l’influenza degli USA in America Latina sarebbe stata esercitata con forme consensuali, meno intrusive e spregiudicate rispetto a quelle utilizzate in passato (la cosiddetta «politica del buon vicinato»). L’apice dell’influenza dell’isolazionismo si ebbe tra il 1934 e il 1938. Fu in questo periodo che il Congresso discusse e approvò una serie di leggi (le cosiddette leggi di neutralità, neutrality acts) il cui obiettivo era evitare che si potesse ripetere l’esperienza del 1914-17. Il primo Neutrality Act fu approvato alla quasi unanimità dalle due Camere. La legge, affermò Roosevelt, era espressione del «desiderio del governo e della popolazione degli Stati Uniti di prevenire qualsiasi azione che possa trascinare gli Stati Uniti in guerra». In caso di un conflitto, essa vietava l’esportazione di armi ai belligeranti e, con un preciso riferimento al caso della Lusitania, assegnava al presidente l’autorità di ammonire i cittadini statunitensi dal viaggiare su navi passeggeri dei paesi in guerra24. Destinata a durare per sei mesi, questa prima legge di neutralità fu rinnovata per un altro anno nel 1936, dopo essere stata applicata in occasione della guerra tra Italia ed Etiopia e con l’aggiunta del divieto di fornire crediti ai belligeranti. Nel maggio del 1937, nel pieno della guerra civile spagnola, il Congresso approvò una terza legge di neutralità, che manteneva e rendeva permanenti i divieti delle due leggi precedenti (prestiti e armi), ma ne introduceva di nuovi: ai cittadini americani era espressamente proibito di viaggiare sulle navi degli Stati belligeranti; non era consentito alle imbarcazioni commerciali di armarsi; la neutralità era estesa anche alle guerre civili; al presidente era concessa l’autorità di chiudere i porti statunitensi alle navi dei paesi coinvolti nel conflitto. In aggiunta, però, la legge assegnava autorità discrezionale al presidente per invocare la clausola del cosiddetto cash & carry: la possibilità per un paese di comprare merci non militari dagli Stati Uniti, a patto che queste fossero pagate immediatamente e trasportate su imbarcazioni non statunitensi25. La legge del 1937 rappresentò il picco della svolta isolazionista tra le due guerre. Una svolta che Roosevelt non seppe né volle contenere. Ma una svolta che, nella sua radicalità, trascinava il paese fuori dai binari della sua storia, inducendolo non tanto ad assumere una posizione di rigetto del mondo esterno che aveva una lunga tradi-

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zione, quanto ad abbandonare anche quella rivendicazione minima che aveva orientato la politica estera statunitense fin dalle origini della repubblica: la difesa dei diritti di neutralità e la possibilità per gli USA di commerciare liberamente anche in tempi di guerra altrui, sia per beneficiare economicamente di queste guerre sia per usare il commercio come strumento di pressione sui comportamenti delle altre potenze. La svolta isolazionista era quindi tanto radicale quanto priva di radici storiche. Non era un ritorno all’indietro, come affermò allora qualcuno, ma un salto nel vuoto dalle fondamenta ideologiche assai fragili, come ben rivelava l’estrema eterogeneità politica e culturale del fronte isolazionista26. Che concorreva, come già aveva fatto Wilson, a erodere vie mediane e a favorire, per reazione, il ritorno di un internazionalismo a sua volta assai radicale e indisponibile a compromessi. Era uno scontro tra chi voleva porre fine a tutte le guerre e chi credeva che la strada maestra dovesse essere invece l’estraneazione degli USA dal mondo e dalla guerra medesima. Un’estraneazione fondata su un doppio assunto: che fosse possibile mantenere un’equidistanza politica, strategica e anche morale fra i partecipanti alle prossime guerre; che nessuna di queste guerre avrebbe potuto minacciare l’interesse nazionale degli Stati Uniti e, con esso, la loro natura e identità, quanto una nuova partecipazione statunitense alle stesse guerre. Ciò che stava per avvenire, in Europa e in Asia, avrebbe clamorosamente smentito tali assunti e posto rapidamente termine all’unico, vero momento isolazionista nella storia degli Stati Uniti.

3. Verso la guerra, fuori dall’isolazionismo Nella seconda metà degli anni Trenta si manifestò in tutta la sua pienezza la sfida delle potenze revisioniste e l’incapacità di farvi fronte da parte della Società delle Nazioni e di Gran Bretagna e Francia. Al potere dal 1933, Hitler smantellò pezzo dopo pezzo il precario ordine creato a Parigi, procedendo a un riarmo che violava gli accordi di pace, rioccupando e rimilitarizzando la Renania, denunciando le modifiche territoriali decise a svantaggio della Germania dopo il primo conflitto mondiale. La risposta statunitense fu cauta e in linea con quella di Parigi e di Londra. Il comportamento te-

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desco non violava i termini dell’accordo separato stipulato da Germania e Stati Uniti nel 1921. Approssimandosi le elezioni presidenziali del 1936, Roosevelt non intendeva assumere iniziative sgradite al fronte anti-interventista. Soprattutto, agiva la convinzione che molte delle rivendicazioni tedesche fossero legittime: una volta soddisfatte, argomentavano Roosevelt e i suoi più stretti collaboratori, si sarebbe creata una situazione più equa e stabile in Europa. Come Gran Bretagna e Francia, anche gli Stati Uniti adottarono una politica di appeasement verso la Germania nazista, fondata sulla sottovalutazione delle aspirazioni espansionistiche di Hitler, sulla volontà di prevenire a qualsiasi costo un’altra guerra e sulla convinzione che si dovesse evitare un nuovo coinvolgimento nelle dispute europee27. Il culmine di questa passività nei confronti dell’aggressione nazista si ebbe nel corso del 1938. L’Anschluss dell’Austria prima e gli accordi di Monaco poi, che riportarono la regione dei Sudeti sotto il controllo della Germania, furono accettati da Roosevelt, che dei secondi diede anzi un giudizio positivo. Il 60% degli americani la pensava come il presidente. Uno dei suoi più stretti collaboratori, il sottosegretario di Stato Sumner Welles, espresse la convinzione, drammaticamente infondata, che Monaco rappresentasse un punto di svolta: l’apertura di una «opportunità per la creazione [...] di un nuovo ordine mondiale basato sulla legge e sulla giustizia»28. All’azione revisionista tedesca corrispondeva, nell’area del Pacifico, quella promossa dal Giappone. Qui la posizione di Roosevelt fu più ferma e meno accomodante. Il Giappone rappresentava ormai da tempo l’unico possibile contestatore del primato statunitense sul Pacifico. Le sue politiche in Cina, culminate con l’occupazione della Manciuria nel 1931, sfidavano da tempo la porta aperta e gli interessi statunitensi nell’area. La decisione di Roosevelt d’intraprendere un processo graduale di potenziamento della Marina militare, pur entro i limiti fissati dagli accordi di Londra del 1930, originava da questa competizione latente con l’impero giapponese. Il punto di svolta si ebbe però nel 1937, quando le truppe giapponesi presenti in Cina si scontrarono con l’esercito cinese, il Giappone invase il paese e si aprì una guerra che sarebbe durata fino al 1945. Roosevelt pronunciò allora uno dei suoi discorsi più famosi. Ricorrendo a un campionario di metafore dalla lunga tradizione, Roosevelt denunciò la diffusione «epidemica mondiale dell’illegalità». «Quando l’epidemia di una malattia fisica comincia a diffondersi»,

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sostenne Roosevelt, la «comunità si unisce nella decisione di mettere in quarantena i pazienti per proteggere la salute della stessa comunità e prevenire la diffusione della malattia». Allo stesso modo, era necessaria una rinnovata collaborazione internazionale per mettere in quarantena i paesi aggressori. Alcuni mesi più tardi, il presidente decise di non applicare le leggi di neutralità al conflitto sinogiapponese e di permettere alla Cina di acquistare materiale militare dagli Stati Uniti29. Il discorso sulla quarantena è stato presentato in modo diverso dagli storici: premessa di una svolta interventista che si sarebbe pienamente realizzata con l’ingresso in guerra, per alcuni; semplice sfogo retorico, tipicamente rooseveltiano nelle iperboli e metafore usate ma privo di sostanza politica e indicazioni precise, secondo altri30. Entrambe le interpretazioni sono parzialmente corrette. Il discorso di Roosevelt non era sostanziato da iniziative militari o diplomatiche, ma segnalava una rinnovata attenzione statunitense verso le dinamiche internazionali e una disponibilità alla collaborazione internazionale assai in contrasto con la filosofia isolazionista e anti-interventista. Il dato rilevante del discorso di Roosevelt era però un altro. Nel ricorrere alla metafora dell’epidemia e nell’enfatizzare la portata globale della crisi in atto, Roosevelt rilanciava con forza logiche e categorie precipuamente wilsoniane: l’interdipendenza, il rischio di una diffusione pandemica dei conflitti regionali, l’unitarietà delle relazioni mondiali, la visione olistica della sicurezza statunitense e il suo legame con un corso della storia che le potenze ‘civilizzate’, vieppiù definite dal loro rispetto della legge, dovevano gestire assieme, isolando quelle afflitte dai virus della guerra, dell’illegalità e dell’aggressione. Tutto ciò si tradusse solo con gradualità nei comportamenti concreti della politica estera degli Stati Uniti, anche perché una nuova svolta obbligava a uno sforzo per nulla facile di educazione dell’opinione pubblica e di costruzione del consenso. Cinque anni di isolazionismo radicale, di denuncia indistinta ed equanime delle potenze europee e di neutralità imparziale non potevano essere rovesciati all’improvviso. Ma fu proprio a partire dal 1938, all’apice dell’isolazionismo e dell’appeasement, che Roosevelt cominciò gradualmente a teorizzare e mettere in pratica una nuova svolta internazionalista, destinata a rivelarsi irreversibile. I passaggi fondamentali di questa svolta, oltre al sostegno alla Ci-

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na nella guerra con il Giappone, furono tre. In primo luogo, venne accelerato il processo di riarmo intrapreso negli anni precedenti. Roosevelt annunciò che nel 1939 le spese destinate alla difesa avrebbero superato il 15% di quelle complessive, un dato senza precedenti in tempo di pace. Parallelamente, il presidente intensificò le pressioni affinché il Congresso decidesse di appoggiare non solo la Cina, ma anche la Francia e la Gran Bretagna. Una volta scoppiata la guerra, con l’invasione tedesca della Polonia, Roosevelt fu costretto a proclamare la neutralità statunitense, ma chiese e ottenne di poter vendere armi a Francia e Gran Bretagna secondo le clausole del cash & carry. Pur rimanendo neutrali, gli USA prendevano posizione in modo assai più netto e inequivoco di quanto non avessero fatto nel 1914. Il terzo elemento della svolta rooseveltiana era infatti rappresentato dall’assunzione di una posizione vieppiù ostile nei confronti di Hitler, dettata dalla consapevolezza che le sue azioni in Europa minacciavano di alterare in profondità gli assetti globali, cui si aggiungeva il timore, ora apertamente esplicitato, che il dittatore tedesco intendesse estendere le sue mire espansionistiche allo stesso emisfero occidentale, sfidando il primato statunitense in America Latina31. Questo mutamento di linea avvenne con gradualità e cautela e non soddisfece coloro che dentro e fuori l’amministrazione chiedevano una rottura più coraggiosa con le scelte della fase isolazionista. Roosevelt era politico troppo attento agli umori dell’opinione pubblica e sapeva bene quali fossero i limiti oltre i quali non era possibile spingersi. Per questo fornì una giustificazione delle sue scelte che le rendesse accettabili agli isolazionisti, presentandole anzi come congruenti con il percorso intrapreso negli anni precedenti. La vendita d’armi a Gran Bretagna e Francia fu così giustificata come necessaria per dotarle della capacità di contenere l’aggressione nazista ed evitare una partecipazione statunitense alla guerra. La denuncia delle ambizioni naziste in America Latina fu inserita nel contesto di una logica emisferica – di distacco dall’Europa – cara agli isolazionisti. Il riarmo fu giustificato più come strumento per prevenire una guerra che per parteciparvi. Ancora nel 1940, infine, Roosevelt e Welles cercarono di promuovere un’improbabile mediazione tra i belligeranti. Molti studiosi hanno intravisto in questo l’ennesima riprova delle ambiguità e della sostanziale incoerenza della politica estera roo-

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seveltiana: confusa, erratica e perennemente subordinata alle scelte interne e alle considerazioni elettorali, espressione delle scelte di un «giocoliere» che, per sua esplicita ammissione, raramente «faceva sapere» alla sua «mano destra» che cosa stesse «facendo la sua mano sinistra»32. Vi è del vero in tutto ciò. Concentrandosi solo sui tatticismi rooseveltiani si perde però di vista sia l’evoluzione della visione internazionalista di Roosevelt, al cui servizio questi tatticismi erano posti, sia il suo sforzo per preparare l’opinione pubblica statunitense ad abbandonare una volta per tutte l’idea, impraticabile e perniciosa, che le sorti degli Stati Uniti potessero essere separate da quelle del mondo; a sottrarsi al sogno, manifestatosi con forza negli anni Trenta, che gli USA potessero isolarsi insieme alle Americhe in una bolla impenetrabile alle turbolenze della politica mondiale. Questo sforzo – analitico, prescrittivo e pedagogico – s’intensificò nel corso del 1939-40, in corrispondenza con l’estendersi e il diffondersi del conflitto. Nel preparare il paese alla guerra, Roosevelt mise in discussione due assunti cari a una parte del fronte isolazionista: l’idea che gli Stati Uniti beneficiassero di una sicurezza gratuita, fondata sulla separazione geografica, che garantiva loro una sostanziale invulnerabilità; il convincimento che alte spese militari e il coinvolgimento in una guerra potessero minare le radici stesse dell’esperimento repubblicano statunitense, militarizzando e corrompendo il paese. Per il presidente, il contrario era vero. Da sempre attento alle trasformazioni tecnologiche e alla loro applicazione alla guerra, Roosevelt maturò sempre più la convinzione che la stessa sicurezza fisica degli Stati Uniti fosse in pericolo. Nel farlo spinse ancora più in là la riflessione wilsoniana sull’interdipendenza e sulle minacce che essa avrebbe potuto portare agli Stati Uniti. Un mondo diviso, chiuso e separato, con una Germania e un Giappone dominanti in Europa e in Asia, poteva, a fatica, essere tollerabile se gli oceani avessero continuato a costituire barriere invalicabili. Ma con lo sviluppo dell’aeronautica e l’evoluzione della tecnologia bellica, questo non era più vero. Nel 1917 – affermò il capo di Stato maggiore dell’Esercito, il generale George Marshall – gli USA erano entrati in guerra senza «dover metter in conto la possibilità di un pericolo militare per il paese». Ora, invece, «per quanto ancora in una situazione di pace, tale possibilità sembra essere prossima a diventare una probabilità». Per far fronte alla sfida, e per sopravvivere in un ambiente ostile e

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diviso, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inoltre mutare pelle, edificando uno Stato fortezza, perennemente mobilitato per difendersi dalla minaccia. «Per sopravvivere in questo mondo», sostenne Roosevelt alla fine del 1940, gli Stati Uniti si sarebbero dovuti «trasformare permanentemente in una potenza militarista fondata su un’economia di guerra». Facendolo avrebbero accettato di vivere in uno scenario orwelliano, in cui gli USA sarebbero divenuti «un’isola solitaria in un mondo dominato dalla paura [...] un popolo imprigionato, incatenato, affamato e nutrito attraverso le sbarre [...] dagli sprezzanti e spietati padroni degli altri continenti»33. Contrariamente a quanto sostenevano gli isolazionisti, era il non coinvolgimento degli USA nel conflitto, e l’accettazione così del suo esito inevitabile, che minacciava di deformare l’identità e la natura stessa della repubblica. La sicurezza del paese dipendeva da un corso della storia mondiale che era ora deciso dalle potenze totalitarie. Farvi fronte troppo tardi avrebbe comunque comportato uno stravolgimento dell’identità statunitense e la perdita della libertà faticosamente conquistata e difesa. Per evitarlo, gli Stati Uniti dovevano tornare a farsi carico di una missione cui troppo frettolosamente avevano abdicato negli anni Trenta. La libertà non sarebbe infatti potuta sopravvivere in un mondo «per metà libero e per metà schiavo», come affermato in uno degli slogan più celebri del tempo di guerra, che riecheggiava il celebre discorso di Lincoln34. Una serie d’impegni concreti seguì la riflessione teorica e l’opera di convincimento dell’opinione pubblica. In conseguenza della nuova offensiva tedesca della primavera del 1940, che portò alla rapida caduta della Francia, s’intensificò il sostegno statunitense alla Gran Bretagna. Roosevelt riteneva necessario abbandonare il cash & carry a favore di un’effettiva politica di aiuti. Il primo esempio si ebbe nel settembre del 1940, quando Gran Bretagna e Stati Uniti si accordarono per il trasferimento alla prima di 50 vecchi cacciatorpediniere in cambio dell’affitto agli USA di una serie di basi navali britanniche. Anche in questo caso, Roosevelt presentò la decisione come prettamente difensiva, sottolineando come in caso di vittoria nazista il controllo di quelle basi avrebbe potuto minacciare la sicurezza degli stessi Stati Uniti e prevenendo così le obiezioni del fronte isolazionista. Si trattava invece del primo passo di un’alleanza, quella tra Gran Bretagna e Stati Uniti, nella quale i rapporti di forza assai squilibrati avrebbero posto Londra in un ruolo sempre più subalterno35.

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Sul piano interno, Roosevelt procedette a dare un connotato sempre più bipartisan e filobritannico alla propria amministrazione, della quale entrarono a far parte due repubblicani anglofili come l’ex segretario di Stato di Hoover, Henry Stimson, nominato segretario alla Guerra, e il candidato alla vicepresidenza nel 1936, Frank Knox, che assunse la guida del Dipartimento della Marina. Parallelamente, si assistette alla graduale marginalizzazione di quella parte liberal e progressista, che aveva rappresentato una delle componenti fondamentali del fronte anti-interventista. Il riarmo procedette a ritmi accelerati, concentrandosi soprattutto sull’ambito navale («le mamme americane non vogliono che i loro figli facciano i soldati, ma non sembra abbiano problemi se diventano marinai», avrebbe più tardi sostenuto Roosevelt). Infine, per la prima volta nella storia del paese, fu introdotta la coscrizione obbligatoria in tempo di pace36. Sia la mobilitazione interna sia il sostegno alla Gran Bretagna furono intensificati nei mesi successivi. In un famoso discorso alla fine del 1940, Roosevelt sostenne che gli Stati Uniti dovevano trasformarsi nel «grande arsenale della democrazia». Non era più possibile «fuggire al pericolo o temerlo scappando a letto e nascondendosi sotto le coperte», affermò il presidente. Il giorno seguente, Roosevelt presentò al Congresso la legge affitti-prestiti (Lend-Lease Act). Approvata nel marzo del 1941, essa autorizzava il presidente a «vendere, trasferire, scambiare, prestare [...] qualsiasi materiale di difesa (defense article) a quei governi la cui difesa» era ritenuta «vitale per la difesa degli Stati Uniti». Non erano fissati limiti alla quantità di aiuti che sarebbe stato possibile concedere e si prevedeva che i porti statunitensi fossero accessibili alle navi dei paesi beneficiari. Il primo tra questi fu ovviamente la Gran Bretagna37. Si trattava di azioni che legavano gli Stati Uniti alle sorti della Gran Bretagna, avvicinandoli alla guerra; ma si trattava altresì dell’ultimo, disperato tentativo di aiutare la Gran Bretagna a reggere il più a lungo possibile il conflitto da sola, permettendo a Roosevelt di guadagnare tempo e proseguire la sua campagna pedagogica sul piano interno38. Un momento di svolta si ebbe con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, nel giugno del 1941. La prospettiva di un completo dominio nazista su tutta l’Europa e sulle sue immense risorse apparve allora quanto mai plausibile. Sembrava realizzarsi quello che era il peggior incubo geopolitico per gli Stati Uniti: il dominio di tutta la

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massa eurasiatica da parte di una potenza ostile. Dopo qualche titubanza, Roosevelt decise di seguire Churchill e di fornire sostegno all’URSS, impegnata in una difesa che a molti parve disperata. Gli aiuti previsti dalla legge affitti-prestiti furono così estesi anche al regime sovietico. Inizialmente limitati dalle immense difficoltà logistiche nell’organizzazione del loro trasporto – solo 750 aerei e 500 carri armati furono inviati in Unione Sovietica prima della fine del 1941 – questi aiuti avrebbero svolto un ruolo cruciale nel facilitare la difesa e la successiva controffensiva sovietica39. Il crescente sostegno a Gran Bretagna e Unione Sovietica fu affiancato dal rilancio di un discorso internazionalista che riprendeva, modificava e in taluni casi amplificava topoi e categorie che già erano state di Wilson. Un mondo giusto e sicuro, affermò Roosevelt nel gennaio del 1941, doveva essere fondato «ovunque [...] su quattro libertà umane fondamentali»: la «libertà di parola e di espressione»; la libertà religiosa; la «libertà dal bisogno»; e, soprattutto, la «libertà dalla paura», attraverso una nuova «riduzione degli armamenti su scala mondiale», grazie alla quale giungere a una situazione in cui «nessuna nazione» si fosse più trovata «nelle condizioni di poter compiere un atto di aggressione fisica contro un suo vicino»40. Le quattro libertà rooseveltiane sarebbero state costantemente evocate nei successivi anni di guerra, ispirando una famosa serie di quadri di Norman Rockwell. Così come aveva fatto Wilson, Roosevelt parlava (e si appellava) sia all’opinione pubblica statunitense sia a quella mondiale. Le sue parole, affermò il giorno successivo il «New York Times», erano destinate a «risuonare nel mondo»41. Ciò fu ancora più evidente in una seconda grande iniziativa pubblica: una dichiarazione congiunta di Roosevelt e Churchill nell’agosto del 1941 al termine di un vertice tenutosi al largo delle coste di Terranova. La dichiarazione – divenuta nota come «Carta atlantica» – riecheggiava forme e categorie dei Quattordici punti di Wilson. Anch’essa era articolata in una serie di punti (otto), che definivano le condizioni su cui avrebbe dovuto poggiare una pace giusta: l’autodeterminazione, la rinuncia a conquiste territoriali, l’apertura economica e commerciale, la libera navigazione sui mari, il disarmo e la sicurezza collettiva. A questi si aggiungeva, come già nelle quattro libertà, un riferimento alle tematiche sociali («promuovere la piena collaborazione tra le nazioni in campo economico, con l’obiettivo di assicurare a tutti migliori condizioni lavorative, progresso economi-

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co e sicurezza sociale»), che estendeva anche all’ambito internazionale le parole d’ordine del riformismo newdealista42. Attraverso le quattro libertà e la Carta atlantica, Roosevelt articolava e offriva al pubblico un nuovo, robusto messaggio internazionalista. Rilanciava con forza l’idea di una libertà universale la cui difesa e promozione era indispensabile alla salvaguardia della stessa libertà americana. Tornava a investire gli Stati Uniti di una missione speciale, la cui realizzazione era resa ancor più urgente e inderogabile da una minaccia, quella portata dai fascismi, che sembrava concretizzare le peggiori paure degli USA: la caduta di tutta l’Europa in mani ostili; la chiusura del mondo in imperi regionali impermeabili e altamente militarizzati; la possibilità di un attacco allo stesso territorio statunitense. Mai il dato più elementare della sicurezza del paese, l’invulnerabilità delle sue frontiere, era stato messo così in discussione. Mai il rischio di una forzosa trasfigurazione dell’identità degli Stati Uniti, di una loro «prussianizzazione», parve così vicino. Mai come nell’estate del 1941 sembrò necessario rilanciare la missione per difenderne gli interessi e preservarne l’identità43.

4. Combattere la guerra, immaginare il futuro: il «grand design» rooseveltiano e i suoi limiti Gli ultimi mesi del 1941 furono caratterizzati da un crescente coinvolgimento delle navi statunitensi nel conflitto che si stava combattendo sull’Atlantico. In occasione del vertice di Terranova, Churchill non aveva ottenuto l’auspicato impegno all’intervento da parte di Roosevelt. Di fatto, però, le Marine dei due paesi stavano intensificando la cooperazione, tanto che nell’autunno del 1941 dei cacciatorpediniere americani parteciparono ad alcune battaglie con i sottomarini tedeschi e vi furono le prime vittime statunitensi del conflitto. Gli Stati Uniti erano ormai coinvolti in una guerra non dichiarata sull’Atlantico. Washington decise di estendere fino all’Islanda e alla Groenlandia il perimetro della difesa emisferica. Pur con un margine di voti assai stretto, Camera e Senato avevano approvato una serie di modifiche all’ultima legge di neutralità che la rendeva sostanzialmente innocua44. Il fronte che avrebbe però trascinato gli Stati Uniti nella guerra

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non era quello europeo-atlantico, ma quello asiatico-pacifico. Sfruttando le difficoltà britanniche e il crollo francese, il Giappone stava pianificando l’estensione del suo impero asiatico e puntava alla conquista delle colonie europee e delle loro fondamentali risorse. Il primo passo fu l’occupazione dell’Indocina settentrionale, nel settembre del 1940. Nello stesso mese Italia, Germania e Giappone avevano firmato un accordo tripartito che riconosceva il primato giapponese in Asia, prevedeva una collaborazione dal chiaro significato antistatunitense (i tre si accordavano per cooperare laddove uno di essi fosse stato «attaccato da una potenza attualmente non coinvolta nella guerra europea o nel conflitto sino-giapponese») e sembrava preludere alla realizzazione dello scenario tanto temuto da Roosevelt: la divisione del mondo in grandi blocchi regionali dominati dalle potenze fasciste45. Per quanto divisa al proprio interno, l’amministrazione Roosevelt assunse una posizione sempre più ferma. Il ripudio statunitense del trattato commerciale stipulato dai due paesi nel 1911 fu il primo passo per impedire al Giappone di avere accesso alle materie prime esportate dagli USA. Ciò avvenne attraverso una politica di embargo selettiva e graduale, che estese il divieto di esportazione in Giappone a vari beni strategici, inclusi, alla fine del 1940, l’acciaio e il ferro. Parallelamente, gli Stati Uniti intensificarono l’appoggio alle forze nazionaliste cinesi e assunsero una posizione più rigida nei negoziati bilaterali con il Giappone, culminati in una serie d’incontri tra il segretario di Stato, Cordell Hull, e l’ambasciatore giapponese a Washington, Kichisaburo Nomura. Per ripristinare relazioni normali e togliere l’embargo, gli USA chiedevano che il regime giapponese ponesse termine alle occupazioni della Cina e dell’Indocina settentrionale, s’impegnasse a rispettare la porta aperta e abbandonasse l’alleanza con la Germania e l’Italia46. Il governo giapponese ritenne allora che l’unica alternativa alla capitolazione alle richieste statunitensi fosse maturare un’autosufficienza economica raggiungibile solo attraverso una serie di ulteriori conquiste territoriali in Estremo Oriente. Nel luglio del 1941 i soldati giapponesi sbarcarono nell’Indocina meridionale, testa di ponte ideale per altre azioni offensive nella regione. Gli USA reagirono sospendendo i negoziati, procedendo al congelamento dei fondi giapponesi depositati nelle banche statunitensi e bloccando qualsiasi scambio commerciale con il Giappone. Altrettanto fecero la Gran

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Bretagna e il governo olandese in esilio. Il Giappone era potenzialmente in ginocchio: il 90% del petrolio importato da Tokyo proveniva infatti dagli USA e dalle Indie Orientali olandesi47. Diviso al suo interno tra moderati, favorevoli alla riapertura del negoziato con Washington, e nazionalisti, indisponibili al compromesso, il Giappone seguì un doppio binario: cercò di riavviare il dialogo con gli USA, ma accelerò la preparazione militare e fissò una scadenza dopo la quale, in caso di mancato accordo, avrebbe intrapreso un attacco contro i possedimenti nel Pacifico di Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda. Una mediazione si rivelò però impossibile. Il Giappone era disponibile a un ritiro parziale dall’Indocina, ma non a perdere la Cina né ad abbandonare i suoi sogni di dominio regionale; per gli USA, e per Roosevelt in particolare, la sovranità della Cina e la riaffermazione della porta aperta erano obiettivi non negoziabili48. Il 7 dicembre 1941 il Giappone promosse una serie di raid aerei contro la base britannica di Singapore, contro quelle statunitensi sulle isole Wake e Midway, nel Pacifico settentrionale, e, soprattutto, contro quella di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Nell’attacco di Pearl Harbor, che causò la morte di più di 2.000 soldati e civili statunitensi, gli USA persero una parte importante della propria flotta, come pianificato dal Giappone, che intendeva ridurre la capacità statunitense prima d’intraprendere un’offensiva in Malesia e nelle Indie Orientali olandesi. Il 7 dicembre 1941 – proclamò Roosevelt davanti a una sessione congiunta del Congresso – era un giorno destinato a restare «simbolo d’infamia». La dichiarazione dell’esistenza di uno stato di guerra con il Giappone fu votata alla quasi unanimità, col solo voto contrario della deputata pacifista del Montana Jeanette Rankin. L’attacco giapponese – affermò il giorno seguente Roosevelt in un discorso radiofonico al paese – rappresentava «l’apice di un decennio d’immoralità internazionale» durante il quale «gangster potenti e intraprendenti si erano uniti per muovere guerra all’intera specie umana». La legalità internazionale e, con essa, un ordine globale giusto e stabile andavano ripristinati. Solo gli Stati Uniti disponevano dei mezzi economici, militari, politici e diplomatici per farlo. Solo gli Stati Uniti, prossimi a combattere un doppio conflitto, in Europa e sul Pacifico, potevano rendere la guerra mondiale e offrire una soluzione realmente globale alla crisi. Nel farlo, furono facilitati dalla

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decisione di Hitler di dichiarare guerra agli stessi Stati Uniti. Con la sua scelta, il Führer sollevò infatti Roosevelt dal problema politico di giustificare un intervento militare sui due fronti – quello europeo e quello asiatico – che sia il presidente sia i suoi consiglieri ritenevano necessario strategicamente e diplomaticamente49. Come durante il primo conflitto mondiale, alla mobilitazione bellica corrispose quella sul fronte interno. Le esigenze della guerra offrirono lo stimolo decisivo per portare gli USA fuori dalla lunga crisi economica degli anni Trenta. Gli ingenti investimenti federali (superiori, tra il 1941 e il 1945, al doppio di quelli dei precedenti 150 anni di storia), la conversione delle imprese alla produzione di beni militari, la straordinaria crescita della produttività, l’aumento dei risparmi e dei salari, la carenza di manodopera e l’ingresso delle donne nella forza lavoro industriale furono solo alcuni degli elementi della straordinaria trasformazione economica, sociale e finanche culturale prodotta dalla guerra. Come in occasione del primo conflitto mondiale, vennero creati appositi organismi incaricati di coordinare e gestire questa mobilitazione, anche se essi furono investiti di poteri meno ampi e discrezionali. Come venticinque anni prima, l’indebitamento e i liberty bonds rappresentarono lo strumento principale attraverso cui furono rastrellate le risorse per far fronte a queste spese. La macchina propagandistica agì con strumenti meno rozzi e ancor più efficaci di quelli utilizzati nel 1917-18. L’ampio consenso interno e la relativa assenza di divisioni tra i gruppi nazionali presenti negli USA permise di evitare alcuni degli eccessi che avevano contraddistinto il fronte interno durante la Grande guerra. Un episodio grave e odioso fu però rappresentato dalla decisione di deportare cittadini americani di origine giapponese in appositi campi (i cosiddetti relocation centers), collocati lontano da aree strategicamente vitali. Autorizzato da un ordine esecutivo di Roosevelt e confermato da una successiva sentenza della Corte suprema, il trasferimento coatto coinvolse più di 100.000 persone, costrette ad abbandonare rapidamente le proprie case e a trascorrere l’intero periodo della guerra in aree isolate e inospitali50. La diplomazia bellica e il coordinamento strategico con gli alleati si rivelò invece ancor più complesso di quanto non fosse stato nel 1917-18. La priorità fu data al teatro europeo, come concordato con Churchill alcuni mesi prima di Pearl Harbor e nella convinzione che fosse la Germania a rappresentare il nemico più pericoloso. La for-

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mazione di una grande coalizione antifascista fu formalizzata nel gennaio del 1942, quando i governi dei ventisei paesi in guerra contro le potenze dell’Asse, molti dei quali in esilio, firmarono la Dichiarazione delle nazioni unite. «Consci di partecipare ad una lotta comune contro forze selvagge e brutali», che cercavano «di soggiogare il mondo», i ventisei s’impegnavano a cooperare, a non firmare armistizi o accordi di pace separati e a cercare una «vittoria completa» per promuovere una pace basata sui principi della Carta atlantica51. Al di là delle dichiarazioni dal carattere universalista, a fronteggiare le potenze fasciste erano però Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Fra i tre alleati emersero subito divergenze e tensioni sulla conduzione della guerra, alle quali concorrevano visioni strategiche diverse, a loro volta informate da considerazioni politiche e preoccupazioni per il futuro. La Gran Bretagna privilegiava un approccio periferico, fatto di bombardamenti sulla Germania, blocchi navali e offensive mirate in Nordafrica e nel Mediterraneo. Ciò avrebbe permesso di sottrarsi a uno scontro frontale con il superiore esercito nazista, di limitare le perdite britanniche, evitando una ripetizione della carneficina della Prima guerra mondiale, e di difendere il Medio Oriente e le vie di comunicazione indispensabili alla preservazione dei vari pezzi dell’impero. L’Unione Sovietica, impegnata in una guerra drammatica per la sopravvivenza, invocava l’immediata apertura di un secondo fronte in Europa occidentale, che avrebbe costretto Hitler a trasferire alcune divisioni a ovest, alleviando la pressione nazista sul fronte orientale. I militari statunitensi condividevano la posizione sovietica, che consideravano la via più rapida per porre termine al conflitto in Europa, permettendo così di concentrarsi sul teatro asiatico, dove gli USA erano impegnati in una guerra difensiva e di contenimento, frustrante e assai dispendiosa in termini di uomini e di mezzi52. Queste differenze, e in particolare la questione del secondo fronte, avrebbero segnato la diplomazia interalleata durante gran parte della guerra, alimentando diffidenze e sospetti, soprattutto in Stalin. Roosevelt seguì in un primo tempo Churchill, accettando contro il parere dei suoi capi di Stato maggiore di promuovere alla fine del 1942 uno sbarco nel Nordafrica francese (l’operazione Torch). Si trattava di un’operazione digressiva che obbligava la Germania a trasferire parte delle sue forze nella regione, ma che non costituiva certo il secondo fronte auspicato da Stalin né la premessa di una ra-

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pida svolta della guerra in Europa. Nel corso del 1943, però, le divergenze nell’alleanza anglo-statunitense si fecero più aspre e Roosevelt si schierò spesso dalla parte dell’URSS, che aveva resistito con costi umani immensi all’attacco tedesco e, una volta posto termine all’assedio di Stalingrado, aveva avviato una controffensiva sul fronte orientale53. Avvicinandosi il momento della vittoria, Roosevelt cominciò inoltre a delineare la sua visione di quale ordine internazionale sarebbe dovuto emergere dopo il conflitto. Il grand design rooseveltiano poggiava su tre elementi fondamentali, tra loro non pienamente complementari. Il primo è quello che per convenienza potremmo definire l’elemento geopolitico, intendendo con ciò la distribuzione del potere nel sistema internazionale e il suo effetto sui tipi di equilibri, regionali e globali, catalizzati dalla guerra e dagli accordi interalleati, finalizzati a garantire la preservazione dell’ordine e della stabilità. Per Roosevelt, la guerra rappresentava un ulteriore passaggio nell’ascesa degli Stati Uniti a potenza egemone sulla scena mondiale; essa evidenziava una volta ancora il primato statunitense e concorreva a rafforzarlo e a cronicizzarlo. Oltre a dare l’ennesima, tangibile prova della forza statunitense, il conflitto mostrava come gli USA costituissero l’unico soggetto la cui influenza, il cui raggio d’azione e i cui interessi fossero davvero globali. Erano gli USA a operare su due fronti e a renderli pienamente uniti e interdipendenti; erano gli USA a fornire le risorse materiali necessarie a Gran Bretagna e URSS per continuare a combattere; erano infine sempre gli USA a mettere sul piatto quel surplus di uomini, mezzi e tecnologia indispensabili per sconfiggere le potenze dell’Asse. I dati relativi alla guerra sono impressionanti ed emblematici. La produzione statunitense di velivoli da combattimento crebbe di otto volte tra il 1940 e il 1944, raggiungendo una cifra complessiva superiore a quella combinata di Gran Bretagna, Germania e Giappone. La cifra spesa dagli USA in armamenti era, nel 1943, superiore di tre volte a quella della Germania, che pure aveva mobilitato in modo totale la propria economia al servizio dell’immenso sforzo bellico. Prima della fine del conflitto, gli ingenti investimenti avrebbero dotato gli USA dell’arma nucleare, alterando ulteriormente a loro vantaggio lo squilibrio di potenza militare54. A dispetto di tutto, però, gli USA non disponevano né di mezzi illimitati né della volontà politica per agire come unico garante della

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pace e della stabilità. Erano ovviamente disposti a svolgere una funzione di indiscusso leader regionale nell’emisfero occidentale e in parte del Pacifico, ma ritenevano indispensabile cooptare altri soggetti in un’azione disciplinatrice e multilaterale, basata sulla cooperazione, ma anche sul riconoscimento altrui del primato statunitense. Bisognava, in altre parole, ricostituire un concerto di potenza adattato ai tempi: globale nel suo raggio d’azione e gerarchico laddove separava e distingueva i suoi membri dagli altri Stati del sistema internazionale e accettava che al proprio interno vi fosse un soggetto superiore per forza e influenza, che erano ovviamente gli Stati Uniti. Questo concerto doveva essere composto da quelli che Roosevelt chiamò i «quattro poliziotti» del sistema internazionale: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e la Cina. Il considerare quest’ultima una grande potenza, sia pure in fieri, oltre che esprimere sogni antichi e mai del tutto abbandonati, rifletteva il convincimento rooseveltiano che la guerra dovesse rappresentare un momento di svolta e palingenesi delle relazioni internazionali, in conseguenza del quale vecchie potenze (Giappone e Germania) erano destinate a uscire per sempre di scena e altre (la Cina) a subentrarvi. Al futuro colosso cinese era pertanto affidato il compito di garantire assieme agli USA l’ordine in Estremo Oriente. Ai due alleati di guerra, Gran Bretagna e URSS, si assegnava invece il ruolo fondamentale di una stabilità europea fondata sul bilanciamento reciproco (nessuna potenza avrebbe così dominato l’Europa), sulla definitiva messa a tacere di qualsiasi sfida revisionista (la Germania sarebbe stata drasticamente punita e divisa) e sulla possibilità per gli USA di osservare le vicende da lontano, intervenendo solo in caso di estrema necessità (soddisfacendo così sia l’orientamento di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica sia le pulsioni antieuropee dello stesso Roosevelt)55. L’elemento geopolitico costituiva però solo una parte del grand design rooseveltiano. Soffermarsi esclusivamente su di esso, attribuendo a Roosevelt meriti e colpe di un approccio prettamente realista, significa mancare quegli aspetti che con esso interagivano e al cui servizio il concerto di potenza dei «quattro poliziotti» era in larga misura posto. Lasciato a se stesso, l’equilibrio di potenza si era rivelato meccanismo di autoregolamentazione fragile e inaffidabile. E comunque una sua applicazione rigorosa presumeva un approccio selettivo e particolarista che strideva con la lezione della guerra, con

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le convinzioni di Roosevelt, con l’interdipendenza e con l’esistenza di un altro comune denominatore che rendeva sempre più unitarie le relazioni internazionali: l’esistenza di una potenza davvero globale per interessi e capacità di proiezione quali erano ormai gli Stati Uniti. Per questo andavano ripresi e ampliati alcuni elementi dell’originaria visione wilsoniana, conferendo forma e struttura a questo aspetto delle relazioni internazionali, creando un forum per parlare all’opinione pubblica internazionale, definendo meccanismi chiari per sostanziare, estendere e far rispettare la legalità internazionale e costituendo un’assemblea capace di riconoscere formalmente sia lo status dei «quattro poliziotti» sia l’eguaglianza, simbolica e pratica, di tutti gli altri Stati. Innervata da una robusta dose di Realpolitik, doveva cioè sorgere una nuova grande organizzazione internazionale, in grado di sostituire la Società delle Nazioni, trarre insegnamento dai fallimenti di quest’ultima e, diversamente da essa, esprimere quelli che erano ormai i veri rapporti di forza nell’arena mondiale. Un obiettivo, questo, reso più facile dalla scomparsa di quei fattori che avevano viziato, ab origine, la nascita della Società delle Nazioni: l’obbligo per gli USA di accettare mille compromessi e indietreggiamenti, pur di dare vita all’organizzazione, e il fatto che all’interno del paese il fronte contrario alla partecipazione degli Stati Uniti era ormai screditato e in disarmo. La nuova organizzazione destinata a sorgere, argomentavano Roosevelt e ancor più Hull, poteva e doveva essere un’organizzazione le cui caratteristiche e la cui natura sarebbero state decise in larga misura dagli USA medesimi56. Il terzo e ultimo elemento del disegno rooseveltiano era rappresentato dalla definizione di una serie di regole e procedure che tutelassero e garantissero il pieno dispiegamento del lato virtuoso dell’interdipendenza, che era stato travolto dalla crisi economica degli anni Trenta. Era necessario, in altre parole, riattivare gli scambi commerciali, riaprire i mercati, rendere convertibili le valute e tornare a offrire opportunità d’investimento e di circolazione dei capitali. Unitario e interdipendente per la sicurezza, il mondo doveva tornare a esserlo anche per l’economia e il commercio. Anche per questo Roosevelt assunse subito una posizione molto ostile nei confronti del colonialismo britannico e ancor più francese, che non solo violavano l’autodeterminazione, radicalizzando i movimenti indipendentisti e ponendo le premesse per una nuova, grande ondata di conflitti, ma creavano altresì sistemi di scambi preferenziali e dividevano il mon-

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do in grandi blocchi valutari e commerciali. Non si trattava però solamente di un rilancio di vecchi cliché liberisti. L’interdipendenza prospettata da Roosevelt conteneva infatti una dimensione sociale, già espressa nella formula delle quattro libertà, che mancava a quella wilsoniana. Roosevelt rigettava una visione classica e minimalista della democrazia, nella convinzione che prosperità, alta occupazione e redditi crescenti costituissero prerequisiti essenziali di un vero modello democratico e che un’effettiva estensione della rete mondiale delle democrazie, fondamento di una futura pace per Roosevelt come per Wilson, imponesse la loro diffusione anche fuori dai confini statunitensi57. Concerto di potenza, «quattro poliziotti» e riconoscimento agli USA di un ruolo speciale e privilegiato. Organizzazione internazionale che formalizzasse questa gerarchia di potenza, ma offrisse anche un riconoscimento paritetico a tutti gli altri e permettesse l’effettiva attivazione di meccanismi di sicurezza collettiva e di definizione della legalità internazionale. Libero scambio, abbattimento delle barriere al commercio internazionale, piena affermazione di forme virtuose e benefiche d’interdipendenza, diffusione di modelli di sviluppo e di tutele sociali e occupazionali. Erano questi i tre grandi obiettivi che Roosevelt intendeva raggiungere per costruire un sistema internazionale liberale, stabile e ordinato, fondato su una dose di pragmatismo che a Wilson era mancata, ma beneficiario altresì di condizioni domestiche e internazionali diverse e ben più favorevoli. Si trattava di obiettivi assai ambiziosi, ma anche vaghi. Il loro raggiungimento dipendeva dal corso della guerra, da negoziati con alleati i cui scopi spesso non coincidevano con quelli statunitensi, dal modo in cui funzionari ed esperti avrebbero attuato le direttive non sempre coerenti e precise che provenivano dalla presidenza e, infine, dagli scontri di potere all’interno del governo degli Stati Uniti. Molti aspetti relativi ai futuri assetti geopolitici furono discussi durante le conferenze e i vertici alleati, in occasione dei quali Roosevelt assunse non di rado una posizione mediana tra Stalin e Churchill. Nel gennaio del 1943, Churchill e Roosevelt s’incontrarono a Casablanca, dove fu pianificata la futura campagna d’Italia. Nell’occasione, il presidente statunitense annunciò inoltre che gli Alleati non avrebbero accettato alcuna capitolazione parziale delle potenze dell’Asse: la loro doveva essere una «resa incondizionata» (uncondi-

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tional surrender). Criticata in seguito da molti commentatori, secondo i quali essa finì per radicalizzare lo sforzo difensivo tedesco, la formula della resa incondizionata rifletteva in realtà la filosofia e il modo di operare di Roosevelt: la sua visione globale e assoluta della sicurezza che gli USA avrebbero dovuto costruire, che imponeva la sconfitta senza condizioni del nemico; il suo obiettivo di punire in modo definitivo la Germania; la sua volontà di rassicurare il sospettoso alleato sovietico e di mobilitare l’opinione pubblica statunitense per l’ultimo, grande sforzo militare; la sua intenzione di creare una sorta di tabula rasa, necessaria per il pieno dispiegamento del suo grand design58. Il primo vertice cui parteciparono i tre capi di Stato delle potenze alleate fu quello che si tenne a Teheran, nel novembre del 1943. La questione dell’apertura di un secondo fronte a ovest dominò la discussione. Churchill auspicava di posticipare lo sbarco alleato in Francia. I successi sovietici avevano aggiunto una ulteriore motivazione a quelle che già in passato avevano informato le posizioni del primo ministro britannico: il timore di facilitare l’avanzata dell’Armata Rossa verso ovest e il convincimento conseguente che fosse preferibile promuovere un’azione nei Balcani, con cui raggiungere il doppio scopo di sconfiggere la Germania e di fissare il più possibile a est la frontiera del territorio caduto manu militari sotto il controllo sovietico. Già nel 1943 si palesavano alcuni dei dilemmi e delle questioni che avrebbero avvelenato i rapporti tra gli Alleati e causato in seguito la Guerra Fredda. Roosevelt riuscì però a scavalcare Churchill: la cooperazione con l’URSS era troppo importante, sia per i progetti politici statunitensi sia per le operazioni militari, in Europa e in Asia. Porre fine alla guerra europea voleva dire potersi concentrare sul teatro asiatico, ottenendo anche qui un aiuto da parte dell’URSS che era auspicato da Roosevelt e dai suoi consiglieri59. A Teheran si evidenziò non solo la capacità di collaborare e trovare decisioni comuni tra Washington e Mosca, ma anche come quest’asse bipolare tra i due futuri giganti del sistema internazionale ponesse la Gran Bretagna in una posizione subordinata e minasse da subito il progetto rooseveltiano di creare un equilibrio anglo-sovietico in Europa. A Teheran – avrebbe sostenuto Churchill – «me ne stavo seduto a fianco del grande orso russo da un lato, con le sue zampe allungate, e del grande bufalo americano dall’altro», come un

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«povero asinello inglese [...] l’unico dei tre, peraltro, che sapeva quale fosse la strada giusta verso casa»60. I comportamenti sovietici, su tutti il mancato appoggio all’azione promossa nell’agosto 1944 dalla resistenza polacca a Varsavia, confermarono le perplessità di Churchill. Il primo ministro britannico cercò di sottrarsi a questa subordinazione e di contenere una minaccia, quella di un dominio sovietico in Europa, a suo modo di vedere sottovalutata da Roosevelt. Lo fece negoziando direttamente con Stalin e cercando di formalizzare una divisione in sfere d’influenza dell’Europa assai diversa dall’equilibrio bipolare immaginato e auspicato da Roosevelt, che prevedeva sì un bilanciamento di potenza tra Gran Bretagna e URSS, ma anche l’apertura del continente europeo alle merci, ai capitali e all’influenza degli Stati Uniti. Almeno sulla carta, Churchill e Stalin si accordarono per la spartizione dei Balcani e dell’Europa sud-orientale in occasione del vertice bilaterale di Mosca dell’ottobre 1944, quando i due leader diedero una definizione percentuale di quale dovesse essere la rispettiva influenza in Grecia (90% alla Gran Bretagna e 10% all’URSS), in Romania (90% all’URSS e 10% alla Gran Bretagna), in Bulgaria (75% all’URSS e 25% alla Gran Bretagna) e in Jugoslavia e Ungheria (50% ciascuno in entrambi i paesi)61. L’accordo sulle percentuali era un gioco dalla scarsa se non nulla praticabilità: come si sarebbe mai potuta misurare un’influenza del 10, 25 o 50% esercitata da uno Stato su un altro? Esso era però sintomatico delle difficoltà che Roosevelt si trovava di fronte per dare corso ai suoi progetti. L’URSS era prossima a diventare la potenza dominante in un’Europa debole, divisa e vulnerabile. Punendo la Germania si sarebbe rimosso l’unico contrappeso continentale possibile all’Unione Sovietica. La Gran Bretagna non disponeva dei mezzi e delle risorse per adempiere a tale ruolo e comunque contestava sia i progetti statunitensi sia la collocazione, regionale ed europea, che questi assegnavano a Londra. La contestazione britannica non si limitava infatti solo alle modalità di attuazione dell’elemento geopolitico del disegno rooseveltiano, ma si estendeva anche alla filosofia liberale e universalista che vi sottostava. Non poteva essere altrimenti, visto che essa prendeva di mira prima di tutto il colonialismo europeo, i suoi sistemi di preferenze imperiali e le sue chiusure tariffarie e valutarie. Le operazioni militari e la diplomazia interalleata erano andate di pari passo con gli interminabili negozia-

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ti tra Gran Bretagna e Stati Uniti sul futuro ordine commerciale e finanziario mondiale. I negoziatori di Gran Bretagna e Stati Uniti avevano individuato un punto di convergenza nella convinzione che fosse necessario giungere a una qualche stabilizzazione che evitasse sia le rigidità del gold standard sia l’indisciplina e la volatilità valutaria degli anni Trenta. Si trattava però di un comune denominatore assai minimalista. A contrapporsi erano l’obiettivo statunitense di promuovere un’apertura e una liberalizzazione del sistema internazionale e l’intenzione britannica di preservare un’autonomia nazionale nelle proprie scelte macroeconomiche, che passava anche attraverso la possibilità di sottrarsi ai vincoli imposti da standard monetari stringenti, attuando politiche occupazionali e dei prezzi il più possibile indipendenti e mantenendo il sistema delle preferenze imperiali. Un compromesso fu raggiunto con gli accordi ratificati a Bretton Woods nel luglio del 1944. Essi riconoscevano di fatto al dollaro la funzione di valuta di riserva assieme all’oro, facilitavano un graduale ritorno alla convertibilità, ma lasciavano un certo grado di flessibilità alle politiche monetarie degli Stati e, ancor più, permettevano degli squilibri temporanei nelle loro bilance dei pagamenti, cui avrebbero dovuto ovviare i crediti forniti dal neonato Fondo monetario internazionale62. Molti studiosi hanno enfatizzato questo compromesso, che finiva per dare forma a un «liberalismo imbrigliato» e spurio, nel quale la convertibilità delle valute e la liberalizzazione commerciale non impedivano l’intervento statale, il controllo sui movimenti di capitali e l’adozione di politiche nazionali espansive, finalizzate alla piena occupazione e alla stabilità sociale63. I lunghi negoziati evidenziavano però la resistenza della Gran Bretagna ai progetti statunitensi e la sua capacità di condizionare e in parte stravolgere i contenuti del disegno rooseveltiano, anticipando anche in questo caso tensioni e difficoltà che sarebbero esplose con la fine della guerra. Churchill, come ebbe a esclamare pubblicamente, non era «diventato primo ministro del re per presiedere alla liquidazione dell’impero britannico»64. Ai negoziati di Bretton Woods seguirono quelli di Dumbarton Oaks, a Washington, dove i rappresentanti di Cina, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti definirono una proposta per la creazione di una futura organizzazione internazionale da sottoporre agli altri governi firmatari della dichiarazione delle Nazioni Unite. Due erano gli obiettivi fondamentali: evitare che la nuova organizzazione

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si riducesse a mero organo consultivo e di discussione, come era stato per la Società delle Nazioni; garantire che essa rispecchiasse i reali rapporti di potenza e desse veste istituzionale alla gerarchia rooseveltiana dei «quattro poliziotti», creando un Consiglio di sicurezza di cui i quattro sarebbero stati membri permanenti. L’effettivo funzionamento dell’organizzazione dipendeva pertanto dalla continuazione della collaborazione del tempo di guerra e dalla definizione di meccanismi che evitassero paralisi nel processo decisionale del Consiglio. Nessuna di queste condizioni si realizzò. Contro la volontà di Roosevelt, i quattro membri permanenti (ai quali si aggiunse in seguito la Francia) furono dotati di un potere di veto generalizzato, anche su questioni e dispute in cui essi erano parte in causa. Le Nazioni Unite, la cui carta costitutiva sarebbe stata ratificata pochi mesi più tardi da cinquanta paesi, sorgevano da subito monche e imperfette. Negli anni sarebbero diventate per le potenze, grandi e piccole, il pulpito da cui parlare all’opinione pubblica mondiale e per mezzo del quale ottenere un’investitura di legittimità alle proprie posizioni e richieste. Non avrebbero però costituito lo strumento con cui definire e far rispettare la legalità internazionale e, per il tramite di questa, garantire la sicurezza collettiva65. L’andamento della guerra stava peraltro modificando molte delle condizioni strutturali che avevano ispirato il progetto rooseveltiano. Il sistema internazionale evolveva verso un bipolarismo, per quanto imperfetto, assai diverso dal sistema uni/multipolare immaginato da Roosevelt, dove al primato globale statunitense sarebbe dovuto corrispondere l’equilibrio e il bilanciamento tra le altre potenze maggiori del sistema, Gran Bretagna e URSS in particolare. La capacità degli Stati Uniti di dettare la propria linea trovava resistenze inaspettate anche da parte del loro principale alleato, la Gran Bretagna. Sullo sfondo emergeva non solo la posizione dominante dell’URSS in Europa, ma anche la sua ambizione di proiettare un controuniversalismo, antitetico a (e competitivo con) quello statunitense66. I successi ottenuti dagli Alleati nel corso del 1944 – sbarco in Normandia e apertura del secondo fronte, avanzata anglo-americana nel Sud della Francia, nuova offensiva sovietica a est – evidenziavano come la sconfitta dell’Asse fosse solo una questione di tempo e avevano permesso agli USA di trasferire uomini e mezzi nel teatro del Pacifico. La disperata resistenza tedesca e giapponese dell’autunno 1944-45 avrebbe prolungato oltre il previsto il conflitto, ma la ne-

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cessità di concordare e programmare il futuro era per gli Alleati ormai inderogabile. Ciò avvenne nelle due più importanti conferenze di pace, tenutesi a Yalta in Crimea, nel febbraio del 1945, e a Potsdam, a sud-ovest di Berlino, nel luglio-agosto dello stesso anno. A Yalta gli alleati pianificarono le fasi finali del conflitto, definirono la struttura delle future Nazioni Unite, ribadirono la necessità di imporre alla Germania una resa incondizionata, si accordarono per una divisione del territorio tedesco in quattro zone d’occupazione (oltre ai tre, la Francia avrebbe partecipato all’occupazione, amministrando una parte del territorio tedesco sud-occidentale) e avviarono la discussione sulle riparazioni che la Germania avrebbe dovuto pagare e sulle modalità con cui sarebbe stato promosso il processo di denazificazione e smilitarizzazione dello Stato tedesco. Le questioni potenzialmente più controverse, che coinvolgevano la Polonia, furono risolte in larga misura a vantaggio di Mosca. Il confine orientale polacco fu fissato all’altezza della cosiddetta linea Curzon, lasciando all’URSS quei territori acquisiti in seguito all’accordo con la Germania nazista del 1939 (il patto Ribbentrop-Molotov). La Polonia era compensata attraverso uno spostamento verso ovest del suo confine occidentale, che sarebbe stato definito a Potsdam. I tre s’impegnavano a garantire la natura democratica e rappresentativa dei governi che sarebbero sorti nelle aree occupate dai rispettivi eserciti. Era però chiaro che nell’Europa centro-orientale, e in Polonia in particolare, l’URSS avrebbe imposto la propria volontà e un ruolo dominante sarebbe stato svolto dai partiti comunisti filosovietici, a prescindere dalla loro forza elettorale e a dispetto di un antisovietismo assai radicale e diffuso. Infine, l’URSS prometteva di partecipare alla guerra contro il Giappone entro tre mesi dalla fine delle ostilità in Europa67. I tanti critici di Roosevelt hanno presentato Yalta come un’immorale capitolazione al disegno spregiudicato ed espansionistico dell’Unione Sovietica. Secondo questa argomentazione, sull’altare di una cinica politica di potenza, ovvero a causa della leggerezza e superficialità del presidente statunitense, i paesi dell’Europa centroorientale venivano dolosamente posti sotto il giogo oppressivo di Mosca, ove sarebbero rimasti per più di quattro decadi68. L’ottimismo di Roosevelt, così come la vaghezza dei suoi progetti, facilitarono sicuramente tale esito. Il presidente statunitense, che

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nutriva poca se non nulla simpatia per la Polonia, sopravvalutava grandemente la sua capacità di influenzare e condizionare le scelte di Stalin. Non aveva però molte altre strade a disposizione e sapeva che sfidare apertamente i sovietici sull’Europa orientale avrebbe rischiato di scatenare a breve un altro, drammatico conflitto mondiale. Né Roosevelt si faceva particolari illusioni sulla natura delle democrazie che sarebbero sorte nei paesi sotto l’influenza sovietica. Come ha ipotizzato lo storico John Harper, Roosevelt riteneva che eventuali elezioni in Polonia non sarebbero state così dissimili da quelle che si svolgevano «in una qualche corrotta città del Midwest» degli Stati Uniti. «Al massimo sperava che i sovietici prestassero un po’ di attenzione alle forme democratiche e limitassero la loro brutalità, in nome della continuazione dei buoni rapporti con l’Occidente»69. Indebolito da problemi di cuore e dalla paralisi che lo aveva costretto per più di vent’anni su una sedia a rotelle, e provato dal tortuoso viaggio a Yalta, Roosevelt sarebbe morto poche settimane più tardi. L’ultima grande conferenza di pace fra i tre grandi fu quella di Potsdam, successiva di due mesi alla fine delle ostilità in Europa. Alla conferenza parteciparono un nuovo presidente statunitense, Harry Truman, e un nuovo primo ministro britannico, Clement Attlee, che sostituì Churchill durante il vertice, dopo la vittoria laburista alle elezioni. A Potsdam si definirono con maggior chiarezza le modalità dell’occupazione della Germania concordate a Yalta, fu fissato all’altezza dei fiumi Oder e Neisse il confine occidentale della Polonia e fu emessa una dichiarazione congiunta nella quale s’invitava il Giappone ad arrendersi senza condizioni. In caso contrario, si affermava, il Giappone sarebbe stato soggetto a una «immediata e assoluta distruzione»70. E la distruzione arrivò, devastante e senza precedenti. Dopo anni d’investimenti e ricerca, gli Stati Uniti erano riusciti finalmente a sviluppare l’arma atomica. Truman ne autorizzò l’uso. Il 6 agosto 1945 una prima bomba fu sganciata sulla città di Hiroshima. Tre giorni più tardi, un secondo ordigno nucleare colpì la città di Nagasaki. Assieme all’ingresso in guerra dell’URSS, il doppio bombardamento – che negli anni avrebbe causato la morte di centinaia di migliaia di persone – indusse l’imperatore giapponese ad accettare la resa senza condizioni.

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La guerra terminava e una nuova era si apriva. La bomba atomica e la decisione di usarla costituivano il simbolo estremo di cosa la guerra fosse stata e di quale cesura storica avesse rappresentato. Le ragioni che indussero Truman a bombardare Hiroshima e Nagasaki sono state, e continuano ad essere, oggetto di dibattito storiografico aspro, appassionato e polarizzato. Tra gli estremi di chi ritiene che Truman agì per dare un segnale all’URSS, fermandone l’avanzata in Asia e aprendo la Guerra Fredda, e chi invece giustifica la decisione come necessaria per porre termine al conflitto e salvare così molte vite umane, si collocano molte interpretazioni più sfumate e moderate. L’uso dell’arma nucleare si legava però coerentemente alla natura di una guerra assoluta e totale, per impegno, mobilitazione, diffusione geografica e, più di tutto, distruzione. Fra i terribili bombardamenti di Tokyo del marzo 1945 e quelli di Hiroshima e Nagasaki vi era un nesso strettissimo. Né il presidente né i militari avevano piena consapevolezza dell’effettiva capacità distruttiva della nuova arma, del cui funzionamento non erano ancora certi. E se anche l’avessero avuta, nell’agosto del 1945, essa sarebbe apparsa come la logica appendice della guerra: un’aggiunta, infinitesimale ancorché terribile, al picco estremo di morte e devastazione al quale tutti sembravano ormai essere assuefatti71. Ma l’atomica segnava anche un punto di svolta e sembrava incarnare a sua volta la natura estrema e contraddittoria di una potenza, quella degli Stati Uniti, che la guerra aveva concorso ad ampliare ed estendere, in termini assoluti e relativi. Con l’atomica, la guerra, o almeno una guerra tra grandi potenze, diventava vieppiù impensabile e impraticabile. L’arma nucleare era destinata a rivelare ben presto la sua natura paradossale: tale era la sua capacità distruttiva, che essa sfuggiva al controllo della politica al cui servizio doveva essere in realtà posta. Era uno strumento eccessivo, destinato però a definire lo status di potenza e ad alimentare un’infinita e pericolosissima corsa agli armamenti. Così come l’arma nucleare, anche la superiorità statunitense – netta e indiscussa – si mostrava difficile da spendere diplomaticamente. Non diversamente da Wilson, Roosevelt aveva ritenuto che la vittoria nella guerra fosse la premessa per l’avvio di un percorso ineluttabile e finalistico, che avrebbe posto termine alle guerre ed esteso a tutto il mondo il «vangelo dell’americanismo»72. In nome di questo, rimosse o non affrontò i problemi che si frapponevano al pieno dispiegamento del suo disegno e non

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preparò a sufficienza l’opinione pubblica interna alle difficoltà e contraddizioni che sarebbero inevitabilmente emerse una volta terminato il conflitto. Condì la sua visione con una dose di Realpolitik che era mancata a Wilson, agendo con spregiudicatezza maggiore e sofisticatezza minore. Concorse a fare in modo che la svolta internazionalista – centrata su una visione olistica della sicurezza, sul riconoscimento dell’interdipendenza e su una concezione indivisibile della pace – risultasse definitiva e irreversibile, ma lasciò al suo successore una serie di dilemmi irrisolti e all’America un mondo destinato a rivelarsi assai diverso, e più pericoloso, da quello promesso e auspicato.

Parte terza IMPERO GLOBALE

VIII GUERRA FREDDA

1. Un ordine solo occidentale La Seconda guerra mondiale ampliò a dismisura il gap di potenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. La superiorità statunitense si fece netta e indiscussa. A fronte di un’Europa e di un Giappone devastati e prostrati dal conflitto, gli Stati Uniti emersero dalla guerra più ricchi e floridi che mai. Tra il 1939 e il 1945 il PIL statunitense crebbe più dell’80%, sotto lo stimolo delle esigenze militari e del conseguente incremento degli investimenti federali. La produzione industriale aumentò a tassi del 15% annuo. Alla fine del conflitto, il 75% delle spese militari complessive erano statunitensi. Gli USA possedevano i due terzi delle risorse aurifere mondiali. Il sistema di Bretton Woods aveva fatto del dollaro la principale valuta del sistema internazionale. In termini assoluti, le economie delle altre due grandi potenze rimaste, Gran Bretagna e Unione Sovietica, corrispondevano ciascuna a circa un quinto di quella degli Stati Uniti. Negli USA, la disoccupazione, ereditata dalla depressione del decennio precedente, aveva lasciato il posto a una condizione di mancanza di manodopera, alla quale si supplì attraverso un massiccio ingresso delle donne nella forza lavoro. La riduzione del rapporto tra consumi e crescita e il riorientamento dell’attività industriale verso la produzione di beni militari catalizzarono un aumento dei risparmi che avrebbe a sua volta alimentato la prosecuzione del boom economico anche dopo il 19451. Questo primato industriale e finanziario si combinava con un’indiscussa superiorità tecnologica e militare, simboleggiata dal primato dell’aeronautica statunitense e dal possesso monopolistico del-

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l’arma atomica (che sarebbe durato fino al 1949). Soprattutto, esso integrava e completava la straordinaria capacità seduttiva che il modello americano era andato gradualmente maturando nel corso del XX secolo. I consumi di massa, le universali «libertà atlantiche», la tecnologia senza pari, la costante crescita dei livelli di produttività affascinavano gran parte del mondo e rendevano apparentemente «irresistibile» l’impero americano. L’influenza che gli Stati Uniti sembravano in grado di esercitare si esprimeva su piani diversi, esprimendo la natura davvero multidimensionale, e quindi egemonica, del primato statunitense2. Il grand design rooseveltiano poggiava sulla fiducia nella spendibilità politica e diplomatica di questo primato e rifletteva la consapevolezza che il conflitto aveva rappresentato uno spartiacque decisivo nella politica internazionale. Al contempo, però, esso rivelava la volontà di esercitare con cautela e circospezione il ruolo di guida che la storia pareva avere assegnato agli Stati Uniti. Si basava, anzi, sulla convinzione che un «ordine internazionale liberale» potesse nascere e consolidarsi solo laddove gli USA fossero stati in grado di imporre consensualmente la propria leadership, cooptando altri soggetti – a partire dall’URSS – nella sua gestione. Roosevelt ragionava analogicamente e guardava alle lezioni del passato. Nel farlo riproponeva, aggiornandolo, un modello parzialmente wilsoniano, fondato sul riconoscimento dell’interdipendenza e della necessità di una gestione multilaterale del sistema internazionale, sull’importanza dell’ONU, ma anche sull’individuazione di una precisa gerarchia di potenza, che faceva degli USA l’unica potenza dal raggio globale e assegnava all’URSS, alla Gran Bretagna e alla Cina un ruolo rilevante, ancorché esclusivamente regionale, nella co-amministrazione degli affari mondiali. L’obiettivo era quello di evitare un ritorno agli anni Trenta, prevenendo il dominio di una singola potenza in Europa e in Asia e la costituzione di blocchi economici regionali, che avrebbero ostruito la diffusione degli scambi e lo sviluppo di processi benefici d’interdipendenza commerciale e finanziaria3. Il globalismo temperato e realista di Roosevelt esprimeva una disponibilità al compromesso, rifletteva l’ottimismo del presidente statunitense e originava da varie omissioni ed errori d’analisi. Roosevelt riteneva che la collaborazione con l’URSS – cementata da comuni interessi geopolitici – sarebbe continuata anche in tempo di pace; che la Gran Bretagna sarebbe stata in grado di esercitare il suo ruolo in

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Europa, ‘bilanciando’ l’Unione Sovietica e cooperando con essa nella preservazione della stabilità; che gli altri paesi europei fossero disponibili ad accettare sia questo primato bipolare anglo-sovietico sia il modello di laissez-faire parziale e moderato incarnato dagli accordi di Bretton Woods; che, infine, questo progetto di riorganizzazione del sistema internazionale riuscisse a raccogliere un ampio consenso interno negli Stati Uniti. Tutti questi assunti si rivelarono infondati. La collaborazione con l’URSS non sopravvisse alla fine della guerra e alla sconfitta del comune nemico nazista. La Gran Bretagna e gli altri futuri alleati europei degli Stati Uniti opposero resistenza a molti aspetti del disegno statunitense e cercarono di tutelare e proteggere le proprie fragili economie, senza per questo rinunciare agli aiuti americani. Le Nazioni Unite non furono in grado di svolgere il ruolo ad esse assegnato, paralizzate dai meccanismi di funzionamento del Consiglio di sicurezza e dal veto assegnato ai suoi membri permanenti. All’interno degli Stati Uniti la disponibilità sorprendente (e certo sottovalutata da Roosevelt) dell’opinione pubblica a sostenere un impegno internazionale del paese si combinò con la convinzione che questo impegno dovesse avere un chiaro connotato anticomunista e antisovietico. Debilitato dalla malattia, Roosevelt morì nell’aprile del 1945, lasciando al suo vice, Harry Truman, il compito di affrontare questi dilemmi. Le decisioni prese dagli Stati Uniti nei quattro anni successivi avrebbero concorso allo scoppio della Guerra Fredda. Soprattutto, avrebbero prodotto una radicale rimodulazione del disegno rooseveltiano. Il suo afflato globale ne uscì di molto ridimensionato; al contempo, però, si assistette in un’area delimitata e circoscritta – quella euroatlantica – a una proiezione senza precedenti del primato e dell’egemonia degli USA e a forme nuove, per strumenti e profondità, d’integrazione strategica ed economica. 1.1. Tracciare confini, territorializzare l’impero: il contenimento Per quale motivo la collaborazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica non sopravvisse alla fine del conflitto? Perché il bipolarismo postbellico non acquisì una forma collaborativa e divenne immediatamente, e irrimediabilmente, conflittuale? Queste domande hanno contraddistinto la discussione sulle origini della Guerra Fredda, sulle sue cause così come sull’attribuzione delle responsabilità per il suo

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scoppio. Nell’ultimo decennio si è anzi assistito a un ritorno, per quanto aggiornato, di quella polarizzazione interpretativa che aveva caratterizzato il dibattito storiografico tra gli anni Cinquanta e Settanta4. Come tutti i processi storici complessi, anche lo scoppio della Guerra Fredda va analizzato e discusso considerando i tanti fattori e concause che lo provocarono, evitando attribuzioni unilaterali di colpe e torti. Le caratteristiche sistemiche degli assetti internazionali, i comportamenti e le decisioni sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica e, infine, l’intrattabilità della questione tedesca si sommarono nell’alimentare una spirale di tensioni e incomprensioni che avrebbe portato alla divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e alla competizione globale tra USA e URSS5. È possibile dare una duplice lettura strutturalista – geopolitica e ideologica – delle origini della Guerra Fredda. In termini di distribuzione della potenza, il sistema postbellico si caratterizzava per la sua natura bipolare: Stati Uniti e Unione Sovietica costituivano due potenze distinte dalle altre. Si trattava di un bipolarismo asimmetrico e imperfetto. Uno dei due poli, gli USA, era nettamente superiore all’altro: gli Stati Uniti potevano ambire a una proiezione globale ancora inaccessibile all’URSS, che per scelta e per necessità rimaneva concentrata sull’Europa. Ma il passaggio da un ordine multipolare a uno bipolare si era definitivamente compiuto ed era prossimo a trovare una consacrazione formale, e istituzionale, con la nascita di due blocchi politici, militari ed economici contrapposti. Vi è un ampio dibattito sulla natura stabile o instabile, oppressiva o disciplinatrice, di un ordine bipolare6. Meno discutibile è che esso tenda naturalmente a stimolare la competizione tra i due poli dominanti, a maggior ragione se all’elemento sistemico si aggiunge quello ideologico. In modi diversi, Stati Uniti e Unione Sovietica ambivano entrambi a proiettare modelli universalistici e progressivi; a rappresentare due teleologie della modernità, due messianismi. Credevano, URSS e USA, nel loro «destino manifesto». Ritenevano ambedue d’incarnare un moto della storia, che andava però guidato e difeso dagli avversari che minacciavano di farlo deragliare, rivelando il lato oscuro e minaccioso della modernità (per gli Stati Uniti), ovvero dai nemici di classe che si frapponevano al pieno dispiegamento delle forze del progresso (per l’Unione Sovietica)7. Questa contrapposizione ideologica integrava ed esasperava l’og-

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gettivo antagonismo geopolitico. La sua manifestazione più evidente stava nella visione massimalista e intransigente delle proprie esigenze di sicurezza sposata sia da Washington sia da Mosca. Stalin aspirava a una forma di sicurezza totale impossibile da raggiungere in un sistema vieppiù globale e interdipendente e riteneva inevitabile che la fragilità dell’Europa occidentale avrebbe aperto il campo a una graduale, ma inarrestabile estensione dell’influenza sovietica8. Nel caso statunitense, tornava, adattato ai tempi, un lessico antico che invocava un intervento sul sistema internazionale e una sua radicale alterazione, considerati indispensabili per difendere la sicurezza, e con essa la libertà, degli Stati Uniti. Come già in passato, interventismo e sicurezza, impero e libertà venivano inestricabilmente legati. Nel farlo, si ribadiva la convinzione che la natura stessa dell’avversario costituisse una minaccia e che solo una sua trasformazione potesse garantire il raggiungimento dei propri obiettivi e la preservazione della propria libertà9. Questi massimalismi, antitetici ma speculari, condizionarono le scelte sovietiche e statunitensi nei mesi immediatamente successivi alla fine del conflitto e fecero ben presto deflagrare l’antagonismo tra le due parti. Alimentarono una spirale nella quale la ricerca parallela della sicurezza totale catalizzava il senso d’insicurezza della controparte, irrigidendone le posizioni. Un «dilemma della sicurezza», questo, che riproponeva nell’arena internazionale meccanismi tipici di consolidate dinamiche relazionali10. Meno ben disposto nei confronti dell’URSS e maggiormente ostile verso il comunismo di quanto non fosse stato Roosevelt, Truman assunse subito una posizione più intransigente. Il programma affitti-prestiti per l’URSS fu ridotto e gli USA non accolsero una richiesta sovietica di ottenere un prestito per il dopoguerra. Le critiche per le modalità con cui l’URSS stava imponendo il proprio controllo nella sua sfera d’influenza si fecero più aspre. Il caso della Polonia – dove l’URSS venne meno al suo impegno di permettere la formazione di un governo genuinamente democratico – preoccupò Truman e molti suoi consiglieri. Tra questi crebbe l’influenza di chi diffidava di Stalin e aveva criticato in passato il disegno rooseveltiano. Al Congresso e nel paese cominciarono a farsi sentire le voci di chi invocava maggiore fermezza nelle relazioni con Mosca11. Non si trattava di una scelta facile né scontata, ma da parte sovietica si fece del proprio meglio per agevolarla e per far precipitare

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lo scontro. Sulla Polonia Stalin non indietreggiò, anticipando i processi analoghi di sovietizzazione che sarebbero seguiti in altri paesi dell’Europa centro-orientale. Le modalità repressive con cui andava configurandosi l’impero europeo dell’URSS e la violenza delle politiche d’occupazione dell’Armata Rossa sdegnarono Washington e spaventarono molti governi dell’Europa occidentale. A monte agiva una contraddizione che si sarebbe rivelata irresolubile. Anche Truman riconosceva come legittima la volontà sovietica di edificare una propria sfera d’influenza nei paesi dell’Europa centro-orientale. Qualsiasi iniziativa in tal senso si sarebbe però scontrata con la diffusa ostilità verso l’URSS presente in molti di questi paesi, a partire dalla Polonia, e con l’incapacità di un regime autoritario come quello sovietico di esercitare forme d’influenza negoziata e consensuale. Qualsiasi impero sovietico avrebbe riprodotto in larga misura forme e metodi di governo brutali e repressivi: per necessità, essendo questo l’unico modo effettivo per garantirne la sopravvivenza, ma anche per natura, costituendo questa l’intima essenza del sistema staliniano. Questo avrebbe finito a sua volta per acuire le tensioni con gli USA e giustificato le posizioni di chi chiedeva di porre termine alla collaborazione con l’URSS12. Il fronte principale, che fece precipitare lo scontro, fu però quello tedesco. Alla conferenza di Potsdam del luglio-agosto 1945 era stato raggiunto un accordo di massima sulla Germania. Esso prevedeva la ricostituzione di una Germania denazificata, smilitarizzata, neutrale e sottoposta a una qualche forma di controllo internazionale. Il paese era temporaneamente diviso in quattro zone d’occupazione (amministrate da Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Unione Sovietica), ma doveva essere trattato come un’unica entità economica13. La collaborazione ebbe vita breve. Le forme e la violenza dell’occupazione sovietica nella parte orientale della Germania suscitarono sdegno e orrore genuino. La questione delle riparazioni evidenziò la lontananza tra le posizioni anglo-statunitensi e quelle sovietiche e rese sempre più difficile l’amministrazione unitaria del territorio tedesco. L’URSS procedette allo smantellamento di parte dell’apparato industriale tedesco che cadeva nella sua zona d’occupazione, ma lo considerò semplice bottino di guerra, da non includere nelle quote fissate, in maniera vaga e ben presto contestata, alle conferenze di Yalta e Potsdam. Tarate rispetto al livello di produzione

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industriale raggiunto in Germania, le riparazioni previste da questi accordi avrebbero imposto sacrifici immensi alla popolazione tedesca, alimentando ulteriore malcontento e sottraendo risorse preziose alla ricostruzione economica e alla stabilità politica dell’Europa occidentale. Già nel luglio del 1945 Truman sottolineò questo legame tra le sorti della Germania e quelle dell’Europa: «se non ci concentriamo immediatamente sulla produzione di carbone tedesco», affermò allora il presidente statunitense, «avremo disordini e agitazioni proprio in quelle aree dell’Europa occidentale dalle quali dipende la stabilità dell’intero continente»14. Nell’equazione complessiva che avrebbe determinato il comportamento statunitense s’inseriva così una variabile nuova e cruciale. Durante la guerra, Roosevelt e alcuni suoi collaboratori – su tutti il segretario del Tesoro Henry Morgenthau Jr. – avevano spesso considerato la possibilità di imporre una pace punitiva alla Germania, che ne avrebbe dovuto contemplare sia la deindustrializzazione sia la divisione. Ora, a poche settimane dalla fine della guerra, si riconosceva la centralità economica e geopolitica della Germania. Qualsiasi ricostruzione economica dell’Europa – ammetteva Truman – avrebbe avuto bisogno dell’industria e del carbone tedeschi. Una punizione eccessiva della Germania rischiava inoltre di facilitare la formazione di pericolosi vuoti di potere nel cuore dell’Europa, che avrebbero potuto stimolare il risorgere di un nuovo nazionalismo tedesco o dei quali avrebbe potuto beneficiare la stessa Unione Sovietica. Diventava necessario reintegrare gradualmente la Germania nel blocco a leadership statunitense. Per farlo bisognava però accettare due modifiche radicali del progetto rooseveltiano: gli Stati Uniti si sarebbero dovuti impegnare, militarmente ed economicamente, in Europa assai più di quanto non avessero previsto; l’ordine internazionale che si sarebbe così costruito avrebbe avuto una natura parziale e per nulla globale15. Si trattava in altre parole di tracciare quanto prima una linea. Fissare un perimetro. Territorializzare un impero. A questo mutamento diede brillante giustificazione la penna di un funzionario dell’ambasciata statunitense a Mosca, destinato a diventare uno degli analisti più originali ed eterodossi della Guerra Fredda: George Kennan. Prima in un lungo telegramma inviato al Dipartimento di Stato, poi in un articolo pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs», Kennan definì quella che sarebbe dovuta essere la strategia degli USA nei con-

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fronti dell’ex alleato sovietico. Nel farlo seppellì l’idea che vi potesse essere una collaborazione con l’URSS e sollecitò l’istituzione di un cordone attorno all’URSS, capace di bloccarne l’espansione e, gradualmente, di catalizzarne l’implosione. La metafora offerta da Kennan per compendiare questa strategia fu quella del «contenimento» (containment). Secondo Kennan il comportamento dell’URSS, e le sue azioni in Europa orientale, originavano da tre fattori: il messianismo ideologico e la volontà di esportare la causa del socialismo; le antiche paure geopolitiche, che l’URSS aveva sostanzialmente ereditato dal regime zarista («il tradizionale e istintivo senso d’insicurezza russo», affermò Kennan, «è alla base della visione nevrotica che il Cremlino ha degli affari internazionali»); la necessità di conservare uno stato di ostilità permanente con il mondo esterno, funzionale al regime per mantenere un controllo autoritario e oppressivo sulla popolazione. Intrinsecamente espansionista, irrazionale nelle sue fobie e convinta che l’«antagonismo tra capitalismo e socialismo» fosse «innato», l’URSS era però una potenza debole, prostrata dalla guerra, cauta, opportunista e assai sensibile al linguaggio della forza. A una simile analisi non poteva che seguire una prescrizione inequivoca: «il tratto principale di qualsiasi politica statunitense verso l’Unione Sovietica», affermò Kennan, «deve essere quello di un contenimento durevole, paziente, anche se fermo e vigile, delle tendenze espansionistiche russe». Questo perché, «proprio come nella sua concezione del mondo capitalista», era possibile che «la potenza sovietica contenesse al suo interno i semi del proprio declino» e che essi, a dispetto delle apparenze, si trovassero già in uno «stadio avanzato di germogliazione»16. L’analisi di Kennan, come la metafora del «contenimento», era vaga e ricca di contraddizioni. Le sue conseguenze sui comportamenti dell’amministrazione Truman si sarebbero rivelate per certi aspetti ‘incontenibili’, come Kennan stesso avrebbe compreso di lì a poco. Essa forniva però una precisa indicazione strategica e discorsiva. Viziati ab origine dalla sorgente irrazionale e aggressiva che li generava, i comportamenti e le richieste sovietiche diventavano, ipso facto, illegittimi, a prescindere dal loro merito e contenuto. In quanto tali andavano respinti con fermezza e intransigenza; o, meglio, dovevano rimanere semplicemente inascoltati. Due crisi, scoppiate in Iran, dove l’URSS non diede inizialmente corso all’impegno di ritirare le proprie truppe, e in Turchia, dove Mosca chiedeva l’accesso agli

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stretti e la concessione di una base nei Dardanelli, parvero confermare la validità della prescrizione kennaniana: in entrambi i casi, infatti, la linea della fermezza adottata da Washington indusse l’URSS a fermarsi e a indietreggiare. Per Kennan nessuna interazione con un soggetto come l’URSS era possibile fino a quando essa non avesse cessato di esistere ovvero non avesse mutato pelle. A questa non interazione, che alcuni commentatori sagaci come Walter Lippmann denunciarono subito come una morte della diplomazia e un’abiura della politica, corrispondeva l’invito a tracciare una linea, oltre la quale non si sarebbe mai consentito all’URSS di spingersi. L’amministrazione Truman e quelle che seguirono avrebbero discusso a lungo sulla natura globale o circoscritta di questa linea: sul suo dover costituire un continuum o, come affermò Kennan, semplicemente «una serie di punti politici e geografici costantemente cangianti in corrispondenza dei cambiamenti e delle manovre della politica sovietica». Indiscutibile, però, fu la convinzione che questa linea dovesse essere marcata con precisione e rapidità prima di tutto in Europa. «Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è scesa sul continente», proclamò Winston Churchill, denunciando l’azione sovietica in Europa centro-orientale e invocando un maggiore impegno statunitense per farvi fronte. Una richiesta, questa, analoga a quella che proveniva da vari governi europeo-occidentali, spaventati sia dal gigante sovietico sia dall’incertezza del futuro. Una contro-cortina andava immediatamente tracciata; dietro di essa si sarebbe dovuta costruire un’Europa prospera, americanizzata e filoamericana, capace di contenere sia l’URSS sia l’influenza del comunismo, attendendo con pazienza la lenta ma ineluttabile maturazione dei semi del loro declino17. 1.2. Offrire capitali, liberalizzare gli scambi, costruire l’egemonia: il Piano Marshall Truman aveva ereditato da Roosevelt la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti e la stabilità internazionale dipendessero anche dall’apertura commerciale e dallo scardinamento di quei blocchi regionali che impedivano la liberalizzazione degli scambi. Nella sua forma più estrema, questa visione liberista e ‘unimondiale’ avrebbe dovuto portare all’abbattimento delle barriere tariffarie, alla libera circolazione delle merci e al superamento del protezionismo adottato da molti Stati, soprattutto dopo la grande de-

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pressione. Si trattava però di un obiettivo non realistico. I lunghi negoziati che portarono agli accordi di Bretton Woods produssero un primo compromesso: un ordine globale solo in parte liberalizzato e un’apertura gestita con gradualità, che costituiva per molti aspetti una via di mezzo tra progetti e filosofie diversi18. A questo compromesso ne seguirono però altri, sì da indurre uno dei più importanti studiosi della ricostruzione economica europea a sostenere che il sistema di Bretton Woods fosse in crisi già nel 194719. Tra il 1945 e il 1947 gli Stati Uniti furono indotti a rivedere i propri progetti e a modificare forme e funzioni della loro politica di aiuti. In un primo tempo, questi aiuti erano stati inviati senza distinzione a tutti i paesi europei, inclusi quelli che cadevano nell’area d’influenza sovietica, e in assenza di una precisa strategia di ricostruzione economica. Per quanto ingenti in termini assoluti, essi avevano avuto un carattere strutturalmente emergenziale e contingente. Con l’intensificarsi delle tensioni con Mosca, si decise di usare la politica di aiuti economici in modo più selettivo, mirato e discriminatorio, per fronteggiare le difficoltà che colpivano i paesi del futuro blocco occidentale anticomunista e procedere così alla sua costituzione. Maturata la decisione di tracciare un confine e di deglobalizzare il futuro ordine internazionale a egemonia americana, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare tre archi di crisi, che s’inserivano nel quadro più generale della difficile situazione europea: la questione tedesca, le difficoltà britanniche e i problemi italiano e francese. In Germania maturò ben presto la convinzione che nessuna collaborazione con l’URSS fosse possibile e che la strada, inevitabile e più opportuna, fosse quella della divisione del paese. Gran Bretagna e Stati Uniti decisero nel gennaio del 1947 di unificare le rispettive zone d’occupazione in un’unica entità amministrativa. Si trattava del primo passo verso la partizione della Germania in due Stati diversi, a est e a ovest, anche se a questa eventualità si sarebbe opposta ancora per un anno e mezzo la Francia, timorosa verso una possibile rinascita economica e politica del nemico tedesco, per quanto amputato di una parte del suo territorio e di fatto soggetto a una forma non secondaria di tutela esterna20. In Francia e in Italia, la sopravvivenza delle grandi coalizioni antifasciste appariva ora controproducente, politicamente ed economicamente. L’amministrazione Truman riteneva che essa permettes-

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se all’URSS di destabilizzare i due paesi, ritardandone la ripresa, per il tramite dei partiti comunisti che ne facevano parte, e impedisse l’adozione delle misure economiche necessarie per la loro ricostruzione. Una politica mirata di aiuti avrebbe permesso il conseguimento di obiettivi politici ed economici strettamente interrelati: rafforzare la popolarità delle forze filoamericane; fornire le risorse necessarie per la crescita economica; evitare politiche deflazionistiche e di austerità, che avrebbero aumentato nel breve periodo il malcontento sociale e favorito le forze della sinistra più radicale21. Infine, si palesarono le difficoltà della Gran Bretagna e la sua inadeguatezza a bilanciare la forza dell’URSS in Europa. Difficoltà, queste, esasperate da diversi fattori: la riluttanza di Londra ad accettare un ruolo subordinato nel sistema internazionale; la sua incapacità di sostituirsi alla Germania come soggetto trainante della ripresa europea; l’impossibilità di garantire la convertibilità della sterlina, come chiesto da Washington; la tentazione britannica di difendersi dalla difficile situazione economica facendosi scudo della protezione garantita dall’impero e dal sistema di scambi all’interno del Commonwealth, preservando un’area a valuta debole e acquisendo dollari attraverso l’esportazione di materie prime dai dominions. Un progetto, quello britannico, che nel corso del 1946 divenne inaccettabile per gli USA, in quanto combinava vecchie tendenze protezionistiche, l’incapacità di confrontarsi con la nuova realtà internazionale e la richiesta sempre più pressante agli Stati Uniti affinché essi s’accollassero la responsabilità di fronteggiare l’URSS22. Queste tre specifiche situazioni di crisi erano lette alla luce del mutato quadro europeo e attraverso il prisma, che si sarebbe fatto col tempo sempre più deformante, dell’antagonismo bipolare. Un prisma che tendeva a rappresentare il sistema internazionale con categorie vieppiù rigide e binarie, come si era visto in occasione dell’enunciazione della cosiddetta Dottrina Truman (marzo 1947), sulla quale si tornerà successivamente nel capitolo. Accettata, anche se non ancora esplicitata, la divisione dell’Europa e della Germania, bisognava consolidare il blocco occidentale, immunizzandolo da influenze comuniste e filosovietiche e prevenendo derive neutraliste e terzaforziste. Per farlo era necessario porre termine alle incertezze causate dai vari teatri di crisi, manifestare l’impegno americano in Europa e superare la situazione di fragilità economica di molti paesi dell’Europa occidentale, causata anche

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dalla mancanza di dollari con i quali acquistare le materie prime e i beni capitali necessari alla ricostruzione. Si trattava, in altre parole, di impegnarsi direttamente, massicciamente e, più di tutto, visibilmente nella parte d’Europa non ancora sotto influenza sovietica, per dare forza e sostanza all’idea che il limes tracciato dal contenimento fosse davvero invalicabile. La minaccia non era rappresentata tanto da un’improbabile iniziativa militare sovietica, ma dalla precarietà economica, dall’instabilità sociale e dal rischio conseguente di una radicalizzazione dello scontro politico. Per questo – affermò Kennan nel maggio del 1947 – un «programma di aiuti americani all’Europa» non doveva essere diretto «a combattere il comunismo in quanto tale», ma al «ripristino della salute economica» e del «vigore spirituale» della società europea23. Fu questo l’obiettivo primario del progetto annunciato dal segretario di Stato George Marshall il 5 giugno 1947. «Gli Stati Uniti», proclamò in quella occasione Marshall, avrebbero fatto «tutto ciò che era nelle loro possibilità per facilitare il ritorno a condizioni economiche normali nel mondo, in assenza delle quali» non era possibile avere né «stabilità politica né pace certa». Solo «la rinascita di un’economia mondiale funzionante» avrebbe permesso la maturazione di «condizioni politiche e sociali» propizie allo sviluppo e alla sopravvivenza di «istituzioni libere». Gli aiuti americani sarebbero serviti per fronteggiare la «fame, la povertà, la disperazione e il caos» e non per contrastare «un paese o una dottrina». Gli Stati Uniti si sarebbero però opposti con fermezza a quei «governi, partiti politici o gruppi» che cercavano «di perpetuare la miseria umana per trarre dei vantaggi politici»24. Il programma di aiuti, che sarebbe divenuto noto come Piano Marshall, si poneva diversi obiettivi, politici ed economici. Esso ambiva a dare carattere strutturale e permanente alla ripresa economica, integrando le economie e i mercati europei – inclusi quelli della parte occidentale della Germania – in una rete d’interdipendenze disciplinate attraverso canali multilaterali. Con ciò si sarebbero rafforzati politicamente i governi filostatunitensi di quei paesi – come Italia e Francia – ove più forte era la presenza di forze politiche e sindacali filosovietiche e si sarebbero finalmente esportati anche in Europa modelli economici e pratiche industriali capaci di promuovere sviluppo e distribuire benessere, depotenziando così le tensioni politiche e sociali. Il modello storico cui si guardava era quello degli

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stessi Stati Uniti. I suoi due pilastri, concettuali ma anche ideologici, erano quelli di crescita e produttività. L’aumento della seconda avrebbe permesso di introdurre pratiche contrattualiste nei rapporti di lavoro e di facilitare politiche di distribuzione del reddito di cui avrebbero beneficiato tutti i segmenti della popolazione25. Il piano aveva però una precisa valenza offensiva e propagandistica. Accolto con entusiasmo dai paesi dell’Europa occidentale, fu offerto anche all’URSS e ai paesi che ricadevano nella sua sfera d’influenza. Si trattava di una scommessa calcolata. Vi erano poche probabilità che il Congresso approvasse un programma di aiuti all’Unione Sovietica e difficilmente quest’ultima avrebbe accettato le forme di coordinamento e integrazione che il piano imponeva. Il governo sovietico valutò attentamente l’offerta americana. Il suo ministro degli Esteri Vjacˇeslav Molotov partecipò ai lavori della conferenza internazionale convocata per discutere la proposta statunitense. Giudicando inaccettabili i vincoli posti, Molotov abbandonò l’assise. L’URSS impedì la partecipazione al piano agli altri paesi dell’Est che avevano mostrato interesse, Cecoslovacchia e Polonia in particolare26. Il Piano Marshall costituì uno dei più ambiziosi programmi d’assistenza economica della storia. Durò quattro anni (1948-52) e coinvolse sedici paesi. Gli Stati Uniti elargirono 13 miliardi di dollari (circa 90 miliardi se indicizzati ai prezzi di oggi), equivalenti all’1,5% del PIL statunitense dell’epoca, con un picco del 3% nel 1948. L’obiettivo di ampliare e integrare i mercati dei paesi europei, facilitando il coordinamento delle loro politiche economiche, fu raggiunto solo in parte. Superata la fase dell’agiografia e della celebrazione, negli ultimi vent’anni molti studiosi hanno evidenziato i tanti limiti del piano, pur sottolineandone l’impatto finanziario e, soprattutto, psicologico: la scarsa leva negoziale che esso offrì agli USA nei rapporti con gli alleati europei; la mancata collaborazione tra i paesi beneficiari degli aiuti e la loro tendenza a muoversi in modo autonomo, perseguendo obiettivi prettamente nazionali; la relativa rilevanza macroeconomica del piano nello stimolare processi di sviluppo che in molti casi erano iniziati prima del suo varo27. Il piano però non aveva solo una finalità economica. Se valutato sulla base dei suoi obiettivi politici e culturali, e inserito nel contesto della Guerra Fredda e della spartizione dell’Europa, il Piano Marshall raggiunse molti degli scopi per i quali era stato promosso. Pur

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declinati entro contesti nazionali peculiari, i principi produttivistici d’oltreoceano conobbero una significativa diffusione anche in Europa. I programmi di scambio promossi dal governo statunitense portarono negli USA migliaia di imprenditori, sindacalisti e agricoltori, cui furono insegnati modelli di relazioni di lavoro e pratiche produttive nuove, centrate sulla fiducia nella tecnologia e sulla sua capacità di far aumentare costantemente numero e qualità delle merci prodotte. Sommandosi a programmi analoghi in altri ambiti delle relazioni transatlantiche – in particolare quello militare e quello educativo – essi concorsero alla formazione di un’élite atlantica e filostatunitense, che si sarebbe rivelata politicamente e culturalmente influente e avrebbe avuto un ruolo primario nel consolidamento dell’egemonia americana in Europa28. Il Piano Marshall incarnava un modello liberal e moderatamente progressista dello sviluppo, sufficientemente inclusivo da catalizzare un vasto consenso interno negli USA e che si proclamava essere universalmente riproducibile. In Europa, l’affermazione di tale modello serviva per estendere l’influenza degli Stati Uniti. Era, questa, un’influenza setacciata, adattata e modificata, ma proprio per questo più solida e pervasiva; capace cioè di produrre egemonia. Non a caso grande attenzione fu dedicata all’attività di propaganda che accompagnò il piano e alla sua ricaduta sulle opinioni pubbliche dei paesi che vi parteciparono. Anche grazie al Piano Marshall, gli Stati Uniti diventarono sempre più il punto di riferimento dei processi di sviluppo e modernizzazione, in Europa e non solo; il termine di paragone con cui confrontarsi e l’esempio forte da emulare29. La Guerra Fredda non scoppiò con il Piano Marshall o in conseguenza di esso. Tanti altri fattori contribuirono a produrre la divisione bipolare dell’Europa, definendone tempi e forme. Ma il Piano Marshall svolse un ruolo decisivo nel determinare le caratteristiche della presenza degli Stati Uniti in Europa e nel qualificare il modello imperiale statunitense. Centrato sul binomio crescita-prosperità, in Europa questo modello dimostrò da subito la capacità di generare consenso, cosa che invece mancava a quello sovietico. Nel farlo, finì per aggiungere un ulteriore elemento di asimmetria a vantaggio degli USA nel bipolarismo assai imperfetto della Guerra Fredda30. 1.3. Credibilità, impegno e sicurezza: l’Alleanza atlantica Con il contenimento e il Piano Marshall si ridefinì la strategia postbellica

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degli Stati Uniti. Il disegno diventò meno globale, l’impegno maggiore, l’egemonia – laddove possibile – più intensa. Dall’«ordine internazionale liberale» di Roosevelt si passò all’«ordine liberale occidentale» di Truman. Un ordine, questo, di cui il contenimento delimitava il perimetro e il Piano Marshall la sostanza. Mancavano però ancora alcuni tasselli importanti: la garanzia che l’impegno statunitense in Europa non sarebbe stato transitorio; l’assicurazione che gli alleati europei di Washington non avrebbero defezionato; la piena istituzionalizzazione del nuovo rapporto transatlantico. Da entrambe le parti dell’Atlantico si chiedeva di intensificare la collaborazione, estendendola anche all’ambito della politica di sicurezza. I primi piani statunitensi per la difesa dell’Europa occidentale da un’eventuale aggressione sovietica non potevano soddisfare i partner europei di Washington. Nella loro versione più ambiziosa, essi fissavano un fronte difensivo all’altezza dei Pirenei; da lì sarebbe dovuta partire un’eventuale controffensiva. Lo scoppio della Guerra Fredda produsse una doppia conseguenza. Da un lato, stimolò le pressioni europee affinché gli USA proteggessero militarmente l’Europa occidentale, utilizzando il loro potenziale nucleare per compensare la netta superiorità militare convenzionale sovietica. Dall’altro, indusse gli USA a chiedere agli alleati europei un maggiore contributo alla difesa comune e una partecipazione fattiva al contenimento dell’URSS31. Le ragioni per cui gli europei chiedevano un rafforzamento e un’istituzionalizzazione della partnership con gli USA non si limitavano però solo al bilanciamento della forza militare dell’URSS. A questo aspetto, centrale nel definire l’atteggiamento della Gran Bretagna, se ne aggiungevano altri due. Il primo era relativo alla Germania e alla possibilità che una parte di essa fosse riabilitata e cooptata nel costituendo ordine liberale occidentale. A pochi anni dalla fine del conflitto e dall’abbattimento del regime nazista, questa eventualità preoccupava e spaventava molti, soprattutto in Francia. Il coinvolgimento statunitense in Europa avrebbe dovuto servire anche a questo: a inserire la nuova Germania occidentale entro una cornice sopranazionale capace di bloccarne eventuali pulsioni revansciste; a controllarla e porla sotto tutela, internazionale e statunitense. La costituzione di un blocco occidentale serviva primariamente per contrastare l’URSS e per stabilire nitidamente il perimetro europeo del contenimento. Il contenimento dell’URSS implicava però anche quel-

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lo della Germania occidentale. Agli USA si chiedeva, impegnandosi in Europa, di adottare almeno inizialmente una politica di «doppio contenimento»32. Il terzo motivo che induceva molti governi occidentali, a cominciare dall’Italia, a invocare una maggiore assunzione di responsabilità degli Stati Uniti si legava direttamente al Piano Marshall. Esso evidenziava la natura precipuamente politica e psicologica dell’alleanza che si stava costituendo. Impegnandosi in Europa, gli USA avrebbero rafforzato politicamente quei governi e quelle forze politiche che si erano schierate in senso filo-occidentale. Facendolo, avrebbero contribuito al loro consolidamento, permettendo così il pieno dispiegamento dei programmi di sviluppo sostenuti da Washington33. Per gli Stati Uniti era però necessario che il loro commitment fosse pareggiato da un impegno analogo degli europei, perché in caso contrario il Congresso e l’opinione pubblica non avrebbero mai autorizzato la permanenza statunitense in Europa. Tra i due impegni vi era un’interdipendenza strettissima e circolare: gli USA rassicuravano gli alleati europei sulla loro volontà di proteggerli, garantendo così la loro mobilitazione e il loro schieramento nel bipolarismo della Guerra Fredda, che erano ritenuti a loro volta condizioni indispensabili del commitment americano. A monte agiva un elemento fondamentale della Guerra Fredda, destinato a condizionare tutte le scelte statunitensi: il problema della credibilità e la dimensione primariamente simbolica della competizione bipolare. Il contenimento, per essere efficace, doveva risultare credibile; e questa credibilità vi sarebbe stata solo se il suo perimetro fosse stato percepito come intangibile e non fossero esistiti dubbi sull’indisponibilità degli Stati Uniti a tollerare violazioni dei suoi limini. Impegnandosi in Europa, gli USA tranquillizzavano gli alleati e ne «consolidavano il morale», come sottolineò Marshall. Nel farlo, fornivano al contempo un messaggio inequivoco a tre altri soggetti: alla controparte sovietica; a quelle parti del mondo non ancora omologate al bipolarismo della Guerra Fredda, dove la competizione si sarebbe ben presto trasferita; all’opinione pubblica mondiale, che avrebbe dovuto costituire il vero giudice ultimo della sfida in atto34. I negoziati per la creazione di un’alleanza militare presero il via all’inizio del 1948. Anch’essi furono agevolati dai comportamenti

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dell’URSS e dalla progressiva sovietizzazione dell’Europa centroorientale, culminata con il golpe di Praga del febbraio 1948, quando cessò di esistere anche l’ultimo governo di coalizione e il Partito comunista cecoslovacco, appoggiato da Mosca, assunse il controllo del paese. Forte fu soprattutto l’impatto della decisione sovietica del giugno 1948 di bloccare l’accesso alla città di Berlino, che cadeva nella zona d’occupazione sovietica, ma che era stata anch’essa divisa in quattro settori, amministrati dalle potenze vincitrici del conflitto. L’azione, finalizzata a frenare la nascita di uno Stato tedescooccidentale, si rivelò un insuccesso. Essa alzò ulteriormente la soglia delle tensioni, accelerò il processo di costituzione della Repubblica federale tedesca e offrì uno straordinario successo propagandistico a Stati Uniti e Gran Bretagna, che rifornirono la città bloccata con un imponente ponte aereo. L’iniziativa partì formalmente dall’Europa, come chiesto da Truman. Nel marzo del 1948, Francia e Gran Bretagna diedero vita a un’alleanza militare, denominata Unione occidentale, alla quale aderirono anche il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo. Gli USA accolsero l’invito britannico ad allargare l’alleanza. I negoziati durarono dal giugno 1948 all’aprile 1949, quando dodici paesi ratificarono il Patto atlantico. Un’alleanza, questa, ancora priva di una precisa struttura, ma che per ampiezza geografica, obiettivi e caratteristiche non aveva precedenti nella storia. Essa impegnava infatti le parti contraenti a intervenire in difesa dei membri che fossero stati soggetti a un’eventuale aggressione e prevedeva forme estensive di collaborazione in ambito non solo militare, ma anche politico, economico e culturale35. Di lì a poco, l’Alleanza atlantica si sarebbe data una prima strutturazione organizzativa, con la nascita dell’Organizzazione del Patto atlantico (NATO, North Atlantic Treaty Organization). Negli anni la NATO avrebbe ulteriormente consolidato e ampliato le forme dell’interdipendenza euro-americana. Nel farlo, essa concorse a espandere e rimodulare quel comune denominatore politico, ideologico e discorsivo che sempre più univa le élite filostatunitensi dell’Europa in un fitto reticolo d’interessi, principi e pregiudizi. L’atlantismo divenne la lingua franca di una parte politica, sociale e geografica d’Europa, così come divenne componente essenziale dell’internazionalismo statunitense, per il quale esso costituiva espressione emblematica della convergenza tra gli interessi e i valori di quella che

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era definita come la «civiltà atlantica» o «occidentale». Questo aspetto fu enfatizzato in molti commenti dell’epoca. Il nuovo segretario di Stato Dean Acheson sostenne che l’alleanza era fondata sull’«affinità e sulla naturale identità d’interessi delle potenze nordatlantiche», la cui unità «costituiva il prodotto di almeno 350 anni di storia». La communitas in formazione poggiava su «istituzioni e convinzioni etiche e morali comuni» che stavano alla «base della civiltà occidentale»: «il Nordamerica e l’Europa occidentale», affermò Acheson, formavano «due metà di ciò che in realtà era un’unica comunità». Era «come se il continente perduto di Atlantide» fosse «improvvisamente riemerso dal mare che lo ricopriva» e fosse «tornato a essere un territorio solido», non destinato ad «affondare nuovamente», proclamò estasiata la giornalista del «New York Times» Anne McCormick. Fornendo una prima precisazione di quale fosse il perimetro del contenimento, l’Alleanza atlantica concorreva quindi a completare la definizione di uno dei termini e delle categorie nodali del campo semantico della Guerra Fredda: quello di un Occidente definito in negativo come antitesi del comunismo sovietico e in positivo come progressivo avvicinamento del mondo al modello ultimo di progresso e di emancipazione rappresentato dagli Stati Uniti medesimi36. Prima alleanza di mutua assistenza stipulata dagli USA dai tempi dell’accordo con la Francia del 1778, l’Alleanza atlantica intensificò ed estese l’egemonia statunitense. Più territorializzato e meno globale di quello immaginato da Roosevelt, l’impero americano del secondo dopoguerra si caratterizzava per alcune peculiarità, in particolare la sua straordinaria capacità di cooptare consensualmente nella sua gestione le élite dei paesi che ne facevano parte e di godere di una investitura di legittimità democratica del tutto inconsueta nelle altre esperienze imperiali contemporanee. Si trattava, infatti, di un impero per molti aspetti irresistibile nella sua leggerezza e nella sua capacità di produrre e diffondere un’egemonia che in Europa occidentale si basava sulla capacità di offrire simultaneamente protezione e benessere, sicurezza e prosperità. Un impero, però, che abbisognava anche di un consenso interno raggiungibile con codici e parole d’ordine altre rispetto sia a quelle di un atlantismo in larga misura elitario e di nicchia, sia di una cultura della prosperità che giustificava ripiegamenti più che crociate globali, che sedava invece di mobilitare. Con una significativa discrasia, l’argot interno della Guerra

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Fredda sviluppò da subito toni e categorie assai diversi da quelli utilizzati sulla scena internazionale37.

