Biologia dell’anima. Teoria dell’evoluzione e psicoterapia
 9788833973975

Table of contents :
Indice......Page 288
Frontespizio......Page 5
Presentazione......Page 2
Premessa......Page 8
Nuovi orizzonti......Page 12
Evoluzione e inconscio......Page 16
1. L’evoluzione della cura......Page 23
Le prime psicoterapie......Page 26
Dalle religioni oltremondane alle religioni laiche......Page 29
Scoperta dell’inconscio – Appropriazione di un concetto......Page 32
Gli animali non umani......Page 38
La psicologia evoluzionistica di Freud e le fasi sessuali......Page 45
Le fasi sessuali......Page 49
Memoria filogenetica – Prerequisiti biologici......Page 54
L’era glaciale – L’era della fantasia......Page 55
Psicologia Evoluzionistica – psicologia evoluzionistica......Page 59
Psicoanalisi ed evoluzione......Page 62
Sessualità – Riproduzione......Page 65
Complesso di Edipo – Fantasie sessuali......Page 69
Oppure traumi infantili......Page 73
Nulla in psicologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione......Page 81
Rimozione......Page 85
Dissociazione......Page 93
Struttura dissociativa della mente......Page 97
L’Io diviso......Page 104
L’inconscio freudiano esiste davvero?......Page 107
La dissociazione di stati mentali......Page 109
Inconscio freudiano – Organizzazione dissociata della memoria......Page 111
Tabù dell’incesto – Inibizione della depressione endogamica......Page 114
Freud e Lévi-Strauss......Page 117
Il resto del mondo vivente......Page 121
Thanatos, o della psicologia popolare......Page 124
Perché la guerra? Oltre la psicologia ingenua......Page 130
L’ossessione della dominanza......Page 132
L’ombra dell’eusocialità......Page 137
Pulsione di morte – Aumento della fitness......Page 140
Altruismo......Page 143
Complessità e scelta......Page 147
Emozioni di base......Page 150
Sublimazione – Ricerca di status......Page 156
Transfert – Attaccamento......Page 165
Il cambiamento......Page 169
L’ambiente emotivo......Page 173
Il racconto......Page 180
L’origine dell’etica......Page 183
Biologia della morale......Page 184
Materialismo etico......Page 186
Regole morali......Page 188
Qualità morali......Page 190
Indagini morali......Page 193
L’evoluzione della psiche secondo Carl Gustav Jung......Page 197
Inconscio collettivo......Page 202
Archetipi......Page 205
Con-fusioni archetipiche......Page 210
Gli errori evoluzionistici di Jung......Page 214
Parapsicologia – Scienza......Page 217
La deriva antiscientifica post-junghiana......Page 221
Epilogo......Page 224
Pluralismo......Page 227
Premessa......Page 268
Introduzione......Page 269
Capitolo primo......Page 270
Capitolo secondo......Page 271
Capitolo terzo......Page 283
Capitolo quarto......Page 284
Epilogo......Page 287
Bibliografia......Page 232

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Presentazione Il variegato arcipelago della psicoterapia è forse una delle arene più litigiose nel consesso delle scienze umane. In poche discipline come in quella psicoterapeutica si è assistito nel tempo a una progressiva parcellizzazione delle scuole in sottoscuole e varianti di sottoscuole: una polverizzazione di idee e teorie che ha avuto come risultato una specie di anarchia terapeutica, nella quale ogni analista si richiama al proprio micromodello di riferimento e alza steccati nei confronti dei modelli alternativi. Alle due scuole analitiche storiche – la psicoanalisi discendente da Freud e l’analisi psicologica derivante da Jung – si sono aggiunte ormai biblioteche intere di discussioni e scomuniche reciproche, lotte cruente ricche di gelosie e rivalità. In questo contesto sono nate molte visioni alternative, che sono oggi saldamente presenti nell’offerta terapeutica sul territorio. Perché una cosa è senz’altro vera: molti sentono il bisogno di un aiuto psicologico e moltissimi ne hanno assoluta necessità, essendo prigionieri di malesseri e vere e proprie patologie che impediscono loro di vivere una vita normale e di rapportarsi col mondo in modo soddisfacente. C’è gente che soffre; si tratta di capire come fare ad aiutarla. Dall’epoca di Freud e Jung il tempo non è passato invano. Al periodo eroico dell’indagine sulla mente, dominato da queste due figure nei primi decenni del Novecento, è succeduto un periodo altrettanto eroico di indagine evoluzionistica, derivato dalla rivalutazione del pensiero di

