La questione del divenire in Bontadini e Severino

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La questione del divenire in Bontadini e Severino

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Corso di Laurea in Scienze Filosofiche

UNA DISPUTA METAFISICA. LA QUESTIONE DEL DIVENIRE IN BONTADINI E SEVERINO

Relatore: Chiar.mo Prof. AMEDEO VIGORELLI

Laureando: ALESSIO BREVIGLIERI Matricola 790994

Anno Accademico 2011/2012

INDICE Introduzione.................................................................................... p. 2 Alcune note storiche ….......................................................... p. 4 Severino allievo di Bontadini.................................................. p. 8 Differenze iniziali tra il pensiero di Severino e Bontadini..... p.11 La svolta e il dibattito............................................................ p.16 Argomenti secondari del dibattito........................................ p. 19 Capitolo I . Prima del 1964. Il maestro e il discepolo................ p. 23 Dall'esperienza alla metafisica............................................. p. 23 La metafisica dell'esperienza............................................... p. 26 Oltre l'esperienza. Il principio della metafisica..................... p. 35 Severino e la metafisica classica......................................... p. 40 La Struttura originaria: l'immediatezza................................ p. 48 L'aporetica del nulla............................................................. p. 59 Il divenire, la totalità e la metafisica originaria..................... p. 64 Gli studi di filosofia della prassi............................................ p. 72 Capitolo II. Dopo il 1964. Il discepolo contro il maestro........... p. 80 La svolta: Ritornare a Parmenide........................................ p. 80 La prima reazione: salvare i fenomeni................................. p. 92 Il Poscritto e la nuova interpretazione del divenire.............. p. 99 La Postilla e la Risposta ai critici........................................ p. 113 Le fasi centrali del dibattito................................................ p. 120 L'esaurimento del dibattito................................................. p. 128 Conclusione................................................................................ p. 135 Bibliografia................................................................................. p. 141 1

Introduzione

La disputa tra Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino non è, come è parsa a molti, la storia di una resa e questo non solo perchè nessuno dei contendenti ha mai dichiarato tale resa. Se è vero, infatti, che le argomentazioni del filosofo bresciano hanno contribuito al ripensamento di alcuni punti importanti del pensiero del maestro neoscolastico, altrettanto vero è che Severino ha strutturato alcuni punti rilevanti del suo discorso filosofico proprio negli anni della disputa, cercando nuove formulazioni per rispondere o, talvolta, aggirare, le obiezioni ricevute. Che queste risposte di Severino, pur accompagnate dall'incrollabile certezza nelle fondamenta del proprio discorso, riescano a dipanare i dubbi del maestro e di molti altri critici è una questione aperta, che affronteremo più avanti. Stabilito che una resa non c'è mai stata, è però anche vero che nei confronti della proposta severiniana, la posizione di Bontadini è risultata perdente, quantomeno rigaurdo l'interesse suscitato nel pubblico e negli addetti ai lavori (anche se questo non è un buon criterio per giudicare della giustezza di un discorso). Da parte nostra ci pare corretto dichiarare da subito che la proposta severiniana, presa nel suo complesso, merita effettivamente, a nostro avviso, maggiore interesse: per originalità, radicalità, coraggio speculativo e solidità argomentativa. Il che non significa accettarla, anzi, proprio in questo lavoro, attraverso il dialogo con Bontadini, potremo metterne in luce i punti problematici. La disputa, iniziata ufficialmente nel 1964 con la pubblicazione di Ritornare a Parmenide, è proseguita per vent'anni, fino al 1984, data dell'ultimo botta e risposta ufficiale sulla Rivista di filosofia neoscolastica, catturando l'interesse del pubblico sia per la originalità dei contenuti, sia forse perchè le rotture e le incomprensioni (i parricidi!) tra maestro e allievo sono un tòpos classico nella storia della filosofia, senza voler scomodare illustri paragoni. Proprio per queste sue caratteristiche la disputa era destinata a 2

“riuscire molto bene”, in quanto si confrontavano posizioni contrastanti che avevano però un ampio terreno comune dal quale attingere: metodologico, linguistico, tematico. Questo sfondo comune ha ovviato solo parzialmente alla tradizionale incomprensione tra filosofi, ma almeno ha evitato quella fastidiosa sensazione, che qualcuno ha attribuito alla dialettica, di essere «la simulazione di un dialogo all'interno di un soliloquio»1. L'esser riusciti a costruire un dialogo onesto, chiaro, ben argomentato, seppur non privo di incomprensioni, è un merito non piccolo che va attribuito ad entrambi i pensatori. Per quanto riguarda il terreno comune, a livello tematico, il punto decisivo e controverso è sicuramente il ripensamento del principio parmenideo per cui l'essere è e non può non essere, quale vero principio di non contraddizione e motore dialettico nel suo rapporto col divenire. Per dare senso e valore all'intera discussione bisogna accettare questo ripensamento, che altrimenti, se lo si considera insensato, l'intera discussione si presenterà poi come tentativo di coerentizzare una costruzione assurda già in partenza. Dicendo “ripensamento” abbiamo commesso un'inesattezza; infatti, si tratta in verità di due ripensamenti: entrambi gli autori riprendono in qualche modo Parmenide, rivalutando la portata del suo principio, ma lo fanno in modi diversi. Proprio la messa a fuoco di questa diversità sarà elemento centrale del lavoro che stiamo introducendo; qui possiamo anticipare che Bontadini tenterà più volte di sminuire la portata di questo scarto, per riportare a sé, sulla “retta via”, l'amato discepolo. Dall'altra parte, Severino argomenterà sempre che la differenza iniziale tra le due posizioni è incolmabile, sottolineando così l'originalità della sua interpretazione. Oltre la radicale diversità degli approdi, i due pensatori hanno però, come abbiamo già sottolineato, molti punti in comune. Severino, in quanto allievo di Bontadini, si è inizialmente mantenuto nel solco scavato da dal maestro, prima operando quasi una ripetizione, poi andando nella stessa direzione ma con una certa originalità. Il problema iniziale, quello che fa da sfondo al pensiero di

1 Gòmez Dàvila, 2007, p.46.

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Bontadini e che Severino ha ereditato, può essere così sintetizzato: la totalità dell'essere coincide con la totalità dell'esperienza, per cui dobbiamo rassegnarci all'immanentismo? O è possibile dimostrare che la totalità del reale non coincide con l'esperienza possibile, per cui è necessario affermare la possibilità di una metafisica? Tale dimostrazione, se si dà, deve basarsi su elementi immediatamente evidenti, ovvero su quella struttura originaria che sarà centro e fondamento delle opere dei due filosofi. Nei prossimi capitoli guarderemo nel dettaglio il problema e le soluzioni proposte. Ora faremo alcune considerazioni storiche e teoriche che ci accompagneranno verso la parte principale del lavoro, l'analisi della disputa, permettendo una comprensione più completa e contestualizzata della stessa.

Alcune note storiche Bontadini e Severino si incontrarono all'università di Pavia nel 1947. Il primo aveva vinto la cattedra di filosofia teoretica, mentre Severino era uno studente del secondo anno. Nel '51 Bontadini tornò alla Cattolica, dove era stato fino al '47, per occupare la cattedra di filosofia teoretica, sostituendo il suo maestro Amato Masnovo, e restò in quel ruolo fino al 1973. Severino lo seguì a Milano tre anni dopo, nel '54. I loro percorsi professionali rimarranno legati fino al 1970, anno in cui Severino lasciò l'Università Cattolica per recarsi a Venezia. La vicenda filosofica di entrambi fu fortemente legata all'Università Cattolica, alla quale Bontadini si iscrisse nell'anno stesso della fondazione, il 1921 e fu il primo laureato di quell'ateneo 2. Proprio Bontadini portò avanti una proposta filosofica in parte coerente e in parte eccentrica rispetto al clima culturale di quell'istituzione. Da un lato, infatti, si fece continuatore della tradizione neoscolastica rappresentata da pensatori come Emilio Chiocchetti, Amato Masnovo, Agostino Gemelli, Franceso Olgiati. Con

2 Cfr. Sacchi, 2009, p. 218.

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Sofia Vanni Rovighi, Bontadini è infatti considerato il rappresentante più noto della “seconda generazione” di neoscolastici milanesi. Dall'altro lato egli si fece promotore, già dalla tesi di laurea, poi pubblicata col titolo Saggio di una metafisica dell'esperienza, di una ripresa seppur critica, di certe istanze dell'attualismo gentiliano. Ora, la Cattolica, soprattutto nelle intenzioni di Gemelli, aveva sviluppato una politica apertamente contraria all'attualismo gentiliano, allora dominante. La posizione di Bontadini poteva dunque apparire eterodossa3. Nonostante questo particolare, Bontadini ebbe poi il giusto riconoscimento all'interno della tradizione neoscolastica e mantenne un ruolo rilevante in quell'università per oltre 50 anni 4. Dopo la laurea gli interessi principali di Bontadini si concentreranno sulla filosofia moderna, da Cartesio all'idealismo. La tesi di fondo che contraddistingue il pensiero moderno è, per Bontadini, il presupposto gnoseologistico, ovvero dualistico, naturalistico: insomma, l'infondata separazione iniziale di pensiero ed essere5. Questa posizione, in quanto astratta e infondata, genera contraddizioni che saranno risolte in parte dall'idealismo e in parte dalla fenomenologia. Da quest'ultima posizione partirà il lavoro di Bontadini volto alla reinserzione della metafisica classica, riformata e fondata su nuove basi, nel discorso contemporaneo, congruamente al progetto neoscolastico. Oggi, quando l'esperienza della neoscolastica può dirsi conclusa, viene da chiedersi quale interesse possa avere il pensiero di questo filosofo, oltre che come oggetto di indagine storica. Evidentemente una parte della notorietà di Bontadini gli viene, per così dire, dalla luce riflessa del suo celebre allievo. Ma questo legame è una lama a doppio taglio che da una lato contribuisce al ricordo mentre dall'altro ne oscura i caratteri di indipendenza e originalità. Trovandosi in una posizione di parziale sovrapposizione al pensiero di Severino, almeno tematica, molti critici potrebbero essere tentati, da un lato,

3 Per approfondimenti sulla prima neoscolastica milanese cfr. Pietroforte, 2005; per la biografia di Bontadini cfr. Vigna, 2008, pp. 495-502. 4 In Sacchi, 2009, viene ricostruita con precisione la presenza di Bontadini nella Rivista di Filosofia Neo-Scolastica. 5 Si vedano ad esempio: Bontadini, 1942, 1952a.

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di collocare Bontadini nel limbo dell'indecisione di chi, pur avendone le possibilità, non ha avuto il coraggio o la lucidità di seguire la radicalità del discorso severiniano. Dall'altro lato, proprio la parziale congruenza tematica e metodologica rispetto a tale discorso gli aliena preventivamente l'interesse di chi diffida della proposta “neoparmenidea”, sia per contenuti che per stile filosofico. Bontadini sembrerebbe dunque destinato all'oblio o a essere semplicemente ricordato come “il maestro di”. Si aggiunga che oggi un pensiero come il suo, che voglia mantenersi puramente metafisico, senza cedere ai richiami delle altre discipline, dunque all'interdisciplinarietà, appare come irreparabilmente anacronistico; ma proprio questo voleva fare Bontadini: rimanere fedele a quell'omne punctum che era il suo principio di metafisica.6 Riguardo l'attualità di questo pensiero, in realtà, i fatti sembrano smentire il supposto oblio, infatti, prendendo in considerazione solo l'ultima decade, troviamo almeno cinque monografie, anche di parecchie pagine, e svariati articoli sul pensiero del maestro neoscolastico 7. L'interesse sembra relativo a due principali direzioni d'indagine: una che guarda ai rapporti col pensiero di Severino, magari trovando in Bontadini un appoggio ideale per muovere una critica al pensiero dell'allievo; un'altra che più autonomamente il pensiero di Bontadini come una critica ancora attuale dei vicoli ciechi del pensiero moderno e una valida apertura ad un ulteriorie discorso metafisico: di fatto religioso e, in definitiva, cattolico 8. Le vicende di Severino, dall'altro lato, sono piuttosto note ma vale la pena richiamarle brevemente. Promettente allievo di Bontadini, si interessa e si forma inizialmente affrontando la fenomenologia con Husserl e Heidegger, l'idealismo con Fichte, Hegel, fino all'attualismo gentialiano, la filosofia antica e le tematiche del neopositivismo. Si fa presto notare grazie ad un'opera di inusitata esigenza fondativa e complessità, La struttura originaria del 1958,

6 Cfr. Turoldo, 1995, p. 137. 7 Le monografie più facilmente reperibili sono: Grion 2012; Capelli, 2009 Grion, 2008; Vigna, 2008; Goggi 2003. 8 Sull'eredità di Bontadini cfr. Messinese, 2004.

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che analizzeremo nel terzo capitolo. Il suo scritto più famoso è però Ritornare a Parmenide, del 1964, nel quale, proponendo un radicale ripensamento del principio parmenideo e del mancato “parricidio” platonico, arriva a sostenere la necessaria eternità del Tutto e la fondamentale, inconscia, persuasione nichilistica di tutto il pensiero occidentale successivo a quello dell'eleate. L'articolo, con ciò che seguì, suscitò, è facile immaginarlo, un vivace dibattito intellettuale ma anche un vero scontro istituzionale. In particolare con la Chiesa Cattolica, visto che all'epoca Severino era professore proprio all'Università Cattolica di Milano; istituzione, quest'ultima, che richiedeva l'ortodossia dei suoi docenti. Venne istituita una commissione presso l'ex Sant'Uffizio, per valutare la posizione dell'autore e, nel 1970, venne dichiarata l'incompatibilità tra questa e la dottrina Cattolica. Gli avvenimenti non ebbero toni drammatici, fu bensì una separazione consensuale; ciò non toglie che ebbero un certo risalto, soprattutto per gli anni in cui avvennero (durante la contestazione studentesca) e forse perché lo scontro tra Chiesa e filosofi è certamente un tòpos di grandissima popolarità nella storia della filosofia, sebbene rimandi ad eventi ben più drammatici. Severino, da parte sua, cercò sempre di sgombrare il campo da possibili interpretazioni ideologiche degli accadimenti, volendo mantenere la discussione a livello puramente filosofico. Dopo

quegli anni Severino si

dedicò ad allargare e ad approfondire il suo discorso filosofico, trattando temi anche molto lontani dagli interessi originari ma cercando di allacciare sempre un legame forte, addirittura necessario, tra tutte le parti del suo discorso. Per gli intenti di questo lavoro ci interessano le opere di Severino fino a Destino della necessità, del 1980, ma il percorso di Severino, avvertiamo, si è protratto fino ai giorni nostri con altre opere rilevanti 9. Severino è oggi un filosofo di grande popolarità, addirittura inconsueta, dovuta soprattutto, riteniamo, all'originalità e all'organicità del suo discorso e all'attraversamento

9 Si tratta di Severino 200b, 2007, 2012. Per una sintesi complessiva del pensiero di Severino cfr. Cusano, 2011.

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di aree tematiche (politica, sociologia, etica) che interessano fasce di persone sicuramente più ampie che non la pura metafisica. Oltre a questi aspetti estrinseci, sono in molti a concordare nell'attribuire a Severino alcuni meriti rilevanti come la volontà di argomentare sempre le proprie tesi in modo chiaro; caratteristica di cui forse si avverte una certa carenza in vari ambiti della filosofia.

Severino allievo di Bontadini. I primi scritti di Severino, come egli stesso ricorda, si muovono nell'orbita del pensiero del maestro: Nel 1948 avevo scritto un saggio, Note sul problematicismo italiano, pubblicato all'inizio del 1950, che si muoveva all'interno della proposta di Bontadini. Nella mia tesi di laurea, Heidegger e la metafisica, sostenevo che anche Heidegger, come il Gentile di Bontadini, pur provenendo dalla fenomenologia e non dall'idealismo, lasciava aperta la porta ai problemi della metaphysica specialis, ossia della metafisica in quanto affermazione dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima10.

Sin dai primi anni di attività di Severino, sono presenti sia scritti di carattere storico-critico sia scritti con intenti puramente teoretici. In realtà i due atteggiamenti non sono mai slegati, soprattutto negli scritti storico-critici si propongono interpretazioni, sì attente alla lettera dei testi analizzati, ma sempre sottese da un più ampio intento teoretico. E' questo il caso dell'interessante scritto del 1948, Note sul problematicismo italiano. In quest'opera,

scritta

in

giovanissima

età,

Severino

utilizza

una

categorizzazione già ampiamente sfruttata da Bontadini, quella che divide il pensiero contemporaneo, almeno buona parte di esso, in problematicismo

10 Severino, 2001a, pp. 41-42.

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trascendentale e problematicismo situazionale. Il problematicismo è, in generale, caratteristica di tutte quelle posizioni filosofiche che tengono ferma come problematica l'affermazione della possibilità di una metafisica o di verità eterne e sovrastoriche. Questo termine ha avuto una certa popolarità nella filosofia italiana contemporanea, a partire da alcuni scritti di Antonio Banfi, Ugo Spirito, Nicola Abbagnano, Enzo Paci. Proprio su questi autori si concentra il saggio di Severino, che, ricalcando fedelmente le idee del maestro, cerca di mostrare come il problematicismo situazionale sia una forma superiore e più coerente di quello trascendentale. Problematicismo situazionale è quello proposto da Ugo Spirito, che viene riconosciuto anche nella posizione di Giovanni Gentile dal Sistema di logica come teoria della conoscenza in avanti. Banfi, Abbagnano e Paci sostengono invece, secondo Severino,

pur

nelle

reciproche

diversità,

forme

di

problematicismo

trascendentale. Ciò che differenzia il problematicismo situazionale da quello trascendentale è che, per il primo, l'assenza di verità sovrastoriche definitive è semplicemente un fatto che, come tale, può essere smentito, dunque è anch'esso problema. Il problematicismo trascendentale ritiene invece che tale assenza sia costitutiva della conoscenza umana, dunque il problema della metafisica diventa trascendentale, ovvero teoreticamente irrisolvibile. Il problema di quest'ultima posizione, argomenta Severino, è che affermando la trascendentalità del problema si afferma propriamente un che di sovrastorico e, appunto, trascendentale. Una tale affermazione è incoerente con le premesse del problematicismo in quanto non può essere fondata su tali premesse. Severino, e Bontadini, vedono nell'apertura possibilista del problematicismo situazionale un punto di partenza ottimale per ricostruire su nuove basi il sapere metafisico11. Anche la tesi di laurea del 1950, Heidegger e la metafisica, come abbiamo già accennato, cercava di mostrare la possibilità della riapertura di uno spazio metafisico, questa volta nel pensiero

11 Per il saggio in questione e la relativa bibliografia si veda Severino, 1994, pp. 355- 447. Per la posizione di Bontadini si può vedere invece Bontadini, 1946 e 1952b.

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di Heidegger. Il problematicismo situazionale forniva il punto di partenza o il presupposto negativo di questo progetto: infatti era una posizione che non ostacolava o non impediva immediatamente questo impegnativo progetto di reinserimento della metafisica nel discorso filosofico contemporaneo. Ovviamente la semplice possibilità di una fondazione metafisica implicava che poi si procedesse effettivamente a tale fondazione: in modo definitivo e incontrovertibile. Il punto di partenza positivo, invece, che Bontadini trasmise a Severino, veniva offerto dall'idealismo e in particolar modo da quella forma avanzata di idealismo che era l'attualismo gentiliano: l'indistinzione originaria di pensiero ed essere, ovvero il superamento del moderno presupposto dualistico e gnoseologistico. L' Unità dell'esperienza, come definita da Bontadini, è tale punto di partenza metodologico, ovvero è la totalità delle cose che si pensano, in quanto si pensano (di pensiero

concreto,

che

risolve

la

sensazione).

[…]

L'unità

dell'esperienza è l'Atto gentiliano, l'Io trascendentale, il Logo concreto, il pensiero puro come criterio di realtà12. L'Unità dell'esperienza è il momento di indistinzione tra realismo e idealismo; […] Non vi sono esplicitamente affermate – ma non vi sono neanche esplicitamente escluse – la realtà oltre l'idea, né la produzione della realtà da parte dell'idea13.

Il richiamo, oltre che all'attualismo, è evidentemente, alla fenomenologia. Non a caso, come abbiamo visto, la tesi di Severino verterà su Heidegger, per pervenire poi a risultati congrui con quelli che Bontadini aveva ottenuto partendo invece da Gentile ( Bontadini in realtà sfrutta chiaramente entrambe le tradizioni di pensiero, come del resto farà Severino) 14. Il compito, una volta 12 Bontadini, 1938, p.59. 13 Bontadini, 1979, p.168. 14 Severino svilupperà presto una considerazione opposta: il pensiero contemporaneo, lungi dal presentare delle aperture adatte ad una reinserzione della metafisica, ne chiude incontrovertibilmente la possibilità. Cfr. Vigna, 2008, p.27.

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stabilito questo punto di partenza metodologico, sarà quello di costruire un'inferenza

che,

partendo

dal

dato

fenomenologico

concretamente

strutturato, cioè dall'Unità dell'esperienza, conduca necessariamente oltre di essa. Il trampolino di lancio per questa acrobazia metafisica sarà per entrambi i pensatori (ma in modi radicalmente diversi, come vedremo) la constatazione, di antico sapore parmenideo, della contraddittorietà del divenire, dunque l'impossibilità di identificarlo al tutto, assolutizzandolo 15.

Differenze iniziali tra il pensiero di Severino e di Bontadini Anche gli scritti di Severino con intenti più puramente teoretici sono consoni al progetto del maestro, ovvero alla fondazione di un discorso “protologico”16. Dal 1950 con La struttura dell'essere al 1958 con La struttura originaria17 Severino cerca, in modo autonomo, col tacito consenso di Bontadini, di fondare un discorso che, partendo dagli elementi originari, ovvero innegabili, immediati, dell'essere, dimostrari la possibilità di una metafisica,

intesa,

in

senso

minimale,

come

trascendimento,

oltrepassamento giustificato del dato fenomenologico (o dell'immanentismo, dell'atto gentiliano, dell'unità dell'esperienza, etc.). Come spiega ottimamente Leonardo Messinese, parlando di Bontadini: Un trascendere, dunque, che non riguarda soltanto la direzione “religiosa” o verticale – l'affermazione dell'esistenza di Dio – ma anche la direzione “mondana” o orizzontale, vale a dire ciò che si può affermare dell'essere del mondo, dell'io, degli altri soggetti umani al di là

15 Si può giustamente leggere questi tentativi come una aggiornamento delle vie tomistiche, di cui conservano formalmente l'intento. 16 “Protologia” è termine di derivazione giobertiana, utilizzato da Bontadini per definire il discorso sulle cose prime, sull'originario come intreccio di evidenza, immediatezza, logica e fenomenologica. Cfr. Grion, 2008, pp. 422-423, nota. 17 Un'analisi di quest'opera sarò proposta nel terzo capitolo. Secondo Luca Grion La struttura originaria rappresenta, fatte alcune riserve, uno dei frutti più notevoli della scuola di Bontadini.

11

di quanto di essi appare nell'unità dell'esperienza18.

È sintomatico che queste parole, scritte in riferimento al maestro, possano trasferirsi, senza storpiarne il senso, al pensiero del giovane allievo. Uno scritto che esemplifica bene la direzione “orizzontale” del trascendere è Metafisica, fenomenologia, sociologia del 1951, dove Severino cerca di fondare (dimostrare), l'esistenza di coscienze altre dalla propria a partire dai dati fenomenologici e da altri elementi originari 19. Esemplificativi del processo “verticale” sono invece, senza dubbio, vari spunti de La struttura originaria, che però certo non esauriscono la complessità dell'opera. Lette col senno di poi, alcune di queste opere, per autonomia e originalità, sembrano presentire già la rottura radicale che si manifesterà nel 1964-1965, con la pubblicazione di Ritornare a Parmenide e del Poscritto. All'epoca, però, dovettero sembrare essenzialmente allineate alla prospettiva di Bontadini, almeno a Bontadini stesso. Il distacco, per come è avvenuto, è maturato lentamente nell'esplicito e nell'implicito degli scritti di Severino, in particolare già da Aristotele e la metafisica classica, del 1956, dove già si afferma: […]

la

negazione

del

divenire

scaturisce

immediatamente

dall'autentico principio di Parmenide: l'essere è. Se l'essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l'essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l'assurdo, o è appunto questa la definizione dell'assurdo: che l'essere non sia. L'immobilità dell'essere, osserviamo, è una verità immediata20.

L'eternità del tutto è già affermata immediatamente dal logo, ma contrasta

Cfr. Ibidem. 18 Messinese, 2004, p. 360. 19 Tentativo fallito che poi Severino imposterà in maniera diversa nelle opere successive, ad esempio Severino 2001b. 20 Severino 2005, pp. 117-118.

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con l'altra evidenza immediata, quella dell'esperienza: Tutto è necessario allora. Ma come conciliare questa affermazione col divenire del mondo? […] se il logo si lascia sorprendere dal mondo in modo da non sapersi riprendere dalla sorpresa se non negando il mondo – e cioè negando appunto che il mondo sia sorprendente – diventa logo astratto; e ad esso si ferma Parmenide. Il sorprendente dev'essere tenuto fermo: appunto perchè ha una «presa» – un suo valore di evidenza, o immediatezza – dalla quale non ci si può svincolare21.

Severino afferma da un lato l'evidenza del logo implicante l'eternità del tutto e dall'altro l'evidenza del dato che testimonia il divenire del mondo. Una testimonianza sorprendente in quanto pare contraddire l'evidenza della ragione. Come diceva Aristotele a riguardo della medesima aporia: stando ai ragionamenti sembra che gli eleati abbiano ragione, ma stando alle cose è follia pensare in questo modo. Il “primo” Severino22 è allievo fedele di Bontadini proprio in questo: nel considerare come innegabili entrambi termini della contraddizione e nel cercare una conciliazione, superamento, sintesi. La ricerca di una sintesi ulteriore è motivata, per Bontadini, dalla fede o dalla volontà che la realtà non sia effettivamente contraddittoria. La sintesi proposta inizialmente risiedeva nel principio di creazione: se la creazione e la distruzione degli enti non sono ex nihilo, ovvero non sono opere del negativo, il che sarebbe assurdo, ma sono prodotte dal quel positivo che è Dio, allora sono ammissibili. Dio è dunque l'unica via per salvare l'incontraddittorietà e la razionalità del reale 23. Questa via, però, non sarà quella percorsa da Severino. Ciò non è casuale, bensì discende da una diversa formulazione dei termini della

21 Ivi, pp. 118-119. 22 La distinzione tra un “primo” Severino, riorganizzatore della metafisica classica e un “secondo” Severino, quello dell'interpretazione nichilistica della tradizione occidentale, è stata proposta da Leonardo Messinese. Cfr. Messinese, 2008. 23 La prospettiva di Bontadini verrà adeguatamente approfondita nel prossimo capitolo.

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contraddizione. Proprio questo è il punto implicito che, lavorando sotterraneamente, condurrà Severino alla svolta del 1964. Già nel '56, abbiamo visto, Severino interpreta il principio Parmenideo per cui l'essere è e non può non essere come affermazione immediata dell'immobilità o eternità del tutto. Bontadini, invece, formula la questione in modo sostanzialmente diverso: il suo Principio della metafisica, legato a quello parmenideo, afferma «la impossibilità che l'essere sia originariamente limitato dal non essere»24. Per Bontadini l'assurdo non è principalmente che l'essere non sia, ma che questo annullamento dell'essere sia una “azione” del nulla. In questo modo si affermerebbe che ciò che non è ha potere su ciò che è 25. L'impostazione del problema è effettivamente diversa e, una volta analizzata la questione, non sorprende che la concordia teorica tra Bontadini e Severino, almeno dal '56, sia da considerarsi in realtà come un'incomprensione. Incomprensione ndi cui il maggior responsabile fu Bontadini nei confronti di Severino. Già nello scritto del '56 infatti, l'allievo è cosciente della differenza dal maestro e delle implicazioni della sua impostazione, scrive infatti: […] mentre per il Bontadini il principio della permanenza è il risultato di una mediazione, che ha la sua base di immediatezza nel principio di non contraddizione, noi ora vediamo che il prinicpio di permanenza è immediatamente implicato dal principio di non contraddizione, che è l'autentico principio di Parmenide. […] il tempo non ha qui nulla a che fare. Anzi il permanente, qui, è proprio l'esclusione del temporale. Permanenza significa infatti che l'essere è; e cioè che in lui non vi è nulla di nuovo. Poiché il sorgere del nuovo esige la nullità dell'essere. E quindi nemmeno nulla di antico26.

Ci sono già buona parte degli elementi che caratterizzeranno la svolta di Severino, ma sussiste ancora l'altro elemento che contrasta l'eternità del

24 Bontadini 1952b, p. 92.

25 Cfr. Turoldo, 1995, pp.138-139. 26 Severino 2005, p.142.

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tutto, ovvero il divenire del mondo testimoniato dall'esperienza: si tratta ancora di mediare tra questi due termini. Così, ne La struttura originaria, Severino afferma, per risolvere l'aporia, che il divenire è reale come disvelamento processuale del tutto eterno 27. La differenza tra La metafisica classica e Aristotele, La struttura originaria e l'articolo della “svolta”, Ritornare a Parmenide dunque non consisteva tanto nel contenuto filosofico, quanto piuttosto nella persuasione che l'affermazione dell'eternità dell'essere in quanto essere non fosse in opposizione alla tradizione filosofica dell'Occidente e al cristianesimo28.

Una vera svolta contenutistica avverrà invece nel 1965 col Poscritto, dove finalmente Severino mette in luce come il divenire delle cose, il loro venire e tornare nel niente non è e non può essere un dato fenomenologico, non può essere testimoniato dall'esperienza. Stabilito questo viene meno la necessità di mediare la contraddizione tra logo ed esperienza: l'esperienza non contrasta il logo, per cui questo può procedere indisturbato nella sua cavalcata solitaria. Notiamo di passaggio che, nella premessa al volume della Rivista di filosofia neoscolastica contenente il saggio di Severino, Agostino Gemelli, fondatore della Cattolica, introdusse il lavoro del giovane studioso notando, con grande acume, la caratteristica specifica del discorso severiniano rispetto a quello di Bontadini: Appare allora come l'essenziale nucleo metafisico consista nello stesso principio di non contraddizione, assunto nel suo autentico e

27 La mediazione tra i due termini contraddittori avviene, similmente a quanto accade in Parmenide, nel riconoscere il carattere limitato o astratto della conoscenza umana, senza però utilizzare esplicitamente il concetto di doxa, al quale anzi si muovono varie critiche. Questa soluzione non sarà più necessaria a partire dal Poscritto di Ritornare a Parmenide. 28 Severino 2001a, p. 12.

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assoluto valore ontologico, e non nel suo semplice aspetto formalistico; sì che l'essenza della metafisica classica trova la sua individuazione più pura nella metafisica eleatica, della quale il saggio di Severino è una notevole valorizzazione: il principio di non contraddizione implica la stessa immediata affermazione dell'Assoluto29.

Nel procedere della disputa Bontadini affermerà che in realtà il suo principio di metafisica implica quello riconosciuto da Severino, del quale è, per così dire, una specificazione. Per cui si troverà a sostenere di aver riscoperto l'autentico senso del principio parmenideo ben prima di Severino. Noi sosteniamo che, anche ammessa la plausibilità storica della ricostruzione di Bontadini, egli non può averne colto esattamente lo stesso senso di Severino, altrimenti non si spiegherebbe come mai da premesse così vicine le strade si siano divaricate fino a procedere in direzioni opposte. Severino ha buon

gioco ad argomentare che, a riguardo della comprensione del

principio, Bontadini ha commesso lo stesso errore di Melisso: ovvero non vedendo l'evidenza del principio ha cercato di dimostrarlo mediatamente, cioè ha cercato di dimostrare ciò che fonda la possibilità stessa di ogni dimostrazione30.

La svolta e il dibattito. La rivista di filosofia neoscolastica, la quale non si pubblicherebbe se i suoi redattori non ritenessero che la neoscolastica è una corrente viva e attuale, e quindi ambito e oggetto di discussione, pubblica volentieri questo articolo di Emanuele Severino, e lo discuterà nei prossimi fascicoli. Non per anticipare tali discussioni, ma per dissipare fin da ora

29 Ivi, p. 11. 30 Notiamo di passaggio che nemmeno l'elénchos aristotelico è un tentativo di dimostrare il principio di non contraddizione, ma è il modo di mostrare come chi cerca di negare tale principio in realtà lo presupponga.

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possibili malintesi, osserviamo che, nonostante le punte polemiche contro la neoscolastica e l'asserita opposizione a tutto ciò che è stato scritto dopo Parmenide, l'articolo si riconnette ad una tradizione che hai suoi rappresenti anche nella scolastica. Con la tesi, infatti, che nell'essere di ogni cosa, per quanto diveniente e caduca, si manifesta immediatamente la presenza dell'Essere divino, Emanuele Severino continua, ci sembra, una tradizione che ha esempi classici, come, per citarne uno, il capitolo terzo dell'Itinerarium di S. Bonaventura. (Nota della Redazione)31.

Con queste parole la redazione della Rivista accolse il saggio di Severino, Ritornare a Parmenide, nel 1964. L'articolo sosteneva, in estrema sintesi, che il princpio parmenideo per cui l'essere è e non può non essere, assolutamente,

dunque

indipendentemente

da

qualunque

relazione

temporale, è la corretta formulazione del principio di non contraddizione, che invece, nella versione aristotelica, affermava sì l'impossibilità che qualcosa sia e non sia, ma solo allo stesso tempo. L'essere, dove per essere si deve intendere la totalità delle cose, o degli enti, è eternamente. L'affermazione dell'eternità del tutto è immediatamente dedotta dal principio parmenideo, o meglio,

a

rigor

di

termini

ne

rappresenta

solo

una

formulazione

linguisticamente alternativa. Questo argomento, abbiamo visto, era già presente nello scritto del '56 su Aristotele. Il saggio del '64 però va oltre, proponendo un'interpretazione della storia del pensiero occidentale per cui esso è la storia di un errore, ovvero la storia della dimenticanza di questo principio: già a partire dagli eleati discepoli di Parmenide 32 che, non comprendendo più l'evidenza del discorso, cercano di dimostrare ciò che è immediatamente vero e che sta al fondamento di ogni possibile dimostrazione. Non coglie quindi nel segno la nota della redazione:

per

Severino l'essere è eterno, non in quanto partecipe di qualche parte del

31 Severino, 1964, p.137, in nota. 32 Vedremo nel quarto capitolo che è comunque necessario andare oltre Parmenide, affermando, con Platone, l'esistenza della molteplicità.

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divino, bensì, semplicemente in quanto tale. Tutta la storia della filosofia successiva a Parmenide, quando ha voluto affermare l'eternità di qualcosa, l'ha sempre affermata mediatamente, per qualche ragione ulteriore: dunque ha sempre smarrito la comprensione della verità dell'essere. Questa interpretazione implica, di fatto, una Destruktion della filosofia occidentale, sulla quale Bontadini ironizza così: «sarebbe opportuno che queste tabulae rasae venissero compiute con un certo intervallo di tempo, altrimenti si finisce per guastare tutto il mestiere, già tanto in ribasso oggigiorno 33». Sempre con una certa ironia, prima di addentrarsi nella discussione delle tesi dell'allievo, Bontadini così ricorda la usa reazione di grande sorpresa: confesso che quando lessi la prima volta le Tue pagine, non volli credere ai miei occhi, tanto che me li sfregai energicamente a più riprese, poi toccai gli oggetti solidi intorno a me, tanto temevo di sognare, finalmente cercai di comporre nella mia fantasia l'immagine di una dattilografa burlona, che avesse cambiato i caratteri sulla carta. Niente. Non mi rimase che arrendermi non trovando altra lettura34.

