Breve ma veridica storia del documentario. Dal cinema reale alla nonfiction 8893040751, 9788893040754

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Breve ma veridica storia del documentario. Dal cinema reale alla nonfiction
 8893040751, 9788893040754

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La finestra sul mondo, che il documentario sembrava rappresentare, afferma ormai di essere anche cornice. Il digitale, con le sue possibilità "pittoriche", incrosta il reale di ciò che l'autore può vedere sotto la superficie. Il "nuovo" del documentario, o meglio della nonfiction, è il campo d'esplorazione del cinema del nuovo millennio.

zVdriano Apri é nato * Roma nel 1940. Ha cominciato a tcnwrr di cinema nel i960 •u "Filmcntica". fc Mito fondatore di "Cinema & Film", Ha diretto e collaborato con 1 maggiori featival italiani c mtenuaioiuh. È «tato direttore della Cineteca Nazionale

e ha inaegnatoairUniveraitÀdtTorVcrgata. Scene >giatore e regista di documentari, ha all'attivo un unico lungometraggio di finzione. Olimpia affi amici (1970). Tra 1 tuoi ultimi libri: Stelle Se Srruce. Viaggi nfl Cmema Via dal muto agli anni '60 (Falaopiano. 3005). In iiafipocon Romlhm (Fahopiano a006) Ha un tuo blogi www.adnanoapra.it

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ADRIANO APRÀ BREVE MA VERIDICA STORIA DEL DOCUMENTARIO Dal cinema del reale alla nonfiction

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ADRIANO APRÀ BREVE MA VERIDICA STORIA DEL DOCUMENTARIO Dal cinema del reale alla nonfiction

7 Premessa ITALIA

13 Breve storia del documentario italiano

55 Documentari e cortometraggi a soggetto 59 Preludio ad Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli 63 Forme nuove del documentario negli anni Settanta 77 Rossellini documentarista?

87 La rifondazione del documentario italiano 95 Trame digitali 103 La via neosperimentale del cinema italiano

ESTERO 123

Breve storia del documentario internazionale

165 Pesaro Trenta/Uno; documentario/fìnzione

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Note sul cinema saggistico

179 Il cinema e il suo oltre 195 Lo spettatore delle Histoire(s) du cinema di Godard

203 Ai confini della realtà: uno schema di guida

207 Dal documentario alla nonfiction 221

Critofilm. Verso nuove forme di critica e di saggistica

327 Nota editoriale di Fabio Francione 243

Indice dei nomi

255 Indice dei film 281

Indice dei fotogrammi

PREMESSA

Raccolgo qui una serie di saggi sul documentario scritti in epoche e in circostanze diverse (nonché un inedito). Inevitabili quindi alcune ripetizioni di titoli e di concetti. Non ho cercato di aggiornare la “breve storia” internazionale: troppo vasto è il campo, in partico­ lare in anni recenti. Ho diviso in due sezioni i saggi raccolti: Italia ed Estero, ma in quest’ultima si parla a volte anche di documentari italiani. Continuo a usare il termine “documentario”, che però non mi convince. Più volte nel ccrso di questa raccolta propongo il termine, meno equivoco ma comunque insoddisfacente, di nonfiction. È un termine negativo e anglofono. Ma me ne servo per ribadire che il documentario più innovativo, almeno dagli anni Novanta se non da prima, si allontana sempre più da quello che altrove - e in certi importanti festival come etichetta - viene chiamato “cinema del reale”. Da oggettivo il documentario si fa soggettivo. All’autore che guarda si sostituisce l’autore che si guarda. Il film saggio, il film autobiografico, la riflessione sul found footage e sul materiale d’archivio diventano le forme nuove del documentario. Una perdita di fiducia nella realta? O, invece, una presa di coscien­ za che il cinema non riflette la realtà ma la media attraverso uno sguardo che sempre più si fa carico delle proprie responsabilità nei confronti dello spettatore? Questa constatazione invita oggi a rive­ dere molti documentari del passato come “finzioni”, a cominciare da quelli dei padre Flaherty. E a rivalutarne altri come anticipazioni del futuro di questo “genere”, da quelli di Dziga Vertov a quelli di Leo Hurwitz e di Humphrey Jennings... La finestra sul mondo, che il documentario sembrava rappresentare, afferma ormai di essere anche cornice. Il digitale, con le sue possibilità “pittoriche”, incrosta il reale di ciò che l’autore può vedere sotto la

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superfìcie. Il “nuovo" del documentario, o meglio della nonfiction, è il campo d’esplorazione del cinema del nuovo millennio. Ringrazio Fabio Francione che mi ha sollecitato a raccogliere quanto ho scritto negli anni sul documentario. I saggi appaiono come li ho pubblicati o ripubblicati, con minime correzioni o integrazioni. I fotogrammi, pur facendo riferimento ai film di cui si parla, non pretendono di essere strettamente legati a essi. Ho ritenuto opportuno aggiungere un indice di nomi e di titoli per evitare che alcuni saggi divenissero ermetici per le citazioni di opere spesso sconosciute ai più- (a.a.)

S

ITALIA

Pubblicato col titolo redazionale Itinerario personale nei documentario italiano in Lino Miccichè (a cura di), Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Associazione Philip Morris Progetto Cinema/Lindau, Torino 1995, pp. 281295; riproposto, con qualche minima variazione, e col titolo Primi approcci al documentario italiano, in A proposito del film documentario, «Annali» dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, 1, Roma, 1998, pp. 40-67; riproposto in due parti nel blog www.adrianoapra.ic/?s=brcve+sioria+del-»-documentario+italianoflcpaged=2 (10 febbraio 2015) e www.adriaaoapra.it/?s»breve+sroria*deUdocumentario*italiano (17 febbraio 2015)

BREVE STORIA DEL DOCUMENTARIO ITALIANO

In questo excursus mi dispiace non aver menzionato, perché ancora non li avevo visti, due film fondamentali: uno muto, e di anonimo, Caccia nelle regioni artiche (1926), eccellente esempio di film di esplorazione; e L’antimiracolo (1965) di Elio Piccon, ambientato in una località della Puglia e che, come dice il titolo, dà un quadro della miseria locale in antitesi con una idea di Italia da boom econo­ mico, e passato praticamente inosservato all’epoca e dopo.

Si porrebbe cominciare dicendo: il documentario italiano non esiste. Nella patria del neorealismo, le riflessioni critiche e storiche1 e le esperienze pratiche in questo campo hanno lasciato tracce scarsissi­ me. Nessuna “scuola” è emersa e sono molto pochi gli autori di cui si ricordi il nome. Se poi si considera la televisione, che dovrebbe incentivare la realizzazione di documentari, bisogna constatare che essa, da questo punto di vista, è troppo spesso in mano a incom­ petenti. Il documentario è in Italia un’attività marginale e marginalizzata. Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una “terra di nessuno”, senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana “assenza” del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni Quaranta ai primi anni Ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po’ diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po’ anche all’ostina­ zione di qualche critico isolato); dall’altra l’assorbimento delle pra­ tiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo. La prospettiva sul documentario cambia tuttavia radicalmente se si considera la quantità dei film prodotti per il cinema che si possono far rientrare sotto tale definizione. Precisiamo però subito che si tratta di cortometraggi, cioè di film della durata media di 11’ (quelli di un rullo di positivo; sono assai rari i casi in cui viene superato ■1 metraggio minimo previsto dalle varie leggi che si sono succe­ dute dall’anteguerra per l’erogazione di percentuali sugli incassi e di premi di qualità). Un calcolo approssimativo dei cortometraggi

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ammessi alla programmazione obbligatoria (ai quali andrebbero aggiunti quelli non ammessi per avere il totale della produzione) dà le seguenti cifre: 500 circa per gli anni 19.32-1943, con un aumento della produzione - per quanto riguarda i cortometraggi specifica­ mente destinati alla programmazione nelle sale in abbinamento con i lungometraggi - negli anni 1941-1943; addirittura più di 14.000 (senza contare i documentari industriali e quelli, per varie ragioni, non presentati ai premi c, addirittura, in censura) per gli anni 19451995, con medie di 5-600 l’anno negli anni Cinquanta (e una punta di più di 1.000 nel 1955), che scendono gradualmente dopo la legge del 1965, la quale prevede premi di qualità e non più percentuali sugli incassi per i produttori, a 220 fino al 1973 e a 100-150 dal 1974 a oggi [1995J2. He parlato di programmazione obbligatoria, ma va subito precisato che se essa viene rispettata negli anni del fascismo, lo è gradualmente sempre di meno negli anni successivi, fino a non esserlo affatto dagli anni Settanta in poi. Il paradosso, e lo scandalo, del cortometraggio è in effetti di essere un genere protetto e praticamente finanziato dallo Stato ma “invisibile” (e di solito sgraditissimo al pubblico per la sua mediocrità). Ciò nono­ stante il cortometraggio esiste: perché è conservato presso la Cine­ teca Nazionale, soprattutto, per ragioni di legge, dal 1965 in poi (circa 5.000 cortometraggi, ma in copia unica, quindi diffìcilmente visionabili), presso l’istituto LUCE (molto di ciò che è stato realizza­ to durante il fascismo, in particolare), presso altri archivi pubblici o privati e presso i produttori ancora attivi. Ci sono poi i documentari di lungometraggio, prodotti soprattutto negli anni Cinquanta e Ses­ santa (film di montaggio, documentari di viaggio o esotici, film-in­ chiesta, documentari “sexy”), ma il loro numero non raggiunge il centinaio. Diffìcile è invece calcolare ciò che è stato prodotto per la televisione in campo documentario, sia come “servizi” all’interno di rubriche (cortometraggi) sia come “special” (lungometraggi) sia come serie: un’indagine accurata in questo campo sterminato po­ trebbe riservare sorprese.

Caccia nelle regioni artiche

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Non ho fatto calcoli per quanto riguarda il periodo muto, di cui tuttavia non mi occupo in questo saggio per mancanza di cono­ scenza diretta {come non mi occupo, se non di sfuggita, di quei documentari o cortometraggi che non rientrano nella definizione più tradizionale: film sull'arte, scientifici, didattici, industriali, pub­ blicitari, di animazione, saerimentali, amatoriali}. Il documentario è comunque presente fin df.lle origini. Si registrano documentari “dal vero”, di viaggio, di guerra, scientifici; emergono le personalità di Giovanni Vitretti, di Luca Comerio, di Roberto Omegna (il primo e il terzo attivi anche in periodo sonoro; e ricordo che i documentari di Comerio sono stati riutilizzati da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi per degli originalissimi “film di montaggio”, fra cui soprattutto Dal Polo aH'Equatore, 1986, e che Virgilio Tosi ha re­ alizzato nel 1974 il documentario di mediometraggio Un pioniere del cinema scientifico: Roberto Omegna). Un impulso decisivo alla produzione documentaria viene dato dalla fondazione nel 1925 de L’Unione Cinematografica Educativa (luce), nazionalizzata nel 1926 e che dal 1927 produce, accanto a cortometraggi di carattere soprattutto educativo-didattico e propagandistico, un cinegiornale ( la legge del 1 926 garantisce al luce il monopolio dell’informazione cinematografica e sancisce l’obbligo di programmare nelle sale il cinegiornale).

Lirrnria i. Raffaello Ma (arazzo, 1932)

II ventre della città

Il documentario sonoro (1932-1943) Mentre prosegue l’attività del luce, un apporto fondamentale alla realizzazione di cortometraggi documentari destinati in primo luogo alta programmazione nelle sale è dato dalla Cines, la più importante casa di produzione di lungometraggi degli inizi del sonoro. In par­ ticolare, sotto la direzione di Emilio Cecchi (1932-1933) vengono realizzati 17 cortometraggi affidati a cineasti allora alle prime armi: Blasetti, Vergano, Matarazzo, Poggioli, Barbaro, Perilli e altri'. Fra

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quelli che ho visto, il migliore è di gran lunga II ventre della città (1933), unica regia cinematografica del pittore Francesco di Cocco, sul mattatoio e i mercati generali di Roma, colti sul vivo e spesso di nascosto. Non c’è voce off - anche se una musica “illustrativa” ne sostituisce un po’ la funzione - ma, come avviene quasi sempre nei do­ cumentari italiani, non c’è non dico suono diretto ma neppure suono d’ambiente. Qualche suono d’ambiente c’è nell’analogo (dal punto di vista della scelta realistica) ma inferiore Cantieri dell’Adriatico (1932) di Umberto Barbaro, girato nei cantieri navali di Monfalcone e nel­ le fonderie di S. Andrea a Trieste. Sorprendente è invece l’uso del suono diretto in Campo de’ Fiori (1933), un cortometraggio luce sulla omonima piazza romana, senza indicazione di regista nei titoli di testa (come era allora abitudine al luce), rovinato purtroppo da un montaggio rabberciato. Nel 1933 avviene al luce una radicale trasformazione sotto la presidenza di Giacomo Paulucci di Calboli Barone, che comporta una migliore organizzazione nella produzione dei cinegiornali e dei documentari. Ma la diffusione dì questi ultimi nelle sale, al di fuori di circuiti specializzati, dev’essere stata assai limitata se ancora nel 1938 si lamenta sulle pagine delle riviste di cinema la latitanza dell’Italia in questo settore. Di fatto, sono le se­ zioni cinematografiche dei Gruppi Universitari Fascisti (Cine-GUF) a ereditare non solo l’attività amatoriale dei cineclub ma anche quella della Cines nel campo del cortometraggio. I Cine-GUF vengono fondati nel 1933 su iniziativa di Galeazzo Ciano, allora Ministro della Cultura Popolare (minculpop) allora competen­ te anche per la Stampa e Propaganda. Ma già dal 1932 è attivo a Ve­ nezia nella realizzazione di film amatoriali Francesco Pasinetti, affian­ cato dal suo operatore Mario Damicelli. La produzione dei Cine-GUF, in 16mm e muta, viene presentata a livello nazionale, e premiata, nei Littoriali della Cultura e dell’Arte, che dal 1935 aprono una sezione cinema. Emergono così i nomi di molti dei futuri documentaristi del luce: Pietro Francisci a Roma, Giorgio Fettoni e Domenico Paolella a Napoli, Giovanni Paolucci e il futuro operatore (e occasionalmente regista) Piero Portalupi a Genova, Fernando Cerchio a Torino. Intanto al luce cominciano a farsi notare Corrado D’Errico e Gior­ gio Fettoni. D’Errico (1932-1941), regista teatrale, commediografo, giornalista, lavora agli inizi con Camerini (Kif Tebbi, 1928; Rota­ ie, 1929-31), realizza dal 1935 undici lungometraggi di finzione a quanto sembra mediocri, ma che non ho visto, ed è uno dei primi collaboratori del luce, diventando responsabile dei cinegiornali e in particolare della Rivista luce (1934-36: sei o sette numeri, secondo Argentieri assai pregevoli4). Benché non firmati, sono attribuibili a

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lui, sempre secondo Argentieri', almeno due cortometraggi: Stramilano (1927), uno spigliato “colpo d’occhio” sulla città vista nella sua modernità e non privo di qualche momento sperimentale alla Ruttmann, e il meno originale Ritmi di stazione (1933). Giorgio Fet­ toni entra al luce nel 1934, dapprima come montatore, poi come regista (Pompei, 1936) e come capo del reparto turistico (1937); in tale veste è tra i primi a considerare il documentario come opera creativa e d’autore e a far uscire il luce dall’anonimato delle riprese estemporanee di ”attuali:à” a cui il genere sembrava confinato.

Racconto da un affresco

Un contributo decisivo a la promozione del cortometraggio d’auto­ re è la fondazione nel 1938 della incom (Industria Corto Metrag­ gi). Ne è promotore il giornalista Sandro Pallavicini, che si avvale per la direzione tecnico-artistica di Ferroni (che ritorna poi al LUCE dal 1940 al 1943 come consulente tecnico-artistico e direttore del reparto documentari, oltre che come regista), e di Paolella come collaboratore. La incom interviene in tutta evidenza a riempire un vuoto del luce in questo campo, anche se e sempre il luce a distri­ buirne i prodotti. È probabilmente la sua presenza di fatto sul mer­ cato a suggerire una legge del novembre 1941 che, oltre a sancire l’obbligo di programmazione nelle sale dei documentari, riconosce la possibilità che il 30% della produzione sia realizzato da case di­ verse dal luce. Di fatto, una produzione diciamo indipendente, a parte la incom, si manifesta anche prima del 1941, con carattere probabilmente sporadico ma qualitativamente rilevante. Del 1938 è Fontane di Roma di Mario Costa, su musiche di Respighi, pro­ dotto dalla Romulus-Lupa, un esperimento che Costa prosegue con Pini di Roma (1941) della Vela; entrambi i film sono presentati al Festival di Venezia con successo. Nel 1939 vi viene addirittura pre­ miato un film prodotto dalla Lumen Veritatis, Il pianto delle zitelle di Giacomo Pozzi Bellini, un fotografo che ha avuto peraltro solo

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occasionali rapporti col cinema. Del 1939 o del 1940, distribuito nel 1941, è 11 ruscello di Ripasottile di Roberto Rossellini, un do­ cumentario oggi perduto prodotto dalla Excelsior-Safa6. A Milano emerge la Dolomiti Film, che raccoglie un gruppo di giovani fra cui spicca Luciano Emmer; i loro film sono II covo (1941) di Vitto­ rio Carpignano, efficace rievocazione dei primordi del fascismo (il “covo” è l’ufficio in cui si redigeva agli inizi «Il Popolo d’Italia»), La sua terra (1941) di Emmer (che con la moglie Tatiana Grauding ha anche collaborato al film precedente) e Enrico Gras, su Predappio, il paese natale di Mussolini, Racconto da un affresco (19381941), // paradiso terrestre (1941) e Romanzo di un'epoca (1942) di Emmer-Grauding-Gras, tre originali film d’arte su Giotto, Bosch e la belle époque, e altri ancora.