Darwin, e successivamente il recente, fibrillante periodo di scoperte sul cervello e sull’architettura della nostra mente, favorito anche da tecnologie che un tempo erano inimmaginabili. Neuroscienze, scienze cognitive ed evoluzionismo hanno dunque iniziato a capire il sistema mente-cervello da un punto di vista nuovo e si sono impegnate in un confronto serrato e critico con le scuole tradizionali e con le loro teorie, spesso scarsamente ancorate al dato empirico. Con Biologia dell’anima Maurilio Orbecchi ci propone i temi fondamentali di questo acceso dibattito, rimarcando, contro ogni tentazione corporativa, che «non ha senso isolarsi in una scuola psicologica particolare, perché la scienza è un’impresa collettiva e intrecciata, che condivide un’architettura evoluzionistica che attraversa ormai tutte le discipline». Quel che conta è trovare spiegazioni plausibili ai comportamenti umani per tentare un intervento efficace, e neuroscienze, evoluzionismo e psicologia animale comparata ci aiutano moltissimo, in questo senso, a scrollarci di dosso quanto di più arcaico e ingiustificato ancora resiste nelle poltrone e nei lettini di così tanti psicoterapeuti. Maurilio Orbecchi è laureato in medicina, specialista in psicologia clinica e in psicoterapia. È stato psichiatra di ruolo nei servizi psichiatrici di Torino. Ha insegnato psicopatologia del linguaggio nell’Università di Milano, antropologia e psicologia presso l’Università di Pavia e psicologia clinica nell’Università dell’Insubria. Scrive sulle pagine scientifiche del quotidiano «La Stampa» su temi di

neuroscienze, psicologia ed evoluzionismo. Per Bollati Boringhieri ha curato l’edizione del libro di Pierre Janet, La psicoanalisi (2014). Esercita la sua attività a Torino e Milano.

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© 2015 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-339-7397-5 Immagine di copertina: Paul Klee, Ölbaum (Olivo), 1934 Schema grafico della copertina: Noorda Design www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale marzo 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Saggi Psicologia

Premessa Colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke. Charles Darwin La psicologia si collega all’evoluzione esattamente come le altre scienze. Pierre Janet Il nostro cervello si è sviluppato al servizio delle gonadi. François Jacob

La psicoterapia sta attraversando un momento teorico favorevole. È emersa una prospettiva che sembra avviata a diventare la nuova architettura concettuale nella quale si possono riconoscere scuole differenti, un’intelaiatura comune nella quale ritrovarsi in un dialogo creativo e condiviso. Per la prima volta nella storia della psicoterapia c’è la possibilità di comprendere il sistema cervello-mente attraversando i confini tra discipline un tempo distanti e integrare i diversi saperi in una nuova scienza della mente. Diverse scuole, tra cui il cognitivismo clinico e teorico, la teoria dell’attaccamento, l’infant reaserch, le scuole relazionali di psicoanalisi e di psicologia, stanno oggi convergendo su uno schema derivato dalla teoria dell’evoluzione e dalle neuroscienze. Si tratta di un percorso che col passare del tempo potrebbe rendere obsolete le vecchie divisioni endemiche delle scuole analitiche autoreferenziali, con le loro infinite battaglie di religione e di parrocchie differenti. Non è più il momento di fondare nuove scuole e modelli perché, come osserva Giovanni Jervis, il moltiplicarsi delle