Sembra che inizialmente Bontadini avesse considerato l'articolo di Severino più che altro come una follia passeggera, che una volta smontata con le giuste argomentazioni, avrebbe permesso al maestro di far rientrare il discepolo da questa inconsueta deviazione. Le cose, sappiamo, non andarono così. Bontadini, da parte sua, continuò a dialogare con l'allievo, facendo anche importanti concessioni teoriche, che da altri critici gli vennero rimproverate, sperando sempre di poter riconciliare le loro posizioni filosofiche. Il dibattito si allargò coinvolgendo altri pensatori, soprattutto sulla rivista della Cattolica, dove troviamo, dal '64 al '70, quasi una ventina di articoli di vari autori, che intervengono nel merito alle proposte di Severino, a

33 Bontadini, 1964, p. 440. 34 Ivi, p. 139.

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volte istituendo un vero e proprio dialogo a tre, includendo Bontadini 35. Quando Severino lasciò la cattolica i suoi interventi e le risposte del maestro vennero accolti su diverse riviste, tra cui, ad esempio, il Giornale critico della filosofia italiana e Spirali. La coerenza del percorso di Bontadini attraverso il dibattito con Severino è oggetto di discussione. Quanto concesse a Severino? Quanto, invece, si mantenne fedele alla sua impostazione originaria? Alcuni studiosi ritengono che, a partire dal breve scritto del 1965 Sull'aspetto dialettico della dimostrazione dell'esistenza di Dio, Bontadini si sia visto costretto a reimpostare

il

suo

discorso

proprio

in

considerazione

di

alcune

argomentazioni severiniane. Altri studiosi invece, in conformità a quanto ha sempre sostenuto Bontadini, tendono a sottolineare la continuità interna del suo pensiero36. Degli sviluppi e dei contenuti principali del dialogo in questa introduzione non serve aggiungere di più, per cui rimandiamo gli approfondimenti all'ultimo capitolo. Osserviamo solo di passaggio, che, nonstante la lunga disputa, i rapporti personali tra maestro ed allievo furono sempre ottimi, fino alla morte di Bontadini nel 1990.

Argomenti secondari del dibattito. In queste stringate considerazioni introduttive abbiamo mostrato, in linea generale, quale è stato il germe che, crescendo, è sbocciato con la “svolta” del '64. Nei capitoli successivi avremo modo di approfondire sia il pensiero sviluppato dai due autori prima di quell'anno sia, ed è la parte principale di

35 Alcuni interventi, di cui tratteremo più avanti, sono Giacon, 1964; Bausola, 1965; Penati, 1965; Ponticelli, 1965 e 1966; Nicoletti, 1965; Bacchin, 1965; Sirchia, 1965; Boccanegra, 1965; Berti, 1969 e 1971. 36 Favorevoli a questa seconda interpretazione sono, ad esempio, Turoldo, 1995 e Grion, 2008; mentre per la prima sembra propendere Sacchi, 2009.

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questo lavoro, i contenuti e le argomentazioni del dibattito successivo. Ora ci limiteremo a fornire qualche ulteriore coordinata generale. 1964 e 1984: tra queste due date, abbiamo visto, sono compresi tutti gli interventi, otto a testa, che il maestro e l'allievo hanno indirizzato l'uno all'altro. I punti in discussione sono aumentati col passare degli anni. Anni nei quali gli interessi di Severino hanno toccato ambiti anche molto diversi dalla metafisica, ambiti che verranno in parte affrontati anche nella disputa col maestro. Ad esempio sono stati affrontati i temi della fede e della religione, già affrontati nel 1962 in Studi di filosofia della prassi. Proprio quest'opera ha segnato l'inizio di quei travagli che porteranno, otto anni dopo, alla rottura consensuale tra Severino, l'istituzione ecclesiastica e l'università Cattolica 37. Monsignor Carlo Colombo, presidente dell'Istituto Toniolo, fu, ad esempio, contrario alla pubblicazione dell'opera per Vita e Pensiero, in quanto, come scrive in una lettera del '61 allo stesso Severino: 1) Non vedo chiaramente nella sua impostazione […] come si possa parlare di una conoscenza certa e vera dell'esistenza di Dio, all'infuori dell'autocoscienza che Dio ha di se stesso. […] 2) Non vedo chiaramente la possibilità di un autentico atto di fede religiosa soprannaturale, nel senso inteso dalla dottrina cattolica […]38.

La vista di Mons. Colombo, possiamo dire oggi, era buona. Nonostante ciò, grazie alle premure di Francesco Olgiati e Sofia Vanni Rovighi, l'opera venne comunque pubblicata per l'editrice della Cattolica 39. Ma lo scontro era destinato a riaffiorare tre anni dopo, concludendosi poi, nel 1970 col giudizio di incompatibilità tra il discorso di Severino e la dottrina cattolica formulato dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede. Proprio in quello scritto, abbiamo detto, Severino tematizza il problema della fede e del credere, con chiaro riferimento alla fede cristiana. Il credere, l'aver fede, sono visti in luce

37 Tutta la vicenda, che qui non approfondiremo, è sintetizzata e documentata in Severino, 2001a. 38 Ivi, pp.25-26. 39 Ivi, p. 10.

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negativa, in opposizione alla verità: per Severino è verità solo ciò che è incontrovertibile; il credere in qualcosa non è invece incontrovertibile, implica una volontà: “io credo che le cose stiano così” significa anche: “io voglio che le cose stiano così”. Nella fede, è un atto di volontà ciò che tiene fermo il contenuto della fede contro la sua negazione. La verità, invece, non ha bisogno di essere sorretta da nient'altro che se stessa. Il modello archetipo della verità incontrovertibile cui Severino spesso si richiama è l'elenchós aristotelico, quello per cui chi nega il principio di non contraddizione in realtà lo presuppone. Il dibattito tra Severino e Bontadini, dicevamo, è andato allargandosi, arrivando a toccare argomenti diversi dal punto di partenza iniziale. La fede e la religione cristiana hanno occupato uno spazio importante, in quanto erano argomenti chiaramente molto sentiti da entrambi gli autori, oltre ad essere strettamente legati allo scontro di Severino con la chiesa. Nel '71, in Risposta alla Chiesa, Severino argomenta ampiamente nell'intento mostrare la contraddittorietà della fede cattolica. Nel '72 Bontadini, rispondendo a quello scritto, osserva: Secondo Severino la Chiesa è incappata, nella sua navigazione, in uno Scilla-Cariddi, che ne provoca il naufragio. Lo Scilla è rappresentato da un certo fideismo, il Cariddi da una certa gnosi. La Chiesa, che ha sempre condannato fideismo e gnosi, ora ci casca essa stessa40.

Oltre alla religione, negli anni '70, Severino si è occupato di argomenti ancora più distanti dai suoi iniziali interessi, ad esempio politica, sociologica, tecnica. Questi argomenti hanno portato a Severino una certa popolarità, anche se, come ha maliziosamente osservato Bontadini, egli «per conseguirla è dovuto uscire dalla roccaforte della sua filosofia, intrecciando, con splendida abilità, la speculazione a temi più mondani» 41. Piuttosto noto,

40 Bontadini, 1973b, p. 123. 41 Bontadini, 1979, p.28.

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ad esempio, il dialogo di Severino col marxismo e con alcuni suoi esponenti, come Lucio Colletti. Sia la critica alla religione cattolica, sia i temi sociologici, non verranno affrontati in questo lavoro. Vorremmo concentrarci sulla parte più propriamente speculativa del dibattito, perciò questa introduzione esaurisce qui gli accenni alle nozioni di contorno, che riteniamo sia in qualche modo utile aver presente.

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Prima del 1964. Il maestro e il discepolo.

Dall'esperienza alla metafisica Il percorso intellettuale di Bontadini può essere suddiviso in tre tappe, come ha proposto ad esempio Giulio Goggi 42. Queste diverse fasi si presentano in parte come un'evoluzione continuativa e in parte offrono motivi di discontinuità, anche se questi ultimi saranno sempre negati da Bontadini, il quale tenderà, nel corso della discussione con Severino, a rimarcare il legame logico e strutturale tra i vari approdi della sua indagine, concedendo al massimo che le differenze siano dovute all'esplicitazione di istanze già implicitamente espresse. Al contrario, sempre all'interno della discussione tra maestro e discepolo, Severino porrà ripetutamente l'accento sui cambiamenti di posizione del filosofo neoscolastico considerandoli non solamente irriducibili a fasi precedenti ma in aperto contrasto con esse. Questo irrisolvibile contrasto è individuato da Severino nel passaggio dal secondo al terzo periodo della riflessione bontadiniana, coincidente con l'inizio della disputa.43 Ma quali sono queste tappe? La prima è rappresentata dalla principale opera teoretica e sistematica di Bontadini, il Saggio di una metafisica dell'esperienza, pubblicato nel 1938 ma derivato nelle sue linee fondamentali dalla tesi di laurea dell'autore, elaborata dieci anni prima. Questo periodo si prolunga poi almeno fino al 1946 con la pubblicazione dell'articolo La funzione metodologica dell'unità dell'esperienza 44. La nota caratteristica di questo periodo, che è stato anche definito problematicistico, è la tematizzazione

dell'esperienza.

Bontadini

mostra

ampiamente

come

l'esperienza sia quel punto di partenza certissimo di cui il pensiero filosofico

42 Cfr. Goggi 2008. 43 Una ricostruzione chiara e sintetica si trova in Turoldo 1995. 44 Ristampato in Bontadini 1995, pp. 39-69.

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avverte massimamente la necessità. Perchè l'esperienza possa svolgere questa funzione bisonga però lavorare sul suo concetto e ripulirlo da quelle incomprensioni che le filosofie storicamente succedutesi hanno prodotto: si tratta in particolare di spogliare il concetto di esperienza dai presupposti ingiustificati che realismo ed idealismo gli hanno attribuito. Una volta esaurito questo compito iniziale si apre lo spazio proprio della metafisica ma si apre come problema ( per questo Bontadini può essere qui definito problematicista ): è possibile una metafisica? L'esperienza coincide con la totalità o c'è altro al di là di essa? Non si trova ancora, in questa fase, una risposta definitiva alla questione. La risposta sarà trovata da Bontadini nella fase successiva, definita neoclassica. Questa fase si apre ufficialmente con la pubblicazione, nel 1952, del volume Dal problematicismo alla metafisica, in particolare nelle poche pagine poste in fondo al volume e intitolate Principio della metafisica45: «Il principio della metafisica afferma la impossibilità che l'essere sia originariamente limitato dal non essere» 46. Questa breve proposizione è ricchissima di implicazioni e presupposti. L'idea di Bontadini è che la leva che permette al pensiero di sollevarsi dall'esperienza alla metafisica sia l'impensabilità o contraddittorietà del divenire come ci è presentato dall'esperienza. Trovandosi in contraddizione, il pensiero è necessitato a porre dell'altro oltre l'esperienza, così da permettere di pensare in modo incontraddittorio il divenire, che è quotidiana esperienza dell'uomo. Questo altro che dobbiamo necessariamente porre è, come vedremo, Dio, l'assoluto immobile. Nei prossimi paragrafi analizzeremo questo percorso, qui presentato solo estrinsecamente, prendendo in considerazione le relative argomentazioni. La terza fase, l'ultima, definita neoparmenidea, è la più problematica. Cronologicamente coincide col periodo della disputa con Severino ed è

45 Bontadini 1952b, 245-249. 46 Ivi, p. 245.

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documentata, oltre che dagli articoli inerenti alla discussione, in un primo contributo del 1965, Sulla dimostrazione dialettica dell'esistenza di Dio e poi in Per la riorganizzazione della teologia razionale, del 1969 e in Per una teoria del fondamento, del 1973. Chi sostiene una continuità nel pensiero di Bontadini nega l'esistenza di differenze rilevanti tra questa fase e la precedente, mentre altri, come Severino, sostengono che la discussione con l'allievo abbia causato una vera svolta nel discorso di Bontadini, una svolta verso il neoparmenidismo. Da parte nostra ci limitiamo a constatare che le differenze non sono rilevabili da una descrizione estrinseca della posizione di Bontadini, la forma del discorso è la medesima: dalla contraddizione dell'esperienza alla necessità di Dio. Le differenze sono invece pienamente rilevabili se si scende ad analizzare le argomentazioni proposte da Bontadini. Qui poi si dovrà valutare se si tratti di modifiche espositive o comunque di esplicitazioni di elementi già presenti o non, piuttosto, di asserti in contraddizione con gli scritti precedenti. In questo capitolo ci occuperemo solo delle prime due fasi qui schematizzate, poiché la terza è strettamente legata alla disputa con Severino. Nei capitoli in cui affronteremo questa disputa sarà possibile, sul piano più concreto delle argomentazioni, farsi un'idea della posizione dell'ultimo Bontadini. Un'altra lacuna rilevante di queste pagine saranno le riflessioni di Bontadini sulla storia della filosofia, soprattutto sulla storia della filosofia

moderna.

L'omissione

volontaria

è

dovuta

all'interesse

primariamente teorico della disputa con Severino, per cui abbiamo scelto di presentare solo gli elementi del pensiero bontadiniano che ci sembrano funzionali o utili alla comprensione e contestualizzazione della disputa. L'inevitabile distorsione che si creerà nella presentazione di questo pensatore è qui giustificata dall'intento generale del lavoro, nel quale si offre un confronto su aspetti principalmente teorici. Gli studi sulla storia della filosofia, di cui pure ci siamo serviti, sono, d'altra parte, direttamente legati alla teoresi del maestro neoclassico, ne preparano il campo, diciamo. Chi

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volesse colmare la lacuna troverà i riferimenti necessari nella bibliografia 47.

La metafisica dell'esperienza «La filosofia, come si sa – ma non sempre si ricorda - , nasce dalla vita» 48

. Così esordisce il Saggio di una metafisica dell'esperienza, l'opera più

ampia e sistematica nella produzione di Bontadini, edita nel 1938. Il primo capitolo dello scritto, intitolato Deduzione del problema della Metafisica dell'Esperienza, cerca di elaborare una deduzione, in senso kantiano, della filosofia e dei suoi compiti a partire dalla vita. Questo è il primo dovere per un filosofo, chiedersi sempre di nuovo, immer wieder, perchè si stia facendo filosofia, perché ci si pongano certe domande e si affrontino certi problemi. La risposta non può che stare nel mostrare il cominciamento di tali problemi e questo si può sempre ritrovare nelle contraddizioni della nostra vita, siano esse l'angoscia, il dolore, l'incomprensione, la noia. La filosofia, la teoria in generale, non è un che di separato dalla vita intesa come pratica: « […] la vita stessa nella filosofia si abbraccia, facendosi oggetto di sé medesima e così facendosi nuova vita»49. Questa impostazione, questa preoccupazione che la filosofia e in particolar modo la metafisica, non diventino qualcosa di totalmente astratto è tanto più importante quanto più le considerazioni che si andranno

a

svolgere

possono

effettivamente

apparire

qualcosa

di

incomprensibile per chi non abbia mai percorso questa strada: «poiché la vita potrà sempre, con fondamento di diritto, ignorare la filosofia, se questa per prima si sarà disinteressata della vita» 50. La vita, abbiamo detto, diventa filosofia quando riflette o si interroga su se stessa, quindi quando cerca di mediare se stessa. Più precisamente questa mediazione cerca di sussumere

47 48 49 50

Di particolare rilievo sono le seguenti opere: Bontadini 1938, 1946, 1947, 1952a. Bontadini 1938, p.1. Ibidem. Ivi. p.8.

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l'immediato dell'esperienza (che è la materia prima della vita) sotto il concetto di valore che, per Bontadini, coincide con l'Assoluto. Questo richiamo all'Assoluto è qui giustificato in quanto la struttura del valore, del “valer per”, deve infine concludersi con qualcosa che sia sciolto da eventuali rimandi ulteriori, esterni. Ciò che non può avere ulteriori rimandi in quanto non lascia nulla fuori di sé può essere identificato con l'assoluto, l'essere, la totalità. Il problema che la vita si pone, che noi ci poniamo, è dunque quello di valutare la realtà, valutarne il senso o la razionalità, poiché ovviamente possiamo ricercare solo un senso o una ragione che sia tale per noi. A questo punto il problema si dirama in due sottoproblemi: il problema dell'essenza e dell'esistenza della razionalità. Infatti da un lato possiamo chiederci quale stato di cose soddisferebbe la nostra esigenza di razionalità e dall'altro possiamo chiederci se un tale stato di cose esista. Il successo di tali intenti non è affatto garantito, anzi, nulla nell'immediato può escludere che si verifichino le seguenti situazioni: 1) In nessun mondo possibile da noi immaginato la vita riceve senso; 2) la mente umana non è in grado di determinare un ordine del reale tale da soddisfare le sue stesse esigenze; 3) l'ordine è pensabile ma non esiste. La vita si trova dunque in una situazione problematica, non può immediatamente escludere l'ipotesi dell'insensatezza ma non può nemmeno affermarla. Con questo responso problematico la filosofia restituisce la palla alla vita. La vita, dal canto suo, difficilmente può, all'atto pratico, restare ferma nella problematicità, non potrà far tacere le esigenze che l'hanno spinta a questa prima, infruttuosa riflessione. Così la razionalità starà, per il momento nella forma del postulato, il quale dà, « nella forma dell'immediatezza, ciò che la filosofia dovrà dare – se potrà – nella forma della mediazione (cioè dimostrativamente)» 51. Questa mediazione dovrà dare una risposta sulla razionalità del reale e necessariamente una di queste tre: positiva, negativa, agnostica. La filosofia, abbiamo visto, indaga i rapporti tra la vita e l'assoluto e

51 Ivi. p. 35.

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indaga anche quale sia l'assoluto. Infatti, al momento, nulla contraddice l'ipotesi, ad esempio, che la vita stessa sia l'assoluto, ovvero che non lasci nulla fuori di essa. L'assoluto è un concetto eminentemente metafisico e la vita è il contenuto di cui indaghiamo la posizione rispetto tale concetto, dunque ci si prospetta una metafisica della vita. La vita, inoltre, è qui presente sia come atto di pensiero che come contenuto immediato di tale pensiero, la vita, cioè, fa esperienza di se stessa e riflette su tale esperienza. Posta la questione in questi termini si comprende perchè Bontadini parli di metafisica dell'esperienza. Con ciò si è guadagnato un punto di partenza solido e si è delineato il compito essenziale. L'esperienza, qualunque esperienza data, è l'immediato innegabile del quale si chiede di stabilire, mediatamente, la relazione con l'assoluto: identità, diversità o impossibilità di stabilire la verità di uno dei due termini contrapposti. Tale mediazione dev'essere dimostrativa per appagare definitivamente l'esigenza della vita e toglierla dalla situazione problematica. Questo è il compito che la vita affida a se stessa in quanto riflessione metafisica. Poste queste basi, dopo una lunga ricostruzione storica di questi concetti attraverso tutta la storia della filosofia, Bontadini concentra i propri sforzi sulla tematizzazione dell'esperienza. Qual è il concetto più puro e stabile di esperienza? Qual è quello immediatamente e universalmente accettabile, che si sottragga ad una eventuale contesa? «Esperienza è conoscenza immediata; e insieme e identicamente la realtà immediatamente conosciuta» 52. L'immediatezza consiste nell'esser noto per sé e non per altro, «[...] se qualcosa è mai noto – quale si sia – qualcosa deve essere noto immediatamente» 53, o anche, si può dire, nel non essere riducibile ad altro. In termini più esplicativi possiamo dire che se l'esperienza è l'apparire di un certo contenuto, il contenuto che appare è certamente ed evidentemente noto almeno in quanto tale. Sogno,

52 Ivi p. 153. 53 Ivi. p. 154.

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allucinazione, ricordo, visione sono tutte esperienze provviste di un contenuto determinato e tale contenuto è effettivamente dato: si può poi dire che il contenuto dell'allucinazione che si credeva esistere in rerum natura in realtà non avesse questo tipo di esistenza ma non si può negare che quel contenuto, nei limiti in cui si dà, ci sia noto ed esista. L'esperienza nella sua attualità ed obbiettività è una totalità di molteplici cose presenti che, in quanto riconosciute come componenti di una totalità, sottostanno ad una certa unità: questa è l'Unità dell'Esperienza, U.d.E. nell'abbreviazione di Bontadini. L'esperienza qui presa è obbiettiva poiché, come abbiamo visto, è qualcosa di determinato ed, almeno in un senso minimale, qualcosa che esiste in sé, non è riducibile ad altro. L'esperienza è qui presa nel senso di esperienza attuale e non di esperienza possibile poiché solo la prima è concretamente immediata, mentre la seconda necessita di una mediazione e di un'astrazione ulteriore, come vedremo alla fine del paragrafo. L'esperienza è qui dunque sinonimo di presenza o di apparire. In termini meno filosofici potremmo dire che se in questo momento ho esperienza di un certo numero di cose, che figurano appunto come contenuti, ho esperienza di tutte queste differenti cose insieme, ovvero come unità di una molteplicità. I riferimenti storici di questo discorso sono abbastanza evidenti, Bontadini si colloca in quel tratto di storia della filosofia che vuole porsi come neutrale, almeno metodologicamente, rispetto ai due estremi, che considera presupposti ingiustificati, del realismo, in cui l'esperienza è prodotto anche54 di una realtà esterna sia all'esperienza sia al soggetto, e dell'idealismo, in cui l'esperito è in realtà pura rappresentazione o prodotto del pensiero, senza riferimento ad altro. Questo spazio è occupato dalla fenomenologia ed è Bontadini stesso ad affermare che l'U.d.E. è fenomenologia. Però, seguendo filologicamente gli scritti di Bontadini, il riferimento non è quasi mai ad Husserl o ad altri esponenti della fenomenologia, piuttosto Bontadini vede

54 Il significato di questo 'anche' sta a indicare che nessun realismo serio ha mai negato una qualche funzione al soggetto nella costituzione dell'esperienza.

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scaturire questa posizione di sintesi soprattutto dal neo-idealismo e in particolare da Gentile. Che questa idea sia corretta e in che misura Bontadini sia in realtà debitore della fenomenologia è però questione che qui non interessa. Parlando di esperienza e di Unità dell'Esperienza sembra che si rimandi a un che di soggettivo, poiché siamo abituati a pensare che l'esperienza è esperienza fatta da qualcuno, quel qualcuno che le dà unità, il soggetto. Il problema si può porre in questo modo « […] se nel concetto stesso di presenza si intenda incluso il concetto del soggetto cui la presenza è tale» 55. Il soggetto, afferma Bontadini, non è qui presente come contenuto dell'esperienza ma ciò non toglie che sia possibile dedurre la sua esistenza come condizione formale del costituirsi dell'esperienza. Ciò che qui conta è che l'U.d.E. sussiste indipendentemente da ciò, possiamo trattarla come semplice oggetto o insieme di oggetti presenti astraendo dal fatto che, concretamente, questa sia sempre una presenza a me. Non si nega il riferimento al soggetto, si astrae da esso in quanto non è elemento immediato dell'U.d.E.. Il soggetto potrebbe qua entrare solo in quanto soggetto puro ma il soggetto puro non dice in definitiva altro che la pura presenza, per cui coincide con essa. Ma se la presenza è sempre presenza a qualcuno è anche sempre presenza di qualcosa, ciò che è presente, abbiamo già visto, è qualcosa di esistente, è presenza di un certo essere. L'essere entra nell'U.d.E. nella misura in cui è presente, ciò non esclude che esista qualcosa di non presente, piuttosto si vuole rimarcare, in polemica col realismo dualista, che l'essere che appare, che è presente, appartiene al dominio dell'essere tanto quanto ciò che non appare (pensiamo alla cosa in sé kantiana) e non ha, da questo punto di vista minore dignità. La distinzione tra diversi modi di esistere non entra qui in gioco, il sogno è reale, esiste, tanto quanto la veglia. L'Unità dell'Esperienza è l'insieme di quell'essere (quindi di un che di obbiettivo, non parvenza o sogno come contrapposti alla

55 Ivi. p. 158.

30

realtà o alla veglia) che è attualmente presente. Con le efficaci parole di Bontadini: Sogni, t'è presente una figura d'uomo: quella figura è realtà ( sia pure che sia suscitata dai fumi del tuo spirito, o mandata da un altro spirito, o uscita da un mondo che non è quello della veglia; questo riguarda un'ulteriore interpretazione di quella realtà). Vegli, ti è presente il tuo mondo di tutti i giorni: quel mondo è una realtà, o che lo pensi come realtà che prima è in sé e poi si manifesta, o che pensi che sia reale solo nel manifestarsi, che sia un accidente del tuo cervello, o uno spettacolo che Dio ti suscita innanzi: tutto ciò è rimesso ad uno svolgimento di pensiero, il quale presuppone come punto di partenza la realtà data di quel mondo56.

La tematizzazione dell'U.d.E., che qui seguiamo nelle sue linee generali, ha grande importanza nell'impianto bontadiniano in quanto vuole essere il saldo punto di partenza metodologico dal quale avanzare nel discorso metafisico, « […] come punto di partenza del sapere in generale è l'assoluto dato»57, dove assoluto sta ad indicare ciò che è noto per sé e non per altro. L'U.d.E. è realtà presente e in quanto presente è realtà saputa (giacchè a questo livello sono sinonimi), ciò significa che non è solo il punto di partenza del sapere ma è essa stessa sapere ed una parte rilevante del sapere. E' il primo sapere certo, che dunque non è, come del resto gran parte della filosofia si era già accorta, il cogito ergo sum inteso come soggettività contrapposta ad un'oggettività tanto presupposta quanto indimostrata, bensì il puro cogito inteso come presenza di certi contenuti, di un certo essere. Rispetto alla storia della filosofia, l'U.d.E., così configurata, si presenta come momento di indistinzione di realismo ed idealismo: «[…] vi è la realtà e

56 Ivi, p. 169. 57 Ivi. p. 161.

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vi è l'idea: non vi sono esplicitamente affermate – ma non vi sono neanche esplicitamente escluse – la realtà oltre l'idea, né la produzione della realtà da parte dell'idea (pensiero, soggetto, io)»58. Questo, abbiamo detto, è il punto di partenza sia come primo sapere certo sia come base metodologica sulla quale impostare correttamente tutte le riflessioni ulteriori. Ora è proprio questa possibile ulteriorità che dobbiamo affrontare e che sarà il tema principale di tutte le successive riflessioni di Bontadini. L'U.d.E. è la totalità di ciò che è attualmente presente e se qualcosa è presente possiamo affermare con certezza la sua esistenza. Ma possiamo supporre che esista anche qualcosa che non sia presente? E, soprattutto, possiamo conoscerlo? La posizione kantiana, notoriamente, afferma

che

l'esistenza

è

questione

d'esperienza

perciò

risponde

negativamente alla seconda domanda. Anche l'idealismo immanentistico, in quanto afferma l'intrascendibilità del pensiero ( che, lo ricordiamo è elemento dell'U.d.E.), nega tale possibilità. Ancor di più: nega la stessa possibilità che la trascendenza sia pensabile, in quanto, una volta pensata, rientrerebbe appunto nell'U.d.E.. La risposta di Bontadini nel Saggio è che la trascendenza e la conoscenza del trascendente sono possibili, mentre la dimostrazione del trascendente sarà lasciata ad una fase successiva. Per definire meglio il problema della trascendenza dobbiamo seguire la distinzione di Bontadini tra senso e pensiero. Entrambi sono elementi dell'U.d.E.: il sentito è pensato e il pensiero è sentito, sono due aspetti che si compenetrano e figurano entrambi come immediatamente noti. Con questa distinzione si può però definire in modo più proficuo il problema: «si dà una presenza intellegibile, ossia un pensiero, che non sia fondata soltanto sulla presenza sensibile? […] si può affermare qualcosa – in generale – per altro motivo che non sia questo solo, che questo qualcosa è presente o consta?»59. Per Bontadini la risposta è affermativa e, anticipiamo, lo sarà

58 Ivi. p. 168. 59 Ivi. p. 180.

32

anche per Severino ne La struttura originaria, dove tutta l'impostazione del problema sarà piuttosto simile anche se espositivamente diversa. Il punto fondamentale è determinare l'esatto rapporto tra senso e pensiero, tra fenomenologia e logica. In quanto pensato il sentito è sottoposto alle categorie del pensiero, pensiero che a sua volta è sempre sentito. Si tratta di una struttura concreta (la struttura originaria) che è possibile analizzare solo attraverso un'astrazione che tematizzi il pensiero come pura formalità e ne riveli le leggi. Diciamo astrazione poiché il pensiero, in concreto, è sempre pensiero di qualcosa. L'accenno alle categorie del pensiero può risultare fuorviante

in

quanto

l'espressione

richiama

l'impostazione

kantiana.

Sottolineiamo che mentre per Kant le categorie si applicano soltanto al contenuto dell'intuizione sensibile per costituire il fenomeno, non alle cose stesse, qui l'impostazione è completamente diversa: il pensiero è pensiero dell'essere, le sue categorie sono direttamente categorie dell'essere e il pensiero stesso appartiene all'essere, non ne è estraneo. Il pensiero60, sostiene Bontadini, ha delle possibilità superiori al senso, pur essendo entrambi elementi dell'U.d.E., il pensiero ha due diverse modalità di attuazione. La prima è il pensiero espressivo che è pensiero intenzionalmente diretto al sentito, pensiero del sentito che non va oltre esso. La seconda è il pensiero dimostrativo che possiede regole formali proprie per determinarsi. Essendo il pensiero dimostrativo elemento interno all'U.d.E. risulta dunque che essa ha o possiede un principio produttore. Ovvero, se il movimento del pensiero, che è sempre un andare oltre qualcosa, avviene secondo principi interni alla stessa U.d.E. allora essa non è semplice unità del dato ma anche certezza del principio produttore. Cos'è o cosa sono questi principi produttori? I principi logici fondamentali, i principi della

60 Notiamo di passaggio che il pensiero, per Bontadini e a differenza di Kant, non è totalmente riducibile al giudizio : «L'idea, come è noto, non è riconosciuta da Kant come atto o contenuto di pensiero che condizioni, anche solo logicamente, il giudizio. Pensare è unificare e l'atto di unificazione è il giudizio. L'apprehensio simplex, l'atto con cui si apprende l'essenza intelligibile della realtà sperimentale – e sia pure che tale apprendimento si esprima solo nel giudizio – non ha posto nel quadro della gnoseologia kantiana». Ivi. p. 222.

33

dimostratività (non contraddizione, identità, terzo escluso), presi nel loro valore sintetico o concreto. Un esempio pertinente può essere quello del soggetto: il soggetto non è elemento immediatamente presente, però se ciò che è presente dev'essere presente a qualcosa, allora è contraddittorio pensare che non ci sia alcun soggetto; dunque, per il principio del terzo escluso, un soggetto esiste. Ciò che importa sottolineare è che, indipendentemente dalla correttezza delle premesse di questo ragionamento, gli elementi usati sono tutti interni al senso o al pensiero, dunque all'U.d.E., ma l'esistenza del soggetto, in quanto non è presente, non lo è. L'esistenza del soggetto rappresenta qui quell'ulterorità dell'essere rispetto alla totalità della presenza che è compito della metafisica ricercare e rispetto a cui il pensiero dimostrativo è strumento di ricerca. Questi principi fondamentali non sono, come può sembrare, qualcosa di esterno che noi applichiamo artificiosamente al contenuto dell'esperienza, bensì sono la forma pura di ogni esperienza o presenza di determinata. Il discorso è abbastanza chiaro, ogni cosa presente è se stessa e con ciò esclude che sia qualcosa di altro da sé. Riprendendo l'esempio precedente: se la presenza è presenza a qualcuno, non può non essere presenza a qualcuno, ad esempio presenza a nessuno. Questo loro intrinseco legame col dato dovrebbe comportare la loro evidenza, parimenti all'evidenza della cosa data: una cosa è data ed è dato anche che sia quella determinata cosa e non un'altra. Con questo ci sembra che la possibilità di svolgere il compito metafisico, quale che sia il suo esito, positivo o negativo, sia in generale garantita. A chiusura di questo paragrafo vorremmo riprendere, in quanto tornerà utile più innanzi, una distinzione che Bontadini fa tra due possibili direzioni verso cui indirizzare il lavoro dimostrativo per la trascendenza. L'esperienza è oltrepassabile in due sensi, in quanto esperienza attuale e in quanto esperienza possibile. L'oltrepassamento dell'esperienza possibile sarà l'argomento del prossimo paragrafo, per quanto riguarda l'esperienza attuale, invece, è utile fare qui alcune considerazioni che torneranno utili più avanti. 34

L'esperienza attuale esclude da sé moltissime cose che il pensiero comune ritiene realmente esperite o esperibili. L'esempio paradigmatico è quello delle esperienze realizzantesi in tempi diversi da quello attuale e della loro conoscenza, il ricordo. Il ricordo è presenza attuale di un contenuto ma, insieme, nella coscienza non filosofica, questa presenza è accompagnata dalla convinzione che il contenuto ricordato o un altro contenuto, che ha almeno certi elementi in comune con tale contenuto ricordato, sia appartenuto ad un'esperienza, sia stato attuale in un'attualità diversa e precedente a questa, che è unica. Questa convinzione è, per ora, infondata, infatti anche l'atto memorativo è sempre, appunto in quanto atto, attuale. La supposizione che il contenuto esperito in tale atto sia stato anche in un atto diverso, che non sia hic et nunc, è, appunto, una supposizione indimostrata. Siamo sempre in una certa attualità e tale attualità è unica; l'U.d.E. attuale è, poi, l'unica base certa e inamovibile del sapere, per cui l'esistenza di altri atti è rimandata a quell'elemento attuale, il pensiero, che è in grado di trascendere l'attualità stessa.