La storia di ogni giorno

Pronto!?! Chi parla?

Grazie quindi al luce, alla incom e alle altre iniziative private, il documentario si impone in Italia fra il 1938 e il 1943. Quali sono le caratteristiche di questa produzione documentaristica? Va subito detto che la tendenza del “colto sul vivo” che si può intravedere tra la fine del muto e gli inizi del sonoro resta (e resterà per molti anni, anche nel dopoguerra) un fatto sostanzialmente sporadico. La ragio­ ne, a mio avviso, è che il suono diretto7 è il grande rimosso del docu­ mentario italiano, il che limita l’emergere di un realismo immediato. Dominano, a integrazione delle immagini, il commento fuori campo e la musica “illustrativa”. L’assenza di commento, o la sua riduzione al minimo indispensabile, è quasi sempre il segnale, ora e dopo, di un'ambizione d’autore. Non c’è commento in Milizie della civiltà (1941 ) di D’Errico, in l piccioni di Venezia (1942) e Venezia minore (1942) di Pasinetti, in Le Cinque Terre (1942) di Paolucci, ed è ridot­ to al minili io in Cvmucdiii ( 1 942) di Cenino e in Genie di Cbiuggia (1943) di Basilio Franchina. Rari sono poi i casi in cui la voce fuori campo è “pensata” in quanto tale: in Fantasia sottomarina (1938-

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40, INCOM ) di Rossellini e in Pronto!?! Chi parla? (1942) e lai storia di ogni giorno (1942) di Damiceli! essa assume una valenza parodica o ironica, quasi dialogic.! con lo spettatore, mentre in / figli del car­ bone (1939, incom), sui derivati del carbone, un film industriale di Fettoni, la sua sovrabbondanza e la sua velocità vanno di pari passo con la densità informativa e col ritmo incalzante del montaggio. C’è eccezionalmente del suono diretto nella prima e nella terza parte di Milizie della civiltà e in La gondola (1942) di Pasinetri, ma nella maggior parte dei casi manca perfino il suono d’ambiente. Le imma­ gini dei documentari sono tendenzialmente mute.

Venezia minore

Cornacchie

Questo mutismo determina l’estetica del documentario italiano, che è quella dcll’immag ne “preziosa”. Tale preziosismo può ma­ nifestarsi sui versanti opposti dell”*eroico” e del “poetico" ma non cambia sostanzialmente. È assai probabile che il metraggio breve spinga i cineasti a considerare ogni inquadratura come una sintesi, perché non c’è tempo per l’analisi, a guardare la realtà più per la sua eccezionalità che per la sua quotidianità, a filmare la natura, i monumenti o il lavoro con un’enfasi o con un’estasi “a priori”, che prescinde da ogni volontà di avvicinarsi alle cose per ciò che esse sono. In Milizie della civiltà il tono quotidiano della prima e dell’ul­ tima parte (la vita nel villaggio operaio dell’E42, cioè il quartiere dove si costruiscono gli edifìci dell’Esposizione Universale prevista per il 1942 a Roma e annullata dalla guerra - l’attuale quartiere tUR) viene contraddetto dalle carrellate e panoramiche epiche sulle architetture in stile “amico romano” di Marcello Piacentini della parte di mezzo. In Castel S. Angelo (1939, incom) di Paolella, La fontana di Trevi (1941) di Cerchio, / tre rioni (1942) di Ubaldo Magnaghi, Koma e visti “sotto vuoto” e le sue bellezze esaltate con inquadrature solenni. Un po’ di vita sembra insinuarsi solo in Via Margotta (1941) di Raffaele Saitto. Su un versante solo appa­



rentemente opposto, gli “umili” di Cornacchia, Le Cinque Terre e Gente di Chioggia sono ritratti con inquadrature “sacralizzanti”; nonostante l’interesse sincero dei registi per un mondo così poco rappresentato dal cinema, c’è in questi documentari qualcosa del­ lo sguardo estetizzante e aristocratico sui poveri che caratterizzerà La terra trema. Nel documentario programmaticamente antimonu­ mentale di Pasinetti, Venezia minore, il coro finale dell’Agnus Dei sancisce la santificazione, e in tale senso la monumentalizzazione, anche degli aspetti meno noti della città. Prevale insomma nel docu­ mentario italiano, anche negli esempi migliori (Cornacchia, Venezia minore, Le Cinque Terre, Milizie della civiltà), una tradizione an­ tidocumentaria. Alberto Moravia distingue nel cinema italiano due tradizioni prevalenti: quella che rimanda all'opera lirica e quella che rimanda al teatro dialettale. È la prima che vediamo in atto negli esempi citati.

Milizie della ci viltà

La seconda tradizione, quella che privilegia il “piccolo” senza pre­ tendere di ingigantirlo, si fa luce in pochi tra i film che ho potuto vedere. In Fantasia sottomarina (e probabilmente anche in II ruscel­ lo di Ripasottile) la metafora bellica diventa parodica una volta ap­ plicata ai pesci. Per quanto riguarda il famoso II pianto delle zitelle si tratta dello scarno reportage, canti e suoni diretti compresi, del tradizionale e impervio pellegrinaggio dal paesino di Vallepietra, ai confini tra Lazio e Abruzzo, al santuario della Trinità sul Monte Autore, che si svolge nela prima domenica di Pentecoste (lo stesso pellegrinaggio filmato nel 1958, a colori, da Gian Vittorio Baldi nel suo non molto dissimile II pianto delle zitelle)-, oggi vederlo non fa una grande impressione, ma è certamente un film diverso, se non unico, sia come genere sia come tema, rispetto ai documentari dell’e­ poca. Emmer si avvicina a Giotto e a Bosch in Racconto da un af­ fresco e II paradiso terrestre “narrativizzandoli” secondo una linea

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realistica e quotidiana, senza voce fuori campo (nel primo ci sono solo poche battute dai Vangeli che danno voce ai personaggi dell’af­ fresco) e con musiche classiche che la sostituiscono. Molto elabora­ ti, e sorprendenti, sono i due documentari di Dainicelli, Pronto!?! Chi parla? e La storia di ogni giorno, ambientati a Milano, il primo sulla Società telefonica e le telefoniste, il secondo sui tram. Mario Damicelli ( 1913-1991 ) debutta nel 1932 come operatore di Pasinet­ ti nel Cine-GUF di Venezia, per il quale realizza anche come regista Ritmi di una grande città-, dal 1934 al 1943 è operatore di guerra per il LUCE, specializzato in riprese aeree; dal giugno 1944 al mag­ gio 1945 è operatore al seguito della Quinta Armata usa; dal 1946 al 1948 è corrispondente per il cinegiornale “La Settimana incom”; è operatore di cortometraggi (Cornacchia, Milizie della civiltà) e, dopo la guerra, anche di lungometraggi; come regista, e operatore realizza quattro cortometraggi fino al 1943 (l'ultimo, Accendiamo un fiammifero, è per ora irreperibile [ma è stato successivamente ritrovato]) e almeno una decina nel dopoguerra. In entrambi i cor­ tometraggi che ho visto è presente uno stile preciso, un ritmo veloce e disinvolto, un tono ironico che fanno pensare a Camerini e Clair per l’affettuoso disegno di piccoli personaggi e situazioni minime che rendono vivo il proposito “documentario” (al contrario di ciò che accade in due analoghi documentari della incom su forme di la­ voro collettivo, peraltro interessanti e per l’epoca “moderni”, come Edizione straordinaria, 1941, di Francisci, su come nasce, a Milano, un numero di «Il Popolo d’Italia», e La grande voce, 1941, di Pao­ lella, sulla pubblicità).

Fantasia sottomarina

Mine in vista

Quanto al realismo, che dovrebbe essere la linfa vitale del documentarismo, esso non va rintracciato nei cortometraggi ma semmai in qualche servizio dei cinegiornali luce (ne sono stati realizzati più di 1.000 muti dal 1927 al 1931 e più di 2.000 sonori dal 1931 al

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1943, oltre a 53 realizzati a Venezia durante la Repubblica di Salò dall’ll ottobre 1943 al 18 marzo 1945; e sono oggi conservati al 90%), nonché in certi cortometraggi giornalistici (ne ricordo almeno uno, Dall’acquitrino alle giornate di Littoria, 1934, sulle bonifiche) e nei documentari di guerra (per esempio La battaglia dello Jonio, 1940). In questi casi il realismo sia visivo che meno spesso sonoro impregna i materiali aldilà dei propositi propagan­ distici, per una necessità per così dire ontologica. Una stimma di questo cinegiornalismo è il lungometraggio II cammino degli eroi (1936) di Corrado D’Errico, montaggio assai efficace dei materiali luce sulla guerra d’Abissinia. Questo “realismo di guerra” traspare con ancor maggiore evi­ denza e consapevolezza in alcuni film di finzione, che debbono qualcosa alle origini documentaristiche dei loro registi. A parte il sopravvalutato Acciaio (1932) di Walter Ruttmann e Vecchia guardia (1934) di Blasetti, e a parte Ossessione (1942-43) di Lu­ chino Visconti, è in questo tipo di film che si possono individuare le radici della scuola realistica, o neorealistica, del dopoguerra. Francesco De Robertis (1902-1959), ufficiale di marina, ideato­ re e coordinatore del Centro Cinematografico del Ministero della Marina, debutta nel 1940 con il notevole cortometraggio di guerra Mine in vista e realizza con la Scalerà, senza mai firmarli, i lungometraggi Uomini sul fendo (1940), Alfa Tau! (1942, il migliore) e Uomini e cieli (1943-1947), oltre a supervisionare il primo lun­ gometraggio di Rossellini, La nave bianca (1941). Quest’ultimo prosegue la sua “trilogia della guerra”, dopo il film sulla marina, con il film sull’aviazione, Un pilota ritorna (1942, il migliore) e quello sull’esercito, L’uomo dalla croce (1943), lasciando spazio all’improvvisazione e alla “durata” degli eventi, con un metodo di lavoro opposto a quello di De Robertis, che gira sì con attori non professionisti e in ambienti reali ma prevedendo meticolosamente ogni inquadratura in uno storyboard. Infine Mario Baffico, che esordisce nel cinema come cofondatore del Cineclub di Milano (1929), come giornalista e come documentarista, realizza / trecen­ to della settima (1943). suo quinto lungometraggio, in coprodu­ zione col luce, un episodio della guerra d’Albania reso in maniera sobria e antiretorica.

Il dopoguerra

La situazione relativamente compatta del documentario fino al 1943 si sfalda nel dopeguerra. La fine del monopolio luce vede

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nascere moltissime case di produzione di cortometraggi che si avvalgono del tempestivo decreto legge “protettivo” dell’ottobre 1945, che riserva loro il 3% dell’introito lordo degli spettacoli. Le leggi successive del 1947 e del 1949 ritoccano questo principio senza variarlo nella sostanza. Il produttore si trova grazie a esse in una situazione privilegiata: ha garantito un incasso che può anche diventare cospicuo se il suo cortometraggio viene abbinato a un lungometraggio di successo (grazie anche ad accordi “privati” con gli esercenti); e si sente in qualche modo autorizzato, in mancanza di controlli, a ridurre al minimo i costi di produzione. I cortome­ traggi non superano quasi mai gli 11’ della bobina da 300 metri, utilizzano pochissimo negativo e prevedono assai di rado riprese fuori sede (cioè il più delle volte fuori Roma) che aumenterebbero i costi. La legge del 1949 riserva una percentuale supplementare per cortometraggi «di eccezionale valore tecnico e culturale», che in pratica è un incentivo per girare sempre più spesso a colori, e più tardi anche in scope, in anticipo rispetto al lungometraggio (ma c’erano stati esperimenti, prima in Technicolor e poi con proce­ dimenti italiani, fin dal 1935). In pratica alcune case (Ecelweiss, Documento, che dal 1952 produce anche lungometraggi, incom e Astra, che producono anche i cinegior­ nali “La Settimana incom” e “Mondo Libero”) si assicurano 1’80% dei contributi statali grazie ai loro appoggi governativi (e anche perché a volte acquistano a poco prezzo cortometraggi altrui non ammessi alla programmazione obbligatoria e che, casomai rimanipolati, vengo­ no successivamente ammessi). Altre case (Universalia, Lux, Cortimetraggi di Milano) tentano coraggiosamente la strada del cortometrag­ gio di qualità. Il luce, che ricomincia già nel 1946 a produrre come luce Nuova (è suo il documentario che vince il primo Nastro d’ar­ gento, La Valle di Cassine di Paolucci), è poi messo in liquidazione nel 1947, ma viene subito ridimensionato con appositi finanziamenti per produrre solo cortometraggi, spesso di ispirazione governativa. Nel 1955, quando sta per scadere la legge del 1949, si arriva a produrre 1.132 cortometraggi. La nuova legge del 1956 (anno in cui si pro­ ducono solo 225 cortometraggi) e le successive del 1959 e del 1960, fino a quella del 1965, cambiano un po' le cose introducendo premi di qualità in numero limitato per i produttori e abbuoni erariali per gli esercenti. Di conseguenza, il numero dei cortometraggi prodotti si riduce. Data la quantità dei cortometraggi prodotti dal 1945 a oggi (più di 14.000), è assai difficile fare discorsi complessivi che non siano generici. Stando ai giudizi dell’epoca e a quel po’ che io stesso ho fatto in tempo a vedere nelle sale, si può dire che la gran parte di questa

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produzione è qualitativa nenie mediocre e contenutisticamente confor­ mista. Ho tentato in questi ultimi anni di scandagliare questo mondo sommerso alla ricerca dilla qualità e ho individuato registi che hanno cercato di fare del buon cinema nonostante la riluttanza dei produttori e la frustrazione di fronte a un pubblico ostile o inesistente. Si tratta senza dubbio di una minoranza che però, anche se solo retrospettiva­ mente, consente di delincare un percorso del documentarismo italiano che non sia solo un lamento funebre.

Picasso

Romantici a Venezia

Tra i documentaristi che hanno esordito nel periodo precedente, proseguono la loro attinta, a volte con incursioni nel lungometrag­ gio, Paolucci, Paolella, Francisci, Cerchio, Ferroni, Damicelli, ma senza risultati di rilievo, stando almeno alle cose scritte all’epoca. Glauco Pellegrini c Michele Gandin, che esordiscono negli ultimi anni di guerra, vengono invece notati per i loro documentari d’arte (il punto di arrivo del lavoro di Pellegrini in questo campo può es­ sere considerato La porta di San Pietro di Giacomo Manzù, 195964}. Blasetti, instancabile esploratore di ogni possibilità del cinema, continua ad alternare ai lungometraggi qualche cortometraggio, per la verità piuttosto convenzionale (il migliore è Ippodromi all'alba.. 1950). Emmer rientra in Italia dopo un esilio in Svizzera, dove viene scoperto dalla critica francofona, e continua a realizzare notevoli documentari sull’arte - ma non solo: Bianchi pascoli (1947), sui cimiteri di guerra, La leggenda di Sant’Orsola/La legende de Sainte Ursule (1948), su Carpaccio, e Romantici a Venezia/Venise et ses amanti (1948), gli ultimi due con commento di Jean Cocteau, Isole nella laguna (1948) - tutti con Gras -, Goya (1950), e i più lunghi, e a colori, Leonardo da Vinci (1952) e Picasso (1954); Emmer debut­ ta nel lungometraggio rei 1950 con Domenica d’agosto ma senza abbandonare la produzione documentaristica. Pasinetti continua la

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sua serie molto apprezzata di cortometraggi su Venezia (Piazza San Marco, 1947, e 11 giorno della Salute, 1948, vengono premiati alla Mostra di Venezia), oltre a realizzare diversi documentari scientifici; ma muore prematuramente nel 1949. La sua scomparsa produce un unanime rimpianto; ria i suoi film, rivisti oggi, sono spesso de­ ludenti.

L'amorosa menzogna

N.U.