2. Mappe globali: la Dottrina Truman e l’NSC-68 Tra i teatri che maggiormente preoccupavano l’amministrazione Truman vi erano il Medio Oriente e il Mediterraneo sud-orientale. Qui la capacità di penetrazione sovietica appariva maggiore e qui si palesava l’incapacità della Gran Bretagna di svolgere il suo ruolo di stabilizzatore regionale, riequilibrando l’URSS. Alcune delle più importanti crisi del 1945-47 scoppiarono in quest’area: in Iran, in Turchia e in Grecia, dove l’aspro conflitto civile sembrava poter portare i comunisti al potere. Si trattava di situazioni molto diverse. Osservate con le lenti della Guerra Fredda, esse risultavano però rapidamente uniformate. Erano interpretate come parte di un più generale disegno espansionistico del Cremlino. Venivano legate al cuore geopolitico dell’antagonismo bipolare – l’Europa continentale e la Germania – in nome della credibilità e dell’interdipendenza. Laddove non contrastato immediatamente, si riteneva infatti che il virus del comunismo si sarebbe diffuso con rapidità nei tessuti, vulnerabili e malsani, dell’Europa postbellica: «Come una mela marcia trasmette l’infezione alle altre», sostenne Acheson, «così la corruzione della Grecia si trasmetterebbe all’Iran e all’Oriente. L’infezione sarebbe portata in Africa attraverso l’Asia Minore e l’Egitto, e in Europa per il tramite dell’Italia e della Francia, già minacciate dai più forti partiti comunisti dell’Europa occidentale»38. Poco importava se in Turchia e in Iran l’URSS agiva opportunisticamente, secondo antiche logiche di potenza del nazionalismo russo, o se il suo atteggiamento in Grecia era cauto e attendista. La minaccia era psicologica e simbolica. L’inazione non poteva essere contemplata. Nel febbraio del 1947 Londra – prostrata dalle difficoltà economiche, acuite da uno degli inverni più gelidi del secolo – annunciò di non essere più in grado di sostenere finanziariamente i governi di Grecia e Turchia. Gli Stati Uniti ritennero necessario sostituirsi alla Gran Bretagna, fornendo un aiuto straordinario di circa 400 milioni

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di dollari ai due paesi mediterranei. Il problema divenne convincere il Congresso ad autorizzare lo stanziamento. Le elezioni di midterm del 1946 avevano prodotto una maggioranza repubblicana nelle due Camere, isolazionista in alcune sue componenti più radicali, ma soprattutto refrattaria alla promozione di politiche estere troppo costose e interventiste. In una fase d’estensione degli impegni globali del paese, non sarebbe stato facile ottenere il via libera al provvedimento. Incontrando un gruppo di senatori, Truman e i suoi collaboratori enfatizzarono la portata della minaccia. Non si trattava solo di Grecia e Turchia; in ballo, sostenne Acheson, era la possibilità che «tre quarti del territorio mondiale cadessero sotto il controllo dei comunisti»: accettare uno «sfondamento sovietico» significava permettere «la penetrazione dell’URSS in almeno tre continenti». Alcuni importanti senatori dell’opposizione repubblicana – tra i quali il presidente della commissione Esteri del Senato, l’ex isolazionista Arthur Vandenberg – sollecitarono Truman a parlare direttamente all’opinione pubblica per farle comprendere la gravità della situazione39. Dopo un’intensa campagna d’informazione promossa dall’amministrazione, il 12 marzo 1947 Truman sottopose la richiesta di finanziamento straordinario alle due Camere del Congresso riunite in sessione congiunta. Il discorso del presidente – che sarebbe rapidamente diventato noto come Dottrina Truman – decontestualizzava la specifica situazione di Grecia e Turchia, che diventava solo un tassello del più complesso mosaico internazionale. Nel farlo, Truman attingeva a un armamentario retorico antico e assai familiare al paese. Legava la preservazione degli Stati Uniti, dei loro valori e della loro stessa libertà al quadro internazionale e al corso della storia e riaffermava il collegamento tra sviluppo, progresso e libertà. «I semi del totalitarismo», sostenne Truman, «si nutrono della miseria e del bisogno. Si diffondono nel terreno malvagio della povertà e del conflitto. Raggiungono piena maturazione quando muore la speranza di [...] una vita migliore». Gli USA dovevano «mantenere viva quella speranza», sostenendo «i popoli liberi» impegnati a contrastare «i tentativi di loro assoggettamento da parte di minoranze armate o attraverso pressioni esterne». «Se esitiamo nella nostra leadership», concluse Truman, «mettiamo in pericolo la pace mondiale» e, con essa, «il bene della nostra nazione»40. La ricezione del discorso fu in larga misura positiva. Privata-

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mente, Kennan espresse le sue prime perplessità su quella che riteneva essere una nuova deriva globalista della politica estera statunitense e sulla tendenza – cui peraltro egli stesso aveva concorso – a uniformare realtà locali e peculiari agli schemi universali del bipolarismo. Critiche vennero mosse da settori della destra repubblicana, guidati dal senatore Robert Taft, e da pezzi della sinistra rooseveltiana, tra i quali si distinse l’ex segretario del Commercio Henry Wallace. I media e gran parte del mondo politico appoggiarono invece Truman. Il «New York Times» comparò il discorso alla Dottrina Monroe; secondo il magazine «Life», esso aveva «penetrato come un fulmine la confusa atmosfera internazionale». Camera e Senato approvarono la richiesta con maggioranze assai ampie41. La strumentalità del messaggio era evidente. Si credeva che solo sovraccaricando la portata della minaccia, conferendole una connotazione esistenziale, si sarebbe convinto il paese e i suoi rappresentanti della necessità di agire. L’obiettivo, come sottolineò Vandenberg, doveva essere quello di «spaventare a morte il paese» (to scare hell out of the country). Leggere però la Dottrina Truman in termini meramente strumentali significa fraintenderne il suo profondo significato ideologico e politico: contrapporre rigidamente ideologia, interessi e identità, laddove essi invece interagivano e s’informavano mutualmente42. Due aspetti meritano qui di essere evidenziati. Il primo si lega al modo con cui gli USA si erano storicamente relazionati all’ambiente esterno. Il secondo è invece collegato con la specifica situazione del 1947 e con l’abbandono del grand design rooseveltiano. Il discorso di Truman si affidava a topoi consolidati, che la breve deriva isolazionista della seconda metà degli anni Trenta aveva solo minimamente scalfito. Topoi, questi, di un discorso di politica estera peculiarmente statunitense: nel manicheismo con cui si procedeva a una partizione binaria del sistema internazionale; nella fede che si riponeva sulla capacità degli Stati Uniti di essere all’altezza del compito; nella paura che si evocava e che catalizzava l’invito all’azione. Nel discorso di Truman riecheggiavano le esortazioni di Thomas Paine, di John Quincy Adams, di Woodrow Wilson. La Dottrina Truman offriva una «mappa morale globale» funzionale non solo alla chiamata alle armi del popolo americano, ma anche a disciplinare e semplificare lo spazio che minaccioso incombeva sugli Stati Uniti, sulla loro sicurezza e sulla loro stessa essenza, su quei valori basilari (i core

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values) al cui servizio la politica estera era sempre stata posta. Sicurezza e libertà dipendevano da un ambiente mondiale al quale non era possibile sottrarsi e sul quale era necessario agire prima che qualcun altro lo facesse43. Legata a doppio filo alla tradizione e alla cultura dell’internazionalismo statunitense, la Dottrina Truman costituiva però una risposta anche ai radicali mutamenti di prospettiva imposti dall’antagonismo con l’URSS e dall’abbandono del progetto rooseveltiano. La sua classicità – discorsiva e concettuale – serviva anche per questo: per sedare il senso di smarrimento che questi mutamenti imponevano. Così come a tale scopo serviva l’utilizzo e la legittimazione della categoria di totalitarismo, per il tramite della quale era possibile stabilire un collegamento forte tra la lotta al nazismo e quella al comunismo, occultando in tal modo la cesura del 194544. Il passaggio da una visione globalista a una atlantica-occidentale, espandibile ma strutturalmente limitata, non poteva essere indolore. A maggior ragione se esso imponeva paradossalmente un surplus d’impegno politico, militare ed economico. La Dottrina Truman avvolgeva entro una patina nuovamente globale una politica che per il momento aveva cessato di essere tale. Offriva un discorso classicamente universalista che, solo, poteva catalizzare quel consenso interno indispensabile a una politica estera attiva, interventista e immensamente costosa quale era quella del contenimento. Due anni e mezzo più tardi vide la luce un secondo documento seminale dell’internazionalismo statunitense della Guerra Fredda: l’NSC-68. Fino alla metà del 1949 la politica estera di Truman sembrava aver mietuto solo successi: le perplessità interne erano state vinte; in Europa il perimetro del contenimento era stato tracciato con precisione; la questione tedesca si era parzialmente risolta con la nascita a ovest della Repubblica federale tedesca, destinata a una rapida integrazione nella rete d’interdipendenze strategiche ed economiche dell’Occidente a guida statunitense. L’URSS aveva sì consolidato la sua presa sull’Europa centro-orientale, ma si trovava sulla difensiva, la sua immagine indebolita da alcune iniziative fallimentari, come il blocco di Berlino, e dal suo rigido controllo sui paesi satelliti. Alla fine del 1949 due avvenimenti alterarono radicalmente questa situazione: l’esplosione della prima atomica sovietica e la fine della guerra civile in Cina, con la vittoria dei comunisti di Mao Zedong

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e la nascita della Repubblica popolare cinese. La fine del monopolio nucleare statunitense colse di sorpresa l’amministrazione Truman. Della sua transitorietà non si era mai dubitato, ma le stime dei servizi d’intelligence statunitensi avevano previsto che l’Unione Sovietica si sarebbe dotata di una propria arma nucleare non prima del 1952. Ciò avrebbe dato tempo e modo agli USA di consolidare ulteriormente la propria posizione. Ora una delle asimmetrie della prima Guerra Fredda veniva improvvisamente meno. Sarebbe rimasto a lungo un gap – qualitativo e quantitativo – di potenza nucleare a vantaggio degli Stati Uniti, ma la combinazione tra la netta superiorità militare convenzionale dell’URSS e il suo potenziale arsenale atomico alterava gli equilibri postbellici e apriva scenari assai foschi, a maggior ragione se ad essa si aggiungeva la nascita di un nuovo gigante comunista in Asia. In realtà l’alleanza tra Cina e Unione Sovietica fu da subito assai complessa, cementata dall’affinità ideologica e dall’ostilità verso una potenza capitalista come quella statunitense, ma resa vulnerabile dalle diverse visioni del futuro e dal rapido riemergere di vecchie rivalità di potenza. All’epoca, però, pochi negli Stati Uniti compresero che vi potesse essere un antagonismo geopolitico tra i due giganti comunisti. Prevalse, infatti, la convinzione che il comunismo fosse un movimento monolitico, le cui varie espressioni nazionali agivano in accordo con l’URSS, sotto la guida e direzione della centrale moscovita45. Pesantemente criticato dalla destra repubblicana per avere «perso la Cina», Truman sollecitò una revisione della strategia statunitense alla luce dell’acquisizione sovietica dell’arma nucleare. Il compito fu svolto da un’apposita commissione di cui facevano parte esperti e funzionari del Dipartimento di Stato e di quello della Difesa coordinati da Paul Nitze, il successore di George Kennan alla guida del Policy Planning Staff del medesimo Dipartimento di Stato. Il lungo documento prodotto dal gruppo di Nitze – NSC-68, Obiettivi e programmi statunitensi per la sicurezza nazionale (United States Objectives and Programs for National Security) – fu presentato a Truman nell’aprile del 1950. L’NSC-68 costituiva una sorta di bibbia dell’ideologia di sicurezza nazionale affermatasi negli USA dopo il 1945. Un testo che incarnava come pochi altri la mentalità della Guerra Fredda, le sue partizioni rigide, le sue logiche assolutizzanti. Un’indicazione molto netta di quale dovesse essere il perimetro globale del contenimento46.

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Il documento proclamava la fine della tradizionale distinzione tra guerra e pace. Come affermò l’ex sottosegretario di Stato, Robert Lovett, nell’elogiare uno dei draft provvisori, gli Stati Uniti erano ormai impegnati in un «conflitto mortale», una «guerra peggiore di qualsiasi guerra che abbiamo mai affrontato»; non una «guerra fredda», ma una «guerra calda», in cui l’unica differenza con le guerre precedenti stava nel fatto che «la morte arriva[va] più lentamente e in modo differente»47. Secondo l’NSC-68, l’URSS era animata da una «fede nuova e fanatica, antitetica» a quella degli Stati Uniti. Sul lungo periodo Mosca ambiva al «dominio della massa eurasiatica» e alla creazione di una situazione in cui sarebbe divenuto impossibile «assemblare una coalizione in grado di affrontare il Cremlino da una posizione di forza superiore». Come per Kennan, anche per gli autori dell’NSC-68 le caratteristiche interne e la natura totalitaria del regime sovietico ne informavano i comportamenti sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti costituivano, per il sol fatto di esistere, una minaccia intollerabile per Mosca: «L’esistenza e la persistenza dell’idea di libertà costituisce una minaccia permanente e continua alle fondamenta di una società schiavista» quale quella sovietica; l’URSS non poteva che considerare «intollerabile una prolungata e continuata esistenza della libertà nel mondo». Esisteva un «conflitto di base tra l’idea di libertà in uno Stato di diritto e l’idea di schiavitù sotto la spietata oligarchia del Cremlino»; «l’implacabile intenzione dello Stato schiavista di eliminare la sfida che ad esso pone la libertà» aveva posto «le due grandi potenze su poli opposti». Diversamente dalle analisi di Kennan, secondo l’NSC-68 questo atteggiamento aggressivo si combinava ora non con debolezza e cautela, ma con forza, spregiudicatezza e propensione al rischio. A questa analisi conseguiva una prescrizione parzialmente diversa da quella kennaniana. La risposta degli USA doveva essere assai più dinamica e incisiva. Come sua precondizione, l’NSC-68 indicava un massiccio processo di riarmo sia nucleare sia convenzionale. Solo il 6-7% del PIL statunitense era destinato agli investimenti militari, mentre la percentuale era del 13,8% in URSS. Per evitare una condizione di subalternità futura era vitale colmare questo gap. Vitale, ma anche possibile e salutare, ché l’economia americana non solo era in grado di reggere una crescita degli investimenti militari di questa portata, ma ne avrebbe tratto ampio beneficio. Facendo proprie categorie keynesiane, l’NSC-68 rilevava infatti come proprio l’espe-

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rienza della Seconda guerra mondiale avesse dimostrato che «l’economia americana, quando opera a livelli che si avvicinano alla piena efficienza, può fornire risorse enormi per obiettivi altri dal consumo civile, garantendo al contempo standard di vita più alti». Rigettando vecchie ortodossie fiscali ed economiche, si teorizzava così non solo la piena compatibilità tra burro e cannoni, welfare state e warfare state, ma la loro stretta interdipendenza: la crescita dei secondi avrebbe alimentato quella del primo, in una spirale virtuosa potenzialmente illimitata48. Preservare ed espandere un’indiscussa preponderanza di potenza era, per gli autori dell’NSC-68, necessario anche e soprattutto per ragioni simboliche. Serviva per affermare la credibilità dell’impegno statunitense a contenere l’espansione dell’URSS e la diffusione del comunismo. La questione della credibilità pervadeva quasi tutti i passaggi del lungo documento. Ciò che contava non erano solo le realtà della distribuzione del potere, ma le percezioni che se ne avevano. Per gli Stati Uniti era fondamentale proiettare un’immagine di forza e fermezza: verso l’URSS, per evitare che essa agisse; verso gli alleati, per preservarne la volontà d’impegnarsi nello sforzo comune; verso i paesi terzi, perché compissero la scelta di campo corretta; verso l’opinione pubblica mondiale, da conquistarsi nella sfida ideologica con l’URSS e per costruire «una comunità internazionale sana». Qualsiasi sconfitta, anche in aree considerate fino ad allora strategicamente marginali, diventava intollerabile per le ripercussioni, globali, che essa poteva avere in termini di credibilità. Come affermato in uno dei più noti passaggi del documento, «una sconfitta in qualsiasi luogo è una sconfitta ovunque» (a defeat anywhere is a defeat everywhere). La superiorità militare adempiva una doppia funzione, simbolica e pratica: serviva per ribadire il commitment statunitense, ma serviva altresì per dotare gli USA dei mezzi, articolati e plurimi, con cui fronteggiare crisi differenti per intensità e ampiezza. Per edificare una panoplia diversificata con cui dar corso a una strategia globale e simmetrica, in virtù della quale si doveva rispondere automaticamente a ogni iniziativa della controparte49. Così come la Dottrina Truman, anche l’NSC-68 conteneva molte contraddizioni e incongruenze. Ingigantiva a dismisura la forza del nemico, salvo ribadire la superiorità ineluttabile degli Stati Uniti e dell’Occidente. Sottolineava la natura psicologica della sfida in atto, ma si concentrava primariamente sugli elementi tradizionali dello

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hard power, quello militare in particolare. Enfatizzava e amplificava l’importanza simbolica delle crisi minori che sarebbero potute esplodere in teatri marginali, ma dava indicazioni molto vaghe e generiche su come fronteggiarle. Produceva di per se stesso una crescita ed espansione degli interessi, alterando a dismisura l’equilibrio tra gli obiettivi degli USA e i mezzi di cui essi potevano teoricamente disporre50. La retorica roboante e quasi caricaturale dell’NSC-68 rimandava nuovamente a topoi antichi. Si nutriva di un «linguaggio politico specificamente americano», fatto di «cospirazioni diaboliche, peccati e peccatori, demoni e salvatori, corruzione e redenzione, scelte drammatiche compiute in nome dell’umanità»51. Lo faceva, e questo è il dato che qui interessa, non per convincere l’opinione pubblica e per costruire il consenso: l’NSC-68 costituiva un documento secretato a limitatissima circolazione, che solo a metà degli anni Settanta sarebbe divenuto di pubblico dominio. Serviva per definire una strategia, non per renderla politicamente accettabile. Aveva, in altre parole, una funzione cognitiva e analitica, e non propagandistica. Eppure risultava ideologicamente e retoricamente sovraccarico, quanto e più della Dottrina Truman. La ‘mappa globale’ che offriva concorreva anch’essa a superare uno spaesamento già esistente, acuito dal rafforzamento militare sovietico e, soprattutto, dall’immensa espansione dell’area governata dal comunismo, che ora includeva anche la Cina. I codici universalistici che l’NSC-68 veicolava compensavano una ritirata dal vecchio globalismo, che era imposta più che scelta. Il contenimento si espandeva e chiariva proprio in reazione a questa forzosa deglobalizzazione del disegno statunitense. L’NSC-68 rappresentava la piena accettazione di ciò da parte di chi era alla guida del paese. Al contempo, esso esprimeva la progressiva interiorizzazione nella cultura strategica e nella politica estera statunitense degli stereotipi e dei manicheismi più radicali dell’anticomunismo. L’ideologia si faceva strategia e cultura politica; l’identità subiva una rilevante trasmutazione; gli interessi diventavano potenzialmente infiniti.

3. Contenimenti a basso costo: il «New Look» di Eisenhower Questo mutamento si manifestò subito in Corea. Divisa in due Stati in conseguenza della guerra – quello del Nord comunista filo-

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sovietico e quello del Sud autoritario e filo-occidentale – la Corea era stata inizialmente posta fuori dal perimetro del contenimento. Non costituiva uno dei capisaldi da difendere per preservare un favorevole equilibrio di potenza. Non era stata giudicata strategicamente vitale, tanto che le truppe statunitensi presenti nel Sud erano state ritirate nel corso del 194952. Quando però la Corea del Nord invase quella del Sud, nel giugno del 1950, gli Stati Uniti non esitarono a intervenire. Chiesero la convocazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU e, approfittando dell’assenza del rappresentante sovietico, fecero approvare due risoluzioni che riconoscevano la Corea del Nord come Stato aggressore e autorizzavano la formazione di una forza multinazionale, battente bandiera delle Nazioni Unite, incaricata di liberare la Corea del Sud. Al contempo, Truman approvò l’NSC-68 a dispetto delle sue perplessità sull’impianto espansivo e keynesiano del documento. Truman e i suoi consiglieri non ebbero dubbi sul fatto che l’iniziativa nord-coreana fosse stata istigata da Stalin. L’attacco della Corea del Nord fu anzi interpretato come la prima tappa di un’azione espansionistica che, laddove non contrastata sul nascere, si sarebbe potuta estendere ad altre aree. L’analogia storica, anche in questo caso, era quella degli anni Trenta e della cosiddetta ‘lezione di Monaco’. Come aveva dimostrato Hitler, l’appeasement non solo non saziava gli appetiti espansionistici di un dittatore, ma li sollecitava e accresceva. «L’aggressore deve essere prontamente fronteggiato», proclamò Truman; «l’appeasement porta solo ad altre aggressioni e, infine, alla guerra»53. La reazione degli Stati Uniti evidenziava una doppia trasformazione prodotta dalla Guerra Fredda: la tendenza a uniformare tutte le crisi locali agli schemi binari e omologanti della competizione bipolare; l’accentuazione della dimensione simbolica di tali crisi e l’inclinazione conseguente a collegarle automaticamente ad altri teatri, a partire da quello europeo. Stalin aveva autorizzato l’iniziativa nord-coreana nella convinzione che gli USA non avrebbero reagito e sotto le pressioni del nuovo alleato cinese. Quello coreano era però un conflitto con caratteristiche proprie e matrici autoctone. In quanto tale, non era interamente riconducibile alle partizioni della Guerra Fredda. Nondimeno, esso fu immediatamente legato al quadro più generale, regionale e globale. La guerra di Corea, che sarebbe durata per quasi tre an-

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ni, non fu una guerra per la Corea o sulla Corea, ma la prima delle guerre della Guerra Fredda54. L’intervento statunitense serviva primariamente per ribadire la credibilità del contenimento; per evitare la demoralizzazione degli alleati e il rischio che questi virassero verso il neutralismo e la passività; perché fosse chiaro a Mosca che gli USA non erano disposti a tollerare iniziative analoghe, in particolare in Europa e in Germania. Come ebbe a sottolineare qualche anno più tardi il futuro presidente Dwight Eisenhower, la Corea non aveva un «valore intrinseco»; la sua importanza era dettata dal «prestigio di cui i comunisti avrebbero beneficiato se fossero riusciti a distruggere una nazione» come la Corea del Sud «creata e mantenuta dagli USA». «In breve», sottolineò Eisenhower, la rilevanza della Corea del Sud derivava dal fatto che essa era «diventata un simbolo in tutto il mondo»55. I riverberi della crisi coreana si fecero immediatamente sentire, in Asia e in Europa. Dopo i tentennamenti del biennio precedente, Truman procedette a definire con più nettezza i margini del contenimento in Estremo Oriente. La linea includeva ora il Giappone – con il quale un trattato di pace sarebbe stato finalmente firmato nel 1951 –, Taiwan e l’Indocina, dove l’impero francese era sempre più minacciato da movimenti indipendentisti comunisti. In Europa i paesi aderenti all’Alleanza atlantica crearono una propria struttura organizzativa, la NATO, e si fecero sempre più forti le pressioni americane affinché gli alleati dessero un contributo maggiore al contenimento. Ciò produsse peraltro effetti paradossali. Una guerra combattuta in nome della credibilità suscitò le critiche di alcuni importanti alleati, preoccupati sia dall’irruenza degli Stati Uniti sia dalla loro intenzione di procedere rapidamente al riarmo della Germania occidentale. Ricorrendo a stereotipi di lungo corso, il premier italiano Alcide De Gasperi sostenne che negli USA vi erano troppi «fanciulloni» e che l’Europa – «più equilibrata ed esperta» – aveva il compito di dire una «parola di fermissima pace»56. L’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati modificò subito il corso del conflitto in Corea. Le truppe nord-coreane furono rapidamente spinte all’indietro verso la linea del 38° parallelo che separava le due Coree. D’improvviso parve possibile non solo ripristinare lo status quo ante, ma addirittura riunificare per via militare il paese sotto un governo filo-occidentale: i coreani, proclamò Truman all’inizio di settembre, avevano il diritto di essere «liberi, indipendenti e

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uniti». L’avanzata oltre il 38° parallelo portava però le truppe statunitensi sempre più vicine al confine con la Cina e a quello con l’URSS. Stalin voleva evitare a tutti i costi un confronto diretto con gli Stati Uniti. Per questo sollecitò l’intervento della Cina. Nell’autunno del 1950, centinaia di migliaia di ‘volontari cinesi’ cominciarono a partecipare alle operazioni militari. Il quadro risultò nuovamente capovolto. Le truppe dell’ONU, sotto la guida del generale Douglas MacArthur, furono spinte all’indietro. Nell’inverno del 1950-51 il fronte si stabilizzò più o meno all’altezza del 38° parallelo, da dove non si sarebbe più mosso. Gli Stati Uniti avrebbero progressivamente optato per una strategia difensiva, abbandonando la speranza di ottenere una vittoria militare. Nessuno, nemmeno la Cina, era interessato a un’escalation del conflitto. La guerra sarebbe però proseguita per altri due anni, causando più di 50.000 vittime tra i soldati statunitensi e oltre un milione tra quelli coreani e cinesi57. Il conflitto fu accompagnato da forti tensioni negli Stati Uniti. La fermezza mostrata da Truman originava anche dalla situazione politica interna statunitense. Già accusato dai repubblicani di avere «perso la Cina», Truman non poteva dimostrare alcuna debolezza nell’applicazione del contenimento. La situazione venutasi a determinare a seguito dell’intervento cinese finì per mettere ancor più in difficoltà l’amministrazione e il Partito democratico. Il generale MacArthur criticò pubblicamente le scelte di Truman, in particolare la subordinazione del teatro asiatico a quello europeo e la decisione di non allargare il conflitto, attraverso una serie di bombardamenti aerei sulle basi cinesi in Manciuria e l’imposizione di un blocco navale attorno alle coste della Repubblica popolare cinese. L’idea stessa di poter combattere un conflitto circoscritto, nei mezzi e negli obiettivi, era intollerabile per MacArthur: in guerra non esistevano «sostituti della vittoria», affermò il generale. Truman non poté accettare una simile insubordinazione e decise di rimuoverlo58. MacArthur fu accolto come un eroe al suo rientro negli Stati Uniti. La destra repubblicana aveva trovato un nuovo martire: «Un generale coraggioso e determinato prima tenuto al guinzaglio e poi scaricato» da quegli stessi «democratici codardi responsabili dell’appeasement dei comunisti e del tradimento del paese a Yalta e a Potsdam». La dottrina della praticabilità – e invero necessità – della guerra limitata, su cui poggiava la strategia del contenimento, era ora apertamente contestata59.

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La polemica suscitata dallo scontro fra Truman e MacArthur s’inseriva però entro una controversia più ampia sul contenimento e sulla portata della minaccia comunista all’interno degli stessi Stati Uniti. In un contesto ideologicamente sovraccarico e in una situazione dove il rischio di un nuovo conflitto mondiale appariva (ed era) elevatissimo, la carta della drammatizzazione e della paranoia si stava rivelando elettoralmente vincente. Lo aveva scoperto il senatore Joseph McCarthy, del Wisconsin, diventato una figura di rilievo nazionale dopo aver sostenuto, senza prove, che all’interno del Dipartimento di Stato vi fossero numerosi agenti sovietici, e acerrimo critico di Acheson e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Le inchieste successive avrebbero dimostrato l’infondatezza di queste accuse; esse concorsero però ad alimentare un clima di tensione e sospetto, che produsse per alcuni anni un severo restringimento delle libertà civili e condizionò fortemente anche la politica estera60. Sulla difensiva si trovarono non solo Truman e Acheson, ma gran parte della cultura politica internazionalista, repubblicana e democratica. I suoi esponenti, accusati di elitismo e filoeuropeismo, furono vieppiù presentati come ingenui sognatori, che sottovalutavano la natura del nemico (al meglio), o come traditori al soldo di Mosca (al peggio). Alcuni celebri casi di spionaggio, come quello che coinvolse Alger Hiss, fornirono ulteriori argomentazioni alla destra61. Queste accuse s’intrecciavano a loro volta con quelle di chi denunciava l’immorale passività della politica e della filosofia del contenimento e chiedeva l’adozione di un approccio più dinamico, il cui scopo fosse non quello di garantire la convivenza con il regime sovietico, ma di provocarne l’abbattimento. Non comprendevano, queste critiche, che il contenimento costituiva una strategia per nulla passiva e statica, finalizzata com’era non a stabilizzare l’equilibrio bipolare, procrastinandone sine die l’esistenza, ma a renderlo ancora più asimmetrico, logorando l’URSS e causandone l’implosione62. Dentro il Partito repubblicano il fronte anticontenimento era però duplice. All’ala più radicale, che aveva appoggiato MacArthur, faceva da contrappeso una destra fiscalmente conservatrice, che premeva invece per una politica estera più moderata e meno interventista, centrata sul ruolo regionale degli Stati Uniti, e chiedeva un progressivo disimpegno dall’Europa. Era, questa, una destra per molti aspetti classica, assai lontana dalla demagogia populista di McCarthy e dei suoi accoliti. Il suo esponente principale era il senatore del-

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l’Ohio Robert A. Taft, figlio del presidente William Taft (1909-13), una delle figure più influenti al Congresso in quegli anni. Erroneamente etichettata come isolazionista, la destra taftiana esprimeva una cultura politica tradizionale, che rigettava l’idea dell’interdipendenza dei diversi soggetti del sistema internazionale, invitava gli USA a evitare alleanze vincolanti in tempo di pace, potenziando invece un sistema di difesa emisferico, e denunciava i costi immensi della politica di sicurezza nazionale intrapresa con la Guerra Fredda. Il rischio – asseriva Taft – era che la perenne mobilitazione imposta al paese e la crescita conseguente del ruolo del governo federale stesse alterando la natura della democrazia statunitense, trasformando il paese in una sorta di «Stato fortezza» (garrison state), prussianizzato e oppressivo. Lungi dal tutelare e difendere la libertà americana, la Guerra Fredda la stava invece inesorabilmente erodendo. L’economia di guerra che essa imponeva – affermò Taft – stava producendo la distruzione dell’«America che s’intende preservare»63. Taft ambiva ad essere il candidato repubblicano alle presidenziali del 1952. Per evitare questa possibilità, l’establishment internazionalista del partito convinse a candidarsi Dwight D. Eisenhower, il leggendario generale della Seconda guerra mondiale, che lo stesso partito democratico aveva a lungo corteggiato. Sconfitto Taft nelle primarie, Eisenhower conquistò anche la presidenza, battendo il candidato democratico Adlai Stevenson (Truman aveva deciso di non presentarsi anche a causa della sua impopolarità). Lo fece oscillando ambiguamente tra manifestazioni di sobrietà internazionalista e frequenti flirt con la destra maccartista, che Eisenhower si guardò bene dal criticare. Soprattutto, la piattaforma elettorale di Eisenhower ripudiava con decisione il contenimento: una strategia, questa, «negativa, futile e immorale», poiché abbandonava «innumerevoli esseri umani al dispotismo e al terrorismo ateo». Per questo, si affermava, diventava fondamentale «ripudiare tutti gli impegni contenuti in accordi segreti come quelli di Yalta che facilitavano l’asservimento alla schiavitù comunista»64. L’antinomia era quella classica: schiavitù contro libertà. Come classico, e affatto nobile, era lo scopo: trarre un vantaggio elettorale, compattando il fronte repubblicano e conquistando il voto degli immigrati dell’Europa orientale. Lo slogan da contrapporre al contenimento divenne quello del roll-back. Era giunto il momento di adottare una nuova «politica di audacia», proclamò il futuro segre-

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tario di Stato, John Foster Dulles. Il comunismo e l’URSS non andavano semplicemente fermati, ma spinti e fatti rotolare all’indietro, portando alla liberazione dell’Europa centro-orientale. Il perimetro del contenimento doveva tornare a essere flessibile. Il disegno statunitense sarebbe stato così nuovamente globale65. Il roll-back si rivelò rapidamente per quello che era: un escamotage elettorale e un modo per placare la destra più radicale e per distinguersi da Truman. Anche Eisenhower si mosse seguendo i dettami del contenimento dell’URSS, nella consapevolezza che mettere in discussione la sfera d’influenza sovietica – sul cui controllo l’URSS aveva edificato la propria politica di sicurezza – avrebbe sicuramente comportato una guerra. Quella di Eisenhower fu però una declinazione del contenimento assai peculiare, che mediava tra gli estremi di McCarthy e Taft, accogliendone almeno in parte le richieste. Essa mescolava anticomunismo ortodosso e conservatorismo fiscale, riduzione delle spese e competizione con l’URSS, pareggio di bilancio e potenziamento delle armi nucleari, con l’obiettivo ultimo di vincere la Guerra Fredda, sfuggendo al costoso contenimento simmetrico immaginato dall’NSC-68 e preservando la libertà statunitense, minacciata ora dalla crescente intrusività del potere federale e dalla trasmutazione del paese, se non in un garrison state, in uno Stato dove il ruolo del pubblico – nella sicurezza come nei servizi sociali – era eccessivo e intollerabile66. Nella declinazione eisenhoweriana del contenimento – ribattezzata New Look, con un omaggio forse non del tutto involontario alla moda e a Christian Dior – convergevano quattro aspetti, tra loro strettamente interrelati: l’enfasi sulle armi nucleari; la richiesta agli alleati di dare un contributo maggiore; la scarsa fiducia in letture economicistiche delle matrici del comunismo e nella necessità di farvi fronte con politiche di aiuto economico e di sostegno alla modernizzazione; la disponibilità a ricorrere a mezzi non convenzionali, come le operazioni clandestine promosse dalle strutture d’intelligence67. Almeno a livello teorico, l’architrave del New Look era rappresentata dalla sottolineatura dell’importanza delle armi nucleari e dall’asserita disponibilità a ricorrervi anche in risposta a un’azione convenzionale della controparte. Eisenhower e John Foster Dulles proponevano di abbandonare il modello dell’NSC-68 a favore di una forma di strategia altamente asimmetrica in termini di proporzione tra

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natura della sfida e portata potenziale della risposta. In teoria, un’azione dell’avversario condotta in un teatro periferico e con strumenti militari convenzionali avrebbe giustificato lo scatenamento di una guerra nucleare. Alla cinica spregiudicatezza dell’URSS e del monolite comunista che essa guidava si doveva rispondere con una strategia di «rappresaglia massiccia», come fu definita allora. La «rappresaglia massiccia» permetteva di raggiungere tre obiettivi diversi. In primo luogo una riduzione delle spese militari, che secondo Eisenhower non solo danneggiavano l’economia del paese, ma corrompevano la natura della democrazia americana. Al posto della gigantesca e articolata dotazione bellica prevista dall’NSC-68, Eisenhower proponeva di ridurre drasticamente gli investimenti in armi convenzionali e di concentrarsi sul più economico armamento atomico. Ciò avrebbe permesso il conseguimento di un secondo obiettivo: la massimizzazione di quelli che erano i veri elementi di forza degli Stati Uniti. La netta superiorità tecnologica e nucleare statunitense andava esaltata e messa pienamente al servizio del contenimento. Solo in tal modo sarebbe stato possibile sfruttare l’immenso potere deterrente che essa garantiva. Perché l’obiettivo, ovviamente, non era giungere a una guerra, ma inibire la spregiudicatezza della controparte. Era, questo, il terzo e ultimo obiettivo della rappresaglia massiccia: un approccio simmetrico – asserivano Eisenhower e Dulles – cedeva l’iniziativa alla controparte, che avrebbe potuto determinare tempi, luoghi e forme di un eventuale ingaggio; la rappresaglia massiccia lasciva invece l’avversario nell’incertezza, gli impediva di prevedere il tipo di risposta che gli USA avrebbero scelto e lo costringeva sempre a dover considerare l’ipotesi del caso peggiore: un attacco nucleare68. Sulla carta, la rappresaglia massiccia frenava l’URSS, massimizzava l’efficacia deterrente dell’arsenale statunitense, permetteva di limitare i costi del contenimento, tutelava la democrazia (e la libertà) degli Stati Uniti e rafforzava la credibilità dell’impegno contro il comunismo. Si trattava di un approccio capital intensive, nel quale gli USA fornivano primariamente la tecnologia. Per questo, nell’equazione del New Look, un ruolo centrale era affidato agli alleati, ai quali si assegnava il compito d’integrare e completare il ruolo statunitense, fornendo gli uomini e impegnandosi in azioni locali di contenimento del comunismo. Di nuovo, considerazioni strategiche, politiche, economiche e culturali erano strettamente intrecciate nel-

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l’informare l’atteggiamento di Eisenhower verso gli alleati. Un loro maggiore coinvolgimento nella difesa comune risultava funzionale non solo a bilanciare la superiorità convenzionale sovietica, ma anche a ridurre l’esposizione internazionale degli Stati Uniti, a limitare conseguentemente le spese e ad avviare un graduale disimpegno dall’Europa, che avrebbe riportato a casa molti soldati statunitensi e sarebbe stato estremamente popolare. Furono questi, pertanto, anni caratterizzati dalla costruzione di una fitta rete di alleanze, che andavano ad aggiungersi a quella atlantica. La cosiddetta «pattomania» di John Foster Dulles si concretizzò nella ratifica di trattati che portarono alla nascita di organizzazioni per la difesa del Sud-Est asiatico (la SEATO), del Medio Oriente (CENTO, al quale gli USA non presero però parte) e al potenziamento dell’alleanza militare tra Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda (ANZUS). Il cuore della Guerra Fredda, e l’area dove la nuova dottrina andava applicata, rimaneva però l’Europa. Qui Eisenhower s’impegnò fortemente affinché gli alleati degli Stati Uniti partecipassero attivamente al contenimento, riorientassero le loro attività industriali verso la produzione di beni militari e, soprattutto, accettassero il riarmo della Repubblica federale tedesca e la sua inclusione nella rete d’interdipendenze strategiche occidentali. Per questo sostennero il progetto di creazione di una Comunità europea di difesa (CED), a dispetto delle loro perplessità sulla natura del progetto, che di fatto limitava la possibilità di riarmo della Germania e riduceva l’utilità dell’integrazione di forze tedesche in un eventuale esercito europeo. Questo sforzo si sarebbe rivelato alla lunga assai frustrante, tanto che nel 1954 Dulles minacciò un «angoscioso riesame» delle relazioni transatlantiche. La CED non vide mai la luce, anche se la Repubblica federale tedesca fu infine riarmata e ammessa alla NATO nel 1955. Ma le tensioni con gli alleati europei rappresentarono una costante dell’epoca, anche perché la volontà statunitense di delegare responsabilità ai propri partner si combinava con la tendenza a intervenire negli affari interni di molti paesi europei. Era questa l’altra faccia della strategia eisenhoweriana: alla disponibilità a concedere maggiore autonomia all’Europa occidentale, se necessario anche in ambito nucleare, corrispondeva la richiesta che questa Europa si omologasse pienamente alle logiche della Guerra Fredda. In alcuni casi le pressioni furono eclatanti: in Germania, Dulles intervenne

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apertamente in occasione delle elezioni del 1953, invitando a non votare per il Partito socialdemocratico, ancora attestato su posizioni neutraliste; in Italia, s’intensificarono le richieste di mettere fuori legge il Partito comunista e di dare corso a una campagna contro i suoi militanti e simpatizzanti69. Ciò costituiva il terzo elemento del New Look. Ridurre le spese voleva dire affidarsi agli alleati; ma affidarsi agli alleati significava avere alleati fedeli. Fu questa una delle ragioni che portarono a un aumento esponenziale delle operazioni clandestine, quasi sempre promosse dall’Agenzia centrale d’intelligence, la CIA, guidata in quegli anni dal fratello di John Foster Dulles, Allen Dulles, e finalizzate a rafforzare i governi vicini agli USA o a favorire il rovesciamento di quelli ostili: cosa che avvenne in Iran nel 1953 e in Guatemala nel 1954, quando la CIA promosse operazioni che avrebbero portato alla caduta dei governi di Mossadeq e di Arbenz70. La crescita delle operazioni clandestine non derivava però solo dall’intenzione di consolidare il blocco occidentale. Esso si legava in qualche modo alla filosofia conservatrice dell’amministrazione e alla stessa dottrina del New Look, della quale finiva per costituire un logico corollario. Dentro gli schemi binari della Guerra Fredda, esasperati da Eisenhower e Dulles, il non schieramento non era ammissibile e ciò giustificava forme estreme d’ingerenza negli affari interni di quei paesi che sfuggivano al controllo statunitense e sembravano poter gravitare verso l’orbita sovietica. L’aperta ostilità verso ricette liberal e newdealiste, che individuavano nel riformismo modernizzatore la risposta più efficace alla sfida comunista, finiva per esaltare l’opzione autoritaria e per utilizzare lo schieramento filo-occidentale come unico criterio di giudizio sui propri partner. L’enfasi sulle armi nucleari faceva, almeno dottrinalmente, delle operazioni clandestine l’unica alternativa plausibile all’inazione71. Formalmente tersa e coerente, la dottrina del New Look di Eisenhower si scontrò da subito con una serie di vincoli e impedimenti – interni e internazionali – che ne limitavano invece l’attuabilità e ne alimentavano la contestazione. Si trattava di una strategia basata sull’asserita disponibilità a fare uso delle armi nucleari: una premessa quasi impossibile da dimostrare, che finiva per indebolire la credibilità dell’impegno statunitense invece di consolidarla. A dispetto delle speranze di Eisenhower, non si assistette inoltre a una sensibile riduzione del budget militare, difeso da una coalizione d’interessi

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militari, politici e industriali che nemmeno il presidente riuscì a indebolire. La fine del conflitto coreano liberò ovviamente delle risorse, ma tra il 1954 e il 1961 gli investimenti nell’ambito della difesa si attestarono al 9-10% del PIL del paese, un livello doppio rispetto al 1950. Fu proprio contro l’influenza del «complesso militar-industriale» che Eisenhower si sarebbe scagliato nel suo celebre discorso di commiato del gennaio 1961, quando il presidente invitò la «cittadinanza consapevole e attenta» a tenere sotto controllo «l’immensa macchina di difesa industriale e militare» e i pericoli che essa poneva alle «libertà e ai processi democratici negli Stati Uniti»72. Soprattutto, l’approccio conservatore di Eisenhower apparve sempre più una risposta inadeguata alle nuove modalità di una competizione, quella bipolare, che si stava trasferendo fuori dall’Europa, verso regioni più povere e meno sviluppate. Qui, argomentavano molti negli USA, non bastava utilizzare gli elementi tradizionali della politica di potenza; qui lo hard power e la spregiudicatezza del New Look servivano a poco e si rivelavano spesso controproducenti. All’immensa capacità d’attrazione esercitata da modelli di sviluppo economico di matrice marxista si doveva offrire una risposta più coraggiosa, liberal e progressista. Adeguatamente adattati, gli assiomi della prosperità, della crescita e del benessere – sui quali si era basata la politica statunitense in Europa occidentale dopo il 1945 – dovevano diventare parte di un’ambiziosa strategia modernizzatrice da mettere a disposizione di quel mondo che rimaneva ancora terzo rispetto alle partizioni binarie della Guerra Fredda: per evitare che esso finisse sotto l’influenza sovietica; per preservare così un equilibrio di potenza globale favorevole agli USA e all’Occidente; per promuovere ed estendere la rete virtuosa d’interdipendenze capitalistiche; infine, per affermare una volta di più la grandezza e la missione speciale degli Stati Uniti.

IX ASCESA E (TEMPORANEO) DECLINO DELL’IMPERO AMERICANO

1. Un mondo moderno e trasparente Nel corso degli anni Cinquanta si assistette a una progressiva stabilizzazione dei due teatri primari della Guerra Fredda, quello europeo e, almeno in parte, quello asiatico. La fine del conflitto coreano, la definizione del perimetro del contenimento e il consolidamento del regime comunista cinese determinarono un primo, ancorché incompleto, assestamento geopolitico in Estremo Oriente. In Europa, l’inclusione della Germania federale nella NATO, la nascita di un’organizzazione militare speculare a quella atlantica nel blocco sovietico (il Patto di Varsavia) e la firma del trattato di pace austriaco sembrarono congelare sine die la partizione bipolare del continente. A questo congelamento corrispose l’avvio di un dialogo, timido ma significativo, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che trovò il suo momento più importante nei vertici di Ginevra del 1954 e del 1955. Una prima Guerra Fredda – strettamente eurocentrica – terminava così alla metà degli anni Cinquanta1. Non cessava né si placava, però, la competizione bipolare. Essa si spostava ed espandeva, anzi, in teatri sino ad allora terzi rispetto alla sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica: l’Africa e il Sud-Est asiatico, dove la decolonizzazione travolgeva le ultime vestigia degli imperi europei, portava alla nascita di molti nuovi Stati e apriva scenari inediti; il Medio Oriente, geopoliticamente nodale per le sue risorse petrolifere, dove la faglia Est-Ovest era destinata vieppiù a intrecciarsi con quella che contrapponeva Israele e mondo arabo e nel quale soffiava forte il vento di un nazionalismo panarabo che aveva

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trovato nel leader egiziano Gamel Abdel Nasser il suo leader; l’America Latina, lacerata da tensioni sociali e attraversata da pulsioni antistatunitensi sempre più radicali2. Il conservatorismo eisenhoweriano, con la sua versione a basso costo del contenimento, non sembrava disporre degli strumenti per dare una risposta a queste trasformazioni. Eisenhower proiettava sempre più un’immagine di passività e rigidità. La sua strategia era accusata di mancare del dinamismo necessario per affrontare una realtà nuova e in rapida evoluzione. Non appariva in grado di offrire un modello di sviluppo – che non fosse quello liberista e neoclassico – ai paesi di recente indipendenza e, più in generale, a quelle regioni che rimanevano ancora ai margini del sistema capitalistico contemporaneo. Con la sua enfasi sulle armi nucleari e la dimensione strategica, il discorso del contenimento eisenhoweriano risultava – all’esterno – simultaneamente antiquato e minaccioso; ancorato a una dimensione unidimensionale e superata della potenza, incline a stimolare ed esasperare le crisi invece di risolverle o ricomporle. Ma fu soprattutto sul piano interno che nella seconda metà degli anni Cinquanta le critiche si fecero più intense e serrate. Il New Look di Eisenhower e Dulles – sostenevano i suoi critici liberal e democratici – mancava del coraggio politico e della strumentazione intellettuale necessari per competere con l’URSS nei teatri emergenti della Guerra Fredda. Non solo: per questi critici il conservatorismo fiscale di Eisenhower e la sua ossessione per il pareggio di bilancio avevano impedito di rispondere all’imponente riarmo sovietico, finendo per porre gli USA in una condizione di vulnerabilità strategica cui bisognava porre termine quanto prima. Secondo questa tesi, i progressi dell’Unione Sovietica nel campo della tecnologia missilistica (simboleggiati dal lancio dello Sputnik nel 1957 e dal primo test di un missile sovietico intercontinentale) avevano creato un gap a vantaggio di Mosca. Se non fosse stato immediatamente colmato, questo missile gap, come fu definito, avrebbe costituito una grave minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e offerto uno strumento di ricatto, politicamente spendibile, all’Unione Sovietica3. La controversia del missile gap fu abilmente sfruttata da alcuni spregiudicati politici democratici, tra i quali il futuro presidente John F. Kennedy. In realtà la superiorità nucleare statunitense non era affatto in discussione e solo alla fine degli anni Sessanta si sarebbe giunti a una quasi parità strategica, compensata però dalla persi-

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stenza di un vantaggio tecnologico statunitense. Per i critici di Eisenhower, il missile gap costituiva però una manifestazione emblematica della passività disfattista del New Look. L’altra era rappresentata dalla (non) politica verso il cosiddetto Terzo Mondo. Qui – asserivano gli oppositori dell’amministrazione repubblicana – lo iato tra l’attivismo rivoluzionario sovietico e cinese e la supposta inazione statunitense risultava particolarmente stridente e pericoloso. Ai paesi di recente indipendenza e a quelli in via di sviluppo, Eisenhower offriva un mix assai poco attraente di anticomunismo, aiuti militari e sollecitazione a porre le condizioni necessarie per attrarre capitali privati dall’estero. Nel farlo, non attingeva alla matrice basilare del primato internazionale degli Stati Uniti: la forza del loro modello e la sua capacità unica di produrre egemonia. Per i suoi critici, quella di Eisenhower era un’abiura dalla missione storica degli Stati Uniti e una sconcertante rinuncia a sfruttare le risorse simboliche e ideologiche di cui il paese disponeva. Facendo ciò, gli USA abbrutivano se stessi, mettendo in discussione la propria identità di paese diverso e superiore, e non tutelavano i propri interessi fondamentali4. Al conservatorismo neoclassico di Eisenhower fu quindi contrapposto un modernismo liberal e progressista, che meglio incarnava i valori statunitensi e che si asseriva essere maggiormente capace di rispondere alla sfida sovietica e del comunismo internazionale. Un’ideologia, quella moderna e modernizzatrice, cui era stata conferita nel ventennio precedente una forte investitura di legittimità scientifica. Esaltata dalle nuove scienze sociali, beneficiaria d’ingenti finanziamenti pubblici, accolta e promossa in importanti centri di ricerca – a partire dal Dipartimento di Relazioni sociali di Harvard e dal Centro di studi internazionali del Massachusetts Institute of Technology (CIS) – questa ideologia si sarebbe trasformata rapidamente in una dottrina e in una strategia capaci di egemonizzare il discorso di politica estera degli Stati Uniti durante le amministrazioni democratiche di John Kennedy (1961-63) e Lyndon Johnson (196369). In quegli anni, le categorie e gli slogan della modernizzazione divennero una sorte di «vernacolo di corte», con cui esprimere le rinnovate ambizioni globali degli USA e riaffermare, adattati ai tempi, i topoi di un nazionalismo eccezionalista e universalista. Un discorso e una strategia che erano però destinati a diventare i simboli di una serie di drammatici fallimenti, che avrebbero concorso a indebolire

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la posizione internazionale degli Stati Uniti e a catalizzare un’aspra contestazione interna5. Che cosa sostenevano i teorici della modernizzazione che criticavano Eisenhower e quale alternativa proponevano al New Look? Mescolando assunti antichi e verità recenti, lezioni della storia e nuovo contesto internazionale, le analisi dei modernizzatori liberal muovevano da tre presupposti. Il primo era rappresentato dall’ineluttabilità e unilinearità del processo storico. In un mondo globale e interdipendente, le diverse realtà nazionali e regionali gravitavano autonomamente – anche se con tempi e gradualità diversi – verso un modello finale di società industriale, fatta di consumi di massa, alti redditi e bassa disoccupazione. Le forme che questo processo avrebbe assunto erano oggetto di discussione: per rotture o graduali, continuative o stadiali. Il finalismo era però intrinseco come lo erano la partizione analitica, basilare e binaria, fra tradizione e modernità e l’idea che fosse già in atto una progressiva convergenza tra le società più evolute: quelle socialdemocratiche europee e quella postnewdealista statunitense. Il secondo presupposto era rappresentato proprio dalla malleabilità del tradizionale da parte di chi ormai aveva raggiunto lo stadio ultimo del progresso, della stabilità e della modernità. Uno stadio, questo, nel quale la piena maturazione delle conoscenze metteva a disposizione la strumentazione necessaria per intervenire sui soggetti premoderni, plasmandoli e incanalando la loro traiettoria progressiva verso la fine della storia. Non a caso si rimarcava la valenza oggettiva e scientifica delle acquisizioni degli studiosi della modernizzazione e si sprecavano i paragoni tra le nuove scienze sociali e quelle «dure», tradizionali. «Ci sentivamo in grado di conoscere tutto quello che era necessario sapere e di scrivere con certezza apodittica sul suo significato», sostenne lo scienziato politico Gabriel Almond; «nel definire un’efficace politica statunitense nelle aree in via di sviluppo», proclamò con enfasi lo storico ed economista Walt Rostow, «lo scienziato sociale svolge un ruolo equivalente a quello che hanno i fisici nella corsa agli armamenti»6. Il terzo presupposto era l’accettazione, talora implicita talora esplicita, che l’URSS e il comunismo rappresentassero un modello alternativo – per quanto degenerato e malato – di modernità realizzata. Il comunismo era una forma «politicamente patologica, ma organizzativamente efficace di promozione dello sviluppo e raggiun-

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gimento della modernità». Una forma che approfittava in modo parassitario del passaggio fondamentale rappresentato dallo stadio di transizione verso la modernità, quando la destabilizzazione delle società tradizionali apriva opportunità – temporanee ma in quanto tali doppiamente pericolose – a processi di radicalizzazione politica. «I comunisti», sostenne Rostow, erano «gli sciacalli del processo di modernizzazione». Sciacalli, peraltro, capaci di sfruttare una visione moderna e modernista, quella marxista, che suscitava l’ammirazione di molti studiosi della modernizzazione, a partire dallo stesso Rostow7. La strada verso la modernità era segnata. Le scienze sociali offrivano gli strumenti per guidarla e per garantirne il corretto esito finale. Il governo degli Stati Uniti doveva attingere a questi saperi per promuovere politiche atte a evitare l’affermazione di una versione insana e bacata di modernità, quale quella realizzatasi in URSS e in Cina. Lo scientismo modernizzatore si caratterizzava per il suo elitismo tecnocratico, per il suo antipopulismo, per il suo statalismo e per il suo progressismo aconflittuale. I teorici della modernizzazione invocavano un intervento massiccio dello Stato nel guidare i processi politici, economici e sociali nei paesi in via di sviluppo. Riproponevano logiche keynesiane, laddove affermavano il ruolo degli investimenti pubblici nello stimolare la crescita. Offrivano una lettura funzionalista del conflitto sociale, che ritenevano risolvibile per mezzo di soluzioni tecnocratiche. Soprattutto, enfatizzavano la natura multidimensionale e interdipendente del tipo di azione da promuovere (e dell’analisi da offrire): dimensione politica, economica, sociale e culturale erano strettamente (e spesso deterministicamente) interrelate. Solo gestendo e facilitando la transizione alla modernità dei soggetti che non l’avevano ancora raggiunta sarebbe stato possibile garantire il loro approdo al traguardo sano delle democrazie di mercato, anticomuniste e integrate nella rete d’interdipendenze dell’Occidente capitalistico. L’approccio minimalista e antistatalista del conservatorismo eisenhoweriano era ovviamente antitetico a questa visione. In quanto tale, esso fu oggetto di attacchi crescenti già a partire dal 1956-57, quando le critiche di molti teorici della modernizzazione cominciarono ad avere una forte risonanza pubblica e politica. Nel 1957 Walt Rostow e l’economista Max Millikan diedero alle stampe la loro

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«proposta» di politica estera. Il volume – intitolato A Proposal: Key to an Effective Foreign Policy – costituiva il primo tentativo esplicito di legare teoria della modernizzazione e politica estera e di mettere le riflessioni ‘scientifiche’ della prima al servizio delle esigenze immediate della seconda. Il problema, avrebbe affermato qualche anno più tardi lo stesso Rostow, era che l’amministrazione Eisenhower mancava di «una teoria dei processi storici» e si era fino ad allora relazionata al «mondo in via di sviluppo» sulla base di esclusive «considerazioni militari e di bilancio»8. Una svolta radicale nell’atteggiamento degli Stati Uniti e nella loro politica di aiuti era indispensabile. Secondo Millikan e Rostow, questi aiuti dovevano essere indirizzati a tutti i paesi ‘premoderni’ che ancora non ricadevano nell’orbita sovietico-cinese, anche a quelli tentati dalle sirene neutraliste, contro i quali si erano spesso indirizzati gli strali di Eisenhower e Dulles. Bisognava abbandonare una visione eurocentrica della Guerra Fredda per rendersi conto che la competizione con l’URSS si era spostata in quelle aree investite da una trasformazione epocale che le stava finalmente, e ineluttabilmente, proiettando verso la modernità. Attraverso gli aiuti statunitensi sarebbe stato possibile promuovere lo sviluppo e la modernizzazione di paesi ancora arretrati, garantendo il loro pieno inserimento nell’interdipendenza commerciale capitalistica e la creazione di «società stabili ed efficaci, che muovono in direzione della democrazia». Società, queste, «politicamente sane e mature», in grado di assorbire senza violenza e aperture rivoluzionarie il trauma provocato dal «cambiamento repentino». Non a caso, il libro terminava con un’emblematica citazione universalistica di Walt Whitman: «Un pensiero sempre innanzi a noi: che sulla nave divina, il Mondo, che nutre lo Spazio e il Tempo, tutti i popoli del globo navighino assieme lo stesso viaggio e siano destinati alla stessa meta»9. La critica di Millikan e Rostow suscitò interesse e curiosità nei circoli politici di Washington, in particolare tra i critici e gli avversari politici di Eisenhower. Rostow divenne un ascoltato consigliere di John Kennedy, all’epoca senatore del Massachusetts. Parti della legislazione introdotta da Kennedy al Senato – dove i democratici avevano riconquistato la maggioranza – s’ispiravano alle categorie dei teorici della modernizzazione o erano addirittura redatte con la collaborazione e l’assistenza degli studiosi del CIS10. Nel 1960 apparvero due studi fondamentali, che avrebbero defi-

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nito canoni e contenuti della teoria della modernizzazione e della sua applicazione alla politica estera. Il primo fu una ricerca commissionata dal Senato al CIS sui cambiamenti politici, economici e sociali nei paesi in via di sviluppo (Economic, Social, and Political Change in the Underdeveloped Countries). Il secondo fu il famosissimo libro di Walt Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico11. Lo studio del CIS indicava le modalità con le quali gli USA avrebbero dovuto promuovere una sana modernizzazione nel Terzo Mondo. Il libro di Rostow collocava queste indicazioni pratiche entro un’ambiziosa cornice storica e teorica, evoluzionistica e universale, che ambiva a competere con quella marxista. Nella lettura rostowiana, «tutte le società, per le loro caratteristiche economiche», potevano «essere classificate» in cinque categorie: «la società tradizionale, la fase delle condizioni preliminari per il decollo» (il cosiddetto take-off), «il decollo, il passaggio alla maturità e il periodo del grande consumo di massa». Una fase, quest’ultima, «dalla quale gli americani» cominciavano a uscire, «le cui gioie non del tutto limpide» cominciavano «decisamente a gustare [sic!] l’Europa occidentale e il Giappone, e con cui la società sovietica» era «impegnata in un difficile corteggiamento». Una fase nella quale il reddito pro capite garantiva una capacità di acquisto di beni voluttuari, aumentava l’urbanizzazione e si assisteva all’estensione della rete di protezione sociale garantita dal welfare state. Il tornante cruciale del passaggio da una società tradizionale prenewtoniana a una postnewtoniana-industriale, di consumi di massa, era ovviamente rappresentato dal decollo e dalla sua preparazione. Una fase «rivoluzionaria», quella che precedeva il take-off, che alterava in profondità stili di vita radicati, avviava profondi processi di destrutturazione sociale e tendeva a radicalizzare lo scontro politico. Qui il ruolo della mano pubblica, dei governi nazionali e degli stessi Stati Uniti sarebbe stato decisivo: non a caso su questa fase si concentravano i suggerimenti dello studio del CIS apparso lo stesso anno. Aumentando gli aiuti ai paesi meno sviluppati, vincolandoli a precisi standard economici, mettendo la tecnologia degli Stati Uniti e le loro conoscenze produttivistiche al servizio dei paesi beneficiari degli aiuti, promuovendo riforme agrarie centrate sulla redistribuzione della terra e lo smantellamento dei latifondi improduttivi, gli esperti del CIS ritenevano possibile sostenere e accelerare i processi di modernizzazione dei paesi più arretrati,

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immunizzando il momento nodale della transizione e del decollo dal possibile contagio comunista. Sarebbe facile leggere le proposte e le analisi di Rostow e degli altri teorici della modernizzazione come una forma – aggiornata e ipocrita – d’imperialismo civilizzatore, individuando un filo rosso che unirebbe le Filippine del 1898 al Terzo Mondo del 196012. Gli elementi di somiglianza – teorici, politici e discorsivi – ovviamente non mancano, su tutti una visione eccezionalista e messianica degli USA: della loro storia, così come della loro missione e della loro responsabilità civilizzatrice. Elementi, questi, incarnati da una delle metafore preferite di Rostow: quella che equiparava le società agli esseri umani e i paesi economicamente meno sviluppati a un infante da nutrire, allevare e far crescere13. I modernizzatori liberal e progressisti stavano però per intero dentro la loro epoca. Ne riflettevano le ingenuità, i dogmi, ma anche l’ottimismo scientista, l’universalismo omologante verso l’alto, il migliorismo umanitario e la convinzione teleologica e finalistica che fosse possibile stimolare una naturale convergenza verso lo stadio, edenico e ultimo, rappresentato dalla società ricca e opulenta dei consumi di massa. Il loro punto di riferimento fuori dai confini statunitensi erano quasi sempre le socialdemocrazie europee. Il modello analogico, da riprendere, rilanciare ed esportare, era quello del New Deal rooseveltiano. Non a caso, l’apice della loro influenza si ebbe negli anni Sessanta, con le amministrazioni Kennedy e Johnson e l’apogeo del liberalismo progressista della Guerra Fredda14. 1.1. Modernizzazione e contenimento 1: l’Alleanza per il progresso Nel 1960 John Kennedy fu eletto alla presidenza sconfiggendo di misura il vicepresidente di Eisenhower, Richard Nixon. Kennedy si circondò di consiglieri ed esperti provenienti in larga parte dall’accademia, alcuni dei quali con poca se non nulla esperienza politica. Tra il gruppo di quelli che il giornalista David Halberstam avrebbe causticamente ribattezzato i «migliori e i più brillanti» (the best and the brightest) vi era anche Walt Rostow, che divenne vice del consigliere per la Sicurezza nazionale McGeorge Bundy. Una scelta ovvia, anche se da subito contestata soprattutto al Dipartimento di Stato, che evidenziava l’influenza acquisita dai teorici della modernizzazione15. La nuova dottrina di politica estera adottata dall’amministrazione Kennedy poggiava su quattro pilastri fondamentali. Innanzitutto,

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l’abbandono della rappresaglia massiccia a favore di una dottrina ribattezzata «risposta flessibile», che rilanciava le logiche simmetriche e globaliste dell’NSC-68: su tutte la necessità di dotarsi di una panoplia difensiva articolata e duttile, che avrebbe permesso di calibrare la reazione al tipo d’iniziativa della controparte, evitando che l’unica alternativa all’inazione fosse la guerra totale. In secondo luogo, un’attenuazione delle categorie binarie e rigide del decennio precedente, pur senza abbandonare la logica del contenimento del comunismo e dell’URSS. Questo nuovo atteggiamento si manifestò sia nella maggiore ostilità verso regimi dittatoriali, ancorché alleati degli USA, come il Portogallo di Salazar, sia nell’adozione di una postura meno ostile e pregiudiziale nei confronti di forme di neutralismo sempre più diffuse, soprattutto nel Terzo Mondo. Il terzo elemento era la minor disponibilità a delegare responsabilità, competenze e autonomia militare ai partner europei, rispetto ai quali si riaffermava il primato e la leadership degli Stati Uniti. Quarto e ultimo: la convinzione che la competizione con l’URSS si stesse spostando verso le aree meno sviluppate, che il fascino esercitato sui paesi di recente indipendenza dall’esempio sovietico o da quello cinese fosse assai forte e che gli USA dovessero contrapporvi un loro modello di sviluppo, da sostenere economicamente, politicamente e diplomaticamente come non era stato fatto fino ad allora16. L’America Latina fu subito individuata come un ambito nel quale intervenire: per scongiurare il pericolo di una diffusione del comunismo e per mettere alla prova le idee (e le buone intenzioni) dei teorici della modernizzazione. La rivoluzione castrista, la caduta nel 1959 del regime di Fulgencio Batista e l’avvento di un regime comunista nell’emisfero occidentale furono letti come un pericoloso campanello d’allarme. La sfida si era trasferita nel giardino di casa degli USA; il rischio era che il fuoco rivoluzionario si diffondesse da Cuba a tutta la regione. Regione che peraltro sembrava trovarsi proprio in quello stadio transitorio che secondo la lettura rostowiana costituiva il momento di massima opportunità e di più alto rischio e nella quale erano emersi una serie di leader riformatori e anticomunisti che parevano incarnare alla perfezione l’interlocutore ideale con cui gli Stati Uniti avrebbero potuto collaborare. Passi in tal senso erano già stati compiuti nel secondo mandato di Eisenhower. Vari fattori avevano indotto Eisenhower ad abbandonare la linea degli anni precedenti, basata principalmente sulla

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collaborazione militare con i partner latino-americani e sul sostegno al capitale privato statunitense investito nell’area: la difficile condizione economica di molti paesi dell’America Latina, i cui prodotti soffrivano di una ragione di scambio sfavorevole, e il rischio che essa esasperasse e polarizzasse lo scontro politico; la crescente impopolarità degli Stati Uniti, manifestatasi in modo eclatante nel 1958 in occasione di un viaggio in America Latina di Nixon, segnato da proteste e violenze, che culminarono in un vero e proprio assalto all’auto del vicepresidente durante un suo spostamento a Caracas; le sollecitazioni di alcuni leader latino-americani, su tutti il presidente brasiliano Juscelino Kubitschek, che chiedevano un maggior impegno statunitense nel sostenere lo sviluppo sociale ed economico dell’area; la rivoluzione cubana e l’ascesa al potere di Fidel Castro; l’impegno, ora esplicito, del leader sovietico Nikita Chrusˇcˇëv ad appoggiare i movimenti rivoluzionari e di liberazione nazionale nel Terzo Mondo17. Il rischio, affermò John Foster Dulles, era che la «preponderanza dell’influenza statunitense in America Latina» fosse per la prima volta apertamente «sfidata». L’amministrazione Eisenhower procedette alla creazione della Banca interamericana per lo sviluppo, lo strumento per fornire crediti ai paesi dell’America Latina, chiese al Congresso di creare un apposito fondo (il Social Progress Trust Fund) con cui combattere povertà, analfabetismo e mortalità infantile nella regione e ratificò assieme agli altri membri dell’Organizzazione degli Stati americani (OAS) l’atto di Bogotà, che definiva una serie di obiettivi di sviluppo e progresso. Parallelamente, Eisenhower assunse un atteggiamento più severo nei confronti di alcuni dittatori latino-americani, come il dominicano Rafael Trujillo, e di maggiore appoggio a leader moderatamente riformisti, come Kubitschek e il venezuelano Romulo Betancourt18. Quando Kennedy fu eletto vi era quindi già stato un mutamento di rotta nella politica degli USA verso l’America Latina, che recepiva alcune delle critiche di Rostow e degli altri modernizzatori. Con Kennedy si assistette però a un salto di qualità, operativo e retorico. L’America Latina fu individuata come uno dei nuovi campi di battaglia della Guerra Fredda. Essa divenne il primo laboratorio ove testare le nuove teorie della modernizzazione: per contenere il comunismo; per promuovervi democrazia, prosperità e benessere; per dare corso alla storica missione statunitense, adempiendo a un destino

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che, proclamava Kennedy, rimaneva tanto manifesto quanto ancora incompiuto19. Per farlo era necessario promuovere un’iniziativa ben più ambiziosa e coordinata delle misure, reattive e ad hoc, adottate da Eisenhower. Già nel suo discorso inaugurale, Kennedy promise alle «sorelle repubbliche a sud» dei confini statunitensi la «conversione delle buone parole in [...] fatti» e la creazione di un’«alleanza per il progresso» con cui aiutare «gli uomini e i governi liberi ad affrancarsi dalle catene della povertà». Facendolo, ribadì l’impegno statunitense a «opporsi all’aggressione e alla sovversione nelle Americhe»: «ogni potenza sappia», proclamò Kennedy, che «questo emisfero intende rimanere padrone della propria casa (master of its own house)»20. Questa promessa fu reiterata nei mesi successivi. Gli Stati Uniti s’impegnavano a sostenere un vasto programma d’aiuti per lo sviluppo economico e sociale dell’America Latina. Si era prossimi al varo di un nuovo Piano Marshall, proclamò il «New York Times»: come il primo «aveva rappresentato la risposta statunitense a Josif Stalin», così il secondo doveva costituire la «risposta statunitense a Fidel Castro»21. Nel marzo del 1961 l’Alleanza per il progresso fu ufficialmente lanciata. Gli anni Sessanta, sostenne Rostow, avrebbero costituito il «decennio dello sviluppo» e l’amministrazione Kennedy era pronta a fare la propria parte: con una massiccia trasfusione di aiuti statunitensi, e applicando le ricette scientifiche dei teorici della modernizzazione, l’80% della popolazione dell’America Latina sarebbe potuta passare dal «sottosviluppo» alla «crescita autoalimentata». Attraverso l’Alleanza per il progresso, gli USA avrebbero incoraggiato una «rivoluzione controllata» nelle Americhe, affermò il segretario del Tesoro Douglas Dillon. Per il consigliere di Kennedy, lo storico Arthur Schlesinger Jr., l’enfasi sulla «stabilità finanziaria», pedissequamente fatta propria da Eisenhower e dal Fondo monetario internazionale, doveva lasciare finalmente spazio a quella sullo «sviluppo» e sulla «crescita economica». Era venuto il momento di sostenere e facilitare quella «rivoluzione della classe media» che, sola, avrebbe liberato l’America Latina dalle catene dell’arretratezza e della povertà, rendendola così impermeabile al fascino del comunismo. Come avrebbe successivamente sottolineato Lincoln Gordon, uno dei membri della task force di Kennedy sull’America Latina, si

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credeva «che i principali paesi del Sudamerica e il Messico fossero sulla soglia del decollo rostowiano»22. I contenuti del programma furono illustrati alla conferenza interamericana di Punta del Este, tenutasi nell’agosto del 1961. Le premesse riflettevano plasticamente gli assunti della teoria della modernizzazione. A monte agiva la convinzione che le società potessero essere trattate come unità integrate e discrete. Crescita economica, programmi sociali e riforme politiche costituivano processi strettamente interrelati: variabili mutuamente dipendenti che definivano la grande equazione rappresentata dalla modernità. Firmato da tutti gli Stati dell’OAS, con l’eccezione di Cuba, lo statuto di Punta del Este definiva i termini dell’impegno statunitense e gli obiettivi del piano. Gli USA garantivano un finanziamento immediato di un miliardo di dollari, cui se ne sarebbero dovuti aggiungere altri 20 nei dieci anni successivi, provenienti da capitali sia pubblici sia privati. Ai paesi che avrebbero partecipato al piano si chiedeva di garantire 80 ulteriori miliardi di dollari di finanziamenti. Il piano fissava un obiettivo minimo di crescita su scala regionale del 2,5% annuo, equivalente a circa il doppio di quello del decennio precedente. Lo sviluppo economico avrebbe contribuito a (e sarebbe stato facilitato da) una serie di radicali trasformazioni: la crescita del livello d’istruzione e l’abbattimento dell’alto tasso d’analfabetismo; il potenziamento dei sistemi sanitari nazionali; l’integrazione economica e commerciale; l’industrializzazione; le fondamentali riforme agrarie e fiscali, con cui intaccare assetti proprietari iniqui e improduttivi e modificare sistemi di tassazione antiquati e regressivi; l’aumento della partecipazione politica e la sua canalizzazione in processi democratici e forme rappresentative23. Lo sforzo statunitense non mancò e, almeno inizialmente, alcuni risultati furono raggiunti. Gli USA mantennero gran parte degli impegni assunti. Nel decennio successivo, l’America Latina ricevette dagli Stati Uniti circa 18 miliardi di dollari, più della metà dei quali provenienti da agenzie pubbliche. Rispetto agli aiuti esteri complessivi stanziati dagli USA, quelli destinati all’America Latina passarono dal 9% del periodo di Eisenhower al 18% degli anni di Kennedy e Johnson. Le spinte liberalizzatrici portarono all’abbattimento di alcune barriere al commercio intraregionale. Più di 16.000 giovani volontari civili statunitensi si recarono nella regione nel contesto di un’altra grande iniziativa kennediana, quella dei Peace Corps. Alcu-

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ni ambiziosi progetti infrastrutturali – strade, scuole, cliniche, acquedotti, edilizia popolare – furono realizzati e debitamente celebrati. Almeno due Stati – Venezuela e Cile – si avvicinarono nel corso del decennio agli obiettivi di crescita economica, progresso sociale e consolidamento democratico fissati a Punta del Este24. Gli insuccessi – reali e percepiti – furono però assai più numerosi, generando da subito una controversia dentro e fuori gli Stati Uniti sulle ragioni che avevano portato rapidamente l’Alleanza a «perdere la sua strada». Anche durante la «decade dello sviluppo», la crescita in termini aggregati dell’economia latino-americana non superò l’1,5% annuo. La pressione demografica contribuì a far aumentare il numero complessivo di disoccupati e sottoccupati. L’auspicata redistribuzione dei redditi, funzionale alla crescita dei consumi, si realizzò in misura assai limitata. A dispetto delle insistenti sollecitazioni statunitensi, in molti Stati sud-americani non furono attuate quelle riforme agrarie che Washington considerava premessa indispensabile per dare corso alla modernizzazione della regione. In alcuni dei principali Stati dell’America Latina – Brasile e Argentina su tutti – i vecchi assetti latifondisti furono intaccati in misura marginale. Le sperequazioni sociali rimasero e, in alcuni casi, s’intensificarono. Le aspettative – forse eccessive – generate dall’Alleanza e la loro mancata soddisfazione acuirono le tensioni politiche invece di ricomporle25. Ma i semplici dati sui risultati economici e sociali non bastano a dare conto degli esiti del progetto e, più in generale, della prima ambiziosa applicazione della dottrina modernizzatrice. Il fallimento più importante si ebbe a livello politico. Diversamente da quanto sostenuto, l’interdipendenza tra fattori sociali, economici, culturali e politici non si attivò o agì in modo diverso da quanto creduto e auspicato. La visione olistica e sistemica delle teorie della modernizzazione si rivelò analiticamente fallace e politicamente impraticabile. Laddove applicate, le riforme appoggiate dagli USA sembrarono sortire inaspettati effetti destabilizzanti. La «rivoluzione della classe media» dimostrò di essere un obiettivo utopico e comunque futuribile. In molti casi le esigenze della stabilità e del contenimento dell’URSS indussero gli USA a tollerare, e in taluni casi addirittura appoggiare, svolte neoautoritarie. Gli interlocutori che davano maggiori garanzie nella lotta contro il comunismo erano spesso proprio quei soggetti politici e sociali meno interessati a fare proprie e ad applicare

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le ricette riformiste sostenute da Washington. Il disegno unitario dell’Alleanza e la coerenza dottrinale che sottostava ad esso si sgretolarono rapidamente. Di fronte alle esigenze di breve periodo e alle specificità nazionali, Kennedy rispose in modo diverso a seconda dei casi e delle situazioni. In talune occasioni, ribadì l’impegno statunitense a difendere ed espandere la democrazia nella regione: mantenne l’ostilità nei confronti di Trujillo e reagì duramente al golpe militare peruviano del 1962, rompendo i rapporti diplomatici con il Perù e sospendendo gli aiuti economici. Più spesso, accettò – in nome dell’anticomunismo e dell’anticastrismo – l’ascesa di regimi militari; interlocutori, questi, per nulla apprezzati dal presidente e dal suo entourage, ma comunque preferibili a un possibile successo di forze filosovietiche. Kennedy non contrastò né il golpe che portò alla caduta di Frondizi in Argentina nel 1962 né quelli che sarebbero seguiti di lì a poco in Ecuador e Guatemala. In gran parte del Sudamerica la «decade dello sviluppo» si trasformò rapidamente in un decennio di ritorno al potere di élite militari26. Ne conseguì un cortocircuito teorico e politico cui si cercò di dare risposta integrando ed emendando alcuni assunti della strategia della modernizzazione ovvero modificando l’approccio ai problemi latino-americani. A livello ‘scientifico’ furono progressivamente recuperate quelle analisi che legavano a doppio filo modernizzazione e sicurezza, facendo della seconda la premessa concettuale e operativa della prima. La funzione progressiva degli apparati di sicurezza era stata rimarcata ed enfatizzata soprattutto negli studi del politologo Lucian Pye. Alcune di queste riflessioni avevano enfatizzato il «potenziale modernizzatore» dei militari in paesi in via di sviluppo. In realtà postcoloniali, affermava ad esempio il sociologo Hans Speier nel 1962, gli apparati militari avevano agito come «una forza rivoluzionaria» capace di contribuire alla «disintegrazione dell’ordine politico tradizionale», come una «forza stabilizzatrice» in grado di prevenire la caduta di questi paesi nelle mani del comunismo o, infine, come una «forza modernizzatrice», rappresentativa «delle aspirazioni della classe media e delle domande popolari per il cambiamento sociale» e in grado di fornire le «competenze tecnologiche e amministrative» mancanti27. Di lì a poco, queste posizioni sarebbero state radicalizzate e portate alle loro estreme conseguenze da un altro scienziato politico, Samuel Huntingon, che le avrebbe però coniugate con una severa cri-

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tica della teoria della modernizzazione e con una forte sottolineatura conservatrice e antiprogressista dell’importante ruolo stabilizzatore delle forze armate28. Una traduzione politica, per quanto attenuata rispetto alle formulazioni huntingtoniane, della via militare alla modernizzazione in America Latina fu infine accettata anche dal governo degli Stati Uniti, soprattutto dopo la morte di Kennedy. Tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964, due sottosegretari di Stato, Edwin Martin e Thomas Mann, rivendicarono la necessità di giudicare i governi dell’America Latina sulla base dei loro comportamenti e non della loro natura: civile o militare, democratica o autoritaria. Mann invitò ad abbandonare «l’illusione di onnipotenza» che aveva caratterizzato l’atteggiamento dei liberal kennediani. La «creazione di una vera democrazia», sostenne Martin, era al di là dei compiti e della possibilità degli USA29. Questo nuovo indirizzo fece inorridire una parte dell’élite riformista che aveva sostenuto Kennedy. Schlesinger Jr. denunciò Mann come un «colonialista per mentalità e un fanatico liberista». Il «New York Times» censurò severamente la svolta nella politica statunitense in America Latina. Una svolta, questa, sigillata dal golpe brasiliano del 1964, che portò con il tacito assenso statunitense alla caduta del governo di sinistra di Joâo Goulart, rovesciato proprio da quei militari che molti negli USA ora presentavano, se non come alfieri della modernizzazione dell’America Latina, quanto meno come suoi difensori dall’assalto del comunismo30. 1.2. Modernizzazione e contenimento 2: i «villaggi strategici» Il legame – teorico e pratico – tra modernizzazione e sicurezza fu da subito assai marcato anche nell’altro grande laboratorio ove l’amministrazione Kennedy testò le prescrizioni modernizzatrici: quello sudvietnamita. L’impegno statunitense in Indocina era cresciuto in modo progressivo e lineare durante i primi quindici anni della Guerra Fredda. Gli imperativi della competizione bipolare avevano indotto a sostenere la Francia, disattendendo la promessa di concedere l’indipendenza al Vietnam una volta terminato il secondo conflitto mondiale. La sconfitta francese nel 1954 per mano del movimento comunista nazionalista guidato da Ho Chi Minh indusse gli USA a impegnarsi ancor di più nel teatro vietnamita. Gli accordi di Ginevra del luglio 1954 avevano temporaneamente diviso il Vietnam in due entità sta-

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tuali, separate all’altezza del 17° parallelo. La separazione doveva essere temporanea: gli accordi prevedevano che entro due anni il paese fosse riunificato attraverso libere elezioni. Gli USA e il Vietnam del Sud non avevano però accettato questa clausola, consapevoli che il libero voto avrebbe quasi certamente portato al potere Ho. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Washington s’impegnò a sostenere militarmente ed economicamente il regime di Ngô Dinh Diem nel Sud. Lo fece applicando categorie e cliché della Guerra Fredda: la sottovalutazione della popolarità e del genuino nazionalismo del movimento comunista vietnamita; la convinzione che esso operasse seguendo le direttive e le indicazioni di URSS e Cina; la sottolineatura dell’inviolabilità della linea del contenimento tracciata in Asia, pena la messa in discussione della credibilità del proprio impegno globale contro il comunismo31. Kennedy ereditò il commitment statunitense in Vietnam. Lo ereditò senza discuterlo e in una fase di escalation dello scontro e delle tensioni nel Vietnam del Sud. A partire dal 1959-60, l’autoritario governo di Diem si trovò infatti a fronteggiare l’azione sempre più intensa e violenta del fronte di liberazione nazionale (FLN), il cui obiettivo era quello di giungere alla riunificazione del paese. Vincendo le titubanze di Ho Chi Minh, che preferiva un approccio cauto e gradualista, e gli inviti alla moderazione di URSS e, soprattutto, Cina, contrarie ad aprire un nuovo fronte di tensione con gli Stati Uniti, l’FLN avviò un’intensa campagna di reclutamento e moltiplicò le azioni violente contro l’esercito sud-vietnamita, eliminando inoltre numerosi funzionari governativi32. L’impegno statunitense in Indocina era cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni dell’amministrazione Eisenhower. Come nel caso dell’America Latina, la vera svolta vi fu però con Kennedy. Accettato l’assunto che il Vietnam fosse – in termini pratici e simbolici – una delle nuove frontiere della Guerra Fredda, Kennedy decise giunto il momento di investirvi risorse e capitale politico in quantità ben maggiore di quanto non fosse avvenuto fino ad allora. Lo fece in risposta anche alle sollecitazioni che gli giungevano da alcuni dei suoi più stretti collaboratori, militari e civili. Tra questi si distinsero l’esperto di dottrine controinsurrezionali, Edward Landsdale (cui è ispirata la figura di Alden Pyle, l’«americano tranquillo» di Graham Greene), per il quale il Vietnam si trovava in una «condizione critica» che richiedeva un «trattamento emergenziale», e lo stesso Ro-

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stow, che sollecitò un’iniziativa immediata contro il «banditismo internazionale» che minacciava la sovranità e la libertà del Vietnam del Sud33. Le modalità scelte da Kennedy per sostenere il Vietnam del Sud e immunizzarlo dal rischio di un contagio comunista s’inserivano perfettamente entro la filosofia riformista e modernizzatrice del nuovo presidente democratico e del suo entourage. Kennedy rigettò le richieste di procedere immediatamente a una rapida escalation in Vietnam ed espresse privatamente molte perplessità sulla possibilità di un maggior coinvolgimento militare statunitense. Pur aumentando il numero di consiglieri militari attivi in Vietnam del Sud – che in un anno passarono da circa 800 a più di 10.000 – il presidente scelse una strada intermedia, fatta d’incrementi graduali del numero di soldati americani, di aiuti militari e soprattutto di assistenza a progetti di sviluppo e modernizzazione. Coerente con gli ideali, le categorie cognitive e la filosofia politica dell’amministrazione, il sostegno a tali progetti divenne anzi un modo per evitare di prendere decisioni controverse e per collocare la politica vietnamita degli USA sulla sottile via mediana tra l’intervento totale e un negoziato, quello con il Vietnam e l’FLN, che non fu mai preso seriamente in considerazione34. L’iniziativa che più di tutte simboleggiò la via kennediana e modernizzatrice al contenimento del comunismo in Vietnam furono i cosiddetti «villaggi strategici». Un progetto, questo, che originava dalla fiducia nell’applicabilità analitica e prescrittiva delle teorie della modernizzazione, dalla fede nell’utilizzabilità politica del primato tecnologico americano e dalla convinzione che il successo del comunismo in Vietnam esprimesse un’ansia di modernità della popolazione rurale vietnamita che andava gestita, disciplinata e infine sfruttata. Secondo questa lettura, diventare comunisti nei paesi in via di sviluppo era spesso l’unico modo per accedere alla modernità e ai suoi benefici. Questa convinzione – sostenne il segretario di Stato, Dean Rusk – andava contrastata diventando «pro-modernizzazione tanto quanto anticomunisti» e facendo così degli USA «i guardiani del processo di sviluppo piuttosto che i custodi dello status quo»35. I villaggi strategici riprendevano elementi di modelli applicati sia dai britannici in Malesia sia dallo stesso Diem. L’idea era quella di riunire famiglie di contadini sparse sul territorio sud-vietnamita in comunità circoscritte, protette da fortificazioni verso l’esterno e

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maggiormente monitorabili, attraverso l’introduzione di forme di controllo sui movimenti delle persone e sulle loro attività. Entro queste comunità – la cui dimensione ideale doveva essere di circa 1.0002.000 abitanti – si riteneva possibile promuovere un ambizioso programma di sviluppo e democratizzazione. Aiuti economici per l’acquisto di bestiame e sementi, equa distribuzione della terra, consulenza tecnica e inserimento della produzione agricola in un sistema di scambi più ampio avrebbero garantito l’incremento della produttività del sistema agricolo e la graduale formazione di un ceto medio di allevatori e agricoltori, una delle precondizioni fondamentali del decollo rostowiano. Allo sviluppo economico doveva corrispondere una radicale trasformazione politica. I villaggi sarebbero stati dotati di ampia autonomia amministrativa e la selezione di chi li avrebbe guidati sarebbe avvenuta attraverso effettive procedure democratiche. Autosufficienti e autoamministrati, questi villaggi sarebbero stati altresì in grado di difendersi dalle infiltrazioni esterne – isolando i contadini dagli insorti dell’FLN – e di garantire così la piena sicurezza dei propri abitanti36. I villaggi strategici rappresentavano un ambizioso programma generale attraverso cui pacificare il Vietnam, modernizzandolo, democratizzandolo e adempiendo così una volta di più alla missione storica degli Stati Uniti. Separati dai guerriglieri dell’FLN, ribattezzati vietcong, liberati dai loro ricatti e introdotti a una forma di modernità ben più benefica di quella comunista, i contadini vietnamiti sarebbero stati progressivamente integrati nel corpo politico dello Stato sud-vietnamita e avrebbero maturato un preciso interesse alla sua sopravvivenza e al suo consolidamento. I villaggi strategici rappresentavano l’elemento fondamentale di un ottimistico programma di nation building ispirato al modello – universale e replicabile – statunitense, gestito attraverso le categorie scientifiche dei teorici della modernizzazione e finalizzato a contenere il comunismo nel Sud-Est asiatico37. Il progetto – «Operazione Alba» (Operation Sunrise) – prese il via nel marzo del 1962. Vi furono coinvolte diverse agenzie governative statunitensi, civili e militari. Tra molti rappresentanti delle seconde non mancarono peraltro le perplessità, soprattutto di coloro che avrebbero preferito un approccio più ortodosso e tradizionale38. Da subito si manifestò una serie di problemi che avrebbe indotto ad abbandonare in tempi assai rapidi il programma dei villaggi

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strategici e a deporre almeno in parte il fideistico entusiasmo che ne era stato alla base. Le forme estreme di esercizio della sorveglianza e del controllo – un panopticon fatto di coprifuoco, torrette di guardia, cancellate, fossati, filo spinato, sistemi di allarme e altro ancora – rimandavano a un oppressivo scenario orwelliano, nel quale sarebbe stato assai difficile dare corso all’auspicata costruzione del consenso. Il trasferimento delle popolazioni contadine nei villaggi strategici non fu, né poteva essere, negoziato e consensuale. Forte fu la resistenza allo sradicamento dai luoghi natali e allo spostamento nelle nuove comunità. Nella gran parte dei casi i trasferimenti avvennero con la forza, le fughe furono numerose e le violenze sempre più frequenti e intense. Il risentimento finì per rafforzare la popolarità dell’FLN. Il basso numero di giovani residenti nei villaggi offrì da subito un chiaro indicatore dell’accresciuta capacità di reclutamento del Fronte39. Coercizione e violenza continuarono anche una volta costituiti i villaggi. Esse si combinarono con imperizia amministrativa, disonestà e malgoverno. Gran parte degli aiuti statunitensi non giunsero mai alla loro destinazione ultima, i contadini stessi. La corruzione divenne la norma. Al posto di una rete di piccoli ed efficienti imprenditori agricoli – spina dorsale dell’auspicata trasformazione democratica del Vietnam del Sud – si formò una classe di lavoratori sfruttati e improduttivi, tra i quali cresceva il rancore verso il governo di Saigon. Le critiche di molti osservatori americani si fecero sempre più aspre. Più che santuari, impervi all’influenza del comunismo e laboratori della modernizzazione, i villaggi strategici assomigliavano a delle prigioni. Il corrispondente del «New York Times», David Halberstam, giunse a paragonarli a campi di concentramento. Le critiche dei media statunitensi si fecero più intense. Alcuni importanti leader politici, in particolare il senatore del Montana Mike Mansfield, misero per la prima volta apertamente in discussione gli assunti alla base dell’intervento statunitense40. Le critiche si concentrarono esclusivamente sulle modalità d’applicazione delle strategie modernizzatrici, non sui loro limiti teorici e politici. A essere denunciata fu la cattiva gestione dei progetti statunitensi, non i loro presupposti concettuali. Il dibattito rimaneva così all’interno del paradigma, ancora indiscusso, della modernizzazione, che andava ripensato e rimodulato, ma non rigettato. L’esperimento dei villaggi strategici terminò nel corso del 1963, in conco-

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mitanza con l’intensificazione dell’azione militare dell’FLN e il manifestarsi dell’estrema debolezza sia dell’esercito del Vietnam del Sud sia del governo di Diem, che in novembre fu rovesciato da un colpo di Stato sostenuto dagli USA. L’impegno statunitense in Vietnam sarebbe cresciuto in modo esponenziale nei mesi e negli anni successivi: testando altre possibili varianti della teoria della modernizzazione e consolidando – talvolta in modo parossistico – il connubio tra sviluppo e sicurezza, forza e progresso, che era stato alla base della fallimentare esperienza dei villaggi strategici.

2. Sull’orlo dell’abisso: la crisi dei missili cubani Le difficoltà del modello modernizzazione anticipavano una crisi più generale della modernità: dei suoi paradigmi, delle sue analisi, delle sue manifestazioni. Una crisi che si era rivelata anche in un altro ambito, quello nucleare. Una crisi grazie alla quale sarebbero state poste le premesse del primo grande processo di distensione tra le due superpotenze. Il teatro ove questa crisi si manifestò fu Cuba, trasformatosi in nuovo e inatteso fronte di Guerra Fredda dopo la rivoluzione del 1959. In pochi mesi, quello che a lungo era stato un protettorato degli Stati Uniti si trasformò in alleato dell’Unione Sovietica: un avamposto del socialismo a poche miglia dalle coste statunitensi e un potenziale modello, replicabile in altri paesi dell’America Latina. Sulle ragioni che resero impossibile un accomodamento tra gli Stati Uniti e il nuovo regime cubano gli storici continuano a dividersi tra chi sottolinea le colpe degli USA e chi attribuisce invece maggiori responsabilità a Fidel Castro. A Washington vi fu subito una forte rigidità nei confronti del governo di Castro, di cui si temevano il radicalismo politico e i progetti economici, che avrebbero potuto danneggiare gli interessi statunitensi presenti sull’isola. Castro fece del suo meglio per confermare queste paure. Attuò una serie di riforme e di nazionalizzazioni finalizzate a porre termine alla dipendenza economica di Cuba dagli USA e dal loro mercato, intensificò l’azione propagandistica e l’impegno alla diffusione della causa rivoluzionaria in tutto l’emisfero e procedette rapidamente a esautorare una serie di figure

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politiche moderate che avevano partecipato alla rivoluzione contro il regime di Batista41. Le tensioni si acuirono nel corso del 1961, quando esse s’intrecciarono con quelle nate attorno alle sorti di Berlino, che furono infine risolte in modo drammatico con l’erezione del muro nell’agosto del 196142. Stati Uniti e Cuba ruppero i loro rapporti diplomatici. Castro si legò sempre più all’Unione Sovietica, dalla quale ottenne aiuti militari ed economici, e impose una serie crescente di restrizioni dei diritti politici e civili. Gli USA intensificarono le loro pressioni, istituendo un embargo sulle importazioni di zucchero da Cuba e, soprattutto, promuovendo delle operazioni clandestine con l’obiettivo di abbattere il regime castrista e di eliminare il líder máximo. Tra queste, la più famosa fu sicuramente quella della Baia dei Porci dell’aprile 1961, quando un gruppo di esuli anticastristi, addestrati dalla CIA, tentò di sbarcare sull’isola, provocare un’insurrezione e rovesciare Castro. L’operazione si concluse con un clamoroso insuccesso, che danneggiò pesantemente l’immagine internazionale degli USA e dell’amministrazione Kennedy. Con la Baia dei Porci non cessò però l’ostilità statunitense nei confronti di Castro, né fu messo da parte l’obiettivo di far cadere il suo governo, che continuò a essere perseguito da Kennedy attraverso una serie di azioni clandestine (la cosiddetta «Operazione Mangusta»), il cui obiettivo era spesso quello di assassinare il dittatore cubano43. Dopo alcune titubanze, la leadership sovietica decise di intensificare l’appoggio economico e militare a Cuba. Soprattutto, Mosca cominciò a valutare la possibilità d’installare a Cuba missili a raggio medio (MRBM) e intermedio (IRBM), capaci di portare testate nucleari. Il dispiegamento di questi missili avrebbe permesso all’URSS di raggiungere tre diversi obiettivi. Innanzitutto, essi avrebbero costituito un efficace deterrente contro un’eventuale invasione statunitense dell’isola. Difendere Cuba e il regime castrista era indispensabile per riaffermare la credibilità dell’impegno sovietico a proteggere ovunque la causa della rivoluzione, ma rifletteva anche una solidarietà istintiva e per certi aspetti emotiva che legava ora Mosca al nuovo alleato cubano. Per l’URSS Cuba era divenuta l’emblema delle guerre di liberazione nel Terzo Mondo. La protezione di Castro acquisiva così una rilevanza simbolica e ideologica che travalicava almeno in parte la dimensione strettamente strategica44.

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Dimensione, questa, che non scompariva, ovviamente, e che costituiva la seconda ragione dietro la decisione di dispiegare i missili a Cuba. L’asimmetria strategica dei primi anni della Guerra Fredda non era affatto venuta meno. A dispetto dei bluff e dei proclami roboanti di Chrusˇcˇëv, la superiorità nucleare statunitense rimaneva netta e indiscussa. In termini aggregati complessivi, che permettono peraltro comparazioni assai approssimative, l’arsenale strategico statunitense continuava a essere di molte volte superiore a quello sovietico. Gli IRBM e gli MRBM eventualmente dispiegati a Cuba avrebbero consentito – con poca spesa, ma molto rischio – di alterare tale squilibrio missilistico. La loro gittata, che stava tra i 1.000 e i 4.000 chilometri, permetteva di mettere sotto tiro una parte rilevante del territorio degli Stati Uniti e varie basi militari e missilistiche, aumentando la capacità di primo colpo dell’URSS di circa il 70-80% e bilanciando – sottolineò Chrusˇcˇëv – «quello che l’Occidente chiama equilibrio di potenza». Facendolo, avrebbe altresì pareggiato quella ferita all’immagine dell’URSS prodotta dal precedente dispiegamento statunitense di IRBM e MRBM, per quanto obsoleti e poco utili, in Gran Bretagna, Italia e, soprattutto, Turchia: missili «puntati alla mia dacia», questi ultimi, sottolineò Chrusˇcˇëv45. Il terzo motivo per cui Mosca decise di procedere al dispiegamento dei missili si legava anch’esso alla dimensione simbolica della sfida bipolare. In difficoltà sul piano interno e ormai sfidato dal regime cinese, Chrusˇcˇëv abbisognava di un successo di immagine che solo un’iniziativa eclatante come quella cubana avrebbe garantito. Grazie ad essa, l’URSS avrebbe visto riaffermato il proprio vacillante primato all’interno del mondo socialista, preservando una credibilità rivoluzionaria che cominciava ora a essere messa in discussione. La costruzione dei siti missilistici cominciò nell’estate del 1962. Quella sovietica era un’operazione troppo ampia e ambiziosa per essere tenuta nascosta. Solo nell’ottobre del 1962, però, gli Stati Uniti compresero grazie alle foto degli aerei ricognitori U-2 che l’URSS intendeva installare delle rampe per il lancio di missili. Si aprì allora la crisi più drammatica della Guerra Fredda. Per due settimane le due superpotenze si fronteggiarono diplomaticamente, giungendo assai vicine allo scontro46. L’amministrazione Kennedy reagì con durezza all’azzardo chrusˇcˇëviano. Fu costituita un’unità di crisi (il cosiddetto Executive

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Committee, ExCom), alla quale partecipavano tutti i principali consiglieri di politica estera, militari e civili, del presidente. Kennedy e i membri della ExCom partivano da un assunto comune e condiviso: l’indisponibilità ad accettare il dispiegamento dei missili. L’iniziativa sovietica andava fermata immediatamente: per non vedere indebolita quella asimmetria strategica che continuava a costituire uno degli elementi strutturali della «preponderanza di potenza» americana nella Guerra Fredda; ma anche, se non primariamente, per ragioni di credibilità, interna e internazionale. L’installazione avrebbe rappresentato una pesante sconfitta d’immagine per Kennedy e la sua amministrazione. Sul piano interno, dove pochi giorni più tardi si sarebbe votato per le elezioni di mid-term, avrebbe rafforzato le posizioni di chi da destra denunciava la debolezza del presidente nei confronti della sfida comunista. Sul piano internazionale, una capitolazione statunitense avrebbe rischiato d’incrinare la coesione del fronte antisovietico, stimolando possibili rigurgiti neutralisti e terzaforzisti, soprattutto in Europa. Ancora una volta il particolare era rapidamente universalizzato: rispondere con fermezza su Cuba serviva anche e soprattutto per dare un messaggio al resto del mondo; per ribadire il commitment globale e immutato del contenimento. In un’amministrazione dominata dalla paura di apparire debole, i cui comportamenti e discorsi erano spesso informati da una «mascolinità morale» ad alto contenuto retorico, la sfida sovietica fu letta e vissuta come una prova di forza cui non era possibile sottrarsi; una verifica del proprio coraggio, della propria fermezza, della propria virilità; un test per preservare non solo l’equilibrio di potenza, ma la percezione che di esso si aveva, negli USA e nel resto del mondo47. Durante le discussioni della ExCom furono valutate quattro possibili opzioni: il ricorso alle Nazioni Unite; un bombardamento mirato e chirurgico delle postazioni missilistiche; l’invasione di Cuba e il rovesciamento di Castro; un blocco navale – una «quarantena», come fu ribattezzato – attorno all’isola che avrebbe impedito l’arrivo del materiale necessario per completare le installazioni. Le prime tre opzioni furono scartate. Coinvolgere le Nazioni Unite avrebbe richiesto tempi lunghi e non avrebbe garantito né il successo diplomatico né la rimozione dei missili a quel punto installati. L’invasione dell’isola o il bombardamento, soluzioni sollecitate dai capi di Stato maggiore e dall’ex segretario di Stato Dean Acheson (per il quale gli Stati Uniti erano impegnati in una «prova di volontà», test

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of wills, dove «prima si fosse giunti alla resa dei conti, meglio sarebbe stato»), avrebbero rischiato di scatenare una guerra, coinvolgendo i militari e tecnici sovietici (circa 40.000) presenti a Cuba. Dopo lunghe discussioni, si optò invece per la strada del blocco navale, sostenuta dal sottosegretario di Stato, George Ball, dal segretario della Difesa, Robert McNamara e dal ministro della Giustizia, Robert Kennedy, fratello del presidente. L’uso della forza, nella forma dell’invasione o del bombardamento, rimase come opzione alternativa, qualora l’embargo fosse fallito48. Kennedy informò il paese della situazione con un discorso alla televisione. La «trasformazione di Cuba in un’importante base strategica» causata dalla «presenza di armi di distruzione di massa [...] chiaramente offensive» – affermò il presidente – costituiva «un’esplicita minaccia alla pace e alla sicurezza di tutte le Americhe». L’installazione di «missili comunisti in un’area nota per la sua relazione storica e speciale con gli Stati Uniti e con le nazioni dell’emisfero occidentale» rappresentava un «mutamento provocatorio e ingiustificato dello status quo» che non poteva essere accettato dagli Stati Uniti. «Gli anni Trenta», affermò Kennedy, ricorrendo a quella che era ormai l’analogia classica dell’internazionalismo statunitense, «ci hanno insegnato una lezione chiara: i comportamenti aggressivi, laddove non controllati e non contrastati, portano in ultima istanza alla guerra»49. Dopo alcuni giorni di tensioni altissime, in cui uno scontro apparve inevitabile, Chrusˇcˇëv indietreggiò. L’URSS accettò di non installare i missili. Kennedy promise pubblicamente che gli Stati Uniti non avrebbero invaso Cuba. Sottobanco, però, Robert Kennedy e l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatolij Dobrynin, si erano accordati affinché il mancato dispiegamento dei missili sovietici fosse pareggiato dalla rimozione dei missili Jupiter presenti in Turchia50. Sia Washington sia Mosca giungevano a una soluzione sacrificando i propri alleati, Cuba e Turchia, che in modi diversi esprimeranno risentimento e contrarietà per le decisioni delle due superpotenze. Era questa una delle lezioni, e delle contraddizioni, più evidenti della crisi dei missili cubani. Essa rivelava due radicali novità imposte dalle armi nucleari al sistema delle relazioni internazionali. La prima era rappresentata dalla trasformazione stessa della natura della guerra. Fino ad allora strumento moderno al servizio della politica, le armi avevano maturato una tale capacità distruttiva da sot-

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trarsi al controllo della politica medesima. Se una guerra nucleare continuava a essere immaginabile e pianificabile – negli USA come in URSS –, essa cessava progressivamente di essere un’opzione politica praticabile. Ne conseguiva una completa trasmutazione del significato stesso della tecnologia bellica più avanzata e sofisticata, e di quella missilistica in particolare. Essa andava migliorata e potenziata, in una corsa al riarmo che si sarebbe solo intensificata negli anni successivi. Ma andava potenziata e migliorata in funzione non del suo utilizzo, ma del suo non uso. Le armi atomiche servivano per non essere utilizzate. Per garantire una pace tra le due superpotenze fondata sulla deterrenza, ossia sulla certezza della distruzione reciproca in caso di guerra. Era questo il secondo, fondamentale elemento di novità prodotto ed evidenziato dalla crisi. Il nucleare creava un elemento di comunanza basilare e ineludibile tra i due antagonisti della Guerra Fredda. Li legava in una forma d’interdipendenza strategica strettissima e li distingueva – in termini di potenza, ma a questo punto anche d’interessi – dagli altri soggetti del sistema internazionale. L’atomica generava un comune denominatore tra Stati Uniti e Unione Sovietica al quale nessuno dei due poteva sottrarsi. Per entrambi, la sicurezza dipendeva dai comportamenti della controparte, a sua volta potenzialmente reattivi ai propri, in una circolarità che non aveva mai fine51. Erano questi i grandi paradossi che la crisi dei missili cubani, e le modalità con le quali era stata risolta, avevano ben mostrato. La guerra non costituiva più un’opzione praticabile, ancorché drammatica, di risoluzione degli antagonismi tra le grandi potenze del sistema. Il rischio della guerra riuniva però le due superpotenze dell’epoca bipolare in un abbraccio dal quale non ci si poteva liberare. Era anzi proprio su questo rischio che si cominciava a edificare una strategia di sicurezza interdipendente e biunivoca: una pace armata fondata non sul disarmo, ma sull’accettazione della massimizzazione del danno generale in caso di guerra e sull’effetto deterrente/dissuasivo prodotto da tale accettazione. Guerra impossibile, ma pace fondata sulla disponibilità di USA e URSS ad accogliere la possibilità della guerra stessa, preludevano all’ultimo paradosso: i due nemici assoluti della Guerra Fredda, i due grandi e antitetici universalismi del XX secolo, si trovavano in una condizione che li distingueva e, per certi aspetti, univa. Che potessero sacrificare senza remore le richieste di alleati minori, come Turchia e Cuba, in nome di un co-

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mune interesse sovradeterminante – evitare lo scontro – ben evidenziava la portata della novità in atto. Una novità che imponeva forme nuove di azione politica e diplomatica e il definitivo abbandono di quelle logiche massimaliste e non dialettiche che avevano contraddistinto la (non) interazione tra i due poli superiori durante i primi anni della Guerra Fredda. Era necessario passare dalla fase dello scontro a quella del dialogo; dalla competizione alla distensione. Le armi nucleari rappresentavano lo strumento con il quale (e in nome del quale) costruire una relazione nuova, ancorché esclusiva (solo due erano le potenze che vi potevano accedere) ed escludente (tra gli altri scopi, essa si proponeva di mantenere sine die un duopolio di potenza teoricamente contestabile dall’ascesa di nuovi soggetti nucleari). Il primo riconoscimento di questa trasformazione della relazione bipolare si ebbe nell’estate del 1963, quando Stati Uniti e Unione Sovietica ratificarono un trattato che metteva al bando gli esperimenti nucleari nell’atmosfera (il Test Ban Treaty), indispensabili a quei paesi che intendevano dotarsi di una propria bomba atomica. Il trattato – definito da Chrusˇcˇëv «un punto di svolta nella storia delle relazioni internazionali contemporanee» – non fu firmato dalla Cina e dalla Francia, che ambivano entrambe a entrare nel club delle potenze nucleari (cosa che sarebbe puntualmente avvenuta di lì a poco). Il Test Ban Treaty istituzionalizzava l’interdipendenza strategica e avviava la lunga fase della distensione tra le superpotenze. Altri importanti accordi sarebbero ben presto seguiti. La guerra tra potenze cessava di essere pensabile e pianificabile, ma doveva rimanere possibile. Agli USA restava però da testare l’altra opzione bellica ancora disponibile e celebrata: quella della guerra limitata e, asserivano alcuni, modernizzatrice52.