Oltre l'esperienza. Il principio della metafisica Con

questo

paragrafo

entriamo

nel

vivo

della

speculazione

bontadiniana, in quel tratto che la contraddistingue e che è sempre stato il vero centro d'interesse del pensatore milanese, cioè l'inferenza metaempirica che porta il nostro pensiero a riconoscere l'esistenza di Dio. Questa seconda fase del pensiero bontadiniano trova la sua massima realizzazione nel Principio della metafisica, un breve testo che conclude l'opera Dal problematicismo alla metafisica. Poi, fino al 1964 Bontadini non pubblicherà su questo argomento che chiarimenti e precisazioni, in particolare negli articoli scritti per L'Educatore italiano. Ora cercheremo di seguire passo a passo questa dimostrazione, che come tale vuole porsi. «Il principio della metafisica afferma la impossibilità che l'essere sia 35

originariamente limitato dal non essere» 61. Questo principio è anche chiamato Principio di Parmenide ad honorem, in quanto lo stesso Parmenide, affermando che l'essere è e non può non essere, intendeva precisamente escludere questa limitazione. Sennonché l'impostazione di Parmenide lo portava poi a negare «la positività o plasticità del negativo simpliciter»62. Cerchiamo di chiarire i termini. Il piano originario che compare nella citazione viene contrapposto da Bontadini al piano del partecipato. Il primo sta ad indicare l'essere come totalità o assoluto, mentre il partecipato è ciò che è parte di questo tutto, non coincidendo con esso, è, potremmo dire, un punto di vista limitato. Bontadini avverte come contraddittorio che l'essere sia limitato, sul piano originario, dal non essere. Qui occorre soffermarsi attentamente sul senso di questo limitare. Se immaginiamo l'essere come una sfera che lascia fuori di sé il non essere, quest'ultimo rappresenta precisamente il limite dell'essere. Dunque in che senso l'essere non è limitato? Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro e passare dal piano originario al piano partecipato. La nostra esperienza comune sta precisamente su questo piano e ci testimonia il divenire, la limitazione dell'essere da parte del non essere. Ovvero noi facciamo continuamente esperienza di qualcosa che prima era e poi non è più, che ciò sia la vita di una persona o una semplice relazione, come l'attaccamento della foglia al ramo non è più quando quella cade in autunno. In tutti questi casi qualcosa che era non è più, lo sperimentiamo e lo accettiamo quotidianamente. Ciò che non fa problema sul piano del partecipato crea invece delle contraddizioni sul piano dell'originario. Se pensassimo che non c'è altro fuori dall'U.d.E. dovremmo ammettere che il divenire in cui un certo essere si annulla sia in ultimo opera dello stesso nulla in quanto non c'è, all'interno di tale unità, niente che sia scevro dal divenire, nessun motore immobile insomma. L'analogia con la dimostrazione aristotelica del motore immobile è

61 Bontadini 1952b, p. 245. 62 Ibidem.

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chiara, anche se qui Bontadini cerca di dimostrare l'esistenza dell'immobile prescindendo dal concetto di causa. Insomma, se nell'U.d.E. non ci fosse nessuna cosa ferma e salda nel suo essere e se non ci fosse altro oltre l'U.d.E., saremmo costretti ad ammettere che il nulla limita originariamente l'essere, ossia lo annulla, il che non è possibile in quanto implica che il negativo abbia potere sul positivo, ovvero che il negativo sia positivo. In questo senso il principio di Parmenide può essere visto come una applicazione ontologica del principio di non contraddizione, in quanto quest'ultimo esclude che il negativo possa essere il positivo e viceversa. Ma, dicevamo in precedenza, questo principio di Parmenide è tale solo ad honorem in quanto il pensiero eleatico negava qualunque positività al negativo. Cosa significa ciò? Molto semplicemente, significa che, mentre Parmenide riteneva impossibile che un qualche essere si annullasse, negando così la possibilità stessa del divenire, Bontadini ritiene invece che il divenire, perciò l'annullamento, sia un che di certissimo ma vede la contraddizione nell'ipotesi che tale atto sia opera del nulla. In definitiva: l'annullamento di un ente è qualcosa di possibile solo se opera di un altro ente ma ciò richiede necessariamente l'esistenza di un ente immobile che non è dato come contenuto di esperienza, la quale è un incessante divenire. Perciò tale ente immobile, come condizione della pensabilità del divenire, deve esistere fuori dall'U.d.E.: Il

P.d.P.

si

traduce

immediatamente

nella

affermazione

dell'immobilità dell'essere. Questa affermazione porta oltre l'Unità dell'esperienza, in quanto questa è data come diventiente. […] Il divenire deve venire dall'immobile. […] Deve venire senza far divenire l'immobile. Noi ci rappresentiamo questa necessità col principio di creazione63.

Ma il divenire è un dato incontrovertibile dell'esperienza, la posizione

63 Ivi. p. 247.

37

dell'immobile non può essere il suo annullamento. « Spiegare il divenire significa concepire la realtà in modo tale, che la presenza del divenire attestata dall'esperienza, non dia luogo a contraddizione» 64. L'immobile crea il divenire, senza essere affetto da esso, senza essere limitato dal non essere. Da questo punto di vista l'immobile rispecchia fedelmente il Dio della tradizione cristiana. Esso è creatore e trascendente. Questo immobile infatti si differenzia dal motore non mosso aristotelico in quanto il resto del mondo non gli è coeterno, bensì è opera sua: creato dal nulla solo nel senso che prima dell'atto creatore esso era nulla, essendo contraddittorio l'altro senso, cioè che il nulla stesso sia creatore e annullatore. E' utile qui rilevare nuovamente un punto che sarà decisivo nella discussione con Severino; per Bontadini il divenire non è contraddittorio in sé, il contraddittorio è solo l'azione del nulla sull'essere. Che un certo ente sia stato niente e che divenga niente non pone alcun problema, in quanto questo è ciò che l'esperienza ci testimonia quotidianamente 65. Questo risulta evidentissimo nella figura dell'ente immobile che crea e distrugge, fa divenire, l'altro da sé senza essere a sua volta coinvolto in questo processo. Questo discorso di Bontadini, al di là delle critiche di Severino, ci sembra comunque scontrarsi con alcune problematicità rilevanti. Ad esempio non è chiaro perchè sia sempre necessario un agente per far scaturire il divenire. Anche concedendo come pacifico questo punto né è chiaro perchè non si possa ipotizzare una soluzione immanentistica in cui sono gli enti che tra loro, a turno, non tutti all'unisono, agiscano uno sull'altro in modo da annullarsi. Che A causi l'essere di B e che poi B causi l'annullamento di A, mentre C causa l'annullamento di B, etc. non ci sembra nulla di immediatamente contraddittorio. Qui l'immobilità potrebbe essere solo relativa, ovvero l'ente causante il divenire potrebbe essere pensato immobile quel tanto che basta perchè causi determinati cambiamenti. La palla da

64 Bontadini 1996, p.42. 65 Cfr. Ivi, p. 46.

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biliardo che vediamo correre sul tappeto potrebbe in realtà essere immobile e causare il movimento di tutto il resto dell'universo (o meglio, di tutti gli altri contenuti dell'U.d.E.),

come, per usare un'analogia, nella teoria della

relatività non ha senso stabilire in modo assoluto che sia la terra a ruotare attorno al sole o viceversa. Anche queste spiegazioni, comunque, mantengono un carattere minimale di trascendenza, ovvero la trascendenza rispetto all'U.d.E., in effetti in questa non appaiono né la presenza del Dio immobile, né la potenza di un certo dato sugli altri (proprio come la causalità in Hume non è qualcosa di esperito). La scelta e l'esclusione di una spiegazione o dell'altra richiedono dunque una mediazione. In questo discorso si sono usate più volte, in maniera piuttosto libera, le espressioni essere e nulla, ma per Bontadini devono avere un significato ben determinato. Non si tratta, in realtà, di un processo definitorio, infatti sappiamo bene, sin dai tempi di Platone, che l'essere non è equiparabile ad un'idea che si possa delimitare per genere prossimo e differenza specifica. Non c'è alcun genere che possa includere l'essere, ovviamente. Né l'essere né il non essere hanno un είδος corrispondente. Come definire l'essere dunque? Come semantizzarlo? « […] Il significato del termine essere emerge nel rapporto originario – nella contrapposizione al negativo (al nulla)66». Si tratta di una semantizzazione per contrapposizione, ovvero l'essere è riconoscibile come tale solo in rapporto (in contrapposizione) a ciò che è altro da lui, col quale nulla ha in comune, l'assolutamente

altro. Questo altro

dall'essere è il nulla. Se il nulla è la totale assenza di determinazioni allora l'essere sarà la presenza di qualsivoglia determinazione, ciò che è determinabile è. Questo discorso richiama in un certo senso quello della logica hegeliana, dove si afferma che l'essere assolutamente indeterminato, il primo momento della triade dialettica che apre la Wissenschaft der Logik, è equivalente al nulla. L'essere, concretamente, è tale solo in quanto determinato. Questa semantizzazione sarà fondamentalmente ripresa, con

66 Ivi, p. 30.

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integrazioni e giustificazioni importanti, da Severino ne la Struttura originara. Notiamo di passaggio che questa semantizzazione ha rilevanti affinità col metodo fenomenologico in quanto accomuna tutto ciò che è determinato, nei limiti in cui lo è, sotto il tetto dell'essere. Proprio come la fenomenologia accoglie nell'esperienza tutto ciò che si dà, nei limiti in cui si dà, disinteressandosi momentaneamente delle ulteriori considerazioni che su quel certo dato si potranno svolgere. Da questo punto di vista ci sembra corretto parlare di una versione ontologica della fenomenologia, instaurando un'analogia tra darsi-non darsi e essere-nulla. Pur nella loro schematicità e incompletezza, queste pagine ci forniscono una base per comprendere nelle linee generali il discorso di Bontadini e, cosa

più

importante,

ci

permetteranno

di

avere

un

riferimento

nell'esposizione sia del pensiero di Severino, che di Bontadini è debitore, sia nella disputa di cui andremo a scrivere più avanti.

Severino e la metafisica classica La metafisica classica è stata uno degli interessi predominanti e uno dei banchi di prova più severi per lo sviluppo del pensiero di Severino. Questo fatto è intimamente collegato alle posizioni già sviluppate da Bontadini e, più in generale, dal movimento neoscolastico. L'interesse per un certo periodo della storia della filosofia non si configura come semplice interesse storiografico, anzi,

questo aspetto appare secondario. In Severino, in

Bontadini e nella neoscolastica possiamo riconoscere la volontà di riattualizzare una linea di pensiero, quella del pensiero classico, facendola passare attraverso il filtro della filosofia moderna e contemporanea. L'opera di Bontadini è paradigmatica in questo senso. Il suo punto di partenza sta nella considerazione dei problemi posti dalla metafisica classica, si evolve attraversando il loro discredito nell'età moderna, con la critica del gnoseologismo, e infine, dopo che l'idealismo ha chiuso il ciclo della filosofia 40

moderna, ritrovano se stessi epurati da tutte quelle appendici che ne hanno causato il secolare oblio. Emanuele Severino condivide fondamentalmente questa analisi storica e questo intento teorico, anche se lo sforzo maggiore, condensato in quell'opera ponderosa che è La struttura originaria, sarà principalmente rivolto, in questa fase, alla costruzione teorica. Anche nell'articolo La metafisica classica e Aristotele, pubblicato nel 1956, l'interesse per le questioni della metafisica classica fa tutt'uno con le problematiche che varranno affrontate nell'opera del '58. La pubblicazione dell'articolo è avvenuta proprio nel periodo di stesura dell'opera maggiore e ne costituisce, per certi versi, un assaggio67: La metafisica classica e Aristotele è stato pubblicato nel 1956 ed è il primo scritto in cui compare il tema, centrale nel mio discorso filosofico, che ho sviluppato nella Struttura originaria, in Essenza del Nichilismo e negli altri miei scritti: l'immediatezza – ossia l'originaria incontrovertibilità – dell'affermazione dell'eternità dell'essente in quanto essente e pertanto dell'eternità di ogni essente68.

L'assaggio

o

l'anticipazione

consiste

appunto

nell'affermazione

dell'eternità del tutto. Più precisamente consiste nella posizione di un legame immediato tra principio di non contraddizione ed eternità, dunque immobilità, del tutto. La pietra dello scandalo viene lanciata solo nelle ultime battute dell'articolo, esplicitata in poche frasi, in maniera abbastanza discordante con l'importanza del contenuto veicolato. In effetti, queste affermazioni, come ricorderà Severino stesso nella polemica con Bontadini, passarono perlopiù inosservate. In esse, come del resto in tutti gli scritti fantecedenti al 1964, la certezza logica dell'immobilità del tutto è ancora contrastata dalla certezza fenomenologica del divenire. Nonostante questa attenuante, la distanza

67 Parte di questo articolo verrà inserito come digressione storica nel penultimo capitolo di quell'opera. 68 Severino 2005, p. 15.

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rispetto al discorso bontadiniano è già qui notevole. Prima di esplicitare questo nucleo, che è il nostro vero centro d'interesse, sarà però utile seguire il discorso di Severino lungo tutto l'articolo considerato. Nell'incipit dell'articolo si discute l'idea di totalità in Aristotele, in particolare Severino sottolinea come la totalità sia l'oggetto d'interesse proprio della metafisica69. Questa era l'idea dello stesso Aristotele che poneva nella metafisica la scienza più generale di tutte, la scienza dell'ente in quanto ente, dunque la comprensione della totalità. L'opinione, celeberrima, di Aristotele sui filosofi presocratici è molto esplicativa a riguardo. Per lo stagirita i primi pensatori furono dei fisici e non dei metafisici, per la ragione che posero il loro sguardo solo sul mondo, sulla natura, tralasciando ciò che sta al di là di esso, non riuscendo quindi a comprendere tutto, la totalità eccedente il mondo. L'obiezione che Severino (come altri prima di lui) ricorda contro questo giudizio è semplice e definitiva: nella misura in cui i presocratici intendevano il mondo come la totalità sono stati dei metafisici, non dei fisici. Il fisico o, in generale, il non metafisico, è colui che tiene la sua considerazione ferma alla parte pur essendo consapevole che la totalità eccede tale parte. Talete, quando scrisse dell'acqua come principio unificatore, intendeva che questo dovesse unificare il tutto, non solo una parte di esso; così fecero anche gli altri presocratici, convinti di aver posto di fronte a sé la totalità, unificata da una qualche principio, non una parte di essa. Ed è proprio il problema del principio che segnerà la nascita della metafisica classica. Il principio è quell'elemento che accomuna tutto il molteplice, il principio è il fondamento per cui si da una totalità, che, se c'è una totalità, questa è necessariamente totalità di qualcosa che può essere omogeneamente pensato almeno sotto un aspetto. Possiamo dunque affermare che il primo pensatore che si pose il problema del principio fu colui che per primo, tentando di comprendere la totalità, si affacciò alla metafisica. Severino, discutendo del problema più innanzi, afferma che la presenza di un

69 Cfr. Ivi, p.115.

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qualunque significato implica la presenza dell'intero 70 e afferma l'analiticità di questa proposizione71, afferma cioè, come avevano già fatto Kant e molti esistenzialisti, che l'uomo è per essenza apertura alla totalità, ovvero che l'uomo tende per essenza alla metafisica. Anche se poi le conclusioni sulla riuscita di questo tendere sono diametralmente opposte. Un passo ulteriore nella comprensione della totalità verrà fatto da Anassimandro, il quale mostrerà come il principio non possa essere una determinazione particolare. Su questa stessa linea proseguirà Parmenide, che troverà la soluzione cercata: « l'orizzonte dell'intero può aprirsi solo in quanto si apra come orizzonte dell'essere, ossia l'essere è ciò per cui si costituisce l'intero e quindi è ciò per cui il molteplice è unità» 72. Il problema, in Parmenide, è che questo essere non si configura in realtà come ciò per cui il molteplice è unità, bensì l'essere è una semplice individualità che lascia fuori di sé, ovvero lascia nel nulla, tutte le differenze. Il regno della dòxa, il dominio delle differenze, in quanto si contrappone alla “ben rotonda sfera” dell'essere, dev'essere coerentemente inteso come un che di nullo. Intenderlo invece come regno dell'illusione, come sembra fare Parmenide, concede già troppo alla sua esistenza, in quanto anche l'illusione ha la sua realtà. Per questo lato la posizione di Parmenide è da ritenersi contraddittoria e sarà Platone il primo a correggerla, intendendo l'essere come molteplicità e smentendo che le differnze (il “questo non è quello”) siano una negazione dell'essere stesso: che A non sia B non significa che A non sia, tout court. Il non essere una certa cosa non è il non essere assoluto, bensì l'essere qualcos'altro. Per un altro lato, invece, la parola di Parmenide consegnerà ai posteri un'eredità molto più ingombrante,

nella cui refutazione si

impegneranno sia Platone che Aristotele. Qual è questa eredità? L'essere è, dunque, il non essere non è. Questa semplice considerazione acquista agli occhi di Severino una radicalità ed una definitività ultime in quanto da essa

70 Cfr. Ivi, p.128. 71 La giustificazione di questi asserti, sarà data da Severino nella Struttura Originaria. 72 Ivi, p.117.

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discende immediatamente la negazione del divenire, dunque l'affermazione dell'immobilità del tutto, infatti « […] se l'essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l'essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l'assurdo, o è appunto questa la definizione dell'assurdo: che l'essere non sia73».

Il principio di Parmenide 74 non è null'altro, argomenta Severino, che il principio di non contraddizione concretamente inteso. Per intenderlo in tal modo non basta asserire che sia principio ontologico e non solamente logico infatti Anche quando si avverte che il principio di non contraddizione non è soltanto una regola del pensare, ma investe l'essere, ma poi si intende l'essere (l'incontraddittorio) come di per sé indifferente a che sia o non sia – si che col il principio di non contraddizione non si viene a dire altro che quando l'essere è, è, e quando non è, non è - si intende sempre formalisticamente l'incontraddittorietà e proprio per questo la si nega: appunto perchè si lascia valere la supposizione di un momento in cui l'essere non sia75 .

Ciò che Severino vuol fare intendere, attraverso il pensiero eleatico, è che la supposizione di un essere che sopraggiungere al non essere è supposizione che identifica quell'essere al non essere. Affermare che la cenere, prima del fuoco, non era, significa affermare la nullità di un che di esistente. Infatti non affermiamo il nulla simpliciter, ma il nulla di qualcosa che, dall'altro lato, teniamo fermo come esistente. In questo senso l'origine del modo formalistico di intendere tale principio starebbe proprio in Aristotele. «Tutto è necessario allora. Ma come conciliare questa affermazione col divenire del mondo?»76. La pensabilità del divenire sarà il tema che

73 Ivi, p. 117. 74 Questa espressione è utilizzata anche da Bontadini, che però la formula, come abbiamo già visto, in maniera differente da Severino; è quindi utile tenere sempre presente che il principio di Parmenide si distingue nelle due interpretazioni. 75 Ivi. p. 118. 76 Ibidem.

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impegnerà più di ogni altro Platone e Aristotele. Da un lato essi tengono in grande considerazione l'affermazione parmenidea che il divenire implichi il non essere dell'essere, dall'altro però hanno maggiore coscienza del mondo e non possono negarne il divenire, il sorprendente dev'essere tenuto fermo. Attraverso questa problematica Severino rilegge alcuni luoghi fondamentali dei due pensatori greci. In generale, la soluzione prospettata da entrambi è quella di creare due domini: uno che conservi l'eterna immobilità dell'essere e l'altro che dia conto dell'esperienza del divenire. In questo quadro si può leggere la dottrina platonica delle idee, come risposta al “venerando e terribile maestro”. L'idea, essendo eterna ed immobile, è ciò che permette al mondo di divenire senza contraddizione. Nell'esempio della cenere l'esistenza e la non esistenza non verrebbero più a sovrapporsi sullo stesso esistente, ma sarebbero mediate da un terzo, l'idea appunto. Cosicchè quando stiamo pensando alla cenere come inesistente in realtà essa esiste sempre come idea. Ma il caso che sta al centro dell'articolo di Severino è quello di Aristotele, il quale si spinge molto innanzi sul piano della pensabilità del divenire, sostituendo il concetto troppo sfuggente di divenire con quello più solido di diveniente. L'idea di Aristotele è che inserendo un terzo, la sostanza, che prima sia affetto da un certo non essere e successivamente da un certo essere, sparisca la contraddizione. In effetti in questo modo si evita di dire, dello stesso essere che è e che non è, si evita di identificare essere e non essere. Seguendo questa definizione, fa notare Severino, richiamando implicitamente anche l'impostazione bontadiniana, possiamo dire che l'esperienza è la prima sostanza. Infatti l'unità dell'esperienza è affetta prima da un certo contenuto e poi da un altro contrario: è quell'orizzonte permanente che si va via via realizzando secondo determinazioni prima non possedute – senza che con ciò si intenda negare quella pluralità di permanenze, interne all'esperienza, che valgono appunto come la pluralità delle sostanze cui si riferisce il

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dettaglio tecnico dell'artisotelismo77.

Ma, anche avvalendosi di queste precisazioni aristoteliche, l'argomento parmenideo si ripresenta con prepotenza nei confronti del divenuto, in cui comunque c'è sempre una successione di essere e non essere, sia pure relativi ad una certa affezione. Il vero nucleo della risposta Aristotelica, avverte Severino, sta però altrove, nella dottrina di atto e potenza. L'atto è presupposto alla potenza e dunque al processo del divenire, perciò viene a configurarsi come quell'eterno immobile che dev'essere, stando al discorso parmenideo, l'essere. Aristotele afferma inoltre che il motore immobile non è semplicemente in atto ma è l'atto stesso, ovvero è la dimensione dell'essere immutabile, o di Dio. Ciò che Aristotele guadagna rispetto a Parmenide è il mondo, o meglio, le condizioni della conciliazione di Dio e del mondo, le condizioni che ci permettono di affermare l'eternità senza negare il divenire attestato dall'esperienza. «Il teorema aristotelico del primato dell'atto è lo stesso teorema platonico dell'implicanza dell'idea da parte del sensibile (ossia entrambi assolvono lo stesso compito in relazione alla problematica parmenidea»78. Il capitolo continua con un dialogo serrato con alcuni illustri esperti di Aristotele, quali il Carlini e lo Sciacca, attraverso il quale Severino argomenta ed esplicita le sue idee. Ma il nucleo fondamentale dell'articolo si trova, come abbiamo già accennato, nelle ultime righe, dove Severino mette a fuoco due elementi molto significativi: da un alto la differenza tra l'interpretazione del principio di permanenza ( principio di eternità ed immobilità dell'essere ) data da Bontadini da quella fornita da Severino; dall'altro lato, rispondendo al Carlini, Severino da una spiegazione, breve ma densa, del ruolo che ha la temporalità rispetto a tale principio. Rispetto a Bontadini, Severino rivendica l'idea che l'eternità dell'essere discenda immediatamente dal principio di Parmenide (o principio di non

77 Ivi, p. 120. 78 Ivi, p. 122.

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contraddizione), mentre per Bontadini questo legame è mediato, come abbiamo visto, dalla considerazione sulla limitazione. Infatti per Bontadini il Principio di Parmenide suona così: l'essere non può originariamente essere limitato dal non essere. Solo in un secondo momento, attraverso il ragionamento che abbiamo visto nel precedente paragrafo, si arriva ad affermare la necessità di un'ente eterno, ovvero non limitato. Inoltre si può qui sottolineare un'altra importantissima differenza, che discende da quest'ultima. Bontadini arrivava a considerare che l'eternità dovesse essere garantita solo alla sfera del divino creatore, che garantisce la razionalità del processo di divenire del mondo. Severino, invece, coerentemente con la sua interpretazione di Parmenide dovrebbe affermare (ma qui non lo fa ancora esplicitamente) che ogni ente è eterno in quanto tale, non perchè abbia un ruolo peculiare rispetto agli altri, come può essere quello di creatore. Riguardo alla temporalità, invece, Severino risponde ad un'obiezione del Carlini, che potrebbe riguardare anche Bontadini. L'obiezione è che il concetto di permanenza dell'essere implica il concetto di temporalità. Severino asserisce che « anzi, il permanente, qui, è proprio l'esclusione del temporale. Permanenza significa infatti che l'essere è; e cioè che in lui non vi è nulla di nuovo. Poiché il sorgere del nuovo esige la nullità dell'essere» 79. Se con permanenza si intende ciò che permane rispetto ad una variante, allora è certo che questa implichi lo scorrere del tempo: lo scorrere del tempo infatti non è altro che l'avvicendarsi di certi contenuti o di certe cose; non c'è tempo senza cambiamento. Ma qui la permanenza è intesa come la permanenza di ogni essere, dunque come la permanenza del tutto. Se il tutto permane non c'è null'altro che possa muoversi o cambiare per segnare il tempo. Se l'essere permane eternamente, il divenire e il tempo sono definitivamente esclusi.

79 Ivi, p. 142.

47

La Struttura originaria: l'immediatezza La struttura originaria, pubblicata nel 1958, è la prima opera pienamente organica di Severino. Gli argomenti in essa discussi, insieme alla soluzione di diversi problemi qui affrontati, accompagneranno il percorso di Severino fino ad oggi, passando attraverso la svolta del 1964, mantenendo in buona parte inalterata la loro validità. Come scrive l'autore stesso, nella fondamentale introduzione all'edizione del 1981, quest'opera « rimane ancora oggi il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio 80». La struttura originaria pone tutte le premesse per la svolta successiva, ovvero analizza esaustivamente il piano originario dal quale è possibile affermare che l'eternità dell'essere è l'evidenza suprema, non contrastata da nessun'altra evidenza, neppure da quella che dice il nullificarsi e il venire dal nulla degli enti. L'analisi però, non raggiunge ancora, qui, la celebre conclusione severiniana, ma si ferma, per così dire, un passo prima, non essendo pienamente consapevole delle conseguenze da trarre. All'edizione del 1981 Severino anteporrà una corposa introduzione dove ne vengono messi in luce i limiti, gli errori e il rapporto con gli scritti successivi, in modo da poterne fare una lettura consapevole. Per quel che ci riguarda tratteremo, in coerenza con l'evoluzione cronologica, La struttura originaria per il valore che ha assunto al momento della sua prima pubblicazione, sottolineando la continuità

tra

quest'opera

e

l'insegnamento

bontadiniano.

In

effetti

quest'opera può essere considerata per certi aspetti come il capolavoro dell'indirizzo di pensiero bontadiniano, segnandone l'apice e l'inizio della scomparsa allo stesso tempo. Riguardata con consapevolezza storica l'opera appare come una grandiosa sintesi ed un originale sviluppo dei motivi che hanno accompagnato Bontadini dal Saggio di una metafisica dell'esperienza al

Principio

della

metafisica,

dall'attenzione

al

piano

protologico

dell'esperienza, attraverso un approccio debitore dell'idealismo e della

80 Severino 1981a, p. 13.

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fenomenologia, al tentativo di ripresa del discorso dimenticato della metafisica classica. Tutti questi elementi vengono ripresi e riorganizzati con una sistematicità mai conosciuta da Bontadini, ma, allo stesso tempo, con un'originalità che porterà necessariamente a trascendere la più fedele impostazione iniziale. Presa in sé quest'opera presenta delle notevoli asperità concettuali e linguistiche che richiedono un paziente lavoro per essere comprese appieno. Si tratta di un'opera rara per complessità e pretesa fondativa, che non è possibile riassumere esaustivamente in poche pagine. L'andamento non è scorrevole ed ogni passaggio viene lungamente argomentato prendendo in considerazione e confutando le possibili obiezioni. Inoltre, l'intera opera viene presentata dallo stesso autore come una sorta di struttura olistica che va afferrata nell'insieme, ma che richiede il fondamento di ogni sua parte. Per questi motivi saremo costretti a presentare una selezione di punti, tra i più rilevanti per una comprensione generale del pensiero severiniano 81, restando ferma l'avvertenza che questo implica inevitabilmente un certo grado di distorsione. « La struttura originaria è l'essenza del fondamento. In questo senso, è la struttura anapodittica del sapere – l'άρχή της γώσεώς – e cioè lo strutturarsi della principalità, o dell'immediatezza. Ciò importa che l'essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l'unità di un molteplice»82.

Con questa definizione formale, nelle prime righe dell'opera, Severino mette a fuoco l'oggetto dell'analisi che sarà svolta lungo tutto lo scritto. La struttura originaria come struttura anapodittica dell'immediatezza. Per capire il significato di questa espressione dobbiamo analizzare i suoi termini. L'immediatezza qui indica il per sé noto o il noto non per altro, il non mediato,

81 Rimandiamo chi volesse approfondire maggiormente quest'opera, oltre che a Severino 1981, a Cusano 2011, in particolare le pgg. 103 – 220. 82 Severino 1981a, p. 107.

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ovvero quella base esperienziale che è presente come non smentibile, la cosa che si dà, nei limiti in cui si dà. Il richiamo implicito è alla contrapposizione tra l'immediatezza dell'esperienza e la mediatezza del ragionamento, dove l'esperienza non è però da intendersi, come vedremo, in senso meramente fenomenologico, ma come includente aspetti logici o categoriali. L'anapoditticità è l'assenza di dimostrazione, nel senso che i dati immediati dell'esperienza sono evidenti, per sé noti e non ha alcun senso chiederne la dimostrazione, anzi sono il primo elemento da cui partire per sviluppare una dimostrazione. Il termine struttura sta invece ad indicare, come già evidenziato nella citazione, il carattere di molteplicità o, più precisamente, di unità del molteplice in cui consiste il piano originario. Questa considerazione intende sottolineare che ciò che comunemente si chiama il contenuto dell'esperienza è una molteplicità in cui ogni termine sta in una precisa relazione con tutti gli altri termini ed ha il senso che ha proprio in quanto sta in quella relazione e non in un'altra qualsiasi. Come noterà subito il lettore attento, questo concetto è per molti versi affine all'Unità dell'Esperienza bontadiniana, ma vedremo presto in che senso questa affinità venga oltrepassata. Abbiamo prima sottolineato il carattere anapodittico della struttura originaria, ma, precisiamo, tale indimostratività non deve richiamare in alcun modo un senso di infondatezza, infondatezza che spesso si sospetta di tutti i richiami all'evidenza. La struttura originaria, al contrario, volendosi porre come l'essenza stessa del fondamento, ha modo di fondarsi togliendo la sua negazione. Questo toglimento ha la medesima forma, fondamentale nel pensiero severiniano, dell'élenchòs aristotelico, ovvero si può mostrare come chi negasse la struttura originaria in realtà la presupporrebbe. Infatti la struttura originaria contiene o ha come suo momento, il principio di non contraddizione che è la possibilità stessa della negazione; ovvero, solo in quanto è contraddittorio tener fermo sia A che non A facciamo una “scelta” per l'uno o piuttosto per l'altro, che altrimenti la negazione della struttura non sarebbe tale, in quanto compresente, in modo incontraddittorio, alla sua 50

affermazione. Sull'altro lato, del contenuto dell'esperienza possiamo dire, in accordo con la fenomenologia, che la negazione del contenuto è negazione di un contenuto particolare o magari di un'interpretazione (una mediazione) dell'esperienza originaria, ma qualcosa deve immediatamente apparire, che poi sia sogno o esista in rerum natura, questo è un aspetto che andrà approfondito mediazionalmente. La negazione di un certo apparire presuppone che il contenuto negato, ciò che appare, appaia, che altrimenti non si negherebbe nulla. Qui Severino, come Bontadini, richiama criticamente la filosofia moderna, soprattutto Cartesio,

che ha inserito

indebitamente un presupposto gnoseologistico in questo discorso. Ovvero ha separato l'apparire dall'essere, mettendo in dubbio che ciò che appare sia essere. In questo modo si è inoltrato, senza successo, nella ricerca del fondamento del fondamento. Questo è accaduto perchè Cartesio cercava la certezza di un certo tipo di essere ( la res extensa ), non accorgendosi che anche l'apparire, indipendentemente dal suo statuto ontologico, esiste ed, anzi, è originariamente l'unico oggetto valido d'analisi, ovvero l'unico luogo dal quale si può cominciare un lavoro mediazionale. Perciò le negazione della struttura originaria, su entrambi i lati è negazione in actu signato ed affermazione in actu exercito83. A questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro perchè la struttura originaria sia l'essenza del fondamento, dunque ciò che fonda ogni sapere. Lo è in quanto il suo contenuto e la sua forma sono immediatamente presenti, in modo tale da tenersi assolutamente fermi contro la loro negazione. Ora, ogni sapere dimostrativo, mediato, necessita, da ultimo, di un fondamento immediato, un fondamento che rompa la catena dei perchè, quel punto incontrovertibile che è sempre stato compito della filosofia ricercare. La struttura originaria è il luogo ( la descrizione formale del luogo ) dove è possibile rintracciare questo fondamento. Abbiamo infatti visto che i due elementi principali di tale struttura, il principio di non contraddizione e il

83 Cfr. Ivi, pp. 107-108.

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contenuto fenomenologico, sono tenuti assolutamente fermi da una “dimostrazione” elenchica. Abbiamo fatto riferimento a due lati o momenti della struttura originaria, uno logico ed uno fenomenologico. Questo aspetto è di fondamentale importanza per la comprensione del discorso severiniano. La struttura originaria

vuole

mostrare

come

questi

due

aspetti

distinti

siano

concretamente inseparabili, l'uno implicando l'altro. Per introdurre meglio la questione si può far riferimento alla fenomenologia come momento astratto della struttura. Storicamente, la fenomenologia ha portato l'attenzione sulla cosa, il contenuto esperienziale o il contenuto che appare, cercando di inserirlo in uno spazio precategoriale che non fosse già colluso con qualche interpretazione ontologica ( realismo ed idealismo in modo paradigmatico ). Ciò che, per Severino, la fenomenologia ha tralasciato è quell'aspetto logico o categorico che entra a costituire l'esperienza immediata tanto quanto il contenuto, ovvero da forma ad esso, creando un sinolo che in realtà si può sciogliere solamente in modo astratto. La questione è più semplice di quanto possa sembrare. Se ci appare una lampada abbiamo da un lato quel contenuto fenomenologico che è tale lampada e dall'altro il principio di identità / non contraddizione ( che, vedremo, per Severino sono lo stesso 84) che ci dice che quella lampada è quella lampada e non qualcos'altro. Se astraiamo dal punto logico non abbiamo modo di escludere che ciò che appare non sia ciò che appare, che non sia identico a sé. Con le parole di Severino: «L'affermazione dell'essere F-immediato si fa tener ferma di contro alla negazione non perchè, semplicemente, quell'essere è per sé noto, ma perchè esso è per sé noto come incontraddittorio 85». Questa

astrazione

dall'incontraddittorietà

operata

dalla

pura

fenomenologia (ad esempio quella husserliana) è tale solo in sé, ovvero si tratta del concetto astratto dell'astratto., o più semplicemente la posizione

84 Cfr. Ivi, pp. 178-179. 85 Ivi, p. 207

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puramente fenomenologica non sa di escludere da sé un elemento senza il quale la sua stessa posizione non sussistrebbe. Se non fosse semplicemente tale in sé ma fosse saputa come astrazione si passerebbe al concetto concreto

dell'astratto

come

accade

in

quest'opera,

ovvero

alla

consapevolezza dell'inseparabilità dei due momenti. Il momento logico è in realtà sempre presente e questa presenza è necessaria in quanto senza di esso non si potrebbe costituire l'esperienza, come, dall'altro lato, la semplice categoria non esiste mai in sé, ovvero non può esistere come scollegata dal contenuto. Ciò considerato, si hanno quindi due tipi di immediatezza, che Severino chiama Immediatezza Fenomenologica ( F-immediatezza) e Immediatezza Logica (L-immediatezza), ma tale dualità è posta solo astrattamente, il piano del concreto ha già decretato l'unità dei due momenti. Nel concreto esiste solo una Immediatezza Logico-Fenomenologica (F-Limmediatezza). Abbiamo così introdotto due nuovi concetti: il concetto astratto dell'astratto e il concetto concreto dell'astratto. Anche questo tema, reminiscenza della logica hegeliana, è fondamentale. Il concetto astratto dell'astratto è concetto di un elemento della struttura originaria o di un insieme di suoi elementi86, non saputo come elemento. Ovvero viene considerato un elemento avente n relazioni come se non ne avesse quelle n relazioni. L'elemento viene astratto cioè dal suo contesto senza la coscienza di questa astrazione, dunque non si pensa nemmeno che l'elemento astratto sia astratto ma lo si ritiene concreto. Perciò il concetto è a sua volta astratto poiché è separato da questa consapevolezza. Il concetto concreto dell'astratto87 è invece connesso alla consapevolezza dell'astrazione, ovvero sa l'elemento astratto come astratto 88, è il caso del nostro discorso, dove

86 Più in generale dovremmo dire “elemento di una totalità strutturata”, che quindi può anche non essere quella originaria. 87 Questo concetto è indicato nell'opera col simbolo Γa. 88 Notiamo di passaggio che il concetto concreto del concreto invece non esiste, in quanto implicherebbe l'apparire ad una coscienza di tutte le determinazioni esistenti, nelle loro relazioni, contemporaneamente.

