Bramante architetto e pittore (1444-1514) 9788889440513

Donato Bramante è stato il maggiore protagonista della terza generazione di architetti del Rinascimento, dopo quella di

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Bramante architetto e pittore (1444-1514)
 9788889440513

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I PROTAGONISTI DELL’ARCHITETTURA 1

I protagonisti dell’Architettura Collana diretta da Stefano Piazza

Luciano Patetta

BRAMANTE architetto e pittore (1444-1514)

Edizioni Caracol

In copertina: Roma, Santa Maria della Pace, chiostro (foto di Hugues Nouvel de la Fleche)

Alla redazione della parte del periodo milanese e del periodo romano ha collaborato Tobia Patetta.

Edizioni Caracol s.n.c. via Villareale, 35 - 90141 Palermo e-mail: [email protected] © 2009 Caracol, Palermo. Vietata la riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. ISBN 978-88-89440-51-3

INDICE

INTRODUZIONE

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I.

LA VITA E L’ATTIVITÀ PROFESSIONALE La formazione Pittura e architettura L’osservazione e l’emulazione dell’antico Le eredità di Brunelleschi e di Alberti Il periodo milanese (1480 ca.-1499) Il periodo romano (1500-1514) Gli scritti di Bramante

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II.

LE OPERE DEL PERIODO MILANESE

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III.

LE OPERE DEL PERIODO ROMANO

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE E DEI TESTI CITATI

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Raffaello, Bramante come teologo-filosofo, La Disputa del Sacramento, 1510 (Parigi, Louvre, Département des Arts Graphiques).

INTRODUZIONE

Donato Bramante è stato il maggiore protagonista della terza generazione di architetti del Rinascimento, dopo quella di Filippo Brunelleschi, pioniere e primo sperimentatore del “ritorno all’antico”, e dopo quella di Leon Battista Alberti, teorico e trattatista. Mentre Brunelleschi, dopo i viaggi di studio a Roma all’inizio del Quattrocento, dava l’avvio al rinnovamento dell’architettura fiorentina, sostituendo le membrature tardogotiche con colonne, archi e volte liberamente derivate dall’età classica, e mentre Alberti cercava di mediare tra gli insegnamenti del trattato di Vitruvio (del 27 a.C.) e i primi rilievi diretti dei monumenti romani, Bramante poteva proporre con maturità e sicurezza il carattere universale della nuova architettura “all’antica”. Il distacco generazionale permetteva a Bramante di avvalersi di un numero ormai consistente, ancorché variegato, di esperienze nuove, quelle, per esempio, di Michelozzo, di Bernardo Rossellino, di Leon Battista Alberti, dei da Maiano, di Luciano Laurana, del Filarete e di Luca Fancelli. Un rafforzarsi del potere politico delle Signorie italiane e il trasformarsi -nel senso di una personalizzazione- del ruolo della committenza (i Medici, gli Sforza, gli Este, i Montefeltro, i Gonzaga e i pontefici da Niccolò V, a Pio II e a Sisto IV) stavano mutando il mestiere dell’architetto, che si sganciava progressivamente dalle corporazioni artigiane per avviarsi verso la professione liberale. Bramante fu uno dei primi a vivere questa condizione nuova. Forse anche per il suo temperamento indipendente, per essersi considerato curiosamente sempre un autodidatta, per non aver avuto mai, a quanto ci risulta, una vera e propria bottega, Bramante ci appare come il primo libero interprete degli sviluppi del Rinascimento, dei suoi ideali figurativi e costruttivi. Fu per lui una fortuna poter trascorrere gli anni della giovinezza e della formazione nell’atmosfera culturale che si respirava a Urbino, centro intellettuale e artistico che poteva confrontarsi addirittura con Firenze. La corte urbinate di Federico da Montefeltro, grande condottiero ma anche colto umanista, architetto dilettante, fondatore di una delle più ricche biblioteche del tempo, ha permesso al giovane Bramante di entrare in contatto con 7

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alcuni dei maggiori pittori dell’epoca, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Piero della Francesca e Giusto di Gand. È probabile che frequentasse il circolo di Giovanni Santi, il padre di Raffaello, discreto pittore ma soprattutto animatore di serate poetiche e letterarie. Forse fu allievo del pittore Bartolomeo Corradini, detto fra’ Carnevale. Presente nel cantiere del palazzo Ducale di Urbino tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del Quattrocento, Bramante vi ha conosciuto l’architetto Luciano Laurana e ha visto prender forma l’edificio forse più elegante e raffinato del Rinascimento italiano, dove gli ordini classici nel portico del proporzionato e luminoso cortile, le logge e i famosi “torricini” verso valle rappresentavano uno degli esiti più certi della nuova architettura. Negli anni in cui Francesco di Giorgio ha sostituito il Laurana (dal 1472) Bramante ha fatto esperienze nel palazzo ducale come pittore, decoratore e forse anche come architetto, presente pare anche nel cantiere della chiesa di San Bernardino. A questa formazione ad Urbino, va aggiunta la conoscenza diretta delle opere di Brunelleschi e dei suoi seguaci in Toscana, la lettura, che lo colloca in una ristretta cerchia di architetti colti, di tutti i trattati disponibili a quel tempo (Alberti, Filarete, Vitruvio e Francesco di Giorgio) e più tardi la lunga frequentazione (1500-1514) delle antichità romane. Ha avuto anche la fortuna di lavorare sempre per committenti altrettanto colti, umanisti e cultori dell’Antico: Ludovico e Ascanio Sforza, Gaspare Visconti e Gian Giacomo Trivulzio, nel periodo milanese, Giuliano della Rovere (Giulio II) e Giovanni de’ Medici (Leone X), Oliviero Carafa e Bernardino Lopez de Carvajal, nel periodo romano. Bramante ha avuto, come era frequente a quel tempo, un’attività molteplice: è stato pittore sia di figura che di prospettive architettoniche e urbane, architetto e ingegnere civile e militare, disponibile dunque a offrire progetti e consulenze in opere private o pubbliche, ponti, strade, argini, fortezze e armamenti, proprio come i suoi coetanei Francesco di Giorgio e Giuliano da Sangallo. Inoltre, è stato un letterato e un poeta, autore di sonetti per lo più satirici. C’è chi ha sostenuto che avesse scritto dei trattati tecnici di architettura e di geometria, nonché di ingegneria militare, andati perduti. Nel Rinascimento c’erano magistri formatisi nelle botteghe o nei cantieri (come i Proti a Venezia, i Solari a Milano, i da Maiano all’inizio solo legnaioli a Firenze) o pittori-architetti (come Francesco di Giorgio, Raffaello, Peruzzi e Giulio Romano) o scultori-architetti (come Michelozzo, il Filarete, l’Amadeo, Sansovino, Sanmicheli). Bramante era pittore-architet8

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to, ma con spiccate curiosità intellettuali in molti campi del sapere, anche lontani dall’arte e dall’architettura. Inoltre, in lui appariva più concreto che in altri il rapporto tra la pittura e l’architettura: in tutti i suoi progetti e negli edifici realizzati era sempre forte e manifesta la concezione dello spazio come rappresentazione prospettica, fino ad “artifici” illusionistici, come nel famoso coro prospettico realizzato a Milano. Bramante aveva un carattere gioviale e un temperamento sostanzialmente sereno, che gli hanno permesso di trovare accoglienza e di frequentare con assiduità per quasi vent’anni (1480 circa-1499) la corte sforzesca di Milano, dove ha potuto conoscere Leonardo (giuntovi nel 1482), i pittori Vincenzo Foppa e Bernardino Zenale, lo scultore architetto Giovanni Antonio Amadeo, il musico Franchino Gaffurio, il coltissimo ambasciatore veneziano Ermolao Barbaro (1488) e il matematico e teorico delle proporzioni fra’ Luca Pacioli (a Milano nel 1496). Particolarmente importanti sono stati i rapporti con l’Amadeo, capace organizzatore dei cantieri e in possesso di un’efficiente bottega, e con Leonardo, amico carissimo, frequentatore pure lui della corte sforzesca e interessato agli stessi temi e problemi: l’interpretazione “moderna” dell’Antico, il rinnovamento della città e gli organismi a pianta centrale. Oltre a numerosi suggerimenti e pareri a Pavia, Vigevano e Abbiategrasso, tre sono le opere milanesi di Bramante, Santa Maria presso San Satiro, la tribuna di Santa Maria della Grazie e la Canonica e i chiostri di Sant’Ambrogio. All’arrivo delle armate francesi, nel 1499, Bramante ha lasciato la Lombardia per raggiungere Roma, dove ha operato fino al 1514, anno della morte. A Roma ha potuto studiare e rilevare direttamente i monumenti antichi con una nuova attitudine “archeologica” e ha trovato una committenza meno legata di quella milanese alla tradizione decorativa e una cerchia di artisti eccezionale e irripetibile: tra gli altri, Antonio e Giuliano da Sangallo, fra’ Giovanni Giocondo e i più giovani Michelangelo, Raffaello, Baldassare Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane. La corte pontificia, di Giulio II e Leone X, e potenti cardinali richiedevano una renovatio urbis, i caratteri e l’autorità di una magnificenza con emergenze monumentali e con un programmatico riferimento all’antichità. Bramante ha assecondato genialmente queste aspirazioni con la sua cosiddetta “grande maniera”, con la ripresa degli ordini del Colosseo, interpretandone la sovrapposizione (tuscanico/dorico, ionico, corinzio e composito) e l’organizzazione gerarchica, con l’adozione dell’ordine dorico (assente per tutto il Quattrocento) 9

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e degli archi “alla romana” non su colonne ma su massicci pilastri; e inoltre, ha affermato con nuova perentorietà l’impianto prospettico e la costruzione tipologica e degli spazi urbani. Dunque, Bramante, partendo dalle esperienze milanesi, dalla sua educazione pittorica e dalla assimilazione di alcuni principi albertiani (sappiamo che conosceva il De re aedificatoria dalla fine degli anni ottanta del Quattrocento), poteva verificare gli insegnamenti di Vitruvio a fronte della realtà dei monumenti romani, se pur in rovina. Poteva quindi avviare un’indagine diretta, rigorosa e filologica allo scopo di apprendere qualcosa che avrebbe potuto, primo tra gli architetti, subito utilizzare nella progettazione. Si pensi, per esempio, oltre al linguaggio degli ordini, agli impianti spaziali e strutturali dell’architettura romana, alle volte e alla tecnologia delle murature “gettate in cassa”. Inoltre, ha stabilito i caratteri formali del moderno palazzo di Roma e ha affermato l’autonomia della composizione architettonica dalla decorazione. Infine, nel chiostro di Santa Maria della Pace, nel tempietto di San Pietro in Montorio, e soprattutto nella gigantesca pianta centrale del nuovo San Pietro e nel cortile del Belvedere, ha mostrato a quali valori simbolici e a quali esiti poteva pervenire l’architettura rinascimentale. Dunque, a Roma Bramante ha conquistato le concezioni che ne faranno il maestro riconosciuto di un’intera generazione di architetti, cioè la valorizzazione dell’Antico come fonte formale ma soprattutto umanistica per un’architettura nuova e attuale, in un’epoca che sembrava voler riconquistare la magnificenza dell’età classica. Era la concezione di una continuità storica, che poteva e doveva però affermare anche i caratteri sperimentali e le diversità del presente. La realtà complessa della Roma del primo Cinquecento trovava in Bramante un’interpretazione geniale, lontana dagli eccessi e dagli impacci dell’ortodossìa archeologica, fondata al contrario in un fare architettura pragmatico, con la saggezza e la creatività di un sicuro “mestiere”, spinto talvolta fino ad arrischiare alcune “scorrettezze”. Ha osservato Manfredo Tafuri [1984(a), 74]: «L’esigenza storico-filologica che anima l’umanesimo vive anche in Bramante: gli antichi, tramite l’attenta analisi archeologica, vengono “liberati” dalla prigionia cui erano stati condannati dai “barbari”; parlando con la loro lingua, dunque, facendo del latino architettonico un sistema trasformabile e aperto all’innovazione, la res aedificatoria assurge ad ars liberalis, ‘quod liberos homines fecit’». La storiografia è concorde nel riconoscere in Bramante il protagonista della svolta dall’empirismo del Rinascimento quattrocentesco al pieno classici10

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smo del Cinquecento, autentico anticipatore di una prassi progettuale che si svilupperà lungo tutto il secolo XVI. Più dei suoi coetanei Giuliano da Sangallo e Francesco di Giorgio, Bramante ha saputo concretizzare in una nuova architettura alcuni modelli esemplari del passato, con una concezione anche più ampia di quella concentrata solo sull’eredità della civiltà romana: a Milano, sull’impianto centrico della paleocristiana basilica di San Lorenzo e sui battisteri romanici, a Roma sui mausolei tardoantichi, sui templi peripteri rotondi, sugli organismi termali e teatrali. Un’annotazione: né dell’attività ventennale di Bramante a Milano, né della sua intensissima produzione architettonica a Roma ci resta quell’adeguato numero di disegni autografi o di bottega, oppure di modelli, che ci si potrebbe aspettare. Di possibile ma non certa attribuzione ci sono pervenuti solo uno schizzo per la retro facciata di Santa Maria presso San Satiro a Milano (1487 ca.) e il cosiddetto Piano della pergamena per San Pietro a Roma (1506 ca.), altri schemi planimetrici per la nuova basilica vaticana, un disegno per il cortile del Belvedere e uno per il palazzo del Tribunale forse eseguito da un collaboratore, Antonio di Pellegrino, ma nulla del tempietto di San Pietro in Montorio e del chiostro di Santa Maria della Pace. Ci mancano dunque gli schizzi, gli studi preliminari, gli elaborati esecutivi e il repertorio di disegni quotati e di varianti che ci avrebbe restituito la testimonianza del processo progettuale. Neppure del rilevamento dei monumenti antichi ci restano suoi disegni, e pertanto non abbiamo nessun foglio che ci dimostri lo studio degli ordini classici e l’apprendimento delle loro proporzioni, delle modanature e degli elementi decorativi. Sappiamo che probabilmente aveva fatto fare un modello a Milano per il tiburio del Duomo e uno per i chiostri di Sant’Ambrogio, ma nulla sappiamo riguardo ai modelli lignei o di terracotta che sarebbero stati indispensabili per presentare ai committenti romani i progetti dei suoi organismi così nuovi e impegnativi. Peraltro, come si è detto, né a Milano né a Roma risulta che Bramante abbia mai avuto una bottega. Dobbiamo quindi ipotizzare che abbia svolto l’attività di architetto in queste due forme: fornendo delle consulenze, e indirizzando con suggerimenti nuovi e decisivi il lavoro di magistri e di maestranze, in quel complesso intreccio di collaborazioni, di diverse competenze e capacità esecutive che caratterizzavano i cantieri del tempo. Il cantiere delle fabbriche restava allora sempre affidato a tecnici di minor fama, di più modesta cultura, a capomaestri o semplici maestri di muro, i cui nomi compaiono numerosi nei libri mastri o nei contratti stipulati con 11

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la committenza. Ma neppure i documenti ci restituiscono notizie sui rapporti tra Bramante e i numerosi scalpellini, scultori e modellatori di capitelli, fregi e cornici all’antica, realizzati spesso per la prima volta. Impossibile pensare che abbiano potuto eseguire, soprattutto a Roma, le prescrizioni dell’architetto, senza disegni esecutivi, anche a grande scala, in quanto la progettazione bramantesca sembrava ancor più che a Milano escludere quel margine di libertà creativa che i collaboratori avevano nei cantieri delle tradizioni regionali e dei modi locali. Probabilmente, in forma diretta e di persona Bramante ha compiuto i numerosi sopralluoghi a lui richiesti da Ludovico il Moro a Milano (a Crevola nella Val d’Ossola, Pavia, Vigevano e Abbiategrasso) e dai papi Giulio II e Leone X a Roma (a Civita Castellana, Civitavecchia, Loreto, Genazzano, Viterbo e Civitavecchia). Per conto di Giulio II nel 1506 e nel 1510 è stato a Bologna, ma non sappiamo per quali lavori. Per la progettazione esecutiva e per la realizzazione degli edifici Bramante deve essersi avvalso della collaborazione di altri: a Milano, di Cristoforo Negri e Giacomo Solari (nella Canonica di Sant’Ambrogio), di Cristoforo Solari (nei chiostri dei Cistercensi), forse di Giovanni Battagio e dell’Amadeo (in Santa Maria presso San Satiro), ancora dell’Amadeo (in Santa Maria delle Grazie), e di Ambrogio Ferrari (per i lavori al castello); a Roma, di Antonio Pellegrino (per il progetto del Tribunale), di Antonio da Sangallo il Giovane (a Civita Castellana), di Gian Cristoforo Romano a di Andrea Sansovino (a Loreto).

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LA VITA E L’ATTIVITÀ PROFESSIONALE

La formazione Donato Bramante è nato nel 1444 in un piccolo borgo del ducato di Urbino, da una famiglia di contadini abbastanza abbienti. Non ci è noto a che età si sia trasferito nel capoluogo, ma di certo deve esser stato molto presto. Stando alle Vite di Giorgio Vasari, oltre ad imparare a leggere e a scrivere, il giovane Bramante avrebbe appreso l’abaco, cioè la matematica, e la tecnica della pittura da Bartolomeo Corradini, detto fra’ Carnevale, al quale sono oggi attribuite le due famose tavole Barberini. Anche discreto architetto, fra’ Carnevale lo avrebbe istruito nella prospettiva, facendone un esperto in seguito frequentemente indicato come pictor prospecticus o «pittore prospettivo». Deve esser stato ad Urbino che il giovane Bramante ha potuto trovare i due riferimenti più importanti per la sua formazione, la pittura con fondamenti scientifici di Piero della Francesca, e il pensiero e gli insegnamenti di Leon Battista Alberti, il teorico della pittura, della scultura e dell’architettura, tutti e due presenti più o meno a lungo nel centro culturale che Federico da Montefeltro stava portando a primaria importanza. Solo poco più tardi, egli ha potuto cogliere anche i grandi rinnovamenti della pittura che stavano realizzando gli artisti ferraresi e Andrea Mantegna. Non è da escludere che Bramante abbia messo mano ai pannelli nei Miracoli di San Bernardino a Perugia, commissionati dall’umanista Tito Vespasiano Strozzi, ambasciatore estense. Nel palazzo Ducale di Urbino ha visto all’opera l’architetto Luciano Laurana, fino al 1472, poi Francesco di Giorgio, del quale è possibile che sia stato un aiutante sia per i progetti del duomo e della chiesa di San Bernardino (pensata inizialmente a pianta centrale, come mausoleo dei Montefeltro), sia per la realizzazione nel palazzo Ducale di numerosi arredi, della cappella del Perdono (o dello Spirito Santo), della cappella delle Muse, lavorando forse anche alla “intelaiatura architettonica” nello studiolo del duca Federico (1476). Dunque Bramante, nel decennio fino agli ultimi anni settanta, ha partecipato a quella straordinaria stagione dell’architettura che mirava a realizzare, come scrisse poco più tardi (1513) Baldassarre Castiglione, «una città in forma di palazzo», quel palazzo ducale detto da Giovanni Santi «non aedifitio humano, ma divino». Qui è avvenuto il suo decisivo apprendistato, teorico e pratico, frequentando e anche collaborando con tutti gli architecti et ingegneri e deco15

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ratori al servizio del Montefeltro oltre che nel palazzo anche nell’avvìo dei lavori per il duomo e nelle fortezze del ducato. È a Urbino che Bramante ha assimilato quella architectura ficta che metterà poi in pratica a Bergamo, a Milano e a Roma, suggerendo forse anche le facciate dipinte nella casa Fontana a Milano e nella piazza di Vigevano. Certamente gli erano note le architetture di Brunelleschi a Firenze (come dimostreranno più tardi alcuni dettagli delle suo opere), il Tempio Malatestiano a Rimini e le città di Padova, Venezia e Mantova. Sono le tappe ipotetiche del suo viaggio verso la Lombardia, fino alla prima città, Bergamo, dove si è fermato, se pur brevemente, a lavorare. Possiamo azzardare un elenco delle cose viste e osservate da Bramante nel suo viaggio verso Milano: a Padova i bassorilievi prospettici di Donatello nella basilica del Santo, i Giganti -affreschi perduti di Paolo Uccello- e gli affreschi di Mantegna nella cappella Ovetani; a Mantova le due fondamentali architetture di Alberti, il progetto e il cantiere della chiesa di San Sebastiano e il modello e i disegni esecutivi del Sant’Andrea, di cui Luca Fancelli stava avviando la costruzione.

Pittura e architettura Giunto a Bergamo nel 1477-78, Bramante sulla facciata del palazzo del Podestà ha eseguito dei grandi affreschi commissionati dai magistrati Sebastiano Badoer e Giovanni Moro. Malgrado il pessimo stato in cui si trovano i resti di questa decorazione pittorica, è possibile intravedere il soggetto: figure di Filosofi (memori degli Uomini illustri visti nello Studiolo di Urbino) in inquadrature architettoniche, logge, nicchie e pilastri, con un riferimento dunque all’Antichità. L’unica figura un po’ conservata, quella del filosofo Chilone, permette di riscontrare come fosse già espresso quell’ideale eroico e monumentale che caratterizzerà in seguito la sua pittura. È probabile che a Bergamo abbia incontrato l’Amadeo, impegnato nella costruzione della cappella Colleoni, dando l’avvìo a una frequentazione e a un lavoro comune che si protrarrà per tutti i vent’anni del soggiorno milanese. La pittura di Bramante è stata sempre considerata di qualità ed importanza inferiori alla sua architettura. Non ne vanno sottovalutati però alcuni aspetti. Anzitutto la pittura è stata sempre per lui una sorta di importante presentazione e, potremmo dire, di primo passo nell’affermazione e nella noto16

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rietà. Poi, è stata per lui, prima e durante lo studio dell’Antico, un primo fondamento della progettazione architettonica: si pensi alla commensuratio di Piero della Francesca, la teoria delle proporzioni visive, da lui assimilata negli anni urbinati (ancor prima che fosse pienamente formulata nel De prospectiva pingendi), cioè la tecnica e il controllo scientifico della prospettiva. Bramante ha coltivato questa necessità di controllo visivo e costruttivo degli spazi architettonici, partendo di certo dagli insegnamenti per un corretto disegno prospettico contenuti nel De pictura di Alberti (ai suoi tempi testo di generale notorietà), ma poi utilizzandolo nella prassi progettuale in occasioni nuove e particolari, come il “finto coro prospettico”, costruzione plastica illusoria realizzata a Milano, le vedute urbane e le scenografie teatrali, sempre a Milano ma forse anche a Roma. Troviamo costantemente nelle opere pittoriche di Bramante una figura umana in uno spazio architettonico virtuale, ben definito, con un disegno di forte risalto e in rapporto diretto con lo spazio dell’architettura reale. Più che in altri pittori-architetti di quella fase del Rinascimento, risulta in lui costituzionale la congiunzione tra ars pingendi e ars aedificandi. Anche nei suoi organismi, soprattutto a Roma nel chiostro della Pace e nell’enorme cortile del Belvedere, lo spazio sembra organizzato con lo stesso metodo compositivo, verificato nel corso della progettazione e verificabile dagli osservatori “al vero”. Le leggi della prospettiva e delle proporzionalità appartengono in modo sicuro al suo bagaglio culturale, caratterizzando tutta la continuità del suo lavoro. Ha scritto Bruschi [1969, 321]: «lo spazio della vita umana vuol tradursi tutto in termini visivi. L’architettura è divenuta almeno prevalentemente immagine da guardare. L’architettura si è tradotta in pittura. I suoi valori diventano ‘artistici’ proprio perché ‘visivi’, assimilabili a quelli di un dipinto». Bramante è stato interpretato inoltre come artista portato ad un certo anticlassicismo e come evidenziatore dello «spettacolo della spazialità» [Argan 1934, 223 e segg.]. Bramante possedeva questa grande capacità e coerenza operativa già nel periodo milanese, in cui però appare evidente più nelle opere pittoriche, dall’Incisione Prevedari agli Uomini d’Arme e all’affresco di Democrito e Eraclito, che nelle realizzazioni architettoniche, quasi tutte un po’ condizionate da alcune difficoltà d’ambiente e d’occasione. Ad eccezione però dello spazio interno del duomo di Pavia (testimoniato dal modello originale) e dello spazio interno di Santa Maria presso San Satiro, per il quale acuta17

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mente Cesariano osserverà [1521, IV, VII] che vi sono come in un tempio antico «nicchie capellete in circuito facte di basserilevo, como molti moderni hanno facto per la ratione optica, pare abiano un introrso magno si como ne la praedicta aede dil Divo Satiro ha Architectato epso Bramante». Una ratione optica quindi, alla base di ogni scientifico controllo compositivo e proporzionale. Sembra legittimo far risalire a Bramante, figura centrale della cultura milanese alla fine del Quattrocento, anche queste parole del Bramantino, se non altro come eredità raccolta dagli artisti più giovani (parole riportate più tardi dal Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura… 1584, L.V, XXII): «E seppiasi che questa prospettiva, che si fa per ragione, misura et ordine si esercita con il sesto e la riga e con la regola di detta prospettiva, cioè braccia, oncie, minuti, pertiche e miglia. E niuna cosa si fa di cui non si sappia la grandezza appresso o lontano e precisa ogni sua parte». Un livello di approfondimento senza uguali a quel tempo parrebbe da più disegni (però di incerta attribuzione ai collaboratori di Bramante o a Giuliano da Sangallo) redatti per l’enorme organismo di San Pietro. È stato compiuto [Borsi 1989, 59 e segg.] un esauriente tentativo di ricostruzione dei numerosi rapporti proporzionali, delle quadrature e soprattutto dell’insolita serie di controlli dei rapporti contemporaneamente in pianta e in alzato. Nessun architetto, prima di Bramante, aveva ripetutamente e come scelta privilegiata progettato degli organismi a pianta centrale. Il tema era già presente e importante nell’architettura fiorentina, ma solo relativo alle cappelle (la sagrestia Vecchia e la cappella Pazzi di Brunelleschi) e a una parte di una chiesa (il coro dell’Annunziata di Michelozzo con il coinvolgimento di Alberti) e infine nell’albertiano San Sebastiano di Mantova, ancora in costruzione nel 1480. Tutte queste opere erano conosciute da Bramante, mentre è incerta una sua conoscenza di Santa Maria delle Carceri a Prato, impianto a croce greca di Giuliano da Sangallo. La chiesa degli anni 148586 non deve esser stata vista da lui se non, eventualmente, nel viaggio di trasferimento da Milano a Roma, nel 1499. Ben nota invece gli era, per avervi forse addirittura operato da giovane, la chiesa francescana di San Bernardino, che nel primo progetto di Francesco di Giorgio e nell’avvio della costruzione era, secondo i desideri del duca Federico da Montefeltro, una sorta di mausoleo a pianta centrale. In Bramante l’impianto centrico é una presenza costante: a Milano, dal tempio rappresentato nell’Incisione Prevedari, alla sagrestia di Santa Maria presso San Satiro, e forse a un primo 18

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progetto per l’intera chiesa, al foro quadrato della canonica di Sant’Ambrogio, alla tribuna di Santa Maria delle Grazie, nonché all’attribuita tricora della cappella Pozzobonelli; a Roma, dal tempietto di San Pietro in Montorio (soprattutto se inserito nel previsto cortile circolare) a tutti gli studi e le ipotesi planimetriche per San Pietro, dove la pianta centrale si sviluppa nel più complesso organismo a quincunx, croce greca inscritta, a cinque cupole, schema che appariva anche nell’attribuito progetto per la chiesa di San Celso in Banchi e in quello, anch’esso solo attribuito, della chiesa di Roccaverano.

