Capire Severino. La risoluzione dell'aporetica del nulla
 8857507394, 9788857507392

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Lo scritto mette in luce l'importanza filosofica della soluzione severiniana dell'aporetica del nulla, interrogandosi sia sui motivi per cui l'aporia sorge e resta irrisolta per due millenni, sia sui motivi per cui tale soluzione viene rifiutata dalla riflessione filosofica contemporanea. Emerge che tanto l'insorgenza e l'irrisolvibilità dell'aporia quanto il suo rifiuto dipendono da un certo modo di concepire l' «ente», inaugurato da Platone e da allora divenuto fondamentale, che isola il «ciò che» dal suo «è». Radicato su questa millenaria logica "isolante", il pensiero contemporaneo non può che rifiutare la soluzione severiniana, che afferma l'originarietà della sintesi tra i momenti che costituiscono il significato «nulla». Ma nel tentativo di negare la soluzione severiniana, il pensiero contemporaneo non fa altro che portare a galla l'intima ed essenziale contraddittorietà del proprio dire. Nicoletta Cusano, docente in ruolo di filosofia, svolge attualmente attività di ricerca presso l'Università di Wuppertal e collabora con la cattedra di Ontologia Fondamentale dell'Università Vita-salute San Raffaele di Milano.

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FILOSOFIE N. 145

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università “Insubria”, Varese) Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

NICOLETTA CUSANO

CAPIRE SEVERINO La risoluzione dell’aporetica del nulla

MIMESIS Filosofie

© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Filosofie, n. 145 www. mimesisedizioni. it / www. mimesisbookshop. com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD)

INDICE

PREFAZIONE PREMESSA I. L'APORETICA DEL NULLA E L'OCCIDENTE 1. La necessaria incomprensione del risolvimento dell'aporetica 2. Il nichilismo e l'«esser ente» 3. Il divenire e l'epistéme 4. La «coerenza incoerente» dell'anti-epistéme e la «legge del divenire» 5. La differenza essenziale tra l'epistéme occidentale e il de-stino severiniano II. L'APORETICA DEL NULLA E IL SUO RISOLVIMENTO 1. La struttura generale dell'aporia e le sue formulazioni 2. Il «nulla» come significato autocontraddittorio 3. Chiarimenti sulla semplicità dell'«essere formale» 4. Struttura generale del risolvimento dell'aporia 5. Soluzione della I formulazione dell'aporia 6. Soluzione della II formulazione. Sul concetto concreto e astratto dell'astratto 7. Il problema del nulla in Bergson e Heidegger 8. Il nulla e i due sensi dell'autocontraddizione III. LA STRUTTURA ORIGINARIA 1. La struttura originaria 2. La struttura originaria e l'apparire 3. La struttura originaria come fondamento 4. La struttura originaria come «dire originario» 5. La struttura originaria come «dialettica originaria» e l'aporetica del nulla

p. 7 p. 11 p. 13 p. 14 p. 16 p. 17 p. 20

p. 23 p. 26 p. 28 p. 33 p. 36 p. 45 p. 48 p. 51

p. 55 p. 57 p. 63 p. 69 p. 71

IV. L'APORETICA DEL NULLA E IL NICHILISMO. SVILUPPI 1. Il rapporto specifico tra il nichilismo e l'aporia del nulla 2. Irrisolvibilità dell'aporia e logica nichilistica 3. Dall'aporia del nulla all'aporeticità di ogni determinazione 4. Il risolvimento originario dell'aporia e l'«inconscio dell'inconscio» del mortale

p. 77 p. 82 p. 100 p. 105

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PREFAZIONE

Questo libro di Nicoletta Cusano contribuisce in modo consistente ad estinguere una parte importante del debito che ho con i miei critici: quella relativa al senso del nulla. D’altronde l’autrice intende mostrare con chiarezza e perizia speculativa come, rispetto a tale senso, è solo per modo di dire che io abbia quel debito, visto che già nel capitolo IV de La struttura originaria – dunque più di cinquant’anni fa – avevo indicato quanto occorre per rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta “l’aporetica del nulla”. Si aggiunga che la Cusano si muove in queste pagine con una competenza e robustezza filosofica che le derivano anche dal suo essere autrice di un’ampia e chiarificante indagine in cui è percorso l’intero sviluppo del mio discorso filosofico: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo (Morcelliana, 2011). Ma poi la Cusano concentra la propria attenzione sulla radice di quelle obbiezioni, cioè sul pensiero che, sin dall’inizio della storia dell’Occidente, isola le cose (le molteplici determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò che è, nell’essente) il ciò che dal suo è; e chiarisce inoltre come tale atteggiamento isolante si faccia sentire in maniera decisiva nel modo in cui l’Occidente pensa il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide – col Parmenide quale è interpretato nella tradizione platonico-aristotelico-hegeliana. È interessante rilevare che alcuni dei miei critici presi in considerazione dall’autrice – Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro Visentin – siano giunti, attraverso l’esperienza del mio discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide – del Parmenide, appunto, che è presente in quella tradizione e per il quale, al di fuori della “verità dell’essere” che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto doxa, opinione, illusione, “nomi”, cioè sono, in quanto tali, non-essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, “essere”

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significa, come per Parmenide, soltanto “essere”, senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. E la totalità delle determinazioni, ossia delle differenze che costituiscono il mondo naturale e umano, sono appunto il contenuto dell’opinione. Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni sviluppate da quei miei critici per sostenere le loro tesi e per criticare il contenuto dei miei scritti – considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme della totalità delle differenze del mondo – sono opinioni, non sono verità (assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopolis, 2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, Bibliopolis, 2011, p. 402, nota). La struttura originaria della verità è l’apparire dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è. L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica che qualcosa non sia ciò che esso è. Implica (con Parmenide) che le differenze siano esplicitamente poste come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal nulla e vi ritorna, siano implicitamente poste come nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo. Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento. Anche quando intende essere la negazione più radicale della separazione – per esempio e soprattutto con Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni differenza del mondo – cioè ogni essente, o significato – è cioè destinata ad esser pensata e vissuta come un nulla – anche quando si ritiene che un Dio eterno possa salvare il mondo dal nulla. Questo saggio della Cusano mette opportunamente in luce la relazione tra il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli essenti e il modo in cui esso pensa e vive la presenza del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in quelle pagine, tra il “contraddittorio”, o l’“autocontraddittorio” – ossia l’impossibile, il nullo – e la “contraddizione”, che invece non è un nulla, in questo scritto si precisa – IV, 6 – che “il significato ‘nulla’ è un significato autocontraddittorio, ossia è una contraddizione” – un “significato contraddicentesi”, appunto. Affermando l’esistenza di quel “significato autocontraddittorio” (cioè contraddicentesi), in tale scritto non

Prefazione

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si dice quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la contraddizione è (e che la contraddizione sia non è impossibile – fermo restando che questo suo essere ha un “fondamento”, cfr. ad esempio Fondamento della contraddizione, Adelphi, 2005, sul quale nei miei scritti si è sempre richiamata l’attenzione). I due momenti contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il “positivo significare” del nulla, ossia il suo essere nulla e l’apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e assenza di significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo significare di ciò che, dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e significato. Questi due lati o momenti sono originariamente e necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè l’isolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i due momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come separati, l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un essente. Se i due momenti vengono separati, è inevitabile che il positivo significare del nulla ( il primo momento) si ripresenti nel nulla – ossia nel secondo momento, cioè nel significato che è il contenuto di quel positivo significare -, sì che l’esito inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal significato autentico del nulla, ossia dal nulla come significato contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché, in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia non è un essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente che è la positività del proprio significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. (Nel paragrafo IV del capitolo V de La morte e la terra, Adelphi 2011, viene esposto uno dei modi errati di risolvere l’aporia, formulata in quel paragrafo, relativa al semantema non è. Si tratta di una aporia di grande interesse, che riguarda un altro aspetto della contraddizione che compete al significato nulla. Il carattere rilevante di questa aporia – mostrerò in altra sede – è dato dal suo presentarsi come un miraggio dove essa chiede di essere risolta e invece è contraddittorio che lo sia, perché la contraddizione del non è è, appunto, un altro aspetto del necessario contraddirsi del significato nulla.) Giustamente, la Cusano sottolinea che come l’isolamento-separazione conduce all’essenza del nichilismo, costringendola ad affermare che gli

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essenti sono nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla), così l’isolamento-separazione conduce all’essenza del nichilismo, costringendola ad affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza che nel primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo caso – in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) – il nichilismo (e propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a quel mio discorso) porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un essente e lo intende come inevitabile (inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità). D’altra parte – e l’autrice non manca di rilevarlo – il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione – ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in cui appunto consiste l’essere del nulla – solo in quanto, all’interno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non si potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione. La Cusano può dunque concludere il proprio discorso osservando giustamente che il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza della separazione che, in questo caso, crede di poter prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del suo positivo significare – sì che, presentandosi isolato, tale significato, proprio perché si presenta, non può che apparire come l’esser un essente da parte del nulla. Pertanto, che il nulla sia “significante” non significa che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. Il significare del nulla, in quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo stesso esser essente), appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare nella struttura originaria della verità. E che il nulla sia un “significato” non significa che il nulla sia qualcosa di “passivo” rispetto all’attività significante dell’essere, giacché anche questo esser “significato” appartiene a quella totalità. Emanuele Severino

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PREMESSA

Nel IV capitolo de La struttura originaria1 Emanuele Severino risolve una questione filosofica fondamentale, prospettata per la prima volta da Platone e da allora mai superata: la questione del «nulla». Pensare e parlare del nulla, intendendolo come nihil absolutum, sembra dare inevitabilmente luogo – con le parole di Heidegger – a «un vuoto gioco di parole» (eine leere Spielerei mit Worten2) che non si accorge di «fare continuamente a pugni con sé stesso» (daß sie sich selbst fortgesetzt ins Gesicht schlägt3), perché, per dire che il nulla «è» nulla, finisce col dire che esso «è» e dunque col trattarlo come un essente. Contro questa tradizione secolare, Severino mostra che si tratta di una aporeticità solo apparente e che del nulla si può parlare incontraddittoriamente. Negli scritti successivi a La struttura originaria Severino tiene fermo quel risolvimento senza mai integrarlo, riconoscendone implicitamente l’esaustività concettuale. Non a caso chi cerca di ribadire l’aporeticità del nulla ricade nei medesimi problemi che Severino aveva esposto e tolto. Il lettore è invitato a ripercorrere il testo severiniano per prendere atto, passaggio per passaggio, di come esso sia completo ed esaustivo. Tuttavia, nonostante la sua importanza, il risolvimento severiniano viene per lo più trascurato, frainteso, criticato, e il pensiero contemporaneo tende a riaffermare l’irrisolvibilità dell’aporetica del nulla. Ciò dipende dalla potenza del radicamento della logica «isolante» che sta alla base di questa aporetica e di quello che, negli scritti severiniani, prende il nome di «nichilismo». Per dirla con Eraclito (fr. 1): la logica dell’isolamento – abituata a concepire soggetto e predicato come originariamente separati – è così profondamente radicata, che del risolvimento dell’aporetica l’Occidente non ha intelligenza «sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato». 1 2 3

E. Severino, La struttura originaria (1958), Adelphi, Milano 1981. Si tratta, appunto, del capitolo in cui Severino mostra come l’aporetica del nulla vada tolta. M. Heidegger, Der europäische Nihilismus, Neske Pfullingen, 1967, p. 26. Ibidem.

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Di fronte ai fraintendimenti e alle interpretazioni errate del risolvimento severiniano si è inteso metterne in luce l’autentico significato e l’importanza teoretica. Questo è stato il primo obiettivo di questo scritto. L’altro obiettivo è stato quello di analizzare la relazione specifica tra la logica isolante del nichilismo e l’aporetica del nulla. Il primo e soprattutto l’ultimo capitolo sono dedicati a questa analisi. Il secondo riespone e spiega il IV capitolo de La Struttura originaria, ripercorrendone (con ampie citazioni) i passaggi fondamentali e la scansione logico-argomentativa. Nel terzo vengono illustrati i tratti salienti della «struttura originaria»4, dando particolare risalto agli aspetti direttamente collegati al risolvimento dell’aporetica del nulla. Nell’ultimo capitolo, infine, non solo si mostra il legame specifico tra il nichilismo e l’aporetica del nulla, ma si mostra anche come il nichilismo, per riaffermare l’aporeticità del nulla dopo il risolvimento severiniano, si rinchiuda inevitabilmente in una più ampia aporeticità, che investe il «dire», la «verità» e le «determinazioni». Il capitolo termina mostrando che mentre il fondamento del discorso aporetico è la logica isolante, il fondamento di quel fondamento è la non aporeticità della posizione del nulla: come il realista critico, che per affermare che la vera realtà è impensabile ne implica la pensabilità, così chi sostiene l’aporeticità del nulla non si accorge di implicarne la non aporeticità, ovvero di implicare la «pensabilità» e «significabilità» di ciò che sostiene essere impensabile e insignificabile.

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Non come scritto storico, ma come struttura dell’essere e del significare.

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I. L’APORETICA DEL NULLA E L’OCCIDENTE

1. La necessaria incomprensione del risolvimento dell'aporetica Quanto più si è vicini a qualcosa, tanto più la sua visione risulta sfuocata. Così insegna ad esempio Leopardi. Il che potrebbe spiegare quanto è accaduto e accade al pensiero filosofico contemporaneo, che ha mostrato e mostra di essere “troppo vicino” alla soluzione di una questione filosofica di primaria importanza. Si tratta della questione della posizione del nihil absolutum: come si può pensare e dire il «nulla» senza per ciò stesso porlo come essente e dunque perderlo come tale? Tale questione, che si affaccia per la prima volta con chiarezza nel Sofista platonico, è rimasta insoluta per secoli. In una prima lunga fase (che va fino alla filosofia di Hegel compresa) tale problematicità è stata quasi completamente accantonata; successivamente, anche per la centralità del «nulla» all’interno della riflessione filosofica contemporanea, tale questione è riemersa e l’intera cultura contemporanea ne è divenuta consapevole (si pensi ai versi che inaugurano la raccolta di poesie Allegria di Giuseppe Ungaretti: «Eternità. / Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla» – corsivo mio). Anche se per il pensiero che si dice filosofico è impossibile non porre la questione del nulla, è passata sotto silenzio la sua definitiva soluzione, apparsa nel 1958 in uno scritto dell’allora giovanissimo Emanuele Severino dal titolo La struttura originaria (op. cit.). In quelle pagine l’aporetica del nulla viene formulata con rigore speculativo e vengono ripercorsi i momenti essenziali del dibattito plurisecolare inaugurato da Platone. Il problema viene messo in luce con chiarezza e la lucidità di quella visione è l’anticamera del suo risolvimento. In una ventina di pagine uno dei nodi più significativi e irrisolti del pensiero filosofico viene finalmente sciolto. Tuttavia, come si diceva, l’importanza di questa soluzione è scivolata via in un disinteresse abbastanza generale, sfuggendo anche e soprattutto a quelle riflessioni che l’hanno sì presa in considerazione, ma non hanno saputo coglierne la completezza e definitività.

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In ambito filosofico l’apparire di questa soluzione non ha destato particolari riconoscimenti; essa per lo più è stata ignorata, talvolta sottostimata (forse anche per lo sconsiderato convincimento che la grandezza appartenga solo ai «classici») e in alcuni casi alterata: se ne sono tenuti presenti solo alcuni aspetti (ad es. i problemi e gli interrogativi), prescindendo da altri (il complesso delle risposte e delle soluzioni offerte). Ma questa reazione non deve stupire. Al contrario. Era infatti inevitabile che il pensiero filosofico contemporaneo, proprio per la sua «essenza» e per il suo «fondamento ultimo», ignorasse o fraintendesse la soluzione severiniana dell’aporetica. Qualcuno potrebbe obiettare che non è legittimo parlare di «essenza» in relazione a un pensiero che si snoda ormai da due secoli in maniera assolutamente eterogenea, così come non è legittimo parlare di «fondamento ultimo» in relazione a correnti di pensiero che, in modi diversi, respingono l’idea di «fondamento ultimo» e di «essenza». Seguendo Severino, si può mostrare come ciò sia non solo legittimo, ma addirittura necessario; e come tale «essenza» – che dunque esiste – consista nella tendenza a negare l’esistenza di una verità definitiva, mentre il «fondamento ultimo» sia quello stesso che sta alla base della filosofia dalla sua nascita. È dunque a questi due aspetti che ci si deve rivolgere per comprendere la necessità dell’atteggiamento contemporaneo in relazione alla soluzione severiniana dell’aporetica del nulla. 2. Il nichilismo e l'«esser ente» Severino mostra che con la filosofia antica, da Platone in poi in modo chiaro e irreversibile, la verità delle cose è di essere «enti», dove ciò significa essere qualcosa, non essere niente. L’ente, da Platone in poi, è il «non-niente». Ma questo non-niente è concepito in maniera contraddittoria, perché viene pensato come ciò a cui compete essenzialmente la libertà di passare dall’essere al niente e viceversa, cioè di essere, in questo senso, oscillante (epamphoterìzein) tra i due. L’ente, pur essendo posto esplicitamente come «non-niente», è in realtà pensato come libero dal suo legame con l’essere e con il niente. Quando tale libertà consiste nello scioglimento dal legame con l’essere, si ha l’annullamento o nientificazione; quando invece consiste nello scioglimento dal legame con il niente, si ha la creazione o entificazione. Un legame può essere sciolto solo in quanto non è necessario, in quanto è qualcosa di contingente e di negabile, un fatto. La filosofia di Platone traccia così un sentiero che sarà decisivo: il legame tra la determinazione

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(«ciò che») e il suo essere («è») è un legame non necessario. L’ente è il «ciò che-è», ma il legame tra il «ciò che» e il suo «è» è un legame fattuale. L’ente è quel «non-niente» a cui compete essenzialmente la libertà di «essere niente». Il pensiero filosofico da Platone in poi e l’intera civiltà occidentale, che da quel pensiero viene fondata e alimentata, credono di parlare dell’ente come di un non-niente, mentre non si accorgono di considerarlo come niente. Severino chiama «nichilismo» questo modo di concepire e vivere l’essente, e mostra che la sua essenza non consiste semplicemente nell’identificazione dei contraddittori (essere e non essere), ma nella sua inconsapevolezza: credendo di affermare l’essere dell’essente, il nichilismo lo pensa e lo vive come non essere. Un esempio primario è la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione, che proprio nell’atto in cui intende contrapporre l’essere dell’essente al suo non essere li identifica, perché concepisce temporalmente la loro contrapposizione: l’essente è «quando è», e non è «quando non è». Aristotele non si accorge – rileva Severino – che, temporalizzando l’essere dell’essente, si ammette un tempo in cui l’essente è niente e cioè si implica che l’essente non si contrapponga al niente e dunque sia niente. Come si nota, c’è qualcosa di cui il nichilismo è consapevole e qualcosa di cui non lo è: è convinto di affermare che l’essente non è niente; non si accorge di affermare che l’essente è niente. Il nichilismo è cioè tale solo in quanto non si accorge di essere tale. Se si accorgesse di essere nichilismo, la contraddizione che lo fonda sarebbe saputa e posta come tale, e con ciò il nichilismo stesso sarebbe oltrepassato. In questo senso Severino afferma che il nichilismo è l’«inconscio essenziale» della civiltà occidentale. Ma perché Platone, Aristotele e l’intero pensiero filosofico non si accorgono di questa identificazione? Per un motivo fondamentale: perché ritengono che il passaggio dall’essere al niente sia una evidenza fenomenologica, qualcosa che non dipende da una volontà ermeneutica, da un certo modo di interpretare l’accadere, ma dall’immediato presentarsi di quest’ultimo. Che le cose nascano e muoiano, cioè che passino dal niente all’essere e dall’essere di nuovo al niente, è implicato e vissuto come evidenza originaria, come qualcosa di assolutamente innegabile in quanto contenuto immediato dell’apparire. Ecco in cosa consiste il fondamento ultimo comune sia alla filosofia antica-moderna che a quella contemporanea. Mentre il pensiero filosofico occidentale tratta l’entificarsi e l’annullarsi delle cose come un’evidenza originaria, Severino (e in questo consiste la differenza irriducibile tra il suo pensiero e quello occidentale) mostra che questo continuo passaggio dall’essere al niente non è un contenuto

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mediatamente evidente ma il frutto di una inconsapevole e contraddittoria interpretazione. Cosa appare quando il nichilismo dice che una cosa nasce e muore? Appare forse il suo entificarsi o annullarsi? L’intera riflessione severiniana è volta a mostrare come l’apparire non contenga e non possa contenere un simile spettacolo, e come, al contrario, l’essere delle cose sia qualcosa di eterno. È il loro apparire, eterno anch’esso come ogni essente, a portarsi dentro e fuori dall’Apparire trascendentale1. 3. Il divenire e l'epistéme All’interno della convinzione di avere a che fare con l’evidenza dell’entificazione e della nientificazione delle cose, la filosofia aurorale va alla ricerca della Verità, cioè di un Senso eterno capace di spiegare che quello che è immediatamente presente come passaggio tra l’essere e il non essere, consiste in realtà in una contraddizione solo apparente. L’intento della filosofia nascente, in altri termini, è quello di mostrare che dietro il divenire delle cose esiste una verità eterna e definitiva da cui esse vengono e a cui fanno ritorno, e che, proprio perché tale, toglie la contraddizione del passaggio dall’essere al niente e con essa il dolore per la morte come annullamento definitivo. Da Platone a Hegel, per quanto in forme e modi diversi, la filosofia ritiene che esista una verità eterna da cui gli enti sensibili provengono e a cui fanno ritorno. Con ciò la minaccia del nulla sembra tolta, e l’intero processo del divenire sensibile in cui consiste la vita dell’uomo sembra salvato dall’insensatezza e dalla vanità. Col passare dei secoli, però, emerge che tale rimedio salvifico è un non rimedio, perché non salva affatto l’esistenza particolare dell’ente sensibile dall’annullamento. Tale esistenza, infatti, proprio in quanto bisognosa dell’abbraccio salvifico ed eternizzante della Verità, è qualcosa che viene dal niente e ritorna nel niente. L’abbraccio della Verità è cioè un abbraccio letale, perché implica e sancisce la nullità – e dunque la non salvabilità – di ciò che salva. L’ente sensibile «nasce» e «muore» in quanto viene dal niente e torna nel niente; questo è l’implicito fondamentale della salvezza eterna che sembra offrirgli la Verità eterna e immobile. Ciò che la Verità può salvare non è dunque la particolare individualità dell’ente sensibile, essenzialmente soggetta a entificazione e nientificazione: ciò che la Ve1

Questo tema, che è fondamentale, viene considerato nel III capitolo (par. 2). Per ulteriori chiarimenti si veda in modo particolare E. Severino, La Terra e l’essenza dell’uomo e Poscritto, contenuti in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982 e La Gloria, capp. II, X, Adelphi, Milano 2001.

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rità può salvare dal niente è tutto ciò che non è investito dal niente, ciò che non appartiene alla particolare individualità dell’ente sensibile. L’aver bisogno dell’abbraccio salvifico della Verità mette in luce la nientità di fondo dell’esistenza dell’ente sensibile e con ciò l’impossibilità della sua salvezza. Questa «potenza impotente» della Verità la conduce necessariamente al tramonto. In quanto nasce per spiegare il divenire (ossia l’esistenza dell’ente sensibile oscillante tra l’essere e il niente), essa si fonda sulla verità originaria di tale divenire, ossia sulla sua evidenza innegabile, giacché, se le cose non oscillassero tra il nulla e l’essere, non ci sarebbe bisogno di una Verità eterna salvifica. Non si salva ciò che è già salvo. Ma proprio in quanto l’essenza del divenire consiste nella libertà dell’essente di oscillare tra l’essere e il niente, il divenire è tale solo se non c’è un vincolo necessario tra l’ente e il suo essere e non essere. La Verità, invece, intende legare l’ente all’essere in un vincolo privilegiato e necessario, rendendo così impossibile il suo divenire come oscillazione tra l’essere e il non essere: il «divenire epistemico», cioè quel divenire che sgorga dalla Verità e ad essa fa ritorno, è un divenire anticipato e vincolato e dunque apparente. Non è un vero divenire. Il pensiero filosofico si accorge sempre più chiaramente che il divenire porta con sé l’impossibilità di qualsiasi verità definitiva diversa da sé stesso. Se tutto è divenire, non può esistere una Verità definitiva. Come si nota, è proprio il fondamento della Verità a renderla impossibile. Come la Verità è un abbraccio non solo non salvifico ma addirittura letale per l’esistenza dell’ente sensibile, ossia per il divenire come libera oscillazione tra l’essere e il niente, così il divenire è un fondamento letale per la Verità. In quanto la Verità rende impossibile il divenire, la coerenza al divenire conduce necessariamente a dichiararla impossibile. 4. La «coerenza incoerente» dell'anti-epistéme e la «legge del divenire» Su questa base il pensiero filosofico contemporaneo (a partire dal primo pensiero post-hegeliano) inizia a negare, in maniera via via sempre più decisa e rigorosa, l’epistéme quale posizione di una verità definitiva. Questa negazione appartiene a un processo di coerentizzazione lungo il quale il pensiero filosofico tende a salvaguardare il suo fondamento originario. In questo senso Severino mostra che il tratto essenziale del pensiero contemporaneo, al di là della sua eterogeneità di superficie, è quello di liberarsi dal «muro di pietra», cioè dalla fede nell’esistenza di una verità ultima e definitiva. Qui Severino riprende, e non a caso, un’espressione utilizzata

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da Dostoevskij. Dostoevskij, infatti, è una delle voci della contemporaneità che con vigore mostrano come la verità definitiva sia solo un’illusione. Tra queste voci, per Severino, quella che maggiormente spicca per lucidità e rigore, accanto e prima di Nietzsche o Gentile, è quella di Leopardi. Tutto il pensiero contemporaneo, al di là della sua eterogeneità, sviluppa con coerenza le implicazioni logiche che il concetto di divenire porta con sé e che costituiscono ciò che Severino definisce la «legge del divenire». Questo processo di coerentizzazione, in cui il nichilismo nega qualsiasi forma di verità immutabile per affermare quell’unica verità immutabile che è la libertà dell’ente quale oscillazione tra l’essere e il non essere, conduce dall’epistéme alla tecnica. L’epistéme si libera dall’epistéme, nel senso che, anche se il tramonto dell’epistéme si presenta come antiepistéme o antimetafisica, quest’ultima non è che la forma «non metafisica» della metafisica, in quanto nega la Verità della metafisica ma ne conserva le categorie ontologiche di fondo. Proprio per tutelare e salvaguardare il divenire, la conoscenza antiepistemica non si pone come un’anticipazione vincolante, ma come un’anticipazione che cerca di adeguarsi all’essenziale venire dal niente e tornare al niente dell’ente. L’ipotetismo della scienza moderna è dunque il “risultato inevitabile del contrasto che costituisce l’epistéme greca”2. Si potrebbe obiettare che la negazione della verità assoluta dà luogo alla riaffermazione di una verità assoluta: quella del divenire come libertà di oscillazione. Ma in ciò non vi è contraddizione (di tipo scettico), dal momento che, proprio per negare che un qualsiasi contenuto si imponga su tutti gli altri impedendo il libero oscillare degli enti, è necessario tenere fermo che tutto è divenire e che il divenire è l’essenza di tutto: negare qualsiasi forma di verità definitiva significa affermare la verità definitiva del divenire. Il divenire, in altre parole, non deve essere visto come un contenuto che si impone su tutti gli altri, ma come un non-contenuto, cioè l’apertura dell’orizzonte in cui nessun contenuto può essere definitivo. Il divenire è cioè verità assoluta in quanto forma o apertura originaria che impedisce a qualsiasi contenuto di fissarsi immutabilmente. La «legge del divenire» suona così: le cose sono veramente libere solo se vengono dal niente e tornano nel niente. Dunque il niente deve essere nihil absolutum, assolutamente non-essente: se fosse essente, le cose non sarebbero veramente libere, perché verrebbero dall’essere e dunque sarebbero vincolate e anticipate. Per garantire il libero divenire, si deve garantire che il niente sia niente nel senso del nihil absolutum. 2

E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 49.

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Ma la «legge del divenire» porta con sé un’altra istanza fondamentale, altrettanto necessaria sebbene antitetica: l’ente che esce dal niente è un diventare ente da parte del niente e quindi consiste in una certa inevitabile entificazione del niente. In quanto l’ente viene dal niente, il niente è destinato a diventare un non-niente e dunque il suo “destino” è l’entificazione. L’esser niente del niente è il suo diventare ente; se il niente non si entificasse, l’ente resterebbe niente e non avrebbe luogo il divenire come oscillazione tra l’essere e il non essere. Il niente è cioè originariamente raggiunto dalla legge del divenire quale anticipazione fondamentale che sa che ciò che ancora è niente è destinato a diventare ente. E qui si noti che l’entificazione del niente non riguarda solo il niente in attesa di entificarsi, ma anche il niente che è stato ente: il suo essere stato ente non lo potrà mai rendere un niente assoluto, perché quel niente sarà sempre la nientificazione di un certo ente. Il nichilismo coerente riduce al minimo l’entificazione del niente, ma non la può eliminare. Ecco dunque l’intima contraddittorietà della legge del divenire: in quanto il niente è ciò da cui l’ente deriva, esso da una parte deve essere nihil absolutum, ma dall’altra non lo può essere. Questa è l’incoerenza ineliminabile del nichilismo coerente: nel divenire, il niente è e non è nihil absolutum. Per essere coerente al divenire, il nichilismo deve eliminare ogni anticipazione-entificazione, ma non può eliminare quella anticipazioneentificazione che consiste nella entificazione (seppure ridotta al minimo: per questo Severino la chiama anche «residuale») del niente. Per eliminare l’entificazione residuale del niente dovrebbe eliminare la destinazione del niente all’ente; ma se la eliminasse, eliminerebbe lo stesso divenire. Tutto ciò che accade, ha «forma» di ente: questa è l’ineliminabile anticipazione vincolante che il divenire porta necessariamente con sé. Entificazione del niente e nientificazione dell’ente sono dunque i due momenti essenziali dell’oscillazione tra essere e niente in cui consiste la libertà dell’ente. Nientificando l’ente, si entifica il niente; entificando il niente, si nientifica l’ente. Nientificando l’ente, infatti, si implica che la destinazione essenziale del niente sia l’ente: se ciò da cui l’ente deriva e a cui fa ritorno è il niente, il niente è ciò che è destinato a diventare ente e a ritornare niente dopo essere stato ente. Cioè si entifica il niente. Ma entificando il niente, cioè dicendo che la sua destinazione essenziale è l’entificazione, si nientifica l’ente, in quanto si implica che la destinazione essenziale di quest’ultimo sia quella di essere niente, di non essere non-niente. Questa è la legge essenziale del divenire. Il niente è ente, perché, ancor prima di essere entificato nell’ente particolare, è originariamente entificato dalla legge del divenire che consiste nella anticipazione-entificazione originaria.