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l'astrazione è necessaria ai fini, appunto, discorsivi ma viene sempre tenuta ferma come tale. Da questo punto di vista la fenomenologia è ferma al concetto astratto dell'astratto in quanto non è consapevole della sua separatezza dal momento logico. L'opera di Severino intende invece muoversi all'interno del concetto concreto dell'astratto. Questa posizione porta con sé una considerazione della categoricità estranea alla fenomenologia, nella misura in cui la fenomenologia non riesce ad oltrepassare il dato. Il piano categoriale o logico è ciò che permette il passaggio alla metafisica, intesa come oltrepassamento del mero dato, dell'unità dell'esperienza. Il movimento è analogo a quello che abbiamo già visto in Bontadini, con la differenza che nel pensatore milanese non si ritrova la stessa attenzione verso la struttura protologica concreta, sinolo di fenomenologia e logica. Il piano metafisico era, per Bontadini, una conquista successiva ( discorsivamente e cronologicamente) all'esposizione dell'unità dell'esperienza. Per Severino invece: L'esposizione concreta della struttura originaria mostra infatti che la metafisica, come teorematicità o categoricità, appartiene alla struttura stessa dell'immediato. Il sapere metafisico non è, rispetto al fondamento, un'ulteriorità da conseguire, ma appartiene all'essenza stessa del fondamento; ossia non da tregua, o non consente che ci si possa ritrarre su di un piano d'appoggio, dal quale poi si abbia a partire per il viaggio metafisico 89.

Con ciò Severino vuol dire che il sapere metafisico è già presente come quel sapere che dà forma al contenuto fenomenologico. Ovvero, il principio di contraddizione/identità, che è principio metafisico, in quanto supera la mera fenomenologia, è già presente sul piano originario. Tanto basta per giustificare, pur in senso minimale, la metafisica. La differenza con la complessa mediazione bontadiniana è evidente e lo sarà ancora di più

89 Ivi, p. 109.

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quando chiariremo il senso che acquista il principio di non contraddizione per Severino. Ma cosa c'è, dunque, nella struttura originaria? Costa sta sul piano dell'originario? La risposta a questa domanda, in maniera formale, è data dal giudizio originario: « Il pensiero è l'immediato. O meglio […] tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l'immediato» 90. Il termine pensiero potrebbe risultare fuorviante nella misura in cui richiama una distinzione, qua assente, tra pensiero e realtà o peggio, tra pensiero ed essere. Il pensiero viene qui a significare tutto ciò che è per sé noto, ovvero tutti i contenuti del pensiero: dal sogno al dolore fisico, dalla vista all'idea, ogni cosa è mediata dal pensiero nel senso che tutte le cose esistono sicuramente come apparenti alla nostra coscienza, mentre è problematico che esistano anche indipendentemente da essa. Ma questa problematicità non degrada il contenuto che appare a mera illusione o a non essere. Il contenuto che appare è nelle modalità in cui si dà. Anche l'apparire di questo contenuto è parte del contenuto che appare. Quest'ultimo è un punto di capitale importanza, sul quale Severino si sofferma per parecchie pagine saggiandone la consistenza. Se non mi apparisse che mi appare qualcosa, io non potrei affermare che qualcosa mi appare. Il rapporto è analogo a quello che sussiste tra coscienza e autocoscienza. Ciò a cui bisogna prestare attenzione è che l'apparire dell'apparire non è un altro rispetto al primo apparire. L'apparire è semplicemente contenuto di sé medesimo e lo si può riguardare o dal lato del contenuto o dal lato del contenente, senza però porre la loro separazione astratta. Se infatti si trattassero come due diversi apparire poi si dovrebbe prolungare il discorso chiedendo se l'apparire dell'apparire appaia e così via91. La struttura originaria include quindi tutto ciò che appare attualmente, incluso questo apparire. Il concetto di attualità è, in definitiva, sinonimo di

90 Ivi, p. 114. 91 Volendo abusare di un'analogia matematica, si potrebbe dire che l'apparire è sottoinsieme improprio di sé stesso.

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apparire (o almeno coestensivo), infatti se una cosa appare, mi sta apparendo ora, anche nel caso di un ricordo di ciò che mi è apparso precedentemente, quel ricordo mi è attuale in quanto ricordo. Una cosa che non appare nella struttura originaria e il cui non apparire è notevole, è l'esistenza di altre coscienze, o la molteplicità di strutture originarie. Infatti all'interno della struttura originaria non può apparire un'altra struttura originaria, se apparisse potrebbe apparire solo come contenuto della prima struttura, dunque non come quella totalità che è la struttura originaria. Tutti i motivi per cui noi crediamo fermamente nell'esistenza di altre coscienze, dal punto di vista della struttura originaria, ovvero dal punto di vista dell'immediato, sono infondati. Nell'immediato non abbiamo altro che elementi allusivi dell'esistenza di altre coscienze, il che non esclude la possibilità di dedurne mediatamente l'esistenza 92. Questa situazione solipsistica, in cui l'unico fondamento presente è il mio, fa affermare a Severino che originariamente « […] io sono l'unico filosofo e la mia è l'unica filosofia»93. Questa affermazione apparentemente scandalosa va letta alla luce della situazione che si crea rispetto alla problematicità dell'esistenza di altre coscienze, quindi di altre strutture originarie, di altri fondamenti 94. Qual è, chiediamoci ora, il rapporto di questa struttura col significato? Se è vero che la struttura originaria è l'immediato, il per sé noto, significa che essa è anche il primo significato ed è anzi il criterio stesso del significare, in quanto ogni proposizione possibile deve “agganciare”, in modo più o meno mediato, il suo significato al livello dell'esperienza, al livello immediato. Si può affermare che Severino riprende per un certo verso la teoria neopositivistica della verificazione, correggendola però con una concezione olistica della semantica ed eliminando il presupposto della necessità di riferirsi, da ultimo, ad elementi assolutamente semplici 95. La proposizione è,

92 93 94 95

Deduzione che Severino realizzerà in opere molto successive, ad esempio Severino 2001b. Ivi, p. 128. Meglio: strutture originarie identiche nella forma ma varianti nei contenuti. La questione è piuttosto complessa, perciò rinviamo a ivi, pp. 129 – sgg. e a Berto, 2003.

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in generale, solo espressione di elementi della struttura originaria e ritrova in questi il suo significato. In quanto distinta da tali significati diventa un'astrazione necessaria solo alla sfera del discorso, dove è possibile dire una cosa fuori dell'altra, ad esempio: questa lampada è accesa. In quest'ultima proposizione, secondo una lunghissima tradizione, si trovano un soggetto ed un predicato. La relazione tra questi due elementi è vista come estrinseca, perlopiù accidentale, come è chiaro nel caso di proposizioni sintetiche a posteriori96. Riprendendo l'esempio: che l'accensione sia o meno di quella lampada non fa di quella lampada un'altra lampada, o anche: quella lampada è, per la sua esistenza, indifferente al suo essere spenta o essere accesa. Questa considerazione si può fare solo astraendo la lampada dalle sue relazioni concrete, dalla struttura a cui è legata, così da pensare poi come indifferente il suo esser accesa o spenta. Se invece la discorsività non fosse astrazione ma rispecchiamento del concreto dovremmo dire che è quella lampada che è accesa ad essere quell'accensione che è di quella lampada, ovvero non dovremmo più considerare che l'adesione del predicato al soggetto sia un ché di accidentale, poiché ciò non è mostrato immediatamente dalla struttura originaria. Anzi, la struttura originaria nega esplicitamente questa accidentalità. Qui basti sottolineare che il piano discorsivo, di cui ogni proposizione è parte, dev'essere pensato, una volta che si è afferato il senso di quell'unità che è la struttura originaria, come astrazione ( concetto concreto dell'astratto ), come un dire successivamente e separatamente ciò che è unito. La sostanza, per prendere la questione da un altro lato, come sostrato permanente al variare degli accidenti, non è qualcosa di originariamente affermabile, è un'interpretazione. La proposizione più significativa, il cui significato si costituisca sul piano originario, afferma che l'essere è essere o, all'inverso, che l'essere non è non essere. Questa proposizione costituisce concretamente il principio di non

96 Qui trattiamo principalmente il caso di proposizioni sintetiche a posteriori poiché sono quelle che più contraddicono il modello proposto da Severino. Ciò non toglie che anche le proposizioni analitiche assumano un senso ed una formulazione più concreta alla luce di questa analisi.

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contraddizione ed il principio di identità nella loro reale unità. Che l'essere sia l'essere è un significato che appare di fatto, dunque un elemento fenomenologico97, ma allo stesso tempo la sua evidenza non può limitarsi al piano fenomenologico. Infatti noi troviamo nell'immediato

anche la

negazione che l'essere possa non essere, cosa che invece non accade con la lampada accesa, stante la possibilità di ritrovare quella stessa lampada spenta. La connessione che lega l'essere a sé stesso è, ovviamente, l'identità, mentre ciò che separa l'essere dal non essere o un certo essere da un altro essere è il principio di non contraddizione. I due principi sono talmente legati che in realtà si può parlare di due aspetti dello stesso principio. Ciò che distingue questa immediatezza da quella fenomenologica è l'immediatezza della connessione tra soggetto e predicato nella proposizione esaminata. Immediatezza che esula da ogni connessione fattuale, qui cioè viene tolta la possibilità di progettare una negazione della proposizione. Tale impossibilità non è semplicemente asserita, si può mostrare concretamente, come già avvertito, la sua consistenza attraverso l'élenchos aristotelico. L'analisi delle proposizioni e loro riduzione a proposizioni identiche occupa decine di pagine nel testo, al momento ci sembra che siano stati dati elementi sufficienti ad inquadrare la questione. Basta tener presente che ciò che una proposizione dovrebbe esprimere, il suo significato concreto, non è un legame estrinseco tra soggetto e predicato, ma l'identità dell'unione di soggetto e predicato con sé stesso. Per tornare ad un esempio espositivamente semplice: l'esperienza non ci mostra mai la lampada al di fuori del suo essere accesa o del suo essere spenta, noi vediamo la lampada che è accesa ed è questa l'unità di misura che entra nella proposizione e della quale si deve predicare l'identità con sé stessa 98. Che tutte le proposizioni

siano,

in

definitiva,

delle

identità

è

sicuramente

una

97 Si intenda qui per essere qualunque cosa che è, ovvero ogni possibile determinazione. 98 La questione, è forse superfluo ricordarlo, è molto più complessa. Basti pensare che qui si stanno riducendo tutte le proposizioni alla forma con copula che esprima l'identità. Il passaggio, così esposto, non è giustificato, è quindi necessario rimandare in particolare ai capitoli 3 e 6 dell'opera.

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constatazione controintuitiva ed anche contraria alla tendenza della filosofia contemporanea, basti pensare che l'opera di Severino appare pochi anni dopo il celebre articolo di Quine, Two dogmas of empiricism, dove si concludeva per la sinteticità di ogni proposizione. A parte questa considerazione storica, nel testo severiniano è anche possibile rintracciare una certa attenuazione di questa posizione a favore del senso comune. Infatti, anche se ogni giudizio non contraddittorio è un'identità, permane una distinzione interna ai giudizi identici, tra proposizioni analitiche e sintetiche. Le prime sono quelle la cui negazione è L-immediatamente contraddittoria, le seconde sono quelle la cui negazione si può mostrare come contraddittoria solo mediatamente99.

L'aporetica del nulla L'aporetica che intendiamo considerare compete al non essere, non in quanto questo è un certo non essere – ossia è un certo essere (essere determinato) – ma in quanto il non essere è «nihil absolutum», l'assolutamente altro dall'essere, e quindi – si può dire – in quanto è ciò che sta oltre l'essere, inteso questo come totalità dell'essere. Aporia antichissima – della quale già Platone ebbe piena coscienza -, ma comunque sempre in certo modo evitata, elusa, e infine lasciata irrisolta 100

.

Così Severino sintetizza l'argomento affrontato nel quarto capitolo de La struttura originaria. Si tratta di un capitolo di centrale rilevanza ed interesse, anche indipendentemente dal resto del discorso severiniano. L'aporia del nulla, nelle sue varie formulazioni, riguarda da un lato la pensabilità e comunicabilità della posizione del nulla rispetto all'essere e

99 Cfr. Ivi, pp. 277 – 281. 100 Ivi, p. 209. Per questo paragrafo si vedano anche Cusano 2012.

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dall'altro investe il tema della contraddizione, analizzato sulla scia del rapporto

essere

nulla.

«L'autocontraddittorietà



ogni

significato

autocontraddittorio – è il nulla stesso »101, questa è la tesi più importante che emerge da questo capitolo, sul quale ci soffermeremo in questo paragrafo. L'aporia del nulla si presenta come quella situazione per cui da un lato il nulla, come totalmente altro dall'essere, è ciò di cui non si può parlare, in quanto non può esprimere positivamente un significato, mentre dall'altro lato del nulla si parla, ad esempio dicendo che non esiste, ovvero che sta fuori dall'intero

dell'essere.

Questo

può

portare

a

riconoscere,

anche

esplicitamente come nel caso di Federgiso di Tours nella sua Epistola de nihilo et de tenebris, che dunque il nulla è. Che questa aporia sia uno pseudoproblema, un inciampo linguistico, è, ad esempio, l'opinione di Carnap. Il problema per Carnap si dovrebbe risolvere riferendosi solamente al positivo, che questo sia solo il contenuto dell'esperienza o altro. Un tale approccio si può realizzare sostituendo a una proposizione quale «al di fuori dell'essere c'è il nulla » con una proposizione del tipo « non esiste un x tale che x non appartenga alla totalità del positivo ». Nel secondo caso viene a mancare il riferimento esplicito al nulla, ma, osserva Severino, il problema non si risolve, in quanto basta chiarire il significato di « non appartenere alla totalità del positivo » per rendersi conto che questo significato è esattamente una perifrasi di ciò che intendiamo col termine « nulla ». Ci troviamo cioè sempre a parlare dell'assolutamente negativo, trattandolo in qualche modo come positivo. Il problema è stato affrontato, sotto un altro aspetto, anche da Heidegger in Was ist Metaphysik?, scritto nel quale il filosofo tedesco pone la seguente aporia: porre il nulla assoluto, come l'assolutamente altro dall'essere, significa porre o pensare, allo stesso tempo, anche la totalità dell'essere che viene oltrepassata. Ma questa totalità non può essere posta o pensata come concreta o determinata, resta posta solo in maniera ideale o formale, dunque il nulla nega solo l'essere formale. Ma che differenza può

101 Ivi, p. 228.

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mai esserci tra nulla formale e nulla reale? Nessuna evidenetemente. Da ciò Heidegger deduce che il nulla non possa essere afferato logicamente o intellettualisticamente, ma occorra comprenderlo per altre vie. Gli errori di questo ragionamento sono due. Il primo è la presupposizione, ingiustificata in Heidegger, che l'intero dell'essere sia più ampio dell'esperienza attuale. Il secondo, più definitivo, è quello per cui alla negazione dell'essere come reale e come ideale debbano corrispondere un nulla ideale e uno reale. Non c'è qui alcun motivo per supporre ciò, il nulla può negare entrambe le accezioni dell'essere senza doversi perciò sdoppiare. Un'ultima posizione che nel testo viene presa in considerazione è quella proposta da Bergson nell'ultimo capitolo de Evolution Créatrice, dove il pensatore francese sostiene che l'idea di nulla è «destructive d'elle-même », ovvero autocontraddittoria, e sostiene ciò in quanto il nulla, essendo negazione di un positivo ( nel nostro caso dell'intero positivo ), presuppone la posizione del positivo che viene negato, poiché non si può negare ciò che non è posto. La situazione presenta rilevanti analogie con l'aufhebung hegeliano, in quanto considera il negativo come più ricco del positivo che nega, infatti per togliere quest'ultimo il negativo deve, in qualche modo, conservarlo. Severino però obietta che questa

idea

in

realtà

non

si

presenta

come

contraddittoria.

L'autocontraddittorietà è in realtà presente, ma è presente all'interno del significato concreto nulla e non inficia, come vedremo, la posizione relazionale di questo nulla concreto con altri elementi del discorso. Spiegare questa situazione è lo stesso che comprendere l'aporia del nulla, quindi occorre approfondire questo punto. Il concetto concreto di nulla è composto da due momenti astratti: il nulla-momento come positivo significare ( momento per cui del nulla si può, in qualche modo, parlare ) e il nullamomento come assolutamente negativo. Qui sta l'effettiva contraddizione « per cui la positività di questo significare è contraddetta dall'assoluta negatività del contenuto significante» 102. Una soluzione a questa aporia

102 Ivi, p. 213.

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venne proposta da Frege seguendo la sua distinzione tra Sinn e Bedeutung, e affermando che il nulla possiede appunto un senso, un modo di porsi, ma non un significato o una denotazione. Questa distinzione in realtà non risolve l'aporia, che si ripresenta chiedendo conto di come questa assoluta assenza di significato abbia un senso, dunque un modo di porsi 103. La soluzione di Severino tende invece a preservare il carattere contraddittorio del nulla, ma solo all'interno dello stesso concetto, preservando cioè la possibilità di parlarne, proprio come ( ed è il rilievo fondamentale ) non esiste la contraddizione ma è possibile contraddirsi e parlare di questo positivo contraddirsi. Si può tentare di comprendere meglio la posizione di Severino seguando questo ragionamento: del nulla si parla, questo concetto di fatto entra nei nostri discorsi. Chi sostiene l'impossibilità di parlarne avverte che il nulla, essendo ciò che non ha positività, non può nemmeno entrare in relazione con altre parti del discorso. Il problema di questa obiezione è che, nel formularla, si è nel concetto astratto dell'astratto, ovvero si vuole porre il nulla-momento astratto che sta per l'assolutamente negativo ( che è appunto ciò di cui non si può parlare ) ma concretamente si pone ( e non può essere diversamente ) il nulla concreto, che contiene i due momenti astratti e la loro relazione, questa sì, contraddittoria. Ovvero si scambia l'astratto per il concreto: concetto astratto dell'astratto. Questo ragionamento non fa che ripresentare, all'esterno della struttura del concetto nulla, la ripetizione della situazione interna. Situazione interna che, abbiamo visto, è invece realmente autocontraddittoria. Isolata questa contraddizione occorre ora spiegarne il senso e stabilire perchè non si crei un'aporia. [...] Come porre il nulla non è un non porre nulla, così porre l'autocontraddittorietà

non

è

un

non

porre

nulla.

I

significati

103 A nostro avviso, in realtà, la posizione di Severino e quella di Frege potrebbero avere più punti di contatto di quanto l'autore non voglia concedere. La distinzione tra i momenti astratti del concetto concreto nulla sembra in effetti ricalcare la posizione fregeana, pur conservando sviluppi diversi..

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autocontraddittori sono infatti presenti, e pertanto sono. L'aporia dell'essere dell'autocontraddittorietà è la stessa aporia dell'essere del nulla. Ciò vuol dire che – come per il significato « nulla » - il significato «autocontraddittorietà» è un significato autocontraddittorio104.

Ciò non significa che la contraddizione sia reale, cioè che la realtà sia contraddittoria. Tutto il contrario. Ciò che esiste come positivo è l'atto della contraddizione, il contraddirsi, non il contenuto della contraddizione, che è, precisamente, nulla. Se io dico che « il rosso non è rosso », è reale che io mi sia contraddetto, ma non è reale che il rosso non sia rosso! La situazione è la medesima qui e nell'utilizzo del concetto nulla, la differenza è solo verbalistica. Che si parli del nulla ( che è un concetto contraddittorio, dunque un contraddirsi ) è reale, ma non significa che sia reale il nulla-momento negativo, ovvero il contenuto della contraddizione 105. Questa realtà del contraddirsi non implica nessuna aporia, anzi è una delle caratteristiche più importanti della conoscenza umana. Questo fatto fu ben compreso da Hegel che, lungi dall'essere un negatore del principio di non contraddizione, anzi essendone uno dei maggiori adoratori, poneva semplicemente la questione della sua positività. Perchè sia possibile togliere o risolvere una contraddizione, questa, con i suoi due elementi in contrasto, deve in qualche modo apparire. Perchè io possa escludere che A sia non A, i due termini devono in qualche modo apparirmi, altrimenti non ho nulla da escludere, rimango fermo all'affermazione di A o a quella di non A. Il modo in cui ciò può accadere è appunto il contrasto tra la positività del contraddirsi e il contenuto della contraddizione. Il corollario fondamentale si ottiene chiedendosi, dunque, cosa si pensa quando ci si contraddice? La risposta è il nulla. Di ciò ci si può rendere in qualche modo conto quando siamo di fronte ad una contraddizione esplicita.

104 Ivi, p. 228. 105 Qui in realtà Severino opera una distinzione, non necessaria ai fini di una comprensione generale, tra contraddizioni di tipo 1, come «A è non A» e contraddizioni di tipo 2, come tra quella proposizione nulla e il suo positivo significare. Cfr. Ivi, pp. 230-233.

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Se ad esempio dico che il foglio bianco è anche, insieme, nero, cioè non bianco, io mi sto realmente contraddicendo, ma ciò a cui penso, l'oggetto, il significato, non può essere il foglio bianco che è il foglio nero, questo non si costituisce e non si può costituire. Il mio riferimento è dunque al nullamomento, l'assolutamente negativo. Lo è semplicemente o in sé, mentre il riferimento viene meno appena si tenta di oggettivare in altro modo quel riferimento, ad esempio in queste righe, dove si torna in realtà a trattare il concetto concreto del nulla, unione dei due momenti. Il momento del nulla assolutamente negativo diventa altro non appena lo si astragga dal lato positivo. Questo forse è uno dei migliori esempi di quell'olismo o di quella concretezza cui Severino da tanta importanza: qualcosa è sé stesso solo all'interno delle sue relazioni col resto. Separato dal contesto esso, qualunque ente, è altro da sé.

Il divenire, la totalità e la metafisica originaria Nel quinto capitolo Severino comincia un percorso di analisi riguardante gli elementi immediati del sapere, il loro strutturarsi come totalità e la possibilità della loro variazione. Proprio quest'ultimo elemento è ciò che segna il più ampio divario tra questo scritto e gli scritti successivi al 1964. Il pomo della discordia è, chiaramente, il divenire, analizzato dal punto di vista della struttura originaria, ovvero in base a quella struttura di F e Limmediatezza che abbiamo sinora descritto. L'analisi puntuale di questo percorso richiederebbe decine e decine, se non centinaia, di pagine, perciò, come del resto abbiamo fatto sinora, estrapoleremo solo i punti di maggiore interesse, cercando di proporre una sintesi che non tradisca eccessivamente le complesse argomentazioni presenti nel testo. Proprio nel capitolo succitato abbiamo il primo elemento di notevole interesse. Si tratta della variazione della totalità degli elementi F-immediati, o 64

variazione della totalità della F-immediatezza. In primo luogo Severino sottolinea l'importanza di questa proposizione analitica: non esiste un elemento F-immediato106 che non appartenga alla totalità della Fimmediatezza. Ciò significa che se si afferma che x è F-immediato e non lo si pone come appartenente alla totalità che gli è propria si è in contraddizione. Dove sta l'errore? L'errore sta nella posizione come totalità di ciò che non è totalità, è infatti impossibile che ci si sbagli sulla Fimmediatezza di qualcosa, dato che se anche per sbagliarsi su qualcosa, questo qualcosa deve apparire, allora questo qualcosa appare Fimmediatamente, cioè è dato. Come si genera dunque l'errore? Esso si può generare nel tempo107

il tempo è anche ciò che mostra tale errore o

contraddizione come solo apparente. Possiamo descrivere schematicamente la situazione. Sia T1 la totalità che comprende gli elementi F-immediati (F 1, F2, …, Fn). Sia Fn+1 un elemento non appartenente a T 1. Essendo Fn+1 un elemento F-immediato esso deve appartenere alla totalità, ma apparterrà ad una totalità diversa da T 1, chiamiamola T2, la quale è la totalità simpliciter, mentre T1 cessa di essere la totalità degli F-immediati.

In questo caso

diciamo che un contenuto è sopraggiunto nel tempo e la totalità ha variato il suo contenuto108. Dal punto di vista formale la totalità è sempre identica a sé stessa, come descritta dalla proposizione analitica di cui sopra. Dal punto di vista materiale invece i contenuti variano. « Si dirà allora, in generale, che la totalità del F-immediato diviene » 109, mentre sul lato semplicemente formale « […] la totalità del F-immediato non diviene […] il divenire della forma è significante solo come annullamento del F-immediato » 110. Questo significa che T1 è stata la totalità ma ha smesso di esserlo, mentre T 2 ha cominciato ad esserlo. La relazione della totalità col tempo è duplice:

106 Precedentemente Severino ha inserito la distinzione tra due tipi di elementi F-immediati. Il contenuto F-immediato e la F-immediatezza di tale contenuto. Questo è solo un esempio delle questioni che purtroppo dovremo tralasciare. 107 Cfr. Ivi, p. 252. La temporalità in realtà non è l'unica causa scatenante di questa contraddizione apparente, anche la riflessione sulla totalità, ad esempio, può generare una situazione simile, ma il primo caso è il più generale e il più interessante per noi. 108 Un contenuto immediatamente presente può anche, all'inverso, cessare di appartenere alla totalità

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Se la totalità del F-immediato [ formale ] non è nel tempo, il contenuto di questa totalità attesta, d'altra parte, che essa è nel tempo. E cioè, proprio perchè è stato o sarà qualcosa come totalità del Fimmediato, la totalità del F-immediato, in quanto comprensiva di quell'essere stato e di quell'essere per essere, non è un esserre sempre. Il ricordo attesta il non essere ancora di ciò che oltrepassa il tempo, e lo attesta non solo in quanto nel ricordo sia posta una totalità del Fimmediato che non è la totalità del F-immediato, ma anche in quanto sono posti orizzonti posizionali ( gli intervalli della coscienza prefilosofica ) in cui non è posto nemmeno qualcosa come totalità del F-immediato111.

La citazione è una delle più rivelatrici della differenza tra quest'opera e gli scritti successivi di Severino. Qui infatti il divenire, dal punto di vista fenomenologico, è certamente inteso come attestante l'essere ed il non essere di certi contenuti, dunque di certi enti. A parte questo importante rilievo, bisogna fare altre due brevi considerazioni su questo argomento. La prima ci è suggerita dalle ultime righe della citazione. Per Severino infatti la posizione della totalità come tale, concetto concreto dell'astratto, non è sempre attuale, ma esistono ( anzi sono la maggioranza, anche per dei filosofi ) situazioni quotidiane o pre-filosofiche in cui l'attenzione è tutta rivolta al contenuto variante della totalità, senza che si ponga tale contenuto come contenuto della totalità. In questo concetto astratto dell'astratto la totalità non è contenuto di sé stessa, ovvero pur essendo logicamente necessaria, la sua posizione, il pensarla, non è un elemento F-immediato. Dunque, da questo punto di vista, in questi momenti, non è. La seconda e ultima considerazione riguarda invece i modi di ulteriorità rispetto alla totalità. Questi sono due. Il primo è l'ulteriorità effettuale, il

del F-immediato, può essere dimenticato o mantenuto come ricordo. Questo problema non è affrontato nel capitolo e a nostro avviso sarà causa di ambiguità nella disputa con Bontadini. 109 Ivi, p. 252. 110 Ivi, p. 253. 111 Ivi, p. 156.

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passato, ovvero tutti quei contenuti che non erano presenti in un certo orizzonte posizionale precedente, che non è più posto come totalità ( o meglio, come tutto il contenuto della totalità, giacchè la totalità, dal punto di vista formale, è sempre sé stessa ). Il secondo è l'ulteriorità possibile, ovvero tutti quei contenuti che anche se non attualmente presenti non è contraddittorio porre come presenze immediate. Questo concetto è il medesimo che quello di esperienza possibile. La totalità delle possibili ulteriorità darà luogo al perfetto adeguamento di contenuto e forma, in quanto non lascia fuori di sé alcun sopraggiungente, ma questo punto sarà approfondito più avanti. Una distinzione importante a riguardo della variazione del contenuto della totalità è quella tra costanti e variabili. L'analisi di questo punto è piuttosto complessa, ma in generale possiamo dire che costanti sono tutti quei contenuti senza i quali non è possibile porre l'intero, mentre variabili sono tutti quei contenuti la cui assenza non costituisce contraddizione con la posizione dell'intero. Ad esempio l'intero non appare se non appaiono significati come «totalità», «immediatezza», «parte», dunque questi significati sono costanti. Mentre non è contraddittorio che l'intero appaia anche in assenza di variabili come « questa penna blu ». Da un altro punto di vista, dal punto di vista del concreto, in realtà, tutti i contenuti sono costanti e la distinzione tra costanti e variabili è solo relativa ad un certo tipo di discorso, come accadeva con le proposizioni sintetiche ed analitiche. Più in particolare le costanti-costanti vengono chiamate perisintattiche, mentre le costantivarianti iposintattiche. Le prime costituiscono lo sfondo, la sintassi, dell'apparire, ovvero il loro significato è costitutivo di ogni possibile apparire, mentre le seconde hanno un legame, per così dire, fattuale con l'apparire. Tale legame fattuale non è, del resto, un che di meramente variabile, proprio in quanto anche la connessione fattuale è, dal punto di vista del concreto, una connessione identica, dunque necessaria 112.

112 Nell'opera compare anche un terzo tipo di costanti, quelle metasintattiche, che però verranno

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Col bagaglio di queste considerazioni aggiuntive è ora opportuno affrontare il tema della contraddizione C, come viene chiamata questo tipo emergente di contraddizione nell'opera di Severino. La contraddizione C è quel positivo contraddirsi che si ha quando si pone l'intero S senza porre tutte le costanti di S. Come è possibile ciò se abbiamo appunto appena affermato che la posizione delle costanti è condizione necessaria alla posizione di S? Innanzitutto bisogna riconoscere che non tutte le costanti sono sempre, di fatto, attualmente poste. Questo accade, in generale, perchè non tutte le costanti sono immediatamente presenti, ovvero alcune costanti necessitano, per la loro posizione, di essere dimostrate, dunque sono mediate. La mediazione però, in quanto ulteriorità rispetto al piano originario, presuppone appunto questo piano come piano della sua assenza, o anche, che è il medesimo, il ragionamento presuppone un cominciamento nel quale il ragionamento e il suo risultato ancora non sono posti 113. Il ricordo di stati passati, nei quali una costante K di S non era posta, testimonia appunto il sopraggiungere della posizione di certe costanti e, dunque, la discrepanza tra ciò che veniva posto come S e ciò che attualmente è posto come S. Questa è la contraddizione C, ovvero un contraddirsi, intendendo porre come S ciò che non è S. Ma cosa poniamo, dunque, se non poniamo S? Poniamo, semplicemente, il suo aspetto formale o la sua idealità. La realtà della contraddizione C non significa che la realtà sia contraddittoria, infatti non afferma che S è non S, bensì afferma la positiva realtà del contraddirsi. Questa contraddizione è il vero motore dell'opera, in un senso analogo a quello per cui la contraddizione è il motore della dialettica hegeliana. Il divenire, che è un sopraggiungere ed un dileguarsi di costanti, pone sempre come sorpassato ciò che era posto come intero, dunque come totalità della verità. Richiede dunque sempre nuove posizioni di S finchè non si raggiunga, sempre che ciò sia possibile 114, la coincidenza tra la posizione di S e la

eliminate dalle riflessioni successive. 113 Per il tema della contraddizione C, Cfr. pp. 343 – 364. 114 Questa possibilità è fondamentale in Severino ed è l'elemento conclusivo dell'opera, come

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concretezza di S. Gli argomenti possono sembrare astrusi, ma, riflettendoci bene, questo schema è presente, anche se in modo analogico, anche in pensatori del tutto estranei a questo stile argomentativo, ad esempio Popper. Poniamo l'analogia: l'intero è una teoria, le costanti sopraggiungenti sono la classe dei falsificatori di una teoria. Quando una teoria viene falsificata, ovvero incontra una contraddizione, ci si muove per sostituirla, ovvero, anche qui la contraddizione funge da motore del pensiero e dell'agire. Inoltre anche Popper si pone il problema se il progresso scientifico sia un approssimarsi alla verità o, come poi sosterrà Kuhn, una successione di cambiamenti di paradigma incommensurabili. Severino si impegna in un'analisi complessa di questa dialettica tra astratto e concreto della totalità. I problemi sollevati e risolti nel testo, le distinzioni seguite, sono troppe per darne conto qui. La situazione che abbiamo fin qui delineato è dunque contraddittoria, non solo nel senso per cui la struttura originaria è il fondamento della contraddizione, ma nel senso che c'è appunto una disequazione tra il piano dell'originario ed il piano della totalità. Tale disequazione contraddice, abbiamo visto, l'intenzione di porre la totalità come totalità. Ciò che mostra la struttura originaria come inadeguata è il divenire del dato fenomenologico da una parte e l'avanzamento del discorso, o lo sviluppo della mediazione, dall'altro. Questa inadeguatezza è dunque un che di immediato, come immediata è l'esperienza del divenire. Se questa inadeguatezza fosse semplicemente supposta, ovvero se non fosse possibile dimostrare che c'è dell'altro oltre la struttura originaria, con l'attualità dei suoi contenuti, non si costituirebbe la contraddizione C, ma avremmo una sorta di assoluto immanentismo che non può uscire dalla coscienza attuale. Stabilita la presenza della contraddizione C si presenta però il problema del suo toglimento. L'originario deve comunque essere l'intero, ciò non significa che è

vedremo.

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autocontraddittorio che non lo sia, ma che, in quanto è Limmediatamente noto che non lo è, è anche noto che l'originario è uno stare in contraddizione. Onde esso si libera dalla contraddizione solo con quell'incremento che lo identifica all'intero. Non è infatti immediatamente contraddittorio che l'originario sia un essere in contraddizione115.

L'adeguazione dell'originario all'intero si presenta come un compito da realizzare. Questa realizzazione si configura come un progressivo toglimento di tutte le particolari contraddizioni C che si presentano tra la struttura originaria e l'intero. Ovvero, man mano che sopraggiungono nuove costanti riconosciamo che ciò che era posto come intero non lo è concretamente, ma era solo la sua posizione formale che si intendeva, contraddittoriamente, far valere come concreta. Ma cos'è l'intero a cui la struttura originaria, col divenire di ciò che in essa appare, si deve adeguare? L'intero è la totalità dell'essere. Che l'intero sia è proposizione capitale a questo punto. Infatti abbiamo visto come tutte le proposizioni siano, in definitiva, proposizioni identiche. Ciò significa che l'intero è identico a sé stesso e lo è eternamente, lo è in tutte le sue parti: cioè è immutabile. Includendo tutto, infatti, esso non lascia fuori di sé null'altro che possa sopraggiungere, appunto perchè è la totalità, mentre se qualcosa si sottraesse all'intero, questo non sarebbe più tale ma si ricadrebbe nella contraddizione C. L'intero è l'eterno essere immutabile, sotto ogni considerazione. Ora sorge spontanea la domanda su quale sia la natura delle parti, dei vari significati contenuti nell'intero. Da un lato è L-immediata la loro eternità in quanto tutti i significati sono espressi da proposizioni identiche. Come questa lampada che è accesa è identica a sé stessa ed è distinta da questa lampada che è spenta, come è distinta da ogni altro significato 116. In Severino

115 Ivi, p. 425. 116 Tra la lampada accesa e la lampada spenta ovviamente c'è una certa permanenza. Questa permanenza è la permanenza del soggetto solo in quanto le due lampade sono due individuazioni di una “stessa” essenza. Cfr. Ivi, p. 546. Vedremo il dettaglio di questo permanere nella discussione

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l' “unità di misura” dell'identità si amplia, per così dire. La lampada accesa è identica a sé in quanto lampada accesa, anzi è identica a sé come questa lampada accesa su questo tavolo, in questa camera, su questo pianeta, etc. In definitiva è identica a sé come concretamente assunta all'interno di tutti i significati e le relazioni, a loro volta significanti, che costituiscono l'intero. Questa è la visione di un sistema olistico in cui l'unica proposizione veramente concreta è che l'intero sia l'intero. In un tale sistema il divenire è impossibile in quanto richiede la rottura di qualche legame, relazione o significato117. La differenza tra la parte e il tutto però sussiste ed è scandalosa o aporetica. Che l'intero, dunque l'essere, sia immutabile è affermazione Limmediata. Dall'altra parte che l'essere divenga è affermazione F-immediata 118

. Si istituiscono in questo modo due piani la cui distinzione appare

necessaria per un verso ed impossibile per l'altro. La distinzione appare necessaria nella misura in cui il divenire non può essere contenuto nell'intero immutabile, mentre appare impossibile in quanto il piano fenomenologico non può essere una positività altra dall'intero positivo. La conciliazione tra queste esigenze contraddittorie è estremamente problematica in quest'opera, mentre nelle opere successive troveremo un'impostazione diversa. Severino sostiene che la considerazione del solo piano F-immediato mostra quella contraddizione che è il divenire, inteso come annullarsi dell'essere, in quanto fa parte del concetto astratto dell'astratto, ovvero in quanto è astratto dall'immutabile. Se si passasse al concetto concreto si vedrebbe il divenire non più come un sopraggiungere ed annullarsi degli enti ma come un apparire e scomparire di ciò che è da sempre salvo nell'immutabilità del tutto. Il divenire è cioè processo di apparizione dell'immutabile, dunque non si tratta di una positività esterna all'intero ma di una sua parte che, sì testimonia

con Bontadini. 117 L'eternità di ogni essente può essere mostrata sia L-mediatamente, attraverso la mediazione dell'idea di intero, come abbiamo fatto qui, sia L-immediatamente, in quanto la struttura della proposizione identica nega la possibilità del divenire. 118 Cfr. pp. 531 – sgg.