idee e la loro evoluzione sono talmente intensi e rapidi che nessuna scuola di pensiero fa in tempo a consolidarsi.1 Non ha senso scientifico isolarsi in una scuola psicologica particolare, perché la scienza è un’impresa collettiva e intrecciata, che condivide un’architettura evoluzionistica trasversale a tutte le discipline. Già Pierre Janet, nel 1913, aveva ricordato agli psicoanalisti del suo tempo che la creazione di un’organizzazione internazionale privata, nella quale si entra solo a seguito di un’iniziazione, è un modo di procedere che ha poco a che fare col metodo scientifico; è un’idea «stravagante», per usare le sue parole, perché nella scienza le associazioni non prevedono rituali iniziatici, scomuniche o anatemi nei confronti di iscritti non ortodossi e di critici esterni. Sembra ormai giunto il momento di abbandonare vecchie divisioni, insieme alle congetture speculative dei fondatori, per riacquistare un linguaggio adeguato a quanto sta emergendo da diverse discipline, dalla biologia evoluzionistica alle neuroscienze. La psicoterapia sta diventando una disciplina pluralista, crocevia di numerose conoscenze. Eric Kandel ha sottolineato come il confine tra comportamento e biologia sia arbitrario e mutevole, imposto da limiti di conoscenza, tanto che, da alcuni decenni, stiamo assistendo alla convergenza in diversi punti tra discipline biologiche e comportamentali. Su queste basi si costituirà, presumibilmente, la psicologia nel futuro.2

Un ripensamento teorico avviene a prezzo di sacrifici emotivi nei confronti di antiche teorie alle quali eravamo affezionati. Del resto, tutta la scienza procede per scoperte successive e risistematizzazione delle vecchie idee. Quando studiavo medicina, i manuali di patologia presentavano l’ulcera gastrica come l’epitome della malattia da stress e i manuali di psichiatria descrivevano l’omosessualità come una malattia. Poi Robin Warren e Barry Marshall scoprirono l’Helicobacter pylori, mentre l’evoluzione culturale, psicologica e sessuale ci fece capire che la «malattia» omosessuale era un’invenzione socioculturale. I manuali si aggiornarono. Se la medicina è storica ed evolutiva per natura, la psicoterapia, a causa del suo maggior carattere speculativo, lo è in misura ancor più marcata. Per questo motivo occorre avere il coraggio di mettere in questione idee antiquate e modelli superati per sostituirli con altri, più adeguati alle nuove conoscenze. Questo libro vuol essere un contributo in tal senso: non è un libro contro, ma un libro per contribuire a costruire una psicoterapia basata su un modello della mente adeguato alle conoscenze attuali.

Biologia dell’anima A Ludovico e Veronica

Introduzione Nuovi orizzonti La teoria dell’evoluzione ha aperto orizzonti che hanno radicalmente cambiato la visione che il genere umano ha di se stesso e del mondo. Sappiamo che l’evoluzione è in divenire: non possiede finalità, senso, volontà, prevedibilità, per cui non tende verso alcuna realizzazione particolare. Nel corso di quasi quattro miliardi di anni, la vita si è sviluppata così come la vediamo oggi. Tutte le specie viventi hanno un’origine comune, sono imparentate tra di loro e si sono moltiplicate gradualmente, anche se con punte di maggior velocità, per l’effetto di alcuni fattori ormai noti. Le specie hanno usato differenti strategie di adattamento alle condizioni ambientali, e queste strategie hanno modellato caratteristiche complesse. Tuttavia, lo sviluppo è stato in buona parte casuale, anche se la selezione naturale ha sempre avuto l’ultima parola. Abbiamo importanti conoscenze sul tema, eppure tendiamo a non considerare rilevante come l’evoluzione abbia influito sullo sviluppo dei sistemi e dei sottosistemi psicobiologici che caratterizzano le varie specie animali, compresa la specie umana: una specie che a noi piace rappresentare come esclusivamente «culturale», parola che spesso è utilizzata come eufemismo di «spirituale». E ancor più facciamo fatica ad accettare che i prerequisiti di alcuni nostri comportamenti non si trovino nel nostro passato individuale, ma in quello evoluzionistico. Allo stesso tempo è