L’osservazione e l’emulazione dell’Antico La cultura degli umanisti e in particolare quella degli artisti e degli architetti del Rinascimento era tutt’altro che precisa e concorde sulla datazione e sui confini temporali dell’Antico, che peraltro era così amato da far sorgere, come si sa, una vera e propria passione antiquaria, una ricerca e un commercio di antichità (talvolta anche false) e da dar vita a un collezionismo riscontrabile nella biografia di quasi tutti i principi, i patrizi, i cardinali, i pontefici e, per emulazione, anche di ricchi mercanti, banchieri e mecenati. È noto, per esempio, che il battistero di San Giovanni a Firenze, romanico dell’XI secolo, era ritenuto un’architettura romana, che erano ignorati o non individuati i caratteri bizantini dei monumenti di Ravenna e che anche San Vitale e il mausoleo di Teodorico erano considerati organismi pienamente romani. Bramante non poteva non aver colto, come naturalmente prima di lui Ghiberti e Alberti, la continuità della classicità nella tradizione tardomedievale toscana, non per nulla esaltata da Alberti nella voluta e palese continuità dalla romanica facciata di San Miniato al Monte a quella quattrocentesca di Santa Maria Novella. Tutto ciò, accompagnato da un accentuato interesse per gli impianti spaziali e il vano interno degli edifici, ha fatto sì che per Bramante in Lombardia potessero valere come antiqua exempla i battisteri romanici al pari dei resti monumentali romani, qualcosa di un antico circo e di un’arena, una fila di colonne corinzie davanti alla basilica di San Lorenzo, l’organismo di questa ammiratissima basilica (osservata anche da Leonardo e da Giuliano da Sangallo) che pur si staccava dalla spazialità unitaria dei grandi edifici romani, e poi il mausoleo ottagonale di Massimiano (poi San Gregorio) ancora esistente nel XV secolo, il 19

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paleocristiano battistero di San Giovanni ad fontem e una porta romana oggi perduta. Certamente era rilevabile una gran quantità di capitelli e di trabeazioni. A Roma, il repertorio tipologico della monumentalità antica era naturalmente molto più ricco e tale da impressionare: i resti di templi e di basiliche nei Fori Imperiali, i resti dei palazzi sul Palatino, gli archi di Trionfo, il Colosseo e il teatro di Marcello, la cupola del Pantheon e le volte di Minerva Medica e del canopo della villa Adriana a Tivoli. Vasari ha scritto che, giunto a Roma, Bramante ha «misurato le fabbriche antiche» e che «se ne servì assai», sottolineando dunque il suo atteggiamento privo di intenzione di copiare e replicare: «‘Servirsi’ dell’antico e non asservirsi o servire l’antico sembra, giusta l’intuizione vasariana, il suo motto. Bramante persegue una sorta di eclettismo funzionale delle fonti» [Miarelli Mariani 1970, 128]. Comunque, Bramante ha preso a modello gli elementi dall’architettura romana, gli ordini anzitutto, mentre non ha potuto imitare le maggiori strutture voltate con la tecnica “muratura a cassa”, troppo impegnativa per le maestranze del suo tempo e troppo costosa; potrebbe averla adottata una sola volta in murature verticali nel palazzo Caprini [Pagliara 2002]. A Milano ha accettato, forse senza altra possibile scelta, la tradizione lombarda delle murature in mattoni e delle decorazioni in terracotta (formelle prodotte in serie da botteghe e fornaci). A Milano ha forse potuto apprendere le ipotesi progettuali del Filarete fondate su tipologie bizantine, cioè organismi a quincunx, e osservare in San Lorenzo le cappelle “satellitali” come Sant’Aquilino con nicchie semicircolari scavate nella muratura (come lo saranno le quattro sagrestie nella tribuna del duomo di Pavia) e la cupola, crollata nel secolo successivo, forse poligonale a sedici lati (come lo sarà il tiburio di Santa Maria delle Grazie). Il mausoleo di Massimiano, con il tipo del martyrium sviluppato in altezza, forse con matronei peraltro presenti in Sant’Ambrogio, deve aver contato molto nell’ideazione della sagrestia di Santa Maria presso San Satiro dove compariranno anche le nicchie alternate a sfondati. Molto importante è stato di certo il sacello di San Satiro del IX secolo, centrico e quadrilobato, per il quale Bramante probabilmente ha curato una ristrutturazione. Impostando la canonica di Sant’Ambrogio Bramante ha scelto l’impianto di un quadrato foro antico, porticato, e impostando la cripta del duomo di Pavia ha ripreso la volta romana a unghie e fasce, quasi in forma di conchiglia, come quella del Canopo di villa Adriana, forse conosciuto indiretta20

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mente da un disegno di Francesco di Giorgio [Patetta 2001(b), 36, nota 32] non essendoci noto un suo viaggio a Roma prima del 1499. Nel periodo romano, come gia si è detto, Bramante, pur a contatto diretto con le antichità e malgrado l’indiscutibile entusiasmo, ha saputo superare i condizionamenti di ricerche di stampo filologico, tipiche dell’umanesimo letterario e di alcune manifestazioni prettamente archeologiche (di Ciriaco d’Ancona, per esempio, di fra’ Giocondo e di Fabio Calvo). Non ha indagato cioè nel patrimonio delle vestigia antiquitatis in quanto tali, ma ha scelto monumenti e architetture di alta qualità e a lui congeniali da cui poter trarre i principi della costruzione, finalizzandoli alla realizzazione di un’architettura nuova, rispondente agli ideali civili del proprio tempo. Ancor più che a Milano, qui egli non intendeva, anche per il grande prestigio ormai acquisito, rinunciare a sperimentare in ogni occasione tutte le possibilità di una cultura architettonica matura. C’è dunque più che un’imitazione un tentativo di emulazione degli antichi. Questa sicurezza Bramante ha trasmesso ai più giovani e in un certo senso seguaci, Peruzzi, Raffaello, Giulio Romano e Antonio da Sangallo il Giovane, Andrea e Jacopo Sansovino, Gian Cristoforo Romano e forse anche Ventura Vitoni. Alcuni riferimenti diretti sono comunque evidenti e indiscutibili: il tempio periptero rotondo di Vesta (per il tempietto di San Pietro in Montorio), il sistema pilastro-con colonna addossata-arco e colonna trabeazione, nonché la sovrapposizione degli ordini del Colosseo (nel chiostro di Santa Maria della Pace), lo sviluppo del circo romano (nel Belvedere), l’articolazione e concatenazione degli spazi delle terme (nell’impianto di San Pietro), l’ordine dorico (pressoché assente nel Quattrocento) inteso come sintesi massima di struttura e decorazione e vincolante nella connessione delle sue parti [Portoghesi 1971, 31-32].

Le eredità di Brunelleschi e di Alberti Pur non essendo, come quasi tutti gli architetti della sua generazione, soprattutto in centro Italia, un “brunelleschiano”, Bramante dimostrava nell’attività del periodo milanese una conoscenza profonda delle opere del maestro fiorentino e più di ogni altro una comprensione autentica del loro senso e delle loro ragioni. Tale comprensione non si traduceva mai in imitazione o in palese citazione, ma era volta ad utilizzare la brunelleschiana soluzione di alcuni problemi in una casistica differente. Il transetto di Santa 21

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Maria presso San Satiro era una ricreazione originale dell’impianto della fiorentina cappella Pazzi, uno spazio allungato coperto a botte e un blocco cubico al centro, coperto da una cupola su pennacchi. Si staccherebbe di più da riferimenti alla cappella di Brunelleschi l’ipotetico impianto perfettamente centrico a croce greca [Patetta 1987(b), 185]. La tribuna delle Grazie era una rielaborazione in proporzioni ingigantite dell’impianto centrale della sagrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze, mentre la planimetria del duomo di Pavia con il circuito delle cappelle semicircolari era debitrice a quella della chiesa fiorentina di Santo Spirito. Va ricordata la presenza all’interno del San Satiro della parasta piegata a libro e delle nicchie con conchiglia, che ricordano quelle delle tribune morte della cupola di Santa Maria del Fiore, e, all’esterno, nella facciata lungo la via del Falcone, il dettaglio brunelleschiano delle modanature della base del piedestallo prolungate come base continua del muro. Va ancora notato l’uso del pulvino, non alla bizantina ma come un tratto di trabeazione secondo gli esempi di Brunelleschi in San Lorenzo e in Santo Spirito, prima nella canonica poi nei chiostri di Sant’Ambrogio. Esistevano d’altronde in città opere brunelleschiane: la cappella Portinari (1462-69) e la cappella Brivio (1484-85) entrambe in Sant’Eustorgio e i loggiati nella corte ducale del castello Sforzesco e nei cortiletti dell’Ospedale Maggiore, realizzazioni di architetti fiorentini, Benedetto Ferrini e il Filarete. Tali conoscenze così precise erano frutto di uno o più soggiorni a Firenze di Bramante in età giovanile, proveniente da Urbino, quando era ai primi approcci con l’architettura, mentre non è provato ma è possibile un suo viaggio da Milano all’inizio degli anni novanta, quando nei documenti sono segnalate ripetutamente delle assenze da Vigevano e Milano tra la fine del 1492 e l’inizio del 1494 [Patetta 2001(b), 36, nota 37]: nel 1493 era fatto cercare appunto a Firenze o a Roma dal duca Ludovico il Moro. Non vanno inoltre sottovalutate la frequentazione del fiorentino Luca Fancelli, forse a Mantova prima dell’arrivo in Lombardia e poi nel 1487, quando questi fu consultato per il problema del tiburio del Duomo, e l’incontro con Giuliano da Sangallo inviato a Milano nel 1492 da Lorenzo il Magnifico. Di tipo diverso, meno dirette e riscontrabili e più concettuali che formali sono state le eredità di Alberti. Può essere considerata albertiana la sua formazione di pittore-architetto che per tutta la vita lo ha portato ad accentuare la rappresentazione tridimensionale di organismi spaziali complessi o di un invaso unitario di grandi dimensioni. Ancora albertiana può essere con22

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siderata l’assenza nella produzione di Bramante di architetture caratterizzate più dalla qualificazione decorativa e plastica degli involucri bidimensionali che non dall’invenzione di spazi [Bruschi 1969, 312]. Anche in Bramante al farsi sempre più impegnativa l’adozione di organismi complessi corrispondeva una semplificazione dei mezzi espressivi, con la totale eliminazione degli elementi decorativi, esclusi quelli degli ordini, fregi e metope, per esempio, o riquadri e cornici con tutte le loro modanature. Infine, era simile a quella di Alberti la vastità ed eterogeneità degli interessi e degli studi bramanteschi, apparentemente lontani dal dipingere o fare architettura, per esempio gli interessi per la cosmografia, la geografia e la mineralogia. Bramante conosceva tutte le opere di Alberti, il Tempio Malatestiano a Rimini, il palazzo Rucellai e la loggia antistante, la facciata di Santa Maria Novella a Firenze e le chiese di Mantova (almeno in progetto). Ma ben poco di albertiano è riscontrabile nelle sue opere, a dispetto del fatto che la volta a botte cassettonata, i pilastri e l’ordine romano completo di Santa Maria presso San Satiro siano le prime realizzazioni in Italia a seguire l’esempio del Sant’Andrea di Mantova, in costruzione dal 1472 e di cui Bramante può aver visto il modello a Mantova in occasione, come già si è detto, del viaggio verso la Lombardia. Ma le differenze sono più forti delle somiglianze: a Milano i pilastri bramanteschi poggiano provocatoriamente senza basi sul terreno. È stato inoltre osservato che «Bramante si distacca dal precetto albertiano che “l’arco è un architrave curvo, e che agli archi si applicherà la stessa ornamentazione che si darebbe a degli architravi” (Alberti, VII, 15°, I, 10°) dando invece una precisa differenziazione tra gli architravi dell’ordine principale e gli archi esaltati nella loro funzione costruttiva, con i conci denunciati e con il sottarco intensamente decorato» [Borsi 1989, 14]. Anche la cultura, le vicende professionali e la fortuna erano diverse in Alberti e in Bramante: il primo, intellettuale e grande “dilettante” d’architettura, credeva fermamente nel rapporto stretto fra teoria e prassi e intendeva fare di ciascuna opera il paradigma esemplare sia del metodo razionale della progettazione sia di una serie di principi estetici, civili e politici; il secondo trovava invece la giusta e completa dimensione dell’essere architetto nell’impostazione di organismi edilizi nei cantieri, dove avrebbero preso forma quelle strutture sperimentali e nuove di cui egli aveva fatto partecipe, con la sua grande autorità e il suo prestigio, la committenza sforzesca a Milano e quella pontificia a Roma. Però, fuori dai riferimenti formali, nes23

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suno alla fine del Quattrocento aveva assimilato come Bramante la teoria albertiana della concinnitas, o completezza strutturale e formale di un’architettura (che di lì a pochi anni attuerà a Roma nel tempietto di San Pietro in Montorio) e che riprendeva nella sua Opinio super domicilium se Templum magnum (1487-88), la relazione tecnica e teorica scritta in occasione del confronto tra architetti e ingegneri per il tiburio del Duomo di Milano. Nell’Opinio Bramante suggeriva quella “conformità” con l’organismo storico del Duomo, cioè con quanto era stato già costruito, suggerendo un tiburio coerente con «l’ordine de lo edificio», ponendosi in continuità con i suoi moduli quadrati e mostrando un’attenzione alle strutture gotiche di cui sembrava comprendere e accettare la razionalità. Solo Leonardo, come lui, compiendo un’analisi “anatomica” del Duomo e suggerendo un intervento curativo per «il malato domo» che abbisognava di «uno medico architetto», aspirava a conoscere le leggi della fabbrica per intervenire in conformità [Patetta 1987(b), 41 e 43]. Era evidente il riferimento bramantesco e leonardesco alla facciata di Alberti per Santa Maria Novella a Firenze e ai principi enunciati nel libro IX del De re aedificatoria.

Il periodo milanese (1480 ca.-1499) Non sappiamo esattamente quando Bramante sia giunto a Milano, ma certamente vi risiedeva dal 1481, perché vi ha eseguito il disegno per la famosa Incisione Prevedari, firmata e datata a quell’anno, che rappresentava un tempio antico in prospettiva, forse “manifesto” di autopresentazione come artista e al tempo stesso come competente nel linguaggio architettonico più aggiornato. È possibile che sia venuto a Milano di sua iniziativa, magari dopo aver incontrato a Bergamo l’Amadeo e sentito da lui decantare la città sforzesca, ma è anche possibile che sia stato inviato da Federico da Montefeltro per curare i lavori del suo palazzo a porta Ticinese, ricevuto poco prima in dono da Gian Galeazzo Sforza [Pernis 1990]. La Milano degli Sforza e in particolare di Ludovico il Moro si presentava come un favorevole laboratorio per le nuove imprese edilizie promosse dalle ambizioni ducali e come uno degli ambienti più vivaci d’Italia. Era una città ricca e di quasi 100.000 abitanti, era cioè non solo tra le più importanti città d’Italia ma tra le prime anche in Europa. All’inizio del Cinquecento, scriveva Matteo Bandello: «Milano è oggidì la più opulenta e abbondante 24

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città d’Italia, e quella ove più si attende a fare che la tavola sia grassa e ben fornita. Ella, oltre la grandezza sua, che i popoli di molte città cape, ha copia di ricchissimi gentiluomini» [Albini 1992, 388]. La città aveva invitato alcuni greci illustri come Demetrio Castreno e Costantino Lascaris e così era celebrata dal poeta di corte Bernardo Bellincioni come una nuova Atene: «Venite, dico Athene oggi Milano / ove è il nostro Parnaso Ludovico [il Moro]». Bernardino Corio esaltava gli artisti della corte milanese: «nel scolpire erano i maestri, nel dipingere li primi» (1503). Erano stati a lungo in città Giorgio Valla fino al 1485, Francesco Filelfo, fino al 1481, ed Ermolao Barbaro negli anni 1488-89 [Garin 1983]. Il Bellincioni, giunto a Milano nel 1484 circa, scriveva ancora: «Godi Milano che dentro a le tue mura/ De gli uomini excellenti hoggi hai gli honori/ Del Vinci i suo disegni e i suoi colori/ a i moderni e gli antichi hanno paura» [Grayson 1983, 651]. A Milano erano state costruite due biblioteche, quella degli Agostiniani dell’Incoronata e quella dei Domenicani di Santa Maria delle Grazie, “moderne” nella tipologia (come quella costruita da Michelozzo a Firenze) che pare fossero aperte agli studiosi. Bramante vi ha potuto incontrare artisti, scienziati e letterati di notevole livello, ma soprattutto con due di loro ha con continuità intrecciato le vicende progettuali per quasi vent’anni, lo scultore-architetto Giovanni Antonio Amadeo, che è intervenuto personalmente e con la produzione di elementi decorativi della sua fortunata bottega in molte opere bramantesche, e Leonardo (a Milano dal 1482) amico carissimo, che ha citato ripetutamente Bramante nei suoi scritti, lo ammirava e condivideva sia le ricerche architettoniche, per esempio sulla pianta centrale, sia le applicazioni prospettiche e gli esperimenti della tecnica pittorica. Non sappiamo però come i due giudicassero reciprocamente le rispettive opere pittoriche, peraltro decisamente differenti. Vanno ricordate queste citazioni affettuose negli scritti di Leonardo, riguardanti: «gruppi di Bramante» (i famosi nodi decorativi), «Edifici di Bramante», e confidenzialmente, con un soprannome «Modo del ponte levatoio che mi mostrò Donnino». Ricambiava Bramante scrivendo «cordial, caro, ameno socio» [Pedretti 1981, ad indicem]. Un’artista scultore e decoratore in terracotta ha intrecciato la sua attività con quella bramantesca, Agostino de’ Fondulis (o de’ Fondutis). Bramante ha potuto leggere e ripetutamente consultare le numerose copie del trattato di Vitruvio, una di certo in possesso del suo protettore Ascanio Sforza, cardinale fratello del Moro, e una nella casa Panigarola dove ha ese25

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guito gli affreschi degli Uomini d’Arme (a quel tempo di proprietà del poeta Gaspare Visconti, dove è stato ospite dal 1487 al 1492) e un’altra nella biblioteca di Gian Giacomo Trivulzio, nella quale pure è stato ospite [Schofield 1995]. Ha frequentato inoltre il letterato Giorgio Merula, i patrizi Bonino Mombrizio e Ludovico Landriani, il dottissimo senatore Angelo Selvatico e Gerolamo Labia, dei quali scriverà Cesariano [1521, f. 110 r e v]: «Gran coglitori di Aritmetica, Geometria e Architettura […] cultori di questa vitruviana scientia, [e che] dilettavansi di architettura». Con gli affreschi degli Uomini d’Arme Bramante ha introdotto a Milano il primo esempio di decorazione architettonica di una sala, con finte nicchie classiche che ospitavano imponenti figure. Naturalmente aveva potuto ammirare gli affreschi di Vincenzo Foppa nella cappella Portinari (146869), le opere di Bernardino Butinone e la Crocifissione di Giacomo Montorfano (1490 ca.) nel Cenacolo delle Grazie (dove Leonardo dal 1495 dipingerà L’ultima Cena) al cui affresco Bramante è forse intervenuto aggiungendovi la veduta di città. Per tutto il decennio dall’arrivo a Milano fino all’inizio degli anni novanta ha avuto scambi e rapporti col pittore Matteo de’ Fedeli coinvolto nella realizzazione dell’Incisione Prevedari. Un’attribuzione autorevole [Lomazzo 1590] è quella degli affreschi sull’intera facciata del palazzo Fontana Silvestri, che avevano lo scopo di regolarizzare e “modernizzare” un edificio trecentesco. Ancora visibile nell’Ottocento, l’affresco presentava un’orditura architettonica classicheggiante, cornici, fregi e medaglioni, alcune figure nude e poi, in alto, putti e sirene. Da una descrizione settecentesca è stato fatto un ridisegno (1906) che ci permette di ritrovare il carattere bramantesco di questa “architettura picta” [Patetta 1987(b), 340]. Un’altra opera pittorica di Bramante è la tavola del Cristo alla colonna (1490 ca.) eseguita per i Cistercensi dell’abbazia di Chiaravalle, mentre è caduta l’attribuzione dell’Argo, affresco in una sala del castello Sforzesco [Natale 1987]. È stato anche scenografo nel palazzo ducale di Vigevano (1490-94) e in quest’attività, caratterizzata dall’adozione della prospettiva, si collegava con gli allestimenti teatrali di Leonardo, già noto per la famosa Festa del Paradiso al castello Sforzesco (1491), il quale nella scena per la Danae di Baldassarre Taccone (1496) riprendeva il bramantesco finto coro prospettico in Santa Maria presso San Satiro. Nel 1485 ha eseguito lavori nel palazzo di Gian Giacomo Trivulzio e ha eseguito un disegno di rilevamento dell’Ospedale Maggiore del Filarete, per il quale risulta pagato (1485), nel 1489 avrebbe realizzato un tiburio effimero, di 26

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forma ottagonale, davanti al Duomo [Schofield 1988]. Bramante ha frequentato i poeti Gaspare Visconti, Bernardo Bellincioni e Baldassarre Taccone. Egli stesso era autore di alcuni sonetti, in cui riversava alternativamente il suo buon umore e una spiccata allegria di carattere e scoraggiate lamentele sulle sue modeste condizioni economiche: «a fede ch’io non ho un tornese. Deh! tommi un soldo e poi fammi impiccare./ Come? Da Corte non ti fai pagare? / Tu ha pur là cinque ducati al mese» [Beltrami 1884]. Sappiamo che Bramante era un appassionato ammiratore di Dante e «uomo di innumerevoli cognizioni» [Visconti 1493], che conosceva un po’ il latino senza essere però un latinista come Alberti e stando al Cesariano era «di profondissima memoria e gravieloquenza» e avrebbe scritto «grammaticale opuscolo» [Cesariano 1521, c. 91 v]. Sabba Castiglione lo definiva «cosmografo», Domenico Maccaneo lo ricordava nella sua Chorografia [1490, ed. 1975] anche come esperto di rocce, esploratore di cave di marmo e geologo, insomma, in grado di utilizzare queste conoscenze nella costruzione degli edifici. Oltre alla frequentazione del colto musicista Franchino Gaffurio, autore a Milano della Theorica musicae (1492) con cenni sui rapporti tra armonia e matematica, è stato importante per lui come per Leonardo l’arrivo a Milano nel 1496 di fra’ Luca Pacioli. Se l’approfondimento da parte del Pacioli della geometria dei poliedri ha coinvolto Leonardo (autore in gran parte dei disegni dei solidi pubblicati poi nel De divina proportione (1509) e nella cui biblioteca peraltro c’era una copia de La aritmetica del maestro Luca), l’influenza della matematica come mediatrice tra scienza e tecnica deve aver rappresentato per Bramante una conferma di quel suo «opus mathematicos pingere velle modos» già acutamente segnalato dal Maccaneo nel 1490, e che poteva approfondirsi nei fondamenti geometrici e proporzionali degli edifici. Un omaggio bramantesco al Pacioli è forse stata la citazione del suo solido a settantadue facce nei catini absidali della tribuna delle Grazie [Patetta 1987(b), 166]. Luca Pacioli aveva dedicato la prima versione del suo trattato a Ludovico il Moro, cui attribuiva la volontà di far di Milano una città pari a Firenze, ed esaltava nella corte sforzesca il mondo armonico governato dalla matematica, dalla geometria, dall’astrologia, dalla musica, dalla prospettiva, dall’architettura e dalla cosmologia [Pacioli 1509, 55]. A Milano ha incontrato di nuovo (dopo il probabile incontro a Mantova nel 1476) Luca Fancelli e (dopo l’apprendistato a Urbino) Francesco di Giorgio, chiamato nel 1490 per partecipare al “concorso” per il tiburio del 27

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Duomo, e nel 1492 anche Giuliano da Sangallo, forse venuto a illustrare le tecniche per la fusione del cavallo progettato da Leonardo, forse per presentare al Moro il modello di un palazzo o di una villa medicea (Vasari). Bramante ha svolto il lavoro di architetto non solo con un linguaggio nuovo ma in modo differente da quello praticato dai maestri attivi in città nell’età sforzesca: Filarete nell’Ospedale Maggiore, Benedetto Ferrini nella corte ducale del castello, Guiniforte Solari nelle chiese di Santa Maria delle Grazie, di San Pietro in Gessate e nel Duomo, e così via. Non risulta che egli abbia mai diretto a lungo e con assiduità i lavori in un cantiere, svolgendo invece il compito dapprima di progettista-ideatore, o forse di suggeritore, e poi, a lavori iniziati, assumendo il ruolo di responsabile supervisore. Era richiesta dunque una sua approvazione: nei documenti si legge «ad laudem magisteri Bramanti», da cui il termine moderno “collaudo”. Il suo nome compare in lettere e missive ducali, perché probabilmente sempre consultato, e invece non risulta quasi per niente in documenti di cantiere, libri mastri e contratti, relativi a prestazioni d’opera o a forniture o messa in opera di manufatti e decorazioni, tutte cose che invece faceva, per esempio, l’Amadeo, citato in moltissimi documenti [Schofield 1989(c), 49 e segg.]. Bramante deve aver operato affidandosi a collaboratori di cui conosciamo alcuni nomi: Cristoforo Negri e Giacomo Solari (nella canonica di Sant’Ambrogio), Giovanni Battagio (in Santa Maria delle Grazie), Ambrogio Ferrari (nel castello Sforzesco), Cristoforo Solari (nei chiostri di Sant’Ambrogio), l’Amadeo quasi ovunque. Moltissimi sono i nomi di magistri o ingenierii minori il cui nome risulta nei cantieri delle sue opere: Ambrogio da Rosate, Bartolomeo della Valle, Domenico da Rosate, Giovanni da Busto, Giacomo del Marino, esperto quest’ultimo di ingegneria militare [Dacarro 2001, 83]. Bramante non doveva apprezzare molto l’architettura dei maestri lombardi, stando a un passo di un suo scritto (l’Opinio, 1487) in cui li definisce «non esperti». Evidentemente si riferiva alla loro scarsa attenzione e allo studio pressoché nulli dei monumenti antichi della città, in quanto operanti nel solco e nella prassi di una tradizione ancora di stampo tardogotico. Bramante invece era portatore di un modo nuovo e inedito di affrontare il progetto: controllo delle forme col disegno, controllo delle planimetrie con proporzionamenti, moduli, schemi geometrici e misure secondo gli esempi antichi, controllo sintattico del nuovo linguaggio classico, controllo prospettico dei volumi al fine di mettere in evidenza la tridimensionalità degli 28

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edifici. Dovette accettare però, non sappiamo se con disappunto oppure con disinvolto adattamento, la tradizione locale e lombarda che prediligeva una decorazione sovrabbondante, con motivi di varia provenienza, prevalentemente eseguita in terracotta. Anche quando ha potuto realizzare facciate con i soli ordini architettonici, escludendo la decorazione applicata, Bramante ha dovuto accettare che le paraste, le trabeazioni, i timpani, le cornici e i fregi classici fossero realizzati con mattoni messi di “coltello” o con formelle di cotto, perdendo così una parte di un loro più preciso disegno. Comunque, è sempre evidente una grande differenza tra le sue opere e, per esempio, la facciata della Certosa di Pavia dell’Amadeo (1488-97) e l’esterno di Santa Maria della Croce a Crema del Battagio, dove l’architettura era ridotta a un’intelaiatura di elementi pronta a ospitare formelle plastiche e sculture in un affastellamento di motivi da vero e proprio horror vacui, tale da rendere gli elementi architettonici quasi illeggibili [Patetta 1993, 243 e 1998]. Però a Milano Bramante ha potuto imbattersi e prender atto di almeno quattro architetture “moderne” importanti e meritevoli di un’attenta osservazione: il filaretiano Ospedale Maggiore (1462 e segg.), il Duomo, enorme cantiere e «gran macchina» vedendo la quale egli avrebbe deciso di «darsi all’architettura» (Vasari), l’organismo a pianta centrale di Santa Maria della Passione (dal 1486), impostato dal Battagio come un ottagono “quadricoro” con quattro bracci sporgenti, e il Lazzaretto, forse progettato da Lazzaro Palazzi (dal 1488), ammiratissimo e poi assunto come modello un po’ ovunque. Del periodo milanese sono due scritti di Bramante: la già ricordata Opinio scritta nel 1487 poco prima del consulto di più ingegneri, maestri e architetti per il tiburio del Duomo, nella quale illustrando la sua soluzione comunicava alla cultura locale i principi albertiani della “congruenza” e “conformità” opportune nel completamento di una fabbrica incompiuta, e una “Relazione tecnica” a seguito di un sopralluogo a Creola in val d’Ossola (1493) su richiesta di Ludovico il Moro per esaminare alcune fortificazioni: un riconoscimento dunque di competenza come ingegnere militare. D’altronde, dal 1492 era diventato ingeniarius ducalis. Il primo cantiere in cui Bramante ha potuto mostrare la sua capacità di architetto è stato quello di Santa Maria presso San Satiro (1480 circa, e seguenti) dove egli ha introdotto notevoli novità: la volta a botte, albertiana, gli archi su pilastri, la cupola emisferica cassettonata, le nicchie con con29