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E l’ente è niente, perché, ancora prima di diventarlo, è originariamente pensato come ciò a cui compete essenzialmente di diventare niente. Il nichilismo non si può accorgere della nientità originaria dell’ente e della entità originaria del niente, perché non può accettare che il diventare niente dell’ente sia il diventare niente del niente e, viceversa, che il diventare ente del niente sia il diventare ente dell’ente. Se lo accettasse, negherebbe l’opposizione tra essere e non essere che sta alla base dell’epamphoterìzein dell’ente. Questa coerenza essenzialmente incoerente, consistente nel liberarsi dall’epistéme promuovendo – seppure in modo solo parzialmente consapevole – la legge del divenire, è dunque il tratto fondamentale della filosofia contemporanea. Ma quando Severino lo fa notare, il pensiero contemporaneo generalmente gli risponde che la sua posizione non è altro che la riproposizione di quella epistéme da cui la contemporaneità si è (finalmente) liberata. In questo modo, liquidando il pensiero di Severino come appendice della ricerca tradizionale della verità inaugurata da Platone e terminata con Hegel, il pensiero contemporaneo ritiene di avere eliminato alla radici la critica severiniana, quale espressione di un passato contraddittorio di cui ci si è da tempo liberati. Ma, come si nota, questa identificazione è solo il frutto di un clamoroso e mistificante abbaglio. 5. La differenza essenziale tra l'epistéme occidentale e il de-stino severiniano Il pensiero di Severino si allontana radicalmente dalla fede nell’evidenza del divenire e dunque dall’epistéme tradizionale. Si intende ciò in senso etimologico: allontanamento dalle radici, dal fondamento del nichilismo. Il pensiero severiniano mette in luce il fondamento nichilistico della filosofia occidentale come percorso che dall’epistéme conduce all’antiepistéme, mostrandone l’illusorietà e contraddittorietà. Non consiste dunque in un “ritorno” all’epistéme, proprio perché nega il fondamento ultimo di quel percorso. Al fondamento contraddittorio del nichilismo Severino contrappone lo stare assolutamente necessario e innegabile dell’essere, qualcosa di mai pensato prima, la cui innegabilità non consiste nel prodotto di un’operazione intellettuale ma nell’apparire della immediata autonegatività del proprio negativo. Lo stare del de-stino (dove il «de» – inteso in senso potenziante – è il rafforzamento dello «stino», cioè, etimologicamente, dello stare dell’essere), pensato al di fuori delle categorie del nichilismo, potrebbe anche essere definito «epistéme»; tuttavia, per evitare pericolose

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ambiguità, Severino utilizza il termine «de-stino», con cui rimarca anche lessicalmente l’infinita e irriducibile distanza che lo separa dalla tradizione filosofica occidentale. Qui si rilevi che il discorso severiniano porta a galla il fondamento inconscio del nichilismo. Ma il pensiero contemporaneo non vi riconosce la propria essenza. E non la può riconoscere se non comprende il de-stino: il nichilismo può essere visto come tale solo in quanto ci si porti fuori da esso, e questo portarsi fuori significa pensare lo stare innegabile dell’essere (de-stino). Questa duplice impossibilità fonda la confusione che viene spesso fatta tra de-stino ed epistéme occidentale. Si tratta di una confusione necessaria in quanto, come detto, il nichilismo non può riconoscersi come tale. Il pensiero contemporaneo (come quello antico e moderno) non può riconoscere il fondamento ultimo del proprio nichilismo (in tal caso, infatti, si sarebbe portato fuori dal nichilismo); per questo è necessario che esso non distingua il destino severiniano dall’epistéme occidentale e che non comprenda la soluzione dell’aporetica del nulla, che è una individuazione della struttura innegabile in cui consiste il destino come fondamento. Qui si aggiunga che la differenza tra epistème occidentale e destino della verità non riguarda soltanto il loro contenuto, bensì lo stesso significato di innegabilità: tale differenza “non riguarda soltanto i contenuti la cui affermazione si presenta come incontrovertibile, ma la struttura stessa dell’incontrovertibilità in quanto tale”3. La struttura dell’innegabile è essenzialmente diversa in relazione al destino della verità e alla storia dell’epistéme, perché i due significati formali di innegabilità sono “in relazione a contesti essenzialmente diversi e quindi, anche in quanto distinti da tali contesti, non possono essere tra loro identici”4. Il significato di «innegabilità» nel pensiero severiniano e nel pensiero dell’Occidente non è cioè lo stesso significato.

3 4

E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 91. Ibidem.

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II. L’APORETICA DEL NULLA E IL SUO RISOLVIMENTO

1. La struttura generale dell'aporia e le sue formulazioni Il IV capitolo de La struttura originaria incomincia chiarendo la natura dell’aporetica di cui intende occuparsi (1. La formulazione dell’aporetica): l’aporetica che intendiamo considerare compete al non essere, non in quanto questo è un certo non essere – ossia è un certo essere (essere determinato) – ma in quanto il non essere è «nihil absolutum», l’assolutamente altro dall’essere e quindi – si può dire – in quanto è ciò che sta oltre l’essere, inteso questo come totalità dell’essere. Aporia antichissima – della quale già Platone ebbe piena coscienza -, ma comunque sempre in un certo modo evitata, elusa e infine lasciata irrisolta1.

L’aporetica di cui si parla riguarda dunque il nulla assoluto e consiste in questo: per poter escludere che l’essere sia nulla, il nulla è posto, presente, e pertanto è. C’è un discorso sul nulla, e questo discorso attesta l’essere del nulla. O c’è una notizia, una consapevolezza del nulla, che ne attesta l’essere. Sì che sembra doversi concludere che la contraddizione è il fondamento sul quale può realizzarsi lo stesso principio di non contraddizione2.

Per poter escludere che l’essere sia nulla, è necessario porre il nulla come nulla; ma così si afferma l’«essere» del nulla, si dice ciò che è. Ma il nulla non può essere un «ciò che è»! Sembra dunque impossibile non solo affermare la nullità del nulla, ma addirittura pensarlo, porlo, nominarlo senza con ciò farne un essente e dunque perderlo come tale. Il

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E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 209. Ibidem.

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principio di non contraddizione pare dunque fondato su questa immediata autocontraddizione. Prima di indicare determinatamente la soluzione generale e specifica dell’aporetica del nulla, il testo presenta e commenta brevemente le sue principali formulazioni storiche, considerando dapprima quelle di Platone e di Fredegiso di Tours (successivamente vengono presi in esame anche altri contributi, tra cui quelli di Bergson, Carnap, Frege, Heidegger, Meinong, Russel). Quindi prende in esame alcune soluzioni apparenti, iniziando da quella proposta da Frege. Essa consiste nel rilevare che, se da una parte il significato nulla è assolutamente insignificante, dall’altra l’operazione del negare ha senso. Come si nota, la distinzione tra senso e significato ripropone il problema nell’atto in cui crede di superarlo, giacché lascia intatta l’aporia del significato nulla: tale soluzione, che ripete “uno dei motivi più celebri della tradizione scolastica […] non risolve l’aporia, la quale si ripresenta a proposito dell’assenza di significato del termine «nulla»”3. Il testo severiniano non lo richiama, ma qui è interessante rilevare che la posizione di Frege è in un certo modo il rovesciamento della posizione di Heidegger, il quale mostra che il nulla, inteso come Ni-ente, è il momento vero e originario da cui l’atto logico del negare deriva: “il niente è più originario del non e della negazione”4. Anche la soluzione consistente nell’ignorare l’aporia è da scartare immediatamente, giacché non è una soluzione: il nulla deve poter essere posto se si vuole porre il principio di non contraddizione o l’essere. E senza porre l’essere non può essere posto nessun significato, dal momento che “porre un significato equivale a porre una certa positività, o una certa determinazione del positivo, dell’essere”5. Infine, non si può nemmeno risolvere l’aporia del nulla come si risolve quella della presenza dell’assente, “osservando che, certamente, l'assente è presente, ma come assente”6. Se, infatti, si volesse ripetere che, “certamente anche il non essere è, ma come non essere”7, non si risolverebbe, l'aporia ma la si epliciterebbe. “Mentre nel caso della presenza dell'assente non è contraddittorio negare che la presenza sia coestensiva all’essere”8. Nel caso del non essere, infatti, dire che esso è non essere significa dire che il niente è, e cioè porre la contraddizione come tale. 3 4 5 6 7 8

Ibi, p. 210. M. Heidegger, Che cos’è la metafisica? La nuova Italia, Firenze 1985, cit., p. 12. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 211. Ibidem. Ibi, p. 212. Ibidem.

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Passate in rassegna le apparenti soluzioni, il testo delinea la “struttura generale dell’aporetica” indicandone due sviluppi o formulazioni fondamentali: essa può essere sviluppata secondo “una duplice direzione: o mostrando che il non essere è (par. 1); o, tenendo fermo il non essere del non essere, mostrando come non possano costituirsi quelle strutture logiche che implicano la posizione del non essere (par. 3)”9. Il non essere «è» non essere; dunque esso «è». Questo è il primo modo di formulare l’aporia: il non essere, l’assolutamente altro dall’essere, «è» non essere; ma in quanto «è», esso non è nulla assoluto. In quanto il nulla «è» nulla, il nulla non è nulla. Il principio di non contraddizione, quale affermazione dell’opposizione tra essere e non essere, esige la posizione del nulla; ma poiché la posizione del nulla attesta l’«essere» del nulla, il nulla non è veramente opposto all’essere e dunque il principio di non contraddizione è un’autocontraddizione, in quanto, non riuscendo a porre l’assoluta nullità del nulla, afferma una opposizione tra essere e nulla che è e non è una opposizione. Per non cadere in tale aporeticità, si deve tenere ferma la nullità del nulla. Ma il tenere ferma la nullità del nulla fa sorgere un altro modo di presentarsi dell’aporetica. Il nulla viene tenuto fermo come nientità assoluta. Ma in quanto questa nientità assoluta vale come l’orizzonte al quale l’essere, in quanto totalità del positivo, si contrappone assolutamente, l’essere si contrappone a qualcosa che è assolutamente inesistente e che dunque non può costituire quell’alterità che è indispensabile alla costituzione dell’essere e del principio di non contraddizione. In altre parole, la posizione dell’essere esige la posizione del non essere; ma poiché il non essere – tenuto fermo come assolutamente inesistente – non può essere posto (pena, altrimenti, la ricaduta nella prima formulazione dell’aporetica), nemmeno l’essere può essere posto. In altre parole ancora, l’essere è essenzialmente la negazione del non essere e dunque implica l’orizzonte del non essere; ma in quanto tale orizzonte non esiste, l’essere implica e non implica tale orizzonte. Tenendo ferma la nullità del nulla, l’aporia si ripresenta cioè in quest’altro modo. Come si nota, la seconda formulazione è in un certo modo il prolungamento della prima. La prima, infatti, evidenzia la contraddittorietà della posizione del nulla: per dire che il nulla «è» assolutamente nulla, si dice appunto che esso «è» e dunque che non è assolutamente nulla. La seconda è come se implicasse quest’ultima consapevolezza, ossia che del nulla non si può dire che «è nulla», e ripartisse da lì, cioè cercando di tenerne ferma la 9

Ibi, p. 213.

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nullità assoluta. Ma in quanto il nulla viene tenuto fermo come ciò che non esiste, viene con ciò stesso tenuto fermo che non esiste ciò che è richiesto per poter porre l’essere. In quanto il nulla assoluto è assoluta inesistenza, il principio di non contraddizione, quale posizione della contrapposizione dell’essere al non essere, non può costituirsi, ovvero l’essere stesso non può essere posto. Ecco allora che, in quanto il nulla non esiste, “non possono costituirsi quelle strutture logiche che implicano la posizione del non essere” (par. 4). 2. Il «nulla» come significato autocontraddittorio10 Subito dopo aver indicato la struttura generale dell’aporetica e le sue formulazioni fondamentali, nel paragrafo 5 viene analizzato il significato incontraddittorio della posizione del nulla e si introduce l’aspetto fondamentale del risolvimento dell’aporetica: per il risolvimento dell’aporetica delineata, si incominci a osservare – ma si tratta poi dell’osservazione fondamentale – che allorché si afferma che la posizione del non essere attesta l’essere del non essere, non si può intendere di affermare che «nulla» significhi, in quanto tale, «essere»; ma che il nulla, che è significante come nulla, è11.

In altre parole, parlando dell’«essere» del non essere non si dice che il nulla esiste, cioè che anche il nulla è qualcosa, e dunque che non lo si può affermare come inesistenza assoluta; ma si dice che ad essere qualcosa è il

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Per rimanere aderenti al lessico della Struttura originaria, in questo scritto si parla del significato «nulla» come di una sintesi «autocontraddittoria», dove tale espressione significa «contraddicentesi». Il significato nulla è infatti una sintesi che si contraddice, inevitabilmente, in quanto sintesi dell’assoluto nulla e del suo positivo significare. In relazione a tale sintesi, il termine «autocontraddittorietà» dovrà dunque essere inteso alla luce della distinzione «dei due sensi della autocontraddizione» (cfr. paragrafo 8 di questo capitolo e IV, 2, pp. 93-98), per cui «autocontraddizione» indica sia il contenuto impossibile e inesistente della contraddizione sia il suo positivo significare. Negli scritti successivi, Severino utilizza più rigorosamente l’espressione «contraddittorio» per indicare il contenuto impossibile della contraddizione, e «contraddizione» (o «contraddirsi») per indicare il suo positivo significare. L’espressione «differenza tra contraddirsi e contraddizione», che si incontra in molti testi severiniani, indica appunto la distinzione tra la «contraddizione» quale contenuto contraddittorio (impossibile) e il «contraddirsi» quale positivo significare di quel contenuto. Ibi, p. 213.

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nulla come significante nulla. E così come si deve dire che è il significato nulla a essere, e non il nulla come nulla (giacché come tale esso non esiste affatto), allo stesso modo si deve dire che il significare del nulla come nulla non è un «non essere» ma un «essere», cioè un certo positivo significare: e, dall’altro lato, questo «essere» del nulla non è significante come «non essere»; ma, essendo significante come essere, è essere del nulla (che è significante come nulla). La contraddizione del non-essere-che-è, non è dunque interna al significato «nulla» (o al significato «essere» che è l’essere del nulla); ma è tra il significato «nulla» e l’essere, o la positività di questo significato. La positività del significare è cioè in contraddizione con lo stesso contenuto del significare, che è appunto significante come l’assoluta negatività12.

In altre parole: ponendo il niente se ne pone l’essere, cioè il significare, la positività; ma questa necessaria positività o significanza del nulla non deve essere confusa (come invece accade nell’aporetica) con la nullità del nulla quale assoluta insignificanza. O ancora: la posizione del nulla implica, proprio in quanto posizione, la posizione del positivo; ma questa implicazione non significa che «nulla» significhi «essere». La positività del significare, in altri termini ancora, non è inclusa nel contenuto del significato quale nientità assoluta del niente. Il «non esistere affatto» non è la posizione del «non esistere affatto». Tale posizione, infatti, non è inesistente, non è niente. È qualcosa. È, appunto, quel qualcosa in cui consiste la posizione della nientità del niente quale inesistenza assoluta. L’inesistenza assoluta deve dunque essere distinta dalla posizione (o dal positivo significare) dell’inesistenza assoluta. Il significato «niente» è appunto la sintesi originaria di questi due momenti. Tale originarietà della sintesi è il fondamento ultimo della non aporeticità della posizione del nulla. Che è quanto viene introdotto nel paragrafo 6. Ogni significato è la sintesi tra la positività del significare (essere formale) e un certo contenuto determinato del positivo significare (determinazione): se ogni significato (ogni contenuto pensabile, cioè ogni ente, qualsisia il modo in cui esso si costituisce) è una sintesi semantica tra la positività del significare e il contenuto determinato del positivo significare; o, che è il medesimo, tra l’essere formale e la determinazione di questa formalità (cap. II, par. 2)13 – dove l’essere formale è appunto la positività della significanza della 12 13

Ibidem. Cfr. prossimo paragrafo.

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determinazione -, è chiaro allora che il significato «nulla» è un significato autocontraddittorio, ossia è una contraddizione, è l’esser significante come una contraddizione: appunto quella per cui la positività di questo significare è contraddetta dall’assoluta negatività del contenuto significante14.

Il passo è chiaro: la positività del significare è in contraddizione con l’assoluta negatività del contenuto significato; e in questo senso il significato «nulla» è certamente (e lo deve essere, come vedremo!) un significato autocontraddittorio. In altri termini, il positivo significare della determinazione è in contraddizione con la determinazione di tale positività in quanto «nulla assoluto». 3. Chiarimenti sulla semplicità dell'«essere formale» 15 Si interrompe l’esposizione del risolvimento dell’aporetica per chiarire un aspetto molto importante, e forse un po’ trascurato, che riguarda da vicino il tema che stiamo trattando. Si tratta del significato dell’essere formale di cui si è parlato nel paragrafo precedente. Come deve essere inteso? Come un significato semplice o complesso? Dopo un percorso concettuale iniziato con la prima edizione della Struttura originaria (1958) e caratterizzato da diverse prese di posizione, Severino dirime definitivamente la questione solo in Oltrepassare (2007): nella Struttura originaria (VI, 5) questo «è», così distinto, è chiamato «essere formale» e se ne afferma l’assoluta semplicità semantica: non presupponendola (come accade nel pensiero hegeliano), ma fondandola sulla necessità che, se l’«è» non è un significato semplice, gli elementi, o «momenti» da cui è costituito o siano oppure non siano; sì che, nel primo caso, l’«è» è già nel molteplice che, solo unendosi, dovrebbe costituire il significato «è», e, nel secondo caso, l’«è» non si costituisce – ossia non è un che di significante – perché è costituito da niente (ossia da ciò che non è)16.

In altre parole, il testo del 1958 sostiene la semplicità dell’essere formale perché, se non si trattasse di un significato semplice ma complesso, i suoi momenti o sarebbero o non sarebbero. Tolto il secondo caso (che vanifica la questione stessa, perché se i suoi momenti non fossero, l’essere stesso non sareb14 15 16

Ibi, p. 213. Questo paragrafo riprende il paragrafo 4 del II capitolo di un mio precedente saggio su Severino, dal titolo Emanuele Severino. Oltre il nichilismo (Morcelliana, 2011). E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 320.

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be) e tenendo fermo il primo, segue che l’essere formale sarebbe già presente in quei momenti in cui invece esso dovrebbe essere presente solo in quanto sintesi: “l’«è» è già nel molteplice che, solo unendosi, dovrebbe costituire il significato «è»”. Ma poiché ciò è contraddittorio, il testo del ’58 conclude che l’«è», inteso in senso formale, è necessariamente un che di semplice. Nell’Introduzione del 1981 alla Struttura originaria, si rileva che anche l’essere formale è una complessità semantica, perché è impossibile separare l’«è» del «ciò che» da quest’ultimo: essi sono senz’altro distinti, ma sono ciò che sono solo in quanto non separati. Oltrepassare ripercorre in questo modo quelle affermazioni: “è al qualcosa-che-è che compete l’«è»; e gli compete non come l’«è» di qualsiasi cosa, ma come il suo «è», ossia come l’«è» del «qualcosa», sì che è il «qualcosa-che-è» (x=y) ad essere l’«è»-di-questo-qualcosa (y=x). [...] La summenzionata Introduzione, tesa a mostrare la complessità dell’essere dell’essente, ritiene che tale complessità sia incompatibile con la semplicità semantica dell’«è» di «ciò che è», e respinge la fondazione di tale semplicità [...] nel modo seguente: [...] dire che del momento si deve predicare l’essere, non equivale infatti a dire che il significato del predicato debba entrare a costituire il significato del momento di cui il predicato si predica”17. In altre parole: l’essere formale è necessariamente una complessità semantica, perché non può essere separato dal suo «ciò che». Essi possono essere distinti, ma non separati, perché sono ciò che sono solo in quanto relati. L’«è», che viene predicato al «ciò che», non è un qualsiasi «è», ma è quell’«è» che gli compete. Tale «è» è dunque complesso, e perciò esso non può essere semplice. La motivazione con cui il testo del 1981 respinge le posizioni del 1958 potrebbe risultare un po’ criptica e soprattutto disorientante, perché per sostenere la complessità dell’essere formale finisce con l’isolare il momento dal suo predicato: per evitare l’isolamento, produce isolamento. Cerchiamo dunque di chiarirla il più possibile. Essa tiene ferma la premessa del ’58, e cioè che se l’essere è un significato complesso, allora consta di momenti che sono. Ma che i momenti siano non significa (come invece sosteneva il testo del ’58) che in essi sia già presente quel significato complesso di «essere» che consiste nella sintesi, ovvero che l’«essere del momento» sia l’essere quale «sintesi dei momenti»: “dire che del momento si deve predicare l’essere, non equivale infatti a dire che il significato del predicato debba entrare a costituire il significato del momento”. Il momento «è»; ma ciò non significa che questo suo «essere» sia quell’«essere complesso» che consiste nella sintesi. Mentre per il 17

Ibi, pp. 320-321.

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testo del ’58 questa conclusione era d’obbligo: se l’«è» è complesso, allora esso è già nel significato del momento, ossia il momento (la parte) contiene già il predicato che la sintesi le predica (il tutto). Qualcuno potrebbe chiedere: perché dire che il predicato «è» non costituisce il significato del «ciò che», è una critica all’affermazione che l’essere non è un significato complesso ma semplice? Non si deve forse dire, al contrario, che questa critica del 1981 finisce col sostenere le posizioni del 1958, proprio perché, come quelle posizioni, sta sostenendo che il predicato del momento non “entra a costituire il significato del momento di cui il predicato si predica”? In altre parole, non c’è forse nelle posizioni del 1981 la medesima concezione “isolante” che proprio tali posizioni ravvisano nel testo del 1958, in cui si afferma che il predicato «è» deve essere inteso come qualcosa di semplice, cioè di non ancora in sintesi, con il significato del «ciò-che»? Il testo del 1981 critica quello del 1958 su questo punto: che il complesso consti di momenti, e che dunque questi già siano, non significa “che allora il «momento conterrebbe già ciò che dovrebbe risultare dalla sintesi con tutti gli altri momenti»”. Affermare l’essere dei singoli momenti non significa che essi già debbano contenere quel significato complesso di essere che è dato dalla sintesi, cosa invece sostenuta dal testo del 1958, mostrando che se ogni momento già contenesse la complessità dell’intero, verrebbe meno la differenza tra il momento (parte) e la sintesi (totalità). Il testo del 1981 sostiene invece che la complessità del significato «essere» non porta affatto con sé la necessità che i singoli momenti già contengano quello che invece dovrebbe essere contenuto solo nella sintesi. Il presupposto implicito delle posizioni del 1981 consiste nella incompatibilità del significato semplice e complesso dell’essere: considerando la questione come un aut aut tra i due significati, alla luce della posizione della necessità della originarietà della sintesi tra «ciò che» ed «è», si conclude che la semplicità dell’essere nega l’originarietà della sintesi. Se l’essere è l’essere dei momenti, esso deve essere originariamente complesso. Se non lo fosse, non sarebbe l’essere dei momenti, e si sarebbe compiuta astrazione dal concreto. Ma per tenere ferma l’originarietà della sintesi tra i momenti, che è un altro modo per dire la complessità dell’essere, il testo del 1981 perde l’altro significato dell’essere, quello formale, e cade tanto inavvertitamente quanto inevitabilmente in un’altra forma di isolamento: quella tra il momento e il suo predicato. Infatti, per dire che l’affermazione della complessità dell’essere formale non implica che esso sia già presente nei suoi momenti, è costretto a dire che il predicato del momento è separato dal momento (o che il momento è separato – e non semplicemente distinto

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– dal suo predicato). Le posizioni del 1981 non si accorgono cioè di ricadere in quell’isolamento che intendono evitare. Oltrepassare mostra che tale motivazione è “conseguenza dell’isolamento che, nel momento (e, propriamente, nei momenti) separa ciò che è dal suo essere” e imbocca una terza via: rilevato come il mantenere il momento separato dal predicato sia frutto dell’isolamento (tra momento e predicato), Oltrepassare può agevolmente mostrare che i due significati (semplice e complesso) non sono affatto incompatibili, ma che, al contrario, “si implicano con necessità”: “il significato complesso di «essere» non contraddice il significato semplice di «essere». Questi due significati si implicano anzi con necessità. Il significato complesso di «essere» è l’«esser sé», ossia l’identità, l’identità che si costituisce come non isolamento tra il qualcosa che è e ciò che esso è (dove ciò che esso è è anche questo «è»), cioè si costituisce secondo la concretezza dell’equazione (x = y) = (y = x), la quale concretezza è l’oltrepassamento infinito del contraddicentesi (ossia dell’astratto) esser sé che pure compete a questa equazione concreta […]. In quell’equazione – in cui si afferma «x-che-è-y è y-che-è-x» – l’«è», indicato dal simbolo «=», è un significato semplice, non analizzabile («essere formale»). Ciò non significa che «è» non sia significante”18. Tale semplicità, certamente in quanto non isolata dall’equazione dell’essere, “non significa indeterminatezza semantica”. Essere semplice o formale “significa, da un lato «essere identico» (identità), dall’altro significa «significare». L’«essere identico» significa cioè «significare». Questi due lati (e anzi tre, con l’«essere semplice», appunto) sussistono solo nella forma esterna del linguaggio. Che l’«essere semplice» significhi «essere identico» non è una definizione dell’«essere» semplice. In «essere identico», «identico» è pleonastico, un chiarimento della forma esterna della parola «essere»”19. L’affermazione «questa lampada è accesa», rileva Severino, significa che «questa lampada è identica al suo esser accesa», ossia che questa lampada, distinta dal suo esser accesa, è un esser accesa in quanto “il suo esser accesa, che le compete in quanto distinta dal suo esser accesa, è identico al suo esser accesa”20. Il semplice «è» significa dunque «essere identico», senza per questo smettere di essere semplice: infatti, è l’unione tra x e y (nella formulazione appena vista) a essere una complessità semantica, mentre l’«è» che ne costituisce il predicato è distinto da essa e, così distinto, non è complesso ma semplice, dove – come detto – essere semplice non 18 19 20

Ibi, pp. 321-322. Ibi, p. 323. Ibidem.

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significa essere insignificante: “solo se ne fosse separato non sarebbe un che di significante, e quindi nemmeno un significato semplice, cioè sarebbe niente”21. La relazione di identità, per quanto nella lingua italiana il verbo riflessivo «identificarsi a» possa trarre in inganno in questo senso, “non allude a una relazione ulteriore rispetto a quella dell’identità, ma è dovuta alla natura del verbo italiano «identificarsi»22”, cosa che non accade, invece, con «eguagliare», dal latino aequare, formato su aequus («uguale»). Anche nel caso dell’equazione, quale «eguaglianza» di due eguaglianze (come si è visto nella formula x-y), le eguaglianze sono due “solo per la forma esterna del linguaggio, ma propriamente sono lo stesso”23. L’essere semplice significa “si identifica a” ma anche “significa”; pertanto “eguaglia” e “significa” si eguagliano, sono il medesimo significato. Ecco dunque come si deve intendere la compatibilità di essere semplice e complesso: “come «essere» semplice è significato semplice, come equazione dell’«essere» è significato complesso”24. E così, come l’essere formale è significato semplice, anche i significati «significare» e «eguagliare» sono significati semplici; per essi può essere ripetuto quanto detto a proposito dell’essere formale: “sono significati semplici in quanto distinti da ciò che essi necessariamente implicano e che costituisce la concretezza della loro semplicità semantica”25. Per chiarire: se il significato «significare» fosse complesso, i suoi momenti già sarebbero un significare (il caso del non essere dei momenti, come già visto, nientifica lo stesso significare) e cioè sarebbero già la sintesi, che dunque non consisterebbe nel significato «significare»: esso, cioè, se fosse complesso, non potrebbe essere quel significato che è. In conclusione è interessante notare come la posizione del 2007 sia la sintesi e il superamento delle posizioni del 1958 e del 1981: con essa si ritorna infatti all’affermazione della semplicità del significato formale dell’essere (tesi), ma tale semplicità non vale come negazione della complessità dell’essere (antitesi), dal momento che si deve affermare che entrambe le posizioni (della semplicità e complessità dell’essere) “si implicano con necessità” (sintesi). In altre parole, il ritorno del 2007 alle posizioni del 1958 è un «ritorno» solo in quanto «supera» ciò a cui fa ritorno, ossia in quanto non prescinde dalle posizioni del 1981, ma le conserva emendate dalla loro contraddittorietà. 21 22 23 24 25

Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 324. Ibidem. Ibidem.

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4. Struttura generale del risolvimento dell'aporia Il significato autocontraddittorio di «nulla» è dunque un significato complesso che “include come momento semantico il «nulla» del quale, nel paragrafo precedente, si è rilevato l’essere significante come nulla. (O il «nulla» come significato incontraddittorio, è momento del «nulla», come significato autocontraddittorio)”26. Ciò significa che ad essere autocontraddittorio è il nulla come sintesi tra l’assoluta negatività e il positivo significare di tale assoluta negatività; mentre quest’ultima, ossia l’assoluta negatività, è quel significato incontraddittorio che è momento del «nulla» come significato autocontraddittorio. Qui il testo prosegue con una precisazione importante: la positività del significare (l’«essere») del nulla, che è in contraddizione con il nulla-momento (o significato incontraddittorio), non consiste semplicemente nel positivo significare (o puro essere formale nel senso chiarito sopra), ma è dato sia dal positivo significare che dal contenuto determinato del positivo significare, ovvero dal positivo significare in quanto “concreto contenuto semantico che viene pensato allorché, ponendo il nulla, è posto l’«altro dalla totalità dell’essere»”27. Il positivo significare del nulla, quale momento del nulla come significato autocontraddittorio, è dunque “costituito da un lato dall’essere (formale) del «nulla», e dall’altro lato dal concreto contenuto semantico del «nulla» […] si potrà comunque usare il termine essere per indicare l’intera struttura del positivo significare del nulla (per indicare cioè l’intera struttura di ciò che vale come momento del significato autocontraddittorio «nulla»)28. Indispensabile un chiarimento su questo «altro dalla totalità dell’intero»: se ciò che sta oltre l’intero non ha alcuna positività o alcun essere, questa assoluta negatività è d’altronde significante in modo così complesso da includere, nella struttura del suo significato, addirittura l’intero semantico (appunto come ciò rispetto a cui si istituisce il senso della negatività assoluta). Ciò che è significante come «altro dall’intero» è il nulla, ma il significato del nulla implica lo stesso assoluto significare, lo stesso intero semantico. E quindi, se l’altro dall’intero è assoluta negatività, la presenza di questa, come tale, ossia come altro dall’intero, implica addirittura la presenza dell’intero29.