difficile prendere le distanze dalla nostra psicologia ingenua e immediata che ci fa credere di essere fatti da un corpo che esegue i comandi di una coscienza incorporea, una psicologia che crea l’illusione di essere composti da una parte «animale» e una parte «spirituale», che un tempo chiamavamo «anima» e in seguito abbiamo chiamato «psiche» o semplicemente «Io». Eppure l’evoluzione ci condiziona pesantemente: siamo sottoposti a stimoli neurali che sono scritti nel nostro cervello e che si sono evoluti nel corso di centinaia di milioni di anni. All’inizio c’era la riproduzione, ma nello scorrere del tempo si sono sviluppati il desiderio sessuale, differenti strategie sessuali maschili e femminili, competizione per l’accesso al partner, innamoramento, amore e molto altro, tra cui motivazioni, emozioni e i precursori dell’etica, dell’estetica e della religione, settori che tendiamo a interpretare come del tutto estranei alla biologia. Trascurare questi contributi porta inevitabilmente a pensare che tutto quanto esiste sia frutto dell’evoluzione culturale. L’errata interpretazione dell’origine dell’inibizione della depressione endogamica, ad esempio, è una delle conseguenze del determinismo ambientale: se psicoanalisti e strutturalisti, prima di scrivere fiumi di inchiostro sul tema, si fossero presi il disturbo di controllare se la primatologia e la zoologia potevano dirci qualcosa al riguardo, ci saremmo risparmiati cent’anni di speculazioni sul complesso di Edipo, l’incesto e lo scambio delle donne. Allo stesso modo, un confronto con l’intelaiatura della teoria dell’evoluzione e con

le varie discipline etologiche avrebbe evitato di far perdere decenni sulla sublimazione, sulla pulsione di morte, sulla libido come fantomatica energia primordiale o sul transfert. Con un simile orientamento, la psicoterapia si sarebbe anche risparmiata un approccio terapeutico freddamente cognitivo per cercare di risolvere questioni che in effetti sono fortemente emotive. Nello sviluppo umano, è impossibile prescindere dall’intreccio di biologia e ambiente, necessari l’uno all’altro quanto la base e l’altezza di una figura geometrica per calcolarne l’area. L’organismo biologico, alla nascita, non è mai un puro prodotto genetico, perché già durante lo sviluppo nell’utero hanno potuto agire molti fattori che determinano la differente attivazione di alcuni geni, come oggi ci insegna l’epigenetica. È risaputo che, oltre alle condizioni psicobiologiche della madre durante la gravidanza, le cure materne dopo il parto, differenti per calore e qualità, accendono o spengono determinati geni. Ma c’è di più: perfino le conseguenze di particolari esperienze, subite da un genitore prima del concepimento di un figlio, potrebbero essere trasmesse alla prole attraverso la forma in cui gli acidi nucleici si trovano nella cellula, anche fino alla terza o quarta generazione. Il genoma, infatti, passa da una generazione all’altra in una configurazione che mette in evidenza o nasconde certi geni, cambiando in questo modo la loro possibilità di espressione. Questa differente struttura epigenetica può essere influenzata anche dalle esperienze accadute al genitore nel corso della sua vita.1 L’attivazione e

la disattivazione dei geni cambia tutto, non soltanto il nostro comportamento: ogni cellula contiene lo stesso DNA, eppure, a seconda della posizione in cui si trova, si accendono alcuni geni e se ne spengono altri, e la stessa cellula si sviluppa in un muscolo, un osso, un nervo, un globulo rosso o un epitelio. Se noi consideriamo che il genoma non si trasmette da solo, ma in una conformazione infuenzata da molti fattori, ci rendiamo conto di quanto siano importanti le circostanze contingenti. I principali costituenti della nostra personalità sono dunque numerosi e disposti su più livelli. Possiamo riassumerli, a grandi linee, come segue: genetica, trasmissione per via epigenetica, modalità in cui è avvenuto lo sviluppo in utero e gli schemi di comportamento strutturati a seconda della qualità dell’accudimento nella prima infanzia (dalla nascita ai due anni); infine, ci sono gli avvenimenti successivi alla prima infanzia. I nostri comportamenti dipendono da un intreccio così complesso di avvenimenti, che stabilire con esattezza perché una persona mostra determinate caratteristiche è più una questione di probabilità che di certezze. Il cervello umano termina il proprio sviluppo fuori dall’utero, dopo la nascita. Nei primi anni, l’interazione con l’ambiente primario viene scolpita nelle sue cellule e diventa strutturale. Per questo motivo, in assenza di problemi biologici, gli stimoli dell’ambiente della prima infanzia sono probabilmente il fattore più importante per la qualità della vita futura di una persona. Tuttavia, se è vero che gli esseri