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chiglia decorativa, alla Brunelleschi, la sagrestia ottagonale “all’antica” con matroneo e piccole absidi diagonali. San Satiro è la testimonianza della sua attenta osservazione di quanto restava allora in città di monumenti romani, e, se il primo progetto fu davvero a pianta centrale, l’imponente San Lorenzo a impianto centrico con deambulatori resterà come modello permanente negli sviluppi della sua progettazione anche a Roma. Della sua perizia come “prospettico” è il coro che simula in breve profondità tre campate di cui era impossibile l’edificazione e che fu chiamato da Gian Galezzo Sforza, ammirato, «suo mirabile artificio». In Santa Maria presso San Satiro Bramante ha utilizzato un grande decoratore lombardo, Agostino de’ Fondutis (o de’ Fondulis). Dal 1489 Ludovico il Moro ha deciso di rinnovare, secondo il linguaggio della nuova architettura, la chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie, edificata poco prima, dal 1463 al 1480 circa, da Guiniforte Solari, fedele ai modi tardogotici della tradizione lombarda. È attribuito a Bramante, ormai diventato ingegnere ducale, anche se in assenza di esplicita documentazione, il progetto della nuova tribuna, costruita dal 1492 al 1499 in sostituzione del transetto e del coro precedenti. È possibile che nel 1497, alla morte di parto della sposa Beatrice d’Este e dell’erede, Ludovico pensasse alla tribuna come a un mausoleo sforzesco. L’impianto bramantesco era una grande tricora, con i tre bracci absidali e con il quadrato centrale coperto da una cupola semisferica di oltre venti metri di diametro interno. Alla costruzione ha partecipato l’Amadeo, sicuro realizzatore della parte alta del tiburio a sedici lati con loggette a colonnine di marmi policromi, che ricopre la cupola, e forse anche responsabile delle decorazioni in terracotta sulle pareti esterne. Non sono da escludere suggerimenti di Bramante sia per il chiostrino limitrofo alla tribuna, sia per la sagrestia nuova in forma di piccola basilica absidata. Comunque, Bramante ha potuto intervenire in uno dei complessi architettonici più “aggiornati” della città, con una biblioteca a tre navate, probabilmente quella sulla quale più tardi il Cesariano baserà la descrizione della tipologia ideale [1521, cc. 107-108], e con un enorme refettorio con l’alta volta lunettata. L’ultima opera milanese è da intendersi come una complessa ristrutturazione della basilica romanica di Sant’Ambrogio. Infatti, in concomitanza con le richieste di Ludovico il Moro di progettare una canonica sul fianco nord della basilica e del cardinale Ascanio Sforza di progettare i chiostri del monastero dei Cistercensi a sud, Bramante ha ricavato una serie di cappel30

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le lungo le due navate laterali, ha realizzato una sagrestia e la cappella di Santa Giustina al posto delle due absidi. Sia la canonica, impostata come un “foro” quadrato, con portici e alloggi su due piani, sia i chiostri con un altissimo piano terreno porticato e celle al primo piano, distribuite da una galleria centrale, sono state due novità tipologiche, poi imitate un po’ ovunque in Italia e a Milano nel Cinquecento, per esempio nei chiostri di San Simpliciano (di Vincenzo Seregni) e di San Vittore (di Galeazzo Alessi). Molte opere gli sono state attribuite, senza documentazione: a Milano, la Ponticella (stando a Cesariano) nel castello Sforzesco, dove peraltro Bramante ha certamente lavorato nella cortile della Rocchetta (si è fatto il suo nome per il quarto lato del cortile, 1490) e la cappella Pozzobonelli (1498); ad Abbiategrasso il protiro di Santa Maria Nuova (1497) attribuitogli dal 1700 (De Pagave), almeno per quanto riguarda il primo ordine in basso. Meno convincente è l’attribuzione del cortile del palazzo Carmagnola, ristrutturato nel 1495 per l’amante del duca Cecilia Gallerani e di cui il disegno di un capitello è attribuito a Leonardo [Patetta 2001(b), 160]. La sua alta qualità ha fatto scrivere nell’Ottocento da uno storico dell’arte milanese: «uno di quei lavori in cui il Moro mise più che altrove a contributo l’alta virtù del maestro d’Urbino, Bramante, e dove tutta la plejade luminosa degli artisti che in quel momento illustravano l’arte dello scalpello, i Mantegazza, i Cazzaniga, i Busti, i Solari, i Caradosso, il Dolcebuono, il Fusina, il Briosco e soprattutto l’Omodeo, si erano dati convegno per gareggiare d’operosità e di fantasia» [Mongeri 1872, 422]. Per l’eleganza del portico e per la raffinatezza dei capitelli corinzi (eseguito negli anni 1498-99) non è da escludere almeno una sua consulenza o un suo disegno anche per il palazzo dell’arcivescovo Guido Arcimboldi [Patetta 1987(b), 292 e segg.]. È stato fatto il suo nome anche per la chiesa di Santa Maria di Canepanova a Pavia (1489-92), forse per l’impianto ottagonale all’interno e quadrato all’esterno, con nicchie e sfondati nonché con matronei, proprio come la sagrestia di San Satiro. Sicuramente ha partecipato con Leonardo, Amadeo, Dolcebuono e Francesco di Giorgio sia al concorso per il tiburio del Duomo (1490) sia all’impostazione del progetto per il duomo di Pavia (1488-90), dove gli viene attribuita la cripta con la volta simile a realizzazioni romane a Tivoli e negli orti Sallustiani. Infine, sembra davvero impossibile che Ludovico il Moro non abbia consultato Bramante e Leonardo, suoi ingegneri ducali, per la progettazione della grande piazza porticata di Vigevano (1492-98), dove Bramante é stato presente alle 31

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migliorìe al locale castello (per esempio nella torre, attribuitagli dalla storiografia ottocentesca, e alla loggia delle Dame) e per seguire l’esecuzione di affreschi. Grande è stata l’influenza più o meno diretta di Bramante per l’architettura milanese e lombarda del primo Cinquecento, dopo il suo trasferimento a Roma. Cesariano nel suo già ricordato Vitruvio (1521) non solo lo cita ripetutamente, riconoscendolo come suo maestro, ma ne riprende nella tavola delle Palestre nel Foro (L.V, XXVII v) il partito architettonico dei chiostri di Sant’Ambrogio. Probabile allievo diretto era invece Cristoforo Solari il Gobbo che ha costruito dal 1506 al 1513 il triportico davanti a Santa Maria presso San Celso con l’“ordine romano” di pilastri-archi e colonne accostate reggenti la trabeazione, non per nulla attribuito tradizionalmente a Bramante. D’altronde, il Solari aveva probabilmente seguito (dal 1499) i lavori del chiostro grande dell’abbazia di Chiaravalle, replica bramantesca di quelli di Sant’Ambrogio, per gli stessi Cistercensi, e negli stessi anni (1509-13) dirigeva i lavori di edificazione dei chiostri di Sant’Ambrogio, seguendo e sviluppando quanto era indicato nel modello bramantesco. Ancora formatosi, se non altro come pittore, nell’ambito bramantesco (si pensi all’affresco dell’Argo nel castello Sforzesco) era il Bramantino, autore nel 1512 della cappella Trivulzio davanti alla basilica di San Nazaro che reinterpretava liberamente l’impianto centrico, ottagonale con nicchie all’interno, della sagrestia di San Satiro e a cui sono attribuite le Antiquarie Prospectiche Romane Composte per Prospectivo Melanese depictore dell’inizio del XVI secolo [Kristeller 1913; Robertson 1993]. Restano anonime, ma di stampo nettamente bramantesco e, sei si vuole, debitrici anche dei numerosi studi di Leonardo, due straordinarie piante centrali: San Magno a Legnano (1504-11) e Santa Maria in Piazza a Busto Arsizio (1517-22). Su San Magno si legge nella Storia delle chiese di Legnano di Agostino Pozzo (1650): «Questa fabbrica è disegno per quello si tiene di Bramante architetto de’ più famosi habbi hauto la cristianità». La pianta è un ottagono al quale lungo gli assi principali sono annesse brevi braccia, mentre negli angoli sono aperte quattro coppie di cappelle. Compaiono le paraste piegate ad angolo e le lunette con conchiglia del milanese San Satiro. Per Santa Maria in Piazza sono stati fatti, ipoteticamente, i nomi di Antonio da Lonate (forse allievo del Battagio) e di Tommaso Rodari (scultore e architetto attivo al duomo di Como). Il primo avrebbe impostato la pianta, quadrata ma tagliata negli angoli da archi diagonali formanti nicchie 32

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e cuffie, per la quale si è ipotizzata dal cronista Crespi Castaldi (XVI sec.) l’esistenza di un disegno bramantesco, «Bramanti secutus exemplar» [Patetta 1996, 54].

Il periodo romano (1500-1514) «Innanzi lo anno Santo del Millecinquecento», come scrive Vasari, Bramante era a Roma dopo aver abbandonato Milano all’arrivo delle truppe francesi di Luigi XII, guidate dal maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, probabilmente temendo d’essere perseguitato come architetto di fiducia dello sconfitto duca Ludovico il Moro. Doveva essere arrivato negli ultimi mesi del 1499. Le notizie del suo primissimo impatto con la città papale è descritto con precisione da Vasari, che può essere in questo caso ritenuto assolutamente attendibile, perché si è basato su notizie apprese da persone che avevano conosciuto Bramante: lo scrittore delle Vite era infatti giunto a Roma già nel 1531. Leggiamo nella Vita di Bramante da Urbino: «Aveva recato di Lombardia e guadagnati in Roma a fare alcune cose certi denari; i quali con una masserizia grandissima spendeva, desideroso poter vivere del suo et insieme, senza aver a lavorare, potere agiatamente misurare tutte le fabbriche antiche di Roma. E messovi mano, solitario e cogitativo se n’andava; e fra non molto spazio di tempo misurò quanti edifizii erano in quella città, e fuori per la campagna, e parimenti fece fino a Napoli, e dovunque e’ sapeva che fossero cose antiche; misurò ciò che era a Tiboli et alla Villa Adriana […] e se ne servì assai». Particolarmente interessanti sono due annotazioni vasariane: che Bramante “misurava” cioè rilevava i monumenti antichi, e che lo faceva da solo, senza collaboratori e aiuti di una bottega, che peraltro non avrà mai, singolare condizione che caratterizzerà anche tutto la sua attività progettuale del periodo romano. Alla fine del Quattrocento Roma poteva mostrare alcune architetture rinascimentali di grande qualità: la loggia delle Benedizioni (1462 e segg.) citazione degli ordini sovrapposti del Colosseo, forse su suggerimento albertiano, il palazzo Venezia edificato con il suo giardino e la loggia di San Marco con arcate “alla romana” dal cardinal Paolo Barbo poi papa Paolo II [Frommel 1998, 383], le opere degli architetti di papa Sisto IV, Jacopo di Pietrasanta e Baccio Pontelli, le chiese di Sant’Agostino, Santa Maria della Pace e San Pietro in Montorio, e infine il palazzo del cardinale Raffaele 33

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Riario (oggi della Cancelleria) d’una imponenza senza precedenti. Vi stava lavorando Antonio da Sangallo il Vecchio, ma nel grande cantiere, che comprendeva anche il rimaneggiamento della chiesa di San Lorenzo in Damaso, erano passati altri non documentati architetti, forse il Mantegna, Baccio Pontelli, Giuliano da Sangallo e Andrea Bregno. Nel palazzo Riario Bramante è forse intervenuto nel completamento dell’ultimo ordine del cortile e della trabeazione di coronamento. Sicuramente Bramante, agli inizi dell’attività a Roma, deve aver considerato con attenzione ma forse anche con dialettico distacco il carattere archeologizzante e le evidenti citazioni di monumenti antichi [Borsi 1989, 234] che il palazzo Riario esaltava. Peraltro, la sua facciata a bugnato piatto, con regolare ritmo di paraste d’ordine corinzio su alti piedestalli appariva del tutto simile a quella del palazzo Castellesi, in costruzione nel borgo vaticano dal 1499, e nel quale Bramante doveva essere stato coinvolto se non altro come architetto collaboratore, forse dal 1500 al 1503. Per Vasari del palazzo «fu suo il disegno» e in effetti sembrano bramanteschi i massicci pilastri reggenti le arcate del cortile porticato, alternativi in forma più “romana” delle colonne del cortile della Cancelleria. Il cardinale Adriano Castellesi, legato a papa Alessandro VI, primo protettore di Bramante, doveva essere entrato proprio per questa ragione in rapporti con lui, ed averlo consultato quando si doveva adeguare l’altezza del palazzo alle prescrizioni riguardanti la realizzazione della via Alessandrina e controllate dai magisteri viarum. Anche a Roma Bramante ha proseguito l’attività di pittore: si ricorda un suo affresco in San Giovanni in Laterano, oggi perduto ma ancora visibile nel Seicento, al tempo degli interventi del Borromini. Nell’affresco compariva l’arme di Alessandro VI, il pontefice di cui Bramante divenne ben presto «sottoarchitettore», iniziando una prima attività d’architetto di cui però poco sappiamo: risulta consultato per la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli e per Santa Maria dell’Anima. Ha lavorato a due fontane, una «fonte di Trastevere e parimenti quella che si fece in sulla piazza di San Pietro» (Vasari). Le attribuzioni sono state confermate in alcune cronache e guide di Roma dei secoli successivi [Borsi 1989, 230]. Come a Milano, Bramante ha frequentato artisti e letterati, in amicizia con l’antichista Andrea Fulvio, con Marco Fabio Calvo, esperto di Vitruvio, con il letterato Baldassare Castiglione autore de Il Cortigiano (1513), ha avuto rapporti con Raffaele Riario; ha avuto committenti colti come il cardinal Carafa, collezionista di antichità e Adriano Castellesi e ha cominciato a frequenta34

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re ben presto la corte vaticana, di certo dal 1503 quando è diventato papa, col nome di Giulio II, Giuliano della Rovere. Bramante si è presentato dunque a Roma come un artista colto e in grado di colloquiare alla pari con pontefici, cardinali e umanisti, e apprezzare i contributi filologici dell’Accademia di Pomponio Leto. Sappiamo che ha letto e commentato Dante a papa Giulio II e che il poeta e umanista Marcantonio Casanova gli ha dedicato un sonetto (è tra i suoi Carmi latini) considerando dunque che -cosa abbastanza rara- l’architetto doveva conoscere almeno un po’ il latino e veniamo a conoscenza (dal Vitruvio di Giovanni Battista Caporali, 1536) di una cena di Bramante con Pietro Perugino, il Pinturicchio, Luca Signorelli e il pittore Bartolomeo Caporali. Problematici e “dialettici” sono stati i suoi rapporti con Egidio da Viterbo e addirittura turbolenti quelli con Michelangelo (a Roma dal 1496 al 1501 e poi dal 1505), prima per l’ipotesi di collocare la tomba monumentale di Giulio II al centro del nuovo San Pietro in corso di progettazione, poi per le impalcature realizzate da Bramante al fine di consentire l’esecuzione degli affreschi michelangioleschi sulla volta della cappella Sistina, ad un’altezza di 20 metri. Più tardi, nel 1513, alla fine dunque della sua vita e vicino alla morte, Bramante ha ritrovato Leonardo, giunto in quell’anno a Roma e alloggiato nella villa di Innocenzo VIII in Vaticano, proprio dove erano in corso i lavori bramanteschi. Il suo modo del tutto nuovo di affrontare la progettazione architettonica come momento successivo a una profonda assimilazione di «scienza e disegno […] delle cose antiche» (Vasari) è stato subito colto ed apprezzato dalla generazione di artisti e architetti più giovani, che hanno saputo ritrovare nei suoi progetti e nelle sue opere, già pienamente valutabili entro il 1510, la stessa “scienza e disegno”. Questa capacità, nonché intenzione, di servirsi direttamente dei rilevamenti delle antichità è stata forse la qualità bramantesca che più ha colpito i sui contemporanei: Raffaello scriveva di lui, nel 1513, che «aveva svegliato l’architettura», portandola «assai prossima alla maniera degli antichi», e Sebastiano Serlio più tardi [L. IV, 1540] ribadiva: «si può dire ch’ei suscitasse la buona architettura, che dagli antichi fino a quel tempo era stata sepolta […] inventore (cioè scopritore) et luce della buona et vera architettura». Raffaello lo ha ritratto nell’affresco de La Scuola di Atene nelle Stanze Vaticane (1510) come Euclide che con le seste disegna poligoni geometrici e ne La disputa del Sacramento (1509) come un saggio (o un teologo) che indica a giovani seguaci un libro di teologia, ma sugge35

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rendo un’analogia con il testo teorico di Vitruvio indicato agli architetti. Raffaello, che si può considerare come il principale e diretto suo allievo ed erede (come vedremo) ha disegnato per il primo nel cartone de La predicazione di San Paolo (1511 ca.) il tempietto di San Pietro in Montorio non ancora del tutto completato. Bramante, dal canto suo, potrebbe, secondo un’ipotesi molto accreditata aver disegnato il cartone (oggi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano) dell’affresco di Raffaello La Scuola di Atene: vi compare l’interno in prospettiva di un organismo simile a quello che sarebbe stato il San Pietro bramantesco, con la grande volta a botte e il tamburo della cupola su pennacchi trapezoidali. Anche per questa collaborazione tra il maturo architetto e il giovane pittore abbiamo la testimonianza vasariana: «insegnò molte cose di architettura a Raffaello da Urbino, e così gli ordinò i casamenti che poi tirò di prospettiva nella camera del papa». Indiscutibilmente gli sono stati debitori tutti i giovani architetti che hanno avuto la fortuna di venire in contatto con questo maturo maestro (a Roma è vissuto dall’età di 56 a quella di 70 anni, nel 1514, anno della morte): Raffaello, Baldassare Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane, Jacopo Sansovino ed altri, e poi capimastri, come Cola da Caprarola, decoratori e scultori che saranno attivi nei decenni successivi. In una rivalità molto forte, e più di una volta dai toni accesi, va tenuto presente che alcuni dei giovani architetti erano già precocemente attivi: Peruzzi iniziava la costruzione della villa Farnesina nel 1509, Antonio da Sangallo il Giovane lavorava in alcuni cantieri tra cui quello di Santa Maria di Loreto nel 1507 e iniziava l’edificazione di palazzo Baldassini nel 1512, e nel 1506 giungeva Andrea Sansovino, pittore e scultore, chiamato da Giulio II probabilmente su suggerimento di Giuliano da Sangallo, portando con sé il giovane Jacopo Sansovino. Bramante si è confrontato con Giuliano da Sangallo e forse anche col fratello Antonio il Vecchio per rivalità e concorrenza “alla pari” negli incarichi professionali, e con Michelangelo per due differenti concezioni del rapporto e della gerarchia tra pittura, scultura e architettura. Giuliano da Sangallo era un’autorità, attivo a Roma già prima del 1500, poi ripetutamente dal 1505, cioè all’inizio degli studi per San Pietro. Nel 1506 incontrava Bramante a Bologna dove si era recato con papa Giulio II e ancora a Roma nel 1508 si legava d’amicizia, forse opportunisticamente, con Michelangelo, suggerendo al papa di fargli dipingere la volta della Sistina. Sicuramente dal 1508 Raffaello ha scelto come suo maestro Bramante, che gli «insegnò molte cose di architettura» (Vasari) e forse con 36

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lui ha discusso del trattato di Vitruvio e delle idee per San Pietro di Giovanni da Verona, detto fra’ Giocondo, umanista, letterato, studioso di antichità, di problemi urbani e di ingegneria, il quale stava studiando proprio in quegli anni (1500-1508) le strutture dei ponti romani. Fra’ Giocondo doveva essere stato a Roma, se pur brevemente, nel 1507, dopo il soggiorno a Parigi, «essendo richiesto dal Papa», al quale deve aver mostrato la sua famosa planimetria di schema basilicale per San Pietro [Frommel 1994, 604]. L’incontro, molto probabile anche se non documentato, di questo «frate dottissimo» (come lo ha chiamava Raffaello) con Bramante non poteva che esser stato ricco di importanti scambi, considerando che fra’ Giocondo stava preparando l’edizione con xilografie del trattato di Vitruvio, pubblicato infatti a Venezia quattro anni dopo, nel 1511. Sono stati forse condizionati dal clima culturale di Roma alcuni prodotti teorici bramanteschi di concezione del tutto nuova. Nel 1501 circa egli ha disegnato una prospettiva urbana, in cui gli edifici sembravano voler testimoniare le differenti possibilità del linguaggio architettonico classico ad arcate o a trabeazioni e sottolineare la varietas teorizzata da Alberti nel De re aedificatoria, pubblicato solo sedici anni prima (1485). Vi compaiono anche differenti tipi di finestre e un arco di trionfo. Può darsi che questa prospettiva urbana rientrasse nella novità del tempo, cioè le prime scenografie teatrali che avranno grande sviluppo di lì a pochi anni, può darsi invece che fosse un aggiornamento di quel “manifesto” architettonico che era stato all’inizio del periodo milanese l’Incisione Prevedari. Forse ancora nel 1501 ha scritto -la maggioranza degli storici ne è convinta, ma alcuni l’attribuiscono al Bramantino- l’opuscolo Antiquarie prospettiche romane composte per prospectivo Milanese depictore, dedicato all’amico Leonardo, in cui indicava con precisione molti monumenti romani, introdotti da una xilografia rappresentante un uomo simbolicamente nudo e ritorto, sullo sfondo del Colosseo. Avrebbe scritto e illustrato Disegni di antichità romane, codice detto anche Le Rovine di Roma (manoscritto cartaceo conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano) in cui sono disegnate numerose piante centrali, rotonde, cruciformi, poligonali, periptere ecc. e i relativi prospetti [Grassi 1983, 487], mostrando che l’interesse spiccato per queste tipologie poteva poggiare ora su una concreta conoscenza diretta di monumenti antichi di Roma, in particolare tombe, mausolei e martyria. Ha poi iniziato a scrivere ben tre trattati, tutti perduti: stando alla testimonianza di Anton Francesco Doni [Libraria seconda, 1555], i tre scritti teorici avrebbero 37

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affrontato rispettivamente le proporzioni degli ordini (Rustico, Dorico, Jonico, Corinto e Composto), le proporzioni anatomiche per il comporre armonico, alcune tecniche costruttive; in un trattato si accennava al «lavoro tedesco» (certamente fondato sulla conoscenza del Duomo di Milano) e sul «modo di fortificare». Quest’ultimo tema avrebbe confermato la sua esperienza nel campo dell’ingegneria militare maturata nel ducato milanese, tanto da farlo consultare e coinvolgere ben presto nei lavori di rinforzo di castel Sant’Angelo e di potenziamento delle rocche di Viterbo e Civitavecchia. Ma anche sulle tecniche costruttive, cioè sul complesso delle questioni relative alla firmitas vitruviana, Bramante avrebbe scritto un trattato (o manuale), stando a Doni (1555), contenente le sue conoscenze e i risultati di esperienze di cantiere: «Delle volte di getto intagliate, del far lo stucco, delle colature dell’acqua che si conducono le fontane rustiche et l’ha chiamato Pratica di Bramante et dentro insegna i modi d’appiccar […] le pietrecotte, il modo di fare pavimenti commessi onde chi legge questo non si tosto vede un edificio che subito conosce se gl’è proporzionato o no, saprà dire di tutte le parti che se gli convengono a star bene universalmente». Nella progettazione, Bramante ha introdotto a Roma la rappresentazione tridimensionale di organismi spaziali e strutturali complessi, con un ideale di magnificenza pari a quella imperiale antica, e con un linguaggio che si affermava come un sigillo di universalità. La maniera “matura” di Bramante escludeva la decorazione aggiunta e applicata, fondandosi perentoriamente sull’autonomia costruttiva di pilastri, colonne, trabeazioni, archi e volte, nonché di modanature e cornici ricavate dai monumenti indagati direttamente in modo rigoroso e scientifico. Tuttavia, l’imitazione dell’antico era in lui sempre libera e non formalistica, ma al contrario era al servizio di una forte inventività e di uno spregiudicato empirismo. Egli ha lavorato ponendo dialetticamente l’ordinatio e la dispositio vitruviane in rapporto con il decor (forse memore dei suggerimenti albertiani) ma riconducendo sempre quest’ultimo a un fondamento strutturale. I primi committenti importanti, e solo suoi, sono stati il cardinale Oliviero Carafa, colui che lo aveva fatto nominare sotto-architetto pontificio di Alessandro VI, nella cerchia del quale Bramante era subito entrato a far parte, e che gli ha commissionato il chiostro di Santa Maria della Pace, e i reali di Spagna che, tramite il cardinale spagnolo Bernardo Lopez de Carvajal, hanno finanziato l’edificazione del tempietto di San Pietro in Montorio. 38

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Il chiostro di Santa Maria della Pace è stato forse la sua prima opera a Roma, progettata e completamente edificata tra il 1500 e il 1504. Bramante vi realizzava per la prima volta una completa organizzazione gerarchica degli spazi e soprattutto degli ordini, pilastri e archi al piano basso, pilastri e colonne nel piano alto, architravato, controllando a un livello assoluto la perfezione proporzionale delle parti e dell’insieme. Privo di decorazioni aggiunte, il chiostro era dunque la prima radicale applicazione del linguaggio romano dei teatri e degli anfiteatri nel portico, ma al piano superiore mostrava le grandi possibilità di una creatività attiva rispetto ai modelli ed anche un’eleganza e una raffinatezza tipica dell’età rinascimentale. Comunque, veniva ripreso in forme più “classiche” il partito architettonico già sperimentato nei chiostri di Sant’Ambrogio a Milano: ogni campata presentava in basso un’apertura vasta, ad arco e al piano superiore due aperture architravate, ridotte anche in altezza. Anche qui, come a Milano, una colonna del piano alto poggiava “scorrettamente” sul vuoto di un arco del portico sottostante. Nel tempietto di San Pietro in Montorio (1502-1507 ca.) Bramante ha impostato un organismo periptero rotondo, di ordine dorico con trabeazione completa di triglifi e metope, sormontata da una balaustra a colonnine, forse più tarda (elemento questo che avrà un grande successo per tutto il Cinquecento e oltre). Il tempietto fu certamente ispirato dal sacello, dal martyrium e dal tholos dell’antichità, nonché da almeno due templi di Vesta, uno a Roma e uno a Tivoli. Terminando alla sommità con un tamburo e una cupola semisferica e dando vita a un organismo perfetto, il tempietto ha costituito un prototipo poi a lungo imitato. Attorno avrebbe dovuto svilupparsi un cortile rotondo, porticato con colonne d’ordine dorico, una sorta di recinto come quello delle terme romane, che avrebbe isolato ed esaltato la compiutezza del monumento funerario. Questo organismo costruito da Bramante sembrava aver raggiunto quella concinnitas o assoluta perfezione formale teorizzata da Alberti, testimoniando l’ideale coincidenza del culto dell’Antico e del Cristianesimo. Non a caso, fu riprodotto nei trattati di Sebastiano Serlio (1540), di Pietro Cataneo (1554) e di Andrea Palladio (1570) come la prova che per merito dell’architetto urbinate l’architettura “moderna” aveva raggiunto ed emulato quella degli antichi. La sua prima celebrazione risale al 1544 ca., nel testo dell’Anonimo Magliabechiano (o Gaddiano): «fatto di travertino, tutto dell’opera Dorica, molto hornato e molto ben condotto che certo per quel 39