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il divenire, ma la cui contradditorietà può annullarsi una volta che la si consideri nella sua relazione all'immutabile. Questa soluzione non è chiarissima e la sua coerenza sarà oggetto di discussione, attraverso la svolta data da Severino, nel dibattito con Bontadini. Torniamo in conclusione del paragrafo sul compito originario che è il toglimento della contraddizione C. Questo compito, abbiamo visto è la manifestazione dell'immutabile, la sua realizzazione è un processo infinito di svelamento che non arriva mai all'adeguamento totale. Richiamando il compito infinito di cui parlava Fichte, Severino vede in questa situazione l'impronta della nostra eternità, in quanto il toglimento della contraddizione è un processo infinito che avanza necessariamente. Quest'ultima suggestione sarà ripresa in Studi di filosofia della prassi, ma sarà poi abbandonata in Ritornare a Parmenide, dove ormai l'impronta dell'eternità è data senza dover ricorrere ad alcun compito infinito119.

Gli Studi di filosofia della prassi Quest'opera è stata pubblicata nel 1962 e il suo contenuto è strettamente legato alle analisi de La struttura originaria. È anche il primo scritto di Severino ad essere

contrastato dall'istituzione dell'Università

Cattolica, che nella figura di Monsignor Colombo manifestò i suoi dubbi sulla compatibilità di tale scritto con la dottrina cattolica 120. Effettivamente in queste pagine Severino diventa molto più esplicito nei riferimenti alla cultura contemporanea, filosofica, scientifica o religiosa. Questi riferimenti si trasformano in un dialogo tra alcuni temi della Struttura originaria, esposti più schematicamente e discorsivamente, senza tutti i tecnicismi argomentativi presenti

in

quell'opera,

e

alcune

correnti

o

figure

della

cultura

119 La contraddizione C resterà sempre elemento fondamentale negli scritti di Severino, ciò che varierà sarà la determinazione del suo processo di toglimento definitivo. 120 Cfr. Severino 2001a, pp. 25 – 27.

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contemporanea. Nel primo capitolo si riprende il tema del problematicismo in relazione all'idea di verità. Il termine problematicismo in realtà comprende una serie di correnti culturali tendenti a presentare le proprie verità come non assolute o, appunto, relative.

I riferimenti sono ampi e vanno dal

pragmaticismo allo strumentalismo, dall'esistenzialismo alla fenomenologia. Proprio quest'ultimo riferimento ci sembra uno dei più notevoli in quanto Severino propone una breve ma ben definita critica ad Husserl, pensatore al quale, più o meno direttamente, deve molto in termini di approccio metodologico. Severino prende in considerazione il celebre esempio del cubo, presente nelle Meditazioni cartesiane, per criticare la distinzione husserliana tra « apoditticità ed adeguatezza del contenuto immediatamente presente, intrecciata alla distinzione tra attualità e potenzialità della vita intenzionale »121. È noto che per Husserl il piano dell'originario è apodittico ( certo, evidente ) ma non adeguato, in quanto è composto di attualità e potenzialità, ovvero ci sono elementi che rimandano ad altro, ad altri elementi potenziali, appunto. Vediamo, seguendo l'esempio, come si svolge la critica 122

. C'è un cubo sul tavolo. Di esso io vedo o percepisco al massimo tre

facce, ma la definizione di cubo implica l'aver sei facce. Avendo io identificato l'oggetto come un cubo, affermo che ha sei facce. Come è possibile? Per Husserl, dice Severino, le facce attualmente presenti rinviano a quelle facce che

attualmente

presenti

non

sono,

ma

che

sono

necessarie

all'identificazione del cubo. « Questo rinvio, questo oltrepassamento dell'attualità del significato esplicito nella potenzialità del significare implicito, pretracciato nell'attualità, è «una evidenza fondamentale » » 123. Severino critica appunto che tale rimando sia un'evidenza. In qualunque modo noi trattiamo il cubo abbiamo sempre una presenza attuale limitata, sia che contiamo le facce con le dita una ad una, sia che usiamo un sistema di

121 Severino 1962, p. 32. 122 Un confronto simile viene svolto anche in Taddio 2008, pp. 26 – 30. 123 Ivi, p. 33.

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specchi: tutti questi indizi non stanno, a livello dell'apoditticità attuale, al pari degli altri. Col sistema di specchi, ad esempio, devo presupporre come vere le leggi dell'ottica, cosa esclusa a questo livello protologico. Da un lato Husserl concede che l'apoditticità è data dalla sola attualità e infatti non dice che la potenzialità è apodittica in quanto potenziale, bensì che è apodittica, evidente, la presenza di un rimando ad una certa potenzialità, ovvero il progetto di una certa adeguatezza ulteriore. Ma, a livello dell'originario, questa è solo un'ipotesi ed è certamente apodittica, ma solo come ipotesi. In questo senso Husserl confonde certezza e verità: certezza della presenza di una certa ipotesi, progetto o convinzione, da un lato, e verità di tale ipotesi dall'altro. Certamente io mi aspetto che ciò che identifico come cubo abbia altre tre facce, ma il mio problema è stabilire se le ha. L'atteggiamento mondano è attivo e disturbante, infatti il ragionamento presuppone l'oggetto inteso dal senso comune e non prende seriamente in considerazione l'idea che l'originario possa non adeguarvisi, si tratta di un atteggiamento prefilosofico, in quanto pregiudica attraverso l'esperienza quotidiana il contenuto dell'originario. Da questo punto di vista non è nemmeno possibile escludere che l'adeguatezza sia già realizzata al suo massimo livello, ovvero è possibile ipotizzare che non ci sia nient'altro oltre il piano apodittico originario, dunque che il processo di adeguamento ( che corrisponde al toglimento della contraddizione C ) sia esaurito. Ciò che può dare questa certezza è, naturalmente, il piano logico, dove viene posta l'immutabilità di ogni cosa in contrapposizione all'apparire che diviene. Occorre mostrare concretamente perchè l'evidenza o il piano originario siano contraddittori e come tali vadano tolti e superati. Un altro punto di interesse dell'opera, in quanto sarà oggetto del dibattito con Bontadini, è quello riguardante l'analisi della fede ( intesa come belief ). L'avere fede è una condizione ad un tempo costitutiva e contraddittoria dell'essere umano, sostiene Severino. La fede infatti esclude da sé la verità nel seguente senso: se per stabilire la verità di un asserto dobbiamo prendere come metro di giudizio la sua stessa fondazione o 74

giustificazione, allora di un asserto solo creduto non possiamo stabilire la verità, in quanto se si conoscesse il fondamento o la giustificazione di tale asserto esso non sarebbe più semplicemente oggetto di fede, ma sarebbe vero o falso. L'argomento è una conseguenza della posizione olistica che abbiamo già esaminato, ovvero diciamo che la fede è un momento astratto dal suo fondamento. In quanto tale la fede può essere al massimo fede nella materia astrattamente posta della verità, ma tale materia non è, in quanto atratta

la

verità,

bensì

qualcos'altro.

L'atteggiamento

fideistico

è

l'atteggiamento normale o quotidiano dell'uomo in quanto è fede ogni significato che non appartenga alla struttura originaria. « Al di fuori della struttura originaria tutto è fede. Ma in modi così svariati che, in tale verità, resta esaurito, tolta quell'eccezione, l'intero mondo dell'uomo» 124. Al di fuori di quella struttura anapodittica, evidente, c'è tutto un mondo di decisioni, ovvero di scelte pratiche che decidono di credere vero ciò che, dal punto di vista dell'unico fondamento assoluto, ovvero la struttura originaria, non è né vero né falso, bensì semplicemente problematico. La fede dunque presenta, in generale, questa contraddizione: tiene fermo come vero ciò che in realtà è problematico. D'altra parte la contraddizione in cui consiste la fede non è qualcosa che si possa evitare, lo sperimentiamo quotidianamente trattando come vere supposizioni la cui verità non possiamo concretamente mostrare. Ma la contraddizione della fede è onnipresente anche in un senso più specifico, ovvero nel senso che, non mostrandosi attualmente la totalità della verità noi poniamo come tale, crediamo tale, qualcosa che non è tale totalità: ovvero la condizione descritta dalla contraddizione C. Questo implica un corollario di un certo rilievo: « Se dunque mi persuado di aver liberato la verità da ogni fede, non vivo più nella verità: vivo nella verità solo in quanto so di dover vivere nella fede »125. Un tipo emergente di contraddizione è quello del dover essere, ovvero

124 Ivi, p. 67. 125 Ivi, p. 81.

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di tutte le norme

etiche e morali. Ora, dal punto di vista della struttura

originaria l'unico dover essere fondato è quello che ordina di non contraddirsi o di togliere la contraddizione, per cui questa resterà, in generale la forma di ogni dover essere. Questa proposizione è l'equivalente che dire « l'essere è incontraddittorio », dal che deriva che ogni concezione contraddottoria è erronea e non è ciò che si vorrebbe fosse. Ogni norma, ogni imperativo è non contraddittorio126 in quanto il suo adempimento libera da una certa contraddizione. Prendiamo ad esempio il precetto evangelico dell'amore verso il prossimo. Dal punto di vista della struttura originaria non è immediatamente noto perchè amare il prossimo sia meglio che odiarlo. Cioè non si vede un motivo per cui l'amore sia meno contraddittorio dell'odio, occorre dunque mostrarlo mediatamente. Al momento i due concetti contrari di amore ed odio si presentano entrambi come problematici e, in questo senso, il cristianesimo stesso, in quest'opera, si presenta come problema. Successivamente

Severino

argomenterà

abbondantemente

come

il

cristianesimo sia falso, ovvero contraddittorio. Se la struttura originaria coincidesse con la totalità della verità, la fede non sarebbe presente e il precetto che indica di non avere fede sarebbe non solo incontraddittorio ma evidente, in quanto tutto sarebbe a disposizione della nostra conoscenza e nulla sarebbe nascosto. Ma, essendo la totalità della verità maggiore della verità attualmente posta, non è possibile escludere che l'aver fede sia un dovere, nel senso che non possiamo escludere che entrare in quella certa contraddizione che è la fede sia meno contraddittorio che il restarne fuori. In termini più semplici: essendo l'essere in contraddizione una condizione costitutiva si tratta di sapere quale contraddizione sia meno estesa o radicale. Il testo continua con una interessante disamina del concetto di verità in rapporto al metodo di verificazione dei neopositivisti, alla accezione

126 O almeno, meno contraddittorio del suo contraddittorio, in quanto risolve una contraddizione che il suo contraddittorio mantiene. Questo concetto di quantificazione della contraddizione è in realtà problematico, nella misura in cui si può dimostrare che da una contraddizione si può dedurre tutto.

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normativa datane da Preti, alla visione pragmatista di Dewey e al ruolo del terzo escluso all'interno delle logiche polivalenti. Pur essendo notevole, questo paragrafo ci porterebbe troppo fuori strada, per cui rimandiamo il lettore al testo originale127. Ora noi ci occuperemo dell'ultimo punto di nostro interesse in quest'opera, ovvero la discussione del concetto di libertà. La discussione comincia con un richiamo a Kant, precisamente alla nozione di libertà come idea pura trascendentale. Kant fornisce due giustificazioni per tale affermazione: l'idea trascendentale di libertà non contiene nulla di derivato dall'esperienza e il suo oggetto non può mai essere dato come determinato da un'esperienza; infatti come ben sappiamo, per Kant, l'esperienza si costituisce, attraverso le categorie, secondo legami causali che determinano necessariamente gli eventi esperiti. Severino suggerisce come questa impostazione kantiana vada nella direzione corretta riconoscendo come il libero

arbitrio

non

sia

elemento

fenomenologicamente

rilevabile128.

L'esistenza della libertà resta dunque, da questo punto di vista un problema. Anzi, nella misura in cui la soluzione di tale problema non sta e non può stare nell'esperienza, si tratterà di un problema metafisico. Si dovrà dedurre, mediatamente, l'esistenza o l'inesistenza del contenuto dell'idea di libertà. Si può affermare l'esistenza della libertà, intesa come libero arbitrio, solo se non tutto ciò che esiste esiste necessariamente, e dunque solo se una qualche dimensione dell'essere è contingente. La contingenza però, abbiamo già detto, non è sperimentabile: che quest'uomo che è seduto avrebbe potuto essere in piedi, non è contenuto di nessuna esperienza possibile. Non è semplicemente possibile che i contraddittori appaiano insieme, dunque non è possibile l'apparire della contingenza. La strada per

127 Cfr. ivi, pp. 119 – 139. 128 Libero arbitrio che comunque si distingue, anche in Kant, dalla nozione di spontaneità, come facoltà di cominciare da sé uno stato. Quest'ultima facoltà è, in un certo senso, dice Severino, data fenomenologicamente. Per giustificare quest'affermazione ci si rifà, molto semplicemente, alla critica del concetto di causalità. Ovvero si dice: se il nesso causale non è esperito allora ogni divenire si manifesta come spontaneità.

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mostrare l'incontraddittorietà o la contraddittorietà della contingenza è quella della mediazione logica. Ad esempio possiamo dire che se con contingenza intendiamo la possibilità che questa matita con la punta rivolta a destra avrebbe potuto avere la punta rivolta a sinistra, questo, dal punto di vista della struttura originaria è immediatamente contraddittorio. Alla luce dei paragrafi precedenti dovrebbe essere chiaro il senso di questa affermazione. Ciò che è presente nella struttura originaria è questa matita volta a destra come elemento identico a sé, dunque è escluso che questa matita volta a destra possa essere volta a sinistra, sarebbe contraddittorio proprio in quanto il pronome dimostrativo qui sta ad indicare che quella matita rivolta a destra è identico all'essere rivolto a destra di quella matita. Questa obiezione però si può aggirare ipotizzando che avrebbe potuto realizzarsi una matita rivolta verso sinistra, dove però questa matita non è la matita di prima, bensì un'altra che ha tutte le caratteristiche della matita precedente meno il verso a cui è rivolta. Questo è, nell'ottica della struttura originaria, l'unico significato accettabile di contingenza e dunque, di sostanza e di permanenza. La permanenza riguarda solo la presenza di costanti analoghe a certe costanti presenti precedentemente, ma non si tratta delle stesse costanti. Gli indiscernibili non sono identici, potremmo dire, forzando un po' il senso dei termini. Usando una immagine, non del tutto fuori luogo, dati i continui riferimenti alla fede presenti nel testo, se Adamo non avesse mangiato la mela non sarebbe stato lo stesso Adamo ma un altro. La contingenza, e dunque la libertà, restano problematiche e le uniche conclusioni

che

possiamo

trarne

sono

l'esclusione

della

libertà

dall'esperienza possibile e la non immediata contraddittorietà del concetto di contingenza. Per la struttura originaria libero arbitrio e determinismo assoluto sono entrambe possibilità non immediatamente contraddittorie 129. Severino si dilunga per parecchie pagine nell'approfondimento di questo risultato,

129 Questa posizione verrà sostanzialmente modificata a sfavore della libertà dopo il 1964 e il discorso verrà ripreso, proprio riferendosi a queste pagine nel capitolo IV di Destino della necessità, 1980.

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inserendo anche varie annotazioni di carattere storico, soffermandosi specialmente in un serrato dialogo con Schopenhauer, per il quale rimandiamo al testo. La conclusione di questo studio resta sostanzialmente ferma alla problematicità teorica dell'esistenza di questa modalità metafisica che è la libertà. Ma una soluzione viene trovata, seppur a livello pratico. La libertà è tenuta presente nel quotidiano come oggetto di fede. In questo senso siamo tutti più o meno convinti che avremmo potuto non fare una tale scelta che invece abbiamo fatto. L'unica certezza, di livello certamente filosofico, è che se si fosse realizzata la scelta B invece che la scelta A, io che, in quanto autore della scelta sono quel che c'è di permanente tra A e B, sarei qualcos'altro. Ovvero io in quanto ho scelto A non avrei potuto scegliere B. Questa possibilità è incontraddittoria solo prima che la scelta venga effettuata. L'ultima parte del volume è un abbozzo di studio che riprende le tematiche dell'ultimo capitolo de La struttura originaria. In particolare questo studio tenta di mostrare che il carattere infinito di quel compito fondamentale che è il toglimento della contraddizione C, significa, in qualche modo, la nostra immortalità. Lo studio è interrotto e Severino lo dichiara esplicitamente erroneo, nonostante ciò, esso è una testimonianza interessante del passaggio da un approccio più classico, echeggiante Fichte, e l'impostazione del problema che Severino darà due anni dopo. Con questo paragrafo abbiamo concluso l'analisi del percorso filosofico di Severino prima di Ritornare a Parmenide. Ora, dunque, non ci resta che addentrarci nella parte più importante di questo lavoro, analizzando lo scritto che diede origine alla disputa ventennale con Bontadini.

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II. Dopo il 1964. Il discepolo contro il maestro La svolta. Ritornare a Parmenide L'articolo in questione, pubblicato nel 1964 sulla Rivista di filosofia neoscolastica, è di norma indicato come il punto di svolta del pensiero di Severino e l'inizio del lungo dibattito tra quest'ultimo e Bontadini. La seconda affermazione, ci sembra, è più corretta della prima. L'articolo in fatti, a livello contenutistico, non contiene novità particolarmente eclatanti rispetto alle precedenti opere di Severino, soprattutto La struttura originaria; anzi in molti punti sembra una semplice ripresa dei temi centrali di quell'opera. Come mai allora, potremmo chiederci, si parla di svolta? Usiamo anche noi questo termine in quanto una svolta effettivamente c'è stata, ed è stata tale da destare l'attenzione e le critiche di molti altri studiosi, tra cui Bontadini, che non avevano trovato altrettanto scandalo nei testi precedenti, pur, ripetiamo, molto vicini al contenuto di Ritornare a Parmenide. Possiamo, ad esempio, trovare un chiaro segno di rottura nel modo di presentare la tematica della verità

dell'essere.

Nella

Struttura

originaria

la

verità

dell'essere

è

semplicemente descritta, nei suoi elementi strutturali, in maniera molto precisa e molto “tecnica”. La conquista fondamentale dell'opera è quell'intreccio tra logica e fenomenologia che, sul piano dell'immediatezza, ci consente di affermare l'identità dell'essere con sé stesso, la sua opposizione definitiva al nulla, e dunque la sua eternità o immutabilità. La conquista non viene a sua volta tematizzata in rapporto alla storia del pensiero, resta, per così dire, irriflessa, non interpretata. Proprio un'interpretazione di carattere storico è ciò che, al contrario, ci viene proposto nell'incipit di questo articolo: La storia dell filosofia occidentale è la vicenda dell'alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell'essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei greci. [ … ] La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi: si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le

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conquiste più preziose del filosofare si muovono all'interno di una comprensione inautentica dell'essere130.

Per il lettore esperto di cose filosofiche è facile collegare queste parole alle prime ricghe di Sein und Zeit, dove Heidegger parla della dimenticanza dell'essere da parte della metafisica. Il richiamo ad Heidegger e alla sua Destruktion della metafisica occidentale è solo formale, data la radicale diversità tra i due pensatori che a Severino preme sottolineare, ma ha sicuramente contribuito allo scandalo ed alla facile, ma non disdicevole, ironia con la quale Bontadini accoglierà l'articolo in questione. Possiamo dunque dire che uno degli elementi di rottura con le opere precedenti è stata sicuramente l'interpretazione storica (che poi diventerà decisamente storicista, per molti aspetti) del contenuto fondamentale, ovvero dell'affermazione

dell'eternità

dell'essere.

Severino

sostiene,

sostanzialmente, che l'affermazione parmenidea per cui l'essere è e non può non essere, sia stata clamorosamente fraintesa già dai primi eleati seguaci Parmenide, quali Melisso e Zenone. Questo importa che, circa la verità dell'essere, l'intera storia del pensiero occidentale, non abbia fatto un solo passo avanti dai greci fino a Severino. Si capisce allora perché l'articolo, pubblicato da un giovane professore, abbia suscitato scandalo. Altri motivi che spiegano la diffusa sensazione di “svolta” o di rottura, sono l'esplicitezza e la linearità del testo, che evita i tecnicismi della Struttura originaria e, a differenza di quell'opera, espone il suo risultato fondamentale prima del fondamento di esso, mettendolo così in tale vista da evitare la possibilità di fraintendimenti. La nostra opinione è che la svolta sia più comunicativa che effettiva, riteniamo infatti plausibile che l'estrema complessità dell'opera del '58 abbia frenato le letture eternaliste che se ne sarebbero potute e dovute dare. In una certa misura è probabile che lo stesso Severino non avesse ancora colto appieno le implicazioni che le sue

130 Severino 1995, p. 19.

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tesi portavano con sé. In particolare, se da un lato l'eternità dell'essere come intero o totalità era ben in vista, dall'altro non era chiaro come ciò dovesse conciliarsi con la realtà dell'esperienza. Che valore ha l'esperienza del divenire di fronte alla verità dell'eterno immutabile? Questa è la domanda capitale da porsi per valutare il lavoro di Severino successivo al '58 e, di conseguenza, la disputa con Bontadini. Proprio il riferimento a Bontadini è l'elemento per cui non si può dubitare che Ritornare a Parmenide sia il cominciamento della disputa. Infatti questo è il primo scritto in cui Severino sferra una critica sostanziale alle posizioni di Bontadini. La critica è sostanziale perché nega ciò che sta a fondamento della metafisica bontadiniana. Prima di approfondire questo punto, per noi centrale, dobbiamo riprendere un'analisi più generale del testo. Dopo l'esposizione iniziale della tesi eternalista Severino prende in considerazione i modi in cui tale tesi, che dovrebbe essere immediatamente evidente, è stata fraintesa. Mentre Parmenide afferma che l'essere è e il nulla non è, intendendo con ciò che questo è il senso proprio dell'essere, il discorso di Platone ed Aristotele sulla contrapposizione tra positivo e negativo, essere e nulla, cade già nell'ambiguità. Lo stagirita afferma infatti che, certamente, l'essere è, quando è, e che il nulla non è, quando non è. Il senso di questa ipoteticità, che diamo solitamente per scontata, racchiude tutto il senso del grandioso fraintendimento a cui il pensiero occidentale è andato incontro dopo Parmenide. Che senso può mai avere, infatti, il termine “essere” nell'espressione “quando l'essere non è”? Se sosteniamo che, quando l'essere non è, l'essere è diventato nulla, perché continuiamo a dire «Quando l'essere non è» e non diciamo piuttosto «Quando il nulla è»? Eppure tra un essere che non è e un nulla che non è non c'è alcuna differenza131.

131 Ivi, p. 22.

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Questo punto ci offre un ottimo appiglio per comprendere la tesi di Severino. Quando asseriamo che qualcosa non è siamo costretti a tener ferma, in qualche modo, la posizione di quel qualcosa, altrimenti non avremmo un qualcosa che non è, bensì avremmo un semplice nulla. Ma proprio il pensiero di qualcosa che non è dovrebbe provocare il nostro scandalo alla luce della verità dell'essere. Pensando infatti il non essere di qualcosa ci troviamo ad identificare quel qualcosa, quel certo essere, al nulla. Questo pensiero è fondamentalmente contraddittorio, infatti, se riflettiamo bene, entra comunemente nei nostri discorsi ma non ci è mai possibile soffermarci approfonditamente su di esso: se dico che non c'è più il sole, ad esempio, devo da un lato tener fermo nel pensiero il sole che c'era e dall'altro sovrapporgli il nulla. Il problema è che io, concretamente, penso o il sole o il nulla: non penso e non posso pensare il nulla del sole, non posso, per così dire, sovrapporre le due immagini. Tale sovrapposizione, impossibile in actu exercito, è affermata in actu signato, ovvero l'affermazione che qualcosa non sia dice, inconsapevolmente e formalmente (concetto astratto dell'astratto, nella terminologia severiniana) l'identità di essere e non essere. Il problema non è semplicemente linguistico, bensì logico. Per affermare il non essere di qualcosa si deve da un lato tener fermo il qualcosa, che essendo determinato è, in qualche modo, e dall'altro si deve pensare questo qualcosa come non esistente, che altrimenti non si penserebbe il non essere di qualcosa ma il nulla simpliciter. Se da un lato è necessario pensare questa relazione, dall'altro essa è impossibile. Infatti qualunque determinazione (sia ideale, reale o come si voglia) esiste in quanto determinazione, non le si può togliere l'esistenza a meno di togliere la determinazione stessa, o che è il medesimo, il nulla si può predicare solo del nulla. Qui è del tutto fuori luogo riprendere la distinzione tra essenza ed esistenza per asserire che un'essenza può essere “sprovvista” di esistenza. Anche l'essenza è esistenza per Severino, e ciò è chiaro in quanto appena si voglia trattare l'essenza come separata dall'esistenza si può chiedere se quell'essenza, in quanto essenza, esiste oppure no. La risposta, se non si 83

vuol cadere nell'assurdo è che sì, certamente, ogni essenza esiste almeno in quanto essenza. In Severino l'esistenza fagocita l'essenza, dissolvendo così i problemi di questa dicotomia. L'obiezione più immediata al pensiero che dice la contraddittorietà delle proposizioni della forma «x è nulla» dovrebbe essere: diciamo continuamente che qualcosa non è, senza avvertire questa contraddittorietà. Si può rispondere così: da un lato è certamente vero che il contraddirsi è qualcosa di reale, come abbiamo già visto analizzando La Struttura originaria, dall'altro lato abbiamo anche visto che per riconoscere una contraddizione come tale bisogna essere fuori da tale contraddizione: l'errore in quanto tale non è mai attuale ma sempre passato. Ma, ci si potrebbe chiedere ancora, cosa si pensa allora quando ci si contraddice? Questo tema è già stato affrontato ma viene ripreso da Severino nell'articolo in oggetto e viene ripreso in maniera molto netta ed esplicita, chiamando anche in causa Bontadini. [ … ] il pensiero vive anche quando si contraddice: quando si contraddice, non si annulla. Ed eccoci al punto: il contraddirsi non è un non pensar nulla, ma è un pensare il nulla. L'identità del positivo e del negativo ( che appunto vien pensata nella negazione dell'opposizione ) è ciò che non è: ciò che è – il positivo – si oppone al negativo. Il pensiero che si contraddice guarda il nulla132.

Essendo inesistente l'oggetto che il pensiero contraddittorio intende oggettivare, tale pensiero si trova nella condizione di avere come oggetto il nulla. Potremmo dire, esso si costituisce solo come intenzione di oggettivare un certo contenuto che non esiste. La posizione di Bontadini, a riguardo, era invece la seguente: «un pensiero che si contraddice, si annulla. Contraddicendosi dice il doppio di quel che dovrebbe dire, ma il risultato del troppo dire (esplicito o implicito) è l'annullamento del pensiero. La istanza

132 Ivi, p. 57.

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suprema risulta pertanto essere quella della positività» 133. Tale posizione è criticata da Severino in quanto non si capisce cosa debba intendersi per “annullamento del pensiero”. Da un lato è corretto dire che una contraddizione, in qualche senso, non ha valore; dall'altro lato non è certamente il pensiero ad annullarsi. Se il pensiero che si contraddice fosse nulla, ovvero si annullasse, la contraddizione non potrebbe nemmeno apparire nel senso in cui appare effettivamente. Se la contraddizione deve essere eliminata deve in qualche modo esser presente, altrimenti non c'è nulla da eliminare. Il modo in cui essa è presente è il contraddirsi che è il positivo significare dell'inesistente, in quanto la contraddizione è realmente inesistente, o anche, la realtà è incontraddittoria. La posizione di Bontadini è dunque sbagliata nella misura in cui si scaglia contro l'apparire della contraddizione più che contro la contraddizione. Riprendiamo ora le fila del discorso storico intessuto da Severino, discorso che richiama in parte le analisi fatte nell'articolo La metafisica classica e Aristotele. Abbiamo ricordato che con Parmenide si dà un'apertura alla verità dell'essere poi smarrita dal pensiero occidentale. Le modalità di questo smarrimento sono di massimo interesse per noi. Abbiamo già visto come uno dei momenti di maggior fraintendimento o dimenticanza sia la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione. Lo smarrimento qui è tanto maggiore quanto sembra appoggiarsi sul pilastro di tutta la logica e di tutto il pensiero occidentale. Ma questo non è il primo passo che, dopo Parmenide, si è compiuto nella direzione opposta alla verità dell'essere. Già gli eleati come Melisso e Zenone fraintesero la posizione del maestro cercando di dimostrarla. La dimostrazione dell'essere necessario o immutabile è un travisamento radicale della questione in quanto che l'essere sia e non possa non essere è una verità immediata, cercarne una dimostrazione significa fraintenderne, già qui, il senso. Dimostrare qualcosa significa infatti sostenere la necessità di porre un medio tra quel termine e la

133 Bontadini, 1958, pp. 123 – 124.

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sua verità per mostrare la necessità di tale connessione. L'immediatezza invece presuppone che la verità del termine immediato sia anch'essa immediata, anzi, il senso stesso dell'immediatezza implica la verità. Chi vuole dimostrare qualcosa cerca questa via solo in quanto non vede la verità del dimostrando. Ma gli eleati non sono senza compagnia, ad esempio Platone prosegue sulla medesima strada. Egli ha, secondo Severino, l'imperituro merito di aver corretto la posizione parmenidea circa la molteplicità dell'essere. Parmenide, ricordiamo, ammetteva solo l'identità dell'essere con sé stesso, la sfera perfetta che non manca di nulla e che non ammette differenze al suo interno. Negava dunque la molteplicità degli enti. Questa posizione, apparentemente folle, aveva però una giustificazione: quando dico che una certa determinazione è, affermo apparentemente l'identità tra l'essere e ciò che è diverso dall'essere. Ad esempio se affermo l'esistenza di questa bottiglia verde, affermo che essa è essere. Ma l'essere non è questa particolare determinazione, non può identificarsi con essa. Dunque tutte le differenze non appartengono all'essere, ma a quel piano, in bilico tra essere e nulla, dunque massimamente ambiguo, che è la doxa. A questa argomentazione risponde Platone distinguendo tra il non-essere come contrario e il nonessere come altro dall'essere. L'essere è predicato delle varie determinazioni in quanto esse sono diverse dal concetto astratto di “essere”, non in quanto sono contrarie ad esso, ovvero in quanto sarebbero non-essere. L'essere non è che la totalità dei differenti esseri concreti. L'essere come separato dalla determinazione concreta non è altro che un'astrazione. Questa risposta fornita da Platone è talmente importante che Severino la considera l'unico passo in avanti compiuto dal pensiero occidentale dopo Parmenide. Qualche anno dopo la pubblicazione, a chi gli rinfacciava di aver semplicemente rispolverato Parmenide, Severino rispondeva che in realtà Ritornare a Parmenide avrebbe potuto meglio intitolarsi Ritornare al punto di intersezione tra Parmenide e Platone. Il parricidio è stato definitivamente compiuto e non è più possibile essere puramente parmenidei dopo Platone. 86

Con questo passo avanti Platone ne ha fatto però un altro, più fondamentale, indietro, ovvero ha perso la nozione immediata dell'immutabilità dell'essere. L'essere necessario o immutabile diventa l'oggetto da dimostrare, ad esempio attraverso la dottrina delle idee. Una simile analogia si ha col motore immobile aristotelico e poi, con i tentativi di dimostrazione dell'esistenza di Dio incessantemente promossi dalla tradizione scolastica. Qui l'errore, rispetto agli eleati è doppio. Infatti almeno questi ultimi cercavano di dimostrare l'immutabilità di quell'essere che per loro era la totalità, mentre per la scolastica si cerca di dimostrare la necessità di quell'unico ente che la merita in quanto divino, ovvero Dio. Ma l'immutabilità compete all'essere in quanto essere, non all'essere in quanto divino: dunque tutti gli esseri sono divini o anche, Dio, come ente immutabile, è ovunque 134. Platone, come tutti gli abitanti della repubblica da lui fondata, l'occidente, ha perso questo senso originario dell'essere. Come è avvenuta questa perdita? Essa non è, ovviamente, casuale, bensì è stata promossa da un'altra evidenza, che riteniamo in genere di grado superiore, l'evidenza empirica del divenire. Infatti, abbiamo già ripetuto più volte questo punto, che certi enti o certe determinazioni comincino e cessino di essere è la testimonianza fondamentale dell'esperienza, e il principio di non contraddizione, nella sua formulazione aristotelica, è la risposta a questa esigenza inderogabile dell'esperienza, ovvero è la risposta che permette da un lato di tener fermo l'essere dell'essere e il non-essere del non-essere e, dall'altro lato, assicura ciò solo quando e fintanto che l'essere è. Questa formulazione lascia aperta la possibilità, che l'esperienza testimonia come realtà, che l'essere non sia. Questa apertura alle esigenze dell'esperienza è però in contraddizione col dettato della logica, in quanto ammettere che esiste un tempo in cui qualcosa non è, significa, come abbiamo visto, identificare quel qualcosa al non essere.

134 Questo è probabilmente il punto a cui si riferisce la nota della redazione della Rivista di Filosofia Neo-Scolastica già citata nell'introduzione.

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Qui Severino mostra un'ammirevole convinzione nel contenuto del suo discorso, caratteristica peculiare dei filosofi che vogliono ciò che trovano e non cercano ciò che vogliono. Infatti egli continua a mantenere saldo il suo punto logico, ammettendo, dall'altra parte, che il dettato dell'esperienza sia in contrasto con esso. L'essere è immutabile ma, dall'altro, i fenomeni sono, tutto all'opposto, il regno della mutevolezza. Qui si crea, almeno in apparenza, un'aporia. Nella storia della filosofia successiva a Parmenide nessuna soluzione ha abbandonato il dettato dell'esperienza, si è piuttosto cercato di dimostrare successivamente l'immutabile, Dio, come l'altro dall'esperienza. Severino invece privilegia il punto logico e si tiene fedele ad esso nonostante la situazione aporetica, aprendo la strada ad una nuova soluzione. E d'altra parte, se il disvelato è l'essere, non resta forse per ciò stesso incontrovertibilmente attestato che l'essere non è (quando non è), e che dunque è sottoposto alla vicenda del tempo? Non attesta forse l'esperienza precisamente l'opposto di quanto la verità dell'essere proibisce? E non si dovrà allora incominciare proprio con quell'essere neutralizzato [...], in cui solo lo sviluppo teologico dell'ontologia sa scorgere l'essere immutabile?135.