3. Bombardare un paese verso il futuro: l’intervento in Vietnam Nel 1967, il Dipartimento di Stato assegnò al politologo Samuel Huntington il compito di esaminare sul campo la situazione venutasi a determinare in Vietnam del Sud, dove gli USA erano ormai impegnati da più di due anni in una guerra di cui non si vedeva la via d’uscita. Nel biennio precedente, Huntington aveva appoggiato l’in-

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tervento. Dopo aver trascorso due mesi in Vietnam, egli redasse però un lungo rapporto, nel quale si esprimevano giudizi assai severi sulla strategia statunitense. Giudizi, questi, che Huntington avrebbe riproposto pochi mesi più tardi in un articolo apparso sulla rivista «Foreign Affairs». In esso, come in altri, successivi scritti huntigtoniani, si criticavano apertamente gli assunti della teoria della modernizzazione e le modalità con le quali si era cercato di applicarli in Indocina. Huntington muoveva tre obiezioni. La prima era che lo sforzo di nation building promosso fino ad allora fosse impraticabile e controproducente: perché non applicabile a una realtà fatta di specificità locali e regionali e di debole governo centrale; perché minava un equilibrio sociale e politico preesistente, che garantiva comunque l’ordine e la stabilità. La seconda tesi – che poi Huntington avrebbe ripreso più volte fino al suo famoso scritto del 1996 sullo «scontro di civiltà» – era che il determinismo economico e omologante delle teorie modernizzatrici fosse destinato a infrangersi contro resistenze culturali e tradizioni consolidate e immutabili. La terza e ultima obiezione era che fosse necessario giungere a una qualche forma di accomodamento con l’FLN, quanto meno nelle aree che cadevano sotto il suo controllo. «L’appeal dei rivoluzionari», asseriva Huntington riprendendo altre sue riflessioni dell’epoca, «dipende non dalla privazione economica, ma da quella politica, ossia dalla mancanza di un’efficace struttura d’autorità». Compito degli USA era porre le condizioni per il ripristino di tale struttura e non promuovere iniziative che invece ne erodevano ulteriormente le fondamenta53. Eppure, nemmeno quello che sarebbe presto divenuto uno dei più severi censori delle teorie modernizzatrici d’ispirazione liberal riusciva a sottrarsi interamente ai paradigmi dominanti e ad alcune delle loro più drammatiche contraddizioni. Insensibile alla gravità del paradosso, Huntington sosteneva infatti che i bombardamenti statunitensi in Vietnam, spopolando le campagne e obbligando la popolazione a rifugiarsi nelle città, stavano accelerando – in modo involontario ma assai efficace – l’auspicata trasformazione del Vietnam. La dottrina maoista della rivoluzione rurale era resa così vieppiù impraticabile dalla «rivoluzione urbana sponsorizzata dagli americani». In modo accidentale – sostenne Huntington – «gli Stati Uniti potrebbero essersi imbattuti nella risposta alle ‘guerre di liberazione nazionale’»: un’«urbanizzazione forzosa e una conseguente

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modernizzazione che porta il paese fuori dalla fase in cui un movimento rivoluzionario contadino può sperare di generare una forza sufficiente per permettergli di giungere al potere»54. Il commento di Huntington finiva per dare una parvenza di dignità scientifica a quello, assai più crudo, di un maggiore dell’esercito statunitense il quale, intervistato al termine di uno scontro nella città di Bên Tre, sul delta del Mekong, aveva dichiarato che era stato «necessario distruggere il villaggio per poterlo salvare»55. Questa celebrazione della distruzione costruttiva era rivelatrice delle tante aporie della guerra modernizzatrice e liberal che si stava combattendo: di quelle che lo storico Jeremi Suri ha chiamato le «conseguenze illiberali di un impero liberale». Essa mostrava tutti i limiti del connubio modernizzazione-sicurezza teorizzato negli anni precedenti ed evidenziava l’assurdità dell’utilizzo della guerra come strumento per edificare una nazione e portarla verso la modernità; di bombardare un paese per proiettarlo verso il futuro. Uno sforzo, questo, promosso peraltro con una radicalità e un’intensità senza precedenti: nel corso del conflitto il numero di bombe americane sganciate sul territorio vietnamita (che per l’80% caddero sul Vietnam del Sud) sarebbe finito per essere di ben tre volte superiore al totale delle bombe alleate lanciate nel secondo conflitto mondiale, provocando centinaia di migliaia di vittime e causando una drammatica devastazione ambientale56. I bombardamenti sul Vietnam del Nord rappresentarono la prima svolta impressa all’azione statunitense in Vietnam dal nuovo presidente Lyndon Johnson, insediatosi alla Casa Bianca nel novembre del 1963 dopo l’assassinio di Kennedy. Una svolta, questa, che fu accelerata dagli eventi sul campo e dalla rigidità subito manifestata dal nuovo presidente, ma che era in larga misura coerente con le scelte compiute dagli Stati Uniti nei vent’anni precedenti. Nell’estate del 1964, in seguito ad alcuni scontri – in parte reali in parte artefatti – tra imbarcazioni nord-vietnamite e due cacciatorpediniere americani nel Golfo del Tonchino, Johnson autorizzò una serie di raid aerei sul Vietnam del Nord. Pochi giorni più tardi il Congresso, riunito in sessione congiunta, approvò una risoluzione che di fatto autorizzava Johnson a estendere senza limiti l’impegno militare statunitense in Vietnam. La risoluzione – contro la quale votarono solo due senatori – autorizzava infatti il presidente a «prendere tutte le misure necessarie [...] incluso l’uso della forza armata

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[...] per fronteggiare un attacco alle forze statunitensi e per prevenire future aggressioni»57. Un’escalation, per quanto parziale, vi era già stata con Kennedy: tra il 1961 e il 1963 il numero di ‘consiglieri’ militari statunitensi inviati ad assistere e addestrare l’esercito sud-vietnamita era passato da 800 a più di 16.000. La loro partecipazione alle operazioni contro l’FLN si era fatta più frequente e 80 soldati americani avevano perso la vita. L’aiuto economico e tecnico al governo di Saigon era a sua volta cresciuto in modo lineare ed esponenziale. L’idea che la linea del contenimento passasse per l’Indocina e obbligasse a sostenere il regime sud-vietnamita era stata in larga misura accettata. Il salto di qualità si ebbe però con Johnson, che abbandonò le perplessità e le titubanze di Kennedy, marginalizzò tutti i membri dell’amministrazione contrari all’escalation, non perseguì fino in fondo l’opzione diplomatica della neutralizzazione del Vietnam del Sud e finì per tradire l’elettorato, dal quale aveva ottenuto un’investitura trionfale in occasione delle presidenziali del 1964 anche grazie alla sua promessa di scegliere la via della pace e del negoziato58. Nei primi mesi del 1965 Johnson decise di aumentare l’azione militare statunitense in Vietnam, intensificando i bombardamenti e inviando truppe di terra. Questa scelta era dettata dalla riproposizione di logiche e categorie della Guerra Fredda, dall’evoluzione della situazione vietnamita, ma anche dall’agire di dinamiche interne agli Stati Uniti. La scelta della guerra, ché di questo si trattava, era funzionale una volta di più alla riaffermazione della credibilità del contenimento. Come in Corea, anche in Vietnam s’interveniva per dare un messaggio al resto del mondo: per quelle ragioni simboliche, così fondamentali nella competizione bipolare, che di fatto universalizzavano ed estendevano all’infinito gli interessi degli Stati Uniti. Nel farlo, si ribadiva un duplice convincimento, in Vietnam ancor meno fondato che altrove: che i movimenti comunisti nazionali fossero strumenti nelle mani delle due grandi centrali del comunismo internazionale, quella sovietica e quella cinese, e che gli USA disponessero degli strumenti – concettuali e operativi – per affrontare le lotte di liberazione nazionale nel mondo postcoloniale. La situazione in Vietnam del Sud sembrava a sua volta rendere più urgente un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti: per appoggiare l’esercito sud-vietnamita, ancora non autosufficiente a dispetto degli aiuti ottenuti; per fron-

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teggiare le azioni di guerriglia sempre più frequenti e spregiudicate dell’FLN; per porre sotto tutela un governo, quello del Vietnam del Sud, che anche dopo la rimozione di Diem rimaneva lacerato da tensioni interne e scontri per il potere. Anche la situazione interna agli USA alimentava le propensioni interventiste di Johnson. Gli anni della sua presidenza furono caratterizzati da un ampio programma di riforme politiche e sociali. La «grande società» (Great Society), come fu ribattezzato questo programma, intendeva porre termine alla discriminazione razziale e avviare un’efficace campagna contro la povertà. Essa ottenne risultati importanti – le due grandi leggi sui diritti civili del 1964-65, la riforma del sistema sanitario, i programmi di edilizia popolare e di community action nei grandi centri urbani – sì da fare del periodo johnsoniano uno dei momenti di più vigorosa azione riformatrice e progressista nella storia degli Stati Uniti. Nelle intenzioni di Johnson, l’intervento in Vietnam doveva servire anche per tutelare la «grande società» verso cui si indirizzava gran parte delle sue attenzioni. Il mondo conservatore, ostile alla Great Society, non avrebbe potuto accusare Johnson e i democratici di debolezza nei confronti del comunismo, così come aveva fatto nel 1949-50, dopo la vittoria comunista in Cina e lo scoppio della guerra di Corea. Un maggiore impegno militare in Vietnam avrebbe immunizzato la Great Society dagli attacchi della destra, garantendole la necessaria copertura politica59. La guerra in Vietnam era e doveva essere una guerra liberal. Si poneva il duplice obiettivo di salvare un paese dal comunismo, procedendo alla sua rapida modernizzazione, e di permettere il dispiegamento di un vasto programma riformatore destinato ad ampliare i diritti politici, civili e sociali, a trasformare il volto della democrazia statunitense e a ridefinire e ampliare la stessa idea di cosa dovesse essere la libertà americana. Politica estera e politica interna – impero e libertà – s’intrecciavano così una volta di più: con modalità per molti aspetti nuove; con logiche e obiettivi tradizionali. L’intervento statunitense seguì tre direttrici principali: i bombardamenti aerei, l’invio di truppe di terra, la promozione di nuovi piani di modernizzazione e sviluppo del Vietnam del Sud. Diversamente dal biennio kennediano, queste tre direttrici raramente s’intrecciarono e, in modi diversi, furono tutte e tre soggette a contestazioni sempre più intense. Come ebbero a denunciare molti critici, i bombardamenti aveva-

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no una funzione politica e simbolica, più che militare e strategica. Miravano – affermò Johnson con una metafora emblematica – non a «violentare» il Vietnam del Nord, ma a «sedurlo» e convincerlo a porre termine alla sua «aggressione». Per questo essi dovevano essere graduali e calibrati. Dovevano cioè servire per punire Hanoi di determinati comportamenti e per offrire la dimostrazione dell’incontestabile superiorità della tecnologia bellica statunitense: come incentivo al negoziato e per dare sfogo a una «tecno-superbia», che rappresentava uno dei tanti volti della fede statunitense nella modernità e nei suoi strumenti60. L’invio di un numero crescente di soldati si poneva a sua volta obiettivi non esclusivamente militari. Le truppe americane avrebbero dovuto affiancare quelle sud-vietnamite nelle operazioni contro l’esercito dell’FLN e nella campagna di pacificazione del Vietnam del Sud. Tra il 1965 e il 1968 le responsabilità operative dell’esercito statunitense crebbero rapidamente e il costo della guerra finì per ricadere in larga misura su di esso. La presenza crescente di soldati statunitensi doveva però assolvere anche a un altro compito: quello di garantire la cornice di sicurezza indispensabile per dare corso allo sviluppo e alla modernizzazione dell’area. Sviluppo e modernizzazione da promuoversi a loro volta con mezzi nuovi e certezze antiche. Per rimarcare la continuità con il passato e la potenziale universalità del modello americano, Johnson rilanciò un grande progetto di trasformazione del delta del Mekong che avrebbe dovuto ripercorrere l’esperienza riformatrice degli Stati Uniti. I modelli analogici di riferimento erano quelli tradizionali: il New Deal rooseveltiano e il Piano Marshall. Il Mekong avrebbe rappresentato quello che era stato il fiume Tennessee nell’America della Grande depressione: il mezzo per un’imponente trasformazione economica (e, di riflesso, sociale e culturale) della regione; il volano – letterale e simbolico – di una sollevazione dalla miseria e dalla povertà verso l’abbondanza, il benessere e l’assenza di conflitti. Modificando il corso del fiume e costruendo un sistema di dighe, che avrebbero garantito elettricità e irrigazione, si sarebbero poste le precondizioni per l’aumento della produttività dell’agricoltura vietnamita, che non era stato invece raggiunto nei villaggi strategici, e la graduale formazione di un ceto medio contadino: la spina dorsale di un Vietnam del Sud prospero, moderno e democratico. Non a caso, a dirigere questo progetto fu chiamato David Lilienthal, il leggendario direttore

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della Tennessee Valley Authority (TVA), l’agenzia federale creata nel 1933 per promuovere lo sfruttamento del Tennessee e lo sviluppo economico della regione, una delle più arretrate del paese e tra quelle maggiormente colpite dalla crisi economica post-192961. L’impegno nell’«altra guerra» non si esaurì però col tentativo di portare la «TVA sul Mekong» o di dare corso a un nuovo Piano Marshall nel Sud-Est asiatico. Gli Stati Uniti cercarono altresì di rilanciare un ampio progetto di azione civica e anti-insurrezionale – ispirato anch’esso alle teorie della modernizzazione – che culminò nel 1967 con la creazione del programma CORDS (Civil Operations and Revolutionary Development Support). L’obiettivo di CORDS era quello di coordinare i tanti progetti di assistenza allo sviluppo promossi dagli USA in Vietnam, ponendoli sotto il controllo dell’autorità militare ed estendendoli anche ad aree del paese dove più forte era la presenza dell’FLN62. Le tre direttrici d’azione dell’intervento statunitense non raggiunsero i propri obiettivi e rivelarono ben presto tutte le loro contraddizioni. Il livello dei bombardamenti, scalare e calibrato, crebbe continuamente senza che esso piegasse l’FLN e il Vietnam del Nord o li inducesse ad abbandonare i loro obiettivi. Proprio i bombardamenti evidenziavano in modo drammatico alcuni dei paradossi dell’intervento statunitense: la guerra minava quella credibilità in nome della quale era stata intrapresa, mostrando la non spendibilità militare e politica della preponderanza di potenza che gli USA avevano edificato nei vent’anni precedenti. Come in fondo previsto già dai critici dell’NSC-68, la gradualità della risposta statunitense finiva inoltre per lasciare l’iniziativa nelle mani dell’avversario e per trascinare gli Stati Uniti in quel conflitto totale che proprio tale gradualità avrebbe dovuto permettere di evitare63. Anche il numero di soldati statunitensi impegnati in Vietnam crebbe costantemente: dai 3.500 inviati all’inizio del 1965 si passò agli 80.000 alla fine dello stesso anno, ai 543.000 che, nel gennaio del 1969, avrebbero rappresentato il picco dell’intervento di terra degli Stati Uniti. Questa escalation non sortì gli effetti auspicati. L’americanizzazione del conflitto deresponsabilizzò ulteriormente il Vietnam del Sud e il suo esercito. Al contempo, ampliò e inasprì lo scontro, invece di contribuire alla pacificazione del paese. Infine, all’intensificazione ed estensione dello scontro corrispose inevitabilmen-

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te un aumento delle vittime americane del conflitto, che passarono da 1.800 nel 1965 a 16.500 nel 1968. Tutto ciò rese ancor più difficile il dispiegamento di quei progetti di modernizzazione, che necessitavano ovviamente di condizioni di sicurezza ormai assenti. Il delta del Mekong fu anzi una delle aree dove gli scontri furono più intensi e frequenti, sì da rendere assai aleatori e futuribili gli ambiziosi programmi di Johnson e Lilienthal. Sul breve periodo CORDS ottenne qualche risultato, magnificato dall’amministrazione, estendendo le sue attività nelle campagne e promuovendo una serie di programmi di sviluppo politico e sociale. Le sue attività furono però progressivamente militarizzate e la dimensione strettamente controinsurrezionale divenne decisamente preminente. Parallelamente, il dibattito interno agli Stati Uniti sulla modernizzazione e sul ruolo dei militari conobbe un mutamento che sembrava legittimare il cambiamento d’indirizzo sul campo. L’originario afflato riformatore si andava spegnendo. La situazione di guerra sembrava rendere impraticabili le dottrine di «controinsurrezione costruttiva» teorizzate negli anni precedenti. Al loro posto venivano proposti modelli che enfatizzavano la funzionalità di metodi d’azione punitivi e coercitivi ispirati alle dottrine economiche della scelta razionale (rational choice). Come avrebbe ribadito di lì a poco Samuel Huntington, anche per questi modelli il successo dell’FLN era dovuto non alla povertà e all’ansia di modernità, ma alla sua capacità di usare con efficacia violenza e coercizione. Individui razionali e autonomi, i sud-vietnamiti sarebbero stati convinti a non appoggiare l’FLN solo laddove gli Stati Uniti fossero riusciti ad attivare meccanismi controcoercitivi tali da rendere non conveniente tale appoggio. La guerra – sostennero due analisti della RAND Corporation, la think tank dove maggiore fu lo sforzo di contestare le tesi di Rostow e degli altri modernizzatori – doveva essere una sfida tra chi riusciva a elaborare formule «più efficienti di coercizione»; tra chi fosse riuscito a fare in modo che i costi derivanti dal sostegno alla parte avversa risultassero superiori ai benefici garantiti da tale scelta64. Debitamente artefatte, le statistiche prodotte nel 1967 sembravano indicare un grande successo dei programmi di CORDS: il 75% del paese era pacificato; numerosi programmi di welfare erano stati finalmente attuati; la capacità di autodifesa delle comunità rurali filogovernative assai rafforzata. Lentamente, si cominciava a «intrave-

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dere la fine del conflitto», asserì il generale Westmoreland, comandante delle forze statunitensi in Vietnam65. Poche settimane più tardi, in occasione del capodanno buddista del gennaio 1968, l’FLN lanciò un attacco coordinato in varie città del Vietnam del Sud, inclusa la stessa capitale Saigon. L’offensiva del Tet, come divenne nota, si risolse in un grave insuccesso militare per l’FLN. Ciò nondimeno, essa rappresentò una pesante sconfitta politica per Johnson e gli Stati Uniti e un momento decisivo di svolta nel conflitto. La capacità dell’FLN di montare un’offensiva a vasto raggio che, sia pure per poche ore, portò all’assedio della stessa ambasciata statunitense smentì le frequenti sottolineature dei progressi compiuti. Tre anni di escalation dell’intervento – e gli immensi costi umani e materiali che essi avevano imposto al paese – sembravano non aver prodotto alcun risultato. Non solo la fine della guerra non era in vista, ma il rischio di un insuccesso doveva ora essere contemplato. Sul piano interno, le polemiche contro la guerra s’intrecciavano con altre forme di contestazione nel lacerare la società statunitense e nell’indebolire l’amministrazione. Lo shock dell’offensiva del Tet finì per travolgere Johnson e per avviare una de-escalation che, una volta intrapresa, si rivelò inarrestabile. Johnson – che pochi anni prima era stato eletto con il 61% dei voti – annunciò la sua decisione di non ricandidarsi. Contemporaneamente furono limitati i bombardamenti sul Vietnam del Nord – nella speranza di facilitare i negoziati con Hanoi – e si respinse la richiesta di Westmoreland d’inviare altri 200.000 soldati in Vietnam. Era la presa d’atto del fallimento della strategia adottata fino ad allora. Ma era anche la fine di un’epoca, simboleggiata dalla crisi del contenimento: delle sue categorie concettuali, del suo discorso politico e delle sue prescrizioni66.

4. La crisi del contenimento e la fine del consenso L’ambiziosa strategia del contenimento poggiava su una precondizione fondamentale: il mantenimento e, se possibile, l’estensione della condizione di superiorità relativa degli Stati Uniti nei confronti dell’URSS o di qualsiasi altro potenziale avversario. Nel primo ventennio della Guerra Fredda questa superiorità statunitense si era ca-

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ratterizzata per la sua natura multidimensionale: il primato degli Stati Uniti era stato militare, economico e culturale. Nel corso degli anni Sessanta, esso fu però messo in discussione in ognuno di questi ambiti. Da un punto di vista militare, la forbice tra le capacità nucleari degli USA e quelle sovietiche si ridusse grandemente. La condizione d’indiscusso vantaggio strategico degli Stati Uniti scemò progressivamente. Con essa venne vieppiù meno l’opzione – teorica ma rassicurante – di poter agire preventivamente; di poter ricorrere, laddove costretti, a un’azione di primo colpo, per difendere se stessi e i propri alleati67. L’accelerato processo di riarmo intrapreso dalla leadership sovietica rappresentò la causa fondamentale di questo riequilibrio strategico. Nella seconda metà degli anni Sessanta, le spese destinate dall’URSS alla difesa crebbero a ritmi sostenuti (tra il 4 e il 5% annuo). Esse furono destinate soprattutto alla produzione di missili intercontinentali a lunga gittata (ICBM), categoria nella quale alla fine del decennio l’URSS raggiunse e superò gli Stati Uniti. Washington preservò un vantaggio sia numerico sia qualitativo. A dispetto degli sforzi, Mosca non riuscì mai a pareggiare la superiorità tecnologica americana; in termini aggregati complessivi, l’arsenale statunitense rimase sempre maggiore, grazie soprattutto all’indiscussa preminenza nelle altre modalità di trasporto delle testate nucleari (bombardieri e sottomarini). Ma la decade terminò con un processo, rapido e visibile, di chiusura del gap nucleare, al quale parvero concorrere anche molte scelte del Congresso, in particolare la decisione di ridurre i progetti di difesa antimissilistica che avrebbero dovuto compensare almeno in parte l’incrementata capacità offensiva sovietica68. Se valutata attraverso il parametro storicamente più rilevante – lo hard power militare – la preponderanza degli Stati Uniti era stata sfidata e vinta. E ciò era avvenuto per mano del nemico assoluto della Guerra Fredda, con il quale ci si trovava così a condividere una qualità di potenza destinata sempre più a separare i due grandi contendenti dal resto del mondo e a unirli in una forma d’interdipendenza cui era impossibile sottrarsi. All’incrinarsi della preminenza nucleare corrispondeva quello del primato economico. In questo caso, il riequilibrio era per molti aspetti fisiologico, data l’artificiosa condizione di superiorità economica in cui gli USA si erano trovati dopo la Seconda guerra mondia-

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le. L’economia statunitense continuò in realtà a crescere, beneficiando dell’alto livello degli investimenti federali, del dinamismo del sistema imprenditoriale e della costante crescita degli indici di produttività. Tra il 1961 e il 1969, il PIL statunitense aumentò in termini assoluti di quasi l’80% (circa il 50% al netto dell’inflazione). Una crescita rilevante, ma assai minore di quella di alcuni alleati di Washington – Germania Federale e Giappone su tutti –, i cui prodotti conquistavano fette crescenti del mercato mondiale e il cui PIL cresceva a ritmi quasi doppi di quelli statunitensi. Questa competizione intercapitalistica determinò una significativa riduzione della quota statunitense di esportazione dei prodotti manifatturieri, segnalando, se non un declino dell’industria statunitense, quanto meno una diminuzione della sua competitività relativa69. Il mutamento dei rapporti di forza nel mondo capitalistico alimentò fobie e polemiche negli USA, destinate a condizionare il dibattito politico negli anni successivi. Combinandosi con altri processi, sembrava inoltre imporre un ripensamento della strategia adottata fino ad allora. I costi della guerra in Vietnam, sommati a quelli della Great Society johnsoniana, avevano acuito il deficit del bilancio federale, che nel 1968 raggiunse i 25 miliardi di dollari, equivalenti al 3% del PIL. Alla fine del decennio, l’inflazione, superiore al 4%, si attestò al livello più alto dai tempi della guerra di Corea. D’improvviso parve porsi una scelta, quella tra le spese sociali e quelle militari, alla quale le amministrazioni Kennedy e Johnson – come dieci anni prima gli autori dell’NSC-68 – avevano ritenuto possibile sottrarsi. A ciò si aggiungeva la crescente fragilità del sistema economico internazionale di Bretton Woods, uno dei pilastri dell’egemonia postbellica degli Stati Uniti. Bretton Woods aveva fatto del dollaro il principale mezzo di pagamento e la valuta internazionale di riserva, convertibile in oro. Un ruolo, questo, che un dollaro ormai sovrastimato e che esportava inflazione nel resto del mondo non era più in grado di adempiere e un ruolo che imponeva agli USA di accettare la tendenza strutturale al deficit della propria bilancia dei pagamenti per garantire la liquidità mondiale. Tollerabile, e anzi necessaria, per quasi vent’anni, tale propensione si trasformò rapidamente nel simbolo dell’inaffidabilità crescente del dollaro. Il surplus di dollari crebbe infatti in modo vieppiù intollerabile per gli europei. L’indebolimento relativo degli USA fu enfatizzato dalla crescita del deficit federale e dalle difficoltà della bilancia delle partite

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correnti, che conobbe nel 1971 il suo primo passivo in tre decenni: gli americani ormai consumavano più beni e servizi stranieri di quanti non ne producessero. Si avviava così la fine graduale di quello che lo storico Charles Maier ha definito l’«impero della produzione», fondato sulla centralità del dollaro e sul primato del sistema industriale statunitense. E si apriva di conseguenza una difficile e fluida transizione a un nuovo regime economico e monetario internazionale, le cui caratteristiche avrebbero inciso in modo decisivo sugli equilibri di potenza mondiali e intraoccidentali70. Il riequilibrio militare ed economico non poteva non avere delle ripercussioni culturali. L’«irresistibile impero» statunitense si era basato anche, se non primariamente, sulla natura consensuale e negoziata della leadership americana, sulla forza magnetica del modello che gli USA riuscivano a proiettare nel mondo, sulla sua impareggiabile capacità di fare egemonia. Tutti fattori, questi, che cominciarono a incrinarsi e a essere contestati nel corso degli anni Sessanta. Se fino ad allora la forma di modernità capitalistica incarnata dagli Stati Uniti aveva rappresentato il termine di paragone di tutte le altre esperienze di sviluppo, inclusa per certi aspetti quella sovietica, ora essa era valutata più criticamente e talora apertamente contestata. Da un lato si apriva un’epoca di fascinazione verso modelli capitalistici alternativi, fossero essi quello ad alto contenuto sociale della Germania occidentale o quello – corporativo, statalista ed export-oriented – giapponese. Dall’altro, si contestava con forza e successo crescenti la stessa teleologia della modernità, di cui il modello statunitense era stato al contempo sublimazione ed esempio. A essere rigettate – come avevano scoperto Rostow e i liberal modernizzatori – erano non solo le prescrizioni delle teorie dello sviluppo fino ad allora dominanti, ma le loro stesse premesse analitiche. L’Occidente atlantico e capitalista era attraversato, con modalità diverse ma premesse simili, da forme di contestazione nuove e inattese e dall’emergere di pulsioni – neutraliste, anticapitaliste, terzaforziste, terzomondiste – che ambivano a scardinare le rigidità e i dogmi del bipolarismo della Guerra Fredda71. Contestazioni e critiche, queste, alimentate e rafforzate dalla drammatica vicenda vietnamita, che mostrava tutte le contraddizioni della politica estera degli Stati Uniti, rivelava quali potessero essere i costi della «lunga pace» postbellica, esasperava e diffondeva, soprattutto in Europa, un antiamericanismo politicamente e cultu-

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ralmente trasversale. Se non egemone nel discorso pubblico, questo antiamericanismo godeva di una popolarità crescente e trovava ricezione anche in molti soggetti politici europei. Così fu in Francia, dove la sfida di De Gaulle alla leadership statunitense aveva portato all’uscita francese dal comando integrato della NATO nel 1966 e a una crescente irritazione nei confronti dei vincoli di Bretton Woods, ben espressa dal rifiuto francese di accogliere l’invito degli USA a non convertire dollari in oro per non sottoporre la valuta statunitense a ulteriori tensioni. Ma così fu anche, sia pure con maggiori cautele e molto understatement, in Germania occidentale, dove la solidità del legame atlantico cominciò a scricchiolare sotto il peso delle contestazioni per la guerra in Vietnam e, soprattutto, per la crescente refrattarietà tedesca ad accettare tutti i limiti alla propria sovranità imposti dall’alleanza con gli Stati Uniti. A risultare sempre meno tollerabili erano le costrizioni di Bretton Woods, ma anche il freno imposto a un’azione diplomatica autonoma della RFT, quale quella invocata da settori del mondo politico tedesco-occidentale e da una parte dell’opinione pubblica del paese. Anche in quest’ambito, gli anni Sessanta rappresentarono un momento cruciale di svolta. La fine della lunga era di dominio cristiano-democratico in Germania occidentale permise ai socialdemocratici di giungere al governo e di promuovere con Willy Brandt (prima da ministro degli Esteri e poi come cancelliere) una politica di allentamento della partizione bipolare e di apertura a est – la Ostpolitik – che di fatto destabilizzava l’ordine bipolare e preoccupava molto Washington72. Le tensioni transatlantiche riflettevano un’incrinatura del consenso fino ad allora dominante, in Europa come negli Stati Uniti, sulla natura della competizione bipolare e sulle politiche da adottare per farvi fronte. Le certezze della Guerra Fredda avevano a lungo rappresentato un fattore di coesione tra le élite delle due parti dell’Atlantico. Ora esse apparivano sempre più deboli, e in taluni casi apertamente screditate. Washington sollecitava, spesso senza successo, un impegno maggiore dei suoi alleati europei nell’azione di contenimento globale dell’URSS. In molti paesi dell’Europa occidentale timori antichi sulla reale disponibilità statunitense a farsi carico della loro difesa s’intrecciavano, spesso incongruentemente, con paure nuove su una possibile convergenza d’interessi geopolitici tra Stati Uniti e Unione Sovietica e con sogni – ricorrenti, anche se non di rado velleitari – di potersi in qualche modo sottrarre alle tenaglie

IX. Ascesa e (temporaneo) declino dell’impero americano

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del bipolarismo della Guerra Fredda. Critiche legittime e ipocrisie, comprensibili richieste di autonomia e velleitarismi terzaforzisti, auspici di uscire dalla Guerra Fredda e paura che ciò potesse davvero avvenire concorrevano nel modificare il modo europeo di relazionarsi al proprio senior partner statunitense. Combinandosi con pulsioni antieuropee sempre più diffuse all’interno degli Stati Uniti, tutto ciò finiva per incrinare la coesione atlantica e aprire prospettive nuove. Questo processo aveva un controcanto all’interno degli Stati Uniti. La crisi dell’egemonia statunitense – sempre più visibile sulla scena internazionale – esprimeva una più generale crisi dell’internazionalismo liberale della Guerra Fredda, quel cold war liberalism che dal 1945 in poi aveva dominato le pratiche e il discorso della politica estera degli Stati Uniti. Alla contestazione internazionale, dall’alto e dal basso, del primato americano corrispondeva la sua frequente denuncia sul piano interno. L’era del consenso era giunta al termine anche negli USA. Molti dei topoi della politica estera statunitense del dopoguerra cominciavano a essere apertamente sfidati. L’anticomunismo e la paura dell’URSS non costituivano più collanti sufficienti per disciplinare le molteplici spinte centrifughe presenti nella società e nella politica statunitense73. Queste spinte, come quelle esterne, si caratterizzavano peraltro per la loro eterogeneità politica e culturale. La contestazione che avrebbe portato allo sgretolamento del consenso della Guerra Fredda originava però da due filiere principali: la nuova sinistra (New Left) e la parte disillusa del liberalismo nord-americano. Ad essa va aggiunta la critica, rancorosa ma inizialmente meno incisiva da un punto di vista politico, di una vecchia destra che nella conduzione di una guerra limitata e inefficace in Vietnam, e nell’ingenuo migliorismo liberal e modernizzatore, vedeva l’ennesima riprova della timidezza eccessiva e perdente della strategia del contenimento74. Nella nuova sinistra che emerse nel corso degli anni Sessanta la dimensione (e la contestazione) politica e culturale s’intrecciava inestricabilmente con quella generazionale. È difficile trovare nella nuova sinistra fondamenta intellettuali unitarie, vista la varietà dei suoi riferimenti culturali e politici. Un elemento che la univa era però rappresentato dalla sua critica dell’azione internazionale degli Stati Uniti; dalla sua denuncia dell’intervento in Vietnam non come aberrazione o, al più, errore, ma come inevitabile portato della logica e

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della filosofia di fondo della politica estera degli Stati Uniti. Il revisionismo storiografico e politico della nuova sinistra metteva cioè in discussione il pilastro fondativo dell’internazionalismo liberale: che gli Stati Uniti fossero una forza progressiva del sistema mondiale. La nuova sinistra contestava apertamente le certezze morali prima ancora che politiche dell’universalismo internazionalista liberale. Rigettava la nozione dell’esportabilità della democrazia in nome della sicurezza non in quanto impraticabile, ma perché la democrazia e il modello di sviluppo che si intendeva esportare erano corrotti alla radice. Riprendeva, capovolgendolo, il legame tra impero e libertà, proponendo così una lettura controeccezionalista in virtù della quale l’imperialismo statunitense si configurava come strumento per tutelare i privilegi di un modello politico, economico e sociale iniquo e comunque sempre meno praticabile. Per la nuova sinistra, gli Stati Uniti non rappresentavano quindi una soluzione ai problemi del mondo, ma al contrario una delle loro principali cause75. La nuova sinistra offrì una critica potente e, in taluni casi, intellettualmente sofisticata. Essa costituiva però un movimento tanto rumoroso e vivace quanto minoritario, composito e lacerato da divisioni interne. Diverso era il caso della critica al contenimento mossa da pezzi di quell’establishment democratico e liberal che aveva fino ad allora sostenuto l’azione internazionale degli Stati Uniti, condividendone i fini, gli strumenti e, spesso, i compromessi. Anche in questo caso, il trauma del Vietnam era stato fondamentale. L’idea che fosse necessario devastare un paese per salvarlo dal comunismo evidenziava tutti i limiti e le assurdità di una strategia del contenimento applicata in modo coerente e lineare. A essere messo in discussione non era però l’internazionalismo liberale e progressista, quanto la possibilità che esso potesse essere promosso in maniera unilaterale e solipsistica dagli Stati Uniti, senza la collaborazione degli altri paesi e, soprattutto, senza il necessario rafforzamento delle istituzioni internazionali. Collaborazione e rafforzamento che erano al contrario resi necessari dalla natura interdipendente del sistema internazionale, dal livello di distruttività portato dalle armi nucleari e dai limiti – ora evidenti – di cui soffriva anche una superpotenza come quella americana. L’interdipendenza – argomentavano ora molti liberal democratici – imponeva soluzioni collettive, negoziate con alleati e avversari, e imponeva agli Stati Uniti una riduzione non solo dell’unilateralismo delle loro azioni, ma anche del loro interventismo

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globale. Esso inibiva lo sviluppo e il rafforzamento di modalità multilaterali di gestione delle crisi e, più in generale, del sistema internazionale, disincentivava e deresponsabilizzava gli alleati, corrompeva il sistema politico statunitense, militarizzandone la società, centralizzando il potere nelle mani dell’esecutivo, allentando e opacizzando quelle forme di controllo e di trasparenza su cui avrebbe dovuto poggiare la democrazia statunitense76. Il presidente della commissione Affari esteri del Senato, William Fulbright, fu uno dei primi liberal a dissociarsi dalla politica estera di Johnson e a denunciare la crisi strutturale del contenimento e i suoi effetti nocivi sulla democrazia americana. Gli Stati Uniti, proclamò Fulbright, erano diventati vittime dell’«arroganza della potenza». Ma la posizione di Fulbright fu fatta propria da molti altri membri del Partito democratico – come Mike Mansfield, Al Gore Sr., Eugene McCarthy, Edward Kennedy –, che sollecitarono la responsabilizzazione e il coinvolgimento dei partner europei, la disponibilità al dialogo e al negoziato con Mosca e, soprattutto, una maggiore attenzione al rispetto degli equilibri e delle procedure del sistema democratico statunitense77. In modi diversi, nuova sinistra e liberal disillusi chiedevano un indietreggiamento rispetto all’originario contenimento. Anche negli USA si apriva un dibattito serrato e lacerante sulla necessità di modificare il corso della politica estera del paese e di abbandonare, o quanto meno riadattare, la strategia adottata fino ad allora. Il discorso della Guerra Fredda – le sue categorie, i suoi codici, i suoi stereotipi – perdeva progressivamente la sua forza. Risentiva della più generale crisi dell’egemonia americana, ma finiva circolarmente per alimentarla ed esasperarla. Il ventennio successivo, che avrebbe portato alla sorprendente fine della Guerra Fredda, sarebbe stato caratterizzato da un serrato confronto tra proposte diverse per uscire dalla crisi, per costruire un nuovo consenso – sul piano internazionale e ancor più su quello interno – e per rilanciare l’egemonia. Da uno sforzo per ripensare le fondamenta dell’impero e ridefinire così la natura stessa della libertà statunitense, l’identità del paese e, con essa, la sua missione e i suoi interessi.

X NUOVI CONSERVATORISMI, VECCHI ECCEZIONALISMI

La crisi dell’egemonia statunitense rifletteva il più generale smarrimento politico e culturale che attraversava gli Stati Uniti e che metteva in discussione certezze antiche e verità fino ad allora non scalfibili. Quella attraversata dagli Stati Uniti era anche, se non primariamente, una crisi d’identità che obbligava a ripensare il ruolo del paese in un sistema internazionale cangiante e imprevedibile, a riadattare la strumentazione della sua politica estera e a rimodulare il discorso attraverso cui presentare tale politica. Vitale, in particolare, era costruire un rinnovato consenso interno capace di sostituire quello, ormai sempre più contestato e screditato, del ventennio precedente. Tramontata l’era del liberalismo della Guerra Fredda, appariva necessario aggiornare e se necessario trasformare l’armamentario strategico, culturale e discorsivo dell’internazionalismo statunitense, per garantirgli il necessario appoggio dell’opinione pubblica interna. Le scelte delle amministrazioni che seguirono quelle di Kennedy e Johnson furono tutte contraddistinte da questo sforzo: dal tentativo di modificare il discorso, le categorie e le pratiche dell’azione internazionale degli Stati Uniti e dall’impegno ad aggiornare codici, dottrine, analisi e prescrizioni della politica estera americana.

1. Potenza senza moralità: Kissinger, Nixon e la distensione Richard Nixon vinse le elezioni presidenziali del 1968 approfittando delle divisioni interne al Partito democratico e promettendo una via d’uscita dall’intrattabile conflitto vietnamita. In realtà, il nuovo presidente – e il suo consigliere per la sicurezza nazionale,

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Henry Kissinger – non avevano un piano preciso per porre termine al coinvolgimento statunitense in Vietnam né disponevano inizialmente di una strategia coerente e precisa attraverso cui fronteggiare le difficoltà che gli Stati Uniti incontravano sulla scena internazionale. I problemi da affrontare erano immensi, ancorché strettamente interdipendenti: il riarmo sovietico; la contestazione – interna e internazionale – degli USA, della loro leadership e del loro modello di sviluppo; le difficoltà economiche, che imponevano di ripensare Bretton Woods e rendevano sempre meno praticabile il costoso globalismo della prima fase della Guerra Fredda; l’ascesa di soggetti nuovi, all’interno dello stesso mondo occidentale e capitalistico, capaci di competere in almeno alcune delle categorie su cui era stato fondato il primato americano1. Il problema principale era evitare che la crisi d’egemonia di cui soffrivano gli USA fosse acuita da un atteggiamento «limitazionista», come ebbe a definirlo uno dei consiglieri di Kissinger, lo scienziato politico Robert Osgood. Che il paese scegliesse non tanto la strada dell’isolazionismo, impraticabile nell’era dell’interdipendenza e comunque screditato politicamente e culturalmente, quanto quella di un graduale ripiegamento dai propri obblighi globali. Se ciò fosse avvenuto, si argomentava, gli USA sarebbero stati incapaci di affrontare per tempo le nuove sfide che emergevano in diversi teatri della Guerra Fredda. Avrebbero assistito passivamente a un’ulteriore alterazione a vantaggio dell’URSS dell’equilibrio di potenza. Soprattutto, si sarebbero trovati costretti a fronteggiare una situazione inattesa e pericolosa: l’erosione di un ordine bipolare che ora entrambe le potenze ritenevano conveniente preservare e consolidare2. Il modo in cui Nixon e Kissinger si confrontarono col rischio di una deriva «limitazionista» definì un primo tentativo di ripensare forme, strumenti e retorica della politica estera americana. Gradualmente questo sforzo s’indirizzò in tre direzioni fondamentali: la ricostruzione di un ampio consenso interno sulle scelte internazionali del paese; il coinvolgimento dell’URSS in una gestione sempre più negoziata e consensuale del bipolarismo, in particolare in Europa; la riduzione degli oneri di un interventismo globale, che non era più sopportabile né economicamente né politicamente. Il primo obiettivo fu quello di ridare all’amministrazione e alla sua politica estera una base di sostegno solida e vasta negli Stati Uniti. Il disincanto nei confronti del contenimento e la manifestazione

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dei suoi costi, in particolare in Vietnam, aveva catalizzato forme plurime e competitive di contestazione del cold war liberalism. Kissinger e Nixon inserirono la loro proposta entro questo serrato dibattito tra idee antagonistiche sul futuro dell’azione internazionale degli Stati Uniti. Lo fecero facendo propria una retorica antitetica all’ottimistico universalismo del ventennio precedente, rappresentato in forme diverse sia dall’NSC-68 sia dal modernismo kennediano. A un’opinione pubblica disorientata, disillusa e preoccupata dalla possibilità di un graduale declino del primato statunitense, Nixon e ancor più Kissinger offrirono una risposta che si rivelò inizialmente molto popolare: gli Stati Uniti non disponevano di mezzi illimitati; non potevano promuovere indistinte crociate globali in nome del contenimento del comunismo o, ancor peggio, di impraticabili utopie modernizzatrici; avevano un preciso interesse a preservare lo status quo, abbandonando l’illusione finalistica che la Guerra Fredda potesse terminare con una vittoria definitiva degli Stati Uniti. Per Kissinger si era giunti alla fine «dell’era postbellica» e ciò rendeva necessario, invero vitale, elaborare nuove concezioni strategiche «appropriate alla realtà degli anni Settanta»3. Si assisteva così al passaggio da un discorso della possibilità a uno dei limiti. Il secondo strideva con alcuni elementi basilari dell’internazionalismo statunitense, in particolare l’enfasi sul destino e la missione degli Stati Uniti e sulle responsabilità globali che ne conseguivano. Questo messianismo universalistico era stato spesso contestato in passato. Solo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta esso fu però pubblicamente rigettato da un’amministrazione in carica a favore di un approccio cauto e pragmatico, che invitava gli Stati Uniti a guardare fuori dai propri confini e dalla propria storia per trovare modelli e indicazioni su come condurre una politica estera coerente ed efficace. L’esempio da studiare, conoscere e imitare diventava paradossalmente l’Europa; proprio quell’Europa antitesi, alter ego e passato da cui emanciparsi che aveva rappresentato spesso il termine, in negativo, con il quale gli USA si erano confrontati e nel quale si erano continuamente specchiati. A dare voce a ciò provvide proprio Henry Kissinger, lo studioso europeo prestato all’America, che da subito s’impegnò in un’intensa attività pedagogica per insegnare al paese le leggi, aspre ed eterne, della politica di potenza cui troppo spesso gli USA avevano creduto possibile sottrarsi. La disponibilità degli americani a sostenere una politica estera attiva era sempre sta-

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ta, secondo Kissinger, legata alla tendenza a trasformare tale politica in una «crociata morale». L’idealismo degli Stati Uniti aveva quindi contribuito a rendere il loro pensiero di politica estera particolarmente «inospitale a un approccio basato sul calcolo dell’interesse nazionale e sulle relazioni di potenza». Era però venuto il momento di «affrontare la dura realtà» e «imparare a condurre la politica estera come le altre nazioni» avevano «dovuto fare per molti secoli, senza fuga né tregua»4. I limiti, ora acclarati, con cui doveva fare i conti anche la superpotenza statunitense imponevano un cambiamento di condotta, operativo, strategico e concettuale. Soprattutto, obbligavano ad adottare modelli di Realpolitik tipicamente europei, capaci di calibrare attentamente la definizione degli obiettivi della politica estera ai mezzi – ora finiti – di cui essa disponeva. Questa retorica – similrealista e non sempre coerente – soffuse gradualmente il discorso di politica estera dell’amministrazione Nixon. Coerente con le riflessioni scientifiche e storiche del Kissinger studioso, in un primo momento essa si rivelò politicamente conveniente e funzionale alla coagulazione di un nuovo, ampio consenso interno sulle scelte di politica estera del paese. A un paese incerto, spaventato e – spesso – arrabbiato, Kissinger e Nixon sembravano offrire una via d’uscita rassicurante. Promettevano stabilità, ordine e disimpegno al posto di interventismo, trasformazione e sacrifici. Accoglievano (e contenevano) le pulsioni limitazioniste, conferendovi legittimità storica e strategica. Ponevano le premesse per una riduzione delle spese e degli impegni militari senza che ciò apparisse – fuori e dentro gli USA – come una ritirata nella competizione per l’egemonia con Mosca. Una competizione, questa, da gestire con regole e pratiche nuove, disciplinandola, regolamentandola e impegnandosi a cooptare l’URSS in un controllo ordinato e consensuale del sistema internazionale5. Questa enfasi sui limiti imponeva una diplomazia particolarmente attiva e intraprendente e richiedeva uno sforzo di «concettualizzazione» degli equilibri «geopolitici», per usare termini e categorie cari a Kissinger. L’architrave di questa svolta della politica estera statunitense doveva essere rappresentata dall’avvio di un vero processo di distensione con l’Unione Sovietica. A dispetto dei proclami sull’evoluzione in senso multipolare degli assetti internazionali, quella di Nixon e Kissinger rimaneva una visione e una strategia «mania-

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calmente bipolare». In termini di potenza e di raggio globale della propria capacità d’azione, un solo Stato poteva competere con gli Stati Uniti ed esso era ovviamente l’Unione Sovietica6. Diversi fattori inducevano a cercare un dialogo e degli accordi con Mosca. A monte agiva un potente fattore strutturale: l’ineludibile interdipendenza strategica prodotta dalle armi nucleari, che univa le due superpotenze in un abbraccio al quale non si potevano sottrarre. Il Test Ban Treaty del 1963 e il trattato di non proliferazione del 1968 erano serviti per ridurre il pericolo di un’incontrollata diffusione degli ordigni atomici e per consolidare il duopolio nucleare di USA e URSS. Negoziati diretti tra le due superpotenze avrebbero permesso di regolare la corsa agli armamenti e di consolidare il principio della deterrenza, sul quale entrambe le potenze avevano accettato di edificare la propria politica di sicurezza, limitando il rischio di un conflitto nucleare. Soprattutto, sarebbero serviti come comune denominatore di uno sforzo volto a recuperare l’URSS alla politica internazionale, facendole accettare la legittimità del sistema della Guerra Fredda e depotenziandone la natura eversiva e rivoluzionaria. Come gli USA dovevano rinunciare al proprio finalismo idealista, così l’URSS doveva essere messa nelle condizioni di abbandonare in modo definitivo il proprio finalismo rivoluzionario. Né Washington né Mosca – asseriva Kissinger – potevano ambire a una vittoria finale; a porre termine alla Guerra Fredda. Attraverso la distensione sarebbe però stato possibile per gli USA controllare e gestire la potenza sovietica, garantendone «l’accettazione de facto dell’ordine mondiale esistente»7. Si trattava di un disegno che ben rivelava il suo volto geopoliticamente conservatore in Europa, dove USA e URSS sembravano convergere in uno sforzo di stabilizzazione degli equilibri bipolari, che erano soggetti a tensioni diverse in entrambi i blocchi. Per le due superpotenze, tali equilibri andavano invece salvaguardati e puntellati: perché su di essi si fondava l’equilibrio di potenza della Guerra Fredda e la fragile sicurezza che questo aveva garantito; perché lo status quo preservava il primato delle due superpotenze all’interno delle rispettive sfere d’influenza; perché proprio la stabilizzazione dell’Europa avrebbe permesso una prima, parziale riduzione degli oneri di una politica estera attiva e di accogliere quelle richieste di disimpegno che giungevano da settori rilevanti dell’opinione pubblica e del mondo politico statunitense; perché il passaggio dal bi-

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polarismo conflittuale a quello consensuale avrebbe aperto importanti opportunità di interazione e scambio commerciale tra le due parti8. A questa prospettiva bipolare si legavano anche la gestione dell’uscita dal conflitto in Vietnam e uno dei più clamorosi processi diplomatici del periodo: l’apertura alla Repubblica popolare cinese. In Vietnam, l’obiettivo divenne ben presto quello di porre termine all’intervento, riducendo al minimo l’impatto che la sconfitta avrebbe avuto sulla credibilità internazionale degli Stati Uniti. Come ebbe a esplicitare Kissinger ai suoi interlocutori sovietici e cinesi, vi doveva essere un «intervallo decente» tra il momento del ritiro completo degli Stati Uniti e quello dell’unificazione del Vietnam sotto la bandiera comunista. Il prolungamento della guerra, le lunghe sessioni negoziali con i rappresentanti nord-vietnamiti, il ricorso periodico ai bombardamenti, l’estensione del conflitto alla Cambogia e al Laos per colpire i santuari nord-vietnamiti nei due Stati avevano tutti la funzione di assicurare che gli accordi finalmente raggiunti contenessero clausole tali da garantire che vi fosse questo intervallo9. L’apertura alla Cina – che già era stata considerata dall’amministrazione Johnson – dipendeva anch’essa dalla distensione con Mosca e dai suoi obiettivi. Il dissidio tra le due grandi potenze comuniste aveva raggiunto un punto di non ritorno, sfociando nel 1969 in scontri militari aperti sul fiume Ussuri. Ripristinare le relazioni con Pechino sarebbe servito per esercitare una pressione ulteriore sull’Unione Sovietica e avrebbe permesso di appoggiarsi alla Cina nel contenimento dell’URSS in Asia. Quella tra Cina e Stati Uniti era un’intesa antisovietica, figlia di una evidente convergenza strategica. Gli Stati Uniti e la Cina, avrebbe affermato Kissinger nelle sue memorie, pur con interessi e filosofie diversi, avevano maturato visioni simili su come «usare l’equilibrio internazionale per il beneficio reciproco». La partnership strategica tra Cina e Stati Uniti non avrebbe poggiato su trattati o accordi formali, ma sul riconoscimento ben più tangibile dei comuni interessi di potenza: su «un tacito accordo basato su visioni parallele» dei «dettagli dell’equilibrio di potenza»10. I risultati furono straordinari ed eclatanti, contribuendo alla grande popolarità di Nixon e, ancor più, di Kissinger. Dopo lunghi preparativi, Nixon si recò in Cina nel febbraio del 1972 e incontrò Mao e il premier cinese Zhou Enlai. Il viaggio di Nixon – la «settimana che cambiò il mondo», nella retorica dell’epoca – non pro-

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dusse accordi concreti, un tratto che avrebbe caratterizzato i rapporti sino-statunitensi negli anni a venire. Esso fu però accolto con entusiasmo inatteso negli USA e agì efficacemente sulle relazioni con Mosca, come ipotizzato e auspicato da Kissinger. Preoccupata per il rapprochement sino-americano, l’Unione Sovietica accelerò infatti i negoziati per la ratifica di un trattato sulla limitazione delle armi nucleari (Strategic Arms Limitation Talks, SALT), che erano iniziati nel 1969. Aggirando i negoziatori ufficiali, Kissinger negoziò nel 1972 un accordo che permetteva per la prima volta ai due paesi di definire consensualmente regole e numeri della corsa agli armamenti. L’accordo SALT istituzionalizzava la deterrenza laddove le due parti s’impegnavano – con il trattato ABM (Antibalistic Missile) – a limitare la propria capacità di difesa nei confronti di un attacco o di una rappresaglia nucleare del nemico. All’accordo ABM si aggiungeva il trattato interinale, della durata di cinque anni, sui missili offensivi (missili intercontinentali, ICBM e missili in dotazione a sottomarini, SLBM). Il secondo assegnava all’Unione Sovietica una significativa superiorità nei missili a lunga gittata: gli ICBM (1.618 contro i 1.054 concessi agli Stati Uniti) e gli SLBM (740 contro 656). La superiorità tecnologica degli Stati Uniti, che permetteva a Washington di dotare molti dei propri vettori con più testate nucleari, e il loro disporre di bombardieri con armi nucleari e di un sistema di basi avanzate ove erano dispiegati missili a raggio intermedio compensavano però ampiamente questa superiorità sovietica11. L’accordo SALT era il suggello del disegno bipolare e distensivo di Nixon e Kissinger. Gli obiettivi fondamentali di tale disegno erano quelli di stabilizzare il bipolarismo, conferirgli quella legittimità che sarebbe derivata solo dalla sua accettazione da parte di Mosca e ridurre gli oneri che la sua salvaguardia e difesa imponevano agli Stati Uniti. Tutti questi obiettivi apparivano raggiunti. Gli accordi del maggio 1972, avrebbe sottolineato Nixon nelle sue memorie, aumentavano radicalmente l’interesse dell’Unione Sovietica a preservare «la stabilità internazionale e lo status quo». Essi erano accompagnati da una fondamentale elencazione dei principi basilari delle relazioni bipolari, che poggiava sul riconoscimento esplicito del legame imposto dalle armi atomiche alle due parti. Gli accordi, sottolineava infatti Kissinger, erano stati permessi da una «certa comunanza di vedute» tra le due parti, ossia da una vera e propria «interdipendenza per la sopravvivenza»12.

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L’apertura alla Cina e la distensione con l’URSS furono completati e integrati dalla ratifica di un accordo che poneva fine all’intervento statunitense in Vietnam. La distensione con le due potenze comuniste era stata perseguita anche per ottenere un loro aiuto nel districarsi dall’imbroglio vietnamita. Questo aiuto tardò a venire: perché Mosca e Pechino avevano interesse a trarre vantaggio dalle difficoltà statunitensi in Indocina e, soprattutto, perché la loro capacità di condizionamento delle scelte di Hanoi era assai limitata. Tra il 1969 e il 1972 gli USA ridussero la presenza di truppe statunitensi, cercarono di trasferire le responsabilità della guerra all’inefficace esercito sud-vietnamita (il cosiddetto tentativo di «vietnamizzare» il conflitto) e si adoperarono per guadagnare tempo, prolungando oltre il dovuto la guerra. Per Nixon e Kissinger era necessario giungere a una «pace con onore» che non minasse la credibilità degli USA e della loro politica estera. Gli Stati Uniti, sostenne Kissinger, «avevano creato» un interesse laddove non c’era, intervenendo militarmente: l’impegno militare e le vittime statunitensi avevano «definito la questione se l’esito» del conflitto «fosse o no importante» per l’America. L’importanza del Vietnam poteva essere stata esagerata, sostenne Kissinger, ma a dispetto di tutto rimaneva in gioco la «fiducia nelle promesse americane». L’accordo finale doveva pertanto garantire quell’«intervallo decente» che, solo, avrebbe garantito la preservazione di tale fiducia13. Dopo interminabili negoziati, e una nuova escalation dei bombardamenti aerei statunitensi, le quattro parti – Stati Uniti, Vietnam del Nord, Vietnam del Sud e governo provvisorio rivoluzionario del Sud – raggiunsero un accordo a Parigi nel gennaio del 1973. Gli Stati Uniti s’impegnavano a porre termine alla loro presenza in Vietnam del Sud, a smantellare le proprie basi e a non promuovere azioni militari contro il territorio del Vietnam del Nord. Hanoi e l’FLN, a loro volta, accettavano d’interrompere la loro campagna militare e di avviare un processo di riconciliazione che avrebbe dovuto portare alla formazione di un governo unitario. La riunificazione del paese doveva seguire i dettami della conferenza di Ginevra del 1954, che affermavano la provvisorietà della partizione tra i due Vietnam fissata all’altezza del 17° parallelo. Per dare corso a tale obiettivo era istituito un apposito Consiglio nazionale per la riconciliazione e la concordia. L’accordo prevedeva inoltre il rilascio di prigionieri di guerra, un tema particolarmente sentito negli USA, destinato negli

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anni successivi ad alimentare leggende sul numero di soldati statunitensi ancora incarcerati in Vietnam. Infine, in un protocollo segreto gli Stati Uniti s’impegnavano a contribuire «senza condizioni politiche» alla ricostruzione del Vietnam del Nord14. Gli accordi sarebbero valsi il Nobel per la pace a Kissinger e al negoziatore nord-vietnamita Le Duc Tho. In realtà essi servivano solo per procrastinare di pochi mesi la definitiva caduta del Vietnam del Sud e la riunificazione del paese sotto bandiera comunista. Nessuna pace vera era stata raggiunta. Eppure anche gli accordi di Parigi contribuirono a rafforzare la popolarità di Kissinger e di Nixon, che era stato trionfalmente rieletto nel 1972. Sembrarono far sedimentare un nuovo consenso interno attorno a una strategia e a un discorso di politica estera che rigettavano categorie, formule e prescrizioni del liberalismo modernizzatore per sostituirli con un modello formalmente realista. L’ultimo elemento del disegno neoegemonico nixoniano fu rappresentato dalle modalità con cui gli USA uscirono dalla crisi del sistema di Bretton Woods. Nell’agosto del 1971 Nixon sconvolse il mondo annunciando l’adozione di una serie di misure che di fatto poneva termine al sistema monetario internazionale post-Seconda guerra mondiale. Esse prevedevano il blocco per tre mesi dei prezzi e dei salari, l’istituzione temporanea di una sovrattassa del 10% sulle importazioni e, più di tutto, la sospensione unilaterale della convertibilità aurea del dollaro. Si avviava così una transizione destinata a completarsi due anni più tardi con il passaggio a un sistema di cambi fluttuanti. Una transizione che s’intrecciava e interagiva con quella, nei paesi a economia capitalista, da un sistema industriale fordista a una fase postindustriale, caratterizzata dall’intensificazione della mobilità del capitale e dal ritorno di modelli liberisti che Bretton Woods prima e la filosofia modernizzatrice poi sembravano avere definitivamente affondato. Questa transizione avrebbe contribuito in modo decisivo alla rimodulazione e al rilancio dell’egemonia statunitense. Il dollaro, ancorché fluttuante nel suo valore, rimaneva la valuta fondamentale delle transazioni commerciali e il mezzo con cui si acquistavano beni fondamentali, come il petrolio, il cui prezzo crebbe vorticosamente nei primi anni Settanta. Il mercato statunitense tornò ben presto a essere la destinazione principale delle merci prodotte nel resto del mondo. Gli USA sarebbero riusciti a riacquisire un primato tecnologico che sembrava essere stato sfidato e vinto. Rima-

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ne oggetto di discussione se Nixon e, ancor più, Kissinger fossero consapevoli dell’impatto della scelta di porre termine a Bretton Woods; se avessero davvero concepito tale decisione come funzionale alla riaffermazione del primato statunitense. All’epoca essa apparve a molti come una scelta difensiva, se non disperata. Risultò invece un elemento fondamentale per una ridefinizione dei rapporti di forza intracapitalistici e per l’avvio della trasformazione degli Stati Uniti da «impero della produzione» a «impero dei consumi». Impero assai indebitato, pubblicamente e privatamente, con un doppio deficit quasi strutturale (bilancio e partite correnti), ma anche irresistibile nell’attrarre verso di sé merci, risorse umane, investimenti. Capace, in altre parole, di esercitare con forme nuove una fascinazione antica; di ripensare una volta di più le forme della propria egemonia15.

2. Moralità senza forza: la contestazione della distensione e l’interludio carteriano 2.1. L’attacco alla «Realpolitik» kissingeriana La percezione – interna e internazionale – della crisi di Bretton Woods fu però diversa. Gli alti costi delle risorse energetiche – conseguenza del nuovo attivismo diplomatico del cartello dei paesi produttori (OPEC) –, le tensioni valutarie e le difficoltà di un modello di sviluppo fino ad allora dominante parvero segnalare un indebolimento relativo degli Stati Uniti: un’alterazione dei rapporti di forza nell’area capitalistica a vantaggio di paesi come il Giappone e la Germania federale, se non, addirittura, una crisi del modello capitalistico e la fine di un ciclo di sviluppo economico fondato sulla centralità e il primato degli USA e dell’area atlantica. Il rallentamento di una crescita economica apparsa a lungo inarrestabile, e il timore di una sua possibile fine, mettevano altresì in discussione certezze consolidate e minavano il senso identitario della nazione per come questo era andato definendosi in due secoli di storia. La fine di Bretton Woods e la difficile transizione a una società postindustriale sembravano destabilizzare in modo rapido e incontrollato la stessa società statunitense. La convinzione che un’epoca fosse giunta al capolinea, e che un futuro ignoto e non necessariamente migliore fosse alle porte, alimentava ansie nuove, in larga misura ignote alla generazione postbellica16.

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La percezione di un declino, relativo e assoluto, degli Stati Uniti si accompagnava e intrecciava con il convincimento, vieppiù diffuso, che la distensione rappresentasse la presa d’atto di tale declino e non una risposta ad esso. Che essa costituisse una resa e non una strategia. Questo convincimento maturò gradualmente, senza che Nixon e Kissinger ne fossero consapevoli. La svolta si ebbe però con gli accordi SALT del 1972. Nel mondo politico statunitense cominciarono a levarsi alcune voci contrarie al dialogo con Mosca, del quale si denunciavano con forza le implicazioni strategiche e morali. Gli accordi SALT – sostenevano i loro critici, tra i quali si distinse subito il senatore democratico dello Stato di Washington, Henry Jackson – preludevano a una condizione di prossima superiorità nucleare dell’Unione Sovietica. Una condizione, questa, che si sarebbe rivelata spendibile sia militarmente sia politicamente. Militarmente, perché a dispetto dei proclami l’URSS non aveva mai accettato la logica della deterrenza e l’impossibilità di una guerra nucleare. Politicamente, perché la superiorità nucleare offriva un potente strumento di ricatto, capace d’inibire la fermezza statunitense e di indurre l’Europa occidentale a riporre le armi e a diventare un satellite dell’URSS: ad accettare la propria, ineluttabile «finlandizzazione», come si affermava nella retorica dell’epoca17. Ancora più forti erano le obiezioni mosse all’immoralità degli accordi SALT e, più in generale, alla logica stessa della deterrenza. La semplice «sufficienza nucleare», e la quasi parità tra USA e URSS, erano da questo punto di vista inaccettabili. Esse riflettevano una filosofia disfattista e perdente; costituivano un’esplicita ammissione di debolezza da parte degli Stati Uniti, che ne minava la credibilità di fronte all’opinione pubblica mondiale; finivano, paradossalmente, per porre la sicurezza e finanche la sopravvivenza degli Stati Uniti nelle mani di altri o, meglio, nelle mani e nelle scelte dell’Altro totalitario: del nemico assoluto rappresentato dall’Unione Sovietica. L’interdipendenza strategica, che il SALT riconosceva e istituzionalizzava, poteva essere presentata come una sfida categoriale, ancor prima che strategica, alla sovranità degli Stati Uniti e, con essa, alla loro diversità, al loro eccezionalismo18. Jackson riuscì a far passare in Senato un emendamento che sollecitava l’amministrazione a negoziare ulteriori accordi seguendo quanto meno il principio degli uguali aggregati e rigettando a priori la possibilità che potesse essere riconosciuta all’URSS una qualche su-

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periorità quantitativa, come era invece avvenuto con il SALT. La campagna di Jackson e di altri democratici, che sarebbero poi divenuti noti come neoconservatori, e di una destra repubblicana che aveva trovato nel governatore della California Ronald Reagan il suo principale esponente, non si limitò però alla sola questione degli armamenti. A essere denunciati furono anche la natura totalitaria e brutale del regime comunista e l’inaccettabilità morale della politica di negoziato promossa da Nixon e Kissinger. Gli anni Trenta tornarono a fornire il riferimento analogico. La distensione fu paragonata dai suoi critici all’appeasement britannico nei confronti dell’espansionismo hitleriano. In particolare, furono prese di mira sia le restrittive politiche sovietiche in materia d’immigrazione, di cui erano vittime gli ebrei sovietici che intendevano emigrare verso lo Stato d’Israele, sia la repressione del dissenso in URSS e nel resto del blocco comunista. Jackson, assieme al deputato democratico dell’Ohio Charles Vanik, riuscì a introdurre un emendamento che vietava la concessione dello status di nazione più favorita – ottenuto dall’URSS nel 1972 – a quei paesi a economia non di mercato che non rispettavano il diritto dei loro cittadini di emigrare. Parallelamente, i neoconservatori e i repubblicani reaganiani si mobilitarono per la causa dei dissidenti in URSS, denunciando la passività del governo americano e, nuovamente, l’immoralità di dialogare e raggiungere accordi con un governo oppressivo come quello sovietico19. Dopo lunghi negoziati e forti polemiche, l’emendamento Jackson-Vanik fu infine approvato e incorporato nella legge sul commercio (Trade Act) del 1974. Mosca lo denunciò come una forma inaccettabile d’ingerenza nei propri affari interni e procedette ad abrogare l’accordo commerciale bilaterale del 1972, che aveva rappresentato un importante tassello della distensione. Analogamente, l’URSS rigettò le pressioni per alleggerire le sue politiche repressive nei confronti del dissenso. Alla metà degli anni Settanta le relazioni tra le due superpotenze tornavano a farsi particolarmente tese. All’interno degli Stati Uniti la popolarità della svolta kissingeriana scemava rapidamente, vittima di un clima di crescente sfiducia e di disaffezione politica, al quale contribuiva anche lo scandalo del Watergate, che aveva infine obbligato Nixon alle dimissioni. Per i suoi oppositori, la politica estera realista e amorale di Kissinger diventava parte di una più generale patologia di cui soffrivano gli Stati Uniti e dalla quale era necessario uscire il più rapida-

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mente possibile. La distensione e il realismo kissingeriano erano sempre più rappresentati non come una risposta alla crisi di cui soffriva il paese, ma come la sua manifestazione ultima. Il nuovo presidente Gerald Ford, entrato in carica nell’agosto del 1974, cercò di ovviare a questa situazione riducendo il peso e l’influenza di Kissinger e procedendo a una parziale modifica delle pratiche e del discorso della politica estera20. Denunciata sul piano interno, la distensione cominciava peraltro a mostrare tutti i suoi limiti e la sua fragilità. Raggiunti degli accordi sugli armamenti e stabilizzato consensualmente l’equilibrio bipolare in Europa – ossia soddisfatti gli obiettivi basilari che avevano catalizzato il processo distensivo –, le due superpotenze rilanciavano la competizione globale per l’egemonia. In Medio Oriente, Kissinger rivelava tutta la sua abilità diplomatica sfruttando la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973, che era stata provocata dall’attacco di Siria ed Egitto a Israele, il principale alleato degli USA nella regione assieme all’Iran. In quell’occasione, il consigliere per la sicurezza nazionale costringeva Israele ad abbandonare pratiche unilaterali di costruzione della propria sicurezza e ad accettare di avviare un negoziato con il principale paese arabo, l’Egitto. Quest’ultimo, tradizionale partner di Mosca in Medio Oriente, accettava a sua volta di mutare la propria politica di alleanze, avvicinandosi progressivamente agli USA. Si avviava di conseguenza un processo di destrutturazione geopolitica degli assetti medio-orientali che avrebbe determinato negli anni successivi una forte riduzione della capacità d’influenza sovietica in un’area strategicamente vitale21. L’URSS a sua volta agiva con spregiudicatezza nuova e imprevedibile in teatri tradizionalmente estranei alla sua influenza. Ciò era particolarmente vero per l’Africa. Nella guerra civile in Angola prima, e nello scontro tra Etiopia e Somalia poi, Mosca avrebbe dispiegato un attivismo inatteso. Una parte della leadership sovietica sognava il rilancio di un internazionalismo rivoluzionario che sembrava trovare terreno fertile nel continente africano, dove anche l’alleato cubano stava impegnando energie, uomini e risorse. Rimane oggetto di discussione se il nuovo interventismo sovietico rivelasse davvero una volontà espansionistica globale. In tali termini, però, esso fu interpretato e rappresentato negli USA, in particolare dai critici conservatori e neoconservatori della distensione. La Guerra Fredda, asseriva-

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no, era ormai ripartita e l’URSS stava spregiudicatamente approfittando della precipitosa ritirata statunitense degli anni precedenti22. All’approssimarsi delle elezioni del 1976, Ford, presidente debole e privo di legittimazione elettorale, si trovò a fronteggiare una doppia sfida: quella interna al Partito repubblicano e quella dei democratici, sempre più attivi nel denunciare i fallimenti e l’immoralità della diplomazia kissingeriana. Reagan si candidò alle primarie, ottenne diversi successi e fu sconfitto solo alla convention repubblicana, dopo avere però di fatto imposto al partito il ripudio esplicito della linea seguita negli otto anni precedenti. I neoconservatori cercarono vanamente di conquistare la nomination democratica con Henry Jackson. A sorpresa, i democratici scelsero invece come loro candidato il governatore della Georgia, Jimmy Carter, una figura di sintesi delle diverse anime, liberal e conservatrici, di un partito che rimaneva lacerato e diviso, e che faceva della moralizzazione della vita pubblica e, con essa, della politica estera uno dei suoi grandi cavalli di battaglia. Il 2 novembre 1976 Carter veniva eletto presidente. Il nuovo presidente prometteva una svolta, culturale e strategica, della politica estera e, soprattutto, una profonda trasformazione della distensione con Mosca. Avrebbe invece assistito all’implosione delle relazioni bipolari e al rilancio, sia pure temporaneo, dello scontro tra USA e URSS. 2.2. La presidenza Carter Carter si pose un doppio, ambizioso obiettivo: riorientare il fuoco della politica estera statunitense, sottraendola ai vincoli, ai manicheismi e alle rigidità della Guerra Fredda e della competizione bipolare; garantire nuovamente a tale politica un vasto consenso internazionale e, ancor più, interno. Ciò era necessario per contrastare e rovesciare quella crisi di egemonia di cui gli USA soffrivano da quasi un decennio. Ma era altresì indispensabile per tornare a rendere complementari gli interessi del paese, i suoi ideali e la sua identità, che erano stati separati e mai ricomposti durante gli anni di Nixon, Kissinger e Ford. Per fare ciò, Carter rilanciò un discorso a forte contenuto eccezionalista, centrato sulla necessità di conferire all’azione internazionale del paese la moralità perduta e schernita negli anni precedenti. «La nostra è una nazione grande e potente», aveva proclamato Carter durante la campagna elettorale, «vincolata ad alcuni imperituri ideali» che dovevano «riflettersi anche nella politica estera»; troppo

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spesso, invece, le amministrazioni di Nixon e Kissinger avevano «ignorato i fondamentali valori americani». Per questo, affermò Carter in una celebre intervista rilasciata prima delle elezioni al mensile «Playboy», era impensabile adottare nelle relazioni con altri Stati comportamenti contrari «agli standard etici e morali» che connotavano invece la propria «vita individuale»23. Queste posizioni furono riaffermate dopo l’insediamento della nuova amministrazione. L’enfasi sulla moralità fu vieppiù intrecciata con il tema dei diritti umani e la necessità che la loro difesa e promozione si sostituisse al contenimento dell’URSS nell’orientare le scelte e i comportamenti degli Stati Uniti. Secondo Carter era giunto il momento di abbandonare quella «mentalità cronica» prodotta dal «confronto USA-URSS» e di liberarsi dall’«esagerata paura del comunismo», che aveva portato in passato ad «abbracciare qualsiasi dittatore disposto a legarsi agli USA in nome di quella paura». «L’impegno statunitense per la difesa dei diritti umani», sostenne enfaticamente il presidente nel suo discorso d’insediamento, doveva essere «assoluto»24. Questa rinnovata moralità si combinava con la capacità di Carter di presentarsi come uno «straniero» nel tempio corrotto della politica americana e con l’utilizzo da parte del presidente di un linguaggio profetico e millenaristico, in grado di veicolare senza inibizioni e remore i convincimenti religiosi di Carter, un battista e un born-again Christian, presentandoli anzi come la premessa fondativa della trasformazione in atto nel discorso e nel modus operandi della politica estera statunitense. La cristianità pubblica di Carter e la sua retorica ad alto contenuto morale anticipavano tendenze che sarebbero state ampliate, e per certi aspetti stravolte, negli anni successivi. La sua estraneità all’establishment gli permetteva di sottrarsi alla crescente sfiducia dell’opinione pubblica verso la politica e le istituzioni. L’enfasi sulla moralità e sui diritti umani offriva un potente discorso neouniversalista, capace di differenziarsi sia dal relativismo particolarista e realista di Kissinger sia dagli universalismi omologanti e modernizzatori di Kennedy e Johnson25. Questo nuovo discorso di politica estera era però destinato a rivelare una limitata capacità egemonica e di costruzione del consenso, in particolare sul piano interno. Le nuove coordinate della politica estera statunitense e del discorso attraverso cui essa era veicolata – la moralità, il tema dei diritti umani, la sollecitazione a prestare

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maggiore attenzione ai rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, abbandonando i paradigmi eurocentrici della Guerra Fredda – raccoglievano sollecitazioni politicamente trasversali a dare un segno tangibile di discontinuità rispetto alla fase kissingeriana. Questa discontinuità era però limitata sia dalla riproposizione da parte di Carter di una retorica dei limiti non così dissimile da quella utilizzata da Kissinger per giustificare la sua svolta simil-realista sia dal tentativo, concettualmente e politicamente impraticabile, di abbandonare le logiche geopolitiche del bipolarismo, abbracciare il tema dei diritti umani e al contempo proseguire e approfondire la distensione con l’Unione Sovietica. La svolta morale e il nuovo universalismo etico garantivano, in altre parole, una rilegittimazione domestica solo parziale e incompleta, laddove essi erano completati da una retorica che rimaneva «limitazionista» e non tornavano a far proprie le categorie, sempre più popolari, dell’anticomunismo e dell’antitotalitarismo26. La moralità senza potenza del discorso carteriano, il suo eccezionalismo minimalista e per nulla ottimista, l’impossibilità di separare i diritti umani dalla loro violazione quotidiana nel blocco comunista limitavano la forza e la coerenza della svolta e alimentavano un cortocircuito categoriale e politico che avrebbe reso ambiguo e contraddittorio l’operato del nuovo presidente. Un cortocircuito che trovava accoglienza quasi istituzionale all’interno della stessa amministrazione, dove si vennero ben presto a produrre due linee, separate, distinte e tendenzialmente conflittuali: quella del segretario di Stato Cyrus Vance e quella del consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski. Mentre il secondo era incline ad assumere una posizione di maggiore fermezza nei confronti dell’URSS, ispirata in larga misura ai precetti del contenimento, il primo credeva nella necessità di rilanciare e approfondire la distensione con Mosca. Nel farlo, Vance recepiva le aspettative di una parte dell’opinione pubblica statunitense che nella distensione aveva intravisto, se non la fine della Guerra Fredda, quanto meno una sua radicale trasformazione e l’avvio di un’epoca di pace e stabilità27. Queste contraddizioni non furono immediatamente percepite. Carter ottenne una serie d’importanti successi di politica estera. Il modo innovativo attraverso cui egli affrontò alcune crisi parve evidenziare la discontinuità nell’azione internazionale degli USA e i suoi effetti benefici sulla credibilità internazionale del paese28. Tra i successi vanno sicuramente annoverati i trattati relativi al ca-

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nale di Panama del 1977, l’atteggiamento almeno in parte nuovo verso la minaccia della diffusione del comunismo nell’emisfero occidentale, il completamento della normalizzazione dei rapporti con la Repubblica popolare cinese e, soprattutto, gli accordi di Camp David del settembre 1978. Il controllo del canale di Panama da parte degli Stati Uniti era da tempo causa di aspre contestazioni nello Stato panamense. Contestazioni che alimentavano la denuncia del colonialismo yankee e che danneggiavano pesantemente l’immagine degli Stati Uniti in America Latina. Kissinger era quasi riuscito a raggiungere un accordo nel 1975. Le critiche di Reagan e l’opposizione di un numero considerevole di senatori, guidati dal rappresentante della South Carolina Strom Thurmond, avevano però affondato l’accordo. Carter investì un notevole capitale politico per correggere quella che egli stesso aveva definito un’«ingiustizia» commessa dagli Stati Uniti ai danni del piccolo Stato centro-americano. Sfidando la destra repubblicana e una parte del suo stesso partito, nel settembre del 1977 ratificò due trattati, che prevedevano la restituzione della sovranità sul canale allo Stato di Panama a partire dal 1° gennaio 2000, ne fissavano la neutralità e garantivano agli Stati Uniti il diritto permanente d’intervenire militarmente per preservare tale neutralità29. L’impegno profuso da Carter sulla questione di Panama segnalava la volontà di modificare l’atteggiamento statunitense in America Latina. Deposte le utopie modernizzatrici del decennio precedente, sembrava necessario surrogarle con un atteggiamento che marcasse la differenza con le pratiche simil-imperiali del passato, sottraendosi al condizionamento di un’ossessione anticomunista che aveva giustificato il sostegno a regimi autoritari e corrotti. L’occasione per mettere alla prova questo nuovo approccio fu offerta dalla rivoluzione che, nel 1978, portò in Nicaragua alla caduta del regime di Somoza e alla formazione di un governo ben presto dominato da forze d’ispirazione marxista. La rivoluzione spaventò Washington e indusse alcuni consiglieri di Carter, tra i quali Brzezinski, a chiedere di rispondere con fermezza, se necessario anche con un intervento militare. Il presidente non accolse tali richieste. Un’azione statunitense avrebbe isolato gli Stati Uniti nell’emisfero e avrebbe potuto generare effetti controproducenti. Una nuova Cuba – argomentò Carter – andava evitata. Per questo bisognava instaurare buoni rapporti con il governo nicaraguese, presieduto da Daniel Ortega, sforzan-

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dosi di contenerne le pulsioni rivoluzionarie e di moderarne, attraverso la collaborazione e il dialogo, le posizioni più radicali. I risultati furono ambivalenti e nell’ultima fase dell’amministrazione Carter si assistette a un deterioramento dei rapporti tra USA e Nicaragua. Nondimeno, Carter non sospese i programmi di aiuti destinati allo Stato centro-americano, mentre il Nicaragua accolse le richieste statunitensi e limitò inizialmente l’appoggio militare alle forze rivoluzionarie che operavano nel confinante El Salvador30. Le relazioni con la Cina furono un altro degli ambiti verso cui si concentrarono le attenzioni di Carter e, soprattutto, di Brzezinski. Anche in questo caso agivano motivazioni diverse e non sempre complementari. Rilanciare il processo avviato con il viaggio di Nixon, che era entrato dopo il 1975 in una fase di stallo e paralisi, doveva servire per avviare un percorso di reintegro della Cina comunista nella comunità internazionale. In quanto tale, esso rispondeva alla sottolineatura che Carter e Vance spesso davano della natura vieppiù interdipendente del sistema internazionale e della necessità di promuovere meccanismi multilaterali e collettivi di gestione della sicurezza e dell’ordine internazionale. La tradizionale motivazione antisovietica e bipolare, cui dava invece voce Brzezinski, giocava però anch’essa un ruolo, che si sarebbe fatto più forte col tempo in corrispondenza del deterioramento dei rapporti con l’URSS. Sotto questa duplice spinta, cui si aggiungeva il sogno mai scomparso di poter un giorno aprire la Cina ai prodotti e alla cultura occidentale, Carter s’impegnò per far ripartire il dialogo sino-statunitense. Tale impegno si concretizzò nel gennaio del 1979, quando gli Stati Uniti e la Cina, finalmente, si riconobbero diplomaticamente31. Il più importante successo diplomatico di Carter fu sicuramente l’accordo siglato dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Monachem Begin a Camp David nel settembre del 1978. In virtù di tale accordo, Israele s’impegnava a ritirarsi dal Sinai; in cambio, l’Egitto riconosceva – primo paese arabo a farlo – lo Stato d’Israele. Il legame tra Stati Uniti ed Egitto ne usciva ulteriormente rafforzato e si riduceva la capacità sovietica di condizionare gli assetti medio-orientali. Attraverso la sua fondamentale mediazione, Carter riuscì a completare un processo avviato negli anni precedenti, in particolare dopo la guerra dello Yom Kippur. Anche in questo caso, l’impegno del presidente e le trasformazioni di metodo da lui apportate all’azione internazionale degli Stati Uniti, sim-

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boleggiate dallo stretto rapporto personale maturato con Sadat, ebbero un ruolo fondamentale nel facilitare il raggiungimento dell’accordo32. A fronte di questi successi, i fallimenti, percepiti e reali, furono, se non più numerosi, quanto meno più eclatanti. A dispetto dei proclami, Carter continuò a sostenere il regime iraniano dello scià Reza Pahlavi. Lo fece per calcoli strategici, poiché l’Iran rappresentava assieme a Israele il principale alleato degli USA in Medio Oriente, cui gli Stati Uniti destinavano massicci aiuti militari. Ma lo fece anche nella convinzione che il regime dello scià fosse riuscito a modernizzare lo Stato e la società iraniani, avvicinandoli agli standard politici ed etici delle democrazie occidentali e garantendo al paese una stabilità interna fondata su un livello non marginale di consenso. L’ottimismo di Carter era però infondato. Le difficoltà economiche che l’Iran si trovò a fronteggiare nella seconda metà degli anni Settanta e la feroce repressione del dissenso politico stavano erodendo questo consenso e ponendo le premesse per il rovesciamento del regime. Contro lo scià si era andata formando una coalizione assai ampia, che andava dall’estrema sinistra, rappresentata dal Partito comunista iraniano (il Tudeh), a un islamismo nuovo per radicalità e capacità di mobilitazione politica, che avrebbe trovato in un vecchio oppositore dello scià, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, la sua guida e il suo profeta. Nel corso del 1978 la dura repressione promossa dalla polizia del regime esacerbò la protesta. Lo scià perse rapidamente il controllo della situazione; le imponenti manifestazioni di piazza del dicembre 1978 indussero Reza Pahlavi ad abbandonare il paese. Gli USA restavano privi così di un alleato vitale nella regione e assistevano al fallimento di un’alleanza assai onerosa, che era stata coltivata a costo di compromessi etici e politici. Soprattutto, emergeva sulla scena mondiale un soggetto politico nuovo, di cui a lungo si sottovaluterà l’impatto e fraintenderà la natura. Un islam radicale destinato a contestare e rigettare le forme e le pratiche della modernità occidentale e la loro influenza, reale e potenziale, in Medio Oriente33. Chiuse nelle loro categorie cognitive e schiave delle logiche e degli schemi della Guerra Fredda, le due superpotenze pensarono di poter sfruttare l’islamismo radicale contro l’avversario: come utile cavallo di Troia da utilizzarsi contro i regimi filo-occidentali, l’URSS; come strumento conservatore e anticomunista, gli USA. Mosca sollecitò il Tudeh a collaborare con Khomeini, se necessario in posizio-

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ne subordinata. Qualche anno più tardi, consolidato il proprio potere, Khomeini finirà invece per muovere contro il Partito comunista iraniano, arrestando ed eliminando molti suoi membri. Preoccupati da una possibile conquista comunista dell’Iran, che avrebbe alterato l’equilibrio geopolitico medio-orientale, gli USA credettero fino all’ultimo che il fondamentalismo religioso di matrice islamica potesse essere cooptato nell’azione regionale di contenimento dell’URSS e ne sottovalutarono grandemente sia l’afflato antioccidentale e antimoderno sia la forza politica. Questo doppio, speculare errore s’inseriva entro un nuovo inasprimento delle relazioni bipolari. Vari fattori ne erano alla base: il rilancio sovietico di un internazionalismo rivoluzionario che aveva trovato in Africa un nuovo terreno d’azione; la prosecuzione di una politica di alti investimenti militari da parte di Mosca, culminata nella decisione di dispiegare in URSS e in altri paesi del Patto di Varsavia i missili a raggio intermedio SS-20; il rafforzamento, dentro l’amministrazione Carter, di chi, come Brzezinski, non credeva alla possibilità di un dialogo profondo con l’Unione Sovietica; le pressioni politiche interne agli USA e l’influenza crescente della destra repubblicana e dei neoconservatori. In questo quadro, anche alcune iniziative di Carter, genuinamente indirizzate a una pacificazione del sistema internazionale e al miglioramento delle relazioni con l’URSS, finirono per rivelarsi controproducenti. L’enfasi di Carter sui diritti umani irritò il Cremlino. Al contempo, essa fornì armi a chi, negli USA, denunciava i compromessi morali imposti dal dialogo con un regime oppressivo come quello sovietico. La volontà carteriana di rilanciare su basi più ambiziose i negoziati in materia di armamenti finì per esporre il presidente alle critiche sia della leadership sovietica sia degli oppositori interni della distensione. La prima guardava con perplessità alla possibilità di vedere limitati o addirittura abbandonati i suoi progetti di potenziamento militare, che rappresentavano sempre più la principale risorsa di potenza di cui essa disponeva. I secondi, guidati da Reagan e da Henry Jackson, riprendevano e amplificavano critiche mosse già ai primi accordi SALT: Carter – asserivano – stava disarmando il paese, come evidenziato dall’iniziale abbandono di alcuni importanti programmi di sviluppo militare (il bombardiere B-1 e la bomba al neutrone su tutti); e lo stava facendo proprio quando l’Unione Sovietica dimostrava di non avere affatto abbandonato le sue mire espansionistiche globali. Secondo l’e-

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sperto di questioni strategiche Edward Luttwak, infatti, i sovietici stavano «costruendo missili, bombardieri e navi» con lo scopo di raggiungere un «raggio d’azione mondiale» e solo la cecità del presidente permetteva di «negare che questa forza crescente non esprimesse un intento espansionista». Ricorrendo a un’analogia tradizionale e abusata, l’intellettuale neoconservatore Norman Podhoretz sottolineò una volta di più le somiglianze tra l’America carteriana e «la Gran Bretagna negli anni successivi alla Prima guerra mondiale». Il sovietologo conservatore Richard Pipes scrisse un articolo celebre e assai apprezzato da Reagan, il cui titolo emblematico era Perché l’Unione Sovietica pensa di poter combattere e vincere una guerra nucleare34. Dopo interminabili negoziati, USA e URSS firmarono nel giugno 1979 un secondo accordo SALT. I suoi contenuti erano assai meno ambiziosi di quelli originariamente proposti dal presidente statunitense. Il principio degli uguali aggregati – la prima grande battaglia del senatore Jackson e dei neoconservatori – era formalmente rispettato: l’accordo fissava un tetto massimo (2.250) al numero di vettori capaci di portare testate nucleari e definiva vari limiti alle possibilità di dotare tali vettori con testate multiple. I negoziati avevano però concorso a inasprire i rapporti tra le due superpotenze e a logorare il capitale politico di cui disponeva l’amministrazione Carter. L’opposizione interna al SALT II si era vieppiù estesa e appariva assai improbabile che il nuovo accordo ottenesse al Senato quella maggioranza qualificata – i due terzi dei senatori presenti – necessaria per la sua ratifica35. A rafforzare gli oppositori statunitensi della distensione contribuiva il lento logoramento delle relazioni bipolari, che a partire dal 1978 erano tornate, se non alle asprezze della prima Guerra Fredda, quanto meno alle tensioni degli anni precedenti l’elezione di Nixon. La vicenda iraniana aveva rappresentato un pericoloso campanello d’allarme in un teatro strategicamente vitale, aggravato dal fatto – asserivano Brzezinski e altri consiglieri di Carter – che l’Unione Sovietica ormai non rispettava più le regole implicite della distensione e cercava di sfruttare le difficoltà statunitensi. Difficoltà, queste, amplificate a loro volta da una difficile situazione politica ed economica interna, che sarebbe deflagrata nel corso dell’annus horribilis 1979, quando il prezzo del petrolio tornò a esplodere, la disoccupazione e l’inflazione raggiunsero nuovi picchi e la crisi di molte città

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statunitensi parve raggiungere un punto di non ritorno. Le lunghe attese alle stazioni di servizio (nel primo fine settimana di giugno più del 70% di esse chiusero per mancanza di carburante) divennero il simbolo della crisi statunitense. Una crisi che – stante la sua persistenza e pervasività – fu presentata come un cronico «malessere» (malaise) e della quale Carter stesso s’incaricò di dare lettura e spiegazione in un celebre discorso televisivo, pronunciato dopo dieci giorni di ritiro nella residenza presidenziale di Camp David. In esso Carter rilanciò, con toni assai cupi, un discorso dei limiti intriso di religiosità e pessimismo. I problemi di cui soffrivano gli USA, affermò il presidente, erano «assai più profondi [...] delle code alle pompe di benzina, della crisi energetica [...] dell’inflazione o della recessione». Ciò di cui soffriva l’America era «una crisi di fiducia» che colpiva il «cuore, l’anima e lo spirito della volontà nazionale» statunitense. Questa «erosione della fiducia nel futuro» rischiava di «distruggere il tessuto politico e sociale dell’America». La risposta alle difficoltà c’era, ma imponeva sacrifici, sforzi e, ancora una volta, consapevolezza che la spensierata epoca delle infinite possibilità era giunta al capolinea36. Il discorso del e sul malessere (malaise speech) – come fu ribattezzato – non persuase l’opinione pubblica statunitense. Inizialmente apprezzato, finì per simboleggiare tutte le supposte deficienze che i critici imputavano a Carter: mancanza di leadership, insufficiente coraggio, propensione al disfattismo, pavidità e debolezza. A un paese sfiduciato e spaventato, Carter sembrava offrire una risposta che acuiva le paure invece di placarle. Rilanciava un discorso dei limiti che risultava logoro, e comunque non in sintonia con gli umori e la storia del paese, invece di una retorica delle opportunità che ormai da più parti s’invocava. Per quanto non citata esplicitamente nel discorso, la politica estera concorreva al «malessere» di cui soffriva il paese. L’alto prezzo del petrolio dipendeva anche dalle turbolenze medio-orientali e dalla vicenda iraniana. Alla crisi di fiducia enfatizzata da Carter contribuiva la sensazione di trovarsi sulla difensiva nei confronti di un rivale, quello sovietico, all’apparenza sempre più spregiudicato e dinamico. La fascinazione per l’America e il suo modello – il fondamento di quella capacità egemonica di cui il paese aveva a lungo goduto – sembrava a sua volta ridursi ovunque. La denuncia dell’inazione carte-

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riana rispetto a queste tendenze stava diventando sempre più comune e politicamente incisiva. Tutte queste dinamiche parvero convergere alla fine del 1979, quando la malaise statunitense assunse anche un preciso carattere internazionale. Nei mesi precedenti, l’amministrazione Carter aveva cercato un qualche accomodamento con il nuovo regime iraniano. Nell’autunno del 1979 Carter aveva però consentito allo scià, malato di cancro, di entrare negli USA per sottoporsi a delle cure. A Teheran milioni di persone manifestarono contro gli Stati Uniti assediando l’ambasciata americana. Incoraggiati, o quanto meno non dissuasi, da Khomeini, un gruppo di studenti radicali entrarono nell’ambasciata, prendendo in ostaggio il personale diplomatico e militare e alcuni cittadini statunitensi che si trovavano nell’edifico. La vicenda dei 66 ostaggi, che sarebbe terminata solo nel gennaio del 1981, scosse ancor più un’America fragile e insicura e parve rappresentare la manifestazione più eclatante, drammatica e umiliante dell’impotenza statunitense. A Teheran – proclamavano i titoli dei telegiornali – tutta l’America era stata «presa in ostaggio»37. Poche settimane più tardi, i carri armati sovietici entravano in Afghanistan, dove il regime comunista insediatosi nell’aprile del 1978 e lacerato da divisioni interne era anch’esso sfidato dall’opposizione islamista, appoggiata e finanziata dai confinanti Pakistan e Iran. Per la prima volta dallo scoppio della Guerra Fredda, soldati sovietici attraversavano un confine al di fuori di quelli del Patto di Varsavia. Da alcuni mesi la leadership sovietica discuteva la possibilità di un intervento militare per evitare la caduta dell’Afghanistan nelle mani delle forze islamiste. Una prospettiva, questa, che avrebbe esteso l’influenza dell’islam radicale nella regione e avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle repubbliche sovietiche dove maggiore era la presenza di musulmani. Le difficoltà logistiche di un intervento e, soprattutto, le sue ripercussioni internazionali avevano inizialmente dissuaso Mosca dall’agire. Forte, in particolare, era la preoccupazione che esso avrebbe fatto implodere del tutto le relazioni con gli USA, ponendo definitivamente termine alla distensione. Il deterioramento dei rapporti bipolari che caratterizzò il 1979 e l’incancrenirsi della crisi afgana indussero l’URSS ad abbandonare queste remore. L’intervento sovietico chiuse la lunga fase della distensione e parve aprire una seconda Guerra Fredda. Più di tutto, espose i limiti politici della risposta carteriana alla crisi di egemonia di cui soffrivano gli USA38.

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3. Potenza, moralità e «imperi del male»: il primo mandato reaganiano Come sottolineò Podhoretz, «il 4 novembre 1979, il giorno in cui fu presa l’ambasciata statunitense a Teheran e furono sequestrati gli ostaggi, una fase della storia americana giunse al capolinea; meno di due mesi più tardi, il 25 dicembre, quando le truppe sovietiche invasero l’Afghanistan, un’altra fase sarebbe iniziata»39. L’azione sovietica aveva una funzione eminentemente difensiva: rifletteva debolezza e incoerenza, più che dinamismo e strategia. Essa fu però interpretata e presentata a Washington come parte di un piano ambizioso e spregiudicato, il cui obiettivo era l’estensione dell’influenza dell’URSS in Medio Oriente. Carter rispose con durezza. Accelerò l’aumento delle spese militari. Ritirò il trattato SALT II al Senato. Bloccò il trasferimento di beni ad alto contenuto tecnologico e la vendita di grano all’URSS. Soprattutto, usò l’annuale discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 1980 per enunciare la sua dottrina, nella quale si proclamava che «qualsiasi tentativo di una potenza [...] di assumere il controllo della regione del Golfo Persico» sarebbe stato considerato un «attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti» e «respinto con ogni mezzo, inclusa la forza militare»40. Quella di Carter appare retrospettivamente come una reazione spropositata, cui avevano concorso l’esasperazione prodotta dalla persistente inaffidabilità sovietica, l’emergere di un fenomeno nuovo e sconosciuto quale era l’islam radicale e un clima politico interno sempre meno propizio alla distensione. Alcuni anni più tardi, Brzezinski, in una celebre intervista al «Nouvel Observateur», avrebbe sostenuto che gli Stati Uniti avevano deliberatamente cercato di trascinare l’URSS nella «trappola afgana» per dare ad essa il «suo Vietnam»41. La ricostruzione di Brzezinski appare assai discutibile e il suo scopo sembra essere quello di attribuire anche all’amministrazione Carter parte del merito per la fine della Guerra Fredda. La reazione di Carter, forse inevitabile, risultò infatti contraddittoria e politicamente perdente. Essa riconduceva dinamiche regionali nuove entro quello schema binario Est-Ovest dal quale aveva affermato di voler affrancare la politica estera degli Stati Uniti. Non comprendeva la radicalità del cambiamento introdotto dai movimenti islamisti in Medio Oriente e, utilizzando categorie geopolitiche ormai consunte, mistificava il legame tra il caso iraniano e quello afgano. La retorica

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roboante e binaria con cui presentava il rinnovamento della sfida con l’URSS strideva con quel cauto discorso dei limiti che Carter ormai incarnava da tempo. Il Carter crociato della nuova Guerra Fredda non era semplicemente credibile: la sua svolta finiva per costituire un’ammissione esplicita, e inaccettabile per l’opinione pubblica statunitense, che quella perseguita fino ad allora era stata una linea sbagliata e imprudente. Attaccato sia dalla destra repubblicana, che ormai aveva individuato in Ronald Reagan il proprio rappresentante, sia dalla sinistra democratica, che nelle primarie gli candidò contro il senatore Ted Kennedy, Carter vide la sua popolarità calare costantemente. Ad aggravare le cose concorse il fallimentare tentativo di liberare gli ostaggi a Teheran, che costò la vita a otto militari statunitensi e indusse Vance a dare le dimissioni. Le elezioni del 1980 sancirono il fallimento di Carter. Il candidato repubblicano Ronald Reagan ottenne quasi 10 punti percentuali più di Carter, nonostante la candidatura di un secondo esponente repubblicano, il congressman dell’Illinois John Anderson, che corse come indipendente. Dopo quasi venticinque anni i repubblicani tornarono ad avere una maggioranza al Senato. I neoconservatori abbandonarono il Partito democratico e andarono a far parte di un Partito repubblicano composito, eterogeneo, ma proprio per questo maggioritario42. La vittoria di Reagan era anche, se non primariamente, la sconfitta di Carter. Molti sondaggi rivelarono come una parte cospicua degli elettori di Reagan non si considerasse conservatrice. Secondo gli stessi sondaggi, non vi erano stati cambiamenti rilevanti nella posizione della maggioranza degli americani rispetto a temi cari alla destra repubblicana, in particolare la riduzione del welfare state e l’aborto. La crisi economica aveva ovviamente svolto un ruolo fondamentale, ma i temi di politica estera – che si legavano peraltro strettamente alle questioni economiche – non avevano avuto un impatto marginale. Reagan prometteva agli americani di porre termine a un’era di umiliazioni e ritirate. Di tornare a combinare moralità, potenza e missione, dopo che queste erano state dissociate in forme diverse sia da Carter sia da Nixon e Ford. Di riaffermare la grandezza e l’unicità degli Stati Uniti. Di perseguire senza vergogne e remore l’interesse degli Stati Uniti. Di promuovere una politica estera as-

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sertiva e interventista finalizzata a destrutturare uno status quo che, per definizione, non poteva essere accettabile per gli USA. La malaise non era, per Reagan, né strutturale né insuperabile. Gli USA disponevano delle risorse materiali e, soprattutto, spirituali per farvi fronte. Per farlo dovevano però abbandonare le cattive lezioni del decennio precedente e tornare a guardare alla loro storia e alla loro tradizione: sfidando l’invasiva e insana onnipresenza di una mano pubblica che assopiva gli intelletti, inibiva la libera iniziativa e deresponsabilizzava il singolo; affidandosi ai meccanismi di mercato, nella ragionevole speranza che essi avrebbero permesso agli USA di uscire dalla crisi; rilanciando il sano anticomunismo della prima Guerra Fredda; mantenendo l’enfasi carteriana sulla moralità e sui diritti umani, ma declinandola ora in una chiave precipuamente antitotalitaria e antisovietica; rigettando le pessimistiche convinzioni del decennio precedente, ma anche molte delle analisi neoconservatrici, per affermare che quello sovietico era un sistema destinato al fallimento. «Gli anni di fronte a noi», affermò Reagan nel maggio del 1981 in un discorso all’Università di Notre Dame, «saranno grandi anni per questo paese, per la causa della libertà e per la diffusione della civiltà. L’Occidente non conterrà il comunismo: lo trascenderà. Non si limiterà a denunciarlo o a trattarlo con sufficienza, ma lo presenterà come un capitolo bizzarro nella storia umana le cui ultime pagine si stanno oggi scrivendo». A dispetto delle apparenze, sosteneva Reagan, l’URSS poteva essere sfidata e sconfitta; la Guerra Fredda vinta. Il suo era un messaggio semplice, ottimista, essenziale e spesso approssimativo, che ben esprimeva – ha recentemente affermato un ammirato biografo – l’ingenuo entusiasmo di «un ex attore che vedeva ancora l’America e il futuro nei colori lucenti del technicolor». Era la visione di un uomo che non esitava a invocare un eroe assai poco ortodosso per il conservatorismo statunitense, il radicale Thomas Paine, per affermare che agli USA erano dati, una volta ancora, la possibilità e i mezzi per «far ricominciare il mondo di nuovo» (the power to begin the world over again)43. Il primo passo era quello di ripudiare anche formalmente la distensione. Cosa non difficile per Reagan, che da tempo denunciava il negoziato con Mosca come una forma, disfattista e perdente, di nuovo appeasement. «A coloro che credono che la distensione stia funzionando perché tutto è tranquillo», affermò Reagan, «possiamo rispondere che [...] eccezion fatta per il suono della masticazione

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(munching and crunching) [...] le cose sono sempre tranquille quando si nutre l’alligatore». La distensione, sostenne il presidente, aveva rappresentato una «strada a senso unico usata dall’URSS per raggiungere i propri scopi» e aveva messo gli Stati Uniti e i loro alleati in una condizione di debolezza e vulnerabilità44. Se la distensione era morta, la Guerra Fredda – con i suoi paradigmi geopolitici, le sue categorie ideologiche, i suoi schemi cognitivi – risorgeva a nuova vita. Il discorso della politica estera statunitense veniva quindi nuovamente soffuso di formule, slogan e codici ad alto contenuto ideologico, arricchiti da alcuni originali contributi dello stesso Reagan, che in un celebre discorso pronunciato nel marzo del 1983 davanti all’associazione nazionale degli evangelici presentò l’Unione Sovietica come un «impero del male», invitò a schierarsi contro coloro che volevano «collocare gli Stati Uniti in una posizione d’inferiorità morale e militare» e ribadì che lo scontro in atto era tra «il bene e il male, ciò che era giusto e ciò che era sbagliato». A ciò corrispose una rinnovata denuncia delle condizioni in cui versavano i paesi ‘in cattività’ del blocco comunista, la cui ansia di libertà, tornava a ribadire Reagan, era soppressa dall’inflessibile giogo sovietico. L’azione di Solidarnosc e le difficoltà del regime polacco, in particolare, sembrarono aprire possibilità nuove e furono abilmente sfruttate dagli Stati Uniti45. L’antagonismo USA-URSS – centrato sull’asse Est-Ovest – tornava così a rappresentare la cornice di riferimento delle relazioni internazionali. All’interno di questa cornice andava ora inserito il tema dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, che Carter aveva invano cercato di emancipare dalla camicia di forza, omologante e mistificatrice, del bipolarismo. La passività e l’inazione statunitense nel Terzo Mondo – asseriva Reagan – avevano permesso all’URSS di insinuarsi in aree fino ad allora estranee alla sua influenza: in Africa, in Medio Oriente e in teatri nuovi dell’America Latina. Era qui che una nuova Guerra Fredda andava combattuta e vinta. Non rilanciando fallimentari utopie modernizzatrici, né attraverso un massiccio impegno militare statunitense, che rimaneva politicamente insostenibile, ma sfruttando la nuova situazione economica e abbracciando tutte le forze impegnate a fronteggiare quella che si riteneva essere l’avanzata globale del comunismo. La rinnovata centralità del dollaro, il crollo dei prezzi delle materie prime da cui dipendevano le economie di molti paesi in via di sviluppo e l’accelerazione e deregula-

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tion dei movimenti di capitale accrescevano la dipendenza del Terzo Mondo dall’economia capitalista e da quella statunitense in particolare. Gradualmente, il mercato americano tornò a rappresentare il volano e il catalizzatore del sistema economico internazionale. Ciò offriva agli Stati Uniti una leva forte nella competizione con l’URSS per l’egemonia, anche se imponeva dei costi che negli anni si sarebbero fatti sempre più evidenti. La svolta monetarista dell’amministrazione Reagan si combinava con l’impegno a sostenere soggetti nazionali e locali anticomunisti, a prescindere dalla loro natura o dai loro convincimenti politici. Era questa la premessa della cosiddetta Dottrina Reagan: la necessità morale e strategica per gli USA di appoggiare «coloro che combattono per la libertà contro il comunismo» ovunque essi fossero46. La Dottrina Reagan permetteva di raggiungere più obiettivi e di combinare diversi elementi che caratterizzavano la filosofia di politica estera della nuova amministrazione. Si collegava a una più generale denuncia dell’Unione Sovietica che si era progressivamente diffusa in Europa, soprattutto dopo l’intervento a Praga nel 1968 e, ancor più, in conseguenza della pesante repressione del dissenso politico nel corso degli anni Settanta. Riprendeva e applicava la distinzione – proposta nel 1979 dalla politologa Jeane Kirkpatrick, che Reagan aveva nominato ambasciatrice alle Nazioni Unite – tra il totalitarismo comunista e le varie forme di autoritarismo anticomunista. Laddove il primo era irredimibile e irriducibilmente ostile agli Stati Uniti – asseriva Kirkpatrick – le seconde erano in grado di evolvere con gradualità e senza forzature verso modelli democratici. Soprattutto, esse potevano e dovevano essere sostenute e cooptate nella campagna globale contro l’URSS e il comunismo47. Facendolo, gli Stati Uniti avrebbero finalmente rilanciato la competizione globale con l’URSS, abbandonando sia il cinico disinteresse di Nixon e Kissinger sia l’ingenuo terzomondismo del primo biennio carteriano, evitando pericolose (e costose) crociate globali e riducendo al minimo un impegno diretto degli Stati Uniti che il paese – ancora scosso dal trauma del Vietnam – non avrebbe mai accettato. Era una nuova Guerra Fredda, quella che Reagan intendeva rilanciare nel Terzo Mondo, spregiudicata e aggressiva, ma nella quale i rischi e i costi dovevano essere ridotti al minimo48. I due teatri primari dove si combatté questa nuova Guerra Fredda furono il Centro America e l’Afghanistan. In Nicaragua, Reagan

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rovesciò la cautela di Carter e già a partire dal 1981 decise di fornire sostegno economico e militare agli oppositori del regime sandinista, i cosiddetti Contras. Parallelamente, gli USA intensificarono l’appoggio al governo corrotto e autoritario di El Salvador, impegnato nel fronteggiare la sfida di un movimento rivoluzionario di estrema sinistra che riceveva aiuti dal Nicaragua. Questa escalation dell’impegno statunitense in Centro America rifletteva i convincimenti ideologici della nuova amministrazione ed evidenziava tutta l’ingenuità dei rivoluzionari sandinisti. Mentre la prima riteneva che Unione Sovietica e Cuba fossero impegnate nello sforzo di estendere la loro influenza nell’emisfero occidentale, i secondi riproponevano – ormai fuori tempo massimo – la vecchia idea della diffusione del fuoco rivoluzionario in America Latina, al punto di rigettare le sollecitazioni alla cautela che arrivavano invece proprio da Mosca e dall’Avana, preoccupate per la possibile reazione statunitense49. Pur non accogliendo le richieste del suo primo segretario di Stato, Alexander Haig Jr., che invocava un intervento militare in Centro America, Reagan accettò di intraprendere una covert operation della CIA a sostegno dei Contras. Si dava così il via alla più imponente operazione clandestina promossa dagli USA in America Latina dai tempi della Baia dei Porci. Un intervento attivo degli Stati Uniti in Centro America suscitava però le perplessità dell’opinione pubblica e l’ostilità di una parte del Congresso. A dispetto dell’intensa azione di propaganda dell’amministrazione, nei primi mesi del 1982 i sondaggi rivelarono che più del 70% degli americani era contrario al dispiegamento di truppe statunitensi in El Salvador, anche se ciò avesse rappresentato l’unico modo per evitare la conquista del paese da parte di forze della sinistra radicale; pochi mesi più tardi, un analogo sondaggio mostrò come il 60% degli intervistati temesse che il Nicaragua potesse trasformarsi in un nuovo Vietnam. Nel dicembre del 1982 la Camera dei rappresentanti approvò all’unanimità l’emendamento Boland, con il quale si proibiva al governo federale di fornire sostegno e assistenza militare a chiunque tentasse di rovesciare il governo del Nicaragua. L’emendamento era ambiguo laddove autorizzava la prosecuzione degli aiuti non militari, ma ben esprimeva l’ostilità del paese verso nuove avventure militari. Pur firmando la legge ed evitando di porre il veto, Reagan reagì con durezza e ripropose, adattata al contesto centro-americano, la vecchia teoria del domino: «El Salvador», affermò il presidente, «è più vici-

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no al Texas di quanto il Texas non sia al Massachusetts. Il Nicaragua è più vicino a Miami, New Orleans, Houston, San Antonio, Los Angeles e Denver di quanto queste città non siano a Washington»50. A dispetto dell’emendamento, l’operazione però continuò e si fece nel tempo più ampia e ambiziosa. Ad essa si aggiunse un bizzarro intervento dei marines sull’isola caraibica di Grenada, finalizzato al rovesciamento del governo filocubano e alla tutela delle vite dei cittadini statunitensi residenti sull’isola. L’intervento era stato sollecitato dall’Organizzazione degli Stati caraibici orientali (Organization of Eastern Caribbean States, OECS) in risposta a un golpe militare avvenuto sull’isola che aveva rovesciato il governo di Maurice Bishop. Si trattava di un’operazione vecchio stile, che riproponeva logiche da corollario Roosevelt e serviva per affermare la credibilità della svolta impressa alla politica estera dall’amministrazione Reagan. In virtù della sua rapidità e del suo basso costo (le vittime statunitensi furono diciannove), l’intervento risultò assai popolare negli Stati Uniti: riecheggiando John Hay e la guerra del 1898, un corrispondente definì quella di Grenada un’«amabile piccola guerra» (lovely little war). Essa fu però criticata sia da membri importanti del Congresso, tra i quali il senatore Daniel Patrick Moynihan, sia da alcuni alleati storici degli USA, inclusa la Gran Bretagna di Margareth Thatcher, irritati dall’unilateralismo statunitense51. Al nuovo attivismo in Centro America corrispose l’intensificazione dell’appoggio americano ai gruppi islamici che combattevano contro l’esercito regolare afgano e le truppe sovietiche in Afghanistan. In questo caso, Reagan riprendeva e intensificava un’operazione già intrapresa negli ultimi mesi dell’amministrazione Carter. Lo faceva, però, appoggiandosi per necessità e per scelta a interlocutori locali, in particolare l’Arabia Saudita e il Pakistan del generale Zia, giunto al potere nel 1977 con un golpe militare che aveva rovesciato il governo di Zulfikar Ali Bhutto e che divenne in quegli anni uno dei maggiori beneficiari degli aiuti americani. Interlocutori, questi, capaci di mediare tra i diversi gruppi della resistenza afgana, ma inclini al contempo a finanziare e sostenere quelli più radicali e a orientamento religioso più marcato. Un’alleanza vasta ed eterogenea venne quindi a formarsi in Afghanistan: Stati Uniti e Arabia Saudita garantivano gran parte dei finanziamenti destinati ai mujahidin; Egitto e Cina fornivano le armi; il Pakistan, attraverso il suo onnipotente servizio d’intelligence (ISI), distribuiva armi e fi-

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nanziamenti, privilegiando i gruppi che gli erano politicamente e ideologicamente più vicini52. Diversamente da quella in Nicaragua, la covert operation promossa in Afghanistan risultò assai meno controversa negli USA. La forza e la natura dell’islamismo radicale non erano ancora state comprese. Il convincimento che l’URSS meritasse una lezione, e un suo Vietnam sugli altipiani afgani, rimaneva largamente diffusa. Il conflitto afgano non riceveva la copertura mediatica e l’attenzione dedicata invece alle ‘guerre sporche’ in America Latina. L’impegno statunitense era ancora limitato, anche perché si sottovalutava l’efficacia militare dei mujahidin. Come nel caso del Nicaragua, però, un’escalation nell’impegno vi sarebbe stata dopo il 1983, in concomitanza, paradossalmente, con la riduzione delle tensioni con l’URSS e con l’avvio di una seconda, definitiva distensione. L’ultimo ambito dove si dispiegò la seconda Guerra Fredda di Reagan – dopo il Terzo Mondo e la competizione ideologica – fu quello della corsa agli armamenti. Era qui che il contrasto tra il discorso dei limiti del decennio precedente e quello delle possibilità di Reagan si rivelava particolarmente stridente. Reagan ripresentava formule non dissimili da quelle dell’NSC-68 di trent’anni prima: riaffermava la necessità che gli USA acquisissero una condizione di incontestata superiorità militare e riteneva che il paese disponesse delle risorse per farlo. Nel farlo, riproponeva – surrettiziamente – le formule e le logiche di un keynesismo militare che fino ad allora aveva fatto raramente breccia nel mondo conservatore statunitense. Soprattutto, rivendicava con orgoglio un eccezionalismo tecnologico che avrebbe dovuto permettere agli USA di riprendersi il primato perduto53. La svolta fu sintetizzata in un nuovo documento sulla sicurezza nazionale e sui rapporti con l’URSS – la National Security Decision Directive (NSDD) 75 – elaborata nel corso del 1982 e approvata da Reagan nel gennaio del 1983. Il documento proponeva un ingente aumento degli investimenti militari, grazie al quale gli USA avrebbero potuto beneficiare di una condizione di forza che a sua volta costituiva la premessa indispensabile per avviare un negoziato con il nemico. Una volta tornati a quella condizione di asimmetria di potenza di cui gli Stati Uniti avevano goduto in passato, sarebbe stato possibile promuovere un’«offensiva politica e ideologica» nei confronti dell’URSS, necessaria per «contenere e nel tempo rovesciare l’espan-

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sionismo sovietico» e per facilitare l’indispensabile «processo di cambiamento in Unione Sovietica verso un sistema politico ed economico maggiormente pluralista», che, solo, avrebbe posto termine all’innata aggressività sovietica54. Questo riarmo era peraltro già iniziato nel 1980 e aveva subito un’accelerazione intensa con Reagan. Le spese per la difesa crebbero al ritmo del 6-7% annuo tra il 1981 e il 1986; il budget militare raddoppiò nello stesso periodo, salendo da 144 a 286 miliardi di dollari; il peso relativo delle spese militari sul totale del bilancio federale passò dal 22,7 al 27,1%. Di fatto si tornava a livelli di spesa equivalenti, in termini reali, ai picchi raggiunti durante le guerre in Corea e in Vietnam. Gran parte di questi investimenti erano destinati ad armi strategiche: il bombardiere B-2, i missili intercontinentali MX, i nuovi sottomarini Trident. Soprattutto, essi erano investiti nella creazione di un programma di difesa antimissilistica – la Strategic Defense Initiative (SDI) – che avrebbe rappresentato il grande progetto (e la grande chimera) di Reagan55. La decisione di lanciare il costosissimo programma SDI fu preceduta nel 1983 da quella di dispiegare missili balistici a raggio intermedio e missili da crociera (Pershing II e Tomahawk) – i cosiddetti «euromissili» – sul territorio di alcuni alleati europei degli Stati Uniti. Si trattava di una decisione assunta già da alcuni anni e che almeno in parte conseguiva dalla decisione sovietica di dispiegare nuovi missili balistici – gli SS-20 – in Europa orientale. Ma si trattava anche di una decisione destinata a essere fortemente contestata in Europa da un movimento pacifista transnazionale, ambientalista e politicamente trasversale, che avrebbe finito per influenzare la stessa posizione di Reagan in materia di armamenti56. Quel che il nuovo movimento contro il nucleare denunciava era l’illogicità di una sicurezza fondata sulla massimizzazione degli effetti distruttivi di una guerra. A essere messa in discussione era la logica della deterrenza e la sua progressiva accettazione da parte delle superpotenze. In nome della deterrenza – asserivano i contestatori – si accettava e legittimava un’infinita corsa al riarmo e si rendeva strutturale e permanente una condizione di pericolo altissima, nella quale anche un semplice errore umano avrebbe potuto scatenare in modo irreversibile una guerra totale. Si trattava di paure antiche, acuite nei primi anni Ottanta da una serie di dinamiche strettamente interrelate: le rinnovate tensioni internazionali; l’emergere nei

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paesi più sviluppati di una coscienza ambientalista destinata ad avere un rilevante impatto politico; alcuni drammatici incidenti – su tutti quello al reattore di Three Mile Island nel New Jersey – che rivelarono quanto pericoloso potesse essere l’uso del nucleare, anche solo per scopi civili. A dare voce a queste fobie contribuì anche un celebre (e modesto) film, The Day After (Il giorno dopo), prodotto dalla rete televisiva CBS, che narrava l’impatto di una guerra nucleare sulla vita dei cittadini di Lawrence, Kansas, e che divenne rapidamente un caso cinematografico mondiale57. Reagan era ovviamente il bersaglio di questo movimento: accusato per l’imponente processo di riarmo intrapreso, per la sua aggressiva retorica e per il suo contributo all’inasprimento delle relazioni bipolari. Il dato significativo, portato alla luce da documenti e studi recenti, è che il presidente statunitense muoveva da premesse comuni a quelle del movimento contro il nucleare e ne era anzi influenzato58. L’irrazionale immoralità della deterrenza e della forma di (finta) sicurezza che essa avrebbe garantito era da tempo oggetto di denuncia da parte di Reagan. Due erano le obiezioni, tra loro contraddittorie, che Reagan muoveva al meccanismo della mutual assured destruction. La prima – già avanzata dai neoconservatori – era che esso riduceva di fatto la sovranità degli Stati Uniti, la cui sicurezza finiva per dipendere dai comportamenti e dalle scelte di soggetti altri, ovvero da quelli del nemico assoluto della Guerra Fredda. La seconda, condivisa con i pacifisti, era l’inaccettabilità, etica e politica, della pace altamente militarizzata della Guerra Fredda, la quale alzava la soglia del rischio a livelli inaccettabili, non prevedeva possibili vie d’uscita dal conflitto totale e metteva in discussione la stessa sopravvivenza della specie umana. Questa doppia critica rifletteva una contraddizione che si sarebbe fatta più acuta durante il secondo mandato reaganiano e si legava alla modalità stessa attraverso cui Reagan aveva cercato di rilanciare l’egemonia statunitense. Da un lato, ciò era avvenuto riproponendo un discorso fortemente nazionalista, tutto centrato sull’eccezionalità americana e sul rilancio del tema del destino e della missione storica degli USA. Dall’altro, l’egemonia americana si nutriva di forme d’interdipendenza – ad esempio finanziaria – ancor più intense di quelle maturate nei decenni precedenti. Ciò appariva evidente anche in ambito militare. La deterrenza era simultaneamente denunciata come una forma eccessiva e incompleta di interdipen-

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denza. Riduceva la sovranità degli Stati Uniti – affermava Reagan –, ma garantiva ad essi e al mondo intero solamente una sicurezza fittizia e incompleta. Era un’aporia, questa, dalla quale non vi era via d’uscita. Reagan provò però a immaginarne una, ancorché chimerica e impraticabile. Essa fu rappresentata dal tentativo di dotarsi di una capacità di difesa contro i missili nemici. Uno scudo con cui azzerare la capacità strategica offensiva dell’avversario, rendere impraticabile la deterrenza, riguadagnare la sovranità (e l’innocenza) perdute. Reagan annunciò il progetto dello SDI – che i detrattori immediatamente ribattezzarono «guerre stellari» – in un discorso tenuto nel marzo del 1983. «Lanciamo oggi un progetto», annunciò il presidente, che «contiene la promessa di cambiare il corso della storia umana». Invece di affidarsi allo «spettro della rappresaglia e della minaccia reciproca», che rappresentavano «un triste esempio della condizione umana», non sarebbe stato «meglio salvare le vite e non vendicarle?». «Liberare il mondo dalla minaccia della guerra nucleare [...] rendere le armi nucleari impotenti e obsolete» sarebbe valso qualsiasi costo59. Nei mesi successivi un flusso ingente di finanziamenti federali fu indirizzato alla ricerca nell’ambito delle nuove tecnologie difensive. Lo SDI avrebbe dominato il dibattito politico interno e internazionale, condizionando in modo rilevante i negoziati tra Stati Uniti e Unione Sovietica e le stesse relazioni transatlantiche. Per molti, esso rappresentava la manifestazione estrema di una postura, quella reaganiana, aggressiva e bellicista. Per Reagan si trattava di qualcos’altro: della possibilità di salvare il mondo dall’olocausto nucleare; della riaffermazione – anche nell’era dell’interdipendenza – dell’eccezionalità degli USA, cui tale missione salvifica era una volta di più assegnata; della definitiva riacquisizione di un primato morale e strategico di cui troppo frettolosamente si era decretata la fine.