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che si vede di suo si può dire, che da gli antichj in qua non ci sia stato meglio, né huomo che meglio habbia inteso le cose antiche et che l’habbia contrafatte» [Frey 1892, 125]. Ma il più grande committente di Bramante fu il pontefice Giulio II, che dal 1505 al 1513, anno della sua morte, lo coinvolse direttamente in tutti i grandiosi lavori per la trasformazione dei palazzi vaticani e per la ricostruzione ex novo della basilica di San Pietro. Oltre all’impostazione delle logge di San Damaso (edificate più tardi) l’architetto progettò il cortile del Belvedere, collegando con una grandiosità senza precedenti la parte bassa del Vaticano con la quattrocentesca villa di Innocenzo VIII, in alto sul colle. Cinque volte più grande della piazza di Vigevano, il cortile del Belvedere intendeva essere teatro all’aperto e replica di una grande villa imperiale. Molto ammirata, e poi più volte imitata, è stata la scala elicoidale, o “a lumaca”, retta da colonne nella successione dei cinque ordini. Però, la frettolosità dei lavori ha provocato dei crolli che, uniti alla demolizione dell’antica basilica di San Pietro, valsero a Bramante la caustica definizione di «mastro ruinante». Per il nuovo San Pietro, che doveva contenere la tomba papale commissionata a Michelangelo (1505), Giulio II aveva esaminato i progetti di Giuliano da Sangallo e di fra’ Giovanni Giocondo prima di affidare l’incarico a Bramante, di cui, comunque, deve aver preso in esame più di una soluzione. L’interesse già manifestato dagli architetti del Quattrocento per il tema della pianta centrale veniva portato nell’occasione vaticana a proporzioni gigantesche, corrispondenti alla richiesta simbologia del potere religioso e politico del primo tempio della Cristianità. I molti disegni pervenutici testimoniano i riferimenti bramanteschi sia ai grandi organismi compositi (la crociera inscritta e circondata da croci minori) sia ai recinti architettonici degli antichi impianti termali, sia alla monumentalità simmetrica: cinque cupole, quattro absidi, quattro torri. Ma i disegni testimoniano anche soluzioni diverse, sia tipologicamente che nell’orientamento e nel rapporto con il complesso vaticano e con la piazza, o meglio lo spiazzo antistante, ancora informe. Nel 1513, stanco e ammalato, Bramante è stato sostituito da Giuliano da Sangallo e da Raffaello: quest’ultimo, l’allievo e l’erede suggerito dal maestro a papa Leone X, con fra’ Giocondo, dal 1514, alla morte di Bramante, dirigerà, anche con alcune varianti, il cantiere per sei anni. Un’opera di modeste proporzioni ma significativa è stato l’ampliamento del 40

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coro di Santa Maria del Popolo (1505-1509), dove l’architetto ha affiancato un vano coperto da una volta a botte con grandi cassettoni (ispirati dal Pantheon) e un’abside semicircolare conclusa da una grande conchiglia stilizzata. Nel 1505 Jacopo Sansovino vi aveva realizzato la monumentale tomba del cardinale Ascanio Sforza, committente di Bramante a Milano e a Pavia: un arco di trionfo con sarcofago e statue. La prima attribuzione esplicita e perentoria è stata di Vasari nella seconda edizione delle Vite (1568): «l’accrescimento della cappella maggiore di Santa Maria del Popolo fu suo disegno». Stando ancora a Vasari, Bramante avrebbe progettato palazzo Caprini nel Borgo Nuovo, poi detto casa di Raffaello (1501 o 1510) con facciata caratterizzata in modo nuovo da coppie di colonne e con un basamento rustico con aperture simili alle botteghe antiche di Ostia. Del palazzo ci restano soltanto una famosa incisione di Antonio Lafréry rappresentante la facciata (1559) e un disegno attribuito a Palladio. In questo edificio sarebbe stata utilizzata da Bramante una tecnica muraria romana: «palazzo lavorato di mattoni e di getto con casse […] invenzion nuova del fare le cose gettate» (Vasari). A Bramante è stato attribuito, come si è detto, anche palazzo Castellesi, pure nel Borgo Nuovo (esistente, ma come palazzo GiraudTorlonia) riconosciuto sia nel secondo Cinquecento, sia in età neoclassica come ammirevole opera di grande qualità, del più puro classicismo, ed anche exemplum del nuovo palazzo romano cinquecentesco. La facciata in bugnato piatto, scandita da coppie di paraste, è ripetutamente stata messa in diretto rapporto con quella del palazzo della Cancelleria. Sempre per papa Giulio II Bramante avrebbe progettato un grandioso palazzo dei Tribunali (1508) che sarebbe dovuto sorgere sulla via Giulia, da poco tracciata come una nuova strada su disegno dell’architetto. Conosciamo l’impianto da due disegni del collaboratore più attivo del maestro, cioè Antonio di Pellegrino [Frommel 1974]. L’impianto è notevole: un vasto cortile con portici a massicci pilastri distribuisce una complessa articolazione di aule, sale e camere varie, e presenta ben otto scale, con una caratterizzazione dunque da nuovo e “moderno” edificio pubblico, in particolare destinato ad ospitare gli uffici giudiziari dello Stato Pontificio. Al centro del corpo di fabbrica di fronte all’ingresso si incastrava la chiesa di San Biagio (non finita e poi distrutta), una pianta centrale allungata, con nicchie scavate nelle murature, di cui ci resta anche un disegno di Baldassarre Peruzzi. Per la chiesa abbiamo la testimonianza dell’Anonimo Magliabechiano o 41

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Gaddiano (1544 ca.): «Et per il detto Bramante si vede la fabbrica di San Biagio in strada Julia, cominciata ne tempi di Julio». Poco più tardi Vasari aggiungeva: «Bramante diede principio al palazzo c’ha San Biagio sul Tevere si vede, nel quale è ancora un tempio corintio non finito, cosa rara, et il resto di opera rustica bellissimo: che è stato gran danno che una sì onorata et utile e magnifica opra non sia finita, ché da quelli della professione è tenuto il più bello ordine che si sia visto mai in quel genere». Altre sono le architetture attribuite convenzionalmente a Bramante, ma senza alcuna prova documentaria. La chiesa dei Santi Celso e Giuliano in Banchi, per la quale l’unica testimonianza d’epoca è ancora quella dell’Anonimo Magliabechiano o Gaddiano: «et per il detto Bramante si vede una parte di San Celso in Banchi» [Fabriczy 1893] di cui resta un disegno di Antonio da Sangallo il Giovane (agli Uffizi) che mostra una pianta a quincunx con nicchie scavate nei muri, in diretto rapporto con gli studi per San Pietro, pianta che si ritrova anche nella parrocchiale di Roccaverano che pure sembra di stampo bramantesco [Morresi 1991, 96]. Il ninfeo di Genazzano (forse 1507-11), un padiglione da giardino forse per feste o come scena per spettacoli teatrali, oggi in rovina e con l’aspetto di un rudere antico, è costituito da due ambienti coperti a crociera con in mezzo un ambiente cupolato; l’organismo è completato da una serie di tre ambienti minori, pure coperti a crociera e con una piccola abside. Vi compaiono due elementi singolari: la serliana, ripresa precoce se non la prima di un loggiato della villa Adriana a Tivoli e destinata a un grande successo per tutto il Cinquecento, e una serie di oculi aperti negli arconi in testata, memori di quelli affrescati nella tribuna di Santa Maria delle Grazie a Milano. Un’altra anticipazione va forse segnalata a Genazzano: l’aver adottato un ordine “rustico” che verrà più tardi suggerito dal Serlio nel suo trattato [L. III, 1540] proprio per occasioni di questo tipo nei giardini o per le porte urbane. Il telaio architettonico del rivestimento della casa della Madonna (150809), per la quale ha fatto un modello ligneo Antonio di Pellegrino (consueto collaboratore del maestro) riguardo al quale Vasari testimonia: «Fece ancora il disegno et ordine dell’ornamento di Santa Maria di Loreto, che da Andrea Sansovino fu poi continuato», alludendo alle sculture: «non poteva (la Santa Casa) quanto al mondo ricevere maggiore né più ricco e bell’ornamento di quello che gli ebbe dall’architettura di Bramante e dalla scultura d’Andrea Sansovino» (in Vita di Sansovino). Ancora a Loreto Bramante può aver impostato il palazzo Apostolico tra il 1508, il 1510 (modello di 42

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Antonio di Pellegrino) e il 1513 (lavori del collaboratore bramantesco Gian Cristoforo Romano). Vi ha diretto i lavori tra 1513 e il 1514 Andrea Sansovino, sostituito poi da Antonio da Sangallo il Giovane che ha lasciato scritto: «principiato per Bramante, guidato male per lo Sansovino bisogna correggerlo» [Borsi 1989, 319]. Il palazzo Apostolico doveva chiudere una grande piazza-sagrato, pensata come un foro romano, con la continuità su tre lati davanti alla basilica. Ne sono stati costruiti solo due, nei quali compare il doppio ordine di loggiati, dorico e ionico; quello dorico é simile al portico del chiostro di Santa Maria della Pace e tutto il palazzo presenta la tipica essenzialità architettonica senza decorazioni, come nel cortile del Belvedere. Della villa papale alla Magliana restano alcuni disegni di Giuliano da Sangallo (1513-14), ma il cantiere sembra da alcuni documenti affidato al Bramante negli ultimi mesi di vita di Giulio II e alla salita al soglio di Leone X, impegno paragonabile ai lavori nella Rocca di Viterbo (1506-8), in castel Sant’Angelo (1506 e 1512) e a Civitavecchia (1513). Lavori più riconoscibili e importanti sono stati quelli in Vaticano, a cominciare da una importante ristrutturazione dei palazzi papali, prevista ma non compiuta, -«fece un disegno grandissimo per restaurare il palazzo del Papa» (Vasari)- e dall’impostazione delle logge del cortile di San Damaso (15071508), previste nel fronte ovest di un corpo di fabbrica, e cioè aperte verso la piazza. Bramante ne ha impostato i piani bassi, come si vedono in un disegno di Antonio di Pellegrino (conservato agli Uffizi) ma le logge sono state poi edificate da Raffaello. Il Teghurio venne edificato intorno all’anno 1513 come protezione dell’altare nel San Pietro in costruzione. L’esecuzione fu completata da Baldassarre Peruzzi. Ne abbiamo conoscenza solo da due vedute del pittore fiammingo Marten van Heemskerck (1538) che mostrano un organismo con tre arcate su pilastri e colonne addossate, la trabeazione, un alto attico e un timpano con visibile la falda del tetto. Sembra tutt’altro che una costruzione effimera: appare destinata, come appunto sarà, a durare per quasi un secolo (la sua demolizione avverrà nel 1592). Precisa è la testimonianza dell’Anonimo Magliabechiano o Gaddiano (1544 ca.): «E in detto San Pietro v’è anchora uno ornamento all’altare maggiore, fatto dal detto Bramante di peperigio (il marmo peperino), tutta opera Dorica». Per un programma di renovatio Romae suggeritogli da Egidio da Viterbo, generale degli Agostiniani, Giulio II ha messo in atto una «strategia urbana» [Tafuri 1984(a), 64] utilizzando come tecnico Bramante che, d’altronde, dal 1503 era architetto pontificio. Agganciandosi agli interventi nel 43

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Borgo Nuovo avviati da Alessandro VI, il piano del papa e di Bramante aveva un nodo o cerniera nella piazza del ponte di Castel Sant’Angelo, il Forum Pontis, come si legge nella mappa di Roma del Bufalini (1551), tra le «viae urbis rectae et latae», la via Sistina, allargata da Bramante, la via Giulia aperta su suo disegno nel 1508 e un collegamento dalla via de’ Banchi con la prevista piazza tra il palazzo del Tribunale e l’antistante Cancelleria Vecchia. Inoltre, Bramante avrebbe anche allargato la via Lungara, al di là del Tevere. La via Giulia era dunque una fondamentale strada nuova e nuovo centro degli uffici pontifici, amministrativi, notarili e giudiziari, prima dispersi in città ed ora accentrati, come conferma Vasari, scrivendo quarant’anni più tardi: «Si risolvé il Papa di mettere in strada Giulia, da Bramante indirizzata, tutti gli uffici e le ragioni in un luogo, per la commodità ch’a i negozianti averia recato nelle faccende, essendo continuamente fino allora state molto scomode». Una grande opera, nella quale è riconoscibile un’impronta bramantesca, è il santuario di Santa Maria della Consolazione a Todi (dal 1507-1508), una pianta centrale a croce greca, isolata, fuori dalla città. È stata più volte attribuita a Bramante, a cominciare da un documento del 1574 in cui si diceva che il modello era stato eseguito su suo disegno: «iuxta modellum quod conspicitur a perito Architecto Bramante nuncupato designatum» [Bruschi 1994, 517]. Dunque, forse derivata da un suo disegno, la Consolazione è stata eseguita da Cola da Caprarola, un capomastro della sua cerchia, che certamente conosceva molto bene i disegni per San Pietro. Particolarmente riferibili al maestro sono, malgrado le modifiche nel proseguo dei lavori, la cupola semisferica su alto tamburo e le grandi esedre sporgenti dal vano centrale quadrato. Nel 1513 era progressivamente sempre più stanco ed ammalato. Vasari (Vita di Antonio da Sangallo) ci descrive il suo allontanamento dal lavoro e la necessità di affidare ad altri i suoi incarichi, oltre il cantiere di San Pietro che, come già abbiamo visto, veniva affidato a Giuliano da Sangallo e a Raffaello: «era vecchio e dal paretico impedito le mani, non poteva come prima operare»; Antonio da Sangallo il Giovane veniva dunque chiamato «a porgergli aiuto ne’disegni che si facevano […] dandogli Bramante l’ordine che voleva, e tutte le invenzioni e componimenti che per ogni opera s’avevano a fare». Il grande architetto è morto a Roma l’11 aprile del 1514.

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Gli scritti di Bramante Bramanti opinio super domicilium seu templum magnum (il tiburio del Duomo di Milano), 1487-1490. Secondo l’opinione mia circa a la intelligentia, M(magnifici) Deputati, del presente tiburio, quattro cose vi bisognano, de le quali la prima si è forteza, la seconda conformità cum el resto de l’edificio, le terza legiereza, la quarta et ultima belleza […] Quanto a la seconda cosa, cioè conformità, dico questo edificio esser partito in quattro corpi diversi in altezza, ma in largeza sono d’una ugualità […] Questo è quel quadro, sopra il quale se porà ponere il quarto corpo, e chiamasse tiburio, perché el è quadro, e perché tutto l’altro resto de la chiesa ad quello se reduce […] Ma si como voi rompete l’ordine de lo edificio per volerlo fare (il tiburio) in octavo, così conviene rompere l’ordine del dricto de contrafforti per confarli al tiburio […] Quanto a la quarta cosa che è belleza, quanto più alto se andasse, più bello sarebbe... Pubblicato da Giuseppe Mongeri nel 1878 e ancora negli Annali della fabbrica del Duomo di Milano nel 1880 [Patetta 1987(b); Di Teodoro 2001], l’Opinio riguardava il famoso “concorso” del 1490 per il tiburio del Duomo, cui parteciparono, oltre a molti maestri lombardi, Leonardo, l’Amadeo, il Dolcebuono e Francesco di Giorgio. Per il progetto bramantesco del Tiburio (non pervenutoci) sono qui pubblicati l’incisione del Cesariano e un modello ligneo (cfr. p. 77). Un sonetto di Bramante, 1490 ca. El mio mantel de zò fa mille frappe, pensa po’ quel che fano i borzachini, chi se n’van per dispecto a giappe a grappe. Quelle mie calze che già vostre furo Immaginate un fico ben maturo E tutta la lor forma intenderete. Erno le calze mie tutte stracciate Unte più che tovaglie da taverne Tal che i ginocchi per pietà fraterne L’un pianse ad un balcon/ l’altro andò frate. Elle han messo appetito a più d’un sordo, Vedendole aprir gli occhi in sul sedere, 45

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Delle mie belle carni fatto ingordo. [...] come il tempo si muta in un momento si muta il mio pensier che gli è seguace. Di Bramante ci sono pervenuti più di venti sonetti, per la maggior parte scherzosi [Vecce 1995], recitati da lui stesso forse cantando e suonando «in su la lira» come ricorda il Vasari. Il poeta e amico Gaspare Visconti scriveva che Bramante spesso lo criticava: «il mio doctor Bramante, mi morde quando il verso è grosso e umile» (Sonetto XXI, 1493). Giovanni Battista Caporali precisava: «(Bramante) da prima fu pittore e non mediocre et di facondia grande ne’ versi […] di poi pervenne all’architettura» [Caporali 1536]. I Trattati di Architettura di Bramante Bramante architettore. Bisognerebbe che ogni eccellente maestro scrivesse sempre della sua arte: acciocché operando e scrivendone un’altro, la s’andassi sempre migliorando. Ottima cosa anzi necessarissima sarebbe che colui che tien questo tesoro di Bramante ascoso lo tirasse fuori. Questi son cinque libri d’Architettura. Il primo tratta del Rustico, del Dorico il secondo, del Ionico il terzo, il quarto del Corinto e l’ultimo del Composto. In questi libri si vede perché il Rustico è più nano e di grossezza di tutti gli altri per essere fondamento e principio di tutti gli altri ordini. Il Dorico più massiccio che avessero i Greci, più robusto di fortezza e di corpo. Il Ionico perché è più svelto e perché il lavoro Corinto piacque generalmente a’Romani, et Toscano. In somma, tutto quello che si può desiderare dell’architettura è là dentro. Ha poi fatto un trattato del lavoro Tedesco, et delle volte di getto intagliate, del far lo stucco; delle colature delle acque che si conducono le fontane rustiche: et l’ha chiamato Pratica di Bramante. Et dentro insegna i modi d’afficcar le telline, le pietre cotte, il modo di fare i pavimenti commessi: onde chi legge questo non sì tosto vede un’ edificio, che subito conosce se gl’è proporzionato o no, et saprà dire di tutte le parti che se gli convengono a star bene universalmente. Anton Francesco Doni, La seconda Libraria, Venezia 1551, Pratica di Bramante, Libro I. Bramante avrebbe scritto anche Modi di fortificare. Libri tre, oltre i testi sugli ordini e le tecniche costruttive. Recentemente è stato attribuito a Bramante anche il cosiddetto “manoscritto di Ferrara” scritto probabilmente all’inizio del ‘500, in cui sono stati riscontrati disegni ed espressioni letterarie a lui riportabili [Pizzigoni 2007]. 46

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Alcune citazioni di Bramante nei documenti Magister Donatus de Barbantis de Urbino filius domini Angeli (contratto in Santa Maria presso San Satiro, 4 dicembre 1482); secundum apparire […] magistri Donati dicti Barbanti de Urbino (contratto per la sagrestia di Santa Maria presso San Satiro, 1483); magister Abramante pictor (pagamento per un disegno dell’Ospedale Maggiore, 1485); ingeniarius et pictor (nell’elenco degli ingegneri attivi a Milano intorno al 1490); nostro ingegnere (Ludovico il Moro, Patente ducale 1497); maystro Bramante inzignero (ordinazione di marmi per Santa Maria delle Grazie, 1494); ingegnerius ducalis ellectus ad hoc (contratto per una fornitura alla Canonica di Sant’Ambrogio, 1497); in laude magistero Abramante ducal ingegniero (citato per lavori in Sant’Ambrogio, 1498); Magister Bramantes architector de Urbino (contratto per lavori alla Rocca di Viterbo, 1506); dilectus filius Bramans, architectus noster (nota di papa Giulio II, 1507); (papa Giulio II) ogni sera si fa legere Dante e dichiarar da Bramante architecto doctissimo (lettera papale, Bologna 13 dicembre 1510). Primi giudizi e testimonianze su Bramante Quanto è Bramante al mondo huom singolare/ ciascun a questa estate il vede e intende/ e si potrebbe più presto numerare/ nel ciel le stelle e anime sante/ che dir le cognition ch’ha in se Bramante. [Gaspare Visconti, De duo amanti, 1493 ca.] Di queste cose (rocce e pietre) abbiamo scritto secondo il parere di Bramante [...] geometra, architetto e poeta in volgare, consultissimo del nostro secolo, che intendente di scienza descrisse questa regione, indagando con acutezza la natura delle cose. L’autore si riferiva alle esperienze e alle conoscenze bramantesche di rocce, pietre e gemme preziose, come i rubini, che si trovavano nelle montagne del lago di Como. In una sua poesia (Ad magnanimum Gasparem patronum) l’autore osservava un’altra qualità bramantesca: 47

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È di Bramante recitare versi nella volgar lingua, e voler dipingere modos mathematicos. [Domenico Maccaneo, Chorographia lacus Verbani, Milano 1490]. Avvenga che ai dì nostri l’architettura s’è molto svegliata e venuta assai prossima alla maniera degli antichi, come si vede per molte belle opere di Bramante. [Raffaello, Lettera a papa Leone X, 1517 ca., forse redatta con Baldassarre Castiglione]. convenerà saper luminare per qualchi loci da l’alto, sì como fece il mio preceptore Donato, cognominato Bramante urbinate, in la Sacrastia di la aede di Sancto Satiro in Milano […] lo mio primario praeceptore […] di profondissima memoria e graviloquentia. […] il primario Architetto et commutatore et amplissimo refundatore (dell’architettura). Dunque, rifondatore una seconda volta, dopo Brunelleschi, il primo fondatore dell’architettura del Rinascimento. [Cesare Cesariano, Vitruvii De Architectura…, Como 1521, c. 4 v, 21 v, 46 v]. Fu adunque al tempo di Giulio secondo pontefice massimo Bramante da Casteldurante di Urbino, huomo di tanto ingegno nell’architettura che con l’aiuto ed autorità che gli dette il sopra detto Pontefice si può dire ch’ei suscitasse la buona Architettura che dagli antiqui fino a quel tempo era sepulta. [Sebastiano Serlio, Libro III, Venezia 1540]. E non si può negare che Bramante non fu sì valente nell’architettura quanto ogni altro che sia stato dagli antichi in qua. Lui pose la prima pietra di Santo Pietro non pieno di confusione ma chiara e schietta e luminosa e isolata a torno che non noceva a chosa nessuna del palazzo; e fu tenuta cosa bella, come ancora è manifesto; in modo che chiunque si è discostato da decto ordine di Bramante, come à fatto il Sangallo, s’è discostato dalla verità. [Michelangelo, Lettera a Bartolomeo Ferratino, 1546 ca.]. Bramante delle Penne di San Marino, huomo di grande ingegno, cosmo48

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grafo, poeta volgare e pittore valente, come discepolo di Mantegna e gran prospettivo come creato di Piero del Borgo (Piero della Francesca), ma nell’architettura tanto eccellente. [Sabba da Castiglione, Ricordi overo ammaestramenti, Venezia 1549, CXI]. Di grandissimo giovamento alla architettura fu veramente il moderno operare di Filippo Brunellesco, avendo egli contraffatto l’opere egregie de’più dotti e maravigliosi antichi […] Ma non fu manco necessario che Bramante in questo tempo nascesse, acciò seguitando le vestigie di Filippo, facesse a gli altri dopo lui la strada sicura nella professione della architettura, essendo egli di animo, valore, ingegno, scienza in quella arte non solamente teorico, ma pratico et esercitato sommamente. […] La virtù si estese tanto negli edifici da lui fabbricati, che le modanature delle cornici, i fusi delle colonne, la grazia de’capitegli, le basi, le mensole et i cantoni, le volte, le scale, i risalti et ogni ordine d’architettura tirato per consiglio o modello di questo artefice, riuscì sempre meraviglioso a chiunque lo vide. Laonde quello obligo eterno che hanno gli ingegni che studiano sopra i sudori antichi, mi pare che ancora lo debbano avere alle fatiche di Bramante. […] Fu Bramante persona molto allegra e piacevole […] amicissimo delle persone ingegnose […] e si dilettò sempre di giovare a’ prossimi suoi. [Giorgio Vasari, Vita di Bramante da Urbino, architettore, Firenze 1550]. Leonardo soleva dire, stando esso a Milano, che Roma è ’l vero maestro de l’arte, che cade sotto il dissegno […] Bramante Architetto affermava ch’a coloro che vengono mastri a Roma in questa professione, era necessario spogliarsi à guisa de i serpi di tutto ciò ch’avevano altrove imparato, et ciò provava egli con l’esempio di sé medesimo, dicendo che prima ch’egli vedesse questa città si dava a credere d’esser pittore, et Architetto eccellente, ma che dopo haverla praticato molti anni s’avvide dell’error suo, il che fu cagione che datosi a dissegnare una gran parte de gl’edifitij antichi di Roma, di Tivoli, di Preneste et d’altri assai luoghi studiando, notando et imparando qualche cosa di nuovo ogni giorno, aperse la strada à l’antica buona et regolata Architettura. [Lettera di Guglielmo della Porta a Bartolomeo Ammannati, in Taccuino di Dusseldorf, 1560 ca.].

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ne’ tempi del detto Papa (Giulio II) fiorì Bramante Architettore di sommo pregio, il quale essendo mediocre pittore, ma huomo di svegliato e singolar giudicio nell’arte dell’architettura, ciò conosciuto da quel Pontefice, cotal occasione gli diede, che egli pervenne a quel grado di lode, che per le sue opere egregie si scorge. [Benvenuto Cellini, Due Trattati, uno intorno alle otto principali arti dell’oreficeria, l’altro in materia dell’arte della scultura, Firenze 1568]. sotto il pontificato di Giulio II Bramante huomo eccellentissimo e osservatore degli Edifici Antichi fece bellissime fabbriche in Roma e dietro lui seguirono Michelangelo Buonarroti, Jacopo Sansovino, Baldasar da Siena, Antonio da Sangallo, Michele da San Michele, Sebastiano Serlio, Giorgio Vasari, Jacopo Barozio da Vignola e il Cavalier Lione”. […] M’è paruto con ragione doversi dar luogo (nel Trattato di architettura) fra le antiche alle opere sue». [Andrea Palladio, I quattro libri dell’Architettura, Venezia 1570, Libro IV]. Alcune critiche a Bramante ALESSANDRO: -Se non sbaglio questo è Bramante. SAN PIETRO: -Qual Bramante? ALESSANDRO: -Il nostro architetto. SAN PIETRO: -Il distruttore del mio Tempio? ALESSANDRO: -Anzi di Roma tutta e il mondo, se avesse potuto. […] SAN PIETRO: -Salute a te, o Bramante, se pur rechi frutti degni di salute. BRAMANTE: -Che vuol dire questo recar frutti? Con buona grazia, tu mi tratti subito con poca civiltà. In verità, se gli altri beati ti somigliano, non m’importa molto di questa vostra beatitudine. […] SAN PIETRO: -Dovevi odiar i vizi, sollevare gli oppressi, e far bene quanto potevi. BRAMANTE: -Nessuno ha fatto questo meglio di me […] e te lo provo. SAN PIETRO: -Ti ascolto. BRAMANTE: -Quelle che ti hai testé indicate, sono proprio parti e i doveri degl’architetti, ed io spero per lungo esercizio di esse di non esser annoverato ultimo tra questi. SAN PIETRO: -Spiegami un po’ meglio per qual ragione quelle siano proprio parti dell’architetto. BRAMANTE: -Allorché un architetto deve fare qualche opera, è d’uopo che 50

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prima pensi in qual luogo ponga le fondamenta, di qual forza consolidi le mura, e di qual grossezza le debba innalzare, acciocché, se poi l’opera risulta viziata in qualche parte, non ne sia screditato e vada in fumo la gloria della sua professione. Quindi ogni architetto che sa bene il suo mestiere, ha sempre odiato i vizi. […] SAN PIETRO: -Perché tu hai raso al suolo il mio tempio di Roma, che colla sola antichità sembrava chiamare a Dio gli animi più irreligiosi? BRAMANTE: -È falso ch’io l’abbia ruinato, furon gli operai a farlo, e per comando di Papa Giulio. SAN PIETRO: -Tua fu questa trappola: dal tuo consiglio e da i tuoi malefizi fu indotto Giulio: per tua direzione ed ordine lo abbatterono gli operai. BRAMANTE: -Tu la sai lunga: confesso il fatto. […] SAN PIETRO: -Sei riuscito nel tuo progetto? BRAMANTE: -No: perché Giulio lasciò che si demolisse la chiesa vecchia; ma per rifar la nuova non diè mano alla borsa, creò solo indulgenze e come li chiamano, i diritti confessionali […]. Il poemetto satirico, scritto tre anni dopo la morte di Bramante, oltre a un ritratto caricaturale della megalomania di papa Giulio II e della figura del grande architetto, avviava per il primo la sua fama di “maestro ruinante”, dovuta sia alla demolizione dell’antica basilica di San Pietro, sia ad alcuni crolli nel cortile del Belvedere. Nel poemetto Bramante, con arroganza, proponeva una scala “a lumaca” (quella da lui realmente costruita nel Belvedere e molto criticata) che permettesse di salire comodamente a cavallo fino al cielo. Inoltre, egli intendeva anche riprogettare il Paradiso. [Andrea Guarna da Salerno, Simia opus novum, Milano 1516, ed. Roma 1970]. Contemplando le rovine e gli edifici, che crollavano per colpa dell’architetto di nome Bramante, o meglio Ruinante, come veniva normalmente chiamato per le rovine e le demolizioni da lui provocate sia a Roma che altrove. [Paride De Grassis, Diarium, 1513/4, in L. Frati, 1886]. Hebbe questo architetto un vitio nelle sue fabbriche: che quelle male fondava come in effecto si può vedere in quella parte del Palatio (il castello di Vigevano) del giardino verso la strada coperta ove sono le bellissime camere che gittò tante fessure che se Ferdinando Gonzaga Governatore de 51

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Stato per Carlo V Imperator l’anno 1548 non avesse fatto refondere sarian cascate e così in molti altri lochi a Roma , ove dimostrò il suo grande ingegno, in simile errore cascò. [Simone Dal Pozzo, Estimo, 1551, Archivio di Stato di Milano, Sezione Vigevano, c. 535]. Stimolava Bramante oltre l’invidia il timore che aveva del giudicio di Michelagnolo il quale molti suoi errori scopriva. Per ciò che essendo Bramante come ognun sa dato a ogni sorta di piacere e largo spenditore; né bastandogli la provvisione datagli dal Papa quantunque ricca fosse; cercava d’avanzare nelle sue opere facendo le muraglie di cattiva materia, e alla grandezza e vastità loro poco ferme e sicure. L’autore ricordava poi i necessari interventi «a rifondere e fortificare» in San Pietro, nel corridore del Belvedere, nel convento di San Pietro in Vincoli e in altre fabbriche bramantesche. [Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo, 1553].