Il predominio dello stile: Antonioni, Zurlini, Andreassi Il trait d’union fra anteguerra e dopoguerra può essere considerato Gente del Po di Michelangelo Antonioni. Progettato fin dal 1939, questo documentario viene girato per il luce nel 1943, ma parte del materiale risulta inutilizzabile per un errore di sviluppo (il regista pensa però a un boicottaggio). Recuperato il materiale a Venezia dove il luce si è trasferito durante la Repubblica di Salò, Antonioni monta le parti sopravvissute nel 1947. Previsto per una durata di 22*, ora Gente del Po dura solo 11 II rapporto fra uomo e paesag­ gio rimanda a Cornacchia, Le Cinque Terre, Gente di Chioggia-, ma il preziosismo estetico di quei documentari è superato da Antonio­ ni grazie a una maggiore coscienza realistica unita a uno stile più preciso. I successivi N.U. (1948) e L’amorosa menzogna (1949) si impongono all’attenzione della critica per il loro evidente controllo stilistico (entrambi vengono premiati col Nastro d’argento del Sin­ dacato giornalisti cinematografici). La linea antonioniana - un realismo trasceso dallo stile - viene pro­ seguita in minore dal sua aiuto regista Francesco Maselli, che tende però a sovrapporre in maniera stridente elementi di critica sociale alla ricerca formale, come in Zona pericolosa (1952), mentre più riusciti sono certi schizzi di mestieri umili, come Fioraie (1952).

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La stazione

Soldati in città

Sulla scia di N.U. si colloca anche Valerio Zurlini. Soggetti dei suoi documentari sono la città (Roma) e le sue periferie, i mestieri umili, le facce anonime di uomini e donne; il paesaggio urbano interagisce “architettonicamente” col personaggio in primo piano; voce fuori campo (spesso ridotta al minimo) e musica vengono utilizzate in maniera molto intelligente; e costante la tensione del materiale do­ cumentario verso una minifinzione (Racconto del quartiere, 1950, // mercato delle facce, 1952, Soldati in città, 1953), con [‘eccezione di La stazione (1953), Iònico dove la realtà colta sul vivo, e spesso di nascosto, emerge sulla elaborazione formale altrove dominante.

Più complessa, e tutta da riscoprire, è la personalità di Raffaele Andreassi, attivo dal 1949 nel cortometraggio “d’autore”, nel film sull’arte, nel film-inchiesta e, dagli anni Settanta, in televisione. Co­ nosco solo una piccola parte della sua ampia produzione, quanto basta però a collocarlo fra i maggiori documentaristi italiani. La gran parte dei mrromerraggi che ho visto è priva di voce fuori cam­

po, c’è un uso elaborato del suono d’ambiente o diretto e la musica è impiegata con molta discrezione; il punto di partenza documen­

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tario è annullato o trasceso da un tensione lirica affidata a imma­ gini e suoni laconici, quasi astratti; Andreassi lavora più sui vuoti che sui pieni (in questo senso è antonioniano); nulla è dichiarato, tutto è suggerito in corometraggi esemplari per rigore stilistico come Agnese (1959), La città calda ( 1959), Bambini (1960), Amore (1963), Gli animali (1965), L’orizzonte (1968). Un raro esempio di cinéma-vérité “ricostruito” con personaggi reali e suono in pre­ sa diretta è I piaceri proibiti (1963; il titolo originale era L’amore povero, ma si è preferito distribuirlo con un titolo più commercia­ le sulla scia dei documentari sexy allora di moda); si tratta di un lungometraggio in sette episodi - particolarmente riusciti II padre e La borsetta ~ dove situazioni scabrose vengono trattate con uno stile minimalista c pudico. A mezza strada fra ritratto d’artista e cinéma-vérité si colloca Antonio Ligabue pittore (1965), splendida e inquietante serie di scene di vita “vissuta per la macchina da pre­ sa” del noto pittore-contadino naif della bassa reggiana. Un altro regista di documentari caratterizzati da uno stile laconi­ co e pudico, al limite della finzione, è il critico Leonardo Antera, autore di una quindicina di cortometraggi fra cui Spettacolo ec­ cezionale (1961), Cinema a tutti i costi (1962) e Qualcosa sopra la pelle (1963).

Barboni

Bambini in città

La tendenza realistica: De Seta e Olmi

Il predominio dello stile negli autori citati può essere considerato, con le dovute cautele, simmetrico all’invasione nel dopoguerra di un documentarismo estetizzante e folcloristico, fatto di albe e tramonti e di monumenti mirabili, crede della tendenza “preziosa” del perio­ do fascista. Rispetto a ciò che sta succedendo nel lungometraggio col neorealismo, un approccio “senza mediazioni” alla realtà è re­

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lativamente eccezionale nel campo del cortometraggio. Un esempio convincente di questa tendenza realistica è il film d’esordio di Luigi Gomencini, Bambini in città (1946), ambientato a Milano. Dopo aver debuttato nel lungometraggio con Proibito rubare (1948), Comencini realizza altri d.ie cortometraggi: li museo dei sogni (1949), che è quasi un film promozionale sulla Cineteca Italiana di Milano e il salvataggio del vecchio cinema (un soggetto che svilupperà in un assai originale e poeti noto lungometraggio, La valigia dei sogni, 1953); e L'ospedale de! delitto (1950), sul manicomio criminale di Aversa, dove il realismo estremo, quasi crudele, delle immagini - a volte con suono in presa diretta - viene contraddetto da un com­ mento imposto, incredibilmente conformista. Su un soggetto analogo (un ospizio di vecchi a Milano) e il cor­ tometraggio di esordio di Dino Risi, 1 bersaglieri della Signora (1946) cui segue, sempre ambientato a Milano, il “neorealistico’’ Barboni (1946). Fra i numerosi documentari di Risi prima dell’e­ sordio nel lungometraggio con Vacanze col gangster (1952) sono da ricordare Cortili (1947) e Buio in sala (1950), anch’essi am­ bientati a Milano; il secondo, una minifinzione sulle reazioni de­ gli spettatori dei cinema di terza visione, è quasi un’anticipazione della commedia all’itahana, come lo è del resto l’episodio Paradiso per .3 ore di L’amore in città.

Appunti su un fatto di cronaca di Inchino Visconti lep. di Documento Mensile r.l, 1950)

Siamo donne n. 4, Barcellona 2008, dedicato al documentario italiano, pp. 93-96; riproposto in www^drianoapra.it/?s=trame*digitali (10 marzo 2015)

TRAME DIGITALI

«Siamo inalati di fiction» mi capitava di dire tempo fa per difendere la causa del documentario; oggi aggiungerei che la moda del do­ cumentario, affermatasi in maniera strisciante più a parole che nei fatti, almeno da noi, sembrerebbe assestarsi su un’idea di realtà che rischia di riportarlo indietro, ai fasti del direct cinema-, superando l’idea di documentazione, la nonfiction aveva invece profìcuamente imboccato le strade della saggistica, dell’autobiografia, del diario personale, dell’elaborazione creativa del materiale di repertorio o del found footage. In altre parole, all’oggettività era subentrata la soggettività, al “documentario” il punto di vista, casomai - ma non necessariamente - documentato. Non voglio denigrare il documentario realistico, capace ancora di eccellenti risultati (un esempio per tutti: Morire di lavoro, 2008, di Daniele Segre); dico solo che esso rischia di nascondere, con la sua “evidenza”, esperimenti di ibridazione tra forme spurie, ai quali il digitale fornisce da qualche tempo un contributo tecnico ed estetico di vitale importanza. Non si tratta solo di un problema economico, dunque. L’elasticità del digitale da una parte sollecita l’utilizzazione di materiali preesi­ stenti, rendendo le riprese di materiale nuovo una delle possibilità di “documentazione”, e non necessariamente la principale; dall’al­ tra essa amplia la gamma delle lavorazioni possibili in postprodu­ zione, aldilà del tradizionale montaggio dell’immagine e del suono, stimolando l’introduzione di manipolazioni, di sovrimpressioni, di “trucchi”. Il film supera il limite della successione di inquadrature per tendere al flusso audiovisivo, a forme “liquide” di costruzione narrativa, a trame digitali che sono intersecazioni e sovrapposizioni dai confini labili. Alcune opere recenti della nostra nonfiction mi sembra che, pur nella loro diversità, assumano come principi organizzativi i motivi estetici qui abbozzati: Un'ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo an­ che le rose (2008) di Alina Marezzi, Kill Gil vol. 1 (2005) e voi. 2 (2006) di Gil Rossellini, Dalla testa ai piedi (2006-2007) di Simone

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Cangelosi, Scenes de chasse au sanglier (2007) di Claudio Pazienza, Onibus (2007), Tramas (2007) e Strade trasparenti (2008) di Au­ gusto Contento, // sol dell’auvenire (2008) di Gianfranco Pannone.

Dalla testa ai piedi

Un’ora sola ti vorrei e Dalla testa ai piedi mettono al centro della loro riflessione un trauma squisitamente soggettivo, per non dire psicoanalitico: più indirettamente il primo, frontalmente il secondo. Nel film della Marazzi è la morte per suicidio della madre; in quel­ lo di Cangelosi il cambiamento di sesso (da femminile a maschile) dell’autore; in entrambi, il “film di famiglia” è essenziale: materiale dominante, c indiretto, per la Marazzi, che utilizza quelli girati dal nonno materno Ulrico Hoepli, in 16mm, spesso a colori, a comin­ ciare dal 1926; video di Simona/Simone che documentano l’insof­ ferenza per il proprio sesso fin dall’adolescenza, ibridati da mate­ riale meno privato, che allarga il punto di vista autoreferenziale al mondo, e il problema personale a un contesto sociale. Entrambi sono film “unici”, irripetibili; ma per la loro forma, che corrisponde anche alla “distanza” da cui gli autori riescono a guardarsi, non solo ci coinvolgono comunque, ma forniscono anche una lezione di cinema per film “in soggettiva” da farsi.

Kill Gii voi. 1

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Anche il dittico, dal titolo semiserio, di Gil Rossellini (figlio di So­ nali Sen Roy e di Hari Dasgupta, adottato da Roberto nel 1957, all’età di un anno) è un’opera irripetibile. P. il diario della rarissima e gravissima malattia paiaplegica che lo ha colpito e del lungo e faticoso tragitto, attraverso miglioramenti e ricadute, che ha dovuto percorrere per tentare, fino ad ora, di combatterla |Gil è morto nel 2008 lasciando, postumo. Kill (id voi. 2 e J/2|. La videocamera, in mano sua o di parenti e amici, diventa in questo caso un sostegno terapeutico (come, psicoanaliticamente, lo era il rimontaggio dei film di famiglia per la Marazzi), e un motivo di perseveranza; ma anche, grazie alla sorprendente autoironia che costella questo film dell’orrore, un manuale di sopravvivenza quotidiana che si rivolge, senza inutili pietismi, a tutti noi. In Scenes de chasse ait sanglier (cioè Scene di caccia al cinghiale, titolo che sembra nascondere il vero tema del film) Pazienza, un autore che vive e lavora da anni in Belgio, si interroga sul proprio rapporto difficile col padre, e lo fa mescolando materiali della più diversa provenienza, alcuni originali, altri riciclati, e composti in­ sieme in modo da dare un taglio saggistico, riflessivo, al tema per­ sonale. Anche stavolta, lo sguardo da vicino e quello da lontano si coniugano.

Vogliamo anche Ir rose

Il sol dell’avvenire

Dichiaratamente “sociali” sono Vogliamo anche le rose e II sol dell’avvenire, ed entrambi ci raccontano una storia “passata”: per­ ché gli autori, troppo giovani allora, l’hanno vissuta indirettamen­ te, e perché nel riproporla entrambi partono dal presupposto che è stata dimenticata, rimossa. Il femminismo e il terrorismo, rispet­ tivamente, vengono ricostruiti solo con repertorio nel primo caso, con interviste di oggi e immagini di ieri nel secondo, in un intreccio poliedrico che è sempre sotto il segno dell’interrogazione, che non

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“ricostruisce” e neppure “documenta”, ma, più sottilmente, arti­ cola i vari elementi per conferire a quelle esperienze complesse e laceranti una loro attualità. L’urgenza del ricordo, c il passato di quei movimenti (sia esso il conformismo degli anni Cinquanta, da superare, o la resistenza partigiana, da prolungare), vengono ripro­ posti come bisogni delloggi. E, per gli autori, come conti da aprire con questo loro “non vissuto".

Strade trasparenti

In tutti questi film, girare o trasferire in digitale vuol dire accedere a una varietà di materiali che in postproduzione scoprono un loro nuovo significato. Il flusso della coscienza di chi guarda e ascolta è alla base delle opere di Contento, un autore che vive a Parigi e gira, per ora, in Brasile. Se il lavoro di “trucco” è più evidente in Tramas (il film che forse più di ogni altro mi ha sollecitato a scrivere queste considerazioni), in Onibus e Strade trasparenti l’apparente “rispetto” documentaristi­ co della realtà rivela la soggettività di chi filma: per la “durata” e la ripetitività quasi onirica delle “testimonianze” sul Brasile di oggi e di ieri raccolte in lunghi viaggi in pullman, prolungate dall’eco degli intrecci musicali sapientemente scelti e missati. È proprio la “tra­ ma” - nel senso non certo di plot ma di reticolo, intersecazione e sovrapposizione, di ordito, che (come quando si ordisce una trama) ci rivela qualcosa molto aldilà delle “apparenze” - a dare alle opere di Contento il loro originale mescolamento di esperienza sonnambolica e insieme saggist.ca: come se nell’immenso subcontinente ci si dovesse prima perdete fra esperienze frammentarie del passato, incertezze del presente e speranze del futuro per poi ritrovarsi a riflettere sul senso profondo di un paese dalla cui “giovinezza” noi vecchi europei abbiamo molto da imparare. Il Brasile e il Giappone (di cui, dal punto di vista della produzione

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nonfiction recente, ignoro troppo) mi sembrano, intuitivamente, i poli a cui attingere, per opposizione geografica e culturale. Sud-o­ vest, nord-est contro (con?) il nostro centro europeo. Questo dal punto di vista geografico. Ma anche: soggettività contro (con?) og­ gettività; nonfiction (non riesco a trovare altra definizione, però non mi piace il negativo) contro (con?, ancora una volta) sia la fiction (termine ufficialmente da riservare alla burocrazia televisiva che si illude di imitare il cinema) sia la finzione (cioè il cinema narrativo con attori)... Il “nuovo” documentarismo, di cui vedo per nostra fortuna tracce e stimoli nei titoli citati, documenta (forse, anche): ma in forme ibri­ de. È però soprattutto “finzione”, manipolazione del “reale”, come hanno dimostrato altrettanto Lumière che Méliès (ma, per citare i primordi, anche Segundo de Chomón, emulo “mago”, per certi ver­ si superiore al maestro, e anche Emile Cobi, cartoonist fantastico). Il cinema del digitale, la maggiore “rivoluzione” tecnologico-estetica dai tempi del sonoro, permette di ripensare alle immagini e ai suoni secondo una logica (quanto logica?) del continuum, del flusso ho cercato di dire, che corrisponde - la letteratura, a parole, lo sa da almeno un secolo - al trasferimento del pensiero, conscio o in­ conscio, in termini audiovisivi. Memoria, diario personale, appunti e tracce di vissuto - e riflessione, intervento del razionale, su questo magma. Far sapere ad altri che ciò che ti tocca in prima persona può essere condiviso, e che il privato può così debordare nel pubblico. Quante volte mi capita, ormai, di vedere un film non dico sul te­ levisore ma sul computer. E di manipolare a mia volta, nel caso di questa nonfiction ibrida che vi si presta assai bene - ma anche, scoprendo sensi occultati, con le tradizionali finzioni “da grande schermo” (Lang, Rossellini, Walsh, Mizoguchi?) -, i film come li­ bri da sfogliare. E mi chiedo se non si stia aprendo, col digitale, una nuova frontiera, imprevista dai più, intuita dai giovani, dove lo spettatore, da tempo ormai non più “pubblico”, diventato “letto­ re”, stabilendo con l'opera un rapporto intimo, speculare con l’in­ timità che l'autore ha voluto, talvolta spudoratamente, trasmettere. Lo spettatore, sottratto al fascino del grande schermo, “condivide” l’opera? È convocato a ricrearla? Il diario, che la letteratura ha da tempo sottratto, come il saggio, a forme artisticamente subordinate alla poesia e al romanzo, è una frontiera che il cinema nonfiction può, aiutato dal digitale, affron­ tare senza doversi sentire parente povero (il cinema “ombelicale”) rispetto alle categorie imposte dall'industria (la “poesia” però, cioè il cinema non a caso definito underground, continua a stare ai mar-

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girti, per quanto nobilissimi). Ma anche queste definizioni - diario, saggio, autobiografìa - rischiano di chiudere invece che aprire. La “macchina” del cinema, col digitale, è diventata davvero la penna stilografica audiovisiva prefigurata, con incosciente anticipazione, da Alexandre Astruc nel suo magnifico manifesto del 1948, e par­ zialmente realizzata dal 16mm con audio Nagra del direct cinema e del cinema vérité dei primissimi anni Sessanta (da noi, senza co­ scienza tecnologica, Zavattini sognava da tempo questo ed altro). E chi si ricorda della paluche, la videocamera palmare, ancora ana­ logica, rivelata da Jean-André Fieschi nella sua serie Les nouveaux mystères de New York (1976-78)? Un cinema senza confini, senza le categorie festivaliere del lungo e del corto, della finzione e del documentario, della pellicola e del vi­ deo, è ciò che col digitale diventa procedura normale della scrittura - ma forse dovremmo cominciare a dire pittura - audiovisiva. L’uso del digitale come succedaneo della pellicola e della sua capacità di riproduzione “oggettiva” della realtà è un uso pigro, che guarda ai costi ridotti invece che alla possibilità di ridisegnarla, di trasformar­ la, di inventarla. E il montaggio digitale, invece di mettere un’in­ quadratura dopo l’altra, dovrebbe tendere a metterle l’una dentro e sopra l’altra. Gli sperimentalisti lo hanno già fatto (ah, Brakhage!); ma ciò che era sperimentale per il cinema, o “effetto speciale”, do­ vrebbe diventare l’effetto normale del digitale. Ho nominato qualche titolo italiano perché ho avuto l’occasione di vederlo (e che qualcuno sia di italiani all’estero ci deve far riflettere sul terreno di coltura non propizio che da noi ci circonda in questo ambito). Ma la nonfiction odierna prolifera, più o meno sotterrane­ amente, in dimensioni che scoraggiano l’analisi da parte di un sin­ golo. Chissà quante opere si nascondono dietro quelle menzionate. Chissà quante sono da buttar via, ma anche quante meritano di uscire dall’ombra. La pittura audiovisiva privata, fuori dall’ufficia­ lità delle sale, nell’intima di un dvd o di un sito web, è la sorpresa che ci attende dietro l’angolo.