4. Un mondo piccolo e interdipendente: Reagan, Gorbacˇëv e la fine della Guerra Fredda Combinando moralità e potenza, interessi e ideali, Reagan era riuscito a dare risposta almeno parziale a quella crisi di consenso interno che condizionava la politica estera degli Stati Uniti dalla fine

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degli anni Sessanta. Era questa la premessa necessaria per quel rilancio dell’egemonia statunitense invano cercato da Nixon, Ford e Carter. E con Reagan questa egemonia fu di fatto ripensata, rimodulata e riaffermata. Nel corso degli anni Ottanta gli Stati Uniti rioccuparono con forza la scena internazionale, pur in una condizione di superiorità assoluta e relativa non comparabile a quella dei primi anni della Guerra Fredda. Si trattava però di un’egemonia fragile, contraddittoria e controversa, strutturalmente debole e incoerente. Il nuovo impero americano era segnato da una serie di caratteristiche che ne limitavano oggettivamente la capacità egemonica o la rendevano maggiormente dipendente dai comportamenti e dagli interessi di altri soggetti. Il dollaro forte, il doppio deficit (bilancio e partite correnti), il rinnovamento tecnologico e la crescita dei consumi – gli elementi di quello che Charles Maier ha definito «l’impero dei consumi» – dipendevano (e dipendono) da alti livelli d’indebitamento pubblici e privati, permessi a loro volta dalla disponibilità da parte d’investitori stranieri a sostenerli e finanziarli. Il rafforzamento militare si combinava con una crescente consapevolezza della sua inutilità. Il nazionalismo eccezionalista, così apprezzato da una parte dell’opinione pubblica del paese, strideva con il riconoscimento, implicito ma forte, dell’interdipendenza e con la funzionalità di tale interdipendenza alla stessa leadership americana. Al di là delle acrobazie concettuali della Kirkpatrick, l’enfasi sulla moralità e sui diritti umani risultava difficilmente compatibile con la Dottrina Reagan e con la politica d’insane alleanze con forze politiche e regimi corrotti, autoritari e inaffidabili. La necessità di fare i conti con situazioni non modificabili obbligava ad accettare quegli stessi compromessi che si erano denunciati in passato e incrinava la coesione della stessa coalizione conservatrice di governo. I neoconservatori, in particolare, cominciarono a esprimere pubblicamente la propria delusione per le politiche medio-orientali di Reagan, basate – a loro dire – su vecchie logiche geopolitiche, simboleggiate dal legame sempre più stretto con l’Arabia Saudita, e non su un impegno forte a difendere Israele e a occidentalizzare e modernizzare la regione60. Queste contraddizioni, le pressioni dell’opinione pubblica americana, le crescenti difficoltà sovietiche e una serie di crisi che parvero avvicinare il rischio di una guerra concorsero a produrre una svolta nella politica estera reaganiana, alla quale avrebbe contribui-

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to in modo determinante l’ascesa alla leadership sovietica di Michail Gorbacˇëv. Il 1983 fu per molti aspetti l’anno decisivo. Reagan lanciò lo SDI, procedette al dispiegamento degli euromissili e intensificò le covert operations in Nicaragua e Afghanistan. Parallelamente, però, i rapporti tra le due superpotenze raggiunsero picchi tali di tensione da consigliare a entrambe di fare un passo indietro. L’Unione Sovietica reagì con durezza allo SDI, che sembrava mettere in discussione le fondamenta stesse del modello di sicurezza bilaterale edificato fin dagli accordi SALT. Nel settembre dello stesso anno l’abbattimento da parte sovietica di un aereo di linea sud-coreano, che stava sorvolando lo spazio aereo dell’URSS e che era stato scambiato per un aereo spia, evidenziò una volta di più come il semplice errore umano potesse far deflagrare un conflitto che, per definizione, non sarebbe stato contenibile. Qualche settimana più tardi, una serie di simulazioni di guerra della NATO – l’operazione Able Archer 83 – convinse l’URSS che un attacco occidentale fosse davvero imminente. Sempre nel 1983 le truppe americane che partecipavano al contingente multinazionale dislocato in Libano per mediare nel conflitto tra Israele e l’OLP subirono un pesante attentato che costò la vita a 240 soldati statunitensi61. All’interno degli USA le pressioni per una riduzione della tensione e, se necessario, della nuova corsa agli armamenti si fecero più intense. La maggioranza degli americani apprezzava il discorso a forte contenuto morale di Reagan e la riacquisita posizione di forza degli USA, ma chiedeva anche la riapertura di un tavolo negoziale con Mosca e un impegno maggiore per scongiurare il rischio di una guerra nucleare. Vari sondaggi rivelarono come più del 70% degli americani auspicasse un impegno delle due superpotenze per ridurre le armi nucleari e quasi la metà ritenesse che il governo stesse investendo troppo nel settore della difesa (un terzo riteneva tale investimento appropriato e solo il 14% insufficiente). Il Congresso continuò la sua campagna contro l’intervento in Nicaragua e nel 1984 passò una nuova e più severa versione dell’emendamento Boland, che tornava a limitare la possibilità di finanziare e sostenere i Contras62. Reagan accolse parzialmente queste pressioni. Non interruppe e anzi intensificò le operazioni in Centro America e Afghanistan, ma abbassò progressivamente il tono della polemica con Mosca e accettò una nuova fase di negoziati con l’URSS, i cui esiti si sarebbero rivelati a dir poco sorprendenti.

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La vicenda più controversa rimase quella centro-americana. La violenza delle forze paramilitari filogovernative in El Salvador alimentò polemiche serrate negli USA. L’emendamento Boland fu di fatto violato: gli aiuti continuarono a raggiungere i Contras e gli USA decisero addirittura di minare i principali porti del Nicaragua per impedire l’accesso di materiale dall’Unione Sovietica e dai paesi del blocco comunista. Si trattava di una doppia violazione; della legislazione statunitense e del diritto internazionale. Al Congresso si formò un fronte ampio e trasversale assai critico nei confronti di Reagan, che includeva addirittura il senatore ultraconservatore dell’Arizona Barry Goldwater, fino ad allora schierato a favore dell’appoggio ai Contras. Il Nicaragua portò la questione davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, che nel 1986 riconobbe la colpevolezza statunitense (la sentenza non fu mai accettata da Washington)63. Le critiche domestiche e internazionali alla covert operation in Nicaragua non indussero Reagan a cambiare rotta, ma acuirono la natura segreta e, in ultima istanza, illegale dell’operazione. L’impossibilità di sovvenzionare legalmente i Contras stimolò la ricerca di canali alternativi. Anche in questo caso fu mobilitato l’alleato saudita. Lo schema più bizzarro fu però quello elaborato all’interno del National Security Council, dove si decise di utilizzare i profitti derivanti dalla vendita di materiale militare all’Iran per finanziare la guerriglia antisandinista in Nicaragua. Le armi statunitensi sarebbero state vendute all’Iran per il tramite d’Israele. In cambio, Teheran s’impegnava a facilitare il rilascio di alcuni cittadini statunitensi presi in ostaggio da Hezbollah in Libano, tra i quali l’attaché della CIA all’ambasciata di Beirut, William Buckley64. La vicenda, divenuta poi nota come scandalo Iran-Contra, riusciva a combinare assieme un numero impressionante di illegalità. Cosa ancor più grave, essa evidenziava di fronte a una parte dell’opinione pubblica statunitense il profondo iato che si era venuto a determinare tra la retorica di Reagan e i suoi comportamenti in politica estera: tra la postura – morale, rigorosa, inflessibile – e gli atti, contradditori, ambigui, occulti. Gli USA accettavano di riarmare l’arcinemico iraniano, con il quale dichiaravano di non voler intrattenere alcun rapporto; facendolo violavano i termini della legge sull’esportazione delle armi. Era una scelta dettata anche dalla genuina preoccupazione per la sorte degli ostaggi, ma che strideva con la linea ufficiale dell’amministrazione, secondo la quale nessuna tratta-

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tiva andava condotta con i terroristi. Infine, si finanziavano i Contras contro le prescrizioni dell’emendamento Boland. La vicenda divenne di dominio pubblico nel 1986. La successiva inchiesta di un’apposita commissione, presieduta dal senatore John Tower (repubblicano del Texas), fece luce sullo scandalo, ma non trovò prova di un coinvolgimento diretto di Reagan, che riuscì ad evitare l’impeachment. Lo scandalo Iran-Contra fu però rivelatore sia delle tante ineludibili contraddizioni della politica estera di Reagan sia dell’ostilità di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica e del Congresso verso la linea adottata dall’amministrazione in Centro America65. In forma diversa, queste contraddizioni cominciavano a rivelarsi anche nel teatro afgano. Qui l’attenzione dell’opinione pubblica statunitense era minore e il sostegno del mondo politico alla covert operation più vasto. Ciò permise un’escalation dell’operazione e un maggior coinvolgimento del Congresso. A partire dal 1984 vi fu un’impennata degli stanziamenti congressuali destinati a finanziare la resistenza afgana. Vi contribuì anche la straordinaria efficacia militare dei mujahidin, che sorprese Washington e giustificò un impegno più ampio nel fornire armi ai guerriglieri e nel provvedere al loro addestramento. Per il direttore della CIA, William Casey, si trattava della realizzazione di un sogno: «È questa la bellezza dell’operazione afgana», affermò, «di solito sembra siano gli americani a picchiare e maltrattare i nativi. L’Afghanistan è invece l’opposto. Sono i russi a picchiare i piccoletti». Reagan, con il suo consueto gusto per l’iperbole, proclamò che i mujahidin afgani, come i Contras in Nicaragua, erano dei «combattenti per la libertà» (freedom fighters)66. Tra il 1981 e il 1984 più di 600 milioni di dollari furono investiti nell’operazione afgana. Nel 1985 Reagan approvò la NSDD 166, che espandeva l’impegno statunitense e nella quale per la prima volta si definiva come obiettivo ultimo quello di una sconfitta dell’URSS in Afghanistan. Quella afgana diventava così la più vasta e costosa covert operation mai intrapresa dagli Stati Uniti. Il salto qualitativo portava ad abbandonare le remore residue e a fornire ai mujahidin tecnologia militare sofisticata, inclusi i missili terra-aria Stinger, che di fatto riducevano la capacità sovietica di usare la propria superiorità aerea. Armi e aiuti continuavano però a essere gestiti e filtrati dall’intermediario pakistano, che privilegiava quelle forze islamiste più radicali destinate negli anni a rivoltarsi contro l’Occidente e gli stessi USA. Se il sostegno ai Contras e al governo salvadoregno con-

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corse a esacerbare conflitti che avrebbero causato quasi 100.000 morti, in Afghanistan gli Stati Uniti finirono, in modo involontario e inconsapevole, per rafforzare politicamente e militarmente quel movimento islamico radicale contro il quale si sarebbero trovati un giorno a combattere67. L’escalation delle operazioni in Centro America e in Afghanistan si combinò però con un radicale mutamento delle relazioni bipolari. I meriti di questo mutamento furono tanto sovietici quanto statunitensi. L’ascesa al potere di Gorbacˇëv offrì agli USA un interlocutore finalmente interessato alla promozione di una vera distensione e non incline a interpretare in chiave strumentale il dialogo con la controparte. Ridurre le tensioni con gli USA rispondeva a esigenze politiche ed economiche interne, ma rifletteva altresì un mutamento nella visione strategica della leadership moscovita. Un contesto internazionale pacifico avrebbe permesso di ridurre le spese militari, promuovere le necessarie riforme interne e conferire una nuova legittimità a un sistema, quello sovietico, sempre più screditato e in difficoltà. Al contempo, la collaborazione con Washington andava perseguita in nome di comuni interessi di sicurezza che proprio la recrudescenza dell’antagonismo bipolare aveva evidenziato. La visione gorbacˇëviana della sicurezza si contraddistingueva per il suo carattere moderno, globale e olistico. Nell’era dell’interdipendenza nucleare – affermava Gorbacˇëv – non esistevano percorsi unilaterali alla sicurezza. Il perseguirli, come avevano fatto in modi diversi sia l’URSS sia gli USA, alimentava anzi una spirale che rendeva tutti più insicuri68. Pur con un percorso diverso, anche Reagan stava maturando un’analoga consapevolezza delle trasformazioni imposte dalle armi atomiche alle relazioni internazionali e auspicava l’ascesa al potere in URSS di un leader capace di modificare lo stile e il contenuto della politica estera sovietica. «Come posso andare da qualsiasi parte con i russi se continuano a morirmi davanti», sbottò Reagan dopo la morte in rapida successione di tre leader sovietici, Brezˇnev (1982), Andropov (1984) e Cˇernenko (1985)69. Una prima, significativa apertura venne formulata in un importante discorso all’inizio del 1984. Preoccupato per gli eventi dell’anno prima, influenzato dalla moderazione del nuovo segretario di Stato, George Shultz, e timoroso che l’elettorato punisse la sua eccessiva intransigenza alle elezioni presidenziali di novembre, Reagan ri-

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tenne giunto il momento di modificare il registro della politica perseguita fino ad allora. La rinnovata forza statunitense – affermò il presidente – permetteva finalmente di «stabilire una relazione di lavoro costruttiva e realistica con l’Unione Sovietica». Una relazione basata sulla consapevolezza che «gli arsenali nucleari erano eccessivi» e sulla necessità conseguente di giungere a una loro riduzione. «Né noi né l’Unione Sovietica possiamo sperare che le differenze tra le nostre due società e filosofie scompaiano», affermò Reagan; «ma dobbiamo sempre ricordare che abbiamo interessi comuni, il principale dei quali è evitare la guerra e ridurre gli armamenti». Era venuto il momento per le due superpotenze di «affrontare le sfide innanzi a loro e di cogliere le opportunità per la pace»; di avere il coraggio di sognare «il giorno in cui le armi nucleari saranno bandite dalla faccia della terra»70. Vi è un ampio consenso tra gli storici nel considerare questo discorso di Reagan come un momento di svolta: l’avvio di quella che la scienziata politica Beth Fischer ha chiamato l’«inversione di Reagan» (Reagan reversal)71. Si ponevano così le premesse per l’avvio di una nuova, e questa volta definitiva, distensione bipolare, tanto popolare tra l’opinione pubblica statunitense quanto avversata dai neoconservatori, che progressivamente abbandonarono il campo reaganiano e denunciarono l’illusione del negoziato con il mostro totalitario sovietico72. Dopo lunghi negoziati, USA e URSS si accordarono finalmente per organizzare un vertice da tenersi a Ginevra alla fine del 1985. Esso fu preceduto da una serie di decisioni di Gorbacˇëv – la sospensione del dispiegamento di nuovi SS-20 e una moratoria unilaterale sugli esperimenti nucleari – dalla forte valenza simbolica, che mise gli USA e Reagan sulla difensiva. A Ginevra non si raggiunse alcun risultato. Gorbacˇëv fu inflessibile nel condizionare qualsiasi accordo alla rinuncia statunitense allo SDI, che violava i termini dell’accordo ABM del 1972 e minacciava di rendere inefficace quella deterrenza sulla quale Mosca basava la sua politica di sicurezza. Reagan non indietreggiò, anche perché lo SDI rappresentava la sua creatura prediletta e il meccanismo capace almeno teoricamente di riconciliare alcune delle contraddizioni della sua filosofia di politica estera. Nondimeno, il vertice costituì un importante passo innanzi: la premessa di una relazione personale, quella tra i due leader, che si sarebbe fatta più intensa nei mesi successivi; la dichiarazione di fronte all’opinio-

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ne pubblica mondiale che la fase del non dialogo dei primi anni Ottanta era già rientrata; la dimostrazione che le figure più radicali di entrambe le parti erano state progressivamente marginalizzate. «Scommetto che in entrambi i nostri paesi gli irriducibili (hardliners) si staranno contorcendo», dichiarò Reagan a un esterrefatto Gorbacˇëv73. Al vertice di Ginevra fece seguito quello di Reykjavik dell’ottobre 1986. Questo secondo summit della nuova distensione fu preceduto dall’incidente al reattore di Chernobyl in Ucraina, che rivelò una volta di più i rischi che il nucleare poneva alle sorti del pianeta e alimentò la convinzione che la riduzione degli armamenti strategici fosse ormai inderogabile74. Anche a Reykjavik non si raggiunse alcun accordo e la percezione, dei media come dei protagonisti, fu che il summit si fosse risolto in un fallimento. In realtà, i vertici si stavano rivelando come delle arene nelle quali i due leader competevano di fronte a un’opinione pubblica mondiale spaventata dall’atomica e che invocava una qualche forma di disarmo. Gorbacˇëv lo comprese prima e più di Reagan e sfruttò il palcoscenico islandese per mettere sul tavolo alcune proposte rivoluzionarie, tra le quali la riduzione del 50% dei missili balistici intercontinentali e la rimozione dei missili a raggio intermedio in Europa (la cosiddetta «opzione zero», che Reagan stesso aveva proposto qualche anno prima). La richiesta sovietica di limitare al laboratorio la sperimentazione dello SDI e d’impegnarsi a rispettare per dieci anni il trattato ABM non fu però accettata da Reagan75. A dispetto del mancato raggiungimento di un accordo, i due vertici avevano posto le premesse per un salto di qualità nei negoziati e avevano mostrato una nuova, forte convergenza tra USA e URSS sul tema degli armamenti. Come quindici anni prima, il nucleare tornava a rappresentare il comune denominatore che legava Stati Uniti e Unione Sovietica in una forma di mutua dipendenza alla quale era impossibile sottrarsi. Diversamente da quindici anni prima, invece, le proposte sul tavolo non si limitavano al semplice controllo e disciplinamento della corsa agli armamenti, ma ambivano a ridurre la capacità di fuoco delle due parti. Il rischio di conflitto accidentale, i costi del riarmo, le difficoltà sovietiche, l’avversione al nucleare e alla deterrenza di Reagan e, anche, le pressioni pacifiste e ambientaliste avevano concorso a determinare questo importante mutamento76.

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I primi risultati concreti si ebbero al terzo vertice, tenutosi a Washington nel dicembre del 1987. Gorbacˇëv accettò di non vincolare i negoziati sulla riduzione degli armamenti all’abbandono dello SDI, che peraltro continuava a rivelarsi un’irraggiungibile fantasia. Ciò aprì le porte alla ratifica del trattato INF (Intermediate Nuclear Forces), che eliminava un’intera categoria di missili nucleari: quelli a raggio medio e intermedio dispiegati da URSS e USA in Europa. Questi missili pesavano solo per il 5% dell’arsenale totale delle due parti, ma la svolta era significativa: per la prima volta nella storia della Guerra Fredda le due superpotenze si accordavano per ridurre le proprie capacità nucleari. Le principali potenze decidevano consensualmente di eliminare armi già esistenti: di diventare, almeno formalmente, più deboli. La rilevanza simbolica e politica dell’accordo era evidente, a maggiore ragione perché esso era relativo all’Europa, l’epicentro dell’antagonismo geopolitico della Guerra Fredda77. Gorbacˇëv prevenne le obiezioni di chi a ovest era contrario al trattato INF riducendo il numero delle forze convenzionali del Patto di Varsavia, che da sempre rappresentava una delle poche asimmetrie della Guerra Fredda che favorivano l’URSS. Parallelamente, decise di mettere fine al fallimentare intervento in Afghanistan, ponendo definitivamente termine alla svolta terzomondista intrapresa dall’URSS a partire dalla metà degli anni Settanta. Il leader sovietico divenne una sorta di eroe negli USA e in Europa occidentale, paragonato di volta in volta a Kennedy, a Franklin Delano Roosevelt e addirittura a Wilson. Il quarto vertice si tenne a Mosca. Intervistato da un giornalista, in quella occasione Reagan dichiarò che l’«impero del male» apparteneva «a un altro tempo, a un’altra epoca». La Guerra Fredda sembrava terminare non con la sconfitta di una delle due parti, ma con la loro accettazione delle regole dell’interdipendenza e il passaggio pieno dal bipolarismo conflittuale a quello consensuale e collaborativo. La popolarità di Gorbacˇëv, ribattezzata Gorbymania, non si estendeva però all’URSS e ai paesi del blocco comunista. Il tentativo di riformare il sistema comunista si stava rivelando impraticabile: troppo rapido per un’oligarchia ortodossa che mal digeriva l’eresia gorbacˇëviana; troppo lento e parziale per un’opinione pubblica che anelava a standard di vita più alti e a maggiori libertà. La nuova visione strategica gorbacˇëviana – e il suo rigetto di percorsi unilaterali di costruzione della sicurezza – rendeva meno importante per l’URSS la preservazione di

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una sfera d’influenza in Europa centro-orientale. Gorbacˇëv auspicava che i regimi comunisti dell’Est Europa intraprendessero processi di liberalizzazione politica analoghi a quelli promossi in URSS. Laddove ciò fosse avvenuto, però, sarebbe stato impossibile per Mosca preservare una qualche forma di controllo e d’influenza su questi paesi. Fondato sulla coercizione e sulla forza, l’impero sovietico non sarebbe potuto sopravvivere senza di queste. Quarant’anni di dominio dell’URSS avevano alimentato un forte antisovietismo in molti paesi dell’Europa dell’Est, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia su tutti. L’unica fonte di legittimità delle leadership comuniste di questi paesi derivava dall’appoggio sovietico e dalla disponibilità di Mosca a sostenerle e mantenerle al potere. Venuta meno questa disponibilità, i regimi comunisti (e l’impero sovietico) crollarono come un castello di carte. Prima in Polonia, poi in Ungheria e infine nel resto del blocco si avviava un processo che avrebbe portato in tempi rapidi, ma con risultati diversi, verso sistemi democratici e multipartitici. Nel novembre del 1989 la stessa Repubblica Democratica Tedesca, investita da forti pressioni popolari, decideva di aprire le proprie frontiere, avviando il percorso che avrebbe portato, un anno più tardi, alla riunificazione della Germania. Cadeva così il muro di Berlino, il simbolo più tangibile e odioso sia della divisione bipolare dell’Europa sia della natura dittatoriale e oppressiva del modello di società edificato dopo il 1945 dall’URSS e dalle leadership comuniste dell’Europa centro-orientale78. La Guerra Fredda non veniva trascesa dalla nuova collaborazione bipolare, ma terminava con il collasso e la successiva implosione di una delle due parti. Nella sfida per l’egemonia globale, uno dei due grandi modelli universalistici si rivelava perdente. Non un «bizzarro capitolo nella storia umana», come aveva affermato Reagan, visto il suo impatto sulla storia contemporanea, ma certo una visione finalistica della modernità, dello sviluppo e della libertà che la storia stessa aveva mostrato essere irrealizzabile e che aveva finito per provocare alcune delle più drammatiche tragedie del XX secolo. Assieme al modello sovietico crollava anche l’impero che in suo nome era stato costruito. Rimaneva in vita, invece, un impero statunitense, affatto ortodosso per la sua natura e vieppiù deterritorializzato. Un impero le cui componenti fondamentali rimanevano la forza militare, il mercato, il riacquisito primato tecnologico e un rinnovato dinamismo economico. Si trattava di un impero capace di so-

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pravvivere alla difficile transizione postindustriale, di rilanciare la sua vocazione progressiva e universalistica e di superare, sia pure in modo parziale e controverso, quella crisi di egemonia che aveva dovuto affrontare vent’anni prima. Ma si trattava altresì di un impero contraddittorio, «incoerente» – nella definizione datane recentemente dal sociologo Michael Mann –, nel quale un discorso ad alto contenuto nazionalista ed eccezionalista si combinava con forme crescenti di interdipendenza finanziaria e commerciale. Un impero che asseriva la sua unicità e indispensabilità, ma che dipendeva sempre più dai comportamenti altrui. Un impero potente e globale come pochi altri nella storia, eppure sorprendentemente fragile e vulnerabile79.

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La fine della Guerra Fredda colse quasi tutti di sorpresa. L’assetto bipolare postbellico era sopravvissuto a varie turbolenze e sembrava caratterizzarsi per un’adattabilità superiore rispetto ai precedenti equilibri multipolari. Le difficoltà sovietiche, sia pure evidenti, non parevano preludere all’implosione del blocco comunista e, di lì a poco, della stessa Unione Sovietica. Per quanto geopoliticamente statico, il bipolarismo della Guerra Fredda era ritenuto da molti esperti una struttura ordinata e disciplinatrice, in grado di prevenire conflitti tra i soggetti principali del sistema e di contenere le intemperanze degli Stati minori1. Tanto inaspettato quanto repentino, il crollo dell’impero sovietico alimentò tra gli analisti e i commentatori statunitensi una reazione meno entusiasta di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Non mancarono, ovviamente, le celebrazioni e i trionfalismi, ma almeno sul breve periodo prevalse un atteggiamento cauto e per certi aspetti preoccupato. Due fattori vi sottostavano. Il primo rifletteva la convinzione, ancora assai diffusa, che gli Stati Uniti stessero soffrendo di una condizione di declino relativo, in particolare nei confronti del Giappone e della Repubblica federale tedesca. I bassi indici di produttività, la crisi del settore manifatturiero, la scarsa competitività nella produzione di beni high-tech, l’alto tasso d’indebitamento, il doppio deficit: questi e altri fattori sembravano segnalare una crescente vulnerabilità statunitense. I veri vincitori della Guerra Fredda, si argomentava, non erano gli USA, ma quei paesi cui era stato consentito di ridurre le spese militari e di concentrarsi sulla crescita economica. Una lettura fisiologica e strutturalista corredava spesso le interpretazioni dei cosiddetti «declinisti», per i quali esisteva un

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ciclo naturale cui qualsiasi impero doveva sottostare e al quale gli USA non potevano sottrarsi. Questo inevitabile declino era stato però esacerbato e acuito dai costi della Guerra Fredda e dalla «sovraestensione imperiale» che la sfida globale con l’URSS aveva imposto a Washington. Tra le parabole dei due grandi duellanti del lungo secondo dopoguerra si asseriva vi fossero profonde simmetrie. La sorte dell’URSS avrebbe pertanto dovuto costituire un campanello d’allarme per lo stesso governo degli Stati Uniti2. Per quanto contestata nelle sue formulazioni più radicali, l’idea che fosse in atto una graduale erosione del primato statunitense era largamente condivisa. Mancavano i toni drammatici e cupi della malaise cartesiana, ma gli scandali del secondo mandato reaganiano e le difficoltà economiche avevano fatto riaffiorare pessimismi mai completamente vinti. Ciò alimentava il secondo fattore che concorse, nel 1989-91, a limitare l’enfasi trionfalistica per la fine della Guerra Fredda: la preoccupazione per il futuro e per le incognite che esso poteva riservare. Da più parti, soprattutto tra gli studiosi di formazione realista, si sostenne che la fine della Guerra Fredda avrebbe riportato a una normalità sistemica dopo la parentesi, artificiosa e astorica, del bipolarismo. Venuta meno la sfida sovietica, ridottasi la superiorità statunitense ed emersi nuovi centri di potere, il sistema internazionale avrebbe riacquisito i tratti di una struttura pluralista, fatta di equilibri instabili e cangianti, di alleanze mutevoli e di competizioni di potenza. In taluni casi queste letture riproponevano modelli (e previsioni di antagonismi) ortodossamente statocentrici. In altri venivano suggerite faglie di frattura diverse da quelle che separavano gli Stati, fossero esse le civiltà o istituzioni sovranazionali impegnate in una serrata competizione economica3. Alle tesi, variamente declinate, di un ritorno alla storia si contrapponevano quelle, inizialmente minoritarie, di chi sosteneva che con la fine della Guerra Fredda la storia fosse in una qualche misura giunta invece al suo capolinea. La sconfitta dell’unico, grande universalismo alternativo a quello proiettato dagli Stati Uniti non solo chiudeva la dialettica geopolitica e ideologica bipolare del dopoguerra, ma permetteva il pieno dispiegamento di un telos storico finalistico e ineluttabile. Chi abbracciava l’idea della fine della storia faceva quindi proprio il convincimento che la fine della Guerra Fredda segnasse l’affermazione definitiva del liberalismo come modello

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di organizzazione delle società moderne e ponesse di conseguenza fine a un ciclo storico senza aprirne un altro. In questa lettura, l’egemonia globale degli USA sarebbe sopravvissuta anche all’eventuale declino in atto. A ciò avrebbe corrisposto l’affermazione di una situazione tendenzialmente aconflittuale, dove non sarebbero mancate guerre e aree d’instabilità (peraltro in costante diminuzione), ma dove l’Occidente a leadership americana non si sarebbe più scontrato con nemici storici e dove i pericoli per un ordine pacificato e liberale venivano dai pochi residui premoderni e preliberali ancora presenti entro un percorso che volgeva gradualmente al termine4. Ulteriormente banalizzata e caricaturizzata in molte volgarizzazioni mediatiche, l’idea della fine della storia rifletteva in forme estreme un modello d’internazionalismo normale e ottimistico, che avrebbe poi trovato parziale ricezione nei primi anni dell’amministrazione Clinton (1992-94). Nell’immediato post-1989, però, anche chi non aderiva alle tesi realiste faceva fatica ad accettare questa lettura e propendeva per interpretazioni diverse, più o meno critiche nei confronti delle scelte compiute dagli USA negli ultimi cinquant’anni, ma comunque tendenti a limitare l’entusiasmo per la fine della Guerra Fredda o quanto meno a contenerne gli eccessi. Da più parti si sottolineava quindi l’importanza del sistema multilaterale e consensuale, attraverso il quale gli USA avevano edificato un’egemonia tanto soft quanto efficace, ovvero si denunciavano i costi di una Guerra Fredda che aveva militarizzato la società e l’economia degli Stati Uniti, esteso a dismisura l’intrusività del potere federale, alimentato una pericolosissima corsa agli armamenti, creato una situazione strutturale di pericolo permanente per l’umanità ed esacerbato con esiti drammatici vari conflitti regionali. Una Guerra Fredda, asserivano i critici, nella quale non vi erano stati vincitori, ma solo perdenti: negli USA, in Europa e nel resto del mondo5. Le amministrazioni statunitensi degli anni Novanta operarono entro una cornice – analitica, discorsiva e prescrittiva – definita da queste diverse letture, di cui si nutrì il dibattito pubblico e politico negli Stati Uniti e nel mondo. Lo fecero confrontandosi con problemi nuovi e spesso inattesi, ereditando molte delle contraddizioni reaganiane, ma anche beneficiando di una lunga e inattesa fase di crescita economica e di accelerato sviluppo tecnologico, che nel corso del decennio permise di mettere da parte la paura di un prossimo declino degli Stati Uniti.

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1. Il «nuovo ordine mondiale» conservatore e cauto di George Bush Sr. In una serie di discorsi tenuti tra il 1990 e 1991, durante la crisi scoppiata in seguito all’invasione irachena del Kuwait, il successore di Ronald Reagan, George H.W. Bush, proclamò prossimo l’avvento di un «nuovo ordine mondiale». Un ordine, affermò Bush, in cui sarebbe prevalso «il principio di legalità e non la legge della giungla» e nel quale le Nazioni Unite, finalmente libere dai vincoli della Guerra Fredda, avrebbero potuto usare il proprio «ruolo pacificatore» per «realizzare la promessa e la visione dei loro fondatori»6. Il lessico e le categorie erano deliberatamente neowilsoniani e come tali furono accolti da molti commentatori, che di lì a poco avrebbero denunciato i limiti e le incoerenze di questo supposto, nuovo wilsonismo7. Come si era già visto prima della crisi del 1990, l’approccio di Bush era però assai più cauto e conservatore di quanto la retorica del nuovo ordine mondiale lasciasse trasparire. Circondato da uomini formatisi nella Guerra Fredda, il nuovo presidente repubblicano non credeva fosse prossima una radicale trasformazione del sistema internazionale, né riteneva tale trasformazione necessariamente auspicabile. Per questo, Bush assistette con non poca apprensione alla rapida dissoluzione del blocco comunista avvenuta durante il suo primo anno di presidenza. I processi di liberalizzazione in atto in URSS e nel blocco comunista non potevano che essere accolti con favore a Washington; l’accelerazione del 1989-90 minacciava però di destabilizzare il quadro europeo e di riaprire dilemmi geopolitici – su tutti quello della Germania – che l’equilibrio bipolare aveva almeno in parte risolto. Fu questo il primo grande problema che l’amministrazione Bush dovette affrontare: come pilotare la transizione in atto in Europa centro-orientale senza indebolire l’interlocutore sovietico e gestendo le inevitabili ripercussioni sulla Germania, dove si manifestò subito la volontà del governo tedesco-occidentale e di gran parte della popolazione di procedere a una rapida unificazione del paese. L’URSS guardava con preoccupazione a questa prospettiva. Anche se espresse in modo più sfumato rispetto a Mosca, paure analoghe erano presenti in gran parte dell’Europa occidentale, dove si temeva che la nascita di una grande Germania potesse alterare i rapporti di

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forza intraeuropei e smantellare la delicata rete di equilibri costruiti durante il dopoguerra8. Bush comprese come la riunificazione delle due Germanie fosse inevitabile, ma cercò di guidarne il processo e di vincolarlo a una serie di condizioni che avrebbe dovuto rassicurare i vecchi nemici e alleati della Guerra Fredda. Promosse così un’estesa consultazione con URSS, Gran Bretagna e Francia, conferendo una precisa connotazione multilaterale e internazionale alla gestione del problema, che culminò nella firma del trattato del 12 settembre 1990 tra le due Germanie e le quattro potenze che avevano occupato il paese al termine della Seconda guerra mondiale (USA, URSS, Francia e Gran Bretagna). In seguito all’accordo, i quattro rinunciavano ai propri diritti e la Germania riacquistava la piena sovranità formale, procedendo alla riunificazione. Bush s’impegnò inoltre a rispettare le esigenze di sicurezza dell’URSS, garantendo a Mosca che le truppe NATO presenti in Germania occidentale non sarebbero state spostate a est e sollecitando una revisione della dottrina strategica dell’alleanza, che invocava tra le altre cose una maggiore collaborazione con Mosca. Gli USA offrirono all’Unione Sovietica un pacchetto di aiuti economici in cambio della sua acquiescenza. Più di tutto, Bush condizionò la riunificazione della Germania alla sua permanenza all’interno della NATO. Una decisione che fu contestata da Gorbacˇëv, impegnato a fronteggiare le critiche del fronte conservatore, ma che in realtà confermava uno degli scopi originari per i quali l’Alleanza atlantica era stata creata e che da sempre aveva costituito fattore di rassicurazione per Mosca: prevenire recrudescenze nazionalistiche in Germania e le velleità di potenza che queste avrebbero potuto alimentare, costringendo lo Stato tedesco entro una rete d’interdipendenze che ne vincolava i comportamenti, limitava l’autonomia e, di fatto, riduceva la sovranità9. A dispetto delle previsioni, la riunificazione della Germania non causò le lacerazioni diplomatiche temute né catalizzò una radicale alterazione degli equilibri geopolitici europei. I suoi principali effetti furono all’interno della stessa Germania, dove le modalità con cui fu gestita la riunificazione e i suoi altissimi costi concorsero ad aprire una lunga fase di difficoltà economiche. Queste difficoltà indebolirono la Germania e smentirono le previsioni secondo cui il futuro behemot tedesco avrebbe costituito un plausibile contraltare alla potenza statunitense10.

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La gestione della riunificazione delle due Germanie rappresentò un indubbio successo per l’amministrazione Bush. Soprattutto, alimentò la convinzione che essa fornisse gli elementi essenziali di quella che il segretario di Stato James Baker aveva definito una «nuova architettura» dell’Europa e delle relazioni transatlantiche, capace di rimpiazzare l’ordine del bipolarismo con un modello meno costrittivo e rigido, ma dotato di pari forza disciplinatrice11. Questa ottimistica previsione fu subito smentita. In Europa centro-orientale si assistette al riemergere di tensioni mai sopite tra diversi gruppi nazionali, alle quali contribuiva anche l’allentamento della disciplina garantita dalla Guerra Fredda. Le tensioni si manifestarono in modo particolarmente drammatico nella federazione jugoslava. Nel 1991, Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza. La Serbia mosse guerra ai due nuovi Stati, per prevenire la dissoluzione della federazione, ma soprattutto per conquistare militarmente il maggior territorio possibile prima dell’inevitabile divisione del paese. Gli scontri in Slovenia terminarono rapidamente; quelli tra Croazia e Serbia erano invece destinati a durare a lungo e ad aprire una drammatica epoca di guerre nell’ex Jugoslavia12. Fu proprio rispetto alle vicende jugoslave che l’amministrazione Bush mostrò tutta la sua cautela e il suo innato conservatorismo. Durante questa prima fase del conflitto, gli USA fecero infatti poco o nulla, subendo, come del resto tutta la comunità internazionale, l’incedere degli eventi, inconsapevoli della loro portata e incapaci di prevederne i futuri riverberi. Vari fattori causarono la passività statunitense durante le prime guerre in Jugoslavia, oltre alla sottovalutazione della loro potenziale diffusione nella regione. Gli USA diedero priorità ad altri teatri di crisi – Iraq su tutti – che si erano aperti in parallelo con quello jugoslavo. La volontà di non creare ragioni ulteriori di tensione con l’URSS e con Gorbacˇëv indussero Washington a non assumere una posizione di fermezza nei confronti della Serbia. Il disinteresse dell’opinione pubblica interna, vieppiù preoccupata per la situazione economica, rendeva più difficile l’adozione di una linea attiva e interventista. La crisi jugoslava, infine, sembrava rappresentare un primo test proprio per la nuova «architettura» prospettata da Baker: la sua gestione – si argomentava a Washington – era una responsabilità che l’Europa, finalmente liberata dagli impedimenti della Guerra Fred-

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da, si sarebbe dovuta accollare autonomamente, senza appoggiarsi agli Stati Uniti13. Sullo sfondo agiva però la filosofia e il modus operandi, entrambi assai conservatori, della politica estera di Bush. La crisi jugoslava era di natura nuova e richiedeva un’originalità analitica e operativa di cui l’amministrazione non disponeva. Ancorato alle lezioni della storia e alle categorie della Guerra Fredda, il cauto realismo di Bush e dei suoi consiglieri inibiva un’azione rapida che, sola, avrebbe permesso di bloccare sul nascere la slavina prossima a travolgere gran parte della Jugoslavia. Tutto ciò era particolarmente evidente nel campo della dottrina militare. Il precedente del Vietnam dominò tutta la discussione sul possibile ricorso alla forza in Jugoslavia: anche un semplice intervento di dimensioni ridotte – sostenne retrospettivamente il secondo segretario di Stato di Bush, Lawrence Eagleburger – sarebbe stato destinato a «continuare a crescere». L’esperienza del Vietnam rappresentava la premessa della cosiddetta Dottrina Powell, secondo la quale gli USA avrebbero dovuto ricorrere a strumenti militari solo in azioni contro un nemico ben definito, con regole d’ingaggio, tempi d’azione e strategie d’uscita precisati in anticipo, evitando d’impegnarsi in vaghe operazioni di peacekeeping dalla durata imprevedibile14. Il conservatorismo di Bush fu evidente anche nell’altra grande crisi che l’amministrazione si trovò a fronteggiare: quella provocata nell’agosto 1990 dall’invasione irachena del Kuwait, che minacciava la stabilità di un’area strategicamente vitale per gli USA. Pesantemente indebitato verso i paesi del Golfo dopo la lunga guerra con l’Iran, e intenzionato ad assumere una posizione di leadership del mondo arabo che passava primariamente attraverso il controllo delle risorse energetiche presenti nella regione, l’Iraq di Saddam Hussein agì credendo di poter sfruttare i nuovi margini di manovra concessi dalla fine della Guerra Fredda e sottovalutando la reazione degli USA. Colta di sorpresa dall’azione irachena, l’amministrazione Bush vi rispose con modalità che ne evidenziavano la cautela, ma che sembravano altresì offrire le basi per un nuovo modo di gestione delle crisi internazionali. Tre furono gli elementi basilari e strettamente interdipendenti della risposta statunitense: il riconoscimento del ruolo delle Nazioni Unite come unico soggetto in grado di autorizzare un’operazione militare per la liberazione del Kuwait, rendendola formalmente legale e garantendone così la legittimità di fronte

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all’opinione pubblica internazionale; la costruzione di una vasta coalizione, incarnazione simbolica e operativa della natura multilaterale e consensuale dell’azione che si era prossimi a intraprendere; la definizione di una strategia militare atta a ridurre al minimo indispensabile le vittime statunitensi, per preservare il più ampio consenso interno possibile15. Le Nazioni Unite approvarono varie risoluzioni che condannavano l’azione di Baghdad e fissavano una scadenza per il ritiro delle truppe irachene dal Kuwait. Parallelamente, gli USA promossero un’intensa azione diplomatica, cercando in particolare di convincere l’Unione Sovietica, tradizionale patrono dell’Iraq, a non opporsi all’azione militare. Nei mesi che precedettero l’intervento più di trenta paesi aderirono alla coalizione costruita dagli USA e circa 700.000 soldati, tre quarti dei quali statunitensi, furono dispiegati nella regione del Golfo. Il 16 gennaio 1991, l’operazione Tempesta nel deserto prese il via. Per circa un mese e mezzo, gli USA e i loro alleati bombardarono massicciamente l’Iraq e le truppe irachene presenti in Kuwait. L’Unione Sovietica assunse una posizione di sostanziale neutralità. La successiva azione di terra fu più rapida e facile di quanto paventato. Alla fine di febbraio Bush poteva annunciare la fine della guerra e la liberazione del Kuwait. Negli Stati Uniti, gli indici di popolarità del presidente schizzarono al 90%. Le vittime alleate furono circa 400, per la gran parte statunitensi. Le stime di quelle irachene oscillano a oggi tra le 20.000 e le 200.000. L’entusiasmo per la facile vittoria fu intenso, ma di breve durata. I soldati furono accolti come eroi. A Washington e New York furono organizzate parate che ricordavano quelle avvenute al termine della Seconda guerra mondiale. Politici e commentatori celebrarono la fine della sindrome del Vietnam e del fobico rigetto della guerra che essa aveva generato16. La disillusione fu però rapida e la popolarità di Bush crollò con la stessa velocità con cui era cresciuta. Un attento controllo dei media aveva prevenuto la divulgazione d’immagini del conflitto e ne aveva permesso una rappresentazione high-tech, che lo faceva assomigliare più a un videogame che a una guerra vera e propria. Ma le aspettative generate dal conflitto e dalla promessa di un nuovo ordine mondiale furono ben presto disattese. Bush, Baker e il consigliere per la sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, non accolsero le ri-

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chieste di chi chiedeva di proseguire le operazioni di terra per abbattere il regime di Saddam Hussein, nella consapevolezza che ciò avrebbe potuto incrinare la coesione della coalizione, destabilizzare l’intera regione medio-orientale e aprire un conflitto di portata e durata indefinite. Come avrebbero successivamente scritto Bush e Scowcroft, «cercare di eliminare Saddam, estendendo l’operazione di terra in un’occupazione dell’Iraq avrebbe [...] causato costi politici e umani [...] saremmo stati obbligati a occupare Baghdad e, di fatto, a governare l’Iraq [...] in aggiunta avevamo cercato di definire un modello per gestire le aggressioni nel mondo del dopo Guerra Fredda. Proseguire occupando l’Iraq, andando unilateralmente oltre il mandato delle Nazioni Unite, avrebbe distrutto il precedente di risposta alle aggressioni» che gli USA «intendevano stabilire». Con un’eventuale invasione, argomentarono Bush e Scowcroft, gli Stati Uniti si sarebbero trasformati in una «potenza occupante in un territorio fortemente ostile»17. Tale decisione rifletteva una volta di più il cauto realismo che dominava l’approccio di politica estera di Bush. Essa apparve però a molti come incongruente con le modalità con le quali Bush aveva giustificato la decisione di promuovere un’azione militare. In Iraq, gli USA optarono infine per una via intermedia, creando delle zone protette (no fly zones) nel Nord e nel Sud del paese, per proteggere le minoranze sciite e curde dall’eventuale azione repressiva del regime iracheno, e imponendo a Baghdad un severo embargo, intensificato poi nel corso degli anni Novanta. Per una parte maggioritaria dell’opinione pubblica statunitense si trattava di provvedimenti ambigui, che finivano per cronicizzare la crisi irachena (e per procrastinare il coinvolgimento degli Stati Uniti) invece di porvi termine. L’acuirsi delle tensioni nell’ex Jugoslavia si combinava a sua volta con la difficile situazione economica e le ansie prodotte dalla breve recessione del 1990-91, in particolare tra i ceti medi, nell’alimentare il malcontento verso Bush. L’elettorato sembrava chiedere un cambiamento di rotta nel quale convergevano contraddittoriamente due esigenze diverse: concentrarsi maggiormente sulle questioni interne, abbandonando il sogno di dare vita a un nuovo ordine mondiale; offrire codici, categorie e pratiche di politica estera con cui sostituire quelli, polverosi e assai poco mobilitanti, adottati da Bush. Questa richiesta fu sfruttata e accolta dal giovane governatore dell’Arkan-

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sas, Bill Clinton, che a sorpresa aveva ottenuto la nomination democratica per la presidenza.

2. «It’s the economy, stupid»: l’apprendistato di Bill Clinton, 1992-94 Durante la campagna elettorale del 1992, Clinton riuscì a trasformare in risorsa la sua inesperienza in materia di politica estera. Lo fece contrapponendo la freschezza del suo approccio e delle sue idee al conservatorismo di Bush. Clinton denunciò la mentalità da Guerra Fredda che ancora dominava la visione internazionalista di Bush. Quella del presidente in carica, affermò Clinton durante uno dei dibattiti presidenziali, era un’«esperienza vecchia», che offriva lezioni sbagliate a un’America il cui compito era invece quello di adattarsi al «nuovo mondo dopo la Guerra Fredda». Ciò era particolarmente vero per il tema dei diritti umani, la cui difesa – asserivano Clinton e il suo vice, Al Gore – era stata dolosamente ignorata da Bush, in particolare nell’ex Jugoslavia. Il presidente in carica rispose con asprezza a queste critiche, sorpreso dalla scarsa incidenza elettorale del suo background (prima di diventare presidente Bush era stato tra le altre cose ambasciatore in Cina e direttore della CIA) e vedendosi sottrarre da Clinton molti di quegli slogan liberisti che avevano tradizionalmente informato il discorso repubblicano. «L’unica esperienza di politica estera di Clinton è uno stage alla commissione Esteri del Senato», sostenne durante la campagna elettorale il vicepresidente Dan Quayle. «Il mio cane Millie sa più cose di politica estera di quei due bozos», affermò Bush riferendosi a Clinton e a Gore18. L’elettorato la pensava diversamente. Clinton fu eletto, beneficiando della presenza di un terzo candidato (Ross Perot, che ottenne il 19% dei voti, sottratti in larga misura ai repubblicani) e sfruttando le preoccupazioni degli americani per lo stato dell’economia e la sollecitazione conseguente a concentrarsi sulle problematiche interne19. La fine della Guerra Fredda aveva così finito per avvantaggiare Clinton, rimuovendo un fattore di coesione e unità del fronte repubblicano e marginalizzando le tematiche relative alla politica estera e di sicurezza, sulle quali i democratici erano tradizionalmente

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vulnerabili. Coniato da uno dei consulenti politici di Clinton, James Carville, lo slogan della campagna elettorale, «It’s the economy, stupid!», finì per simboleggiare quale sarebbe stato l’atteggiamento del futuro presidente verso le questioni internazionali: riprova dell’attenzione alle tematiche sociali ed economiche interne per lo stesso Clinton e per i suoi elettori; manifestazione di un atteggiamento provinciale, insulare e quasi isolazionista per molti commentatori, statunitensi e non20. La retorica elettorale offriva in realtà coordinate vaghe e contraddittorie per navigare nelle acque turbolente della politica internazionale dei primi anni Novanta. Se non propriamente isolazionisti, gli inviti a concentrarsi maggiormente sui problemi interni stridevano con la nuova enfasi sui diritti umani e le crociate interventiste che una loro coerente difesa avrebbe comportato. Quest’ultima, a sua volta, era contraddittoria con le sollecitazioni a promuovere un’azione d’integrazione economica liberista, destinata a coinvolgere anche regimi illiberali e democratici, a partire da quello cinese. Anche una volta eletto, Clinton continuò a cercare un qualche equilibrio tra i diversi elementi che qualificavano formalmente il suo discorso e il suo programma di politica estera: sostegno alla globalizzazione e alla rimozione delle barriere al commercio; promozione attiva dei diritti umani; riduzione degli oneri e degli impegni globali maturati durante la Guerra Fredda e, con essi, diminuzione delle spese militari. La parola chiave del vocabolario dell’internazionalismo clintoniano fu inizialmente quella di «allargamento» (enlargement). Era venuto il momento di passare da una strategia di contenimento a una di allargamento, proclamò il consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton, Anthony Lake, in un celebre discorso tenuto nel settembre del 1993. «Durante la Guerra Fredda», affermò Lake, gli Stati Uniti si erano impegnati a «contenere la minaccia globale alle democrazie di mercato»; pur evitando d’intraprendere «azioni troppo ambiziose», gli Stati Uniti dovevano ora impegnarsi per ampliare il perimetro di tali democrazie, in particolare nelle aree di maggiore rilevanza strategica. Lo dovevano fare pacificamente, ma riprendendo quelle «dinamiche» che erano state alla base delle «principali intuizioni di Woodrow Wilson»: su tutte, quella che la stessa sicurezza degli Stati Uniti dipendesse «dalla natura degli altri Stati (the character of foreign regimes)»21. Durante tutto l’ultimo decennio del Novecento, la metafora del-

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l’allargamento avrebbe costituito il pilastro e il mantra del discorso di politica estera neowilsoniano di Clinton: allargamento del libero mercato, della democrazia, dell’Alleanza atlantica, del rispetto dei basilari diritti dell’uomo. Si trattava però di un obiettivo ambizioso, da calibrare in modo cauto e selettivo e che necessitava di precise condizioni interne e internazionali. Nei primi anni del mandato clintoniano queste condizioni erano in larga misura assenti. L’opinione pubblica statunitense non era disposta ad appoggiare un internazionalismo interventista quale quello invocato da Lake. Gran parte del mondo viveva ancora nella convinzione che la leadership internazionale degli USA stesse svanendo e che nuovi equilibri di potenza si stessero configurando. Il nuovo ordine mondiale, fondato sulla leadership statunitense, la legalità internazionale e la centralità dell’ONU, era sfidato ovunque. I risultati della politica estera clintoniana furono inevitabilmente ambivalenti e non mancarono i fallimenti eclatanti. Combinandosi con alcuni pesanti insuccessi interni (in particolare la mancata riforma del sistema sanitario), essi indebolirono politicamente Clinton e i democratici e alimentarono la sensazione che sulle tematiche internazionali l’amministrazione si muovesse in modo incoerente, erratico e superficiale. In realtà, Clinton ottenne subito alcuni successi non irrilevanti durante il primo biennio del suo mandato. Vincendo l’opposizione di pezzi importanti del Partito democratico e del sindacato, l’amministrazione riuscì nel 1993 a far ratificare il trattato che istituiva l’area di libero scambio del Nordamerica (North American Free Trade Association, NAFTA), che creava un mercato comune tra Stati Uniti, Canada e Messico. Nello stesso anno, gli USA facilitarono il raggiungimento a Oslo di uno storico accordo tra israeliani e palestinesi, che sembrava poter aprire la strada al superamento dell’annoso conflitto arabo-israeliano, risolvendo così uno dei maggiori fattori d’instabilità della politica internazionale. Infine, l’amministrazione Clinton diede almeno parzialmente corso alla sua promessa di favorire una politica estera ispirata alla difesa della democrazia e alla promozione dei diritti umani, ottenendo dalle Nazioni Unite un mandato per porre termine al regime militare haitiano di Raoul Çédras, che nel 1991 aveva deposto con un golpe il presidente eletto Jean-Bertrand Aristide. Gli USA inviarono ad Haiti un contingente

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militare di 20.000 uomini per garantire il ritorno di Aristide e il ripristino della democrazia. Questi successi furono parziali, immediatamente contestati e costarono all’amministrazione un notevole capitale politico. Non vincolata all’introduzione in Messico di tutele sindacali, standard salariali e norme ambientali, la nascita del NAFTA fu contestata dalla sinistra democratica, che denunciò la politica estera di Clinton come una semplice prosecuzione di quella di Bush, e fu avversata dai parlamentari degli Stati dove la concorrenza della manodopera e dei prodotti messicani suscitava maggiori paure e allarmi. Al Senato i voti favorevoli furono 61 e quelli contrari 38. Alla Camera il trattato fu approvato con 234 voti favorevoli e ben 200 contrari. Il Partito democratico si spaccò e il voto dei repubblicani risultò decisivo22. Le speranze aperte a Oslo s’infransero rapidamente sugli scogli delle tante ambiguità e questioni irrisolte presenti negli accordi e, ancor più, della progressiva radicalizzazione sia del governo israeliano sia della neonata autorità palestinese. La democrazia haitiana si rivelò da subito fragile e precaria e la situazione deteriorò rapidamente durante la seconda metà del decennio23. Le difficoltà maggiori vennero però da altri teatri, ove particolarmente stridente fu lo iato tra la retorica e i comportamenti di Clinton, oltre che tra i mezzi di cui l’amministrazione disponeva e gli obiettivi che essa asseriva di perseguire. Clinton aveva sostenuto la missione in Somalia promossa da Bush allo scadere del suo mandato per porre termine all’emergenza umanitaria e al caos venutisi a determinare dopo la caduta del regime di Siad Barre. Almeno sulla carta l’intervento in Somalia non presentava grandi rischi: era sostenuto dall’opinione pubblica interna e internazionale; non sembrava comportare particolari problemi operativi; era autorizzato dalle Nazioni Unite e prevedeva la partecipazione anche di contingenti di altri paesi e la graduale riduzione del numero di soldati statunitensi impegnati sul campo. I fatti andarono diversamente. La missione statunitense fu coinvolta negli scontri che contrapponevano diverse fazioni somale e cercò invano di catturare uno dei principali signori della guerra operanti in Somalia, l’ex generale Mohamed Farrah Aidid. Questi tentativi culminarono nell’ottobre del 1993 in una battaglia nelle strade della capitale Mogadiscio, durante la quale persero la vita 18 militari americani e circa 1.000 miliziani somali. Le immagini dei corpi mutilati dei soldati statunitensi branditi come tro-

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fei dai miliziani per le strade di Mogadiscio scioccarono l’America. Il sostegno pubblico all’operazione somala evaporò rapidamente. Lo spettro del Vietnam fu nuovamente agitato. Alla fine del 1993 gli ultimi soldati statunitensi lasciarono la Somalia, mentre il segretario della Difesa, Les Aspin, si dimetteva travolto dalle critiche. «Il multilateralismo strisciante è morto nelle strade di Mogadiscio», affermò il senatore repubblicano del Kentucky Mitch McConnell. Ritirandosi dalla Somalia, si poneva finalmente «termine a questa immagine delle Nazioni Unite che tengono al guinzaglio» gli Stati Uniti, gli fece eco il senatore democratico della West Virginia, Robert Byrd24. Le scelte successive di Clinton furono segnate dalla lezione somala. La retorica universalista del presidente fu vieppiù attenuata e qualificata. La dottrina dell’interventismo umanitario subì una drastica revisione, in accordo con molti dei principi della Dottrina Powell. Gli interventi andavano ora selezionati con attenzione e delegati il più possibile ad alleati locali; in caso di coinvolgimento, gli USA dovevano evitare per quanto possibile di mettere propri uomini sul campo e fare affidamento sulla loro superiorità tecnologica25. La nuova linea fu subito messa alla prova dalla crisi scoppiata in Ruanda, quando il gruppo etnico maggioritario presente nel paese, gli hutu, promosse un’azione di sistematica eliminazione della popolazione di etnia tutsi. Il genocidio causò la morte di circa un milione di persone e fu permesso dalla passività e dall’inerzia della comunità internazionale. Gli Stati Uniti abdicarono al proprio ruolo di leader, invitando le Nazioni Unite e l’Europa a intervenire e rifiutandosi di guidare una missione internazionale. I paesi europei, Francia e Belgio in particolare, si limitarono a promuovere un’azione di salvataggio dei propri cittadini presenti in Ruanda26. Nel corso del 1993-94 la situazione precipitò anche nell’ex Jugoslavia. Durante la campagna del 1992 Clinton e Gore avevano denunciato l’inazione statunitense, sollecitando l’adozione di una linea più dura nei confronti del regime serbo di Slobodan Milosˇevic. Una volta al potere, però, anche i democratici si erano dovuti confrontare con la complessità di una situazione che non sembrava offrire vie d’uscita. La guerra si era estesa alla Bosnia e al suo allargamento era corrisposta un’escalation delle violenze, perpetrate in particolare da serbi e croati. L’amministrazione era divisa tra chi, come Gore, Lake e l’ambasciatrice all’ONU Madeleine Albright, premeva per un’azione incisiva, e coloro, tra i quali il segretario di Stato Warren Chris-

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topher, Aspin e Powell, che preferivano evitare un coinvolgimento statunitense. L’esito fu una non politica che finì per contribuire a causare il fallimento dell’unico serio tentativo di risolvere l’impasse jugoslava: il piano elaborato dal rappresentante delle Nazioni Unite, l’ex segretario di Stato Cyrus Vance, e da quello dell’Unione Europea, l’ex ministro degli Esteri britannico David Owen. Il piano Vance-Owen – che aveva ricevuto il tacito appoggio dell’amministrazione Bush – prevedeva una divisione della Bosnia in dieci regioni, definite su base nazionale27. Gli USA finirono però per non appoggiarlo, ritenendo che esso legittimasse le conquiste serbe e una logica di divisione su base nazionale della Bosnia (interventisti) ovvero preferendo sottrarsi all’impegno che sarebbe comunque derivato da un deciso sostegno al piano (anti-interventisti)28. Le Nazioni Unite avevano nel frattempo autorizzato una missione di peacekeeping affidata a truppe europee nell’ex Jugoslavia. Essa si rivelò drammaticamente incapace di garantire la pace, difendere le aree protette istituite dall’ONU in alcune città bosniache e prevenire così nuovi massacri. Nell’amministrazione Clinton si raggiunse un consenso sulla necessità di abbandonare l’embargo indiscriminato e procedere quanto meno a riarmare l’esercito bosniaco, ma il progetto fu abbandonato di fronte all’opposizione degli alleati europei. Come in Ruanda, anche l’atteggiamento statunitense rispetto alla crisi jugoslava finì poi per essere condizionato dalla vicenda somala. Gli Stati Uniti si trovavano di fatto senza una politica: indisposti ad assumersi responsabilità dirette; ancora convinti che spettasse all’Europa trovare una via d’uscita; diplomaticamente incapaci di abbandonare l’equidistanza e appoggiare una delle parti in causa. L’estendersi della guerra civile in Jugoslavia, il rinnovato ruolo di denuncia dei mezzi d’informazione, la sconcertante inettitudine europea e il mutare delle condizioni all’interno degli Stati Uniti avrebbero però ben presto determinato un radicale cambio di rotta.

3. La sintesi neowilsoniana del secondo Clinton Nel corso del 1994 si assistette al mutamento di una serie di condizioni che avevano sino ad allora contribuito a inibire una politica estera più attiva e interventista. La difficile situazione economica e il

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convincimento del declino degli USA avevano costituito il sostrato strutturale della passività clintoniana, oltre che i fondamenti sui quali Clinton aveva costruito la sua critica a Bush nel 1992. La situazione però mutò rapidamente. L’economia statunitense ricominciò a crescere. Il PIL statunitense aumentò a ritmi del 4-4,5% annuo. L’inflazione scese stabilmente sotto il 2% (raggiungendo un picco verso il basso dell’1,1% nel 1998). Il tasso di disoccupazione passò dal 7% del 1992 al 4% del 2000. L’ininterrotta espansione dell’economia durò 107 mesi. Alla fine del decennio, dopo anni di passivi, il budget federale tornò a offrire dei surplus. Il dato più rilevante è che si trattava di una crescita trainata da settori nuovi, ad alto contenuto tecnologico (la cosiddetta new economy), in cui la crescita costante e impressionante della produttività permetteva di contenere le spirali dei prezzi, aumentare salari e capacità di consumo dei lavoratori più qualificati e offrire nuove possibilità di mobilità sociale29. Si trattava di uno sviluppo non privo di contraddizioni, che si sarebbero poi manifestate in modo eclatante alla fine del decennio e negli anni successivi. Il tasso d’indebitamento pubblico e privato del paese crebbe a ritmi vertiginosi. Il boom della borsa che accompagnò questa espansione avvenne in forme altamente speculative: l’indice dei titoli di Wall Street (il Dow Jones) crebbe del 400% tra il 1991 e il 2000; quello dei titoli tecnologici (il NASDAQ) aumentò di circa dieci volte nello stesso periodo, salvo subire poi una brusca caduta. Il deficit commerciale del paese s’intensificò e, fatta salva una limitata inversione di tendenza nel 1991, il passivo della bilancia delle partite correnti crebbe in modo esponenziale. Nondimeno, il boom e le sue contraddizioni contribuivano entrambi a riposizionare gli Stati Uniti al centro della scena mondiale e a riaffermare ed estendere l’egemonia della potenza americana. Il mercato americano si rivelava fondamentale per le merci di tutto il mondo, in particolare per quelle dei paesi in via di sviluppo. Il dollaro ribadiva il suo primato globale. Germania e Giappone scomparivano dalla scena come possibili competitori. Secondo molteplici parametri, il mondo tornava a rivelarsi unipolare e decisamente ‘americano’30. Tutto ciò alterava percezioni e realtà della potenza statunitense e permetteva di superare le titubanze e paure degli anni precedenti. Una politica estera più attiva e se necessario unilaterale appariva così nuovamente possibile, a maggiore ragione se essa era invocata e

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sollecitata dai media, dall’opinione pubblica e da gran parte del mondo politico. È quanto avvenne a partire dal 1994. I mezzi di informazione cominciarono a prestare un’attenzione crescente al dramma jugoslavo e a denunciare la passività dell’Occidente. La corrispondente della CNN Christiane Amanpour imbarazzò in diretta Bill Clinton chiedendogli spiegazione dei «costanti tentennamenti (flip-flops)» dell’amministrazione sulla questione bosniaca. Al cosiddetto «effetto CNN» si aggiunse il rafforzamento di chi, nell’amministrazione e al Congresso, chiedeva un mutamento di linea. La voce della Albright – che di lì a poco sarebbe divenuta segretario di Stato – si fece più assertiva e influente. Al Senato il capogruppo repubblicano e futuro candidato presidenziale Bob Dole cominciò a sollecitare un maggiore attivismo statunitense e a chiedere che fosse posto termine all’embargo sulla vendita d’armi all’esercito bosniaco. Oltre che da convinzioni politiche e da orrore genuino per i massacri che stavano avvenendo in Bosnia, gli avversari di Clinton scorgevano nei suoi flip-flops un elemento di vulnerabilità che, se adeguatamente sfruttato, avrebbe potuto garantire un significativo ritorno elettorale31. Questo ritorno vi fu alle elezioni del 1994, quando i repubblicani ottennero una straordinaria vittoria elettorale, riconquistando dopo quarant’anni la Camera dei rappresentanti. La politica estera fu solo uno dei fattori che determinarono la débâcle di Clinton e dei democratici, e certamente non il più rilevante. Combinandosi però con altre dinamiche in atto, le elezioni concorsero a trasformare l’approccio di politica estera dell’amministrazione Clinton, che si fece contemporaneamente più assertivo, interventista e unilaterale32. Facilitato dalla nuova situazione, ma obbligato altresì a farlo per sopravvivere politicamente, Clinton mutò corso d’azione e procedette a una rimodulazione delle categorie, del discorso e delle pratiche della propria politica estera. La svolta si articolò attorno a tre paradigmi fondamentali. Innanzitutto, la dottrina dell’allargamento fu rilanciata e si riaffermò il nesso, inscindibile, tra l’estensione della rete di democrazie di mercato, la tutela dell’autodeterminazione e la sicurezza globale. Questa enfasi tutta wilsoniana sull’interdipendenza fu però integrata dalla riproposizione del tema dei diritti umani, cui avevano attinto in modi diversi sia Carter sia Reagan, ma che aveva conosciuto una parziale eclissi nei primi anni Novanta. In secondo luogo, furono riaffermate con forza parole d’ordine radicalmen-

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te eccezionaliste, rilegittimate dalla patetica prova che l’Europa aveva dato di sé durante la crisi jugoslava e dalla straordinaria performance economica statunitense, ma imposte anche dalla necessità di mobilitare l’opinione pubblica americana a favore di un nuovo interventismo che essa aveva rigettato solo pochi anni prima. A questo eccezionalismo – e alla retorica democratica e umanitaria che lo accompagnava – avrebbe dato voce soprattutto Madeleine Albright, che Clinton nominò segretario di Stato durante il suo secondo mandato (1997-2001). E proprio Albright pronunciò qualche anno più tardi le parole che avrebbero incarnato – agli occhi di critici e sostenitori – questa nuova svolta eccezionalista: «Siamo la nazione indispensabile», affermò Albright nel giustificare l’uso della forza in Kosovo, «stiamo più in alto e vediamo più lontano nel futuro rispetto agli altri paesi»33. Un terzo e ultimo elemento integrava (e temperava) la svolta nella politica estera clintoniana e il discorso eccezionalista che l’accompagnava. Per essere davvero efficace, il nuovo interventismo necessitava di un tasso minimo di consenso internazionale da conseguirsi attraverso il dialogo con gli altri Stati, a partire dagli alleati europei, e il loro coinvolgimento nelle iniziative promosse dagli USA. Rispetto all’idea del nuovo ordine mondiale di Bush, minore enfasi era posta sulla legalità: l’ONU si era dimostrata incapace di adempiere alle proprie funzioni e i meccanismi attraverso cui operava, che definivano il perimetro del diritto internazionale, riflettevano logiche ormai datate. Il rispetto della legalità internazionale – erano prossimi ad argomentare Clinton e Albright – rischiava di ostruire la tutela dei basilari diritti umani. Nondimeno, per ragioni politiche e simboliche era ritenuto necessario limitare il più possibile l’afflato unilateralista delle posizioni statunitensi. Nella seconda metà degli anni Novanta ciò fu reso possibile dalla presenza d’interlocutori europei – il primo ministro britannico Tony Blair su tutti – le cui posizioni erano per molti aspetti simili a quelle di Clinton e che condividevano la necessità di modificare le pratiche della politica internazionale e di non escludere il ricorso alla forza per difendere i diritti umani34. La svolta interventista e, in parte, neointernazionalista poggiava pertanto su un discorso non privo di ambiguità e contraddizioni, funzionale a ottenere il massimo consenso possibile, dentro e fuori gli Stati Uniti. L’eccezionalismo e l’unilateralismo erano temperati dall’impegno al dialogo e al negoziato multilaterale; questi ultimi ri-

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sultavano a loro volta più accettabili all’opinione pubblica e al mondo politico statunitense in quanto perseguiti se necessario fuori dalle Nazioni Unite e in modo percepito spesso come funzionale al raggiungimento di obiettivi predefiniti. Questa nuova linea trovò una sua prima attuazione proprio in Bosnia. Nel corso del 1994 gli USA si erano impegnati in un’opera di mediazione tra croati e bosniaci, che pose termine agli scontri tra i due gruppi e permise loro di unirsi nella guerra contro i serbi. Obiettivo fondamentale di Washington era quello di disporre di una forza militare di terra, evitando di dover mettere propri uomini sul campo. L’anno successivo l’ONU e l’Europa rivelarono tutta la loro impotenza quando le supposte aree protette furono violate dalle truppe serbe. Il caso più drammatico, che scosse la coscienza dell’Occidente, fu il massacro avvenuto nella città di Srebrenica, dove i soldati serbi uccisero tutta la popolazione maschile adulta (circa 8.000 uomini). Per il vicesegretario di Stato, Strobe Talbott, quello che stava avvenendo in Bosnia era un «altro olocausto europeo». Da più parti, l’azione serba fu denunciata come una forma di genocidio e s’intensificarono le pressioni affinché gli USA intervenissero. In gioco era la stessa credibilità degli Stati Uniti; gli USA, affermò Clinton, si trovavano in una «situazione insostenibile»; l’inazione in Bosnia stava infatti distruggendo la loro «posizione di forza nel mondo». «L’acquiescenza», affermò il presidente, non era più «un’opzione»: gli USA non potevano continuare a essere trattati come un «punching ball»35. La risposta fu triplice. Sotto le pressioni del Senato, fu tolto l’embargo sulla vendita di armi alla Bosnia. L’esercito croato, riarmato dagli USA e addestrato anche da esperti statunitensi, mosse contro l’area serba della Krajina, occupandola in pochi giorni, deportando la popolazione serba e macchiandosi di numerose atrocità. Qualche settimana più tardi, la NATO lanciò una serie di devastanti raid aerei contro le postazioni serbe. L’iniziativa statunitense poneva le condizioni per il raggiungimento di una pace, facilitata dall’andamento delle operazioni militari e dalla «pulizia etnica» che queste avevano di fatto prodotto sul campo, dividendo la Bosnia in aree vieppiù omogenee. I negoziati di pace tra serbi, croati e bosniaci si svolsero nel novembre successivo a Dayton, in Ohio. Sotto la supervisione statunitense e dopo interminabili trattative, un accordo fu raggiunto il 21 novembre. La Bo-

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snia era divisa in due entità: una federazione croato-musulmana, sovrana sul 51% del territorio, e una repubblica serba, che deteneva il restante 49%. La presidenza doveva essere collegiale. Gli USA s’impegnavano a guidare un contingente multinazionale di circa 60.000 soldati, un terzo dei quali statunitensi, cui era delegato il compito di mantenere la pace e di far rispettare gli accordi36. Gli accordi di Dayton apparvero allora a molti commentatori come un compromesso fragile e dalla difficile tenuta. Il modello cui essi hanno dato vita è stato criticato severamente e spesso a ragione. L’intervento del contingente multinazionale si è protratto ben oltre le ipotesi iniziali e solo nel 2004 le competenze dell’operazione sono passate dalla NATO all’Unione Europea37. Al contempo, però, l’intervento della NATO e i successivi accordi posero fine a quattro anni di guerra brutali e agli stermini e le pulizie etniche che avevano segnato il conflitto. Per gli USA essi furono la conferma della bontà della linea adottata e legittimarono il cambiamento di rotta del 1994. La Bosnia parve infatti offrire una nuova lezione della storia, nella quale confluivano modelli analogici che da tempo informavano le scelte della politica estera statunitense – su tutti i riferimenti all’appeasement degli anni Trenta – e quelli che si ritenevano emersi nel dopo-Guerra Fredda. Queste supposte lezioni furono applicate dall’amministrazione nella nuova crisi che si aprì alcuni anni più tardi nei Balcani, in Kosovo, una regione meridionale della Serbia a maggioranza albanese cui Belgrado aveva sottratto nel 1989 l’autonomia, imponendo un controllo sempre più rigido. Nel corso degli anni Novanta le forze indipendentiste kosovare avevano optato senza esito per forme di protesta pacifiche. La repressione serba e la conseguente radicalizzazione albanese aveva portato alla nascita di un esercito per la liberazione del Kosovo (UCK). Nel 1998 l’esercito serbo e le milizie locali mossero contro l’UCK, arrestando migliaia di presunti simpatizzanti. Come in Bosnia, violenze, deportazioni e trasferimenti coatti sembravano preludere a una nuova tragedia umanitaria. In questo caso, però, gli USA si mossero in anticipo. Alla fine del 1998 il Consiglio atlantico autorizzò la NATO a elaborare dei piani per il bombardamento preventivo di obiettivi serbi. L’attivismo diplomatico permise però solo di procrastinare la crisi. Washington intendeva evitare a qualsiasi costo il ripetersi della vicenda bosniaca, ma intravedeva nella crisi kosovara anche la possibilità di rovesciare

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il regime nazionalista serbo di Slobodan Milosˇevic, cui si attribuiva la responsabilità primaria del dramma vissuto nella ex Jugoslavia. All’inizio del 1999 una serie di negoziati furono promossi nella cittadina francese di Rambouillet. Il piano proposto dagli USA e dall’Europa prevedeva il ripristino dell’autonomia del Kosovo, il ritiro delle forze militari serbe e la loro sostituzione con forze della NATO. Lo status del Kosovo doveva essere deciso tre anni più tardi con un referendum38. La Jugoslavia (ossia la federazione delle repubbliche di Serbia e Montenegro) rifiutò di sottoscrivere gli accordi, come del resto i rappresentanti della comunità albanese. Alla fine di marzo del 1999 la NATO lanciava una nuova campagna aerea contro la Serbia, che prendeva di mira la stessa capitale, Belgrado, e che non era stata autorizzata dalle Nazioni Unite (la Russia avrebbe posto il veto su un’eventuale risoluzione del Consiglio di sicurezza). Rispetto al 1995, il quadro era però diverso. Mancava una forza sul campo pronta a fare il lavoro sporco compiuto principalmente dalle forze croate nel 1995. I bombardamenti sembrarono consolidare il sostegno della popolazione serba nei confronti di Milosˇevic. La convinzione che il dittatore serbo sarebbe indietreggiato rapidamente si rivelò infondata. Molti sostenitori del nuovo ‘interventismo umanitario’ chiesero che gli Stati Uniti e i loro alleati inviassero delle forze di terra. Lo fecero in nome d’imperativi strategici, ma anche etici: per essere davvero ‘giusta’ – argomentavano – una guerra imponeva la disponibilità a mettere in gioco le proprie vite, senza limitarsi a continui bombardamenti da alta quota39. Solo l’intensificazione dei bombardamenti e l’indisponibilità russa a fornire ulteriore appoggio diplomatico a Milosˇevic permise di porre termine al conflitto, nel giugno del 1999. Una forza multinazionale fu istituita per mantenere la pace e ripristinare l’ordine. Il Kosovo si trasformò di fatto in un protettorato internazionale in attesa di un’indipendenza che la Serbia rifiuta ad oggi di concedere. Il cambiamento di linea intrapreso a partire dal 1994 indusse l’amministrazione ad accelerare i piani per un allargamento dell’Alleanza atlantica ben oltre i confini definiti dopo la riunificazione tedesca. Nella decisione di espandere la NATO verso est confluivano sia la revisione strategica in atto sia quella che si riteneva essere la lezione offerta dalla crisi jugoslava. In particolare, quattro motivazioni, implicite ed esplicite, sotto-

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stavano alla decisione degli USA di promuovere l’allargamento. Innanzitutto, esso rifletteva l’acclarata incapacità degli alleati europei di garantire autonomamente la stabilità e la pace in Europa, come si era visto nella ex Jugoslavia. L’Alleanza atlantica vedeva così ridefinita ed estesa la propria missione originale, trasformandosi da strumento del contenimento dell’URSS in veicolo di difesa dell’ordine europeo. A ciò si aggiungevano però altri tre fattori. In primo luogo, l’allargamento della NATO si legava al disegno parzialmente neowilsoniano del nuovo approccio clintoniano. L’espansione dell’alleanza serviva per proteggere le giovani democrazie emerse sulle ceneri dell’impero sovietico, che peraltro sollecitavano apertamente la tutela statunitense, ma rappresentava altresì la concretizzazione del modello di enlargement suggerito a suo tempo da Lake e fondato sulla riaffermazione dell’interdipendenza strettissima tra espansione delle democrazie e sicurezza globale. Un’interdipendenza, questa, che la nuova NATO finiva simultaneamente per garantire, ma anche per simboleggiare. Ancora una volta, però, il consenso trasversale e bipartisan su una scelta di politica estera avveniva attraverso le diverse interpretazioni che dell’allargamento era possibile dare. Due motivazioni aggiuntive – stridenti con l’afflato neowilsoniano dell’amministrazione – soddisfacevano infatti il fronte conservatore e realista: la convinzione che l’allargamento servisse anche, se non primariamente, per estendere il cordone difensivo attorno alla Russia, la quale, per quanto instabile e in difficoltà, rimaneva l’unico possibile antagonista degli USA in termini di hard power militare; e l’auspicio che l’ingresso nella NATO di Stati maggiormente dipendenti dagli USA permettesse a questi ultimi di consolidare la propria leadership nell’alleanza e di controllare i suoi membri più indisciplinati40. Il primo passaggio dell’allargamento fu rappresentato dall’ingresso nella NATO di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, avvenuto nel marzo del 1999, solo pochi giorni prima dell’avvio dei bombardamenti sulla Jugoslavia. Cinque anni più tardi, altri sette paesi dell’Europa centro-orientale – Bulgaria, Slovenia, Romania, Lituania, Estonia, Lettonia e Slovacchia – entrarono nell’organizzazione e nuove ammissioni sono previste per gli anni a venire. L’Alleanza atlantica vide così ridefinita la propria missione, modificato il proprio baricentro politico e, secondo molti commentatori, diluiti il proprio significato e la propria coesione. Il terzo e ultimo tempo dell’enlargement clintoniano – dopo l’al-

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largamento della sfera della democrazia e di quello della sicurezza – fu rappresentato dall’espansione del libero mercato e dell’interdipendenza commerciale. La filosofia e l’operato dell’amministrazione furono d’impronta decisamente liberista e certo stimolati dalla felice congiuntura economica degli anni Novanta, oltre che dalla necessità per l’amministrazione di promuovere un dialogo con il Congresso controllato dai repubblicani. Nel secondo mandato clintoniano, i membri dell’amministrazione più scettici nei confronti del modello di globalizzazione che si stava affermando, in particolare il segretario del Lavoro Robert Reich, furono sostituiti da figure come il banchiere Robert Rubin, nominato segretario del Tesoro nel gennaio del 1995. Rubin promosse un’azione particolarmente incisiva per porre termine ai disavanzi strutturali di bilancio, che concorrevano a mantenere alti i tassi d’interesse e a inibire lo sviluppo economico41. Parallelamente, l’iniziale enfasi di Clinton sulla necessità di non sacrificare i diritti umani sull’altare del libero mercato fu messa da parte, nella convinzione che proprio l’interdipendenza commerciale avrebbe prodotto una trasformazione dei regimi più repressivi e autoritari. Ciò fu evidente nei rapporti con la Repubblica popolare cinese. Nel 1992 Clinton e Gore avevano duramente accusato Bush per il suo atteggiamento passivo nei confronti della repressione del dissenso politico in Cina. Nel maggio del 1993 Clinton legò esplicitamente politica commerciale e tema dei diritti umani approvando un ordine esecutivo che concedeva alla Cina lo status di nazione più favorita (NPF), ma ne prevedeva il rinnovo nel 1994 solo se Pechino avesse compiuto dei progressi tangibili in materia di diritti umani. Pechino rispose con asprezza a quella che era a tutti gli effetti una forma d’ingerenza nei suoi affari interni. Settori del mondo imprenditoriale statunitense si mobilitarono a loro volta contro la decisione. Allo scadere dell’anno, la NPF fu rinnovata senza vincolo alcuno. Gli USA – affermò l’allora segretario di Stato Christopher – dovevano adottare una «politica generale di coinvolgimento (engagement)» della Cina per «integrarla nella comunità globale». Alla fine – proclamò il giornalista Thomas Friedman, futuro apologeta dei benefici della globalizzazione – «la vittoria è andata agli interessi economici [...] non c’è stata partita [...] questa è ormai l’era del ministro delle Finanze»42. Negli anni successivi questo sforzo di engagement fu promosso coerentemente e senza esitazioni. La NPF fu rinnovata anno dopo an-

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no a dispetto delle obiezioni di sindacalisti, attivisti per i diritti umani e settori del Partito democratico. Larga parte del mondo imprenditoriale appoggiò la politica dell’engagement, attratta sia dalle possibilità d’investimento in Cina sia dal sogno, che si rinnovava una volta ancora e finalmente si realizzava, di avere accesso a un mercato potenzialmente immenso come quello cinese. Da parte loro, i consumatori non potevano che apprezzare l’abbassamento dei prezzi di tutta una serie di merci prodotte in Cina, soprattutto da alcune grandi corporations statunitensi che vi avevano trasferito la produzione e che contribuivano, tra le altre cose, al contenimento delle spirali inflazionistiche. Nel 2000 il Senato votò a larghissima maggioranza a favore di una normalizzazione permanente delle relazioni commerciali tra i due paesi. Si aprì così la strada all’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, che sarebbe avvenuto alla fine del 2001. Beneficiando di questa trasformazione, gli scambi tra Cina e USA conobbero una rapida intensificazione tra il 1995 e il 2001. La Cina maturò un forte surplus nella bilancia commerciale, non pareggiato però da quello delle partite correnti, a causa della sua arretratezza nel settore dei servizi. Questo tratto fu però invertito negli anni successivi, quando l’evoluzione dell’economia cinese alterò tale stato di cose e la stessa composizione delle esportazioni cinesi assunse caratteristiche merceologiche più complesse, che includevano anche prodotti ad alto e medio contenuto tecnologico. Durante tutto l’ultimo decennio gli USA hanno avuto deficit commerciali pesanti nei rapporti bilaterali con la Cina, che nel 2003 è divenuta il secondo esportatore negli USA, sostituendo il Messico. Nel periodo 1990-2005, le importazioni statunitensi dalla Cina sono passate dal 3 al 14% di quelle complessive, mentre quelle dal Giappone e dagli altri paesi dell’Estremo Oriente sono scese dal 36 al 19%. Nel solo 2005 il passivo degli USA negli scambi bilaterali con la Cina è stato di circa 200 miliardi di dollari43. Proprio la storia dei rapporti tra Cina e Stati Uniti è emblematica dei successi, ma anche dei limiti e delle contraddizioni della politica estera clintoniana. A dispetto delle aspre critiche di molti commentatori, Clinton ha ottenuto molti risultati in politica estera, soprattutto dopo il 1994: la paura del declino, che tanto aveva condizionato i comportamenti statunitensi nel ventennio precedente, fu sfidata e vinta; come già in passato, l’interdipendenza fu sfruttata per

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rilanciare un’egemonia che continuò, almeno simbolicamente, a essere esercitata con modalità soft e multilaterali; gli USA tornarono a dominare una scena mondiale sulla quale non sembravano esistere davvero concorrenti o alternative. Sul piano interno, la quadratura del cerchio sembrava essere stata perfettamente raggiunta: una crescita economica costante e prolungata senza inflazione come quella degli anni Novanta non si era praticamente mai vista prima di allora. L’interdipendenza, però, non agiva in modo unidirezionale e a solo vantaggio degli USA. Essa alimentava forme di mutua dipendenza alle quali gli stessi USA dovevano sottostare e contro le quali, in modo politicamente e culturalmente trasversale, si scagliarono politici e commentatori. La bassa inflazione e gli alti consumi – le architravi dell’ampio consenso interno e del modello di sviluppo degli anni Novanta – erano oggettivamente permessi anche dalle merci cinesi, oltre che dalla disponibilità di grandi investitori stranieri a sostenere i crescenti livelli d’indebitamento pubblico e privato sui quali si fondava almeno in parte il miracolo statunitense degli anni Novanta44. L’ampio sostegno domestico alle politiche clintoniane non poteva nascondere inoltre le tensioni assai forti nel Partito democratico e, ancor più, l’emergere di linee di frattura nuove, enfatizzate dalla grottesca azione persecutoria nei confronti di Clinton stesso promossa dal procuratore indipendente Kenneth Starr e sostenuta da gran parte dei repubblicani, che nel 1998 portò il presidente a un passo dall’impeachment 45. Problemi non dissimili, però, erano presenti anche negli altri ambiti nei quali si era dispiegato l’enlargement clintoniano. Il tema dei diritti umani poteva essere declinato solo in modo selettivo e limitato, come il caso della Cina ben evidenziava. Il ricorso alla guerra per la promozione della democrazia e, appunto, la difesa dei diritti umani apriva una serie di contraddizioni politiche ed etiche alle quali non era possibile sottrarsi: quanta violenza era accettabile per la prevenzione della violenza medesima e la salvaguardia delle vite umane? In nome di quale diritto si potevano intraprendere operazioni non autorizzate dalle Nazioni Unite? Quale universalità potevano rivendicare i valori dell’Occidente democratico, in nome dei quali queste guerre erano spesso condotte? Il nuovo interventismo umanitario, che i critici ribattezzarono «umanesimo militare», apriva più dubbi di quanti non ne risolvesse e costituiva al meglio una bussola

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parziale per muoversi nelle complesse acque del sistema internazionale, da maneggiare con estrema cautela e attenzione46. Infine, il tentativo di conferire una qualche architettura istituzionale all’enlargement cozzò contro varie forme di opposizione, interne e internazionali. L’allargamento della NATO, oltre a suscitare le ostilità russe, allentò la coesione nell’alleanza e contribuì a dare forza a posizioni europeiste e antiatlantiche, che rigettavano le logiche e le categorie del passato. Facendo leva sui topoi di un eccezionalismo europeo che magnificava l’esperienza storica del processo d’integrazione dell’Europa, da più parti si cominciò ad auspicare l’adozione da parte dell’Europa di politiche estere e di sicurezza autonome, per la promozione delle quali era ritenuto necessario ovviare al gap di potenza con gli USA. Un gap, questo, evidenziatosi durante l’intervento in Kosovo, dove lo scarto tra i mezzi militari statunitensi e quelli europei era emerso in modo eclatante47. I vincoli operativi, di nuovo evidenti durante la crisi kosovara, cui gli USA dovevano sottostare in nome della cooperazione e del multilateralismo erano a loro volta denunciati negli Stati Uniti, in particolare dal fronte conservatore, per il quale l’appoggio politico europeo era inutile, sacrificava la libertà d’iniziativa degli USA e, assieme ad essa, riduceva l’efficacia militare delle operazioni intraprese. Lo stesso fronte conservatore, sostenuto dalla maggioranza dell’opinione pubblica, avversava inoltre la creazione di nuove istituzioni internazionali, che vincolassero in qualche modo l’autonomia del paese. Un caso eclatante si ebbe con l’istituzione della corte penale internazionale, il cui statuto è stato firmato nel 1998 ed è entrato in vigore nel 2002. Organismo wilsoniano come pochi altri, creato anche in conseguenza del dramma jugoslavo, la corte è stata avversata dai repubblicani, secondo i quali essa limitava la sovranità degli Stati Uniti e metteva a rischio l’autonomia delle missioni militari statunitensi. Nonostante vari emendamenti e l’introduzione di numerose clausole di garanzia, gli USA non hanno aderito alla corte. Per sottrarsi a uno scontro politicamente perdente, l’amministrazione Clinton non ha sostenuto la corte e solo in scadenza di mandato il presidente ha sottoposto il trattato al Senato per la sua ratifica. Una decisione, questa, che il presidente della commissione Esteri del Senato, il repubblicano Jesse Helms della North Carolina, denunciò come «scandalosa e ingiustificabile». La decisione di Clinton fu poi immediatamente revocata dal suo successore, George Bush, che ritirò il trattato48.

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4. Soli e hyper-potenti: il fallimento della svolta unilateralista di George Bush Jr. Nel 1999, l’allora ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine, sostenne che gli USA non potevano più essere considerati una semplice «superpotenza». Gli Stati Uniti, affermò Védrine in tono di denuncia, erano ormai un’«iperpotenza» (hyperpuissance), «dominante o predominante» in tutte le categorie che definivano il potere relativo e assoluto di uno Stato. Un’iperpotenza che secondo Védrine doveva essere riequilibrata attraverso un’«opera continua e perseverante a favore del multilateralismo e contro l’unilateralismo», ma anche dando vita a un «equilibrato multipolarismo contro l’unipolarismo» e favorendo la «diversità culturale contro l’uniformità»49. Si trattava di slogan, parole d’ordine e stereotipi dalle matrici antiche, care a larga parte del mondo politico francese, di destra come di sinistra. In modo non del tutto consapevole, però, Védrine coglieva un dato della potenza statunitense e delle sue contraddizioni, che Clinton era riuscito almeno in parte a gestire e occultare e che sarebbe invece deflagrato nelle mani, assai meno capaci, di George Bush Jr. Alla fine del secolo la potenza statunitense era davvero hyper. Ma lo era in tutti i diversi significati che può assumere il prefisso. Era una potenza grande, immensa e due volte super, qualsiasi parametro si volesse utilizzare per misurarla: dinamismo economico, forza mitopoietica del proprio modello culturale e conseguente capacità egemonica, straordinaria e incontestata superiorità militare, esemplificata da un bilancio militare di 500 miliardi di dollari, di fatto superiore a quello, combinato, del resto del mondo50. Ma hyper può conferire al sostantivo che segue anche altri significati: oltre, sopra, eccessivo, anormale. Significati che in modi diversi sono applicabili alla natura della potenza americana e ne rivelano limiti, fragilità e incongruenze. Le dimensioni del primato degli Stati Uniti li qualificano infatti come un soggetto al di là della potenza stessa: come un’iper, ma anche come una post-potenza. Tratto, questo, evidente sia nell’ambito militare che in quello economico. Militarmente gli USA dispongono di una panoplia articolata, tecnologicamente sofisticata e dalla decrescente spendibilità sia politica sia operativa, come gli attentati dell’11 settembre 2001 e le successive guerre in Afghanistan e in Iraq hanno ben rivelato; economicamente essi dipendono sempre più dai crediti stranieri, che li co-

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stringono in una rete di dipendenze mutue e multiple alla quale non è possibile sottrarsi. Immensa, ma difficilmente spendibile, l’iperpotenza americana risulta anche anormale ed eccessiva agli occhi della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale; laddove dispiegata in modo unilaterale e arrogante, essa alimenta resistenze e contestazioni, che minano l’egemonia statunitense e ne erodono la leadership globale: l’invocazione di Védrine al multipolarismo e al bilanciamento di potenza rifletteva un esempio classico – ancorché rozzo e stereotipato – di denuncia dell’insano squilibrio di potenza dell’attuale sistema internazionale. Le recenti difficoltà statunitensi hanno rilanciato il genere letterario del declinismo e posto fine, almeno temporaneamente, alla retorica unipolare e unipolarista dei neoconservatori51. Le risorse della potenza statunitense rimangono in realtà straordinarie e storicamente uniche. Gli eventi degli ultimi anni e la parabola dell’amministrazione Bush sono però rivelatori delle contraddizioni di tale potenza e di un dato tanto basilare quanto spesso ignorato: il fondamento del primato statunitense e dell’egemonia di cui esso si nutre e per il tramite della quale si dispiega è stato rappresentato dall’interdipendenza stessa. Un’interdipendenza che deve essere gestita con attenzione e che impone uno sforzo costante di preservazione del consenso internazionale. Il quale, in modo crescente dagli anni Ottanta ad oggi, è spesso entrato in rotta di collisione con le modalità di mobilitazione dell’opinione pubblica statunitense, basate su una retorica nazionalista ed eccezionalista e che sono necessarie, a loro volta, per la promozione di una politica estera proattiva e internazionalista. Favorito da condizioni oggettive più favorevoli e attrezzato con una ben più robusta cultura internazionalista e cosmopolita, Clinton è riuscito a muoversi abilmente su quest’asse definito dalle due polarità ‘nazionalismo/consenso interno/mobilitazione opinione pubblica statunitense’ e ‘interdipendenza/consenso internazionale/accettazione mondiale della leadership degli USA’. Da questa prospettiva, il fallimento di George Bush è stato invece eclatante. Bush fu eletto presidente sconfiggendo nel 2000 Al Gore in un’elezione particolarmente controversa e contestata, che acuì ancor più l’aspra polarizzazione politica del paese. La composizione della prima amministrazione Bush era alquanto eterogenea e rifletteva il tentativo di trovare un equilibrio tra le diverse anime del conservatori-

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smo statunitense: vi erano tradizionali conservatori nazionalisti (il vicepresidente Cheney e il segretario della Difesa Rumsfeld); realisti dichiarati (il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice); repubblicani internazionalisti (il segretario di Stato Powell e il suo vice Armitage); la destra religiosa (il ministro della Giustizia Ashcroft) e, infine, neoconservatori come il sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz52. In un primo momento, il comune denominatore fu al ribasso: la filosofia di politica estera dell’amministrazione si contraddistingueva infatti per la natura minimalista, ancorché netta, del suo unilateralismo. Ciò si traduceva in una doppia linea d’azione. In primo luogo il rigetto di molti accordi internazionali e, più in generale, di pratiche multilaterali e consensuali nella gestione degli affari internazionali. Una volta insediato, Bush procedette a ritirare dal Senato il trattato istitutivo della corte penale internazionale e a rigettare il protocollo di Kyoto sull’ambiente e la convenzione per le armi biologiche in vigore dal 1975. Soprattutto, rilanciò, sia pure in forma più modesta e attenuata, il sogno reaganiano di creare un sistema di difesa missilistica, decidendo d’intensificare la ricerca e la sperimentazione in tale ambito e di abbandonare unilateralmente il trattato ABM del 197253. Parallelamente, Bush e i repubblicani assunsero una posizione fortemente critica nei confronti dell’interventismo umanitario degli anni Novanta: esso imponeva costi insostenibili, universalizzava gli impegni degli Stati Uniti senza discriminare fra i teatri strategicamente vitali per l’interesse degli USA e quelli che invece erano marginali e induceva a utilizzare lo strumento militare per scopi che erano altri da quelli bellici. A dare voce a questa avversione verso la filosofia di Clinton e della Albright aveva provveduto già durante la campagna elettorale la supposta anima realista dell’amministrazione, Condoleezza Rice, che denunciò la riduzione delle spese militari dell’amministrazione Clinton e la sua propensione a intraprendere crociate umanitarie anche in assenza di precise «preoccupazioni strategiche». La forza militare – aveva sostenuto la Rice – costituiva uno «strumento speciale» e «letale»: non era «una forza civile di polizia» né «un arbitro politico» e di certo non era «pensata per costruire una società civile»54. Questo unilateralismo minimalista si rivelò da subito assai difficile da praticare. Gli alleati europei e la Russia reagirono con so-

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spetto e perplessità, in particolare dopo la decisione di abbandonare il trattato ABM, che rappresentava uno dei tanti tasselli del sistema di sicurezza edificato a partire dagli anni Settanta. Dentro la complessa coalizione di governo si manifestarono linee e posizioni diverse, in particolare tra il Dipartimento di Stato e quello della Difesa. La Cina rispose con ostilità a un’amministrazione dentro la quale si levavano spesso le voci di chi misconosceva l’interdipendenza e denunciava la sfida cinese al primato statunitense. Le tensioni tra Cina e Stati Uniti raggiunsero un picco nell’aprile del 2001, quando vi fu una collisione tra un aereo spia statunitense e un jet cinese e il primo fu costretto ad un atterraggio di emergenza sull’isola di Hainan, a sud-ovest di Hong Kong, dove i membri dell’equipaggio furono trattenuti per alcuni giorni. La reazione della destra repubblicana, fuori e dentro l’amministrazione, fu veemente. Rumsfeld denunciò l’aggressività di Pechino e l’«incauto» comportamento del pilota cinese, che era morto nell’incidente; sul magazine neoconservatore «Weekly Standard», Robert Kagan e William Kristol criticarono la timidezza della risposta di Bush, l’«umiliazione nazionale» che essa imponeva agli Stati Uniti e chiesero che Pechino «pagasse un prezzo per le sue azioni», togliendo alla Cina lo status di nazione più favorita e rafforzando l’alleanza con Taiwan. Prevalse invece una linea assai più morbida, sollecitata da pezzi importanti del mondo imprenditoriale e promossa dal segretario di Stato Powell. La crisi rientrò, dopo le parziali scuse da parte di Bush e la conseguente liberazione dell’equipaggio55. La vicenda era indicativa delle contraddizioni della politica estera di Bush e della precarietà degli equilibri presenti all’interno dell’amministrazione. Tutto ciò fu radicalmente modificato l’11 settembre 2001, quando l’organizzazione terroristica Al Qaeda, guidata da Osama Bin Laden, lanciò una serie di attacchi terroristici contro gli USA. Aerei di linea pilotati da terroristi suicidi centrarono le Torri gemelle di New York e il Pentagono a Washington. Più di 3.000 persone morirono nel più grave attentato mai perpetrato sul suolo statunitense. Bush mutò corso d’azione per fronteggiare la sfida del terrorismo islamico: l’unilateralismo rimase, ma fu rimodulato in senso radicale e massimalista; le componenti più moderate dell’amministrazione, e il Dipartimento di Stato in particolare, furono vieppiù marginalizzate; i neoconservatori si trovarono a esercitare

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un’influenza che mai avevano avuto sulla politica estera degli Stati Uniti. Le conseguenze furono plurime. Gli USA lanciarono un’azione militare in Afghanistan finalizzata ad abbattere l’unico regime che aveva dato ospitalità a Bin Laden, a eliminare le basi operative di Al Qaeda e a dare un messaggio inequivoco a tutti quegli Stati che avessero avuto un atteggiamento ambiguo e non risoluto contro il terrorismo fondamentalista. L’operazione in Afghanistan fu appoggiata da gran parte della comunità internazionale, che dopo l’11 settembre si era schierata dalla parte degli Stati Uniti. Molti commentatori vi intravidero anzi la premessa del superamento di alcune delle tensioni che avevano caratterizzato l’ultima fase dei rapporti tra gli USA e i loro alleati e la premessa per la ricostituzione di una vasta coalizione simile a quella che si era formata in occasione della guerra del Golfo del 1990-9156. Avvenne invece il contrario. Rumsfeld chiarì che i vantaggi politici e diplomatici di una condotta multilaterale della campagna contro il terrorismo non pareggiavano i costi operativi e i vincoli decisionali che essi avrebbero imposto agli USA. L’azione antiterroristica fu subito qualificata in senso massimalista, come una nuova guerra globale: la Quarta guerra mondiale, nella definizione datane dall’intellettuale neoconservatore Norman Podhoretz57. Si assistette al rilancio delle forme più radicali di un nazionalismo eccezionalista fondato sull’orgogliosa presunzione di potersi sottrarre ai vincoli dell’interdipendenza. Un nazionalismo, questo, che sollecitava gli Stati Uniti a farsi carico senza remore di una missione imperiale, per mezzo della quale esportare il modello democratico di mercato incarnato dagli stessi Stati Uniti, in nome di principi, ideali e interessi che tornavano roboantemente a essere intrecciati. Per i neoconservatori era giunto il momento di porre termine a uno dei principali limiti della politica estera statunitense del dopo-Guerra Fredda: l’incapacità di concretizzare lo straordinario primato statunitense nella costituzione di un impero ad alto contenuto morale. L’impero creato dagli USA – aveva sostenuto nel 1997 Irving Kristol, uno dei padri intellettuali del neoconservatorismo – era infatti «privo della coercizione bruta che aveva caratterizzato l’imperialismo europeo», ma anche dello «spirito missionario di quel vecchio imperialismo, che ambiva a stabilire il primato del diritto diffondendo la cristianità». L’impero post-territoriale del dopo-Guerra Fredda, affermò Kristol non

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senza disgusto, si limitava a «offrire al mondo un’economia della crescita. Una società consumistica, elezioni [...] e un ethos secolar-edonista»; «una combinazione», questa, «cui era difficile resistere, ma parimenti difficile da rispettare nella sua volgarità populista»: un «imperium di sostanza morale minima». Dopo l’11 settembre, la missione imperiale poteva e doveva tornare a farsi globale, marziale, territoriale e altamente morale58. Queste invocazioni neoimperiali trovarono ricezione, sia pure parziale, nell’amministrazione. La campagna contro il terrorismo, che egemonizzò pratiche e discorso della politica estera statunitense, si mosse su due livelli, operativo e retorico. Una sintesi fu cercata nella dottrina per la sicurezza nazionale (The National Security Strategy of the United States, NSS), resa pubblica nel settembre del 2002. Il documento – la cui valenza simbolica non poteva essere sottostimata – condensava ed esplicitava alcuni degli assiomi basilari del nuovo unilateralismo massimalista ed eccezionalista: la sfiducia nel multilateralismo e nelle organizzazioni internazionali; l’inutilità delle tradizionali politiche di alleanze; la natura precipuamente politica della sfida dell’islamismo radicale; la possibilità di ricorrere ad azioni militari preventive contro soggetti, statuali e non, che potevano costituire un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. L’obiettivo di lungo periodo degli USA, si affermava in uno dei più celebri passaggi della NSS, doveva essere quello di creare «un equilibrio di potenza a favore della libertà». Uno slogan, questo, che combinava in forma roboante, ancorché contraddittoria, potenza e missione, forza e principi, interessi e ideali59. Le ripercussioni operative furono diverse. Rubricata come una guerra, e combattuta di conseguenza, la campagna contro il terrorismo dell’amministrazione Bush fu subito criticata da molti alleati degli USA, che chiedevano invece di trattarla alla stregua di un’azione di polizia e d’intelligence, intensificando in tali ambiti la collaborazione, il dialogo e le iniziative congiunte. Le tensioni tra gli USA e alcuni paesi europei, Francia e Germania su tutti, si fecero più aspre nel corso del 2002. Esse furono alimentate dall’emergere (e dal ritorno) di reciproche ed esclusive presunzioni di eccezionalismo, in Europa e negli Stati Uniti, che informavano un discorso rispettivamente antiamericano e antieuropeo destinato a condizionare il dibattito pubblico sulle due sponde dell’Atlantico. Negli USA erano assai popolari le tesi che contrapponevano un’Europa femminea e postmoderna, in-

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capace di confrontarsi con le aree di crisi premoderne diffuse nel mondo, a un’America marziale e virile, unico soggetto capace di gestire, se necessario con la forza, l’ordine mondiale. In Europa si affermava forte la rappresentazione edenica di un supposto modello europeo, civile e pacifico, da offrire a tutto il mondo in contrasto e in competizione con quello proiettato dagli Stati Uniti60. Lo scontro fu particolarmente forte su cosa fare in Medio Oriente, l’area che generava il mostro del terrorismo fondamentalista che aveva colpito gli Stati Uniti. Per i neoconservatori, gli attacchi terroristici confermavano posizioni (e critiche) che essi avevano avanzato già negli anni Settanta e Ottanta: su tutte l’idea che in assenza di una profonda trasformazione culturale e politica della regione medio-orientale – e la piena diffusione dell’egemonia occidentale – prima o poi la repressione politica dei regimi autoritari alleati degli USA avrebbe facilitato la diffusione di forme radicali di protesta, che si sarebbero potute rivoltare contro lo stesso Occidente. Per i neoconservatori, nessun equilibrio geopolitico, nessuno spregiudicato accordo con forze antimoderne, antioccidentali e antisemite poteva garantire la stabilità del Medio Oriente e, più di tutto, l’accesso alle immense risorse petrolifere della regione quanto una sua profonda palingenesi e una sua conseguente interiorizzazione del modello di libertà dell’Occidente61. Nel suo discorso annuale sullo stato dell’Unione del gennaio 2002 Bush aveva denunciato la presenza di un’«asse del male» – composto da Iran, Iraq e Corea del Nord – i cui membri minacciavano la sicurezza degli Stati Uniti e ambivano a dotarsi di armi di distruzione di massa. Il discorso fu la salve che apriva la campagna dell’amministrazione statunitense Bush per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Indebolito da più di un decennio di embargo e da una capacità amministrativa e di difesa limitata alla zona centrale del paese, il regime iracheno rappresentava ovviamente l’obiettivo più facile tra quelli, potenziali, indicati da Bush nel suo discorso. Secondo il governo statunitense, le motivazioni formali per intraprendere un’azione militare erano due: la volontà del regime iracheno di dotarsi di armi non convenzionali e la sua frequente violazione delle risoluzioni ONU che imponevano a Baghdad di smantellare i propri arsenali e di collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite. A queste se ne aggiungevano però altre due, che l’amministrazione esplicitò a singhiozzo nel corso del 2002-03: l’imperativo etico di porre

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termine a un regime brutale, in continuità con la dottrina dell’interventismo umanitario del decennio precedente, e la convinzione che il rovesciamento di Hussein e la creazione di una democrazia di stampo occidentale potesse rappresentare il primo tassello di un processo di alterazione politica e culturale complessiva degli assetti medio-orientali62. La seconda parte del 2002 fu caratterizzata dalla discussione sul possibile intervento militare in Iraq. Sollecitato in tal senso dall’alleato britannico e dal Dipartimento di Stato, Bush decise di passare attraverso le Nazioni Unite per cercare di ottenere un’investitura di legittimità (e di legalità) a un intervento in larga misura già deciso. Nell’autunno, il Consiglio di sicurezza approvò una risoluzione che imponeva all’Iraq di accettare nuove ispezioni, minacciando «serie conseguenze» in caso di mancata collaborazione. Si trattava però di una soluzione tampone, che non indicava quali sarebbero state queste conseguenze. Pochi mesi più tardi, e dopo il tentativo fallito di ottenere una seconda risoluzione, gli Stati Uniti decidevano di procedere all’invasione dell’Iraq, appoggiati dalla Gran Bretagna, dall’Australia e da alcuni altri paesi, ma osteggiati in questa scelta da gran parte della comunità internazionale e dell’opinione pubblica mondiale. In poche settimane le truppe statunitensi raggiungevano Baghdad e Bush dichiarava concluse le operazioni militari. Pianificato con superficialità e pressappochismo a dir poco sconcertanti, il dopoguerra si rivelava però assai diverso da quello immaginato e mostrava tutte le deficienze analitiche e operative del grand design di Bush. Più di tutto, esso evidenziava la natura contraddittoria dell’iperpotenza statunitense. La prevista pacificazione dell’Iraq non si avverava; l’esercito statunitense era costretto a fronteggiare una brutale guerriglia, nella quale convergevano fondamentalisti islamici ed elementi del vecchio regime e che era appoggiata esternamente dall’Iran; l’Iraq precipitava rapidamente nel baratro della guerra civile. Gli Stati Uniti erano costretti a un impegno militare assai maggiore di quello previsto, che obbligava i soldati a turnazioni sempre più frequenti, all’utilizzo della Guardia nazionale e, addirittura, a forme di coscrizione surrettizia, attraverso il richiamo dei riservisti. La potenza statunitense dimostrava di non avere un numero sufficiente di uomini da mettere sul campo, mentre strategie e comandanti cambiavano in continuazione e l’opinione

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pubblica statunitense, che aveva inizialmente appoggiato il conflitto, cominciava a ricredersi63. Il numero di vittime statunitensi e irachene cresceva a dismisura. Le prime, ad oggi, sono circa 4.000. Le stime, assai aleatorie, delle seconde variano da 60.000 a 500.00064. Bush era rieletto di misura nel 2004, facendo leva sui temi della sicurezza nazionale e sulla paura, ancora assai diffusa, del terrorismo. Dopo il 2004 la sua popolarità però crollava, in concomitanza con il cronicizzarsi della crisi irachena e con la crescente denuncia delle modalità con le quali era condotta l’azione antiterroristica, sul piano interno così come su quello internazionale. Come già in passato, il trade-off tra sicurezza e libertà e il parziale sacrificio della seconda in nome della prima risultavano tollerabili per un periodo delimitato e circoscritto. All’acuirsi delle difficoltà in Iraq corrispondeva una critica vieppiù intensa delle pratiche utilizzate nell’incarcerazione e negli interrogatori dei presunti terroristi, che non rispettavano le più elementari regole della Convenzione di Ginevra, così come delle forme intrusive di controllo esercitate sui cittadini statunitensi in nome della lotta al terrorismo65. Con una vera e propria eterogenesi dei fini, l’obiettivo di trasformare in profondità il Medio Oriente lasciava spazio a quello di ripristinare un minimo di ordine nella regione, contenendo le finestre di opportunità che l’intervento in Iraq aveva aperto ad alcuni storici avversari degli Stati Uniti, l’Iran su tutti. Tutto ciò imponeva una rimodulazione dell’unilateralismo massimalista del periodo 2002-04 e il ritorno a pratiche più sobrie di gestione della diplomazia internazionale. Una richiesta, questa, che Bush e il nuovo segretario di Stato, Condoleezza Rice, hanno almeno in parte accolto durante il secondo mandato dell’amministrazione. Dal 2005 si è quindi assistito a uno sforzo di attenuare le asprezze e gli eccessi del passato, cui è corrisposto un tentativo di promuovere iniziative multilaterali in alcuni teatri di crisi (ad esempio rispetto ai programmi nucleari dei due altri componenti dell’originario «asse del male», Iran e Corea del Nord) e la progressiva marginalizzazione dei neoconservatori, che rimangono però ancora influenti. Una parziale ritirata si è avuta anche a livello discorsivo e dottrinale. Gli eccessi retorici del 200204 sembrano appartenere a un’epoca passata. La nuova dottrina di sicurezza nazionale, resa pubblica nel marzo 2006, è assai più soft, moderata e per certi aspetti anodina rispetto a quella del 2002. Non

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contiene nessun riferimento a «equilibri di potenza per la libertà» e pone molta più attenzione all’interdipendenza e al tema della collaborazione internazionale66. E questo ci riporta alle considerazioni sulla natura dell’iperpotenza statunitense nell’era dell’interdipendenza. Vi sono varie motivazioni che aiutano a comprendere le ragioni della svolta post-11 settembre così come il suo fallimento. Il senso di paura e vulnerabilità prodotto dagli attentati – certamente poco compreso dal mondo e dall’Europa in particolare – ha finito per alimentare negli USA la richiesta di risposte radicali e visionarie, che solo i neoconservatori sembravano offrire. La débâcle irachena era francamente difficile da immaginare, anche per chi osteggiava l’intervento e denunciava i limiti della visione strategica che vi sottostava. Per quanto radicale, infine, il messianesimo della proposta neoconservatrice e della grand strategy di Bush rimandava a una filiera dalle matrici antiche: adottava, esasperandole, categorie e pratiche discorsive del nazionalismo eccezionalista statunitense; provava a coniugare una volta ancora identità (il modello di libertà incarnato dagli USA), ideali (l’asserita responsabilità alla diffusione e universalizzazione di tale modello) e interessi (la funzionalità di questa universalizzazione alla sicurezza e alla leadership mondiale degli Stati Uniti). Nel farlo, riproponeva, aggiornato al XXI secolo, lo storico intreccio tra impero e libertà: il convincimento che solo l’espansione – nella fattispecie dell’egemonia degli Stati Uniti e della democrazia di mercato – potesse tutelare e consolidare la libertà repubblicana all’interno degli stessi Stati Uniti. Vi è quindi un legame strettissimo tra le forme, le pratiche e il discorso di Bush e le tradizioni di politica estera degli Stati Uniti67. Il dato sorprendente è rappresentato però dall’incapacità di Bush e dei suoi consiglieri di comprendere l’effettiva natura del sistema internazionale e, assieme ad essa, degli elementi che continuano a fare degli USA la potenza dominante sulla scena mondiale. L’incapacità, in altre parole, di ragionare con le categorie complesse dell’egemonia, entro le quali si era mosso con abilità crescente Clinton e con cui si sono dovuti confrontare in modi diversi tutti i presidenti statunitensi del XX secolo. Un’incapacità, questa, che ha prodotto la ricerca di un modello di «dominio senza egemonia» del tutto impraticabile nell’era dell’interdipendenza e ha finito per rendere la politica estera di Bush una delle più fallimentari nella storia degli Stati Uniti.