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Raffaello, ritratto di Bramante come Euclide, La Scuola di Atene, 1510 (Stanze Vaticane).

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LE OPERE DEL PERIODO MILANESE

Incisione Prevedari, bulino, 700x518 mm, 1481 (Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli).

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INCISIONE PREVEDARI 1481, bulino, 700 x 518 mm Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli.

fregi all’antica, dei pilastri (e non colonne) con archi sormontati da una trabeazione, alla romana su alti plinti. Le invenzioni bramantesche delle vele aperte da oculi (la “luce zenitale” che ben presto realizzerà nella sagrestia di San Satiro), della “testa passante”, della “ruota radiata”, saranno poi riprese in opere architettoniche del periodo milanese quali Santa Maria presso San Satiro e la tribuna di Santa Maria delle Grazie; oculi a raggera compariranno anche alla fine del periodo romano nel ninfeo di Genazzano. Per quanto riguarda l’architettura, probabilmente interpretabile come un edificio sacro a croce inscritta (forse il tempio di Giano), si osserva che l’asse prospettico coincide col candelabro, anche se poi alla costruzione albertiana della fuga prospettica, oltre l’arco dell’edificio in rovina, si aggiunge sulla destra un secondo spazio che costituisce un fattore di asimmetria e disequilibrio. È stato notato [Tafuri 1989] che un tempio messo in prospettiva e uno spazio “doppio” caratterizzava anche la Flagellazione di Piero della Francesca sicuramente nota a Urbino. D’altro canto, Bramante era allievo di quel Bartolomeo Corradini, detto fra’

Il disegno di Donato Bramante, tradotto all’incisione su matrice di rame intagliata dal pittore Matteo Fedeli e quindi affidato allo stampatore Bernardino Prevedari, fu quasi un manifesto di un orientamento classicista, nuovo per l’ambito milanese, assumendo cioè un significato teorico e normativo per la progettazione architettonica. Fu anche la presentazione del talento di un “pittore prospettico” portatore delle ultime esperienze pittoriche d’ambito urbinate. Appena arrivato in città, Bramante dimostrava una conoscenza della grammatica e della sintassi dell’antichità romana, segnalando però anche subito quella libertà nei riferimenti all’antico che caratterizzerà tutta la sua vita. La grande incisione, dal formato davvero senza precedenti nella produzione locale (di cui restano soltanto due esemplari, uno a Milano l’altro al British Museum di Londra) presentava la figura di un San Barnaba inginocchiato e scorciato all’interno di uno spazio sacro, interessante per il ricco repertorio antiquariale -possibili le tangenze padovane, ferraresi, urbinati, pierfrancescane e mantegnesche- e per gli elementi classici della nicchia e dei due 57

Carnevale, cui sono state anche attribuite le famose Tavole Barberini (forse della fine degli anni sessanta), in cui compaiono figure umane piccole in uno scorcio prospettico di edifici alti e monumentali [Bruschi 1985; F. Borsi 1989; S. Borsi 1997]. Queste figure esili e scattanti erano molto diverse da quelle che comparivano negli affreschi praticamente coevi degli Uomini d’Arme, mentre la nicchie e le decorazioni architettoniche coincidevano in parte. Va notato che l’ombra allungata del santo in preghiera (ripreso probabilmente dal Cristo della Preghiera nell’Orto o da una figura della Ascensione di Cristo di Mantegna, rispettivamente del 1455 e del 1460), avendo una direttiva ancora diversa, genera un cono d’ombra prospettico e, come uno gnomone, stabilisce l’ora del giorno attraverso la posizione del sole. È stato notato come nell’Incisione Prevedari «coesistano i momenti dell’ordine e del caos, accentuati dalla enigmaticità della rappresentazione, dove sacro e profano sono in equilibrio singolare anche dal punto di vista iconografico» [Strinati 1994]. D’altronde, la devozione della figura cristiana in preghiera contrastava con la paganità di altre figure e del tempio in rovina.

La complessità dell’architettura qui messa in prospettiva con perizia e rigore necessitava di un preciso e completo disegno in pianta, come sarà più tardi per il tempio nella Consegna delle chiavi di Raffaello (1504) e come sarà tecnicamente illustrato nel trattato di Sebastiano Serlio [Libro II, 1545]. La misura prospettica del pavimento avrà un enorme fortuna nella pittura del Rinascimento, essendo anche più volte adottata negli spazi urbani e all’aperto. Questa opera di Bramante ha avuto grande fortuna sia nell’ultimo scorcio del secolo, sia nel Cinquecento, quando, vista in occasione della presenza di armate straniere francesi e spagnole in Lombardia, ha potuto influenzare direttamente artisti francesi, tedeschi e fiamminghi [S. Borsi 2001]. Bibliografia: L. Beltrami 1917, 155; C. Baroni 1944, 16-17; W. Suida 1953, 13-16; P. Murray 1962, 25; A. Bruschi 1969, 150 e segg. e 745-750; C. Alberici 1978, 3-35 e 1980; G. Ferri Piccaluga 1985, 127-154; A. Bruschi 1985, 45-46; F. Borsi 1989, 146; M. Tafuri 1989, 86-87; C. Strinati 1994, 502; S. Borsi 1995, 100, 1997, 101129 e 2001, 99; M. Doring 2001, 376; A. Bruschi 2002(b), 33.

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SANTA MARIA PRESSO SAN SATIRO Milano, dal 1481

Quando nel mese di settembre del 1477 si verificò un miracolo attribuito a un’immagine della Vergine che si trovava in loco, essendole stato «recato guasto da alcuni malfattori» [Baroni 1968], il duca Gian Galeazzo Sforza decise di far erigere un edificio nuovo per custodirla. Donato Bramante intervenne a lavori iniziati (probabilmente dal 1482) quando già era stato edificato un oratorio presso l’antico sacello di San Satiro (IX secolo) piccolo edificio cruciforme, e un campanile preromanico (XI secolo). I lavori devono essere cominciati nel 1478, ben presto abbandonando il primo oratorio per erigerne uno nuovo nel punto dove oggi si trova la cupola. Si trattava di un edificio di stampo solariano, di cui quattro contrafforti esistono ancora, con parti di decorazioni in terracotta, nell’attuale sottotetto [Patetta 1987]. Dall’anno 1482 troviamo documentato alcune volte e a vario titolo il nome di Donato Bramante, così come quelli di Agostino de’ Fondutis (o de’ Fondulis), incaricato di decorazioni in terracotta con teste e fregi all’antica (1483), di Giovanni Antonio Amadeo (1486), per realizzare una facciata di marmi policromi (da sottoporre all’approvazione di Bramante),

e dei fratelli Gabriele e Giovanni Battagio, pure per decorazioni (1487). La data della commissione dell’organo, 1490, può essere assunta come quella della conclusione dei lavori più importanti. Tra le opere bramantesche certe si deve annoverare il celebre finto coro prospettico, definito prontamente dal duca Sforza «mirabili artificio» [Lise 1974], e la sagrestia (1483 ca.) che riprendeva e reinterpretava sia prototipi tardoantichi che battisteri romanici lombardi, e anche forse i sacelli della basilica di San Lorenzo: un alto vano ottagonale con matroneo e nicchie angolari alternate a “sfondati” e per la prima volta la soluzione bramantesca delle paraste piegate “a libro”. Nella sagrestia compariva la caratteristica ricerca bramantesca di un’illuminazione zenitale (con otto oculi aperti nella cupola, come già indicato nella sua Incisione Prevedari). Per l’autografia del progetto della sagrestia fa testo il passo del trattato del Cesariano (1521): «La Sacristia de la Aede del Divo Satiro è stata architettata dal mio preceptore Donato da Urbino cognominato Bramante». Nel coro di Santa Maria presso San Satiro Bramante si avvaleva della sua esperienza di pittore prospet59

tico e di abile realizzatore di “sfondi architettonici” per attuare con sorprendente virtuosismo un bassorilievo dorato e colorato, ottenendo il prolungamento dello spazio reale in uno spazio solo rappresentato: in una profondità di poco più di un metro Bramante simulava un coro di tre campate profondo circa 14 metri, che non poteva essere realizzato per l’esistenza di una strada, l’attuale via del Falcone. All’interno della chiesa compariva il sistema dell’arco “romano” inquadrato dall’ordine, pilastri cruciformi con lesene di ordine corinzio, sorprendentemente privi di basi, volta a botte (forse derivante dal Sant’Andrea albertiano di Mantova) e cupola emisferica cassettonata. Sia all’interno che sulla facciata nella via del Falcone comparivano gli ordini “gerarchizzati”, piccolo e medio nei pilastri della navata, per esempio, e maggiore in quelli sotto la cupola. Mentre la facciata principale è opera stilistica del XIX secolo, la facciata posteriore sulla via del Falcone, originaria, costituiva il primo esempio a Milano di una composizione affidata esclusivamente agli ordini classici, paraste, trabeazioni e timpani, dunque senza quella ricca plastica ornamentale, caratteristica della tradizione lombarda del Quattrocento. Tre erano le concessioni alla tradizione locale: le paraste erano ottenute con risalti di mattoni, i capitelli erano in pietra di ordine corinzio ma non molto classico, e la cupola emisferica era racchiusa in un tiburio

cilindrico coperto a tetto, elemento lombardo se pur qui attualizzato con nicchie e paraste. Forse anche una concessione ai modi lombardi erano le decorazioni in terracotta di Agostino de’ Fondutis. Nell’angolo della parte centrale della facciata compariva per la prima volta la soluzione bramantesca delle due paraste accostate, mentre le pareti presentavano elementi geometrici, telai e pannelli, anch’essi realizzati in mattoni. Tutte queste soluzioni architettoniche erano novità assolute per la cultura milanese, ma non solo. Due le ipotesi più rilevanti degli studiosi: la prima vorrebbe che della chiesa venisse prima realizzato il solo transetto, e aggiunto successivamente il corpo con le tre navate [Förster 1956; Bruschi 1969; Borsi 1989], la seconda sostiene che Bramante intendesse adottare, con un primo grandioso progetto, un impianto centrico, a croce greca, primo esempio di compiuta concinnitas (secondo le indicazioni di Alberti), un progetto successivamente ridimensionato a causa dei già ricordati vincoli e contingenze. Il progetto originario, corrispondente alla forte personalità di Bramante, sarebbe stato costituito da una croce greca a navata unica, simmetricamente affiancata da due cappelle e da quattro torri, e avrebbe avuto forse l’accesso costituito da un arco di trionfo, come il Sant’Andrea di Mantova [Patetta 1987 e 2001]. Due passi dei trattati di Cesariano e di Giovan Battista Caporali (autore vitruviano 60

che Bramante conoscerà a Roma) possono forse riferire di uno stato originario della chiesa (come indicato nelle piante qui pubblicate): «Nicchie capellete in circuito fatte di bassorilevo […] si come ha architetato epso Bramante» e «capellete poste in circuito» (simili dunque a quelle del progetto più o meno coevo del duomo di Pavia). Alla contrazione di questo progetto originario apparterrebbe la soluzione del mirabili artificio, cioè del finto coro prospettico ed illusorio. Inoltre, alcuni resti di decorazione esterna in terracotta e tracce di affreschi recentemente riportati alla luce proverebbero due cose: che l’organismo bramantesco sarebbe stato impostato a partire dai pilastri angolari di un primo oratorio quadrato, simile alla cappella Portinari, e che la sagrestia di Santa Maria presso San Satiro sarebbe restata per un certo periodo come un edificio isolato [Patetta 2001]. Gli affreschi sulla parete accostata alla navata laterale, riscoperti nel corso di recenti restauri della parte alta della sagrestia, dimostrerebbero che le navate laterali della chiesa sono state edificate in un tempo successivo, e che solo allora è stato possibile collegare direttamente l’organismo ottagonale alla chiesa e farne una funzionale sagrestia. Allo

scopo di rivelare l’aspetto di questo alto organismo a torre è stato eseguito il modello che qui viene pubblicato. Bramante avrebbe anche “restaurato” l’antico sacello di San Satiro (ritenuto allora romano e riconsacrato come cappella della Pietà), rendendo circolare la sua originale forma quadrilobata, corredandola di nicchie e di paraste e di una trabeazione sottogronda. Nel 1497 è documentata la fondazione di una cappella, forse quella intitolata a San Teodoro [Baroni 1944] in capite ecclesie: l’impianto generale si comporrebbe così attorno al corpo centrale cruciforme, di quattro cappelle e di un raddoppio simmetrico dell’antico sacello di San Satiro. Bibliografia: C. Cesariano 1521, ed. 1981, I, 4 v e IV, LXX v; G. B. Caporali 1536, VII, 74 e 103; G. Biscaro 1910, 105; F. Malaguzzi Valeri 1905, II, 38; C. Baroni 1944, 21 e 1968, II, 106 e 110; O. H. Förster 1956, 90; A. Palestra 1969, 156, 1972, 79 e 1986, 249; A. Bruschi 1969, 158 e 751; G. Lise 1974, 112; C. L. Frommel 1983, 149; G. Ferri Piccaluga 1985, 127; L. Patetta 1987(b), 176 e segg., 1994, 505, 2001(b), 110; F. Borsi 1989, 61 e S. Borsi 173 e segg.; R. Schofìeld, G. Sironi 2000, 17.

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Milano. Santa Maria presso San Satiro, veduta esterna.

Prospetto sulla via del Falcone.

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Planimetria ipotetica del progetto originale.

Pianta della chiesa eseguita probabilmente secondo il progetto bramantesco.

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Milano. Santa Maria presso San Satiro, pianta dello stato attuale.

Veduta della sagrestia.

Modello ligneo della sagrestia (F. Montaldo, R. Aiminio, G. Fiore).

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Volta della sagrestia.

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Milano. Santa Maria presso San Satiro, interno (foto di M. Voulgaropoulou).

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Cupola (foto di M. Voulgaropoulou).

Dettaglio del coro prospettico.

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UOMINI D’ARME 1487-1492, affreschi ora riportati su tela, 300 x 127 cm Milano, Pinacoteca di Brera

in verità non documentata, è concordemente attribuita all’artista urbinate, per la committenza di Gaspare Visconti, mecenate che ospitava Bramante, allora proprietario della casa poi di Gottardo Panigarola [Allegranza 1781; Sironi 1978]. Gli affreschi erano ancora visti, in buono stato, da Carlo Torre, che nella sua Guida di Milano del 1674 scriveva «trovasi in questa casa pitture e tempera di Bramante prodigiose, che ingannano l’occhio in farsi credere operate da sculpiti marmi e non dalla Pittura»: cioè, gli affreschi inaguravano quell’illusionismo pittorico che avrà grande sviluppo nei secoli seguenti. All’artista veniva chiesto di affrescare diversi vani del piano nobile della sua casa che sorgeva nell’attuale via Lanzone a Milano, con una sala particolarmente significativa per le finte architetture e otto nicchie nelle quali si ammiravano le figure monumentali dell’Uomo con spadone, dell’Uomo con mazza, del Giovane con la lancia, del Cantore e dell’Uomo col lauro. Le figure non erano finte statue, eroiche e all’antica, bensì uomini in costume con reali caratteri somatici ed espressivi, marcati peraltro da un forte chiaroscuro e da un marcato disegno.

Delle tante opere ad affresco realizzate negli anni della permanenza in Lombardia (a Bergamo, Milano e Vigevano), i cosiddetti Uomini d’arme, pur frammentari, restano la testimonianza più significativa dell’attività di Bramante pittore. La data però è incerta: è stato ipotizzato l’inizio degli anni ottanta [Malaguzzi Valeri 1915] a ridosso, dunque, degli affreschi di Bergamo (1477) e dell’Incisione Prevedari (1481), oppure gli anni 1492-94 [Mulazzani 1978; Borsi 1989], leggendovi una maturità e una sicurezza acquisite. Se fossero di quest’ultima datazione, dovrebbero essere confrontati con gli affreschi attribuiti a Bramante sulla facciata della casa Fontana Silvestri, con figure mitologiche, mirabili «per maestà e moto […] giganti finti di bronzo» [Vasari]. La serie dei personaggi degli Uomini d’Arme è stata individuata da Gian Paolo Lomazzo nel suo Trattato della Pittura (1584) come tre nobili milanesi di cui cita il nome, uno dei quali era magister armorum di Ludovico il Moro [Malaguzzi Valeri 1915], «armati da baroni […] in casa dei Panigaroli in Santo Bernardino da Bramante in Milano in casa dei Panigaroli». L’opera, 68

Marcati erano anche i volumi ed evidenziata la rigorosa costruzione stereometrica e proporzionale dei corpi. Allusivi probabilmente alla necessità di temperare la forza fisica con la spiritualità e concepiti, secondo la concezione classica, di dimensioni poco più grandi del vero, gli affreschi risposero anche all’intento di ampliare con l’architectura ficta e scenograficamente lo spazio di una sala non grande [Dalai Emiliani 1977], ribaltando in avanti in piano di base con un’architettura ricca di reminiscenze classiche. È interessante notare che i capitelli corinzi delle paraste dipinte sono tagliati orizzontalmente come sarà in opere architettoniche di Bramante. Per le figure monumentali entro una significativa cornice architettonica, con possibili tangenze stilistiche con Melozzo da Forlì, Mantegna, Luca Signorelli, Leonardo e Bernardino Zenale, è anche possibile il riferimento agli Uomini Illustri di Andrea del Castagno nel salone della casa dei Carducci a Legnaia (1450 ca.). Un riferimento può essere fatto anche alle tipiche terracotte lombarde, in particolare quelle teste all’antica

poste sulle facciate del Banco Mediceo e dell’Ospedale Maggiore a Milano, di certo osservate da Bramante. Incerta è l’attribuzione a Bramante degli affreschi che decoravano altre stanze, anche in altri piani della casa di Gaspare Visconti: la stanza delli arbori, forse una rappresentante le Muse, e quella con Eraclito e Democrito «sopra una porta» [S. Borsi 2001] (vedi p. 69). Della sala originaria sono state fatte alcune interessanti ricostruzioni grafiche [Bruschi 1969; Mulazzani 1974 e 1977] dimostrando come tutto l’impianto prospettico fosse da osservare dal centro della sala. Gli affreschi, staccati nel 1901, sono ora esposti alla Pinacoteca di Brera. Bibliografia: G. P. Lomazzo 1584, VI, 1, XVI; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 15; C. Baroni 1944, 17-19; W. Suida 1953, 18-21; P. Rotondi 1959, 78; A. Bruschi, 1969, 112-119 e 762; P. Tomei 1974, 227; C. Bertelli 1980, 12-37; G. Ferri Piccaluga 1988, 14-25; F. Autelli 1989, 138; L. Patetta 1994, 502; R. Schofìeld 1995, 297-330; S. Borsi 2001, 100.

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Ricostruzione della sala degli Uomini d’Arme (Mulazzani 1974).

Giovane con lo spadone, affresco staccato (Milano, Pinacoteca di Brera).

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Uomo con la lancia, affresco staccato (Milano, Pinacoteca di Brera).

Uomo con il lauro, affresco staccato (Milano, Pinacoteca di Brera).

Uomo con armatura, affresco staccato (Milano, Pinacoteca di Brera).

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ERACLITO E DEMOCRITO 1487-1492, affresco riportato su tela, 102 x 127 cm Milano, Pinacoteca di Brera

Originariamente in un ambiente attiguo alla sala con gli Uomini d’arme e proprio sopra la porta che ne dava l’accesso (trovata però nel 1901 già staccata e posta sopra un camino racchiusa in un telaio ligneo), la scena con figure identificate come gli antichi filosofi Eraclito e Democrito e molti degli elementi in essa rappresentati appartengono chiaramente alla cultura umanistica. Alcuni studiosi hanno provato a interpretarne i complessi significati (la sigla LX nel fregio d’ordine dorico, ad esempio, di difficile decifrazione), da ricondurre probabilmente a concezioni di stampo neoplatonico e ficiniano [Chastel 1964; Ferri Piccaluga 1988]. Dei due dotti seduti, la figura sorridente di destra potrebbe essere Democrito, il grande naturalista dell’antichità, che sembra proporre una dotta discussione accompagnando la parola col gesto: non è da escludere fosse ritratto ideale dello stesso Bramante, come noto, autore di sonetti burleschi e, a detta di Vasari, «persona molto allegra e piacevole». Sarebbe invece Eraclito l’altro personaggio, che col volto addolorato e le mani intrecciate nel gesto del patimento esprimerebbe eloquentemente la sua

filosofia fondamentalmente pessimista, forse allusivo al carattere difficile di Leonardo da Vinci, anche autore di amare profezie. Un’interpretazione delle due manifestazioni naturali, il pianto e il riso, presenti nelle due figure di filosofi, risaliva già a Gian Paolo Lomazzo, che nel suo Trattato della Pittura (1584) scriveva «(Bramante) dipinse ancora il giuoco di natura, cioè Heraclito che piangeva e Democrito che rideva, sopra una porta». Da rilevare il fregio classico direttamente rapportabile ai due fregi presenti nell’Incisione Prevedari; di indubbio interesse è anche un globo terrestre molto preciso e dettagliato, forse testimonianza delle nozioni geografiche di Bramante, che era definito cosmographo da Domenico Maccaneo (1490) e più tardi anche da Sabba da Castiglione (1549). Sono presenti diversi libri evidentemente di soggetto filosofico o scientifico, forse anche come omaggio al padrone di casa Gaspare Visconti, un umanista e letterato, che sappiamo possedeva una ricca biblioteca [Schofìeld 1995]. Come quelli degli Uomini d’arme, anche questo affresco venne staccato nel 1901 e soffre di un cattivo stato di conservazione. 72

Bibliografia: G. Vasari 1568, parte III; G. P. Lomazzo 1584, VI, 1, XVI; L. Beltrami 1902(a-b-c) e 1903, 97-103; F. Malaguzzi Valeri 1908, 280 e 1915, II 14; A. Bruschi 1969, 112-119 e

1986, 21-23; C. Vecce 1995, 13; R. Schofìeld 1995, 297; P. C. Marani 1988, 203; F. Borsi 1989, 163-166; L. Patetta 1994, 502; S. Borsi 2001, 100.

Eraclito e Democrito, affresco staccato (Milano, Pinacoteca di Brera).

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CRISTO ALLA COLONNA 1490 circa, tempera e olio su tavola impannata Milano, Pinacoteca di Brera

Opera non firmata né documentata, menzionata da Gian Paolo Lomazzo [Idea del tempio della Pittura, 1590], fu forse commissionata dal cardinale Ascanio Sforza per l’abbazia cistercense di Chiaravalle, di cui era commendatario. (Per lo stesso Sforza e per i Cistercensi Bramante progetterà i chiostri di Sant’Ambrogio e forse anche il chiostro grande di Chiaravalle nel 1497). Lomazzo la lodava molto: «Non son da passar sotto silenzio le pitture, con grandissima ragione proporzionate, di Bramante, alle quali egli diede i lumi così fieri e regolati con le ombre et i lor mezzi, che la natura propria gli resta appresso fredda e secca, come si vede nel Cristo legato alla colonna». È probabilmente l’unico dipinto su tavola attribuibile al maestro urbinate con una certa attendibilità. Il capolavoro rivela tangenze con la coeva pittura di Antonello da Messina e di Melozzo da Forlì; è possibile che l’artista risentisse dei modi del Bergognone, che fu attivo negli anni novanta nel cantiere di Santa Maria presso San Satiro. È però evidente che Bramante aveva potuto anche conoscere da una parte le sperimentazioni dei fiamminghi, per lo studio virtuosistico degli effetti di luce

e l’analitica attenzione per i dettagli e le superfici, dall’altra l’antico per la bellezza proporzionata e la concezione statuaria del nudo. L’opera va considerata soprattutto il frutto del confronto con i coevi studi anatomici di Leonardo, per quella nuovissima attenzione al modo in cui i “moti dell’animo” si potevano cogliere nei diversi atteggiamenti e gesti, nelle particolarità fisionomiche, nell’intensità dei volti e degli sguardi. Così meglio si comprende il patetismo della figura del Cristo (le lacrime, la pelle martoriata dalle corde), legato a una parasta classica, già in voga a Milano, con lo straordinario brano naturalistico del paesaggio a volo d’uccello, visibile da una finestra aperta sulla sinistra, e con quell’atmosfera azzurrina delle montagne che rivela la nozione delle sperimentazioni leonardesche della prospettiva aerea. L’opera è stata attribuita anche al Bramantino [Longhi 1916; Venturi 1924] cui è oggi generalmente assegnato l’affresco dell’Argo [Venturi 1924] in una sala del castello Sforzesco, già attribuito anche a Bramante [Malaguzzi Valeri 1913, II; Bruschi 1969]. Si è anche ipotizzata una collaborazione tra 74

i due pittori [Mulazzani 1974(b)] con Bramante progettista dello scorcio prospettico e degli elementi architettonici.

1915, II, 22-24; R. Longhi 1916, 356360; A. Venturi 1924, 181-186; C. Baroni 1944, 19-20; A. Bruschi 1969, 776 e 78-80; G. Mulazzani 1974(b), 22 e 1978, 83 e 88; F. Borsi 1989, 168170; P. C. Marani 1990, 48-50; S. Borsi 2001, 103.

Bibliografia: G. B. Lomazzo 1590, XXXIII, ed. 1974, II, 329; W. Suida 1902, 289-291; F. Malaguzzi Valeri

Cristo alla Colonna, tempera e olio su tavola impannata (Milano, Pinacoteca di Brera).

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MODELLO PER IL TIBURIO DEL DUOMO DI MILANO E LA BRAMANTI OPINIO 1487-1490

mente impostato sui piloni e sui quattro archi ortogonali della fabbrica già edificata, secondo lui più solido di un tiburio ottagonale, previsto vent’anni prima da Guiniforte Solari e riproposto da tutti (tranne il Legute e Leonardo) e in particolare da Amadeo, da Dolcebuono e da Francesco di Giorgio. Scriveva Bramante: «Dal quadro a l’octavo gli è tanto che differentia, che due terze pogiano sul dricto e l’altro no. Se questo tiburio si avesse a fare in quadro più verrebbero justi questi dricti contrafforti, perchò segurevano sopra il drito de le muraglie. Il quadro è molto più forte e meglio che l’octavo, perhò che più col resto de l’edificio se concorda». Novità per la cultura del tempo, e poco condivisa, era il concetto di “conformità” per il quale Bramante e Leonardo dimostravano di conoscere le pagine del De re aedificatoria, pubblicato solo pochi anni prima (1485) in cui si suggeriva appunto la conformitas. Bramante non solo consigliava di terminare il Duomo con un tiburio gotico anziché imporvi una cupola, cioè una forma rinascimentale, ma suggeriva di armonizzarlo con la larghezza della fabbrica e coi vari livelli delle altezze esistenti, senza «rompere l’ordine de l’edificio» come sarebbe avve-

Nel 1487-88, in occasione dell’invito di Ludovico il Moro ai maggiori ingegneri e architetti (fra i quali rispose prontamente Luca Fancelli) per trovare una risoluzione all’irrisolto problema formale e statico del tiburio del Duomo, Bramante ha fatto un modello (perduto) e ha scritto una relazione tecnica e teorica, la cosiddetta Bramanti Opinio super Domicilium seu Templum magnum [Bruschi 1978]. Forse presentata anche in occasione di quella sorta di concorso o confronto promosso dal Moro il 27 giugno 1490 nelle sale del castello Sforzesco, l’Opinio affrontava molti problemi: esprimeva un parere (cosa abbastanza insolita) sui progetti presentati da altri ingegneri lombardi, come Pietro da Gorgonzola, il Legute (Marco Leguterio?), Giovanni Antonio Amadeo, Antonio da Pandino, Giovanni da Molteno e il “prete”, cioè Giovanni Meyer o Simone Sirtori; descriveva la propria soluzione e ricordava i quattro principi rinascimentali, riprendendo liberamente quanto già enunciato da Vitruvio e da Alberti, fortezza, conformità cum el resto de l’edificio, legiereza, beleza. Il suo modello -rifatto oggi dalle tavole del trattato del Cesariano (1521)mostrava un tiburio quadrato, diretta76

nuto con un tiburio ottagonale. Poi concludeva con un suggerimento sorprendentemente rispettoso di quanto già dai primi costruttori eseguito (e da lui osservato direttamente) o previsto: «molto […] se ne intende anchora per alcuni disegni, che ne la fabbrica se trovano facti in quel tempo che questo Domo fu edificato […] e togliendo da questo una cosa da quello una altra […] potremo farne uno, il quale starà bene». Anche Leonardo aveva fatto un modello, pagato nel 1487 e poi forse modificato nel 1490 [Patetta 2001], e ha lasciato scritto il suo suggerimento di compiere un’analisi quasi anatomica dell’organismo strutturale, nonché la raccomandazione di compiere un intervento curativo per il malato domo che abbisognava di uno medico architetto. Di Leonardo ci sono pervenuti

disegni di varie soluzioni strutturali raccolti nel Codice Atlantico (f. 148 r, f. 266 r e f. 310 r-v) e nel Codice Trivulziano (8 r). Il concorso del 1490 ha visto prevalere, con giudizio del Consiglio della Fabbrica, il progetto presentato da Amadeo, Dolcebuono e Francesco di Giorgio. Il tiburio verrà costruito dall’Amadeo e terminato all’inizio del Cinquecento.