26 27 28 29

E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 214. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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Il nulla, in quanto significante come «altro dall’intero», implica lo stesso intero semantico; l'assoluta negazione dell’intero implica, proprio in quanto ne è la negazione, l’intero che essa nega. In questo senso si deve dire che, in quanto la negazione di qualcosa implica la presenza del qualcosa, la nullità del nulla, in quanto posizione della negazione assoluta dell’esistenza e della significanza, implica, come tale, la posizione della totalità dell’essere e del significare. Riassumendo. Anche il significato «niente» è, come tutti i significati, sintesi del positivo significare e del suo contenuto. Ma si tratta di una sintesi particolare, diversa da tutte le altre, perché in essa il contenuto del significare (l’assoluta inesistenza) è in contraddizione con la positività del significare, giacché il primo è l’assolutamente negativo e il secondo il positivo significare. Per questo si deve dire che «nulla» è un significato autocontraddittorio (par. 6), ovvero “è l’esser significante come una contraddizione: appunto quella per cui la positività di questo significare è contraddetta dall’assoluta negatività del contenuto significante”30. Il significato autocontraddittorio di nulla è dunque composto da due momenti: il nulla come nulla («nulla-momento» o «nulla incontraddittorio») e il suo positivo significare. Tale positivo significare (o essere) è a sua volta composto dal significare o essere formale e dal “concreto contenuto semantico” di quel significare. Il motivo per cui, nel caso del significato «nulla» come assoluta inesistenza, il positivo significare è composto dall’essere formale e dal concreto contenuto semantico è spiegato nella nota di p. 214: Si potrebbe pensare di ridurre la positività del nulla all’essere formale, solo se il nulla non fosse inteso come negazione dell’intero, ma, come ad esempio vuole lo Hegel, come nulla indeterminato, in cui ciò che è negato non è il massimo, ma il minimo semantico (il puro essere). E comunque questa è la differenza tra il nulla hegeliano e il nulla come assoluta negatività: quello è negazione del positivo minimo, questo è negazione del positivo massimo31.

Con i chiarimenti del paragrafo 6 siamo dunque arrivati alla «struttura generale del risolvimento dell’aporetica» del paragrafo 7. Il quale inizia proprio mostrando che “l’aporia del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio di cui si è discorso nel paragrafo che precede; ma afferma che «nulla» non significa «essere» (come appunto si è detto nel paragrafo 5); ossia esige l’inesistenza della contraddizione interna al significato 30 31

Ibi, p. 213. Ibi, p. 214.

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«nulla» che vale come momento del significato autocontraddittorio. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio”32. Il che significa che il principio di non contraddizione non afferma che il significato autocontraddittorio di nulla non esiste, ma che il nulla-momento è incontraddittorio, ossia che il non essere, che è negazione dell’essere, è il non essere che vale come momento del non essere quale significato autocontraddittorio. L’autocontraddittorietà del nulla non solo non nega il principio di non contraddizione, ma è la condizione stessa del suo costituirsi. Se, infatti, il nulla non fosse un concetto autocontraddittorio, esso non sarebbe il contraddittorio dell’essere. Dunque il nulla deve essere posto come significato immediatamente autocontraddittorio, ed esattamente come quel significato composto da due momenti contraddittori (il nulla-momento e il positivo significare) che sono originariamente in sintesi tra loro. Questa posizione dell’autocontraddittorietà del nulla è la stessa posizione dell’incontraddittorietà del principio di non contraddizione e della nullità del nulla come nihil absolutum: il significare dell’assolutamente negativo è necessariamente un significare autocontraddittorio. Se non lo fosse, non sarebbe il significare dell’assolutamente negativo ma del positivo. L’aporia del nulla “è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio del nulla […]; ma afferma che «nulla» non significa «essere» […]; ossia esige l’inesistenza della contraddizione interna al significato «nulla» che vale come momento del significato autocontraddittorio. […] Le aporie formulate nei paragrafi 1 e 3 sono prodotte, da un lato, dal mancato riconoscimento del senso corretto dell’autocontraddittorietà del significato «nulla»; e dall’altro dall’assunzione astratta dei momenti di tale autocontraddittorietà”33. Infatti, come abbiamo visto, la prima formulazione, che consisteva nel rilevamento che «il nulla è» e portava a concludere l’autocontraddittorietà del principio di non contraddizione, è risolta mostrando che tale affermazione non dice che nulla significa essere, ma che esiste un certo essere, un certo positivo significare, che “è significante come l’assolutamente negativo”, quell’assolutamente negativo che, in quanto tale, non è assolutamente significante come essere. “Pertanto il nulla è, nel senso che l’assolutamente negativo è positivamente significante; o il nulla è, nel senso che quello di «nul32 33

Ibi, p. 215. Ibidem.

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la» è un significato autocontraddittorio”34, i cui due momenti sono l’essere come positivo significare e il nulla come significato incontraddittorio. Il principio di non contraddizione esiste proprio perché il nulla è un tale significato autocontraddittorio: se il nulla fosse solo il significato incontraddittorio del nulla-momento, se cioè la nullità non fosse posta come significato autocontraddittorio (sintesi del positivo e del negativo), il principio di non contraddizione non potrebbe affermare l’opposizione di essere e non essere, giacché l’essere non potrebbe opporsi al nulla. Il significato autocontraddittorio di niente è dunque il fondamento della incontraddittorietà del principio di non contraddizione: “è cioè necessario, affinché si possa escludere che l’essere non sia – che cioè sia non essere -, che il non essere sia”35 (e cioè che sia il significato autocontraddittorio di cui si è detto fin qui). Come si potrebbe escludere, altrimenti, che l’essere sia nulla? In altri termini, cosa si negherebbe, negando che l’essere non è, se il nulla non fosse? Se il nulla non fosse, la negazione che l’essere non è, non sarebbe una negazione, “non avrebbe un termine su cui esercitarsi: il nulla non apparirebbe nemmeno”36. In questo senso si deve dire che il principio di non contraddizione non solo non esige che l’autocontraddittorietà del nulla non sia tolta, ma “esige il campo semantico costituito da questo significato contraddittorio”37. L’autocontraddittorietà del significato «nulla» non solo non determina la contraddittorietà del principio, ma ne fonda la stessa incontraddittorietà. 5. Soluzione della I formulazione dell'aporia Nel paragrafo 8 si mostra la soluzione della prima formulazione dell’aporia, che sorgeva in quanto l’affermazione «il nulla è» sembrava dar luogo alla identificazione di «nulla» ed «essere». Ebbene, a questa prima aporia “si risponderà dunque riconoscendo che, certamente, il nulla è; ma non nel senso che «nulla» significhi «essere»: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione; dire infatti che «nulla» non è assolutamente significante come «essere», equivale a dire che il nulla non è. – Si dice dunque che il nulla è, nel senso che un positivo significare – un essere – è significante come l’assolutamente negativo, come 34 35 36 37

Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 216. Ibi, p. 217.

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«nulla», appunto; ossia è significante come quel «nulla» che, esso, non è assolutamente significante come «essere». Pertanto il nulla è, nel senso che l’assolutamente negativo è positivamente significante; o il nulla è, nel senso che quello di «nulla» è un significato autocontraddittorio. I due lati o momenti di questa autocontraddittorietà sono – come già è stato rilevato – l’essere (il positivo significare) e il nulla, come significato incontraddittorio (appunto perché il nulla-momento non è assolutamente significante come «essere»)38. In quanto il significato «nulla» è sintesi della nullità del nulla e del suo positivo significare, ovvero è quella sintesi in cui “l’assolutamente negativo è contraddetto dalla positività del suo significare”39, esso è un significato autocontraddittorio. Ma ecco il punto fondamentale: è proprio in virtù di tale autocontraddizione che può sussistere il principio di non contraddizione. È cioè necessario, affinché si possa escludere che l’essere non sia – che cioè sia non essere -, che il non essere sia; ossia che sussista il significato autocontraddittorio in cui consiste quell’essere del non essere. Se il significato «nulla» non valesse come questa autocontraddittorietà – se il nulla non fosse, nel senso che è corretto riconoscere -, e se dunque il nulla fosse soltanto quell’assoluta negatività, per la quale esso vale come significato incontraddittorio («nulla», come momento dell’autocontraddittorietà), escludere che l’essere sia nulla sarebbe un non escludere nulla, poiché l’esclusione non avrebbe un termine su cui esercitarsi: il nulla non apparirebbe nemmeno40.

Il testo qui è davvero chiaro nel mostrare la relazione necessaria tra il principio di non contraddizione e la posizione del nulla. Il nulla è posto in quanto l’essere è posto; l’essere è essere (nel senso della totalità del positivo) in quanto il nulla è nulla (nel senso cioè dell’assolutamente altro da quella totalità). Ora, se il nulla fosse solo l’assolutamente inesistente, esso non potrebbe costituirsi come ciò a cui il principio di non contraddizione contrappone l’essere e in generale il nulla non potrebbe nemmeno essere posto, detto, pensato, pronunciato. In altre parole, la posizione della nullità del nulla include, come proprio momento (l’altro momento, ricordiamolo, è l’essere come positivo significare nel suo complesso strutturarsi che abbiamo indicato), la nullità del nulla quale significato incontraddittorio. La nullità, cioè, non è la sua posizione, ma un momento di questa posizione; l’altro momento è il suo positivo significare. Ecco perché il significato 38 39 40

Ibi, p. 215. Ibi, p. 216. Ibidem.

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«nulla», essendo sintesi dell’assolutamente negativo e dell’assolutamente positivo, è necessariamente un significato autocontraddittorio. Da quanto detto emerge l’impossibilità che il nulla-momento (o nulla incontraddittorio) esista separatamente dalla sua posizione: in quanto assoluta inesistenza, esso esiste solo nella posizione che lo pone come tale. In questo senso la sintesi dei momenti del nulla quale significato autocontraddittorio è la dimensione in cui tali momenti concretamente esistono. Il prescindere dall’originarietà di tale sintesi, intendendo il nulla-momento come esterno e antecedente alla sintesi con il suo positivo significare, è il fondamento dell’insorgenza dell’aporetica: ma è anche chiaro che la supposizione stessa che il nulla sia soltanto quell’assoluta negatività, per la quale esso vale come significato incontraddittorio, è chiaro che questa supposizione stessa è autocontraddittoria, in tanto che si può dire che il nulla non è proprio nulla, in quanto il nulla è manifesto, e quindi è questo non esser proprio nulla41.

Si è dunque detto che il principio di non contraddizione è fondato sulla contraddizione, ossia sul significato autocontraddittorio di nulla. Ma ciò non significa che per questo il principio di non contraddizione sia, a sua volta, un che di contraddittorio, come invece giungeva a concludere la prima formulazione dell’aporia; il principio di non contraddizione certamente “si costituisce solo in quanto il nulla esiste come significato autocontraddittorio”, ma questa autocontraddittorietà è […] posta come tale, e quindi non è lasciata sussistere come un che di incontraddittorio: ogni positivo significare è cioè posto come ciò che deve valere – per non realizzarsi come autocontraddittorietà – come significazione di una determinazione positiva. O, che è il medesimo, ogni essere deve valere come l’essere di una determinazione (essenza) positiva. E il nulla è posto come ciò che non può avere alcuna positività: «nulla» significa «nulla», e quindi il nulla non può avere nemmeno alcuna rilevanza o positività semantica: se il nulla è nulla, il nulla non è e non significa nulla; e quindi non può nemmeno apparire. Per questo lato il nulla non si costituisce come significato autocontraddittorio; e il principio di non contraddizione afferma appunto questa nullità del nulla. Il costituirsi del principio di non contraddizione non esige pertanto che l’autocontraddittorietà del significato «nulla» non sia tolta, ma esige il campo semantico costituito da questo significato autocontraddittorio. In altri termini, quel principio non esige che non esistano significati autocontraddittori, ma che l’autocontraddittorietà sia come tolta; o quel principio si realizza solo in quanto si realizza quel significato autocontraddittorio42. 41 42

Ibi, p. 216. Ibi, pp. 216-217.

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Il testo anche qui è molto chiaro: che la contraddizione sia a fondamento del principio di non contraddizione non significa che tale principio sia contraddittorio, ma significa che esso esige la posizione dell’autocontraddittorietà del significato nulla, ovvero esige che essa sia posta come tale, proprio in quanto tale posizione è la posizione del significato «nulla». Il principio pone tale autocontraddittorietà come tale, non la lascia cioè “sussistere come un che di incontraddittorio”; in quanto il nulla è nulla, esso non può essere, non può significare, non può apparire; ad essere, significare, apparire, è la sua posizione, cioè la sintesi necessariamente contraddittoria tra il positivo e il negativo. Se non fosse contraddittoria, il positivo e il negativo non sarebbero gli assolutamente contrapposti. In questo senso, nella nota 1 a piè di pagina (p. 217) si legge: ci si consenta di ribadire che questa autocontraddittorietà tolta è quella per cui l’assolutamente negativo è positivamente significante: i due lati o momenti di questa autocontraddittorietà (il negativo e il positivo) sono incontraddittori: il nulla è nulla e il positivo è positivo”. Il nulla, dunque, è nulla solo in quanto il nulla incontraddittorio “è momento semantico del nulla come significato autocontraddittorio43.

Ma vediamo ora in modo esplicito “i motivi che determinano” la prima aporia (par. 9): l’aporetica del nulla sorge in quanto i due momenti astratti della concretezza costituita dal «nulla» come significato autocontraddittorio sono astrattamente concepiti come irrelati l’uno all’altro. In quanto invece quei due momenti sono concretamente concepiti, il nulla-momento non vale come significato autocontraddittorio: appunto perché l’autocontraddittorietà è del concreto, di cui il nulla-momento è momento44.

Alla base dell’aporia vi è dunque la concezione astratta dell’astratto, ossia del nulla-momento e del suo positivo significare: questi due momenti vengono concepiti come irrelati e astratti dal loro essere un che di astratto, cioè due semplici momenti di un intero che è la loro concretezza (sintesi originaria). Su questa base il nulla-momento, ossia l’incontraddittoria nullità del nulla, viene posto come non-momento, la parte (il nulla-momento) viene posta come l’intero, il momento incontraddittorio è posto come autocontraddittorio.

43 44

Ibi, p. 217. Ibidem.

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Invece “quella concretezza è tale, in quanto l’astratto è tolto in quanto astrattamente concepito”45. Ciò significa: la concretezza consiste nel porre l’astratto come astratto e cioè nel porre la sua concretezza nella sintesi dei momenti. La concretezza dell’astratto è il toglimento del suo essere astratto. Il che, detto in termini semplici, significa: il nulla-momento è un momento, una parte, dell’intero, che è la sintesi originaria dei due momenti; ponendo la parte come parte, la si pone come ciò che è davvero sé stessa solo nella relazione con l’altro momento. In ciò consiste il toglimento dell’astratto ovvero la posizione della concretezza. Se però “il nulla, come momento astratto dell’autocontraddittorietà, è inteso come a sua volta sintesi dei due momenti astratti dell’essere e del nulla, esso viene posto come quella stessa concretezza di cui era momento”46. Se si intende il nulla-momento, cioè il nulla in quanto nulla, non come uno dei due momenti, ma come la sintesi dei due momenti – cioè se si confonde il nulla-momento con il significato autocontraddittorio «nulla», il momento viene posto come intero (l’astratto è posto come concreto). Ma in quanto esso è posto come sintesi, “questa posizione è semplice ripetizione della precedente posizione di quella concretezza. Sicché sarà necessario ripetere il toglimento dell’astratto. E se il non essere, come momento astratto della concretezza ripetuta, si porrà daccapo come sintesi di essere e di nulla, si produrrà una seconda ripetizione”47. L’astratto è posto come concreto; il toglimento dell’astratto consisterà nel porre la concretezza della sintesi; ma se questa sintesi verrà intesa, nuovamente, come astratto (ossia come nulla-momento), essa dovrà essere nuovamente tolta (in quanto astratto) nel concreto, ossia nella posizione della sintesi, in una sintesi infinita. Chiaramente l’ammissione di una ripetizione attualmente infinita importa che il significato «nulla» non sia posto, e quindi che non sia posto nemmeno l’essere, se la posizione dell’essere implica la posizione del nulla; e quindi che non sia posto nulla, se la posizione di ogni significato implica la posizione dell’essere48.

Il testo evidenzia l’intrinseca contraddittorietà (prescindente cioè dalle sue conseguenze) di tale ripetizione infinita, e mostra che consiste nel porre come posto e come non posto “ciò che progetta come coinvolto in una ripetizione infinita”, giacché, per progettarlo, deve porlo; ma insieme, proprio in forza del progetto, cioè proprio in quanto progettato, esso non può essere 45 46 47 48

Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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posto; in caso contrario, infatti, la ripetizione infinita “sarebbe limitata dal toglimento di quel momento astratto che non si pone a sua volta come ripetizione del concreto”49. La ripetizione infinita è dunque esclusa, e ciò significa che il nulla è posto, concretamente, come significato autocontraddittorio (cioè sintesi), e cioè che il nulla-momento è posto come momento astratto e non concreto (cioè come sintesi dei due momenti). “Il discorso aporetico, invece, tiene astrattamente separati i due momenti dell’autocontraddittorietà, e facendosi a considerare il nulla-momento, lo trova appunto come un qualcosa, che si lascia considerare, e che quindi è: ossia trova appunto ciò da cui ha voluto prescindere (l’altro momento) considerando astrattamente il nulla-momento; trova cioè l’essere del nulla”50. Straordinariamente rigoroso ed efficace quest’ultimo ordine di considerazioni; chi avesse avuto ancora dei dubbi e dei tentennamenti sull’insorgenza dell’aporetica e sul modo in cui questa essa venga tolta in questa sua prima formulazione, qui non può che vederli svanire. Qui è espresso, in poche battute ma con grande chiarezza, perché scatta l’aporia e in cosa consiste l’errore e la miopia del discorso aporetico. I due momenti vengono tenuti separati e all’interno di questa separazione (che, si badi, non è la semplice distinzione come ora vedremo) viene rilevato il nulla-momento; ma in quanto il nulla-momento è così rilevabile (ponibile, pensabile, ecc.), esso non è assoluta nullità, ma un certo essere e significare. In questo modo, nel nulla-momento astrattamente separato il discorso aporetico “trova appunto ciò da cui ha voluto prescindere […] trova cioè l’essere del nulla”. In quanto si separa il nulla dal positivo significare, si finisce inevitabilmente col concludere che il nulla non possa essere posto, giacché il positivo che esso esclude è necessariamente già incluso in esso. Il positivo, da cui si intendeva prescindere, lo si ritrova nel puro nulla, e perciò si conclude che è impossibile porre il nulla assoluto. Come si nota, per dire cosa è il nulla-momento in quanto distinto, lo si deve nominare, dire, pensare, porre; e cioè già lo si considera nella sua sintesi originaria con il positivo significare. In quanto è posto, il nulla-momento è nella sintesi originaria; in quanto la sintesi è sintesi di due momenti, essi sono distinti (ma non separati: l’aporia scatta proprio in quanto non si tiene presente la differenza tra distinzione e separazione), ed è in quanto distinti che essi sono la nullità del nulla (il negativo del negativo) e il positivo del positivo.

49 50

Ibi, p. 218. Ibidem.

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“Ora è chiaro che l’aporia si produce in quanto, ad un tempo, si considera e non si considera come momento il nulla-momento”51. Il discorso aporetico considera infatti il nulla-momento come l’intero, come la stessa sintesi in cui consiste il significato autocontraddittorio, e perciò dice che il nulla non può essere posto senza contraddizione, cioè senza dire che esso «è». Se si limitasse a dire che il momento è la sintesi, darebbe semplicemente luogo a “una ripetizione della posizione della autocontraddittorietà – ripetizione che d’altronde sarebbe autocontraddittoria nella misura in cui non intendesse esser tale -: il nulla-momento si riaffaccerebbe, come significato incontraddittorio, all’interno di questa autocontraddittorietà. Ma il discorso aporetico impedisce questo riaffacciarsi, e cioè impedisce che il nulla si costituisca (o ricostituisca) come significato incontraddittorio, appunto in quanto, come si diceva, oltre a non considerare come momento il nulla-momento, oltre a ciò lo considera come momento”. Il nulla-momento è cioè considerato come la sintesi, ma non solo; questo è il punto. Se fosse considerato solo come sintesi, non darebbe luogo all’aporia; l’aporia sorge in quanto il nulla-momento è posto come sintesi e insieme anche come semplice momento. È per questo, infatti, che il nulla-momento non può più essere posto come significato incontraddittorio, ma, inteso in questa doppia (e contraddittoria) veste, esso rende impossibile il nulla-momento come momento della sintesi. Il che conduce all’impossibilità di porre un nulla che sia assoluto. Il nulla che può essere posto è sempre e soltanto un nulla che è, un nulla che non è nulla. Dunque il nulla non può essere posto. Il discorso aporetico, cioè, considera il nulla-momento come non momento e come momento; e lo considera come momento, “perché solo in quanto il nulla è momento vale come ciò che non si lascia daccapo assumere come sintesi del positivo significare e del nulla come significato incontraddittorio”52. Non è il nulla-momento a manifestarsi, ma il nulla-momento nella sua sintesi con il positivo significare: l’incontraddittorietà del nulla, il nulla come nulla, si manifesta dunque solo in quanto il nulla sia tenuto fermo come momento del nulla come significato autocontraddittorio. Ché, se daccapo si dice che, dunque il nulla come nulla «si manifesta» e dunque è, è da ripetere che questo manifestarsi, questo essere, è appunto l’altro momento della concreta autocontraddittorietà. «Il nulla non è e dunque non ha nemmeno la capacità di manifestarsi; il nulla è l’assolutamente negativo»: tutto ciò può essere detto solo in quanto questo che si dice sia tenuto fermo come momento dell’autocontraddittorietà: l’altro momento è il positivo

51 52

Ibidem. Ibidem.

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significare del contenuto di questo dire. In quanto i due momenti si distinguono, nel primo in quanto distinto dal secondo non è contenuto il secondo; onde il nulla è lasciato nella sua assoluta o incontaminata negatività53.

L’aporetica, in definitiva, sorge perché la sintesi non viene compresa nella sua originarietà, ovvero in quanto non viene compresa la differenza tra distinzione e separazione. La distinzione è vista come separazione, in quanto non si comprende che l’essere distinti è presente all’interno di una relazione originaria, fuori dalla quale cioè i distinti sono altro da ciò che sono, sono appunto «separati». La semplice parte è l’astratto del concreto, cioè il distinto: il nulla-momento come distinto da ciò a cui è essenzialmente unito. La parte posta come non parte è l’astratto dell’astratto del concreto, cioè il separato: il nulla-momento è posto come non momento, ossia astraendo dal suo essere momento. Siamo così arrivati alla soluzione della seconda formulazione dell’aporia (paragrafo 10). Anch’essa dipende dalla concezione astratta dei momenti della sintesi, ma con una differenza che ora indicheremo. Nel primo caso, come abbiamo visto, in quanto non viene compresa l’essenzialità della originarietà della sintesi tra il nulla-momento e il suo positivo significare, questi due momenti non vengono concepiti come semplicemente distinti, ma vengono pensati come separati. La differenza tra distinzione e separazione è questa: mentre i distinti sono ciò che sono solo all’interno di una certa relazione, i separati sono ciò che sono anche al di fuori di tale relazione. Intendere il nulla-momento come separato dal suo positivo significare significa credere che esso possa esistere (apparire, essere posto, pensato, ecc.) anche fuori da quella relazione. In quanto i distinti vengono intesi come separati, la relazione necessaria tra il nulla-momento e il suo positivo significare non è vista come necessaria: si è convinti che, anche facendo astrazione da essa, i due momenti possano essere posti come tali. O anche: si è convinti che anche fuori dalla loro relazione (anche facendo astrazione da essa) i due momenti possano apparire come tali. Come se il nulla-momento potesse apparire anche prescindendo dal suo positivo significare. Questa convinzione è la conseguenza della incomprensione della differenza tra distinzione e separazione. All’interno di questo errore logico, si fa astrazione dal positivo significare (del nulla-momento) e si ha occhi solo per il nullamomento, come se il significato autocontraddittorio «nulla» (cioè la sintesi, il concreto) si esaurisse in esso. Come se il nulla-momento non fosse solo un momento ma la sintesi dei due momenti: il nulla-momento viene as53

Ibi, p. 219.

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solutizzato, ovvero il momento (l’astratto, la parte) viene posto come la sintesi (il concreto, l’intero). Questa assolutizzazione del nulla-momento, conseguente all’astrazione dal positivo significare come altro momento, fa sì che, quando il discorso aporetico va a considerare il nulla-momento, si accorge che, proprio in quanto lo considera (ossia proprio in quanto esso appare, è pensabile ecc.), esso è qualcosa e dunque non può essere nulla assoluto: in quanto se ne parla e lo si indica, esso include già in sé quel positivo significare che per definizione non dovrebbe contenere. Il discorso aporetico incontra così il positivo significare dove esso, per definizione, non può trovarsi, cioè nel nulla-momento o nulla assoluto, e così conclude che il nulla non può essere posto, perché, in quanto posto, esso «è», e dunque non è assoluta nullità. In definitiva, in questa prima formulazione dell’aporia, il discorso aporetico astrae dal positivo significare (quale momento della sintesi) e lo ritrova all’interno del nulla-momento (ossia nell’altro momento della sintesi). In questo modo, il nulla-momento diventa un luogo impossibile (momento e non-momento; assolutamente nulla e non assolutamente nulla). Mentre nel primo caso il positivo significare non scompare completamente, ma viene ritrovato dal discorso aporetico dove esso non può trovarsi (ed è proprio questo ritrovamento a far sorgere l’aporeticità), nel secondo caso l’astrazione dal positivo significare come altro momento “lo fa perdere completamente di vista”: il positivo significare non viene più “spostato” inavvertitamente nel nulla-momento, ma viene completamente eluso; sì che, restando in evidenza l’assoluta negatività del nulla – e cioè il nulla come significato incontraddittorio, onde esso non può nemmeno vedere come un che di presente – si rileva l’impossibilità che intercorra una qualsiasi relazione (come quella che il principio di non contraddizione verrebbe a realizzare) con la negatività assoluta – ossia con ciò che, in quanto è questa negatività, non può nemmeno manifestarsi54.

In quanto il nulla è assoluto, assoluta inesistenza, esso non può manifestarsi, non può essere posto. Il principio di non contraddizione non può dunque stabilire alcuna relazione con la negatività assoluta. Dunque nemmeno l’essere può essere posto. E qui il testo fa un rilievo importante, per quanto ormai evidente: l’aporia ha luogo in quanto il nulla vale esplicitamente come insignificabile, ma implicitamente come significabile. Infatti, se esso fosse assolutamente insignificante, come il discorso aporetico vorrebbe tenere fermo, non lo potrebbe nemmeno dire, ossia la assoluta 54

Ibi, pp. 219-220.

L'aporetica del nulla e il suo risolvimento

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insignificanza equivarrebbe all’inesistenza della stessa aporia. Infatti, affinché l’aporia si costituisca, è necessario che il nulla significhi come nulla. In caso contrario, perché si potrebbe dire che esso è insignificabile? In altre parole, è solo in quanto il nulla è implicitamente posto, cioè vale già, implicitamente e inavvertitamente, come assoluto nulla (dunque in quanto esso vale già come positivo significare), che l’aporia ha luogo, in quanto intende affermare che il nulla assoluto, proprio perché tale (ecco l’implicito positivo significare), non può assolutamente essere detto, pensato, significato: l’aporia può costituirsi, in quanto, ad un tempo, si perde totalmente di vista (in actu signato) il momento del positivo significare del «nulla», e insieme non lo si perde di vista (in actu exercito). Se questo momento fosse totalmente assente, non posto, non sussisterebbe nemmeno il discorso aporetico: il «nulla» resterebbe ignorato, poiché il parlarne costituirebbe appunto la presenza di quel momento dal quale, per altro, si prescinde assolutamente”55.

6. Soluzione della II formulazione. Sul concetto concreto e astratto dell'astratto La seconda aporia dice: l’essere implica e non implica un orizzonte (l’orizzonte del nulla) (par. 3). È ormai chiaro che l’aporia si costituisce in quanto, nel secondo lato di questa antinomia, il nulla, che è momento astratto del nulla come significato concreto, è astrattamente concepito come irrelato al momento del positivo significare: concetto astratto del momento astratto del nulla. Assunto questo momento come orizzonte dell’essere, e astrattamente concepito tale momento (concepitolo cioè come l’intero del significato «nulla»), ne segue che l’implicazione a tale momento si risolve in una non implicazione56.

Una non implicazione nel senso che il nulla-momento, concepito come nulla assoluto e cioè come insignificante-insignificabile, è un non orizzonte, cioè qualcosa che l’essere dovrebbe implicare per porsi, ma che non può implicare in quanto assolutamente inesistente. È chiaro che l’astrattezza è tolta in quanto i due momenti vengono posti come astratti, ossia in quanto sono posti come parti di un tutto da cui non possono prescindere. Porre l’astratto come astratto, saperlo come momento 55 56

Ibi, p. 220. Ibidem.