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Inedito

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LA VIA NEOSPERIMENTALE DEL CINEMA ITALIANO

Controcorrente. C’è stato Roberto Rossellini. C’è stato (overground) Michelangelo An­ tonioni. C’è stato Federico Fellini (ma non sempre per i miei gusti). Ci sono stati, negli anni Sessanta e poi, Pier Paolo Pasolini (anche docu­ mentarista), Marco Bellocchio (anche documentarista), Ermanno Olmi (anche documentarista), Bernardo Bertolucci, Marco Ferreri, Vittorio De Seta (anche documentarista). E c’è stato, molto margina lizzato ma oggi rivalutato, un underground italiano (Piero Bargellini, Alberto Gri­ fi, Tonino De Bernardi, Massimo Bacigalupo, Alfredo Leonardi, Ada­ mo Vergine, Guido Lombardi-Anna Lajolo, Paolo Brunatto), perfino con qualche star che non si considerava under: Carmelo Bene (dal tea­ tro), Mario Schifano (dalla pittura). Poi la crisi a metà degli anni Settanta. I più grandi continuano ma i giovani sono orfani senza padri e senza terreno di coltura. Meteore. Il tentativo di fare nuovo cinema, nuove forme, si scontra con situazioni produttive e distributive ostili. Qualcosa comunque è emerso, ma ai margini. E poi c’è stata la presenza in Italia di Danièle Huillet e Je­ an-Marie Straub. Negli anni Ottanta la situazione non è cambiata. Gli anni Novanta hanno visto rinascite localizzate sempre ai margi­ ni. Rispetto al tentativo dominante di tornare a un cinema narrativo tradizionale, qualche avventuriero della pellicola tenta di proporre un nuovo modo di fare cinema, senza radici col passato. La linea dominante negli anni 2000, nel cinema di finzione, nel do­ cumentario, nell’avanguardia propriamente detta, dal punto di vista della qualità innovativa - se ancora crediamo, come credo, nel valore dell’estetica -, è quella di una via neosperimentale del cinema italiano. Essa non ha nulla a che vedere, se non storicamente, con l’avanguardia italiana degli anni Sessanca-Settanta. Nasce da una crisi creativa del cinema narrativo e del documentario del reale. Sorge - non inaspettata per chi come me ha sempre dato molta impor­

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tanza ai margini - dall'insoddisfazione di molti autori nei confronti delle forme espressive stabilizzate. Esse mal si adattano al bisogno di creazione di contenuti e quindi di forme nuove. La sala, al cui accesso si inframettono produttori e distributori alieni alle novità, è ormai solo uno dei punti di visibilità. Si sono aggiunti il dvd e il web. E si sono aperti nuovi luoghi di proiezione non inquadrati nel sistema industria­ le, compresi i musei e le gallerie d’arte. Il digitale poi ha consentito di realizzare non solo opere a minor costo ma anche di metterne in prati­ ca le specificità ‘‘pittoriche”. Non si tratta più di fare l’elogio del marginale. Si tratta di constatare che il gran numero di film di lungometraggio - ai quali sarebbe giusto aggiungere quelli di cortometraggio - indica un movimento (se non ancora una “scuola”, perché ciascuno continua a operare per proprio conto, in isolamento, e perché non ci sono affinità stilistiche fra le varie opere) emerso soprattutto nell’ultimo decennio. Fra il 2000 e il 2005 si sono distinti fra i lungometraggi (mi limito a citare, qui e altrove, un titolo per regista e non tengo conto degli au­ tori degli anni Sessanta) Il mnemonista (2000) di Paolo Rosa, L’amo­ re probabilmente (2001) di Giuseppe Bertolucci, Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi, Al primo soffio di vento (2003) di Franco Piavoli, Il ritorno di Cagliostro (2003) di Daniele Cipri e Franco Ma­ nesco, Oh! Uomo (2004) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Cucchi, Passato presente (2005) di Tonino De Bernardi. (Tra i film più tradi­ zionalmente narrativi Domani, 2000, di Francesca Archibugi, Aprimi il cuore, 2002, di Giada Colagrande, Non ti muovere, 2004, di Sergio Castellino; e tra i documentari Asuba de su serbatoti*, 2001, di Daniele Segre e Echi di pietra, 2C03, di Sara Pozzoli); fra i cortometraggi, con­ tinuano a operare Paolo Gioii e il collettivo catanese canecapovolto. C’è stato in anni più recenti, non lo nego, anche un cinema narrativo tradizionale buono e a volte ottimo. E anche un documentarismo del reale. Riconosco il valore di cineasti narrativi come Daniele Gaglianone con Pietro (2010), Alice Rohrwacher, Luigi Lo Cascio e Leonardo Di Costanzo con le lore opere prime (Corpo celeste, 2011, La città ideale, 2012, L’intervalla, 2012), Uberto Pasolini (un italiano che vive e lavora a Londra) con Still Life (2013), Mirko Locatelli con I corpi estranei (2014), Claudio Caligari con Non essere cattivo (2015), Ema­ nuela Piovano con L’età d’oro (2015-2016, specialmente nella versione director’s cut), Paolo Virzì con La pazza gioia (2016). Riconosco il valore di documentaristi come Daniele Segre e Gianfranco Pannone. Ma fra il 2006 e il 2016 ecco una sorta di esplosione del neosperi­ mentalismo (solo sei sono propriamente film di finzione, gli altri sono “oggetti non identificabili”): Flòr da Baixa (2006) di Mauro Santi­

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ni, Tramas (2007) di Augusto Contento, Valzer (2007) di Salvatore Maira, Puccini e la fanciulla (2008) di Paolo Benvenuti, Storia di una donna amata e di un assassino gentile (2007-2009) di Luigi Faccini, La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello, Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammarino, Terramatta; (2012) di Costanza Quatriglio, Sm Re (2012) di Giovanni Columbu, Bellas mariposas (2012) di Salvatore Mereu, Il viaggio della signorina Vila (2012) di Elisabetta Sgarbi, Sangue (2013) di Pippo Delbono, Abacuc (2014) di Luca Ferri, N-capace (2014) di Eleonora Danco, Terra (2015) di Marco De Ange­ lis e Antonio Di Trapani, Montedoro (2015) di Antonello Faretta, Per amor vostro (2015) di Giuseppe Gaudino, Ofelia non annega (2016) di Francesca Fini, Spira mirabilis (2016) di Massimo D’Anolfi e Marti­ na Parenti, Lepanto - Ùltimo cangafeiro (2016) di Enrico Masi. Fra i cortometraggi ricordo almeno - non per rigore selettivo ma per rischio di dimenticarne qualcuno o semplicemente perché non li ho visti: il campo è vastissimo - quelli del collettivo Flatform, i film di animazione di Igor Imhoff, Dalla testa ai piedi (2007) di Simone Cangelosi, No More Lonely Nights (2013) di Fabio Scaccinoli e Vincenzo Core, Tomba del tuffatore (2015) di Yang Cheng e Federico Francioni, Iconostasi (2015) di Morgan Menegazzo c Mariachiara Pemisa. Tutti questi autori non seno soli. Non ho incluso nell’elenco prece­ dente, fra i documentari, altri titoli meritevoli. Li ricordo: Tre don­ ne morali (2006) di Marcello Garofalo (un film-saggio), Il peggio di noi (2006) di Corso Salani, Il sol dell’avvenire (2008) di Gianfran­ co Pannone (più tradizionale ma uno dei suoi migliori), In amabile azzurro (2009) di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato, La vita al tempo delia morte (2009) di Andrea Caccia, Formato ridotto. Libere riscritture dei cinema amatoriale (2012, mediometraggio) del collet­ tivo Home Movies, El impenetrable (2012) di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini, Il treno va a Mosca (2013) di Federico Fettone e Michele Manzolini, Memorie - In viaggio verso Auschwitz (2014) di Danilo Monte, I ricordi del fiume (2015, più tradizionale) di Gianluca e Massimiliano De Serio, Love Is All. Piergiorgio Welby. Autoritratto (2015) di Francesco Andreotti e Livia Giunti, Filmstudio, mon amour (2015) di Toni D’Angelo, Il negozio (2016) di Pasquale Misuraca (do­ cumentario o finzione?), Sassi nello stagno (2016) di Luca Gorreri, La natura delle cose (2016) di Laura Viezzoli, Mancanza-Purgatorio (2016) di Stefano Odoardi (un ovni). (E spetta ad altri giudicare i miei critofìlm di questi anni). Troppi titoli? Me ne assumo la responsabilità ed essere generosi - se tale posso sembrare - in queste circostanze è un pregio. Non sto facen­ do storia ma cronaca: cronaca militante.

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(Le durate sono a 25 f/s arrotondate)

Flòr da Batxa (78’, 4:3, senza dialogo: qualche canto, qualche voce) è il nome di una pensione di Lisbona da cui si dipartono gran parte delle vedute, o visioni (che si estendono a Rio de Janeiro, .Marsi­ glia, Taranto: città di mare). Le qualità liquide del paesaggio, del digitale, del suono danno sostanza al carattere sognante dell’opera. Frammenti scanditi da neri accostati senza logica che si accumulano a formare un mosaico. On flàne. Immagini e suoni che vibrano, che palpitano. Una donna senza nome e senza tempo (Monica Cecchi, la compagna di Santini) avvia una serie di scene più continue. Scene consratative d’incantamento (di giorno con la donna per le stradine di Lisbona) e di spionaggio (da una finestra di notte a Marsiglia). Poi altre visioni notturne intervallate da neri a Taranto. Infine il ritorno alla pensione dell’inizio. Il cerchio magico si è chiuso: o si è aperto?

Trantas (103’, 4:3) è stato girato a Sào Paulo da un regista italia­ no che vive a Parigi. Vengono esibiti all’inizio gli strumenti digitali di lavoro, con ritorni lungo il film che vi aggiungono un aspetto metacinematogratìco. Montaggio fluido, proprio del video, con im­ magini assemblate per colori, per assonanze. Vetri, specchi, schermi che riflettono, rifrangono, distorcono. Persone e voci fuori campo dissociate. Musiche sapientemente selezionate. Una donna ci ac­

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compagna, muta, in giro per la megalopoli. Poi le interviste in presa diretta, cominciando da un uomo in metropolitana, mescolate con esterni. Poi a sorpresa una canzone, «Paula, Paula, paulistana», che non interrompe il flusso ma vi aggiunge una pausa lirica, e che per certi versi riassume il film. Trame senza trama che si intrecciano per formare, alla fine, un saggio sociologico e urbanistico quasi scien­ tifico, ma conservando la visione caotica di Sào Paulo attraverso i mezzi di trasporto, il movimento perpetuo.

Valzer (82’, 16:9) è stato g rato interamente in (e all’inizio e alla fine all’esterno di) un albergo di Torino (nh Santo Stefano), con un unico piano-sequenza che comprende anche dei flash-back (direttore della fotografia Maurizio Calvesi). Potrebbe sembrare una performance di abilità tecnica sorprendente, ma ben presto si dimentica l’inqua­ dratura unica e ci si appassiona agli attori, ai personaggi, alla storia, alla geografia dell’albergo, su e giù per i vari piani, e le diverse classi (cameriere, manager, modelle) che si intrecciano, senza che mai si senta la pressione o l’esib zione di tale tecnica. Come suggerisce il titolo, la coreografia dei movimenti raggiunge un'armonia musicale che contraddice il labirinto spaziale. (Prezioso l’extra del DVD: “Val­ zer”, l’impresa. Backstage di Vito Picchinella, 2008, 26’).

Puccini e la fanciulla (78,4:3) è ambientato e girato a Torre del Lago (Viareggio), nei luoghi di Giacomo Puccini, e racconta le vi­

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cende che portarono al suicidio della servetta Doria Manfredi, un amore del musicista, nel gennaio 1909. La ricerca documentaria e lo scrupolo filologico sono alla base di questo come dei film prece­ denti di Benvenuti, degno allievo di Rossellini c degli Straub (è stato assistente di entrambi). Il film procede per scene brevi, intervallate da dissolvenze in nero o incrociate (come si usava una volta), pra­ ticamente senza dialoghi (qualche lettera letta fuori campo) e con musica pucciniana suonata al pianoforte più spesso in campo (il pro­ tagonista, Riccardo Moretti, è musicista e compositore) che fuori campo o con canzoni popolari locali. Giovanna Daddi (la moglie Elvira) è un’attrice straubiana. Stile sobrio, severo, quasi ascetico; e antipsicologico, quasi distanziato; nessun giudizio. Immagini limpi­ de, mai ricercate; suono in presa diretta squillante (quelle porte che sbattono). Sorprendente conclusione, con un’ombra drcyeriana mes­ saggera di morte. Un umanesimo stilistico rinascimentale (la casa di produzione di Benvenuti si chiama Arsenali medicei). Un cortome­ traggio forse amatoriale su Puccini del 1915, ritrovato casualmente dal regista, denota sorprendenti somiglianze con lo stile da lui scelto.

Storia di una donna amata e di un assassino gentile (201’, 4:3) è composto da 7 parti: “li cinema prima che io nascessi”, “Nel ven­ tre nero della Storia”, “Il mio sogno americano”, “Per amore della vita”, “Muovere il tempo...”, “Se non ora quando?”, “Per quelli che verranno”. Faccini racconta la vita della sua compagna e pro­ duttrice Marina Piperno ma anche molte altre storie. Riprese fami­ gliati odierne, film amatoriali del passato, fotografie, frammenti di finzione (tratti da altri fi m del regista), repertorio, brani di film. In campo Marina si racconta e ci racconta; fuori campo, discretamen­ te, la voce di Luigi che nterroga, dialoga: in mezzo la telecamera come un cordone ombelicale. Dal piccolo (la vita quotidiana, in campagna e in città, gli animali, la cucina, i fiori, la pittura: la natu­ ra) al grande (la Storia, le storie degli ebrei, la storia del “secolo bre­

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ve”I. Riflessione, anche, sul loro cinema (“Per amore della vita"). «Ti lascio questo mio testamento: cerca il senso della vita, insieme con i figli, nella lotta. - Vendicate il nostro sangue sparso. - Muoio e vivrò» (“Se non ora quando?”). Un requiem per il futuro. E il film si conclude verso un altro film (Rudolf Jacobs, l’uomo che nacque morendo, 2011).

La bocca del lupo (68’, 4:3). Il titolo si riferisce alla finestra della cella nel gergo carcerario. Si comincia dal mare di Genova. Poi il porto, e un uomo, mentre si inframezzano brani di film di famiglia e di repertorio, e vicoli notturni allucinati. Fuori campo le voci, le lettere scambiate dal carcere dell'uomo e del suo amore. Colpi di pistola evocano il delitto. I.a città di oggi si fonde con quella del passato. Una voce fuori campo ci ricorda ogni tanto la scomparsa di un mondo che fu. Finalmente, in lunghe inquadrature fisse, ve­ diamo l’amore di Enzo: Mary, un transessuale. Ma questo non ha importanza. Conta l'amore che traspare dalla coppia e che supera le rovine del passato. Infine, di nuovo, il mare.

Le quattro volte (85’, 169) è ambientato in un piccolo borgo della Calabria. Titolo pitagorico. L’uomo ha «quattro vite successive, in­ castrate l’una dentro l'altra»: quella minerale, quella vegetale, quel­

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la animale e quella razionale. «Dobbiamo quindi conoscerci quattro volte» se vogliamo davvero capire il segreto della vita (Frammartino). Un vecchio pastore di capre, la sua vita quotidiana sui monti e in casa. Senza dialogo, senza musica. Una Passione paesana e le capre che sfuggono dal recinto e invadono il borgo (piano-sequenza di 9’45”). La morte del vecchio. Una capretta neonata. Immobilità, stupore, sospensione del tempo. Pastori più giovani si occupano ora delle capre e le portano al pascolo. Cinema di attesa, di meditazione lenta. La capretta si smarrisce sui monti. Un lungo tronco di abete viene issato nella piazzetta del borgo. Poi viene segato e portato alla carbonaia. Il lavoro degli uomini in armonia con la natura. (Molto istruttivo, negli extra del dvd, il backstage del piano-sequenza di Silvia Staderoli di 18’).