Sezione del Duomo di Milano con il tiburio secondo il progetto bramantesco (C. Cesariano 1521).

Modello ligneo del tiburio del Duomo di Milano secondo il progetto bramantesco (E. Fontana).

Bibliografia: L. B. Alberti 1485, IX, 7 e 9; C. Cesariano 1521, I, tavv. 14 e 15; M. Caffi 1878; Annali... 1877-80, III, 62; C. Boito 1889; L. Beltrami 1912, 379; F. Malaguzzi Valeri 1915, III, 265; F. Starace 1974, 137; A. Bruschi 1978, 355, 69; L. Patetta 1987(b), 40 e segg. e 2001(b), 117; R. Schofìeld 1989(a), 68; F. Borsi 1989 e S. Borsi 186.

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TRIBUNA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE Milano, 1490-1499

Nel 1488 l’edificazione solariana della chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie e del suo monastero aveva termine: si trattava nel più grandioso complesso conventuale della città, con tre chiostri, un grande refettorio, infermerie e una biblioteca (1480 ca.) situata al primo piano e rispecchiante la tipologia di quella realizzata, sempre per i colti Domenicani, da Michelozzo in San Marco a Firenze. Nel 1488 risultava completato, con una volta lunettata, il refettorio [Gattico 1600]. Ma già due anni più tardi (1489-90) per volere del duca Lodovico il Moro, si cominciava a mutare l’unità stilistica “solariana”, tardogotica (la chiesa è attribuita a Guiniforte Solari, 1463 e segg.) aggiungendo alla facciata un portale o protiro di marmo, di forme classiche, dove eleganti colonne su piedestallo reggevano una trabeazione e una volta a botte cassettonata. Le decorazioni con tondi e medaglioni con teste di profilo ad alto rilievo e le candelabre sulle paraste erano una novità per Milano e decisamente “all’antica”. Di autore ignoto, il portale è stato attribuito a Gian Cristoforo Romano, a Benedetto Briosco, all’Amadeo e ad altri [Salmi 1926]. Ben presto, per

volontà diretta del Moro e del priore Vincenzo Bandello -fine intellettuale, teologo e letterato- tra il 1490 e il 1492 si decise di avviare un completo rinnovamento della chiesa: veniva demolito il coro con le cappelle della zona absidale per edificare una tribuna, affidata all’ingegnere ducale Donato Bramante, anche se ben pochi documenti provano con certezza la paternità dell’opera. La mancanza di una bottega e forse anche di un vero e proprio “studio” professionale con aiuti e collaboratori hanno fatto sì che scarsi siano i documenti relativi all’incarico e all’esecuzione delle sue opere e in particolare di questa (per la quale abbiamo un’unica citazione di «magistero Bramante inzignero» [Patetta 1987]), e che ci si debba accontentare delle testimonianze indirette, ma, pochi hanno dubbi [Baroni 1937; 1968 in particolare] sul riconoscere come bramantesca l’intera tribuna: concordano, considerando la perentoria sicurezza e novità dell’impianto, tra gli altri, Förster (1956), Bruschi (1969), Patetta (1987), Borsi (1989). L’opera costituiva un aggiornamento formale e una proposta linguistica di stampo classico e monumentale di così forte rilievo da impressionare 78

per il distacco, come concezione, proporzioni e dimensione, nonché come riferimenti simbolici, dalla tradizionale produzione architettonica lombarda. Non poteva che essere Bramante a proporre a Milano un’opera tanto nuova, con un grande volume cubico unitario, paraste angolari, pennacchi a reggere una cupola emisferica di più di 20 metri di diametro, per un’altezza massima di oltre 40. Anche le tre absidi avevano una dimensione inedita: oltre 9 metri di larghezza e 16,50 di altezza. All’esterno, il suo volume dominava la navata della chiesa solariana, con un’altezza più che doppia e con uno sviluppo di tre volte tanto. Debitrice sicuramente di alcune precedenti elaborazioni della pianta centrale (per esempio della brunelleschiana sagrestia Vecchia di San Lorenzo e della cappella Portinari a Milano) la tribuna delle Grazie presentava la novità di un alto tamburo con alcune finestre tipicamente bramantesche e un giro di 16 oculi alla base della cupola semisferica. Ricchi e complessi erano i riferimenti simbolici e numerologici: l’insieme dei numeri, 4 (degli evangelisti e dei dottori della chiesa) nei tondi dei pennacchi, 8 (della Madonna) gli spicchi della volta del coro, e 12 (degli apostoli) le “ruote radiate” negli arconi sotto la cupola e i cerchi nella volta del coro, intendeva forse alludere alla Gerusalemme Celeste. Nella tribuna tutto sembra ruotare, e non solo metaforicamente, attorno all’asse verticale,

alla luce zenitale che scende dalla lanterna, ferma ed eterna come la luce dello Spirito Santo. Nelle lunette delle tre absidi Bramante citava i solidi del poliedro di fra’ Luca Pacioli, presente in quegli anni a Milano, che lo rammenterà nel suo De divina proporzione (1509). In molti dettagli sono presenti caratteri dello sperimentalismo di Bramante, come le lesene senza base all’interno del tamburo, e le paraste accostate con i capitelli doppi sotto la trabeazione nel vano centrale. Compaiono inoltre sottili correzioni ottiche: il vano non perfettamente quadrato bensì allungato verso il fondo, l’abside alla conclusione del coro più stretta delle altre, le finestre del coro aperte non in mezzaria nelle pareti ma spinte un po’ verso il fondo [Bruschi 1983]. Mentre l’interno presenta lo spazio dilatato di una vasta geometria elementare, l’esterno della tribuna appare più tradizionalmente ricco di decorazioni in mattoni e terracotta, candelabre e festoni, più riferibili al gusto lombardo e all’Amadeo, per esempio, che in un documento del 1497 [Sironi 1987] risulta aver curato l’esecuzione delle trentadue bifore con colonnine di marmi policromi alla sommità del tiburio a sedici lati. Nello stesso anno 1497, alla morte della moglie Beatrice d’Este, pare che il duca Ludovico il Moro volesse fare della tribuna il mausoleo della famiglia Sforza, ospitando il monumento funerario suo e della sua consorte, commissionato 79

allo scultore Cristoforo Solari detto il Gobbo (oggi alla Certosa di Pavia). Era anche l’anno in cui Ludovico il Moro manifestava l’intenzione, poi non portata a termine, di rinnovare tutta la chiesa di Santa Maria delle Grazie, consultando «tutti li più periti che si trovino ne la architettura» [ms. del Gattico, in Patetta 1987], e in cui anche Leonardo sembra aver voluto partecipare a questa possibile, ma poi non attuata, svolta nei lavori, con uno schizzo [Pedretti 1981] in cui la tribuna bramantesca veniva isolata dalle navate della chiesa e assumeva i caratteri di un mausoleo a pianta centrale. Prontamente ammirata, fin dall’inizio del Cinquecento, la cupola delle Grazie anticipava quelle di San Pietro a Roma e della Consolazione a Todi. Sono attribuibili, se non altro come impostazione, anche il chiostro picco-

lo, tangente alla tribuna, e la sagrestia nuova, la cui volta lunettata è stata affrescata con motivi (come i “fili annodati” o “i gruppi di Bramante” come li chiamava Leonardo) di possibile suggerimento leonardesco o bramantesco [Pedretti 1981; Patetta 2001]. Bibliografia: G. Mongeri 1872, 103; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 176; A. Pica, P. Portaluppi 1938, 35; C. Baroni 1944, 20 e 1968, II, 18; O. H. Förster 1956, 121; P. Mezzanotte, G. C. Bascapé 1968, 338; A. Bruschi 1969, 784 e 1983, 42; C. Pedretti 1974, 197 e 1981, 89 e 298; L. Grassi 1983, II, 417; R. Schofìeld 1986, 41; G. Sironi 1986, 37; L. Patetta 1987(b), 156 e 168, 1994, 505 e 2001(b), 120; F. Borsi 1989, 100 e S. Borsi 211; G. Mulazzani 1997.

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Milano. Complesso di Santa Maria delle Grazie, particolare della planimetria generale.

Milano. Chiesa di Santa Maria delle Grazie, sezione longitudinale (A. Pica, P. Portaluppi 1938).

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Milano. Tribuna di Santa Maria delle Grazie, veduta esterna (foto di M. Ghezzi).

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Dettaglio dell’esterno.

Abside del coro e poliedro di fra’ Luca Pacioli (1509).

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Milano. Tribuna di Santa Maria delle Grazie, interno.

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Dettaglio della cupola.

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CANONICA DI SANT’AMBROGIO Milano, 1492-1499

La canonica e i chiostri conventuali di Sant’Ambrogio sono le opere in Lombardia di più sicura attribuzione a Donato Bramante, ormai diventato il più autorevole ingegnere ducale sforzesco. I lavori sono documentati nei conti della fabbrica tenuti da Gentilino del Mayno dal 1492 al 1496 [Casati 1870], dove compaiono oltre al nome dell’architetto anche quello di due magistri lombardi, Giacomo de Sola (un Solari?) e Cristoforo Negri. Ludovico il Moro decise nel 1492 di finanziare la costruzione della canonica (tipologia del tutto nuova), destinando a quest’opera un vasto terreno situato a nord dell’antica basilica romanica e i fondi per avviare prontamente i lavori, che proseguirono fino al 1499, poi furono interrotti e abbandonati per sempre, quando del progetto bramantesco ne era stato eseguito solo un quarto. La canonica era stata impostata da Bramante secondo uno schema grandioso, un organismo a due piani, porticato, che doveva svilupparsi attorno a una piazza quadrata, alla quale si doveva accedere attraverso quattro archi trionfali a doppia altezza, posti nelle mezzarie dei lati: un foro roma-

no all’antica [Bruschi 1969], forse pensato dall’architetto dopo la lettura del trattato di Leon Battista Alberti, il De re aedificatoria (1485). Il solo lato esistente, unica parte originale, non riesce a restituirci l’idea bramantesca, pertanto ne è stato fatto di recente il modello [Patetta 2001] che qui è pubblicato. Se l’architettura di Bramante nel portico era debitrice nei confronti del brunelleschiano Ospedale degli Innocenti a Firenze, per esempio nell’ordine maggiore dei pilastri con lesene che interrompeva la fuga di arcate su colonne d’ordine minore e la cupolina sotto il portico in corrispondenza dell’arco centrale, nuova era la monumentalità classica e la tipologia “a duplex” (per usare un termine moderno) delle cellule destinate ai canonici. Le proporzioni erano controllatissime, colonne con entasi e capitelli compositi (a corona unica di foglie) di accurata fattura nonché differenti tra di loro [Giordano 1983], pulvino sopra i capitelli e la presenza insolita di quattro colonne laboratas ad tronchonos, di cui già Vasari sottolineava la novità «colonne a tronconi ad uso d’alberi tagliati che hanno del nuovo» (Vasari 86

però le attribuiva al Bramantino), di certo un intellettualistico rimando all’origine naturale della colonna già descritta da Vitruvio, altro trattato ben conosciuto da Bramante. Meno probabile è l’allusione cortigiana al sicomoro (sicut-Moro) emblema del duca di Milano che aveva promosso quel gelso-moro sul quale si basava la rinata industria lombarda della seta [Malaguzzi Valeri 1915]. Forse non sono stati ben risolti alcuni dettagli o sono state apportate varianti in corso d’opera senza il necessario controllo: per esempio, non sembra risolto felicemente l’accostamento delle colonne ad tronchonos ai due pilastri dell’ordine maggiore (per esempio, le colonne invadono i plinti dei pilastri e anche i loro capitelli si incastrano un po’ nei pilastri). Nel 1497, conclusa l’edificazione di un lato della canonica, sono stati ordinati i materiali per un secondo lato, di cui verranno eseguite solo le fondazioni. Ma ciò che è importante segnalare è che Bramante ha impostato la canonica non addossata al fianco della basilica di Sant’Ambrogio, bensì alla distanza di quasi un metro dai contrafforti esistenti e a più di due dal muro della basilica, così da poter aprire i tratti di muro tra un contrafforte e l’altro, ricavando lo spazio per la cappella di Santa Savina (1497) per una sequenza di sette altre piccole cappelle [Patetta 1983]. Ancora agli anni bramanteschi appar-

teneva la sagrestia, ottenuta demolendo l’abside della navata sinistra della basilica. L’insieme di questi interventi aveva dunque portato a una radicale ristrutturazione della basilica, completata lungo la navata destra dall’impostazione di altre tre grandi cappelle gentilizie [Patetta 1987]. Oltre ad impostare un edificio nuovo, si realizzava qui la stessa trasformazione in corso o già avvenuta in altre basiliche milanesi, come San Simpliciano, Sant’Eufemia e Sant’Eustorgio. Dell’ambizioso progetto voluto da Ludovico il Moro e del grandioso organismo di Bramante resta solo il porticato, perché il piano superiore è una ricostruzione infedele dopo i gravi danni apportati dai bombardamenti dell’ultima guerra [Cattaneo, Reggiori 1966]. Bibliografia: G. Vasari, 1568 (Vita di Girolamo da Carpi); C. Casati 1870(b), 48 e 104; L. Beltrami 1892, 8 e 1912, 12; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 140; C. Baroni 1940, 38-85; A. Annoni 1942, 225; F. Reggiori 1945; O. H. Förster 1956, 126; E. Cattaneo, F. Reggiori 1966, 132; P. Mezzanotte, G. C. Bascapé 1968, 368; A. Bruschi 1969, 812 e 1986, 11; L. Giordano 1983, 179; E. Werdenhausen 1983, 173 e 1987, 19; L. Patetta 1983, 49, 1987(b), 176 e 2001(b), 132; F. Borsi 1989, 90 e S. Borsi 199; L. Gatti Perer 1990, 42; R. Schofìeld 1996, 15. 87

Milano. Canonica di Sant’Ambrogio.

Alluisetti e Raineri su disegno di A. Sanquirico, veduta della canonica di Sant’Ambrogio, incisione, 1824 (da F. Borsi, 1989).

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Colonna ad tronchonos.

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CHIOSTRI DEL MONASTERO DI SANT’AMBROGIO Milano, 1497-1499, costruiti all’inizio del ’500

Il fratello del duca Ludovico il Moro, cardinale Ascanio Sforza, divenuto abate commendatario del convento nel 1487, commissionava nell’anno 1497 i due nuovi chiostri per un grande monastero da affidare ai Cistercensi, destinando loro il vasto terreno a sud della basilica di Sant’Ambrogio. Bramante ha potuto partecipare direttamente solo all’impostazione del cantiere e ai primi lavori nelle fondazioni fino al 1499, ma ha lasciato un modello ligneo da lui predisposto (pagato il 20 dicembre 1498) e secondo il quale è stata eseguita la costruzione da bramanteschi come Cristoforo Solari detto il Gobbo (150913) e i magistri Paolo da Monza e Bartolino de Cozi. La grandiosità dell’impianto dei due chiostri, il primo con colonne di ordine ionico, il secondo di ordine dorico (assoluta novità per Milano) che con un netto salto di scala inauguravano la tipologia dei grandi monasteri del XVI secolo, e la sperimentazione del linguaggio classico (senza le ortodossie degli epigoni), sembrano appartenere solo all’architetto urbinate. I corpi di fabbrica a due piani presentavano un portico con alte colonne poggianti su un muretto continuo, arcate molto vaste e la straordinaria

soluzione dei pulvini alti e aggettanti, realizzati come un tratto di trabeazione (cioè memori certo di quelli nelle chiese brunelleschiane di Firenze). Il piano superiore destinato alle celle dei Cistercensi, molto più basso, presentava la soluzione tipicamente “bramantesca” delle finestre incorniciate in due arcate minori, che vedeva un “pieno”, cioè una parasta, impostato sopra un “vuoto”, cioè la mezzaria dell’arco sottostante. Il rimando all’antico può essere riscontrato nella crypta Balbi di Roma. Se Bramante non ha compiuto un viaggio a Roma nel 1493, come pure è stato ipotizzato [Bruschi 1969], può comunque aver visto il disegno di quel monumento [Codice Barberiniano, f. 4 v] di Giuliano da Sangallo, a Milano nel 1492. In assenza di un viaggio a Firenze, Bramante può aver preso in considerazione il pulvino come tratto di trabeazione dai disegni di Francesco di Giorgio (a Milano nel 1490) e in particolare da quelli della basilica Costantiniana o di Massenzio e del tempio di Minerva [Codice Saluzziano 148, f. 76 e 143, f. 78, fogli datati 1486 ca.]. Altre due novità destinate ad essere a lungo imitate erano la galleria centrale 90

al piano superiore, più alta dei corpi longitudinali delle celle così da essere illuminata da una serie di oculi aperti nelle lunette della volta, e il refettorio (forse la prima parte del monastero costruita) sporgente nel corpo di spina tra i due chiostri. Va pure segnalata nel chiostro ionico la soluzione “forte” dell’angolo, con un pilastro al posto della colonna, soluzione memore certo del cortile del palazzo Ducale di Urbino, ma anche forse discussa a Milano con Giuliano da Sangallo, che l’aveva realizzata nel 1480 a Firenze nel chiostro di Santa Maddalena de’ Pazzi. Alla partenza di Bramante per Roma, nel 1499, i lavori nel chiostro ionico e l’impostazione di quello dorico furono seguiti da altri architetti (come Crostoforo Solari detto il Gobbo), probabilmente secondo il modello ligneo di Bramante forse eseguito nel 1497, quando il progetto veniva sottoposto all’approvazione di Ludovico il Moro: «habiamo […] facto fare un modello quale come haveremo veduto noi ne manderemo etiam una forma et disegno alla Reverenda Signoria Vostra perché la vedi et consideri el tucto» [Werdenhausen 1986]. Il modello risulta pagato, come si è detto, il giorno 20 dicembre 1498 [De Pagave 1700]. Nello stesso 1498 Bramante giudicava alcuni lavori eseguiti dai maestri di muro Bartolino da Roxa e Paolino Candenaro: «lavori ben facti in laude de magisteri Abramante ducale ingeniero» [Libro mastro della fabbrica, 25 agosto

1498]. Per alcuni decenni il modello deve esser stato la guida per l’esecuzione dell’intero monastero e in particolare per quelle “scorrettezze” di Bramante, rilevate dal Seicento in poi, che di certo non possono che appartenergli [Patetta 1987]. Nel lato sud della basilica di Sant’Ambrogio sono state eseguite, negli anni in cui l’architetto era ancora a Milano, altre opere, alle quali se non proprio il disegno, Bramante deve aver dato suggerimenti e approvazioni: la cosiddetta porta di Santa Giustina (1499), realizzata con la cappella dedicata alla stessa santa distruggendo l’abside destra della basilica; le tre cappelle quadrate di San Giorgio, San Sebastiano e San Bernardo (con cappellanie istituite negli anni 1495-1500) [Baroni 1940], e infine la foresteria (1498 ca.), solo in parte costruita, con un salone a volta lunettata e piedestalli in facciata da cui partono alte paraste, però interrotte dopo pochi metri [Malaguzzi Valeri 1915]. Bibliografia: V. De Pagave 1700, f. 36; C. Casati 1870(b), 48 e 104; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 230; C. Baroni 1940, 50; F. Reggiori 1945, 139; O. H. Förster 1956, 126; A. Bruschi 1969, 812 e 1986, 11; L. Patetta 1983, 21 e 1987(b), 213; L. Giordano 1983, 179; C. L. Frommel 1987, 9; A. E. Werdenhausen 1987, 20; C. D. Nesselrath 1987, 49; F. Borsi 1989, 92 e S. Borsi 199; L. Gatti Perer 1990, 49 e 1995, 97; R. Schofìeld 2001, 47. 91

Milano. Canonica e chiostro del monastero di Sant’Ambrogio, planimetria.

Milano. Monastero di Sant’Ambrogio, chiostro dorico.

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Milano. Monastero di Sant’Ambrogio, sezione, XVII sec. (Biblioteca Trivulziana, Raccolta Bianconi, t. IV, 8).

G. Giulini, monastero di Sant’Ambrogio, incisione, 1760.

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PONTICELLA AL CASTELLO SFORZESCO (opera attribuita) Milano, fine XV secolo

stilistiche dei lavori certi di Bramante a Milano. Non è da escludere che le colonnine con capitelli di rustico corinzio fossero “di riuso”, tratte forse da qualche chiostro demolito. Il loggiato distribuiva tre stanze, due quadrate e una rettangolare, di proporzioni “domestiche” rispetto alle sale del castello, che il Moro nel 1495 voleva decorate sotto la supervisione dell’ingegnere ducale Ambrogio Ferrari (ma il duca aveva pensato anche al Perugino). Alla definizione del programma decorativo di una di esse, la salecta nigra, avrebbe partecipato anche Leonardo, che ricordava: «commissione del dipigniere i camerini» [Codice Atlantico, G. 914 v] La parete retrostante della Ponticella, con le finestre delle tre stanze, era stata decorata come scriveva il Ferrari nel 1495: «farò depinzere a quadronzini che farano bel vedere» [Beltrami 1903].

È attribuita a Bramante dal Cesariano che nella sua edizione del trattato di Vitruvio del 1521 [Libro I, XXIv] scriveva: «una ponticella come quelle che sono in via coperta di la nostra arce de Jove in Milano et maxime quella che fece fare Bramante Urbinate, mio primo praeceptore: quale si traiice da lo moeniano muro de la propria arce ultra le acquose fosse ad lo cripto itinere». Confermava l’attribuzione nel 1525 l’Anonimo Morelliano (Marcantonio Micael, Notizie d’opere di disegno) [Beltrami 1903]. Hanno espresso dubbi Malaguzzi Valeri (1915) e Costantino Baroni (1934), mentre Luca Beltrami, dopo i suoi interventi di restauro nel castello, citando il Geymüller (1874) si convinceva di un ruolo bramantesco, se non altro di suggeritore. L’idea di un passaggio coperto, edificato sopra un ponte risalente al 1455, per condurre dalle stanze ducali oltre il fossato alla “ghirlanda” difensiva, fu voluto da Ludovico il Moro ed eseguito negli anni novanta. L’architettura del loggiato, con architrave su colonnine, era sicuramente un’addizione più aggiornata e “moderna” rispetto alle massicce murature del castello, ma lontana dalle raffinatezze

Bibliografia: H. von Geymüller 1874, 379 e segg.; L. Beltrami 1903, 22; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 133; C. Baroni 1944, 74; A. Bruschi 1969, 810 e 1985, 285; C. Pedretti 1978, 296; L. Patetta 1987(b), 236; F. Borsi e S. Borsi 1989, 207; L. Patetta 2001(b), 127 e 2005, 79. 94

Milano. Ponticella al castello Sforzesco.

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CAPPELLA POZZOBONELLI (opera attribuita) Milano, 1498

Della cappella della cascina dei Pozzobonelli, che sorgeva a nord, fuori della città, restano solo quattro delle dieci arcate del portico, che univa questo piccolo edificio religioso a pianta centrale, in forma di tricora, al cascinale demolito nel 1898 per ampliare una strada. (Del complesso ci resta però un rilievo d’epoca e una descrizione [Patetta 1987]). La costruzione della cappella è datata 1498 oltre che da un atto per l’acquisto di parte del terreno, anche da un’iscrizione di Luca Beltrami redatta sulla scorta del documento precedente [Terzaghi 1963]. Dunque, senza documentazione alcuna, l’attribuzione a Bramante si è sempre basata su coincidenze stilistiche e su affinità con l’impianto trilobato di San Bernardino a Urbino [Borsi 1989] tradizionalmente attribuitogli e con le opere certe del maestro a Milano, tra cui l’antico sacello di San Satiro [Malaguzzi Valeri 1915]. Il Terzaghi scriveva: «Ritengo il sacello trilobo la prima opera milanese del Bramante, antecedente il S. Satiro […] un vero e proprio presentimento dello stile del Bramante maturo». Bruschi (1969) arrivava a sostenere che se «l’aspetto esterno è certamente frutto dell’intervento di maestranze locali […]

la risoluzione dell’interno mi sembra che indichi una maggiore maturità del San Satiro, tanto che sarei propenso ad assegnarla al periodo 1490-95». Infatti, se all’esterno compaiono sia un tiburio lombardo, a nascondere la cupolina, sia colonnine con capitelli tradizionali “a palmette” e decorazioni in cotto in cui sono assenti i riferimenti all’antico, internamente la cappella rivela elementi e decorazioni molto “aggiornati” e con riferimenti diretti a Bramante: tre nicchie tonde con la tipica conchiglia nella calotta sferica (come in San Satiro) e archivolti e trabeazione classica ma semplificata, un tamburo circolare in forma di trabeazione, con due cornici con modanature e un fregio decorato a graffiti, quindi una cupola strutturata con otto lievi costolature. Negli otto spicchi della cupola compaiono tondi, come nella volta del coro di Santa Maria delle Grazie [Patetta 1987]. Bibliografia: L. Beltrami 1891, I, 338; F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 317; A. Terzaghi 1963, 327; C. Baroni 1944, 22; A. Bruschi 1969, 802; L. Patetta 1987(b), 343 e 2001(b), 142; F. Borsi 1989 e S. Borsi 207; G. B. Sannazzaro, G. Sironi 1990, 280. 96

Milano. Cappella Pozzobonelli, modello ligneo (V. Onida).

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PROTIRO DI SANTA MARIA NUOVA (opera attribuita) Abbiategrasso, 1497

Nel 1470 circa fu costruito un quadriportico trapezoidale davanti alla chiesa trecentesca, di architettura tardogotico lombarda. Le arcatelle su colonne dai capitelli arcaici “a palmette”, gli archivolti in formelle di terracotta e i tondi con busti di santi e apostoli rimandano ai chiostri milanesi della metà del Quattrocento e ai cortiletti dell’Ospedale Maggiore. Nel 1497 (come attesta la data incisa in uno dei sottarchi in basso) fu costruito davanti alla facciata della chiesa un grande protiro, pronao (o tegurium all’antica) sostituendo tre arcate del portico. L’opera fu attribuita a Bramante a partire dal Settecento (De Pagave) e l’attribuzione, senza alcun documento, è stata accolta unanimemente o quasi fino ad oggi, se pur con qualche riserva e limitazione. Anzitutto si è ritenuto più probabile un suggerimento bramantesco che un vero e proprio progetto definito anche nei dettagli e nei particolari [Bruschi 1969; Borsi 1989]. Infatti non sembrano appartenere a Bramante i capitelli del primo ordine, di un corinzio “scorretto”, e la soluzione delle due colonne accostate sembra più riferibile a Giovan Pietro

Fugazza, all’Amadeo e a Benedetto Briosco, per le facciate del modello del duomo e della Certosa di Pavia [Patetta 2001]. Mentre, può essere riconosciuta come di Bramante la grandiosità della concezione dell’arcone (che rimanda all’arco trionfale di ordine maggiore dei laterali nella canonica di Sant’Ambrogio, precedente di cinque anni): non va sottovalutato il fatto che l’architetto deve essere passato per Abbiategrasso molte volte, diretto a Vigevano. Recentemente è stato ritrovato il documento attestante che il secondo ordine del protiro, quello superiore, è stato realizzato dall’architetto romano Tolomeo Rinaldi quasi un secolo più tardi, a cominciare dal 1595: d’altronde differenti sono i capitelli (di un corinzio più maturo) e i materiali, mattoni, serizzo e pietre di Viggiù e Angera anziché un uniforme rivestimento lapideo [Comincini 1990]. Il documento può portare a due differenti ipotesi: la parte superiore sarebbe stata aggiunta per proteggere l’affresco della Vergine con Bambino collocato in un punto della facciata esposto alla pioggia; oppure Rinaldi avrebbe edificato la parte alta aggior98

nando solo negli elementi architettonici un progetto o un modello bramantesco esistenti. Secondo la prima ipotesi, cioè, il progetto del 1497 attribuito a Bramante avrebbe previsto un protiro di poco più alto delle arcatelle laterali, a un solo ordine e terminante con la trabeazione, sopra

la coppia di colonne accostate [Modesti 1990]. Bibliografia: V. De Pagave, 1700; A. Bruschi 1969, 819 e 1993, 195; F. Borsi 1989, 95 e S. Borsi, 209; Modesti 1990, 62; M. Comincini 1990, 88; L. Patetta 2001(a), 197.