umani stabiliscono con l’ambiente un rapporto più complesso di quello di ogni altra specie, questo avviene sempre attraverso una dialettica con i geni dell’individuo. Freud ha considerato soltanto l’ultima serie di eventi che formano una persona, ossia le fantasie e gli eventi accaduti dopo la prima infanzia: circostanze che possono riemergere in seduta e che, quindi, possono essere «interpretabili» in analisi. Ma si tratta di un approccio parziale, che perde di vista la realtà dell’essere umano nel suo complesso. Evoluzione e inconscio Freud e Jung erano consapevoli dell’importanza della rivoluzione darwiniana. La prima parte della loro opera fu caratterizzata dal tentativo di capire come la teoria dell’evoluzione si potesse declinare nella psicologia umana. Entrambi fecero sforzi notevoli per creare una psicologia basata sull’evoluzione. Freud, tuttavia, non accettava davvero il darwinismo. Alla selezione naturale preferiva apertamente il lamarckismo, come vedremo più avanti, per cui le basi evoluzionistiche delle sue idee poggiavano su una versione errata dell’evoluzionismo (cfr. capitolo 2). Jung, pur conservando alcuni elementi lamarckiani (alcuni di essi non erano assenti, del resto, nello stesso Darwin), elaborò all’inizio una psicologia basata sull’evoluzione di discreto interesse, considerando l’epoca, ma la contaminò con abbondanti idee spiritualiste e parapsicologiche, che

presero il sopravvento nel corso degli anni (cfr. capitolo 3). Per comprendere un fenomeno, è necessario studiare la sua origine e spiegare come si è sviluppato. Per comprendere i sentimenti, le emozioni, le motivazioni inconsce che portano alle scelte e ai comportamenti individuali, è quanto mai indispensabile capire i processi primari affettivi e le condizioni in cui essi sono stati attivati. I processi emotivi di base, indicati da scienziati come Jaak Panksepp – ricerca, collera, paura, desiderio sessuale, cura, sofferenza, gioco – si sono strutturati nel corso di milioni di anni di evoluzione. Non soltanto si trovano in tutti gli esseri umani, appartenenti a culture lontanissime, ma sono presenti, con omologie sorprendenti già a livello biochimico, nel mesencefalo degli altri mammiferi sociali.2 Se alcuni sistemi emotivi di base funzionano allo stesso modo nei primati umani e non umani, è improbabile che abbiano avuto un’origine indipendente. L’evoluzione ha prodotto tutto quanto esiste in natura, compreso Homo sapiens. Per questo motivo l’evoluzione diventa la metateoria essenziale della psicologia, vale a dire la cornice di riferimento, l’architettura entro la quale possono svilupparsi le altre teorie. Se queste risultano in contrasto con l’evoluzione si rivelano inattendibili. La religione stessa non potrà, più di tanto, opporsi all’evoluzionismo: se non ci saranno catastrofi, e lo sviluppo delle conoscenze e della cultura proseguirà al ritmo attuale, nel giro di pochi decenni le religioni avranno integrato in qualche modo l’evoluzione, come ieri avevano integrato il movimento della Terra attorno