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Se questi fallimenti siano destinati a provocare (o accelerare) la fine della primazia statunitense è tornato a essere oggetto di discussione: appassionata, polarizzata e, non di rado, sterile e pretenziosa nelle sue ambizioni predittive68. Una misurazione oggettiva delle tante variabili che concorrono a definire la potenza di uno Stato rivela, oggi, che lo iato tra gli USA e qualsiasi possibile competitore è ancora immenso. Il ragionare con categorie esclusivamente statocentriche non permette ovviamente di cogliere le trasformazioni profonde e strutturali dell’ordine mondiale. Dimenticare, però, che gli Stati sono ancor oggi i soggetti primari delle relazioni internazionali finisce per produrre esercizi storici e teorici tanto affascinanti e popolari quanto deboli e velleitari. Il mondo globale e interdipendente è un mondo le cui caratteristiche sono state plasmate anche, se non soprattutto, dagli Stati Uniti e rimane oggi un mondo popolato da soggetti profondamente ineguali, al cui vertice risiedono gli stessi USA. Ma è al contempo un mondo che ha finito per erodere molti elementi della sovranità, creando reticoli di dipendenze mutue e plurime alle quali anche il soggetto egemone e dominante deve imparare a sottostare, pena il rischio, sempre presente, di una profonda destabilizzazione del sistema stesso.

XII OBAMA E I DILEMMI DELL’EGEMONIA STATUNITENSE Nel 2007-2008, l’indebolimento relativo e assoluto degli Stati Uniti sulla scena mondiale condizionò in modo rilevante il dibattito pubblico e politico statunitense. Il consenso interno su una politica estera attiva, interventista e globale andò in frantumi. A poco valsero le correzioni di rotta apportate da Bush durante il suo secondo mandato, quando Condoleezza Rice al dipartimento di Stato e Robert Gates a quello della Difesa cercarono di conferire maggiore cautela e realismo alla politica estera e di sicurezza del paese, e si modificò drasticamente corso d’azione in Iraq. Il giudizio su Bush e, per molti, sull’America era ormai dettato dagli eccessi politici e retorici del primo quadriennio presidenziale e dallo straordinario fallimento strategico rappresentato dall’intervento iracheno. L’impopolarità di Bush raggiunse picchi altissimi, dentro e fuori gli Stati Uniti. I sondaggi Gallup rivelarono che il tasso di approvazione dell’operato del presidente tra i cittadini statunitensi era sceso dal 72 al 29% in cinque anni, le stesse percentuali di alcuni dei presidenti meno amati dell’ultimo settantennio, come Richard Nixon e Harry Truman. Fuori dagli Stati Uniti, l’ostilità a Bush era ancora più marcata. Le rilevazioni annuali sullo stato delle relazioni transatlantiche del German Marshall Fund evidenziavano come laddove nel 2002 più del 60% degli intervistati avesse ritenuto «desiderabile» la leadership internazionale degli USA, nel 2008 questa percentuale si era quasi dimezzata, scendendo al 36%; sempre nel 2008 meno del 20% degli intervistati approvava l’operato dell’amministrazione Bush, contro il 38% di due anni prima. In alcune regioni del mondo, il Medio Oriente in particolare, l’impopolarità di Bush e degli Stati Uniti aveva a sua volta raggiunto livelli senza precedenti1.

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Ad alimentare questa impopolarità concorrevano tanto il discorso – scopertamente nazionalista ed eccezionalista – adottato dal presidente quanto le pratiche di una «guerra al terrore», i cui simboli ultimi erano rappresentati per molti dalle violenze esercitate dai soldati statunitensi nel carcere iracheno di Abu Grahib, dalle pratiche arbitrarie di arresto e incarcerazione di presunti terroristi deportati poi nella prigione di Guantanamo, da forme aggressive d’interrogazione degli stessi che di fatto costituivano una forma di tortura, dal restringimento, infine, di alcune libertà civili che questa «guerra al terrore» imponeva di accettare. L’infinita campagna anti-terroristica intrapresa dopo il 2001 sembrava stesse corrompendo e abbruttendo la stessa democrazia statunitense che per fronteggiare il nuovo, inafferrabile nemico appariva sempre più disposta a cedere proprie prerogative, tra cui il monopolio dell’esercizio della violenza, non di rado delegato a «contractors» privati2. Combinandosi con i primi, forti scricchiolii di un modello economico a sua volta contraddittorio e vulnerabile, questa impopolarità di Bush e della sua «guerra al terrore» alimentava la richiesta dell’opinione pubblica di riportare moderazione, cautela e, soprattutto, realismo nell’azione internazionale degli Stati Uniti: ripristinando buoni rapporti con i tradizionali partner europei; abbandonando impraticabili utopie di palingenesi geopolitica e culturale del Medio Oriente; concentrandosi su alcune pericolose asimmetrie delle relazioni internazionali contemporanee, in particolare quelle che contraddistinguevano la relazione tra Cina e Stati Uniti. Questa richiesta di realismo favoriva i politici – repubblicani e democratici – che negli anni precedenti si erano distinti per le loro critiche alla filosofia e ai contenuti della politica estera bushiana. Lo si vide bene nella campagna per le elezioni presidenziali del 2008. Tra i repubblicani emerse il senatore dell’Arizona John McCain, già avversario di George W. Bush nelle primarie del 2000, che aveva sì sostenuto l’intervento in Iraq, ma ne aveva criticato le modalità d’attuazione e si era inizialmente opposto alle pratiche spregiudicate utilizzate nell’azione contro il terrorismo. All’interno del fronte democratico, la figura nuova fu rappresentata dal giovane e inesperto senatore dell’Illinois, Barack Hussein Obama. Uomo di grande erudizione e vaghi propositi, Obama rappresentava per molti aspetti l’antitesi del patrizio Bush: un afro-americano con un brillante curriculum universitario e un’altrettanto improbabile biografia, cresciuto dalla so-

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la madre e giunto infine a Chicago dopo una peregrinazione che lo aveva portato alle Hawaii, in Indonesia, in California e ad Harvard3. Obama conquistò a sorpresa la nomination democratica, sconfiggendo la favoritissima Hillary Clinton. Il successo di Obama fu dovuto principalmente alla sua precoce opposizione all’intervento in Iraq. Diversamente da Clinton e da altri partecipanti alle primarie democratiche del 2008 – come John Edwards e Joe Biden – Obama non era ancora senatore quando, nell’ottobre del 2002, le due camere del Congresso erano state chiamate a votare la risoluzione congiunta 114, con la quale si autorizzava il presidente a «usare le Forze Armate degli Stati Uniti», qualora ciò fosse «necessario e appropriato», per «difendere gli Stati Uniti dalla continua minaccia rappresentata dall’Iraq» e per «imporre il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relative all’Iraq»4. Contro la risoluzione votarono 23 senatori su 100, in gran parte membri più anziani e senza ambizioni presidenziali, come i democratici Barbara Boxer, Robert Byrd, Ted Kennedy, Patrick Leahy e, unico repubblicano, Lincoln Chafee. Obama denunciò il voto in occasione di una manifestazione organizzata a Chicago da associazioni contrarie all’intervento. «Non sono contrario a tutte le guerre», affermò allora il futuro presidente. «Ciò a cui sono contrario è una guerra stupida. Una guerra sconsiderata. Ciò a cui mi oppongo è il cinico tentativo di Richard Perle, Paul Wolfowitz e altri guerrieri salottieri e del fine settimana [...] di farci ingoiare le loro agende ideologiche, senza preoccuparsi dei costi in termini di vite umane e di sofferenza [...] ciò a cui sono contrario [...] è una guerra fondata sulla passione e non sulla ragione, sulla politica e non sui principi»5. Nei mesi successivi, Obama si pronunciò raramente sull’intervento in Iraq e il discorso di Chicago fu ripreso solo quando, a partire dal 2004, le difficoltà statunitensi in Iraq si fecero più evidenti. I partecipanti alle primarie per la scelta dei candidati presidenti tendono sempre ad assumere posizioni più nette e radicali. Si tratta infatti di un voto che coinvolge per la maggior parte elettori schierati e motivati. Nel 2007-2008 l’elettorato del partito democratico era in larga maggioranza contro l’intervento in Iraq: il 90% dei liberal democratici lo considerava un errore (nell’elettorato nella sua interezza la percentuale scendeva al 60%). Nonostante la parziale stabilizzazione del teatro iracheno prodotta dalla nuova strategia del generale Petraeus, all’inizio delle primarie, quasi il 50% degli elettori re-

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gistrati come democratici indicava nella guerra in Iraq la questione più importante che ne avrebbe determinato le scelte di voto (la seconda in ordine d’importanza, con il 22%, era la sanità)6. Obama riuscì non solo a parlare alla pancia del suo partito, ma anche a intercettare segmenti diversi e ora più rilevanti dell’elettorato statunitense, in particolare tra i giovani. Conquistata la nomination democratica, attenuò di molto i toni pacifisti che lo avevano contraddistinto durante le primarie, facendo proprio un discorso sobrio e realista che recepiva, appunto, la richiesta di moderazione e pragmatismo di una maggioranza del paese. Ribadì, però, nel proprio programma elettorale e nei propri discorsi, la volontà di riaprire un dialogo multilaterale su temi fondamentali per molti alleati degli Stati Uniti, il cambiamento climatico e la non-proliferazione nucleare su tutti. E, pur incarnando come pochi altri l’esperienza del «sogno americano», rigettò esplicitamente la retorica nazionalista che aveva dominato il discorso pubblico negli anni di Bush: «credo nell’eccezionalismo americano così come sospetto un britannico creda nell’eccezionalismo britannico e un greco creda nell’eccezionalismo greco», avrebbe affermato con understatement Obama in risposta alla domanda di un cronista7. La popolarità di Obama fuori dagli Stati Uniti fu da subito immensa. A Berlino, 200.000 persone accolsero il candidato Obama, il nuovo «Messia americano» secondo la rivista tedesca «Der Spiegel». Una vera e propria «Obamania» si diffuse nel mondo. Vari sondaggi evidenziavano questa infatuazione. Nei principali paesi europei, percentuali tra il 70 e il 90% degli intervistati preferivano Obama a McCain. Secondo le rilevazioni annuali del German Marshall Fund, il 47% degli europei credeva che in caso di elezione di Obama le relazioni tra Stati Uniti ed Europa sarebbero migliorate; solo l’11% che ciò sarebbe avvenuto in caso di vittoria di McCain. Obama, affermò la giornalista Anne Applebaum, era «l’americano più popolare in Europa dai tempi di Elvis»; «un’arma di attrazione di massa», nella celebre definizione dello storico britannico Timothy Garton Ash; una «rockstar della politica americana», per i due giornalisti italiani, Guido Moltedo e Marilisa Palumbo8. In parte, questa straordinaria popolarità derivava dal rigetto di Bush e delle sue politiche. Il semplice fatto di non essere Bush giovava al giovane senatore dell’Illinois. Agivano però altri fattori, che tendevano a occultare la moderazione della piattaforma di politica

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estera infine offerta da Obama. Vi erano oggettive convergenze politiche tra Obama e la gran parte dei governi europei, specialmente su temi – l’ambiente e la pace – particolarmente sentiti in Europa, che anzi sembravano definire una nuova, ancorché embrionale, identità politica europea. Ma vi era soprattutto la capacità di Obama di riattivare un mito, quello americano, di cui prematuramente si era decretata la fine. Obama simboleggiava non solo un’America desiderosa di tornare nel mondo, dopo gli anni della separazione unilaterale di Bush: personificava credibilmente un’America che tornava anche a farsi mondo, e a essere percepita come tale. Il presidente è, negli Stati Uniti, l’unica carica elettiva nazionale. Incarna e rappresenta l’unità della nazione. È lo specchio, simbolico, nel quale l’America si guarda, immagina e definisce. Con la sua biografia – meticcia e cosmopolita – Barack Hussein Obama rappresentava e proiettava un’«America-mondo» che preservava ancora uno straordinario magnetismo. Facendolo, riattivava uno degli elementi fondamentali del primato statunitense: quel soft power che da sempre accompagna e integra altri elementi basilari (e certo più tangibili) della potenza statunitense9. L’impopolarità di Bush, il deflagrare della più pesante crisi economica dai tempi della grande depressione e, anche, l’abile campagna elettorale dei democratici concorsero alla netta vittoria elettorale di Obama. Alle elezioni del novembre 2008, Obama ottenne il 53% dei voti e 365 grandi elettori su 538. Il partito democratico consolidò il suo controllo della Camera e del Senato, con maggioranze che apparvero allora larghissime (59 a 41 al Senato; 257 a 178 alla Camera). I democratici conquistarono la cintura industriale del Midwest, inclusi Stati cruciali per avere una maggioranza elettorale come l’Ohio e la Pennsylvania; vinsero in Stati dell’ovest come il New Mexico e il Colorado; ottennero importanti Stati del sud, tra i quali Virginia e North Carolina. La mutata geografia elettorale era solo uno dei fattori che rendevano epocali le elezioni del 2008, e di certo non il più rilevante. Per la prima volta nella storia, un afroamericano accedeva alla più alta carica del paese. Per la prima volta dal 1960, un senatore era eletto presidente (dopo di allora erano stati eletti solo governatori); e sempre nel 1960 era stato eletto per l’ultima volta un presidente che non proveniva dalla Sunbelt (John Kennedy, del Massachusetts), la cintura di Stati meridionali che va dalla California alle due Caroline e che negli anni ha finito per dominare

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– politicamente, economicamente e demograficamente – gli equilibri regionali negli Stati Uniti10. Tanti fattori convergevano nel rendere storiche le elezioni del 2008 e nell’indurre molti a presentarle come un vero e proprio spartiacque: come un riallineamento elettorale destinato a trasfigurare il volto dell’America e ad aprire una fase di dominio del partito democratico; come «la morte della coalizione» conservatrice «reaganiana», affermò lo studioso John Kenneth White, che aveva dominato la scena nazionale per quasi trent’anni11. Si trattava di un giudizio affrettato, come avrebbero evidenziato le immediate difficoltà politiche di Obama e l’esito delle successive elezioni di mid-term del 2010, quando i repubblicani riacquisirono la maggioranza alla Camera e Obama subì una pesantissima sconfitta elettorale. Soprattutto, si trattava di un giudizio che rivelava le aspettative, esagerate e in ultimo irrealizzabili, generate dall’elezione di Obama. Erano aspettative alle quali aveva contribuito lo stesso Obama, con una irrealistica promessa di radicale cambiamento, incapsulata nello «Yes, We Can», slogan semplice e potente della sua campagna elettorale. Ed erano aspettative difficilmente soddisfacibili in un contesto nel quale si stavano significativamente riducendo le leve a disposizione degli Stati Uniti. Per un pezzo non marginale della sua coalizione elettorale, Obama si rivelò presidente troppo moderato e incline al compromesso. Per chi l’avesse voluta vedere, si trattava di una sorpresa relativa. Obama era sempre stato politico pragmatico: lo mostravano la sua attività politica in Illinois, i suoi scritti, il suo costante invito a superare le divisioni politiche e a collaborare per il bene del paese. E lo mostravano anche le sue posizioni sulle questioni di politica estera. Che rimandavano per molti aspetti al moderato internazionalismo liberal degli anni di Clinton e che non rigettavano affatto la possibilità di utilizzare lo strumento militare laddove si riteneva che le circostanze lo imponessero12. La critica all’intervento in Iraq e la promessa di un rapido disimpegno era anzi bilanciata dalla sottolineatura della necessità di alzare la soglia dell’impegno nell’altro fronte di guerra, quello afghano. Alla guerra «inutile» intrapresa in Iraq, Obama ha sempre contrapposto, da candidato e poi da presidente, la guerra «giusta» e «necessaria» che gli Stati Uniti stanno combattendo in Afghanistan. Una posizione, questa, che convince sempre meno l’opinione pub-

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blica statunitense e quella democratica in particolare, come emerge in vari sondaggi che indicano tra gli elettori del partito del presidente tassi sempre più alti di disapprovazione dell’operato dell’amministrazione in merito all’Afghanistan, paragonato ormai da molti commentatori al possibile «Vietnam» di Obama13. Già nel passaggio tra le primarie e il voto di novembre Obama aveva di molto attenuato le sue promesse di alterare drasticamente il corso dell’azione internazionale di Washington. Una posizione poi confermata nella composizione dell’amministrazione e nella scelta degli uomini e delle donne che avrebbero condotto la politica estera e di sicurezza del paese. Figure come il segretario di Stato Hillary Clinton, l’ambasciatrice all’ONU Susan Rice o il plenipotenziario per l’Afghanistan e il Pakistan, Richard Holbrooke, espressioni di un interventismo liberal osteggiato da una parte della base elettorale di Obama; ovvero figure che avevano avuto ruoli anche nella seconda amministrazione Bush, come il segretario della Difesa, Robert Gates, che Obama decise di confermare14. Obbligate o meno fossero queste scelte esse rivelavano le costrizioni, tanto interne quanto internazionali, alle quali la nuova amministrazione doveva sottostare, e i limiti che queste ponevano alla sua libertà d’azione. Negli Stati Uniti il rigetto degli anni di Bush, per quanto marcato, non si estendeva a tutti gli aspetti della sua politica estera e di sicurezza. Per una parte del paese, le pratiche utilizzate per fronteggiare la minaccia terroristica erano state tanto necessarie quanto utili. La rottura radicale invocata in tale ambito dalla sinistra democratica, oltre che da gran parte dell’opinione pubblica internazionale, risultava oggettivamente difficile, come si sarebbe visto nella discussione sulla possibile chiusura del carcere speciale di Guantanamo, promessa da Obama ma non ancora portata a termine, principalmente a causa della forte opposizione interna. Un’opposizione, questa, che si è nei mesi estesa ad altri ambiti sui quali si è concentrata la politica estera di Obama, la non proliferazione nucleare e le questioni ambientali in particolare. Su questi due temi Obama ha investito moltissimo, correggendo in modo rilevante la posizione assunta dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio e individuando in essi gli ambiti privilegiati della nuova diplomazia multilaterale e collaborativa promossa dagli Stati Uniti. «Con i vecchi amici e gli avversari del passato» – ha affermato Obama in un passaggio centrale del suo discorso inaugurale del gennaio 2009 – «lavoreremo

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senza sosta per ridurre la minaccia nucleare e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda»15. Per quanto riguarda le armi nucleari, Obama ha presentato un’importante revisione della strategia nucleare statunitense (la «Nuclear Posture Review»), nella quale si fissano condizioni più stringenti al possibile uso di armi nucleari e ci s’impegna a ridurre il loro ruolo nelle future strategie di sicurezza degli Stati Uniti. Al contempo, nell’aprile del 2010 è stato firmato un nuovo accordo con l’altro gigante nucleare, la Russia, per un’ulteriore riduzione dei rispettivi arsenali da attuarsi nei prossimi sette anni. Questo attivismo è stato accompagnato da una denuncia della minaccia portata dalle armi nucleari e dalla loro proliferazione. Nella retorica obamiana il nucleare, e i pericoli di cui si fa portatore, è anzi divenuto uno dei simboli più forti dell’interdipendenza che lega, in un abbraccio potenzialmente mortale, tutti i soggetti dell’attuale sistema internazionale. In uno dei discorsi più alti di Obama, quello di Praga del maggio 2009, il presidente ribadì «l’impegno dell’America a cercare la pace e la sicurezza di un mondo senza armi nucleari» e promise la graduale riduzione dell’arsenale statunitense. Nello stesso discorso, però, Obama accostò di nuovo il tema degli armamenti a quello della difesa dell’ambiente. «Per proteggere il pianeta», affermò Obama, è necessario «cambiare il modo in cui usiamo l’energia [...] confrontarci con il cambiamento climatico ponendo termine alla dipendenza dai combustibili fossili»16. Si trattava di un cambiamento assai forte rispetto agli anni di Bush, quando gli Stati Uniti non avevano ratificato il trattato di Kyoto e assunto una posizione assai scettica nei confronti dei tentativi di ridurre le emissioni di gas serra. Con Obama gli USA si trovarono al fianco dei partner europei alla conferenza sul cambiamento climatico di Copenhagen del dicembre 2009 e cercarono anch’essi d’introdurre meccanismi di controllo delle emissioni di gas serra (il cosiddetto sistema cap-and-trade). In entrambi i casi, però, Obama ha dovuto (e deve) fronteggiare forti resistenze interne, centrate sull’idea che accordi di questo tipo limitino la sovranità degli Stati Uniti, ne mettano in pericolo la sicurezza e ne condizionino la competitività economica. Il nuovo trattato sulle armi nucleari con la Russia deve ora passare il vaglio di una ratifica al Senato che non è affatto scontata e contro la quale si sono già pronunciati molti politici e commentatori conservatori, che lo hanno presentato come una forma di «disarmo unilaterale» da par-

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te degli Stati Uniti17. A sua volta, la nuova legge Waxman-Markey sulle emissioni di gas serra non è stata ancora approvata dal Senato; le elezioni di mid-term del novembre 2010 hanno visto la sconfitta di molti deputati democratici che avevano votato a favore del progetto; il nuovo presidente della Camera, il repubblicano dell’Ohio John Boehner, si proclama ferocemente ostile a questa legislazione e vi è il rischio concreto che essa non venga adottata. A queste resistenze interne alla parziale svolta obamiana, si sono aggiunte quelle manifestatesi fuori dagli Stati Uniti. La pesante crisi economica e i fallimenti di Bush hanno certo contribuito a limitare la capacità statunitense di condizionare gli affari mondiali. A monte agiscono però fattori di più lungo periodo, legati alle modalità stesse con le quali gli USA hanno ripensato e attuato la loro leadership mondiale nell’ultimo trentennio. Si manifesta, in altre parole, la natura contraddittoria e in ultimo fragile del modello di egemonia costruito dall’America dopo la complessa transizione degli anni Settanta. Contraddizioni che connotano tutti i tre pilastri di tale modello: quello economico, quello militare e quello ideologico. Da un punto di vista economico, l’elemento fondamentale di tale egemonia è stato rappresentato da un dollaro forte, capace di adempiere a diverse funzioni. Un dollaro sopravvalutato permetteva di acquisire materie prime a basso costo, condizione vitale per una crescita a inflazione contenuta. Faceva della moneta statunitense la principale valuta di riserva nel mondo, garantendo inoltre l’afflusso negli USA di capitali necessari per gli investimenti e per sostenere un debito cresciuto esponenzialmente nell’ultimo trentennio (dai mille miliardi di dollari del 1981 ai quasi quattordicimila attuali, circa il 90% del PIL contro il 33% di trent’anni fa). Rendeva tollerabili i deficit interni ed esterni. Consentiva agli Stati Uniti di non essere soggetti alla «risposta ‘disciplinatrice’ dei mercati finanziari internazionali». Puntellava, questo dollaro forte, l’«impero dei consumi» americano, permettendo di soddisfare l’insaziabile capacità di assorbimento di un mercato americano vieppiù indispensabile per la crescita economica del resto del mondo18. Attraverso il dollaro forte gli USA hanno costruito una forma di «egemonia tramite interdipendenza» basata su alti consumi, livelli d’indebitamento (pubblico e privato) crescenti, aumenti esponenziali del deficit interno e della bilancia delle partite correnti (transazioni di merci e servizi più interessi e dividendi del debito estero). Si

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trattava però di una condizione in ultimo insostenibile. Gli eccessivi squilibri della bilancia esterna hanno posto il dollaro sotto una pressione crescente, determinandone una rilevante svalutazione sia rispetto all’euro sia rispetto allo yen. L’amministrazione Obama ha cercato di pilotare questo indebolimento, auspicando che esso si estendesse anche al renmimbi cinese, i cui tassi di cambio sono rigidamente controllati dal governo. Lo ha fatto ritenendo che tale svalutazione sia l’unico modo per riequilibrare scompensi e asimmetrie non più sostenibili, ridurre le importazioni, aiutare così la bilancia commerciale e rendere meno vitali i crediti esteri, che hanno finanziato e finanziano il debito pubblico e privato negli Stati Uniti. Un dollaro più debole sottrae però una delle leve fondamentali del primato statunitense; impedisce al mercato statunitense di agire da «consumatore finale», come ha fatto negli ultimi decenni; diminuisce il potere di acquisto, in particolare di fondamentali materie prime; rende più difficile l’afflusso a bassi tassi di quei capitali che hanno lubrificato la crescita economica e le innovazioni tecnologiche negli USA; pone vincoli stringenti alle scelte macroeconomiche del paese. Un «impero dei consumi» abbisogna di una moneta forte; e nella storia nessuna grande potenza è riuscita a costruire la propria leadership senza una valuta ambita. È probabile non vi siano altre strade, oggi, a un indebolimento ulteriore del dollaro. E però, come proclama senza appelli lo storico Paul Kennedy, «un dollaro debole è un’America debole»19. La seconda criticità, invero la seconda contraddizione, è quella di cui soffre un altro pilastro della potenza statunitense: le armi. Le cifre su questo elemento del primato americano si sprecano. In termini assoluti, il bilancio del Pentagono è oggi comparabile quasi a quello del resto del mondo combinato. Secondo i dati di uno dei principali istituti di ricerca mondiali, lo Stockholm Peace Research Institute (SIPRI), quelle statunitensi costituiscono il 46,5% delle spese militari globali (seguono la Cina con il 6,6%, la Francia con il 4,2%, il Regno Unito con il 3,8% e la Russia con il 3,5%). In alcune specifiche categorie esistono ancora dei competitori, in particolare la Russia per quanto riguarda le testate nucleari. Il riarmo della Cina – i cui investimenti nella difesa sono più che triplicati nell’ultimo decennio – allarma inoltre molti esperti e politici statunitensi, che vi scorgono un tentativo di alterare gli equilibri di potenza regionali in Asia e di porre le condizioni per una sfida al chiaro predominio statunitense. Da un punto di vi-

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sta militare globale, però, lo scarto tra gli Stati Uniti e qualsiasi altro paese rimane immenso e senza precedenti nella storia. Se possibile i semplici indicatori quantitativi non rendono giustizia a tale primato: per quanto impressionanti, ne occultano infatti l’effettiva portata. La supremazia militare statunitense diviene ancor più evidente laddove si prende in considerazione il gap tecnologico che esiste oggi tra gli USA e il resto del mondo. Gli Stati Uniti controllano più della metà dei satelliti militari; continuano a investire come nessun altro in ricerca e sviluppo destinati ad applicazioni militari; dominano i mari grazie all’incontrastato primato della loro flotta di sottomarini e portaerei nucleari; dispongono di una rete di basi militari globale; sono sempre all’avanguardia nell’utilizzo di nuove tecnologie, come evidenziano le missioni dei sofisticati droni (aerei privi di pilota e teleguidati) in Pakistan e Afghanistan. Ancora oggi vale, quindi, quanto Paul Kennedy scrisse nel 2002: «non è mai esistito nulla come questa disparità di potenza; nulla. Ho rivisto tutte le statistiche degli ultimi 500 anni sulle spese della difesa comparate e sul personale militare [...] nessun’altra nazione nella storia si avvicina»20. Eppure questa determinante della potenza statunitense, la più rilevante e tangibile tra le tante di cui gli USA dispongono, contiene anch’essa varie contraddizioni che ne erodono la sostenibilità e ne limitano la spendibilità, diplomatica e militare. Essa ha contribuito in modo decisivo al deterioramento delle finanze pubbliche, con cui oggi Obama è chiamato a fare i conti. Solo nel periodo clintoniano vi fu una significativa riduzione delle spese militari che – combinata con un lieve aumento delle tasse e un’impetuosa crescita economica – permise un temporaneo rientro dal deficit. Scelte, quelle di Clinton, pesantemente denunciate dal fronte repubblicano, che lo accusò di avere reso il paese più debole e vulnerabile. Questa critica divenne ancor più intensa dopo l’11 settembre e fu usata per giustificare una forte espansione del bilancio della difesa, passato da 380 a 660 miliardi di dollari tra il 2001 e il 2009. Una cifra non più sostenibile e contro la quale si scagliano anche esponenti repubblicani, soprattutto tra i cosiddetti libertarian del Tea Party, per i quali l’imponente bilancio per la difesa rappresenta una delle manifestazioni più tangibili degli sprechi di uno stato che spende senza freni o controlli. Uno stato che, in termini di efficienza militare e capacità bellica, può però sfruttare solo una percentuale minima di quanto investe. Perché la gran parte dell’onerosissima panoplia high tech di cui Washington di-

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spone è del tutto inutile in guerre di tipo asimmetrico, quali quelle combattute oggi dagli USA (a cosa servono giganteschi sottomarini nucleari contro Al Qaeda?) Perché, soprattutto, la disponibilità del paese a sopportare i sacrifici umani e materiali provocati dalla guerra è inevitabilmente limitato, come per qualsiasi democrazia. L’11 settembre e il fervore patriottico che ne era conseguito avevano offerto a chi guidava allora il paese un nuovo, ampio capitale di disponibilità al sacrificio. Un capitale ora in larga misura esaurito: perché non illimitato; perché dopo quasi dieci anni di guerra il paese chiede una tregua; perché, infine, la sensazione diffusa è che questo capitale sia stato sperperato in conflitti inutili se non controproducenti. Anche per questo, l’iperpotenza militare americana è sempre più incapace di combattere quelle guerre per la cui preparazione spende miliardi di dollari. E deve quindi appaltare ad altri l’esercizio di alcune funzioni militari, delegando a privati compiti delle proprie forze armate, come si è visto bene in Afghanistan e ancor più in Iraq21. La terza e ultima contraddizione è quella che per convenienza potremmo definire ideologica. Il primato statunitense è storicamente poggiato su un doppio consenso – fuori e dentro gli Stati Uniti – sulle scelte di politica estera delle diverse amministrazioni e il discorso che le accompagnava e giustificava. Questi due consensi si sono fatti però negli anni più difficili da preservare e conciliare. A partire soprattutto dai primi anni Ottanta, la mobilitazione dell’opinione pubblica interna a sostegno di una politica estera pro-attiva, globale e assai costosa è stata promossa adottando una retorica spesso scopertamente nazionalista. Nel mondo, l’egemonia degli USA si è sviluppata attraverso la capacità sia di fare leva sullo straordinario afflato mitopoietico del modello statunitense sia di guidare consensualmente la comunità internazionale, se necessario accomodando le richieste degli altri soggetti di tale sistema22. Il complicato equilibrio tra questi due consensi è divenuto sempre più fragile e precario. Negli Stati Uniti si è sviluppata una ostilità, profonda ed elettoralmente pagante, verso le grandi organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. Vari fattori vi hanno concorso: la convinzione che esse limitino la sovranità del paese; la riluttanza, in parte fisiologica, dell’ultima superpotenza rimasta ad accettare vincoli e costrizioni alla propria libertà d’azione; il rifiuto di dialogare e mediare con soggetti statuali ostili agli USA o che si ritiene non rispettino standard minimi di tutela dei diritti umani e di

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garanzia delle libertà politiche e civili. Famosa, qualche anno fa, fu la dichiarazione di John Bolton, che nel 2005 George Bush avrebbe nominato ambasciatore all’ONU. Secondo Bolton «Non esiste[va] una cosa come le Nazioni Unite»; vi era invece una «comunità internazionale che» doveva «essere guidata dall’unica potenza rimasta al mondo, gli Stati Uniti»23. Fuori dagli Stati Uniti, questo tipo di discorso – e le scelte unilaterali che ne sono talora conseguite – preoccupa, indispone e spaventa. Alimenta la convinzione, talora corretta, spesso esagerata, che gli USA riescano sempre a imporre le proprie posizioni e la difesa dei propri interessi. Nutre un anti-americanismo dalle matrici antiche, ma tornato a farsi forte e popolare nell’ultimo decennio. In ultimo, erode il consenso attorno a un’egemonia statunitense declinata in modo assai rozzo e unidimensionale, come avvenne durante il primo mandato di Bush24. Si tratta di contraddizioni che Obama ha ereditato e con le quali ha provato almeno in parte a confrontarsi, nella consapevolezza dei vincoli che esse pongono all’azione internazionale del paese. Sul piano interno, come si è visto, le aperture multilaterali di Obama sono state spesso rigettate, così come i suoi progetti di smantellare alcuni pezzi dello stato d’emergenza costruito negli anni di Bush in nome della lotta al terrore. Nel dicembre del 2009 un sondaggio Gallup mostrava ad esempio come il 65% degli americani fosse contrario alla chiusura del carcere di Guantanamo e al trasferimento negli USA di una parte dei suoi detenuti. Pochi mesi prima, sempre un sondaggio Gallup rivelò come una chiara maggioranza degli intervistati (il 55%) riteneva che l’utilizzo «di tecniche d’interrogazione dure di sospetti terroristi» fosse «giustificata» e che solo il 36% la considerasse invece «non giustificata». La richiesta di cambiamento proveniente dall’opinione pubblica s’indirizzava in varie direzioni, ma toccava meno alcuni degli ambiti che maggiormente avevano sconcertato il mondo durante le due presidenze Bush25. Una diplomazia multilaterale forte e credibile richiede leve e una credibilità di cui gli Stati Uniti non sembrano oggi disporre, come si è visto in due dei dossier più complessi per l’amministrazione: il nucleare iraniano e il processo di pace israelo-palestinese. In entrambi i casi, Obama ha apportato delle rilevanti correzioni di rotta, cercando di rilanciare i negoziati tra Israele e l’autorità nazionale palestinese e tendendo inizialmente la mano al regime iraniano, nell’au-

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spicio di rafforzare al suo interno il fronte più moderato e aperto al dialogo. Le due iniziative si sono però scontrate con la rigidità degli interlocutori locali, accresciuta dalla condizione di debolezza, percepita e reale, degli Stati Uniti e dalla convinzione che la potenza che fino a qualche anno fa appariva indispensabile in tutti i teatri di crisi non sia oggi più tale. L’interminabile negoziato sul nucleare iraniano pare logorare l’amministrazione e la sua credibilità. Come del resto il tentativo di riattivare il processo di pace in Medio Oriente che – per la indisponibilità dei soggetti coinvolti, i condizionamenti politici interni agli USA e l’intrattabilità di alcuni dei contenziosi tra le due parti – sembra riecheggiare altre iniziative diplomatiche fallimentari del recente passato. Questa debolezza, degli USA e dell’amministrazione Obama, è inoltre emersa in modo eclatante in Afghanistan. Per convinzione e, forse, per iniziale convenienza elettorale, Obama ha trasformato la guerra in Afghanistan nella sua guerra; nel farlo ha legato le sorti politiche della sua amministrazione a quelle dell’intricato conflitto afghano. L’Afghanistan, come del resto l’Iraq, ha però rivelato tutti i limiti e le contraddizioni della variabile militare della potenza statunitense. In conflitti asimmetrici, contro un avversario elusivo e spesso inafferrabile, il variegato hard power bellico di cui gli USA dispongono si rivela poco utile, se non addirittura controproducente, laddove finisce per causare un alto numero di vittime collaterali tra la popolazione civile. Ciò ha determinato un tentativo di ripensare il ruolo delle forze armate statunitensi e di immaginare un’adeguata dottrina contro-insurrezionale e di sostegno alla sviluppo economico e alla modernizzazione, che però sembra riproporre antiche ricette di nation-building, testate senza successo in passato. Soprattutto, il minor ricorso alla forza massiccia e la scelta di assegnare alle truppe statunitensi funzioni diverse da quelle strettamente militari, attraverso una loro maggior interazione con la popolazione civile, mette i soldati americani in condizione di grande vulnerabilità, con una conseguente crescita del numero di caduti e una parallela erosione del sostegno all’intervento negli Stati Uniti. Nei soli 2009-2010 le vittime tra i soldati statunitensi sono state 750, contro le 620 dei precedenti sette anni di guerra; le vittime civili del conflitto sono a loro volta aumentate considerevolmente nell’ultimo anno26. Pur tra mille perplessità, Obama ha infine accolto nel novembre 2009 la richiesta del comandante delle forze statunitensi in Afghani-

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stan, Stanley McChrystal (poi rimosso dall’incarico), e dei vertici militari di inviare nuove truppe in Afghanistan. Una decisione, questa, osteggiata da importanti esponenti dell’amministrazione, come il vice-presidente Biden, in parte imposta a Obama dai militari e dal Pentagono e comunque vincolata all’indicazione di una precisa scadenza – il luglio 2011 – per l’inizio del disimpegno statunitense. Questa decisione non sembra avere sortito gli effetti sperati, riflette un compromesso – l’escalation in cambio di una scadenza vincolante – dai dubbi effetti operativi e mostra le difficoltà che gli USA stanno incontrando in Afghanistan, in quella che è a tutti gli effetti divenuta la «guerra di Obama»27. L’ambito centrale dove maggiormente si manifestano le contraddizioni dell’egemonia statunitense è però quello dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina. Dove corrono molte delle più rilevanti interdipendenze correnti; dove esistono forme macroscopiche di squilibri e asimmetrie; dove l’ibrida miscela di competizione e collaborazione può risultare pericolosa ed esplosiva. L’impetuosa crescita dell’economia cinese è stata primariamente trainata dalle esportazioni verso il mercato americano, che hanno fatto della Cina il principale esportatore negli USA, davanti agli stessi membri del NAFTA, Messico e Canada. Il tutto è avvenuto in un contesto globale che vedeva attivi crescenti della bilancia delle partite correnti cinese e uguali deficit di quella statunitense. Nel 2007 il deficit della bilancia delle partite correnti statunitense era equivalente a circa l’1,5% del prodotto lordo mondiale; l’attivo di quella cinese era di circa la metà, lo 0,7%. Il gap tra risparmi cinesi e debiti statunitensi si è ampliato a dismisura nell’ultimo decennio: la percentuale dei risparmi sul prodotto interno lordo supera il 50% nel caso della Cina e si avvicina ormai allo zero negli Stati Uniti. Ciò ha permesso alla Cina di acquisire e tesaurizzare ampi volumi di valuta statunitense (arrivando a disporre del 30% delle riserve valutarie mondiali), garantendole una straordinaria liquidità da utilizzarsi per l’acquisto di materie prime necessarie allo sviluppo economico, per investimenti all’estero (in particolare in Africa e in America Latina) e per finanziare l’immenso indebitamento statunitense. Nel solo 2008 la Cina ha acquisito il 46% del debito statunitense; secondo alcune stime, investitori statali cinesi posseggono circa 2500 miliardi di dollari di beni statunitensi, 2/3 dei quali titoli del debito. Pechino, è arrivato ad affermare un consigliere del direttore dell’intelligence statunitense, dispone «de

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facto di un potere di veto su alcuni tassi d’interesse statunitensi e sulle decisioni relative al tasso di cambio»28. Accompagnate da una significativa crescita delle spese militari, queste nuove leve di potere economico sono state messe al servizio di un preciso disegno geopolitico, finalizzato a estendere l’influenza della Repubblica Popolare Cinese nel continente asiatico, sfidare il primato statunitense e porre termine all’unipolarismo del dopo Guerra Fredda. Da più parti si sono levate voci allarmate sulla minaccia cinese e il rischio che le difficoltà statunitensi accelerino l’ascesa del gigante asiatico29. La convinzione, tornata popolare, che gli Stati Uniti siano in declino si accompagna a quella che la potenza in ascesa sia la Cina medesima. Una lettura, quella dei nuovi «declinisti», superficiale, che dimentica non solo le profonde interdipendenza sino-statunitensi, ma anche le tante fragilità del gigante cinese: un reddito medio pro-capite di molto inferiore a quello dei paesi più ricchi (6.600 dollari nel 2009, contro i 46.000 degli Stati Uniti); una debole capacità di consumo interna, che rende la Cina dipendente dalle esportazioni; tensioni sociali forti, legate anche agli squilibri e alle disuguaglianze generati dal boom; una capacità militare ancora limitata (l’arsenale nucleare cinese, ad esempio, si limita alla semplice funzione di deterrenza, con non più di una cinquantina di missili intercontinentali e 190 testate); un appeal globale assai limitato e incomparabile con quello di cui ancora dispongono gli Stati Uniti. Soprattutto, la Cina deve fare i conti con la sua pericolosa dipendenza dal valore del dollaro, e dal rischio che ulteriori deprezzamenti della valuta statunitense non solo riducano la capacità di acquisto di beni cinesi, ma determinino una significativa riduzione nel valore delle riserve di cui Pechino dispone, denominate per la gran parte in dollari. Come ha sottolineato lo studioso Daniel Drezner, «quando gli Stati Uniti devono alla Cina decine di miliardi di dollari, il problema è dell’America. Quando le debbono migliaia di miliardi di dollari, il problema diventa della Cina»30. Leggere la relazione sino-statunitense in chiave puramente competitiva e antagonistica è quindi sbagliato e fuorviante; come lo è, peraltro, prospettare l’esistenza di un behemot in cui le due parti – USA e Cina – sarebbero ormai indistinguibili: darebbero vita a una «chimerica» diversa, per interessi e natura, dalla somma delle due sue componenti31. Nei rapporti tra Washington e Pechino vi è invece un complesso intreccio di collaborazione, oggettiva interdipendenza e

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competizione. Capitali cinesi finanziano il debito americano, che a sua volta sostiene quella capacità di consumo del mercato statunitense indispensabile all’economia export-led della Cina; il trasferimento in Cina della produzione di giganti industriali americani e multinazionali – la cosiddetta delocalizzazione produttiva – continua a svolgere una funzione rilevante nel boom economico cinese; la riduzione dei costi di vari prodotti finiti permette che il boom dei consumi avvenga senza scatenare spirali inflazionistiche negli USA, come si è visto soprattutto negli anni Novanta. Questo groviglio d’interdipendenze ha generato varie comunanze d’interessi, facilitando una parziale collaborazione diplomatica tra gli USA e la Repubblica Popolare Cinese in merito ad alcuni dossier, in particolare quello relativo alla Corea del Nord e al suo programma nucleare. Si tratta però di un groviglio inestricabile e assai contraddittorio, sul quale l’amministrazione Obama ha cercato, finora senza successo, d’intervenire per correggerne alcuni dei principali squilibri e incoerenze. L’amministrazione ha cercato in particolare di convincere la Cina a svalutare il renmimbi (apprezzatosi tra il 2002 è oggi di appena il 25% contro il dollaro), a facilitare una crescita dei consumi interni per concorrere al superamento della crisi globale e a contribuire maggiormente a uno sforzo multilaterale per risolvere alcune delle questioni oggi più complesse, dall’Iran al problema del riscaldamento globale. I risultati sono stati al meglio parziali e ambivalenti; non sono mancate le tensioni e la Cina ha agito spesso unilateralmente, al vertice di Copenhagen sul clima così come sulle questioni valutarie (al di là delle promesse, la valuta cinese si è apprezzata solo del 3,5% sul dollaro nell’ultimo anno). La crisi economica e la ridotta capacità di consumo degli Stati Uniti hanno però apportato delle forzose correzioni nel rapporto sino-statunitense. Le importazioni statunitensi dalla Cina sono calate in modo rilevante nel 2009; l’amministrazione Obama, come del resto gran parte del paese, sembra consapevole che l’«impero dei consumi» statunitense debba essere ripensato dalle fondamenta e sia forse giunto al capolinea32. Un mondo dove l’America consuma e gli altri producono e risparmiano non appare più sostenibile. Squilibri monetari e commerciali legano contraddittoriamente i diversi soggetti del sistema internazionale e rischiano di produrre profonde destabilizzazioni geopolitiche. Le contraddizioni del sistema internazionale sono state contenute, nell’ultimo trentennio, dalla presenza di un chiaro soggetto

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egemone. Che oggi non può più operare come in passato. Diversamente dal suo predecessore e, anche, dai suoi attuali avversari politici, Obama lo ha capito e ha agito di conseguenza. Ha riattivato molti elementi del soft power americano; ha cercato di correggere alcune storture dell’insostenibile modello di consumi statunitense; è tornato a parlare il linguaggio di un internazionalismo cosmopolita, che grazie alla sua storia può incarnare e simboleggiare come nessun altro. Le costrizioni, interne e internazionali, alcuni errori e aspettative esagerate ne hanno probabilmente limitato l’impatto. Quando, nell’autunno del 2007, completai la prima stesura di questo libro, pochi avrebbero immaginato che Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente e che le pratiche e il discorso della politica estera statunitense fossero destinate a conoscere un cambiamento così drammatico e repentino rispetto agli anni dell’unilateralismo bushiano. Una svolta, questa, la cui portata è forse sottovalutata e della quale con troppa facilità molti oggi sembrano dimenticarsi.

NOTE

Introduzione 1 Per delle utili discussioni si vedano Ian Tyrrel, American Exceptionalism in the Age of International History, in «American Historical Review», 4, ottobre 1991, pp. 1031-55 e Thomas Bender (a cura di), Nation Among Nations. America’s Place in World History, New York, Hill & Wang 2006. 2 Per un’applicazione alla prima fase della storia statunitense si veda Bradford Perkins, Interests, Values and the Prism: The Sources of American Foreign Policy, in «Journal of the Early Republic», 4, inverno 1994, pp. 458-66, poi ripreso e applicato in Id., The Creation of a Republican Empire, 1776-1865, vol. I di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993. 3 Su questo aspetto si veda anche Mary Ann Heiss, The Evolution of the Imperial Idea and U.S. National Identity, in «Diplomatic History», 4, autunno 2002, pp. 511-40. 4 Si vedano ad esempio molti dei saggi nel numero monografico On Imperialism della rivista «Daedalus», 2, primavera 2005; George Steinmetz, Return to Empire. The New U.S. Imperialism in Comparative Historical Perspective, in «Sociological Theory», 4, dicembre 2005, pp. 339-67; Linda Colley, The Difficulties of Empire: Present, Past and Future, in «Historical Research», 205, agosto 2006, pp. 367-82; Charles S. Maier, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006; Bernard Porter, Empire and Superempire. Britain, American and the World, New Haven, Yale University Press 2006; Michael Cox, Still the American Empire, in «Political Studies», gennaio 2007, pp. 1-10. 5 La caratterizzazione degli USA post-1945 come un impero non è affatto esclusiva della storiografia revisionista. Per una descrizione degli USA nel secondo dopoguerra come un impero, ancorché benigno e consensuale, si vedano ad esempio John Lewis Gaddis, The Emerging Post-revisionist Synthesis on the Origins of the Cold War, in «Diplomatic History», 3, estate 1983, pp. 171-90 e Geir Lundestad, The American «Empire» and Other Studies of U.S. Foreign Policy in a Comparative Perspective, Oxford-New York-Oslo, Oxford University Press-Norwegian University Press 1990. Per esempi più recenti si vedano Jeremi Suri, Power and Protest: Global Revolution and the Rise of Détente, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2003 e Odd Arne Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press 2005. 6 Riprendo qui la partizione proposta da Niall Ferguson, The Unconscious Colossus: Limits & Alternatives to the American Empire, in «Daedalus», 2, primavera 2005, pp. 18-33. 7 Aspetto, questo, denunciato severamente in Andrew J. Bacevich, American

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Note

Empire. The Realities and Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2002 e in Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire. Militarism, Secrecy, and the End of the Republic, New York, Metropolitan Books 2004. Si vedano inoltre le considerazioni di Anders Stephanson, Offensive Realism, in «Boundary», 2, 2000, pp. 181-95 e Id., A Most Interesting Empire, in Marilyn B. Young, Lloyd C. Gardner (a cura di), The New American Empire, New York, New Press 2006, pp. 253-75. 8 Cox, Still the American Empire, cit., p. 5. 9 Steinmetz, Return to Empire, cit., che riprende in questo Jurgen Osterhammel, Colonialism. A Theoretical Overview, Princeton, Markus Wiener 20042. Da una prospettiva diversa, considerazioni simili sono nel classico William Appleman Williams, Empire as a Way of Life. An Essay on the Causes and Character of America’s Present Predicament, Along with a Few Thoughts About an Alternative, Oxford, Oxford University Press 1980.

Capitolo I 1 Declaration of the Causes and Necessity of Taking up Arms, 6 luglio 1775, consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/arms.htm; Bradford Perkins, The Creation of a Republican Empire, 1776-1865, vol. I di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 17-19; Felix Gilbert, To the Farewell Address. Ideas of Early American Foreign Policy, Princeton, Princeton University Press 1961, p. 40 («orribile e spaventoso suono»); David C. Hendrickson, Peace Pact. The Lost World of the American Founding, Lawrence, The University Press of Kansas 2003, pp. 128-49. 2 Eric Foner, Tom Paine and Revolutionary America, Oxford, Oxford University Press 1976, p. 3 («inesorabili fallimenti»); George Claeys, Thomas Paine: Social and Political Thought, Boston, Unwin Hyman 1989; John Keane, Tom Paine: A Political Life, Boston, Little Brown 1995; Harvey J. Kaye, Thomas Paine and the Promise of America, New York, Hill & Wang 2005. Sul «regicidio» compiuto da Paine si veda Winthrop D. Jordan, Familial Politics: Thomas Paine and the Killing of the King, 1776, in «Journal of American History», 2, settembre 1973, pp. 294-308. 3 Stanley Elkins, Eric McKitrick, The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, Oxford, Oxford University Press 1993, p. 323; David McCullough, John Adams, New York, Simon & Schuster 2001, p. 97 («forza e concisione»); il dato secondo cui un quinto della popolazione adulta fu esposta al messaggio di Common Sense è fornito in Robert A. Ferguson, The Commonalities of Common Sense, in «The William & Mary Quarterly», 57, luglio 2000, p. 466, da cui è tratta anche la seconda citazione di Adams («l’età di Paine»). 4 Tutte le citazioni di Common Sense sono tratte dall’edizione critica pubblicata dalla casa editrice Dover (Mineola, New York) nel 1997. 5 William Earl Weeks, American Nationalism, American Imperialism: An Interpretation of United States Political Economy, 1789-1861, in «Journal of the Early Republic», 4, inverno 1994, p. 490. 6 Su questo aspetto insiste molto, e in modo convincente, David M. Fitzsimons, Tom Paine’s New World Order: Idealistic Internationalism in the Ideology of Early American Foreign Relations, in «Diplomatic History», 4, autunno 1995, pp. 569-

Note al capitolo I

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82, da cui sono tratte le citazioni nel testo; una lettura simile è quella di Gilbert, To the Farewell Address, cit.; un’interpretazione diversa è invece quella di James H. Hutson, Intellectual Foundations of Early American Diplomacy, in «Diplomatic History», 1, inverno 1977, pp. 1-19. 7 Le citazioni di Paine sono tratte da Common Sense e da Fitzsimons, Tom Paine’s New World Order, cit. Si vedano inoltre Cathi Matson, Peter S. Onuf, Toward a Republican Empire: Interest and Ideology in Revolutionary America, in «American Quarterly», 4, autunno 1985, p. 516 («sfidare l’intero mondo») e Reginald Horsman, The Diplomacy of the New Republic, 1776-1815, Arlington Heights, H. Davidson 1985, pp. 7-11. 8 Common Sense; su questo aspetto si vedano inoltre Gordon Wood, The Radicalism of the American Revolution, New York, Vintage 1991, pp. 95-109 e John Ferling, Letting the World Ablaze. Washington, Adams, Jefferson, and the American Revolution, Oxford, Oxford University Press 2000, pp. 92-137. 9 Si vedano ad esempio John Edward Wiltz, American Isolationism: Its Colonial Origins, in «Amerikastudien/American Studies», 21, 1976, pp. 261-80, il pur ottimo Michael Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven, Yale University Press 1987, pp. 19-21 e, in parte, Walter McDougall, Promised Land, Crusader State. The American Encounter with the World since 1776, Boston-New York, Houghton Mifflin 1997, pp. 18-20. 10 Le citazioni provengono rispettivamente da Tiziano Bonazzi, L’antieuropeismo degli americani, in «il Mulino», marzo-aprile 2003, pp. 381-89; Daniel Rodgers, Exceptionalism, in Anthony Molho, Gordon Wood (a cura di), Imagined Histories. American Historians Interpret the Past, Princeton, Princeton University Press 1998, pp. 21-40. Sulla natura e le contraddizioni dell’eccezionalismo statunitense si vedano le originali riflessioni di Ian Tyrrel, American Exceptionalism in the Age of International History, in «American Historical Review», 4, ottobre 1991, pp. 1031-55. 11 Anders Stephanson, Liberty or Death. The Cold War as U.S. Ideology, in Odd Arne Westad (a cura di), Reviewing the Cold War: Approaches, Interpretations, Theory, London, Frank Cass 2000, p. 83. 12 Si vedano rispettivamente Ferguson, The Commonalities of Common Sense, cit., p. 493 e Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 324. 13 In tal senso si esprime ad esempio Hutson, Intellectual Foundations, cit. e, almeno in parte, Gilbert, To the Farewell Address, cit. Una diversa lettura, che qui si predilige, è quella di Peter S. Onuf, Jefferson’s Empire. The Language of American Nationhood, Charlottesville, University of Virginia Press 2000 e di Hendrickson, Peace Pact, cit. 14 Citato in Charles Francis Adams (a cura di), The Works of John Adams, vol. II, Boston, Little Brown 1850, pp. 504-506; sulla genesi del Model Treaty si vedano soprattutto Gregg L. Lint, The American Revolution and the Law of Nations, 1776-1789, in «Diplomatic History», 1, inverno 1977, pp. 20-34 e Id., John Adams on the Drafting of the Treaty Plan of 1776, in «Diplomatic History», 2, primavera 1978, pp. 313-20. 15 Citato in Gilbert, To the Farewell Address, cit., p. 50. 16 James H. Hutson, John Adams and the Diplomacy of the American Revolution, Lexington, The University Press of Kentucky 1980, pp. 28-32; John Ferling, John Adams: A Life, Knoxville, University of Tennessee Press 1992. 17 Gilbert, To the Farewell Address, cit., pp. 52-53. Le citazioni precedenti pro-

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Note

vengono rispettivamente da Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 163 e da Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 24. 18 McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., p. 25. Sul nesso, strettissimo, tra commercio e diplomazia si rimanda alle considerazioni di John M. Belohlavek, Economic Interest Groups and the Formation of Foreign Policy in the Early Republic, in «Journal of the Early Republic», 4, inverno 1994, pp. 476-84; sull’importanza precoce del commercio con la Cina, destinato a diventare uno dei grandi sogni della politica estera statunitense, si veda Ernest R. May, John King Fairbank (a cura di), America’s China Trade in Historical Perspective: The Chinese and American Performances, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1986. Si veda inoltre David M. Griffiths, American Commercial Diplomacy in Russia, 1780 to 1783, in «The William & Mary Quarterly», 3, luglio 1970, pp. 379-410. La centralità dell’elemento commerciale è inoltre il tema dominante nella celebre storia della politica estera degli Stati Uniti di Walter Lafeber, The American Age. U.S. Foreign Policy at Home and Abroad, New York-London, Norton 1989. 19 Su questo punto, oltre a Gilbert, To the Farewell Address, cit., si vedano le recenti considerazioni di Bernard Bailyn, To Begin the World Anew. The Genius and Ambiguities of the American Founders, New York, Knopf 2003, pp. 60-64 e Bradford Perkins, Interests, Values and the Prism: The Sources of American Foreign Policy, in «Journal of the Early Republic», 4, inverno 1994, pp. 458-66. Per delle classiche letture realiste delle origini della politica estera degli Stati Uniti si rimanda a Hutson, John Adams, cit. e Samuel Flagg Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, Bloomington, Indiana University Press 1935. 20 La contrapposizione tra ideali, identità e interessi – ossia tra liberalismo, costruttivismo e realismo – costituisce uno sterile tentativo, di matrice politologica, di separare cause e processi strettamente interdipendenti. Per un esempio si veda la polemica tra Mlada Bukovansky, American Identity and Neutral Rights from Independence to the War of 1812, in «International Organization», 51, 1997, pp. 20943 e James Sofka, American Neutral Rights Reappraised: Identity or Interest in the Foreign Policy of the Early Republic, in «Review of International Studies», 26, 2000, pp. 599-622 (polemica, peraltro, nella quale le posizioni del ‘realista’ Sofka appaiono più solidamente argomentate di quelle del ‘costruttivista’ Bukovansky). 21 Perkins, Interests, Values and the Prism, cit., p. 460; su questo aspetto si veda inoltre Peter S. Onuf, Nicholas Onuf, Federal Union, Modern World: The Law of Nations in an Age of Revolution, 1776-1814, Madison, Madison House 1993. Una visione diversa si trova invece in Lawrence S. Kaplan, Entangling Alliances with None. American Foreign Policy in the Age of Jefferson, Kent, The Kent State University Press 1987. 22 Aspetto, questo, su cui insiste molto Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995). 23 Bonazzi, L’antieuropeismo degli americani, cit., p. 384. 24 Sulle fonti utilizzate da Adams per la stesura del Model Treaty si rimanda a Lint, John Adams, cit.; sugli Stati Uniti e l’equilibrio di potenza (balance of power) europeo si rimanda a Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, cit. e Alfred Vagts, The United States and the Balance of Power, in «The Journal of Politics», 4, novembre 1941, pp. 401-49.

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25 Sugli eventi del giugno 1776 e la stesura della Dichiarazione d’indipendenza si vedano Gary Wills, Inventing America. Jefferson’s Declaration of Independence, New York, Doubleday 1978; Joseph Ellis, American Sphinx. The Character of Thomas Jefferson, New York, Knopf 1997, pp. 46-54 e soprattutto Pauline Maier, American Scripture. Making the Declaration of Independence, New York, Knopf 1997 e Tiziano Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia, Marsilio 20032, pp. 13-15. Le citazioni della Dichiarazione d’indipendenza sono tratte dalla traduzione di Tiziano Bonazzi pubblicata in appendice a quest’ultimo volume. 26 Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza, cit., p. 26. 27 Maier, American Scripture, cit., p. XVII. Si veda inoltre McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., p. 22. 28 Le citazioni nel capoverso sono tutte tratte da Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza, cit., pp. 17, 24, 33-34. 29 «Piangeremo le nostre vittorie» in caso l’indipendenza fosse stata conquistata grazie all’aiuto francese, affermò Dickinson (citato in Maier, American Scripture, cit., p. 29). Su questo aspetto si veda inoltre Lafeber, The American Age, cit., p. 21. 30 Le citazioni di Lee sono tratte da Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 19-20 e da Paul A. Varg, Foreign Policies of the Founding Fathers, East Lansing, Michigan State University Press 1963. Vi è oggi un ampio consenso storiografico sulla centralità del contesto internazionale nell’influenzare la decisione del giugno 1776 di proclamare l’indipendenza. Su questo aspetto, oltre alle considerazioni di Perkins, si vedano Maier, American Scripture, cit.; James H. Hutson, The Partition Treaty and the Declaration of American Independence, in «Journal of American History», 58, settembre 1972, pp. 877-96 e, soprattutto, David Armitage, The Declaration of Independence and International Law, in «The William & Mary Quarterly», 1, gennaio 2002, pp. 39-64. 31 Le citazioni provengono rispettivamente da Emily S. Rosenberg, A Call to Revolution. A Roundtable on Early U.S. Foreign Relations, in «Diplomatic History», 1, inverno 1998, p. 63, da Ferling, Setting the World Ablaze, cit., p. 135 e da Onuf, Jefferson’s Empire, cit., p. 6. 32 Armitage, The Declaration of Independence, cit., p. 47; si veda anche Maier, American Scripture, cit., p. 43. Sulla paura di una «partizione polacca» in Nordamerica si veda Piotr S. Wandycz, The American Revolution and the Partitions of Poland, in Jaroslaw Pelenski (a cura di), The American and European Revolutions, 1776-1848, Iowa City, University of Iowa Press 1980, pp. 95-110. 33 Su questo aspetto insiste in modo originale e intelligente Armitage, The Declaration of Independence, cit., che riprende e sviluppa alcune considerazioni avanzate da John Greville Agard Pocock nel suo Political Thought in the EnglishSpeaking Atlantic, vol. I, The Imperial Crisis, in Id. (a cura di), The Varieties of British Political Thought, 1500-1800, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 246-82. L’importanza della dichiarazione come atto di diritto internazionale è sottolineata anche da Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza, cit. 34 Le citazioni provengono rispettivamente da Peter S. Onuf, A Declaration of Independence for Diplomatic Historians, in «Diplomatic History», 1, inverno 1998, p. 71 e da Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 126; si veda inoltre John G.A. Pocock, States, Republics, and Empires: The American Founding in Early Modern Perspecti-

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ve, in John G.A. Pocock, Terence Ball (a cura di), Conceptual Change and the Constitution, Lawrence, The University Press of Kansas 1988, pp. 57-61. 35 Rosenberg, A Call to Revolution, cit., p. 69; le altre citazioni nel capoverso sono tratte da Onuf, A Declaration of Independence, cit., pp. 72-73. 36 Onuf, Jefferson’s Empire, cit., p. 7 («rigetto dei vecchi regimi aristocratici e monarchici»). 37 Madison, citato in Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton 1998, p. 15. 38 Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza, cit., p. 29. Sulla scomparsa, nella versione finale, del paragrafo sulla schiavitù si vedano Wills, Inventing America, cit., pp. 71-74 e Ellis, American Sphinx, cit., pp. 49-53. Su Jefferson e la schiavitù si vedano le considerazioni nel forum della rivista «The William & Mary Quarterly» dal titolo Thomas Jefferson and Sally Hemings Redux, 1, inverno 2000, pp. 121-70 e molti dei saggi in Peter S. Onuf (a cura di), Jeffersonian Legacies, Charlottesville, University of Virginia Press 1993. 39 Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza, cit., pp. 28-29; la citazione di Jefferson è in Stephanson, Destino manifesto, cit., p. 41. Su questo aspetto insiste molto David Ryan, U.S. Foreign Policy in World History, London-New York, Routledge 2000. 40 Per una descrizione generale dei principali eventi della guerra d’indipendenza si rimanda a Don Higginbotham, The War of American Independence: Military Attitudes, Policies, and Practices, 1763-1789, New York, Macmillan 1971 e Stephen Conway, The War of America Independence, 1775-1783, New York, St. Martin’s Press 1995. 41 Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, cit.; Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 24-26; Varg, Foreign Policies, cit., pp. 20-26. 42 Si vedano Ralph L. Ketcham, France and American Politics, 1763-1793, in «Political Science Quarterly», 78, giugno 1963, pp. 198-223; William C. Stinchcombe, The American Revolution and the French Alliance, Syracuse, Syracuse University Press 1969, pp. 30-47; Lawrence S. Kaplan, Toward Isolationism: The Rise and Fall of the Franco-American Alliance, 1775-1801, in Id. (a cura di), The American Revolution and a Candid World, Kent, The Kent State University Press 1977, pp. 134-60 e soprattutto Orville T. Murphy, The View from Versailles: Charles Gravier Comte de Vergennes’s Perceptions of the American Revolution, in Ronald Hoffman, Peter J. Albert (a cura di), Diplomacy and Revolution: The Franco-American Alliance of 1778, Charlottesville, University of Virginia Press 1981. 43 Gilbert, To the Farewell Address, cit., p. 67. Il soggiorno parigino di Franklin, caratterizzato dai suoi incontri con i philosophes, dal leggendario abbraccio con Voltaire all’Accademia delle scienze e da quelli, meno pubblicizzati, con numerose nobildonne francesi nelle loro residenze private avrebbe concorso alla mitizzazione di Franklin e delle sue supposte abilità diplomatiche. Sulla condotta diplomatica, non sempre irreprensibile, di Franklin si vedano Gerald Stourz, Benjamin Franklin and American Foreign Policy, Chicago, Chicago University Press 1954 e Jonathan R. Dull, Benjamin Franklin and the Nature of American Diplomacy, in «International History Review», 3, agosto 1983, pp. 346-63. Più in generale sulla figura di Franklin si vedano la recente biografia di Edmund S. Morgan, Benjamin Franklin, New Haven, Yale University Press 2002 e quella, più aneddotica ma

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straordinariamente ricca e dettagliata, di Walter Isaacson, Benjamin Franklin: An American Life, New York, Simon & Schuster 2003. 44 Il testo dei due trattati è facilmente accessibile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/france/fr1778m.htm; Franklin stesso, a testimonianza del carattere duraturo e non contingente dell’alleanza, paragonò gli Stati Uniti a una «figlia virtuosa e leale» che aveva abbandonato una «matrigna crudele» e si era concessa in «sposa» alla Francia (citato in Hendrickson, Peace Pact, p. 165). 45 In particolare, si vedano tra le tante interpretazioni realiste della svolta del 1778 Hutson, John Adams, cit.; McDougall, Promised Land, Crusader State, cit.; Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, cit. e Sofka, American Neutral Rights Reappraised, cit. 46 Nelle due definizioni offerte da Fitzsimons, Tom Paine’s New World Order, cit., p. 570 e da Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 169. 47 Si veda soprattutto John Ferling, John Adams, Diplomat, in «The William & Mary Quarterly», 2, aprile 1994, pp. 227-52 e Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, cit., pp. 174-78. 48 Le citazioni di Adams sono tratte da Hendrickson, Peace Pact, cit., pp. 16667. 49 Adams, citato in Ferling, John Adams, cit., p. 242. 50 Adams, citato ivi, p. 252. 51 Sui negoziati del 1780-82 si vedano, oltre alle opere già citate nelle note precedenti, Richard B. Morris, The Peacemakers: The Great Powers and American Independence, New York, Harper & Row 1965 e Jonathan R. Dull, A Diplomatic History of the American Revolution, New Haven, Yale University Press 1985. 52 Si vedano soprattutto gli indignati commenti di Bemis, The Diplomacy of the American Revolution, cit., pp. 189-91. 53 Citato in Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 191. 54 Su questo punto si vedano Lafeber, The American Age, cit., p. 26; Charles R. Ritcheson, The Earl of Shelburne and Peace with America, in «International History Review», 5, agosto 1983, pp. 322-45 e, più in generale, John Lamberton Harper, American Machiavelli. Alexander Hamilton and the Origins of U.S. Foreign Policy, Cambridge, Cambridge University Press 2004 e Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit. 55 Il testo dell’accordo è consultabile all’indirizzo http://www.law.ou.edu/hist/ paris.html; si vedano inoltre Ronald Hoffman, Peter J. Albert (a cura di), Peace and Peacemakers: The Treaty of 1783, Charlottesville, University of Virginia Press 1981 e Morris, The Peacemakers, cit. Sulle caratteristiche geografiche della nuova nazione si veda lo straordinario lavoro di Donald William Meinig, The Shaping of America. A Geographical Perspective on 500 Years of History, vol. I, Atlantic America, 1492-1800, New Haven, Yale University Press 1986, pp. 339-48. 56 Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 45; la citazione di Vergennes è riportata in quasi tutte le storie dei negoziati di pace, si veda ad esempio Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 195; per una discussione sul trattato del 1783 si veda Lawrence S. Kaplan, The Treaty of Paris 1783: A Historiographical Challenge, in «International History Review», 5, agosto 1983, pp. 431-42. 57 Harper, American Machiavelli, cit., p. 30; Merril Jensen, The Articles of Confederation, Madison, The University of Wisconsin Press 1959. Gli articoli della con-

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federazione sono facilmente accessibili all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/ avalon/artconf.htm. 58 Arthur Schlesinger Jr., The Imperial Presidency, Boston, Houghton Mifflin 1973, p. 3. 59 Le citazioni sono tratte da Norman A. Graebner, Isolationism and Antifederalism: The Ratification Debates, in «Diplomatic History», 4, autunno 1987, pp. 338-39; si vedano inoltre Frederick W. Marks, Power, Pride and Purse, in «Diplomatic History», 4, autunno 1987, pp. 303-20 e Lawrence A. Peskin, The Lessons of Independence: How the Algerian Crisis Shaped Early American Identity, in «Diplomatic History», 3, giugno 2004, pp. 297-319. 60 Su questo punto si vedano Harper, American Machiavelli, cit., pp. 34-35 e, per il periodo successivo, Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 21623. 61 La citazione di Cathcart è in Peskin, The Lessons of Independence, cit., p. 298; la citazione di Ellsworth è in Graebner, Isolationism and Antifederalism, cit., p. 339. 62 Marks, Power, Pride and Purse, cit., p. 312. Sulla ribellione di Shays e il suo collegamento con le questioni internazionali si vedano inoltre Hendrickson, Peace Pact, cit., p. 51; Harper, American Machiavelli, cit., p. 36. Più in generale sulla ribellione di Shays si veda il recente Leonard L. Richards, Shay’s Rebellion: The American Revolution’s Final Battle, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 2002. 63 John Allphin Moore Jr., Empire, Republicanism, and Reason: Foreign Affairs as Viewed by the Founders of the Constitution, in «The History Teacher», 3, maggio 1993, pp. 300-301. Sulla centralità della politica estera nella decisione di redigere una nuova Costituzione insistono, in modo diverso, Frederick Marks, Independence on Trial, Baton Rouge, Louisiana State University Press 1973; Walter Lafeber, The Constitution and United States Foreign Policy, in «Journal of American History», 3, dicembre 1987, pp. 695-717 e Louis Henkin, Foreign Affairs and the U.S. Constitution, Oxford, Oxford University Press 19962. 64 Tutte le citazioni della Costituzione del 1787 sono tratte da Gigliola Sacerdoti Mariani, Antonio Reposo, Mario Patrono (a cura di), Guida alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, Milano, Sansoni 19994, pp. 65-163. Sul grande compromesso del 1808 si vedano le considerazioni di Joseph Ellis, Founding Brothers. The Revolutionary Generation, New York, Vintage 2000, pp. 81-119. Tra il 1776 e il 1787 numerosi Stati del Nord avevano abolito la schiavitù. 65 Henkin, Foreign Affairs, cit., p. 31. 66 Ivi, p. 62. 67 Il Congresso ha poi svariati altri modi per condizionare, in modo diretto e indiretto, la conduzione della politica estera, su tutti il controllo delle allocazioni finanziarie indispensabili per dare corso a una determinata politica. 68 Edward Corwin, The President; Office and Powers. History and Analysis of Practice and Opinion, New York, New York University Press 19574, p. 171. Sull’evoluzione dell’istituto della presidenza e sulle sue intrinseche debolezze si vedano gli studi generali di taglio rispettivamente politologico e storico di Sergio Fabbrini, Il Presidenzialismo americano, Roma-Bari, Laterza 1992 e di Ferdinando Fasce, Da George Washington a Bill Clinton. Due secoli di presidenti USA, Roma, Carocci 2000. Si veda inoltre il preciso aggiornamento bibliografico sempre di Ferdinando Fasce, Dal presidente alla Presidenza... e ritorno. Dieci anni di ricerca USA sui presidenti, in «Ricerche di Storia politica», 2, 2003, pp. 75-86. Sul ruolo del Congresso

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nella politica estera si rimanda al classico Robert A. Dahl, Congress and Foreign Policy, New York, Harcourt Brace 1950 e sul più recente Gordon Silverstein, Imbalance of Power. Constitutional Interpretation and the Making of American Foreign Policy, Oxford, Oxford University Press 1997. 69 Foner, The Story of American Freedom, cit., p. 24; letture simili, anche se condotte su un piano significativamente diverso, sono quelle di Gilbert, To the Farewell Address, cit. e di McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., secondo il quale (p. 26) i delegati presenti a Philadelphia non «erano idealisti e tanto meno ideologi», ma statisti consapevoli delle logiche di potenza e senza «illusioni sulla natura corruttibile degli uomini e dei governi». 70 Le due citazioni di Jefferson sono tratte rispettivamente da Lawrence S. Kaplan, Jefferson and the Constitution: The View from Paris, in «Diplomatic History», 4, inverno 1987, p. 328 e Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 58. 71 Su questo aspetto, e sulla necessità di legare storia costituzionale e storia internazionale, si vedano soprattutto Hendrickson, Peace Pact, cit. e Onuf, Jefferson’s Empire, cit. 72 Punto, questo, su cui insiste invece molto il realista McDougall, Promised Land, Crusader State, cit. 73 Bailyn, To Begin the World Anew, cit., p. 97. 74 Citazioni tratte da Ellis, Founding Brothers, cit., p. 9. Su questo punto si veda inoltre Stephanson, Destino manifesto, cit., pp. 36-38.

Capitolo II 1 Alexander Hamilton, Il Federalista n. 1. Al Popolo dello Stato di New York, 1788. Esistono varie traduzioni italiane dei Federalist Papers scritti da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay per sostenere la ratifica della Costituzione elaborata a Philadelphia (si veda Il Federalista, Bologna, Il Mulino 1997). Ho però preferito utilizzare una versione in lingua inglese, nella fattispecie Isaac Kramnick (a cura di), The Federalist Papers, New York, Penguin 1987. 2 Le citazioni provengono rispettivamente da John C. Murrin, The Jeffersonian Triumph and American Exceptionalism, in «Journal of the Early Republic», 20, primavera 2000, p. 6 e da James D. Drake, Appropriating a Continent: Geographical Categories, Scientific Metaphors, and the Construction of Nationalism in British North America and Mexico, in «Journal of World History», 3, 2004, p. 329; si vedano inoltre Marc Egnal, A Mighty Empire. The Origins of the American Revolution, Ithaca, Cornell University Press 1988 e Martin Brückner, Lessons in Geography: Maps, Spellers and the Other Grammars of Nationalism in the Early Republic, in «American Quarterly», 2, 1999, pp. 311-43. Lo stesso Paine aveva in fondo aderito a una visione continentalista, quando si era chiesto, in Common Sense, come potesse un’isola, la Gran Bretagna, controllare un continente. 3 Paul A. Varg, Foreign Policies of the Founding Fathers, East Lansing, Michigan State University Press 1963, pp. 58-61. 4 La citazione di Washington è in Peter S. Onuf, Statehood and Union. A History of the Northwest Ordinance, Bloomington, Indiana University Press 1987, p. 4. 5 Le citazioni di Hamilton e Jefferson sono in David C. Hendrickson, Robert

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W. Tucker, Empire of Liberty. The Statecraft of Thomas Jefferson, Oxford, Oxford University Press 1990, p. VIII; la citazione di Stiles è tratta da Ezra Stiles, The United States Elevated to Glory and Honor, discorso pronunciato davanti all’assemblea generale dello Stato del Connecticut, 8 maggio 1783 (consultabile al sito http://www.belcherfoundation.org/united_states_elevated.htm). 6 Onuf, Statehood and Union, cit., p. 19. Su questo aspetto insistono da prospettive assai diverse Walter Lafeber, Foreign Policies of a New Nation: Franklin, Madison, and the «Dream of a New Land to Fulfil with People in Self-Control», in William Appleman Williams (a cura di), From Colony to Empire: Essays in the History of American Foreign Relations, New York, Wiley 1972, pp. 9-37; Marie-Jeanne Rossignol, Le ferment nationaliste. Aux origins de la politique extérieure des ÉtasUnis, 1789-1812, Paris, Belin 1994; David Jacobson, Place and Belonging in America, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 2002. 7 Si vedano le suggestive considerazioni in Gregory H. Nobles, American Frontiers: Cultural Encounters and Continental Conquest, New York, Hill & Wang 1997; Jeremy Adelman, Stephen Aron, From Borderlands to Border: Empires, Nation-States, and the Peoples in Between in North American History, in «American Historical Review», 3, giugno 1999, pp. 814-41; Jaime E. Rodriguez, The Emancipation of America, in «American Historical Review», 1, febbraio 2000, pp. 131-52. Al riguardo, sia Adelman e Aron sia Rodriguez notano giustamente come gli Stati Uniti ereditarono un approccio imperiale, quello della Gran Bretagna, più incline a rigettare l’interazione con le popolazioni native o non britanniche rispetto a quanto non facessero Francia e Spagna nei loro possedimenti americani. I confini dei territori nord-occidentali erano definiti dai grandi laghi a nord e dai fiumi Mississippi e Ohio a ovest e a sud. 8 Joyce Appleby, Commercial Farming and the «Agrarian Myth» in the Early Republic, in «Journal of American History», 4, marzo 1982, pp. 833-49. Sulla crescita demografica e il suo impatto sull’espansione si vedano Onuf, Statehood and Union, cit., pp. 15-19; Rodriguez, The Emancipation of America, cit., pp. 136-37 e, più in generale, Walter Lafeber, The American Age. U.S. Foreign Policy at Home and Abroad, New York-London, Norton 1989. Le ordinances costituivano risoluzioni della confederazione su materie esplicitamente di sua competenza. 9 Onuf, Statehood and Union, cit., pp. 44-49, dove è riprodotto anche il testo del provvedimento, erroneamente presentato come una ordinance. Si veda al riguardo Richard P. McCormick, The «Ordinance» of 1784?, in «The William & Mary Quarterly», gennaio 1993, pp. 112-22. 10 Elliot West, American Frontier, in Clyde A. Milner, Carol A. O’Connor, Martha A. Sandweiss (a cura di), The Oxford History of the American West, Oxford, Oxford University Press 1994, pp. 124-25; Onuf, Statehood and Union, cit., pp. 2136, dove sono riprodotti anche alcuni passaggi dell’ordinance. 11 Di fatto, però, sul tema della schiavitù la Northwest Ordinance anticipava il compromesso costituzionale descritto nel primo capitolo. Diversamente dai provvedimenti del 1784-85, essa era relativa solo al territorio ceduto all’Unione dalla Virginia, a nord dell’Ohio. La proibizione della schiavitù in tali territori era accettabile dagli Stati sudisti solo se essa fosse stata consentita a sud dell’Ohio, come di fatto avvenne. Si veda David G. Hendrickson, Peace Pact. The Lost World of the American Founding, Lawrence, The University Press of Kansas 2003, pp. 228-29 e, più in dettaglio, i saggi contenuti in Frederick D. Williams (a cura di), The Northwest Ordinance: Essays on Its Formulation, Provisions and Legacy, East Lansing, Mi-

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chigan State University Press 1988 e Theodore C. Pease, The Ordinance of 1787, in «The Mississippi Valley Historical Review», 2, settembre 1938, pp. 167-80. 12 Ladis K.D. Kristof, The Nature of Frontiers and Boundaries, in «Annals of the Association of American Geographers», 3, settembre 1959, pp. 269-82; Charles S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», 3, giugno 2000, pp. 807-32; Jacobson, Place and Belonging, cit. 13 Myra Jehlen, American Incarnation: The Individual, the Nation, and the Continent, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1986; Charles A. Miller, Jefferson and Nature: An Interpretation, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 1988, p. 3; Susan Manning, Naming of Parts; or, the Comforts of Classification: Thomas Jefferson’s Construction of America as Fact and Myth, in «Journal of American Studies», 3, 1996, pp. 345-64; Matthew Cordova Frankel, «Nature’s Nation» Revisited: Citizenship and the Sublime in Thomas Jefferson’s Notes on the State of Virginia, in «American Literature», 4, dicembre 2001, pp. 695-726. Un’interpretazione parzialmente diversa è in Maurizio Valsania, «Our Original Barbarism»; Man vs. Nature in Thomas Jefferson’s Moral Experience, in «Journal of the History of Ideas», 4, ottobre 2004, pp. 627-45. 14 Userò qui in modo intercambiabile i termini «nativo americano» e «indiano americano» per indicare le molte nazioni indigene che abitavano il territorio nordamericano destinato a diventare parte dello Stato statunitense. 15 La citazione di Jefferson è in Harold Hellenbrand, Not «To Destroy but to Fulfil»: Jefferson, Indians, and Republican Dispensation, in «Eighteenth-Century Studies», 4, autunno 1985, pp. 523-49. Le altre citazioni nel capoverso sono di Caterine Holland, Notes on the State of America. Jeffersonian Democracy and the Production of a National Past, in «Political Theory», 2, aprile 2001, pp. 200-201. Si veda inoltre Peter S. Onuf, «We Shall All Be Americans»: Thomas Jefferson and the Indians, in «Indiana Magazine of History», 2, giugno 1999, pp. 103-41. La passione etnografica e antropologica di Jefferson verso le lingue, le tradizioni e le culture indiane americane ben rivelava tale profonda ambivalenza. 16 Citato in Steven Conn, Agonizing over Indians, in «American Quarterly», 1, marzo 2001, p. 190. 17 Thomas Jefferson, citato in Anthony F.C. Wallace, Jefferson and the Indians. The Tragic Fate of First Americans, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1999, p. 165. Si veda inoltre Bernard Sheenan, Seeds of Extinction. Jeffersonian Philanthropy and the American Indian, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1973. 18 Lafeber, The American Age, cit., p. 43. 19 La citazione del reverendo Madison è in Joseph Ellis, American Sphinx. The Character of Thomas Jefferson, New York, Knopf 1997, p. 87. La diversa posizione di indiani e neri, e la comparazione tra l’assimilabilità dei primi e la non assimilabilità dei secondi, è uno dei temi dominanti dell’unico libro scritto da Jefferson, Notes on the State of Virginia del 1787. Si veda Holland, Notes on the State of America, cit. Sulla natura dei contratti d’acquisto stipulati tra il governo statunitense e le nazioni indiane si vedano le utili considerazioni di Stuart Banner, How the Indians Lost Their Land: Law and Power on the Frontier, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2005. Su questo aspetto, e più in generale sulla gerarchia razziale negli Stati Uniti dell’Ottocento, si veda inoltre Michael Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven, Yale University Press 1987, pp. 53-58.

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Note

20 La citazione di Washington è in Reginald Horsman, American Indian Policy in the Old Northwest, 1783-1812, in «The William & Mary Quarterly», 1, gennaio 1961, p. 38. Sempre di Horsman si veda Expansion and American Indian Policy, 1783-1812, East Lansing, Michigan State University Press 1967; sulla politica estera degli Stati Uniti e i rapporti con le nazioni indiane si vedano le condivisibili considerazioni di Arthur N. Gilbert, The American Indian and United States Diplomatic History, in «The History Teacher», 8, febbraio 1975, pp. 229-41. 21 Oltre che in Onuf, Statehood and Union, cit., il testo della Northwest Ordinance può essere consultato all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/ nworder.htm. Sulla preferenza per una politica di incorporazione rispetto a una di rimozione si vedano Rodriguez, The Emancipation of America, cit. e Horsman, American Indian Policy, cit. Sugli scontri con le nazioni indiane si tornerà nel prossimo capitolo. 22 Hamilton, Il Federalista n.1, cit. 23 Il termine «energia» ricorre con frequenza nei Federalist (ad esempio nel n. 9 di Hamilton e nel n. 37 di Madison), così come le tematiche di politica estera, presenti – in modo diretto o indiretto – in quasi tutti i contributi. Sui Federalist e la politica estera si vedano Hendrickson, Peace Pact, cit.; William E. Nelson, Reason and Compromise in the Establishment of the Federal Constitution, 1787-1801, in «The William & Mary Quarterly», 44, luglio 1987, pp. 458-84 e John Allphin Moore Jr., Empire, Republicanism, and Reason: Foreign Affairs as Viewed by the Founders of the Constitution, in «The History Teacher», 3, maggio 1993, pp. 297-315. 24 Walter Lippmann, U.S. Foreign Policy: Shield of the Republic, Boston, Little Brown 1943. Su questo aspetto si veda soprattutto Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995). 25 Lance Banning, Sacred Fire of Liberty: James Madison and the Founding of the Federal Republic, Ithaca, Cornell University Press 1995; Jack N. Rakove, James Madison and the Creation of the American Republic, New York, Longman 20022. 26 Le citazioni sono tratte dal Federalista n. 10 e dal Federalista n. 51, in Kramnick (a cura di), The Federalist Papers, cit., pp. 122-28 e 319-22. 27 Elemento questo su cui insiste molto Rossignol, Le ferment nationaliste, cit., così come un classico della storiografia revisionista come William Appleman Williams, Empire as a Way of Life. An Essay on the Causes and Character of America’s Present Predicament, Along with a Few Thoughts About an Alternative, Oxford, Oxford University Press 1980. 28 Negli ultimi anni sono stati dedicati molti studi, spesso ammirati e talvolta agiografici, alla figura di Hamilton. Per alcuni esempi, puramente illustrativi, si vedano Richard Brookhisser, Alexander Hamilton, American, New York, Touchstone 1999; Lawrence S. Kaplan, Alexander Hamilton: Ambivalent Anglophile, Wilmington, SR Books 2002; Stephen Knott, Alexander Hamilton and the Persistence of Myth, Lawrence, The University Press of Kansas 2002; Ron Chernow, Alexander Hamilton, New York, Penguin 2004 e l’analisi, scientificamente seria e rigorosa ancorché dichiaratamente hamiltoniana di John Lamberton Harper, American Machiavelli. Alexander Hamilton and the Origins of U.S. Foreign Policy, Cambridge, Cambridge University Press 2004. 29 Harper, American Machiavelli, cit., p. 13. La citazione di Adams è tratta da Brookhisser, Alexander Hamilton, cit., p. 3. Sull’infanzia di Hamilton si veda inol-

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tre Harold Larson, Alexander Hamilton: The Fact and Fiction of His Early Years, in «The William & Mary Quarterly», 9, aprile 1952, pp. 139-51. 30 Harper, American Machiavelli, cit., p. 17. Sulle fondamenta della visione economica e finanziaria di Hamilton si veda l’insuperato lavoro di Stanley Elkins, Erik McKitrick, The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, Oxford, Oxford University Press 1993, pp. 77-131; si veda inoltre James A. Field Jr., 1789-1820: All Economists, All Diplomats, in William H. Becker, Samuel F. Wells Jr. (a cura di), Economics and World Power: An Assessment of American Diplomacy since 1789, New York, Columbia University Press 1984, pp. 1-54; sull’influenza del modello britannico e della sua cultura politica negli Stati Uniti del tardo Settecento si vedano le considerazioni in Eliga Gould, Persistence of Empire. British Political Culture in the Age of the American Revolution, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2000. 31 Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 71-73 e 96-114; Varg, Foreign Policies, cit., pp. 70-79. 32 Hamilton, citato in Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 125; la precedente citazione viene da Harper, American Machiavelli, cit., p. 22. 33 Le citazioni nel capoverso sono tratte da Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 90-92. Sull’influenza della esperienza virginiana nell’anglofobia di Madison insiste molto la monumentale biografia in sei volumi di Irving Brant, James Madison, Indianapolis, Bobbs-Merrill 1941-61. Si veda inoltre Greg Russel, Madison’s Realism and the Role of Domestic Ideas in Foreign Affairs, in «Presidential Studies Quarterly», 25, autunno 1995, pp. 711-23. 34 Harper, American Machiavelli, cit., p. 57. 35 Varg, Foreign Policies, cit., pp. 73-74. Eletto alla Camera dei rappresentanti, Madison cercò nel 1789 d’introdurre dei provvedimenti che stabilivano dazi diversi sulle merci importate da paesi alleati e non alleati degli Stati Uniti. Vigendo ancora il trattato di amicizia tra Stati Uniti e Francia, il provvedimento avrebbe discriminato la Gran Bretagna a favore di quest’ultima. Si vedano Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 64-69; Merril D. Peterson, Thomas Jefferson and Commercial Policy, in «The William & Mary Quarterly», 4, ottobre 1965, pp. 584-610; Peter S. Onuf, Jefferson’s Empire. The Language of American Nationhood, Charlottesville, University of Virginia Press 2000, pp. 70-73. 36 Harper, American Machiavelli, cit., p. 55. 37 Jefferson, citato rispettivamente in Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, cit., p. 98 e in Perkins, The Creation of a Republican Empire, 1776-1865, vol. I di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993, p. 86. La citazione di Hamilton è in Varg, Foreign Policies, cit., p. 80. Si veda inoltre Lawrence S. Kaplan, Entangling Alliances with None. American Foreign Policy in the Age of Jefferson, Kent, The Kent State University Press 1987. 38 Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 82-84. 39 Sia la smobilitazione delle fortificazioni che la restituzione dei prestiti e dei beni confiscati erano previsti dall’accordo di Parigi del 1783. In realtà, tra i due aspetti si era venuta a creare una stretta interdipendenza e i forti divennero lo strumento negoziale utilizzato dalla Gran Bretagna per ottenere quanto le era dovuto. 40 Citato in Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 245. Si veda inoltre Bradford Perkins, The First Rapprochement. England and the United States, 1795-1805, Berkeley, University of California Press 19672.

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Note

41 Gli storici si sono spesso divisi, parteggiando per Jefferson o per Hamilton. Negli ultimi anni sembra essersi decisamente affermata una vulgata storiografica hamiltoniana e, in taluni casi, addirittura anti-jeffersoniana. Per tre ottimi esempi si vedano Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit.; Harper, American Machiavelli, cit.; Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit. Per una classica lettura ortodossamente e tradizionalmente jeffersoniana si veda Albert H. Bowman, Jefferson, Hamilton, and American Foreign Policy, in «Political Science Quarterly», 1, marzo 1956, pp. 18-41; un’interpretazione moderatamente simpatetica verso la politica estera di Jefferson è espressa in Peterson, Thomas Jefferson, cit. 42 Si vedano Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 70-72 e i dati in John F. Stover, French-American Trade during the Confederation, 1781-1789, in «North Carolina Historical Review», 35, ottobre 1958, pp. 399-414. 43 Matthew Rainbow Hale, Many Who Wandered in Darkness. The Contest over American National Identity, 1795-1798, in «Early American Studies», 1, primavera 2003, p. 132. 44 Aspetto, questo, su cui insistono molto tre storici revisionisti, che pure adottano un approccio assai diverso, come Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, cit.; Lafeber, The American Age, cit.; Stephanson, Destino manifesto, cit. 45 La citazione di Jefferson è in Joseph Ellis, Founding Brothers. The Revolutionary Generation, New York, Vintage 2000, p. 142; quella di Hamilton è in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 84; quella di Washington è in Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, cit., p. 99. Sulle diverse risposte negli USA alla rivoluzione francese si vedano Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 303-73; David Brion Davis, American Equality and Foreign Revolutions, in «Journal of American History», 76, dicembre 1989, pp. 729-52 e la rassegna di Francis D. Cogliano, America and the French Revolution, in «History», ottobre 1999, pp. 658-65. 46 La crescente resistenza delle nazioni indiane della valle dell’Ohio aveva indotto il governatore del territorio nord-occidentale, Arthur St. Clair, a promuovere una campagna militare, mal condotta e pianificata, che si concluse con un attacco indiano e la morte di più di 900 uomini del contingente statunitense. Per dimensioni e impatto politico, la sconfitta di St. Clair rappresenta una delle più cocenti umiliazioni mai subite dagli Stati Uniti. Si vedano Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 250-51 e Varg, Foreign Policies, cit., pp. 95-96. 47 Il testo del proclama è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/neutra93.htm. Sul proclama e la natura della neutralità americana si vedano le diverse interpretazioni di Mlada Bukovansky, American Identity and Neutral Rights from Independence to the War of 1812, in «International Organization», 51, 1997, pp. 209-43 e James Sofka, American Neutral Rights Reappraised: Identity or Interest in the Foreign Policy of the Early Republic, in «Review of International Studies», 26, 2000, pp. 599-622. 48 La citazione di Jefferson è in Varg, Foreign Policies, cit., p. 84. Sul proclama di neutralità come un compromesso si vedano le considerazioni convincenti di Harper, American Machiavelli, cit., p. 104 e di Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 51-54 e la diversa interpretazione di Walter McDougall, Promised Land, Crusader State. The American Encounter with the World since 1776, Boston-New York, Houghton Mifflin 1997, pp. 29-31. 49 Citato in Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 343. Sulla missione di Gênet si veda inoltre Harry Hammond, The Gênet Mission and the Develop-

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ment of American Political Parties, in «Journal of American History», 4, marzo 1955, pp. 725-41. 50 La citazione di Washington è in Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 351; quella di Jefferson è in Harper, American Machiavelli, cit., p. 121. 51 La fase del terrore giacobino stava prendendo il via e Gênet avrebbe probabilmente fatto la fine di altri esponenti girondini, se il governo americano non gli avesse concesso rifugio negli Stati Uniti. Ritiratosi a vita privata negli Stati Uniti e trasformatosi in agricoltore di successo, il «cittadino Gênet» avrebbe sposato la figlia del governatore di New York, George Clinton, ottenuto la cittadinanza statunitense e incontrato il giovane Alexis de Tocqueville durante il primo viaggio di quest’ultimo in America, nel 1831. Si veda Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 372-73. 52 Ivi, p. 386; Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 56-57; Paul Bairoch, Europe’s Gross National Product, 1800-1975, in «Journal of European Economic History», 5, autunno 1975, pp. 273-340; Robert E. Gallman, Economic Growth and Structural Change in the Long Nineteenth Century e Robert Lipsey, U.S. Foreign Trade and the Balance of Payments, 1800-1913, entrambi in Robert E. Gallman, Stanley L. Engerman (a cura di), The Cambridge Economic History of the United States, vol. II, The Long Nineteenth Century, Cambridge, Cambridge University Press 2000, pp. 1-55 e pp. 685-732. 53 L’order in Council è un provvedimento emesso direttamente dalla corona, su suggerimento solitamente del primo ministro, senza il voto parlamentare. 54 In un primo momento il Congresso adottò per rappresaglia un embargo temporaneo di trenta giorni sui prodotti britannici. 55 Harper, American Machiavelli, cit., pp. 140-42; Jerald A. Combs, The Jay Treaty: Political Battleground of the Founding Fathers, Berkeley, University of California Press 1970, pp. 125-33; Todd Estes, John Jay, the Concept of Deference, and the Transformation of Early American Political Culture, in «The Historian», 65, inverno 2002, pp. 293-317. 56 I testi dei due trattati sono consultabili agli indirizzi http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/diplomacy/britain/jay.htm e http://www.enlou.com/documents/ pinckneystreaty.htm. 57 La storiografia è ancora divisa nel giudizio sul trattato di Jay. L’hamiltoniano Harper lo considera complessivamente un successo e il massimo che gli USA potessero ottenere (Harper, American Machiavelli, cit., p. 148). Simile è l’opinione di Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 410. Giudizi più critici si trovano invece in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 99-100 e, soprattutto, in Samuel Flagg Bemis, Jay’s Treaty. A Study in Commerce and Diplomacy, New York, Mcmillan 1923. Si vedano inoltre le considerazioni storiografiche in Jerald A. Combs, American Diplomatic History. Two Centuries of Changing Interpretations, Berkeley, University of California Press 1983, pp. 153-67. 58 Madison, citato in Ellis, American Sphinx, cit., p. 158; Hamilton, citato rispettivamente in Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, cit., p. 25 e in Varg, Foreign Policies, cit., p. 108. 59 Washington, citato in Ellis, Founding Brothers, cit., pp. 136-37; Rainbow Hale, Many Who Wandered in Darkness, cit.; Thomas A. Bailey, A Diplomatic History of the American People, New York, Appleton 19586, pp. 78-79 («arcitraditore» e «meretrice Inghilterra»); Samuel Flagg Bemis, A Diplomatic History of the United States, New York, Holt 19554, pp. 102-106. Paine, citato in Harvey J. Kaye, Thomas Paine and the Promise of America, New York, Hill & Wang 2005, p. 88.

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Note

60 Uno dei voti decisivi nell’alterare l’equilibrio alla Camera fu quello del rappresentante della Pennsylvania, Frederick Muhlenberg. Pochi giorni più tardi, Muhlenberg fu accoltellato dal cognato per la sua decisione. Si veda Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 101. Sul dibattito si vedano inoltre i due saggi di Todd Estes, Shaping the Politics of Public Opinion: Federalists and the Jay Treaty Debate, in «Journal of the Early Republic», 20, 2000, pp. 393-422 e «The Most Bewitching Piece of Parliamentary Oratory». Fisher Ames’ Jay Treaty Speech Reconsidered, in «Historical Journal of Massachusetts», 28, inverno 2000, pp. 1-22. 61 Solo con il dodicesimo emendamento alla Costituzione, del 1804, i voti per presidente e vicepresidente sarebbero stati separati. 62 Le due citazioni di Delacroix sono in Bemis, A Diplomatic History, cit., p. 107 e in Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., p. 508; Adet è citato in Varg, Foreign Policies, cit., p. 125. Si veda inoltre Harper, American Machiavelli, cit., pp. 168-69. 63 Uno solo di questi, il «Courier of New Hampshire», lo titolò con il nome – Farewell Address – con cui sarebbe divenuto noto negli anni. Il testo del Farewell Address è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/washing. htm. 64 Le citazioni provengono rispettivamente da Ellis, Founding Brothers, cit., p. 122; Samuel Flagg Bemis, Washington’s Farewell Address. A Foreign Policy of Independence, in «American Historical Review», 2, gennaio 1934, p. 262; Michael J. Hostetler, Washington’s Farewell Address: Distance as Bane and Blessing, in «Rhetoric and Public Affairs», 3, 2002, p. 394. 65 Per alcuni esempi, puramente illustrativi, si vedano le diverse interpretazioni di Bemis, Washington’s Farewell Address, cit.; McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., pp. 44-48; Felix Gilbert, To the Farewell Address. Ideas of Early American Foreign Policy, Princeton, Princeton University Press 1961, pp. 115-47; Burton I. Kaufman, Washington’s Farewell Address. The View from the 20th Century, Chicago, Quadrangle Books 1969; Arthur A. Markowitz, Washington’s Farewell and the Historians. A Critical Review, in «Pennsylvania Magazine of History and Biography», 94, 1970, pp. 173-91; Matthew Spalding, Patrick J. Garrity, A Sacred Union of Citizens: George Washington’s Farwell Address and the American Character, Lanham, Rowman & Littlefield 1996. 66 Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 643-62; della rivoluzione di Santo Domingo e del suo impatto sugli Stati Uniti si dirà nel cap. III. 67 Alexander DeConde, The Quasi-War: The Politics and Diplomacy of the Undeclared War with France, 1797-1801, New York, Scribner’s 1966; John M. Owen IV, Liberal Peace, Liberal War. American Politics and International Security, Ithaca, Cornell University Press 1997, pp. 81-88. Nessuna imbarcazione statunitense era in possesso del rôle d’équipage ora richiesto dai francesi. Si vedano Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 551-52; Varg, Foreign Policies, cit., pp. 12931; Harper, American Machiavelli, cit., pp. 205-206. 68 Lipsey, U.S. Foreign Trade, cit. 69 Pochi mesi prima il governo francese aveva inflitto un’ulteriore umiliazione agli Stati Uniti, rifiutandosi di ricevere Pinckney come nuovo rappresentante diplomatico statunitense in Francia. 70 William C. Stinchcombe, The Diplomacy of the WXYZ Affair, in «The William & Mary Quarterly», 4, ottobre 1977, p. 598; David McCullough, John Adams, New York, Simon & Schuster 2001, pp. 494-97.

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Rainbow Hale, Many Who Wandered in Darkness, cit., p. 175. La battaglia sui mari caraibici e i successi della neonata Marina statunitense sono narrati, talvolta con enfasi trionfalistica, in Michael A. Palmer, Stoddert’s War: Naval Operations during the Quasi-War with France, 1798-1801, Columbia, University of South Carolina Press 1989. 73 Si vedano a questo riguardo le diverse interpretazioni di Harper, American Machiavelli, cit., pp. 205-36 e di Ellis, Founding Brothers, cit., pp. 192-95. 74 Su questo si vedano soprattutto le considerazioni di Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton 1998 e di Kaye, Thomas Paine, cit. 75 I testi delle quattro leggi sono consultabili all’indirizzo http://www.loc.gov/ rr/program/bib/ourdocs/Alien.html. 76 John C. Miller, Crisis in Freedom: The Alien and Seditions Acts, Boston, Little Brown 1951; James Morton Smith, Freedom’s Fetters. The Alien and Sedition Laws and American Civil Liberties, Ithaca, Cornell University Press 1956; James Roger Sharp, American Politics in the Early Republic. The New Nation in Crisis, New Haven, Yale University Press 1993, pp. 163-84; Martti Juhani Rudanko, James Madison and Freedom of Speech. Major Debates in the Early Republic, Dallas, University Press of America 2004; Maurice J. Bric, The Irish Immigrant and the Broadening of the Polity in Philadelphia, in Eliga H. Gould, Peter S. Onuf (a cura di), Empire and Nation. The American Revolution in the Atlantic World, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 2005, pp. 159-77. 77 La prima citazione è tratta dalla risoluzione della Virginia, la seconda da quella del Kentucky. I due documenti sono consultabili agli indirizzi http://www.yale. edu/lawweb/avalon/virres.htm e http://www.yale.edu/lawweb/avalon/jeffken. htm. 78 Harper, American Machiavelli, cit., p. 234; Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 719-26; Onuf, Jefferson’s Empire, cit., pp. 72-73. 79 Elkins, McKitrick, The Age of Federalism, cit., pp. 670-71. 80 Ivi, p. 680. 81 Bailey, A Diplomatic History, cit., p. 98. 71 72

Capitolo III 1 Thomas Jefferson, First Inaugural Address, Washington, 4 marzo 1801 (disponibile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/presiden/inaug/jefinau1.htm); Peter S. Onuf, Jefferson’s Empire. The Language of American Nationhood, Charlottesville, University of Virginia Press 2000, p. 106. 2 Joseph Ellis, American Sphinx. The Character of Thomas Jefferson, New York, Knopf 1997, p. 107; si veda anche Stephen Howard Browne, «The Circle of Our Felicities»: Thomas Jefferson’s First Inaugural Address and the Rhetoric of Nationhood, in «Rhetoric & Public Affairs», 3, 2002, pp. 409-38. 3 Jefferson, First Inaugural Address, cit. Sulla continuità tra il Farewell Address di Washington e l’Inaugural Address di Jefferson insiste Michael Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven, Yale University Press 1987, pp. 27-28. 4 Drew McCoy, The Elusive Republic: Political Economy in Jeffersonian America, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1980; Theodore J. Crackel, Mr. Jefferson’s Army: Political and Social Reform of the Military Establishment, 1801-1809, New York, New York University Press 1987; Doron S. Ben-Atar, The

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Note

Origins of Jeffersonian Commercial Policy and Diplomacy, New York, St. Martin’s Press 1993. Per un’aspra, e talora eccessiva, critica del moralismo jeffersoniano e del suo impatto sulla politica estera del paese si veda David C. Hendrickson, Robert W. Tucker, Empire of Liberty. The Statecraft of Thomas Jefferson, Oxford, Oxford University Press 1990. 5 John C. Murrin, The Jeffersonian Triumph and American Exceptionalism, in «Journal of the Early Republic», 20, primavera 2000, pp. 1-20; Walter Lafeber, Jefferson and an American Foreign Policy, in Peter S. Onuf (a cura di), Jeffersonian Legacies, Charlottesville, University of Virginia Press 1993, pp. 370-91. 6 Le citazioni di Hamilton e Jefferson sono tratte da Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 96 e 98. Quella di Madison è in Norman A. Graebner, Foundations of American Foreign Policy. A Realist Appraisal from Franklin to McKinley, Wilmington, Scholarly Resources 1985, p. 110. 7 La definizione è dello storico Arthur Preston Whitaker, citato in Paul A. Varg, Foreign Policies of the Founding Fathers, East Lansing, Michigan State University Press 1963, p. 150. 8 Questo aspetto è sottolineato con forza nella ricchissima ricerca di Peter J. Kastor, The Nation’s Crucible. The Louisiana Purchase and the Creation of America, New Haven, Yale University Press 2004, pp. 34-38. Ma si veda anche Alexander DeConde, This Affair of Louisiana, New York, Scribner’s 1976. 9 Sull’interdipendenza strettissima nella visione jeffersoniana tra sicurezza ed espansionismo si vedano le intelligenti considerazioni di Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 95-100. Sulle altre matrici dell’espansionismo jeffersoniano si rimanda a Donald Jackson, Thomas Jefferson and the Stony Mountains: Exploring the West from Monticello, Urbana, University of Illinois Press 1981 e James P. Ronda (a cura di), Thomas Jefferson and the Changing West. From Conquest to Conservation, Albuquerque, University of New Mexico Press 1997. 10 Il testo del trattato di San Lorenzo è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/spain/sp1795.htm. Si veda inoltre Raymond A. Young, Pinckney’s Treaty. A New Perspective, in «The Hispanic American Historical Review», 4, novembre 1963, pp. 526-35. 11 Rufus King, citato in Bradford Perkins, The Creation of a Republican Empire, 1776-1865, vol. I di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993, p. 114. 12 Il territorio della Louisiana aveva limiti vaghi e per nulla certi. In una visione massimalista, inizialmente adottata dagli Stati Uniti, essa includeva il territorio a ovest del Mississippi, fino alle Montagne Rocciose, e includeva il Texas e le due Floride. 13 Alcune utili considerazioni su questo aspetto si trovano nella magistrale opera di Donald William Meinig, The Shaping of America. A Geographical Perspective on 500 Years of History, vol. II, Continental America, 1800-1867, New Haven, Yale University Press 1993, pp. 3-10. Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 101-107 esagerano l’interesse napoleonico a costruire un vero e proprio impero sul continente nord-americano, per giustificare la loro posizione hamiltoniana e anti-jeffersoniana fondata sul presupposto di una naturale convergenza d’interessi strategici e geopolitici tra Stati Uniti e Gran Bretagna. 14 Tim Matthewson, Jefferson and Haiti, in «The Journal of Southern History», 2, maggio 1995, pp. 209-48; Thomas O. Ott, The Haitian Revolution, Knoxville, University of Tennessee Press 1973.