Terramatta; (75’, 16:9). «Vincenzo Rabito, dopo una vita da anal­ fabeta, ha inventato una lingua e lasciato un’autobiografia di oltre mille pagine» (didascalia iniziale). Una voce fuori campo (Roberto Nobile) legge dall’autobiografia mentre vediamo le pagine fittamen­ te dattiloscritte (ossessione del punto e virgola ripreso nel titolo) e repertorio della Prima guerra mondiale. Qualche inquadratura di traffico odierno e del paesaggio siciliano. La guerra d’Africa. La cronaca comincia a farsi Storia. Chiaromonte, il paese in provincia di Siracusa da cui viene e va Vincenzo a seconda di vicende sempre più grandi di lui. Così fino alla Seconda guerra mondiale e al dopo­ guerra. Il ricordo autobiografico si fa concreto: vediamo ora i figli di Vincenzo, adulti (Turiddu, Tano, Giovanni). Il racconto si fa sem­ pre più appassionante perché anche quello che sappiamo assume un colore nuovo dal linguaggio e dalla voce. La cronaca, la storia, la Storia finisce negli anni Sessanta: credevamo di sapere tutto ma ora ne sappiamo di più, perché abbiamo passato 75’, una vita, con un personaggio straordinario. «Una cronaca vivente». E, finalmente, la tomba ci rivela anche il volto di Vincenzo Rabito «scrittore».

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Su Re (Il Re, 76’, 16:9, in sardo con sottotitoli in italiano), tratto dai quattro Vangeli, girato interamente con la macchina a mano miman­ do la tecnica di un documentario, e senza musica (salvo un coro alla fine), comincia sul “Calvario” con ritorni indietro senza preavviso, quasi che quello della Passione fosse un tempo presente continuo. L’Ultima Cena, il Getsemani, il Bacio, il Processo, la Via Crucis, la Crocifissione sono trattati senza maiuscole. Facce anonime fortemente stagliate, minerali, contadine. Le frasi pronunciate sono involgarite rispetto a quelle originali, fluttuano nell’aria e non si sa troppo bene da chi provengano. Salvo Gesù, Giuda, Maria, non sappiamo neppure bene chi sia chi. La frantumazione del racconto fa del film una serie di tessere di un mosaico che somiglia alle riprese estemporanee di una rozza sacra processione di paese ricca di verità fìsica.

Bellas mariposas (Belle farfalle in sardo, 101’, 16:9). Colori densi, pastosi. Pedinamento continuo di due ragazzine, Cate (Sara Podda) e Luna, la prima delle quali si rivolge spesso in macchina, alla trou­ pe, agli spettatori, coinvolgendoli nelle proprie vicende in una gior­ nata di inizio agosto. Ancamento narrativo quasi documentaristico, senza “fatti” (tutte quelle precisazioni sull’ora, i luoghi, i nomi e cognomi). Registrazione di un raggio di luce (le due “farfalle”) in un universo sfasciato, quello di Cagliari e delle sue periferie. Parlato

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osceno ormai diventate abitudiniaro, eppure mai volgare. Nessun moralismo ma uno sguardo affettuoso sulle cose più nere, come fos­ se una commedia invece che un dramma (c’c un morto alla fine).

Il viaggio della signorina Vila (55', 16:9). In viaggio - accompagnati da un personaggio femminile quasi invisibile - nella Trieste multiernica, storica e odierna. Viaggio insieme poetico e didattico, libero nel proprio svolgimento c inventivo nel proprio montaggio. Parole che evocano, parole che informano, paiole che soffrono (a volte parole di Scipio Slataper da II mio Carso, 1912). La natura sembra guardare questo mon­ do drammatico e complesso dalla sua lontananza senza tempo.

Sangue (90’, 16:9) è girato col cellulare come altri video di Delbono (che viene dal teatro). Questo non significa affatto approssimazio­ ne tecnica, semmai elogio della “bassa definizione”. La desolazione dell’Aquila dopo il terremoto. Il funerale del brigatista rosso Prospe­ ro Gallinari sotto la neve. Con l’ex brigatista Giovanni Senzani in auto. La voce fuori campo del regista. La madre Margherita malata di cancro. La moglie di Senzani Anna, evocata, malata di cancro. Sofferenza. Morte. Sangue. Il dialogo con la madre morente, lui fuo­ ri campo: sull’amore, la carità, la vita oltre la vita. Una mano entra in campo a toccare le mani inerti. Il cadavere e la chiusura della

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bara. Meditazioni che i canti prolungano. La dettagliata descrizione di Senzani dell'uccisione di Roberto Peci per vendetta nei confronti del fratello Patrizio che aveva tradito le Brigate. Senzani con i figli sparge in mare le ceneri di Anna. Ancora L’Aquila. Un film a suo modo religioso: pietas per i morti innocenti o colpevoli, riuniti in un unico abbraccio, in ur unico pianto, dentro un paese in rovina.

Abacuc (84’, 4:3, b&n). Un uomo grassissimo in barca (Dario Bacis, Abacuc: l’ottavo dei dodici profeti minori). Fotografie di famiglia. È l’incipit di un allucinato 'iaggio funerario in compagnia dell’uomo. -È la fine del inondo» ripete ossessivamente una voce femminile, al­ ternata con una maschile altrettanto ossessiva che ripete in inglese. «Non c’è luogo, non c'è vita, non c’è modo di sperar». Ma le musiche e i suoni sono ironici. Ncn saprei come altrimenti descrivere questa stranissima opera girata in Super8: «Abacuc è una marionetta sen­ za spettatore, recita l’ultima pièce possibile. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in se stessa» (http://www.lab80.it/produzione/scheda/318).

N-capace (80’, scope} è un documentario messo in scena o una mes­ sa in scena documentaria. L’autrice proviene dal teatro. Vengono

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intervistati solo giovani e vecchi, fra cui il padre dell’autrice a cui lei, di mezza età, si rivolge conflittualmente. La città è Terracina, anche un poco Roma. Interviste dell’autrice fuori campo, con a vol­ te istruzioni di comportamento e posture, si alternano a messe in scena “teatrali”. Sesso, scuola, rapporti con i genitori, la morte. Non mancano momenti comici, sia per le risposte degli interrogati sia per le situazioni “artificiali”. Un film da cui emana una imprevi­ sta allegria. Complessivamente, una struttura decisamente originale per quello che non si ritsce a definire né un documentario né una finzione (come nel caso di molti altri film di questo periodo).

Terra (64’, 16:9) ha l’apparenza di un film di fantascienza catastro­ fico. La distruzione del nostro pianeta. Voci in più lingue - italiano, inglese, francese, tedesco, russo, brasiliano - che provengono da lontano rivolte non si sa a chi (Julio Bressane, Lou Castel, Franco Nero, Hélène Sevaux...): forse a quei volti che appaiono di tanto in tanto quasi fossero gli ultimi abitanti della terra (Hal Yamanouchi, Angela Carbone...). Frammenti dissociati sopravvissuti al disfaci­ mento; o forse frammenti di ricordi fluttuanti. Montaggio sapientemente creativo di immagini della più diversa provenienza, dove ciò che è stato girato e ciò che è repertorio si confondono, si fondono. Misteriosissimo e affascinante. «Sacra e inviolata sarà la terra dove è sepolto uno Starec» (crapeg, termine russo che si riferisce ai misti­ ci cristiani ortodossi dotati di particolare carisma e seguito).

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Montedoro (84’, scope). Una italo-americana di mezza era, Porziella (Pia Marie Mann, alla cui vera storia è ispirato il film), è alla ri­ cerca del passato della madre morta nel paesino della Basilicata so­ prannominato Montedoro, abbandonato 50 anni prima dopo una frana, da dove entrambe provengono. All’inizio un ritmo lento ma realistico: il viaggio in taxi della protagonista. Ma quel guidatore (Joe Capalbo), ci chiediamo retrospettivamente, non è un traghetta­ tore dal mondo della realtà al mondo del mito? Quelli che all’inizio possono sembrare sogni si amalgamano a poco a poco con le visioni del paesino che si ripopola di fantasmi, a cominciare dal cimitero fra le rocce, con cui lei si confonde. Visioni magiche in un tempo sospeso. Anche gli home movies del passato, a colori e in bianco e nero, vi appartengono. Un requiem per un passato che non ritorna e un futuro in rovina.

Per amor vostro (112’, scope, bficn e colore). Le peregrinazioni di Anna (Valeria Golino) in una Napoli caotica, tra impegni di lavoro e pesanti responsabilità famigliati, inseguita, assediata da una vide­ ocamera affannata e frantumata. Canzoni. Pause di colore pittura­ to. I) linguaggio gestuale a cui anche gli altri famigliati si adeguano per comunicare con il figlio Arturo sordomuto. Anna si dà agli altri, vive per gli altri: per amor vostro. Ma l’amore a cui anela? Un dolo­

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re lancinante attraversa tutto il film, un’angoscia che gli intermezzi a colori non vogliono attenuare. Ma un “miracolo” a colori con­ clude il film.

Ofelia non annega (91’, 16:9/4:3). Fini è una performer, e una perfor­ mance molto articolata è quella messa in scena. Il controcanto, però, sono documentari d’archivio selezionati e montati con molta origina­ lità. Questi due livelli apparentemente discordanti - uno in 16:9, uno in 4:3 (col marchio del luce!) - costruiscono a poco a poco una strut­ tura ambigua. Il suono dei documentari si intreccia con quello delle performance, le quali si prolungano nei documentari, performance a loro modo. «Ofelia non annega è un film sperimentale che reinterpre­ ta in chiave surrealista il dramma di Shakespeare dal punto di vista della giovane Ofelia. (...] Al centro di tutto c’è un’Ofelia diversa da quella tramandata dalla tradizione letteraria: non l’adolescente fragile ma tante donne diverse per colori, fattezze, età. |...] Un’Ofelia che alla fine non annega, rinunciando al suo destino di eroina romantica per diventare una “persona normale”» (Fini).

Spira mirabilis (122’, 16:9) è una spirale che si svolge seguendo un logoritmo messo a punto dal secentesco Jakob Bernoulli: ha la for­ ma di una curva che si avviluppa su se stessa senza mai raggiungere

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il polo centrale. Le immagini all’inizio incompatibili e misteriose {talvolta a schermo ridotte quali film amatoriali) delineano a poco a poco quattro storie diverse. Senza una parola di commento (una voce misteriosa in francese - Marina Vlady - legge L’immortale di Borges) ma con una densi tessitura sonora. Gli operai della Fab­ brica del Duomo milanese, il biologo giapponese che studia una medusa “immortale”, gli artigiani svizzero-tedeschi inventori di un nuovo strumento a percussione, i nativi americani della tribù Oglala in difesa della loro indipendenza a Wounded Knee nel South Dakota*, tutti concentrati meticolosamente sulla loro attività. A vol­ te le immagini “documentarie” assumono valenze astratte. Mon­ do minerale, vegetale e animale, acqua, aria, terra e fuoco, arte e scienza si danno la mano in questa incessante meditazione dialettica sull’immortalità e sulla finitudine.

Lepanto - Ùltimo cangafeiro (72’, 16:9). Mi piace molto l’intrec­ ciarsi delle varie storie (il narratore inglese “autore” del film, le olimpiadi di Rio de Janeirc, la battaglia navale di Lepanto, a Cipro, fra cristiani e ottomani del 1571, vinta dai primi, il canga^eiro ieri e oggi) e il modo in cui finiscono per fondersi. Mi piace soprattutto la presenza di tante inquadrature “fuori contesto” in un montaggio frammentato e imprevedibile che arricchisce il film di suggestioni spiazzanti. Mi piace l'uso di più formati con quelle svampate del 16mm. Mi piace il finale aperto, così come è stato aperto tutto il film, che non si è mai fatte rinchiudere dalle varie storie. È un film privato, urbanistico, politico, storico. Molte cose insieme. Un film complesso nel miglior senso della parola. Peter Wollen ha scritto molti anni fa The Two Avant-Gardes (in «Studio International», dicembre 1975; poi nel suo Readings and Writings. Semiotic Counter-Strategies, Verso, London 1982, pp. 92104): da una parte l’underground propriamente detto, dall’altra le

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opere di autori come Godard, Straub-Huillet, Hanoun o Jancsó. Il neosperimentalismo italiano si colloca sul secondo fronte, non solo per i 20 titoli da me eletti ma anche per quasi tutti quelli che li attorniano (mentre molti dei cortometraggi si collocano piuttosto sul primo fronte). Jonas Mekas, in salutare polemica con il centenario dei cinema, ha pubblicato (proprio in forma di poster) il suo Anti-100 Years of Cinema Manifesto («Point d’ironie», n. 1, Parigi 1996): «In tem­ pi di produzioni opulente, spettacolari, da 100 milioni di dollari, voglio prendere la parola in favore dei piccoli, invisibili atti dello spirito umano, così tenui, così piccoli, che quando vengono esposti ai proiettori muoiono. Voglio celebrare le forme del cinema piccole, le forme liriche, la poesia, l’acquerello, lo studio, lo schizzo, la car­ tolina, l’arabesco, il sonetto, la bagattella e le canzoncine in 8mm». Susan Sontag, anche lei in occasione del centenario, si è interrogata sulla sua morte in The Decay of Cinema («The New York Times», 25-2-1996; tr. it., col titolo Fine del mito, in «Bianco Nero», luglio-dicembre 1996, pp. 9-14, con numerose risposte italiane e straniere): «I cento anni del cinema sembrano avere la forma di un ciclo vitale: una nascita inevitabile, la costante accumulazione di glorie e l’avvio, neH’ultimo decennio, di un ignominioso, irreversi­ bile declino. Ciò non significa che non ci saranno più nuovi film da poter ammirare. Ma tali film non solo dovranno essere eccezioni - ciò vale per le grandi prove di ogni arte. Dovranno essere eroiche violazioni delle norme e delle pratiche che oggi governano la cine­ matografia in tutto il mondo capitalista o che al capitalismo aspira - il che significa ovunque».

Sono sperimentali i film di cui ho parlato? Lo sono in quanto ri­ cercano nuove strategie espressive diverse e opposte a quelle isti­ tuzionalizzate dal cinema di finzione e documentario. Lo sono per­ ché saggiano, e moki nella forma del film-saggio. Lo sono perché scoprono nuove ipotesi narrative, nuove strutture drammaturgiche, nuove opzioni di montaggio, di musica, di suono. Lo sono perché vibra in ognuno di essi la tensione verso uno stile personale, perché hanno un progetto estetico e non solo la voglia di raccontare una storia. Lo sono perché non gridano i loro budget ma sussurrano dialogicamente per chi ancora vuole ascoltare. Ringrazio Antonello Faretra, Roberto Fiorenza, Paolo Meregheni, Giacomo Ravesi, Glanmarco Torri per alcune segnalazioni.