al Sole. Lo stesso avverrà, con tempi più rapidi, per i modelli psicologici di riferimento nelle psicoterapie. È ragionevole pensare che il complesso di Edipo, le fantasie sessuali patogenetiche, la pulsione di morte, la sublimazione, il transfert, gli spiritualismi e la sincronicità cederanno il passo a modelli che derivano dagli studi straordinariamente convergenti della primatologia e delle neuroscienze affettive. La conoscenza di una maggiore complessità degli eventi farà sì che anche i concetti di rimozione e interpretazione saranno sempre meno usati in psicoterapia. Fino al 1859, data di pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, gli esseri umani erano considerati creature profondamente diverse dagli altri animali. Li si dipingeva sostanzialmente liberi, scevri da risposte biologiche automatiche. Da sempre il dualismo aveva influenzato il pensiero: la psiche (l’anima) era giudicata separata dal corpo e si riconosceva all’essere umano una piena libertà che invece non si concedeva agli altri animali. La maggior parte delle persone ha ancora un’idea dell’uomo fondata sul dualismo corpo-psiche (anima) e sulla netta separazione tra gli esseri umani e gli altri animali. È stato Darwin a dare inizio a una profonda trasformazione del pensiero umano, convincendo il mondo scientifico sulla realtà dell’evoluzione. Le straordinarie scoperte delle discipline scientifiche sorte in seguito alla sua teoria hanno ulteriormente corroborato la sua visione. Nessuna osservazione, in centocinquant’anni di studi, è risultata in contrasto con la teoria darwiniana. Senza l’appoggio di alcuna prova paleontologica (giunta dopo la

sua morte), Darwin aveva già predetto che il genere umano si era sviluppato in Africa, basandosi esclusivamente sul fatto che in quel continente si trovavano i primati non umani filogeneticamente più vicini. La previsione fu confermata dai grandi ritrovamenti degli scheletri di ominini. La scoperta che gli esseri umani e le scimmie antropomorfe condividono circa il novantotto per cento dei geni ha definitivamente provato che non ci sono fratture tra il genere umano e gli altri animali. Tuttavia, sul lato della psicologia, Darwin non era riuscito a convincere il mondo scientifico della presenza di sentimenti e di coscienza negli altri animali, così come dell’esistenza di processi affettivi primari negli esseri umani, che lui definiva «istintivi». Ora, grazie alle neuroscienze affettive, stiamo assistendo alla verifica sperimentale delle idee del padre dell’evoluzione anche su questi temi. Molti neuroscienziati concordano nel ritenere che le prime manifestazioni della mente affiorino nel tronco encefalico, dove si producono anche i primi sentimenti. Gli stessi processi emotivi di base presenti negli altri primati si trovano anche nella specie umana.3 Tra le molte prove che dimostrano la presenza di stati affettivi umani di base, le più evidenti sono forse le reazioni dei bambini idroanencefalici, privi di corteccia cerebrale e dunque privi di apprendimento cognitivo: ebbene, anche questi bambini sfortunati crescono con le emozioni e l’affettività di base tipica dei mammiferi sociali, quali noi, a tutti gli effetti, siamo.4 Noi non nasciamo, emotivamente, come una tabula rasa.

Il concetto di tabula rasa può valere, in senso lato, soltanto per i contenuti mentali che si accumuleranno durante il corso della vita. I nostri processi emotivi di base, situati a livello del mesencefalo, si sono invece sviluppati nel nostro passato evoluzionistico, anche se il loro modo di operare è direttamente influenzato dall’attivazione ambientale. I nostri stati emotivi e affettivi primari possono decidere per noi, come per gli altri mammiferi, senza l’intervento di un processo riflessivo superiore, proveniente dalla corteccia cerebrale, soprattutto in situazioni di stress. Allo stesso tempo, pur se la piena consapevolezza riflessiva ha bisogno di un sufficiente sviluppo della corteccia cerebrale, le ricerche ci stanno mostrando che le capacità cognitive e di linguaggio non sono necessarie agli altri animali per sperimentare la coscienza affettiva. Gli animali non umani fanno esperienza dei loro stati affettivi proprio come i neonati umani, pur senza poter avere consapevolezza riflessiva delle loro esperienze.5 Tutto ci fa pensare che essi siano in grado di pensare, come noi, per immagini, come scrive Damasio: «Quando le immagini del complesso del sé sono raccolte insieme a quelle di oggetti diversi dal sé, il risultato è una mente dotata di coscienza. Tutta questa conoscenza è facilmente disponibile. Per arrivare ad essa non occorre l’inferenza o l’interpretazione di ragionamento; e non è nemmeno in forma verbale».6 (In quest’istante Lilli, la mia affettuosa Cavalier king, sta mugolando sottotono, probabilmente contro qualche altro cane, in uno dei suoi numerosi sogni).