Abbiategrasso. Protiro di Santa Maria Nuova.

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CRIPTA E MODELLO DEL DUOMO DI PAVIA (opera attribuita) 1490-1492

Il grandioso impianto fu voluto nel 1488 dal cardinale Ascanio Sforza (fratello di Ludovico il Moro) al centro della città, al posto delle due antiche basiliche “doppie” di Santo Stefano e Santa Maria del Popolo. Ai primi disegni e alla stesura del progetto parteciparono Cristoforo de’ Rocchi e Giovanni Antonio Amadeo e, poco più tardi, Gian Giacomo Dolcebuono, ma la critica dagli anni di Malaguzzi Valeri (1904 e 1915) in poi ha concordemente attribuito a Bramante l’imponente schema planimetrico, basato sull’innesto di un nucleo ottagonale a cupola con un corpo longitudinale a tre navate (come in Santa Maria del Fiore a Firenze e nella basilica di Loreto, opere ben note all’architetto urbinate). Il de’ Rocchi risultava in un documento del mese di marzo 1488 come «magister a lignamine» ed anche «ingeniario» per aver eseguito «disegnos et modellos» forse sotto la guida dell’Amadeo. Però un progetto definitivo deve esser stato redatto in seguito perché nel mese di agosto dello stesso anno veniva documentato un «certum designum» con memoriale e precise misure, e veniva testimoniata la presenza di Bramante [Giordano 1994]. Ma un altro model-

lo ligneo, di grandissime dimensioni e con precisi dettagli architettonici (quello ancora esistente) è stato eseguito dopo un confronto tenutosi a Pavia nel 1490 con la partecipazione, oltre che di Bramante, anche di Leonardo e di Francesco di Giorgio, a Milano per la questione del tiburio del Duomo. Al modello, probabilmente apportando modifiche derivate da vari suggerimenti, il de’ Rocchi lavorò fino alla morte nel 1497, data in cui subentrò nei lavori il «magistero ab intalio, intersega et lignomine» Giovan Pietro Fugazza, seguito e controllato dal Dolcebuono e dall’Amadeo, che dirigevano anche il cantiere del duomo in costruzione [Bruschi 1969]. Pare che il cantiere e il modello proseguissero in parallelo per parecchi anni [Maiocchi 1937 e 1949]. A Bramante viene attribuita la cripta del duomo, eseguita nel 1492, con una insolita grande volta “a conchiglia”, che appare ispirata a monumenti romani come il ninfeo degli Orti Sallustiani e il canopo della villa Adriana a Tivoli, forse a lui noti da alcuni disegni di Francesco di Giorgio [Schofìeld 1989]. La pianta della cripta era articolata e con nicchie di varia dimensione aperte in tutte le pareti. Il duomo di Pavia fu 100

il primo esempio di cattedrale rinascimentale prima di San Pietro [Bruschi 1994]: se il centro della tribuna ottagonale confermava la tradizione di dedicare tale impianto simbolico alla Madonna (cui si riferiva da tempo il numero 8) altri riferimenti “colti” erano attribuibili a Bramante, ad esempio le quattro sagrestie che circondavano il tiburio come organismi autonomi e le cappellette semicircolari, ispirate al Santo Spirito brunelleschiano di Firenze, ma forse anche al suo primo progetto per Santa Maria presso San Satiro [Patetta 1987]. L’architettura delle quattro sagrestie

(come risulta nel grande modello ligneo) rimandava invece a Leonardo, presentando evidenti convergenze con i numerosi studi per edifici compositi a pianta centrale con nicchie sporgenti e con cupola estradossata con lanterna [disegni in Firpo 1963]. Bibliografia: R. Maiocchi 1937, I, 264; L. Firpo 1963, 39-48; A. Bruschi 1969, 765 e 1994(b), 157; A. Cadei 1975, 38; F. Borsi 1989, 88 e S. Borsi 178; L. Patetta 1987(b), 185; R. Schofìeld 1989(a), 201; L. Giordano 1994, 463; L. Patetta 2001(b), 189; M. Visioli 2002, 339.

Pavia. Duomo, pianta dal modello ligneo (Malaspina di Sannazzaro, 1816).

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Pavia. Duomo, modello ligneo, XV-XVI sec., particolare (Pavia, castello Visconteo).

Pavia. Duomo, cripta.

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PIAZZA DI VIGEVANO (opera attribuita) 1492-1496

un’unica altezza di gronda, e gli elementi, colonne, capitelli, finestre e oculi sottogronda «presentavano senza eccezioni il caratteristico stile lombardo del tardo Quattrocento» [Lotz 1974]. D’altronde i lavori, intensamente eseguiti dal 1492 al 1495-96, vedevano citati nei documenti come organizzatore e soprintendente Ambrogio da Corte (in passato erroneamente ritenuto un ingegnere ducale) [Schofìeld 1982] e come direttori delle opere magistri come Alessandro da Cremona, Filippo da Crema ed altri lombardi. Le intenzioni del Moro e forse i suggerimenti di Bramante erano esplicitati con insolita chiarezza nel documento datato 3 maggio 1492, di cui esiste anche la seguente traduzione non letterale [Comincini 1991]: «Essendo necessario per abbellire Vigevano soprattutto abbellire la piazza che è nel suo centro, affinché il luogo, il quale assume aspetto e dignità di città, grazie alla continua permanenza della nostra corte, abbia una piazza ampia, consona alla moltitudine degli abitanti […] abbiamo concesso a Ambrogio da Corte la facoltà di fare tutto quanto sia a ciò pertinente […] nel caso sia necessario demolire le case ed erigere una nuova costruzione per

Nel 1492 troviamo Bramante a Vigevano dove venivano iniziati i lavori per la grande piazza porticata, voluta da Ludovico il Moro per regolarizzare (amplificetur et dillatetur) lo spiazzo antistante il castello Visconteo che ospitava da molto tempo attività mercantili. Bramante è stato ricorrentemente a Vigevano per lavori al castello, dove ha eseguito anche delle scenografie teatrali: gli sono attribuite la torre, senza prove e limitatamente a un’eventuale assistenza al cantiere e in particolare alla sua sopraelevazione (1492), la loggia delle Dame (oggi tamponata) aperta sul paesaggio, come le loggette del palazzo ducale di Urbino, e forse anche qualche suggerimento per la loggetta della Falconiera. È possibile che Bramante abbia partecipato anche alla sistemazione e decorazione dell’appartamento della duchessa Beatrice d’Este (1493). L’impianto generale della piazza circondata da portici era probabilmente ispirato a quello del foro antico, come descritto da Vitruvio (V, 1) e da Alberti (VIII, 6), e quindi è evidente una coincidenza con l’impianto della coeva canonica bramantesca di Sant’Ambrogio a Milano, ma l’architettura della cortina regolare, con 103

abbellire la piazza e allo stesso modo sia necessario tracciare delle strade in Vigevano e collocare un porticato in modo che l’aspetto delle vie e delle case sia uniforme». Se l’ipotesi di un coinvolgimento di Bramante e di Leonardo nell’impostazione del progetto della piazza appare più che plausibile, non si deve ignorare anche la presenza a Vigevano, proprio nel 1492, di Giuliano da Sangallo, forse riportatore delle intenzioni di Lorenzo il Magnifico di completare con dei portici la piazza dell’Annunziata a Firenze [Borsi 1989]. Per le decorazioni ad affresco delle facciate delle cortine edilizie attorno alla piazza è stato fatto il nome di Leonardo, autore d’altronde di un famoso progetto per “stalle modello” per i cavalli forse per il castello di Vigevano (ms. B foll. 38v-39r, 1487-90) [Solmi 1911]. Ma l’attribuzione non è oggi più condivisa, perché i motivi decorativi, medaglioni con motti e richiami alle imprese di Ludovico il Moro, motivi araldici, candelabre e il fregio affastellato di imitazioni antiquarie, appartenevano più genericamente ai modi correnti alla fine del Quattrocento in Lombardia. Negli stessi anni Ludovico il Moro ha fatto costruire fuori Vigevano, nella campagna, la Sforzesca, cascina modello, quadrangolare a corte, con quattro abitazioni agli angoli. Questo edificio, con un impianto architettonico di notevole qualità (per il quale si è fatto il nome di Leonardo), rientrava nel

programma del duca per una razionalizzazione agricola, che comprendeva la coltivazione dei gelsi e l’allevamento dei bachi da seta [Giordano 1988]. Bibliografia: M. Solmi 1911, 48; F. Malaguzzi Valeri 1915, I, 172 e II, 157; A. Bruschi 1969, 647; W. Lotz 1974, 215; A. Pica 1974, 127; L. Grassi 1978, 252; L. Giordano 1988, 145; F. T. Fagliari Zeni Buchicchio, L. Giordano 1992, 289; F. Borsi 1989 e S. Borsi 193; R. Schofìeld 1982, 93 e 1992, 123-130; M. Comincini 1991, 32.

Vigevano. Veduta della torre (foto di D. Gottardi).

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Vigevano. La piazza vista dall’alto (foto di D. Gottardi).

Particolare degli affreschi (foto di A. Bonetti).

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VEDUTA URBANA, SCENA PROSPETTICA (opera attribuita) 1475-1510, bulino, 254 x 369 mm Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe

trale né illustrativa a commento di un testo, come saranno le successive elaborazioni di Baldassare Peruzzi e di Sebastiano Serlio contenute nel suo trattato. Potrebbe però esser stata pensata come enunciazione di un ideale ordine urbano, come illustrazione della trattatistica d’architettura riconosciuta come fondamento teorico, cioè le edizioni a stampa del trattato De re aedificatoria di Leon Battista Alberti (Firenze 1485) e della fondamentale eredità romana, il trattato De Architectura di Vitruvio (Roma 1486). Come la celebre Veduta di città ideale di Urbino (da molti ritenuta indirettamente “albertiana”) e secondo la teorizzazione di Alberti della varietas, nella Veduta urbana di Bramante abbiamo due diverse soluzioni linguistiche: a destra un portico architravato su colonne, trabeazione classica, finestre ad arco delimitate da lesene; a sinistra un portico ad arcate su pilastri, trabeazione e finestre timpanate, con i particolari del fregio decorato e dell’oculo nel sottogronda (che possono rimandare all’architettura decorata lombarda). Interessanti sono le presenze di un campaniletto sulla sinistra e di una cupoletta sulla destra, come preesistenze rispetto

Di questa incisione tratta da un disegno di Bramante abbiamo tre versioni lievemente differenti, di cui due recano sopra l’arco trionfale l’importante didascalia «Bramanti Ar/chitecti / Opus», attestando la paternità del disegno (ma probabilmente non dell’esecuzione incisoria), mentre su un esemplare conservato nella pinacoteca di Bologna è scritta la data 1475, del tutto inattendibile, in grafia antica e a mano. Resta però un’opera problematica per datazione e destinazione: potrebbe essere stata disegnata alla fine del periodo milanese, nel 1495 [Pedretti 1981], oppure essere un’opera “di autopresentazione” all’arrivo a Roma (1500), anche se non mancano ipotesi di un’opera più tarda, 1510 [Murray 1962]. È stata anche attribuita al Cesariano [Malaguzzi Valeri 1915] che potrebbe forse averla eseguita quando si trovava presso il pittore Matteo Fedele (o Fedeli) e pertanto tra 1493 e il 1496, o al ritorno a Milano dopo molte peregrinazione nel 1509 [Schofìeld 1995]. Probabilmente si trattò dell’esercizio accademico per la prima scena prospettica rinascimentale a noi nota, forse non destinata all’effettivo allestimento di uno spettacolo tea106

all’architettura “nuova”, dell’arco di trionfo e dei palazzi di una medesima altezza di gronda, esaltati dalla prospettiva centrale. La presenza di edifici più vecchi, anzi addirittura fatiscenti, sarà una scelta costante nelle prospettive teatrali dal primo Cinquecento in poi. Nel disegno bramantesco, comunque, compaiono in primo piano e nel punto della fuga prospettica tutte architetture “aggiornate”, anche se non riconducibili alle opere del maestro a Roma: permane un carattere tardo-quattrocentesco, che può essere considerato “lom-

bardo”, ma che rimanda anche alle finestre e alla intelaiatura a paraste del palazzo della Cancelleria, l’edificio più importante e quasi terminato tra quelli che Bramante può aver osservato all’arrivo a Roma. Bibliografia: F. Malaguzzi Valeri 1915, II, 309; C. Baroni 1942, 509; A. M. Hind 1948, 105-106; P. Murray 1962, 38-40; C. Pedretti 1981, 113; A. Bruschi 1987, 326; A. Petrioli Tofani 1994, 530; R. Schofìeld 1995, 325; L. Patetta 2001(b), 108.

Veduta urbana, scena prospettica (Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe).

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LE OPERE DEL PERIODO ROMANO

Roma. Chiostro di Santa Maria della Pace (foto di H. Nouvel de la Fleche).

CHIOSTRO DI SANTA MARIA DELLA PACE Roma, 1500-1504

Pace, voluta da papa Sisto IV e attribuita a Baccio Pontelli [Benzi 1990]. Era dunque necessario seguire la positura diagonale di un lato della tribuna della chiesa. Dalla strada si accedeva al chiostro di spigolo: Bramante, facendo di necessità virtù, previde arditamente la soluzione del pavimento giocato sulle diagonali, attento a risolvere l’angolo con la muratura piegata. Dall’ingresso, gli assi diagonali, prospettici, guidano l’osservazione verso il pilastro d’angolo, cioè un “pieno”. Due problemi egli ha affrontato nella progettazione: l’adozione degli Ordini classici in una composizione variata, e in particolare in un edificio a due piani di differenti altezze; la ricerca di un sistema proporzionale tale da istituire un ordine generale tra elementi comunque diversi. I tracciati regolatori di tale sistema sono stati rilevati [Bruschi 1969] ed evidenziati in pianta, un reticolo modulare di quadrati di cui i quattro corsi esterni, perimetrali, erano costituiti dai porticati, e una serie di diagonali rivelano le proporzioni delle fronti in rapporto 4:3 e 2:1 (comprese le profondità dei portici). Inoltre, l’altezza del piano superiore era uguale a quella del piano terreno diminuita di un

In concomitanza con le prime collaborazioni, pareri (Vasari scriveva «consigli») suggerimenti e lavori in cantieri altrui, Bramante ha ricevuto la commissione dal cardinal Oliviero Carafa, bibliofilo e colto collezionista d’antichità (già committente di Filippino Lippi e del Perugino) per la sua prima opera a Roma, certa e documentata: una realizzazione di così perentoria padronanza del linguaggio antico e capacità di rinnovarlo in una soluzione “moderna” da affermarsi subito come l’architetto più importante e di riferimento per tutti gli altri. Vasari non aveva dubbi: «si messe all’opera con ogni industria e diligenza, e prestamente e perfettamente la condusse al fine. [...] e gli diede grandissimo nome per non essere in Roma molti che attendessimo all’architettura con tanto amore, studio e prestezza». Già le prime attività per Vasari «gli acquistarono in Roma tanto credito che era stimato il primo architettore per esser egli risoluto, presto e bonissimo inventore che da tutta quella città fu nel continuo de’magior bisogni da tutti e’ grandi adoperato». Il chiostro si inseriva nel contesto della chiesa tardoquattrocentesca di Santa Maria della 111

quarto (seguendo i suggerimenti di Vitruvio (L. III, 1) e di Alberti (L. IX, 5). Altre proporzioni sono state individuate [Borsi 1989] nei 3 moduli dell’altezza del plinto più parasta al piano terreno, nei 7 moduli circa della parasta, nei 3 moduli della trabeazione più l’intero piano superiore e nei 6 moduli del pilastro del piano superiore. Bramante non ha riproposto un chiostro secondo le tradizioni conventuali, bensì un cortile, tipologicamente ancora più accentuato dei chiostri di Sant’Ambrogio a Milano, archetipo che sarà adottato ripetutamente nel Cinque-Seicento dagli ordiri religiosi nuovi, per esempio dai Gesuiti. Il chiostro distribuiva a piano terreno il refettorio, le cucine e le sale di riunione, al piano superiore le celle e la biblioteca. Nei pilastri del porticato, per la prima volta dopo l’antichità romana, egli utilizzava l’ordine tuscanico, che si riteneva più antico del dorico e di origine italica, con paraste di ordine ionico su alti plinti; al primo piano invece si alternavano pilastri compositi con esili colonnine corinzie, terminando in alto con le cornici, rette da mensole, chiaramente desunte dal coronamento del Colosseo. Ma la conoscenza diretta e l’osservazione attenta della sovrapposizione degli ordini del Colosseo non si traduceva in una citazione, nè in una imitazione di stampo archeologico, bensì in una interpretazione nuova e “moderna”. Bramante affermava, dunque, non in

teoria ma con un’opera eseguita, che il linguaggio romano “classico” poteva risolvere ogni problema della composizione architettonica. Per esempio, era inedita la compresenza dei quattro ordini articolata in due piani soltanto, con dettagli di estrema finezza, come, in un’architettura severa, sostanzialmente priva di elementi decorativi, la famosa soluzione d’angolo con il pilastro piegato, la parasta “filiforme” e il capitello ionico ridotto soltanto alle due volute piegate “a libro”. L’assenza totale di decorazione trovava un’accentuazione radicale nella scelta al piano terreno dell’ordine tuscanico che non prevedeva nel fregio i triglifi e le metope (al cui posto, nel fregio, correva una scritta a litterae capitales forse voluta dal committente come connotazione antiquaria). L’architettura del chiostro della Pace proponeva, portando a maturazione le precedenti ricerche milanesi e lombarde (chiostri di Sant’Ambrogio e di Chiaravalle), la “licenza” del porre il pieno sul vuoto, dato che le esili colonne del primo piano gravano al centro dell’intercolumnio. Il portico sottostante aveva volte in muratura, mentre il primo piano, assai più basso, aveva una copertura lignea, come nella tradizione tardomedievale e quattrocentesca, qui non adottata per ragioni strettamente economiche, ma per evitare, con l’adozione di volte a crociera come in basso, un rialzo che avrebbe portato all’aggiunta di un attico, o cornicione 112

al di sopra della trabeazione. Il chiostro di Santa Maria della Pace, come il pressoché coevo tempietto di San Pietro in Montorio, rivelava dunque una piena maturità espressiva e l’avvio del tutto personale della cosiddetta “grande maniera”, o “pieno Rinascimento”. Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte;

C. Ricci 1915, 361; O. H. Förster 1956, 124 e 1958, II, 760; R. Bonelli 1960, 18; A. Schiavo 1960, 103 e segg.; G. C. Argan 1970, 18; W. Lotz 1973, 111; A. Bruschi 1969, 249 e segg., 822 e segg., e 1973, 127; T. Carunchio 1987, 299; F. Benzi 1990, 54; F. Borsi 1989, 104 e segg. e S. Borsi, 225 e segg.; A. Bruschi 2002(a), 50.

Antiquarie prospettiche romane, codice a stampa (Roma, Biblioteca Casanatense, Vol. inc. 1628).

Disegni di antichità romane, codice detto Le rovine di Roma, manoscritto cartaceo (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S.P.10.33).

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Roma. Chiostro di Santa Maria della Pace (foto di F. Gutiérrez Baños).

Planimetria generale (P. Letarouilly, 1849-66).

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Loggiato superiore (foto di F. Gutiérrez Baños).

Portico del piano inferiore.

Dettaglio del loggiato superiore.

Dettaglio della base della lesena angolare.

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TEMPIETTO DI SAN PIETRO IN MONTORIO Roma, 1502-1507 ca.

ca. Chiaramente Bramante si ispirava, oltre che ai monumenti sepolcrali antichi, anche al tempio periptero rotondo di Vesta a Roma e al tempio della Fortuna a Tivoli, pure rotondo, ma anche aveva trovato un autorevole avallo nel trattato di Vitruvio (al centro della dibattito culturale nella Roma di quegli anni, dopo la locale pubblicazione a stampa del 1486-89). Vitruvio nel Libro IV (cap. VII e VIII) ne dava una lunga e minuziosa descrizione, certamente molto influente, a giudicare da alcuni disegni di Francesco di Giorgio nei suoi trattati (1480 ca., Codice Saluzziano, I, Templi). Non vanno escluse neanche le considerazioni e l’attenzione pertinente agli studi e rilievi bramanteschi del patrimonio monumentale romano e in particolare, per questo tema, la pianta centrale cupolata di Santa Costanza. Anche la balaustra, forse aggiunta un po’ più tardi, era un elemento nuovo nella produzione architettonica a Roma in quegli anni, soluzione terminale di un edificio che avrebbe avuto molta fortuna nell’architettura del Cinquecento (da Sansovino a Michelangelo e a Palladio). Eleganti nicchie alla romana senza statue si corrispondono armonicamente tra piano

Il tempietto di San Pietro in Montorio venne commissionato a Bramante dai reali di Spagna, Isabella e Ferdinando, tramite il cardinale spagnolo Bernardo Lopez de Carvajal. Edificato sul Gianicolo, presunto sito della crocifissione di San Pietro, come un nuovo martyrion (o martyrium) fuori delle mura di Roma e all’interno del convento quattrocentesco dell’ordine francescano del Beato Amedeo, già dagli anni di Sisto IV (donazione pontificia nel 1472). La datazione del tempietto è incerta: c’è chi la colloca qualche anno più tardi, tra 1508 e il 1510. Probabilmente, già esisteva una cripta sotterranea, oggetto di devozione e forse la ragione prima dell’interesse dei reali di Spagna [Howard 1992]. È probabile che nel progetto originario di Bramante il tempietto dovesse in origine essere il centro di un cortile circolare, spiccato su tre gradini, con un podio all’antica ed entrate radiali. Risultato della combinazione delle perfette figure del cilindro e della sfera, a raffigurazione simbolica del cosmo perfetto, proponeva sedici colonne di ordine dorico con la base, trabeazione a triglifi e metope, elementi quasi inediti a queste date e già rari nella Roma anti116

porticato, che doveva circondare il tempietto completando la sua raggiunta e compiuta concinnitas, secondo le indicazioni teoriche di Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria [Libro VI, 2]. Anche Pietro Cataneo lo inseriva nel suo trattato (1554, Libro III, 11) rilevando però alcuni «errori in cui incorse l’eccellente architetto […] ne lo stringer gli spazi che sono intra le colonne». Andrea Palladio nel Libro IV dei Quattro Libri dell’architettura (1570) presentava, con pianta e prospetto, il tempietto autorevolmente inserito tra i templi romani, sottolineando proprio nel commento delle due tavole illustrative come «Bramante sia stato il primo a metter in luce la buona, e bella Architettura, che da gli Antichi fin’a quel tempo era stata nascosta». La fortuna del trattato di Palladio farà conoscere ovunque in Europa quest’opera bramantesca, così come faranno anche Le Vite diffusissime di Vasari, in cui si leggeva: «di travertino nel primo chiostro un tempio tondo, del quale non può di proporzione, ordine e varietà imaginarsi e di grazia il più garbato né meglio inteso»”. Infine, va ricordato che nel tempietto di San Pietro in Montorio è presente, non si sa se per scelta di Bramante o su richiesta dell’antichista ed erudito cardinale Carvajal, anche una precisa “numerologia” ricorrente nella tradizione dell’architettura religiosa giudaicocristiana e medievale: vi si ritrovano infatti i numeri 16 (le colonne e le

terra e tamburo, costituendo insieme un elemento plastico e utile ad alleggerire il peso della muratura. Il tempietto testimonia i nuovi orientamenti del Bramante romano: la stessa organica plasticità verrà sviluppata su scala monumentale nel successivo progetto per il nuovo San Pietro. Superata la ricerca milanese, l’artista a Roma intese ricorrere meno all’elemento decorativo e alla ricerca illusionistica, per approfondire invece il linguaggio in senso severamente classico, orientandolo ad un più equilibrato discorso di volumi variamente articolati e monumentali. Il tempietto, per la sua composizione perfetta e per la precisa e sicura adozione dell’ordine dorico, ha rappresentato subito una sorta di sintesi degli ideali simbolici e formali di un’intera epoca e di un’intera cultura. Ed è stato infatti subito disegnato da Raffaello nel cartone della Predica di San Paolo agli Ateniesi (1511), è comparso in una serie di disegni di Aristotile da Sangallo (1530 ca., agli Uffizi), pianta, sezione, alzato e particolari [Werdenhausen 1994], ed è stato inserito da Sebastiano Serlio nel Libro III del suo trattato (1540) dove compariva insieme e a confronto diretto con le architetture antiche. Nel Libro IV (1537) Serlio scriveva «Bramante essendo egli stato inventore et luce della buona et vera Architettura […] restata sepolta dagli antichi al suo tempo sotto Giulio II». Nel trattato compariva anche il cortile rotondo, 117

paraste lungo il muro della cella), 8, numero cristologico legato alla Passione ma anche biblico (le nicchie e le finestre), 4 (gli ingressi al cortile), 3 (gli accessi al tempietto), 48, cioé 3x4 x4 (le metope nel fregio, 3 ogni intercolumnio, con un’iconografia -i segni del martirio- cristiana anziché pagana). È stato osservato [Bruschi 1973] che il progetto bramantesco originario, quello completato dal portico circostante, costituiva «un impianto ad anelli concentrici che evocava addirittura l’idea platonica della città ideale così come è suggerita da politici e architetti

dell’Umanesimo […] un’idea della città resa perfetta e “divina” dall’azione della Chiesa». Bibliografia: G. Vasari 1568, parte III; G. Francesco di Giorgio, ed. 1967, I, tavv. 17-22; O. H. Förster 1956, 173 e 1958, II, 763-768; R. Bonelli 1960, 19; A. Bruschi 1969, 989 e segg. e 1013 e segg. 1973, 229 e 1985, 291; P. Murray 1962, 35; M. Tafuri 1969, 128; H. Günther 1973, 88-94 e 2001, 267; F. Borsi 1989, 64 e S. Borsi, 251; D. Howard 1992, 211-217; A. E. Wenderhausen 1994, 510; C. L. Frommel 2002(a), 80.

Roma. Tempietto di San Pietro in Montorio, planimetria completa del progetto originale e pianta (S. Serlio, L. III, 1540).

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Roma. Tempietto di San Pietro in Montorio, sezione (P. Letarouilly, 1849-66).

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Roma. Tempietto di San Pietro in Montorio, esterno.

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Particolare del colonnato.

Particolare della cupola (foto di F. Gutiérrez Baños).