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ESTERO

Pubblicato come voce Documentario in Enciclopedia dei cinema, Treccani, Roma 2003, pp. 350-370, ma scrino in paio di anni prima (la presente versione - che comporta minime variazioni - non tiene conto dell’ediring finale che uniforma la voce ai criteri redazionali deWLnactopedia); riproposto, in tre parti, e col titolo Breve storia dei documentario, nel blog www.adrianoapra.it/?p=760 (20 gennaio 2015), /?p-784 (27 gennaio 2015), /.»p-832 (3 febbraio 2015)

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BREVE STORIA DEL DOCUMENTARIO INTERNAZIONALE

Il dilemma vero/falso

Con documentario si intende, nell’uso comune, un film, di qualsia­ si lunghezza, girato senza esplicite finalità di finzione, e perciò, in generale, senza una sceneggiatura che pianifichi le riprese, ma anzi con disponibilità verso gli accadimenti, e senza attori. Non a caso, nei paesi anglosassoni si impiega sempre più spesso il termine non­ fiction. Alla base del documentario c’è un rapporto ontologico con la realtà filmata, che si pretende restituita sullo schermo così come si è manifestata davanti alla macchina da presa, senza mediazioni. Il film è il documento di tale realtà, la prova che le cose si sono svolte così come le vediamo proiettate. Il cinema di finzione rappresenta invece una realtà mediata, manipolata dal regista per esprimere ciò che ha immaginato. È una realtà messa in scena. Nel documentario la macchina da presa è al servizio della realtà che le sta di fronte; nel film di finzione la realtà viene rielaborata per la macchina da presa. Nel film di finzione il patto implicito dello spettatore con lo schermo è: so bene che ciò che vedo rappresentato non è vero, ben­ ché verosimile, e tuttavia ci credo; nel documentario dirà piuttosto: ciò che vedo è vero, e non solo verosimile, e per questo ci credo. L’effetto magico di illusione di realtà che il cinema di finzione nor­ malmente produce viene, per così dire, sospeso nel documentario, dove si evidenzia l’effetto probatorio. Nella pratica, le cose stanno un po’ diversamente da come possono essere definite in teoria. It's Ali True/F for Fake: è tutto vero/F come falso. Tra questi due titoli di documentari realizzati da Orson Wel­ les - il primo in Brasile nel 1942, rimasto incompiuto, e riassembla­ to e edito nel 1993 da Bill Krohn, Myron Meisel e Richard Wilson; il secondo in vari paesi europei nel 1972-73 — si può inquadrare la problematica di un genere che, nella sua evoluzione dal muto a oggi, sfugge alle definizioni assertorie. Il termine documentario viene usato come aggettivo in riferimento

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al cinema fin dalle origini: p. es. il polacco Boleslaw Matuszewski, proponendo nel 1898 un pionieristico progetto di cineteca, parla di deposito di materiali cinematografici «di interesse documenta­ rio»; il fotografo c cineasta statunitense Edward G. Curtis usa nel 1914 i termini «materia.e documentario» e «opere documentarie» per definire i propri film sui pellerossa. La critica storica tende però ad attribuire l’impiego cosciente del termine al cineasta e produtto­ re scozzese John Grierson che, recensendo Moana (1926; L’ultimo Eden) di Robert Flaherty, parla di «valore documentario» del film, per poi teorizzare il genere in vari saggi scritti nel 1932-34 su «Ci­ nema Quarterly». Essi sono stati raccolti e rielaborati assieme ad altri in un libro considerato, a torto o a ragione, un classico: Forsyth Hardy (a cura di), Grierson on Documentary, London 1946 (nuova ed.: London-Boston 1966; tr. it. a cura di Fernaldo Di Giammatteo: Grierson, Documentario e realtà, Roma 1950; una critica alla teoria e alla pratica produttiva di Grierson, e insieme una acuta riflessione sul documentario, si trova in Brian Winston, Claiming the Real. The Documentary Film Revised, London 1995). Va notato tuttavia che Grierson ritiene il valore documentario di Moana secondario rispetto al suo valore estetico, ponendo con ciò il dilemma proprio del gene­ re. La messa in scena, congenita al cinema di finzione narrativo con attori, non è, né può essere, estranea al documentario. Per quanto reale e non manipolato sia il profìlmico (ciò che la macchina da presa riprende), esso, fin dai tempi dei Lumière, non può evitare di essere inquadrato, e con ciò stesso selezionato e orientato, anche se è stato detto che l’inquadratura di un documentario è una finestra aperta sul mondo più che una cornice che lo racchiude e lo sintetizza. Inoltre, per quanto breve sia il film, come nei piani-sequenza di un minuto dei Lumière, il fatto stessoche ci sia un inizio e una fine implica inevi­ tabilmente un embrione di narrazione, un’evoluzione del profilmico marcata da un prima e da an dopo. La manipolazione spazio-tempo­ rale viene accentuata da tutte le tecniche che hanno caratterizzato lo sviluppo del linguaggio cinematografico, soprattutto dal montaggio e dalle altre operazioni di post-produzione successive alle riprese. Con l’introduzione del sonoro, che pure incrementa con la presa diretta l’impressione di realtà, non va dimenticata la mediazione del micro­ fono e del missaggio, e poi, in proiezione, quella di amplificatori e altoparlanti. La realtà, in altre parole, è sempre, nel documentario come nel film di finzione, una realtà registrata, quindi mediata, “im­ pura”. Ma l’innocenza, per così dire, con cui lo spettatore assiste alla proiezione (o, in televisione, alla trasmissione) di un documentario lo rende facilmente ingannabile, quando si vuol far passare subdola­

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mente per documento, prova inconfutabile di verità, ciò che è realtà truccata: è quanto ha sempre fatto la propaganda, con i cinegiornali e i telegiornali, e con la pubblicità. È invece piuttosto un problema di interpretazione critica che di volontà dell’autore il fatto che si sia insistito più del dovuto sul realismo dei documentari. Flaherty, con­ siderato il padre del genere, realizza film, anche assai belli, con strut­ ture narrative precise, anche se dissimili da quelle tipiche del film di finzione, e interpretati da attori, anche se non professionisti, chiamati a rivestire i panni di personaggi più che a essere se stessi. A questa irrisolvibile impasse teorica o definitoria si oppone tuttavia il buon senso, che ci fa istintivamente distinguere il film fabbricato per raccontare una storia inventata da quello che racconta una re­ altà attuale che accade sotto i nostri occhi. Forse non dovremmo dire racconta ma: descrive, riporta, registra, documenta..., o parlare come i cineasti anglosassoni di factual film, o come quelli sovietici di cinema fattografico o nor. recitato. Ma restiamo sempre nell’ambi­ to di definizioni negative (nonfiction, non recitato), che trovano il loro senso in opposizione al cinema di finzione dominante, più che di definizioni in positivo, che solleverebbero troppe contraddizioni. È peraltro vero che la distinzione, prima che essere estetica, viene operata a livello produttivo: il film di finzione nasce come trasposi­ zione cinematografica delle varie forme precedenti dello spettacolo teatrale (Méliès), il documentario come aggiunta del movimento alla fotografia (Lumière); successivamente l’industria si incarica di relegarlo ai margini dello spettacolo cinematografico istituziona­ lizzato, facendone una forma specializzata di cinema; solo con la televisione ciò che non è finzione trova nell’ecletticità del palinsesto un trattamento tendenzialmente paritetico con la finzione, anche se in forme troppo spesso degradate rispetto alla qualità raggiunta dal documentario nel cinema.

Sortie des usincs Lumière, 1895

Blacksmithing Scene (pr. Edison, 18951

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Gli anni dal muto

Il cinema nasce per documentare. È un documento scientifico negli esperimenti protocinematografìci degli anni Settanta dell’ottocento dello statunitense Eadweard Muybridge e del francese Etienne-Jules Marey, dove la moltiplicazione di scatti fotografici ravvicinati (zoopraxografia, cronofotografia) consente l’analisi del movimento, così scomposto, di animali o di esseri umani. Contemporaneamente, fra le evoluzioni e i perfezionamenti degli spettacoli della lanterna magica si distingue il praxinoscopio del francese Emile Reynaud, che si situa sul versante opposto delle “attrazioni”, utilizzando non fotografìe ma disegni in rapida successione, che danno l’illusione del movimen­ to. Quando l'evoluzione tecnologica consente negli anni successivi, con lo statunitense Thomas A. Edison e i francesi Auguste e Louis Lumière, di portare le fotografìe in successione a una cadenza tale da rendere la riproduzione del movimento verosimile e visibile a degli spettatori, prima singoli (tramite il kinetoscopio o peepshow nel caso del kinetografo di Edison) e poi in gruppo (tramite la proiezione nel caso del cinematografo dei Lumière), la dicotomia realtà-finzione è già in atto. Edison, e per lui i suoi collaboratori W.K.L. Dickson e William Heise, filma scene di “vita vissuta” ricostruite spesso in stu­ dio (più di 900 fra il 1893 e il 1900, di cui il 60% conservate); i Lu­ mière, e per loro ben presto vari operatori come Alexandre Promio e Gabriel Veyre, filmano “cartoline” in movimento, in Francia e poi in varie parti del mondo, secondo un modulo fisso con poche varianti, che è la forma più essenziale di documentazione priva di apparen­ ti intenti espressivi. Le “vedute” che compongono i loro cataloghi (più di 1400 fra il 1895 e :l 1905, quasi tutte conservate) si aprono alla realtà, al contrario di Edison e di altri pionieri, come il francese Georges Méliès e il catalano Segundo de Chomón, che portano alle estreme conseguenze la concezione del nuovo mezzo come trucco. Non manca peraltro nei cataloghi Lumière qualche “veduta fanta­ smagorica”, come non mancano “vedute all’aria aperta” in quelli di Méliès e di de Chomón. Il cinema delle origini mescola volentieri nei programmi di spettacolo vari generi, compresi quelli che vengono de­ finiti all’epoca travelogues (film di viaggio o turistici). Questa commi­ stione si evolve successivamente nella composizione dello spettacolo cinematografico, dove il feature, il “pezzo forte”, cioè il film di finzio­ ne, è preceduto da cortometraggi (a carattere documentario o, meno spesso, di finzione), cinegiornali (a cominciare dal Pathé-Joumal nel 1909, e fino ai primi anni Settanta; in Italia l’istituto luce inizia la produzione regolare di cinegiornali nel 1927, fino al 1946, quan­ do viene sostituito da “La Settimana incom”), comiche, pubblicità

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(comprese quelle dei “prossimamente"), secondo i casi c le epoche. Solo di recente si è posta l’attenzione sul vasto repertorio di film nonfiction dei primi anni del muto conservati negli archivi di tutto il mondo. Spesso datazione, titolazione, attribuzione (non tanto a registi quanto a case produttrici) sono ardue. Un primo esame di questo vasto materiale (nel primo decennio del secolo la produzione di vedute sarebbe più ampia di quella dei film di finzione) ha porta­ to a rilevare la «mancanza di evoluzione che caratterizza il cinema nonfiction di un periodo che va grosso modo dal 1903 al 1917. [„.| Si può supporre che la quasi assoluta mancanza di evoluzione che osserviamo nel cinema nonfiction sia dovuta al fatto che lo stile [pu­ ramente descrittivo] di cui questo genere disponeva fin dalle origini rimaneva perfettamente adeguato nonostante il passare del tempo. |...| Nelle vedute non c’è quell’impulso alla drammatizzazione e quel senso del ritmo che caratterizzano il cinema di finzione coevo, dove il montaggio viene piegato in modo sempre più evidente alle esigenze narrative e di intervento ideologico. [...[ Le vedute tendevano a pro­ durre la sensazione che il soggetto filmato preesistesse all’atto della ripresa (un paesaggio, una tradizione sociale, un metodo di lavoro) o che l’evento si sarebbe verificato comunque, anche in assenza della macchina da presa (un avvenimento sportivo, un funerale, un'inco­ ronazione). [...] La qualità più caratteristica delle vedute è il modo in cui esse mimano l’atto del guardare e dell’osservare. (...) Nelle vedu­ te l’aspetto decisivo [è) rappresentato dalla relazione fra il soggetto e la macchina da presa. |..] La chiave del loro enorme fascino, oggi spesso dimenticato, è nel modo in cui questi film esplorano i mecca­ nismi dello sguardo al di fuori dello spazio finzionale. [...] Le vedute inscenano davanti a noi quella pulsione a “guardare soltanto” che è così centrale per la nosra epoca moderna» (Tom Gunning, Prima del documentario: il cinema non-fiction delle origini e l’estetica della “veduta”, in -Cinegratìe» n. 8, 1995, pp. 13-19).

La croisière jaunc

Grass

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Il cinema esplora. È importante, agli inizi, il “film di viaggio”. La possibilità offerta dai nuovo mezzo di abolire le distanze, portando, riprodotti, luoghi lontani in casa nostra, viene sfruttata da subi­ to, a cominciare dai Lumière, a fini non solo documentari ma ben presto anche pubblicitari, per promuovere il turismo. Ricordiamo, per fare un solo esempio, gli Hale’s Tours (riprese viste, come dai finestrino, da finte carrozze ferroviarie in ambienti fieristici), pro­ mossi fra il 1905 e il 1912 dallo statunitense George C. Hate. A sua volta, il ricco banchiere parigino Albert Kahn promuove negli anni Dieci e Venti “Les Archives de la planète”, commissionando vedute (tuttora conservate) di varie parti del mondo per un utopico cata­ logo enciclopedico-geografico. Altri cineasti che negli anni Dieci si dedicano a documentari esotici sono l’italiano Luca Comerio (i cui materiali verranno creativamente riutilizzati da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in Dal Polo all’Equatore, 1986) e il belga Alfred Machin, specialista di film animalisti. Il cinema è un occhio ubiquo, che può correre rischi da cui lo spet­ tatore è preservato, dandogli insieme l’emozione e l’informazione di eventi lontani nello spazio, e prefigurando in qualche modo la televisione. Nascono i primi film di esplorazione vera e propria: The Great White Silence (1924) di Herbert G. Pointing, primo rimon­ taggio dei materiali da lui girati al seguito della tragica spedizione di R.F. Scott nell’Antartico nel 1910-11, utilizzati dapprima in ap­ poggio a conferenze, quindi ulteriormente rielaborati nella versione sonorizzata del 1933, 90aSouth\ South (1914-17) di Frank Hurley, su un’altra spedizione al Polo Sud, quella di E. Shakleton. Succes­ sivamente vanno citati almeno: sempre in Gran Bretagna, The Epic of Everest (1924) di Joel B.L. Noel; in usa, Grass (1925) e Chang (1927, Elefante) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper (futuri autori di King Kong, 1933), girati fra Kurdistan e Turkestan e nel nord della Thailandia; Simba, the King of Beasts (1928) di Martin e Osa Johnson, girato in Africa; in Francia, La croisière noire (1926) di Leon Poirier e, in epoca sonora, La croisière faune (1933) di An­ dré Sauvage (rimontato per esigenze commerciali da Poirier), sulle spedizioni promozionali della Citroen in Africa e in Asia; Voyage au Congo (1927), in cui Marc Allégret segue lo zio André Gide nel suo viaggio africano (nel 1952 realizzerà anche un prototipo del film biografico, Avec André Gide); in urss, oltre ad alcuni film di Dziga Vertov, Sanchaiskij dokument (1928, Documento su Shanghai) di Jakov Blioch, Turksib (1929) di Viktor Turin, sulla costruzione del­ la linea ferroviaria Turkestan-Siberia, Sol" Svanetij (1930, Sale per la Svanetia) del georgiano Michail Kalatozov, documentario visibil-

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mente messo in scena; in Germania, i film di montagna di Arnold Fanck, che si specializza nel genere, come Der heilige Berg (1926) e Die uteisse Halle uom Piz Palli (1929; La tragedia di Pizzo Paid, co-regia di Georg Wilhelm Pabst); Die letzten Segelschiffe ( 192630) di Heinrich Hauser, sugli ultimi velieri. Il genere è talmente po­ polare che ci si può permettere di parodiarlo, come nel cortometrag­ gio, involontariamente autoriflessivo, Crossing the Great Sagrada (1924) dell’inglese Adrian Brunel.

Nancxik of the Norf»

Kinoglaz

Plaherty/Vertoi'. L’evoluzione del documentario, come sottolinea Grierson nel 1932, è «da una banale (o fantasiosa) descrizione del materiale naturale a una elaborazione o rielaborazione creativa di tale materiale», ovvero, come recita il titolo di una retrospettiva del Museum of Modern Art di New York del 1939: “The Nonfiction Film: From Uninterpreted Fact to Documentary”, ovvero ancora, come dice Gunning, dalIa concezione del film come puro sguardo a quella del film come discorso, affidato al montaggio e alle didascalie (e, col sonoro, alla voce fuori campo). Tale evoluzione viene tradi­ zionalmente identificata in due lungometraggi, Nanook of the Nor­ th (1920-22; Nanouk) di Flaherty e Kinoglaz (1924, Cineocchio) di Vertov. L.a pretesa di entrambi di «cogliere la vita di sorpresa» (come recita il sottotitolo del film di Vertov) è corretta da Flaher­ ty dal desiderio di narrativizzare, e a volte di mettere in scena, gli eventi rappresentati, e ca Vertov da quello di piegarli, attraverso un elaborato lavoro di montaggio e con didascalie non descrittive, a un discorso fortemente ideologico. Curiosamente, mentre non si è rimproverato a Flaherty di tradire la purezza dello sguardo og­ gettivo sul reale, questa accusa è stata fatta spesso a Vertov dai suoi contemporanei Oggi, superati gli equivoci, è per noi più facile allontanarci dal fantasma dell’oggettività e rinvenire nelle manipo­ lazioni del reale un elemento fondamentale del loro modo di fare ci-

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nenia documentario. Flaherty, che viene dall’esperienza immediata sul campo come esploratcre, passa con Nanook of the North dalla veduta come descrizione alla veduta come narrazione, senza com­ prometterne il carattere referenziale (non va dimenticato del resto che l’opera nasce sia come film di esplorazione - i viaggi di Flaherty nel 1910-16 al seguito di Sir W. Mackenzie fra gli Eskimo, da cui aveva tratto una prima versione del film poi andata distrutta in un incendio accidentale - sia come film promozionale, finanziato dalla compagnia di pellicce Revillon Frères); Vertov, che ha fatto da “me­ diatore” in sala di montaggio rielaborando materiali preesistenti per vari cinegiornali, si oppone con Kinoglaz, forre dell’ideologia rivoluzionaria, alla veduta come descrizione, che presuppone un oc­ chio che mima quello umano, per insistere sul carattere cinemato­ grafico, meccanico e tecnico, di tale occhio, “cineocchio” appunto.