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15 David Brion Davis, The Problem of Slavery in the Age of Revolutions, 17701823, Ithaca, Cornell University Press 1975, pp. 148-52; Matthewson, Jefferson and Haiti, cit. 16 Il trattato di San Ildefonso, con cui la Spagna cedeva la Louisiana alla Francia, fu ratificato alla fine del 1800. Esso prevedeva però un periodo di transizione durante il quale la Francia avrebbe provveduto a rioccupare Haiti e la Spagna avrebbe continuato ad amministrare la Louisiana. Negli Stati Uniti si ritenne che la decisione spagnola di sospendere il diritto di deposito fosse ispirata dalla Francia; in realtà il provvedimento era stato assunto autonomamente da Madrid, con l’obiettivo esplicito di stimolare i contrasti tra Francia e Stati Uniti. 17 Varg, Foreign Policies, cit., pp. 153-55; Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 97-99; Sean M. Theriault, Party Politics during the Louisiana Purchase, in «Social Science History», 30, 2006, pp. 293-324. 18 Nell’illustrare la reazione di Jefferson, opto per una via intermedia tra l’interpretazione di chi, come Walter Lafeber, The American Age. U.S. Foreign Policy at Home and Abroad, New York-London, Norton 1989, pp. 52-58, sostiene che il presidente si mosse con abile e spregiudicato cinismo e chi, come Hendrickson e Tucker, Empire of Liberty, cit., ne enfatizza invece l’assoluta passività di fronte a eventi mal interpretati e ancor peggio gestiti. 19 Matthewson, Jefferson and Haiti, cit., costituisce lo studio più dettagliato sul comportamento di Jefferson rispetto alla crisi di Haiti. Sull’ambigua posizione di Jefferson si vedano inoltre le considerazioni in David Brion Davis, American Equality and Foreign Revolutions, in «Journal of American History», 4, dicembre 1989, pp. 729-52. 20 Meinig, The Shaping of America, cit., vol. II, p. 10; Varg, Foreign Policies, cit.; Kastor, The Nation’s Crucible, cit., pp. 38-40. 21 Sul negoziato si vedano DeConde, This Affair of Louisiana, cit. e Ellis, American Sphinx, cit., pp. 203-205. Si vedano inoltre le utili considerazioni in John M. Belohlavek, Politics, Principle and Pragmatism in the Early Republic: Thomas Jefferson and the Quest for American Empire, in «Diplomatic History», 4, autunno 1991, pp. 599-606. 22 Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., p. 132; Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 116-18; Varg, Foreign Policies, cit., pp. 153-55; William Earl Weeks, Building the Continental Empire. American Expansion from the Revolution to the Civil War, Chicago, Ivan Dee 1996, pp. 24-28; Reginald Horsman, Expansion and American Foreign Policy, East Lansing, Michigan State University Press 1967. 23 Meinig, The Shaping of America, cit., vol. II, p. 12. 24 Jefferson, citato in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 117 e in Reginald Horsman, The Dimension of an «Empire of Liberty»: Expansion and Republicanism, 1775-1825, in «Journal of the Early Republic», 1, primavera 1989, pp. 1-20; Varg, Foreign Policies, cit., pp. 155-56; David Mayer, The Constitutional Thought of Thomas Jefferson, Charlottesville, University of Virginia Press 1994. 25 Su questo aspetto insiste molto, e in modo convincente, Kastor, The Nation’s Crucible, cit. 26 Citato ivi, pp. 43-48. 27 Breckinridge, citato in Horsman, The Dimension, cit., p. 7. Peter J. Kastor, nel suo pregevole lavoro, contesta questa lettura, asserendo che la natura limitata delle proposte avanzate dagli USA alla Francia dimostra l’assenza di un vasto pro-

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Note

getto espansionistico e imperiale. Nel farlo, però, non presta sufficiente attenzione al legame che vi era tra la volontà di controllare New Orleans e l’espansione fino ad allora promossa dagli Stati Uniti. Su questo punto, ritengo ancora valida la letteratura che lega l’acquisto della Louisiana al successivo, impetuoso processo di espansione continentale. Per alcuni esempi tra i tanti si vedano Lawrence Owsley Jr., Gene A. Smith, Filibusters and Expansionists: Jeffersonian Manifest Destiny, 1800-1821, Tuscaloosa, The University of Alabama Press 1997; Reginald Horsman, Race and Manifest Destiny: The Origins of American Racial Anglo-Saxonism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1981; Weeks, Building the Continental Empire, cit.; Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995). 28 Jefferson, citato in Lawrence S. Kaplan, Jefferson, the Napoleonic Wars, and the Balance of Power, in «The William & Mary Quarterly», 2, aprile 1957, p. 196. 29 Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 189-92; Burton Spivak, Jefferson’s English Crisis: Commerce, Embargo, and the Republican Revolution, Charlottesville, University of Virginia Press 1979, pp. 11-23; James A. Field Jr., 17891820. All Economists. All Diplomats, in William H. Becker, Samuel F. Wells Jr. (a cura di), Economics and World Power. An Assessment of American Diplomacy since 1789, New York, Columbia University Press 1984, pp. 29-31. 30 Adams, citato in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 119; Madison, citato in Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., p. 117; Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 26. 31 Adams, citato in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 121. Si veda inoltre Reginald Horsman, The Causes of the War of 1812, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 1962, pp. 26-32. Sulla pratica dell’impressment si vedano le considerazioni in Robert E. Cray Jr., Remembering the USS Chesapeake. The Politics of Maritime Death and Impressment, in «Journal of the Early Republic», 4, autunno 2005, pp. 445-74. 32 Anthony Steel, Impressment in the Monroe-Pinkney Negotiation, 1806-07, in «American Historical Review», 2, gennaio 1952, pp. 352-69; Bradford Perkins, Prologue to War, Berkeley, University of California Press 1961, cap. 4; Donald Hickey, The Monroe-Pinkney Treaty of 1806. A Reappraisal, in «The William & Mary Quarterly», 44, gennaio 1987, pp. 65-88. 33 Cray Jr., Remembering the USS Chesapeake, cit.; Perkins, Prologue to War, cit., pp. 141-44; Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 202-203. 34 Le citazioni provengono rispettivamente da Cray Jr., Remembering the USS Chesapeake, cit., pp. 446 e 456; Horsman, The Causes of the War of 1812, cit., p. 103; Spivak, Jefferson’s English Crisis, cit., p. 97. 35 Lo storico Leonard Levy ha definito questi provvedimenti come «la legislazione più repressiva e draconiana mai promulgata dal Congresso in tempo di pace» (citato in Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., p. 204). Una posizione in parte diversa è in Jeffrey A. Frankel, The 1807-1809 Embargo against Great Britain, in «The Journal of Economic History», 2, giugno 1982, pp. 291-308. 36 Non a caso gli storici hanno potuto interpretare in modo diverso questa scelta di Jefferson presentandola come un’iniziativa, per quanto fallimentare, che riconosceva l’importanza e la necessità di ricorrere alla forza per tutelare il solo interesse statunitense (Walter McDougall, Promised Land, Crusader State. The American Encounter with the World since 1776, Boston-New York, Houghton Mifflin

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1997, pp. 33-34), come un progetto atto a catalizzare una palingenesi dell’ordine internazionale (Murrin, The Jeffersonian Triumph, cit.) o come ennesima dimostrazione dell’inefficacia di una politica estera moralista e poco attenta alle regole dell’equilibrio di potenza (Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit.). 37 Reginald Stuart, James Madison and the Militants: Republican Disunity and Replacing the Embargo, in «Diplomatic History», 2, primavera 1982, p. 147. 38 Kaplan, Jefferson, the Napoleonic Wars, and the Balance of Power, cit., p. 205; Hendrickson, Tucker, Empire of Liberty, cit., pp. 208-12. 39 Si vedano a tale riguardo Richard Mannix, Gallatin, Jefferson, and the Embargo of 1808, in «Diplomatic History», 2, primavera 1979, pp. 151-72 e Ben-Atar, The Origins of Jeffersonian Commercial Policy, cit. 40 Madison, citato in J.C.A. Stagg, James Madison and the Coercion of Great Britain: Canada, the West Indies, and the War of 1812, in «The William & Mary Quarterly», 1, gennaio 1981, p. 30. Sulle idee di Madison in materia di commercio e di rapporti con la Gran Bretagna si rimanda a Stanley Elkins, Erik McKitrick, The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, Oxford, Oxford University Press 1993, pp. 133-61 e supra, cap. II. 41 Stuart, James Madison and the Militants, cit.; Ronald L. Hatzenbuehler, Party Unity and Decision for War in the House of Representatives, in «The William & Mary Quarterly», 29, luglio 1972, pp. 367-90; J.C.A. Stagg, James Madison and the «Malcontents»: The Political Origins of the War of 1812, in «The William and Mary Quarterly», 4, ottobre 1976, pp. 557-85. 42 Su questi aspetti si veda la dettagliata ricostruzione di Spivak, Jefferson’s English Crisis, cit. e quelle, sintetiche ma esaustive, di Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 130-33 e di Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 125-31. 43 Clay, citato in Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., p. 130. Sui war hawks e sull’eccessivo peso a lungo attribuito loro dalla storiografia si vedano le importanti considerazioni in J.C.A. Stagg, Mr. Madison’s War. Politics, Diplomacy, and Warfare in the Early American Republic, 1783-1830, Princeton, Princeton University Press 1983. 44 Stagg, James Madison and the «Malcontents», cit., pp. 566-67 e Perkins, Prologue to War, cit., pp. 245-50. 45 Stagg, Mr. Madison’s War, cit., pp. 293-96 e Robert W. Smith, Keeping the Republic. Ideology and Early American Diplomacy, DeKalb, Northern Illinois University Press 2004, pp. 134-35. 46 Madison, citato in Smith, Keeping the Republic, cit., p. 134. 47 Stagg, James Madison and the «Malcontents», cit., p. 584; Stuart, James Madison and the Militants, cit.; Hatzenbuehler, Party Unity and Decision for War, cit.; Id., The War Hawks and the Question of Congressional Leadership in 1812, in «Pacific Historical Review», 45, 1976, pp. 1-22. 48 James G. Cusick, The Other War of 1812: The Patriot War and the American Invasion of East Florida, Gainesville, University of Florida Press 2003; Stagg, James Madison and the Coercion, cit.; Id., James Madison and George Mathews: The East Florida Revolution of 1812 Reconsidered, in «Diplomatic History», 1, gennaio 2006, pp. 23-56. Sugli «espansionisti del 1812» si rimanda al classico Julius Pratt, Expansionists of 1812, Gluchester, Smith 19573. Per un’aggiornata discussione storiografica, centrata però principalmente sulla dimensione militare, si veda Donald

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Note

R. Hickey, The War of 1812. Still a Forgotten Conflict?, in «Journal of Military History», 3, luglio 2001, pp. 741-69. 49 National Intelligencer, citato in John M. Owen IV, Liberal Peace, Liberal War. American Politics and International Security, Ithaca, Cornell University Press 1997, p. 95; Madison, citato in Smith, Keeping the Republic, cit., p. 134. La centralità delle azioni britanniche sull’Atlantico e dell’umiliazione che queste infliggevano all’onore degli Stati Uniti è considerata la causa principale del conflitto sia in Perkins, Prologue to War, cit. sia in Horsman, The Causes of the War of 1812, cit. Parzialmente simile è la tesi di Norman K. Risjord, 1812: Conservatives, War Hawks and the Nation’s Honor, in «The William & Mary Quarterly», 2, aprile 1961, pp. 196210. 50 Citato in Greg Russel, Madison’s Realism and the Role of Domestic Ideals in Foreign Affairs, in «Presidential Studies Quarterly», 25, autunno 1995, p. 717. 51 Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 137. L’impreparazione degli Stati Uniti è sottolineata in quasi tutti gli studi sul conflitto del 1812-14. Si vedano, tra i tanti, Stagg, Mr. Madison’s War, cit. e Perkins, Prologue to War, cit. La citazione di Jefferson è tratta da Greg Russel, Jeffersonian Ethics in Foreign Affairs: John Quincy Adams and the Moral Sentiment of a Realist, in «Interpretation», 2, inverno 1990-91, p. 274. Sulla contraddizione tra il pacifismo repubblicano e la disponibilità a ricorrere alla guerra di Jefferson e Madison rimane insuperato Reginald Stuart, The Half-Way Pacifist: Thomas Jefferson’s View of War, Toronto, University of Toronto Press 1978. 52 Robert V. Remini, The Life of Andrew Jackson, New York, Penguin 1988, pp. 69-85; Carl Benn, The Iroquois in the War of 1812, Toronto, University of Toronto Press 1998; Anthony F.C. Wallace, Jefferson and the Indians. The Tragic Fate of First Americans, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1999, pp. 307-17; David S. Heidler, Jeanne T. Heidler, Old Hickory’s War. Andrew Jackson and the Quest for Empire, Baton Rouge, Louisiana State University Press 20032, pp. 9-54. 53 Stagg, Mr. Madison’s War, cit.; Roger Hamilton Brown, The Republic in Peril: 1812, New York, Columbia University Press 1964; Kenneth E. Shewmaker, «This Unblessed War»: Daniel Webster’s Opposition to the War of 1812, in «Historical New Hampshire», 2, primavera-estate 1998, pp. 21-45; Frank Lambert, The Barbary Wars. American Independence in the Atlantic World, New York, Hill & Wang 2005, pp. 181-202. 54 In questa occasione un giovane avvocato, Francis Scott Key, assistendo ai combattimenti compose un poema, lo Star-Spangled Banner, che 120 anni più tardi sarebbe stato adottato come inno nazionale. 55 Sulla battaglia di New Orleans, che concorse a fare di Jackson un eroe nazionale, si vedano Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., pp. 86-104 e Id., The Battle of New Orleans, New York, Viking 1999. 56 James A. Carr, The Battle of New Orleans and the Treaty of Ghent, in «Diplomatic History», 3, estate 1979, pp. 273-83. Il testo del trattato di Gand è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/britain/ ghent.htm. 57 Il testo del trattato di Greenville, con il fondamentale art. 5 che concedeva il diritto di azione preventiva, è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/greenvil.htm. Si vedano inoltre Wallace, Jefferson and the Indians, cit., pp. 172-74 e Reginald Horsman, Indian Policy in the Old Northwest, in «The William & Mary Quarterly», 1, gennaio 1961, pp. 45-47; Francis Paul Prucha, Ame-

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rican Indian Treaties. The History of a Political Anomaly, Berkeley, University of California Press 1994; Jay Gitlin, Private Diplomacy to Private Property: States, Tribes, and Nations in the Early National Period, in «Diplomatic History», 1, inverno 1998, pp. 85-99. 58 James P. Ronda, Lewis and Clark among the Indians, Lincoln, University of Nebraska Press 1984; Douglas Seefeldt, Jeffrey L. Hantman, Peter S. Onuf (a cura di), Across the Continent: Jefferson, Lewis and Clark, and the Making of America, Charlottesville, University of Virginia Press 2005; Marco Sioli, Esplorando la nazione. Alle origini dell’espansionismo americano, Verona, Ombre Corte 2005, pp. 21-68. 59 Horsman, Indian Policy in the Old Northwest, cit., p. 50. Si vedano anche Bernard Sheenan, Seeds of Extinction: Jeffersonian Philantropy and the American Indian, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1973; Francis Paul Prucha, The Great Father: The United States Government and the American Indians, Lincoln, University of Nebraska Press 1984; Harold Hellenbrand, Not «to Destroy but to Fulfil»: Jefferson, Indians, and Republican Dispensation, in «Eighteenth-Century Studies», 4, autunno 1985, pp. 523-49. 60 Wallace, Jefferson and the Indians, cit., p. 308; sul profeta shawnee si veda Russell David Edmunds, The Shawnee Prophet, Lincoln, University of Nebraska Press 1983. 61 Nel 1806 il profeta accusò di stregoneria uno dei capi dei delaware, Tetapachsit, riuscendo a farlo giustiziare. 62 Harrison, citato in Wallace, Jefferson and the Indians, cit., p. 315. Le principali nazioni indiane che componevano la confederazione occidentale nella valle dell’Ohio erano i wyandot, i delaware, gli shawnee, gli ottawa, i miami, i chippewa e i kickapoos; le cinque nazioni del Sud-Ovest – presenti sul territorio che include gli attuali Mississippi, Alabama, Tennessee, Georgia e Florida – erano i chickasaw, i choctaw, i cherokee, i creek e i seminole. Sui progetti geopolitici di Tecumseh si veda John Sugden, Tecumseh: A Life, New York, Holt 1998. 63 Sugli scambi di territorio con i cherokee e le difficoltà che questi ultimi incontrarono nell’insediarsi nella valle dell’Arkansas, dove risiedevano gli osages, si veda la suggestiva ricostruzione di Kathleen DuVal, Debating Identity, Sovereignty, and Civilization. The Arkansas Valley and the Louisiana Purchase, in «Journal of the Early Republic», 2, primavera 2006, pp. 25-58. Più in generale, sulle nazioni indiane del Sud-Ovest si vedano Gary Clayton Anderson, The Indian Southwest, 15801830: Ethnogenesis and Reinvention, Norman, University of Oklahoma Press 1999; Daniel K. Richter, Facing East from Indian Country: A Native History of Early America, Cambridge, Cambridge University Press 2001 e, sempre della DuVal, The Native Ground: Indians and Colonists in the Heart of the Continent, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 2006. 64 Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit.; Daniel H. Usner Jr., American Indians in the Lower Mississippi Valley, Lincoln, University of Nebraska Press 1998. 65 Le citazioni provengono rispettivamente da Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit., p. 29 e da Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., p. 112. 66 Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit., pp. 18-21; Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., pp. 79-83; William G. McLoughin, Cherokee Renascence in the New Republic, Princeton, Princeton University Press 1986, pp. 190-94. 67 Il territorio acquisito includeva gran parte dell’attuale Mississippi e una striscia settentrionale dell’attuale Florida.

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Note

68 Diversamente dai creek e dai cherokee, i seminole non praticavano la schiavitù, ma lasciavano ampia autonomia agli afro-americani fuggiti in Florida, permettendo loro di costruire proprie comunità autonome e imponendo loro una sorta di semivassallaggio basato principalmente sulla riscossione di un tributo economico annuo. Si vedano Kathryn E. Holland Braund, The Creek Indians, Blacks, and Slavery, in «The Journal of Southern History», 4, novembre 1991, pp. 601-36; Kevin Mulroy, Ethnogenesis and Ethnohistory of the Seminole Maroons, in «Journal of World History», 4, autunno 1993, pp. 287-305; Kenneth W. Porter, The Black Seminoles. History of a Freedom-Seeking People, Gainesville, University Press of Florida 1996 (edizione aggiornata e rivista da Alcione M. Amos e Thomas P. Senter). 69 Figlio del secondo presidente, John Quincy Adams fu nominato segretario di Stato da James Monroe, che successe a Madison come presidente nel 1816. 70 James Leitch Wright Jr., A Note on the First Seminole War as Seen by the Indians, Negroes, and Their British Advisers, in «The Journal of Southern History», 4, novembre 1968, pp. 565-75; William Earl Weeks, John Quincy Adams and the American Global Empire, Lexington, The University Press of Kentucky 1992, pp. 105-108. 71 Sui rapporti tra Jackson e l’amministrazione Monroe si vedano le diverse interpretazioni di Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit., secondo i quali Jackson agì spesso autonomamente, non seguendo le indicazioni dell’esecutivo e mettendo il presidente di fronte al fatto compiuto, e quella, più convincente, di Weeks, John Quincy Adams, cit., secondo il quale le azioni di Jackson furono spesso concordate con l’amministrazione, e comunque abilmente sfruttate da quest’ultima. 72 Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit., p. 60. Si vedano anche Daniel Littlefield Jr., Africans and Seminoles: From Removal to Emancipation, Westport, Greenwood Press 1977, pp. 5-9 e John D. Milligan, Slave Rebelliousness and the Florida Maroon, in «Prologue», 6, primavera 1974, pp. 4-18. 73 Monroe, citato in Weeks, John Quincy Adams, cit., p. 109. 74 Ivi, p. 111. Sulla guerra del 1817-18 si vedano inoltre Id., Building the Continental Empire, cit., pp. 40-49; Heidler, Heidler, Old Hickory’s War, cit., pp. 87233; Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., pp. 117-28; Leitch Wright Jr., A Note on the First Seminole War, cit.; Id., Creeks and Seminoles. The Destruction and Regeneration of the Muscogulge People, Lincoln, University of Nebraska Press 1986, pp. 204-209. 75 Onís, citato in Weeks, John Quincy Adams, cit., p. 113. Si vedano anche Id., Building the Continental Empire, cit., pp. 44-45; Samuel Flagg Bemis, John Quincy Adams and the Foundations of American Foreign Policy, New York, Knopf 1949, pp. 308-19. 76 Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 208-11; Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 157-58. Tra i due paesi rimaneva peraltro un contenzioso commerciale solo in parte mitigato da un accordo ratificato nel 1815. 77 I due fratelli di John Quincy, Charles e Thomas, non ressero le pressioni e le aspettative dei genitori e finirono travolti dall’alcolismo. 78 Le citazioni di John Quincy Adams sono tratte rispettivamente da Weeks, John Quincy Adams, cit., pp. 15, 17, 20, da Stephanson, Destino manifesto, cit., pp. 83-84 e da Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 149. Si vedano inoltre Walter Lafeber (a cura di), John Quincy Adams and American Continental Empire, Chicago, Quadrangle Books 1965 e Lynn Hudson Parsons, John Quincy

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Adams, Madison, Madison House 1998. Per una difesa di Adams si veda Greg Russel, John Quincy Adams and the Ethics of America’s National Interest, in «Review of International Studies», 19, 1993, pp. 23-38 e Id., John Quincy Adams and the Public Virtues of Diplomacy, Columbia, University of Missouri Press 1995. Per un tentativo, assai goffo e maldestro, di legare Adams a Bush Jr., presentando il primo come il progenitore della dottrina della guerra preventiva, si veda John Lewis Gaddis, Surprise, Security and the American Experience, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2004. 79 Adams, citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., pp. 45-46. Sulla lettera di Adams si vedano inoltre le considerazioni di Richard Drinnon, Facing West: The Metaphysics of Indian-Hating and Empire-Building, Minneapolis, University of Minnesota Press 1980, pp. 106-11; William Earl Weeks, John Quincy Adams’s «Great Gun» and the Rhetoric of American Empire, in «Diplomatic History», 1, inverno 1990, pp. 25-42. Sull’atteggiamento di Adams verso gli indiani Lynn Hudson Parsons, «A Perpetual Harrow upon My Feelings»: John Quincy Adams and the American Indian, in «The New England Quarterly», 3, settembre 1973, pp. 339-79. 80 Weeks, John Quincy Adams, cit., pp. 122-26; Bemis, John Quincy Adams, cit., pp. 317-40; Lafeber, The American Age, cit., pp. 80-83; Noble E. Cunningham Jr., The Presidency of James Monroe, Lawrence, The University Press of Kansas 1996, pp. 69-71. 81 Adams, citato in Lafeber, The American Age, cit., p. 84. Si vedano inoltre McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., pp. 60-62; Irby C. Nichols Jr., The Russian Ukase and the Monroe Doctrine: A Re-Evaluation, in «The Pacific Historical Review», febbraio 1967, pp. 13-26; Howard Kushner, Conflict on the Northwest: American-Russia Rivalry in the Pacific Northwest, 1790-1867, Westport, Greenwood Press 1975, pp. 39-41; Irby C. Nichols Jr., Richard A. Ward, AngloAmerican Relations and the Russian Ukase: A Reassessment, in «The Pacific Historical Review», 4, novembre 1972, pp. 444-59. 82 Clay, citato in McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., p. 63 e in Weeks, John Quincy Adams, cit., p. 94. 83 Le citazioni sono tratte da Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, cit., pp. 59 e 101. 84 Sulle genuine paure statunitensi verso un possibile intervento europeo si vedano il classico Dexter Perkins, A History of the Monroe Doctrine, Boston, Little Brown 19633 e Harry Ammon, The Monroe Doctrine. Domestic Politics or National Decision?, in «Diplomatic History», 1, inverno 1981, pp. 53-70. 85 La matrice elettorale del comportamento di Adams, che si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali del 1824, è enfatizzata (ed esagerata) da Ernest R. May, The Making of the Monroe Doctrine, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1975. Si veda inoltre John J. Johnson, A Emisphere Apart: The Foundations of United States Policy toward Latin America, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 1990, pp. 75-81. 86 L’Argentina, il Cile, il Perù, la Grande Colombia e il Messico (quest’ultimo a dispetto del fatto che fosse una monarchia). Il Brasile fu riconosciuto nel 1824. Negli anni successivi altri riconoscimenti seguirono, anche se si dovette attendere fino al 1862 per vedere il riconoscimento della repubblica nera di Haiti. 87 La citazione di Jefferson è in McDougall, Promised Land, Crusader State, cit.,

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p. 63. Si veda inoltre Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 169-71. 88 Bradford Perkins, Castlereagh and Adams: England and the United States, 1812-1823, Berkeley, University of California Press 1964; Weeks, John Quincy Adams, cit., pp. 180-81; Mark T. Gilderhus, The Monroe Doctrine: Meanings and Implications, in «Presidential Studies Quarterly», 1, marzo 2006, pp. 5-16. 89 Il testo della Dottrina Monroe è consultabile all’indirizzo http://www. yale.edu/lawweb/avalon/monroe.htm. 90 Metternich, citato da Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 166.

Capitolo IV 1 Jackson aveva ricevuto la maggioranza dei voti già nelle elezioni presidenziali del 1824. In quella occasione, però, nessuno dei quattro candidati (Jackson, Adams, Clay e Crawford) aveva ottenuto la maggioranza assoluta. Spettò quindi alla Camera dei rappresentanti scegliere il presidente: i sostenitori di Clay appoggiarono John Quincy Adams, che fu eletto presidente. 2 Jackson beneficiò del processo di democratizzazione di quegli anni, caratterizzato da un progressivo ampliamento del suffragio e da tassi di partecipazione elettorale estremamente alti, soprattutto negli Stati occidentali. La letteratura sull’epoca jacksoniana è ricchissima; si rimanda qui alle sintesi, equilibrate e talora ecumeniche, di Robert V. Remini, The Life of Andrew Jackson, New York, Penguin 1988 e di Sean Wilentz, Andrew Jackson, New York, Times Books 2005. 3 La citazione di Jackson è tratta da Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., p. 209. 4 Eric N. Olund, From Savage Space to Governable Space: The Extension of United States Judicial Sovereignty over Indian Country in the Nineteenth Century, in «Cultural Geographies», 9, 2002, p. 130. Un’interpretazione diversa, che sottolinea invece gli elementi di continuità tra le aspirazioni ‘civilizzatrici’ di Jefferson e quelle di Jackson, è in Francis Paul Prucha, Andrew Jackson’s Indian Policy: A Reassessment, in «Journal of American History», 4, dicembre 1969, pp. 527-39. Si vedano inoltre le accurate ricostruzioni di Ronald N. Satz, American Indian Policy in the Jacksonian Era, Norman, University of Oklahoma Press 20022 e di Anthony F.C. Wallace, The Long Bitter Trail: Andrew Jackson and the Indians, New York, Hill & Wang 1993. 5 La citazione di Clay è in Reginald Horsman, Scientific Racism and the American Indian in the Mid-Nineteenth Century, in «American Quarterly», 2, maggio 1975, p. 154. Sempre di Horsman si veda Race and Manifest Destiny: The Origins of American Racial Anglo-Saxonism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1981. Sui trattati con le nazioni indiane si vedano le considerazioni di Francis Paul Prucha, American Indian Treaties. The History of a Political Anomaly, Berkeley, University of California Press 1994 e di Jay Gitlin, Private Diplomacy to Private Property: States, Tribes, and Nations in the Early National Period, in «Diplomatic History», 1, inverno 1998, pp. 85-99. Si veda inoltre Susan Scheckel, The Insistence of the Indian: Race and Nationalism in Nineteenth-Century American Culture, Princeton, Princeton University Press 1998.

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6 Sulla contraddizione tra la ratifica di molti trattati e il convincimento di Jackson che quelle indiane non potessero essere trattate come nazioni si vedano Gitlin, Private Diplomacy, cit. e Joshua Gagnon, The «Great American Desert»: The Congressional Debate on the Indian Removal Act of 1830, «The UMF Historian», 2, primavera 2006 (http://studentorgs.umf.maine.edu/~aio/historian/vol3iss2/vol3iss2. html). 7 Il testo dell’Indian Removal Act è consultabile all’indrizzo http://www.civicsonline.org/library/formatted/texts/indian_act.html. 8 Le prime due citazioni sono tratte da Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., pp. 214-15; sul paternalismo autoritario di Jackson si veda Jason Edward Black, Authoritarian Fatherhood: Andrew Jackson’s Early Familial Lectures to America’s «Red Children», in «Journal of Family History», 3, luglio 2005, pp. 247-64. Si veda inoltre Susan M. Ryan, The Grammar of Good Intentions. Race and the Antebellum Culture of Benevolence, Ithaca, Cornell University Press 2005, pp. 30-45 («benevola violenza»). 9 Alfred A. Cave, Abuse of Power: Andrew Jackson and the Indian Removal Act of 1830, in «The Historian», 65, inverno 2003, p. 1332. 10 Si veda la lucida analisi di Ronald N. Satz, Rhetoric versus Reality: The Indian Policy of Andrew Jackson, in William L. Anderson (a cura di), Cherokee Removal. Before and After, Athens, University of Georgia Press 1991, pp. 29-54. Sui costi umani della deportazione dei choctaw si veda, sempre nello stesso volume, il contributo di Russel Thornton, The Demography of the Trail of Tears Period: A New Estimate on Cherokee Population Losses, pp. 96-111. 11 Donald William Meinig, The Shaping of America. A Geographical Perspective on 500 Years of History, vol. II, Continental America, 1800-1867, New Haven, Yale University Press 1993, pp. 90-91. Si vedano inoltre Patrick Minges, Beneath the Underdog. Race, Religion and the Trail of Tears, in «American Indian Quarterly», 3, estate 2001, pp. 468-70 e Kevin Mulroy, Freedom on the Border, Lubbock, Texas Tech University Press 1993, pp. 30-32. 12 Su questo aspetto si veda Minges, Beneath the Underdog, cit., che però offre una posizione assai giustificazionista dello schiavismo indiano, tracciando una discutibile distinzione con quello statunitense. Sulla struttura della società cherokee si vedano Mary Young, The Cherokee Nation: Mirror of the Republic, in «American Quarterly», 1, inverno 1981, pp. 502-24 e Theda Perdue, The Conflict Within: Cherokees and Removal, in Anderson (a cura di), Cherokee Removal, cit., pp. 55-74. Più in generale, sulla «frontiera indiana» Nathan J. Citino, The Global Frontier: Comparative History and the Frontier-Borderlands Approach in American Foreign Relations, in «Diplomatic History», 4, autunno 2001, pp. 677-93 e Andrew R.L. Clayton, Frederika J. Teute, Contact Points: American Frontiers from the Mohawk Valley to the Mississippi, 1750-1830, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1998. 13 Il testo dell’accordo del 1791 è consultabile all’indirizzo http://www.yale. edu/lawweb/avalon/ntreaty/chr1791.htm. 14 Stephen Breyer, The Cherokee Indians and the Supreme Court, in «Journal of Supreme Court History», 3, novembre 2000, pp. 215-22; Scheckel, The Insistence of the Indian, cit. Il testo della sentenza è consultabile all’indirizzo http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court=US&vol=30&invol=1. 15 Nella fattispecie, si proclamava l’incostituzionalità di una legge della Georgia che proibiva l’ingresso nei territori indiani a bianchi sprovvisti di una licenza

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Note

statale. La legge intendeva bloccare i numerosi missionari che si recavano nei territori indiani e che assumevano le difese degli indiani. Il testo della sentenza è consultabile all’indirizzo http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court= US&vol=31&invol=515. 16 Tra la vasta letteratura su Calhoun e la nullification crisis si vedano le utili sintesi di David F. Ericson, The Shaping of American Liberalism: The Debates over Ratification, Nullification, and Slavery, Chicago, University of Chicago Press 1993 e di William W. Freehling, Prelude to Civil War. The Nullification Controversy in South Carolina, 1816-1836, Oxford, Oxford University Press 19922. 17 La prima tesi, più convincente, è sostenuta da Perdue, The Conflict Within, cit. e Id., Slavery and the Evolution of Cherokee Society, 1540-1866, Knoxville, University of Tennessee Press 1979. La seconda si trova invece in Young, The Cherokee Nation, cit. Meinig, The Shaping of America, cit., vol. II, pp. 86-90 sottolinea invece la persistenza dell’aggressione bianca contro i cherokee, anche dopo le sentenze della Corte, come del resto fa Michael P. Rogin, Fathers and Children: Andrew Jackson and the Subjugation of the American Indian, New York, Knopf 1975. 18 Remini, The Life of Andrew Jackson, cit., p. 217. Sulla fazione firmataria dell’accordo si vedano le interpretazioni giustificatorie di Young, The Cherokee Nation, cit. e di Walter McDougall, Promised Land, Crusader State. The American Encounter with the World since 1776, Boston-New York, Houghton Mifflin 1997, pp. 86-89 e quella, maggiormente critica, di Perdue, The Conflict Within, cit. 19 Di «frugalità» parla Satz, Rhetoric versus Reality, cit., p. 41. Si veda anche Thornton, The Demography of the Trail, cit. 20 La citazione di Tocqueville è tratta da Alexis de Tocqueville, La democrazia in America (1835-1840), a cura e con una introduzione di Giorgio Candeloro, Milano, Rizzoli 1992, p. 336. 21 L’articolo di John O’Sullivan in cui compare lo slogan manifest destiny s’intitolava The True Title e apparve sul «New York Morning News» del 27 dicembre 1845. 22 Lyon Rathbun, The Debate over Annexing Texas and the Emergence of Manifest Destiny, in «Rhetoric & Public Affairs», 3, 2001, p. 459. L’articolo di O’Sullivan da cui sono tratte le citazioni nel testo si intitolava The Great Nation of Futurity e apparve sulla «Democratic Review» del novembre 1839 (http://cdl.library. cornell.edu/cgi-bin/moa/moa-cgi?notisid=AGD1642-0006-46). Si vedano inoltre Robert J. Scholnick, Extermination and Democracy: O’Sullivan, the «Democratic Review» and Empire, 1837-1840, in «American Periodicals. A Journal of History, Criticism and Bibliography», 2, 2000, pp. 123-41; Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004, pp. 59-71 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995). 23 Le citazioni provengono rispettivamente da McDougall, Promised Land, Crusader State, cit., p. 77 e da William Earl Weeks, Building the Continental Empire. American Expansion from the Revolution to the Civil War, Chicago, Ivan Dee 1996, p. 63. 24 Oltre a Stephanson, Destino manifesto, cit. si vedano i classici (e discordanti) Albert K. Weinberg, Manifest Destiny. A Study of Nationalist Expansionism in American History, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 1935 e Frederick Merk, Manifest Destiny and Mission in American History. A Reinterpretation, New York, Knopf 1963 e i più recenti Weeks, Building the Continental Empire, cit.

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e Thomas Hietala, Manifest Design. American Exceptionalism & Empire, Ithaca, Cornell University Press 20032. 25 Horsman, Race and Manifest Destiny, cit. 26 In tal senso si esprime, talvolta in modo sprezzante, un realista come Norman A. Graebner, Foundations of American Foreign Policy. A Realist Appraisal from Franklin to McKinley, Wilmington, Scholarly Resources 1985. 27 Si veda l’utile introduzione di Susan-Mary Grant, When Is a Nation not a Nation? The Crisis of American Nationality in the Mid-Nineteenth Century, in «Nations and Nationalism», 1, 1996, pp. 105-29. Si veda inoltre Peter Temin, The Economic Consequences of the Bank War, in «The Journal of Political Economy», 2, marzo 1968, pp. 257-74 e, più in generale, molte delle considerazioni nel monumentale studio di Sean Wilentz, The Rise of American Democracy: Jefferson to Lincoln, New York, Norton 2005. 28 Si vedano Hietala, Manifest Design, cit. e Sam W. Haynes, Christopher Morris (a cura di), Manifest Destiny and Empire. American Antebellum Expansionism, College Station, Texas A&M University Press 1997. 29 Si veda supra, cap. III. 30 Adams, citato in Rathbun, The Debate, cit., p. 463. Il compromesso del Missouri permetteva di superare un’impasse venutasi a determinare in seguito alla domanda di ammissione all’Unione da parte del Missouri, che minacciava di alterare l’equilibrio al Senato. Il Missouri schiavista fu ammesso assieme al Maine non schiavista: la schiavitù fu proibita nel resto del territorio della Louisiana a nord del confine meridionale del Missouri, posto al parallelo 36° e 30’. Si vedano ora le recenti considerazioni di Sean Wilentz, Jeffersonian Democracy and the Origins of Political Antislavery in the United States: The Missouri Crisis Revisited, in «The Journal of the Historical Society», 3, settembre 2004, pp. 375-401. Più in generale sul mutamento dell’attitudine di Adams verso l’espansionismo si veda William W. Freehling, The Road to Disunion. Secessionists at Bay, 1776-1854, Oxford, Oxford University Press 1990, pp. 144-61. 31 Meinig, The Shaping of America, cit., vol. II, p. 128, che fornisce inoltre dei dati sulle dimensioni e le caratteristiche territoriali delle due grandi repubbliche nord-americane. 32 David J. Weber, The Mexican Frontier, 1821-1846, Albuquerque, University of New Mexico Press 1982; Andres A. Tijerina, Tejanos and Texas under the Mexican Flag, 1821-1836, College Station, Texas A&M University Press 1994; Gregg Cantrell, Stephen F. Austin: Empresario of Texas, New Haven, Yale University Press 1999. Approvata nel 1827, la Costituzione dello Stato di Coahuila e del Texas vietava esplicitamente la schiavitù. Si veda Nettie Lee Benson, Texas as Viewed from Mexico, 1820-1834, in «Southwestern Historical Quarterly», 1, gennaio 1987, pp. 219-91. 33 Per una stima della popolazione texana si veda http://www.tsha.utexas.edu/ handbook/online/articles/CC/ulc1.html. Per una severa denuncia della brutalità della colonizzazione del Texas si veda Gary Clayton Anderson, Conquest of Texas. Ethnic Cleansing in the Promised Land, 1820-1875, Norman, University of Oklahoma Press 2005. 34 Manuel de Mier y Terán, citato in María del Rosario Rodríguez Díaz, Mexico’s Vision of Manifest Destiny during the 1847 War, in «Journal of Popular Culture», 2, autunno 2001, pp. 42-43. Si vedano anche Gene M. Brack, Mexico Views Manifest Destiny, 1821-1846, Albuquerque, University of New Mexico Press 1975 e Pe-

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Note

dro F. Castro Martínez, Andrew Jackson y la causa texana, in «Secuencia», 20, maggio-agosto 1991, pp. 55-78. 35 Santa Anna e Jackson, citati in Bradford Perkins, The Creation of a Republican Empire, 1776-1865, vol. I di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993, p. 179. 36 James W. Pohl, Stephen L. Hardin, The Military History of the Texas Revolution: An Overview, in «Southwestern Historical Quarterly», 89, gennaio 1986, pp. 269-308 e Stephen L. Hardin, Texan Iliad: A Military History of the Texas Revolution, Austin, University of Texas Press 1994. 37 Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 179. 38 Channing, citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 99. Sul fronte abolizionista si veda Betty Fladeland, Who Were the Abolitionists?, in «The Journal of Negro History», 2, aprile 1964, pp. 99-115. Su Channing si rimanda alle appassionate considerazioni di Weinberg, Manifest Destiny, cit., pp. 11-13 e 130-32. 39 Le due citazioni provengono da Rathbun, The Debate, cit., pp. 464 e 466. Sulla seconda carriera politica di Adams, e le sue tante ambiguità, si vedano le acute osservazioni di William Earl Weeks, John Quincy Adams and the American Global Empire, Lexington, The University Press of Kentucky 1992, pp. 189-99. 40 Weeks, John Quincy Adams, cit., p. 195. Le due citazioni di Adams sono tratte da Rathbun, The Debate, cit., pp. 469-70. 41 Le citazioni di O’Sullivan e Buchanan sono tratte da Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 183 e 185: quella di Sawyer è in Weinberg, Manifest Destiny, cit., p. 146. 42 Stephanson, Destino manifesto, cit. Si veda anche Sally Frahm, The Cross and the Compass: Manifest Destiny, Religious Aspects of the Mexican-American War, in «Journal of Popular Culture», 2, autunno 2001, pp. 83-99. 43 Green e Calhoun, citati in Hietala, Manifest Design, cit., pp. 18 e 23-24, che insiste in modo particolare e convincente su questo aspetto; Jackson, citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 101. Sulla Gran Bretagna e la schiavitù si rimanda a Brycchan Carey, Markman Ellis, Sara Salih (a cura di), Discourses of Slavery and Abolition. Britain and Its Colonies, 1760-1838, New York, Palgrave 2004. 44 Hietala, Manifest Design, cit., pp. 37-39; Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 182-85; Ernest McPherson Lander Jr., Reluctant Imperialists. Calhoun, the South Carolinians, and the Mexican War, Baton Rouge, Louisiana State University Press 1980. 45 Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 200-204; John H. Schroeder, Mr. Polk’s War. American Opposition and Dissent, 1846-1848, Madison, The University of Wisconsin Press 1973. 46 Adams, citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 108. 47 Piero Gleijeses, A Brush with Mexico, in «Diplomatic History», 2, aprile 2005, pp. 223-54; David S. Heidler, Jeanne T. Heidler, The Mexican War, Westport, Greenwood Press 2006. 48 Il discorso di Polk, da cui sono tratte le citazioni nel testo, è consultabile all’indirizzo http://www.dmwv.org/mexwar/documents/polk.htm. 49 Whitman, citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 121. 50 Sulle operazioni militari si vedano Heidler, Heidler, The Mexican War, cit.;

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David M. Pletcher, The Diplomacy of Annexation. Texas, Oregon, and the Mexican War, Columbia, University of Missouri Press 1973. 51 Il «Boston Times» è citato in Weeks, Building the Continental Empire, cit., p. 124; William Swain in Merk, Manifest Destiny, cit., pp. 124-25; la «Democratic Review» in Hietala, Manifest Design, cit., p. 159. 52 Calhoun, citato in Hietala, Manifest Design, cit., p. 162. 53 Il testo del trattato di Guadalupe Hidalgo è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/mexico/guadhida.htm. 54 Si vedano Meinig, The Shaping of America, cit., vol. II, pp. 103-20 e le dettagliatissime ricostruzioni di Frederick Merk, The Genesis of the Oregon Question, in «The Mississippi Valley Historical Review», 4, marzo 1950, pp. 583-612; Id., The Oregon Question. Essays in Anglo-American Diplomacy and Politics, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1967; Pletcher, The Diplomacy of Annexation, cit. 55 Kennedy, citato in Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., p. 210. 56 Walker, citato in David M. Pletcher, The Diplomacy of Involvement. American Economic Expansion across the Pacific, 1784-1900, Columbia, University of Missouri Press 2001, p. 31. 57 Ivi, pp. 9-10. 58 Sul comune fonte occidentale si vedano John King Fairbank, «American China Policy» to 1898: A Misconception, in «Pacific Historical Review», 39, 1970, pp. 409-20 e Teemu Ruskola, Canton is not Boston: The Invention of American Imperial Sovereignty, in «American Quarterly», 3, settembre 2005, pp. 859-84. Sui «400 milioni di consumatori» si veda Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., pp. 97-133. 59 Si vedano in particolare John King Fairbank (a cura di), The Missionary Enterprise in China and America, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1974; Paul Harris, Cultural Imperialism and American Protestant Missionaries: Collaboration and Dependency in Mid-Nineteenth Century China, in «Pacific Historical Review», 3, agosto 1991, pp. 309-38; Michael C. Lazich, E.C. Bridgeman (1801-1861): America’s First Missionary to China, Lewiston, Edwin Mellen 2000. 60 Curtis T. Henson Jr., Commissioners and Commodores: The East India Squadron and American Diplomacy in China, Tuscaloosa, The University of Alabama Press 1982 e Leanna Lee-Whitman, The Silk Trade: Chinese Silks and the British East India Company, in «Winterthur Portfolio», 1, primavera 1982, pp. 21-41. 61 Si veda il suggestivo articolo di Dennis O. Flynn, Arturo Giráldez, Cycles of Silver: Global Economic Unity through the Mid-Eighteenth Century, in «Journal of World History», 2, autunno 2002, in particolare pp. 411-13. Si vedano inoltre Michael C. Lazich, American Missionaries and the Opium Trade in Nineteenth Century China, in «Journal of World History», 2, giugno 2006, pp. 197-223 e Jacques M. Downs, Fair Game: Exploitive Role-Myths and the American Opium Trade, in «Pacific Historical Review», 41, 1972, pp. 135-48. 62 Il testo dell’accordo è consultabile all’indirizzo http://web.jjay.cuny.edu/ ~jobrien/reference/ob24.html. Si vedano inoltre Glenn Melancon, Britain’s China Policy and the Opium Crisis: Balancing Drugs, Violence and National Honour, 18331840, Aldershot, Ashgate 2003 e la ricca raccolta curata da Timothy Brook, Bob Tadashi Wakabayashi, Opium Regimes: China, Britain, and Japan, 1839-1952, Berkeley, University of California Press 2000.

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Note

63 Adams e Cushing, citati in Ruskola, Canton is not Boston, cit., pp. 879 e 87374. Su Cushing si veda la splendida biografia di John M. Belohlavek, Broken Glass. Caleb Cushing and the Shattering of the Union, Kent, The Kent State University Press 2005. 64 Ruskola, Canton is not Boston, cit., pp. 869-71; Lazich, American Missionaries, cit., pp. 213-15; Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., pp. 16-17 e 97-99. 65 Peter Fay, The Protestant Mission and the Opium War, in «Pacific Historical Review», 2, maggio 1971, p. 171. 66 Il testo del trattato è consultabile all’indirizzo http://web.jjay.cuny.edu/~jobrien/reference/ob28.html. 67 Ruskola, Canton is not Boston, cit., p. 881. Sull’ideologia del commercio si veda supra, cap. I, e William Earl Weeks, American Nationalism, American Imperialism: An Interpretation of United States Political Economy, 1789-1861, in «Journal of the Early Republic», 4, inverno 1994, pp. 485-95. Sulla territorialità e la natura parzialmente post-territoriale dell’impero statunitense si veda Charles S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», 3, giugno 2000, pp. 807-31 e le considerazioni, suggestive anche se occasionalmente impressionistiche e poco sviluppate, dello stesso Maier in Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006. 68 Citato in Walter Lafeber, The Clash. A History of U.S.-Japanese Relations, New York-London, Norton 1997, p. 4. 69 William L. Neumann, Religion, Morality, and Freedom. The Ideological Background of the Perry Expedition, in «Pacific Historical Review», 3, agosto 1954, p. 247. 70 Una particolare fonte di tensione tra Giappone e Stati Uniti fu rappresentata dalla politica giapponese di punizione e incarcerazione dei naufraghi statunitensi. Si vedano Lafeber, The Clash, cit., pp. 7-13; Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., pp. 153-54; William R. Nester, Power across the Pacific. A Diplomatic History of American Relations with Japan, London, Macmillan 1996, pp. 22-25. 71 Webster, citato in Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., p. 154. Si veda inoltre Peter Booth Wiley, Ichiro Kogoro, Yankees in the Land of the Gods: Commodore Perry and the Opening of Japan, New York, Viking 1990, pp. 98-101. 72 John H. Schroeder, Matthew Calbraith Perry: Antebellum Sailor and Diplomat, Annapolis, Naval Institute Press 2001, p. 176. 73 Sul viaggio si veda il diario, ricco di aneddoti, di Perry curato da Roger Pineau, The Japan Expedition, 1852-54. The Personal Journal of Commodore Matthew C. Perry, Washington, Smithsonian Institution Press 1968. Si veda inoltre Samuel Eliot Morison, «Old Bruin» Commodore Matthew C. Perry, 1794-1858, Boston, Little Brown 1967, pp. 282-85; Michael Adas, Dominance by Design. Technological Imperatives and America’s Civilizing Mission, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006, pp. 1-32 (ivi, p. 4, la citazione sulle «guardie negre»). 74 Il testo del trattato è consultabile all’indirizzo http://www.isop.ucla.edu/ eas/documents/kanagawatreaty.htm. Sul significato dell’accordo si vedano le diverse interpretazioni di Lafeber, The Clash, cit., pp. 14-15 e di Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., pp. 156-57. 75 Adas, Dominance by Design, cit., rispettivamente pp. 188 e 9. Più in generale, sempre sul tema, si vedano Michael Adas, Machines as the Measure of Men. Sci-

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ence, Technology, and Ideologies of Western Dominance, Ithaca, Cornell University Press 1989; Walter Lafeber, Technology and U.S. Foreign Relations, in «Diplomatic History», 1, inverno 2000, pp. 1-19 e le utili considerazioni storiografiche di Nick Cullather, Modernization Theory, in Michael J. Hogan, Thomas G. Paterson (a cura di), Explaining the History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 2004, pp. 212-20. 76 Una versione parziale del testo dell’accordo è consultabile all’indirizzo http://web.jjay.cuny.edu/jobrien/reference/ob58.html. 77 Walt Whitman, The Errand Bearers, ripubblicato come A Broadway Pageant in Leaves of Grass: A Textual Variorum, New York, New York University Press 1980, pp. 513-17. Si veda David Scott, Diplomats and Poets: «Power and Perceptions» in American Encounters with Japan, 1860, in «Journal of World History», 3, settembre 2006, pp. 297-337. 78 La prima citazione proviene da Neumann, Religion, Morality, and Freedom, cit., p. 253, le successive da Joseph M. Henning, Outposts of Civilization. Race, Religion, and the Formative Years of American-Japanese Relations, New York, New York University Press 2000, p. 163. Si veda anche Scott, Diplomats and Poets, cit. 79 Il testo del trattato di Gadsden è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/mexico/mx1853.htm. Sulla vicenda si veda inoltre il bel libro di Paula Rebert, La Gran Línea. Mapping the United States-Mexico Boundary, 1849-1857, Austin, University of Texas Press 2001. 80 La citazione in Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., p. 198. Si veda anche Joseph A. Stout Jr., Schemers and Dreamers. Filibustering in Mexico, 1848-1921, Fort Worth, Texas Christian University Press 2002. Sul razzismo come fattore che giustifica posizioni politiche antiespansioniste e anti-imperialiste si veda ora il bel libro di Eric Love, Race over Empire: Racism and U.S. Imperialism, 1865-1900, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2004. 81 Wilentz, Rise of American Democracy, cit., pp. 677-88 e William E. Gienapp, The Origins of the Republican Party, 1852-1856, Oxford, Oxford University Press 1987. 82 Il discorso di Lincoln è consultabile all’indirizzo http://usinfo.state.gov/usa/ infousa/facts/democrac/22.htm. Sulla retorica di Lincoln si vedano Don E. Fehrenbacher, The Origins and Purpose of Lincoln’s «House-Divided» Speech, in «The Mississippi Valley Historical Review», 4, marzo 1960, pp. 615-43 e Harry V. Jaffa, Crisis of the House Divided: An Interpretation of the Issues in the Lincoln-Douglas Debates, Chicago, University of Chicago Press 19822. 83 Lacy K. Ford Jr., Inventing the Concurrent Majority: Madison, Calhoun, and the Problem of Majoritarianism in American Political Thought, in «The Journal of Southern History», 1, febbraio 1994, pp. 19-58; James L. Huston, Southerners against Secession: The Arguments of the Constitutional Unionists, 1850-51, in «Civil War History», 4, dicembre 2000, pp. 281-99; Costanza Margiotta Broglio, L’ultimo diritto. Profili storici e teorici della secessione, Bologna, Il Mulino 2005. 84 Si vedano su questo le considerazioni di Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988, pp. 228-34, che riprende in larga misura i lavori di Russel Weigley, The American Way of War. A History of United States Military Strategy and Policy, Bloomington, Indiana University Press 1973 e di Herman Hattaway, Archer Jones, How the North Won. A Military History of the Civil War, Urbana, University of Illinois Press 1983.

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Note

85 Si vedano le considerazioni di Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., pp. 259-82; Lynn Case, Warren F. Spencer, The United States and France: Civil War Diplomacy, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 1970, e i saggi in Tiziano Bonazzi, Carlo Galli (a cura di), La Guerra civile americana vista dall’Europa, Bologna, Il Mulino 2004. 86 Hammond, citato in David G. Surdam, King Cotton: Monarch or Pretender? The State of the Market for Raw Cotton on the Eve of the American Civil War, in «Economic History Review», 51, 1998, p. 113; Pettus, citato in Henry Blumenthal, Confederate Diplomacy: Popular Notions and International Realities, in «The Journal of Southern History», 2, maggio 1966, p. 153. 87 Si veda il bel saggio di Teodoro Tagliaferri, Il significato della guerra civile e i doveri dell’Inghilterra, in Galli, Bonazzi (a cura di), La Guerra civile, cit., pp. 2761. Si vedano inoltre Joseph M. Hernon Jr., British Sympathies in the American Civil War: A Reconsideration, in «The Journal of Southern History», 3, agosto 1967, pp. 356-67; Howard Jones, Union in Peril. The Crisis over British Intervention in the Civil War, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1992; Richard J.M. Blackett, Divided Hearts. Britain and the American Civil War, Baton Rouge, Louisiana State University Press 2001. 88 Si vedano Surdam, King Cotton, cit.; Frenise A. Logan, Indian-Britain’s Substitution for American Cotton, 1861-1865, in «The Journal of Southern History», 4, novembre 1958, pp. 472-80; William O. Brown, Richard C.K. Burdekin, Turning Points in the U.S. Civil War: A British Perspective, in «The Journal of Economic History», 1, marzo 2000, pp. 216-31. 89 Stuart Anderson, 1861: Blockade vs. Closing the Confederate Ports, in «Military Affairs», 4, dicembre 1977, pp. 190-94; George L. Bernstein, Special Relationship and Appeasement: Liberal Policy towards America in the Age of Palmerston, in «The Historical Journal», 3, settembre 1998, pp. 725-50; Kevin J. Weddle, The Blockade Board of 1861 and Union Naval Strategy, in «Civil War History», giugno 2002, pp. 123-42. Un autore che, diversamente dai più, sottolinea l’efficacia del blocco navale nordista è Surdam, King Cotton, cit. 90 Le citazioni di Henry Adams e del «New York Tribune» sono tratte da Graebner, Foundations of American Foreign Policy, cit., p. 267. Sulla vicenda si veda inoltre la dettagliata ricostruzione di Norman B. Ferris, The Trent Affair: A Diplomatic Crisis, Knoxville, University of Tennessee Press 1977. Sul ruolo di Seward si veda, sempre di Ferris, Desperate Diplomacy. William H. Seward’s Foreign Policy, 1861, Knoxville, University of Tennessee Press 1976. 91 Gladstone, citato in Hernon Jr., British Sympathies, cit., p. 364. 92 Su questa seconda crisi si veda Perkins, The Creation of a Republican Empire, cit., pp. 226-28 e Jones, Union in Peril, cit., pp. 162-82. 93 Frank J. Merli, The Alabama, British Neutrality, and the American Civil War, Bloomington, Indiana University Press 2004. 94 Stowe, citata in Wendy F. Hamand, «No Voice from England»: Mrs. Stowe, Mr. Lincoln, and the British in the Civil War, in «The New England Quarterly», 1, marzo 1988, p. 9. Si vedano inoltre Christopher Ewan, The Emancipation Proclamation and British Public Opinion, in «The Historian», 1, marzo 2005, pp. 1-19; Hernon Jr., British Sympathies, cit. e Bernstein, Special Relationship, cit. Una posizione diversa da quella qui adottata è in Tiziano Bonazzi, La guerra civile americana e la «nazione universale», in Galli, Bonazzi (a cura di), La Guerra civile, cit., pp. 466-68.

Note al capitolo V

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Capitolo V 1 Tra il 1865 e il 1900 nove nuovi Stati entrarono nell’Unione: il Nebraska (1867), il Colorado (1876), i due Dakota (1889), il Montana (1889), lo Stato di Washington (1889), il Wyoming (1890), l’Idaho (1890) e lo Utah (1896). Ad essi sarebbero poi seguiti l’Oklahoma (1907), il New Mexico (1912), l’Arizona (1912) e, infine, l’Alaska (1959) e le Hawaii (1959). Sulla trasformazione dell’Ovest si vedano le utili considerazioni storiografiche di Stephen Aron, Lessons in Conquest: Towards a Greater Western History, in «The Pacific Historical Review», 2, maggio 1994, pp. 125-47 e lo splendido Patricia Nelson Limerick, Something in the Soil: Legacies and Reckonings in the New West, New York, Norton 2000. 2 Per due ottimi studi generali sul fenomeno si vedano Robert M. Utley, The Indian Frontier, 1846-1890, Albuquerque, University of New Mexico Press 20032 e Robert M. Utley, Wilcomb E. Washburn, Indian Wars, Boston, Houghton Mifflin 2002. Per un’utile sintesi storiografica si veda Nicolas G. Rosenthal, Beyond the New Indian History: Recent Trends in the Historiography on the Native Peoples of North America, in «History Compass», 4, 2006, pp. 962-74. 3 Per alcune opere generali si vedano Walter Lafeber, The American Search for Opportunity, 1865-1913, vol. II di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993; David M. Pletcher, The Diplomacy of Involvement. American Economic Expansion across the Pacific, 17841900, Columbia, University of Missouri Press 2001; Thomas Schoonover, Uncle Sam’s War of 1898 and the Origins of Globalization, Lexington, The University Press of Kentucky 2003. 4 Su questo aspetto insiste con forza Eric Love, Race over Empire: Racism and U.S. Imperialism, 1865-1900, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2004. Si vedano inoltre William Earl Weeks, Building the Continental Empire. American Expansion from the Revolution to the Civil War, Chicago, Ivan Dee 1996, pp. 140-66 e Robert E. May, The Southern Dream of a Caribbean Empire, 18541861, Athens, The University of Georgia Press 19892. 5 Ernest N. Paolino, The Foundations of the American Empire: William Henry Seward and U.S. Foreign Policy, Ithaca, Cornell University Press 1973; David E. Shi, Seward’s Attempt to Annex British Columbia, 1865-1869, in «The Pacific Historical Review», 2, maggio 1978, pp. 217-38; Paul S. Holbo, Tarnished Expansion. The Alaska Scandal, the Press, and Congress, 1867-1871, Knoxville, University of Tennessee Press 1983. 6 Carnegie, citato in Thomas G. Paterson, United States Intervention in Cuba, 1898: Interpretations of the Spanish-American-Cuban-Filipino War, in «The History Teacher», 3, maggio 1996, pp. 341-61. Sull’ascesa degli USA si veda soprattutto Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988, pp. 312-21, che fornisce tutta una serie d’indicatori del rafforzamento assoluto e relativo degli Stati Uniti nel contesto internazionale. 7 Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004, pp. 93-145 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995); Lafeber, The American Search for Opportunity, cit.; Peter Karsten, The Nature of «Influence»: Roosevelt, Mahan and the Concept of Sea Power, in «American Quarterly», 4,

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Note

ottobre 1971, pp. 585-600; Christopher L. Connery, Ideologies of Land and Sea: Alfred Thayer Mahan, Carl Schmitt, and the Shaping of Global Myth Elements, in «Boundary», 2, 2001, pp. 173-201; Gearoid O’Tuathail, Critical Geopolitics: The Politics of Writing Global Space, London-New York, Routledge 2006. 8 «The Republican», citato in Love, Race over Empire, cit., p. 161. Sulle diverse motivazioni e giustificazioni degli anti-imperialisti si vedano gli ancora attuali Fred Harvey Harrington, The Anti-Imperialist Movement in the United States, 1898-1900, in «Mississippi Valley Historical Review», 2, settembre 1935, pp. 21130 e Robert Beisner, Twelve against Empire. The Anti-Imperialists, 1898-1900, New York, McGraw-Hill 1968. Per un contributo più recente si veda Jim Zwick, The Anti-Imperialist Movement, 1898-1921, in Virginia M. Bouvier (a cura di), Whose America? The War of 1898 and the Battles to Define the Nation, Westport, Praeger 2001, pp. 171-91. 9 Adottato dopo la crisi del bimetallismo, il gold standard è un sistema che prevede la convertibilità della valuta in oro. Svolgendo le funzioni di equivalente generale, l’oro permette di definire un valore di conversione tra le varie valute nazionali facilitando così gli scambi. Gli USA adottarono formalmente il gold standard solo nel 1900, ma de facto lo utilizzavano ormai da diversi decenni. 10 Theodore Roosevelt, citato in Gary Gerstle, Theodore Roosevelt and the Divided Character of American Nationalism, in «Journal of American History», 3, dicembre 1999, p. 1285. Si vedano inoltre Kristine Hoganson, Fighting for American Manhood. How Gender Politics Provoked the Spanish-American and the PhilippineAmerican Wars, New Haven, Yale University Press 1998 e lo splendido libro di Emily S. Rosenberg, Financial Missionaries to the World. The Politics and Culture of Dollar Diplomacy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1999. 11 Sarah Watts, Rough Rider in the White House: Theodore Roosevelt and the Politics of Desire, Chicago, University of Chicago Press 2003. È questa inoltre la lettura proposta nel classico Robert L. Beisner, From the Old Diplomacy to the New, 1865-1900, Arlington Heights, Harlan Davidson 1986. 12 Olney e Cabot Lodge, citati in Frank Ninkovich, The United States and Imperialism, Malden, Blackwell 2001, p. 13. Si veda inoltre T. Boyle, The Venezuela Crisis and the Liberal Opposition, 1895-96, in «The Journal of Modern History», 3, settembre 1978, pp. 1185-212. 13 L’efficacia militare e la natura interclassista del fronte indipendentista cubano è sottolineata con forza da Louis A. Pérez Jr., The War of 1898. The United States and Cuba in History and Historiography, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1998. 14 Oltre al testo di Pérez Jr. citato nella nota precedente si vedano Philip S. Foner, The Spanish-Cuban-American War and the Birth of American Imperialism, 1895-1902, New York, Monthly Review Press 1972; Joseph Smith, The SpanishAmerican War. Conflict in the Caribbean and the Pacific, 1895-1902, New York, Longman 1994; Paul T. McCartney, Power and Progress. American National Identity, the War of 1898, and the Rise of American Imperialism, Baton Rouge, Louisiana State University Press 2006. 15 Woodford, citato in Pérez Jr., The War of 1898, cit., p. 14. 16 La citazione di Hearst è in Ninkovich, The United States and Imperialism, cit., p. 26. Sulla vicenda si vedano inoltre Ian Mugridge, The View from Xanadu: William Randolph Hearst and United States Foreign Policy, Montreal, McGillQueen’s University Press 1996 e Bonnie Goldenberg, Imperial Culture and Natio-

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nal Conscience. The Role of the Press in United States and Spain During the Crisis of 1989, in «Bulletin of Spanish Studies», 3, luglio 2000, pp. 169-91. 17 Per un’utile sintesi si veda Sylvia L. Hilton, U.S. Intervention and Monroeism: Spanish Perspectives on the American Role in the Colonial Crisis of 1895-1898, in Bouvier (a cura di), Whose America?, cit., pp. 37-59. Si vedano inoltre Stephanson, Destino manifesto, cit., pp. 103-33; Joseph Fry, William McKinley and the Coming of the Spanish-American War: A Study of the Besmirching and Redemption of an Historical Image, in «Diplomatic History», 3, inverno 1979, pp. 77-97; Rafael Rojas, Licia Fiol-Matta, The Moral Frontier: Cuba, 1898. Discourses at War, in «Social Text», 59, estate 1999, pp. 145-60. Per una spiegazione eterodossa dell’atteggiamento dell’amministrazione McKinley, tutta centrata sulla dimensione politica interna, si rimanda a Richard F. Hamilton, President McKinley, War and Empire, vol. I, President McKinley and the Coming of War, 1898, New Brunswick, Transaction 2006. 18 Louis A. Pérez Jr., The Meaning of the Maine: Causation and the Historiography of the Spanish-American War, in «The Pacific Historical Review», 3, agosto 1989, pp. 293-322; Mark Peceny, Constructivist Interpretation of the Liberal Peace: The Ambiguous Case of the Spanish-American War, in «Journal of Peace Research», novembre 1997, pp. 415-30; John L. Offner, McKinley and the Spanish-American War, in «Presidential Studies Quarterly», 1, marzo 2004, pp. 50-61. 19 Il testo dell’emendamento Teller è consultabile all’indirizzo http://www. etsu.edu/cas/history/docs/teller.htm. 20 Aspetto, questo, che sembra invece sottovalutato nel pur eccellente Pérez Jr., The War of 1898, cit. 21 Sul ruolo di Roosevelt e degli irregolari si vedano le considerazioni di Gerstle, Theodore Roosevelt, cit. Si veda inoltre Amy Kaplan, Black and Blue on San Juan Hill, in Amy Kaplan, Donald E. Pease (a cura di), Cultures of United States Imperialism, Durham, Duke University Press 1993, pp. 219-36. Per una ricostruzione dettagliata degli scontri si rimanda a David F. Trask, The War with Spain in 1898, New York, Macmillan 1981. 22 Treaty of Peace between the United States and Spain, 10 dicembre 1898, consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/spain/ sp1898.htm. Il Senato ratificò il trattato con appena un voto in più di quelli richiesti. 23 Olney e «Philadelphia Enquirer», citati in Pérez Jr., The War of 1898, cit., pp. 28 e 33. 24 Il testo dell’emendamento Platt è consultabile all’indirizzo http://www. fordham.edu/halsall/mod/1901platt.html. Sulla sua genesi si veda Lejeune Cummins, The Formulation of the «Platt» Amendment, in «The Americas», 4, aprile 1967, pp. 370-89. 25 Louis A. Pérez Jr., Politics, Peasants, and People of Color: The 1912 «Race War» in Cuba Reconsidered, in «The Hispanic American Historical Review», 3, agosto 1986, pp. 509-39; Carmen Diana Deere, Here Come the Yankees! The Rise and Decline of United States Colonies in Cuba, 1898-1930, in «The Hispanic American Historical Review», 4, novembre 1998, pp. 729-65; Lester D. Langley, The Banana Wars. United States Intervention in the Caribbean, 1898-1934, Wilmington, SR Books 2002. 26 Su questa contraddizione insistono, da prospettive diverse, sia Ninkovich, The United States and Imperialism, cit., sia William Appleman Williams, The Trag-

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Note

edy of American Diplomacy, New York, Norton 19883. Si vedano inoltre i saggi contenuti in Id. (a cura di), From Colony to Empire. Essays in the History of American Foreign Relations, New York, Wiley 1972. 27 Alcuni passaggi del rapporto del Dipartimento di Stato (Review of the World’s Commerce, dell’aprile 1898) sono citati in Id., Tragedy of American Diplomacy, cit., pp. 48-50. Si vedano inoltre Walter Lafeber, The New Empire. An Interpretation of American Expansion, 1860-1898, Ithaca, Cornell University Press 1998, pp. 150-95 e Marilyn Young, The Rhetoric of Empire: American China Policy, 1895-1901, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1968. 28 Beisner, From the Old Diplomacy, cit., pp. 80-85; Pletcher, The Diplomacy of Involvement, cit., pp. 288-305. 29 Il testo di questa prima nota – inviata il 6 settembre 1899 – è consultabile all’indirizzo http://fletcher.tufts.edu/multi/texts/historical/opendoor1.txt. Sulla vicenda si veda, oltre ai testi citati nelle note precedenti, Raymond A. Esthus, The Changing Concept of the Open Door, 1899-1910, in «The Mississippi Valley Historical Review», dicembre 1959, pp. 435-54. Per una riflessione più generale si veda Pekka Korhonen, The Pacific Age in World History, in «Journal of World History», 1, primavera 1996, pp. 41-70. 30 Paul A. Cohen, History in Three Keys. The Boxers as Event, Experience, and Myth, New York, Columbia University Press 1997 e Lanxin Xiang, The Origins of the Boxer War. A Multinational Study, London-New York, Routledge 2003. 31 La citazione della seconda nota di Hay, che fu promulgata il 3 luglio 1900, è tratta da Lafeber, The American Search for Opportunity, cit., p. 176. 32 Per due esempi classici si vedano George F. Kennan, American Diplomacy, Chicago, University of Chicago Press 1951 e Walter Lafeber, The American Age. U.S. Foreign Policy at Home and Abroad, New York-London, Norton 1989, che a p. 217 presenta appunto la vicenda come il «trionfo» di McKinley. 33 Adams, citato in William Appleman Williams, Brooks Adams and American Expansion, in «The New England Quarterly», 2, giugno 1952, p. 219. Si veda inoltre Carl P. Parrini, Martin J. Sklar, New Thinking about the Market, 1896-1904: Some American Economists on Investment and the Theory of Surplus Capital, in «The Journal of Economic History», 3, settembre 1983, pp. 559-78. Brooks Adams era il nipote di John Quincy Adams. 34 Per una feroce polemica storiografica sulla validità euristica del paradigma della porta aperta e i lavori dello storico che più ne ha fatto uso, William Appleman Williams, si vedano Bruce Cumings, «Revising Postrevisionism». Or, The Poverty of Theory in Diplomatic History, in «Diplomatic History», 4, autunno 1993, pp. 539-70 e John Lewis Gaddis, The Tragedy of Cold War History, in «Diplomatic History», 1, inverno 1993, pp. 1-16. Per una sintesi equilibrata si rimanda a Federico Romero, La politica estera americana nel XX secolo, in «Novecento», 2, 2000, pp. 23-34. 35 Si vedano le considerazioni ancor oggi utili di Thomas A. Bailey, Was the Presidential Election of 1900 a Mandate on Imperialism?, in «The Mississippi Valley Historical Review», 1, giugno 1937, pp. 43-52. Si veda inoltre John M. Gates, Philippine Guerrillas, American Anti-Imperialists, and the Election of 1900, in «The Pacific Historical Review», 1, febbraio 1977, pp. 51-64. 36 Roosevelt, citato in David H. Burton, Theodore Roosevelt’s Social Darwinism and Views on Imperialism, in «Journal of the History of Ideas», 1, gennaio-marzo 1965, p. 111. Più in generale sulla peculiare visione rooseveltiana si vedano

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Gerstle, Theodore Roosevelt, cit.; Thomas G. Dyer, Theodore Roosevelt and the Idea of Race, Baton Rouge, Louisiana State University Press 1980; Frank Ninkovich, Modernity and Power. A History of the Domino Theory in the XX Century, Chicago, University of Chicago Press 1994, pp. 1-11. 37 Citato in Watts, Rough Rider, cit., p. 216. Per considerazioni simili si vedano Stephanson, Destino manifesto, cit., pp. 113-15 e Hoganson, Fighting for American Manhood, cit., pp. 143-46. 38 È questa, ad esempio, una delle tesi sostenute in Ninkovich, The United States and Imperialism, cit. 39 Chi enfatizza anche troppo questa motivazione è invece Lafeber, The American Search for Opportunity, cit. 40 Su questo aspetto Love, Race over Empire, cit., pp. 175-77 e James K. Eyre Jr., Japan and the American Annexation of the Philippines, in «The Pacific Historical Review», 1, marzo 1942, pp. 55-71. 41 McKinley, citato in Ephraim K. Smith, «A Question from Which We Could Not Escape»: William McKinley and the Decision to Acquire the Philippine Islands, in «Diplomatic History», 4, ottobre 1985, pp. 363-75. 42 Citato in Ninkovich, The United States and Imperialism, cit., p. 45. Su questo aspetto insiste molto Beisner, Twelve against Empire, cit. 43 Le citazioni sono tratte da Love, Race over Empire, cit., pp. 181, 184, 190. 44 Le citazioni di Beveridge e McKinley sono tratte da Michael Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven, Yale University Press 1987, p. 80. 45 Si veda Robert A. Katz, The Jurisprudence of Legitimacy: Applying the Constitution to U.S. Territories, in «The University of Chicago Law Review», 2, primavera 1992, pp. 779-806. 46 Root, citato in Peter Maguire, Law and War. An American Story, New York, Columbia University Press 2001, p. 56. Si vedano inoltre Richard E. Welch Jr., American Atrocities in the Philippines: The Indictment and the Response, in «The Pacific Historical Review», 2, maggio 1974, pp. 233-53; Walter L. Williams, United States Indian Policy and the Debate over Philippine Annexation: Implications for the Origins of American Imperialism, in «Journal of American History», 4, marzo 1980, pp. 810-31; Brian McAllister Linn, The U.S. Army and Counterinsurgency in the Philippine War, 1899-1902, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1989 e il documentatissimo Paul Kramer, The Blood of Government. Race, Empire, the United States and the Philippines, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2006, in particolare pp. 87-158. 47 James, citato in Gary Wills, An American Hero, in «The New York Review of Books», 19 luglio 2007; Twain, citato in Watts, Rough Rider, cit., p. 233. 48 Nel 1935 gli USA avrebbero concesso una prima autonomia alle Filippine, attraverso la creazione di un Commonwealth delle Filippine. Solo nel 1946 l’arcipelago ottenne la propria indipendenza. 49 Sulla discussione relativa all’effetto della guerra nelle Filippine si rimanda a Kramer, The Blood of Government, cit., pp. 87-157. 50 Walter Lafeber, The Panama Canal. The Crisis in Historical Perspective, Oxford, Oxford University Press 19892, pp. 23-44; John Major, Prize Possession. The United States and the Panama Canal, 1903-1979, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 9-65. 51 Roosevelt, citato in Robert D. Schulzinger, U.S. Diplomacy since 1900, Oxford,

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Oxford University Press 20025, p. 26 e in James R. Holmes, Theodore Roosevelt and World Order, Washington, Potomac Books 2006, p. 170. 52 L’accordo non fu firmato da alcun rappresentante del nuovo Stato panamense, ma dal francese Philippe Bunau-Vanilla, il principale azionista della Compagnie Nouvelle du Canal de Panama, che aveva ottenuto in passato la concessione per la costruzione del canale. Il testo dell’accordo è disponibile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/panama/pan001.htm. Si veda inoltre Charles D. Ameringer, Philippe Bunau-Varilla: New Light on the Panama Canal Treaty, in «The Hispanic American Historical Review», 1, febbraio 1966, pp. 28-52. Il canale sarebbe stato aperto nel 1914. 53 Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago, University of Chicago Press 1998, p. 31. La citazione di Roosevelt è in Lafeber, The American Search for Opportunity, cit., p. 194. 54 Si veda Cyrus Veeser, A World Safe for Capitalism. Dollar Diplomacy and America’s Rise to Global Power, New York, Columbia University Press 2002, che offre una ricostruzione dettagliatissima della vicenda e del ruolo della SDIC. 55 Roosevelt, citato in J. Fred Rippy, The Initiation of the Customs Receivership in the Dominican Republic, in «The Hispanic American Historical Review», novembre 1937, p. 449 e in Colin Dueck, The Sources of American Expansion, in «Security Studies», 1, autunno 2001, pp. 171-89; Holmes, Theodore Roosevelt, cit., pp. 176-83. 56 Il testo del discorso di Roosevelt, pronunciato il 6 dicembre 1904, è consultabile all’indirizzo http://www.latinamericanstudies.org/us-relations/roosevelt-corollary.htm. 57 La prima citazione proviene da Rosenberg, Financial Missionaries, cit., p. 40, le successive da Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 10. Un autore che legge invece il corollario Roosevelt primariamente come rivendicazione del pieno primato emisferico degli USA è Serge Ricard, The Roosevelt Corollary, in «Presidential Studies Quarterly», 1, marzo 2006, pp. 17-26. 58 Sulla diplomazia del dollaro, oltre al testo di Emily S. Rosenberg, Financial Missionaries, cit., rimane assai importante lo studio di Dana G. Munro, Intervention and Dollar Diplomacy in the Caribbean, 1900-1921, Princeton, Princeton University Press 1964. Si vedano inoltre le interessanti considerazioni di Kris James Mitchener, Marc D. Weidenmier, Empire, Public Goods, and the Roosevelt Corollary, in «Journal of Economic History», 3, 2005, pp. 658-92. Sulla centralità dell’estensione del gold standard nella diplomazia del dollaro si veda Eric Helleiner, Dollarization Diplomacy: U.S. Policy Towards Latin America Coming Full Circe?, in «Review of International Political Economy», 3, agosto 2003, pp. 406-29. 59 Rosenberg, Financial Missionaries, cit., p. 45. 60 Ivi, pp. 45-47; Veeser, A World Safe for Capitalism, cit., pp. 143-61; Holmes, Theodore Roosevelt, cit., pp. 178-80. 61 Per una riflessione storiografica si veda Richard H. Collin, Symbiosis versus Hegemony: New Directions in the Foreign Relations Historiography of Theodore Roosevelt and William Howard Taft, in Michael J. Hogan (a cura di), Paths to Power. The Historiography of American Foreign Relations to 1941, Cambridge, Cambridge University Press 2000, pp. 117-47. Sulle premesse della politica estera di Taft, che fu segretario di Stato dal 1904 al 1908, si veda inoltre Ralph Eldin Minger, William Howard Taft and United States Foreign Policy. The Apprenticeship Years, 1900-1908, Urbana, University of Illinois Press 1975.

Note al capitolo V

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62 Emily S. Rosenberg, Revisiting Dollar Diplomacy. Narratives of Money and Manliness, in «Diplomatic History», 2, primavera 1998, p. 161. Sul commercio come fattore attraverso cui superare gli antagonismi di potenza si veda supra, cap. I. 63 Wilson, citato in Lafeber, The American Search for Opportunity, cit., p. 216. Taft utilizzò la stessa frase nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione del dicembre 1912 (consultabile all’indirizzo http://stateoftheunion.onetwothree.net/ texts/19121203.html). 64 Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 21, che offre un’ottima sintesi dell’approccio taftiano. 65 Helleiner, Dollarization Diplomacy, cit., p. 409. Knox è citato in Rosenberg, Financial Missionaries, cit., pp. 61-63. 66 Oltre a Rosenberg, Financial Missionaries, cit., pp. 63-70, si vedano Munro, Intervention and Dollar Diplomacy, cit., pp. 166-79; Emily S. Rosenberg, The Invisible Protectorate: The United States, Liberia, and the Evolution of Neocolonialism, 1909-40, in «Diplomatic History», 3, primavera 1985, pp. 191-214 e l’utile rassegna di Mark T. Gilderhus, Forming an Informal Empire without Colonies, in «Latin American Research Review», 3, giugno 2005, pp. 312-25. 67 Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 35, da cui è tratta anche l’altra citazione. Sulla crescita dell’influenza religiosa e culturale statunitense in Cina si veda Paul A. Varg, Missionaries, Chinese, and Diplomats. The American Protestant Missionary Movement in China, 1890-1952, Princeton, Princeton University Press 1958 e Michael V. Metallo, American Missionaries, Sun Yat-sen, and the Chinese Revolution, in «The Pacific Historical Review», 2, maggio 1978, pp. 261-82. 68 Michael Hunt, Frontier Defense and the Open Door: Manchuria in ChineseAmerican Relations, New Haven, Yale University Press 1973 e Warren Cohen, America’s Response to China, New York, Columbia University Press 20004, pp. 77-83. 69 Anders Stephanson, Diritto e «giuridificazione» delle relazioni internazionali da Franklin D. Roosevelt a George W. Bush, in Luca Baldissara, Paolo Pezzino (a cura di), Giudicare e punire: i processi per crimini di guerra tra diritto e politica, Napoli, Ancora del Mediterraneo 2005, pp. 77-105. 70 La citazione di Taft è in John P. Campbell, Taft, Roosevelt, and the Arbitration Treaties of 1911, in «Journal of American History», 2, settembre 1966, p. 285, a cui si rimanda per un’accurata descrizione dei trattati di arbitrato del 1911 e della discussione politica che essi provocarono. Sulla natura e il peso politico del pacifismo statunitense dell’epoca si rimanda a C. Roland Marchand, The American Peace Movement and Social Reform, 1898-1918, Princeton, Princeton University Press 1972 e a David S. Patterson, Toward a Warless World. The Travail of the American Peace Movement, 1887-1914, Bloomington, Indiana University Press 1976. 71 È questa la tesi sia di Lafeber, The American Search for Opportunity, cit., sia di Thomas D. Schoonover, The United States in Central America, 1860-1911. Episodes of Social Imperialism and Imperial Rivalry in the World System, Durham, Duke University Press 1991. 72 Sul complesso meccanismo si veda Rosenberg, Financial Missionaries, cit., pp. 70-77. Sull’instabilità politica in America Centrale e gli interventi militari statunitensi si vedano Langley, The Banana Wars, cit., pp. 49-109 e Walter Lafeber, Inevitable Revolutions. The United States in Central America, New York, Norton 19932, pp. 45-55. 73 Hunt, Frontier Defense, cit., pp. 226-43; Rosenberg, Financial Missionaries,

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Note

cit., pp. 75-76; Jerry Israel, Progressivism and the Open Door: America and China, 1905-1911, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press 1971. 74 Campbell, Taft, Roosevelt, and the Arbitration Treaties, cit. e Ninkovich, The Wilsonian Century, cit., pp. 43-45.

Capitolo VI 1 Per alcuni dati sul primato economico e industriale statunitense si rimanda a Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988, pp. 312-21. 2 «Harper’s Weekly», citato in John A. Thompson, Woodrow Wilson, London, Longman 2002, p. 99. Wilson, citato in Thomas Knock, To End All Wars. Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order, Princeton, Princeton University Press 1992, pp. 32-33. Il democratico progressista Woodrow Wilson era stato eletto presidente nel 1912, beneficiando delle divisioni all’interno del fronte repubblicano, che avevano indotto Theodore Roosevelt a candidarsi contro Taft alla guida del neocostituito Partito progressista. 3 Wilson, citato in Arthur S. Link, Wilson. The Struggle for Neutrality, 19141915, Princeton, Princeton University Press 1960, p. 49. Si vedano inoltre Alexander DeConde, Ethnicity, Race, and American Foreign Policy: A History, Boston, Northeastern University Press 1992, pp. 81-88 e Tony Smith, Foreign Attachments. The Power of Ethnic Groups in the Making of American Foreign Policy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2000, pp. 35-53. 4 Tra i tanti studi sulla prima fase della neutralità statunitense si rimanda a Patrick Devlin, Too Proud to Fight. Woodrow Wilson’s Neutrality, Oxford, Oxford University Press 1975 e a John W. Coogan, The End of Neutrality. The United States, Britain and Maritime Rights, 1899-1915, Ithaca, Cornell University Press 1981. 5 Wilson, citato in Knock, To End All Wars, cit., p. 35. 6 Sul coinvolgimento, precoce ancorché indiretto, degli USA nel conflitto insistono molto, pur da prospettive diverse, Frederick Calhoun, Power and Principle. Armed Intervention in Wilsonian Foreign Policy, Kent, The Kent State University Press 1993 e Akira Iriye, The Globalizing of America, 1913-1945, vol. III di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993. 7 Thompson, Woodrow Wilson, cit., pp. 100-105. 8 Si veda John Milton Cooper Jr., The Warrior and the Priest. Woodrow Wilson and Theodore Roosevelt, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 1983, pp. 285-90; Knock, To End All Wars, cit., pp. 60-65. 9 Woodrow Wilson, Address to Naturalized Citizens at Convention Hall, Philadelphia, 10 maggio 1915, consultabile all’indirizzo http://www.presidency.ucsb. edu/ws/print.php?pid=65388. 10 Sugli effetti, devastanti e sconosciuti al pubblico statunitense, del blocco navale britannico si veda Jonathan Glover, Humanity. A Moral History of the Twentieth Century, New Haven, Yale University Press 1999, pp. 64-67. 11 I dati sono tratti da Iriye, The Globalizing of America, cit., pp. 25-26; Thompson, Woodrow Wilson, cit., pp. 126-27; John Milton Cooper Jr., The Command of Gold Reversed: American Loans to Britain, 1915-1917, in «Pacific Historical Re-

Note al capitolo VI

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view», 2, maggio 1976, pp. 209-30; Roberta A. Dayer, Strange Bedfellows: J.P. Morgan & Co., Whitehall and the Wilson Administration during World War I, in «Business History», 2, luglio 1976, pp. 127-51; Martin Horn, A Private Bank at War: J.P. Morgan & Co. and France, 1914-1918, in «The Business History Review», primavera 2000, pp. 85-112. 12 Sull’internazionalismo wilsoniano alcune delle riflessioni più originali, ancorché non sempre articolate con la necessaria chiarezza storica, sono in Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago, University of Chicago Press 1998 e, ancor più, in Id., Modernity and Power, cit. 13 La definizione «internazionalismo della crisi» ricorre in Id., The Wilsonian Century, cit., ma si veda anche Federico Romero, Democrazia ed egemonia. Woodrow Wilson e la concezione americana dell’ordine internazionale nel Novecento, in «Passato e Presente», 21, 2003, pp. 17-34. 14 Ambiguità e contraddizioni sulle quali si soffermano in modo purtroppo insoddisfacente i due migliori studi dell’internazionalismo wilsoniano, Ninkovich, Modernity and Power, cit. e Knock, To End All Wars, cit. 15 Discorso al Senato del 22 gennaio 1917, consultabile all’indirizzo http://www.millercenter.virginia.edu/scripps/digitalarchive/speeches/spe_1917_ 0122_wilson. 16 Sul wilsonismo come ennesima manifestazione della logica della porta aperta si vedano William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, New York, Norton 19883, pp. 59-89 e soprattutto Lloyd C. Gardner, Safe for Democracy. The Anglo-American Response to Revolution, 1913-1923, Oxford, Oxford University Press 1984. Sul wilsonismo come ennesima manifestazione del manifest destiny si rimanda a Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli 2004, pp. 147-55 (ed. or. Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Hill & Wang 1995). Per due classiche e insuperate critiche di matrice realista al disegno wilsoniano si vedano George Kennan, American Diplomacy, 1900-1950, Chicago, University of Chicago Press 1951 e Edward Hallett Carr, The Twenty Years Crisis. An Introduction to the Study of International Relations, London, Macmillan 1940. Per un riadattamento della critica realista centrato sui limiti dell’universalismo wilsoniano si veda Lloyd Ambrosius, Wilsonian Statecraft. Theory and Practice of Liberal Internationalism during World War I, Wilmington, SR Books 1991. Un’utile rassegna storiografica è offerta da David Steigerwald, The Reclamation of Woodrow Wilson, in Michael J. Hogan (a cura di), Paths to Power. The Historiography of American Foreign Relations to 1941, Cambridge, Cambridge University Press 2000, pp. 148-74. 17 Il testo del discorso è consultabile all’indirizzo http://www.millercenter.virginia.edu/scripps/digitalarchive/speeches/spe_1917_0122_wilson. Per una disamina dell’evoluzione della retorica wilsoniana si veda Jason C. Flanagan, Woodrow Wilson’s «Rhetorical Restructuring»: The Transformation of the American Self and the Construction of the German Enemy, in «Rhetoric & Public Affairs», 2, estate 2004, pp. 15-148. 18 Arthur S. Link, Wilson. Campaigns for Progressivism and Peace, Princeton, Princeton University Press 1965, pp. 352-60; Knock, To End All Wars, cit., pp. 11622; Thompson, Woodrow Wilson, cit., pp. 147-51. 19 Il testo del discorso del 2 aprile 1917 è consultabile all’indirizzo http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/ww18.htm. 20 Wilson, citato in Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 64.

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Note

21 Si vedano le diverse interpretazioni di Ninkovich, Modernity and Power, cit.; Stephanson, Destino manifesto, cit.; Gordon Levin, Woodrow Wilson and World Politics, Oxford, Oxford University Press 1968; Lloyd Ambrosius, Woodrow Wilson and the American Diplomatic Tradition, Cambridge, Cambridge University Press 1987. 22 Le citazioni di Wilson sono tratte da Thompson, Woodrow Wilson, cit., p. 152. 23 Robert H. Zieger, America’s Great War. World War I and the American Experience, Lanham, Rowman & Littlefield 2000, pp. 57-84 e Neil A. Wynn, From Progressivism to Prosperity. World War I and American Society, New York, Holmes & Meier 1986. 24 Creel, citato in Knock, To End All Wars, cit., p. 133. Si vedano inoltre Stephen Vaughn, Holding Fast the Inner Lines. Democracy, Nationalism, and the Committee on Public Information, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1980 e Ferdinando Fasce, La democrazia degli affari. Comunicazione aziendale e discorso pubblico negli Stati Uniti, 1900-1940, Roma, Carocci 2000, pp. 85-92. 25 Wilson, citato in Ross A. Kennedy, Woodrow Wilson, World War I, and American National Security, in «Diplomatic History», 1, inverno 2001, p. 13. Si vedano inoltre Stephen M. Kohn, American Political Prisoners. Prosecutions under the Espionage and Sedition Acts, Westport, Praeger 1994; Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton 1998, pp. 168-78, che però offre una lettura sorprendentemente riduzionista della portata della repressione interna durante la Prima guerra mondiale; Christopher Capozzola, The Only Badge Needed Is Your Patriotic Fervor: Vigilance, Coercion and the Law in World War I America, in «Journal of American History», 4, marzo 2002, pp. 1354-82. 26 Sulla vicenda di Debs si veda Nick Salvatore, Eugene V. Debs, Citizen and Socialist, Urbana, University of Illinois Press 1982, pp. 288-96. 27 Kennedy, Woodrow Wilson, cit., e Edward M. Coffman, The War to End All Wars. The American Military Experience in World War I, Oxford, Oxford University Press 1968. 28 Sulla partecipazione statunitense all’intervento militare in Siberia si vedano le diverse interpretazioni del classico George Kennan, Soviet-American Relations, 1917-1920, vol. II, The Decision to Intervene, Princeton, Princeton University Press 1958; John W. Long, American Intervention in Russia: The North Russian Expedition, in «Diplomatic History», 1, inverno 1982, pp. 45-68; Betty M. Unterberger, Woodrow Wilson and the Bolsheviks: The «Acid Test» of Soviet-American Relations, in «Diplomatic History», 4, autunno 1987, pp. 71-90; Benjamin D. Rhodes, The Anglo-American Winter War with Russia: A Diplomatic and Military Tragicomedy, Westport, Greenwood Press 1988; David S. Foglesong, America’s Secret War against Bolshevism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1995. 29 Per una sottolineatura, ed esagerazione, dei punti di contatto tra wilsonismo e leninismo si veda Iriye, The Globalizing of America, cit., pp. 54-56. Si vedano inoltre John Lewis Gaddis, The Long Peace. Inquiries into the History of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1987, pp. 3-19 e Alan Cassels, Ideology and International Relations in the Modern World, London-New York, Routledge 1996, pp. 114-37. 30 Il testo dei Quattordici punti è consultabile all’indirizzo http://www.yale. edu/lawweb/avalon/wilson14.htm. 31 Sulla ricezione dei Quattordici punti negli USA e in Europa si vedano Knock, To End All Wars, cit., pp. 180-98; Ninkovich, The Wilsonian Century, cit., pp. 70-

Note al capitolo VI

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71; Daniela Rossini, Il mito americano nell’Italia della Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza 2000. 32 William C. Widenor, Henry Cabot Lodge and the Search for an American Foreign Policy, Berkeley, University of California Press 1980, pp. 269-87; Klaus Schwabe, Woodrow Wilson, Revolutionary Germany, and Peacemaking, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1985; John Milton Cooper Jr., Breaking the Heart of the World. Woodrow Wilson and the Fight for the League of Nations, Cambridge, Cambridge University Press 2001, pp. 10-54. 33 Roosevelt, citato in Thompson, Woodrow Wilson, cit., p. 177. Sulle elezioni di mid-term si vedano inoltre Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., pp. 29-32; Richard L. Merritt, Woodrow Wilson and the «Great and Solemn Referendum», 1920, in «The Review of Politics», 1, gennaio 1965, pp. 78-104; George W. Egerton, Britain and the «Great Betrayal»: Anglo-American Relations and the Struggle for United States Ratification of the Treaty of Versailles, 1919-1920, in «The Historical Journal», 4, dicembre 1978, pp. 885-911. 34 Intervallati da due sole settimane trascorse negli Stati Uniti, i sei mesi di Wilson in Europa rappresentano il periodo più lungo mai trascorso da un presidente in carica fuori dagli Stati Uniti (seguiti dai 37 giorni trascorsi da Franklin Delano Roosevelt all’inizio del 1945 in occasione della conferenza di Yalta). 35 Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780: programma, mito, realtà, Torino, Einaudi 1991, pp. 155-63 (ed. or. Nations and Nationalism since 1780, Cambridge, Cambridge University Press 1990). Sui limiti della concezione wilsoniana dell’autodeterminazione si veda Michla Pomerance, The United States and Self-Determination: Perspectives on the Wilsonian Conception, in «The American Journal of International Law», 1, gennaio 1976, pp. 1-27. Per una parziale difesa di Wilson si veda Anthony Whelan, Wilsonian Self-Determination and the Versailles Settlement, in «The International and Comparative Law Quarterly», 1, gennaio 1994, pp. 99-115. 36 David Stevenson, French War Aims and the American Challenge, 1914-1918, in «Historical Journal», 4, dicembre 1979, pp. 877-94; Id., French War Aims against Germany, 1914-1919, Oxford, Clarendon Press 1982, pp. 120-47; Marc Trachtenberg, Versailles after Sixty Years, in «Journal of Contemporary History», 3, luglio 1982, pp. 487-506; Alan Sharp, The Enforcement of the Treaty of Versailles, 19191923, in «Diplomacy and Statecraft», 3, settembre 2005, pp. 423-38. 37 Marc Trachtenberg, Reparation in World Politics. France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press 1980; George W. Egerton, Collective Security as Political Myth: Liberal Internationalism and the League of Nations in Politics and History, in «International History Review», 5, novembre 1983, pp. 496-524; Bruce Kent, The Spoils of War. The Politics, Economics, and Diplomacy of Reparations, 1918-1932, Oxford, Oxford University Press 1989; Anthony Lentin, What Really Happened at Paris, in «Diplomacy and Statecraft», 1, luglio 1990, pp. 264-75. Sulla questione delle riparazioni e le gravi responsabilità statunitensi si espresse subito John Maynard Keynes nel suo The Economic Consequences of the Peace, London, Macmillan 1919. 38 Iriye, The Globalizing of America, cit., pp. 66-68; William E. Rappard, The Practical Working of the Mandates System, in «Journal of the British Institute of International Affairs», 5, settembre 1925, pp. 205-26; Andrew J. Crozier, The Establishment of the Mandates System 1919-25: Some Problems Created by the Paris Peace Conference, in «Journal of Contemporary History», 3, luglio 1979, pp. 483-513.

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Note

39 Russel S. Sobel, The League of Nations Covenant and the United Nations Charter: An Analysis of Two International Constitutions, in «Constitutional Political Economy», 2, marzo 1994, pp. 173-92 e Lorna Lloyd, The League of Nations and the Settlement of Disputes, in «World Affairs», 4, primavera 1995, pp. 160-74. Per una visione critica si confronti Roland N. Stromberg, Uncertainties and Obscurities about the League of Nations, in «Journal of the History of Ideas», 1, gennaio-marzo 1972, pp. 139-54. 40 Il testo del Covenant è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/leagcov.htm. 41 Thompson, Woodrow Wilson, cit., pp. 202-204. Sul pensiero wilsoniano, oltre ai già menzionati lavori di Ninkovich si veda Romero, Democrazia ed egemonia, cit. e, per una prospettiva di lungo periodo, Daniel D. Stid, The President as Statesman. Woodrow Wilson and the Constitution, Lawrence, The University Press of Kansas 1998. 42 Lodge, citato in Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., p. 65. 43 Thompson, Woodrow Wilson, cit., p. 224. 44 Borah, citato in Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., p. 61. Su Borah e gli isolazionisti si vedano inoltre John Milton Cooper Jr., The Vanity of Power. American Isolationism and the First World War, 1914-1917, Westport, Greenwood Press 1969; Richard Coke Lower, Hiram Johnson: The Making of an Irreconcilable, in «The Pacific Historical Review», 4, novembre 1972, pp. 505-26; Robert David Johnson, The Peace Progressives and American Foreign Relations, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1995. 45 Sul gruppo degli «inconciliabili» si veda inoltre Ralph Stone, The Irreconcilables. The Fight against the League of Nations, Lexington, The University Press of Kentucky 1970. 46 Bullit, citato in Robert D. Schulzinger, U.S. Diplomacy since 1900, Oxford, Oxford University Press 20025, p. 118; «The New Republic», citato in Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., p. 98. Per un’insuperata, e invero sofferta, analisi della disillusione dei liberal verso Wilson si veda Knock, To End All Wars, cit., pp. 227-70. Si vedano inoltre Ronald Steel, Walter Lippmann and the American Century, Boston, Little Brown 1980, pp. 156-66 e Wolfgang J. Helbich, American Liberals in the League of Nations Controversy, in «The Public Opinion Quarterly», 4, inverno 1967-68, pp. 568-96. Sui moderati repubblicani si veda Herbert F. Margulies, The Moderates in the League of Nations Battle: An Overlooked Faction, in «The Historian», 2, inverno 1998, pp. 273-87. 47 Le citazioni di Wilson sono tratte da Thompson, Woodrow Wilson, cit., p. 223; quelle di Harding e Brandagee sono in Benjamin D. Rhodes, United States Foreign Policy in the Interwar Period, 1918-1941. The Golden Age of American Diplomatic and Military Complacency, Westport, Praeger 2001, p. 27. 48 Lodge, citato in Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., pp. 134-35. 49 Un autore che sottolinea in modo convincente questo legame tra politica interna e politica estera è Thompson, Woodrow Wilson, cit. Si veda inoltre Merritt, Woodrow Wilson, cit. 50 John Milton Cooper Jr., Fool’s Errand or Finest Hour? Woodrow Wilson’s Speaking Tour in September 1919, in John Milton Cooper Jr., Charles Neu (a cura di), The Wilson Era. Essays in Honor of Arthur S. Link, Arlington Heights, Harlan Davidson 1991, pp. 198-220. 51 Le citazioni sono tratte da Thompson, Woodrow Wilson, cit., pp. 226-28;

Note al capitolo VI

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Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., pp. 156-62; Christy Jo Snider, Patriots and Pacifists: The Rhetorical Debate about Peace, Patriotism, and Internationalism, 1914-1930, in «Rhetoric & Public Affairs», 1, gennaio 2005, pp. 59-84. 52 Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., p. 191. 53 Ivi, pp. 234-70; Knock, To End All Wars, cit., pp. 257-62; Lloyd Ambrosius, Woodrow Wilson’s Health and the Treaty Fight, in «International History Review», 1, febbraio 1987, pp. 73-84. Le quattordici reservations di Lodge sono consultabili all’indirizzo http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/doc41.htm. 54 Su questo si vedano le riflessioni di Richard Crockatt, Frank Ninkovich e Anders Stephanson in Mario Del Pero (a cura di), Dialoghi: George W. Bush e le tradizioni della politica estera statunitense, in «Ricerche di Storia politica», 3, novembre 2006, pp. 399-410. Per un esempio di utilizzo stereotipato e astorico di Wilson e del wilsonismo si veda Walter Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Milano, Garzanti 2002 (ed. or. Special Providence. American Foreign Policy and How it Changed the World, New York, Knopf 2001). Per una riflessione più solida, ma viziata da un limite simile, si veda Tony Smith, America’s Mission. The United States and the Worldwide Struggle for Democracy in the Twentieth Century, Princeton, Princeton University Press 1994. 55 Si vedano su questo le diverse interpretazioni di Ninkovich, Modernity and Power, cit.; Stephanson, Destino manifesto, cit.; David Steigerwald, Wilsonian Idealism in America, Ithaca, Cornell University Press 1994. 56 Per una precoce e incisiva critica del messianismo wilsoniano si rimanda al classico Carr, The Twenty Years Crisis, cit. 57 Williams, The Tragedy of American Diplomacy, cit., pp. 59-89; Levin, Woodrow Wilson, cit.; Mark T. Gilderhus, Pan-American Visions. Woodrow Wilson in the Western Hemisphere, Tucson, The University of Arizona Press 1987; Emily S. Rosenberg, Financial Missionaries to the World. The Politics and Culture of Dollar Diplomacy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1999, pp. 60-96. 58 Su questo si veda l’insuperata ricostruzione offerta da Knock, To End All Wars, cit., pp. 48-69. Si vedano inoltre C. Roland Marchand, The American Peace Movement and Social Reform, 1898-1918, Princeton, Princeton University Press 1972 e Charles DeBenedetti, Peace Reform in American History, Bloomington, Indiana University Press 1980. 59 Aspetto, questo, su cui insistono molto sia Ninkovich, The Wilsonian Century, cit. e Id., Modernity and Power, cit., sia Iriye, The Globalizing of America, cit. 60 Iriye, The Globalizing of America, cit., p. 164. 61 Kennedy, Woodrow Wilson, cit.; Campbell Craig, The Not So Strange Career of Charles Beard, in «Diplomatic History», 2, primavera 2001, pp. 251-74. 62 Su questo si veda il dettagliatissimo Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit. 63 Sui limiti e le contraddizioni dell’universalismo wilsoniano si vedano le considerazioni espresse da diverse prospettive da Lloyd Ambrosius, Wilsonianism. Woodrow Wilson and His Legacy in American Foreign Relations, New York, Palgrave Macmillan 2002, pp. 21-27 e da Mary E. Stuckey, «The Domain of Public Conscience»: Woodrow Wilson and the Establishment of a Transcendent Political Order, in «Rhetoric & Public Affairs», 1, primavera 2003, pp. 1-23. 64 Ninkovich, The Wilsonian Century, cit., p. 224. Si vedano anche Knock, To End All Wars, cit. e Cooper Jr., Breaking the Heart of the World, cit., pp. 429-33.

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Note

Capitolo VII 1 Le tre definizioni sono rispettivamente in Thomas N. Guinsburg, The Triumph of Isolationism, in Gordon Martel (a cura di), American Foreign Relations Reconsidered, 1890-1993, London-New York, Routledge 1994, pp. 90-105; Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago, University of Chicago Press 1998; Robert D. Schulzinger, U.S. Diplomacy since 1900, Oxford, Oxford University Press 20025. Per una precoce e convincente critica dell’idea che gli USA avessero adottato una posizione isolazionista negli anni Venti si veda William Appleman Williams, The Legend of Isolationism in the 1920s, in «Science & Society», 18, inverno 1954, pp. 1-20. 2 Si vedano Frank C. Costigliola, Awkward Dominion. American Political, Economic, and Cultural Relations with Europe, 1919-1933, Ithaca, Cornell University Press 1984; Akira Iriye, The Globalizing of America, 1913-1945, vol. III di The Cambridge History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 73-115; Frank Ninkovich, Modernity and Power. A History of the Domino Theory in the XX Century, Chicago, University of Chicago Press 1994, pp. 69-98; Mary Nolan, Visions of Modernity. American Business and the Modernization of Germany, Oxford, Oxford University Press 1994 e la parte sugli anni Venti in David Ellwood, Rival and the Lodestar. America and the Politics of Modernisation in Europe 1898 to the Present, Oxford, Oxford University Press, di prossima pubblicazione (ringrazio David Ellwood per avermi consentito di leggere il manoscritto prima della sua pubblicazione). 3 Charles Chatfield, World War I and the Liberal Pacifist in America, in «Journal of American History», 7, dicembre 1970, pp. 1920-37; Iriye, The Globalizing of America, cit., p. 103; Leila J. Rupp, Worlds of Women. The Making of the International Women’s Movement, Princeton, Princeton University Press 1997, pp. 11-49. 4 Il testo dell’accordo di Washington è consultabile in Foreign Relations of the United States (FRUS), 1922, vol. I, Washington, United States Government Printing Office 1922, pp. 247-66 (http://digital.library.wisc.edu/1711.dl/FRUS.FRUS1922 v01). 5 Erik Goldstein, John Maurer (a cura di), The Washington Conference, 192122. Naval Rivalry, East Asian Stability and the Road to Pearl Harbor, London, Frank Cass 1994; Benjamin D. Rhodes, United States Foreign Policy in the Interwar Period, 1918-1941. The Golden Age of American Diplomatic and Military Complacency, Westport, Praeger 2001, pp. 40-43; Sadao Asada, Between the Old Diplomacy and the New, 1918-1922: The Washington System and the Origins of Japanese-American Rapprochement, in «Diplomatic History», 2, aprile 2006, pp. 211-30. 6 Herrick, citato in Melvin P. Leffler, The Elusive Quest. America’s Pursuit of European Stability and French Security, 1919-1933, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1977, pp. 165-66; Gibson, citato in Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 69. Si veda inoltre Harold Josephson, Outlawing War: Internationalism and the Pact of Paris, in «Diplomatic History», 4, autunno 1979, pp. 377-90. 7 La citazione di Wilson è in Kendrick A. Clements, Woodrow Wilson’s Mexican Policy, 1913-15, in «Diplomatic History», 2, primavera 1980, p. 113. Si vedano inoltre Emily S. Rosenberg, Financial Missionaries to the World. The Politics and Culture of Dollar Diplomacy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1999, pp. 97-121 e 151-66; Joseph Tulchin, The Aftermath of War. World War I and U.S. Policy toward Latin America, New York, New York University Press 1971.