Severino sta qui dicendo che solitamente, nella storia della metafisica, si è partiti dalla concezione dell'essere come indifferente al suo essere o non essere per poi reinserire nel discorso filosofico, attraverso la teologia, un surrogato di quell'essere immutabile cui si riferiva Parmenide. Qui, invece, Severino decide che non si può abbandonare l'istanza parmenidea anche quando essa ci porti in una situazione aporetica. Se l'essere è immutabile non si può abbandonare tale verità, nemmeno di fronte alla più rumorosa ed contrastante evidenza empirica. Si deve, almeno inizialmente, accettare l'aporia e, se non la si riuscisse ad eliminare, «si dovrebbe prendere atto

135 Ivi, pp. 26-27.

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della realtà dell'assurdo. Ma l'aporia è veramente insolubile?» 136. L'aporia non è insolubile per Severino, mentre lo sarà, come vedremo, per Bontadini. La soluzione qui prospettata da Severino è però fortemente deficitaria, come del resto quella fornita nella struttura originaria. Il deficit sta nell'interpretazione o convinzione, qui ancora vigente, che l'esperienza attesti qualcosa di contrario alla verità dell'essere. Tale convinzione sarà presto superata, già nell'articolo successivo, il Poscritto, che segna una svolta più profonda di quella impressa da Ritornare a Parmenide. In quest'ultimo testo Severino traccia una soluzione provvisoria che cercheremo di riassumere: uno stesso ente, poniamo questo colore rosso, in quanto immutabile si differenzia, ovvero si costituisce in una dimensione differente dallo stesso rosso come diveniente. Il senso di questo differenziarsi è decisamente problematico, infatti, da un lato deve rimanere ferma l'immutabilità della totalità dell'essere, ovvero non deve rimanere nessun residuo di essere al di fuori di essa che sia da considerarsi come indifferente. Dall'altro lato occorre concepire una dimensione diversa ma non esterna in cui sia possibile che l'essere appaia come indifferente. L'essere, lo stesso essere, si deve sdoppiare per rendere conto di queste due esigenze contrapposte. L'aporia, così prospettata non sembra avere una via d'uscita. La soluzione potrà essere proposta solo dopo il riconoscimento che l'esperienza non attesta il divenire come nascita e morte degli enti. Un altro grande protagonista, in questo dialogo tra Severino e i filosofi greci, è sicuramente Aristotele. Il suo lavoro più meritorio è, sempre secondo il filosofo bresciano, quello sul principio di non contraddizione, l'élenchos. È inutile riprendere qui la lunga disamina che Severino offre intorno a questo procedimento, avendo già affrontato l'argomento nel capitolo precedente. Ci limiteremo dunque a sottolineare le novità che appaiono in questo scritto. L'importanza dell'élenchos per Severino è evidente dal fatto che tutto il suo discorso si basa, in definitiva su una radicalizzazione del principio di non

136 Ivi, p. 27.

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contraddizione. Dobbiamo dunque chiederci, in definitiva, perché l'identità di essere e non essere non può essere affermata? L'élenchos mostra che la negazione, se vuol tenersi ferma come tale, deve escludere da sé la propria negazione. Nel caso del principio di non contraddizione, se si volesse negarlo, non si potrebbe poi tenere ferma tale negazione come determinata di fronte alla negazione di tale negazione. La negazione del principio di non contraddizione necessita di tale principio per costituirsi come tale. Anzi, qualunque dire, in quanto vuol tener fermo se stesso di fronte alla propria negazione, necessita del principio di non contraddizione e qualunque negazione di questo dire necessita dello stesso principio se vuole costituirsi come tale. L'élenchos non dice che è contraddittoria la negazione del principio, dice che essa, senza tale principio, non riesce a costituirsi come tale. Il valore di questo argomento è dunque il valore dell'opposizione, in generale, tra una determinazione e i suoi contraddittori. Tale valore non è un di più rispetto all'opposizione, o anche, la tesi è tale solo insieme alla sua giustificazione. Questa unità è di fondamentale importanza in quanto, essendo l'opposizione un elemento della struttura originaria, se la fondazione dell'opposizione fosse altro rispetto a questo piano originario, esso risulterebbe immediatamente infondato. Una infondatezza di questo tipo non sarebbe ovviamente più recuperabile, poiché non si potrebbe fondare (cioè tener fermo di fronte alla propria negazione) alcunché di ulteriore 137. Per introdurci verso la prima replica di Bontadini dobbiamo prima mostrare, ovviamente, le critiche che esplicitamente Severino gli rivolge. Bontadini, stando alle parole dell'allievo, si muove all'interno della prospettiva melissiana, ovvero quella prospettiva che non vede più l'immediatezza dell'immutabilità dell'essere. Questo si può riscontrare nell'esposizione del

137 Qui non si vuole negare che l'élenchos sia un procedimento, dunque sia una mediazione, si vuole però intendere questa mediazione come interna al piano dell'immediato, anche se la sua esplicitazione discorsiva si presenta in maniera mediazionale. Un altro punto di approfondimento interessante sul principio di contraddizione può essere offerto da chi dicesse che, sicuramente, esso vale per ciò che appare, per il dominio della coscienza, ma cosa ci garantisce che esso valga anche per dell'altro che non appare? Se con questa domanda si presuppone l'esistenza di una cosa in sé, allora l'onere della prova sta a chi fa tale presupposto. Se invece è una domanda meramente

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principio della metafisica, che abbiamo affrontato nel precedente capitolo. Dicendo che l'essere non può essere originariamente limitato dal non essere, Bontadini intende che sarebbe contraddittorio che il nulla “agisse” in modo da limitare l'essere. Infatti così il negativo sarebbe positivo, in quanto limitante, appunto. Il richiamo all'originario e alla limitazione viene interpretato da Severino con questo esempio: se nel mio campo d'esperienza entra un rumore che prima non era presente, allora l'essere di tale rumore, data la sua esistenza attuale, era limitato durante la sua assenza, nel senso che era nulla (o sarà nulla uscendo dal mio campo d'esperienza). Il perché o la causa di questo essere nulla da parte di qualcosa non può essere il nulla stesso, poiché in questo modo sarebbe identificato ad un positivo. Severino sostiene con questa ricostruzione che per Bontadini non fa alcuna meraviglia che l'essere sia nulla, ciò che desta meraviglia e contraddizione è che questo accadimento sia opera del negativo. Il divenire non è visto immediatamente come contraddittorio, la contraddizione appare solo quando lo si rapporta ad altro. In questo caso l'altro a cui è riportato è l'assolutizzazione, o l'originarietà, del divenire. Se il divenire è assunto come totalità del reale e non c'è nulla di non diveniente che possa spiegare la limitazione insita nel divenire, allora esso è contraddittorio. Per ovviare questa contraddizione si deve ipotizzare un positivo causante e non diveniente, come fa, appunto, Bontadini. Questa esplicita critica al maestro è doppiamente interessante, oltre che per questioni affettive, anche perché fu lo stesso Bontadini a rifarsi al principio di Parmenide, seppur intendendolo diversamente. Occupiamoci ora, dunque, della risposta di Bontadini.

ipotetica, certamente si pone un problema di non facile soluzione, ma appunto, si propone come problema, non come confutazione.

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La prima reazione. Salvare i fenomeni La risposta di Bontadini non si fece attendere. Già nel numero successivo della rivista appare l'articolo Σωζειν τα ϕαινομενα, ovvero salvare i fenomeni. Il titolo è già la sintesi migliore dell'intervento, in quanto è fondamentalmente questo il punto di criticità delle tesi di Severino su cui batte Bontadini. L'articolo comincia senza risparmiarsi una buona dose di ironia, in particolare verso la pretesa di Severino di essere l'unico testimone della verità dell'essere dopo Parmenide: «Tutti fuori della Verità, pertanto, eccetto voi due, l'antichissimo italico e Tu, vivo e gagliardo rampollo di questa stessa terra»138. La Destruktion della metafisica occidentale sembra, nota Bontadini, un genere piuttosto in voga dopo Heidegger, ma forse bisognerebbe lasciar passare un po' più tempo tra una distruzione e l'altra per non «guastare del tutto il mestiere, già tanto in ribasso oggigiorno» 139. Il tono è ironico ma, come si può vedere, affettuoso, come quello di un maestro che redarguisce l'amato allievo. Con lo stesso andamento leggero Bontadini prosegue, rispondendo nel dettaglio alle provocazioni dell'allievo. Riguardo all'interpretazione della storia della filosofia data da Severino essa è ritenuta, «quanto alla sostanza, errore e null'altro che errore»140. Il punto su cui più si concentra la critica è la situazione aporetica prospettata da Severino tra esperienza e ragione, l'una che dice l'essere diveniente, dunque annullantesi, l'altra che lo pone come eterno. Nota Bontadini che, se si vuole semplicemente tener fermo tutto l'essere come immutabile, il divenire non sarebbe più possibile. Per Bontadini il contrasto, se viene prospettato con questa radicalità, è semplicemente insolubile. Infatti ci troveremmo di fronte a due considerazioni esplicitamente contraddittorie: una dice che l'essere si annulla e l'altra dice che non si può annullare. Severino a rguardo parla di differenza ontologica tra le due

138 Bontadini 1964, p. 439. 139 Ivi, p. 440. 140 Ivi, p. 441.

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modalità, ma ciò non toglie che, alla fine dei conti, essendo esse contraddittorie, una delle due debba cedere all'altra, ma quale delle due dovrebbe cedere se entrambe sono attestate con evidenza? La soluzione prospettata da Severino come diversificazione dell'identico non è plausibile, oltre che per questa ragione, anche per un'altra ulteriore, che Bontadini esemplifica. Ponendo che un uomo nel tempo, dunque nel divenire, cambi molte, centinaia di barbe, con quale barba si ritroverà egli nell'essere immutabile? Questa critica, in realtà è secondaria, e sarà facilmente risolta da Severino negli articoli seguenti, come vedremo. La soluzione di Parmenide, com'è noto, stava nel porre il divenire e la molteplicità sul piano dell'illusione. Tale soluzione, sottolinea giustamente Bontadini, non è più usufruibile al di fuori di una impostazione gnoseologistica, poiché si potrà sempre chiedere se questo piano dell'illusione esista o non esista. Se si dice che esiste, come si deve dire, allora esso fa parte dell'essere, sia pure come illusorio. Dire che non esiste, invece proprio non si può, dato che se ne parla e dato, soprattutto, che esso è attestato dall'esperienza. Buona

parte

delle

critiche

di

Bontadini

si

concentrano

poi

sull'interpretazione storica di Severino. Egli infatti, accomunando stoicismo, neoplatonismo e scolastica sotto il vessillo del medesimo errore, rende un pessimo servizio alla storia della filosofia. Il problema fondamentale sta però più a monte, nella lettura del principio di non contraddizione da cui tutto parte.

Per

Bontadini

tale

principio

segna

il

giusto

riconoscimento

dell'esperienza che «non può essere messa da parte» 141, in quanto lascia aperta la possibilità che un certo essere possa non essere, possa essere limitato. Tale possibilità è e deve essere lasciata aperta solo per quella porzione di essere che testimonia effettivamente la realtà di tale possibilità, mentre il discorso sulla radicalizzazione del principio in senso parmenideo può, e per Bontadini deve, esser tenuto fermo circa l'essere necessario, il

141 Ivi, p. 446.

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garante della non contraddittorietà del divenire. Tutte le obiezioni di Bontadini convergono sullo stesso punto, semplice da schematizzare: «Dato che l'esperienza è reale, essa deve essere incontraddittoria»142. La divergenza tra i due autori sta, in questo momento del dibattito, tutta qui. Bontadini tiene ferma l'esperienza del divenire come reale e cerca di pensarla in modo incontraddittorio inserendo solo una porzione di essere parmenideo che garantisca il divenire dall'assurdità di essere causato dal nulla ma che non sia talmente ampia da impedire il divenire. Severino, dall'altro lato, tiene fermo il discorso parmenideo, corretto dal platonismo, e successivamente si pone il problema di come riconciliare questo discorso con la realtà del divenire. Per Bontadini questo tentativo di conciliazione termina vittoriosamente nella scolastica col principio di creazione. Il principio di creazione soddisfa tutte le opposte esigenze in quanto permette di concepire il divenire, l'annullamento dell'essere, come opera di un essere che non sia a sua volta affetto dal divenire. Per questo motivo si dice che il creatore trascende il creato, istituendo così due piani che si garantiscono a vicenda senza essere conflittuali. Che l'essere si annulli non è visto come contraddittorio da Bontadini, la contraddizione sarebbe solo quella di un nulla che agisca come un positivo. Perchè Bontadini non vede la contraddizione che è tenuta invece in vista da Severino? Le risposte a questa domanda possono essere due. Da un lato possiamo pensare che Bontadini non abbia recepito l'argomentazione di Severino secondo la quale il divenire è contraddittorio in quanto tale, ovvero, dicendo che A diventa non-A io devo pensare, e non posso farlo, A come non A. L'argomentazione di Severino è però molto esplicita e chiara, non possiamo pensare ad una mancanza di Bontadini. L'altra opzione, ed è quella più coerente, è che Bontadini abbia si riconosciuto l'aporia parmenidea del divenire, ma che l'abbia più o meno volutamente lasciata cadere di fronte alla più rumorosa evidenza della realtà diveniente. Bontadini

142 Ivi, p. 447.

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potrebbe cioè dire lo stesso di quanto affermava Aristotele, che stando ai ragionamenti, gli eleati sembrano aver ragione, ma stando alle cose è follia pensare a quel modo. Un altro appunto, marginale ma interessante nel contesto della disputa, mosso dal neoscolastico riguarda il concetto di divinità sottinteso dall'impostazione severiniana. La tesi dell'eternità di ogni essente implica infatti realmente una sorta di panteismo, o meglio, se ogni ente che appare come diveniente deve avere la sua, per così dire, controfigura, nella sfera dell'immutabile, ne risulta che il piano divino è semplicemente un rispecchiamento a fermo immagine del mondo. In effeti, nel discorso di Severino non c'è alcun accenno ad una divinità unica, come il Dio cristiano o l'Uno neoplatonico, seppur non compaia nemmeno il rifiuto di tale divinità. Il principio di creazione permette ed anzi necessita di tale figura per funzionare, per cui quest'ultimo è più aderente alla concezione cristiana della divinità. Questa non è propriamente, come si può vedere, una critica, o meglio, è una critica solo nella misura in cui Bontadini poteva credere che Severino volesse tener ferma una simile concezione della divinità, cosa che non sarà. Una critica invece molto interessante, seppur solo abbozzata, riguarda un'incoerenza interna ai lavori di Severino. Ne La struttura originaria era chiaro come il piano originario dovesse essere trattato come intreccio di immediatezza logica e fenomenologica, senza anteporre o separare l'una dall'altra, cercando la sintesi delle rispettive esigenze. Qui, invece, il discorso logico viene arbitrariamente separato dal discorso fenomenologico, creando così un'aporia insuperabile finché non ci si renda conto che essa è di fatto superata nella realtà. Severino non avrebbe dunque tenuto il dovuto conto delle sue stesse premesse metodologiche. Il punto è decisivo in quanto, stando a queste posizioni, la critica è realmente insuperabile. La vera svolta, quella che rimescolerà tutte le carte, portando la ragione dalla parte di Severino, apparirà solo nel Poscritto, che è lo scritto più importante della serie che analizzeremo. 95

Ritorniamo ora sulle considerazioni di carattere storico. In particolare vorremmo analizzare il richiamo a Parmenide effettuato dallo stesso Bontadini, in confronto a quello, più celebre, dell'allievo. Per il pensatore milanese «Parmenide corrisponde a quella spinta iniziale che subito deve essere rettificata. Il contributo, insostituibile, di Parmenide sta dunque soltanto […] nell'avvistamento di quella contraddizione, che si tratta di togliere attraverso una costruttiva interpretazione dell'Intero» 143. L'istanza parmenidea è tenuta ben in vista, sottolinea Bontadini, dai successivi pensatori greci. In una certa misura si può dire che la filosofia di Platone e quella di Aristotele siano delle risposte a Parmenide e, venendo a tempi più recenti, che la filosofia neo-scolastica sia, almeno inizialmente, neoparmenidismo. Anche Severino sottoscriverebbe questa posizione, la differenza sta tutta nella giustificazione che se ne dà. Per Bontadini i pensatori successivi a Parmenide correggono opportunamente la posizione troppo radicale dell'eleate prestando ascolto al richiamo del mondo, ma, allo stesso tempo, memori della lezione sull'essere, trovano che la pensabilità del mondo diveniente vada garantita dall'esistenza dell'essere necessario ed immutabile: l'idea platonica, il motore immobile aristotelico, il creatore cristiano. Per Severino, al contrario, quella iniziale correzione non può essere accettata, in quanto rappresenta il fraintendimento e poi la dimenticanza della lezione parmenidea, che invece va tenuta ben salda. Bontadini si spende particolarmente, in questa risposta, nella difesa della tradizione scolastica. In particolare un obiettivo polemico di Severino era, abbiamo visto, il tentativo di dimostrare l'essere necessario 144. Tale dimostrazione è prova della dimenticanza della verità dell'essere poiché, essendo questa immediatata, tentare di dimostrarla mediatamente ne denuncia l'incomprensione. Bontadini innnanzitutto cerca di mostrare come

143 Ivi, p. 450. 144 In questa discussione corre una sottile ambiguità tra l'idea di essere necessario come trascendente il mondo e l'idea che l'essere sia necessario in quanto essere. Bontadini argomenta sempre tenendo ferma la prima interpretazione, ma, come sappiamo, Severino adotta la seconda. Tenere presente questa differenza evita di generare ulteriori equivoci.

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le vie scolastiche alla comprensione di Dio non siano vere e proprie dimostrazioni quanto «un'ascesa psicologica alla visione dell'immediatezza logica», ovvero all'esistenza di Dio. Dall'altro lato sostiene che Severino, servendosi dell'élenchos per tener fermo l'essere dell'essere contro la sua negazione, ed essendo questa opposizione lo stesso senso dell'essere o il modo corretto di semantizzarlo, usi in qualche modo una mediazione, dunque una sorta di demonstratio, per porre tale verità immediata. Severino parla, in questo punto di una mediazione interna all'immediatezza o di uno svolgersi dell'immediatezza, ma la distinzione appare piuttosto sottile, anche se Severino continuerà a difenderla. Bontadini risponde poi alle obiezioni più dirette rivoltegli dall'allievo, risposte già anticipate nel corso del testo in realtà. Ad esempio la critica al principio della metafisica, secondo il quale l'essere non può essere originariamente limitato dal non-essere. Nell'obiezione Severino dice che Bontadini non ha tenuto conto della contraddizione parmenidea per seguirne un'altra, derivata secondariamente da essa. Bontadini risponde di aver tenuto conto di tale contraddizione ma non nella stessa misura dell'allievo e ciò perché «il divenire si presenta, bensì, contraddittorio, ma noi sappiamo originariamente che esso contraddittorio non può essere, proprio perché originariamente sappiamo che il reale è incontraddittorio»145. Questa citazione conferma pienamente l'interpretazione che abbiamo dato prima circa la comprensione bontadiniana di tale punto. Dall'altro lato Severino continuerà ad insistere sull'incomprensione del maestro, infatti, dal suo punto di vista, la tesi parmenidea è così cogente che una volta realmente afferrata non la si può abbandonare o tralasciare, nemmeno di fronte all'evidenza contraria dell'esperienza. In questo momento la posizione di Severino può apparire decisamente integralista, ma così non sarà dopo aver mostrato in modo convincente che, in realtà, l'esperienza non contrasta la verità dell'essere. Per questo motivo il percorso di Severino denota una sorta di

145 Ivi, p. 455.

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imprudenza filosofica, poiché non ha avuto paura di tener fermi i risultati a cui la ragione lo portava, nonostante le evidenze contrarie. La posizione di Bontadini cerca di salvare entrambe le istanze, quella dell'esperienza e quella della ragione, ma lo fa attraverso un compromesso che inficia immediatamente l'istanza parmenidea, sottraendo una porzione di essere all'immutabilità. Per lui la proposizione corretta è che l'essere contenga l'immutabile, non che l'essere sia l'immutabile. Severino, in altri testi, arriverà addirittura a mostrare come questo compromesso non solo perda la purezza dell'essere, ma renda anche contraddittorio il divenire, ovvero realizza il contrario di quelle che erano le intenzioni di Bontadini. L'altra critica a cui Bontadini risponde esplicitamnete è quella riguardante il pensiero della contraddizione, ovvero il contraddirsi. Abbiamo visto che per Severino contraddirsi significa pensare il nulla, ovvero significa una positività di pensiero che però ha come oggetto il nulla. Bontadini invece imposta il problema in modo diverso, creando una sorta di equivoco. Dice infatti che il pensiero che si contraddice si annulla, dice il doppio di ciò che dovrebbe dire e dunque non dice niente, è come un'operazione matematica in cui a - a = 0. Per questi motivi si può affermare che chi si contraddice non riesce a dire nulla in quanto, contraddicendosi, si annulla il valore posizionale del contenuto che intende porre. Il pensiero contraddittorio non intenziona nulla, perciò è privo di valore. La posizione di Severino non esclude ciò, ma pone un altro problema. Il contraddirsi è un che di positivamente significante oppure no? Se si risponde di no bisogna poi chiedersi: come ci si accorge allora di essere in contraddizione? Evidentemente il contraddirsi deve apparire in qualche modo e appare precisamente come il positivo significare del nulla, un'intenzione pura che non intenziona nulla, in questo senso è uno sguardo sul nulla. Da questo punto di vista chi si contraddice certamente non riesce a dire nulla di ciò che vorrebbe dire, ma il suo tentativo, il suo contraddirsi, si mantiene comunque significante in quanto tale. L'ultimo punto trattato da Bontadini, che qui ci limitiamo ad accennare, riguarda l'élenchos. In particolare Bontadini critica il tentativo severiniano di 98

far valere tale “prova” non solo a livello logico ma anche a livello ontologico. L'errore starebbe nel porre un'analogia impropria tra la coppia essere-non essere e la coppia affermazione-negazione. Ma, dall'altro lato, Bontadini afferma anche di essere in sostanziale accordo col procedimento esplicitato da Severino. Al momento non aggiungiamo altro, avremo modo di fare più chiarezza sulla questione nel seguito del dibattito. L'articolo si chiude con qualche frase di riconciliazione in cui Bontadini sottolinea i tratti che accomunano ancora i due pensatori, al di là delle differenze sottolineate. Dall'altra parte Severino cercherà sempre di tener ferma la differenza tra le due posizioni, anche quando sembrano incrociarsi, in quanto l'accordo sui risultati è solo un inganno quando si fonda su giustificazioni contrarie.

Il Poscritto e la nuova interpretazione del divenire Il Poscritto di Ritornare a Parmenide appare l'anno dopo, nel 1965. Tra i due testi si sono accumulate molte risposte di critici. Abbiamo visto quella di Bontadini, che è certamente quella più rilevante, ma ve ne furono altre, come quelle di Giacon, Bausola, Nicoletti e molte altre voci si aggiunsero l'anno successivo. In questo articolo Severino da un lato riprende le fila del suo discorso,

introducendo

importantissime

novità,

dall'altro

tiene

la

corrispondenza, per così dire, e risponde, in modo più o meno approfondito ai vari critici. La pura ripetizione delle tesi di fondo di Severino, che abbiamo già abbondantemente esposto, non ci interessa più di tanto, iniziamo dunque entrando nel merito delle critiche. Carlo Giacon scrive un articolo intitolato Ritornare a Parmenide?146 dove muove varie critiche a Severino, critiche che in realtà vanno tutte più o meno fuori bersaglio. Giacon vorrebbe mostrare

146 Giacon 1964.

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che le tesi di Severino nascono da una confusione tra essenza ed esistenza. Infatti sarebbero le essenze a permanere garantendo l'incontraddittorietà del divenire. Se ad esempio diciamo «questa penna è diventata nulla» intendiamo che essa permane in quella modalità d'esistenza, appartenente all'intero dell'essere, che è, ad esempio, l'intellegibilità 147. Severino risponde, correttamente che comunque poniamo l'annullarsi di qualcosa, ad esempio l'esistenza di fatto di quella penna: la penna che esiste di fatto e l'essenza intellegibile della penna sono due enti che differiscono tra loro, non ha nessun senso dire che l'uno si conserva nell'altro, anzi, proprio una tale affermazione sottintende che uno dei due non sia più, che se no perché mai dovrebbe “conservarsi” in altro? Giacon poi interpreta l'identità delle proposizioni «l'essere è» e «l'essere non è nulla» come la mera significazione dell'essenza dell'essere, senza attribuire a tale identità alcun significato esistenziale. L'identità esplica certamente il senso o l'essenza dell'essere, ma se si comprende il discorso, dicendo che l'essenza dell'essere è di non essere nulla si dice che l'essere è necessariamente qualcosa, non è nulla e non può diventare nulla. Questo vale per ogni essere, anche per quell'essere che è semplicemente ideale e tendiamo ad identificare come essenza: esso esiste, con la propria modalità di esistenza. Severino non intende identificare essenza ed esistenza, indica solo la loro necessaria implicazione 148. L'essenza è nulla staccata dalla sua esistenza. Si faccia un esempio per chiarire la questione: questo foglio di carta viene bruciato, esso non è più. Noi possiamo ora provare ad immaginarci quel foglio di carta e chiameremo questo oggetto mentale, o almeno alcune sue caratteristiche, l'essenza di quel foglio di carta. Ma in realtà questo è appunto un oggetto mentale qualunque, un ricordo precisamente, ed esiste in quanto oggetto mentale, non è una pura essenza abbandonata dalla rispettiva esistenza! La separatezza dell'essenza è un

147 Cfr. Ivi, p. 477. 148 Cfr. Severino 1995, p. 77, in risposta a Bausola 1965.

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frutto della dimenticanza della verità dell'essere, ovvero del pensiero che dice che l'essere è e non può non essere. L'essenza non è altro che il residuo contraddittorio di un essere indifferente al suo essere o non essere. Il tema del rapporto essenza-esistenza è un ottimo punto di partenza per approcciare il discorso severiniano. Prendiamo ad esempio la prova ontologica dell'esistenza di Dio. Essa cerca di dimostrare che all'essenza di Dio debba corrispondere l'esistenza. Questo discorso presenta un'assonanza con le tesi di Severino che in realtà maschera la più drammatica distanza. Se prendiamo ciò che gli scolastici chiamano l'essenza di Dio abbiamo che essa è un'idea e, seguendo Severino, questa “essenza” esiste certamente ma come tale, ovvero come oggetto (mentale, ideale). Il salto da questo oggetto all'esistenza di quell'entità che è Dio non è il salto dall'essenza di Dio alla sua esistenza. Essenza ed esistenza sono due facce della stessa medaglia, non si possono trovare separate. Se fossimo veramente di fronte all'essenza di Dio saremmo già di fronte all'esistenza di Dio, non perché tale essenza, contenendo tutte le perfezioni, non possa mancare di quella perfezione che è l'esistenza ma semplicemente perché l'essere (=essenza) è (=esiste). Non tener fermo questo punto significa perdersi nel dominio dell'astrazione che crede di poter afferrare qualcosa, come l'essenza, anche se non esiste, ovvero crede di poter tener fermo il nulla! «L'essenza astratta è nulla? Se no allora è eterna come essenza astratta» 149. La maggior parte dei critici cimentatisi nella critica del pensiero severiniano in quegli anni ha mancato clamorosamente il bersaglio su questo punto, continuando a ragionare in termini di essenze ed esistenze separate. Sul merito storico della critica alla scolastica Severino risponde invece a Bontadini, che si dimostra da subito il critico più attento. Circa la questione della dimostrazione di Dio, dice Severino, è vero che essa si configura, per la filosofia classica e scolastica, come quel processo che intende togliere la contraddittorietà dal mondo del divenire. Il punto però è proprio questo per

149 Severino 1995, p. 76.

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Severino, ovvero che si richieda un processo per dimostrare l'esistenza dell'essere necessario quando si va dicendo che è immediatamente noto che ogni essere è, in quanto tale, necessario ed eterno. Un ultimo punto, di grande interesse, sul tema del rapporto essenzaesistenza è la ripresa della domanda fondamentale della metafisica, formulata da Heidegger, ma anche da Leibniz prima di lui: perché l'ente e non piuttosto il nulla, ossia perché l'ente esiste e non accade invece che non esista nulla? Il problema è sicuramente impegnativo, il più impegnativo direi, ma le tesi di Severino consentono forse di tentare almeno un nuovo approccio. Innanzitutto esse invitano a porre la domanda col maggior rigore possibile, ovvero non permettono di pensare ad un ente come indifferente al suo essere o non essere. Non si può chiedere perché l'ente esista ovvero perché non sia nulla, sarebbe come chiedersi perché un triangolo abbia tre lati. Da questo punto di vista quella domanda va a ricercare il fondamento della struttura originaria, ovvero il fondamento di ciò che è fondamento di ogni pensiero! La questione è affrontata da Severino in poche righe ed è un vero peccato, in quanto meriterebbe sicuramente un approfondimento maggiore. Infatti la domanda potrebbe essere riproposta in altri termini senza supporre contraddittoriamente che l'ente possa essere niente. Non è facile formulare la questione in termini coerenti con la proposta severiniana, considerato che l'indifferenza dell'ente è, di fatto, la struttura dominante del nostro linguaggio. Esiste la possibilità che questa dissoluzione della domanda fondamentale sia effettivamente la soluzione dell'enigma, perché, infatti, meravigliarsi dell'esistenza? Il nulla sarebbe forse meno meraviglioso? Nell'universo di necessità descritto da Severino ogni cosa è quel che è. Una via per ridestare la meraviglia sarebbe allora quella di chiedersi perché tra tutti i possibili enti esistono questi che ci appaiono e non altri? Questa domanda ridesta la meraviglia in quanto sottintende che sia stata compiuta una scelta, non tutte le possibilità, dice, sono realizzate. Ma, in fondo, come possiamo sapere che non tutte le possibilità sono realizzate? Come possiamo sapere che la possibilità non coincida, al di fuori di ciò che ci 102

appare, con l'esistenza? Queste sono, ovviamente, solo ipotesi intriganti, nuove vie per sperimentare la meraviglia metafisica. In questi punti Severino ha chiarito e riaffermato la tesi della necessità dell'essere in modo tale da evitare fraintendimenti, almeno sul piano della comprensione. Ora si tratta di difendere, compito ben più grave, la consistenza della tesi, Si tratta di difenderla soprattutto in relazione all'aporia che abbiamo ampiamente prospettato tra essere e divenire o, coi termini di Bontadini, tra ragione ed esperienza. Proprio Bontadini è stato il critico più acuto di questi scritti severiniani, in quanto non ha mai mancato la comprensione delle tesi di fondo ma si è sempre opposto alla loro consistenza. L'aporia tra immutabilità dell'essere e realtà del divenire è sicuramente tale da richiedere una soluzione, infatti, argomenta Severino, da un lato, se si tien ferma, come si deve tener ferma, la certezza dei suoi due corni, essa determina l'assurdo. Ma proprio l'assurdo, cioè che la realtà sia contraddittoria, è ciò che non può essere accettato. La soluzione di Bontadini, argomenta Severino, opta per abbandonare uno dei due corni, quello che sostiene l'immutabilità dell'essere. Il gioco dialettico che Bontadini ne deriva, però, non può reggere date queste premesse. Abbiamo visto che Bontadini sposta il rilevamento della contraddizione dal fatto che l'essere divenga nulla al fatto che questo divenire nulla, questa limitazione, sia causato dal nulla. Questa è la molla che porta all'affermazione dell'essere immutabile. Dal punto di vista severiniano questo è semplicemente un abbandono della verità e non può essere sostenuto. Ma anche mettendosi dal punto di vista di Bontadini ci sono dei problemi. Il discorso fa vari presupposti non fondati: ad esempio, e valga per tutti gli altri, che la limitazione o l'annullamento dell'ente debba essere causato. Non si capisce perché, una volta accettata la possibilità che l'ente divenga nulla, questo passaggio debba essere spiegato ricorrendo alla causalità. Bontadini sembra qui trasferire indebitamente la suggestione fisica del principio d'inerzia sul piano metafisico. L'aporia si presenta, per Severino, nel seguente modo: si hanno due 103

termini appartenenti alla struttura originaria, entrambi sono, in quanto originari, evidenti. Eppure appare tra loro una contraddizione. Sappiamo che la contraddizione non può essere reale, in quanto la realtà non può essere contraddittoria, perciò essa dev'essere generata da un terzo termine, una x, non appartenente alla struttura originaria. La contraddizione può essere solo apparente. L'elemento estraneo è subito individuato da Severino, si tratta dell'interpretazione del divenire come annullamento e creazione dell'essere. Si badi: se il divenire è inteso, in sede definitoria, come l'annullamento dell'essere, o come l'emergere dell'essere dal nulla, allora la verità dell'essere proibisce che l'essere divenga e lo proclama immutabile; ma il problema, ora, è quest'altro: il divenire appare come un siffatto annullamento e come una siffatta emersione? E cioé: il divenire che appare è il divenire che non può convenire all'essere? La ragione alienata, diciamo, tende a nascondersi questo problema e ad accettare come definitiva l'espressione del divenire, che appare, in termini di essere e di non essere150.

La questione è posta in maniera molto chiara. Il divenire continua ad essere elemento appartenente alla struttura originaria, ma è dubbio che appaia in essa l'annullamento o il venire dal nulla dei termini divenienti. Il dubbio, è facile immaginarlo, verrà risolto negativamente, ovvero il nientificarsi dell'ente non appare. Cerchiamo di capire il perché di tale affermazione. Prendiamo l'esempio, proposto dallo stesso Severino, della carta che brucia, diventando cenere e approfittiamo dell'occasione per fare una sintesi delle tesi di Severino. La cenere, ovviamente, non è identica alla carta, perciò che la carta diventi cenere significa che la carta diventa non-carta 151. Più in generale possiamo dire che il divenire, così inteso, implica che una cosa,

150 Ivi, p. 85. 151 Per “non-carta” intendiamo il dominio dei contraddittori di questa carta, ovvero tutti i termini che, predicati di questa carta, generano una contraddizione.