M:nschcn am Sonntag

Il documentario urbano. I' documentario non si limita ormai a ve­ dere, o a vedere “di più”. Tende a intervenire, a partecipare a ciò che fa vedere. La realtà rappresentata viene riscoperta non più come lontana e misteriosa ma, guardata con altri occhi, come presente a fianco della nostra esperienza quotidiana. Ecco, per esempio, tut­ to il sottogenere di film sulla città, spesso stilisticamente vicini alle coeve avanguardie: in usa. il pionieristico Manhatta (1921, cm) di Charles Sheeler e Paul Strand (più noto come fotografo); in Francia, Rien que les heures (1926; di Alberto Cavalcanti, La Zone (1927, cm) di Georges Lacombe, Etudes sur Paris (1928) di Sauvage, A propos de Nice (1929, cm) di Jean Vigo; in Germania, Berliner Stillehen (1926, cm) e Impressionen vom alten Marseiller Hafen (1929, cm) di l.aszló Moholy-Nagy, Berlin, die Sinfonie der Grofìstadt (1927) di Walther Ruttmann, Menschen am Sonntag (1929-30) di Robert Siodmak e Edgar G. Ulmer; in urss, Moskva (1927, Mosca) di Michail Kaufman (fratello di Vertov) e Il’ja Kopalin, Gelovek s

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kinoapparatom (1928, L’uomo con la macchina da presa) di Vertov; in Italia, Stramilano (1929, cm) di Corrado D’Errico; in Portogal­ lo, Douro faina fluvial (1929-31, cm) di Manoel de Oliveira; sino a film lirico-poetici come De Brug (1928, cm, Il ponte) e Regen (1929, cm, Pioggia) di Joris Ivens, Vesnoj (1929, Primavera) di Kau­ fman o Images d’Ostende (1929-30, cm) di Henri Storck. Un modo per avvicinare col cinema realtà culturalmente lontane è quello del francese Jean Epstein nela sua trilogia bretone: Binis Terrae (192829), Mor-Vran/La Mer des Corbeaux (1929-31, cm sonorizzato), L’or des mers (1931-33, sonorizzato). Una rilettura critica del già vasto materiale cinegiornalistico è in­ trapresa dalla sovietica Esfìr Sub con Padenie dinastii Romanovyc (1927, La caduta della dinastia dei Romanov), Velikij put’ (1927, La grande via), il perduto Rossija Nikolaija n i Lev Tolstoj (1928, La Russia di Nicola n e di Lev Tolstoj) e Segodnja (1930, Oggi); con lei nasce il fondamentale sottogenere documentaristico del compilation film (o film d’archives o film di montaggio). La critica della realtà diventa anche impegno politico e sociale con i film di Vertov (Sestaja cast’ mira, 1926; La sesta parte del mondo) e di Ivens (Zuiderzee, 1930, mediometraggio sulla costruzione della grandiosa diga sul mare, e, basato in buona parte sullo stesso ma­ teriale e con voce fuori campo dell’autore, Nieutve gronden, 1934, mm, Nuove terre).

Gli anni Trenta • la questione del sonoro L’avvento del sonoro alla fine degli anni Venti mette in crisi tanto il cinema di finzione quanto quello documentario, ma in maniera diversa. Le pesanti attrezzature necessarie per la presa direna del suono, che restano in vigore sino alla fine degli anni Cinquanta, costringono il cinema di finzione a rinchiudersi negli studios, dove esse possono più facilmente essere gestite. Girare in ambienti dal vero diventa un’opzione complicata e onerosa. Ciò vale anche per il

documentario, che oltreturto ha di solito budget molto più ridotti. Ha però il vantaggio di non dover dipendere da dialoghi, come il cinema di finzione: è per ora un genere più parlato che parlante. L’impasse viene risolta infatti utilizzando lo studio per registrare il commento musicale e la voce fuori campo (che sostituisce le dida­ scalie), nonché i rumori d’ambiente attinti a una fonoteca, anche se i più scrupolosi li registrano sul posto, ma separatamente dalle riprese. Tanto più sorprendenti sono perciò alcuni coraggiosi ed ec­ cezionali tentativi di presa diretta sincrona con l'immagine. Fonda­

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mentale è Entuziazm (1930, Entusiasmo; noto anche come Simfonija Donbassa, Sinfonia del bacino del Don), in cui Vertov teorizza il “radio-occhio” e mette in pratica, davvero con entusiasmo, il nuovo strumento. Egli utilizza sincronismo e contrappunto in un gioco di voci, rumori, musica che compongono, con un montaggio incredi­ bilmente articolato (in un momento in cui il missaggio dei suoni è ancora impossibile), la prima grande sinfonia astratto-concreta del cinema sonoro. Il film resta un esempio senza successori. Pochi altri film, a nostra conoscenza, si avventurano nei primi anni del sonoro sul terreno impervio della presa diretta, e comunque sporadicamen­ te, quando utilizzano interviste, come in La croisière faune, Campo de’ Fiori (1933, cm, pr. LUCE), Housing Problems (1935, cm) degli inglesi Edgar Anstey e Arthur Elton, nonché nei cinegiornali e nei documentari di propaganda quando a parlare è un’autorità. Il suono e la voce. Il metodo corrente nel documentario è quello del suono doppiato. Agli inizi, ci si limita ad aggiungere la musica a film girati con le tecniche del muto. L’introduzione della voce di commento, praticamente sempre maschile, pone il serio problema dell’imposizione di un senso alle immagini, molto più marcato che con le didascalie. Si rischia non solo la radio illustrata ma anche, dato l’anonimato della voce onnisciente, non a caso denominata nei paesi anglosassoni “voce di Dio”, una sovradeterminazione au­ toritaria del messaggio. È una pratica particolarmente consona al cinegiornalismo di regime (come quello del luce, voce di Guido Notati), nonché alla televisione. Un caso particolare è “The March of Time”, il cinegiornale che dal 1935 al 1951 si affianca al settima­ nale “Time”, che trasforma i metodi correnti drammatizzando gli avvenimenti e a volte ricreandoli con attori. Alcuni autori, per evitare Fanonimato della voce, utilizzano la pro­ pria: è il caso di Nieuwe gronden, di The Land (1939-42, mm mai distribuito) di Flaherty, di The Battle of San Pietro (1944, mm) di John Huston; in altri film viene impiegata una voce nota, come in Spanish Earth (1937, mm, commento e voce di Ernest Hemingway e, in una prima edizione, d Welles) e The 400 Millions (1938, mm, Fredric March), entrambi di Ivens; di Native Land (1942) di Leo T. Hurwitz e Strand, voce dell’attore nero Paul Robeson; dei do­ cumentari dell’inglese Humphrey Jennings, London Can Take It! (1940, cm, voce del noto radiocronista statunitense Quentin Rey­ nolds), Words for Battle (1941, cm, Laurence Olivier), The True Story of Lili Marlene (1944, mm, Marius Goring), A Diary for Ti­ mothy (1944-45, mm, Michael Redgrave); di Let There Be Light (1945-46, mm) di Huston, voce del padre Walter, sui soldati affetti

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da disturbi psicotici, e per questo proibito fino al 1980. A volte si tenta un uso creativo di musica e rumori, senza voce fuori campo: in chiave ritmica, come in Philips Radio (1931-32, mm) di Ivens, o di immedesimazione realistica, come in North Sea (1938, min) di Harry Watt; altre volte la voce acquista toni letterari e po­ etici intrecciandosi con gli altri clementi sonori, come negli inglesi Coal Face (1935, cm) di Cavalcanti, Night Mail (1936, cm) di Watt e Basil Wright (con versi di W.H. Auden e musica di Benjamin Brit­ ten), Listen to Britain (1942, cm) di Jennings (un regista sempre attento alla forma sonora); invece in Terre sans pain/Las Hurdes (1932, cm) di Luis Bunuel voce e musica sembrano convenzionali, ma in realtà risultano deviate dal loro senso apparente nel contrasto con le atroci immagini di una regione miserrima dell’Extremadura, contrappuntate in maniera surreale dal commento clinico di Pierre Unik e dalla musica di Brahms.

Uomini sul fondo

Man of Aran

Il documentario di finzione. In questi anni si realizzano film in cui narrazione e personaggi sopravanzano gli intenti puramente docu­ mentaristici, anche se la narrazione riattiva accadimenti reali e acco­ glie le accidentalità delle riprese, e i personaggi sono esseri viventi in un mondo reale incarnati da non professionisti. Ricordiamo, ancora in periodo muto, i citati film di Flaherty, Menschen am Sonntag, Um’s tdgliche Brot ( 1929, noto anche col titolo della versione inglese, Hun­ ger in Waldenburg] di Piel Jutzi, Chang, L'or des mers-, quindi iQué fifa México! (1931-32, incompiuto) di Sergej M. EjzenJtejn, Redes (1934-35) di Strand e Fred Zinnemann, Muh of Aran (1934, L'uomo di Aran) di Flaherty, girato nell’isola a ovest dell’Irlanda, The Edge of the World (1937), girato da ^Michael Powell nelle isole Shetland (rifilmate nel 1978 per il prologo e l’epilogo di Return to the Edge of the World), Man och kuinna/En handfull ris ( 1938, Uomo e donna/ Una manciata di riso), girato in Thailandia dall’ungherese Paul Fejos

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e dallo svedese Gunnar Skoglund, Native Land, Fires Were Started (1943) di Jennings, sull’opera dei vigili del fuoco durante un blitz londinese; sino ai primi assaggi del neorealismo italiano, che questi film stranieri prefigurano, come Uomini sul fondo ( 1941 ) e Alfa Tau! (1942) di Francesco De Robcrtis e La nave bianca ( 1941 ) di Roberto Rossellini (e De Robertis). Come ha detto Jean-Luc Godard, «tutti i grandi film di finzione tendono al documentario, così come tutti i grandi documentari tendono alla finzione» (L’Afrique vous parie de la fin et des moyens, «Cahiers du Cinéma», n. 94, aprile 1959, p. 21 ).

Ceux de chcz nous

A Diary for Timothy

Il film-saggio. Un’altra forma di documentario “impuro”, che si im­ porrà molto più tardi ma di cui possiamo intravedere le tracce nel muto e in questi anni, è il film-saggio. Esso viene definito, forse per la prima volta, da Hans Richter, a proposito del suo film Die Borse als Markt (1939, cm): «Il compito di questo tipo di documentari è quello di rappresentare un concetto. Anche ciò che è invisibile deve essere reso visibile. (...] Per riuscire a dare corpo al mondo invisibile dell'immaginazione, dei pensieri e delle idee, il film-saggio può servirsi di una riserva di mezzi espressivi incomparabilmente maggiore di quella del semplice film documentario» (Der Filmes­ say, «Narional-Zeitung», Basilea, 25 aprile 1940, cit. in Jay Leyda, Films Beget Films. A Study of the Compilation Film, New York 1964, pp. 30-31, libro fondamentale anche per la storia del “film di montaggio”). Possiamo interpretare oggi come precorritori di questa tendenza film così diversi, ma anche così tesi ad articolare idee astratte in immagini concrete, come, nel muto, Ceux de chez nous (1914, mm), uno straordinario film di Sacha Guitry su artisti suoi contemporanei utilizzato per delle conferenze, che trova forma sonora nel 1952 in un’edizione per la televisione; Hdxan (1922, La strega o La stregoneria attraverso i secoli) del danese Benjamin Christensen; i film di Vertov e della Sub; film sul cinema come Autour

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de “1/Argent” (1928-29, mm) di Jean Dréville, sulle riprese del film di Marcel L'Herbier, e Paris Cinema (Les coulisses du cinema) ( 1929, cm) di Pierre Chenal; Prauennot-Prauetigliick (1929-30), un film svizzero pro-aborto cui collaborano con varie funzioni Ejzenstejn, Eduard Tissé, Grigori) Aleksandrov e Emil Berna; e, negli anni che ci interessano, Las Hurdes, La ide est à nous 119361 di un collettivo coordinate? da Jean Renoir, che e molto più di un film militante sul Fronte Popolare; Native land, che lavora analogamente sulle viola­ zioni dei diritti civili; A Diary for Timothy, un augurio poetico-saggistico per i tìgli del dopoguerra.

Trade Tattoo

Guernica

Il cinema educa. La tendenza non va confusa con quella, assai meno ambiziosa, del cinema didattico, scientifico o sull’arte, spes­ so all’interno di istituzioni come il luce. Rispetto a tanti prodotti anonimi (o casomai semplicemente poco visti, e meritevoli forse di rivalutazione), vanno ricordati i cortometraggi scientifici (o pseudoscientifici, ma esteticamente interessanti) del francese Jean Painleve e dell’italiano Roberto Omegna, c nel campo dell’arte quelli di Lu­ ciano Emmer, che “narrativizza” una serie di quadri, e prosegue la sua attività nel dopoguerra, influenzando autori come Alain Resnais (Van Gogh, 1948, cm; Guernica, 1951, cm). Chi si pone il problema educativo in maniera strategica è Grierson che, dopo un’ottima esperienza registica nel muto (Drifters, 1929, mm), promuove e dirige come producer settori cinematografici di enti pubblici, come l’Emp re Marketing Board, dal 1929 al 1934, e il General Post Office, dal 1934 al 1937. Per Grierson il documen­ tario deve essere al servizio della propaganda, o se si vuole dell’in­ formazione, senza cadere nelle trappole dell’estetica: donde conflit­ ti con molti collaboratori, che spesso si discostano da tali diktat realizzando film che oggi sono ricordati come i più riusciti della ’’scuola inglese” (fra i quali, oltre quelli già citati, vanno ricordati

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The Song of Ceylon, 1934, di Basil Wright e i cartoons avanguardistico-pubblicitari dell’australiano Len Lye, come Trade Tattoo, 1936, cm a colori). Altra forma di didattismo è quello che deriva da un impegno sociale e politico. Negli usa, gruppi vicini, in questi anni di depressione, alla Works Progress Administration del presidente F.D. Roosevelt utilizzano il documentario con intenti progressisti di propaganda democratica, e a volte decisamente di sinistra. La Film and Photo League unisce, fra il 1930 e il 1934, cineasti come Ralph Steiner, Strand, Hurwitz, Herbert Kline, Willard Van Dyke, per trasformarsi dal 1935 nella Frontier Films, cui partecipano Strand, Hurwitz, Van Dyke e Irving Lerner, Sydney Meyers, Jay Leyda ed Elia Kazan. In questo ambiente politicamente impegnato ruotano anche cineasti noti come Ivens, con Power and the Land (1939-40, mm), sull’elet­ trificazione delle campagne, e Flaherty, con The Land. Più diretta­ mente legati alla politica governativa, e anche stilisticamente meno innovatori, ma più famosi, sono i documentari di Pare Lorentz, The Plow That Broke the Plates ( 1936, cm} e The River ( 1937, cm). Al decennio che vede definirsi la contrapposizione tra democrazie e regimi autoritari appartengono altre esperienze progressiste e mili­ tanti come quelle della Filnliga olandese, attiva fra il 1927 e il 1933 nella diffusione di opere c’avanguardia e politicamente impegnate e nella promozione di film; il Club de l’Ecran di Bruxelles, per cui Storck e Ivens realizzano Misere an Borinage (1933, mm muto); quelle francesi del Groupe Octobre e di Ciné-Liberté; quelle inglesi della Workers’ Film Association.

Olympia

Triumph des Wiliens

Il cinema fa propaganda. Nei regimi dittatoriali il documentario si piega in maniera più diretta e univoca alle esigenze propagandisti­ che. In URSS, le esperienze avanguardistiche del muto e dei primi anni del sonoro vengono criticate in campo documentaristico forse

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più che nel cinema di finzione. Si lascia mano abbastanza libera al globetrotter Ivens per Pesn’ o gerojach/Komsornol (1932, mm, Il canto dei fiumi); ma Vertov ha enormi difficoltà, di cui risente Tri pesni o Lenìne (1934, Tie canti su Lenin), fino a essere ridotto a opere impersonali o al silenzio, destino che lo accomuna alla Sub. Fra i nuovi nomi si distingue Roman Karmen, che gira materia­ li durante la guerra di Spagna, poi montati dalla Sub (Ispanija, 1939, Spagna), e in Cina (V Kitaje, 1941, In Cina). La Cina, come la Spagna (Heart of Spain, 1937, cm di Hurwitz e Strand; Spanish Earth), attira cineasti stranieri, fra cui Leyda, Lerner, Meyers e Ben Maddow (China Strikes Back, 1937, mm) e Ivens (The 400 Millions). In Giappone, Tatakau heitai (1939, Soldati al fronte) di Fumio Kamei viene proibito e distrutto dalle autorità. In Germania si manifesta lo straordinario talento di Leni Riefen­ stahl con Triumph des Willens (1935) e Olympia (1938), in due parti: Fest der Vòlker (Olimpia) e Fest der Schónheit (Apoteosi di Olimpia). Nel dopoguerra la regista ha puntigliosamente e inutil­ mente respinto le accuse di connivenza col regime, rivendicando la propria indipendenza artistica; la sua resta tuttavia un'estetica del «fascino fascista» (Susan Sontag), anche se di grande, e mo­ derna, elaborazione tecnica e formale. Altrettanto ricercato, ai li­ miti dell’avanguardismo, e perciò poco gradito al regime, è Das Stahltier (1935) di Willie Zielke (autore del prologo di Olympia), sulla storia delle ferrovie. Ignobile per il modo in cui orienta la propria tesi antisemita ccn montaggio, commento e ricostruzioni è Der ewige Jude (1940) di Fritz Hippier. Un altro veicolo della pro­ paganda nazista, oltre a) cinegiornale "Deutsche Wochenschau”, sono i “Kulturfilme" (film educativi), riassemblati criticamente anni dopo in Deutschlandbilder (1983) di Hartmut Bitomsky e Heiner Miihlenbrock. In Italia l’approccio propagandistico del documentario è in gene­ re più morbido, e meno efficace. Fra gli esempi migliori, Dall’ac­ quitrino alle giornate di Littoria (1934, cm, pr. luce>, Il cammi­ no degli eroi (1936), sulla guerra d’Africa, e Milizie della civiltà (1941, cm), sulla costruzione dell’E42 (l’odierno quartiere Eur di Roma), di D’Errico, La battaglia dello Jonio (1940, cm prodotto dal Centro Cinematografico della Marina promosso da De Rober­ tis) e Mine in vista (1940, cm) di De Robertis. Estranei al clima di propaganda sono molti cortometraggi prodotti dalla Cines, dal luce e dalla incom, come II ventre della città (1933) di Francesco di Cocco, Fantasia sottomarina (1940) di Rossellini, Cornacchia (1942) di Fernando Cerchio, Venezia minore (1942) di Francesco

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Pasinetti, Pronto!?! Chi parla? (1942), sul servizio telefonico, e La storia di ogni giorno (1942), su quello tramviario a Milano, di Mario Damicelli, Gente del Po (1943, edito nel 1947) di Miche­ langelo Antonioni.