Note al capitolo VII

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8 Si veda Michael J. Hogan, Informal Entente. The Private Structure of Cooperation in Anglo-American Economic Diplomacy, Columbia, University of Missouri Press 1977, pp. 66-72. Per una lettura in parte diversa Frank C. Costigliola, AngloAmerican Financial Rivalry in the 1920s, in «The Journal of Economic History», 4, dicembre 1977, pp. 911-34. 9 Leffler, The Elusive Quest, cit., pp. 90-112; Iriye, The Globalizing of America, cit., pp. 89-92; Rosenberg, Financial Missionaries, cit., pp. 167-71; William C. McNeil, American Money and the Weimar Republic. Economics and Politics on the Eve of the Great Depression, New York, Columbia University Press 1986. 10 Il Piano Young ridusse l’ammontare complessivo delle riparazioni tedesche, ridefinì ulteriormente i termini del compromesso e pose termine alla supervisione alleata del processo. 11 Hoover, citato in Hogan, Informal Entente, cit., p. 77; McNeil, American Money, cit., pp. 30-33; Rosenberg, Financial Missionaries, cit., pp. 171-72. 12 Benjamin D. Rhodes, Reassessing «Uncle Shylock»: The United States and the French War Debt, 1917-1929, in «Journal of American History», 4, marzo 1969, pp. 787-803; Richard N. Cooper, Fettered to Gold? Economic Policy in the Interwar Period, in «Journal of Economic Literature», 30, dicembre 1992, pp. 2120-38; Patrick O. Cohrs, The First «Real» Peace Settlements after the First World War: Britain, the United States and the Accords of London and Locarno, 1923-1925, in «Contemporary European History», 12, 2003, pp. 1-31. 13 Ilse Mintz, Deterioration in the Quality of Foreign Bonds Issued in the United States, 1920-1930, New York, National Bureau of Economic Research 1951, pp. 89; Frank C. Costigliola, The United States and the Reconstruction of Germany in the 1920s, in «The Business History Review», 4, inverno 1976, pp. 477-501; Barry Eichengreen, Capital Flows and Crises, Cambridge (Mass.), MIT Press 2003, pp. 2739. 14 Tra l’infinita letteratura sul tema dell’americanizzazione nel periodo tra le due guerre si rimanda qui a Emily S. Rosenberg, Spreading the American Dream. American Economic and Cultural Expansion, 1890-1945, New York, Hill & Wang 1982; Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advancement through 20th Century Europe, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2005; Ellwood, Rival and the Lodestar, cit.; Costigliola, Awkward Dominion, cit.; Nolan, Visions of Modernity, cit. 15 Le citazioni di Joachim e Claudel sono tratte da Costigliola, Awkward Dominion, cit., p. 20. 16 Su questo si veda soprattutto Nolan, Visions of Modernity, cit., in particolare pp. 58-82. Si veda inoltre Philipp Gassert, «Without Concessions to Marxists or Communist Thought». Fordism in Germany, 1923-1939, in David E. Barclay, Elisabeth Glaser Schmidt (a cura di), Transatlantic Images and Perceptions. Germany and America since 1776, Cambridge, Cambridge University Press 1997, pp. 191215. 17 Victoria De Grazia, La sfida dello «star system». L’americanismo nella formazione della cultura di massa in Europa, 1920-1965, in «il Mulino», 58, aprile 1985, pp. 95-133 e John Trumpbour, Selling Hollywood to the World: U.S. and European Struggles for Mastery of the Global Film Industry, 1920-1950, Cambridge, Cambridge University Press 2002, pp. 17-91. 18 Per due analisi particolarmente originali dell’influenza del turismo sulle relazioni internazionali degli USA si vedano Christopher Endy, Travel and World

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Note

Power: Americans in Europe, 1890-1917, in «Diplomatic History», 4, autunno 1998, pp. 565-94 e Id., Cold War Holidays. American Tourism in France, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2004. 19 Si veda il classico Charles Kindleberger, La grande depressione nel mondo: 1929-1939, Milano, Etas 1982 (ed. or. The World in Depression, 1929-1939, London, Allen Lane 1973). 20 Robert H. Ferrell, American Diplomacy in the Great Depression. HooverStimson Foreign Policy, 1929-1933, Hamden, Archon Books 19692; Joan Hoff Wilson, American Business and Foreign Policy, 1920-1933, Lexington, The University Press of Kentucky 1971, pp. 120-23. Nessuno Stato, a parte la Finlandia, avrebbe saldato i propri debiti. 21 Sull’eurofobia di Roosevelt si vedano le considerazioni di John Lamberton Harper, American Visions of Europe. Franklin D. Roosevelt, George F. Kennan and Dean G. Acheson, Cambridge, Cambridge University Press 1994, pp. 1-75. 22 John Edward Wiltz, The Nye Committee Revisited, in «The Historian», 2, febbraio 1961, pp. 211-33; Wayne S. Cole, Senator Gerald P. Nye and American Foreign Relations, Minneapolis, University of Minnesota Press 1962; Paul A.C. Koistinen, The «Industrial-Military Complex» in Historical Perspective: The Interwar Years, in «Journal of American History», 4, marzo 1970, pp. 819-39. 23 Wayne S. Cole, Roosevelt and the Isolationists, 1932-1945, Lincoln, University of Nebraska Press 1983, pp. 65-208; Robert Dallek, Franklin D. Roosevelt and American Foreign Policy, 1932-1945, Oxford, Oxford University Press 19952, pp. 101-106; Ninkovich, Modernity and Power, cit., pp. 105-108. 24 La citazione di Roosevelt è in Stuart L. Weiss, American Foreign Policy and Presidential Power: The Neutrality Act of 1935, in «The Journal of Politics», 3, agosto 1968, p. 691. Il testo del primo Neutrality Act è consultabile all’indirizzo http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/interwar/neutralityact.htm. 25 James Wilford Garner, The United States Neutrality Act of 1937, in «The American Journal of International Law», 3, luglio 1937, pp. 385-97. 26 Scrive Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 108: «Avendo abbandonato sia la tradizione sia la modernità internazionalista, l’assenza di fondamenta storiche dell’isolazionismo rese estremamente precaria la sua sopravvivenza ideologica». 27 Si vedano Arnold A. Offner, Appeasement Revisited: The United States, Great Britain, and Germany, 1933-1940, in «Journal of American History», 2, settembre 1977, pp. 373-93, che indica tra le motivazioni dell’appeasement anche gli interessi economici statunitensi in Germania, e David F. Schmitz, Richard D. Challener (a cura di), Appeasement in Europe: A Reassessment of U.S. Policies, New York, Greenwood Press 1990. 28 Welles, citato in Justus D. Doenecke, The Roosevelt Foreign Policy. An Ambiguous Legacy, in Justus D. Doenecke, Mark A. Stoler, Debating Franklin D. Roosevelt’s Foreign Policies, 1933-1945, Lanham, Rowman & Littlefield 2005, p. 27. Si veda inoltre Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit., pp. 165-67; Barbara Rearden Farnham, Roosevelt and the Munich Crisis: A Study of Political Decision-Making, Princeton, Princeton University Press 1997; Frederick W. Marks III, Six between Roosevelt and Hitler: America’s Role in the Appeasement of Nazi Germany, in «The Historical Journal», 4, dicembre 1985, pp. 969-82. 29 Il testo del discorso di Roosevelt, tenuto a Chicago il 5 ottobre 1937, è consultabile all’indirizzo http://www.millercenter.virginia.edu/scripps/digitalarchive/speeches/spe_1937_1005_roosevelt. Sul discorso si veda John McV. Haight Jr.,

Note al capitolo VII

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Roosevelt and the Aftermath of the Quarantine Speech, in «The Review of Politics», 2, aprile 1962, pp. 233-59. 30 Per tre esempi si vedano Doenecke, The Roosevelt Foreign Policy, cit.; Ninkovich, Modernity and Power, cit.; Anders Stephanson, Quattordici note sul concetto di guerra fredda, in «Novecento», 2, 2000, pp. 67-87. 31 Iriye, The Globalizing of America, cit., pp. 159-66; Harper, American Visions of Europe, cit., pp. 64-69; Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit., pp. 199-232; David Reynolds, The Creation of the Anglo-American Alliance, 1937-41: A Study in Competitive Co-operation, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1981, pp. 37-62. 32 Roosevelt, citato in Warren F. Kimball, The Juggler. Franklin Roosevelt as Wartime Statesman, Princeton, Princeton University Press 1991, p. 7. Per una visione assai critica di queste contraddizioni della politica estera rooseveltiana si veda Justus D. Doenecke, Storm on the Horizon. The Challenge to American Intervention, 1939-1941, Lanham, Rowman & Littlefield 2000. 33 La citazione di Marshall è in Michael S. Sherry, In the Shadow of War: The United States since the 1930s, New Haven, Yale University Press 1997, p. 44. Le citazioni di Roosevelt sono tratte da un discorso radiofonico del dicembre 1940 (consultabile all’indirizzo http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/WorldWar2/arsenal.htm) e da Melvin P. Leffler, A Preponderance of Power. National Security, the Truman Administration, and the Cold War, Stanford, Stanford University Press 1992, p. 22 e Ninkovich, The Wilsonian Century, cit., pp. 124-25. Si veda inoltre Campbell Craig, The not So Strange Career of Charles Beard, in «Diplomatic History», 2, primavera 2001, pp. 251-74. 34 Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton 1998, pp. 219-47 e Anders Stephanson, Liberty or Death. The Cold War as U.S. Ideology, in Odd Arne Westad (a cura di), Reviewing the Cold War. Approaches, Interpretations, Theories, London, Frank Cass 2000, pp. 82-100. 35 Per quanto necessario, l’accordo fu vissuto come assai umiliante da parte del primo ministro britannico Winston Churchill. Si vedano Mark M. Lowenthal, Roosevelt and the Coming of the War: The Search for United States Policy 1937-42, in «Journal of Contemporary History», 3, luglio 1981, pp. 413-40; David Reynolds, Lord Lothian and Anglo-American Relations, 1939-1940, in «Transactions of the American Philosophical Society», 2, 1983, pp. 1-65; Warren F. Kimball, Forged in War. Roosevelt, Churchill and the Second World War, New York, William Morrow 1997, pp. 57-60; Harper, American Visions of Europe, cit., pp. 71-73. 36 Roosevelt, citato in Mark A. Stoler, Flawed, but Superior to Competition, in Doenecke, Stoler, Debating Franklin D. Roosevelt’s Foreign Policies, cit., p. 127; Rhodes, United States Foreign Policy, cit., pp. 172-73; Sherry, In the Shadow of War, cit., pp. 48-49. 37 Nei quattro anni successivi circa 50 miliardi di dollari sarebbero stati messi a disposizione degli alleati degli Stati Uniti attraverso la legge affitti-prestiti. La citazione di Roosevelt è tratta dal discorso del 29 dicembre 1940 (consultabile all’indirizzo http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/WorldWar2/arsenal.htm). Il testo del Lend-Lease Act è consultabile all’indirizzo http://www.history.navy.mil/faqs/ faq59-23.htm; Kimball, The Juggler, cit., pp. 43-61; Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit., pp. 252-61. 38 Su questo permangono divisioni tra gli storici. Harper, American Visions of Europe, cit. e Reynolds, The Creation of the Anglo-American Alliance, cit. sottoli-

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Note

neano come Roosevelt abbia cercato a lungo di evitare l’ingresso degli USA nella guerra. Iriye, The Globalizing of America, cit. e Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit. sembrano invece ritenere che nel corso del 1941 il presidente giudicasse inevitabile una partecipazione americana al conflitto. 39 Elizabeth Kimball MacLean, Joseph E. Davies and Soviet-American Relations, 1941-43, in «Diplomatic History», 1, gennaio 1980, pp. 73-94 e Roger Munting, Lend-Lease and the Soviet War Effort, in «Journal of Contemporary History», 3, luglio 1984, pp. 495-510. 40 Il discorso delle quattro libertà è consultabile e ascoltabile all’indirizzo http://millercenter.virginia.edu/scripps/digitalarchive/speechDetail/24. Si vedano inoltre Kevin Coe, The Language of Freedom in the American Presidency, in «Presidential Studies Quarterly», 3, settembre 2007, pp. 375-98 e Foner, The Story of American Freedom, cit., pp. 221-24. 41 Il «New York Times» è citato in Coe, The Language of Freedom, cit., p. 392. 42 Il testo della Carta atlantica è consultabile all’indirizzo http://usinfo.state. gov/usa/infousa/facts/democrac/53.htm. 43 Su questo aspetto non condivido l’interpretazione del pur eccellente Ninkovich, Modernity and Power, cit., pp. 132-33, che tende a ridimensionare la portata universalista e neowilsoniana della Carta atlantica. Si vedano inoltre Douglas Brinkley, David R. Facey-Crowther (a cura di), The Atlantic Charter, London, Macmillan 1994; David Reynolds, From Munich to Pearl Harbor: Roosevelt’s America and the Origins of the Second World War, Chicago, Ivan Dee 2003, pp. 133-69; Id., The Origins of the Two «World Wars»: Historical Discourse and International Politics, in «Journal of Contemporary History», 1, gennaio 2003, pp. 29-44. 44 Waldo Heinrichs, President Franklin D. Roosevelt’s Intervention in the Battle of the Atlantic, 1941, in «Diplomatic History», 4, autunno 1986, pp. 311-32; Stoler, Flawed, but Superior, cit., pp. 134-35; Kimball, Forged in War, cit., pp. 101-15. 45 Un eventuale attacco giapponese all’Unione Sovietica avrebbe inoltre reso ancor più difficile per quest’ultima fermare l’avanzata nazista. Rhodes, United States Foreign Policy, cit., pp. 193-95 e Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit., pp. 241-43. 46 Peter Mauch, Revisiting Nomura’s Diplomacy. Ambassador Nomura’s Role in the Japanese-American Negotiations, 1941, in «Diplomatic History», 3, giugno 2004, pp. 353-83; Robert J.C. Butow, The Hull-Nomura Conversations: A Fundamental Misconception, in «The American Historical Review», 4, luglio 1960, pp. 822-36. 47 Akira Iriye, The Origins of World War II in Asia and the Pacific, New York, Longman 1987, pp. 144-47; Waldo Heinrichs, Threshold of War. Franklin D. Roosevelt and American Entry into World War II, Oxford, Oxford University Press 1988, pp. 139-44; Scott D. Sagan, The Origins of the Pacific War, in «Journal of Interdisciplinary History», 4, primavera 1988, pp. 893-922. 48 Stoler, Flawed, but Superior, cit., pp. 142-45; Robert J.C. Butow, Backdoor Diplomacy in the Pacific: The Proposal for a Konoye-Roosevelt Meeting, 1941, in «Journal of American History», 1, giugno 1972, pp. 48-72. 49 Le due citazioni di Roosevelt sono tratte dal discorso al Congresso dell’8 dicembre 1941 (http://www.fdrlibrary.marist.edu/oddecwar.html) e dal discorso radiofonico del 9 dicembre 1941 (http://www.millercenter.virginiaedu/scripps/digitalarchive/speeches/spe_1941_1209_roosevelt). Sul significato di Pearl Harbor nella memoria collettiva degli USA si veda il suggestivo Emily S. Rosenberg, A

Note al capitolo VII

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Date Which Will Live. Pearl Harbor in American Memory, Durham, Duke University Press 2003. 50 I relocation centers si trovavano nell’interno della California e in Idaho, Utah, Arizona, Wyoming, Colorado e Arkansas. Solo alla fine degli anni Ottanta il governo degli Stati Uniti ha espresso le proprie scuse e ha rimborsato le vittime della deportazione e i loro eredi. Sulla vicenda si vedano ora Greg Robinson, By Order of the President. FDR and the Internment of Japanese Americans, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2001 e Tetsuden Kashima, Judgment without Trial. Japanese American Imprisonment during World War II, Seattle, University of Washington Press 2003. Sulla Seconda guerra mondiale e il fronte interno si rimanda al classico John Morton Blum, V Was for Victory. Politics and American Culture during World War II, New York, Harcourt Brace Jovanovich 1976. 51 Il testo della Dichiarazione delle nazioni unite è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decade03.htm. 52 Si veda il dettagliatissimo Mark A. Stoler, Allies and Adversaries. The Joint Chiefs of Staff, the Grand Alliance, and U.S. Strategy in World War II, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2000. 53 Roger Beaumont, The Bomber Offensive as a Second Front, in «Journal of Contemporary History», 1, gennaio 1987, pp. 3-19; Mark A. Stoler, A Half Century of Conflict: Interpretations of U.S. World War II Diplomacy, in «Diplomatic History», 3, luglio 1994, pp. 375-403; John Charmley, Churchill and the American Alliance, in «Transactions of the Royal Historical Society», 11, 2001, pp. 353-71. 54 Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1987, pp. 352-57. 55 Harper, American Visions of Europe, cit., pp. 88-98; Kimball, The Juggler, cit., pp. 83-106; John Lewis Gaddis, The United States and the Origins of the Cold War, New York, Columbia University Press 20002, pp. 63-93. 56 Ninkovich, Modernity and Power, cit., pp. 128-32 e Id., The Wilsonian Century, cit., pp. 139-42, che però presenta l’approccio di Roosevelt come un ritorno all’internazionalismo normale di Taft e di Theodore Roosevelt più che come l’affermazione di un progetto neowilsoniano. Per una visione che enfatizza l’elemento realista del progetto rooseveltiano si veda Townsend Hoopes, Douglas Brinkley, FDR and the Creation of the UN, New Haven, Yale University Press 1998. Una lettura diversa è quella offerta da Elizabeth Borgwardt nel suo suggestivo A New Deal for the World. America’s Vision for Human Rights, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2005. 57 Borgwardt, A New Deal, cit., pp. 82-83; Kimball, The Juggler, cit., pp. 12757; Neil Smith, American Empire. Roosevelt’s Geographer and the Prelude to Globalization, Berkeley, University of California Press 2003, pp. 355-56. 58 Warren F. Kimball, Stalingrad: A Chance for Choices, in «The Journal of Military History», 1, gennaio 1996, pp. 89-114; Id., The Juggler, cit., pp. 76-77; Stephanson, Quattordici note, cit. Per una severa critica della logica della resa incondizionata si veda il classico Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Edizioni di Comunità 1970 (ed. or. Paix et guerre entre les nations, Paris, CalmannLévy 1962). 59 Kimball, The Juggler, cit., pp. 83-105 e Dallek, Franklin D. Roosevelt, cit., pp. 423-42. 60 Churchill, citato in Charmley, Churchill and the American Alliance, cit., p. 368. 61 Oltre ai testi citati nelle note precedenti si vedano Albert Resis, The Chur-

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Note

chill-Stalin Secret «Percentages» Agreement on the Balkans, Moscow, October 1944, in «The American Historical Review», 2, aprile 1978, pp. 368-87 e Joseph M. Siracusa, The Night Stalin and Churchill Divided Europe: The View from Washington, in «The Review of Politics», 3, luglio 1981, pp. 381-409. 62 Robert A. Pollard, Economic Security and the Origins of the Cold War: Bretton Woods, the Marshall Plan, and American Rearmament, 1944-50, in «Diplomatic History», 3, luglio 1985, pp. 271-89; Ronald I. McKinnon, The Rules of the Game: International Money in Historical Perspective, in «Journal of Economic Literature», 2, marzo 1993, pp. 1-44; George Schild, Bretton Woods and Dunbarton Oaks, New York, St. Martin’s Press 1995. 63 Per due esempi John Ruggie, International Regime, Transaction and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order, in «International Organization», 2, primavera 1982, pp. 379-415 (cui spetta la citazione) e John G. Ikenberry, The Political Origins of Bretton Woods, in Michael D. Bordo, Barry Eichengreen (a cura di), A Retrospective on the Bretton Woods System. Lessons for International Monetary Reform, Chicago, University of Chicago Press 1993, pp. 155-82. Per una posizione diversa, che enfatizza maggiormente gli scontri e le tensioni tra Gran Bretagna e Stati Uniti, si vedano invece Richard N. Gardner, Sterling-Dollar Diplomacy, Oxford, Clarendon Press 1956 e Robert Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. III, Fighting for Britain, 1937-1946, London, Macmillan 2000, pp. 300-36. 64 Churchill, citato in Foster Rhea Dulles, Gerald E. Ridinger, The Anti-Colonial Policies of Franklin D. Roosevelt, in «Political Science Quarterly», 1, marzo 1955, p. 9. 65 Una visione in parte diversa è in Borgwardt, A New Deal, cit., pp. 142-93. Si veda inoltre l’aneddotico Stephen C. Schlesinger, Act of Creation. The Founding of the United Nations, Boulder, Westview Press 2003. 66 Su questo aspetto si tornerà nei prossimi capitoli dedicati alla Guerra Fredda. 67 Il testo degli accordi è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/wwii/yalta.htm. 68 Una lettura, questa, riproposta in modo articolato e documentato anche nel recente Wilson D. Miscamble, From Roosevelt to Truman. Potsdam, Hiroshima and the Cold War, Cambridge, Cambridge University Press 2007. 69 John Lamberton Harper, 14 settembre 2007, discussione sul libro di Miscamble, From Roosevelt to Truman, cit., H-Diplo (http://www.h-net.msu.edu/ cgi-bin/logbrowse.pl?trx=vx&list=H-Diplo&month=0709&week=b&msg=Prg7 CmNrZpUKT%2bjjBxi5ow&user=&pw=). 70 Il testo della dichiarazione è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/decade/decade17.htm. 71 Sull’infinito dibattitto storiografico circa la decisione di usare l’arma nucleare e il lascito sulla storia e la memoria della Seconda guerra mondiale si vedano Michael J. Hogan (a cura di), Hiroshima in History and Memory, Cambridge, Cambridge University Press 1996; Samuel J. Walker, Prompt and Utter Destruction. Truman and the Use of Atomic Bomb against Japan, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1997; Michael D. Gordin, Five Days in August. How World War II Became a Nuclear War, Princeton, Princeton University Press 2007, di cui si riprende qui l’originale e convincente interpretazione. 72 Kimball, The Juggler, cit., p. 185.

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Capitolo VIII 1 Alan S. Milward, War, Economy and Society, 1939-1945, Berkeley, University of California Press 1977; Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988, pp. 459-63; John G. Ikenberry, After Victory. Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of Order after Major Wars, Princeton, Princeton University Press 2001, pp. 163-68. 2 Sulle trasformazioni della società statunitense durante la Seconda guerra mondiale si rimanda al classico John Morton Blum, V was for Victory. Politics and American Culture during World War II, New York, Harcourt Brace Jovanovich 1976. Si veda inoltre Paul A.C. Koistinen, Arsenal of World War II. The Political Economy of American Warfare, 1940-1945, Lawrence, The University Press of Kansas 2004. Sull’impatto della guerra e la centralità dell’arma aerea si veda Michael S. Sherry, In the Shadow of War. The United States Since the 1930s, New Haven, Yale University Press 1995. Sulla natura dell’egemonia statunitense si rimanda ai recenti lavori di Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advancement through 20th Century Europe, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2005 e di Charles S. Maier, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006. 3 Robert Latham, The Liberal Moment. Modernity, Security and the Making of the Postwar Innernational Liberal Order, New York, Columbia University Press 1997 (cui si deve la citazione sull’«ordine internazionale liberale»). Sulle varie coordinate del disegno rooseveltiano si rimanda alla parte conclusiva del cap. VII. John Lamberton Harper presenta addirittura il cauto globalismo di Roosevelt come una forma di isolazionismo parziale al quale avrebbe concorso una sotterranea eurofobia. Si veda John Lamberton Harper, American Visions of Europe. Franklin D. Roosevelt, George F. Kennan and Dean G. Acheson, Cambridge, Cambridge University Press 1994, pp. 128-31 e inoltre Elizabeth Borgwardt, A New Deal for the World. America’s Vision for Human Rights, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2005. 4 Due esempi recenti, opposti nelle tesi ma simili nell’impostazione, di riproposizione delle rigidità interpretative e metodologiche della vecchia storiografia della Guerra Fredda sono John Lewis Gaddis, The Cold War. A New History, New York, Penguin 2005 e Michael Cox, Caroline Kennedy Pipe, The Tragedy of American Diplomacy: Re-thinking the Marshall Plan, in «Journal of Cold War Studies», 1, inverno 2005, pp. 97-134. 5 A quasi quindici anni di distanza dalla sua pubblicazione, la ricostruzione storica più precisa ed equilibrata delle origini della Guerra Fredda e del ruolo degli USA rimane Melvin P. Leffler, A Preponderance of Power. National Security, the Truman Administration, and the Cold War, Stanford, Stanford University Press 1992. 6 Si rimanda qui all’insuperato saggio di John Lewis Gaddis, The Long Peace, in Id., The Long Peace. Inquiries into the History of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1987, pp. 215-45, che adotta un modello neorealista, facendo largo uso del classico Kenneth N. Waltz, Theory of International Politics, New York, McGraw-Hill 1979. Si vedano inoltre le considerazioni in Robert Jervis, Was the

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Cold War a Security Dilemma?, in «Journal of Cold War Studies», 1, inverno 2001, pp. 36-60. 7 Melvin P. Leffler, The Specter of Communism. The United States and the Origins of the Cold War, 1917-1953, New York, Hill & Wang 1994; Frank Ninkovich, Modernity and Power. A History of the Domino Theory in the XX Century, Chicago, University of Chicago Press 1994; Nigel Gould-Davies, Rethinking the Role of Ideology in International Politics during the Cold War, in «The Journal of Cold War Studies», 1, inverno 1999, pp. 90-109; Douglas MacDonald, Formal Ideologies in the Cold War: Towards a Framework for Empirical Analysis, in Odd Arne Westad (a cura di), Reviewing the Cold War. Approaches, Interpretations, Theories, London, Frank Cass 2000, pp. 180-206. 8 Sulla politica di sicurezza staliniana, i suoi limiti e le sue incongruenze si vedano le diverse interpretazioni di Craig Nation, Black Earth, Red Star. A History of Soviet Security Policy, 1917-1991, Ithaca, Cornell University Press 1992; Vojtech Mastny, Il dittatore insicuro. Stalin e la guerra fredda, Milano, Corbaccio 1998 (ed. or. The Cold War and Soviet Insecurity. The Stalin Years, Oxford, Oxford University Press 1996); Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’URSS, il PCI e le origini della guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci 1998; Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars: From World War to Cold War, 1939-1953, New Haven, Yale University Press 2007. 9 Anders Stephanson, Quattordici note sul concetto di guerra fredda, in «Novecento», 2, 2000, pp. 67-87. Secondo Stephanson, prima di ogni altra cosa la Guerra Fredda avrebbe costituito un «progetto statunitense»; si veda Id., The Cold War Considered as U.S. Project, in Federico Romero, Silvio Pons (a cura di), Reinterpreting the End of the Cold War. Issues, Interpretations, Periodizations, London, Frank Cass 2005 (cui si deve la citazione sul «progetto statunitense», p. 52). In modi diversi, aderiscono all’idea della Guerra Fredda come un «progetto statunitense» sia Odd Arne Westad, The New International History of the Cold War: Three (Possible) Paradigms, in «Diplomatic History», 4, settembre 2000, pp. 551-65 sia Fredrick Logevall, A Critique of Containment, in «Diplomatic History», 4, settembre 2004, pp. 473-99. 10 Di «dilemma della sicurezza» parla Leffler, A Preponderance of Power, cit. Si vedano inoltre le considerazioni in Jervis, Was the Cold War a Security Dilemma?, cit. 11 Leffler, A Preponderance of Power, cit., pp. 30-33; Harry S. Truman, Memoirs. 1945: Years of Decision, New York, Signet 1955, pp. 86-99; John Lewis Gaddis, We Now Know. Rethinking Cold War History, Oxford, Oxford University Press 1997, pp. 26-53. La vecchia tesi secondo la quale Truman fosse un politico provinciale e impreparato ad affrontare la complessità della politica internazionale è stata recentemente riproposta da Arnold Offner, Another Such Victory. President Truman and the Cold War, 1945-1953, Stanford, Stanford University Press 2002. Sulla questione del prestito si veda Leon C. Martel, Lend-lease, Loans, and the Coming of the Cold War. A Study of the Implementation of Foreign Policy, Boulder, Westview Press 1979. 12 Vladislav Zubok, Constantine Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1996, pp. 30-35; Vladimir O. Pechatnov, C. Earl Edmonson, The Russian Perspective, in Debating the Origins of the Cold War, Lanham, Rowman & Littlefield 2002, pp. 94-97. 13 Per il contenuto degli accordi di Potsdam sulla Germania si rimanda a Odd

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Arne Westad, Jussi M. Hanhimäki (a cura di), The Cold War. A History in Documents and Eyewitness Account, Oxford, Oxford University Press 2003, pp. 82-86. 14 Truman, citato in Leffler, A Preponderance of Power, cit., p. 64. Si vedano Charles S. Maier, Introduction: «Issue then Is Germany and with It Future of Europe», in Charles S. Maier, Günter Bischof (a cura di), The Marshall Plan and Germany. West German Development within the Framework of the European Recovery Program, Oxford, Berg 1991, pp. 1-39 e Id., Among Empires, cit., pp. 154-70. 15 La responsabilità statunitense nell’aver provocato la divisione della Germania è sottolineata con forza da Carolyn Eisenberg, Drawing the Line. The American Decision to Divide Germany, 1944-1949, Cambridge, Cambridge University Press 1996. Si vedano inoltre James McAllister, No Exit. America and the German Problem, 1943-1954, Ithaca, Cornell University Press 2002 e il recente, suggestivo studio di Patrick Thaddeus Jackson, Civilizing the Enemy. German Reconstruction and the Invention of the West, Ann Arbor, University of Michigan Press 2006. Sulle modalità brutali dell’occupazione sovietica nella parte orientale della Germania si rimanda a Norman M. Naimark, The Russians in Germany. A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 1995. 16 Il «lungo telegramma» (http://www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/documents/episode-1/kennan.htm), di ben 8.000 parole, fu inviato da Kennan al Dipartimento di Stato il 22 febbraio 1946. L’articolo su «Foreign Affairs» (http: //www.foreignaffairs.org/19470701faessay25403/x/the-sources-of-soviet-conduct. html), firmato con lo pseudonimo «X» e dal titolo The Sources of Soviet Conduct, apparve nel luglio del 1947. La bibliografia su Kennan, morto nel 2005 all’età di 101 anni, è sterminata. Tra i lavori migliori si vedano Anders Stephanson, George Kennan and the Art of Foreign Policy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1989; Wilson D. Miscamble, George F. Kennan and the Making of American Foreign Policy, 1947-1950, Princeton, Princeton University Press 1992; Harper, American Visions of Europe, cit., pp. 135-232. Si veda inoltre l’originaria riflessione proposta recentemente da Brian Diemert, Uncontainable Metaphor: George F. Kennan’s «X» Article and Cold War Discourse, in «Canadian Review of American Studies», 1, 2005, pp. 21-55. 17 La citazione di Kennan si trova all’inizio dell’articolo pubblicato su «Foreign Affairs». Le critiche di Lippmann a Kennan sono raccolte in Walter Lippmann, The Cold War. A Study in U.S. Foreign Policy, New York, Harper 1947, che popolarizzò la metafora della Guerra Fredda. Si vedano inoltre Ronald Steel, Walter Lippmann and the American Century, Boston, Little Brown 1980, pp. 433-46 e Logevall, A Critique of Containment, cit. 18 Ikenberry, After Victory, cit., p. 214. Sugli accordi di Bretton Woods si rimanda al cap. VII. 19 Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-1951, London, Methuen 1984, pp. 462-65. 20 Eisenberg, Drawing the Line, cit.; Frank C. Costigliola, France and the United States. The Cold Alliance since World War II, New York, Twayne 1992. 21 John Lamberton Harper, L’America e la Ricostruzione dell’Italia, 1945-1948, Bologna, Il Mulino 1987 (ed. or. America and the Reconstruction of Italy, 19451948, Cambridge, Cambridge University Press 1986); Federico Romero, Gli Stati Uniti in Italia: il Piano Marshall e il Patto Atlantico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cin-

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quanta, Torino, Einaudi 1994, pp. 233-89; Alessandro Brogi, A Question of Selfesteem. The United States and the Cold War Choices in France and Italy, 1944-1958, Westport, Praeger 2002. 22 Giorgio Fodor, Perché nel 1947 l’Europa ebbe bisogno del Piano Marshall, in «Rivista di Storia economica», 1, 1985, pp. 89-123; Fraser Harbutt, The Iron Curtain. Churchill, America, and the Origins of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1986; Milward, The Reconstruction of Western Europe, cit.; Michael J. Hogan, The Marshall Plan. America, Britain, and the Reconstruction of Western Europe, 1947-1952, Cambridge, Cambridge University Press 1987. 23 Kennan, citato in Maier, Introduction, cit., p. 7. 24 Discorso di George Marshall all’Università di Harvard, 5 luglio 1947 (http://www.usaid.gov/multimedia/video/marshall/marshallspeech.html). 25 Charles S. Maier, The Politics of Productivity: Foundations of American International Economic Policy after World War II, in «International Organization», 4, autunno 1977, pp. 607-33; Federico Romero, Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo, 1944-1951, Roma, Edizioni Lavoro 1989; David Ellwood, L’Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale, 1945-1955, Bologna, Il Mulino 1994 (ed. or. Rebuilding Europe. Western Europe, America and Postwar Reconstruction, 1945-1955, New York, Longman 1992). 26 Zubok, Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War, cit., pp. 104-108; Michail Narinskij, Scott D. Parrish, New Evidence on the Soviet Rejection of the Marshall Plan, in «Cold War International History Project Working Paper», 9, marzo 1994 (http://wilsoncenter.org/topics/pubs/ACFB73.pdf). 27 La critica più incisiva e convincente è sicuramente quella di Milward, The Reconstruction of Western Europe, cit. e Id., The European Rescue of the NationState, London-New York, Routledge 20002. Giudizi diversi, che enfatizzano invece il successo economico del piano, sono quelli di Ikenberry, After Victory, cit.; Hogan, Marshall Plan, cit. e, soprattutto, Immanuel Wexler, The Marshall Plan Revisited. The European Recovery Program in Economic Perspective, Westport, Greenwood Press 1983. Per una discussione storiografica aggiornata si veda Kathleen Burk, The Marshall Plan. Filling in Some of the Blanks, in «Contemporary European History», 10, 2001, pp. 267-94 e i commenti all’articolo di Cox, Kennedy Pipe, The Tragedy of American Diplomacy, cit. 28 Pier Paolo D’Attorre, Anche noi possiamo essere prosperi. Aiuti ERP e politiche della produttività negli anni cinquanta, in «Quaderni storici», 1, aprile 1985, pp. 55-94; Luciano Segreto, Americanizzare o modernizzare l’economia? Progetti americani e risposte italiane negli anni cinquanta e sessanta, in «Passato e Presente», 37, gennaio-aprile 1996, pp. 55-84; Jonathan Zeitlin, Gary Herrigel (a cura di), Americanization and Its Limits. Reworking U.S. Technology and Management in Post-war Europe and Japan, Oxford, Oxford University Press 2000; Giles Scott-Smith, Hans Krabbendam (a cura di), The Cultural Cold War in Western Europe, 1945-1960, London, Frank Cass 2003. Da un’altra prospettiva, anche Carlo Spagnolo individua nel Piano Marshall lo strumento con cui gli USA cercarono di costruire una propria egemonia in Europa. Si veda Carlo Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia, Roma, Carocci 2001. 29 Sulla propaganda del Piano Marshall si vedano soprattutto David Ellwood, The Propaganda of the Marshall Plan in Italy in a Cold War Context, in «Intelligence and National Security», 2, giugno 2003, pp. 225-36 e Bernadette Whelan, Mar-

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shall Plan Publicity and Propaganda in Italy and Ireland, 1947-1951, in «Historical Journal of Film, Radio and Television», 4, ottobre 2003, pp. 311-28. 30 Sulla presunta responsabilità del Piano Marshall nell’aver provocato la Guerra Fredda si vedano le acute riflessioni di Günter Bischof, The Advent of Neo-Revisionism?, in «Journal of Cold War Studies», 1, inverno 2005, pp. 141-51. 31 Sui primi piani statunitensi di difesa dell’Europa si veda Lorenza Sebesta, L’Europa indifesa. Sistema di sicurezza atlantico e caso italiano, 1948-1955, Firenze, Ponte alle Grazie 1991, pp. 29-50. Sulla genesi dell’Alleanza atlantica si rimanda all’esaustiva sintesi di Lawrence S. Kaplan, The United States and NATO. The Formative Years, Lexington, The University Press of Kentucky 1984 e a molti dei contributi in Francis H. Heller, John R. Gillingham (a cura di), NATO. The Founding of the Atlantic Alliance and the Integration of Europe, New York, St. Martin’s Press 1992. 32 Thomas Schwartz, Dual Containment: John J. McCloy, the American High Commission, and European Integration, 1949-1952, in Heller, Gillingham (a cura di), NATO, cit., pp. 193-212; Id., The United States and Germany after 1945: Alliances, Transnational Relations, and the Legacy of the Cold War, in «Diplomatic History», 4, autunno 1995, pp. 549-68. Sul caso francese si vedano inoltre William I. Hitchcock, France Restored. Cold War Diplomacy and the Quest for Leadership in Europe, 1944-1954, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1998 e Irwin M. Wall, The United States and the Making of Postwar France, 1945-1954, Cambridge, Cambridge University Press 1991. 33 Timothy Smith, The United States, Italy and NATO, 1947-1952, London, Macmillan 1991; Alessandro Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, Firenze, La Nuova Italia 1996, pp. 44-58; Mario Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Roma, Carocci 2001, pp. 64-72. 34 Marshall, citato in Ninkovich, Modernity and Power, cit., p. 180. 35 Il testo del trattato, firmato il 4 aprile 1949, è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/nato.htm. 36 Il verbale dell’incontro Truman-Acheson (2 marzo 1949) è in Foreign Relations of the United States (FRUS), 1949, Western Europe, vol. IV, Washington, United States Government Printing Office 1975; Text of Secretary’s Acheson Broadcast on Atlantic Accord, in «The New York Times», 19 marzo 1949; Anne O’Hare McCormick, Cause and Effect of the Rise of the New Atlantis, in «The New York Times», 23 marzo 1949. Su questo aspetto si vedano inoltre le riflessioni di Patrick Thaddeus Jackson, Defending the West: Occidentalism and the Formation of NATO, in «The Journal of Political Philosophy», 3, 2003, pp. 223-52. 37 De Grazia, Irresistible Empire, cit.; Geir Lundestad, Empire by Invitation? The United States and Western Europe, 1945-52, in «Journal of Peace Research», 23, 1986, pp. 263-77; Id., The American «Empire» and Other Studies of U.S. Foreign Policy in a Comparative Perspective, Oxford-New York-Oslo, Oxford University Press-Norwegian University Press 1990. 38 Acheson, citato in Martin Walker, The Cold War, London, Fourth Estate 1993, p. 48. Si veda inoltre la sofisticata e originale riflessione di Ninkovich, Modernity and Power, cit. 39 Acheson, citato in Dennis Merril, The Truman Doctrine. Containing Communism and Modernity, in «Presidential Studies Quarterly», 1, marzo 2006, p. 32 e in Leffler, A Preponderance of Power, cit., p. 145. Sul ruolo di Acheson si vedano inoltre Robert Frazier, Acheson and the Formulation of the Truman Doctrine, in

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«Journal of Modern Greek Studies», 2, ottobre 1999, pp. 229-51 e le memorie dello stesso Acheson, Present at the Creation. My Years in the State Department, New York, Noron 1969, pp. 220-26. 40 Il discorso di Truman è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/ lawweb/avalon/trudoc.htm. 41 Le citazioni del «Times» e di «Life» sono in Merril, The Truman Doctrine, cit., p. 34. Sulla ricezione del discorso si vedano inoltre Leffler, A Preponderance of Power, cit., pp. 144-46 e, più recentemente, Offner, Another Such Victory, cit., pp. 185-211. Per una comparazione con la Dottrina Monroe si veda Lawrence S. Kaplan, The Monroe Doctrine and the Truman Doctrine: The Case of Greece, in «Journal of the Early Republic», 1, primavera 1993, pp. 1-21. 42 Che è quanto fa il pur ottimo Leffler, A Preponderance of Power, cit. Per una sofisticata discussione della genesi della dottrina e del ruolo di Acheson si veda Harper, American Visions of Europe, cit., pp. 274-77. La citazione di Vandenberg è in Robert Ivie, Fire, Flood, and Red Fever: Motivating Metaphors of Global Emergency in the Truman Doctrine Speech, in «Presidential Studies Quarterly», 3, settembre 1999, p. 570. 43 Merril, The Truman Doctrine, cit., p. 34 (cui si deve la citazione sulla «mappa morale globale»). Sulla Dottrina Truman e le modalità classiche con cui essa definisce e disciplina lo spazio si veda Gearoid O’Tuathail, Critical Geopolitics and Development Theory. Intensifying the Dialogue, in «Transactions of the Institute of British Geographers», 2, 1994, pp. 228-34. Per una definizione concettualmente ricca della categoria di sicurezza nazionale negli USA e di come questa si leghi ai core values statunitensi si veda Melvin P. Leffler, National Security, in Michael J. Hogan, Thomas G. Paterson (a cura di), Explaining the History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 2004, pp. 123-36. 44 Thomas G. Paterson, Les Adler, Red Fascism. The Merger of Nazi Germany and Soviet Russia in the American Image of Totalitarianism, 1930s-1950s, in «American Historical Review», 75, aprile 1970, pp. 1046-64; Abbot Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1995, pp. 73-78; Benjamin L. Alpers, Dictators, Democracy, and American Public Culture. Envisioning the Totalitarian Enemy, 1920s-1950s, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2003; Mario Del Pero, L’antifascismo nella politica estera statunitense, in Alberto De Bernardi, Paolo Ferrari (a cura di), L’antifascismo nella costruzione dell’Europa, Roma, Carocci 2004, pp. 197-207. 45 Michael M. Sheng, Battling Western Imperialism: Mao, Stalin, and the United States, Princeton, Princeton University Press 1997; Odd Arne Westad (a cura di), Brothers in Arms. The Rise and Fall of the Sino-Soviet Alliance, 1945-1963, Stanford, Stanford University Press 1998; Chen Jian, Mao’s China and the Cold War, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2001. Una lettura che enfatizza il legame e la convergenza d’interessi tra Cina e URSS è quella di Gaddis, We Now Know, cit., pp. 54-84. 46 NSC-68, United States Objectives and Programs for National Security, 14 aprile 1950, in http://www.fas.org/irp/offdocs/nsc-hst/nsc-68.htm, da cui sono tratte le citazioni nel capoverso successivo. Fra le tante analisi dell’NSC-68 si vedano John Lewis Gaddis, Strategies of Containment. A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy, Oxford, Oxford University Press 1982, pp. 88106; Ernest R. May (a cura di), American Cold War Strategy. Interpreting NSC 68, Boston, Bedford Books of St. Martin’s Press 1993; David Campbell, Writing Secu-

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rity. United States Foreign Policy and the Politics of Identity, Minneapolis, University of Minnesota Press 19982, pp. 21-27 e le considerazioni nelle memorie di Paul Nizte, From Hiroshima to Glasnost. At the Center of the Decision. A Memoir, New York, Grove Weidenfeld 1989, pp. 94-98 e nel saggio dello stesso Nitze, The Development of NSC-68, in «International Security», 4, primavera 1980, pp. 170-76. 47 Lovett, citato in David Callahan, Dangerous Capabilities. Paul Nitze and the Cold War, New York, HarperCollins 1990, pp. 108-109. 48 Per alcune riflessioni sul keynesismo militare della Guerra Fredda si vedano Lester H. Brune, Guns and Butter: The Pre-Korean War Dispute over Budget Allocations: Nourse’s Conservative Keynesianism Loses Favor against Keyserling’s Economic Expansion Plan, in «American Journal of Economics and Sociology», 3, luglio 1989, pp. 357-71; Daniel R. Fusfeld, Economics and the Cold War: An Inquiry into the Relationship between Ideology and Theory, in «Journal of Economic Issues», 2, giugno 1998, pp. 505-11; Michael J. Hogan, A Cross of Iron. Harry S. Truman and the Origins of the National Security State, 1945-1954, Cambridge, Cambridge University Press 1998, pp. 295-300. 49 Su questo aspetto rimane particolarmente utile la sofisticata interpretazione di Gaddis, Strategies of Containment, cit. 50 Si vedano le considerazioni critiche in Ninkovich, Modernity and Power, cit., pp. 183-85; Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp. 106-108; Steven Casey, Selling NSC-68: The Truman Administration, Public Opinion and the Politics of Mobilization, 1950-51, in «Diplomatic History», 4, settembre 2005, pp. 655-90. 51 Anders Stephanson, Liberty or Death. The Cold War as U.S. Ideology, in Westad (a cura di), Reviewing the Cold War, cit., p. 84. 52 Lo stesso Acheson, in un celebre discorso del gennaio 1950, aveva posto la Corea fuori dal perimetro difensivo statunitense. 53 Truman, citato in Leffler, A Preponderance of Power, cit., p. 360. Su Monaco e le lezioni della storia si vedano il classico Ernest R. May, «Lessons» of the Past. The Use and Misuse of History in American Foreign Policy, Oxford, Oxford University Press 1973 e Mikkel Vedby Rasmussen, The History of a Lesson: Versailles, Munich and the Social Construction of the Past, in «Review of International Studies», 4, 2003, pp. 499-519. 54 Tra le varie interpretazioni sulle origini del conflitto coreano si vedano le diverse interpretazioni di Bruce Cumings, The Origins of the Korean War, Princeton, Princeton University Press 1981-90 e di William Stueck, Rethinking the Korean War. A New Diplomatic and Strategic History, Princeton, Princeton University Press 2002. Sul ruolo di Stalin si vedano Kathryn Weathersby, To Attack or Not to Attack? Stalin, Kim Il Sung and the Prelude to War, in «Cold War International History Project Bulletin», 5, 1995 e Id., New Russian Documents on the Korean War: Introduction and Translations, in «Cold War International History Project Bulletin», 6-7, 1996 (accessibili all’indirizzo http://www.cwihp.si.edu). 55 Eisenhower, citato in Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago, Chicago University Press 1998, p. 178. 56 De Gasperi, citato in Guido Formigoni, La Democrazia cristiana e l’Alleanza occidentale, Bologna, Il Mulino 1996, p. 370. Il testo del trattato tra Giappone e Stati Uniti, firmato nel settembre del 1951, è consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/japan/japan001.htm. 57 Truman, citato in Stephen E. Ambrose, Rise to Globalism. American Foreign Policy since 1938, New York, Penguin 1991, p. 122; Zubok, Pleshakov, Inside

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the Kremlin’s Cold War, cit., pp. 64-72; William Stueck, The Korean War. An International History, Princeton, Princeton University Press 1995, pp. 50-54. 58 MacArthur, citato in David McCullough, Truman, New York, Simon & Schuster 1992, p. 837. Si vedano anche Leffler, A Preponderance of Power, cit., pp. 403-406 e Hogan, A Cross of Iron, cit., pp. 330-32. 59 Leffler, A Preponderance of Power, cit., p. 405. 60 Sulle accuse di McCarthy ad Acheson si veda Thomas C. Reeves, The Life and Times of Joe McCarthy, Lanham, Madison Books 19972, pp. 298-300. Sul maccartismo si rimanda alle sintesi di Richard M. Fried, Nightmare in Red. The McCarthy Era in Perspective, Oxford, Oxford University Press 1990 e di Ellen Schrecker, Many Are the Crimes. McCarthyism in America, Princeton, Princeton University Press 1998. Per un’opinione in parte diversa, che elogia la campagna intrapresa contro lo spionaggio sovietico negli USA, sottolineandone la portata e rilevanza, si vedano Harvey Klehr, Ronald Radosh, The Amerasia Spy Case. Prelude to McCarthyism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1996 e Richard Gid Powers, Not without Honor. The History of American Anticommunism, New York, Free Press 1995. 61 Alger Hiss era un funzionario del Dipartimento di Stato, molto legato ad Acheson, accusato di spionaggio a favore dell’URSS e condannato per aver giurato il falso nel 1950. La vicenda rimane ad oggi molto controversa e la colpevolezza di Hiss è ancora contestata da molti storici. 62 Tra i critici più attivi e incisivi del contenimento vi fu il brillante giornalista James Burnham. Si veda in particolare James Burnham, Containment or Liberation. An Inquiry into the Aims of United States Foreign Policy, New York, J. Day 1953. Su Burnham si veda la recente biografia di Daniel Kelly, James Burnham and the Struggle for the World: A Life, Wilmington, ISI Books 2002. Sul dinamismo della strategia del contenimento mi permetto di rimandare alle considerazioni nel mio Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori, Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 3-36. 63 Taft, citato in Hogan, A Cross of Iron, cit., p. 100. Sulla paura della nascita di un garrison state, oltre a Hogan, si veda Aaron L. Friedberg, In the Shadow of the Garrison State. America’s Anti-Statism and Its Cold War Strategy, Princeton, Princeton University Press 2000. Su Taft si veda la splendida biografia di James Patterson, Mr. Republican. A Biography of Robert A. Taft, Boston, Houghton Mifflin 1972. Sulla politica estera di Taft si vedano anche Geoffrey Matthews, Robert A. Taft, the Constitution and American Foreign Policy, 1939-53, in «Journal of Contemporary History», 3, luglio 1982, pp. 507-22 e Clarence E. Wunderlin, Robert A. Taft: Ideas, Tradition, and Party in U.S. Foreign Policy, Lanham, Rowman & Littlefield 2005. 64 Citato in Stephen E. Ambrose, Eisenhower, New York, Simon & Schuster 1983-84, pp. 270-74. 65 John Foster Dulles, A Policy of Boldness, in «Life», 32, 19 maggio 1952. Sulla retorica eisenhoweriana si vedano le intelligenti considerazioni di Kenneth A. Osgood, Form before Substance: Eisenhower’s Commitment to Psychological Warfare and Negotiations with the Enemy, in «Diplomatic History», 3, estate 2000, pp. 405-33. Si veda inoltre Martin J. Medhurst (a cura di), Eisenhower’s War of Words. Rhetoric and Leadership, East Lansing, Michigan State University Press 1994. 66 Su tutti i limiti del roll-back, che si manifesteranno con drammatica chiarezza nella crisi ungherese del 1956, quando gli USA si guardarono bene dall’intervenire contro la repressione sovietica, si vedano soprattutto Lazlo Bohri, Rollback, Li-

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beration, Containment, or Inaction? U.S. Policy and Eastern Europe in the 1950s, in «Journal of Cold War Studies», 3, autunno 1999, pp. 67-110; Csaba Bekes, Cold War, Détente and the 1956 Revolution, Working Paper, 2002, International Center for Advanced Studies, New York University (http://www.nyu.edu/gsas/dept/ icas/Bekes.pdf); Christopher J. Tudda, Reenacting the Story of Tantalus: Eisenhower, Dulles, and the Failed Rhetoric of Liberation, in «Journal of Cold War Studies», 4, autunno 2005, pp. 3-35. 67 La sintesi migliore dell’approccio eisenhoweriano rimane Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp. 127-97. Si vedano inoltre le utili considerazioni in Saki Dockrill, Eisenhower’s New-Look National Security Policy, 1953-61, New York, St. Martin’s Press 1996; Robert R. Bowie, Richard H. Immerman, Waging Peace. How Eisenhower Shaped an Enduring Cold War Strategy, Oxford, Oxford University Press 1998; Marc Trachtenberg, A Constructed Peace. The Making of the European Settlement, 1945-1963, Princeton, Princeton University Press 1999, pp. 146-200. 68 Samuel F. Wells Jr., The Origins of Massive Retaliation, in «Political Science Quarterly», 1, primavera 1981, pp. 31-52; Henry William Brands Jr., Testing Massive Retaliation: Credibility and Crisis Management in the Taiwan Strait, in «International Security», primavera 1988, pp. 124-51; McGeorge Bundy, Danger and Survival. Choices about the Bomb in the First Fifty Years, New York, Vintage 1988; Robert Powell, Nuclear Deterrence Theory. The Search for Credibility, Cambridge, Cambridge University Press 1990, pp. 11-14 e l’interessante analisi proposta da Andrew Johnston, Massive Retaliation and the Specter of Salvation. Religious Imaginary, Nationalism and Dulles’s Nuclear Strategy, 1952-54, in «Journal of Millennial Studies», 2, inverno 2000, in http://www.bu.edu/mille/publications/winter2000/ johnston.PDF. 69 Trachtenberg, A Constructed Peace, cit., pp. 133-34 e Mario Del Pero, American Pressures and Their Containment during the Ambassadorship of Clare Boothe Luce, 1953-1956, in «Diplomatic History», 3, giugno 2004, pp. 407-39. Si vedano inoltre Geir Lundestad, Empire By «Integration». The United States and European Integration, 1945-1997, Oxford, Oxford University Press 1998, pp. 40-48; Kevin Ruane, The Rise and Fall of the European Defence Community. Anglo-American Relations and the Crisis of European Defence, 1950-55, London, Macmillan 2000. 70 Peter Grose, Gentleman Spy: The Life of Allen Dulles, Boston, Houghton Mifflin 1994; Mary Ann Heiss, Empire and Nationhood. The United States, Great Britain, and Iranian Oil, 1950-1954, New York, Columbia University Press 1997; Rhodri Jeffreys-Jones, The CIA and American Democracy, New Haven, Yale University Press 19982, pp. 63-99; Nick Cullather, Secret History. The CIA’s Classified Account of Its Operations in Guatemala, 1952-1954, Stanford, Stanford University Press 20062. 71 Henry William Brands, The Specter of Neutralism. The United States and the Emergence of the Third World, 1947-1960, New York, Columbia University Press 1989; Stephen G. Rabe, Eisenhower and Latin America. The Foreign Policy of Anti-Communism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1988. In parte diversa è l’opinione espressa in molti dei saggi contenuti in Kathryn C. Statler, Andrew L. Johns (a cura di), The Eisenhower Administration, the Third World, and the Globalization of the Cold War, Lanham, Rowman & Littlefield 2006. 72 Il Farewell Address di Eisenhower è consultabile all’indirizzo http://www.eisenhower.archives.gov/farewell.htm. Si veda inoltre Martin J. Medhurst, Recon-

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Note

ceptualizing Rhetorical History: Eisenhower’s Farewell Address, in «The Quarterly Journal of Speech», 2, 1994, pp. 195-218.

Capitolo IX 1 Il valore periodizzante del 1955-56 nell’economia complessiva della Guerra Fredda è sottolineato con forza da Ennio Di Nolfo, Dagli Imperi militari agli Imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza 2002 e da Csaba Bekes, Cold War, Détente and the 1956 Revolution, Working Paper, 2002, International Center for Advanced Studies, New York University (http: //www.nyu.edu/gsas/dept/icas/Bekes.pdf). Si vedano inoltre le considerazioni di Jason Parker, Cold War II: The Eisenhower Administration, the Bandung Conference, and the Reperiodization of the Postwar Era, in «Diplomatic History», 5, novembre 2006, pp. 867-92. 2 Tra la letteratura sterminata su questo snodo della Guerra Fredda si vedano le importanti riflessioni di Matthew Connelly, Taking Off the Cold War Lens: Visions of North-South Conflict during the Algerian War for Independence, in «The American Historical Review», 3, giugno 2000, pp. 739-69. Si vedano inoltre Stephen G. Rabe, Eisenhower and Latin America. The Foreign Policy of Anticommunism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1988; Douglas Little, American Orientalism. The United States and the Middle East since 1945, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2002; Salim Yaqub, Containing Arab Nationalism. The Eisenhower Doctrine and the Middle East, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2004; Kathryn C. Statler, Andrew L. Johns (a cura di), The Eisenhower Administration, the Third World, and the Globalization of the Cold War, Lanham, Rowman & Littlefield 2006. 3 John Lewis Gaddis, Strategies of Containment. A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy, Oxford, Oxford University Press 1982, pp. 18288; McGeorge Bundy, Danger and Survival. Choices About the Bomb in the First Fifty Years, New York, Vintage 1988, pp. 334-52; David L. Snead, The Gaither Committee. Eisenhower and the Cold War, Columbus, Ohio State University Press 1999; Linda McFarland, Cold War Strategist. Stuart Symington and the Search for National Security, Westport, Praeger 2001, pp. 77-96; Christopher Preble, John F. Kennedy and the Missile Gap, DeKalb, Northern Illinois University Press 2004. Si veda inoltre la critica alla strategia di Eisenhower mossa da Henry Kissinger nel suo Nuclear Weapons and Foreign Policy, New York, Harper & Row 1957. 4 Per due esempi classici di critiche coeve fondate su questi presupposti si vedano Max F. Millikan, Walt Whitman Rostow, A Proposal: Key to an Effective Foreign Policy, Center for International Studies, Massachusetts Institute of Technology, New York, Harper 1957; Arthur Schlesinger Jr., I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca, Milano, Rizzoli 1966 (ed. or. A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House, Boston, Houghton Mifflin 1965). 5 Nick Cullather, Development? It’s History, in «Diplomatic History», 4, autunno 2000, p. 641. Il discorso e l’ideologia della modernizzazione sono tornati a essere oggetto negli anni recenti di molti studi, alcuni dei quali di livello eccelso. Tra questi, ricordo qui Michael Latham, Modernization as Ideology: American Social Science and «Nation Building» in the Kennedy Era, Chapel Hill, The University

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of North Carolina Press 2000; David C. Engerman, Nils Gilman, Mark H. Haefele, Michael E. Latham (a cura di), Staging Growth: Modernization, Development, and the Global Cold War, Amherst, University of Massachusetts Press 2003; Nils Gilman, Mandarins of the Future: Modernization Theory in Cold War America, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 2003; Nick Cullather, Modernization Theory, in Michael J. Hogan, Thomas G. Paterson (a cura di), Explaining the History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press 2004, pp. 212-20; David Engerman, The Romance of Economic Development and New Histories of the Cold War, in «Diplomatic History», 1, gennaio 2004, pp. 23-54. 6 La citazione di Almond è tratta da Cullather, Development? It’s History, cit., p. 652; quella di Rostow è in Gilman, Mandarins of the Future, cit., p. 160. 7 Le citazioni provengono da Gilman, Mandarins of the Future, cit., rispettivamente pp. 156 e 197. Si vedano anche John D. Heyl, Kuhn, Rostow, and Palmer: The Problem of Purposeful Change in the Sixties, in «The Historian», 3, maggio 1982, pp. 299-313; John Lodewijks, Rostow, Developing Economies, and National Security Policy, in Craufurd D. Goodwin (a cura di), Economics and National Security, Durham, Duke University Press 1991, pp. 285-310; Michael Adas, Dominance by Design. Technological Imperatives and America’s Civilizing Mission, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2006, pp. 243-49. 8 Walt Whitman Rostow, The Diffusion of Power. An Essay in Recent History, New York, Macmillan 1972, p. 88. 9 La poesia di Walt Whitman è One Thought Ever at the Fore. È stata tradotta in italiano come Sempre un pensiero in Enzo Giachino (a cura di), Foglie d’Erba e Prose, Torino, Einaudi 1950, p. 669 (ringrazio la collega Igina Tattoni per la preziosa informazione). Si veda Millikan, Rostow, A Proposal, cit., pp. 178-79, pp. 4-6; Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 176-79. Di simpatie socialiste, il padre di Rostow, un ebreo russo emigrato negli Stati Uniti, aveva ribattezzato i tre figli Walt Whitman, in onore del poeta, Ralph Waldo, in onore del poeta e filosofo Ralph Waldo Emerson, e Eugene Victor, in onore del leader socialista Eugene Victor Debs. 10 Zaheer Baber, Modernization Theory and the Cold War, in «Journal of Contemporary Asia», 3, marzo 2001, pp. 71-84. 11 Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 176-79; Walt Whitman Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi 1962 (ed. or. The Stages of Economic Growth. A Non-Communist Manifesto, Cambridge, Cambridge University Press 1960), dal quale sono tratte le successive citazioni nel testo. Nell’edizione italiana, pubblicata da una casa editrice di sinistra come Einaudi, come in molte altre traduzioni del libro di Rostow, è stato omesso il suo significativo sottotitolo: «Un manifesto non comunista». Si veda Kimber Charles Pearce, Rostow, Kennedy, and the Rhetoric of Foreign Aid, East Lansing, Michigan State University Press 2001. 12 In questo senso tendono a esprimersi, da prospettive diverse, lavori altrimenti ottimi come Adas, Dominance by Design, cit. e Irene Gendzier, Managing Political Change. Social Scientists and the Third World, Boulder, Westview Press 1985. 13 Lo «sviluppo delle nazioni», sostenne Rostow, è «un po’ come quello degli esseri umani». Così come si può «definire in termini generali il tipo di problemi che dovranno inevitabilmente essere affrontati da un infante di nove mesi, da un bambino di cinque, da un adolescente di quattordici e da un giovane di ventuno [...] lo studio dello sviluppo economico, laddove può essere definito una scienza, consiste primariamente nell’identificare sequenze di problemi da superare e i tipi di sforzi necessari per risolverli che sono stati adottati, con successo o meno, in tempi di-

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Note

versi da diverse nazioni» (citato in Michael E. Latham, Ideology, Social Science, and Destiny: Modernization and the Kennedy-Era Alliance for Progress, in «Diplomatic History», 2, primavera 1998, pp. 218-19). 14 Su questo aspetto condivido le considerazioni di Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 1-23. 15 Il libro di David Halberstam, The Best and the Brightest, New York, Random House 1972 è stato tradotto in italiano come Le teste d’uovo, Milano, Mondadori 1974. Sul National Security Council e i rapporti tra Bundy e Rostow si vedano gli ottimi lavori di Andrew Preston, The Little State Department: McGeorge Bundy and the National Security Council Staff, 1961-65, in «Presidential Studies Quarterly», 4, dicembre 2001, pp. 635-59 e Id., The War Council: McGeorge Bundy, the NSC, and Vietnam, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006. 16 Pascaline Winand, Eisenhower, Kennedy, and the United States of Europe, New York, St. Martin’s Press 1993; Douglas Brinkley, Richard T. Griffiths (a cura di), John F. Kennedy and Europe, Baton Rouge, Louisiana State University Press 1999; Lawrence Freedman, Kennedy’s Wars. Berlin, Cuba, Laos, and Vietnam, Oxford, Oxford University Press 2000; Luís Nuno Rodrigues, Salazar-Kennedy: a crise de uma aliança, Lisboa, Notícias Editorial 2002; Robert Dallek, An Unfinished Life: John F. Kennedy, 1917-1963, Boston, Little Brown 2003; James N. Giglio, Stephen G. Rabe, Debating the Kennedy Presidency, Lanham, Rowman & Littlefield 2003. 17 Joseph S. Tulchin, The United States and Latin America in the 1960s, in «Journal of Interamerican Studies and World Affairs», 1, primavera 1988, pp. 136; Alan McPherson, Yankee No! Anti-Americanism in U.S.-Latin American Relations, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2003, pp. 9-36; Greg Grandin, Your Americanism and Mine: Americanism and Anti-Americanism in the Americas, in «American Historical Review», 4, ottobre 2006, pp. 1042-66. 18 Dulles, citato in McPherson, Yankee No!, cit., p. 9. Questa svolta nella politica latino-americana di Eisenhower è sottolineata da Rabe, Eisenhower and Latin America, cit., pp. 134-52. 19 Piki Ish-Shalom, Theory Gets Real, and the Case for a Normative Ethic: Rostow, Modernization Theory, and the Alliance for Progress, in «International Studies Quarterly», 2, giugno 2006, pp. 287-311. 20 Inaugural Address of John Kennedy, 20 gennaio 1961 (consultabile all’indirizzo http://www.yale.edu/lawweb/avalon/presiden/inaug/kennedy.htm). 21 «New York Times», citato in James William Park, Latin American Underdevelopment. A History of Perspectives in the United States, 1870-1965, Baton Rouge, Louisiana State University Press 1995, p. 214. 22 Rostow, citato in Latham, Ideology, Social Science, and Destiny, cit., p. 199; Dillon, citato in Stephen G. Rabe, Controlling Revolutions: Latin America, the Alliance for Progress, and Cold War Anti-Communism, in Thomas G. Paterson (a cura di), Kennedy’s Quest for Victory. American Foreign Policy, 1961-63, Oxford, Oxford University Press 1989, p. 108; Arthur Schlesinger Jr., Report to the President on Latin American Mission, 12 febbraio-3 marzo 1961, in Foreign Relations of the United States (FRUS), 1961-63, vol. XII, American Republics, Washington, United States Government Printing Office 1996 (http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/ kennedyjf/xii/35147.htm); Lincoln Gordon, The Alliance at Birth. Hopes and Fears, in L. Ronald Scheman (a cura di), The Alliance for Progress. A Retrospective, New York, Praeger 1988, pp. 73-80. 23 Per il testo dello statuto di Punta del Este si veda «Department of State Bul-

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letin», 11 settembre 1961, pp. 462-69. Sulla discussione che accompagnò i negoziati a Punta del Este si rimanda alla corrispondenza del rappresentante statunitense, il segretario del Tesoro Dillon, con Kennedy e con il Dipartimento di Stato in Foreign Relations of the United States, cit., vol. XII (http://www.state.gov/r/ pa/ho/frus/kennedyjf/xii/35148.htm). 24 Elizabeth Cobbs Hoffman, All You Need Is Love. The Peace Corps and the Spirit of the 1960s, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1998; Thomas C. Wright, Latin America in the Era of the Cuban Revolution, Westport, Praeger 2001, pp. 66-70; Michael Shifter, The United States, the Organization of American States, and the Origins of the Inter-American System, in Virginia M. Bouvier (a cura di), The Globalization of U.S.-Latin American Relations, Westport, Praeger 2002, pp. 91-92. 25 Jerome Levinson, Juan de Onís, The Alliance that Lost Its Way; A Critical Report on the Alliance for Progress, Chicago, Quadrangle Books 1970; Robert M. Smetherman, Boobie B. Smetherman, The Alliance for Progress: Promises Unfulfilled, in «American Journal of Economics and Sociology», 1, gennaio 1972, pp. 7986; Scheman (a cura di), The Alliance For Progress, cit.; Kyle Longley, In the Eagle’s Shadow. The United States and Latin America, Wheeling, Harlan Davidson 2002, pp. 246-49. 26 Aspetto, questo, sottolineato con forza da Stephen G. Rabe, The Most Dangerous Area in the World: John F. Kennedy Confronts Communist Revolution in Latin America, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1999. 27 Speier, citato in Gilman, Mandarins of the Future, cit., p. 186. Per alcuni esempi classici di sottolineatura del potenziale modernizzatore delle forze militari si vedano John J. Johnson (a cura di), The Role of the Military in the Underdeveloped Countries, Princeton, Princeton University Press 1962 e Lucian W. Pye, Aspects of Political Development. An Analytic Study, Boston, Little Brown 1966. 28 Samuel P. Huntington, The Soldier and the State. The Theory and Politics of Civil-Military Relations, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 1957 e Id., Political Order in Changing Societies, New Haven, Yale University Press 1968. 29 Le citazioni di Mann e Martin sono in Rabe, Controlling Revolutions, cit., pp. 112 e 115. 30 Schlesinger citato in Longley, In the Eagle’s Shadow, cit., p. 250. Si vedano inoltre Ruth Leacock, Requiem for a Revolution. The United States and Brazil, 19611969, Kent, The Kent State University Press 1990; W. Michael Weis, Cold Warriors and Coups d’Etat. Brazilian-American Relations, 1945-1964, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1993 e, più in generale, Greg Grandin, The Last Colonial Massacre. Latin America in the Cold War, Chicago, University of Chicago Press 2004 e David F. Schmitz, Thank God They’re on Our Side. The United States and Right-Wing Dictatorships, 1921-1965, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1999, pp. 264-82. Alcuni documenti sulla posizione statunitense rispetto al golpe brasiliano sono consultabili in Foreign Relations of the United States (FRUS), 1964-1968, vol. XXXI, South and Central America; Mexico, Washington, United States Government Printing Office 2004 (http://www.state.gov/r/pa/ ho/frus/johnsonlb/xxxi/36291.htm) e sul sito del National Security Archive (http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB118/index.htm). 31 Sulla prima fase delle guerre vietnamite disponiamo di una letteratura ormai ricca e di altissima qualità. Per alcuni esempi si vedano Andrew J. Rotter, The Path

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Note

to Vietnam. Origins of the American Commitment to Southeast Asia, Ithaca, Cornell University Press 1987; Marilyn Young, The Vietnam Wars, 1945-1990, New York, HarperCollins 1991, pp. 1-59; Seth Jacobs, America’s Miracle Man in Vietnam: Ngo Dinh Diem, Religion, Race, and U.S. Intervention in Southeast Asia, 1950-1957, Durham, Duke University Press 2004; Mark Atwood Lawrence, Assuming the Burden. Europe and the American Commitment to War in Vietnam, Berkeley, University of California Press 2005 e lo splendido libro di Mark Bradley, Imagining Vietnam and America. The Making of Postcolonial Vietnam, 1919-1950, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2000. 32 Sulle tensioni tra il governo del Vietnam del Nord e l’FLN si veda l’eccellente ricostruzione di Robert Brigham, Guerrilla Diplomacy. The NFL’s Foreign Relations and the Viet Nam War, Ithaca, Cornell University Press 1999. Sulla posizione di Cina e Unione Sovietica e sulle loro perplessità rispetto all’azione dell’FLN si vedano rispettivamente Qiang Zhai, China and the Vietnam Wars, 1950-1975, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2000 e Ilya V. Gaiduk, Confronting Vietnam: Soviet Policy toward the Indochina Conflict, 1954-1963, Stanford, Stanford University Press 2003. 33 Le citazioni di Landsdale e Rostow sono tratte da Michael Hunt, Lyndon Johnson’s War. America’s Cold War Crusade in Vietnam, 1945-1968, New York, Hill & Wang 1996, pp. 53 e 57. Su Landsdale si veda ora Jonathan Nashel, Edward Landsdale’s Cold War, Amherst, University of Massachusetts Press 2005. 34 Young, The Vietnam Wars, cit., pp. 75-104; Fredrick Logevall, Choosing War. The Lost Chance for Peace and the Escalation of War in Vietnam, Berkeley, University of California Press 1999, pp. 1-42; David Kaiser, American Tragedy. Kennedy, Johnson and the Origins of the Vietnam War, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press 2000, pp. 122-283; George C. Herring, America’s Longest War. The United States and Vietnam 1950-1975, New York, McGraw Hill 20024, pp. 89-129. 35 Rusk, citato in Latham, Modernization as Ideology, cit., p. 167. 36 Sui villaggi strategici e il sostegno all’FLN dei contadini sud-vietnamiti, oltre ai testi citati nelle due note precedenti si vedano Richard A. Hunt, Pacification: The American Struggle for Vietnam’s Hearts and Minds, Boulder, Westview Press 1995 e Michael Latham, Redirecting the Revolution? The USA and the Failure of Nationbuilding in South Vietnam, in «Third World Quarterly», 1, febbraio 2006, pp. 27-41. 37 Latham, Modernization as Ideology, cit.; Philip E. Catton, Counter-Insurgency and Nation Building: The Strategic Hamlet Programme in South Vietnam, 19611963, in «International History Review», 3, dicembre 1999, pp. 918-40; Jefferson P. Marquis, The Other Warriors: American Social Science and Nation Building in Vietnam, in «Diplomatic History», 1, inverno 2000, pp. 79-105. 38 Douglas S. Blaufarb, The Counterinsurgency Era. U.S. Doctrine and Performance, 1950 to the Present, New York, Free Press 1977 e Robert Buzzanco, Masters of War. Military Dissent & Politics in the Vietnam Era, Cambridge, Cambridge University Press 1996, pp. 119-22. 39 Catton, Counter-Insurgency, cit.; Latham, Modernization as Ideology, cit.; Adas, Dominance by Design, cit., pp. 305-306; Eric Bergerud, The Dynamics of Defeat. The Vietnam War in Hau Nghia Province, Boulder, Westview Press 1991, pp. 34-53. 40 Kaiser, American Tragedy, cit., pp. 177-80; Gregory Allen Olson, Mansfield

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and Vietnam. A Study in Rhetorical Adaptation, East Lansing, Michigan State University Press 1995; Donald A. Ritchie, Advice and Dissent. Mike Mansfield and the Vietnam War, in Randall B. Woods (a cura di), Vietnam and the American Political Tradition. The Politics of Dissent, Cambridge, Cambridge University Press 2003, pp. 171-203. 41 Jules R. Benjamin, The United States and the Origins of the Cuban Revolution. An Empire of Liberty in the Age of National Liberation, Princeton, Princeton University Press 1992; Van Gosse, Where the Boys Are. Cuba, Cold War America and the Making of the New Left, New York, Verso 1993; Samuel Farber, The Origins of the Cuban Revolution Reconsidered, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2006. 42 Su Berlino si giocò una partita dall’alto significato simbolico. Chrusˇc ˇëv minacciava di firmare un trattato di pace separato con la Germania dell’Est che avrebbe consentito a quest’ultima di acquisire piena sovranità sulla città e fermare l’emorragia di persone che si trasferivano a ovest. L’URSS cercava di usare la questione di Berlino come arma negoziale per impedire un rafforzamento della Germania dell’Ovest. Da parte loro gli USA ritenevano vitale mantenere una propria presenza a Berlino Ovest per riaffermare la credibilità del proprio impegno antisovietico, in Europa e nel resto del mondo. 43 Una serie di covert operations finalizzate all’eliminazione fisica di Castro era stata promossa da Washington già a partire dal 1960. Si vedano Peter Grose, Gentleman Spy. The Life of Allen Dulles, Amherts, University of Massachusetts Press 1994, pp. 493-528; Rhodri Jeffreys-Jones, The CIA and American Democracy, New Haven, Yale University Press 19982, pp. 118-31; Louis A. Pérez Jr., Fear and Loathing of Castro. Sources of U.S. Policy toward Cuba, in «Journal of Latin American Studies», 34, 2002, pp. 227-54; Don Bohning, The Castro Obsession: U.S. Covert Operations against Cuba, 1959-1965, Washington, Potomac Books 2005 e il rapporto della commissione d’inchiesta del Senato, presieduta dal senatore Frank Church, Alleged Assassination Plots Involving Foreign Leaders, an Interim Report of the Select Committee to Study Governmental Operations with Respect to Intelligence Activities, 20 novembre 1975, ora consultabile all’indirizzo http://historymatters.com/archive/church/reports/ir/contents.htm. 44 Si vedano Vladislav Zubok, Constantine Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1996, pp. 258-74; John Lewis Gaddis, We Now Know. Rethinking Cold War History, Oxford, Oxford University Press 1997, pp. 179-81; William Taubman, Khrushchev. The Man and His Era, New York, Norton 2003, pp. 529-76. 45 Le due citazioni di Chrusˇc ˇëv sono in Gaddis, We Now Know, cit., p. 265. Su questo aspetto si veda soprattutto Philip Nash, The Other Missiles of October. Eisenhower, Kennedy, and the Jupiters, 1957-1963, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1997. Sull’impatto potenziale dei missili sull’equilibrio di potenza si vedano le stime in Raymond L. Garthoff, Reflection on the Cuban Missile Crisis, Washington, Brookings Institution 1989 e Id., U.S. Intelligence in the Cuban Missile Crisis, in James G. Blight, David A. Welch (a cura di), Intelligence and the Cuban Missile Crisis, London-New York, Routledge 1998, pp. 18-62. 46 Sulla crisi disponiamo di una letteratura ricca e assai originale, oltre che di una voluminosa quantità di fonti primarie. Si vedano ad esempio Aleksandr Fursenko, Timothy Naftali, «One Hell of a Gamble»: Khrushchev, Castro, and Kennedy, 1958-1964, New York, Norton 1997; Ernest R. May, Philip Zelikow (a cura di), The

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Note

Kennedy Tapes. Inside the White House during the Cuban Missile Crisis, New York, Norton 2002; Cold War International History Project, The Cuban Missile Crisis (http://www.wilsoncenter.org/index.cfm?topic_id=1409&fuseaction=va2.browse &sort=Collection&item=Cuban%20Missile%20Crisis); Alice L. George, Awaiting Armageddon: How Americans Faced the Cuban Missile Crisis, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2003. Per una rassegna storiografica, inevitabilmente datata, ma ancor oggi utile e completa, si veda Leopoldo Nuti (a cura di), I missili di ottobre. La storiografia americana e la crisi dei missili cubani, Milano, LED 1994. 47 Jennifer Lynn Walton, Moral Masculinity. The Culture of Foreign Relations during the Kennedy Administration, Ph.D. Dissertation, Columbus, Ohio State University 2004. Si veda inoltre Robert Dean, Masculinity as Ideology: John F. Kennedy and the Domestic Politics of Foreign Policy, in «Diplomatic History», 1, gennaio 1998, pp. 29-62. Sulla dimensione simbolica della crisi si veda Frank Ninkovich, Modernity and Power. A History of the Domino Theory in the XX Century, Chicago, University of Chicago Press 1994, pp. 260-61. 48 La citazione di Acheson, che partecipò ad alcuni incontri della ExCom, è nell’incontro del 19 ottobre 1962, in Foreign Relations of the United States (FRUS), 1961-63, vol. XI, Cuban Missile Crisis and Aftermath, Washington, United States Government Printing Office 1996 (http://www.state.gov/www/about_state/history/frusXI/26_50.html). 49 John F. Kennedy, Radio and Television Report to the American People on the Soviet Arms Buildup in China, 22 ottobre 1962 (http://www.jfklibrary.org/Historical+Resources/Archives/Reference+Desk/Speeches/JFK/003POF03CubaCrisis 10221962.htm). 50 Anatolij Dobrynin, In Confidence. Moscow’s Ambassador to American’s Six Cold War Presidents (1962-1986), New York, Random House 1995, pp. 71-95 e The Cuban Missile Crisis, in «Cold War International History Project Bulletin», primavera 1995, in http://www.wilsoncenter.org/topics/pubs/ACF1B3.pdf. 51 McGeorge Bundy, Danger and Survival. Choices about the Bomb in the First Fifty Years, New York, Vintage 1988; Paul Boyer, Fallout. A Historian Reflects on America’s Half-Century Encounter with Nuclear Weapons, Columbus, Ohio State University Press 1998; Ron Hirschbein, Massing the Tropes. The Metaphorical Construction of American Nuclear Strategy, Westport, Praeger 2005. 52 La citazione di Chrusˇcˇëv è in Jeremi Suri, Power and Protest. Global Revolution and the Rise of Détente, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2003, p. 42. Sull’importanza del trattato del 1963, che secondo taluni avrebbe addirittura posto termine alla Guerra Fredda, si vedano le convincenti analisi di Marc Trachtenberg, A Constructed Peace. The Making of the European Settlement, 1945-1963, Princeton, Princeton University Press 1999, pp. 352-402 e di Anders Stephanson, Quattordici note sul concetto di guerra fredda, in «Novecento», 2, 2000, pp. 67-87. 53 Samuel P. Huntington, The Bases of Accomodation, in «Foreign Affairs», 46, luglio 1968, p. 644. Gli scritti di Huntington cui si fa riferimento sono rispettivamente Political Order, cit. e The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster 1996. 54 Id., The Bases of Accomodation, cit., pp. 650 e 652. Questo passaggio dell’articolo di Huntington suscitò successivamente un’aspra polemica con Noam Chomsky: si veda A Frustrating Task. Noam Chomsky Debates with Samuel Huntington, in «The New York Review of Books», 26 febbraio 1970.

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Citato in Herring, America’s Longest War, cit., p. 233. Suri, Power and Protest, cit., p. 131; Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp. 247-49; Hunt, Lyndon Johnson’s War, cit., pp. 110-11; Young, The Vietnam Wars, cit., pp. 182-83. 57 Joint Resolution of Congress H.J. RES 1145 August 7, 1964 (http://www.yale.edu/lawweb/avalon/tonkin-g.htm). Sugli incidenti della Baia del Tonchino e la successiva risoluzione si vedano soprattutto Edwin E. Moïse, Tonkin Gulf and the Escalation of the Vietnam War, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1996 ed Ezra Y. Siff, Why the Senate Slept: The Gulf of Tonkin Resolution and the Beginning of America’s Vietnam War, Westport, Praeger 1999. 58 La responsabilità primaria di Johnson è sostenuta nello splendido libro di Logevall, Choosing War, cit. 59 Lloyd C. Gardner, Pay Any Price. Lyndon Johnson and the Wars for Vietnam, Chicago, Ivan Dee 1995; John A. Andrew, Lyndon Johnson and the Great Society, Chicago, Ivan Dee 1998; Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton 1998, pp. 284-87; Robert Buzzanco, Vietnam and the Transformation of American Life, Malden, Blackwell 1999; Jeffrey W. Helsing, Johnson’s War/Johnson’s Great Society. The Guns and Butter Trap, Westport, Praeger 2000; Sidney M. Milkis, Jerome M. Mileur (a cura di), The Great Society and the High Tide of Liberalism, Amherst, University of Massachusetts Press 2005. 60 La citazione di Johnson proviene da Hunt, Lyndon Johnson’s War, cit., p. 83, quella sulla «tecno-superbia» è in Adas, Dominance by Design, cit., p. 291. 61 David Ekbladh, «Mr. TVA»: Grass-Roots Development, David Lilienthal, and the Rise of the Tennessee Valley Authority as a Symbol of U.S. Overseas Development, 1933-1973, in «Diplomatic History», 3, estate 2002, pp. 335-74. 62 Citazioni ivi, p. 363. Si vedano inoltre Christopher T. Fisher, The Illusion of Progress: CORDS and the Crisis of Modernization in South Vietnam, 1965-1968, in «Pacific Historical Review», 1, 2006, pp. 25-51 e Mark T. Berger, Decolonisation, Modernisation and Nation-Building: Political Development Theory and the Appeal of Communism in Southeast Asia, 1945-1975, in «Journal of Southeast Asian Studies», 34, 2003, pp. 421-48. 63 Su questo rimane insuperata la severa critica di Gaddis, Strategies of Containment, cit., pp. 244-51. 64 Su questo aspetto si rimanda alle considerazioni di Ron Robin, The Making of the Cold War Enemy. Culture and Politics in the Military-Intellectual Complex, Princeton, Princeton University Press 2001, pp. 187-205, dal quale è tratta (p. 195) la citazione degli analisti della RAND. Per un testo classico della dottrina della controinsurrezione coercitiva si veda Nathan Leites, Charles Wolf Jr., Rebellion and Authority. An Analytic Essay on Insurgent Conflicts, Chicago, Markham 1970. Si veda inoltre Richard Shultz, Breaking the Will of the Enemy during the Vietnam War: The Operationalizatin of the Cost-Benefit Model of Counterinsurgency Warfare, in «Journal of Peace Research», 2, 1978, pp. 109-29. 65 Young, The Vietnam Wars, cit., pp. 212-14; Adas, Dominance by Design, cit., pp. 332-33; Frank L. Jones, Blowtorch: Robert Komer and the Making of Vietnam Pacification Policy, in «Parameters», 3, autunno 2005, pp. 103-18. 66 Su questo aspetto mi permetto di rimandare al mio Da Henry Kissinger ai neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 3-36. 67 Sulle matrici antiche della dottrina della guerra preventiva e sulla sua accet55 56

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Note

tazione durante la Guerra Fredda si veda Melvin P. Leffler, 9/11 and American Foreign Policy, in «Diplomatic History», 3, giugno 2005, pp. 395-413. 68 David Holloway, The Soviet Union and the Arms Race, New Haven, Yale University Press 1983, pp. 57-60; Craig Nation, Black Earth, Red Star: A History of Soviet Security Policy, 1917-1991, Ithaca, Cornell University Press 1992, pp. 24584; Pavel Podvig (a cura di), Russian Strategic Nuclear Forces, Cambridge, MIT Press 2001, pp. 1-7; Richard C. Thornton, The Nixon-Kissinger Years. The Reshaping of American Foreign Policy, St. Paul, Paragon House 20012, pp. XV-XXI; Wilfried Loth, Overcoming the Cold War. A History of Détente, Basingstoke, Palgrave 2002, pp. 85-89. 69 Si vedano ad esempio i dati in Office of Budget and Management, Fiscal Year 2008. Historical Tables (http://www.whitehouse.gov/omb/budget/fy2008/pdf/hist.pdf); Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988, pp. 559-65; Wyatt Wells, American Capitalism: Continuity and Change from Mass Production to the Information Society, Chicago, Ivan Dee 2003, pp. 27-39. 70 Charles S. Maier, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006, pp. 228-33. Per alcune cifre sul trend della bilancia dei pagamenti statunitense si vedano i dati offerti dal Bureau of Economic Analysis, United States Department of Commerce (http://www.bea. gov/international/index.htm#bop). Sulla crisi del sistema di Bretton Woods si vedano inoltre Francis Gavin, Gold, Dollars and Power: The Politics of International Monetary Relations, 1958-1971, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 2004 e il pregevole recente studio di Duccio Basosi, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (19691973), Firenze, Polistampa 2006, in particolare pp. 27-51. 71 Maurice Isserman, Michael Kazin, America Divided. The Civil War of the 1960s, Oxford, Oxford University Press 2000, pp. 176-78 e Suri, Power and Protest, cit., pp. 164-212. 72 Si vedano Frank C. Costigliola, Lyndon B. Johnson, Germany, and «the End of the Cold War», in Warren I. Cohen, Nancy Bernkopf Tucker (a cura di), Lyndon Johnson Confronts the World. American Foreign Policy, 1963-1968, Cambridge, Cambridge University Press 1994, pp. 173-210; Maurice Vaïsse, La grandeur: politique étrangère du général de Gaulle, 1958-1969, Paris, Fayard 1998; molti dei contributi in Andreas W. Daum, Lloyd C. Gardner, Wilfried Mausbach (a cura di), America, the Vietnam War and the World. Comparative and International Perspectives, Cambridge, Cambridge University Press 2003; Thomas Schwartz, Lyndon Johnson and Europe: In the Shadow of Vietnam, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2003; Basosi, Il governo del dollaro, cit., pp. 42-46. 73 Sull’anticomunismo come strumento disciplinante del discorso politico statunitense nel dopoguerra si vedano Michael Heale, American Anticommunism. Combating the Enemy Within, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 1990, pp. 198-203 e David Campbell, Writing Security. United States Foreign Policy and the Politics of Identity, Minneapolis, Minnesota University Press 19982, pp. 147-60. 74 Sui cambiamenti della destra americana dell’epoca si vedano Jerome L. Himmelstein, To the Right: The Transformation of American Conservatism, Berkeley, University of California Press 1990, pp. 1-62 e William C. Berman, America’s Right Turn, Baltimore, The Johns Hopkins University Press 1994, pp. 5-36.

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75 Todd Gitlin, The Sixties: Years of Hope; Days of Rage, New York, Bantam Books 1987; Maurice Isserman, «If I Had a Hammer...»: The Death of the Old Left and the Birth of the New Left, New York, Basic Books 1987; Isserman, Kazin, America Divided, cit.; Kevin Mattson, Intellectuals in Action. The Origins of the New Left and Radical Liberalism, University Park, The Pennsylvania State University Press 2003; Trevor B. McCrisken, American Exceptionalism and the Legacy of Vietnam. U.S. Foreign Policy since 1974, New York, Palgrave 2003. 76 John Ehrman, The Rise of Neoconservatism. Intellectual and Foreign Affairs, New Haven, Yale University Press 1995, pp. 33-62. 77 William Fulbright, The Arrogance of Power, New York, Vintage 1966; Woods (a cura di), Vietnam and the American Political Tradition, cit.; Melvin Small, Antiwarriors: The Vietnam War and the Battle for America’s Hearts and Minds, Wilmington, Scholarly Resources 2002.

Capitolo X 1 Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation. American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington, Brookings Institution 1985; Dana H. Allin, Cold War Illusions. America, Europe and Soviet Power, 1969-1989, New York, St. Martin’s Press 1995; William Bundy, A Tangled Web. The Making of Foreign Policy in the Nixon Presidency, New York, Hill & Wang 1998; Wilfried Loth, Overcoming the Cold War. A History of Détente, Basingstoke, Palgrave 2002. 2 Osgood parla di «limitazionismo» in Analysis of Changes in International Politics since World War II and Their Implications for Our Basic Assumptions about U.S. Foreign Policy, allegato a Memorandum from President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, 20 ottobre 1969, in Foreign Relations of the United States (d’ora in poi FRUS), 1969-1976, vol. I, Foundations of Foreign Policy, 1969-1972, Washington, United States Government Printing Office 2003 (consultabile all’indirizzo http://www.state.gov/r/pa/ho/frus/nixon/i). Sulla convergenza d’interessi geopolitici tra le due grandi potenze si vedano le originali riflessioni di Mary Kaldor, The Imaginary War: Understanding the East-West Conflict, Oxford, Blackwell 1990. 3 Conferenza stampa di Henry Kissinger, 16 febbraio 1970, in FRUS, vol. I, cit. Su questo aspetto si vedano le considerazioni nel primo dei tre volumi delle memorie di Kissinger, White House Years, London, Weidenfeld & Nicolson 1979, pp. 54-70. Si vedano inoltre Robert D. Schulzinger, Henry Kissinger. Doctor of Diplomacy, New York, Columbia University Press 1989 e Jussi M. Hanhimäki, The Flawed Architect. Henry Kissinger and American Foreign Policy, Oxford, Oxford University Press 2004. 4 Le citazioni provengono da Henry Kissinger, Years of Upheaval, Boston, Little Brown 1982, p. 1031 («crociata morale») e p. 50 («inospitale [...] relazioni di potenza») e da Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago, Chicago University Press 1999, p. 234 («affrontare [...] senza tregua»). 5 Sulle contraddizioni del realismo kissingeriano rimando qui soprattutto alle acute riflessioni di Stanley Hoffmann, Primacy or World Order. American Foreign Policy since the Cold War, New York, McGraw Hill 1978 e Id., The Return of Henry

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Note

Kissinger, in «The New York Review of Books», 7, 29 aprile 1982. Si vedano inoltre le riflessioni, assai originali, di Phil Williams, Détente and U.S. Domestic Politics, in «International Affairs», 3, estate 1985, pp. 431-47. 6 Stanley Hoffmann, Varieties of Containment, in «Reviews in American History», 2, giugno 1983, p. 281. Per una visione diversa, che sottolinea invece la presunta consapevolezza multipolare di Kissinger, si vedano John Lewis Gaddis, Strategies of Containment. A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy, Oxford, Oxford University Press 1982, pp. 274-344 e Id., Rescuing Choice from Circumstances: The Statecraft of Henry Kissinger, in Gordon A. Craig, Francis Loewenheim (a cura di), The Diplomats, 1939-1979, Princeton, Princeton University Press 1994, pp. 564-92. 7 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 33. 8 Argyris G. Andrianopoulos, Western Europe in Kissinger’s Global Strategy, New York, St. Martin’s Press 1988; Michael Mastanduno, Economic Containment: CoCom and the Politics of East-West Trade, Ithaca, Cornell University Press 1992, pp. 135-45; Loth, Overcoming the Cold War, cit., pp. 102-27. Si vedano inoltre le interessanti riflessioni coeve di John L.S. Girling, Kissingerism: The Enduring Problems, in «International Affairs», 3, luglio 1975, pp. 323-43. 9 Jeffrey Kimball, Nixon’s Vietnam War, Lawrence, The University Press of Kansas 1998; Larry Berman, No Honor, No Peace: Nixon, Kissinger and the Betrayal in Vietnam, New York, Free Press 2001; Jussi M. Hanhimäki, Selling the Decent Interval: Kissinger, Triangular Diplomacy and the End of the Vietnam War, in «Diplomacy and Statecraft», 1, marzo 2003, pp. 159-94. 10 Hanhimäki, The Flawed Architect, cit., pp. 135-46; Bundy, A Tangled Web, cit., pp. 304-305; Kissinger, White House Years, cit., p. 747 («usare l’equilibrio internazionale»); Id., Years of Renewal, New York, Touchstone 1999, p. 157 («tacito accordo»); Evelyn Goh, Nixon, Kissinger, and the «Soviet Card» in the U.S. Opening to China, 1971-1974, in «Diplomatic History», 3, giugno 2005, pp. 475-502. 11 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 290-302; Bundy, A Tangled Web, cit., pp. 232-37; Gerard Smith, Doubletalk. The Story of the First Strategic Arms Limitations Talks, Garden City, Doubleday 1980; Terry Terriff, The Nixon Administration and the Making of U.S. Nuclear Strategy, Ithaca, Cornell University Press 1995. 12 Richard Nixon, RN. The Memoirs of Richard Nixon, New York, Grosset & Dunlap 1978, p. 618; briefing di Kissinger alla Commissione esteri del Senato, 15 giugno 1972, in FRUS, 1969-1976, vol. I, cit. (da cui provengono le citazioni sulla «certa comunanza di vedute» e sulla «interdipendenza per la sopravvivenza»). La dichiarazione dei principi basilari delle relazioni bipolari (Basic Principles of Relations between United States of America and the Union of the Soviet Socialist Republics) è pubblicata anch’essa in FRUS, 1969-1976, vol. I, cit. 13 Le citazioni provengono da Kissinger, White House Years, cit., p. 235 e da George Herring, America’s Longest War, New York, Wiley 1979, p. 219. Si vedano anche Kimball, Nixon’s Vietnam War, cit., pp. 319-40 e le acute considerazioni di Ninkovich, The Wilsonian Century, cit., pp. 227-31. 14 Agreement on Ending the War and Restoring Peace in Vietnam, 17 gennaio 1973 (http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/vietnam/treaty.htm); Hanhimäki, The Flawed Architect, cit., pp. 228-57; Berman, No Honor, No Peace, cit., pp. 22337; Marilyn Young, The Vietnam Wars, 1945-1990, New York, HarperCollins 1991, pp. 274-80; Susan Katz Keating, Prisoners of Hope. Exploiting the POW/MIA Myth in America, New York, Random House 1994.

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15 Si vedano le diverse interpretazioni di Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advancement through 20th Century Europe, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2005; Duccio Basosi, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (19691973), Firenze, Polistampa 2006; Charles S. Maier, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2006. 16 Immanuel Wallerstein, The Capitalist World-Economy: Essays, Cambridge, Cambridge University Press 1979 e Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Milano, Il Saggiatore 1996 (ed. or. The Long Twentieth Century. Power, Money, and the Origins of Our Time, London, Verso 1994). Sulle paure e le ansie della società statunitense negli anni Settanta si vedano Bruce J. Schulman, The Seventies. The Great Shift in American Culture, Society, and Politics, New York, Free Press 2001 e Edward D. Berkowitz, Something Happened. A Political and Cultural Overview of the Seventies, New York, Columbia University Press 2006. 17 Walter Laqueur, The Political Psychology of Appeasement. Finlandization and Other Unpopular Essays, New Brunswick, Transaction 1980. 18 Sul mito della difesa strategica come espressione di una logica nazionalista ed eccezionalista, che troverà la sua sublimazione con il progetto di scudo spaziale di Ronald Reagan, si veda Frances Fitzgerald, Way Out There in the Blue. Reagan, Star Wars and the End of the Cold War, New York, Simon & Schuster 2000. 19 Si vedano Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 309 e Paula Stern, Water’s Edge: Domestic Politics and the Making of American Foreign Policy, Westport, Greenwood Press 1979, pp. 18-52. 20 Gerald Ford era il leader di minoranza del Partito repubblicano alla Camera dei rappresentanti. Divenne presidente perché anche il vicepresidente di Nixon, Spiro Agnew, si era dovuto dimettere travolto da accuse di evasione fiscale e corruzione. 21 William B. Quandt, Peace Process. American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Washington, Brooking Institutions 2001; Ibrahim A. Karawan, Sadat and the Egyptian-Israeli Peace Revisited, in «International Journal of Middle East Studies», 2, maggio 1994, pp. 249-66; Yaacov Bar-Siman-Tov, The United States and Israel since 1948: A «Special Relationship»?, in «Diplomatic History», 2, primavera 1998, pp. 231-62. 22 Odd Arne Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press 2005, pp. 250-86; Allin, Cold War Illusions, cit., pp. 51-77; John Ehrman, The Rise of Neoconservatism. Intellectuals and Foreign Affairs, New Haven, Yale University Press 1995, pp. 63-99. 23 Robert Alexander Kraig, The Tragic Science: The Uses of Jimmy Carter in Foreign Policy Realism, in «Rhetoric & Public Affairs», 1, 2002, p. 1. Il passaggio dell’intervista a «Playboy» è citato in D. Jason Berggren, Nicol C. Rae, Jimmy Carter and George W. Bush: Faith, Foreign Policy, and an Evangelical Presidential Style, in «Presidential Studies Quarterly», 4, dicembre 2006, p. 618. 24 Le citazioni provengono da Jimmy Carter, Keeping Faith, New York, Bantam Books 1982, p. 188 («mentalità cronica»); Id., Commencement Address at the University of Notre Dame, 22 maggio 1977 (http://www.millercenter.virginia.edu/ scripps/digitalarchive/speeches/spe_1977_0522_carter) («esagerata paura»); Id., Inaugural Address, 20 gennaio 1977 (http://www.yale.edu/lawweb/avalon/presiden/inaug/carter.htm).

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Note

25 Berggren, Rae, Jimmy Carter, cit.; Richard Hess, Jimmy Carter: Rhetorical Prophet, in «The Journal of American Culture», 1-2, marzo 2002, p. 210 («straniero»); Gaddis Smith, Morality, Reason, and Power. American Diplomacy in the Carter Years, New York, Hill & Wang 1986. Sulla centralità del tema dei diritti umani e sulla coerenza con cui esso fu affrontato da Carter si vedano le diverse interpretazioni di David F. Schmitz, Vanessa Walker, Jimmy Carter and the Foreign Policy of Human Rights. The Development of a Post-Cold War Foreign Policy, in «Diplomatic History», 1, gennaio 2004, pp. 112-43 e di John A. Soares, Strategy, Ideology, and Human Rights. Jimmy Carter Confronts the Left in Central America, 19791981, in «Journal of Cold War Studies», 4, autunno 2006, pp. 57-91. Sull’iniziale popolarità di Carter e sulla crescente sfiducia nei confronti del governo (il confidence gap) si veda Robert Collins, Transforming America. Politics and Culture in the Reagan Years, New York, Columbia University Press 2007, pp. 13-16. 26 Questo aspetto è stato recentemente sottolineato con forza da Andrew Z. Katz, Public Opinion and the Contradictions of Jimmy Carter’s Foreign Policy, in «Presidential Studies Quarterly», 4, dicembre 2006, pp. 662-87. Ma si vedano anche i giudizi critici di David Skidmore, Reversing Course. Carter’s Foreign Policy, Domestic Politics, and the Failure of Reform, Nashville, Vanderbilt University Press 1996 e di Burton I. Kaufman, Scott Kaufman, The Presidency of James Earl Carter, Lawrence, The University Press of Kansas 2006. 27 Si vedano le diverse ricostruzioni offerte dagli stessi Vance e Brzezinski: Cyrus R. Vance, Hard Choices. Critical Years in America’s Foreign Policy, New York, Simon & Schuster 1983 e Zbigniew Brzezinski, Power and Principle. Memoirs of the National Security Advisor, 1977-1981, New York, Farrar, Straus, Giroux 1983. 28 Per un giudizio positivo della politica estera carteriana si vedano John Dumbrell, The Carter Presidency: A Re-evaluation, Manchester, Manchester University Press 1993 e, soprattutto, la bella ricerca di Robert A. Strong, Working in the World: Jimmy Carter and the Making of American Foreign Policy, Baton Rouge, Louisiana State University Press 2000. 29 Carter, citato in Richard G. Hutcheson Jr., God in the White House. How Religion Has Changed the Modern Presidency, New York, Collier 1988, p. 124. Si vedano inoltre Walter Lafeber, The Panama Canal. The Crisis in Historical Perspective, Oxford, Oxford University Press 1989, pp. 125-63; John Major, Prize Possession. The United States and the Panama Canal, 1903-1979, Cambridge, Cambridge University Press 1993; David Skidmore, Foreign Policy Interest Groups and Presidential Power: Jimmy Carter and the Battle over Ratification of the Panama Canal Treaties, in Herbert D. Rosenbaum, Alexej Ugrinsky (a cura di), Jimmy Carter: Foreign Policy and Post-Presidential Years, Westport, Greenwood Press 1994, pp. 297-328. Il testo degli accordi è consultabile all’indirizzo http://www.state.gov/ p/wha/rlnks/11936.htm. 30 Si vedano le diverse interpretazioni di Anthony Lake, Somoza Falling. A Case Study of Washington at Work, Amherst, University of Massachusetts Press 1990; Robert Kagan, A Twilight Struggle. American Power and Nicaragua, 19771990, New York, Free Press 1996; William M. LeoGrande, Our Own Backyard. The United States in Central America, 1977-1992, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1998; Robert A. Pastor, Not Condemned to Repetition. The United States and Nicaragua, Boulder, Westview Press 2002. 31 James Mann, About Face. A History of America’s Curious Relationship with China from Nixon to Clinton, New York, Random House 1999 e Patrick Tyler, The

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(Ab)normalization of U.S.-Chinese Relations, in «Foreign Affairs», 5, settembre-ottobre 1999, pp. 93-122. 32 Quandt, Peace Process, cit., pp. 177-203 e Giampaolo Valdevit, Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 a oggi, Roma, Carocci 2005, pp. 93-96. 33 Westad, The Global Cold War, cit., pp. 288-99; Hamid Dabashi, Theology of Discontent. The Ideological Foundations of the Islamic Revolution in Iran, New York, New York University Press 1993; Renzo Guolo, La Via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Roma-Bari, Laterza 2007. 34 Luttwak e Podhoretz, citati in Ehrman, The Rise of Neoconservatism, cit., pp. 107-108; si vedano anche Richard Pipes, Why the Soviet Union Thinks It Could Fight and Win a Nuclear War, in «Commentary», luglio 1977, pp. 21-34 e Fitzgerald, Way Out There, cit., pp. 89-99. Sull’idea che Carter fosse un involontario destabilizzatore della Guerra Fredda e della distensione insiste fin troppo Olav Njølstad, Peacekeeper and Troublemaker: The Containment Policy of Jimmy Carter, 1977-1978, Oslo, Institutt for forsvarsstudier 1995. 35 Il testo del SALT II (Treaty between the United States of America and the Union of Soviet Socialist Republics on the Limitation of Strategic Offensive Arms, together with Agreed Statements and Common Understandings Regarding the Treaty) è consultabile all’indirizzo http://www.state.gov/t/ac/trt/5195.htm. Sui negoziati e l’accordo finale si vedano Thomas M. Nichols, Carter and the Soviets: The Origins of the U.S. Return to a Strategy of Confrontation, in «Diplomacy and Statecraft», 2, giugno 2002, pp. 21-42 e Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 563-77 e 609-19. 36 Il discorso, del 15 luglio 1979, è consultabile all’indirizzo http://www.pbs. org/wgbh/amex/carter/filmmore/ps_crisis.html. Sulle sue implicazioni si vedano Collins, Transforming America, cit., pp. 20-27 e Hess, Jimmy Carter: Rhetorical Prophet, cit. 37 David Patrick Houghton, U.S. Foreign Policy and the Iran Hostage Crisis, Cambridge, Cambridge University Press 2001 e David Farber, Taken Hostage. The Iran Hostage Crisis and America’s First Encounter with Radical Islam, Princeton, Princeton University Press 2005. 38 Westad, Global Cold War, cit., pp. 316-30; Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 887-965. In URSS vi erano sei repubbliche a maggioranza musulmana; tre di queste – il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan – confinavano con l’Afghanistan. 39 Podhoretz, citato in John Patrick Diggins, Ronald Reagan. Fate, Freedom, and the Making of History, New York, Norton 2007, p. 211. 40 Jimmy Carter, State of the Union Address, 23 gennaio 1980 (http://www. jimmycarterlibrary.org/documents/speeches/su80jec.phtml) e Andrew Hartman, «The Red Template»: U.S. Policy in Soviet Occupied Afghanistan, in «Third World Quarterly», 3, giugno 2002, pp. 467-89. 41 L’intervista a Brzezinski apparve sul «Nouvel Observateur», 15-21 gennaio 1998, p. 21. 42 Andrew E. Busch, Reagan’s Victory: The Presidential Election of 1980 and the Rise of the Right, Lawrence, The University Press of Kansas 2005 e John Ehrman, The Eighties. America in the Age of Reagan, New Haven, Yale University Press 2005, pp. 45-48. 43 Il commencement address di Reagan a Notre Dame, del 17 maggio 1981, è consultabile all’indirizzo http://www.reagan.utexas.edu/archives/speeches/1981/

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Note

51781a.htm. La seconda citazione è in Collins, Transforming America, cit., p. 27. La citazione di Paine da parte di Reagan è ricordata in Ted V. McAllister, Reagan and the Transformation of American Conservatism, in W. Elliot Brownee, Hugh Davis Graham (a cura di), The Reagan Presidency. Pragmatic Conservatism and Its Legacies, Lawrence, The University Press of Kansas 2003, p. 53. Sull’appropriazione reaganiana di Paine si vedano Diggins, Ronald Reagan, cit., e soprattutto Harvey J. Kaye, Thomas Paine and the Promise of America, New York, Hill & Wang 2005, pp. 222-26. 44 Reagan, citato in Chester J. Pach Jr., Reagan and National Security, in Brownee, Graham (a cura di), The Reagan Presidency, cit., p. 90 e in Collins, Transforming America, cit., p. 195. 45 Il discorso è consultabile all’indirizzo http://www.nationalcenter.org/ReaganEvilEmpire1983.html. Si vedano inoltre G. Thomas Goodnight, Ronald Reagan’s Re-formulation of the Rhetoric of War: Analysis of the «Zero Option», «Evil Empire», and «Star Wars» Addresses, in «Quarterly Journal of Speech», 4, novembre 1986, pp. 390-414 e Fitzgerald, Way Out There, cit., pp. 24-26. 46 Reagan, citato in Diggins, Ronald Reagan, cit., p. 221; Maier, Among Empires, cit., pp. 255-95; James M. Scott, Deciding to Intervene. The Reagan Doctrine and American Foreign Policy, Durham, Duke University Press 1996. 47 Secondo la Kirkpatrick, i «tradizionali governi autoritari sono meno repressivi delle autocrazie rivoluzionarie, più inclini alla liberalizzazione e maggiormente compatibili con gli interessi statunitensi». Si veda Jeane J. Kirkpatrick, Dictatorships and Double Standards, in «Commentary», 1979, pp. 34-45 (consultabile all’indirizzo http://www.commentarymagazine.com/cm/main/viewArticle.html?id =6189&page=all). 48 Westad, Global Cold War, cit., pp. 334-39; Scott, Deciding to Intervene, cit.; Peter W. Rodman, More Precious than Peace. The Cold War and the Struggle for the Third World, New York, Scribner’s 1994. 49 Westad, Global Cold War, cit., pp. 342-44 e Christopher Andrew, Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way: The KGB and the Battle for the Third World, New York, Basic Books 2005, pp. 122-28. 50 Reagan, citato in Diggins, Ronald Reagan, cit., p. 256. I dati dei sondaggi sono tratti da Pach Jr., Reagan and National Security, cit., pp. 97-98. 51 Citato in Diggins, Ronald Reagan, cit., p. 249. Si vedano inoltre Robert J. Beck, The Grenada Invasion. Politics, Law, and Foreign Policy Decision Making, Boulder, Westview Press 1993 e Gary Williams, Prelude to an Intervention: Grenada 1983, in «Journal of Latin American Studies», 1, febbraio 1997, pp. 131-69. 52 Si veda in particolare l’eccellente ricostruzione di Westad, Global Cold War, cit., pp. 348-53 e l’informativo ma aneddotico Steve Coll, Ghost Wars. The Secret History of the CIA, Afghanistan, and Bin Laden, from the Soviet Invasion to September 10, 2001, New York, Penguin Press 2004. 53 Su quest’ultimo aspetto si vedano soprattutto Fitzgerald, Way Out There, cit. e Michael Adas, Dominance by Design. Technological Imperatives and America’s Civilizing Mission, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press 2006, pp. 353-54. 54 National Security Decision Directive 75, U.S. Relations with the USSR, 17 gennaio 1983 (http://www.fas.org/irp/offdocs/nsdd/nsdd-075.htm). Sul documento si vedano le considerazioni di Jeremi Suri, Explaining the End of the Cold War: A New Historical Consensus?, in «Journal of Cold War Studies», 4, autunno 2002, pp.

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60-92 e Chester J. Pach Jr., The Reagan Doctrine: Principle, Pragmatism and Policy, in «Presidential Studies Quarterly», 1, marzo 2006, pp. 35-48. 55 Fitzgerald, Way Out There, cit.; Pach Jr., Reagan and National Security, cit.; Fred Chernoff, Ending the Cold War: The Soviet Retreat and the U.S. Military Buildup, in «International Affairs», 1, gennaio 1991, pp. 111-26; Paul Boyer, Fallout. A Historian Reflects on America’s Half-Century Encounter with Nuclear Weapons, Columbus, Ohio State University Press 1998, pp. 173-76. 56 Samuel F. Wells Jr., Reagan, Euromissiles, and Europe, in Brownee, Graham (a cura di), The Reagan Presidency, cit., pp. 133-52; Leopoldo Nuti, Gli anni Ottanta, in Mario Del Pero, Federico Romero (a cura di), Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2007, pp. 65-83. 57 Stanley Feldman, Lee Sigelman, The Political Impact of Prime-Time Television: «The Day After», in «The Journal of Politics», 2, giugno 1985, pp. 556-78 e Toni A. Perrine, Film and the Nuclear Age. Representing Cultural Anxiety, New York, Garland 1998. 58 Si vedano in particolare Diggins, Ronald Reagan, cit. e i diari di Reagan curati da Douglas Brinkley, The Reagan Diaries, New York, HarperCollins 2007. 59 Ronald Reagan, Address to the Nation on National Security, 23 marzo 1983 (http://www.fas.org/spp/starwars/offdocs/rrspch.htm) e Raymond L. Garthoff, The Great Transition. American-Soviet Relations and the End of the Cold War, Washington, Brookings Institution 1994, pp. 514-17. 60 Su quest’ultimo punto si veda in particolare Ehrman, The Rise of Neoconservatism, cit., pp. 137-72. Per una critica a Reagan da parte di un importante esponente neoconservatore si veda Norman Podhoretz, The Neo-Conservative Anguish over Reagan’s Foreign Policy, in «New York Times Magazine», 2 maggio 1982. Si veda inoltre Maria Ryan, Neoconservative Intellectuals and the Limitations of Governing. The Reagan Administration and the Demise of the Cold War, in «Comparative American Studies», 4, autunno 2006, pp. 409-20. 61 Vi è oggi una larga convergenza tra gli storici nel ritenere che il 1983 abbia rappresentato un anno di svolta nelle relazioni bipolari e abbia chiuso la fase radicale dell’amministrazione Reagan. Per alcuni esempi, puramente illustrativi, si vedano Don Oberdorfer, The Turn. From the Cold War to a New Era, New York, Simon & Schuster 1991; Suri, Explaining the End of the Cold War, cit.; Garthoff, The Great Transition, cit.; Beth A. Fischer, The Reagan Reversal. Foreign Policy and the End of the Cold War, Columbia, University of Missouri Press 1997. 62 I dati sono tratti da Pach Jr., Reagan and National Security, cit., p. 103. Sui limiti e le ambiguità degli emendamenti Boland si veda Andrew W. Hayes, The Boland Amendments and Foreign Affairs Deference, in «Columbia Law Review», 7, novembre 1988, pp. 1534-74. 63 Bhupinder S. Chimni, The International Court and the Maintenance of Peace and Security: The Nicaragua Decision and the United States Response, in «The International and Comparative Law Quarterly», 4, ottobre 1986, pp. 960-70. 64 Theodore Draper, A Very Thin Line. The Iran-Contra Affairs, New York, Hill & Wang 1991 e Lawrence E. Walsh, Firewall. The Iran-Contra Conspiracy and Cover-up, New York, Norton 1997. 65 Diggins, Ronald Reagan, cit., pp. 293-302 e 345-47 e Richard A. Brody, Catherine R. Shapiro, Policy Failure and Public Support. The Iran-Contra Affair and Public Assessment of President Reagan, in «Political Behavior», 4, dicembre 1989, pp. 353-69.

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Note

66 Le citazioni sono tratte da Westad, Global Cold War, cit., p. 354 e da Pach Jr., Reagan Doctrine, cit., p. 84. 67 Westad, Global Cold War, cit., pp. 356-57 e Rhodri Jeffreys-Jones, The CIA and American Democracy, New Haven, Yale University Press 19982, pp. 239-40. 68 Fred I. Greenstein, The Impact of Personality on the End of the Cold War: A Counterfactual Analysis, in «Political Psychology», 1, gennaio 1988, pp. 1-16; Archie Brown, The Gorbachev Factor, Oxford, Oxford University Press 1996; Robert D. English, Russia and the Idea of the West: Gorbachev, Intellectuals, and the End of the Cold War, New York, Columbia University Press 2000; Suri, Explaining the End of the Cold War, cit. Per una visione maggiormente critica di Gorbacˇëv si veda Vladislav Zubok, Gorbachev and the End of the Cold War: Perspectives on History and Personality, in «Cold War History», 2, gennaio 2002, pp. 61-100. 69 Reagan, citato in Diggins, Ronald Reagan, cit., p. 198. 70 Ronald Reagan, Address to the Nation and Other Countries on United StatesSoviet Relations, 16 gennaio 1984 (http://www.reagan.utexas.edu/archives/ speeches/1984/11684a.htm). 71 Fischer, Reagan Reversal, cit. 72 Sull’ostilità dei neoconservatori verso l’«inversione di Reagan» si vedano Diggins, Ronald Reagan, cit., pp. 358-66; Jack F. Matlock Jr., Reagan and Gorbachev. How the Cold War Ended, New York, Random House 2004; Ehrman, The Rise of Neoconservatism, cit., pp. 174-77. Per un tipico esempio di critica neoconservatrice coeva a Reagan e al negoziato con l’URSS si veda Angelo Codevilla, Is There Still a Soviet Threat?, in «Commentary», novembre 1988, pp. 23-28. 73 Reagan, citato in Collins, Transforming America, cit., p. 224. Sul vertice di Ginevra si vedano inoltre Garthoff, The Great Transition, cit., pp. 197-251 e William D. Jackson, Soviet Reassessment of Ronald Reagan, 1985-1988, in «Political Science Quarterly», 4, inverno 1998-99, pp. 617-44. 74 Sull’incidente di Chernobyl e sul suo impatto sulle relazioni internazionali dell’epoca si vedano le considerazioni di Richard A. Matthew, The Environment as a National Security Issue, in «Journal of Policy History», 1, gennaio 2000, pp. 10122; Robert English, The Sociology of New Thinking: Elites, Identity Change, and the End of the Cold War, in «Journal of Cold War Studies», 2, primavera 2005, pp. 4380; Archie Brown, Perestroika and the End of the Cold War, in «Cold War History», 1, febbraio 2007, pp. 1-17. 75 Garthoff, The Great Transition, cit., pp. 253-99 e Fitzgerald, Way Out There, cit., pp. 314-69. 76 Su questo aspetto si vedano gli splendidi lavori di Matthew Evangelista, Unarmed Forces. The Transnational Movement to End the Cold War, Ithaca, Cornell University Press 1999 e di Lawrence S. Wittner, The Struggle against the Bomb, vol. III, Toward Nuclear Abolition: A History of the World Nuclear Disarmament Movement, 1971 to the Present, Stanford, Stanford University Press 2003. 77 Garthoff, The Great Transition, cit., pp. 300-37 e Kjell Goldmann, International Opinion and World Politics: The Case of the INF Treaty, in «Political Studies», 1, marzo 1993, pp. 41-56. 78 Charles S. Maier, Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania dell’Est, Bologna, Il Mulino 1997 (ed. or. Dissolution. The Crisis of Communism and the End of East Germany, Princeton, Princeton University Press 1997); Stephen Kotkin, Armageddon Averted. The Soviet Collapse, 1970-2000, Oxford, Oxford University Press 2001; Mark Kramer, The Collapse of East European Communism

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and the Repercussions within the Soviet Union (Part I), in «Journal of Cold War Studies», 4, autunno 2003, pp. 178-256; Daniel Thomas, Human Rights Ideas, the Demise of Communism, and the End of the Cold War, in «Journal of Cold War Studies», 2, primavera 2005, pp. 110-41. 79 Michael Mann, Incoherent Empire, London, Verso 2003. Ma si vedano anche Maier, Among Empires, cit. e Herfried Münkler, Empires. The Logic of World Domination from Ancient Rome to the United States, Cambridge, Polity 2007.