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Capire Severino

di una sintesi essenziale, significa dunque togliere l’astratto: l’astratto, posto come astratto, è cioè la posizione concreta dell’astratto. L’astratto, posto come concreto, è invece posizione astratta dell’astratto. Quando si pensa che il nulla-momento sia il tutto, e non solo una parte, si pensa astrattamente l’astratto; quando si pensa che il nulla-momento sia solo un momento, una parte, del tutto, si pensa concretamente l’astratto. L’aporia sorge dunque in quanto l’astratto è concepito astrattamente (la parte è isolata dal tutto e assolutizzata, cioè non vista come parte): posizione astratta dell’astratto. L’aporia è tolta in quanto l’astratto è concepito concretamente (la parte è saputa come parte essenzialmente relata al tutto): posizione concreta dell’astratto. Consapevolezza che il distinto, la parte, non è l’irrelato. Il tema del concetto concreto e del concetto astratto dell’astratto viene sviluppato nel paragrafo successivo (11), in cui vengono prese in considerazioni forme aporetiche simili o riconducibili alla seconda formulazione ora considerata. Ad esempio: “se il nulla è negatività assoluta, non può valere nemmeno come momento semantico del nulla come significato concreto”57. Anche questa formulazione dell’aporetica si fonda sulla separazione tra il nulla-momento e il suo positivo significare, ossia sulla confusione tra distinzione e irrelatezza. Per superare questa posizione dell’aporia basta ribadire che l’assoluto negativo è distinto dal suo positivo significare, e che distinto non significa irrelato; e perciò l’assoluta negatività può valere come momento semantico proprio in quanto la stessa positività di questo valere come momento è l’altro momento – è l’altro momento del nulla come concreto significato autocontraddittorio –, e cioè è lo stesso, o, meglio, appartiene alla struttura dello stesso positivo significare dell’assoluto negativo, col quale significare il negativo deve essere tenuto in relazione affinché il concetto concreto non divenga concetto astratto dell’astratto. Il nulla è momento perché la distinzione non è separazione; sì che ciò da cui il negativo si distingue è appunto quella sua positività che gli consente di valere come momento58.

Separato dal suo positivo significare, il nulla assoluto non significa nulla; il nulla assoluto è momento, ossia è dicibile, ponibile, pensabile, significabile, in quanto è l’altro momento: il suo essere momento è appunto l’altro momento; o con maggior precisione, questo stesso suo essere momento appartiene alla struttura del suo positivo significare. L’assolutamente altro dall’essere, in quanto altro dall’essere, non 57 58

Ibi, p. 221. Ibi, pp. 221-222.

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è un essere; ma in quanto è significante come l’assolutamente altro dall’essere è un essere, una positività. La positività di questo significare non è inclusa in ciò che questo significare significa, non determina ciò che questo significare significa. La contraddizione del «nulla» sta appunto in questo, che il significare è il significare dell’assolutamente non significante: non sta nel fatto che il non significante significa il significante (ha il significato di «significante»), ma che il non significante è significante come non significante59.

Riassumendo. Un certo significare significa l’insignificante. Dunque non è l’insignificante a significare, ma è un certo positivo significare a significare l’insignificante. La positività di questo significare non è inclusa nel contenuto significato, che è significato proprio come ciò che non include alcun significare. Si sta dicendo che il non significante è tale in quanto non è separato dal suo significare come insignificante: è solo nel suo essere significante che il nulla significa «l’assolutamente altro dal significato» (l’assolutamente altro dall’essere). […] Il nulla riesce ad essere momento, perché ciò che «nulla» significa è distinto, non separato dalla positività di questo significare60.

Insomma, l’essere del nulla – che consente al nulla-momento di essere momento – è posto nell’altro momento; e in virtù di ciò “al nulla-momento è consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere (e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla come momento)”61. Altra formulazione: “i distinti devono essere messi in relazione; ma il nulla, come distinto, è assoluta negatività; e pertanto non può stare in alcuna relazione”62. Anche in questo caso l’aporia sorge perché “i distinti sono intesi come presupposti alla loro sintesi; e quindi, daccapo, sono intesi astrattamente. Certo, se in un primo momento i distinti sono assunti separatamente non potrà prodursi, in un secondo momento, alcuna sintesi tra il positivo e il negativo: il negativo, come tale, non avrà nemmeno alcuna rilevanza posizionale in base alla quale possa istituirsi la sintesi. Pertanto, o non si dà alcuna consapevolezza del nulla – e non sussiste nemmeno questa aporia – o, se questa consapevolezza sussiste, il negativo è con ciò già in sintesi con il positivo. Basterà allora, affinché la affermazione della sintesi non valga come affermazione autocontraddittoria (affinché cioè 59 60 61 62

Ibi, p. 222. Ibi, pp. 222-223. Ibi, p.223. Ibidem.

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la posizione del significato autocontraddittorio, in cui consiste la sintesi, non valga come affermazione aporetica o autocontraddittoria), basterà che la sintesi sia concretamente concepita: come originaria, immediata, e non come un risultato che presuppone l’irrelatività dei distinti”63. Come si nota, anche questa diversa presentazione del discorso aporetico è da ricondursi alla seconda formulazione, cioè al fondamento della sua insorgenza e alla modalità del suo toglimento. Il quale, ripetiamolo, consiste nel mostrare che i distinti non sono irrelati, che la sintesi è originaria e necessariamente autocontraddittoria, dove tale autocontraddittorietà non significa inesistenza e cioè non dà luogo ad aporeticità. L’essere è dunque «orizzonte assoluto» (corollario, paragrafo 12), nel senso che esso, in quanto totalità dell’intero (o anche del positivo significare) che “è significante in relazione all’orizzonte del nulla include il suo altro, include, nel modo che si è visto, questo stesso suo altro; e questa inclusione è appunto ciò per cui l’intero non lascia altro oltre di sé”64. 7. Il problema del nulla in Bergson e Heidegger Nel paragrafo 13 dal titolo Note storico-critiche sul problema del nulla, Severino mostra che anche Bergson e Heidegger, nonostante si siano seriamente occupati dell’aporetica del nulla (cosa non scontata nel panorama filosofico del ‘900), ne concludono la irrisolvibilità perché non concepiscono il nulla-momento come originariamente relato al suo positivo significare. Anche loro, cioè, prescindono dalla circostanza che o non si parla del nulla, non lo si pensa e non lo si pone, oppure, in quanto lo si pone, “il negativo è con ciò già in sintesi con il negativo. Basterà allora, [...] che la sintesi sia concretamente concepita: come originaria, immediata, e non come un risultato che presuppone l’irrelatività dei distinti”65. L’analisi di Severino parte dallo “studio sul «nulla», che il Bergson ha incluso nell’ultimo capitolo dell’Évolution créatrice”. Nonostante sia “certamente tra i più notevoli sull’argomento”, anche tale studio da un lato si limita a mostrare l’autocontraddittorietà del significato «nulla» – onde il principio di non contraddizione resta compromesso -, e dall’altro rileva l’autocontraddittorietà di quel significato per motivi diversi da quelli che si devono riconoscere. Infatti, per il Bergson, l’idea di nulla è «descructive 63 64 65

Ibidem. Ibi, p. 224. Ibi, p. 223.

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d’elle-même», poiché la posizione del negativo implica la posizione del positivo, che è il contenuto negato: se il nulla è negazione del positivo, la posizione (concetto, idea) del negativo si risolve in una posizione del positivo: in quanto questo deve essere posto affinché possa essere tolto66.

Il significato «nulla» è dunque posto come autocontraddittorio perché, come era già considerato nelle formulazioni dell’aporetica, la posizione del negativo è posizione di un positivo. Il passaggio logico errato in cui cade anche Bergson è quello richiamato dal paragrafo 5: siccome per porre il negativo si deve porre un positivo, perciò «essere» significa «nulla». In questo passaggio l’errore che compie il discorso aporetico: siccome per dire il nulla si pone un certo significato, allora il «nulla» non è assolutamente nulla ma «essere». Come ormai dovrebbe essere chiaro, anche alla base della posizione di Bergson è l’ assunzione astratta del nulla-momento. Se infatti il nulla-momento viene astrattamente separato dal momento del suo positivo significare, esso si presenta come quella assoluta negatività, la cui posizione non può essere alcunché di positivo. Allorché poi ci si avvede che la posizione del «nulla» implica, addirittura, la posizione dell’intero, si qualifica questa implicazione come autocontraddittorietà: contraddizione tra l’intento di porre nulla di positivo e l’effettiva posizione della totalità del positivo67.

Nonostante anche Bergson cada nell’errore che abbiamo appena visto, Severino conclude mettendo in luce che egli si avvicina d’altronde implicitamente68 all’autentico senso dell’autocontraddittorietà del nulla, in quanto – come si è accertato – l’assolutamente negativo è positivamente significante – appunto questo è l’autentico senso di quell’autocontraddittorietà -, e il suo significare è, se è lecito dire, così positivo, che esige la stessa posizione della totalità del positivo69.

Come già premesso, anche Heidegger incorre nel medesimo errore bergsoniano, che è poi l’errore che sta alla base dell’insorgenza dell’aporia. Severino prende in esame quanto esposto in Was ist Metaphisik?, a cui peral-

66 67 68 69

Ibi, p. 224. Ibi, p. 225. Il corsivo è mio, e vuole evidenziare un aspetto importante che verrà ripreso nell’ultima parte dell’ultimo capitolo del presente lavoro. Ibi, p. 225.

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tro riconosce il merito di avere “richiamato l’attenzione sull’opposizione fondamentale di essere e nulla”70. Heidegger evidenzia e sfrutta l’aporia consistente nell’osservazione che il non essere, come negazione intellettualistica della totalità dell’essere, presuppone la comprensione o la presenza della totalità dell’essere; presenza impossibile – avverte lo Heidegger – nella sua esaustività o concreta determinatezza, o possibile solamente come ideale: come presenza dell’idea della totalità; sì che il non essere varrebbe soltanto come negazione formale dell’essere. Ma che differenza si può fare tra nulla formale e nulla reale? Di qui la proposta di abbandonare, per realizzare l’esperienza del nulla, il piano logico71.

Dopo aver rilevato come in questo passaggio Heidegger presupponga senza giustificazione che quella totalità è “determinata in modo ulteriore rispetto a quella determinazione originaria, che è l’esperienza; e quell’ulteriorità è l’in sé che resta inconoscibile”72, Severino rileva che, anche mostrata la necessità che la totalità dell’essere non coincida con l’esperienza e perciò mostrato che la negazione dell’intero formale si differenzia certamente dalla negazione dell’intero concreto; questa differenza importa che si debba parlare di un nulla formale e di nulla reale, nel senso che la distinzione tra formalità e realtà conviene al positivo significare del nulla, e non al nulla in quanto distinto da questa positività. L’assolutamente negativo non è, o non significa alcunché di positivo, sia che la positività, che è posta come tolta nel concetto di nulla, abbia un valore formale, sia che abbia un valore concreto. Infatti il positivo è tolto o oltrepassato, nel concetto del nulla, come l’intero del positivo; sì che ogni eventuale evidenziarsi di determinazioni concrete di questa posizione formale dell’intero, importa certamente una modificazione nel positivo significare del nulla, ma non importa che l’assolutamente negativo non sia veramente tale per il fatto che il positivo tolto è manifesto in modo inadeguato. Assumendo qui che la manifestazione del positivo sia un processo che si va sempre più concretando, questo incremento è insieme, certamente, incremento del positivo significare del nulla, ma non è incremento del nulla, in quanto assunto come distinto dal suo positivo significare. Sì che per questo lato non sussiste una distinzione tra nulla formale e reale73.

Chiarissimo questo passo di Severino, in cui si rileva come anche Heidegger, in definitiva, ricada nello stesso errore bergsoniano consistente 70 71 72 73

Ibidem. Ibi, p. 226. Ibidem. Ibi, p. 227.

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nella concezione astratta del nulla-momento, complicato – per così dire – dalla distinzione tra nulla formale e reale: per il Bergson è semplicemente quel riaffiorare del positivo all’interno del nulla-momento ciò che determina l’aporia; per lo Heidegger l’aporia è determinata dall’ulteriore considerazione che il positivo, che riaffiora, ha valore formale, onde la formalità e la conseguente distinzione tra formalità e realtà viene attribuita al nulla in quanto tale74.

8. Il nulla e i due sensi dell'autocontraddizione Dopo aver considerato e analizzato le possibili varianti delle due formulazioni dell’aporetica e aver esplicitato i motivi che le determinano, il testo prende in esame il rapporto tra il nulla e la contraddizione (par. 14), mostrando che, in quanto «essere» significa incontraddittorietà (questa è l’affermazione fondamentale del principio di non contraddizione), l’autocontraddittorietà consiste nel non essere: un essere che non sia non è. Ma come porre il nulla non è un non porre nulla, così porre l’autocontraddittorietà non è un non porre nulla. I significati autocontraddittori sono infatti presenti, e pertanto sono. L’aporia dell’essere dell’autocontraddittorietà è la stessa aporia dell’essere del nulla. Ciò vuol dire che – come per il significato «nulla» – il significato «autocontraddittorietà» è un significato autocontraddittorio75.

Ogni volta che si pone un significato autocontraddittorio, si pone il nulla: nel testo Severino fa l’esempio dei significati rosso-non rosso (RnR), triangolo non triangolare, ecc. In quanto l’essere è essere, l’autocontraddittorietà è non essere, cioè non è. Ma questo porre l’autocontraddittorietà, ovvero porre il non essere, non è, a sua volta, qualcosa di autocontraddittorio e di non essente. Il significato «nulla» – così come i significati «autocontraddittorietà», «insignificanza» ecc. – sono qualcosa, non sono niente. Ma così non si dice forse che l'autocontraddittorietà è incontraddittoria, che l’insignificanza significa, che il nulla esiste? Certamente, ma non nel senso che il significato autocontraddittorio sia significante come incontraddittorio – non nel senso che, ad esempio, RnR sia o significhi RnnR

74 75

Ibidem. Ibi, p. 228.

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(onde R vale come negazione della sua negazione) -; e nemmeno nel senso che il positivo significare dell’autocontraddittorietà non sia un positivo significare. Il significato autocontraddittorio è incontraddittoriamente significante come quell’autocontraddittorietà che esso è – la nullità dell’autocontraddittorietà non è o non significa una non nullità. […] Ora, è appunto questa autocontraddittorietà incontraddittoriamente significante, che è, ossia è positivamente significante. Si verifica pertanto che l’autocontraddittorietà, ossia l’assolutamente negativo, è incontraddittoriamente o positivamente significante76.

Siamo cioè alla identica situazione logica del significato autocontraddittorio «nulla»: l’assolutamente negativo è positivamente significante. Anche qui si tratta, in altre parole, di comprendere l’originarietà della sintesi tra i due momenti (ad esempio il significato autocontraddittorio RnR e il suo positivo significare, come – in relazione al nulla – il nulla-momento e il suo positivo significare) e cioè la loro distinzione ma non irrelatezza. L’essere dell’autocontraddittorietà deve essere inteso come si è inteso l’essere del nulla. A questo punto il testo conclude mettendo brevemente in luce l’errore della posizione di Meinong e il rilievo corretto di Russel, il quale però come Frege, non riesce a risolvere l’aporetica perché la sua affermazione che «la classe nulla è la classe che non contiene alcun membro, e non la classe che contiene come membri tutti gli individui reali» evita solo apparentemente la contraddizione di Meinong. Infatti, il «non contenere alcun membro» è, come l’«assenza di significato» di Frege , qualcosa di positivamente significante, ossia è lo stesso positivo significare del niente. Anche la teoria di Russel non va oltre l’enunciazione dell’aporia77.

Siamo così arrivati all’ultimo paragrafo (15), in cui si mostra come vadano tolte diverse formulazioni dell’aporia che hanno come contenuto il significato autocontraddittorio o il nulla. Riprendendo quanto sviluppato nel par. 14 a proposito del significato «autocontraddittorietà», il testo considera l’aporia per cui la posizione di un significato autocontraddittorio (ad esempio RnR) esige uno sviluppo infinito, giacché anche la sintesi (r’nr’), che ha per momenti il significato RnR e il suo positivo significare, è a sua volta autocontraddittoria e cioè un nulla; e in quanto è tale essa è necessariamente uno dei due momenti della sintesi r’’nr’’, il cui altro momento è il positivo significare di r’nr’. E lo stesso si dica della sintesi r’’nr’’ e così via all’infinito. In altre parole, in quanto autocontraddittorietà significa nullità, la posizione del significato autocontraddittorio sembra dare luogo a uno sviluppo infinito. 76 77

Ibi, p. 229. Ibi, p. 230.

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Il che può essere detto allo stesso modo per il significato «nulla»; in questo modo l’aporia si chiude nell’impossibilità di porre un significato autocontraddittorio – o il significato nulla –, perché la sua posizione sarà a sua volta posizione del significato autocontraddittorio, e dunque sintesi del nulla-momento e del suo positivo significare, e così via all’infinito. Tale aporia può essere tolta indicando che non esiste alcuna differenza tra i termini della serie RnR, r’nr’, r’’nr’’, r’’’nr’’’ … e il nulla-momento. Sì che per questo lato non solo non sussiste possibilità di sviluppo infinito, ma nemmeno possibilità di uno sviluppo qualsiasi. […] Tra la posizione del significato «nulla» e la posizione di un qualsiasi significato autocontraddittorio – e quindi tra la posizione di quel significato e la posizione di un qualsiasi termine della serie RnR, r’nr’, r’’nr’’, r’’’nr’’’ c’è una differenza semplicemente verbalistica. Infatti, da un lato porre il nulla significa porre, come oltrepassata, la totalità del positivo (cui appartiene anche il positivo significare, oltre che del nulla, anche dei termini di quella serie) […] Ma, si ribatterà, se quella differenza non sussiste c’è pur sempre differenza tra il positivo significare di quei termini indifferenti: se tanto il nulla come ogni autocontraddittorietà (e quindi anche ogni autocontraddittorietà costituita da ognuno dei termini di quella serie) è il nulla, resta però vero che il nulla è diversamente significante se ciò che è posto è «nulla», oppure se ciò che è posto è uno qualsiasi dei termini di quella serie. È appunto per questa diversità di significanza che l’aporia non può essere evitata78.

Questa aporia è tolta introducendo due “tipi” diversi di autocontraddittorietà. Per introdurre tale distinzione è però indispensabile introdurre la fondamentale distinzione tra contraddirsi e contraddizione, che consente di togliere la prima delle aporie del par 15 (consistente nella impossibilità di porre il significato «nulla» o il significato «autocontraddittorietà»). “Se questa distinzione non viene operata – come appunto accade nel discorso aporetico – sarà necessario affermare che il significato «nulla» non può essere posto”79. Severino sta dicendo, in altre parole, che pensare o porre il nulla significa pensare qualcosa, un certo positivo (l’assolutamente altro dal positivo, l’assoluta inesistenza, ecc.), e questo positivo è un significato autocontraddittorio; ma tale autocontraddittorietà è un certo positivo, non è nulla: essa è, appunto, la positività del contraddirsi. Ogni autocontraddizione di questo tipo non è cioè «nulla». Mentre ci sono autocontraddizioni (ed eccoci dunque al secondo «tipo») che sono nulla nel senso che non esistono. Consideriamo il significato 78 79

Ibi, pp. 231-232. Ibidem.

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Capire Severino

autocontraddittorio «rosso non rosso» e il significato autocontraddittorio «nulla» quale sintesi di nulla-momento ed essere nella sua formulazione «il nulla è». Ora, se l’affermazione «il nulla è» viene intesa nel senso che il nulla non è nulla, ossia appunto «è», allora siamo di fronte ad un significato autocontraddittorio identico al significato «rosso non rosso» (nel testo tipo 1): si tratta di significati insignificanti, contraddizioni che esistono solo in quanto contenuto di un certo contraddirsi: esiste il contraddirsi, il pensiero che si contraddice ponendo l’impossibile (l’essere del nulla, il non essere rosso del rosso, ecc.). Ma se l’affermazione «il nulla è» viene intesa come posizione della nullità del nulla, ossia come quel positivo significare che dice che il nulla è nulla, che non è essere, allora abbiamo un tipo essenzialmente diverso di autocontraddittorietà (nel testo tipo 2), che non consiste nella contraddizione come impossibilità logico-semantica, ma nella necessità che il positivo significare, essendo in sintesi con l’assolutamente negativo, si contraddica, ma questo suo contraddirsi è del positivo significare del significato che significa l’assolutamente negativo e non la nullità del contenuto logico-semantico impossibile. Sono cioè «nulla» quelle autocontraddizioni “nelle quali i termini tra loro contraddittori sono momenti del significato”80, a differenza delle altre, “nelle quali i termini tra loro contraddittori sono il significato (che è o il nulla-momento, o un’autocontraddizione di tipo 1) e il suo positivo significare”81. Con questa distinzione è risolta l’aporia della disomogeneità della serie RnR, r’nr’, r’’nr’’, r’’’nr’’’, dal momento che mentre RnR è un’autocontraddizione di tipo 1, il resto della serie è un’autocontraddizione di tipo 2. E così lo sviluppo infinito di quella serie non si realizza. (Per un chiarimento ulteriore sul significato e sull'uso "ampio" del termine «autocontraddizione» in questo testo severiniano del 1958, si rimanda all'ultimo capitolo del presente saggio, in modo particolare alla parte rivolta alla critica di Mauro Visentin, pp. 93-98). Il toglimento dell’aporetica, di cui abbiamo seguito tutti i momenti e gli sviluppi, ha mostrato in definitiva che il fondamento ultimo dell’insorgenza dell’aporia è da ricondursi alla concezione della sintesi come non originaria, ovvero alla irrelatezza dei momenti. Che la sintesi sia originaria, e cioè che l’astratto sia tolto nel concreto, è dunque il fondamento ultimo della soluzione dell’aporetica. Siamo così arrivati all’affermazione della «struttura originaria» quale «dire» originario», cioè autentica forma dell’essere e del significare. È dunque a quest’ultima che è ora indispensabile rivolgersi.

80 81

Ibidem. Ibidem.

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III. LA STRUTTURA ORIGINARIA

1. La struttura originaria Che rapporto c’è tra il risolvimento dell’aporetica del nulla e la «struttura originaria»?1 E innanzitutto, che cos’è la struttura originaria? Non è semplice esporre in breve la struttura originaria. Perciò partiremo da qui: la struttura originaria è la struttura originaria dell’essere, ciò che è necessariamente presente in quanto un essente è e appare. Senza la presenza di tale struttura nessun essente potrebbe essere e apparire. In altre parole essa è lo scheletro dell’essere, la sua grammatica di base, la sua sintassi fondamentale. Poiché tale sintassi non è un unico significato ma un intreccio inscindibile di significati, essa è una struttura, cioè un complesso logico-semantico consistente nella totalità delle determinazioni che devono essere presenti affinché un essente possa apparire. Si può quindi dire che la struttura originaria è la forma essenziale di ogni essente, ciò che ogni essente formalmente «è», o meglio, ciò con cui esso è necessariamente «in relazione»2. In quanto l’essere è l’immediatamente innegabile e l’innegabilmente immediato, la struttura originaria dell’essere è la struttura originaria della «necessità», dove il termine necessità – dal latino ne-cedo – esprime il senso assoluto dell’innegabilità quale autonegatività immediata del proprio negativo. In quanto il proprio negativo è immediatamente autonegativo, la struttura originaria è ciò che «sta», innegabilmente ed eternamente; in altre parole, essa non è “un prodotto teorico dell’uomo o di Dio, ma il luogo

1

2

Si tratta della struttura originaria come struttura dell’essere e del significare, e non dello scritto storico, edito per la prima volta nel 1958, che contiene la testimonianza di tale struttura. Questa distinzione rende legittima l’estrapolazione del IV capitolo da La struttura originaria. In che senso si tratti di un «essere in relazione» verrà chiarito più avanti.

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già da sempre aperto della Necessità”3. È lo stare innegabile dell’esseresignificare. In quanto l’essenza dell’essere è quella di essere innegabile nel senso suddetto, “l’intento dell’intera indagine contenuta ne La struttura originaria è di determinare in maniera rigorosa il senso dell’opposizione del negativo e del positivo”4. In virtù di ciò, Severino può affermare che, nonostante un certo nichilismo residuale5, “La struttura originaria rimane ancora oggi il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio”6. Il testo de La struttura originaria si pone, in altre parole, come la testimonianza della verità originaria dell’essere in quanto opposizione originaria alla propria negazione. In quanto la verità originaria dell’essere consiste nell’innegabilità quale identità dell’esser sé e dell’immediata autonegatività del proprio non esser sé, essa non è un significato semplice ma un complesso predicazionale, un intreccio inscindibile di significati, cioè una «struttura»: essa “è la struttura delle determinazioni necessarie di ciò che con verità può essere affermato” e senza di cui “nessun essere può apparire”7. Queste ultime affermazioni ribadiscono che la struttura originaria è ciò che deve apparire affinché qualcosa possa essere e apparire, e cioè che essa è il «fondamento» dell’essere: un essente è e appare in quanto è presente “una certa dimensione dell’essente [...] costituita dalle determinazioni che competono con necessità a ogni essente e nelle quali consiste appunto il destino”8. Queste determinazioni, che sono la forma dell’essente, “dalla Struttura originaria alla Gloria sono chiamate determinazioni «persintattiche»”9. Esse sono l’esser sé dell’essente, il suo non esser altro da sé, il suo non poter diventare ed essere altro da sé, il suo essere eterno, e, ancora, l’essere dell’apparire infinito, la necessità che gli essenti della terra, sopraggiungendo, siano accolti dagli essenti dello sfondo, e la necessità che il sopraggiungere della terra sia la Gloria, cioè si dispieghi senza fine – e a queste determinazioni dello sfondo si

3 4 5 6 7 8 9

Ibi, p. 13. Ibi, p. 36. Tale nichilismo non inficia il contenuto testimoniato, perché tale contenuto (che è l’immediato) non è il testo storico (mediato, interpretato) che lo contiene. Ibi, p. 13. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 200. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 179. Ibidem.

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aggiungano tutte quelle che gli competono e che costituiscono la dimensione stessa a cui si rivolgono i miei scritti, indicandole10.

In questo passaggio compare il termine «sfondo», che è un altro modo di nominare la «sintassi» originaria dell’essere evidenziandone l’essere contenuto necessariamente originario e costante dell’apparire, l’insieme dei determinazioni che non sopraggiunge e non tramonta mai all’interno dell’apparire trascendentale, ossia all’interno di quell’orizzonte che ospita l’apparire empirico e particolare degli essenti. Lo sfondo è appunto la “permanenza non sopraggiungente”11. Come si nota, l’illustrazione della struttura originaria chiama direttamente in causa l’apparire, su cui è indispensabile un breve chiarimento preliminare. 2. La struttura originaria e l'apparire Innanzitutto si deve dire che anche l’apparire è una «struttura», cioè un complesso logico-semantico, una unità non semplice. Esso, infatti, non è qualcosa di fenomenologicamente «puro», ma un’identità-innegabilità logica, un esser-sé che nega di non esser non-sé. In quanto l’apparire è apparire, il «fenomenologico» è già «logico», così come il «logico» è già «fenomenologico» in quanto l’identità-innegabilità logica appare come identità-innegabilità logica. La struttura fenomeno-logica è articolata in tre momenti, che costituiscono quell’unico atto che è l’apparire: l’apparire dell’apparire dell’apparire, ovvero la «coscienza di autocoscienza»12. Questa espressione, all’apparenza ridondante e superflua, esprime il significato fondamentale dell’apparire, indicando che qualcosa appare solo in quanto appare il suo apparire. Questo rilievo solleva solitamente (almeno) due obiezioni: 1. l’espressione «apparire dell’apparire» sembra un’ulteriorità riflessiva, qualcosa che la riflessione aggiunge al puro e già perfetto apparire; 2. se c’è un apparire dell’apparire, ci dovrà poi essere un apparire dell’apparire dell’apparire e così via, in un regresso all’infinito. Entrambe le osservazioni sbagliano. Infatti un ente può apparire solo in quanto appare il suo apparire: l’ente appare, ossia è presente, in quan10 11 12

Ibidem. Ibidem. Pur essendo molti i testi severiniani in cui questo tema è trattato, si rimanda, per chiarezza ed esaustività, al già citato La terra e l’essenza dell’uomo (Essenza del nichilismo).

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to questo suo essere presente è presente. Se non lo fosse, il suo essere presente sarebbe un essere presente che non è presente e cioè l’ente non apparirebbe. Che un ente appaia significa perciò che appare il suo apparire, ossia che il suo apparire è un essente (eterno) presente come tale. Ma anche quell’essente che è l’apparire dell’apparire deve apparire; se non apparisse, l’apparire dell’apparire non apparirebbe e cioè l’apparire dell’ente non apparirebbe e cioè l’ente non apparirebbe. In altre parole, un ente appare non solo in quanto appare il suo apparire, ossia in quanto il suo essere presente è presente, ma anche in quanto appare l’apparire di tale apparire, ossia in quanto anche quel secondo apparire è un apparire. Il che può anche essere detto così: in quanto quell’autocoscienza in cui consiste l’apparire dell’apparire è cosciente di sé, cioè non è un’incoscienza, ma è coscienza di essere autocoscienza: si sa come autocoscienza. Che autocoscienza sarebbe, infatti, se non fosse cosciente di sé? Questa triplice posizione non dà luogo a un regresso all’infinito, giacché quello che viene discorsivamente posto come “terzo momento” (la coscienza dell’autocoscienza, l’apparire dell’apparire dell’apparire) è la posizione concreta del “primo momento” (quello che è discorsivamente posto come la semplice coscienza o apparire dell’ente) e del “secondo momento” (discorsivamente posto come autocoscienza o apparire dell’apparire). In altre parole, non si tratta di tre momenti esterni l’uno all’altro, ma della medesimezza di quell’unico atto complesso in cui consiste l’apparire dell’essente. In altre parole ancora, l’atto in cui consiste l’avere coscienza è qualcosa di complesso e articolato: la coscienza è già coscienza di autocoscienza (l’apparire è già apparire dell’apparire dell’apparire). Che l’apparire sia apparire dell’apparire significa che esso è essenzialmente autoreferenzialità, nel senso dell’affermazione di sé, autoaffermazione. In quanto tale, l’apparire non è un apparire «a» un destinatario diverso da sé stesso: se lo si intende così, si finisce in un regresso infinito, perché anche il termine diverso da sé a cui l’apparire appare dovrà «apparire a», e quell’«a» sarà un altro termine apparente a un luogo diverso da sé, e così via all’infinito. Ecco perché Severino afferma che la verità si struttura come “riferimento dell’apparire del destino a sé stesso (dove il «sé» non precede il riferimento, ma coincide con esso)”13. In quanto apparire dell’esser sé dell’essente, il destino è coscienza di autocoscienza nel senso suddetto e cioè «io»:

13

E. Severino, La Gloria, cit. p. 59.

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soltanto un apparire può rivolgersi a sé e vedere nel veduto lo stesso vedere, e dire «io»”14. L’Io del destino è cioè l’apparire autocosciente dell’esser sé dell’essente: “l’apparire originario del destino è apparire di sé, autocoscienza e in questo senso «Io»: l’io del destino è la stessa verità originaria15.