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divenendo non sia più se stessa. Chi volesse tirare in mezzo, qui, il principio di conservazione della materia, per cui in realtà le parti ultime indivisibili restano sempre se stesse, sarebbe fuori strada, infatti, anche le relazioni tra queste ipotetiche parti ultime ed indivisibili sono enti, nel senso che non sono nulla, e si dovrà pur ammettere che nel corso degli eventi queste relazioni mutino! Ora, se vogliamo pensare che la carta diventi non-carta o che diventi nulla (il nulla in realtà è sempre appartenente al dominio della non-carta), dobbiamo identificare quella carta con quel nulla, altrimenti non avremmo il nulla di quella carta e non potremmo dire che quella carta sia diventata nulla, avremmo un semplice passaggio dall'apparire della carta all'apparire del nulla (o della non-carta). L'identificazione ovviamente è contraddittoria, il che conferma la necessità parmenidea dell'essere. Proprio su questo punto si innesta il discorso sull'interpretazione del divenire. A livello di ragionamento il nullificarsi dell'ente non è possibile. Ma, a livello empirico, appare questo nullificarsi? Dobbiamo rispondere di no. A livello fenomenologico appare la carta, poi la carta che brucia, poi la cenere. Tutti i termini successivi al primo sono, ovviamente, non-carta, dunque in essi quella carta è nulla. Ora, questo essere niente da parte della carta appare oppure di quell'oggetto non appare più niente? Appare che l'oggetto è niente o l'oggetto non appare più? La risposta corretta è ovviamente la seconda, la carta non appare più, non è, semplicemente, più un contenuto della nostra esperienza attuale, dal che non si può trarre la conclusione che essa sia diventata nulla. L'errore interpretativo scambia il non apparire col non essere, per cui si trova a dire che quel certo oggetto è diventato nulla quando, semplicemente, esso non appare. Questo risultato è di fondamentale importanza in quanto riconcilia la ragione con l'esperienza. Il ragionamento ci dice che l'essere nulla di qualcosa è una contraddizione e l'esperienza ci dice che tale esser nulla di qualcosa non appare. Le due testimonianze sono coerenti e l'aporia è risolta. La soluzione è chiara ma conviene soffermarvisi ancora un po', in quanto 105

questo punto, che in realtà è saldissimo, non sarà mai accettato del tutto da Bontadini, per i motivi che vedremo. L'apparire è strutturato in modo tale che in esso appaiono sempre certi determinati contenuti positivi oppure non appaiono, esso non ci dice altro rispetto all'esistenza di ciò che attualmente non appare, né potrebbe dirci altro. Cosa dovrebbe apparire, infatti, perché si possa dire che una cosa è diventata nulla? Dovrebbe apparire il nulla di quella cosa. Ciò non può essere. Infatti, in primis, non può apparire il nulla, ovvero il nulla non è contenuto di alcuna esperienza possibile e, in secondo luogo, se anche apparisse il nulla come potremmo dire che si tratta del nulla di quella cosa? Cosa distingue il nulla di questa carta dal nulla di questo albero? Non ci potrebbe essere, evidentemente differenza. L'argomento può richiamare in qualche modo il “meccanismo cinematografico del pensiero” di cui parla Bergson nell'ultimo capitolo dell'Evolutiòn Creatrice. Come nello svolgimento di una pellicola cinematografica, infatti, i vari contenuti, i vari frame, entrano ed escono dallo schermo, che sarebbe il nostro campo d'esperienza, ma restano “salvi” sulla pellicola. Superata brillantemente questa aporia se ne presenta però subito un'altra, legata a questa ma ulteriore. Su questo problema ulteriore punteranno tutte le maggiori critiche rivolte a Severino, non solo da parte di Bontadini, ma di chiunque si sia cimentato col suo pensiero. Il risolvimento di questa nuova aporia, sosterremo, non può essere realizzato conservando tutti i presupposti severiniani, occorre bensì integrare il discorso del filosofo bresciano con almeno un'altra considerazione fondamentale. Ora però, introduciamo l'aporia. Come abbiamo visto, ciò che l'interpretazione erronea del divenire chiama il cominciare ad essere ed andare nel nulla da parte dell'ente, in una corretta considerazione fenomenologica non sono altro che un cominciare ad apparire ed un cessare di apparire. Tutto l'essere, dunque, si conserva eterno presso di sé, come stabilito da Parmenide. Ma, poiché anche l'apparire di qualcosa è una determinazione del positivo, 106

il cominciare ed il cessare di questo apparire non contrastano forse l'eternità dell'essere? Se fosse così non avremmo ottenuto altro risultato se non quello di spostare l'aporia su un altro livello. Riprendiamo l'esempio della carta. Essa inizialmente appare, poi, quando appare la cenere essa non appare più. Se anche la carta fosse “salva”, seppur nascosta, lo stesso non si può dire di quel positivo, di quell'ente che è l'apparire della carta. Esso evidentemente non esiste più, in quanto la sua essenza è quella di apparire, non può, come la carta essere nascosto al di fuori dell'apparire, al di fuori di se stesso. Se la carta non appare è evidente che non esiste più l'apparire di quella carta. La contraddizione è stringente, però Severino escogita delle soluzioni ulteriori e chiede: l'obiezione rileva che, proprio perché l'apparire è anch'esso un essere, allora nel divenire ne va pur sempre di quell'essere che è l'apparire (onde l'impossibilità di non definire il divenire in termini di essere e non essere); ebbene, l'obiezione opera questo rilevamento sulla base della constatazione che l'apparire esce e ritorna nel nulla, oppure sulla base di una inferenza che deduca come il divenire sia pur sempre questione di essere e non essere, anche qualora lo si intenda come apparizione-sparizione dell'essere152?

Questa domanda pone un aut aut circa la giustificazione dell'affermazione che, da ultimo, rimane un residuo di nullificazione dell'essere. Tale affermazione può essere fatta sulla base di una constatazione, dunque su base fenomenologica o esperienziale, oppure può essere dedotta mediante un ragionamento. La prima ipotesi dev'essere esclusa per il fatto che è impossibile che appaia il nullificarsi di qualcosa, sia questo qualcosa anche l'apparire della carta. Non scorgiamo e non possiamo scorgere che esso sia diventato nulla, per lo stesso motivo per cui non è possibile scorgere il nulla

152 Ivi, p. 93.

107

di qualunque cosa. Noi facciamo, più semplicemente esperienza dell'assenza di tale apparire: tale apparire prima appariva e ora non appare più. Poiché l'esperienza non potrà mai dare un responso contrario alla verità dell'essere

la

contraddizione

dev'essere,

dunque,

motivata

da

un

ragionamento. Ora, Severino premette che tale ragionamento, essendo in contrasto con la verità originaria dev'essere a priori sbagliato. Nonostante questa imperturbabile certezza, il filosofo bresciano concede che qui si trovi un'ulteriore aporia e che essa vada affrontata chiedendosi come si debba intendere il sopraggiungere ed il dileguarsi dell'apparire in modo tale da non farla sorgere. Per rispondere a questa domanda Severino invita a riflettere sulla struttura dell'apparire per comprendere che qualcosa può apparire solo se appare il suo apparire. Il punto è già stato accennato nel capitolo precedente, ma è opportuno riprenderlo e integrarlo. Dicendo che mi appare questa penna dico, insieme, che mi appare l'apparire di questa penna. Se mi apparisse la penna ma io non fossi cosciente di questo apparire non si darebbe autocoscienza, dunque non potrei dire che mi appare quella penna. Che l'apparire di una certa determinazione empirica appaia a sua volta è una connessione necessaria della struttura dell'apparire. Quest'ultimo asserto è così giustificato, in altri termini, da Severino: l'oggetto che appare ha una connessione necessaria col suo apparire, altrimenti non sarebbe un oggetto che appare. Se dunque tale connessione è necessaria, l'oggetto non può apparire per quel che è senza che appaia anch'essa, perciò qualunque cosa appaia non potrebbe apparire se non apparisse il suo apparire. Il discorso è abbastanza chiaro, ma come ci aiuta a risolvere l'aporia sopra prospettata? Questo legame necessario implica che l'apparire dell'oggetto cominci ad apparire quando l'oggetto comincia ad apparire e cessi di apparire quando l'oggetto cessa di apparire. Ovvero ciascuna cosa ha legato a sé il suo apparire, dunque non si ha semplicemente la comparsa e la scomparsa dell'apparire della cosa, ma si ha il comparire e lo scomparire dell'apparire della cosa. Questo apparire che va e viene, necessariamente 108

legato al suo contenuto specifico, è chiamato apparire empirico. In quanto tale subisce lo stesso destino del suo contenuto, compare e scompare. Ammesso e non concesso che questa soluzione abbia senso 153, risolve qualcosa? No, a nostro avviso. Si limita a spostare il problema più a monte. Infatti potremmo chiederci: se l'apparire empirico compare e scompare, non si propone la stessa situazione in relazione all'apparire dell'apparire empirico? Evidentemente sì, se un certo apparire empirico scompare, il suo apparire non c'è più. Questo importa, daccapo, il nullificarsi di un positivo. Vedremo meglio queste criticità nel proseguimento del dibattito. Severino, a questo punto, è costretto ad inserire nel discorso un nuovo apparire di livello superiore, l'apparire trascendentale. Questo apparire non diviene, bensì ha come contenuto ogni divenire. Il senso di questo nuovo elemento è presto chiarito, è l'elemento che tiene uniti tutti i vari apparire empirici. Infatti, perché il divenire appaia come tale, ovvero come una successione di eventi, ci dev'essere un elemento in comune che tiene insieme il prima ed il poi, altrimenti la serie non si costituisce come tale e restano solamente dei frammenti tra loro slegati. L'apparire trascendentale ha la funzione di unificare la molteplicità diacronica (ma anche sincronica nella misura in cui si possono dare più apparire empirici compresenti) dei vari elementi che appaiono. Esso non diviene, ovvero non appare o scompare, in quanto, essendo l'ultimo livello dell'apparire qui esposto, non c'è un punto di vista ulteriore tale che possa unificare il momento della sua presenza ed il momento della sua assenza in modo da costituire una serie diacronica. Più precisamente, esso non può divenire in quanto non può essere parte del processo che ha come contenuto, se fosse parte del processo non potrebbe saperlo come tale. Quindi, in realtà, non è contraddittorio che esso divenga,

153 Infatti ci si potrebbe chiedere: quando questo apparire empirico non appare, che ne è di esso? Il suo contenuto empirico, al quale è necessariamente legato, deve apparire, appunto perché esso apparire empirico è pur sempre un apparire, a meno che non gli si voglia cambiar nome. Ma non abbiamo detto che una cosa, per apparire, dev'essere accompagnata dall'apparire del suo apparire? Queste domande restano inevase e, a nostro avviso, non possono essere evase in maniera coerente accettando tutti i presupposti di Severino.

109

resta fermo soltanto che non può divenire di quel divenire che ha come suo contenuto. Può quindi divenire anch'esso? L'ipotesi non è contraddittoria, anzi, anche se non appare il suo divenire, possiamo ipotizzare che esistano cerchi più ampi di apparire, per i quali l'apparire trascendentale è un elemento diveniente. Si può risalire la scala, immaginando cerchi sempre più ampi fino a quel cerchio che sarebbe la totalità dell'apparire attuale. Quest'ultimo non non potrebbe nemmeno divenire dal punto di vista logico. Essendo infatti il punto di vista totale, non ci sarebbe nessun altro punto di vista più ampio tale che possa dire «esso sta divenendo». Uscendo dalla terminologia severiniana è chiaro che l'apparire empirico è l'io empirico, mentre l'apparire trascendentale richiama l'io trascendentale. Quest'ultimo è l'essenza dell'uomo, quel cerchio che ha come contenuto la struttura originaria, ovvero certi elementi, logici ed empirici, ed il loro variare (che è anch'esso elemento, cioè positivo significare). Esso può progettare l'esistenza di quel punto di vista superiore e totale, il punto di vista di Dio, che sa della sua nascita e della sua morte, ovvero del suo comparire e scomparire. Vede il senso di questo divenire a cui l'uomo non ha alcun possibile accesso fenomenologico e conosce il suo preciso posto all'interno del tutto. Il punto più problematico di tutto questo discorso, molto avvincente, sta nella relazione tra l'apparire trascendentale e i vari apparire empirici. Infatti, è vero che l'apparire trascendentale non diviene, ma è vero anche che il suo contenuto diviene. Se, dunque, questo apparire ha una relazione col suo contenuto, questa relazione si modifica, cioè diviene. Proprio su questo punto batterà maggiormente la critica di Bontadini, che seguiremo attentamente. Nonostante queste problematicità, Severino è riuscito nell'intento di conquistare un punto fermo di estrema rilevanza. In qualunque modo si voglia affermare che un certo ente diventi niente, questa affermazione non può essere una constatazione, ovvero non può essere un contenuto fenomenologico, poiché l'esperienza non ci attesta mai che una cosa che 110

non appare sia diventata niente. La nientità dell'ente si potrà affermare allora solo per via mediazionale, attraverso un ragionamento. Anche questo procedimento,

dal

punto

di

vista

di

Severino,

sarà

da

ritenere

necessariamente erroneo, in quanto contrasta la verità dell'essere, ma, almeno qui, ci è concessa un po' di suspence nella ricerca dell'assassino, anche se la sua esistenza è già scritta nei titoli di testa. Dove l'assassino, fuor di metafora, è quell'elemento x, estraneo alla struttura originaria che crea la contraddizione apparente. Severino poi riprende, alla luce dei nuovi elementi indicati, il tema della differenza ontologica già aperto in Ritornare a Parmenide. In quello scritto tale differenza era letta come un differenziarsi dello stesso ente in relazione alle due modalità a cui può accedere: l'immutabile ed il divenire. Si notava che il piano del divenire non può essere un'aggiunta al piano dell'immutabile che, in quanto tale, è la stessa totalità. Il divenire deve appartenere anch'esso all'immutabile, senza però che venga meno la sua peculiarità. Lo schema era ancora piuttosto ambiguo e le nuove considerazioni aiutano a chiarirlo. «La differenza ontologica è così la differenza tra l'essere e l'esserci, ossia tra l'essere in quanto tale e l'essere in quanto astrattamente manifesto. Il mondo (ciò che appare) è Dio in quanto si rivela nella coscienza finita» 154. La differenza resta dunque ferma, ma non viene più spiegata in termini di differenza tra piani su cui l'ente si “sdoppia”. La spiegazione chiama invece in causa la dialettica astratto-concreto e indica che la manifestazione della parte isolata dal tutto è, in quanto manifestazione astratta, diversa dalla manifestazione concreta della parte come unita al tutto. Questa diversità tra la parte vista insieme al tutto e la parte isolata da esso non è, per Severino, la semplice differenza tra il tutto e la parte. Sia S la parte astratta e T la parte concretamente manifesta. Si potrebbe dire che S resta comunque parte del tutto e, perciò, dovrebbe conservare la proprietà del tutto (ovvero l'assoluta

154 Ivi, p. 105.

111

immobilità). Severino, invece, argomenta che l'astrazione rende S diversa da T di una diversità ulteriore. Questo discorso è fatto, ovviamente, per spiegare la differenza tra l'essere come diveniente e l'eterno immutabile. Ogni essere è, certamente, immutabile, ma la totalità si svela processualmente, a causa della limitazione dell'apparire trascendentale. Questo processo, dovuto ad una limitazione, è dunque il frutto dell'astrazione. Ovvero, il divenire è manifesto poiché l'apparire trascendentale è limitato e i contenuti che include sono manifesti come varianti solo per quella limitazione, non perché l'essere si muova: nella sua totalità l'essere è immutabile. Questa grandiosa illusione ottica si sottomette alle leggi che regolano i contenuti varianti o costanti come sono espresse nella Struttura originaria. In quel testo si diceva che, pur essendo tutti i contenuti, in un primo senso, costanti, poi, all'interno di questo insieme, si possono comunque distinguere costanti-costanti e costanti-varianti. Alle prime appartenevano le costanti perisintattiche che sono quelle costanti senza le quali non può apparire nulla. Ad esempio che l'apparire empirico appaia è una costante senza la quale non potrebbe darsi alcun apparire empirico. L'apparente contraddizione tra eternità e storia sembra così essere risolta dal momento che il contenuto storico è altro dalla totalità immutabile solo nel senso che è astrattamente manifesto. Resta poi da chiarire se questa manifestazione processuale sia dominata dalla necessità dell'essere o dalla libertà, ma, possiamo anticipare, in questo contesto non può darsi alcuna libertà simile al libero arbitrio di cui si parla nella storia della filosofia. L'uomo certamente ha un compito, quel compito che è il toglimento della contraddizione C o la realizzazione dell'identità tra il nostro limitato apparire e l'apparire totale, tra il nostro punto di vista e quello di Dio. Le ultime pagine dell'articolo sono occupate da una nota dove Severino discute le obiezioni di Bontadini circa l'analisi dell'élenchos. Si tratta, in realtà, di una semplice ripresa delle argomentazioni precedenti, fatta per dissipare degli equivoci presenti nelle obiezioni di Bontadini. In particolare a Severino 112

preme sottolineare che l'universalità dell'opposizione non è semplicemente opposizione dell'essere al nulla assoluto ma è anche, al contempo, opposizione di ogni essere determinato ad ogni altro essere determinato. Tale opposizione è necessaria perché si costituisca il significato della determinatezza in quanto tale. Dunque è necessaria anche per il costituirsi di quella determinazione che è la negazione dell'opposizione universale. Riguardo al modo in cui Bontadini tiene fermo il principio di non contraddizione, dicendo che il pensiero che si contraddice si annulla, Severino continua a far valere la critica iniziale, ovvero chiede «se questo annullamento volesse dire un non essere più coscienti di nulla oppure un annullamento di valore»155. L'opzione corretta è, l'abbiamo già mostrato, la seconda, in quanto il contraddirsi è positivo significare del nulla e non un significare nulla. Anche l'idea di Bontadini per cui la contraddizione sarebbe come un gioco a somma zero è errata, nella misura in cui i due termini della contraddizione non si tolgono l'uno con l'altro, ma, proprio la provata impossibilità della loro coesistenza produce quel cortocircuito che ci fa, nel modo peculiare descritto dal quarto capitolo della Struttura originaria, pensare il nulla.

La Postilla e la Risposta ai Critici La risposta di Bontadini è brevissima, condensata nelle quattro pagine della Postilla156, pubblicata di seguito al Poscritto di Severino. La brevità non scalfisce però l'efficacia dell'argomentazione che mira immediatamente al punto

critico

del

discorso

severiniano:

la

relazione

tra

l'apparire

trascendentale ed il suo contenuto. Per Bontadini resta ineliminabile un residuo di divenire, quel divenire che è

155 Ivi, p. 128. 156 Bontadini 1965.

113

proprio dell'apparire empirico. Infatti, quando scompare la carta, scompare anche l'apparire empirico che aveva come contenuto quella carta, ma, mentre della carta possiamo ipotizzare che resti salva al di fuori dell'esperienza, del suo apparire non possiamo immaginare lo stesso. L'apparire, sostiene Bontadini, non può essere disgiunto da sé stesso. La distinzione che fa Severino tra un apparire empirico solidale al processo di divenire ed un apparire trascendentale che ha come contenuto tale divenire non regge. Se l'apparire non appare più, esso cessa di essere apparire, ovvero cessa di essere ciò che è. Severino tratta l'elemento “apparire” come se fosse un altro contenuto qualsiasi ma esso è regolato da una logica diversa rispetto agli altri elementi. Se possiamo immaginare che l'esistenza di questo tavolo sia indifferente al suo apparire o non apparire, non possiamo pensare che il suo apparire sia indifferente a ciò: se il tavolo non appare allora l'apparire del tavolo non è, poiché è l'essenza stessa di tale apparire che lega necessariamente presenza ed esistenza. Bontadini va nella direzione giusta avanzando queste critiche, ma esse non sono ancora espresse nella maniera più rigorosa, per cui lasciano a Severino lo spazio per replicare ancora con qualche ragione a riguardo. Infatti, qui Bontadini sta rilevando l'assurdità dell'apparire di un oggetto che però non appare, ma non riesce a mostrare in maniera del tutto convincente la contraddittorietà di tale concetto, ovvero non riesce a mostrare in modo chiaro la contraddittorietà di un apparire empirico salvo al di fuori dell'apparire trascendentale. Un'altra obiezione, prospettata ad abundantiam, è quella per cui, se appare il divenire, si deve ammettere che almeno uno dei due termini che costituiscono la struttura si “sposti”. Se immaginiamo la coscienza come un cono di luce che illumina contenuti in sé immutabili, dobbiamo ammettere che almeno questo cono di luce si sposti da un contenuto all'altro, altrimenti non apparirebbe alcun divenire. Le argomentazioni di Bontadini su questo punto saranno affinate nel corso del dibattito, ma già qui è evidenziato il punto chiave della disputa. Tale punto 114

è

l'impossibilità,

da

parte

di

Severino,

di

conciliare

in

maniera

incontraddittoria l'eternità di ogni essente e l'apparenza del divenire. Il divenire implica, da ultimo, un qualche mutamento, lo spezzarsi di qualche relazione. La strategia difensiva di Severino è molto articolata e chiama in causa, abbiamo visto, la distinzione astratto-concreto. La limitazione del nostro punto di vista genera l'“illusione” del divenire, che si può dissipare solo nello svelamento dell'intero. Una critica definitiva dovrebbe mostrare da un lato la contraddizione tra immutabile e diveniente

nel modo più chiaro

possibile e dall'altro dovrebbe mostrare la contraddittorietà di questa distinzione tra piano dell'astratto e piano del concreto. Il primo punto sarà efficacemente affrontato da Bontadini utilizzando il concetto di attualità. Il secondo sarà affrontato in maniera marginale, infatti, una volta mostrato il primo è superfluo soffermarsi sul secondo. Del secondo qui possiamo dire che esso richiama, in quanto illusorio, il piano parmenideo della doxa. Tale piano è considerato contraddittorio dallo stesso Severino, che non accetterebbe questa analogia. Qui basti sottolineare che se, al punto primo, si riesce a mostrare che il contenuto di questo “punto di vista”, cioé il divenire, non può essere conciliato con l'immutabilità dell'essere, allora questo punto o cade nel non essere, rendendosi autocontraddittorio in sé, o viene ad essere in contraddizione con la verità dell'essere. L'altro punto di notevole interesse di questa breve Postilla è il rilevamento del problema della moltiplicazione degli enti. Poniamo, come esempio, che Socrate sia seduto e poi si alzi in piedi. Socrate seduto è eterno e così lo è Socrate in piedi. Ma determinazioni contrarie possono inerire al medesimo solo nel tempo. Perciò qui Severino deve ammettere «quale strana concezione del reale mondano ne venga fuori» 157, ovvero deve ammettere che esistono molteplici Socrate, forse infiniti. Infatti, ad ogni istante Socrate ha sicuramente qualcosa di diverso dall'istante precedente. Questo

157 Ivi, p. 620.

115

rilevamento è, in realtà, un problema solo per la coscienza comune o non filosofica, come avvertirà Severino. Un'altra considerazione, legata a questa, è quella per cui Severino toglierebbe di mezzo ogni unità del molteplice successivo. Infatti, una volta superata la concezione volgare dello stesso Socrate che, nel tempo, accoglie presso di sé determinazioni contrarie, non si capisce perché a Socrate seduto non possa succedere, nella processualità dell'esperienza, un tubo di stufa. Se infatti l'esperienza è frammentata e Socrate al momento t' è altro dal Socrate che appare al momento t'', non sembra esserci alcun motivo per cui al momento t'' non debba apparire un tubo di stufa. Anche questa osservazione tende a rilevare una controintuitività del mondo descritto da Severino ma, ancora una volta, non si riesce a mostrare altro che questa “stranezza” e non si pone nessuna contraddittorietà, per cui Severino ha sempre buon gioco a respingere queste osservazioni come incomprensioni del senso comune o pre-filosofico. Nell'intervento successivo della disputa, la Risposta ai critici158, Severino replica sia a Bontadini sia ad altri colleghi accodatisi al dibattito, come Enrico Berti. Questo articolo è l'ultimo di quelli pubblicati sulla Rivista di filosofia neo-scolastica, in quanto dall'anno successivo Severino non sarà più un professore dell'Università Cattolica, a causa del giudizio negativo dato sulle sue tesi dalla Congregazione per la dottrina della fede. Nel frattempo aveva pubblicato altri due articoli di rilievo sull'argomento, apparsi nel Giornale critico della filosofia italiana 159, poi confluiti in Essenza del nichilismo, nei quali si continuano a sviluppare le tesi centrali del suo pensiero, senza però chiamare direttamente in causa i suoi interlocutori. Severino, dopo le solite battute riassuntive, prende in considerazione la posizione espressa da Bontadini in uno scritto del 1965, Sulla dimostrazione dialettica dell'esistenza di Dio 160. In quello scritto, a giudizio di Severino,

158 Severino 1968. 159 Severino 1968. 160 Bontadini 1965b.

116

Bontadini opera una svolta circa la considerazione delle tesi parmenidee. Abbiamo visto che, precedentemente, Bontadini aveva sì visto la contradditorietà del divenire inteso come non essere dell'essere, ma aveva, per così dire, accantonato tale considerazione alla luce dell'evidenza fenomenologica di tale divenire. In questo modo tale considerazione si trovava a valere solo per quell'ente che è Dio. Parmenide aveva dato lo “spunto”, che però era stato poi reinterpretato a causa della sua opposizione all'esperienza. Nel testo citato invece, sempre secondo Severino, Bontadini accetterebbe la lezione parmenidea, considerando immutabile l'essere; questo però non l'avrebbe portato ad abbracciare totalmente le tesi severiniane in quanto l'altro termine della contraddizione, il divenire testimoniato dall'esperienza, avrebbe continuato ad essere interpretato in senso nichilistico come un annullarsi dell'ente. Da questa contraddizione poi Bontadini, attraverso un procedimento dialettico, dimostrerebbe l'esistenza di Dio. Osserva però Severino, che se la contraddizione è tenuta ferma come reale non ci può essere nessun procedimento dialettico che la redima, per cui Bontadini, se vuol tener ferma la verità di Parmenide, dovrebbe abbandonare anche la sua concezione di divenire e accogliere le tesi severiniane. Questa interpretazione è stata oggetto di dibattito e molti studiosi di Bontadini sono concordi nel vedere in quello scritto un cambiamento, più o meno sostanziale, nell'argomentazione del pensatore neo-scolastico. Egli però sosterrà sempre la continuità del suo pensiero, asserendo che l'accettazione della contraddittorietà del divenire in sé è sempre stata presente nei suoi scritti, senza però essere esplicitata come lo sarà dal 1965 in avanti. La questione filologica è complessa e non interessa il nostro lavoro, per cui rimandiamo, per un'analisi approfondita ai testi indicati in bibliografia 161

. Severino poi si concentra nella discussione del problema fondamentale

sollevato da Bontadini, il rapporto tra apparire empirico ed apparire

161 In particolare Turoldo 1995 e 1996.

117

trascendentale.

La

risposta,

purtroppo,

manifesta

una

reciproca

incomprensione, causata anche dall'ambiguità della critica di Bontadini, che, abbiamo detto, non porta alla sua massima generalità la contraddizione. Severino ribadisce sostanzialmente la sua posizione: l'apparire empirico, in quanto legato ad un contenuto empirico, è un contenuto variante dell'apparire trascendentale e non è identico ad esso. La sottolineatura di questa diversità è dovuta al fatto che Bontadini aveva scritto che non si può «disgiungere l'apparire da se stesso»162, ma, in realtà, Bontadini non voleva identificare l'apparire empirico a quello trascendentale, voleva sottolineare l'assurdità di un apparire empirico che non appare nell'apparire trascendentale, ovvero nell'orizzonte dell'attualità. Per Severino continua ad essere non problematico che questo apparire empirico non appaia e lo considera semplicemente una variante che può apparire e scomparire. Questo punto è difficile da dirimere finché non si prenda la questione in maniera più generale. Tale generalità è maggiormente avvicinata da un'altra obiezione che Bontadini aveva prospettato solo ad abundantiam, ovvero l'obiezione per cui, nell'ipotesi che tutto sia immutabile non può sorgere l'esperienza dell'apparire e dello scomparire, ma occorre che uno dei due termini, la coscienza o il suo contenuto, si muova, cioè divenga nel senso nichilistico del termine. La contraddizione non è ancora prospettata in maniera tale da impensierire l'imperturbabile certezza di Severino a riguardo e tale impensierimento non avrà più luogo. Infatti Severino torna a chiedere se questa sia una constatazione od un dimostrazione. La risposta sarà, di nuovo, che non può essere una constatazione, in quanto l'annullarsi di un ente non è un dato fenomenologico e non potrà essere nemmeno una dimostrazione, in quanto ogni dimostrazione si dovrà basare sulla struttura originaria che afferma l'immutabilità dell'essere. Da un lato Severino tiene ferma la certezza nell'immutabilità dell'essere, mentre dall'altro lato è

162 Bontadini 1965a, p. 619.

118

costretto anch'esso a trattare in qualche modo il divenire che, anche se non nichilistico, crea almeno una certa distonia con l'immutabilità del tutto. Severino non avanza nemmeno l'ipotesi, come faremo in conclusione di questo lavoro, che, anche qui, ci sia una x estranea alla struttura originaria che generi tale aporia o contraddizione apparente. Di notevole acutezza è invece la risposta di Severino alla critica circa la frammentazione dell'esperienza che deriva dalla tesi dell'eternità di ogni ente. In primo luogo Severino osserva come la moltiplicazione dei vari Socrate (in piedi, seduto, vecchio, giovane, il cristallizzarsi di ogni sensibile nell'eterno immutabile), sia solamente un concetto “strano” ma non contraddittorio e sia strano soltanto per il senso comune, il quale è immerso nel nichilismo non meno della metafisica. Assodato ciò, Severino si chiede se tale frammentazione sia veramente, come ha voluto intendere Bontadini, l'assenza di ogni unità dell'esperienza. Si deve rispondere di no. Infatti resta pur sempre quella unità che è l'essere Socrate. Questo “essere Socrate” è presente in tutte le varie determinazioni che assume: Socrate seduto, Socrate in piedi, giovane, vecchio. Così come l'essere uomo è l'unità sottesa a Socrate e, ad esempio, Alcibiade. Entrambi sono uomini, come sia il Socrate seduto che quello in piedi sono Socrate. Il fatto che Socrate e Alcibiade compaiano contemporaneamente mentre le varie versioni di Socrate compaiano solo una fuori dall'altra nel tempo è, appunto, solo un fatto. Nella totalità dell'essere possono convivere tutte insieme senza contraddizione. Severino propone sostanzialmente di trattare l'unità della sostanza rispetto ai suoi accidenti come l'unità dell'universale rispetto alle sue individuazioni. In effetti, all'interno del suo discorso la proposta è perfettamente sensata, nell'ottica di salvare l'unitarietà del contenuto esperito. Se non consideriamo l'universale “uomo” frammentato a causa della molteplicità di uomini esistenti, perché dovremmo rappresentarci come frammentato l'universale “Socrate” rispetto a i vari Socrate esistenti? La distinzione è semplicemente convenzionale dal punto di vista della 119

strutturazione originaria in variabili e costanti, la quale ci dice semplicemente che certe costanti permangono con variabili diverse. Che queste costanti significhino “uomo” o “Socrate” cambia poco. Ciò non toglie, comunque, che se, ad esempio, la costante C è presente prima insieme alla variabile p, poi insieme alla variabile s, C è sempre C in quanto può essere distinta dal contesto cui appartiene, ma la struttura C-p è un ente separato dalla struttura C-s. In questo modo anche le due occorrenze di C indicano due enti diversi. La C permane come “universale” rispetto alle due strutture, cioè solo come astratta da esse, poiché, in concreto, esistono solo le due strutture.

Le fasi centrali del dibattito La risposta di Bontadini, sempre molto concisa ma incisiva, appare sulla Rivista di filosofia Neo-scolastica nel 1969163 e si concentra principalmente su tre punti: la contraddittorietà del divenire, la moltiplicazione degli enti e la difesa della continuità del proprio lavoro. Negli anni successivi il dibattito verrà ad incorporare altri temi come la relazione tra gli scritti di Severino e la fede cattolica o il ruolo della tecnica nella nostra società. Tutti questi temi, pur interessanti, appaiono secondari rispetto al dibattito sul divenire. In quest'ultimo, infatti, ne va dell'intera costruzione teorica di Severino, per cui riteniamo corretto riconoscergli la nostra preferenza a scapito degli altri temi. Del resto, lo stesso Severino acconsentirebbe a tale impostazione metodologica, in quanto, sciolta dal suo fondamento, nessuna tesi può tenersi

veramente

stabile

e

tutti

i

successivi

scritti

di

Severino

presuppongono la soluzione del problema del divenire. Tornando all'articolo di Bontadini, egli difende la struttura generale del suo discorso, affermando che il principio autentico di Parmenide, quale è esposto da Severino, è sempre stato perfettamente compreso nel suo discorso, ma è

163 Bontadini 1969.

120

stato utilizzato come momento dialettico, in quanto l'antitesi, data dall'evidenza del divenire (in senso nichilistico), non poteva essere comunque soppressa. La risultante di tale procedimento dialettico è il principio di Parmenide ad honorem, ovvero il principio per cui l'essere non può essere originariamente limitato dal non essere. In questo quadro bontadiniano il discorso di Severino ha certamente valore, ma solo come momento che va poi necessariamente superato. La necessità di questo superamento sta tutta nella concezione del divenire. Bontadini continua a sostenere che il divenire, nel senso nichilistico, sia dato e lo sostiene in virtù di quel rapporto tra apparire trascendentale ed apparire empirico che non può essere pensato come immobile. La critica di Bontadini può essere portata in modo tale da rendersi insuperabile, ma egli la formula in maniera tale cadere nelle braccia delle argomentazioni severiniane. In particolare quando scrive: Concesso che l'esperienza non documenta il divenire (nel senso dichiarato, classico) dei suoi contenuti, in quanto, se l'apparire attesta la realtà di ciò che appare, il non apparire non attesta la realtà di ciò che non appare, si sostiene però che essa attesta, per lo meno, il divenire dello stesso apparire (e si portano le considerazioni confacenti)164.