Let There Be i.ight

The Battle of Midway

Il documentario di guerra

La guerra offre al documentario un terreno propizio. Vi si combinano urgenza dell’informazione, spettacolarità degli eventi e sfida estetica del colto sul vivo. Dopo le prove generali della guerra d’Africa e della guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale vede l’impiego strategi­ co e altamente organizzato di cineasti al fronte (molto più di quanto era potuto avvenire nella Prima), soprattutto in usa e in urss. In usa vengono richiamati importanti cineasti hollywoodiani per realizzare, da militari, una serie di film di propaganda destinati sia alle truppe sia, in alcuni casi, ai civili. Frank Capra supervisiona per il Signal Service Photographic Detachment dell’esercito la serie di medio e lungometraggi Why We Fight (1942-45), Know Your Al­ ly-Britain (1943, mm), Know Your Enemy-Germany (1942, mm) e Know Your Enemy-Japan (1945), entrambi ritirati, e altri, come The Negro Soldier (1944, rim) di Stuart Heisler. Sono per un verso esemplari film di montaggio che utilizzano, manipolandoli abilmen­ te, materiali girati al fronte da operatori statunitensi o alleati, o sequestrati al nemico (è il caso di The Nazis Strike, 1942), o anche inquadrature di film di finzione; per l’altro, essi hanno un intento didattico-propagandistico, come le circostanze impongono. Fra gli altri registi hollywoodiani coinvolti nel programma bellico ricordia­ mo Huston, William Wyler (The Memphis Belle) e John Ford (so­ prattutto con lo splendido, ì assai fordiano, The Battle of Midway, 1944, a colori, che vince un Oscar). L’urss paga un alto tributo al cinegiomalismo di guerra: più di cen-

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to cineoperatori muoiono al fronte (un eccezionale documento è il cortometraggio Frontovoj kinooperator, 1946, Un cineoperatore al fronte, di Marija Slavinskaja, che include riprese della morte in azione di Vladimir Susinskij). Oltre a documentaristi come Karmen (Leningrad v borbe, 1942, Leningrado in guerra) e Leonid Varla­ mov (Razgrom Nemeckich vojsk pod Moskvoj, 1942, La disfatta dell’esercito tedesco presso Mosca, e Stalingrad, 1943) vengono coinvolti anche in urss registi di film di finzione, a volte per film di montaggio, come Aleksandr Dovienko (che supervisiona Bitva za nasu Soueckuju Ukrainu, 1943, di Julija Solnceva e Ju. Avde­ enko, La battaglia per k nostra Ucraina Sovietica), Sergej Jutkevió (Osvobozdjennaja Pranzija, 1944, La Francia liberata), Julij Rajzman (Berlin, 1945). Quasi tutti questi film conservano ancor oggi un epos non intaccato dagli intenti propagandistici, secondo la migliore tradizione sovietica. In Germania la propaganda è pesante e sfacciatamente menzognera (Feuertaufe, 1940, di Hans Bertram; Feldzug in Polen, 1940, e Sieg im Westen, 1941, di Hippier, tutti con largo uso di repertorio). In Italia si segnala l’attività del capitano di corvetta De Robertis, che promuove il Centro Cinematografico del Ministero della Marina, re­ alizzando o producendo, in accordo col luce, una serie di film, già citati, di notevole interesse c quasi sempre privi di retorica, anche se di impianto militaristico. Più domestica, rivolta al fronte interno, è la produzione inglese, che oggi risulta particolarmente preziosa come testimonianza di demo­ crazia vissuta quotidianamente anche in situazioni-limite: così negli straordinari documentari di Jennings, ma anche in opere più legate alla guerra combattuta, come il “documentario di finzione” Target for To-night (1941, mm) di Watt o film di montaggio come Desert Victory ( 1943, premiato con l’Oscar) di Roy Boulting o The True Glory (1945, premiato con l’Oscar) di Garson Kanin e Carol Reed.

Il dopoguerra e gli anni Cinquanta

Vincitori e vinti, dopo la guerra, si ritrovano uniti per criticare e condannare un’esperienza che ha coinvolto combattenti e civili, aprendo gli occhi su una realtà nuova fatta di atrocità, senso di colpa, miseria. L’innocenza dello sguardo, anche quando poteva diventare in buona fede propaganda, è andata persa; un nuovo sguardo, e un nuovo realismo, accompagna gli anni della difficile ricostruzione. Nell’Italia sconfitta si parla, con definizione france­ se, di neorealismo.

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Nuit et brom I la rd

Il cinema nei Lager. Emblema di questo mutamento epocale è la scoperta dei campi di concentramento nazisti. Il cinema è in prima linea per testimoniare, con oggettività surreale, ciò che le truppe di liberazione scoprono al loro arrivo. Forse per la prima volta, le immagini cinematografiche vengono assunte come prove in un processo, quello di Norimberga. Compilate organicamente in al­ cuni film (Sud naradov, 1946, di Karmen, Il giudizio delle nazioni; Ntirnherg, 1948, di Stuart Schulberg) o lasciate allo stato di “gior­ nalieri” (come quelle girate a colori da George Stevens, D-Day to Berlin, min, montate nel 1994 dal figlio George Stevens Jr., o quelle di Lord Sidney Bernstein coadiuvato da Alfred Hitchcock, Memory of the Camps, 1945, mm, ir a rimasto inedito fino al 1985), queste immagini risultano troppo atroci e deprimenti per le autorità, che le ritirano dalla circolazione o le secretano. Lo stesso avviene con le immagini del disastro atomico (girate da un'équipe coordinata da Akira Iwasaki ed edite solo nel 1970 in un cortometraggio compi­ lato da Erik Barnouw, Hiroshima-Nagasaki: August, 1945). Dopo alcuni anni, le immagini de campi tornano a circolare, con Nuit et brouillard ( 1955, mm; Notte e nebbia) di Resnais, The Museum and the Fury (1956, mm) di Hurwitz, e via via sempre più numerosi film in vari paesi (fra cui ricordiamo almeno il polacco Requiem dia 500.000 tysficy, 1963, mm, Requiem per 500.000, di Jerzy fìossak e Waclaw Kazimierczack, suda rivolta del ghetto di Varsavia). Una nuova generazione vede con i propri occhi ciò che molti sapevano ma non dicevano. La crudeltà di questa realtà, di questo cinema, segna anche l’ingresso senza più innocenza nella modernità. Il vasto materiale archiviato dai militari alleati, quello, pubblico e “privato”, confiscato ai tedeschi, sommato a quello dei cinegior­ nali, viene utilizzato in vati filili di montaggio, che ricostruiscono criticamente la parabola nazista. In Germania Est i coniugi An-

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drew e Annelie Thorndike realizzano attingendo, spesso per la pri­ ma volta, a tali archivi Eu und mancher Kamerad (1955), Uriaub auf Sylt (1957), Unternehmen Teutonenscbwert (1958), in cui si servono del cinema anche per denunciare crimini di guerra; Erwin Leiser compila dalla Svezia Den biodiga tiden/Mein Kampf (195960; Il dittatore folle); nel 1961, a Gerusalemme, Hurwitz riprende in video 2 pollici, un mezzo appena entrato nel mercato, le sedute del processo ad Alfred Eichmann, materiale che verrà utilizzato anni dopo per compilare Un spécialiste (1999; Uno specialista) di Elyan Sivan.

AH’armi Siam fascisti!

Per non dimenticare. Gl: archivi servono anche per riscoprire al­ tri periodi della storia: Paris mille neuf cent (1946-48) di Nicole Védrès, Cavalcata di mezzo secolo (1952) di Emmer, Das Lied der Strame (1954) di Ivens e Vladimir Pozner, sul movimento sindacale mondiale, Nesabyvajemyje gody (1957, Gli anni indimenticabili) di Kopalin, fino a All'armi siam fascisti! (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè, Mourir à Madrid (1962; Morire a Madrid) di Frédéric Rossif, 14-18 (1962) di Jean Aurei, e molti altri. La riflessione sulla guerra è affrontata anche per trarre dal­ le immagini della distruzione la forza per ricostruire, senza per questo perdonare: in Francia Le 6 juin à Paube (1945) di Jean Grémillon e Le retour (1945-46, mm) di Henri Cartier-Bresson, sul ritorno dai campi; in Italia Giorni di gloria (1945), con contri­ buti di Giuseppe De Santis, Marcello Paglieto e Luchino Visconti, coordinati da De Santis e Mario Serandrei; in Giappone Nihon no higeki (1946, La tragedia del Giappone) di Kamei, proibito dagli occupanti americani; in Australia Indonesia Calling (1946, cm) di Ivens; in USA Strange Victory (1948) di Hurwitz, che è già un film-saggio sul riemergente razzismo interno.

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ìbutc la memuire du monde

Louisiana Story

Documentario fornitile. Allontanandosi dalla guerra, il documentario ritrova l’ambizione, quasi d monticata, di un realismo controllato dal­ la forma, dove montaggio, musica e voce fuori campo si intrecciano in composizioni altamente stilizzate. Ricordiamo i cortometraggi di Luigi Comencini (Bambini in città, 1946}, Dino Risi {Barboni, 1946), Antonioni (N.L'., 1948; L’amorosa menzogna, 1949), Valerio Zurlini (Racconto del quartiere, 19.53; Soldati in città, 1953), Carl Th. Dreyer (Kampen mod kneften, 1947, Lotta contro il cancro; De naade feergen, 1948, Presero il traghetto), Georges Franju (Le sang des hétes, 1949; Hotel des Invalides, 19511, Resnais (Tonte la mérnotre dn monde, 1956; Le chant dn styrène, 1958), Jacques Rozier (Bine Jeans, 1958), Agnes V'arda (Dn còte de la còte, 1959), Arne Sucksdorff (Mdnniskor i stad, 1947, Gente di città), Colin Low e Wolf Koenig (City of Cold, 1957), Bert Haanstra (Glas, 1959, Vetro), Kazimierz Karabasz (Muzykanci, 1960, I musicisti). In queste opere, particolarmente in quelle dei france­ si (molti dei quali costituirono il Groupe des Trento), la forma del corto­ metraggio raggiunge il suo apogeo, prima dell’arrivo della presa diretta, con contributi altamente qualificati per la musica e il commento. Fra i lungometraggi più famosi, / onistana Story (1948) di Flaherty e Det stora di'entyret (1953, La grande avventura) di Sucksdorff si distinguo­ no per l’intenso, lirico c quasi nostalgico senso della natura.

Moi, un noir

India Marni Bhumi

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Ritorno alla realtà. Non è però in questo tipo di opere che pos­ siamo cogliere preavvisi dell’imminente trasformazione del docu­ mentario. Al festival di Cannes del 1946, non sono solo i film italiani a colpire, ma anche Farrebique di Georges Rouquier, do­ cumentario narrativizzato, in presa diretta, che segue per un’in­ tera stagione una famiglia contadina nel villaggio omonimo della Francia centro-meridionale. È una realtà che il regista conosce bene: la fattoria dove si svolge il film è quella della famiglia pa­ terna. Le vicende vengono ricostruite con le stesse persone che le hanno vissute. La verità viene colta attraverso una finzione quasi inavvertibile. Parente prossimo di questo film è Symphonic paysannelBoerensymfonie •1942-44), lungometraggio belga-fiam­ mingo di Storck, che ha però il limite di un’estetica raffinata ma tradizionale e di un commento ridondante. In Rouquier emerge invece il sapore del vissuto, di una realtà colta sul farsi nonostante la ricostruzione. Nel 19(3 Rouquier riuscirà a tornare negli stessi posti e a verificare le trasformazioni del tempo nello splendido Biquefarre. La realtà preme nuovamente per essere “colta di sorpresa”, dopo essere stata splendidamente “inquadrata”. Forse l’esperienza del­ la guerra ha insegnato qualcosa. Vittorio De Seta gira in Sicilia, a colori, sette cortometraggi, senza musica né commento, ma con suoni registrati sul posto, su un mondo destinato di lì a poco a scomparire (come verificherà con l’inchiesta televisiva La Sicilia rivisitata, 1981). In Lu tempii di li pisci spata (1954), Surfarara (1955), Pescherecci (1958) e altri, la realtà irrompe con una presenza inedita sugli schermi italiani; da una prospettiva simile, Ermanno Olmi filma la realtà emergente del mondo industriale in Tre fili fino a Milano (1959, cm) e Un metro lungo cinque (1961, cm), fra gli altri. Il francese Jean Rouch, ammiratore di De Seta, realizza in Africa documentari etnografici in 16mm, che soppe­ riscono alla mancanza della presa diretta del suono con musica e commento, detto però dalla voce dell’autore, e sempre più con una lingua che non ne cancella la cultura letteraria e poetica: p. es. in Les maìtres fous (1955, cm), mentre in Moi, un noir (1959) accompagna col commento il protagonista, che a sua volta si dop­ pia fuori sincrono, dando al film il sapore di un’opera che riflette su se stessa. In usa, James Agee, Janice Loeb e Helen Levitt girano con una cinepresa 16mm nascosta, muto, In the Street (194852, cm), definito giustamente «la quintessenza del documentario» (Ken Kelman). Agee come sceneggiatore e Meyers come regista realizzano in 16mm The Quiet One (1948), un film di finzione

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su un bambino nero di Harlem, così dissimile per il suo realismo da quelli hollywoodiani da sembrare un documentario. Analoghi sono i film di Morris Engel, come The Little Fugitive (1953; Il pic­ colo fuggitivo) e, girato in 35mm con suono sincrono, Weddings and Babies (1958). Fanno sensazione la crudezza con cui Lio­ nel Rogosin filma gli alccolizzati newyorkesi in On the Bowery (1956, mm) e la satira di Joseph Strick, Maddow e Meyers in The Savage Eye (1959). In Gran Bretagna, sotto l’etichetta “Free Cinema”, si riallacciano alla tradizione recente ex critici come Lindsay Anderson (Every Day Except Christmas., 1957, mm su un mercato generale) e Karel Reisz ( We Are the Lambeth Boys, 1959, mm sui ragazzi di un quartiere di Londra), che entrano con immediatezza nelle realtà urbane periferiche, grazie anche alla presa diretta e a una macchina da presa molto mobile, e nono­ stante la sovrapposizione di musica e commento. Su un fronte diverso, il documentarismo approda al moderno con le teorizzazioni di Cesare Zavattini, che prefigura tendenze come il film diaristico e auto biografico, il cinema-verità e il film-sag­ gio, e che nella pratica, a parte i suoi contributi di sceneggiatore, coordina con Riccardo Ghione e Marco Ferreri L'amore in cit­ tà (1953) e promuove Siamo donne (1953) che, pur essendo in massima parte film a episodi di finzione, propongono con la loro struttura un’idea di giornalismo o di inchiesta pretelevisiva e qua­ si autoriflessiva sul mezzo impiegato. Nel 1958, con Lettre de Sibèrie, girato in 16mm, Chris Marker porta alle estreme conseguenze il dilemma verità/finzione del do­ cumentario. Il suo è un autentico «saggio documentato dal cine­ ma» (André Bazin), che si interroga sul senso delle immagini, an­ ticipando di molti anni ciò che diventerà il punto nodale di questo tipo di film: l’immagine non garantisce più ciò che riproduce, le cose non sono solo ciò che appaiono. In India, nel 1957, Ros­ sellini gira due opere complementari: un film in 4 episodi, India Matri Bhumi (1959) e un reportage televisivo in 10 puntate, J’ai fait un beau voyage/L’India vista da Rossellini (1959); il primo è un saggio poetico in forma di finzione, il secondo un diario di viaggio commentato in stucio dall’autore: «l’immagine non è che il complemento dell’idea che la provoca» (Godard). La tendenza saggistica si fa strada anche nel film sull’arte, dal citato Guernica a Le mystère Picasso (1956l di Henri-Georges Clouzot, a Picasso (1954, mm) di Emmer, rielaborato anni dopo in Incontrare Picas­ so (2000, mm).

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