Ogni essente che appare è dunque attuale – cioè appare – all’interno di quella forma di attualità che è l’Io, inteso come Apparire trascendentale. Trascendentale qui non significa l’universale presente nei particolari, ma la dimensione totale in cui è attuale (ossia appare) l’apparire particolare degli essenti. L’esser cosciente dell’essente che è cosciente (o anche: l’apparire dell’essente che appare) è dunque un contenuto attuale dell’Io trascendentale. L’essere umano, nella sua essenza, è questo Io16: l’Io del destino quale apparire autocosciente dell’esser sé degli essenti. L’Io del destino appare immediatamente; ma appare come una presenza nascosta e silenziosa, in quanto illumina le luci (l’apparire) dei singoli essenti nell’atto in cui sottrae sé stesso all’illuminazione. Come un sipario, rileva Severino, che scompare per permettere di apparire. Questa “negatività” dell’apparire è decisiva in relazione al modo occidentale di intendere (o meglio, fraintendere) l’apparire, considerandolo “puro”, cioè un nonessente, una non identità logica. Con tutto quello che ciò porta con sé (che è poi la storia del nichilismo occidentale). Sulla base di quanto detto fin qui, si deve dunque distinguere l’Apparire trascendentale o Io del destino, quale dimensione che accoglie e congeda l’apparire dei singoli enti, dall’apparire empirico, quale apparire particolare delle singole determinazioni. Le cose appaiono, appare cioè il loro particolare apparire, in quanto esiste una dimensione in cui il loro apparire appare e scompare, cioè viene accolto, ospitato e congedato. In Essenza del nichilismo questo apparire viene definito “l’evento trascendentale, ossia l’orizzonte della totalità di ciò che appare (e quindi come l’orizzonte in cui sopraggiungono e da cui si congedano le determinazioni che divengono)”17. Tale apparire non può apparire e scomparire come l’apparire empirico, giacché, per farlo, dovrebbe entrare e uscire da sé stesso. Per questo si deve dire che l’Io del destino è “la ferma dimensione trascendentale dell’appa-

14 15 16

17

Ibi, p. 60. Ibi, p. 59. Si tralascia, per ora, la circostanza (pur essenziale!) che l’essere umano è anche il luogo in cui questa coscienza, nella sua verità, viene negata. In questo senso, dice Severino, l’essere umano è il mortale quale luogo in cui questi due momenti stanno in contrasto tra loro. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 98.

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rire”. Ferma in due sensi: nel senso profondo della immobilità, per cui tutti gli enti sono immobili in quanto eterni, e nel senso più comune della immobilità, cioè in quanto all’apparire trascendentale non competono né il sopraggiungere né il dileguare. Che l’Io finito del destino sia un ente comporta innanzitutto che l’essere sia destinato ad apparire: in quanto esso esiste, non può essere apparire di niente, quindi all’essere appartiene essenzialmente l’entrare e l’uscire dall’apparire. Per questo, l’Io del destino è “l’occhio di luce in cui si mostra il Dio”18; un occhio di luce sempre aperto, senza palpebra; una luce sempre accesa, che non si può spegnere. Mai, proprio perché anche questa luce è un essente, e il suo spegnimento corrisponderebbe alla negazione dell’esser sé di un essente; se essa si spegnesse, accadrebbe il diventare niente di un essente: “poiché anche la luce è un ospite della casa dell’essere, il suo annullarsi è un mancamento nel coro divino”19. Che all’immutabile competa essenzialmente di apparire (cioè sopraggiungere e congedarsi) nell’Io del destino porta con sé notevoli interrogativi. Ci si potrebbe infatti chiedere com’è possibile che l’apparire empirico inizi ad apparire e smetta di apparire se il suo essere è quello di apparire: che un apparire inizi e smetta di apparire non significa forse che esso inizia e smette di essere ciò che è? Non si può rispondere dicendo che l’apparire è apparente, perché altrimenti si negherebbe l’apparire quale essente. Iniziando e smettendo di apparire, l’apparire empirico non inizia e non smette di essere (come potrebbe?), ma di presentarsi, pur continuando ad essere un presentarsi e dunque ad essere presente. Il che significa che deve esistere una dimensione in cui l’apparire empirico non si presenta e non si assenta mai. Accanto a questo interrogativo se ne presenta un altro: nell’apparire finito il tutto appare processualmente e perciò non appare nella sua concretezza. Ma il tutto è tale solo se appare come tutto (che tutto è quel tutto che non appare come tutto?). Il che significa che deve esistere una dimensione in cui il tutto appare come tutto concreto. È dunque necessario affermare che esiste una dimensione in cui il tutto appare nella sua concretezza e in cui l’apparire empirico continua ad apparire. Si deve cioè distinguere l’apparire «finito» del destino, in cui le cose e il loro apparire entrano ed escono, da un apparire «totale» e «infinito», in cui l’ente e il suo apparire non iniziano e non smettono di apparire. Tale apparire «infinito» dell’Io del destino nei testi severiniani prende anche il nome di Gioia. 18 19

Ibi, pp. 99-100. Ibi, p. 100.

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Come si nota, il fondamento della necessità dell’esistenza dell’apparire infinito è l’esser sé dell’essente che appare nell’apparire finito del destino, dal momento che “l’esser sé sarebbe qualcosa di contraddittorio se l’apparire infinito non fosse”20. La necessità dell’esistenza dell’Io infinito del destino è cioè fondata sull’apparire dell’Io finito del destino, in quanto l’Io infinito è il toglimento originario di ogni forma di contraddizione: se la contraddizione non fosse originariamente tolta, il destino non sarebbe de-stino, cioè stare innegabile dell’essere, ma sarebbe il divenir sé stesso: esso avrebbe la contraddizione davanti a sé come qualcosa di non originariamente autonegativo. Il de-stino non sarebbe lo stare eterno e innegabile dell’essere, ma il divenir sé stesso in quanto divenire del toglimento del proprio negativo: il divenire altro sarebbe la sua essenza originaria. In altre parole: l’esser sé dell’essente sarebbe il divenire altro, la contraddittorietà del non essere negazione (eterna e originaria) del proprio negativo. Ma poiché ciò è immediatamente autonegativo, l’apparire infinito esiste necessariamente, ed è sulla base dell’apparire finito, ovvero sulla base dell’esser sé dell’essente che appare nell’apparire finito del destino, che è necessario affermarne l’esistenza21. L’apparire infinito del destino non può apparire, nella sua concretezza, nell’apparire finito del destino, e in quanto non vi può apparire, ne è l’inconscio. Tuttavia, nel proprio inconscio, “l’Io del destino finito è con necessità il destino infinito della Gioia: anche quando, contrastando il destino finito, la testimonianza della terra isolata predomina su di esso – che, pur presente, è come assente”22. Nel “proprio inconscio l’Io del destino è la Gioia che oltrepassa la totalità delle contraddizioni, nel proprio inconscio egli sperimenta, cioè vuole eternamente, questa totalità”23. Si sta dicendo che l’Io infinito è l’inconscio dell’Io finito, e che, in quanto tale, l’Io infinito è e non è l’Io finito del destino. Ciò solleva, compren20 21

22 23

E. Severino, Oltrepassare, cit. p. 175. Qui potrebbe sorgere il seguente interrogativo: su quale base si dice che l’apparire attuale non è totalità? Ovvero: stando nell’apparire attuale o originario, come si può affermare che ci siano altre determinazioni oltre quelle che appaiono? Per una risposta esaustiva si rimanda al II capitolo de La Gloria, in cui Severino mostra perché l’originario sia solo posizione formale della totalità, e dunque perché sia necessario affermare che il tutto che appare nel e come originario non è il tutto concreto, partendo da questa posizione: si può affermare innegabilmente che l’originario non contiene almeno una determinazione: quella “che consiste nel risolvimento del problema se ciò che appare attualmente sia o meno la totalità concreta dell’essente” (La Gloria, cit. p. 79). E. Severino, La Gloria, cit., p. 68. Ibi, p. 78.

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sibilmente, parecchi interrogativi. Ne considereremo i due che paiono di maggiore rilievo teoretico: come si può parlare di differenza tra apparire finito e infinito del destino se si tratta dell’apparire del destino, cioè del medesimo apparire? e in che senso l’apparire infinito, che è apparire, cioè autocoscienza e attualità, può essere inconscio? “L’apparire infinito è l’apparire infinito del destino, e pertanto non è il cerchio finito del destino; e tuttavia esso è assolutamente questo cerchio finito”24. L’apparire infinito, proprio in quanto infinito, cioè apparire della totalità concreta dell’essente, non è l’apparire finito dell’essente quale apparire della formalità di tale concreta totalità. Tale distinzione, immediatamente evidente e innegabile, non esclude la medesimezza, dal momento che l’apparire infinito, essendo il toglimento originario di ogni contraddizione del finito, è lo stesso apparire finito nella sua posizione concreta: l’apparire infinito è la posizione concreta e incontraddittoria dell’apparire finito. In quanto l’apparire infinito è la liberazione originaria delle contraddizioni dell’apparire finito, ovvero della contraddittorietà che compete all’apparire in quanto finitezza, l’apparire infinito è lo stesso apparire finito in quanto così (originariamente) «liberato». Sempre in questo senso si deve dire che l’apparire infinito è l’inconscio dell’apparire finito. Apparire significa autocoscienza, e dunque attualità: se l’apparire non fosse attualità, il suo essere presente non sarebbe presente e dunque l’apparire non sarebbe apparire. Ma tale inattualità dell’apparire infinito non è contraddittoria, perché si tratta di una inattualità che non compete all’apparire infinito come tale, ma alla sua presenza nell’apparire finito: l’apparire infinito, che è la vera e originaria coscienza e attualità, è presente solo formalmente nell’apparire finito a causa della finitezza strutturale di quest’ultimo, e dunque, in questo senso e solo in questo senso, esso ne è l’inconscio (e l’inconscio essenziale). Distinguendo tra attualità in sé e attualità in sé e per sé, si deve dire che l’apparire infinito è attuale, ma che tale attualità nel finito è solo «in sé». Nel finito, l’attualità del finito è attuale in sé e per sé, mentre quella dell’infinito è attuale solo in sé. In quanto nell’Io finito del destino non appare, nella sua concretezza, l’Io infinito del destino, si deve concludere che l’Io finito in un certo senso isola l’essente dalla totalità in cui esso è veritativamente avvolto. Il che potrebbe portare a pensare che anche l’Io finito del destino, essendo contraddizione – ed esattamente quella contraddizione consistente nel porre come tutto ciò che non è il tutto – dia luogo a una negazione del destino della verità pari a quell’isolamento dell’essente dal destino operato dal nichilismo. Invece 24

Ibidem.

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c’è una differenza essenziale tra l’isolamento dell’Io finito del destino e l’isolamento in cui consiste la contraddizione nichilistica. Negli scritti severiniani l’isolamento in cui consiste l’Io finito del destino prende il nome di contraddizione C: l’Io finito mostra un tutto che non è il tutto, e così si contraddice (presentando l’essente isolatamente dalla totalità concreta). Ma ciò non deve portare a concludere che il destino della verità, contraddicendosi, non sia il de-stino della verità quale stare innegabile dell’essere. L’Io finito del destino, infatti, non nega la verità, ma tace la totalità concreta dell’essente, ovvero non la mostra nella sua interezza. La contraddizione nichilistica nega invece l’esser sé dell’essente, nega il destino della verità. Nel caso della contraddizione C, il destino della verità non viene negato ma taciuto: si tratta di un silenzio della verità su sé stessa, e non di una negazione; nel caso dell’isolamento nichilistico, invece, si tratta di una vera e propria negazione del destino: non ci si limita a non dire la verità nella sua concretezza, ma la si nega (si nega cioè lo stare eterno e innegabile dell’essente), ponendo come vera la sua negazione (il divenire altro dell’essente). Questa differenza è particolarmente importante. Innanzitutto perché, se si dicesse che anche l’Io finito del destino è isolamento della verità nel senso della sua negazione, ci si chiuderebbe in quella contraddizione per cui l’Io finito del destino non sarebbe de-stino e l’esistenza dell’Io infinito del destino, quale toglimento originario di ogni contraddizione, non potrebbe essere affermata. Si deve inoltre rilevare che la contraddizione C è il fondamento ultimo dell’alienazione nichilistica: se il Tutto apparisse come tale, l’isolamento del destino sarebbe impossibile. La contraddizione C è dunque la matrice originaria dell’isolamento della terra e della mortalità del mortale. 3. La struttura originaria come fondamento La struttura originaria della verità dell’essere è necessariamente identica sia nell’apparire finito che in quello infinito, proprio in quanto è il «fondamento» dell’essere, ossia in quanto è il “«predicato necessario» di ogni essente – predicato «trascendentale»”25. Questo essere predicato necessario del fondamento deve però essere ulteriormente chiarito. Le determinazioni della struttura originaria, infatti, non sono tout court il predicato di ogni essente, e cioè, ad esempio, questo libro non è – in quanto tale – l’apparire 25

E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 180.

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infinito, ma “ogni essente è ciò che esso è e appare così come appare, solo in quanto esso è in relazione a tale insieme”26. Ciò significa che ogni essente è necessariamente in relazione alla totalità delle determinazioni persintattiche, ovvero tali determinazioni sono il predicato necessario di ogni essente in questo senso dell’«essere in relazione». Come abbiamo visto nel par. 1 di questo capitolo, la persintassi è la “dimensione senza di cui, nel cerchio finito dell’apparire, non può apparire alcun essente. Tale dimensione è la stessa struttura originaria del destino della verità – lo «sfondo» intramontabile della terra, che accoglie tutto ciò che sopraggiunge e da cui si congeda tutto ciò che passa”27. La struttura originaria è lo “sfondo intramontabile” dell’apparire e cioè la “persintassi” dell’essente: a differenza della iposintassi, che è il contenuto variabile e variante dell’apparire, la persintassi è la sintassi intramontabile dell’Io finito del destino, necessariamente costante e sempre identica a sé, cioè originaria: necessariamente costante proprio in quanto sfondo necessario della iposintassi; sempre identica a sé, perché, se via via apparissero ulteriori determinazioni integranti, prima di tale integrazione essa non sarebbe ancora stata sé stessa, cioè fondamento, e dunque nulla sarebbe potuto apparire, nemmeno quelle determinazioni destinate a integrarla. Il suo diventare sé stessa sarebbe cioè impossibile anche se lo si intendesse in senso non nichilistico, cioè non come diventare altro ma come manifestazione progressiva dell’esser sé del fondamento. Il fondamento, in quanto persintassi o sintassi costante e originaria dell’essere, è “il contenuto eterno che appare eternamente nel cerchio finito del destino”28. In quanto tale, esso è il luogo che “accoglie la terra”, dove l’espressione «terra» indica la totalità degli essenti che appaiono e scompaiono. Il cerchio finito del destino è dunque la relazione tra lo sfondo – ossia ciò che è necessario che appaia già da sempre in tale (e in ogni cerchio29) – e la terra. In quanto l’apparire del destino è un tratto del destino, l’apparire del destino è l’apparire di sé stesso, ed è questo

26 27 28 29

Ibi, p. 181. E. Severino, La Gloria, cit., p. 92. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 182. Questa precisazione fa riferimento alla necessità dell’esistenza di una “costellazione infinita di cerchi finiti del destino”, necessità che si presenta per la prima volta ne La Gloria e che costituisce un’altra soluzione – accanto cioè al problema del nulla – che la riflessione severiniana offre a un problema insolubile all’interno del nichilismo: il problema dell’esistenza dell’Altro.

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apparire di sé stesso la costellazione in cui si fa avanti la terra, lo «sfondo» del sopraggiungere della terra30.

In quanto la struttura originaria è «fondamento», essa è l’essenza del fondamento. In questo senso è la struttura anapodittica del sapere e cioè lo strutturarsi della principalità, o dell’immediatezza. Ciò importa che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice31.

Il fondamento è dunque struttura, unità non semplice, complesso logico e semantico composto da una pluralità di determinazioni essenzialmente legate tra loro. Legame essenziale significa che quelle determinazioni sono concretamente ciò che sono solo all’interno di quel complesso, così come quel complesso è concretamente quell’unità che è solo in quanto totalità di quella pluralità di determinazioni: senza anche uno solo dei suoi significati, esso non sarebbe ciò che è; così come ogni parte, separata da quel complesso (ovvero dal legame con tutte le parti), non sarebbe ciò che è. Ogni parte, essendo parte di quell’unico e identico complesso, è pertanto un certo modo diverso di predicare l’identico. Per questo si deve dire che la struttura originaria dell’essere è una predicazione di identici. La struttura originaria è l’«essenza del fondamento». Ciò significa che essa non è semplicemente fondamento, ma che è ciò che il fondamento deve essere per essere fondamento: essere fondamento significa essere «originario» ed essere originario significa essere «struttura». Il che significa che il fondamento dell’esser «struttura» del fondamento è il suo stesso essere «fondamento»: in quanto essere fondamento significa essere struttura, il fondamento dell’essere struttura del fondamento consiste nel suo stesso essere fondamento (in quanto il fondamento è essenzialmente qualcosa di non semplice). Ma consideriamo con attenzione questi passaggi essenziali. Abbiamo visto che la negazione della struttura originaria è un’autonegazione immediata implicante ciò che intende negare; non si tratta dunque di qualcosa che esiste e viene tolto, ma di qualcosa di impossibile. Come detto, la forza innegabile in cui consiste l’immediata autonegatività del proprio negativo è la necessità. La struttura originaria è fondamento in quanto l’essere nega originariamente il proprio negativo; ma, in questo modo, essa è anche l’essenza (nel senso del vero modo di essere) del fondamento, 30 31

E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 178. Ibi, p. 107.

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quale impossibilità (toglimento originario, immediata autonegatività) del proprio negativo. Essere fondamento significa essere originario, perché la sua negazione è tolta originariamente (in quanto autonegazione immediata); se non fosse originario, non sarebbe fondamento: l’originarietà dell’innegabile consiste dunque nell’impossibilità che ciò la cui negazione è autonegazione sia affermato sul fondamento di altro. L’originario non ha dunque nulla a che vedere con «ciò che si presenta per la prima volta», o con «l’istante» – quale sembra essere l’originario husserliano (almeno nell’interpretazione datane da J. Derrida)32.

Il fondamento è cioè originarietà in quanto innegabilità, impossibilità di non essere; ma ciò significa immediatamente essente e immediatamente apparente, ovvero essente per sé e non per altro (se fosse noto o fosse essente attraverso altro, non sarebbe originario). Il fondamento è originario e l’originario è fondamento. Il fondamentooriginario è dunque un “fascio” di significati, un semantema complesso, un complesso di predicazioni e significati cooriginari: una struttura, la «struttura originaria». Con ciò è anche chiarito perché “importa che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice”33: immediatezza (originarietà) significa impossibilità del proprio negativo (altrimenti sarebbe una mediatezza) e quindi significa struttura. L’essere è struttura in quanto è originario, ed è originario in quanto è struttura. L’immediato (o originario) è essente e apparente non mediante altro. In questo senso «l’essere è». L’affermazione «l’essere è» significa: l’essere è immediatamente presente come essente e immediatamente essente. È immediatamente noto che esso è e che tale essere noto è noto. L’essere è cioè l’immediato. Il termine immediato indica ciò che è per sé noto, e cioè che è originario nel senso che per essere affermato non richiede o non presuppone altro che la presenza di sé stesso, o non presuppone altro che sé stesso in quanto presente. […] il presentarsi o il manifestarsi dell’essere è precisamente l’affermazione: «l’essere è». […] per affermare che l’essere è, non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di introdurre un termine diverso da ciò che è affermato; ossia per

32 33

E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 157. Ibi, p. 107.

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affermare che l’essere è non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di alcuna mediazione, dimostrazione, apodissi34.

Che l’essere sia è per sé noto, cioè è noto non per altro: ciò per cui l’essere è noto è lo stesso essere che è noto. Ciò significa che l’essere è immediatamente presente, che è immediatezza fenomenologica. Tale immediatezza indica l’immediatezza della presenza della connessione tra il soggetto e il predicato della proposizione: «l’essere è». L’immediatezza della connessione tra il soggetto e il predicato della proposizione «l’essere è» è l’immediatezza dell’identità o incontraddittorietà dell’essere e per questo viene detta immediatezza logica. Nel primo caso si dice che «l’essere è», perché è immediatamente presente l’essere presente della connessione tra l’essere e il suo è; nel secondo caso si dice che «l’essere è», perché è immediatamente presente la connessione tra l’essere e il suo è. Si faccia attenzione a intendere correttamente questo perché, giacché non si tratta della fondazione o dimostrazione dell’immediatezza dell’essere sulla base di un termine medio, diverso dalla medesimezza dell’essere: non solo è per sé noto che l’essere è, ma è anche per sé noto che l’essere che è noto è ciò per cui si afferma che l’essere è. […] che l’essere immediato sia, in quanto (posto come) base dell’affermazione dell’essere, incluso nell’essere immediato (in ciò che è per sé noto), non costituisce un momento logicamente distinto dal momento in cui è posto che l’essere è per sé noto; la posizione di quell’inclusione non è un momento logicamente distinto o ulteriore alla posizione dell’immediatezza dell’essere35.

L’originario o immediato logico è l’immediatezza del nesso tra i significati (essendo il logo il nesso tra i significati) […] e l’immediatezza della logicità viene chiamata principio di non contraddizione. L’immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono i significati, è chiamata immediatezza fenomenologica36.

Per essere affermato, l’essere non richiede altro che sé stesso: “per affermare che l’essere è, non c’è bisogno di introdurre un termine diverso da ciò

34 35 36

E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 143. Ibi, cit., pp.153-154. Ibi, p. 17.

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che è affermato”37. In questo senso l’affermazione «l’essere è» è affermazione anapodittica. L’essere è in base a sé stesso e non mediante altro: immediato. Immediato significa che è per sé noto, ossia noto non per altro; pertanto affermare che l’essere è, significa che è immediatamente noto che l’essere è. “Ciò per cui l’essere è noto – il fondamento della notizia dell’essere – è l’essere stesso che è noto”38. Solo in quanto si afferma che l’essere è per sé noto, l’affermazione «l’essere è» non esiste semplicemente come fondamento (vale a dire in sé) ma è posto e saputo come fondamento: “se il fondamento è (semplicemente) il fondamento, esso non è il fondamento”39. In quanto l’immediatezza logica non può essere separata da quella fenomenologica e viceversa (la logicità appare come tale e l’apparire è apparire), il «divenire» dell’essente non appare come un uscire e un ritornare nel niente, “ma come un apparire e uno scomparire di ciò che, in quanto ente, è necessariamente legato al suo essere e, così, è eterno”40. Se si domanda in base a che cosa si afferma che l’essere, di cui si dice che è per sé noto, è base del suo essere affermato – […] – allorché si fa questa domanda si mette in questione ciò che è già stato posto come esser noto. Sì che la problematizzazione operata dalla domanda si costituisce come un già tolto41.

E ancora: la negazione dell’essere è (immediatamente) tolta perché l’essere è lo stesso fondamento dell’affermazione che lo pone. Ciò significa che la negazione dell’essere è tolta nella misura in cui nega l’essere che è fondamento dell’affermazione che lo pone, nella misura cioè in cui nega l’essere che è per sé noto42.

La struttura originaria è dunque fondamento dell’essere in quanto totalità delle determinazioni necessarie affinché l’essente possa essere e apparire. Ora si tratta di esplicitare (dal momento che implicitamente la differenza è stata posta) in che senso l’espressione «essenza del fondamento» sia in generale essenzialmente distante dal significato occidentale di «fondamento» e in particolare irriducibile alla tradizione metafisica aristotelico-cartesiana del fondamento (che è un altro modo di indicare la distanza tra l’epistéme occidentale e il de-stino severiniano). Ci si potrebbe infatti chiedere 37 38 39 40 41 42

Ibi, p. 143. Ibi, p. 146 Ibidem. Ibi, p. 18. Ibi, p. 154. Ibi, p. 166.

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se sia legittimo parlare di «fondamento» all’interno della posizione della necessità dell’essere: se l’essere è necessariamente sé stesso, eternamente, innegabilmente, come si può parlare di una necessità ulteriore, appartenente solo a un gruppo di determinazioni? Poiché l’essere è essenzialmente necessario, in che senso esistono alcune determinazioni «più necessarie» di altre? Ossia: parlando di questa necessità ulteriore, non si ricade nella prospettiva nichilistica del fondamento? All’interno della metafisica occidentale i termini ‘essenza’ e ‘fondamento’ indicano ciò che è stato isolato dalla determinazione in quanto ritenuto più vero e affermato come la sua sostanza. Questo concetto di sostanza e fondamento implica che il resto sia accidentale e inessenziale, cioè sia soggetto al diventare altro, possa nascere e morire. Nella concezione occidentale, ‘essenza’ e ‘fondamento’ sono la base permanente cui convengono le proprietà accidentali, dove accidentale significa diveniente, caduco, libero di passare dall’essere al niente (come abbiamo visto nel primo capitolo). In ciò consiste la differenza irriducibile tra il fondamento severiniano e quello occidentale. 4. La struttura originaria come «dire originario» La concezione occidentale dell’essenza e del fondamento, e dunque dell’essente quale essenziale diventare altro, si fonda sulla separazione originaria di soggetto e predicato. Per l’Occidente il soggetto e il predicato esistono originariamente l’uno fuori dall’altro; ogni predicazione è perciò una mediazione sopraggiungente che vuole unire ciò che è originariamente separato. In quanto l’essenza dell’ente sensibile è quella di oscillare tra l’essere e il non essere, il soggetto dell’ente, il suo «ciò-che», è originariamente separato dal suo predicato, dal suo «è». Ma così come il diventare altro è qualcosa di impossibile, allo stesso modo la predicazione fondata sul diventare altro è inevitabilmente un atto contraddittorio, in quanto volontà di identificare i non identici. Ripensando il significato di essenza e fondamento, il «linguaggio che testimonia il destino»43 oltrepassa essenzialmente la concezione predicativa 43

Con tale espressione Severino indica il linguaggio che, proprio con La Struttura originaria, inizia a testimoniare il de-stino, cioè lo stare innegabile dell’essere in quanto opposto originariamente al proprio negativo. In altre parole, tale espressione significa che il contenuto testimoniato non è il prodotto dell’operazione intellettuale del filosofo, ma la struttura dell’essere e del pensare che fonda ogni essente (compresa dunque la stessa operazione mentale del filosofo).

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occidentale e testimonia il significato incontraddittorio della predicazione come struttura originaria, operando anche una vera e propria rivisitazione grammaticale e linguistica: la struttura originaria è struttura, perché è predicazione, cioè una relazione in cui qualcosa è detto di qualcos’altro appunto perché quest’altro è ciò che esso è – e quindi il qualcosa detto è dedicato a (prae–dicatum) quest’altro. Questo dire non è un’operazione del mortale […]. Il dire è l’apparire delle relazioni tra le cose […]. Ma il dire, in quanto struttura originaria, è l’identità tra il qualcosa detto e il qualcosa di cui esso è detto, ossia è l’apparire dell’identità delle cose che sono in relazione: la relazione è identità. Se di qualcosa si dice che è altro da ciò che esso è, il dire dice che qualcosa è altro da sé, non è sé, cioè il dire è un contraddirsi. […] Che il dire, in quanto struttura originaria, sia l’apparire dell’identità, significa che è solo in quanto identità che appare che il dire è ciò la cui negazione è autonegazione. Una proposizione, di qualsiasi tipo essa sia […] può essere un dire della struttura originaria solo in quanto essa è, innanzitutto, questa identità. La distinzione tra i vari tipi di proposizioni è interna all’unico senso che la proposizione, in quanto predicazione, può assumere in quanto essa si costituisce come la stessa struttura originaria o come elemento di tale struttura44.

La struttura originaria è dunque il dire incontraddittorio, perché non predica a un soggetto, chiuso nel suo significato, un predicato che non gli conviene, ma predica al soggetto, aperto al predicato, il predicato che gli conviene: “il dire non è la sintesi di soggetto e predicato […], ma è l’identità tra la relazione del «soggetto» al «predicato» e la relazione del «predicato» al «soggetto»”45. Il dire dell’Occidente, fondato sull’isolamento di soggetto e predicato, è essenzialmente contraddittorio; il dire della struttura originaria (identità di genitivo soggettivo e oggettivo) è invece un dire in cui la sintesi tra soggetto e predicato è una sintesi originaria, e le predicazioni che formano la stessa struttura originaria sono in una sintesi originaria46. Come già visto, i due ambiti o modi fondamentali di questo diverso modo di dire l’identico (che è la struttura originaria) – i due modi fondamentali di «esser essere» – sono la logicità, l’essere identità-innegabilità, e la fenomenologicità, l’essere apparire. Se si separa l’apparire dell’essente (F-immediatezza) dall’impossibilità che esso non sia (L-immediatezza), non si può che intendere l’apparire e lo scomparire dell’ente come un uscire dal niente e 44 45 46

Ibi, pp. 24-25. Ibi, p. 29. Il discorso è in realtà più complicato, come mostrano gli scritti severiniani Tautòtes (Adelphi, Milano 1995) e Oltre il linguaggio (op. cit.), ai quali si rimanda per l’approfondimento di questo tema.

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un tornare nel niente. In ciò consiste propriamente il «nichilismo» della civiltà occidentale. La «strutturazione concreta» dell’originario è negazione della separazione tra essere dell’essente (L-immediatezza) e apparire dell’essente (F-immediatezza). Le due immediatezze sono cioè inscindibilmente unite: l’immediatezza logica non è la forma logica che regola l’immediatezza fenomenologica e viceversa: “l’impossibilità che l’ente non sia è tale, proprio perché si struttura originariamente con la necessità che il contenuto autentico, effettivo dell’apparire non sia l’uscire e il ritornare nel niente da parte dell’ente, ma il suo comparire e scomparire”47. La struttura originaria, pur essendo un certo «significare», non è dunque un significato qualsiasi, ma il “significato originario, ossia l’apertura originaria del significato”48. Ciò significa che essa è l’originarietà del significare e dunque la “struttura o sintassi originaria”49. La struttura originaria è il significare del significato come autosignificazione, ciò che è significante per sé e non mediante altro. Ciò significa che, prescindendo da essa, “ci si pone nella insignificanza”50. Lo stesso interrogarsi sul significato è “reso significante nell’atto in cui gli si risponde”51: la risposta dà senso alla domanda in quanto la toglie come domanda. Non vi è dunque nulla di insignificante, nemmeno lo stesso nulla, dal momento che, in quanto posto, è una posizione di senso, un significato, un positivo significare. 5. La struttura originaria come «dialettica originaria» e l'aporetica del nulla Nell’Introduzione (1981) a La struttura originaria (1958) si afferma che “l’originario è negazione di tutte le determinazioni astratte (che lo costituiscono) in quanto astrattamente concepite; ossia è negazione della totalità delle contraddizioni specifiche dei concetti astratti”52. Come altre aporetiche, quella del nulla è la contraddizione determinata che è implicata dall’isolamento di una certa determinazione dell’originario da una certa altra, o da cert’altre. […] la struttura originaria è la relazione originaria tra il concetto concreto e la negazione dell’aporia, ossia tra il concetto

47 48 49 50 51 52

Ibi, p. 20. Ibi, p. 129. Ibidem. Ibi, p. 132. Ibidem. Ibi, p. 61.