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TRIBUNA DI SANTA MARIA DEL POPOLO Roma, 1505/7-1509

ben sette statue. A Bramante devono essere probabilmente ricondotte anche le commissioni a Pinturicchio per gli affreschi (1508 ca.) e al maestro vetraio Guglielmo da Marcilla (il Marcilat) per le vetrate colorate, artista forse fatto venire a Roma da Bramante stesso (Vasari, nelle biografie dei due artisti). Tutti i lavori devono essere stati conclusi nel 1509, stando a un documento in cui è scritto che in quell’anno veniva fornita da Alberto da Piacenza la copertura della tribuna «secondo l’ordine e stima di Maestro Bramante» [S. Borsi 1989]. L’opera bramantesca e i due monumenti funerari, cioè quella sorta di piccolo mausoleo, erano molto più visibili di oggi, perché non nascosti dall’altare barocco collocato all’inizio della tribuna, mentre l’altare precedente si trovava più avanti, sotto la cupola della chiesa. Malgrado le ridotte dimensioni, la tribuna di Bramante dimostra la piena maturità del suo controllo progettuale e dell’affinamento delle capacità proporzionali, prospettiche e di sottili correzioni ottiche. Essa si presenta come una sequenza di vani: un vano quadrato

L’intenzione di rinnovare il vecchio coro della chiesa quattrocentesca, costruita al tempo di Sisto IV, si fa rientrare nel grandioso programma edificatorio di papa Giulio II, ma è possibile che già fosse nelle intenzioni di Alessandro VI, e che vi possa essere stato coinvolto Bramante all’inizio della sua attività romana, quando era diventato «primo architetto» pontificio. Di questo avviso sembra essere Vasari, che accostava questo lavoro al palazzo Castellesi, da lui indicato come una delle prime opere dell’architetto. Il progetto definitivo e il successivo avvio dell’edificazione vanno comunque collocati dopo il 1505, anno della morte (nel mese di maggio) del cardinale Ascanio Sforza, il cui monumento funerario doveva essere collocato nel nuovo coro, assieme a quello del cardinale Basso della Rovere morto nel 1507. I due monumenti di grande dimensione, concepiti come due opere simili e da porre una di fronte all’altra, erano stati commissionati ad Andrea Sansovino, forse su suggerimento di Bramante. Trattavasi di un telaio architettonico concepito come un arco di trionfo ospitante il sepolcro e popolato da 122

coperto da una volta a vela è preceduto e seguito da due vani coperti da volte a botte, l’ultimo dei quali con cinque grossi lacunari, memori di quelli del Pantheon. Al termine della tribuna si trova un’abside con la calotta in forma di conchiglia: tema brunelleschiano già reinterpretato da Bramante a Milano nelle cappellette di Santa Maria presso San Satiro e nella tricora della cappella Pozzobonelli. Sono stati notati [Bruschi 1973] gli esiti di una magistrale raffinatezza degli effetti visivi: «il massimo allontanamento dell’abside terminale e insieme l’accentuazione del vano centrale, quest’ultimo allargato a 16 braccia romane, rispetto alla larghezza (braccia 14 e ½) dei due spazi a botte, e diminuisce leggermente la profondità di quello più lontano (braccia 9 e 1/3) per far apparire l’abside illusionisticamente più lontana. Correzioni ottiche simili Bramante aveva già introdotto nel coro e abside di Santa Maria delle Grazie a Milano. L’effetto è ulteriormente accentuato dall’accorta disposizione, moltiplicazione e rarefazione delle membrature». L’abside conchigliata è illuminata da un lacunare aperto, l’area dei monumenti sepolcrali da una serliana, la prima eseguita e forse dunque d’invenzione bramantesca, che precede quella posta da Raffaello su un’architettura nell’affresco de L’Incendio del Borgo (1517), tipo di finestra o

elemento di loggiato che avrà un grande successo per tutto il Cinquecento e oltre. Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; E. Lavagnino 1928, 7; A. Bruschi 1969, 911 e segg. e 1973, 281; E. Bentivoglio, S. Valtieri, 1976, 30 e segg.; C. Strinati 1981, 17 e segg.; A. Bruschi 1985, 67 e segg.; F. Borsi 1989, 134 e S. Borsi 287; C. L. Frommel 2002(a), 96.

Roma. Tribuna di Santa Maria del Popolo.

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Antonio di Pellegrino (per Bramante?), planimetria del palazzo Vaticano e delle logge (Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, A.287).

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RINNOVAMENTO DEL PALAZZO VATICANO E LOGGE Roma, 1506 ca. - 1513

Conosciamo gli importanti lavori di Bramante nel complesso disorganico degli edifici vaticani (che malgrado i ripetuti interventi susseguitisi nel XV secolo, per esempio agli anni di Niccolò V, necessitavano di ulteriori ristrutturazioni) da un disegno planimetrico attribuito ad Antonio di Pellegrino, collaboratore dell’architetto. Il disegno (Uffizi 287 A.) datato 1507 [Frommel 1984], forse copia di un foglio precedente, rappresenta tutti gli edifici situati a nord-est della basilica di San Pietro, di cui il papa Giulio II richiedeva un radicale riassetto progettuale: le logge (poi dette di San Damaso e costruite da Raffaello), le stanze vaticane attorno al cortile del Pappagallo, la scala Regia, la torre Borgia e la parte bassa del cortile del Belvedere (già progettato almeno nel 1505, ma forse prima) e la corte d’accesso con limitrofo un tempietto rotondo e un corpo di fabbrica a tre navate con pilastri di incerta destinazione (magazzini? scuderie?) che, per la dimensione dei pilastri, doveva reggere almeno un piano superiore [Pellechia 1994]. Il tempietto periptero con all’interno nicchie ed edicole rimandava naturalmente a quello di

San Pietro in Montorio, in costruzione o già completato. Al tempietto si accedeva, stando sempre al disegno attribuito ad Antonio di Pellegrino, da un grande vano di 26 metri per 82 circa, forse un importante atrio o vestibolo all’antica, con le pareti ornate con coppie di colonne e coppie di nicchie: appariva come un vano a tre campate, ma data la larghezza difficilmente voltato e più probabilmente con soffitto a cassettoni. Era destinato a importanti riunioni cardinalizie, forse «ad conciones, ad conclavia, ad pontificales coronationes» [Frommel 1984]. La parte del progetto generale destinata ad avere l’importanza maggiore ed anche il risultato più vistoso riguardava le logge, che Bramante ha potuto solo in parte completare. Ha scritto Vasari nella Vita di Raffaello: «diede il disegno alle scale papali e alle logge cominciate bene da Bramante architettore, ma rimaste imperfette […] e seguite poi col nuovo disegno ed architettura di Raffaello, che ne fece un modello di legname, con maggiore ordine che non aveva fatto Bramante». La realizzazione di Raffaello (che subentra a Bramante dopo che questi 125

ha impostato il secondo livello della fabbrica nel 1513, per papa Leone X) è testimoniata a pochi anni dal suo completamento da una veduta prospettica di Marteen van Heemskerck (1534) che rappresenta la quattrocentesca loggia delle Benedizioni, lo spiazzo davanti alla basilica di San Pietro, l’accesso ai palazzi Vaticani e tre piani delle logge: solo il piano più basso, con sedici arcate di ordine “romano” simili a quelle del Colosseo, è stato sicuramente costruito su disegno bramantesco e con la sua direzione dei lavori, che nel 1509 riguardava, pare, già il secondo piano. Difficile è valutare le intenzioni di Bramante riguardanti i rapporti tra l’impianto

rigoroso perché del tutto nuovo del cortile del Belvedere e quello delle logge, condizionato dalle varie positure e difformi preesistenze, nonché dalla richiesta di restauri e di adattamenti di stanze e di appartamenti, con una serie di indispensabili compromessi [S. Borsi 1989] ai quali l’architetto al culmine del suo prestigio professionale forse non era molto disposto. Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; R. Bonelli 1960, 28 e segg.; A. Bruschi 1969, 933; C. L. Frommel 1984(a), 361-363; F. Borsi 1989 e S. Borsi, 291 e segg.; L. Pellechia 1994, 507; C. L. Frommel 2002(a), 82 e segg.

Marteen van Heemskerck, veduta dello spiazzo di San Pietro, dei palazzi Vaticani e delle logge, 1536 ca. (Vienna, Albertina).

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CORTILE DEL BELVEDERE Città del Vaticano, 1505 ca.-1514

reno con grandiose scalinate, stabilendo nei due lunghi corpi di fabbrica una tipologia del tutto nuova: un portico con pilastri d’ordine “romano” al piano più basso, un piano intermedio finestrato, con coppie di paraste e nicchie, e un terzo piano loggiato d’altezza ridotta e architravato. Due disegni redatti negli anni dell’incarico bramantesco e conservati nel codice Coner al Soane’s Museum di Londra (ff. 17 e 42) mostrano la planimetria del progetto originario e due campate dell’alzato. Le stesse campate compaiono anche in un disegno di Bernardo della Volpaia (1515 ca., f. 41v) sempre conservato nello stesso codice Coner. Meno precisato appare il piano bramantesco nella tavola di Antonio Lafréry in Speculum romanae magnificentiae, 1575 ca. [Borsi 1989]. Punto focale dell’insieme, alla sommità, era una monumentale esedra, che con un muro sulla destra intendeva nascondere la villa di Innocenzo VIII, perché diversamente orientata [Ackerman 1954]. L’esedra conteneva una gradinata con possibile utilizzazione per spettacoli teatrali, forse di carattere privato per il papa, e una “controscala” convessa, come risulta in una

Fu intenzione del papa Giulio II che i più di trecento metri di terreno collinoso che separavano il palazzo del Vaticano dalla villa del Belvedere (fatta costruire da Innocenzo VIII negli anni 1485-87) venissero sistemati da Bramante con il massimo carattere monumentale. Forse all’inizio Bramante doveva studiare un collegamento tra il palazzo papale, o meglio i disorganici palazzi edificati dal XIII al XV secolo, ora da ampliare, e la sommità del colle Vaticano. Può darsi che fin dai primi disegni il papa volesse un cortile da adibirsi ad antiquarium di statue antiche, di cui era collezionista (tra le quali il Laocoonte). Iniziati i grandi lavori di sterro per ridurre il declivio del colle, e una valletta, in una gradonata o meglio in terrazzamenti, il grandioso progetto doveva ben presto essersi precisato in due corpi di fabbrica, come due lunghi “corridori”, che lasciavano libero al centro uno spazio ascendente, da organizzare a tre livelli successivamente più alti, forse già con l’idea di un’ampio spazio teatrale e di giardini. L’architetto, che ebbe così la sua prima commissione dal papa Della Rovere, ha raccordato i tre differenti livelli del ter127

tavola del trattato di Sebastiano Serlio [L. III, 1540, tav. 147]. L’esedra bramantesca è stata trasformata poi in un “nicchione” da Pirro Logorio nel 156065. Dunque, l’intervento mirava a collegare il palazzo alla villa con un grandioso giardino architettonico che, rievocando quelli delle residenze imperiali descritti dagli autori antichi e insieme fungendo da pratico collegamento coperto tramite le due gallerie laterali, riuscisse anche a regolarizzare e armonizzare due complessi di stile differente. Alla morte dell’architetto il cortile del Belvedere era in costruzione, ivi compresa nell’esedra una scala d’accesso a spirale. Detta “a lumaca”, la scala è stata una realizzazione bramantesca ammiratissima e più volte imitata (per esempio, da Raffaello nella villa Madama, da Vignola nel palazzo Farnese a Caprarola): la scala proponeva, con un virtuosistico progetto ed un’insolita esecuzione, la successione dal basso dei cinque ordini architettonici, tuscanico, dorico, ionico, corinzio, composito. Vasari la considerava esemplare: «Fece una scala a chiocciola su le colonne che salgono, sì che a cavallo vi si cammina, nella quale il dorico entra nello ionico e così nel corintio e de l’uno salgono ne l’altro […] con artifizio certo eccellente». Il cortile del Belvedere, nel cui cantiere alla morte di Bramante sono stati attivi Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane, venne considerevolmente alterato negli anni 1550 e

1560-70, fino all’intervento di Domenico Fontana (1585) che interruppe la sua unità spaziale con la costruzione di un corpo trasversale destinato ad ospitare una biblioteca. Per avere un’idea del progetto bramantesco dobbiamo ricorrere a due vedute d’epoca, l’affresco in castel Sant’Angelo di Perin del Vaga (1535 ca.) che rappresenta una naumachia nella parte bassa del cortile, e il disegno prospettico di Giovanni Antonio Dosio (1550 ca., Uffizi 2559 A). Solo una parte del cortile appare nel disegno planimetrico attribuito al collaboratore di Bramante Antonio di Pellegrino (forse del 1507) ma avente come tema specifico (come si detto nella scheda precedente) il complesso delle fabbriche vaticane a nord e le logge. Ancor meno chiarificatrici appaiono sia la medaglia commemorativa coniata in occasione della posa della prima pietra, in cui compare una vista “a volo d’uccello”, sia quella attribuita a Gian Cristoforo Romano, datata da Frommel (1984) all’anno iniziale dei lavori, il 1504 ca. Un’altra veduta della scala concavo-convessa alla sommità del cortile è stata disegnata nel Cinquecento e attribuita a Jacques Androuet Du Cerceau, mentre esiste un disegno, alzato prospettico e sezione, della scala “a lumaca” (Uffizi 2100 A) d’autore ignoto anche se attribuibile forse al Dosio [Eiche 1994]. È stato osservato [Bruschi 1973] che nel progetto del cortile del Belvedere, largo 128

quasi 100 metri e lungo 300, il riferimento all’antichità non poteva che farsi diretto, perché solo gli antichi romani avevano edificato organismi di così grandi dimensioni e affrontato con l’architettura spazi così immensi: il circo di Nerone (nella stessa area vaticana), la villa di Plinio, l’ippodromo degli Orti Sallustiani, il santuario di Palestrina, il circo Massimo, lo stadio del Palatino, la villa Adriana a Tivoli, ma anche le terme: Bramante aveva progettato dunque nelle proporzioni di quel thermarum more di cui scriveva

Francesco Alberini proprio in quegli anni (1509-10). Bibliografia: F. Alberini 1510; G. Vasari 1550 e 1568, III parte; J. Ackerman 1951, 78 e 1954, 142 e segg.; O. H. Förster 1956, 210; A. Bruschi 1969, 291 e segg. e 865 e segg., 1973, 149 e segg.; E. Battisti 1975, 35; C. L. Frommel 1984(a), 123; F. Borsi 1989, 80 e segg. e S. Borsi 264 e segg.; S. Eiche 1994, 508; C. Thoenes 1998, 135 e segg.; F. Testa 2001, 229 e segg.; C. L. Frommel 2002(a), 82 e segg.

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Cortile del Belvedere, emiciclo terminale e scala “a lumaca”, disegno (Londra, Soane’s Museum, codice Coner).

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Bernardo della Volpaia, cortile del Belvedere, disegno, 1515 ca. (Londra, Soane’s Museum, codice Coner).

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Giovanni Antonio Dosio, veduta del cortile del Belvedere, disegno 15 (Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, A.2559).

Perin del Vaga, Naumachia nel cortile del Belvedere, affresco, 1535 ca. (Roma, Castel Sant’Angelo).

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Città del Vaticano. Cortile del Belvedere, cortile superiore.

Dettaglio dell’emiciclo terminale (foto di O. Monbaillu).

Dettaglio della soluzione d’angolo.

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Città del Vaticano. Cortile del Belvedere, cortile superiore, dettaglio.

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Città del Vaticano. Cortile del Belvedere, scala “a lumaca”.

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Basilica di San Pietro, Piano della pergamena (Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, A.1).

Basilica di San Pietro, pianta di Baldassare Peruzzi (per Bramante?), (S. Serlio, L. III, 1540).

Ricostruzione con spaccato assonometrico del progetto bramantesco (disegno di P. Foellbach).

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PROGETTO PER LA BASILICA DI SAN PIETRO Roma, 1506-1514

Il progetto di Donato Bramante, un’architettura degna degli antichi, definita da Michelangelo [Lettera a Bartolomeo Ammannati, 1555] «chiara, schietta, luminosa e isolata atorno», prevedeva che la nuova San Pietro -con quattro facce uguali e quattro campanili agli angoli- fosse effettivamente isolata all’interno di una zona monumentale chiusa, degna delle più grandi terme romane o dei fori imperiali, e ben illuminata da grandi finestre nei muri perimetrali. Il progetto sacrificava la possibilità di proporre una fronte principale con l’ingresso monumentale alla perfetta rispondenza tra esterno e interno e alla più assoluta simmetria: il pensiero e le ricerche rinascimentali sui solidi geometrici (il cubo e la semisfera della cupola), sulla modularità, l’armonia e la rispondenza delle parti si confrontava ora, dopo le precedenti piante centrali quattrocentesche di Brunelleschi e di Giuliano da Sangallo, con la novità di una scala monumentale e pertanto con i più imponenti organismi imperiali di Roma antica. Sostituendo la più antica basilica della Cristianità, ora in cattive condizioni statiche e già rinnovata nel coro da Bernardo Rossellino al tempo di

Niccolò V, il San Pietro di Bramante doveva raggiungere il più alto grado di perfezione (la concinnitas albertiana già raggiunta nel tempietto di San Pietro in Montorio), affrontando al tempo stesso l’impegno di una dimensione colossale, attuabile solo passando dagli organismi unitari del Quattrocento a un organismo complesso, composto di parti concatenate tra loro. La tipologia centrica veniva a complicarsi con le cinque cupole della pianta composita a croce greca inscritta, a quincunx. In una delle numerose ipotesi progettuali, con braccia absidate e deambulatorio, con grandiosi pilastri e volte a botte alla romana e con una grande cupola degna del Pantheon, intendeva emulare la veneranda chiesa costantinopolitana di Santa Sofia. Questa esperienza inedita di una prassi progettuale “moderna” ha costituito la fase conclusiva del processo bramantesco verso il raggiungimento di un linguaggio architettonico “maturo”, legato ma autonomo rispetto a quello degli antichi, non solo dunque impegnato nella ricerca di principi e metodi universali, ma anche nel raggiungimento di risultati “scientifici”, logici e verificabili [Bruschi 1969]. Difficile e non priva, pur dopo tanti studi e ricerche, di 137

dubbi è la ricostruzione della vicenda della fabbrica di San Pietro negli anni del coinvolgimento di Bramante. Già dalla sua salita al soglio pontificio nel 1503 Giulio II Della Rovere aveva iniziato ad occuparsi della ricostruzione radicale della basilica antica e ad esaminare ipotesi e tipologie architettoniche, tra cui quella di fra’ Giocondo (1505) che prevedeva una pianta basilicale con un nartece avvolgente di stampo bizantino. Nel 1505, di certo, Bramante cominciava a redigere le prime planimetrie e a proporre varie soluzioni per il più impegnativo programma edilizio del papa, che nello stesso anno commissionava a Michelangelo l’incarico di realizzare la propria tomba monumentale, sicuramente in connessione con il nuovo San Pietro in cui doveva essere collocata. Portava la data 18 Aprile 1506 la medaglia celebrativa della fondazione della basilica, opera probabile di Cristoforo Foppa detto Caradosso, coniata dunque perché le ricerche della soluzione progettuale si erano concluse e il grande cantiere poteva essere aperto. Bramante, che proprio in quell’anno ha ricevuto l’incarico di architetto unico responsabile della fabbrica di San Pietro, poteva dunque iniziare il grandissimo impegno di definizione del progetto esecutivo e di avvio dei lavori, con i necessari adattamenti del progetto approvato dal papa, impegno che durerà sette anni fino al 1513 quando, stanco e ammalato, cederà la direzione delle opere a Giuliano da Sangallo e a Raffaello (suo

successore con fra’ Giocondo su incarico di Leone X nel 1514, alla morte del maestro). Dunque, tra i primi progetti del 1505 e il mese di aprile 1506 vanno collocati tutti gli studi bramanteschi, per esempio un disegno di Antonio di Pellegrino (Uffizi A.3) uno schema forse di mano di Bramante (Uffizi A.104) e il famoso Piano della pergamena (Uffizi A.1) poi però abbandonato, in cui la pianta a quincunx trovava il massimo arricchimento spaziale e murario con nicchie e “sfondati” e con le torri d’angolo volumetricamente isolate. In un altro disegno (Uffizi A.20) Bramante studiava la soluzione di una pianta centrale “allungata”, tema sicuramente in discussione che, come è noto, ritornerà sia negli anni di Raffaello che in quelli di Baldassare Peruzzi e di Antonio da Sangallo il Giovane [Frommel 1994]. Ancora attribuibili a Bramante sono due piante di Domenico da Varignana (Codice Mellon ff. 70 v e 71, Pierpont Morgan, New York), dove l’organismo di San Pietro era circondato da un enorme recinto architettonico, con esedre e porticati, sicuramente memore delle terme imperiali romane: qui (e nel foglio Uffizi A.20) comparivano i deambulatori nelle absidi, forse ammirati nella basilica di San Lorenzo a Milano [Thoenes 2001]. I deambulatori comparivano anche nella pianta del San Pietro di Bramante presente nel Libro III (1540) di Sebastiano Serlio, che riproduceva pure, da un disegno originale, la cupola prevista da Bramante, 138

con il tamburo circondato da colonne. Anche nello schizzo bramantesco (Uffizi A.104 v) l’organismo centrico era all’interno di un recinto, ma più semplice, con quattro grandi esedre [S. Borsi 1989]. Negli ultimi mesi del 1505 anche Giuliano da Sangallo produceva disegni per il San Pietro: uno con impianto a quincunx ma più compatto e racchiuso in un quadrato (Uffizi A.8) sul cui verso compare una rielaborazione bramantesca, a testimoniare una possibile collaborazione tra i due architetti, mentre in seguito Giuliano deve essere stato un concorrente di Bramante, sconfitto tra la fine del 1505 e l’inizio del 1506. Altri quattro fogli di Giuliano con soluzioni diverse sono conservati all’Albertina di Vienna (ff. 689-691). Vasari descriveva con precisione quanto era stato costruito al momento della morte di Bramante nel 1514: i quattro

grossi pilastri «coi suoi capitegli, che sono a foglie di ulivo di dentro e i quattro archi in fuori che reggon la tribuna», aggiungendo che Bramante «trovò in tal lavoro il modo di buttar le volte con le casse di legno». Possiamo renderci conto di quale fosse questa prima parte costruita (e di poco mutata fino agli anni di Papa Paolo III) da un disegno di Jan van Scoren (1522) e da ben otto vedute prospettiche di Marten van Heemskerck (1536-38 ca.).

Cristoforo Foppa detto il Caradosso, medaglia riproducente la basilica di San Pietro, 15051506.

Disegno dalla medaglia del Caradosso.

Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; H. von Geymüller 1875-80, 290 e segg.; D. Frey 1915; O. H. Förster 1956, 209 e segg. e 1958, II, 763-768; A. Bruschi 1969, 532 e segg. e 883 e segg.; C. L. Frommel 1976, 57-136, 1994, 399 e segg. e 599 e segg. e 2002(a), 88; F. Borsi 1989, 73 e S. Borsi 300-306; C. Thoenes 2001, 303.

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OPERE ATTRIBUITE

Via della Lungara, via Giulia e via de’ Banchi (1503-1508 ca.). Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; G. Giovannoni 1958, 345; C. L. Frommel 1961(a), 163 e 1974, 523; A. Bruschi 1969, 308 e 910; P. Portoghesi 1971, I, 16; L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri 1975, 15 e 68; P. N. Pagliara 1979, 35; E. Guidoni 1981, 234; M. Tafuri 1984(a), 64; H. Günther 1984, 173 e 1994, 546.

Bibliografia per le opere attribuite a Bramante e delle quali si sono date informazioni nel capitolo Il periodo romano (1500-1514):

Palazzo del cardinale Adriano Castellesi di Corneto in Borgo (1500-1503 ca.). Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte (Vita di Bramante da Urbino); P. Letarouilly 1849, II, tavv. 145-149; T. Ashby, 1904, II (pianta del palazzo del codice Coner); P. Tomei 1942, 232; A. Bruschi 1969, 849 e 1985, 291, 2002, 46; P. Portoghesi 1971, II, 424; Ch. L. Frommel 1973, I, 142 e II, 207; M. L. Madonna 1981, 4; A. Ghisetti Giavarina 1983, 19; F. Borsi 1989, e S. Borsi 244.

Sopralluoghi, suggerimenti e lavori in Castel Sant’Angelo (1506-12, fortificazioni), alla rocca di Viterbo (1506-08) e alla fortezza a mare di Civitavecchia (1513). Bibliografia: G. Vasari 1550 e 1568 (Vita di Antonio da Sangallo il Giovane); A. Guglielmotti 1880, 189 e 197; G. Giovannoni 1931, 97; A. Bruschi 1969, 910, 939 e 1040 e 1985, 29 e 129; E. Bentivoglio, S. Valtieri 1971, 107; E. Bentivoglio 1983, 44 e 2001, 321; F. Borsi 1989 e S. Borsi 273-280.

Consulto per i lavori alle chiese di San Giacomo degli Spagnoli e di Santa Maria dell’Anima (1500 ca.) e due fontane in piazza San Pietro. Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; P. Letarouilly 1849, I, 251; H. von Geymüller 1875-80, I, 68; E. Müntz 1898, 205; G. Giovannoni 1923, 334; A. Bruschi 1969, 863, 1985, 291; S. Borsi 1989, 241.

Palazzo Caprini (detto anche palazzo di Raffaello) presso la via Alessandrina, nel Borgo Vaticano (1501 o 1510). 140

Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; A. Lafréry 1549 (facciata, incisione); H. von Geymüller 1884, 87; D. Gnoli 1887, III, 1-27 e IX, 401; C. Baroni 1944, 42; O. H. Förster 1956, 204; A. Bruschi 1969, 598 e 1040 e 1985, 128; P. Portoghesi 1971, I, 57; C. L. Frommel 1973, II, 80 e III, 15 e 2002(a), 64; M. Tafuri 1984, 239; F. Borsi 1989 e S. Borsi, 322.

Magliabechiano, XVI sec.) ed 1892, 125; G. Vasari 1568, III parte; G. Giovannoni 1914, 135 e 1931, 98; A. Bruschi 1969, 946; P. Portoghesi 1971, II, 434; Ch. L. Frommel 1973, II, 327 e 1974, 523; L. Salerno, L. Spezzaferro, M. Tafuri 1975, 68; M. Tafuri 1984(a), 63; F. Borsi 1989 e S. Borsi, 281 (con piante del complesso di Antonio di Pellegrino, Uffizi A.136 r e v e pianta di San Biagio, codice Coner di Londra).

Ninfeo di Genazzano (1507-1511). Bibliografia: G. Giovannoni 1931, 157; O. H. Förster 1956, 206; C. L. Frommel 1969, 137; A. Bruschi 1969, 1048 e 1985, 128 e 293; C. Thoenes 1974, 575; J. Ackerman 1983, 15; F. Borsi 1989, 136 e S. Borsi 326; S. Borsi 1995, 100; M. Doring 2001, 343.

Cappella della Santa Casa e palazzo Apostolico di Loreto (1508-10). Bibliografia: G. Vasari 1568, III parte; P. Gianuizzi, 1884, 13 e 429, e 1907, 99 e 135; G. Giovannoni 1959, I, 195; A. Bruschi 1969, 652 e 960 (con pianta del palazzo di Antonio da Sangallo il Giovane, Uffizi A.922); K. Weill Garris Posner 1974, 313; F. Borsi 1989, 132 e S. Borsi, 316.

Chiesa dei Santissimi Celso e Giuliano (1508-1509). Bibliografia: Anonimo Gaddiano (o Magliabechiano, XVI sec.), ed. 1893, 83; G. Giovannoni 1931, 90; O. H. Förster 1956, 207; C. Thoenes 1966, 29; A. Bruschi 1969, 980 e 1985, 234; P. Portoghesi 1971, II, 438; F. Borsi 1989 e S. Borsi, 313 (con le piante della chiesa del codice Coner di Londra e del codice Mellon di New York).

Parrocchiale di Roccaverano (1509). Bibliografia: E. Checchi 1949, 205; C. L. Frommel 1961(a), 145; A. Bruschi 1969, 237 e 1047; M. Morresi 1991, 96. Santa Maria della Consolazione di Todi (1508). Bibliografia: L. Pungileoni 1836; A. Bruschi 1969, 922 e 1994, 517; Il Tempio della Consolazione... 1991; F. T. Fagliari Zeni Buchicchio, L. Giordano 1992; B. Adorni 2002, 153.

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Genazzano. Ninfeo, veduta e pianta (C. L. Frommel, 1969).

Roma. Chiesa dei Santissimi Celso e Giuliano, pianta (Londra, Soane’s Museum, codice Coner).

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Antonio di Pellegrino attr., (per Bramante?), palazzo dei Tribunali in via Giulia a Roma, pianta (Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e Stampe, A.136).

144

Baldassare Peruzzi, palazzo dei Tribunali e chiesa di San Biagio a Roma, disegno (Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, A.109 v).

Loreto. Cappella della Santa Casa.

Loreto. Palazzo Apostolico, particolare della facciata.

Roccaverano. Chiesa parrocchiale, interno (M. Morresi, 1991).

145

Todi. Santa Maria della Consolazione, disegno.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso la tipografia Priulla s.r.l. - Palermo