Da un lato egli ammette che il nullificarsi di qualcosa non può essere un contenuto dell'esperienza, dall'altro lato però sostiene che l'annullamento dell'apparire empirico, in quanto contenuto della coscienza, è attestato dall'esperienza. Così posta la questione non può che ricadere sotto la domanda severiniana se questo secondo riconoscimento sia un dato dell'esperienza o sia frutto di un ragionamento. Se non può essere il primo caso, e Bontadini sembra acconsentire, deve trattarsi di un ragionamento. Il problema, a questo punto, è che, se Bontadini accetta veramente l'autentico

164 Ivi, p. 4.

121

principio di Parmenide, che è opera del logo, come tesi, o momento iniziale della dialettica, e se accetta anche, dall'altra parte, che l'esperienza non possa attestare il non essere di un suo contenuto, non resta nessun altro elemento con cui sviluppare il procedimento dialettico, ovvero viene meno l'antitesi. Se infatti gli unici due elementi da cui si può trarre il “materiale” per una costruzione dialettica, il logo e l'esperienza, sono in realtà concordi, allora non ci può essere proprio nessuna dialettica e la tesi diventa la verità simpliciter. Se Bontadini tiene fermo il logo parmenideo e dice che non è l'esperienza a contrastarlo, allora se ne deduce l'espressione di quel logo è la verità, che altrimenti non andrebbe tenuto fermo neppure come momento della verità, ma semplicemente rifiutato come contraddittorio. Queste considerazioni mettono in mostra che la posizione di Bontadini è altrettanto aporetica di quella severiniana. Ciò non toglie che sia proprio lui l'autore a sottolineare meglio le criticità del discorso dell'allievo. Sulla questione dell'apparire trascendentale, ad esempio, Bontadini replica che, ben lungi dal non essersi accorto della distinzione tra apparire empirico ed apparire trascendentale, la sua critica si basava proprio su questa distinzione. Su questo punto concordiamo senza riserve, la colpa dell'equivoco è, nella sostanza, di Severino. Bontadini si limita, a riguardo, a chiarire l'equivoco e tenere ferma la sua posizione. L'unica novità è rappresentata da alcune citazioni del testo severiniano che mostrerebbero come anche l'allievo neghi in actu signato ciò che è costretto ad ammettere in actu exercito. Infatti, quando Severino parla dell'”entrata” ed “uscita” di certi contenuti dall'apparire trascendentale, o quando parla di un “processo”, in realtà tradisce l'impossibilità di conciliare il divenire che appare con l'immutabilità dell'essere. Questi esempi sono però delle considerazioni estrinseche, si tratterebbe infatti di dimostrare concretamente come lo sparire o comparire implichi il non essere di qualcosa. Per quanto riguarda il discorso sulla molteplicità e sull'unità, Bontadini argomenta che Severino confonderebbe nel nome di essenza l'individuale e 122

l'universale, che sono due modi diversi di unità. Dell'individuale è infatti contraddittorio predicare allo stesso tempo due determinazioni opposte, ad esempio è contraddittorio predicare di Socrate che sia seduto ed in piedi. Dell'universale, invece, non è contraddittorio predicare gli opposti, nella misura in cui ineriscono a diverse individuazioni dell'universale, ovvero si predicano di due “zone” diverse, non sovrapposte. Non c'è alcuna contraddizione a dire che sia Socrate sia Alcibiade siano uomini, tralasciando il fatto che le predicatio recta sarebbe: «Socrate è uomo» e non «l'uomo è Socrate». Ciò significa che la moltiplicazione degli enti è inevitabile. Questa critica manifesta un'incomprensione di Bontadini. Come si può infatti, basare la critica sulla distinzione individuale-universale quando quella distinzione è proprio l'oggetto negato da Severino? La critica, inoltre, non si costituisce come tale nella misura in cui Severino accetta senza problemi la moltiplicazione degli enti. Ciò che quest'ultimo voleva sottolineare era che da tale molteplicità non è del tutto assente un concetto di unità, ma non si può trattare di quell'unità forte che è la sostanza aristotelica, bensì di quell'unità più debole che è rappresentata dall'universale. Un'unità logica contro una ontologica, potremmo dire. Per quanto riguarda poi la concezione della successione degli apparire empirici che ne discende, deve restare fermo che, se a Socrate non succede un tubo di stufa, questo al momento è da tenersi fermo come un semplice fatto, suscettibile di essere dimostrato, in un momento ulteriore, come uno sviluppo necessario interno alla struttura dell'apparire. Anche se tale dimostrazione non è per nulla garantita. Severino risponde, ancora una volta, alle critiche del maestro, all'interno di un ampio articolo apparso nel 1971 sul Giornale critico della filosofia italiana, la Risposta alla chiesa165. In questo scritto Severino fa un dettagliato riepilogo del suo scontro con la Chiesa, dialogando con l'istituzione ma anche con alcuni suoi esponenti di rilievo, come Cornelio Fabro. «La Chiesa ha

165 Severino 1971.

123

dichiarato l'essenziale incompatibilità tra il contenuto dei miei scritti e la rivelazione cristiana»166. Con queste efficace sintesi si apre l'articolo, che poi affronta moltissimi temi, con abbondanza di dettagli, traendo conclusioni parecchio critiche sulla consistenza della dottrina cristiana, la quale, per avere ancora un possibilità di stare nella verità, dovrebbe avere il coraggio di ripensare se stessa alla luce del discorso severiniano e reinterpretarsi di conseguenza. La parte che interessa il nostro lavoro, la risposta a Bontadini, è racchiusa in poche pagine all'interno del testo. La brevità è, in questo caso, la certificazione di aver quantomeno delimitato il disaccordo a pochi punti fondamentali. Tale chiarezza è uno dei motivi di maggior interesse di questa disputa, tanto più quanto è più raro trovarla nelle dispute tra filosofi, che spesso muoiono di incomprensione reciproca. Severino chiarisce immediatamente l'ultimo punto toccato da Bontadini, quello relativo alla proliferazione degli enti, scrivendo: «L'intento della mia “Risposta” non era di evitare la 'proliferazione', ma di determinarne il senso» 167

. Questo è esattamente quanto andavamo dicendo, ovvero che la

proliferazione degli enti non crea nessun problema a Severino, il problema è tale solo per il senso comune. In campo filosofico entia sunt multiplicanda propter necessitatem. Per intendere meglio la prospettiva di Severino ci si può anche servire del seguente esempio: siano tutte le successive determinazioni di Socrate i punti di una linea retta, allora ciò che definiamo come “individuo” è l'insieme di tutti quei punti, che si costituiscono come insieme per la proprietà “socraticità”, o, in termini più aderenti al linguaggio di Severino, poiché in tutti quei punti appare la costante Socrate, come in tutti i triangoli appare la costante “avere tre lati”. Ciò posto, non c'è nessuna contraddizione

nella

coesistenza

di

questi

enti.

La

contraddizione

166 Severino 1995, p. 317. Bontadini, su questo fatto, osserva giustamente «Se Essa [la Chiesa] ha fatto questa dichiarazione, ciò è accaduto soltanto perché Severino insegnava all'università Cattolica». Bontadini 1973, p. 121. 167 Ivi, p. 362.

124

sussisterebbe solo se si dovesse supporre che non è “Socrate” come essenza o universale ad essere seduto ed in piedi, bensì se fosse “Socrateche-è-seduto” a dover essere in piedi, cioè non seduto. Severino riprende poi anche, nel contesto di un dibattito più ampio, che coinvolge anche Cornelio Fabro e Piero Faggiotto, la critica alla pretesa di Bontadini di aver sempre tenuto in vista il principio di Parmenide così com'è inteso da Severino. La questione è davvero poco interessante, potrebbe addirittura sembrare una disputa giudiziaria sulla proprietà di un brevetto metafisico. Brevetto che, tra l'altro, solo uno dei due contendenti (Severino) ha intenzione di mantenere, mentre l'altro (Bontadini) l'avrebbe brevettato per poi distruggerlo. L'unico altro intervento che riguarda Bontadini si inserisce nel contesto di un dialogo tra Severino e Carlo Arata, nel quale si rimprovera a Severino di aver confuso l'essere dell'essenza, nel senso che questa non è niente, col suo esse existentiae. Bontadini, seguendo Arata, chiede a Severino, per difendere il principio di Parmenide, una dimostrazione che la determinazione meriti non solo l'essere ma l'esistenza, come realtà contrapposta all'idealità. C'è da dubitare della lucidità di Bontadini nel momento in cui ha scritto quella nota168, infatti sia Severino e sia lo stesso autore della critica hanno sempre sostenuto che l'essere, come opposizione al nulla, spetta ad ogni determinazione come tale: sia essa realtà, sogno, illusione. Non ha alcun interesse, per Severino come per Bontadini, tentare di dimostrare che alla determinazione competa necessariamente l'esse existentia, se questa è intesa come esse in rerum natura. Successivamente a questa replica, i tempi tra gli interventi si dilatano leggermente, denotando un certo stallo argomentativo, come il lettore può certamente notare, e la risposta successiva appare nel 1973, in un articolo di Bontadini, Fuochi incrociati sopra la Chiesa, scritto sotto forma di lettera ad Ugo Spirito. Poi Severino replicherà con un contributo all'interno di un volume

168 Bontadini 1969, p.6.

125

in onore di Bontadini nel 1975. Bontadini, nella sua lettera, riprende sostanzialmente argomenti già esposti sui punti fondamentali, inserendo però varie tematiche nuove al dibattito, che si relazionano agli scritti più recenti di Severino. In particolare si inserisce nel dialogo sulla fede, che per Severino finirebbe schiacciata tra un'opzione fideistica ed una gnostica. Bontadini, naturalmente, è in disaccordo con questa interpretazione e argomenta per un'altra visione del rapporto fede ragione, in cui l'una completi l'altra senza contraddizioni. La discussione poi si sposta sul concetto di tecnica e qui Bontadini rimprovera a Severino che la sua visione, lungi dal superare un atteggiamento tecnocratico (che per Severino sarebbe essenzialmente legato alla visione occidentale), sposta semplicemente il dominio dell'agire tecnico dalle cose all'apparire. In quest'ultima critica traspare il punto centrale del disaccordo tra i due, ovvero il fatto che ci sia un residuo minimo di divenire nichilistico anche nel discorso di Severino: «l'omne punctum resta sempre nel rifiutare o nell'accettare che l'esperienza documenti il divenire» 169. Su un altro tema, quello della moltiplicazione degli enti, Bontadini accetta invece la posizione di Severino, lasciando trasparire solo qualche dubbio su quell'unità che è l'autocoscienza, ovvero l'apparire trascendentale, ma senza proporre una vera argomentazione a riguardo. La risposta di Severino tocca solamente il rapporto tra fede e ragione, decretando

una

sospensione

del

dibattito

sui

punti

fondamentali.

Sospensione che era già presente nella lettera di Bontadini, indirizzata principalmente verso temi secondari. L'intervento successivo di Bontadini, apparso quattro anni dopo, nel 1979 170

, evidenzia, in tono ironico, questo ampliamento dei temi trattati da

Severino verso orizzonti più mondani: politici e sociologici. Questi temi hanno

169 Bontadini 1973, p. 127. 170 Bontadini 1979.

126

reso Severino un filosofo conosciuto dal grande pubblico, fornendogli una certa notorietà. Come osserva Bontadini, questa uscite hanno portato, nell'uditorio «a qualche curioso equivoco, a qualche deformazione dei temi: soprattutto a mettere in ombra il tema più importante, quello relativo alla stessa Verità»171. Posto ciò, Bontadini si fa in qualche modo portavoce di Severino e cerca di chiarire la sua posizione in relazione alle interpretazioni superflue che ne sono state date da altri pensatori, in particolare Colletti, Del Noce e Abbagnano. Di quest'ultimo è interessante ravvisare l'elogio nei confronti del lavoro di Severino, che sarebbe portatore di una rinnovata umiltà dell'uomo di fronte all'immutabilità e, dunque, alla non manipolabilità dell'essere, della natura. Elogio che riguarda anche l'amore per la verità sempre manifestato da Severino, amore che non gli fa temere di essere grandiosamente inattuale. Tutti questi elogi, però sottolinea Bontadini, sono puramente estrinseci nella misura in cui non discutono e dunque non accettano realmente, il nucleo metafisico del discorso severiniano; nucleo sul quale, opportunamente, Bontadini riporta il discorso nelle ultime pagine. Non vengono presentate nuove argomentazioni, però viene chiarita e riassunta la differenza tra discepolo e maestro. Severino ha ormai chiarito che la moltiplicazione degli enti non è un problema filosofico e Bontadini ha accettato tale posizione come coerente al fondamento del discorso. L'unico punto che Bontadini continua a ritenere totalmente inaccettabile è la negazione del divenire (sempre inteso in senso nichilistico), per le ragioni già addotte. Per Bontadini non ci si può sottrarre all'aporia generata dalle opposte testimonianze della ragione e dell'esperienza, la soluzione di tale aporia costituisce il movimento, dunque la storia della metafisica, che per Bontadini si risolve nella posizione dell'ente necessario creatore. Il merito di Severino starebbe nell'aver aperto la possibilità, attraverso la rettifica dialettica della sua posizione, di appagare razionalmente quella nostalgia

171 Ivi, p. 28.

127

dell'eterno tanto sentita dal metafisico 172. La risposta di Severino173 si concentra in una discussione sul senso della tecnica, in risposta alle obiezioni di Bontadini circa il fatto che il “tecnocrate severiniano” si limiterebbe a spostare la manipolazione degli enti dal loro essere al loro apparire, lasciando invariato tutto il resto. Purtroppo Severino non torna sulla questione metafisica fondamentale, che Bontadini aveva cercato di riprendere in chiusura di discorso.

L'esaurimento del dibattito Sarà la risposta di Bontadini174, apparsa su Spirali nel 1980, a riproporre nuovamente ed esplicitamente di far continuare il dialogo sui temi iniziali. Questo articolo è uno dei più belli di Bontadini, in esso traspare una leggera amarezza verso la via intrapresa e mai più abbandonata dall'amato scolaro, senza che questo tolga l'ironia caratteristica dei suoi testi. Pur desiderando una riconciliazione teoretica, Bontadini continua tener fermo il punto centrale del dissenso, senza arretrare. «Perchè questo Tuo maestro, che è prontissimo a diventare Tuo scolaro, non riesce a saguirTi nella negazione del divenire?» 175. Rispondendo a questa domanda Bontadini comincia a ripercorrere i motivi del contrasto con l'allievo e riesce, finalmente, ad esplicitare nella maniera più chiara e rigorosa la necessità che, anche nella prospettiva di Severino, debba rimanere un minimo di divenire nichilistico. L'argomentazione chiama in causa il concetto di Unità dell'Esperienza che è correttamente identificato all'apparire trascendentale di Severino e all'Atto del

pensiero

gentiliano.

Questa

unità,

argomenta

Bontadini,

è

172 Cfr. Ivi p. 39. 173 Severino 1980b. 174 Bontadini 1980. 175 Ivi, p. 31.

128

immoltiplicabile, è unica. Anche per Severino l'apparire trascendentale è unico, essendo ciò che non può cominciare o cessare di apparire e che contiene il divenire. Dove sta dunque il problema? Il problema è che stando alle argomentazioni di Severino, ci sono certe esperienze, ovvero certi contenuti attuali, che poi spariscono da questa attualità, escono dal cerchio dell'apparire. Ma questo uscire come può essere interpretato se non come un non appartenere più all'attualità? Ovvero non essere più appartenente? In nessun altro modo. Il discorso porta a dire che un contenuto appartenente all'U.d.E. non è più appartenente all'U.d.E., ovvero che una cosa non è più se stessa. Anche la complicazione introdotta da Severino, che distingue un apparire empirico e uno trascendentale non risolve il problema, dal momento che anche il primo

apparire è un contenuto di quello trascendentale, lo

sposta solo. Se dunque anche questa concezione del divenire implica, in definitiva, il non essere di un certo ente, essa non può essere accettabile dal punto di vista parmenideo-severeiniano. L'unica alternativa, a questo punto, è quella di rifiutare l'unicità dell'apparire trascendentale spezzandolo in tante parti quante sono le attualità che appiono. Ogni attualità, ogni “momento” avrebbe il suo apparire trascendentale o il suo “io”. In questo modo però, l'apparire trascendentale diverrebbe parte di ciò che prima conteneva: essendo solidale alle vicende del suo contenuto non potrebbe vederle, non si darebbe più alcuna vicenda, più alcuno sparire o apparire. Anche questa opzione non può essere accettata da Severino che vuole mantenere ben salda l'apparenza del divenire, sia pure non nichilistico. La

contraddizione

Schematizziamo

il

del

discorso

problema

per

severiniano

maneggiarlo

al

è

così

meglio.

provata. L'attualità

dell'esperienza è un insieme di contenuti che sono posti come attuali, ovvero appartenenti a quell'insieme, indichiamo con “A” l'insieme e con lettere minuscole i suoi contenuti. Se un contenuto appartiene ad A, allora è vera la proposizione che dice quel contenuto come appartenente ad A, ovvero esiste la relazione di appartenenza tra quel contenuto ed A, chiamiamola “rA(x)” 129

Ora, se e solo se A contiene a, b, c, esistono rA(a), rA(b), rA(c). Se, poi, A viene a contenere c, d, e e non a e b, allora non esisteranno più rA(a) e rA(b). e la proposizione che dice l'appartenenza di a e b ad A diverrà falsa. Dato che è originariamente escluso, per Severino, che rA(a) ed rA(b), come ogni altro ente, possano non essere, questa ipotesi è esclusa. L'unica altra soluzione è che la A contenente a, b, c, sia diversa dalla A contenente c, d, e. Chiamiamole pure A e A'. Questo implica però che non abbia più senso da parte di A stabilire un processo o uno svolgimento, un comparire e scomparire, nel suo contenuto. A è definitivamente legata al suo contenuto e qualunque altro contenuto apparente non sarebbe suo ma di un altro apparire trascendentale. L'opzione di Bontadini è, ovviamente, la prima, cioè l'ammettere che qualche contenuto non sia, piuttosto che rifiutare che qualunque divenire, anche non nichilistico, possa apparire. Bontadini prosegue poi l'articolo difendendo la sua proposta originaria, che non subisce questa contraddizione (subendone però altre, prima tra tutte quella parmenidea). Vediamo ora la risposta di Severino, apparsa lo stesso anno nel volume Abitatori

del

tempo176.

Severino

risponde

evitando

parzialmente

l'argomentazione di Bontadini e riprende un'esemplificazione proposta da quest'ultimo. L'esempio poneva la coscienza come un faro che fa luce su certi contenuti, al che, se i contenuti illuminati variano, diceva Bontadini, o si è spostata la coscienza o si sono mossi i contenuti. Severino si scaglia contro l'esempio in sé chiedendosi «come può Bontadini ricondurre il rapporto tra l'apparire e il suo contenuto a un fenomeno ottico meccanico» 177. L'obiezione ci sembra pretestuosa, in parte perché l'esempio ha, ovviamente, valore semplicemente analogico, e, soprattutto, perché la critica di Bontadini non si esaurisce all'esempio, come abbiamo visto. Bontadini riesce, questa volta, a formulare la critica in maniera formalmente ineccepibile e Severino

176 Severino 1980c. 177 Ivi, p. 190.

130

non prende in considerazione tale formulazione, limitandosi a ripetere che «il concetto da discutere era invece questo: poiché tutto è eterno, allora tutto ciò che entra ed esce dall'apparire (trascendentale) – tutto, quindi anche l'apparire (empirico, parziale) di ciò che entra ed esce dall'apparire è anche quando non appare»178. Nelle ultime parole della citazione ci sembra che Severino tradisca l'impossibilità di intendere non nichilisticamente il suo pensiero, cosa significa, infatti “quando non appare” se non “quando quell'ente

appartenente

all'apparire

trascendentale

non

appartiene

all'apparire trascendentale”? Non si può dare un significato diverso da questo, a nostro avviso. Severino, poi, riprende la sua consueta domanda circa la natura dell'affermazione dell'annullamento degli enti. Si tratta di una constatazione o di una dimostrazione? Abbiamo già osservato che, su questo punto, Severino ha partita vinta, infatti l'affermazione si basa su una dimostrazione, ma una dimostrazione tale non può esistere per chi, come Bontadini, tiene fermo il logo parmenideo come tesi da far scontrare dialetticamente con l'esperienza. Se infatti l'elemento parmenideo della struttura originaria è la base o il principio primo di ogni ragionamento veritiero, non può darsi un ragionamento che, sviluppato da tali premesse, arrivi a negarle (a meno che, aggiungiamo noi, non ci sia un altro elemento estraneo che genera la contraddizione, come vedremo). Bontadini replicherà solo tre anni dopo, nel 1983, tornando a scrivere sulla rivista dell'università Cattolica179. Nel testo troviamo innanzitutto l'ennesima rivendicazione di continuità del proprio pensiero, contro i tentativi di Severino di mostrare come il maestro abbia, in parte, cambiato strada, andando nella direzione dell'allievo. Relegando a corollario inessenziale questa parte, troviamo poi una disamina, ancora una volta molto lucida, del punto essenziale del contrasto: quel minimum di divenire nichilistico che sarebbe

178 Ibidem. 179 Bontadini 1983.

131

presente anche nel discorso severiniano. La posizione di Bontadini è già stata ben sviscerata e nella sostanza non vedrà novità, ma è comunque interessante notare come si modifica e affina l'argomentazione che la sostiene. Si può fare una citazione a riguardo, citazione di una chiarezza che non lascia spazio a dubbi: Se ciò che scompare continua non solo ad essere ma anche ad apparire, però codesto perdurante apparire, preteso dal logo, non è quello stesso che nell'esperienza – nell'Unità dell'Esperienza – è venuto meno, e che è significato dallo stesso termine “s-comparire”. Se fosse lo stesso, allora, come è permanente, - eterno – l'apparire affermato dal logo, così dovrebbe essere permanente anche l'apparire dentro l'U.d.E, e perciò, non potrebbe aver luogo l'esperienza dello scomparire […] se qualcosa – un eterno! - esce dall'esperienza, allora è venuto meno (=andato nel nulla) il suo esser dentro (se infatti l'esser dentro non fosse caduto, allora l'eterno non sarebbe andato fuori!)180.

Questa è la dimostrazione che avevamo già prospettato precedentemente. L'esser dentro all'apparire di un certo contenuto è quella relazione d'appartenenza che non può continuare ad esistere se, appunto, si dice che quel contenuto non appare, ergo, un positivo è diventato nulla. Bontadini poi, protesta giustamente contro la replica di Severino, che si scaglia contro la metafora del faro quando l'obiezione è formulata anche in termini espliciti. Rilevante è anche la risposta alla domanda ripetuta da Severino sul fondamento di tale affermazione. Qui il pensatore milanese nota che il rilevamento è fatto dalla ragione che legge l'esperienza e non può non leggerla in quel modo. Quindi, in un certo senso, è opera di entrambi. In realtà, la risposta più corretta sarebbe quella che attribuisce il fondamento al

180 Ivi, p. 113.

132

logo, infatti il ragionamento può essere fatto a prescindere dall'esperienza, mentre l'esperienza, da sola, non può portarci a tale risultato, anche se poi fornisce il materiale di quel ragionamento formale. Questa sarebbe la risposta più corretta perché, in verità, la domanda di Severino avrebbe dovuto essere formulata come segue: il logo partecipa alla fondazione o è tutta opera dell'esperienza? È evidente, infatti, che l'esperienza entra sempre in gioco come contenuto a cui applicare il ragionamento. In chiusura d'articolo Bontadini fa l'ennesimo tentativo di portare dalla sua parte l'allievo, mostrando la contraddittorietà della strada di Parmenide e cercando di argomentare come la presenza di un creatore possa conciliare l'aporia di ragione ed esperienza. La concezione di Bontadini vorrebbe mostrare, in seno ad una lunga tradizione, come il negativo fenomenologico sia il positivo metafisico. Il problema, però, era già stato mostrato come insolubile da Severino: se si accetta Parmenide, poi non si può tornare indietro o tentare l'impossibile cercando di risolvere dialetticamente una contraddizione reale. L'ultimo capitolo della “saga” venne pubblicato, nel 1984, sulle pagine della rivista neo-scolastica181. Ormai le posizioni reciproche erano state chiarite e non c'era nessuna possibilità, per i due pensatori, di riconciliare i loro discorsi facendo un passo indietro. In particolare per Severino che, nel 1980, pubblicando Destino della Necessità, aveva aperto una nuova fase costruttiva del suo pensiero, lasciandosi in parte alle spalle il discorso sul fondamento ultimo, dato ormai per acquisito. Proprio in quel libro, allo stesso tempo, Severino rielabora la propria risposta sulla questione dello scomparire posta da Bontadini. Tale rielaborazione viene proposta anche nell'ultima risposta a Bontadini. L'argomentazione di Severino è molto complessa e per darne conto la si dovrebbe seguire nei capitoli di Destino della Necessità182, ma anche la forma

181 Severino 1984 e Bontadini 1984. 182 In particolare Severino 1980, pp. 95-210.

133

riassuntiva presentata nella disputa ci permette di trarre gli elementi principali. Da un lato Severino riafferma l'esclusione a priori dell'annullamento di ogni ente, ma questo ormai non ci interessa più. Dall'altro lato invece, presenta la seguente strategia argomentativa. L'appartenenza dell'apparire empirico di ogni ente all'apparire trascendentale è anch'esso un eterno (noi avevamo indicato tale determinazione con rA(x) ). Dunque l'ente e il suo apparire empirico sono eternamente appartenenti all'apparire trascendentale. Il fatto che tale appartenenza non sia più in vista non testimonia, né può testimoniare, che tale appartenenza sia “venuta meno”, ovvero sia diventata nulla. Severino sta qui semplicemente spostando il problema, la cosa appare chiaramente dallo schema che avevamo presentato, infatti anche di r(r(x)) si può poi dire che è venuta meno. Il procedimento può essere nuovamente applicato e così via all'infinito. A questo punto, per evitare un regressus in indefinitum, Severino cerca di identificare i vari livelli di apparire, dunque i vari livelli di appartenenza, che saranno individuati nel numero di tre. L'argomentazione è più che mai lunga e macchinosa e, a nostro avviso, non regge. Non regge soprattutto nel senso che l'obiezione di Bontadini non riguarda questa struttura ma è preliminare ad essa. Quest'ultimo afferma semplicemente, in maniera più che mai chiara, che, se appartenere all'apparire trascendentale significa apparire, allora, un contenuto che scompare cessa di appartenere all'apparire trascendentale, ovvero cessa di essere ciò che è. Severino risponde a questa obiezione complicando i ragionamenti, inserendo nuovi elementi, ma non fa che spostare la contraddizione da un luogo all'altro senza potersene veramente liberare.

Conclusione

134

Con queste ultime battute si chiuse la trentennale disputa tra Severino e Bontadini. Si conclude con un nulla di fatto dal punto di vista dei risultati; Severino continuerà a sviluppare il suo pensiero, traendone implicazioni inedite, mentre Bontadini si spegnerà qualche anno dopo, continuando fino all'ultimo a ritenere fallace la via dell'amato discepolo. L'assenza di un risultato condiviso dagli autori non significa però che la disputa sia stata inutile: se così fosse la storia della filosofia sarebbe una grande sommatoria di inutilità. Severino, ad esempio, è stato mosso dalle obiezioni di Bontadini più di quanto questi articoli lascerebbero pensare. In Destino della Necessità, infatti, l'argomento viene preso ampiamente in considerazione e non ci si accontenta più di sapere, a priori, che l'essere appare e scompare ma, allo stesso tempo, non diventa nulla: si studia concretamente il modo in cui un simile processo risulta pensabile. Questo implica che Severino ha tenuta ferma la sua posizione solo in base al suo fondamento, respingendo in base ad esso la possibilità che le obiezioni di Bontadini fossero corrette, senza sapere ancora come toglierle mostrandone l'inconsistenza. L'utilità, ovviamente, si riversa anche sul lettore della disputa e non solo su chi vi ha partecipato. Innanzitutto i due autori hanno svolto un grande lavoro di chiarificazione, non solo delle rispettive posizioni, ma del tema in generale. Questa disputa fornisce nuovi strumenti a chi volesse affrontare il tema della possibilità di un processo, di un divenire, all'interno di una prospettiva parmenidea. Fornisce inoltre, cosa ancora più importante, la possibilità di ripercorrere questa strada evitando gli errori commessi da entrambi. Riteniamo infatti che la posizione parmenidea possa essere salvata, sul piano della coerenza, eliminando un elemento estraneo alla struttura originaria sfuggito a Severino: l'apparire del comparire o dello scomparire dei contenuti. Ora, come conclusione, spiegheremo in dettaglio la nostra proposta. L'obiettivo che ci proponiamo è quello di mostrare come si possa salvare la coerenza interna della tesi per cui tutto è eterno, eliminando l'elemento puramente presupposto che genera l'aporia che abbiamo ampiamente 135

descritto. L'aporia, come descritta da Bontadini, è generata dallo scontro tra l'affermazione dell'immutabilità del tutto e la testimonianza del comparire o scomparire dei contenuti. Tale “movimento” non può essere letto altrimenti che come un andare nel nulla di un qualche positivo, come abbiamo ampiamente visto. Dobbiamo chiederci, a questo punto, se il comparire e lo scomparire dei contenuti dell'esperienza sia effettivamente qualcosa di esperito, ovvero se la nostra esperienza ci manifesta o meno un processo o uno svolgimento. Severino tiene ampiamente fermo questo presupposto, come anche Bontadini, e in effetti qualunque persona, interrogata a proposito, risponderebbe che, effettivamente, “vede” uno svolgimento. Le cose si muovono, io mi muovo, il tempo scorre, il pensiero si svolge, i ricordi ci riportano alla situazione passata: panta rei, insomma. La differenza tra l'uomo occidentale e Severino starebbe solo nell'interpretazione di questo svolgimento: processo di creazione e annullamento o processo di comparire e scomparire183? Comunque si risponde, bisogna presupporre la presenza di un processo. Ma c'è tale processo? Da che punto di vista affermiamo che le cose divengono? Qui occorre “smontare” l'esperienza col ragionamento. L'esperienza è sempre esperienza attuale. Questo significa che tutto ciò che ci appare ci appare ora, anche il passato, nel ricordo, ci appare in questo momento come tale; possiamo dire infatti «Ora sto ricordando». In generale, qualunque riferimento che voglia portarsi oltre l'attualità si struttura completamente all'interno di questa. Con l'attualità intendiamo l'insieme dei contenuti, pensati o esperiti, presenti hic et nunc, qualunque cosa sia scomparsa, non appaia, non è attuale. Da questo punto di vista qualunque contenuto è attuale. Questo non ci impedisce di ricordare, il ricordo è attuale come ricordo. Se mi ricordo di

183 In relazione a ciò, in realtà, Severino è esplicito nell'affermare che l'implicazione tra il divenire e il non essere dell'ente fa parte del preconscio dell'Occidente, dunque non è in vista nella prassi, ma può essere portata in vista col ragionamento più volte esposto.

136

aver passato il Natale con la famiglia, sto dicendo che ora mi appare la convinzione che il giorno di Natale ero con la mia famiglia. Il ricordo, infatti, non è altro che un contenuto mentale del tutto assimilabile ad una convinzione (o ad una certezza, se si vuole richiamare la distinzione tra certezza e verità). In quanto convinzione può sbagliare, nel senso che io posso ricordarmi male, magari a Natale ero ammalato. Questa convinzione, poi, implica moltissime altre cose. Implica che il tempo scorra, innanzitutto, che esistano le giornate e che io sia, in qualche modo, lo stesso che ero a Natale, altrimenti non avrei nulla da ricordare. Tutte queste implicazioni o presupposizioni sono, come il ricordo stesso, convinzioni interne all'attualità. Ora sono convinto che ci sia un passato, che ci sarà un futuro, che i miei ricordi indichino qualcosa che è stato in un certo modo e che io ho vissuto. La questione si presenta esattamente nello stesso modo prendendo in considerazione “momenti” più vicini: che io abbia scritto la frase precedente a questa è una convinzione interna all'attualità. Qui, però, si può porre una critica simile a quella che Severino muoveva ad Husserl riguardo l'esempio del cubo. Come la visione delle tre facce del cubo ci “rimanda” alle altre tre facce, così l'apparizione del ricordo ci rimanda al passato. Più in generale e in maniera più rigorosa: una certa convinzione sulla realtà ci rimanda alla realtà del contenuto di cui siamo convinti. Il problema è evidente: come le tre facce del cubo possono non corrispondere veramente ad un cubo, così una convinzione qualsiasi può non corrispondere alla realtà del suo contenuto. Il ricordo può essere erroneo ed esistere semplicemente come ricordo. Naturalmente, non tutte le convinzioni sono erronee: l'esperienza immediata, l'hic et nunc, è innegabile, qualunque sia la sua forma. Anche il ricordo in quanto ricordo è un contenuto immediato: posso negare che il suo contenuto sia stato reale, ma non posso negare la presenza di tale ricordo. Ogni

contenuto

dell'attualità,

in

quanto

contenuto

dell'attualità,

indipendentemente da ogni altra considerazione sul suo statuto ontologico, esiste come contenuto attuale. 137

In che senso tutto ciò mette in dubbio l'esistenza di un processo? Presto detto. Qualunque processo si nutre di differenze, perché ci sia una differenza, qualcosa che prima c'era deve mancare o qualcosa che mancava deve ora essere presente: altrimenti c'è il puro immobilismo. Ora, per stabilire la realtà di una tale differenza noi non abbiamo che il ricordo, ovvero la convinzione che esistesse un'attualità precedente in cui si dava una tale differenza. Il ricordo però, abbiamo visto, è innegabile solo come convinzione attuale, mentre ciò che afferma è solo tenuto fermo come certo senza che sia innegabile. Questo significa che la processualità o il divenire non nichilistico non sono elementi della struttura originaria. L'atto non può essere trasceso fenomenologicamente e non è nemmeno trasceso, al momento, da un ragionamento logico. Presa isolatamente, questa non è una dimostrazione dell'assoluta immobilità, però, se inserita nel discorso che afferma logicamente l'eternità del tutto, lo completa eliminando la contraddizione che ha generato la disputa tra Bontadini e Severino. Noi dunque sosteniamo che, per superare quella contraddizione Severino dovrebbe fare un passo indietro ed esaminare questo presupposto ingiustificato presente nel fondamento del suo discorso. Questa tesi risulta certamente scandalosa, ma, ripetiamo, qui si tratta di difenderla solo in relazione al progetto di portare a massima coerenza il discorso severiniano-parmenideo. Per proporla come verità innegabile si dovrebbe sostenere, allo stesso tempo, il fondamento del discorso severiniano. Questa operazione è già stata abbondantemente compiuta da Severino, qui non possiamo che rimandare tali considerazioni al giudizio del lettore. La questione dovrebbe essere abbastanza chiara, ma proviamo ad approfondirla ulteriormente. Uno degli argomenti più convincenti ci sembra essere il seguente: per eliminare il senso di “straniamento” che tale tesi provoca si può mostrare, in concreto, come la sua verità o la sua falsità (ma non la consapevolezza o non consapevolezza di essa) non cambia assolutamente nulla dal punto di vista dell'esperienza vissuta. Poniamo che 138

la nostra vita sia un linea; ogni punto della linea dovrebbe corrispondere ad un momento attuale o che è stato attuale e i momenti-punto sono cronologicamente disposti in successione. Il momento attuale corrisponde al punto in cui ci troviamo. In questo punto o attualmente, noi siamo convinti dell'esistenza di tutti gli altri punti precedenti e di qualcuno di essi siamo anche convinti di ricordarci, in maniera più o meno precisa, cosa contenesse; siamo inoltre convinti che appariranno dei punti successivi, di cui possiamo ipotizzare i contenuti. Se tutte queste convinzioni fossero erronee, cosa cambierebbe dal punto di vista dell'attualità? Nulla. Se esistesse solo il “presente” e non esistesse né passato né futuro, tutte le

nostre

convinzioni

su

tali

“tempi”

sarebbero

ugualmente

come

precisamente sono, cioè noi saremmo comunque quello che siamo ora. La falsità del loro contenuto non inficia in alcun modo la loro realtà come presenze. Tutto ciò significa che, dal punto di vista dell'immediatezza logicofenomenologica, quei “punti” sono solo ipotetici. Se reinseriamo nel discorso la considerazione dell'immutabilità logica dell'essere dobbiamo escludere che quei punti esistano? Solo in un certo senso. Ricordiamo infatti che la contraddizione era generata dal fatto che il cerchio dell'apparire rimanesse lo stesso (A) mentre i suoi contenuti variavano. Però, avevamo già anticipato, tale contraddizione veniva tolta se si immaginava un diverso cerchio dell'apparire per ogni contenuto attuale (A, A', A'',...). Questa soluzione ci permette di ipotizzare che tutti quei punti, tutte quelle attualità esistano, ma che non siano accomunate dallo stesso apparire trascendentale, ovvero dallo stesso “io sostanziale”. La situazione potrebbe invece presentarsi possibile se affrontata in maniera simile a quella indicata da Severino per l'unità dei vari Socrate. In questa ipotesi ogni attualità sarà legata ad uno specifico apparire trascendentale, ma tra tutti i vari apparire trascendentali che costituirebbero, dal punto di vista del senso comune, l'“io”, potrebbe sussistere una comunanza logica come quella che unisce nell'universale “uomo” tutti i vari individui. 139

Ciò che però dobbiamo tenere ben presente è che l'esistenza di qualunque altro punto, quindi di qualunque altro tipo di unità che sia diversa da quella dell'individuo tradizionale, è solamente un'ipotesi dal punto di vista della struttura originaria o dal punto di vista dell'attualità. La verità di tale ipotesi non è esclusa ma deve essere dimostrata mediante un ragionamento ulteriore. Sulla struttura di tale ragionamento non ci sentiamo di avanzare proposte. Qui ci basta riaffermare che, con tale prospettiva, si potrebbe riprendere il discorso severiniano, sottraendolo a quella contraddizione che ci è sembrata, con Bontadini, insuperabile. Che un tale tentativo sia auspicabile dipende, ovviamente, dalla considerazione in cui si tiene la concezione parmenidea o severiniano-parmenidea, dell'essere.

140

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