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concreto e l’isolamento che determina l’aporia. Questa relazione originaria è il risolvimento dell’aporia, che dunque è risolvimento originario53.

Per chiarire questa non semplice affermazione partiamo da qui. L’originario è quel nesso di predicazioni (la cui negazione è autonegazione) “originariamente necessario che unisce le determinazioni dell’originario. E questo nesso è un organismo di predicazioni unificato dalla predicazione che afferma l’identità della L-immediatezza e della F-immediatezza”54. Ogni tratto particolare dell’originario è l’«astratto». La posizione della parte come distinta (ma non separata e cioè necessariamente unita agli altri tratti dell’originario) è il «concetto concreto dell’astratto»; il «concetto astratto dell’astratto» è invece la posizione della parte come separata dagli altri tratti. Il concetto concreto dell’astratto è la stessa struttura originaria come totalità necessaria dei tratti, ovvero come posizione della necessità del legame tra essi, mentre il concetto astratto dell’astratto è l’isolamento della parte dal tutto e dunque la negazione della posizione concreta dell’originario. Ogni concetto astratto dell’astratto è una determinazione particolare dell’originario che viene isolata dal nesso (necessario) con le altre parti dell’originario, e dunque è una negazione dell’originario. In questo senso “ogni negazione è una determinazione particolare dell’originario, che viene separata dalla relazione necessaria che la unisce, come negata, alla struttura originaria”55. Il concetto astratto separa cioè la negazione dell’originario dal suo esistere in verità come originariamente negata. La verità dell’astratto consiste perciò nel nesso necessario tra sé stesso e la struttura originaria come propria negazione originaria: “è appunto la necessità della connessione a costituire il significato dell’astratto”56. La struttura originaria è concetto concreto dell’astratto in quanto negazione “della totalità, attuale e possibile, dei concetti astratti dell’astratto”57. Dunque il significato dell’astratto, “all’interno della connessione necessaria, è diverso dal significato dell’astratto al di fuori di tale connessione”58; per questo, non solo tale «stare fuori» è impossibile, ma è impossibile lo stesso significato posto dal concetto astratto dell’astratto. Ora si deve prestare attenzione a quanto la citata Introduzione mette in luce. Il concetto astratto dell’astratto è la posizione della parte come 53 54 55 56 57 58

Ibi, pp. 62-63. Ibidem. Ibi, p.43 Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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semplice esser sé. Ciò significa: si ritiene che una certa determinazione sia ciò che è a prescindere da qualsiasi legame predicazionale con altro. Qui il testo rileva che tale concetto astratto dell’astratto nega la L-immediatezza e dunque produce contraddizione, ma che questa non appare come tale nel concetto astratto, bensì “solo nel concetto concreto dell’astratto”59. Più avanti, però, si mostra che, stando al semplice concetto astratto dell’astratto non si produce ancora nessuna contraddizione (quale identificazione dei contraddittori) e che, per avere tale contraddizione «dialettica», l’isolamento della determinazione deve essere posto astrattamente, cioè isolatamente dal suo essere isolamento: se il concetto astratto di A è semplicemente questo isolamento, nell’apparire non si costituisce la contraddizione. Il concetto concreto, da parte sua, rileva semplicemente che il contenuto dell’isolamento di A è un non-A; ma qui non esiste alcuna identificazione di A e non-A60.

La contraddizione dialettica è data cioè dal concetto astratto del concetto astratto dell’astratto. Il testo sembra dire, da una parte, che per il concetto concreto già il semplice isolamento della parte (concetto astratto dell’astratto) produce contraddizione, e dall’altra che, affinché la contraddizione sia prodotta, è necessario che l’isolamento venga a sua volta isolato (nel concetto astratto del concetto astratto dell’astratto). Il che potrebbe generare la domanda: il semplice isolamento della parte produce o non produce contraddizione? A questa (legittima) domanda si deve rispondere: sì e no. Sì, perché (come mostra il testo citato nelle pp. 41-47) il concetto concreto dell’astratto è l’apparire del legame essenziale tra la determinazione e l’originario: la determinazione è necessariamente unita alle altre determinazioni dell’originario, dalle quali può essere distinta ma non separata. In quanto il concetto astratto della parte separa ciò che è posto come inseparabile, tale concetto in verità (cioè per il concetto concreto) produce contraddizione in quanto nega la L-immediatezza del rapporto tra inseparabili. In questo senso ogni concetto astratto dell’astratto è una negazione (implicita o esplicita) dell’originario e, come tale, nega la L-immediatezza. Come si nota, il significato dell’astratto è dato proprio dalla “necessità della connessione”61 all’originario. Tale necessità fa sì che il contenuto posto dal concetto astratto sia qualcosa di impossibile: in quanto il nesso tra parte e originario è 59 60 61

Ibi, p. 44. Ibi, p. 57. Ibi, p. 43.

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necessario, cioè innegabile, il contenuto affermato dal concetto astratto è impossibile. Il concetto astratto afferma, da ultimo, che la parte non è sé stessa, ma non pone l’identificazione tra la parte come distinta e la parte come isolata; per questo motivo si deve dire che no, nel concetto astratto dell’astratto non appare l’identificazione dei contraddittori, perché (come il testo mostra nelle pp. 56-57), affinché questa appaia, sono necessarie due condizioni: che la parte isolata appaia come quella parte che in verità è essenzialmente legata all’originario; che l’isolamento della parte sia isolato dal suo essere isolamento, cioè il suo essere un isolamento sia presente come tale e si astragga da esso. In altre parole: l’isolamento (concetto astratto dell’astratto) è semplicemente l’affermazione che una certa determinazione è ciò che è a prescindere da qualsiasi altra relazione o legame. Il semplice isolamento non dice che tale determinazione è la stessa che, in verità, è sé stessa solo in quanto legata necessariamente all’originario. Potremmo dire che il semplice isolamento non afferma né nega esplicitamente tale legame, semplicemente lo ignora. Affinché tale legame sia negato, esso deve apparire come tale: deve essere posto e se ne deve prescindere. In questo caso abbiamo, appunto, l’isolamento dell’isolamento, l’astrazione della posizione astratta dell’astratto, il concetto astratto del concetto astratto dell’astratto. Solo in quest’ultimo caso si ha l’identificazione di quei contraddittori che sono la parte isolata (astratto dell’astratto) e la parte distinta (concreto dell’astratto). Solo in quest’ultimo caso si ha, cioè, la contraddizione dialettica che consiste appunto nel concetto astratto del concetto astratto dell’astratto. Accanto a questo senso della contraddizione dialettica se ne trova però un altro, per cui la contraddizione non dipende dall’isolamento dell’isolamento, bensì dalla particolarità di un certo contenuto (fermo restando che ogni contraddizione è, in quanto tale, una forma di isolamento e di identificazione dei contraddittori). L’aporetica del nulla appartiene a questo secondo caso, in cui la contraddittorietà è data dalla specificità del contenuto: un certo contenuto è posto come contraddizione perché è quel certo contenuto, e non per quell’unico motivo che costituisce il primo lato del senso della contraddizione dialettica, e che è dato dall’identificazione dei contraddittori operata dal concetto astratto del concetto astratto dell’astratto, in quanto affermazione che una certa determinazione dell’originario è indipendente o indifferente alla sua relazione al concreto originario62.

62

Ibi, p. 62.

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Come detto, anche in questo caso è l’isolamento a determinare la contraddizione; ma la contraddizione non consiste nel concetto astratto di tale isolamento, bensì nella contraddizione specifica […] implicata dall’isolamento di una certa determinazione dell’originario da una cert’altra, o da cert’altre, o dalla totalità delle determinazioni dell’originario. Che è implicata dall’isolamento, ma che, ripetiamo, non consiste nella contraddizione in cui consiste il concetto astratto dell’isolamento63.

E in quanto “la struttura originaria è la relazione originaria tra il concetto concreto e la negazione dell’aporia, ossia tra il concetto concreto e l’isolamento che determina l’aporia”64, tale relazione originaria “è il risolvimento dell’aporia che dunque è risolvimento originario”65. Ecco dunque il nesso essenziale tra l’aporetica del nulla e la struttura originaria: l’aporia sorge in quanto quella determinazione dell’originario che è il nulla-momento viene isolata da quell’altra determinazione che è il suo positivo significare. Il risolvimento dell’aporia consiste pertanto nell’affermazione dell’originarietà della sintesi tra i due momenti, che sono distinguibili ma non separabili. La loro separazione, infatti, tramuta inevitabilmente il nulla in una impossibilità logico-semantica o perché in esso si ritrova il positivo significare che il nulla assoluto, per definizione, non può essere (I formulazione dell’aporia), o perché, tenendo ferma questa assoluta nullità, la posizione del nulla è implicata e non è implicata dalla posizione dell’essere (II formulazione). Come si nota, in qualunque modo l’aporia venga formulata, il fondamento ultimo della sua insorgenza consiste nella incomprensione dell’essenziale e originaria relatezza (o sintesi) dei distinti (momenti). Il che porta a concludere che tutte le difficoltà nel comprendere o accettare il risolvimento dell’aporetica del nulla siano da ultimo riconducibili all’incapacità di comprendere la differenza tra distinzione e separazione, ovvero all’insuperabilità dello «schema logico» per cui se qualcosa è distinto non può essere originariamente relato, come se la distinzione fosse incompatibile con l’originarietà e la necessità del legame. Ma quale insuperabile resistenza logica si oppone alla conciliabilità di «distinzione» e «sintesi originaria»? Ovvero: quali strutture logiche e concettuali entrano in gioco così irresistibilmente da non far comprendere il risolvimento severiniano dell’aporetica del nulla? 63 64 65

Ibi, pp. 62-63. Ibidem. Ibidem.

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IV. L’APORETICA DEL NULLA E IL NICHILISMO. SVILUPPI

1. Il rapporto specifico tra il nichilismo e l'aporia del nulla La struttura originaria, in quanto “relazione originaria tra il concetto concreto e […] l’isolamento che determina l’aporia”, è “il risolvimento dell’aporia che dunque è risolvimento originario”1. Da qui la necessità che per il nichilismo, in quanto negazione della struttura originaria, l’aporetica del nulla sia irrisolvibile e sia ritenuta irrisolvibile. Questi due aspetti devono essere distinti, perché i motivi per cui all’interno del nichilismo l’aporetica non può essere risolta non sono i motivi per cui il nichilismo crede che sia irrisolvibile. Ciò dipende dall’impossibilità del nichilismo di riconoscersi come tale, ovvero, come si diceva nel primo capitolo, dalla necessità che il nichilismo sia l’inconscio del mortale. Che la struttura originaria sia la soluzione dell’aporetica del nulla e che all’interno del nichilismo la sua soluzione non possa essere compresa vale per ogni forma di aporetica in quanto negazione della struttura originaria. Per questo ora si tratta di individuare il rapporto specifico tra il nichilismo e l’aporetica del nulla, ovvero il fondamento specifico dell’insorgenza dell’aporetica del nulla e della sua irrisolvibilità, nel duplice significato indicato sopra. L’approfondimento di questo rapporto specifico evidenzierà un valore particolare di questa aporetica, che si aggiunge all’importanza che essa ha in quanto momento fondamentale per l’«intelligibilità» della testimonianza della struttura originaria. L’analisi e le tesi che si sosterranno in questo capitolo non sono contenute negli scritti severiniani, ma ne costituiscono l’esplicitazione e in qualche modo lo sviluppo. Riprendiamo la distinzione severiniana (cfr. III, 5) dei «due lati del senso della dialettica», per cui l’aporia del nulla (come altre aporie importantissime quali quelle relative alla «predicazione» o all’«apparire degli

1

Ibidem.

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enti») non consiste nel concetto astratto dell’isolamento – in cui le determinazioni sono ancora indeterminate quanto al loro contenuto – bensì nella “contraddizione specifica […] implicata dall’isolamento di una certa determinazione dell’originario da una cert’altra, o da cert’altre, o dalla totalità delle determinazioni dell’originario”2. Per comprendere l’insorgenza dell’aporetica del nulla essa va dunque collegata alla particolarità del significato «nulla» e non semplicemente alla circostanza «che una certa determinazione dell’originario è indipendente o indifferente alla sua relazione al concreto originario» (concetto astratto del concetto astratto dell’astratto). Abbiamo visto che il significato «nulla» è contraddittorio perché unisce l’assolutamente positivo all’assolutamente negativo; ma abbiamo anche visto che tale autocontraddittorietà non significa assoluta insignificanza (come quella del significato «rosso non rosso») bensì posizione dell’assoluta insignificanza (che è perciò posizione anche dei significati autocontraddittori-insignificanti quale «rosso non rosso»). La posizione dell’insignificanza, in cui consiste l’autocontraddittorietà del significato «nulla», non è insignificante, proprio perché in essa l’autocontraddittorietà è posta come tale: porre l’insignificanza assoluta, dire che essa è tale, significa significare l’insignificabile come tale, cioè dare luogo a una contraddizione posta e saputa come necessaria e inevitabile. In ciò consiste l’autocontraddittorietà del significato «nulla». Quando la logica predicativa isolante entra in relazione con il significato autocontraddittorio del «nulla», l’insorgenza del discorso aporetico è inevitabile. Fermo restando che anche l’aporia del nulla è una forma di isolamento dell’isolamento (concetto astratto dell’astratto dell’astratto), essa sorge per l’interazione tra la logica predicativa isolante e quella forma particolare di autocontraddittorietà in cui consiste il significato «nulla». Severino compie un’analisi di questo tipo in relazione all’aporetica dell’apparire, mostrando che il pensiero fenomenologico occidentale si chiude nell’impossibilità di affermare l’apparire perché isola gli essenti che appaiono dal loro apparire e cioè perché isola l’apparire dalla totalità dell’originario, potendolo affermare solo sulla base del suo apparire e così via in un regresso all’infinito. L’insorgenza di tale aporetica è perciò da ricondursi all’interazione tra la negatività costitutiva dell’apparire (per cui, come abbiamo visto in III, 2, l’apparire è un «tirarsi in disparte») e il pensare isolante che pone l’apparire come qualcosa di fenomenologicamente puro, ovvero, per dirlo col linguaggio della Struttura originaria, come negazione dell’identità di F- e L- immediato. Mostrando il nesso 2

Ibi, pp. 62-63.

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essenziale tra l’apparire dell’ente e l’apparire del suo apparire (e l’apparire dell’apparire dell’apparire: coscienza di autocoscienza), l’aporia è tolta. Noi ora intendiamo mostrare che, come nell’aporetica dell’apparire si deve partire dall’interazione tra la negatività dell’apparire e la logica isolante, così nell’aporetica del nulla si deve partire dall’interazione tra l’autocontraddittorietà particolare del significato «nulla» e la logica isolante. Ogni significato è sintesi di determinazione e positivo significare. Nel significato «stella», o «libertà», ad esempio, la determinazione in sintesi con il suo significare è una positività e pertanto non contraddice la positività del suo significare. Nel significato «nulla», invece, la determinazione è assoluta negatività e contraddice la positività del suo significare. Ora vedremo perché, all’interno della coscienza che il nichilismo ha della significazione, ciò determini un’aporia insuperabile. Nel primo capitolo abbiamo visto che il nichilismo consiste nel non pensare l’ente come sintesi originaria del «ciò-che» e dell’«è»: la determinazione viene dal niente e torna nel niente proprio perché il legame con il suo essere è fattuale e contingente, ha un inizio e una fine. Il che, stante l’identità tra essere e significare, vale per ogni significato. Ma mentre in relazione alle determinazioni «positive» la non originarietà della sintesi sembra non influire sulla significazione, in relazione al significato «nulla» il nichilismo si accorge che la significazione è impossibile. Ma quando se ne accorge, non può riconoscere che ciò dipende dalla sua logica predicativa e ritiene che ciò dipenda dalla contraddittorietà-insignificabilità del nulla come tale: il nulla è perso appena posto, perché è impossibile pensarlo e dirlo. Il nichilismo non si accorge che ciò dipende dalla sua logica predicativa, perché è convinto che tale logica sia efficace nei confronti delle determinazioni «positive». Quando pensa il significato «stella», la logica isolante non sembra incontrare problemi proprio perché lo «stella-momento» è una determinazione positiva; e così il nichilismo non si accorge che, pensandola come separata dal suo positivo essere e significare, esso non pensa la determinazione ma qualcosa di impossibile. Il nichilismo, cioè, non si accorge che la positività della determinazione è tale in quanto è già in sintesi con il suo significare. Il nichilismo non si accorge che quando parla di «stella», nella posizione del momento è già necessariamente presente il suo significare; questa relazione essenziale rimane inconscia, e così il nichilismo crede che sia possibile pensare la determinazione separatamente dal suo significare, non accorgendosi che, in quanto la pensa, la determinazione è già in sintesi con il suo significare. Quando la logica separante del nichilismo incontra il nulla-momento, la scissione tra determinazione ed essere-significare non può più restare

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inconscia e affiora, ma affiora nell’unico modo in cui può affiorare all’interno del nichilismo: non come contraddittorietà della logica separante (il nichilismo si riconoscerebbe come contraddizione e “uscirebbe” da sé), bensì come aporeticità insuperabile del «nulla». Ciò non significa che la posizione nichilistica del significato «stella» sia un significato “riuscito” mentre il significato nichilistico «nulla» non lo sia; entrambi sono due impossibili atti di significazione dal punto di vista dello «stare del significato» cioè della originarietà della sintesi. Entrambi i significati sono cioè posizioni immediatamente autocontraddittorie, in quanto consistenti nell’impossibile volontà di significare una determinazione originariamente separata dal suo positivo significare. Ma dal punto di vista della «coscienza incosciente» che il nichilismo ha della significazione, seppure in modo necessariamente alterato, appare una irrisolvibile insignificabilità del «nulla», che non può essere vista come dipendente dalla irrelatezza della determinazione dal suo positivo significare, e che perciò si trasforma nell’impossibilità del nulla di essere significato. La prima forma di aporetica del nulla sorge in quanto la sintesi non è saputa come originaria: quando il discorso aporetico va a considerare il nulla-momento nella sua assoluta nullità, trova che esso, proprio in quanto è pensabile come «momento», non è «nulla assoluto». Il nulla «è». L’autocontraddittorietà della sintesi positivo-negativo, che appartiene all’intero (ossia al significato autocontraddittorio del «nulla»), viene attribuita alla parte (nulla-momento), che è invece il significato incontraddittorio, e si conclude che è impossibile porre il nulla. L’aporia sorge perché il nichilismo concepisce il nulla-momento come concepisce il «ciò-che» dell’ente. Il nichilismo separa esplicitamente il «ciò-che» dal suo «è» quando dice che «la cosa non è più», ma implicitamente esige che la determinazione sia in sintesi con il suo «è» anche quando «non è più», proprio perché ne parla come di un non-niente: anche per dire che la determinazione è diventata niente, la determinazione deve essere presente come tale e dunque è implicitamente posta come un nonniente. Non fosse altro che per la differenza tra l’essere diventato niente di ciò che è stato qualcosa e il niente della nientità assoluta. Esplicitamente il nichilismo dice che la determinazione non è più, cioè che si è sciolto il suo legame con l’essere; ma per dire che la determinazione non è più, che è diventata niente, esso implica che la determinazione sia un non-niente. All’interno del nichilismo la determinazione è dunque questa impossibile convivenza di niente e non niente. Il nichilismo è abituato a pensare alla determinazione come separata dal suo essere, perché ritiene che la determinazione non sia già, come tale, essente e significante; ma quando la

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terminazione viene posta come separata dal suo essere, essa appunto viene posta: può essere detta, pensata, ricordata: insomma, appare e dunque, pur essendo niente, essa non è niente. Il nulla-momento, come il «ciò che» dell’ente, da una parte è niente (in quanto libero dal suo legame con l’essere), dall’altra è non-niente (in quanto è posto). La contraddizione che il nichilismo subisce nella determinazione che, quando diventa niente, è qualcosa e non è qualcosa, esso la incontra nel nulla-momento, che è e non è nulla assoluto. In entrambi i casi, il nichilismo conclude che ciò non dipende dal suo modo di pensare: che la cosa sia diventata niente è per esso immediatamente evidente, non dipende da un’interpretazione dell’apparire; che il nulla sia perso appena posto per il nichilismo non dipende dalla logica predicativa isolante, bensì dalla particolarità del significato «nulla», che è essenzialmente aporetico, impossibile, insignificabile. Nel nichilismo l’intrinseca (ed implicita) contraddittorietà del divenire è pari alla intrinseca (ed esplicita) contraddittorietà del nulla, nel senso che in entrambi i casi la contraddittorietà appartiene alla «natura» della cosa e non alla logica che la pone. Consideriamo la seconda formulazione dell’aporetica. Abbiamo visto che, al di là delle sue particolari individuazioni, essa fa implicitamente tesoro del primo presentarsi dell’aporetica e nasce dalla consapevolezza che il nulla-momento non possa includere in alcun modo l’essere o il positivo significare. Ciò fa sì che il nulla non si possa costituire, e con esso nemmeno quelle strutture logiche di cui la posizione dell’essere (il principio di non contraddizione) necessita. In quanto il nulla è posto, esso non è nulla; dunque il nulla non può essere pensato, posto, presentato. Ma in questo modo l’essere implica e non implica l’orizzonte del nulla. Anche in questo caso siamo di fronte all’individuazione del modo in cui la logica nichilistica pensa il «ciò-che» dell’ente, ovvero la determinazione «pura»: quest’ultima, non essendo necessariamente legata al suo essere-significare, ne è originariamente separata; ma essendone separata, non è né «essente» né «significante». È cioè qualcosa che è e insieme non è, che significa e insieme non significa. Qualcosa di immediatamente autocontraddittorio, cioè impossibile, al pari del «nulla-momento»; con la differenza che, poiché il «nulla-momento» è determinazione assolutamente negativa, tale autocontraddittorietà-impossibilità si presenta esplicitamente, mentre nel caso della determinazione positiva, proprio in quanto «positiva», può rimanere inconscia. Anche nel caso della seconda formulazione dell’aporetica il nichilismo dunque non fa che ripetere il modo in cui concepisce, esplicitamente e implicitamente, l’esser ente.

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2. Irrisolvibilità dell'aporia e logica nichilistica Consideriamo ora, come esemplificative della logica isolante, le riflessioni di Gennaro Sasso, Mauro Visentin e Massimo Donà, che respingono il risolvimento severiniano. Non le consideriamo per mostrare come vadano tolte – cosa che in senso teoretico essenziale ha già fatto, e una volta per tutte, Severino nel IV capitolo della Struttura originaria -, ma per analizzare come la logica isolante del nichilismo determini l’aporeticità del nulla e del rapporto tra «essere» e «determinazione» (o “doxai” nel caso di Sasso). In Essere e negazione3 Gennaro Sasso dedica una ventina di pagine alla soluzione severiniana dell’aporetica del nulla. Pur definendola “un’acuta «risoluzione» contemporanea”, Sasso la ritiene “non accettabile […] perché, simile essendo il punto di avvio, assai diversa, per contro, è riuscita, presso di noi, la delineazione della pars costruens”4. Sasso condivide con Severino che non si tratta di considerare il «non essere relativo», bensì il «nulla» “come assoluto non essere”, e riconosce che “Severino parte da una considerazione che è, senza dubbio, imprescindibile […] . Se il nulla «in qualche modo» non fosse, come accadrebbe che il principio di non contraddizione asserisca, e possa asserire, che «l’essere non è il nulla» (o non è nulla)?”5. Per mostrare l’«inaccettabilità» delle posizioni di Severino, Sasso parte dal paragrafo 5 del IV capitolo della Struttura originaria quale “punto fondamentale dell’aporia e del suo risolvimento”, e lo cita integralmente, perché, “al di qua degli svolgimenti specifici che, in questo capitolo alquanto tormentato, egli ha conferiti a tale modalità risolutiva, il passo che si è citato li contiene, infatti, potenzialmente tutti”6. Ricordiamo che in questo paragrafo, intitolato «Precisazione del senso secondo il quale il nulla è»7, Severino fa un chiarimento fondamentale: “allorché si afferma che la posizione del non essere attesta l’essere del non essere, non si può intendere di affermare che «nulla» significhi, in quanto tale, «essere»; ma che il «nulla», che è significante come nulla, è”8. Il che significa: non si deve confondere l’«essere» della posizione del nulla con la «nullità» del nulla: è

3 4 5 6 7 8

Gennaro Sasso, Essere e negazione, Morano, Napoli 1987. Ibi, cit., p. 263. Ibi, p. 264. Ibidem. Cfr. II,. 2. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 213.

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la posizione del nulla ad essere, non il nulla in quanto nulla. Rilevamento importante, come vedremo, proprio in relazione alla posizione di Sasso. Per comprendere meglio il significato del paragrafo 5, Sasso ritiene opportuno prendere in esame il paragrafo successivo (6), in cui Severino mostra che il nulla è un significato autocontraddittorio in quanto sintesi del “«nulla-che-è-significante», e dunque «è», «sta», nella sintesi semantica, in relazione con il «nulla» che, nella sua assoluta negatività, «non è», è nulla, e contraddice perciò all’«è» del nulla significante. Il quale ‘nulla’ è quindi bensì significante, ma come «nulla»; e questa è una contraddizione che, per altro, essendo stata pensata come altresì una relazione di «momenti», o una sintesi, è da Severino definita «concreta»”9. Presumiamo che quando Sasso parla di «nulla-che-è-significante» si riferisca al «positivo significare» del nulla, espressione che sarebbe preferibile onde evitare pericolose ambiguità. Ribadito che l’argomento di Severino è “acuto, come si è detto, e molto ingegnoso”, ma che “tuttavia, non persuade e non può essere accolto”10, Sasso lo illustra così: il tratto fondamentale della tesi essendo costituito dall’articolazione della struttura autocontraddittoria nei due momenti del «nulla», – il nulla che, significando, è, e il nulla contenuto, che è l’assoluta negatività di quel (positivo) significare, – è su questa articolazione, o distinzione, di momenti, nonché, s’intende, sul modo in cui è istituita, che occorre riflettere; e, in primo luogo, osservare che mentre, a proposito del nulla-che-significa-ed-è, Severino non dubita, e a ragione, di assumere che, preso così, «è» (ed è essere, – l’essere formale del non essere), non altrettanto crede di dover fare per il secondo «nulla» che, come contenuto del nulla significante (-essente) è «assoluta negatività», ed è «nulla»11.

Ma questa articolazione di momenti sostenuta da Severino, “come subito si comprende, produce difficoltà notevoli”12. Le difficoltà notevoli ci sono, è vero, ma sono quelle che Severino mostra appartenere al discorso aporetico e che Sasso sta riproponendo pari pari. Infatti, già da questi primi rilievi è chiara la direzione di Sasso. Egli intende sostenere l’impossibilità che il nulla-momento, in quanto nulla assoluto, possa essere «momento». Eppure, ripetiamolo, l’intero capitolo IV della Struttura originaria mostra che l’aporia sorge perché il nulla-mo9 10 11 12

Gennaro Sasso, Essere e negazione, cit., p. 265. Ibi, p. 266. Ibidem. Ibidem.

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mento non è concepito nella sua essenziale relatezza al suo positivo significare: concepito come separato dal suo positivo significare, il nulla non è e non può apparire. La distinzione tra positivo significare e nulla-momento ha luogo solo all’interno della originarietà della loro sintesi. Se si considera il nulla-momento come esistente separatamente da quella sintesi e cioè dal suo significare, allora non si espone il toglimento severiniano dell’aporia, ma si riespone la formulazione dell’aporia. Il testo di Sasso prosegue sostenendo che poiché, per quanto peculiare, l’autocontraddittorietà si presenta come una relazione, o una sintesi, di significante e significato, ecco che i momenti che la costituiscono non possono senz’altro esser ridotti ad uno. Debbono, in qualche modo, esser due: con la conseguenza che, del «nulla-momento», Severino è costretto bensì ad assumere che «sia» assoluta negatività e che, proprio in quanto tale, si distingua dal nulla che significa, ma non può escludere che sia termine di relazione e di distinzione13.

Questo pare, in definitiva, l’argomento di fondo del discorso di Sasso, che viene ribadito per più pagine: affinché la sintesi sia tale è necessario che i momenti siano due; questa consapevolezza costringe Severino a porre il nulla-momento come «assoluta negatività» e come «momento». E infatti Sasso prosegue: se, in effetti, avesse argomentato che, in quanto puro nulla e assoluta negatività, il «nulla-momento» non può costituire termine di distinzione e di articolazione, e che, per questa medesima ragione, nemmeno è lecito parlarne come di un «momento», allora, ed è ovvio, avrebbe altresì dovuto escludere che proponibile fosse il concetto, che invece egli propone, dell’autocontraddittorietà concreta, – proprio il concetto, insomma, in forza del quale aveva assunto che l’«aporia del nulla» giungesse alla sua risoluzione14.

Sasso trascura completamente le parole di Severino: se […] il nulla fosse soltanto quell’assoluta negatività, per la quale esso vale come significato incontraddittorio […] il nulla non apparirebbe nemmeno. […] Se il nulla è nulla, il nulla non è e non significa nulla; e quindi non può nemmeno apparire. Per questo lato il nulla non si costituisce come significato autocontraddittorio; e il principio di non contraddizione afferma appunto questa nullità del nulla15. 13 14 15

Ibidem. Ibi, pp. 266-267. E. Severino, La struttura orinaria, cit., p. 216.