Capitolo XI 1 Per una lettura di questo tipo si veda John Lewis Gaddis, The Long Peace, in Id., The Long Peace. Inquiries into the History of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1987, pp. 215-45. Sulla sorpresa provocata dalla fine della Guerra Fredda e il crollo del comunismo si vedano inoltre le riflessioni di Michael Cox (a cura di), Rethinking the Soviet Collapse. Sovietology, the Death of Communism and the New Russia, London, Pinter 1998 e dello stesso Gaddis, The United States and the End of the Cold War. Implications, Reconsiderations and Provocations, Oxford, Oxford University Press 1992. 2 La tesi della «sovraestensione imperiale» fu articolata soprattutto da Paul Kennedy nel suo enciclopedico The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1988 e in Preparing for the Twenty-First Century, New York, Random House 1993. Per una lettura declinista più soft si veda Robert Keohane, After Hegemony. Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, Princeton University Press 1984. Per un’accurata ricostruzione del dibattito sul presunto declino degli Stati Uniti si rimanda a Emiliano Alessandri, Tra trionfalismo e paura del declino: gli USA e la fine della Guerra Fredda, in «Ricerche di Storia politica», 1, aprile 2006, pp. 3-30. La tesi che i veri vincitori della Guerra Fredda non fossero gli Stati Uniti, ma il Giappone e la Germania (o l’Europa occidentale intera), è proposta in molti dei saggi contenuti in Michael J. Hogan (a cura di), The End of the Cold War. Its Meanings and Implications, Cambridge, Cambridge University Press 1992. 3 Per alcuni esempi, puramente illustrativi, si vedano Edward Luttwak, From Geopolitics to Geo-Economics; Logic of Conflict, Grammar of Commerce, in «The National Interest», 1, estate 1990, pp. 17-23; John J. Mearsheimer, Back to the Future. Instability in Europe after the End of the Cold War, in «International Security», 1, estate 1990, pp. 5-56; Samuel P. Huntington, The Clash of Civilization, in «Foreign Affairs», 3, estate 1993, pp. 22-49. Oltre a quella di Alessandri, Tra trionfalismo e paura, cit., due discussioni originali, ancorché tra loro assai diverse, sono offerte da Gearoid O’Tuathail, Critical Geopolitics. The Politics of Writing Global Space, Minneapolis, University of Minnesota Press 1996, pp. 225-56 e da John Lewis Gaddis, International Relations Theory and the End of the Cold War, in «International Security», 3, inverno 1992-93, pp. 5-58. 4 L’opera più nota è ovviamente quella di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli 1992 (ed. or. The End of History and the Last Man, New York, Free Press 1992). 5 John M. Owen, How Liberalism Produces Democratic Peace, in «International Security», 2, autunno 1989, pp. 87-125; Joseph S. Nye, Bound to Lead. The Chang-

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Note

ing Nature of American Power, New York, Basic Books 1990; Richard Ned Lebow, Janice Gross Stein, We All Lost the Cold War, Princeton, Princeton University Press 1994; John G. Ikenberry, The Myth of Post-Cold War Chaos, in «Foreign Affairs», 3, maggio-giugno 1996, pp. 79-91; Allen Hunter (a cura di), Re-Thinking the Cold War, Philadelphia, Temple University Press 1998; Richard K. Herrmann, Richard Ned Lebow (a cura di), Ending the Cold War. Interpretations, Causation, and the Study of International Relations, New York, Palgrave 2004. 6 Il discorso da cui sono tratte le citazioni nel testo è quello del 16 gennaio 1991, quando iniziarono le operazioni militari alleate in Iraq (http://www.historyplace. com/speeches/bush-war.htm). 7 Per un esempio Terry L. Deibel, Bush’s Foreign Policy: Mastery and Inaction, in «Foreign Policy», 84, autunno 1991, pp. 3-23. Si veda inoltre la discussione in Steven Hurst, The Rhetorical Strategy of George H.W. Bush during the Persian Gulf Crisis 1990-91: How to Help Lose a War You Won, in «Political Studies», 2, giugno 2004, pp. 376-92. 8 Elizabeth Pond, Beyond the Wall. Germany’s Road to Unification, Washington, Brookings Institution 1993. Sulle posizioni europee si veda inoltre l’utile rassegna di Kristina Spohr, German Unification: Between Official History, Academic Scholarship, and Political Memoirs, in «The Historical Journal», 3, settembre 2000, pp. 869-88. Il ruolo della Francia e di Mitterrand nel gestire il processo che porterà alla riunificazione della Germania è sottolineato con forza in Frédéric Bozo, Mitterrand’s France, the End of the Cold War, and German Unification: A Reappraisal, in «Cold War History», 4, novembre 2007, pp. 455-78. 9 Celeste A. Wallander, Western Policy and the Demise of the Soviet Union, in «Journal of Cold War Studies», 4, autunno 2003, pp. 137-77. Sul doppio contenimento, dell’URSS e della Germania, garantito dall’Alleanza atlantica si veda la convincente interpretazione di Marc Trachtenberg, A Constructed Peace. The Making of the European Settlement, 1945-1963, Princeton, Princeton University Press 1999. Si vedano inoltre le ricostruzioni parzialmente differenti di Philip Zelikow, Condoleezza Rice, Germany Unified and Europe Transformed. A Study in Statecraft, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1995 e di Frank Elbe, Richard Kiessler, A Roundtable with Sharp Corners. The Diplomatic Path to German Unity, Baden-Baden, Nomos 1996. 10 Michael Cox, Whatever Happened to American Decline? International Relations and the New United States Hegemony, in «New Political Economy», 3, 2001, pp. 311-40. 11 Baker, citato in Michael J. Brenner, Finding America’s Place, in «Foreign Policy», 79, estate 1990, p. 33. 12 Per una dettagliata ricostruzione si veda Jozˇe Pirjevec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino 2002. Per una discussione critica si veda Sonia Lucarelli, Gli anni Novanta: le guerre nella ex-Jugoslavia, in Mario Del Pero, Federico Romero (a cura di), Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2007, pp. 85-109. 13 Charles-Philippe David, A Strategy of «Circumvention»: American Policy towards the Yugoslav Crisis, in «Journal of Contingencies and Crisis Management», 4, dicembre 1995, pp. 195-214 e David Halberstam, War in a Time of Peace. Bush, Clinton and the Generals, New York, Scribner’s 2001, pp. 9-156. 14 La dottrina prende il nome da Colin Powell, allora alla guida dei capi di Stato maggiore. Si veda Halberstam, War in a Time of Peace, cit., pp. 252-53. Powell

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cercò successivamente di qualificare questa sua posizione e di definire quelle occasioni in cui era possibile derogare dai vincoli della sua supposta dottrina. Si veda Colin Powell, U.S. Forces: Challenges Ahead, in «Foreign Affairs», 1, inverno 199293, pp. 32-45. 15 Pierre Melandri, Justin Vaïsse, L’Empire du milieu. Les États-Units et le monde depuis la fin de la guerre froide, Paris, Odile Jacob 2001, pp. 47-52. Per una trattazione sintetica, ma precisa, si veda Alastair Finlan, The Gulf War 1991, LondonNew York, Routledge 2003. 16 Bosah Ebo, War as Popular Culture: The Gulf Conflict and the Technology of Illusionary Entertainment, in «The Journal of American Culture», 3, autunno 1995, pp. 19-25; Mark Sussman, Celebrating the New World Order: Festival and War in New York, in «The Drama Review», 2, estate 1995, pp. 147-75; Marilyn Young, Permanent War, in «Positions», 1, primavera 2005, pp. 177-93. 17 George Bush, Brent Scowcroft, A World Transformed, New York, Knopf 1998, p. 489. Si veda inoltre Andrew J. Bacevich, Efraim Inbar (a cura di), The Gulf War of 1991 Reconsidered, London, Frank Cass 2003. 18 Bozo può essere tradotto come adolescente sciocco e immaturo. La citazione di Quayle è riportata in Robin Toner, Bush Vows a Tough Campaign as GOP Opens Its Convention, in «The New York Times», 18 agosto 1992; quella di Bush è in Michael Wines, Candidate Aim at Crucial States, and Each Other; Bush, Buoyed by Polls, Scrambles to Rebuild Winning Coalition, in «The New York Times», 30 ottobre 1992. La citazione di Clinton è tratta invece dal primo dibattito presidenziale dell’11 ottobre 1992 (consultabile all’indirizzo http://www.debates.org/pages/trans92a1.html). 19 Pippa Norris, The 1992 Elections, in «Government and Opposition», 1, gennaio 1993, pp. 51-68. L’impatto della fine della Guerra Fredda sul risultato elettorale è discusso in molti dei saggi in Michael Nelson (a cura di), The Elections of 1992, Washington, CQ Press 1993. 20 Su questo si vedano Stephen A. Smith (a cura di), Bill Clinton on Stump, State, and Stage. The Rhetorical Road to the White House, Fayetteville, University of Arkansas Press 1994 e le considerazioni generali di Jussi M. Hanhimäki, Global Visions and Parochial Politics: The Persistent Dilemma of the «American Century», in «Diplomatic History», 4, settembre 2003, pp. 423-47. 21 Anthony Lake, From Containment to Enlargement, discorso pronunciato alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, Washington, 21 settembre 1993 (http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/lakedoc. html). Su questa filosofia neowilsoniana si vedano inoltre le considerazioni di John Gerard Ruggie, Third Try at World Order? America and Multilateralism after the Cold War, in «Political Science Quarterly», 4, autunno 1994, pp. 553-70 e di Linda B. Miller, The Clinton Years: Reinventing U.S. Foreign Policy?, in «International Affairs», 4, ottobre 1994, pp. 621-34. 22 Nipoli Kamdar, Jorge G. Gonzalez, An Empirical Analysis of the U.S. Senate Vote on NAFTA and GATT, in «International Advances in Economic Research», 2, maggio 1998, pp. 105-14; Maxwell A. Cameron, Brian W. Tomlin, The Making of NAFTA, Ithaca, Cornell University Press 2000 e l’originale Amy Skonieczny, Constructing NAFTA: Myth, Representation, and the Discursive Construction of U.S. Foreign Policy, in «International Studies Quarterly», 3, settembre 2001, pp. 433-54. 23 Per una precisa ricostruzione dei limiti del processo apertosi con gli accordi di Oslo si veda Marco Pinfari, Quale pace? Storia e interpretazioni del processo di

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Note

Oslo, Bologna, CLUEB 2005. Sulla drammatica vicenda haitiana si veda Ralph Pezzullo, Plunging into Haiti. Clinton, Aristide, and the Defeat of Democracy, Jackson, University Press of Mississippi 2006. 24 Le due citazioni sono in Halberstam, War in a Time of Peace, cit., p. 264. Si vedano inoltre John L. Hirsch, Robert B. Oakley, Somalia and Operation Restore Hope. Reflections on Peacekeeping and Peacemaking, Washington, United States Institute of Peace Press 1995 e Jon Western, Sources of Humanitarian Intervention: Beliefs, Information, and Advocacy in the U.S. Decisions on Somalia and Bosnia, in «International Security», 4, primavera 2002, pp. 112-42. 25 Su questa nuova revisione strategica si veda Andrew J. Bacevich, American Empire. The Realities and Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2002, pp. 146-49. 26 Sul dramma ruandese si veda la struggente ricostruzione di Philip Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie, Torino, Einaudi 2000 (ed. or. We Wish to Inform You that Tomorrow We Will be Killed with our Families. Stories from Rwanda, New York, Farrar, Straus and Giroux 1998) e la ricerca di Scott Straus, The Order of Genocide. Race, Power, and War in Rwanda, Ithaca, Cornell University Press 2006. 27 Tre a maggioranza serba, tre a maggioranza musulmana, due a maggioranza croata, una mista croato-musulmana più la capitale Sarajevo. La documentazione sul piano Vance-Owen è in Bertrand G. Ramcharan, The International Conference on the Former Yugoslavia: Official Papers, Boston, Kluwer Law International 1997, vol. I, pp. 245-73. 28 Halberstam, War in a Time of Peace, cit., pp. 197-99; Melandri, Vaïsse, L’Empire du milieu, cit., pp. 116-18. 29 I dati sono tratti dal database della Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ora disponibili all’indirizzo http://stats.oecd.org/WBOS. Per due riflessioni su questa trasformazione e sulla crisi dell’idea del declino si vedano Bruce Cumings, Still the American Century, in «British Journal of International Studies», 1, inverno 1999, pp. 271-99 e Michael Cox, American Power before and after 11 September: Dizzy with Success?, in «International Affairs», 2, aprile 2002, pp. 261-76. 30 Oltre ai saggi già menzionati di Cox e Cumings, si vedano le riflessioni di Alfredo G.A. Valladao, Il XXI secolo sarà americano, Milano, Il Saggiatore 1994 (ed. or. Le XXIe siècle sera américain, Paris, La Découverte 1993) e di Valur Ingimundarson, The American Dimension. Britain, Germany, and the Reinforcement of U.S. Hegemony in Europe in the 1990s, in Klaus Larres, Elizabeth Meehan (a cura di), Uneasy Allies. British-German Relations and European Integration since 1945, Oxford, Oxford University Press 2000, pp. 165-83. 31 La citazione di Amanpour è in Halberstam, War in a Time of Peace, cit., p. 283. Sul cosiddetto «effetto CNN» si veda l’originale riflessione di O’Tuathail, Critical Geopolitics, cit., pp. 187-223. Si veda inoltre Eytan Gilboa, Global Television News and Foreign Policy: Debating the CNN Effect, in «International Studies Perspectives», 3, agosto 2005, pp. 325-41. 32 David W. Brady, John F. Cogan, Brian J. Gaines, Douglas Rivers, The Perils of Presidential Support: How the Republicans Took the House in the 1994 Midterm Elections, in «Political Behavior», 4, dicembre 1996, pp. 345-67 e Gary C. Jacobson, The 1994 House Elections in Perspective, in «Political Science Quarterly», 2, estate 1996, pp. 203-23.

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33 Intervista di Madeleine Albright nel programma della rete televisiva NBC The Today Show, Columbus, Ohio, 19 febbraio 1998. Questa visione eccezionalista è illustrata, in modo peraltro più temperato, dalla stessa Albright in Madeleine Albright, Bob Woodward, The Mighty and the Almighty. Reflections on America, God, and World Affairs, New York, HarperCollins 2006. Una visione sostanzialmente simpatetica è quella di John G. Ikenberry, Charles Kupchan, Liberal Realism. The Foundations of a Democratic Foreign Policy, in «The National Interest», 4, autunno 2004, pp. 38-49. Per un’analisi fortemente critica si veda Bacevich, American Empire, cit., pp. 180-86. 34 Si vedano le originali riflessioni di Nicholas Wheeler, Saving Strangers: Humanitarian Intervention in International Society, Oxford, Oxford University Press 2001 e le considerazioni nella rassegna di Julie A. Mertus, Legitimizing the Use of Force in Kosovo, in «Ethics & International Affairs», 1, marzo 2001, pp. 133-50. 35 Talbott, citato in Robert D. Schulzinger, U.S. Diplomacy since 1900, Oxford, Oxford University Press 20025, p. 368; Clinton, citato in Mark Danner, The U.S. and the Yugoslav Catastrophe, in «The New York Review of Books», 20 novembre 1997 e in Ivo H. Daalder, Getting to Dayton: The Making of America’s Bosnia Policy, Washington, Brookings Institution 2000, p. 73. Si veda inoltre Melandri, Vaïsse, L’Empire du milieu, cit., pp. 177-82. 36 Lucarelli, Gli anni Novanta, cit., pp. 102-103; Daalder, Getting to Dayton, cit., pp. 117-61. Il testo degli accordi è consultabile all’indirizzo http://www.nato.int/ifor/gfa/gfa-home.htm. 37 Si veda, per un esempio tra i tanti, David Chandler, Bosnia. Faking Democracy after Dayton, London, Pluto Press 1999. 38 Ivo H. Daalder, Michael E. O’Hanlon, Winning Ugly. NATO’s War to Save Kosovo, Washington, Brookings Institution 2000; Paul Latawski, Martin A. Smith, The Kosovo Crisis and the Evolution of Post-Cold War European Security, Manchester, Manchester University Press 2003; Steven B. Redd, The Influence of Advisers and Decision Strategies on Foreign Policy Choices: President Clinton’s Decision to Use Force in Kosovo, in «International Studies Perspectives», febbraio 2006, pp. 129-50. 39 Per un esempio tra i tanti Michael Walzer, Arguing about War, New Haven, Yale University Press 2004. 40 Si vedano le diverse interpretazioni in John Lewis Gaddis, History, Grand Strategy and NATO Enlargement, in «Survival», 1, primavera 1998, pp. 145-51; Amos Perlmutter, Ted Galen Carpenter, NATO’s Expensive Trip East: The Folly of Enlargement, in «Foreign Affairs», 1, gennaio-febbraio 1998, pp. 2-6; James M. Goldgeier, Not Whether but When. The U.S. Decision to Enlarge NATO, Washington, Brookings Institution 1999; Roberto Menotti, Mediatori in armi: l’allargamento della NATO e la politica USA in Europa, Milano, Guerini 1999; Dan Reiter, Why NATO Enlargement Does Not Spread Democracy, in «International Security», 4, primavera 2001, pp. 41-67 e lo scambio tra lo stesso Reiter, Harvey Waterman e Dessie Zagorcheva, NATO and Democracy, in «International Security», 3, inverno 20012002, pp. 221-35. 41 Per una critica di questa posizione si veda il popolarissmo Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi 2002 (ed. or. Globalization and Its Discontents, New York, Norton 2002). Una lettura opposta è offerta da Jagdish Bhagwati, Elogio della globalizzazione, Roma-Bari, Laterza 2006 (ed. or. In Defense of Globalization, Oxford, Oxford University Press 2004).

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Note

42 Christopher, citato in Bacevich, American Empire, cit., p. 94; Friedman, citato in David M. Lampton, America’s China Policy in the Age of the Finance Minister: Clinton Ends Linkage, in «The China Quarterly», settembre 1994, p. 597; Elaine Sciolino, Conflicting Pressures on Clinton Mount Over China’s Trade Status, in «The New York Times», 20 maggio 1994. Per un giudizio meno critico nei confronti del mutamento di linea di Clinton si veda Lowell Dittmer, Chinese Human Rights and American Foreign Policy: A Realist Approach, in «The Review of Politics», 3, estate 2001, pp. 421-59. 43 Thomas Lum, Dick K. Nanto, China’s Trade with the United States and the World, CRS Report for Congress, 4 gennaio 2007 (http://www.fas.org/sgp/crs/row/ RL31403.pdf); CIA World Factbook 2007 (https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/index.html). Si veda inoltre Mark Roden, U.S.-China Relations in the Contemporary Era: An International Political Economy Perspective, in «Politics», 3, settembre 2003, pp. 192-99. 44 Stanley Fischer, Globalization and Its Challenges, in «The American Economic Review», 2, maggio 2003, pp. 1-30; Catherine L. Mann, Managing Exchange Rates: Achievement of Global Re-Balancing or Evidence of Global Co-Dependency, in «Business Economics», luglio 2004, pp. 20-30; Yu Yongding, Global Imbalances and China, in «The Australian Economic Review», 1, marzo 2007, pp. 3-23. 45 Nominato nel 1994 per promuovere un’indagine su un presunto scandalo immobiliare che aveva coinvolto i coniugi Clinton, Starr promosse un’azione investigativa ad ampio raggio il cui scopo, vieppiù evidente, era quello d’incastrare Clinton. Cosa che avvenne, quando il presidente mentì sotto giuramento in relazione al suo rapporto con la stagista Monica Lewinsky. 46 Per delle critiche serrate si vedano Noam Chomsky, The New Military Humanism: Lessons from Kosovo, Monroe, Common Courage Press 1999 e Perry Anderson, Force and Consent, in «New Left Review», 5, settembre-ottobre 2002, pp. 5-22. Per una visione opposta si rimanda a Michael Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press 2001 e Michael Walzer, The Argument about Humanitarian Intervention, in «Dissent», 1, inverno 2002, pp. 29-37. 47 Per due esempi si vedano Will Hutton, Europa vs. USA. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa, Roma, Fazi 2003 (ed. or. The World We’re In, London, Little Brown 2002) e il ben più solido Mario Telò, Europe: A Civilian Power? European Union, Global Governance, World Order, New York, Palgrave Macmillan 2006. 48 Helms, citato in Diane Marie Amann, Mortimer N.S. Sellers, The United States of America and the International Criminal Court, in «The American Journal of Comparative Law», 50, autunno 2002, p. 381. Per una severa critica alla corte da parte di uno dei più noti neoconservatori si veda John Bolton, Courting Danger: What’s Wrong with the International Criminal Court, in «The National Interest», 1, inverno 1998, pp. 60-71. 49 Le citazioni di Védrine sono tratte dall’articolo To Paris U.S. Looks Like a «Hyperpower», in «International Herald Tribune», 5 febbraio 1999. Si veda inoltre Hubert Védrine, Face à l’hyperpuissance. Textes et discours, 1995-2003, Paris, Fayard 2003. 50 Si vedano Paul Kennedy, The Eagle Land Has Landed, in «Financial Times», 2 febbraio 2002; Charles Krauthammer, The Unipolar Moment Revisited, in «The National Interest», 1, inverno 2002-03, pp. 5-17; Cox, American Power, cit.

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51 Per alcuni esempi, tra loro assai disuguali, si vedano Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Paris, Gallimard 2002; Michael Mann, Incoherent Empire, London, Verso 2003; Immanuel M. Wallerstein, The Decline of American Power. The U.S. in a Chaotic World, New York, Free Press 2003; David C. Hendrickson, The Curious Case of American Hegemony: Imperial Aspirations and National Decline, in «World Policy Journal», 2, estate 2005, pp. 1-22; Christopher Layne, Impotent Power? Re-examining the Nature of America’s Hegemonic Power, in «The National Interest», 5, settembre-ottobre 2006, pp. 41-47; Michael Cox, Is the U.S. in Decline – Again? An Essay, in «International Affairs», 4, 2007, pp. 643-53. 52 Ivo H. Daalder, James M. Lindsay, America Unbound. The Bush Revolution in Foreign Policy, Washington, Brookings Institution 2003; Stefan Halper, Jonathan Clarke, America Alone: The Neo-Conservatives and the Global Order, Cambridge, Cambridge University Press 2004; James Mann, The Rise of the Vulcans. The History of Bush’s War Cabinet, New York, Viking 2004. 53 Craig Eisendrath, Melvin A. Goodman, Gerald E. Marsh, The Phantom Defense. America’s Pursuit of the Star Wars Illusion, Westport, Praeger 2001; Charles L. Glaser, Steve Fetter, National Missile Defense and the Future of U.S. Nuclear Weapons Policy, in «International Security», 1, estate 2001, pp. 40-92; John Newhouse, The Missile Defense Debate, in «Foreign Affairs», 4, luglio-agosto 2001, pp. 97-110. 54 Condoleezza Rice, Promoting the National Interest, in «Foreign Affairs», 1, gennaio-febbraio 2000, pp. 45-62. Per una critica non dissimile alla politica estera di Clinton si veda anche John Lewis Gaddis, Surprise, Security and the American Experience, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 2004. 55 Robert Kagan, William Kristol, A National Humiliation, in «The Weekly Standard», 11 aprile 2001 e Steven Lee Myers, Collision with China: The Pentagon; U.S. Tape Is Said to Show Reckless Flying by Chinese, in «The New York Times», 14 aprile 2001. Si veda inoltre lo scambio tra Peter Hays Gries e Thomas J. Christensen, Power and Resolve in U.S. China Policy, in «International Security», 2, autunno 2001, pp. 155-65. 56 Per un esempio tra i tanti Jeffrey Gedmin, Collecting the Anti-Terror Coalition, in «Policy Review», 109, ottobre-novembre 2001 (http://www.hoover.org/ publications/policyreview/3475701.html). 57 Norman Podhoretz, World War IV. How It Started, What It Means, and Why We Have to Win, New York, Doubleday 2007. 58 Le citazioni sono tratte da Irving Kristol, The Emerging American Imperium, in «The Wall Street Journal», 18 agosto 1997. Per due famose rivendicazioni della missione imperiale statunitense post-11 settembre si vedano Max Boot, The Case for American Empire. The Most Realistic Response to Terrorism Is for America to Embrace Its Imperial Role, in «The Weekly Standard», 5, 15 ottobre 2001 e Niall Ferguson, Colossus. The Price of America’s Empire, New York, Penguin 2004. 59 Il testo della National Security Strategy del 2002 è consultabile all’indirizzo http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html. Per una sua discussione da una prospettiva storica si vedano le analisi di Melvin P. Leffler, 9/11 and the Past and Future of American Foreign Policy, in «International Affairs», 5, ottobre 2003, pp. 1045-63 e Id., 9/11 and American Foreign Policy, in «Diplomatic History», 3, giugno 2005, pp. 395-413. 60 Robert Kagan, Paradiso e potere. Europa e America nel nuovo ordine mon-

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diale, Milano, Mondadori 2003 (ed. or. Of Paradise and Power, New York, Knopf 2003); Hutton, Europa vs. USA, cit.; Anatol Lieven, America Right or Wrong. An Anatomy of American Nationalism, Oxford, Oxford University Press 2004; Sergio Fabbrini (a cura di), The United States Contested, London-New York, Routledge 2006. 61 Si veda su questo supra, cap. X. 62 Sul processo che portò poi alla decisione d’intervenire si vedano Bob Woodward, Plan of Attack, New York, Simon & Schuster 2004 e Alex Roberto Hybel, Justin Matthew Kaufman, The Bush Administrations and Saddam Hussein: Deciding on Conflict, New York, Palgrave Macmillan 2006. 63 Per una parziale discussione di queste contraddizioni si veda Andrew J. Bacevich, The New American Militarism. How Americans Are Seduced by War, Oxford, Oxford University Press 2005. 64 Si veda http://www.brookings.edu/fp/saban/iraq/index.pdf. 65 Christopher C. Joyner, The United Nations and Terrorism: Rethinking Legal Tensions between National Security, Human Rights, and Civil Liberties, in «International Studies Perspectives», 3, agosto 2004, pp. 240-57; Johan Steyn, Guantanamo Bay: The Black Hole, in «International and Comparative Law Quarterly», 53, 2004, pp. 1-15; Leonard Cutler, Enemy Combatants and Guantanamo: The Rule of Law and the Law of War post 9/11, in «Peace & Change», 1, gennaio 2006, pp. 35-57. 66 The National Security Strategy of the United States, marzo 2006 (http://www. whitehouse.gov/nsc/nss/2006/nss2006.pdf). Si veda Joseph S. Nye Jr., Transformational Leadership and U.S. Grand Strategy, in «Foreign Affairs», 4, luglio-agosto 2006, pp. 139-48. 67 Ho cercato di argomentare ciò in Present at the Destruction? George Bush, the Neoconservatives and the Traditions of U.S. Foreign Policy, in «RSA Journal», 13, 2005, pp. 81-106. Si vedano inoltre i lavori di Leffler citati supra, nota 59. Per una lettura opposta si vedano, tra i tanti, James Chace, Present at the Destruction: The Death of American Internationalism, in «World Policy Journal», 1, primavera 2003, pp. 1-5; John G. Ikenberry, America’s Imperial Ambition, in «Foreign Affairs», 5, settembre-ottobre 2002, pp. 44-60; Madeleine K. Albright, Bridges, Bombs, or Bluster?, in «Foreign Affairs», 5, settembre-ottobre 2003, pp. 2-18. 68 Su questo le condivisibili osservazioni di Cox, Is the U.S. in Decline, cit.

Capitolo XII 1 Gallup Poll, Bush Job Approval at 28%, Lowest of His Administration, 11 aprile 2008 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/106426/bush-job-approval28-lowest-administration.aspx); The German Marshall Fund, Transatlantic Trends 2008 (consultabile all’http://www.gmfus.org/trends/doc/2008_english_key.pdf); Gallup Poll, Opinion Briefing: US Image in Middle East/North Africa, 27 gennaio 2009 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/114007/Opinion-BriefingImage-Middle-East-North-Africa.aspx). Sul caso dell’America Latina si vedano William M. LeoGrande, A Poverty of Imagination: George W. Bush’s Policy in Latin America, in «Journal of Latin American Studies», 2, maggio 2007, pp. 355-85 e Riordan Roett, Estados Unidos y América Latina: Estado actual de las relaciones, in «Nueva Sociedad», 206, novembre-dicembre 2006, pp. 110-25.

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2 Tom Farer, Un-Just War Against Terrorism and the Struggle to Appropriate Human Rights, in «Human Rights Quarterly», 2, maggio 2008, pp. 356-403; Paul Kramer, The Water Cure, in «The New Yorker», 25 febbraio 2008; Joseph Margulies, Guantanamo and the Abuse of Presidential Power, New York, Simon & Schuster 2006. 3 Barack Obama, I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e l’eredità, Nutrimenti, Roma 2007 (ed. or. Dreams of my Father: a Story of Race and Inheritance, New York 2006); David Remnick, The Bridge: the Life and Rise of Barack Obama, New York, Knopf 2010. 4 Il testo della risoluzione 114 (To authorize the use of United States Armed Forces against Iraq) si trova all’http://frwebgate.access.gpo.gov/cgi-bin/getdoc.cgi? dbname=107_cong_bills&docid=f:hj114enr.txt.pdf. Per una discussione sul voto e sull’importanza del fattore Iraq si veda Gary C. Jacobson, George W. Bush, The Iraq War, and the Election of Barack Obama, in «Presidential Studies Quarterly», giugno 2010, pp. 207-24. 5 Il discorso di Obama del 2 ottobre 2002 è consultabile all’http://usliberals. about.com/od/extraordinaryspeeches/a/Obama2002War.htm. 6 Gallup Poll, Majority Continues to Consider Iraq War a Mistake, 6 Febbraio 2008 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/104185/majority-continues-consider-iraq-war-mistake.aspx) e Gallup Poll, Iraq, Economy, Healthcare, Immigration Top Vote Issues, 10 Dicembre 2007 (consultabile all’http://www.gallup.com/ poll/103132/Iraq-Economy-Healthcare-Immigration-Top-Vote-Issues.aspx#2). 7 Citato in Robert J. Lieber, Staying Power and the American Future. Problems of Primacy, Policy and Grand Strategy, Relazione presentata al Convegno Annuale dell’American Political Science Association, 4 settembre 2010. 8 Timothy Garton Ash, I Saw Americans Dance With History, Chanting «Yes, We Can!» But Can They?, in «The Guardian», 6 novembre 2008; Anne Applebaum, An Election Goes Abroad, in «The Washington Post», 15 luglio 2008; Guido Moltedo e Marilisa Palumbo, Barack Obama. La rockstar della politica americana, Torino, UTET 2008. 9 Su questo si veda il classico Joseph S. Nye, Soft Power. The Means to Success in World Politics, Public Affairs, New York 2004. Una volta eletto presidente, Obama non ha mancato di sfruttare questo aspetto e di utilizzare la propria biografia e l’idea, appunto, di un’America-mondo capace naturalmente di entrare in empatia con altre culture, popoli e religioni. Emblematico a tale riguardo è stato il discorso pronunciato al Cairo nel giugno 2009: «sono cristiano – affermò allora Obama – ma mio padre viene da una famiglia keniana che include generazioni di mussulmani. Da ragazzo ho passato vari anni in Indonesia, ascoltando all’alba e al crepuscolo, l’azan [il richiamo alla preghiera, N.d.A.]. Da giovane ho lavorato nelle comunità di Chicago, dove molti sono riusciti a trovare dignità e pace nella loro fede mussulmana. Da studente di storia, conosco il debito che la civiltà ha nei confronti dell’Islam [...] l’Islam è sempre stato una parte della storia dell’America». Il testo del discorso è consultabile all’http://www.whitehouse.gov/the_press_office/Remarksby-the-President-at-Cairo-University-6-04-09/. Sulla necessità di una nuova apertura al mondo mussulmano si veda Juan Cole, Engaging the Muslim World, New York, Palgrave 2009. Sulla natura transnazionale e post-razziale della figura di Obama si veda Georgiana Banita, «Home Squared»: Barack Obama’s Transnational Self-Reliance, in «Biography», 1, 2010, pp. 25-45. 10 Al momento della sua elezione, Obama era anche il solo afroamericano pre-

544

Note

sente al Senato. L’unico presidente post-1960 che non proveniva dalla Sunbelt, Gerald Ford (repubblicano del Michigan), non era stato eletto, ma aveva sostituito Nixon dopo le dimissioni di quest’ultimo. 11 John Kenneth White, Barack Obama’s America: How New Conceptions of Race, Family, and Religion Ended the Reagan Era, Ann Arbor, University of Michigan Press 2009, p. 185; Sean Wilentz, The Age of Reagan. A History, 1974-2008, New York, HarperCollins 2008. Per un dibattito sulle elezioni del 2008 si veda Erik Jones e Salvatore Vassallo (a cura di), L’America di Obama. Le elezioni del 2008 e le implicazioni per l’Europa, Bologna, Il Mulino 2009. 12 Su questo si veda ad esempio il manifesto elettorale del candidato Obama pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs» alla vigilia delle primarie. Barack Obama, Renewing American Leadership, in «Foreign Affairs», luglio/agosto 2007 (consultabile all’http://www.jmhinternational.com/news/news/selectednews/files/2007/2007080 1_20070701_ForeignAffairs_RenewingAmericanLeadership_ByBarackObama.pdf). Sul pragmatismo di Obama si vedano James T. Kloppenberg, Reading Obama: Dreams, Hope, and the American Political Tradition, Princeton, Princeton University Press 2010 e Anders Stephanson, Obama’s Pragmatic Break with ‘Americanism’, paper non pubblicato (cortesia dell’autore). 13 Gallup Poll, In U.S. New High of 43% Call Afghanistan War a «Mistake», 3 agosto 2010 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/141716/New-HighCall-Afghanistan-War-Mistake.aspx); CNN and Opinion Research Corporation, What the Numbers Say About Progress in Afghanistan, 15 Ottobre 2010 (consultabile all’http://politicalticker.blogs.cnn.com/2010/10/15/what-the-numbers-sayabout-progress-in-afghanistan/). Per alcuni esempi di comparazione tra l’Afghanistan e il Vietnam si vedano John Barry, Evan Thomas, Obama’s Vietnam, in «Newsweek», 31 gennaio 2009; Bob Woodward, Gordon M. Goldstein, The Anguish of Decision As Obama grapples with Afghanistan, the final interviews with Robert McNamara and McGeorge Bundy offer the lessons of Vietnam, in «Washington Post», 18 Ottobre 2009; Gene Healy, Afghanistan May Be Obama’s Vietnam, in «The Washington Examiner», 1° settembre 2009. 14 Scelte, queste, che hanno aperto una discussione, invero piuttosto sterile, sulla continuità tra la politica estera del secondo mandato di Bush e quella di Obama. Per un esempio, Inderjeet Parmar, Plus Ça Change? American Foreign Policy Under Obama, «Political Insight», 1, aprile 2010, pp. 14-17. 15 Il discorso è consultabile all’http://www.nytimes.com/2009/01/20/us/politics/20text-obama.html. 16 Remarks by President Obama, Praga, 5 aprile 2009 (consultabile all’http://www.whitehouse.gov/the-press-office/remarks-president-barack-obamaprague-delivered). 17 John Bolton, New Start is Unilateral Disarmament, in «The Wall Street Journal», 8 settembre 2010; Id., A Fast Way to Lose the Arms Race, in «The New York Times», 25 maggio 2009. Una convincente difesa della politica nucleare di Obama è offerta da Joseph Cirincione, Taking the Field: Obama’s Nuclear Reforms, in «Survival», 2, aprile-maggio 2010, pp. 105-16. 18 Jonathan Kirshner, Dollar Primacy and American Power. What’s at Stake?, in «Review of International Political Economy», 3, agosto 2008, p. 424. Per alcuni dati sul debito statunitense si veda Bureau of the Public Debt, (http://www.publicdebt.treas.gov/). Si vedano inoltre Charles Maier, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge, Harvard University Press 2006; Id.,

Note al capitolo XII

545

Beyond Statecraft, in Melvin Leffler, Jeff W. Legro (a cura di), To Lead the World. American Strategy After the Bush Doctrine, Oxford, Oxford University Press 2008, pp. 60-84; Giovanni Arrighi, The World Economy and the Cold War, 1970-1990, in Odd Arne Westad, Melvin Leffler (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, vol. III, Endings, Cambridge, Cambridge University Press 2010, pp. 23-43; Michael Mastanduno, System Maker and Privilege Taker. U.S. Power and International Political Economy, in «World Politics», 1, gennaio 2009, pp. 121-54. 19 Paul Kennedy, Don’t Surrender U.S. Influence to Beijing, in «International Herald Tribune», 29 settembre 2010. Si vedano inoltre molti dei contributi in Eric Helleiner, Jonathan Kirshner (a cura di), The Future of the Dollar, Ithaca, Cornell University Press 2009; Michael Mastanduno, System Maker, Privilege Taker, cit. e David P. Calleo, Do Economic Trends Unite or Divide the Two Sides of the Atlantic? in Leffler, Legro, To Lead the World, cit., pp. 182-209. 20 Paul Kennedy, The Greatest Superpower Ever, in «New Perspectives Quarterly», 2, primavera 2002, p. 12. Si vedano inoltre Robert L. Paarlberg, Knowledge As Power Science, Military Dominance, and U.S. Security, in «International Security», 1, estate 2004, pp. 122-51; Barry R. Posen, Command of the Commons: the Military Foundations of U.S. Hegemony, in «International Security», 1, estate 2003, pp. 5-46. Jack S. Levy, William P. Thompson, Balancing on Land and at Sea: Do States Ally against the Leading Global Power?, in «International Security», 1, estate 2010, pp. 7-43. Per alcuni dati aggiornati sulle spese militari si veda The SIPRI Military Expenditure Database (http://milexdata.sipri.org/). 21 Su questo si vedano le precise riflessioni di Stefano Ruzza, Chi combatterà le guerre del futuro? L’avvento delle private military firms, in «Biblioteca della Libertà», 188, luglio-settembre 2007, pp. 19-44. Cfr. inoltre Peter W. Singer, Corporate Warriors: the Rise of the Privatized Military Industry, Ithaca, Cornell University Press 2003. 22 Su questo si vedano le riflessioni di Federico Romero, Storia della Guerra Fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi 2009; G. John Ikenberry, After Victory. Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of Order After Major Wars, Princeton, Princeton University Press 2001; Charles Maier, Alliance and Autonomy: European Identity and U.S. Foreign Policy Objectives in the Truman Years, in Michael J. Lacey (a cura di), The Truman Presidency, Cambridge, Cambridge University Press 1989, pp. 273-98. 23 Bolton citato da Frances Fitzgerald, George Bush and the World, in «The New York Review of Books», 26 settembre 2002 e in Michael Mann, Incoherent Empire, Londra, Verso 2003, p. 3. 24 Federico Romero, The Twilight Of American Cultural Hegemony. A Historical Perspective On Western Europe’s Distancing From America, in David Farber (a cura di), What They Think of Us. International Perceptions of the United States since 9\11, Princeton, Princeton University Press, 2007 pp. 153-76; Rob Kroes, European Anti-Americanism: What’s New?, in «Journal of American History», 2, settembre 2006, pp. 417-31. 25 Gallup Poll, American Oppose Closing Gitmo and Moving Prisoners to the U.S., 16 dicembre 2009 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/124727/americansoppose-closing-gitmo-moving-prisoners.aspx); Gallup Poll, Slim Majority Wants Bush-Era Interrogations Investigated, 27 aprile 2009 (consultabile all’http://www.gallup.com/poll/118006/slim-majority-wants-bush-era-interrogations-investigated.aspx). 26 Per alcuni dati sulle vittime civili si veda Afghanistan Conflict Monitor – Hu-

546

Note

man Security Report Project, United Nations, http://www.afghanconflictmonitor.org/civilian.html; sulle vittime tra i soldati statunitensi si vedano i dati disponibili all’ http://icasualties.org/ e a Brookings Institution, Index: Tracking Progress and Security in Post-9/11 Afghanistan, 19 ottobre 2010 (consultabile all’http://www.brookings.edu/foreign-policy/afghanistan-index.aspx). Sui limiti e le contraddizioni della nuova dottrina di counter-insurgency si vedano David Hunt, Dirty Wars: Counterinsurgency in Vietnam and Today, in «Politics and Society», 1, marzo 2010, pp. 35-66 e Marilyn Young, Counterinsurgency, Now and Forever, in Lloyd Gardner, Marilyn Young (a cura di), Iraq and the Lessons of Vietnam, New York, The New Press 2007, pp. 216-29. Approvato alla fine del 2006, il nuovo manuale contro-insurrezionale delle forze armate statunitensi, dal titolo Counterinsurgency, è consultabile all’http://www.fas.org/irp/doddir/army/fm3-24.pdf. 27 Sulle discussioni che portarono infine alla decisione di aumentare il numero di soldati dispiegati in Afghanistan si veda l’informatissimo Bob Woodward, Obama’s Wars, New York, Simon & Schuster 2010. 28 Citato da Daniel W. Drezner, Bad Debts. Assessing China’s Financial Influence in Great Power Politics, in «International Security», 2, Fall 2009 , p. 8; Christopher Layne, The Waning of U.S. Hegemony. Myth or Reality?, in «International Security», 1, estate 2009, pp. 147-72; Barry Eichengreen, Charles Wyplosz, Yung Chul Park (a cura di), China, Asia, and the New World Economy, Oxford, Oxford University Press 2008; Niall Ferguson, The Ascent of Money. A Financial History of the World, New York, Penguin 2008, pp. 333-37. 29 Martin Jacques, When China Rules the World: the Rise of the Middle Kingdom and the End of the Western World, New York, Penguin 2009; Jha Prem Shankar, Crouching Dragon, Hidden Tiger: Can China and India Dominate the West?, New York, Soft Skull Press 2010, e le condivisibili considerazioni in Perry Anderson, Sinomania, in «The London Review of Books», 28 gennaio 2010. 30 Daniel W. Drezner, Bad Debts, cit., p. 10; Hung Ho-Fung, America’s Head Servant. The PRC’s Dilemma in the Global Crisis, in «The New Left Review», 60, novembre-dicembre 2009, pp. 5-25. Sul potenziale militare cinese si vedano le ultima stime del SIPRI all’http://www.sipri.org/research/armaments/nbc/nuclear/. 31 Cfr. le riflessioni, nondimeno interessanti, di Niall Ferguson, The Ascent of Money, cit. e Niall Ferguson, Moritz Schularik, Chimerica and the Global Asset Market Boom, in «International Finance», 3, inverno 2007, pp. 215-39. 32 Per alcuni dati sugli scambi commerciali tra Cina e Stati Uniti si veda U.S. Census Bureau, Foreign Trade Statistics, consultabile all’http://www.census. gov/foreign-trade/balance/c5700.html#2010.

CARTINE

(Russia)

America russa

(Spagna) (acquistata nel 1803)

Colonia della Louisiana

1. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1789.

(non in scala)

Isole Hawaii

(Spagna)

Vicereame della Nuova Spagna

Territorio non rivendicato

Rupert’s Land (Regno Unito)

(Spagna)

Conteso tra Stati Uniti e Florida occidentale

Florida orientale

Stati Territori Altre regioni Aree contese

Maryland

(Spagna)

South Carolina

North Carolina

Virginia

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Florida occidentale

Georgia

Territorio non organizzato

New York Pennsylvania

Triangolo dell’Erie

Conteso fra Massachusetts e la colonia di New Brunswick (Regno Unito) New Hampshire Riserva occidentale del Repubblica Connecticut del Vermont

Territorio non organizzato

Conteso fra Stati Uniti e Rupert’s Land (Regno Unito)

Cartine

549

Oregon

America russa (Russia)

Missouri Kentucky

Alabama

Tennessee

Virginia

D.C.

Georgia

South Carolina

Stati Territori Altre regioni D.C. = District of Columbia Aree contese

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

Territorio della Florida

Pennsylvania

New York

Vermont

New Hampshire

North Carolina

Territorio del Michigan

Conteso fra Maine e la colonia di New Brunswick (Regno Unito)

Illinois Indiana Ohio

Louisiana

Territorio dell’Arkansas

Territorio non organizzato

2. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1824.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

Messico

(Territorio non organizzato in comune con il Regno Unito)

Conteso fra Territorio del Michigan e Rupert’s Land (Regno Unito)

Mis sis sip pi

Rupert’s Land (Regno Unito)

550 Cartine

America russa (Russia)

Texas

Territorio non organizzato

3. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1846.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

Messico

(Territorio non organizzato in comune con il Regno Unito)

Oregon

Arkansas

Missouri

Louisiana

Alabama

Tennessee

Virginia

D.C.

Pennsylvania

New York

Vermont

Florida

South Carolina

North Carolina

Georgia

Kentucky

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Territorio Territorio del Wisconsin dell’Iowa

Mis sis sip pi

New Hampshire

Stati Territori Altre regioni D.C. = District of Columbia

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

Cartine

551

(Russia)

America russa

Texas

4. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1848.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

Messico

Cessione messicana (Territorio non organizzato)

Territorio non organizzato

Louisiana

Alabama

Tennessee

Virginia

D.C.

Pennsylvania

New York

Vermont

Florida

South Carolina

North Carolina

Georgia

Kentucky

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Arkansas

Missouri

Iowa

Territorio del Wisconsin

i Mis sis sip p

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

Stati Territori Altre regioni D.C. = District of Columbia

Maryland

New Hampshire

552 Cartine

(Russia)

America russa

Territorio del Nuovo Messico

Texas

Fascia neutrale

Territorio non organizzato

5. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1854.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

California

Territorio dello Utah

Territorio dell’Oregon

Arkansas

Louisiana

Alabama

Tennessee

Virginia

D.C.

Pennsylvania

New York

Vermont

New Hampshire

Florida

South Carolina

North Carolina

Georgia

Kentucky

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Wisconsin

Missouri

Iowa

Territorio del Minnesota

Mis sis sip pi

Territorio di Washington

Stati Territori Altre regioni D.C. = District of Columbia Aree contese

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

Cartine

553

(Russia)

America russa

(CSA) (organizzato nel 1862)

Territorio dell’Arizona

(non organizzato) Arkansas (CSA)

Territorio indiano

(rivendicato da CSA)

Texas

(contesa tra Texas e Territorio indiano)

Louisiana

Alabama

Tennessee

Virginia

D.C.

Pennsylvania

New York

Vermont

New Hampshire

Florida

South Carolina

North Carolina

Georgia

(rivendicato da CSA)

Kentucky

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Wisconsin

Missouri

Iowa

Minnesota

Kansas Fascia neutrale

Contea di Greer

Territorio del Colorado

Territorio del Nuovo Messico

Territorio dello Utah

Territorio del Nebraska

Territorio del Dakota

6. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1862.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

California

Territorio del Nevada

Oregon

Mis sis sip pi

Territorio di Washington

Stati Territori Altre regioni D.C. = District of Columbia Aree contese Confederazione (CSA = Stati Confederati d’America)

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

554 Cartine

Dipartimento dell’Alaska

Territorio dell’Arizona

Territorio del Nuovo Messico (non organizzato) Arkansas

Territorio indiano

(rivendicato da CSA)

Texas

(contesa tra Texas e Territorio indiano)

Louisiana

Alabama

Tennessee

Florida

South Carolina

North Carolina

Georgia

(rivendicato da CSA)

Kentucky

Pennsylvania

New York

Vermont

New Hampshire

West D.C. Virginia Virginia

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Wisconsin

Missouri

Iowa

Minnesota

Kansas Fascia neutrale

Nebraska

Contea di Greer

Territorio del Colorado

Territorio del Wyoming

Territorio dello Utah

Territorio dell’Idaho

Territorio del Dakota

7. Stati e territori degli Stati Uniti d’America, 1868.

(non in scala)

Regno delle Hawaii

California

Nevada

Oregon

Territorio del Montana

Mis sis sip pi

Territorio di Washington

D.C. = District of Columbia Aree contese

Stati Territori Altre regioni

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

Cartine

555

Utah

Alaska

Arizona

Idaho

8. Gli Stati Uniti d’America oggi.

(non in scala)

Hawaii

California

Nevada

Oregon

Nuovo Messico

Colorado

Wyoming

Montana

Texas

Arkansas

Louisiana Florida

South Carolina

North Carolina

Alabama Georgia

Tennessee

Kentucky

Pennsylvania

New York

Vermont

New Hampshire

West D.C. Virginia Virginia

Ohio

Michigan

Illinois Indiana

Wisconsin

Missouri

Iowa

Minnesota

Oklahoma

Kansas

Nebraska

South Dakota

North Dakota

Mis sis sip pi

Washington

D.C. = District of Columbia

Maryland

Rhode Island Connecticut New Jersey Delaware

Massachusetts

Maine

556 Cartine

INDICI

INDICE DEI NOMI Aberdeen, George Hamilton-Gordon, Lord, IV conte di, 135. Acheson, Dean, 294-96, 306, 335, 513-16, 524. Adams, Brooks, 174, 492. Adams, Charles, 478. Adams, Charles Francis, 154, 457. Adams, Henry, 153-54, 488. Adams, John, 7, 11-14, 16-18, 22, 2527, 51, 66, 68, 70-76, 82, 456, 458, 461, 466. Adams, John Quincy, 88-89, 103, 105-107, 109-113, 118, 124, 128, 131, 135, 139, 153, 297, 474, 47880, 483-84, 486, 492. Adams, Thomas, 478. Adas, Michael, 486, 519, 522, 525, 532. Adelman, Jeremy, 464. Anderson, Perry, 546. Adet, Pierre, 66, 470. Adler, Les, 514. Agnew, Spiro, 529. Aguinaldo, Emiliano, 180. Aidid, Mohamed Farrah, 410. Albert, Peter J., 460-61. Albright, Madeleine K., 411, 414-15, 426, 539, 542. Alessandri, Emiliano, XIII, 535. Alessandro I, zar di Russia, 108-109. Allin, Dana H., 527, 529. Almond, Gabriel, 316, 519. Alpers, Benjamin L., 514. Amann, Diane Marie, 540.

Amanpour, Christiane, 414, 538. Ambrister, Robert, 104. Ambrose, Stephen E., 515-16. Ambrosius, Lloyd, 497-98, 501. Ameringer, Charles D., 494. Ammon, Harry, 479. Amos, Alcione M., 478. Anderson, Gary Clayton, 477, 483. Anderson, John, 378. Anderson, Perry, 540. Anderson, Stuart, 488. Anderson, William L., 481. Andrew, Christopher, 532. Andrew, John A., 525. Andrianopoulos, Argyris G., 528. Andropov, Jurij, 392. Applebaum, Anne E., 438, 543. Appleby, Joyce, 464. Arbenz Guzmán, Jacobo, 311. Arbuthnot, Alexander, 104. Aristide, Jean-Bertrand, 409-10. Armitage, David, 459. Armitage, Richard Lee, 426. Arnold, Benedict, 25. Aron, Raymond, 507. Aron, Stephen, 464, 489. Arrighi, Giovanni, 529, 545. Asada, Sadao, 502. Ash, Timothy Garton, 438, 543. Ashcroft, John David, 426. Aspin, Les, 411-12. Atkinson, Edward F., 163. Attlee, Clement, 272. Aulick, John, 142-43.

560 Baber, Zaheel, 519. Bacevich, Andrew J., 455, 537-40, 542. Bailey, Thomas A., 469, 471, 492. Bailyn, Bernard, 37, 458, 463. Bairoch, Paul, 62, 469. Baker, James, 403, 405, 536. Baldissara, Luca, 495. Ball, George, 336. Ball, Terence, 460. Banita, Georgiana, 543. Banner, Stuart, 465. Banning, Lance, 466. Barclay, David E., 508. Baritono, Raffaella, XIII. Barry, John A., 544. Bar-Siman-Tov, Yaacov, 529. Basosi, Duccio, 510, 513. Batista, Fulgencio, 321, 333. Beaumont, Roger, 507. Beck, Robert J., 532. Becker, William H., 467, 474. Beckwith, George, 53. Beethoven, Ludwig van, 209. Begin, Monachem, 371. Beisner, Robert, 490, 492-93. Bekes, Csaba, 517-518. Belohlavek, John M., 458, 473, 486. Bemis, Samuel Flagg, 67, 458, 460-61, 469-70, 478-79. Ben-Atar, Doron S., 471, 475. Bender, Thomas, 455. Benjamin, Jules R., 523. Benn, Carl, 476. Benson, Nettie Lee, 483. Berger, Mark T., 525. Bergerud, Eric, 522. Berggren, D. Jason, 529-30. Berkowitz, Edward D., 529. Berman, Larry, 528. Berman, William C., 526. Bernkopf Tucker, Nancy, 526. Bernstein, George L., 488. Betancourt, Romulo, 322. Beveridge, Albert, 179, 493. Bhagwati, Jagdish, 539. Bhutto, Zulfikar Ali, 383.

Indice dei nomi

Biden, Joseph R. detto Joe, 437, 449. Bin Laden, Osama, 427-28. Bischof, Günter, 511, 513. Bishop, Maurice, 383. Black, Jason Edward, 481. Blackett, Richard J.M., 488. Blair, Tony, 415. Blaufarb, Douglas S., 522. Blight, James G., 523. Blum, John Morton, 507, 509. Blumenthal, Henry, 489. Boehner, John, 443. Bohning, Don, 523. Bohri, Lazlo, 516. Bolton, John, 447, 540, 544. Bonazzi, Tiziano, XIII, 17, 20, 457-60, 488. Boot, Max, 541. Borah, William, 220-21, 236, 501. Bordo, Michael D., 508. Borgwardt, Elizabeth, 507-509. Bouvier, Virginia M., 490-91, 521. Bowie, Robert R., 517. Bowman, Albert H., 468. Boyer, Paul, 524, 533. Boyle, T., 490. Boxer, Barbara L., 437. Bozo, Frédéric, 536. Brack, Gene M., 483. Bradley, Mark, 522. Brady, David W., 538. Brahms, Johannes, 209. Brandagee, Frank, 223, 500. Brands, Henry William Jr., 517. Brandt, Willy, 350. Brant, Irving, 467. Braund, Kathryn E. Holland, 478. Breckinridge, John, 86, 148, 473. Brenner, Michael J., 536. Breyer, Stephen, 481. Brežnev, Leonid Il’icˇ, 392. Bric, Maurice J., 471. Brigham, Robert, 522. Brinkley, Douglas, 506-507, 520, 533. Brody, Richard A., 533. Brogi, Alessandro, 512-13.

Indice dei nomi

Brook, Timothy, 485. Brookhisser, Richard, 466. Brougham, H.B., 198. Brown, Archie, 534. Brown, Carolyn T., XIII. Brown, Roger Hamilton, 476. Brown, William O., 488. Browne, Stephen Howard, 471. Brownee, W. Elliot, 532-33. Brückner, Martin, 463. Brune, Lester H., 515. Bryan, William Jennings, 175, 199, 201. Brzezinski, Zbigniew, 369-71, 373-74, 377, 530-31. Buchanan, James, 128, 484. Buckley, William, 390. Bukovansky, Mlada, 458, 468. Bullit, William, 222, 500. Bunau-Vanilla, Philippe, 493. Bundy, McGeorge, 320, 517-18, 520, 524. Bundy, William, 527-28. Burdekin, Richard C.K., 489. Burk, Kathleen, 512. Burnham, James, 516. Burr, Aaron, 51, 77. Burton, David H., 492. Busch, Andrew E., 531. Bush, George H.W., 401-407, 410, 412-13, 415, 420, 537. Bush, George W. Jr., 423-27, 429-33, 435-36, 438-39, 441-43, 447, 478, 544. Butow, Robert J.C., 506. Buzzanco, Robert, 522, 525. Byrd, Robert, 411, 437. Calhoun, John, 104-105, 119, 130, 132-33, 149, 482, 484-85, 496. Callahan, David, 515. Calleo, David P., 545. Cameron, Maxwell A., 537. Cammarano, Fulvio, XIII. Campbell, David, 514, 526. Campbell, John P., 495-96.

561 Candeloro, Giorgio, 482. Canning, George, 110-11. Cantrell, Gregg, 483. Capozzola, Christopher, 498. Carey, Brycchan, 484. Carnegie, Andrew, 162-63, 179, 192. Carpenter, Ted Galen, 539. Carr, Edward Hallett, 497, 501. Carr, James A., 476. Carter, James Earl, detto Jimmy, 36778, 380, 383, 388, 414, 529-31. Carville, James, 408. Case, Lynn, 488. Casey, Steven, 515. Casey, William, 391. Cassels, Alan, 503. Castelreagh, Robert Stewart, Lord, 105. Castro, Fidel, 322-23, 332-33, 335, 523. Castro Martínez, Pedro F., 484. Cathcart, James, 32, 462. Catton, Philip E., 522. Cave, Alfred A., 481. Çédras, Raoul, 426. Cˇernenko, Konstantin, 392. Cesa, Marco, XIII. Chace, James, 542. Chafee, Lincoln D., 437. Challener, Richard D., 504. Chandler, David, 539. Channing, William Ellery, 127, 484. Charmley, John, 506. Chatfield, Charles, 502. Cheney, Richard Bruce, 426. Chernoff, Fred, 533. Chernow, Ron, 466. Child, Lydia Maria, 127. Chimni, Bhupinder S., 533. Chomsky, Noam, 524, 540. Christensen, Thomas J., 541. Christopher, Warren, 411-12, 420, 540. Chrušcˇëv, Nikita, 322, 334, 336, 338, 523-24. Church, Frank, 523.

562 Churchill, Winston, 257-58, 261-62, 266-69, 272, 285, 505, 507. Cirincione, Joseph, 544. Citino, Nathan J., 481. Claeys, George, 456. Clarke, Jonathan, 541. Claudel, Paul, 243, 503. Clay, Henry, 93, 108-109, 115, 479-80. Clayton, Andrew R.L., 481. Clements, Kendrick A., 502. Cleveland, Grover, 165-67. Clinton, George, 469. Clinton, Hillary R., 437, 441. Clinton, William Jefferson, detto Bill, 400, 407-16, 420-26, 433, 440, 445, 537, 539-41. Cobbs Hoffman, Elizabeth, 521. Codevilla, Angelo, 534. Coe, Kevin, 506. Coffman, Edward M., 498. Cogan, John F., 538. Cogliano, Francis D., 468. Cohen, Paul A., 492. Cohen, Warren I., 495, 526. Cohrs, Patrick O., 503. Cole, John R., detto Juan, 543. Cole, Wayne S., 504. Coll, Steve, 532. Colley, Linda, 455. Collin, Richard H., 494. Collins, Robert, 530-32, 534. Combs, Jerald A., 469. Conn, Steven, 465. Connelly, Matthew, 518. Connery, Christopher L., 490. Conway, Stephen, 460. Coogan, John W., 496. Coolidge, Calvin, 233, 238-39, 241. Cooper, John Milton Jr., 496, 499501, 503. Corwin, Edward, 462. Costigliola, Frank C., 502-503, 526. Cox, James, 226. Cox, Michael, 455-56, 509, 512, 53536, 538, 540-42. Crackel, Theodore J., 471.

Indice dei nomi

Craig, Campbell, 501, 505. Craig, Gordon A., 528. Crawford, William, 105, 480. Cray, Robert E. Jr., 474. Creel, George, 208. Crockatt, Richard, 501. Crockett, David, 126-27. Crozier, Andrew J., 499. Cullather, Nick, 488, 517-519. Cumings, Bruce, 492, 515, 538. Cummins, Lejeune, 491. Cunningham, Noble E., 479. Cushing, Caleb, 138-39, 486. Cusick, James G., 475. Cutler, Leonard, 542. Czolgosz, Leon, 175. Daalder, Ivo H., 539, 541. Dabashi, Hamid, 531. Dahl, Robert A., 463. Dallek, Robert, 504-507, 520. Danner, Mark, 539. D’Attorre, Pier Paolo, 512. Daum, Andreas W., 526. David, Charles-Philippe, 536. Davie, William Richardson, 76. Davis, David Brion, 468, 473. Dawes, Charles G., 239-41. Dayer, Roberta A., 497. Dean, Robert, 524. DeBenedetti, Charles, 501. De Bernardi, Alberto, 514. Debs, Eugene Victor, 209, 498, 519. DeConde, Alexander, 470, 472-73, 496. Deere, Carmen Diana, 491. De Gasperi, Alcide, 304, 515. De Gaulle, Charles, 350. De Grazia, Victoria, 503, 509, 513, 529. Deibel, Terry L., 536. Delacroix, Charles, 66, 470. Del Pero, Mario, 501, 513-14, 517, 533, 536. Devlin, Patrick, 496. Dickinson, John, 12, 17, 29, 459.

Indice dei nomi

Diemert, Brian, 511. Diggins, John Patrick, 530-34. Dillon, Douglas, 323, 520-21. Di Nolfo, Ennio, 518. Dior, Christian, 308. Dittmer, Lowell, 540. Dobrynin, Anatolij, 336, 524. Dockrill, Saki, 517. Doenecke, Justus D., 504-505. Dole, Robert Joseph, detto Bob, 414. Dorchester, Guy Carleton, Lord, 53. Douglas, Stephen, 148. Downs, Jacques M., 485. Drake, James D., 463. Draper, Theodore V., 533. Drezner, Daniel W., 450, 546. Drinnon, Richard, 479. Duane, William, 74. Dueck, Colin, 494. Dull, Jonathan R., 460-61. Dulles, Allen, 311. Dulles, Foster Rhea, 508. Dulles, John Foster, 308-11, 314, 318, 322, 516, 520. Dumbrell, John, 530. DuVal, Kathleen, 477. Dyer, Thomas G., 493. Eagleburger, Lawrence, 404. Ebo, Bosah, 537. Edmonson, C. Earl, 510. Edmunds, Russell David, 477. Edwards, Johnny R., detto John, 437. Egerton, George W., 499. Egnal, Marc, 463. Ehrman, John, 527, 529, 531, 533-34. Eichengreen, Barry, 503, 508, 546. Eisenberg, Carolyn, 511. Eisendrath, Craig, 541. Eisenhower, Dwight D., 304, 307-12, 314-16, 318, 320-24, 328, 515, 51718, 520. Ekbladh, David, 525. Elbe, Frank, 536. Elkins, Stanley, 6, 76, 456-57, 461-62, 467-71, 475.

563 Ellis, Joseph, 459-60, 462-63, 465, 46871, 473. Ellis, Markman, 484. Ellsworth, Oliver, 33, 76, 462. Ellwood, David, XIII, 502-503, 512, 519. Emerson, Ralph Waldo, 519. Endy, Christopher, 503. Engerman, David C., 519. Engerman, Stanley L., 469. English, Robert D., 534. Ericson, David F., 482. Erving, George, 106. Estes, Todd, 469-70. Esthus, Raymond A., 492. Evangelista, Matthew, 534. Ewan, Christopher, 488. Eyre, James K. Jr., 493. Fabbrini, Sergio, 462, 542. Facey-Crowther, David R., 506. Fairbank, John King, 458, 485. Farber, David, 531, 545. Farber, Samuel, 523. Farer, Tom, 543. Fasce, Ferdinando, XIII, 462, 498. Fay, Peter, 140, 486. Fehrenbacher, Don E., 487. Feldman, Stanley, 533. Ferguson, Niall, 455, 541, 546. Ferguson, Robert A., 456-57. Ferling, John, 457, 459, 461. Ferrari, Paolo, 514. Ferrel, Robert H., 504. Ferris, Norman B., 488. Fetter, Steve, 541. Field, James A. Jr., 467, 474. Fillmore, Millard, 142-43. Finlan, Alastair, 537. Fiol-Matta, Licia, 491. Fischer, Beth A., 393, 533-34. Fischer, Stanley, 540. Fisher, Christopher T., 525. Fitzgerald, Frances, 529, 531-34, 545. Fitzsimons, David M., 456-57, 461. Fladeland, Betty, 484.

564 Flanagan, Jason C., 497. Flynn, Dennis O., 485. Fodor, Giorgio, 512. Foglesong, David S., 498. Foner, Eric, 36, 456, 460, 463, 471, 498, 505-506, 525. Foner, Philip S., 490. Ford, Gerald, 366-67, 378, 388, 529, 544. Ford, Lacy K. Jr., 487. Formigoni, Guido, 515. Frahm, Sally, 484. Frankel, Jeffrey A., 474. Frankel, Matthew Cordova, 465. Franklin, Benjamin, 12, 16, 23, 25, 27, 31, 460-61. Frazier, Robert, 513. Freedman, Lawrence, 520. Freehling, William W., 482-83. Fried, Richard M., 516. Friedberg, Aaron L., 516. Friedman, Thomas, 420, 540. Frondizi, Arturo, 326. Fry, Joseph, 491. Fukuyama, Francis, 535. Fulbright, William, 353, 527. Fursenko, Aleksandr, 523. Fusfeld, Daniel R., 515. Gaddis, John Lewis, 455, 479, 492, 498, 507, 510, 514-15, 517-18, 523, 525, 528, 535, 539, 541. Gagnon, Joshua, 481. Gaiduk, Ilya V., 522. Gaines, Brian J., 538. Gaines, Edmund P., 103. Gallatin, Albert, 85. Galli, Carlo, 488. Gallman, Robert E., 469. Gardner, Lloyd C., 456, 497, 525-26, 546. Gardner, Richard N., 508. Garner, James Wilford, 504. Garrity, Patrick J., 470. Garthoff, Raymond L., 523, 527-29, 532, 533-34.

Indice dei nomi

Gassert, Philipp, 503. Gates, Robert, 435, 441. Gavin, Francis, 526. Gedmin, Jeffrey, 541. Gendzier, Irene, 519. Gênet, Edmond-Charles, 61-62, 46869. George, Alice L., 524. Gerry, Elbridge, 71-72. Gerstle, Gary, 490-91, 493. Giachino, Enzo, 519. Gibson, Hugh, 237, 502. Gienapp, William E., 487. Giglio, James N., 520. Gilbert, Arthur N., 466. Gilbert, Felix, 12, 456-58, 460, 463, 470. Gilbert, Mark, XIII. Gilbert, Seymour Parker, 240. Gilboa, Eytan, 538. Gilderhus, Mark T., 480, 495, 501. Gillingham, John R., 513. Gilman, Nils, 519-21. Giráldez, Arturo, 485. Girling, John L.S., 528. Gitlin, Jay, 477, 480-81. Gitlin, Todd, 527. Gladstone, William, 153-54, 488. Glaser, Charles L., 541. Glaser Schmidt, Elisabeth, 503. Gleason, Abbot, 514. Gleijeses, Piero, 484. Glover, Jonathan, 496. Goh, Evelyn, 528. Goldenberg, Bonnie, 490. Goldgeier, James M., 539. Goldmann, Kjell, 534. Goldstein, Erik, 502. Goldstein, Gordon M., 544. Goldwater, Barry, 390. Gompers, Samuel, 179. Gonzalez, Jorge G., 537. Goodman, Melvin A., 541. Goodnight, G. Thomas, 532. Goodwin, Craufurd D., 503.

Indice dei nomi

Gorbacˇëv, Michail, 389, 392-96, 402403, 534. Gordin, Michael D., 508. Gordon, Lincoln, 323, 520. Gore, Al Jr., 408, 412, 421, 426. Gore, Al Sr., 353. Gosse, Van, 507. Goulart, Joâo, 327. Gould, Eliga, 451, 455. Gould-Davies, Nigel, 509. Gourevitch, Philip, 522. Graebner, Norman A., 462, 472, 47475, 478, 480, 483-85, 488. Graham, Hugh Davis, 532-33. Grandin, Greg, 520-21. Grant, Susan-Mary, 467. Green, Duff, 129, 484. Greene, Graham, 328. Greenstein, Fred I., 534. Gries, Peter Hays, 525. Griffiths, David M., 458. Griffiths, Richard T., 504. Grose, Peter, 517, 523. Gross Stein, Janice, 520. Gualtieri, Roberto, XIII. Guglielmo II, Kaiser, 213. Guinsburg, Thomas N., 502. Guolo, Renzo, 515. Haefele, Mark H., 519. Haig, Alexander Jr., 382. Haight, John McV. Jr., 504. Halberstam, David, 320, 331, 520, 536, 538. Halper, Stefan, 541. Hamand, Wendy F., 488. Hamilton, Alexander, 41, 49-53, 56, 58-59, 61, 65, 73, 75, 77, 79, 463, 466-69, 472. Hamilton, Richard F., 491. Hammond, Harry, 468. Hammond, Jesse, 150, 488. Hanhimäki, Jussi M., 511, 527-28, 537. Hantman, Jeffrey L, 477. Harbutt, Fraser, 512. Hardin, Stephen L., 484.

565 Harding, William, 222, 226, 233, 23839, 500, 505. Harper, John Lamberton, 51, 272, 461-62, 466-71, 504, 507-509, 511, 514. Harrington, Fred Harvey, 490. Harris, Paul, 485. Harrison, Benjamin, 12. Harrison, William Henry, 100, 477. Hartman, Andrew, 531. Hattaway, Herman, 487. Hatzenbuehler, Ronald L., 475. Hay, John, 168, 172-74, 191, 383. Hayes, Andrew W., 533. Haynes, Sam W., 483. Heale, Michael, 526. Healy, Gene, 544. Hearst, William Randolph, 166, 490. Heidler, David S., 476-78, 484. Heidler, Jeanne T., 476-78, 484. Heinrichs, Waldo, 506. Heiss, Mary Ann, 455, 517. Helbich, Wolfgang J., 500. Helleiner, Eric, 494-95, 545. Hellenbrand, Harold, 465, 477. Heller, Francis H., 513. Helms, Jesse, 423, 540. Helsing, Jeffrey W., 525. Hemings, Sally, 20. Hendrickson, David C., 456-59, 46164, 466, 469-70, 472-75, 541. Henkin, Louis, 35, 462. Henning, Joseph M., 487. Henson, Curtius T. Jr., 485. Hernon Joseph M. Jr., 488. Herrick, Myron, 237, 502. Herrigel, Gary, 512. Herring, George C., 522, 525, 528. Herrmann, Richard K., 536. Hess, Richard, 529, 531. Heureaux, Ulises, 184. Heyl, John D., 519. Hickey, Donald, 474-76. Hietala, Thomas, 483-85. Higginbotham, Don, 460. Hilton, Sylvia L., 491.

566 Himmelstein, Jerome L., 526. Hirsch, John L., 538. Hirschbein, Ron, 524. Hiss, Alger, 306, 516. Hitchcock, William I., 513. Hitler, Adolf, 250-51, 253, 261-62, 303. Hoar, George, 179. Hobsbawm, Eric J., 215, 499. Ho Chi Minh, 327-28. Hoffman, Ronald, 460-61. Hoffmann, Stanley, 527-28. Ho-Fung, Hung, 546. Hogan, Michael J., 487, 494, 497, 503, 508, 512, 514-16, 519, 535. Hoganson, Kristine, 490, 493. Holbo, Paul S., 489. Holbrooke, Richard C.A., 441. Holland, Caterine, 465. Holloway, David, 526. Holmes, James R., 494. Hoopes, Townsend, 507. Hoover, Herbert, 233, 240, 247-48, 503. Horn, Martin, 497. Horsman, Reginald, 457, 466, 473-74, 476-77, 480, 483. Hostetler, Michael J., 470. Houghton, David Patrick, 531. House, Edward, 200. Hull, Cordell, 259, 265. Hunt, David, 546. Hunt, Michael, 457, 465, 467-69, 471, 479, 493, 495, 522, 525. Hunt, Richard A., 522. Hunter, Allen, 536. Huntington, Samuel P., 326, 338-40, 345, 521, 524, 535. Hurst, Steven, 536. Hutcheson, Richard G. Jr., 530. Huston, James L., 487. Huston, Sam, 127. Hutson, James H., 457-59, 461. Hutton, Will, 540, 542. Hybel, Alex Roberto, 542. Ignatieff, Michael, 540.

Indice dei nomi

Ikenberry, John G., 508-509, 511-12, 536, 539, 542, 545. Immerman, Richard H., 517. Inbar, Efraim, 537. Ingimundarson, Valur, 538. Iriye, Akira, 235, 496, 498-99, 501503, 505-506. Isaacson, Walter, 461. Ish-Shalom, Piki, 520. Israel, Jerry, 496. Isserman, Maurice, 526-27. Ivie, Robert, 514. Jackson, Andrew, 97, 101-106, 11416, 118-20, 127, 130, 160, 204, 476, 478, 480-81, 484. Jackson, Donald, 472. Jackson, Henry, 364-65, 367, 373-74. Jackson, Patrick Thaddeus, 511, 513. Jackson, William D., 534. Jacobs, Seth, 522. Jacobson, David, 464-65. Jacobson, Gary C., 538, 543. Jacques, Martin, 546. Jaffa, Harry V., 487. James, William, 181, 493. Jay, John, 27, 30-31, 49, 51, 63-65, 7071, 76, 80, 463, 469. Jefferson, Thomas, IX, 5, 16, 18-21, 24, 36-38, 40-41, 43, 45-47, 50, 5356, 58-60, 62-63, 66, 68, 74-75, 7779, 82-85, 87-88, 89-91, 94-96, 98101, 110-11, 460, 463, 465, 468-69, 471-74, 476, 479-80. Jeffreys-Jones, Rhodri, 517, 523, 534. Jehlen, Myra, 465. Jensen, Merril, 461. Jervis, Robert, 509-10. Jha, Prem Shankar, 546. Jian, Chen, 514. Joachim, Hans, 243, 503. Johns, Andrew L., 517-18. Johnson, Chalmers, 456. Johnson, Hiram, 220-21. Johnson, John J., 479, 521. Johnson, Lyndon B., 315, 320, 324,

Indice dei nomi

340-43, 345-46, 348, 353-54, 359, 368, 525. Johnson, Robert David, 500. Johnston, Andrew, 517. Jones, Archer, 487. Jones, Erik, 544. Jones, Frank L., 525. Jones, Howard, 488. Jordan, Winthrop D., 456. Josephson, Harold, 502. Joyner, Christopher C., 542. Kagan, Robert, 427, 530, 541. Kaiser, David, 522. Kaldor, Mary, 527. Kamdar, Nipoli, 537. Kaplan, Amy, 491. Kaplan, Lawrence S., 458, 460-61, 463, 466-67, 474-75, 513-14. Karawan, Ibrahim A., 529. Karsten, Peter, 489. Kashima, Tetsuden, 507. Kastor, Peter J., 472-73. Kats, Robert A., 493. Katz, Andrew Z., 530. Katz Keating, Susan, 528. Kaufman, Burton I., 470, 530. Kaufman, Justin Matthew, 542. Kaufman, Scott, 530. Kaye, Harvey J., 456, 469, 471, 532. Kazin, Michael, 526-27. Keane, John, 456. Kelly, Daniel, 516. Kennan, George F., 283-85, 288, 297, 299-300, 492, 497-98, 511-12. Kennedy, Andrew, 135. Kennedy, Edward Moore, detto Ted, 353, 378, 437. Kennedy, John F., 314-15, 318, 320, 322-24, 326-29, 333-36, 340-41, 348, 354, 368, 395, 439, 485, 521, 524. Kennedy, Paul, 444-45, 487, 489, 496, 507, 509, 526, 535, 540, 545. Kennedy, Robert, 336. Kennedy, Ross A., 498, 501. Kennedy Pipe, Caroline, 509, 512.

567 Kent, Bruce, 499. Keohane, Robert, 535. Ketcham, Ralph L., 460. Key, Francis Scott, 476. Keynes, John Maynard, 499. Khomeini, Ruhollah, 372-73, 376. Kiesler, Richard, 536. Kimball, Jeffrey, 528. Kimball, Warren F., 505-508. Kindleberger, Charles, 504. King, Rufus, 80, 472. Kipling, Joseph Rudyard, 178. Kirkpatrick, Jeane J., 381, 388, 532. Kirshner, Jonathan D., 544-45. Kissinger, Henry, 355-70, 381, 518, 527-28. Kitching, JoAnne, XIII. Klehr, Harvey, 516. Kloppenberg, James T., 544. Knock, Thomas, 496-98, 500-501. Knott, Stephen, 466. Knox, Frank, 256. Knox, Philander, 190-91, 194, 495. Kogoro, Ichiro, 486. Kohn, Stephen M., 498. Koistinen, Paul A.C., 504, 509. Korhonen, Pekka, 492. Kotkin, Stephen, 534. Krabbendam, Hans, 512. Kraig, Robert Alexander, 529. Kramer, Mark, 534. Kramer, Paul, 493, 543. Kramnick, Isaac, 463, 466. Krauthammer, Charles, 540. Kristof, Ladis K.D., 465. Kristol, Irving, 428, 541. Kristol, William, 427, 541. Kroes, Rob, 545. Kubitschek, Juscelino, 322. Kupchan, Charles, 539. Kushner, Howard, 479. Lacey, Michael J., 545. Lafeber, Walter, 458-59, 461-62, 46465, 468, 472-73, 478-79, 486-87, 489, 492-95, 530.

568 LaFollette, Robert M., 205. Lake, Anthony, 408-409, 411, 419, 530, 537. Lambert, Frank, 476. Lampton, David M., 540. Landsdale, Edward, 328, 522. Langley, Lester D., 491, 495. Lansing, Robert, 200. Laqueur, Walter, 529. Larres, Klaus, 538. Larson, Harold, 467. Latawski, Paul, 539. Latham, Michael E., 518-20, 522. Latham, Robert, 509. Lawrence, Mark Atwood, 522. Layne, Christopher, 541, 546. Lazich, Michael C., 485-86. Leacock, Ruth, 521. Leahy, Patrick J., 437. Lebow, Richard Ned, 536. Leclerc, Charles Victor Emmanuel, 82, 84. Le Duc Tho, 362. Lee, Richard Henry, 15, 17-18. Lee-Whitman, Leanna, 485. Leffler, Melvin P., 502-503, 505, 50910, 513-16, 526, 541-42, 545. Legro, Jeff W., 545. Leitch Wright, James Jr., 478. Leites, Nathan, 525. Lenin Nikolaj, pseud. di Vladimir Il’icˇ Ul’janov, 211. Lentin, Anthony, 499. LeoGrande, William M., 530, 542. Levin, Gordon, 498. Levinson, Jerome, 521. Levy, Jack S., 545. Levy, Leonard, 474. Lewinsky, Monica, 540. Lieber, Robert J., 543. Lieven, Anatol, 542. Lilienthal, David, 343, 345. Limerick, Patricia Nelson, 489. Lin Zexu, 138. Lincoln, Abraham, 148, 150, 153-54, 255, 487.

Indice dei nomi

Lindsay, James M., 541. Link, Arthur S., 496-97. Linn, Brian McAllister, 493. Lint, Gregg L., 457-58. Lippmann, Walter, 49, 211, 285, 466, 511. Lipsey, Robert, 469-70. Liston, Robert, 57. Little, Douglas, 518. Littlefield, Daniel Jr., 478. Livingston, Robert, 83. Lloyd, Lorna, 500. Locke, John, 55. Lodewijks, John, 519. Lodge, Henry Cabot, 165, 170, 176, 195, 212-13, 218, 220-21, 223-25, 229-30, 236, 490, 500-501. Loewenheim, Francis, 528. Logan, Frenise A., 488. Logevall, Fredrick, 410-11, 522, 525. Long, John W., 498. Longley, Kyle, 521. Loth, Wilfried, 526-28. Love, Eric, 487, 489-90, 493. Lovett, Robert, 300, 515. Lowenthal, Mark M., 505. Lower, Richard Coke, 500. Lucarelli, Sonia, 536, 539. Luigi XVI, re di Francia, 59. Lum, Thomas, 540. Lumpkin, Wilson, 116. Lundestad, Geir, 455, 513, 517. Lundy, Benjamin, 127. Luttwak, Edward, 374, 531, 535. Lyon, Matthew, 74. MacArthur, Douglas, 305-306, 516. MacDonald, Douglas, 510. MacLean, Elisabeth Kimball, 506. Madison, James, 20, 34, 47, 49-51, 5356, 58, 62, 64-66, 75, 78-79, 82-83, 85, 88-96, 98-99, 103, 110, 460, 463, 465-67, 469, 472, 474-76, 478, 484. Maguire, Peter, 493. Mahan, Alfred T., 162, 182, 195. Maier, Charles S., 349, 388, 455, 465,

Indice dei nomi

486, 509, 511-12, 526, 529, 532, 534-35, 544-45. Maier, Pauline, 16, 459. Major, John, 493, 530. Manchu, dinastia, 194. Mann, Catherine L., 540. Mann, James, 530, 541. Mann, Michael, 397, 535, 541, 545. Mann, Thomas C., 327, 521. Manning, Susan, 465. Mannix, Richard, 475. Mansfield, Mike, 331, 353. Mao Zedong, 298, 359. Marchand, C. Roland, 495, 501. Margiotta Broglio, Costanza, 487. Margulies, Herbert F., 500. Margulies, Joseph, 543. Mariano, Marco, XIII. Markowitz, Arthur A., 470. Marks, Frederick W. III, 462. Marquis, Jefferson P., 522. Marsh, Gerald E., 541. Marshall, George, 254, 288-92, 323, 343-44, 505, 512-13. Marshall, John, 71-72, 119, 512. Martel, Gordon, 502. Martel, Leon C., 510. Martin, Edwin, 327, 521. Mason, James, 152-53. Mastanduno, Michael, 528, 545. Mastny, Vojtech, 510. Matlock, Jack F. Jr., 534. Matson, Cathi, 457. Matthew, Richard A., 534. Matthews, Geoffrey, 516. Matthewson, Tim, 472-73. Mattiacci, Eleonora, XIII. Mauch, Peter, 506. Maurer, John, 502. Mausbach, Wilfried, 526. May, Ernest R., 458, 479, 514-15, 523. May, Robert E., 489. Mayer, David, 473. McAllister, James, 511. McAllister, Ted V., 532. McCain, John S., 436, 438.

569 McCarthy, Eugene, 353. McCarthy, Joseph, 306, 308, 516. McCartney, Paul T., 490. McChrystal, Stanley A., 449. McConnell, Mitch, 411. McCormick, Anne, 294. McCormick, Richard P., 464. McCoy, Drew, 471. McCrisken, Trevor B., 527. McCullough, David, 456, 470, 516. McDougall, Walter, 457-59, 461, 463, 468, 470, 474, 479, 482. McFarland, Linda, 518. McKinley, William, 167-68, 173-75, 177-81, 191, 491, 493. McKinnon, Ronald I., 508. McKitrick, Erik, 6, 76, 456-57, 46162, 467-68, 475. McLaurin, John, 179. McLoughin, William G., 477. McNamara, Robert, 336. McNeil, William C., 503. McPherson, Alan, 520. McPherson Lander, Ernest Jr., 484. Mead, Walter Russell, 501. Mearsheimer, John J., 535. Medhurst, Martin J., 516-17. Meehan, Elizabeth, 537. Meinig, Donald William, 84, 461, 472-73, 481, 483, 485. Melancon, Glenn, 485. Melandri, Pierre, 537-39. Menotti, Roberto, 539. Merk, Frederick, 482, 485. Merli, Frank J., 488. Merril, Dennis, 513-14. Merritt, Richard L., 499-500. Mertus, Julie A., 539. Metallo, Michael V., 495. Metternich, Klemens von, 112, 480. Mier y Terán, Manuel de, 126, 483. Mileur, Jerome M., 525. Milkis, Sidney M., 525. Miller, Charles A., 45, 465. Miller, John C., 471. Miller, Linda B., 537.

570 Milligan, John D., 478. Millikan, Max F., 317-18, 518-19. Milner, Clyde A., 464. Milocˇevic , Slobodan, 411, 418. Milward, Alan S., 509, 511-12. Minger, Ralph Eldin, 494. Minges, Patrick, 481. Mintz, Ilse, 503. Miscamble, Wilson D., 508, 511. Mitchener, Kris James, 494. Mitrokhin, Vasili, 532. Mitterrand, François, 536. Moïse, Edwin E., 525. Molho, Anthony, 457. Molotov, Vjacˇeslav, 289. Moltedo, Guido, 438, 543. Monroe, James, 83, 89, 104-106, 11012, 118, 165, 184-85, 195, 220-21, 225, 297, 478, 480, 514. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de, 49, 128. Moore, John Allphin Jr., 462, 466. Morgan, Edmund S., 460. Morgenthau, Henry Jr., 283. Morison, Samuel Eliot, 486. Morris, Christopher, 483. Morris, Richard B., 461. Morris, Robert, 12. Morse, Samuel, 144. Mossadeq, Mohammad, 311. Moynihan, Daniel Patrick, 383. Mugridge, Ian, 490. Muhlenberg, Frederick, 470. Mulroy, Kevin, 478, 481. Münkler, Herfried, 535. Munro, Dana G., 494-95. Munting, Roger, 506. Murphy, Orville T., 460. Murray, William Vans, 76. Murrin, John C., 463, 472, 475. Myers, Steven Lee, 541. Naftali, Timothy, 523. Naimark, Norman M., 511. Nanto, Dick K., 540.

Indice dei nomi

Napoleone I, imperatore dei Francesi, 81-85, 88, 93, 97, 99. Napoleone III, imperatore dei Francesi, 150-51, 153. Narinskij, Michail, 512. Nash, Philip, 523. Nashel, Jonathan, 522. Nasser, Gamal Abdel, 314. Nation, Craig, 510, 526. Nelson, Horatio, 88. Nelson, Michael, 537. Nelson, William E., 466. Nester, William R., 486. Neu, Charles, 500. Neumann, William L., 486-87. Newhouse, John, 541. Ngô Dinh Diem, 328-29, 332, 342. Nichols, Irby C. Jr., 479. Nichols, Thomas M., 531. Ninkovich, Frank, 186, 191, 490-91, 493-98, 500-502, 504-507, 510, 513, 515, 524, 527-28. Nitze, Paul, 299, 515. Nixon, Richard, 320, 322, 354-57, 359-65, 367-68, 371, 374, 378, 381, 388, 435, 528-29, 544. Njølstad, Olav, 531. Nobles, Gregory H., 464. Nolan, Mary, 502-503. Norris, George William, 205. Norris, Pippa, 537. North, Frederick Guilford, Lord, conte di, 27. Nuti, Leopoldo, 524, 533. Nye, Gerald, 248. Nye, Joseph S., 535, 542-543. Oakley, Robert B., 538. Obama, Barack Hussein, 436-42, 445, 447-49, 451-52, 543-44. Oberdorfer, Don, 533. O’Connor, Carol A., 464. Offner, Arnold A., 504, 510, 514. Offner, John L., 491. O’Hanlon, Michael E., 539. O’Hare McCormick, Anne, 513.

Indice dei nomi

Olney, Richard, 165, 169, 490-91. Olson, Gregory Allen, 522. Olund, Eric N., 480. Onís, Juan de, 521. Onís, Luis de, 104, 106-107. Onuf, Nicholas, 458. Onuf, Peter S., 19, 42, 457-60, 46367, 471-72, 477. Ortega, Daniel, 370. Osgood, Kenneth A., 516. Osgood, Robert, 355, 527. Osterhammel, Jurgen, 456. O’Sullivan, John, 121-22, 128, 133, 482, 484. Ott, Thomas O., 472. O’Tuathail, Gearoid, 490, 514, 535, 538. Owen, David, 412. Owen, John M., IV, 470, 476, 535. Owsley, Lawrence Jr., 474. Paarlberg, Robert L., 545. Pach, Chester J. Jr., 532-34. Pahlavi, Reza, 372. Paine, Thomas, 6-11, 13-14, 16, 19, 22, 24, 36-37, 65, 68-69, 95, 189, 297, 379, 456-57, 463, 469, 532. Palmer, Michael A., 471. Palumbo, Marilisa, 438, 543. Paolino, Ernest N., 489. Park, James William, 520. Park, Yung Chul, 546. Parker, Jason, 518. Parmar, Inderjeet, 544. Parrini, Carl P., 492. Parrish, Scott D., 512. Parsons, Lynn Hudson, 478-79. Pastor, Robert A., 530. Paterson, Thomas G., 487, 489, 514, 519-20. Patterson, David S., 495. Patterson, James, 516. Pearce, Kimber Charles, 519. Pease, Donald E., 491. Pease, Theodore C., 465. Peceny, Mark, 491.

571 Pechatnov, Vladimir O., 510. Pelenski, Jaroslaw, 459. Perdue, Theda, 481-81. Perle, Richard N., 437. Pérez, Louis A. Jr., 490-91, 523. Perkins, Bradford, 28, 455-56, 45861, 463, 467-70, 472-76, 478, 480, 484, 487-88. Perkins, Dexter, 479. Perlmutter, Amos, 539. Perot, Ross, 407. Perrine, Toni A., 533. Perry, Matthew Calbraith, 143-45, 486. Pershing, John, 210. Peskin, Lawrence A., 462. Peterson, Merril D., 467-68. Petraeus, David H., 437. Pettus, John, 150, 488. Pezzino, Paolo, 495. Pezzullo, Ralph, 538. Phillips, Wendell, 127. Pickering, Timothy, 74, 86. Pinckney, Charles Cotesworth, 7172, 82, 470. Pineau, Roger, 486. Pinfari, Marco, 537. Pinkney, William, 89. Pipes, Richard, 374, 531. Pirjevec, Jože, 536. Platt, Orville, 170, 491. Pleshakov, Constantine, 510, 512, 515. Pletcher, David M., 485-86, 489, 492. Pocock, John Greville Agard, 459-60. Podhoretz, Norman, 374, 377, 429, 515, 517, 525. Podvig, Pavel, 526. Pohl, James W., 468. Polk, James, 130-34, 484. Pollard, Robert A., 492. Pomerance, Michla, 499. Pond, Elizabeth, 536. Pons, Silvio, XIII, 510. Porter, Bernard, 439. Porter, Kenneth W., 478. Posen, Barry R., 545.

572 Powell, Colin, 404, 411-12, 426-27, 536-37. Powell, Robert, 517. Powers, Richard Gid, 516. Pratt, Julius, 475. Preble, Christopher, 518. Preston, Andrew, 520. Prucha, Francis Paul, 476-77, 480. Pye, Lucian W., 326, 521. Quandt, William B., 529, 531. Quayle, Dan, 407, 537. Qiang Zhai, 522. Rabe, Stephen G., 517-18, 520-21. Rae, Nicol C., 529-30. Ragno, Francesco Davide, XIII. Rainbow Hale, Matthew, 72, 468-70. Rakove, Jack N., 466. Ramcharan, Bertrand G., 538. Randolph, John, 109. Rankin, Jeanette, 260. Rappard, William E., 499. Rasmussen, Mikkel Vedby, 515. Rathbun, Lyon, 482-84. Reagan, Ronald, 365, 367, 370, 37374, 378-96, 401, 414, 529, 531-34. Rebert, Paula, 487. Redd, Steven B., 539. Reeves, Thomas C., 516. Reich, Robert, 420. Reiter, Dan, 539. Reker, Mary Lou, XIII. Remini, Robert V., 476-77, 480-82. Remnick, David, 543. Reposo, Antonio, 462. Resis, Albert, 507. Reynolds, David, 505-506. Rhodes, Benjamin D., 498, 500, 502503, 505-506. Ricard, Serge, 494. Rice, Condoleezza, 426, 432, 435, 536, 541. Rice, Susan E., 441. Richards, Leonard L., 462. Richter, Daniel K., 477.

Indice dei nomi

Ridinger, Gerald E., 508. Risjord, Norman K., 476. Ritcheson, Charles R., 461. Ritchie, Donald A., 523. Rivelli, Francesca, XIII. Rivers, Douglas, 538. Roberts, Geoffrey, 510. Robespierre, Maximilien de, 62. Robin, Ron, 525. Robinson, Greg, 507. Rockwell, Norman, 257. Roden, Mark, 540. Rodgers, Daniel, 457. Rodman, Peter W., 532. Rodrigues, Luís Nuno, 520. Rodríguez Díaz, María del Rosario, 483. Rodriguez, Jaime E., 464, 466. Roett, Riordan, 542. Rogin, Michael P., 482. Rojas, Rafael, 491. Romero, Federico, XIV, 492, 497, 501, 510-12, 533, 536, 545. Ronda, James P., 472, 477. Roosevelt, Franklin Delano, 226, 24749, 251-68, 270-73, 278-79, 281, 283, 291, 294, 383, 395, 499, 504-506. Roosevelt, Theodore, 164, 168-70, 175-77, 180-90, 195, 199, 212-14, 218, 221, 490-94, 496, 499, 507. Root, Elihu, 170, 180, 493. Rosenbaum, Herbert D., 530. Rosenberg, Emily S., 19, 459-60, 490, 494-95, 501-503, 506. Rosenthal, Nicolas G., 489. Ross, James, 82. Ross, John, 118. Rossignol, Marie-Jeanne, 464, 466. Rossini, Daniela, 499. Rostow, Eugene Victor, 519. Rostow, Ralph Waldo, 519. Rostow, Walt W., 316-20, 323, 32829, 345, 349, 518-20, 522. Rotter, Andrew J., 521. Rousseau, Jean-Jacques, 55. Ruane, Kevin, 517.

Indice dei nomi

Rubin, Robert, 420. Rudanko, Martti Juhani, 471. Ruggie, John Gerard, 508, 537. Rumsfeld, Donald Henry, 426-28. Rupp, Leila J., 502. Rusk, Dean, 329, 522. Ruskola, Teemu, 485-86. Russel, Greg, 467, 476, 479. Ruzza, Stefano, 545. Ryan, David, 460. Ryan, Maria, 533. Ryan, Susan M., 481. Sacerdoti Mariani, Gigliola, 462. Sadat, Anwar, 371-72. Saddam Hussein, 404, 406, 430-31. Sagan, Scott D., 511. Salih, Sara, 484. Salvatore, Nick, 498. Sandweiss, Martha A., 464. Santa Anna, Antonio López de, 12627, 484. Satz, Ronald N., 480-82. Sawyer, William, 129, 484. Scheckel, Susan, 480-81. Scheman, L. Ronald, 520-21. Schild, George, 508. Schlesinger, Arthur Jr., 29, 323, 327, 462, 518, 520-21. Schlesinger, Stephen C., 508. Schmitz, David F., 504, 520, 530. Scholnick, Robert J., 482. Schoonover, Thomas, 489, 495. Schrecker, Ellen, 516. Schroeder, John H., 484, 486. Schularik, Moritz, 546. Schulman, Bruce J., 529. Schulzinger, Robert D., 493, 500, 502, 527, 539. Schwabe, Klaus, 499. Schwartz, Thomas, 513, 526. Sciolino, Elaine, 540. Scott, David, 487. Scott, James M., 532. Scott-Smith, Giles, 512. Scowcroft, Brent, 405-406, 537.

573 Sebesta, Lorenza, 513. Seefeldt, Douglas, 477. Segreto, Luciano, 512. Sellers, Mortimer N.S., 540. Senter, Thomas P., 478. Seward, William, 152-53, 161, 488. Shapiro, Catherine R., 533. Sharp, Alan, 499. Sharp, James Roger, 471. Shays, Daniel, 33, 462. Sheenan, Bernard, 465, 477. Shelburne (William Petty), conte di, 27. Sheng, Michael M., 514. Sherry, Michael S., 505, 509. Shewmaker, Kenneth E., 476. Shi, David E., 489. Shifter, Michael, 521. Shultz, George, 392. Shultz, Richard, 525. Siad Barre, Mohammad, 410. Siff, Ezra Y., 525. Sigelman, Lee, 533. Silverstein, Gordon, 463. Sioli, Marco, 477. Singer, Peter W., 545. Siracusa, Joseph M., 508. Skidelsky, Robert, 508. Skidmore, David, 530. Sklar, Martin J., 492. Skonieczny, Amy, 537. Slidell, John, 152-53. Small, Melvin, 527. Smetherman, Boobie B., 521. Smetherman, Robert M., 521. Smith, Ephraim K., 493. Smith, Gaddis, 530. Smith, Gene A., 474. Smith, Gerard, 528. Smith, James Morton, 471. Smith, Joseph, 490. Smith, Martin A., 539. Smith, Neil, 507. Smith, Robert W., 475-76. Smith, Stephen A., 537. Smith, Timothy, 513.

574 Smith, Tony, 496, 501. Snead, David L., 518. Snider, Christy Jo, 501. Soares, John A., 530. Sobel, Russel S., 500. Sofka, James, 458, 461, 468. Spagnolo, Carlo, 512. Spalding, Matthew, 470. Speier, Hans, 326, 521. Spencer, Warren F., 488. Spivak, Burton, 474-75. Spohr, Kristina, 536. Stagg, John C.A., 475-76. Stalin, Josif Vissarionovicˇ Džugašvili, detto, 262, 266, 268, 282, 303, 305, 323, 515. Starr, Kenneth, 422, 540. Statler, Kathryn C., 517-18. St. Clair, Arthur, 60, 468. Steel, Anthony, 474. Steel, Ronald, 500, 511. Steigerwald, David, 497, 501. Steinmetz, George, 455-56. Stephanson, Anders, XIV, 456-58, 460, 463, 466, 468, 474, 478, 482, 484, 489, 491, 493, 495, 497-98, 501, 505, 507, 510-11, 515, 524, 544. Stern, Paula, 529. Stevenson, Adlai, 307. Stevenson, David, 499. Steyn, Johan, 542. Stid, Daniel D., 500. Stiglitz, Joseph E., 539. Stiles, Ezra, 41, 464. Stimson, Henry, 256. Stinchcombe, William C., 460, 470. Stoddert, Benjamin, 73. Stoler, Mark A., 504-507. Stone, Ralph, 500. Stourz, Gerald, 460. Stout, Joseph A. Jr., 487. Stover, John F., 468. Stowe, Harriet Beecher, 155, 488. Straus, Scott, 538. Stromberg, Roland N., 500. Strong, Robert, 530.

Indice dei nomi

Stuart, Reginald, 91, 475-76. Stuckey, Mary E., 501. Stueck, William, 515-516. Sugden, John, 477. Sumner, Charles, 127. Surdam, David G., 488. Suri, Jeremi, 340, 455, 524-26, 532-34. Sussman, Mark, 537. Swain, William, 132, 485. Taft, Robert A., 297, 307-308, 516. Taft, William Howard, 181, 188-96, 203, 219-21, 225, 229, 307, 494-96, 507. Tagliaferri, Teodoro, 488. Talbott, Strobe, 416, 539. Talleyrand, Charles, 71-72, 76. Tattoni, Igina, 519. Taubman, William, 523. Tecumseh, 97, 100, 477. Teller, Henry M., 168-69, 491. Telò, Mario, 540. Temin, Peter, 483. Tenskwatawa, profeta, 99. Terrif, Terry, 528. Testi, Arnaldo, XIII. Tetapachsit, 477. Teute, Frederika J., 480. Thatcher, Margareth, 383. Theriault, Sean M., 473. Thomas, Daniel, 535. Thomas, Evan W., 544. Thompson, John A., 496-500. Thompson, William P., 545. Thornton, Richard C., 526. Thornton, Russel, 481-82. Thurmond, Strom, 370. Tijerina, Andres A., 467. Tocqueville, Alexis-Charles-HenriMaurice Clérel de, 121, 469, 482. Todd, Emmanuel, 541. Tokugawa, dinastia, 142, 146. Tomlin, Brian W., 537. Toner, Robin, 537. Toussaint L’Ouverture, François-Dominique, 81.

Indice dei nomi

Tower, John, 391. Trachtenberg, Marc, 499, 517, 524, 536. Trask, David F., 491. Trist, Nicholas, 133. Trujillo, Rafael, 322, 326. Truman, Harry, 272-73, 279, 281-87, 291, 293, 295-99, 301-308, 435, 510-11, 513-15. Trumpbour, John, 503. Tucker, Robert W., 463-64, 468-69, 472-75. Tudda, Christopher J., 517. Tulchin, Joseph S., 502, 520. Turgot, Anne Robert Jacques, marchese di, 23. Twain, Mark, pseud. di Samuel Langhorne Clemens, 181, 493. Tyler, John, 129, 131, 138. Tyler, Patrick, 530. Tyrrel, Ian, 455, 457. Ugrinsky, Alexej, 530. Unterberger, Betty M., 498. Usner, Daniel H. Jr., 477. Utley, Robert M., 489. Vagts, Alfred, 458. Valladao, Alfredo G.A., 538. Vaïsse, Justin, 537-39. Vaïsse, Maurice, 526. Valdevit, Giampaolo, 531. Valsania, Maurizio, 465. Van Buren, Martin, 127. Vance, Cyrus R., 369, 371, 412, 530. Vandenberg, Arthur, 296-97, 514. Vanik, Charles, 365. Varg, Paul A., 459-60, 463, 467-70, 472-73, 495. Vassallo, Salvatore, 544. Vaughn, Stephen, 498. Védrine, Hubert, 424-25, 540. Veeser, Cyrus, 494. Vergennes, Charles Gravier, conte di, 23, 26-28, 461.

575 Voltaire, pseud. di François-Marie Arouet, 55, 460. Wakabayashi, Bob Tadashi, 485. Walker, Martin, 513. Walker, Robert J., 136, 485. Walker, Samuel J., 508. Walker, Vanessa, 530. Wall, Irwin M., 513. Wallace, Anthony F.C., 465, 476-77, 480. Wallace, Henry, 297. Wallander, Celeste A., 537. Wallerstein, Immanuel M., 529, 541. Walsh, Lawrence E., 533. Walton, Jennifer Lynn, 524. Waltz, Kenneth N., 509. Walzer, Michael, 539-40. Wandycz, Piotr S., 459. Ward, Richard A., 479. Washburn, Wilcomb E., 489. Washington, George, 22, 41, 47-48, 51, 53, 56, 58, 60-61, 63, 65-68, 70, 73, 75, 78, 97, 114, 463, 466, 46869. Waterman, Harvey, 539. Watson-Wentworth, Charles, marchese di Rockingham, 27. Watts, Sarah, 490, 493. Weatherford, William (Aquila Rossa), 101. Weathersby, Kathryn, 515. Weber, David J., 483. Webster, Daniel, 143, 486. Weddle, Kevin J., 488. Weeks, William Earl, 456, 473-74, 478-80, 482, 484-86, 489. Weidenmier, Marc D., 494. Weigley, Russel, 487. Weinberg, Albert K., 482, 484. Weis, W. Michael, 521. Weiss, Stuart L., 504. Welch, David A., 523. Welch, Richard E. Jr., 493. Welles, Orson, 166. Welles, Sumner, 251, 253, 504.

576 Wells, Samuel F. Jr., 467, 474, 517, 533. Wells, Wyatt, 526. West, Elliot, 464. Westad, Odd Arne, 455, 457, 505, 510-11, 514-15, 529, 531-32, 534, 545. Western, Jon, 538. Westmoreland, William, 346. Wexler, Immanuel, 512. Weyler, Valeriano, 166. Wheeler, Nicholas, 539. Whelan, Anthony, 499. Whelan, Bernadette, 512. Whitaker, Arthur Preston, 472. White, John Kenneth, 440. Whitman, Walt, 132, 145, 318, 484, 487, 519. Widenor, William C., 499. Wilentz, Sean, 480, 483, 487, 544. Wiley, Peter Booth, 486. Williams, Frederick D., 464. Williams, Gary, 532. Williams, Phil, 528. Williams, Walter L., 493. Williams, William Appleman, 456, 464, 466, 491-92, 497, 501-502. Wills, Gary, 459-60, 493. Wilson, Francis Huntington, 189, 495. Wilson, James Harrison, 170. Wilson, Joan Hoff, 504. Wilson, Woodrow, 194, 197-207, 209-14, 216-20, 222-33, 235, 238, 247-48, 250, 257, 266, 273-74, 297, 395, 408, 496-502. Wiltz, John Edward, 457, 504.

Indice dei nomi

Winand, Pascaline, 520. Wines, Michael, 537. Wirt, William, 118. Witherspoon, John, 27, 55. Wittner, Lawrence S., 534. Wolf, Charles Jr., 525. Wolfowitz, Paul, 426, 437. Wood, Gordon, 457. Woodford, Stewart L., 166, 490. Woods, Randall B., 523, 527. Woodward, Upshur Robert, detto Bob, 539, 542, 544, 546. Wright, Thomas C., 521. Wunderlin, Clarence E., 516. Wynn, Neil A., 498. Wyplosz, Charles, 546. Xiang, Lanxin, 492. Yaqub, Salim, 518. Yongding, Yu, 540. Young, Marilyn B., XIV, 456, 492, 522, 525, 528, 537, 546. Young, Mary, 481-82. Young, Owen, 240, 503. Young, Raymond A., 472. Zagorcheva, Dessie, 539. Zeitlin, Jonathan, 512. Zelikow, Philip, 523, 536. Zhou Enlai, 359. Zia ul-Haq, Muhammad, 383. Zieger, Robert H., 498. Zimmerman, Arthur, 205-206. Zubok, Vladislav, 510, 512, 515, 523, 534. Zwick, Jim, 490.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione

VII

Ringraziamenti Parte prima I.

XIII

Impero continentale

Le origini della politica estera degli Stati Uniti

5

1. «La nascita di un mondo nuovo»: Thomas Paine e il senso comune dell’internazionalismo statunitense, p. 5 - 2. Un trattato modello, p. 10 - 3. Testi sacri 1: la Dichiarazione d’indipendenza, p. 15 - 4. La diplomazia della guerra d’indipendenza, p. 21 - 5. Testi sacri 2: la Costituzione, p. 28

II.

«Un impero, per molti aspetti il più interessante del mondo»

39

1. Alle origini dell’espansionismo statunitense, p. 39 - 2. Divisioni, fazioni, partiti, p. 49 - 2.1. «Pensiamo tutti in inglese»: Alexander Hamilton e la «special relationship» con la Gran Bretagna, p. 51 2.2. «La nostra repubblica sorella»: James Madison, Thomas Jefferson e la Francia, p. 53 - 2.3. Il trattato di Jay, p. 56 - 3. Testi sacri 3: il «Farewell Address» di George Washington, p. 65 - 4. Bucanieri, «alieni» e sediziosi. La quasi guerra con la Francia, p. 70

III.

Un continente, un impero

77

1. L’acquisto della Louisiana e «l’unità dell’impero», p. 79 - 2. Blocchi, embarghi e guerre, p. 87 - 3. Una seconda indipendenza: la guerra del 1812-14, p. 93 - 4. Destini transcontinentali e pratiche ‘civilizzatrici’, p. 98 - 5. Testi sacri 4: la Dottrina Monroe, p. 107

IV.

Le manifestazioni del destino 1. Sentieri di lacrime, p. 114 - 2. Destini, divisioni e guerre, p. 121 -

114

578

Indice del volume 3. La «finestra» sul Pacifico, p. 134 - 3.1. Oppio, commercio e missione: l’apertura della Cina, p. 136 - 3.2. Il commodoro Perry e l’apertura del Giappone, p. 142 - 4. Una «casa» non più «divisa»: la guerra civile e il suo impatto sulla politica estera, p. 147

Parte seconda V.

Impero tra gli imperi

Dollari, guerre e porte aperte

159

1. Il momento imperiale, p. 159 - 1.1. La guerra contro la Spagna, p. 163 - 1.2. Porta aperta: gli USA e la questione cinese, p. 170 2. Guerra e dollari: la politica estera di Theodore Roosevelt, p. 175 2.1. Civilizzazione e guerra: il caso delle Filippine, p. 175 - 2.2. Civilizzazione, ordine e dollari: l’America Latina e il corollario Roosevelt, p. 182 - 3. Arbitrati e dollari: la politica estera di William Howard Taft, p. 188

VI.

«Rendere il mondo sicuro per la democrazia». Wilsonismo e antiwilsonismo

196

1. La Prima guerra mondiale: la fase della neutralità, 1914-17, p. 196 2. La Prima guerra mondiale: la fase dell’intervento, 1917-18, p. 205 3. Il fallimento del progetto wilsoniano, 1918-20, p. 214 - 4. Il wilsonismo. Un bilancio, p. 226

VII. Dall’isolazionismo radicale al globalismo temperato

233

1. I ruggenti anni Venti e l’internazionalismo senza responsabilità, p. 233 - 1.1. L’internazionalismo conservatore e la messa al bando della guerra, p. 235 - 1.2. La dimensione economica dell’internazionalismo conservatore, p. 238 - 1.3. Internazionalismo conservatore, rapporti culturali e «americanizzazione», p. 242 - 2. Il momento isolazionista, p. 245 - 3. Verso la guerra, fuori dall’isolazionismo, p. 250 - 4. Combattere la guerra, immaginare il futuro: il «grand design» rooseveltiano e i suoi limiti, p. 258

Parte terza

Impero globale

VIII. Guerra Fredda 1. Un ordine solo occidentale, p. 277 - 1.1. Tracciare confini, territorializzare l’impero: il contenimento, p. 279 - 1.2. Offrire capitali, liberalizzare gli scambi, costruire l’egemonia: il Piano Marshall, p. 285 - 1.3. Credibilità, impegno e sicurezza: l’Alleanza atlantica, p. 290 - 2. Mappe globali: la Dottrina Truman e l’NSC-68, p. 295 3. Contenimenti a basso costo: il «New Look» di Eisenhower, p. 302

277

Indice del volume

579

IX.

313

Ascesa e (temporaneo) declino dell’impero americano 1. Un mondo moderno e trasparente, p. 313 - 1.1. Modernizzazione e contenimento 1: l’Alleanza per il progresso, p. 320 - 1.2. Modernizzazione e contenimento 2: i «villaggi strategici», p. 327 - 2. Sull’orlo dell’abisso: la crisi dei missili cubani, p. 332 - 3. Bombardare un paese verso il futuro: l’intervento in Vietnam, p. 338 - 4. La crisi del contenimento e la fine del consenso, p. 346

X.

Nuovi conservatorismi, vecchi eccezionalismi

354

1. Potenza senza moralità: Kissinger, Nixon e la distensione, p. 354 2. Moralità senza forza: la contestazione della distensione e l’interludio carteriano, p. 363 - 2.1. L’attacco alla «Realpolitik» kissingeriana, p. 363 - 2.2. La presidenza Carter, p. 367 - 3. Potenza, moralità e «imperi del male»: il primo mandato reaganiano, p. 377 - 4. Un mondo piccolo e interdipendente: Reagan, Gorbacˇëv e la fine della Guerra Fredda, p. 387

XI.

L’iperpotenza solitaria

398

1. Il «nuovo ordine mondiale» conservatore e cauto di George Bush Sr., p. 401 - 2. «It’s the economy, stupid»: l’apprendistato di Bill Clinton, 1992-94, p. 407 - 3. La sintesi neowilsoniana del secondo Clinton, p. 412 - 4. Soli e hyper-potenti: il fallimento della svolta unilateralista di George Bush Jr., p. 424

XII. Obama e i dilemmi dell’egemonia statunitense

435

Note

453

Cartine

547

Indice dei nomi

559