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E così Sasso, non tenendo conto di queste affermazioni, conclude che quella di Severino è solo un’intenzione irrealizzabile: assumendo che, nella sua assoluta negatività (nel suo, per così dire, esser nulla, e non l’essere del nulla), il «nulla-momento» si distingue dal nulla che significa, com’è possibile infatti che, se non nell’intenzione, in concreto, Severino non lo prenda come ‘essere’ del nulla piuttosto che come «essere nulla», puro e assoluto nulla? Così, in effetti, come «essere del nulla» deve prenderlo anche quando asserisce di prenderlo, invece, come «esser nulla»: come un nulla, insomma, anch’esso in qualche modo «essente». Ma prendendolo così, com’è ammissibile, allora, che ne faccia un momento dell’autocontraddittorietà concreta, distinto, in questo, dall’altro momento di questa medesima autocontraddittorietà?16

Severino avrebbe cioè escogitato questo «acuto» argomento nella consapevolezza dei seguenti inevitabili passaggi logici: il risolvimento dell’aporetica necessita della sintesi come significato autocontraddittorio; la sintesi a sua volta necessita di due momenti distinti; quindi si deve trovare il modo di distinguere il nulla-momento dal suo positivo significare, conservandolo come «momento» e insieme come «nulla assoluto». Il che è impossibile. Per questo l’intenzione di Severino non può che rimanere tale: “una cosa è l’intenzione; un’altra, la «cosa stessa» del ragionamento. E, in concreto, Severino non ragionava secondo l’intenzione, e nel suo senso”17. Severino vuole l’impossibile, perché implica che il nulla-momento sia inesistente (assoluto nulla) ed esistente (momento): ponendolo come «assoluto nulla», implica che non possa essere momento; ponendolo come «momento», implica che non possa essere assoluto nulla. Dunque, conclude Sasso, Severino si illude di aver posto i due momenti della sintesi e con ciò la stessa sintesi e quello che realizza non è quello che intendeva realizzare. Ma cos’è questa se non la precisa riproposizione del discorso aporetico esposto e tolto da Severino nella sua duplice formulazione? Mettiamo a confronto le due formulazioni dell’aporia con la posizione di Sasso. Le due formulazioni dell’aporia nel testo severiniano: (I) se si tiene fermo il nulla-momento come momento, esso non è «nulla» ma «essere» e dunque il principio di non contraddizione si fonda sulla contraddizione: “il nulla è posto, presente, e pertanto è. C’è un discorso sul nulla, e questo discorso attesta l’essere del nulla. O c’è una notizia, una consapevolezza del nulla, che ne attesta l’essere. Sì che sembra doversi concludere che la contraddizione è il fondamento sul quale può realizzarsi lo stesso principio 16 17

G. Sasso, Essere e negazione, cit., pp. 266-267. Ibi, p. 267.

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di non contraddizione”18; (II) se si tiene ferma la assoluta nullità del nullamomento, esso non può essere «momento» e così “da un lato l’essere implica l’orizzonte del nulla […]; ma dall’altro lato, poiché questo orizzonte è nulla, l’essere non implica nulla, nessun orizzonte. Sì che il principio di non contraddizione, che dovrebbe esprimere quella implicazione, non può costituirsi”19. La critica di Sasso: se al nulla-momento, se a questo termine (e proprio in quanto «sia» un termine) si assegna l’essere, […] se non significa «essere», dunque significherà «nulla» e, significando, sarà in ogni senso identico a quel nulla-significante-essente dal quale, per contro, dovrebbe distinguersi in forza del suo stesso costituirne il contenuto negativo. Del resto, se il «nulla-momento» è, come Severino assume, «incontraddittorio», non è allora evidente che, proprio in quanto è tale, non è nulla? Non è evidente che il suo essere «contenuto» non può essere immediatamente preso come l’«assoluta negatività» nella quale Severino indica ciò che, in senso proprio, il principio di non contraddizione esige sia «inesistente», – l’autentica nullità del nulla? Per questa via viene dunque a ribadirsi che il «nulla-momento» è anch’esso significante: è significante e, per conseguenza, non inesistente20.

Preso atto che Sasso ritiene che dire che il nulla è incontraddittoriamente nulla (cioè che non può che esser nulla) significa dire che esso non è incontraddittoriamente nulla, cosa c’è di nuovo nella sua critica che Severino stesso non abbia già esposto, esaminato e tolto come argomento portante della prima formulazione del discorso aporetico? Si rileggano le ultime battute di Sasso: il nulla-momento “è significante e, per conseguenza, non inesistente”. Ma quante volte Severino ha esaminato proprio questo aspetto e ha mostrato come deve essere tolto? Rileggiamo il testo severiniano: “allorché si afferma che la posizione del non essere attesta l’essere del non essere, non si può intendere di affermare che «nulla» significhi, in quanto tale, «essere»; ma che il «nulla», che è significante come nulla, è”21. Dire che il nulla-momento «è» la nullità del nulla non significa dire che la nullità è «essere», come se il dire, che dice il non essere del non essere, trasformasse il «non essere» in «essere» perché lo dice! Porre la nullità del nulla non trasforma la nullità in positività. Che è invece quanto Sasso afferma, riproponendo il discorso aporetico come se Severino non avesse mostrato che 18 19 20 21

E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 209-210. Ibi, p. 212. G. Sasso, Essere e negazione, cit., pp. 267-268. E. Severino, La struttura originaria, cit. p. 213.

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l’incontraddittorietà del nulla, il nulla come nulla, si manifesta dunque solo in quanto il nulla sia tenuto fermo come momento del nulla come significato autocontraddittorio. Ché, se daccapo [corsivo mio] si dice che, dunque il nulla come nulla «si manifesta» e dunque è, è da ripetere che questo manifestarsi, questo essere, è appunto l’altro momento della concreta autocontraddittorietà. «Il nulla non è e dunque non ha nemmeno la capacità di manifestarsi; il nulla è l’assolutamente negativo»: tutto ciò può essere detto solo in quanto questo che si dice sia tenuto fermo come momento dell’autocontraddittorietà: l’altro momento è il positivo significare del contenuto di questo dire. In quanto i due momenti si distinguono, nel primo in quanto distinto dal secondo non è contenuto il secondo; onde il nulla è lasciato nella sua assoluta o incontaminata negatività22.

Il discorso di Sasso dà luogo al «daccapo» di cui parla Severino, in quanto continua a sostenere che “il nulla non è nulla e dunque non ha nemmeno la capacità di manifestarsi”, nonostante Severino abbia mostrato che la nullità del nulla può essere fatta valere (come fa appunto Sasso) solo se viene posta, e cioè solo in quanto relata al suo positivo significare: “ciò può essere detto solo in quanto questo che si dice sia tenuto fermo come momento dell’autocontraddittorietà”. Per Sasso, il «linguaggio»23 trasforma la nullità del nulla in un non-nulla, lo «ontologizza» (per usare il lessico sassiano). Ma per poter dire che il linguaggio non può contenere la «nullità del nulla», è necessario che questa assoluta nullità appaia, che sia già presente nel discorso di Sasso. Sasso può dire che il nulla-momento non può essere «momento» perché è nulla assoluto, solo in quanto tale «assoluta nullità» è presente e cioè in quanto si è già nella originaria sintesi relazionale di nullità e positivo significare. Per criticare il significato del nulla assoluto come sintesi autocontraddittoria, Sasso si fonda implicitamente sulla originarietà di quella sintesi che vuole mostrare come impossibile. In modo simile all’avversario dell’élenchos aristotelico24, a Sasso – dunque non a Severino! – capita di «non ragionare secondo l’intenzione»: mentre esplicitamente intende negare la sintesi originaria, implicitamente la afferma. La critica di Sasso consiste dunque nel mostrare che il nulla-momento, essendo momento, è e significa; dunque non è più distinguibile dall’altro momento perché sono entrambi essenti-significanti; ma se sono entram-

22 23 24

Ibi, p. 219. In merito alla differenza tra “linguaggio” e “logo” si rimanda all'ultimo lavoro di Sasso, Il logo e la morte, Bibliopolis, Napoli 2010. Cfr. prossimo paragrafo.

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bi essenti-significanti, la loro sintesi non è autocontraddittoria, e dunque l’aporia non è risolta. Per Sasso la «autocontraddittorietà», o autocontraddizione, concreta rivela di essere come percorsa da una tendenza autodistruttiva, tanto più vigorosa, in realtà, e anzi irresistibile, quanto più acuto è, nel fondo, il pensiero che cerca di istituirla. Con grande energia, in altri termini, Severino lavora a dissolvere, e non paia questo un paradosso, il suo stesso logo25.

Sasso rileva che se, in una relazione, entrambi i termini sono, con il loro reciproco riferirsi, essenziali alla costituzione del rapporto, allora è impossibile che l’uno si distingua dall’altro come l’essere dal nulla [corsivo mio], o, se si preferisce, come il nulla che «significa» e, positivamente significando, si distingue dal nulla inteso come «assoluta negatività». Entrambi costitutivi, entrambi sono, e non sono nulla: il secondo non meno che il primo26.

A questa critica di Sasso rispondiamo con le parole di Severino quando considera questa variante della II formulazione dell’aporia: “se il nulla è negatività assoluta, non può valere nemmeno come momento semantico del nulla come significato concreto”27. Ecco il toglimento severiniano di questa variante della II formulazione: l’assoluta negatività può valere come «momento» semantico proprio in quanto la stessa positività di questo valere come momento è l’altro momento – è l’altro momento del nulla come concreto significato autocontraddittorio -, e cioè […] appartiene alla struttura dello stesso positivo significare dell’assoluto negativo, col quale significare il negativo deve essere tenuto in relazione affinché il concetto concreto non divenga concetto astratto dell’astratto. Il nulla è momento perché la distinzione non è separazione; sì che ciò da cui il negativo si distingue è appunto quella sua positività che gli consente di valere come momento28 (corsivo mio).

Se si separa il positivo significare del nulla dal nulla-momento, il concetto concreto diventa astratto dell’astratto: il nulla-momento vale come momento solo in quanto il positivo significare è l’altro momento e viceversa. Questo è il «concreto» di cui parla Severino: il positivo significare 25 26 27 28

G. Sasso, Essere e negazione, cit., p. 268. Ibi, p. 270. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 221. Ibi, pp. 221-222.

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è tale solo in quanto è il positivo significare del nulla-momento; il nullamomento è l’altro momento solo in quanto è in relazione al suo positivo significare. Di fronte alla chiarezza di questo testo si rimane con un interrogativo: perché non viene capito? La risposta è nelle parole di Sasso che abbiamo evidenziato in corsivo: “è impossibile che l’uno si distingua dall’altro come l’essere dal nulla”. Il risolvimento severiniano non viene capito perché non è capita la differenza tra distinzione e separazione. Non viene capito che distinguere i relati non significa separarli. I momenti sono sì distinti, ma non nel senso che il nulla-momento esista da una parte e il suo positivo significare dall’altra, indipendenti l’uno dall’altro e ad un certo momento unificati. Fuori dal suo significare, il nulla-momento non esiste; così come il suo positivo significare è il significare del nullamomento. Il suo significare significa l’inesistenza dell’assoluto nulla, il nulla-momento è l’assoluto nulla affermato come tale. Si parla del nullamomento – dunque lo si distingue! – in quanto esso è già in sintesi col suo significare. Al di fuori di questa sintesi non ci sarebbe nessun discorso sul nulla. L’errore consiste nel credere che, in quanto il nulla assoluto è in sintesi col suo positivo significare, i due momenti non possano essere distinti, ovvero che distinguerli significhi trasformare il nulla in essere, entificare la nullità del nulla. La «nullità del nulla» «è posta come tale»: ecco i due distinti all’interno della sintesi originaria. Il porre è distinto dalla nullità del nulla; ma tale distinzione non significa che la nullità, essendo posta da quel porre, diventa non-nullità, cioè essere. Come si vede, se la sintesi è concepita come necessariamente originaria, la distinzione dei momenti non produce aporia. Il discorso aporetico, e dunque le critiche al risolvimento severiniano, sorgono perché la distinzione è trattata come separazione: il nulla-momento viene trattato come un momento separabile (e non solo distinguibile) dal suo positivo significare. In questo modo l’entificazione del nulla (o «ontologizzazione» come dice Sasso) è inevitabile. La separazione del nulla-momento dal suo significare produce i due lati dell’aporia che conducono alle conclusioni che i due momenti sono indistinguibili (perché entrambi essenti), e perciò che la sintesi non è autocontraddittoria, e perciò che l’aporia non è risolta, e perciò che il principio di non contraddizione non oppone l’essere al non essere e dunque si contraddice. Le considerazioni seguenti di Sasso non fanno che ribadire questo aspetto: “nel contesto in cui appare, il «contenuto nullo», oppure il «contenuto il cui carattere sia l’assoluta negatività», sono pur sempre un «contenuto»: un «significato» che, in quanto concretamente richiesto dal positivo significare del nulla, non può esser «nulla», – l’assoluta negatività che, invece, Severino pretende di cogliervi. […] se si tiene fermo che il nulla sia

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ficante, allora, come significato richiesto dall’esserci di quel significante, il significato è significato, il contenuto è contenuto; e né l’uno né l’altro possono essere presi come l’«assoluta negatività» del puro nulla”29. Ma in questo modo, conclude Sasso, il «nulla» “che il principio vieta sia essere […] non è stato raggiunto”30. E che “le cose non possano stare in questi termini”, cioè secondo i termini del risolvimento severiniano, è, a guardar bene, evidente. Il punto specifico nel quale, malgrado la grande abilità argomentativa, Severino non riesce ad evitare che la coerenza del suo logo si fletta, sta in ciò: che se «ogni essere deve valere come l’essere di una determinazione (essenza) positiva» e, quindi, come sintesi concreta (e non autocontraddittoria); se, per conseguenza, il significante è tale quando, e soltanto quando sia per intero, e con piena coerenza, espresso e non contraddetto dal significato; […] allora è chiaro che non dovrebbe essere una «sintesi», o una relazione, quella che il nulla «significante» ed essente (l’essere formale del non essere) forma, o piuttosto non forma, con l’assoluta negatività del «significato» […] perché al costituirsi, e quindi all’esserci, di questa è necessaria la congruenza del significato al significante: quella congruenza che, ove manchi, il significante stesso viene meno e non si costituisce. In altri termini, la sintesi […] è tale ed è concreta a condizione che non sia autocontraddittoria; e se è autocontraddittoria (posto, naturalmente, come pura ipotesi, che tale possa essere), certo non è una sintesi […]. Ma, contro la legge della necessaria congruenza del significante e del significato, Severino assume che la sintesi si stabilisca come tale anche se questa congruenza non sussista e il «significato» contraddica il significante […] senza avvedersi che, poiché sintesi significa «concretezza», e concretezza «congruenza», non potrà essere «concreta» una situazione concettuale nella quale la concretezza sia giusto il contrario della congruenza di significante e significato31.

Per Sasso, alla luce della «legge della congruenza del significante al significato», la sintesi severiniana non può essere una sintesi: il significante è tale solo se “espresso e non contraddetto dal significato”32. Ma qual è il fondamento di questa «legge» sassiana? La separazione dei due momenti: “se il «nulla-nulla» (o momento) fosse altrettanto costitutivo della relazione quanto di questa è costitutivo il nulla-significante, e l’uno e l’altro fossero perciò […] «momenti» della concretezza, la conseguenza sarebbe che né la concretezza può essere predicata dell’autocontraddittorietà, né questa 29 30 31 32

G. Sasso, Essere e negazione, cit., p. 271. Ibidem. Ibi, pp. 272-273. Ibi, p. 272.

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della concretezza. […]. l’autocontraddittorietà concreta si rivela impossibile; perché, se viceversa, fosse concreta nella correlazione, o correlata nella concretezza, allora del nulla-momento, o della sua assoluta negatività, dovrebbe dirsi non già che è nulla, ma che è correlato: e, in quanto correlato, non nulla”33 (corsivo mio). E ancora: per Severino il principio di non contraddizione non nega (o non vieta) la contraddittorietà che pur sussiste fra il «nulla-che-significa-ed-è» e l’assoluta negatività del significato, ossia del «nulla-momento» […] perché, appunto, a suo parere, la contraddittorietà […] del nulla è concreta: se è concreta, è, e se è, non può essere negata. […] Ma se il nulla-nulla è correlato al nulla significante, […] il principio non può tuttavia non affermare anche ciò che, invece, dovrebbe negare, – l’assoluta negatività del nulla-nulla; che, dunque, non può essere negata. […] il principio è costretto ad assumere come «non inesistente» e, quindi, «innegabile», quel che viceversa pretende sia inesistente e, in quanto tale, negabile. […] il principio di non contraddizione dissolve, con l’autocontraddittorietà concreta, il proprio fondamento34 (corsivo mio).

Abbiamo citato estesamente l’argomentare di Sasso per evidenziare (si vedano in modo particolare le parti in corsivo) come opera la logica isolante, finendo sempre, inevitabilmente, nella prima o nella seconda formulazione dell’aporia. Al termine della sua analisi, Sasso si interroga sulla natura della relazione tra contraddirsi e contraddizione: in quanto il contraddirsi è «possibile» ed «esistente» mentre la contraddizione è «impossibile» e «inesistente», “è evidente, innanzi tutto, che non di una vera ed autentica relazione dovrebbe trattarsi. Una relazione che si costituisse con questi due «termini», […] avrebbe, appunto, ad uno dei suoi estremi, l’impossibilità e l’inesistenza. E questo è impossibile”35. Per questa via, rileva Sasso, si finirebbe nuovamente “nella problematica provincia della «contraddittorietà concreta»”36. Anche in questo caso, a impedire di comprendere la distinzione tra contraddirsi e contraddizione è sempre la medesima logica isolante: “se fra «impossibile» e «possibile» una relazione fosse possibile, sarebbe altresì «contraddittoria»”37. Tale relazione, infatti, dà luogo a una nuova contraddizione, definita da Sasso «contraddizione ospitante» perché ospita il «possibile contraddirsi» e l’«impossibile contraddizione» senza però essere 33 34 35 36 37

Ibi, p. 273. Ibi, pp. 273-274. Ibi, p. 276. Ibidem. Ibi, p. 278.

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né l’una, né l’altro, perché li include in sé. È «possibile», ma la sua «possibilità» non è della stessa natura della possibilità che si riconosce al nostro, umano, «contraddirci», che essa, infatti, non potrebbe «includere» in sé qualora gli fosse identica. È «possibile», ma la sua «possibilità» non è il contrario della «impossibilità» (della contraddizione) a quel modo stesso che l’esatto contrario di questa è, o dovrebbe essere, la «possibilità» del nostro, umano, «contraddirci»; e non lo è allo stesso modo, perché, se lo fosse, allora non sarebbe vero che la sua «possibilità» non è identica alla «possibilità» del nostro umano, «contraddirci»38.

Prescindendo dal non giustificato significato di un «possibile» che non nega l’«impossibile» e viceversa e dalle considerazioni che intorno a tali significati Sasso sviluppa, consideriamo la conclusione del suo discorso: se la contraddizione è impossibile, non può essere «ospitata»; se è ospitata, non è impossibile ma possibile: se si pretende che la relazione si stabilisca tra «impossibile e «possibile», allora è impossibile che questa non sia la, per altro impossibile, relazione contraddittoria. La conseguenza è che da questa difficoltà non si esce; e che la via battuta fin qui deve essere abbandonata39.

Eppure Severino ha mostrato come da questa difficoltà “si esca”. L’ultima parte del IV capitolo della Struttura originaria chiarisce il senso in cui il significato «nulla» è una sintesi autocontraddittoria, e, dopo aver distinto la contraddizione dal contraddirsi, distingue due sensi di autocontraddittorietà. Rimandando a quanto già analizzato (cfr. II, 8) e alle prossime pagine (pp. 93-98), è sufficiente richiamare che il significato contraddicentesi «nulla» è diverso dall’autocontraddittorietà in cui consiste ad esempio l’esser non-rosso del rosso. Se l’affermazione «il nulla è» viene intesa nel senso che il nulla è qualcosa, cioè non è nulla, allora siamo di fronte a un significato autocontraddittorio identico al significato «rosso non rosso»: si tratta di significati insignificanti, contraddizioni che esistono solo in quanto contenuto di un certo contraddirsi. Esiste il positivo significare del contenuto contraddittorio (dell’esser «essere» del nulla, dell’essere «non rosso» del rosso), mentre non può esistere (è impossibile) il contenuto contraddittorio. Ma se l’affermazione «il nulla è» viene intesa come posizione della nullità del nulla, allora si ha un contraddirsi che non è impossibilità-nullità, ma il contraddirsi inevitabile di quella sintesi (esistente e significante dunque) tra il positivo significare e l’assolutamente negativo. Tale sintesi, cioè, 38 39

Ibidem. Ibidem.

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non è autocontraddittoria perché non sia o non significhi nulla, ma perché è la sintesi tra il positivo e il negativo: tale autocontraddittorietà è l’inevitabile contraddirsi del positivo significare che significa il negativo assoluto. Per dire la nullità del nulla, per tenere fermo che il nulla è «nulla» e non «essere», il positivo non può che contenere il negativo, ossia dare luogo a un significato autocontraddittorio. Il che toglie tutto l’ordine di considerazioni con cui Sasso conclude la sua critica a Severino, compresa la problematizzazione della differenza tra contraddirsi e contraddizione. Nel libro Il neoparmenidismo italiano, vol. 2 (Bibliopolis, Napoli 2011) Mauro Visentin dedica ampio spazio al pensiero di Severino, soffermandosi anche sulla sua risoluzione dell’aporetica del nulla. Va premesso (e non è considerazione di poco conto) che la lettura di Visentin si basa sugli scritti severiniani fino a Essenza del nichilismo e tralascia quelli successivi, contenenti delucidazioni rilevantissime proprio per il suo discorso. Ci riferiamo in modo particolare a Fondamento della contraddizione (Adelphi, Milano 2005), chiarificante il rapporto tra contraddirsi-contraddizione e contraddittorietà; La Gloria (Adelphi, Milano 2001) e Oltrepassare (Adelphi, Milano 2007) chiarificanti la questione dell’intersoggettività, in merito alla quale Visentin si limita a considerare gli “interessanti contributi di Severino” (p. 325) da Metafisica, fenomenologia, sociologia (nel volume Fenomenologia e sociologia, Padova 1951) a Costruzione logica del mondo di R. Carnap, Milano 1966 (successivamente inserito in Legge e caso, Milano 1979). Visentin dichiara di avere trovato in Gennaro Sasso “un punto di riferimento fondamentale” fin da quando seguiva i suoi corsi universitari; e riconosce che da allora “le prospettive di entrambi sono molto progredite, fino a sfociare in conclusioni che, pur nella comune impostazione, presentano oggi elementi significativi di differenza” (p. 346). Questa «comune impostazione» emerge con evidenza nel modo in cui Visentin respinge la soluzione severiniana dell’aporetica del nulla. Anche Visentin infatti, come Sasso, non distingue tra distinzione e separazione e quindi prescinde dalla originarietà della sintesi tra nulla-momento e suo positivo significare. La sua riflessione si sofferma a lungo sul «duplice senso della autocontraddizione» sostenuto da Severino, e lo dichiara inaccettabile. Ora ritorneremo su quella distinzione severiniana, che abbiamo esposto nel II capitolo (cfr. par. 8), per chiarirla e per mostrare in quale contraddittorietà incorra chi, come Visentin, cerchi di negarla. Prima di procedere è però indispensabile un chiarimento preliminare. Severino da sempre, nei suoi scritti, parla della differenza tra il «contenuto contraddittorio» e perciò nullo della

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dizione e «la contraddizione o il contraddirsi» quale positivo significare di quel contenuto contraddittorio e nullo. L’espressione sintetica severiniana «differenza tra contraddirsi e contraddizione» indica appunto la differenza tra la contraddizione che esiste (il contraddirsi) e la contraddizione che non esiste (il contenuto contraddittorio della contraddizione). Come si nota, il termine «contraddizione» ricorre in entrambe le definizioni, indicando tanto il contenuto contraddittorio quanto il suo positivo significare. Ciò spiega l’uso ampio del termine «autocontraddizione», che si incontra ad esempio nel paragrafo 15 del IV capitolo della Struttura originaria, intitolato Aporia e soluzione: duplice senso della autocontraddizione. In questo caso, infatti, grazie alle precedenti chiarificazioni sulla differenza tra contenuto contraddittorio della contraddizione e contraddizione come positivo significare di quel contenuto, Severino usa legittimamente l’espressione sintetica di «duplice senso della autocontraddizione», al posto di quella, improponibile come titolo, di differenza tra la contraddittorietà della contraddizione e il positivo significare di quella contraddittorietà. Negli scritti successivi e soprattutto con Fondamento della contraddizione si utilizza esclusivamente «contraddittorietà» per indicare il contenuto impossibile e inesistente, e «contraddizione» per indicare il positivo significare di tale contenuto. Per evitare ambiguità e favorire una migliore comprensione, utilizzeremo anche noi questa distinzione terminologica. Si considerino le due affermazioni «rosso-non rosso» e «il nulla è» («xnx» nel discorso di Visentin). Il significato «rosso-non rosso» è autocontraddittorio perché identifica i contraddittori, ossia perché afferma che il «rosso» è «non rosso» e che il «non rosso» è «rosso». Affermando una identità che è immediatamente autonegativa, quel significato è qualcosa di impossibile e insignificante. «Contraddittorietà» significa assoluta inesistenza e insignificanza. Allo stesso modo, se si intende l’affermazione «il nulla è» come affermazione che il «nulla» è qualcosa, cioè che è «nonnulla», allora anche questa affermazione è autocontraddittoria nel senso sopra rilevato. Chiamiamo A questa contraddittorietà. A dunque non esiste e non significa nulla. Tuttavia ne stiamo parlando. Ciò è possibile perché ciò che esiste non è A come contenuto contraddittorio, cioè impossibile, ma il suo positivo e incontraddittorio significare, che consiste nella sintesi originaria (i cui momenti non possono essere considerati separatamente) tra il «significare A» e l’«A-insignificante»: il significare significa l’autocontraddittorietà del contenuto A come inesistente e insignificante. Fuori dal suo esistere e significare come autocontraddittorietà, A non è un «fatto» nel senso rilevato da Visentin: “La posizione di «xnx» (o il

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suo autonomo costituirsi) qui, in altri termini, è presentato come un fatto (giacché una necessità essa lo è solo nel quadro della denuncia di «xnx» come contraddizione)” (p. 320). A Visentin vogliamo far notare che la posizione di «xnx» è già la “denuncia di «xnx» come contraddizione”; e che nemmeno tale “denuncia” è un «fatto», perché il suo apparire è immediato e innegabile, secondo il senso della immediatezza-innegabilità che abbiamo esposto nel precedente capitolo e che sta al centro dell’intera riflessione severiniana. Se ci s’interrogasse, come fa Visentin, sulla «autonomia posizionale» della autocontraddizione «xnx», si ritornerebbe a formulare l’aporia del nulla, ipotizzando la separatezza dei momenti della sintesi. Invece, fuori dalla sua posizione, la contraddizione A non è: in quanto si parla della contraddizione A, essa è già posta, ovvero A è già in sintesi con il suo significare. In quanto il significare esiste e significa, mentre il suo contenuto è assolutamente insignificante e inesistente, la sintesi originaria tra i due è una «contraddizione», che chiameremo B, essenzialmente diversa dalla contraddittorietà A. In A, infatti, il dire afferma e nega lo stesso ed è perciò un dire che non dice. In quanto al soggetto viene predicato ciò che esso non è, il predicare predica l’impossibile: la non-nullità del nulla, il non esser rosso del rosso e l’esser rosso del non rosso. In A la predicazione è contraddittoria perché del soggetto si predica contraddittoriamente ciò che esso non è. Nella contraddizione B, invece, il dire non afferma e nega lo stesso, ma lo dice per quello che è (o che non è): dice che la contraddizione è contraddizione e che il nulla è nulla. In B la predicazione è predicazione incontraddittoria perché predica del soggetto ciò che esso è (del nulla predica la nullità, della contraddizione la contraddittorietà): si tratta di un predicare che predica, di un dire che dice. La contraddizione B non consiste dunque nella contraddittorietà del dire che non dice (giacché qui il dire dice incontraddittoriamente la contraddittorietà del contraddittorio), ma dipende dall’avere come contenuto la contraddittorietà-nullità. Mentre il dire della contraddizione A è contraddittorio e insignificante, il dire della contraddizione B è incontraddittorio e significante. Nel primo caso si tratta di un dire che «non dice», nel secondo caso di un dire che «dice che non è». L’uno è un «non dire», l’altro è un «dire non». Si consideri l’affermazione «il nulla è». Se è intesa come affermazione che il nulla è «non nulla», allora è un’affermazione contraddittoria di tipo A. Ma se è intesa come affermazione che il nulla è «nulla», allora essa non significa che «il nulla è essere», bensì che «il nulla è non essere». In questo caso l’«è» dell’affermazione «il nulla è» esprime l’identità del «non è» con il «non è»: il «non è» è «non è». Dire che il nulla «è» nulla significa

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dire che esso «non è». La contraddizione B è cioè la sintesi originaria tra l’insignificante A e il significare che lo significa come tale. Se si rilevasse che anche la contraddizione B, essendo sintesi di contraddittori, è nulla e perciò che non può dire la nullità del nulla o la contraddittorietà del contraddittorio, non solo si darebbe luogo a quel regresso infinito di cui è stato mostrato il toglimento (cfr. II, 8), ma non ci si renderebbe conto di implicare ciò che si nega. Che è quanto accade a Visentin, il quale trova inammissibile la distinzione tra ciò che abbiamo definito A e B e perciò rifiuta la soluzione severiniana dell’aporia. La sua argomentazione portante è raccolta in questo passo: “il tema […] dal quale bisogna partire per svolgere un esame accurato dell’argomentazione di Severino è rappresentato dal concetto o meglio dall’idea che si traduce nell’espressione «esistenza di un significato autocontraddittorio». Un significato di questo genere – un significato che contraddice se stesso, stabilendo un rapporto indissolubile e tuttavia conflittuale tra due fattori reciprocamente incomputabili come sono, da un lato, ciò che esso significa e, dall’altro, l’atto di questo significare -, nell’interpretazione di Severino, non violerebbe il p.d.n.c. La sua esistenza sarebbe qualcosa di concreto e, insieme, di autocontraddittorio, strutturandosi secondo le contrapposte determinazioni del positivo significare e dell’assolutamente negativo, le quali, convenendo simultaneamente all’interno di quel significato, ne verrebbero ad essere simultaneamente incluse. Ma dal momento che in questo caso il significato «nulla» non contraddirebbe, come significato, se stesso, perché «nulla» vorrebbe dire sempre «nulla» e non già «essere», la contraddizione, esterna a questo significato, derivante dal conflitto tra ciò che l’espressione «nulla» significa e il fatto stesso del suo significare (che è come dire: del suo significare «qualcosa»), non comporterebbe la messa in mora del principio che vieta all’essere di contraddirsi. Se questa è la tesi di cui si sostanzia la soluzione che Severino prospetta della secolare aporia, non si può non restare piuttosto sconcertati. La tesi è, infatti, decisamente singolare, sia perché stabilisce una differenza fra due espressioni dell’autocontraddittorietà che se sono realmente autocontraddittorie non possono essere determinate e quindi non possono distinguersi; sia perché evoca il fantasma di qualcosa che nel lessico filosofico non può non suonare paradossale e ossimorico, come sarebbe l’espressione «struttura concretamente autocontraddittoria»”. (pp. 316-317). Com’è possibile, questo l’argomento di fondo di Visentin, che un significato che contraddice sé stesso non violi il p.d.n.c.? Come è possibile che esso sia qualcosa di «concreto» e insieme di «autocontraddittorio»? E infatti Visentin dichiara di restare “sconcertato” dalla soluzione

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niana dell’aporia, fondata su una distinzione tra A e B che è inaccettabile, perché “se sono realmente autocontraddittorie non possono essere determinate e quindi non possono distinguersi” (p. 317). Per Visentin in quanto la contraddizione B è contraddizione, non può essere determinata e dunque distinguersi da A. Se B “si articolasse attraverso la simultanea inclusione di due determinazioni opposte, sarebbe, insieme, qualcosa di concreto (e perciò di reale) e tuttavia anche qualcosa di contraddittorio. Ovvero, insieme, «A è A” e “A è non-A”», cioè, appunto, una contraddizione in termini. Sennonché è proprio questo che Severino dà l’impressione di voler negare, quando asserisce che «il p.d.n.c. non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio» ma solo l’incontraddittorietà del nulla-momento: la contraddittorietà, o meglio l’impossibilità di una situazione del genere” (p. 317). Ritenendo concreta e reale la contraddizione B, Severino darebbe vita a quel “fantasma”, “paradossale e ossimorico”, della «struttura concretamente autocontraddittoria»”. Ora, riprendendo la terminologia che abbiamo introdotto all’inizio di questo intervento su Visentin, va detto che il significato «nulla» non è un significato contraddittorio ma contraddicentesi, ovvero quella contraddizione per cui un certo dire positivo ha per contenuto il negativo assoluto. Questo è il significato della differenza tra contraddittorietà (A) e contraddizione (B) di cui parla Severino, ma da cui Visentin prescinde. E non solo ne prescinde: non si accorge che per negarla deve implicarla. Infatti, per dire che A e B non si distinguono, Visentin parla di A come di ciò che non può essere né reale né concreto, dando luogo a quella sintesi contraddicentesi di dire (reale e concreto) e contraddizione (non reale e non concreta) in cui consiste la contraddizione B, quale sintesi originaria tra significare e insignificanza. Ora, se B fosse identico ad A, anche il dire di Visentin sarebbe identico ad A, ovvero sarebbe un dire che non dice. Pertanto, se il dire di Visentin intende essere un dire, non può che implicare la diversità tra A e B; in caso contrario non potrebbe parlare di A come non reale e non concreto, cioè autocontraddittorio: il suo parlarne sarebbe un non parlarne. In quanto Visentin parla della contraddittorietà come insignificanza e inesistenza, anche il suo dire implica l’innegabilità di quell’“«ossimoro filosofico» che è la «contraddizione concreta»” (p. 319), ovvero di quel “monstrum logico della contraddizione concreta” (p. 331). Tutta la riflessione di Visentin è fondata sulla concezione astratta di quel concreto che è la sintesi originaria, che egli intende come “conflitto tra ciò che l’espressione «nulla» significa e il fatto stesso del suo significare (che è come dire: del suo significare «qualcosa»)” (p. 317), non accorgendosi che la sintesi non è “tra ciò che l’espressione «nulla» significa e il «fatto» del

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suo significare”, bensì tra il «nulla-momento» e il suo significare. “Ciò che l’espressione «nulla» significa” non è un momento della sintesi, come ritiene Visentin, ma è già la sintesi. Il «nulla-momento» non è “un’espressione significante” fuori dalla sintesi con il suo significare. Non c’è un significato del «nulla-momento» fuori da quel significare che è l’altro momento della sintesi. Comprendendo astrattamente il concreto, egli afferma che “se il nulla, distinto dalla positività del suo significare, non vale come momento, appare chiaro […] che, così distinto, esso non può valere neppure come distinto: il nulla è, infatti, distinto solo in quanto momento di quel concreto significato autocontraddittorio” (pp. 343-344). Il nulla-momento vale come momento proprio in quanto distinguibile ma non separabile dalla sintesi! Anche Visentin, come Sasso (e come ora vedremo Massimo Donà) prescinde dalla differenza tra distinzione e separazione e cioè dal senso autentico della originarietà della relazione. Per questo afferma che “la posizione del nulla richiede quella del suo positivo significare” (p. 328), e che “la posizione di qualcosa, essendo significante di per sé, non implica la posizione del suo positivo significare” (p. 329). A Visentin sfugge che la posizione del nulla, proprio in quanto «posizione», «non richiede» ma «è» quella del suo positivo significare. Non riconoscendo che il “positivo significare” è originariamente in sintesi con la determinazione, per Visentin il significare non è “richiesto” dalla posizione della determinazione positiva, “significante di per sé”, mentre è “implicato” dalla posizione del nulla, non “di per sé significante”. A conferma di quanto detto fin qui in relazione alla logica isolante.

Anche Massimo Donà, nel saggio dal titolo Aporia del fondamento (La Città del Sole, Napoli, 2000), sostiene l’irrisolvibilità dell’aporetica del nulla. Anche per Donà la posizione del nulla entifica il nulla assoluto e lo rende indistinguibile dall’essere: porre il nulla significa perdere il nulla come tale. Ma se il non essere non può essere posto, allora non può essere posto nemmeno l’essere (che non si può distinguere dal non essere). Severino gli risponde, nello scritto Discussioni intorno al senso della verità (ETS, Pisa 2009, pp. 63-77), mostrando come egli arrivi a tali conclusioni perché prescinde dall’originarietà della sintesi tra i due momenti del nulla. Alla critica severiniana possiamo solo aggiungere alcune considerazioni. Innanzitutto si deve rimarcare che anche Donà, sostenendo l’irrisolvibilità dell’aporia ovvero l’insignificabilità del nulla, implica la sua risolvibilità e cioè la significabilità del nulla, anche se le intende come inevitabili trasformazioni del «nulla» in «essere» (quella che Sasso chiama «

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gizzazione» del nulla). Donà dice che “è chiaro: il nulla, significante come nulla, non può che essere ab origine inficiato – per dir così – dalla positività di un significare che è davvero il «suo» stesso originario e positivo significare”40. Vogliamo far notare che dire che il nulla, significante come nulla, è ab origine inficiato dal suo positivo significare, significa innanzitutto che il nulla «non inficiato», cioè l’autentico nulla assoluto, appare, è già presente come tale. O anche: in quanto si sa che ad essere presente è la posizione inficiata, la posizione non inficiata è già presente: in quanto è posto che ciò che è posto è la posizione inficiata, la posizione non inficiata è già posta: se non lo fosse, non si potrebbe dire che la posizione presente è «inficiata». La posizione del nulla-inficiato implica cioè che il nulla non inficiato sia presente come tale. Le posizioni di Sasso, Visentin e Donà costituiscono un’utile esemplificazione di quello che stiamo mostrando, e cioè che se si pensa che la sintesi tra il nulla-momento e il suo positivo significare non sia originaria, e cioè se non si vede che la distinzione tra i momenti non è la loro separatezza o irrelatezza, si arriva inevitabilmente a concludere che: 1. il nulla-momento, essendo «momento», non è «nulla» ma «essere»: il nulla, in quanto posto, è irrimediabilmente «inficiato ab origine»; 2. i due momenti della sintesi sono entrambi «essenti» e dunque indistinguibili; 3. l’assolutamente nulla, in quanto tale, è assolutamente insignificabile; 4. sulla base di 2 e 3 si deve concludere che l’aporia non è superata. Anche il discorso di Donà si ferma all’esposizione severiniana dell’aporia prescindendo dal suo toglimento; non mette in luce aspetti nuovi, sfuggiti all’analisi di Severino, ma ripete la formulazione dell’aporetica che Severino aveva esposto nel IV capitolo de La struttura originaria. Anche Donà, cioè, ripete la formulazione dell’aporia senza confrontarsi con la soluzione severiniana. Le sue conclusioni si fondano sulla non distinzione tra distinzione e separazione. Il nulla-momento, in quanto assolutamente negativo, viene separato dall’altro momento, cioè dal suo positivo significare, e così l’aporia è inevitabile e insuperabile. Ma, ripete Severino, è qui l’errore: i due momenti non sono separati, ma distinti. Abbiamo visto che ciò significa che essi sono distinti all’interno di un originario essere relati: il nullamomento è distinguibile solo in quanto è già relato al positivo significare, ossia solo in quanto il suo essere assolutamente negativo è già significato. Li stiamo distinguendo, ma la distinzione accade (e può accadere) solo all’interno della relazione. C’è distinzione solo in quanto si è già dentro 40

M. Donà, Aporia del fondamento, cit., p. 239.

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la relazione, cioè nella non separatezza. O ancora: è solo all’interno della relazione con il suo positivo significare che l’assolutamente nulla si può presentare come assolutamente nulla. Altrimenti nemmeno l’obiettore ne potrebbe parlare: anche lui, per dire che l’assolutamente nulla è insignificabile, implica che l’assolutamente insignificabile sia già presente nel suo essere così significante, ossia che esso sia già nella relazione al suo positivo significare, relazione presupposta dunque come originaria anche dal discorso aporetico. C’è discorso aporetico in quanto l’originarietà della sintesi è implicitamente presupposta. Se si prescinde da questo aspetto fondamentale e si continua a intendere il nulla-momento come separato dal suo positivo significare, la conclusione aporetica è certa: il nulla-momento diventa qualcosa di contraddittorio e impossibile, perché da un lato ci si accorge che è significante e insignificante, e dall’altro ci si accorge che, in quanto assolutamente insignificante, non può nemmeno essere posto e considerato. Non se ne può parlare. 3. Dall'aporia del nulla all'aporeticità di ogni determinazione Abbiamo visto (cfr. par. 1 di questo capitolo) che se l’ente non è pensato come sintesi originaria del «ciò che» e dell’«è», il «ciò che» è qualcosa di impossibile. Separata dal suo essere-significare, la determinazione «pura» (il «ciò che» astratto dalla relazione con il suo «è») è l’unione impossibile di essere e niente: «è» in quanto è posta (pensata, detta, saputa), ma «non è» e non significa niente in quanto è separata dal suo essere-significare. Anche il contenuto del ricordo nichilistico consiste nella unione contraddittoria di essere e niente: come mostra Severino, la cosa ricordata è niente proprio perché la si ricorda (la si ricorda in quanto «non è più»), ma insieme è qualcosa perché non si può avere memoria del niente41. 41

Il ricordo implica che l’ente passato, che viene ricordato, sia e non sia essente: da una parte ciò che è passato è qualcosa e per questo lo si può ricordare; dall’altra, proprio in quanto lo si ricorda, esso è (diventato) niente. Il nichilismo pensa che l’ente ricordato sia divenuto niente; ma poiché del niente non può esserci memoria, rileva Severino, il nichilismo è costretto a distinguere due significati diversi dell’ente passato: il suo essere stato qualcosa e continuare ad esserlo nel e come ricordo, e il suo essere divenuto niente. In questo modo, però, il ricordo non contiene tutto l’evento passato, in carne e ossa: ciò che esso non può contenere è ciò che è diventato niente. Il ricordo nichilistico implica che una parte del passato non si sia annientata (e continui ad apparire nel ricordo) e che un’altra parte sia diventata niente; ma se fosse diventata niente, il ricordo non la potrebbe ricordare. In ciò l’immediata contraddittorietà del ricordo: per ricordare esige che ciò che

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Come la determinazione «pura» e la cosa «ricordata», il concetto astratto del «nulla-momento» dà luogo alla stessa unione impossibile di essere e niente: separato dal suo essere-significare, il «nulla-momento» esiste ed è significante proprio in quanto è «momento», ma non esiste e non è significante proprio in quanto è «nulla». Come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo (cfr. par. 1), il nichilismo si accorge della aporeticità del «nulla-momento» ma non della aporeticità della determinazione «positiva» concepita astrattamente dal suo essere-significare. La logica isolante non si accorge che la determinazione, isolata dal suo esser sé, non è affatto «positiva», ossia che essa è «positiva» in quanto è già in sintesi col suo essere-significare: questa relazione essenziale rimane inconscia, e così il nichilismo crede di parlare della determinazione «pura», non accorgendosi che in quanto ne parla (la pensa, la pone, ecc.), essa è già in sintesi con il suo significare. L’isolamento non comprende l’originarietà della sintesi perché non comprende la differenza tra distinzione e separazione: non conosce altro modo di pensare la distinzione se non come separazione. Per questo l’aporeticità del nulla è inevitabile: il nulla-momento, astratto dalla sintesi con il suo significare, o è posto, e allora non è «assoluto nulla» (I aporia), o è «assoluto nulla», e allora non può essere posto (II aporia). Quando Severino mostra che l’aporia non dipende dal «nulla-momento» in quanto tale, ma dal concepirlo come originariamente irrelato al suo positivo significare, mostra che l’origine del problema non va ricercata nella è diventato niente sia e non sia niente. In altre parole: il ricordo nichilistico è apparire di ciò che non può apparire. A questa conclusione il nichilismo potrebbe obiettare che a diventare niente è quel modo di esistere che è l’essere presente. In realtà l’obiezione non fa che spostare il problema: su quale base si può sostenere che l’essere passato è tale perché ha perso qualcosa e cioè l’essere presente? Perché quell’essere presente, che si offre come criterio discernitivo del passato e del ricordo, appare. Se si riconosce che l’esser presente appare nel ricordo, allora si deve concludere che il ricordo è il ri-apparire della cosa «in carne e ossa»; se, invece, si continua a intendere il ricordo come apparire parziale e perciò affermazione implicita dell’annullamento di qualcosa (l’essere presente), quell’essere presente deve apparire accanto al ricordo come metro comparativo che rende possibile il ricordo stesso. In quest’ultimo caso, il ricordo è negato appena posto: per essere ricordo deve affermare che qualcosa non è più presente; ma per poterlo fare, è necessario che quell’essere presente sia presente come tale. Quindi il ricordo nichilistico è una autonegazione immediata: si nega nell’atto in cui cerca di costituirsi. Per questo Severino può concludere che “l’annientamento del passato non è un contenuto che appare, ma il contenuto dell’a priori con cui il nichilismo interpreta l’accadimento della terra” (E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 180).

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negatività del nulla, bensì nel modo di intendere la sintesi predicativa: se la sintesi è concepita come originaria, non c’è aporia. Dopo Severino è a questa posizione che si deve rispondere. Anche se la logica isolante si fa forte della negatività del nulla, in realtà il fondamento ultimo dell’affermazione dell’aporeticità del nulla è l’impossibilità che la sintesi predicativa sia originaria: in quanto i distinti sono separati, ogni sintesi è il tentativo aporetico di unificare una dualità irriducibile. Il nulla-momento è perso appena posto in quanto è originariamente (cioè irriducibilmente) separato dal suo positivo significare. Questo è il fondamento implicito dell’affermazione dell’aporeticità del nulla. Ma se fino a Severino tale fondamento poteva restare implicito, per contrapporsi a Severino esso viene a galla, seppure nel modo distorto in cui può farlo. Il nichilismo, infatti, non dice a Severino che se i distinti fossero originariamente relati l’aporia sorgerebbe comunque, ma dice che i distinti non possono essere originariamente relati; perciò impiega le sue energie a mostrare che è proprio questa eventualità a non potersi dare e cioè che il «nullamomento» è originariamente irrelato al suo significare. La logica isolante non mette in discussione che se i distinti fossero originariamente relati non ci sarebbe aporeticità (come potrebbe farlo?), ma cerca di mostrare che tale originaria relatezza è qualcosa di impossibile perché è relazione di distinti-separati. Rifiutare la soluzione severiniana significa esplicitare che ogni relazione è il tentativo aporetico di unire una originaria dualità. È per questo che Sasso sostiene che dove c’è relazione (dire, linguaggio) non può esserci verità: se, con il suo concetto rigoroso, si desse l’essere, non potrebbe darsi una coscienza che non gli fosse identica; che fosse, non coscienza dell’essere (il che comporterebbe, con le sue conseguenze aporetiche, il dualismo), ma, senz’altro, essere. Ne consegue che dove, invece, si parli di essere e di coscienza dell’essere nei termini, espliciti o impliciti, della loro relazione, ivi è impossibile che si rimanga sul terreno rigoroso della verità42 (corsivo mio).

Il risolvimento severiniano costringe il nichilismo a posizioni di derivazione neoplatonica, in cui la verità («logo», «essere») è intrascendibile o irriducibile al linguaggio, e la sua posizione è la sua negazione. Cercando di tenere ferma l’irrisolvibilità dell’aporia del nulla contro la soluzione severiniana, i negatori della soluzione arrivano a concludere che ogni determinazione è qualcosa di aporetico. 42

G. Sasso, Il logo, la morte, cit., p.62.

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Nel suo intervento critico su Donà (cfr. paragrafo precedente), Severino rileva che quest’ultimo ha esteso l’aporeticità del nulla a ogni determinazione; ma così, concludendo che ogni determinazione è «nulla», finisce col dire che il suo stesso discorso, essendo una determinazione, è nulla: sennonché anche il discorso di Donà è una determinazione, che dunque, stando a questo stesso discorso, è nulla. Un discorso che dice: «Io sono nulla». Un’autoconfutazione43.

Per Severino, Donà arriva a sostenere l’aporeticità di ogni determinazione “per certi suoi motivi (che da ultimo risalgono al suo rifiuto della distinzione platonica, nel Sofista, tra i due sensi del non essere)”44 (corsivo mio). Si condivide completamente il primo rilievo di Severino, mentre si ritiene di dover integrare il secondo alla luce di quanto detto fin qui, e cioè riconducendo i “motivi” di Donà al tentativo di ribadire l’irrisolvibilità dell’aporetica del nulla contro il risolvimento severiniano. Per Sasso, Visentin e Donà è fondamentale mostrare che quella di Severino non è una soluzione: ne va del loro intero ‘sistema’. Quello di Donà, ad esempio, sostiene l’esigenza di ripensare la «negazione», la «differenza», l’«identità», il «fondamento» proprio partendo dalla irrisolvibilità dell’aporetica del nulla: che tale aporetica sia irrisolvibile è cioè il «fondamento» del ‘sistema’ filosofico proposto da Donà (che ha in ciò la sua fragilità, giacché basta mostrare la concretezza del risolvimento severiniano per vedere, cartesianamente, come la rovina delle fondamenta trascini con sé l’intero edificio). Infatti, tutta la sua riflessione si regge sull’affermazione che l’essere non può essere distinto dal non essere nell’atto in cui se ne distingue, perché per distinguerlo lo si pone, e ponendolo lo si entifica, perdendolo come assoluta negatività: ad opporsi all’essere non è il nulla come «altro» dall’essere ma come «un altro» essere. Dunque, conclude Donà, l’essere non riesce a porre sé stesso: mancando del proprio negativo, non si può costituire come tale. Ed ecco le conseguenze: in quanto ogni determinazione è innanzitutto un certo ‘essere’, in essa si ripropone la medesima aporeticità dell’essere: per porsi come distinta, deve innanzitutto distinguersi dal suo non essere; ma il suo non essere, in quanto posto, è essere, e perciò la determinazione non si può distinguere da ciò da cui pure si distingue, rileva Donà, proprio in quanto l’aporia sorge. (Anche in questo caso si deve ribadire quanto detto nel paragrafo precedente in relazione al «nulla 43 44

E. Severino, Discussioni intorno al senso della verità, cit. p. 72. Ibidem.

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inficiato», e cioè che proprio in quanto si dice che il «non essere» presente non è l’«autentico non essere», si implica che l’«autentico non essere» sia già presente e dunque che la determinazione sia già presente come identitàopposizione all’altro.) Anche Sasso sostiene il problema del rapporto tra «essere» e «molteplice doxastico». Egli propone uno spurio neoparmenidismo, costantemente in bilico verso il neoplatonismo perché fondato sulla problematica differenza – persa appena posta dal linguaggio – tra il «logo» («essere», «verità») e le «doxai» o «molteplice doxastico». Tale molteplice non regge alla morsa della necessità. Il che, a rigore, significa, che per il logo, e nel logo, è impossibile che il molteplice si dia. Nemmeno, dall’altra parte, il molteplice si darebbe se, sottraendo gli enti al segno della finitezza e restituendoli alla necessità dell’«esser sempre», si tenesse fermo, tuttavia, al loro esser molteplici. […] anche per questa via, la molteplicità sarebbe comunque presupposta alla dimostrazione del suo essere possibile; e a torto si invocherebbe qui come indiscutibile il testimonio dell’evidenza. Il logo è infinitamente più forte dell’evidenza. E costringe a considerare che il «non» che si frammette fra ente e ente […] è per tutti il medesimo «non». Il che significa che ogni ente è identico all’altro45.

Premesso che l’argomento di Sasso è immediatamente autoconfutativo (se il «non» non potesse negare determinatamente, nulla potrebbe essere affermato determinatamente, nemmeno che il «non» è per tutti il medesimo «non») e trova soluzione in quanto si è mostrato nel par. 3 del cap. II di questo scritto, quello che qui importa è che questo suo chiudersi nell’aporeticità è essenzialmente legato al tentativo di contrapporsi al risolvimento severiniano dell’aporetica del nulla. Per negare l’originarietà della sintesi, il nichilismo cerca di mostrare che la predicazione (il dire, la relazione) implica necessariamente una dualità irriducibile ed è perciò irrimediabilmente aporetica. Senza potersi accorgere che ad essere aporetici non sono il «dire» e la «relazione» in quanto tali, ma in quanto concepiti dalla logica isolante in cui il nichilismo consiste e che determina l’aporia del nulla. In conclusione, proprio perché la logica isolante del nichilismo non può distinguere tra distinzione e separazione, per essa l’originarietà della sintesi è impossibile. E perciò risponde a Severino (al suo risolvimento dell’aporetica del nulla e in generale alla struttura originaria come «sintesi originaria») nell’unico modo che le è possibile: affermando che la sintesi è unione di distinti, e dunque non può essere originaria. Dunque: giacché 45

G. Sasso, Il logo, la morte, cit. p.19.

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dire distinti significa dire separati, il dualismo è originario e perciò irriducibile. La riflessioni considerate si alimentano della aporeticità cui darebbe luogo il dire l’identità e la differenza. Come se Severino non avesse mostrato in che modo si supera la apparente aporeticità del «dire», della «identità» e della «differenza» a partire da La struttura originaria (1958). Le loro sono le voci del nichilismo che non può comprendere l’originarietà della sintesi severiniana, e che – per questo – a quella sintesi contrappone l’aporeticità dell’identità e della differenza: per dire che A e A sono identici, A e A devono essere distinti; ma per distinguerli si deve partire dalla medesimezza di A. La diversità e l’identità sembrano impossibili: l’identità è già, come tale, diversità; la diversità è già, come tale, identità. Con La struttura originaria Severino mostra che se l’identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può non affermare che condizione dell’identità è la contraddizione, stante che la differenza, richiesta dal costituirsi dell’identità, non può essere riferita che all’identico in quanto tale46.

Per rispondere a Severino, il nichilismo porta a galla la contraddittorietà della propria logica predicativa, che esso intende però (necessariamente) come contraddittorietà della logica predicativa in quanto tale. La filosofia di Severino fa affiorare nel «per sé» del nichilismo un suo tratto fondamentale: l’aporeticità del dire e dell’identità fondati sulla separazione originaria dei momenti. Il pensiero di Severino costringe cioè il nichilismo a portare allo scoperto la propria aporeticità di fondo, per quanto senza poterla vedere come tale. Se non negando sé stesso. 4. Il risolvimento originario dell'aporia e l'«inconscio dell'inconscio» del mortale Riassumendo. L’aporetica del nulla dipende dalla mancata comprensione dell’originarietà della sintesi tra essere (significare) e determinazione (contenuto), sintesi in cui consiste l’essere degli essenti e il significare dei significati. Il modo di pensare isolante del nichilismo è dunque il fondamento logico dell’insorgenza dell’aporetica del nulla e della sua irrisolvibilità, dal momento che la sua soluzione consiste nel porre l’originarietà della sintesi tra il nulla-momento (determinazione, «ciò-che») e il suo significare 46

E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 193.

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Capire Severino

(essere, «è»). Così come l’aporetica dell’apparire dipende dalla concezione fenomenologica “pura” dell’apparire, cioè dall’isolamento dell’apparire dall’intero, l’aporetica del niente dipende dalla concezione “isolante” della predicazione. Poiché il nichilismo non può prendere coscienza di sé come nichilismo, esso non può risalire a ciò che determina veramente l’aporetica del nulla, che si presenta pertanto in forma alterata. L’aporetica del nulla è appunto uno dei modi alterati in cui all’interno del nichilismo si presenta l’infondatezza della logica predicativa nichilistica. Ma ricollegandoci alla distinzione severiniana tra il nichilismo come inconscio del mortale e il de-stino come inconscio di quell’inconscio, ora possiamo compiere un passo ulteriore. Nel linguaggio severiniano il «mortale» è l’uomo in quanto teatro del contrasto tra la verità e l’errore, tra l’apparire dell’essere e l’alienazione di tale apparire. All’interno dell’isolamento l’alienazione non è riconosciuta come tale e per questo fonda inconsciamente il pensare e il vivere del mortale. Ma al fondo di tale alienazione, cioè al fondo di questo primo inconscio, sta l’apparire incontraddittorio di ciò che viene alienato: l’apparire incontraddittorio dell’essere, il de-stino. In questo senso Severino parla di un doppio piano inclinato, per cui dall’apparire dell’alienazione si deve risalire al suo fondamento inconscio che è il nichilismo, e da questo fondamento inconscio si deve risalire al suo fondamento inconscio (inconscio dell’inconscio) che è appunto il de-stino quale stare innegabile dell’essere. Il primo inconscio è il nichilismo della civiltà occidentale, che tratta l’essere come se fosse niente senza accorgersene: essa crede di affermare l’essere dell’essente proprio nell’atto in cui inconsapevolmente lo nega. Una delle massime espressioni di tale inconscio nichilismo è la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione. Il secondo inconscio (che è poi la coscienza originaria) è la «struttura originaria» come fondamento o sintassi originaria, identica sia nell’apparire infinito (quale totalità concreta dell’essente, in cui ogni forma di contraddizione è originariamente tolta) che in quello finito (la cui «finitezza» consiste nell’essere gravato dalla contraddizione C quale impossibilità strutturale di mostrare la totalità concreta dell’essente). Ebbene, come si collega tutto questo all’aporetica del nulla? Abbiamo visto che il fondamento inconscio del discorso aporetico è il suo nichilismo. Ma ora dobbiamo rilevare (cosa già emersa in precedenza, ma non ancora esplicitamente sviluppata) che nel discorso aporetico è presente un secondo e più profondo fondamento inconscio: come il de-stino è l’inconscio ultimo e irriconoscibile del nichilismo, così l’originaria non aporeticità del nulla è l’inconscio ultimo e irriconoscibile del discorso aporetico.

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La posizione del nulla può determinare aporia (all’interno dell’alienazione nichilistica) solo in quanto la nullità del nulla sia già implicitamente posta: se il nulla non valesse implicitamente come nulla, l’aporia non avrebbe luogo. Ciò ormai dovrebbe essere chiaro: se il nulla non valesse come nulla, cioè se il significato di «assolutamente altro dall’essere» non fosse presente come tale, il discorso aporetico non avrebbe motivi per dire che il nulla non può essere posto e significato: il nulla, in quel caso, varrebbe come un qualsiasi positivo-significabile. Dunque il discorso aporetico si fonda, inconsapevolmente, sulla già avvenuta posizione della nullità assoluta del nulla: proprio perché dice che il nulla assoluto non può essere posto, il nulla assoluto è già stato posto. Il discorso aporetico implica che il nulla sia significabile proprio nell’atto in cui dice che non è significabile. In questo senso Severino rileva che l’aporia perde di vista il momento del positivo significare del nulla “e insieme non lo perde di vista (in actu exercito). Se questo momento fosse totalmente assente, non posto, non sussisterebbe nemmeno il discorso aporetico”47. È perciò evidente che l’aporia, nel suo fondo, implica necessariamente la non aporeticità di ciò che esplicitamente pone come aporetico. Questo fondamento inconscio dell’aporetica è formalmente (ma solo formalmente!) identico al fondamento ultimo della negazione del principio di non contraddizione di cui parla Aristotele nel IV libro48 della Metafisica: in entrambi i casi, infatti, l’obiettore implica la necessità di ciò che intende negare. Tale identità è solo formale, dal momento che il pensiero aristotelico è uno dei «padri» della concezione isolata della predicazione. E infatti, proprio perché il pensiero aristotelico non concepisce l’originarietà della sintesi tra il «ciò che» e l’«è», esso finisce col pensare che possa esistere un tempo in cui tale sintesi è nulla. Anche nel pensiero aristotelico, cioè, è presente in modo necessariamente distorto il fondamento inconscio (inconscio dell’inconscio) del mortale consistente nella “sintassi della Gioia, cioè la verità infinita che è identica nell’apparire finito e infinito”49. In quanto ogni essente appartiene alla totalità dell’essere, ogni essente è presente in ogni altro; ciò significa che anche il destino è presente nell’alienazione nichilistica, e vi è presente come fondamento (come abbiamo visto la sintassi originaria è il fondamento senza il quale nulla potrebbe apparire). Ma nell’alienazione le tracce dell’altro presenti in ogni essente (e dunque anche e innanzitutto le tracce del destino) sono necessariamente isolate dal 47 48 49

Ibi, p. 220. Interessante notare che in entrambi i casi si tratta del IV Libro o del IV capitolo. E. Severino, La Gloria, cit., p. 491.

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Capire Severino

proprio esser sé e perciò sono necessariamente alterate. La presenza della verità (destino) nella non verità (isolamento) è una traccia necessariamente «sviante» e perciò destinata a restare incomprensibile. Per questo si deve concludere che l’aporetica del nulla non è che una particolare individuazione del rapporto generale tra il destino e il modo in cui esso può essere presente nel nichilismo: così come il nichilismo si fonda da ultimo su quella verità che esso non può comprendere, allo stesso modo il discorso aporetico si fonda sulla non aporeticità del nulla di cui non può essere consapevole.

FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio Ultime uscite: 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73.

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