Facciamo fatica a comprendere che la stessa affettività adulta non ha origine dai pensieri, ma dalle emozioni. Da adulti abbiamo una cognitività molto sviluppata e tendiamo a non considerare che da bambini, quando si strutturano i nostri schemi comportamentali – quelli che Bowlby chiama Modelli operativi interni (MOI) – siamo fortemente emotivi e poco cognitivi e che questa autonomia dell’affettività si manterrà anche in seguito, condizionandoci per tutta la vita.7 L’evoluzionismo, infine, ha sconfitto altre due idee chiave, antichissime, la cui persistenza è tuttora alla radice di molte concezioni psicologiche errate, che inquinano la psicoterapia.8 La prima è il vitalismo, ossia la credenza in una forza invisibile, denominata in molti modi differenti, che controllerebbe il nostro corpo. Oggi sappiamo che un essere umano ragiona e prova emozioni per mezzo del sistema mente-cervello-organismo, che a sua volta è immerso nell’ambiente. Qualunque forza invisibile, una sorta di spettro che guida il corpo, non ha motivo di esistere. Siccome l’organismo fa da sé nei movimenti, nei pensieri, nei sentimenti e nelle emozioni, l’ipotesi di un elemento immateriale dentro di noi è del tutto superflua. La presa d’atto che la psiche è un’immagine, una sensazione prodotta dalla complessità dell’apparato neurologico, colpisce al cuore anche la credenza nella completa libertà dell’individuo da se stesso. Per questo sarebbe necessario evitare, o almeno precisare, l’uso di parole polisemiche come «spirito», «anima» (ma anche «psiche», o «Io»), che danno

l’impressione che nel corpo ci sia questo spettro, questa volontà eterea che lo governa. La seconda idea crollata con il procedere della scienza è stata la credenza che il divenire tenda sempre a una meta più elevata, un’idea chiamata teleologia cosmica. La teoria dell’evoluzione ci ha dimostrato che non esiste alcun percorso, progettato da una mente esterna, né alcun programma che faccia evolvere con continuità i caratteri di una specie verso una determinata direzione. Questo significa che proprio i due principali strumenti interpretativi utilizzati nella psicoterapia dinamica moderna – il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano – sono entrambi inadeguati e irrimediabilmente datati. Per capire e affrontare la complessità psicologica umana sembra oggi necessaria una psicoterapia pluralista e multilivello, che non debba per forza fare ricorso a padri fondatori, ma che emerga dal basso, attraverso il contributo di tutti gli studiosi, dei clinici e dei ricercatori, alla luce delle conoscenze offerte dalle moderne discipline, sia umanistiche sia scientifiche.

1. L’evoluzione della cura Rivolgere lo sguardo all’interiorità è lo specifico della condizione umana. Prendendoci cura di noi stessi ci prepariamo alla vita e alla morte, impariamo a conoscere e governare l’ambivalenza, le emozioni, le ambizioni e cerchiamo di trovare la nostra risposta nei conflitti psicologici, tra spinte sociali, aggressività, amore, sesso ed egoismo. È la cura, divenuta ri-flessione con l’aiuto dei processi mentali superiori, che ci aiuta a emergere dalle situazioni di smarrimento e di confusione, a dare significato agli eventi trasformandoli in conoscenza per il futuro. La dimensione della cura è talmente caratteristica degli esseri umani da essere considerata l’origine stessa dell’uomo, come mostra un antico racconto, ricostruito da Igino sulla base di originali greci, riportato all’attenzione poco meno di un secolo fa da Martin Heidegger in Essere e tempo: La Cura, mentre stava attraversando un fiume scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso viva, lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è stato tratto da humus (terra)».1

Nel suo significato etimologico, «uomo» – humus – vuol

dire «terrestre» e il vocabolo comprende i due sessi, a differenza ad esempio dell’inglese man, che deriva da un termine antico con il quale si intendeva solamente il «maschio». Se la Cura modella il genere umano, ciò significa che ogni individuo, per diventare davvero umano, forma la sua stessa struttura se sa prendersi cura di sé, soprattutto con la riflessione. Nell’era storica la cura ha assunto infiniti nomi e tecniche: dalla «terapia» del medicine man alle scuole filosofiche greche; dallo yoga indiano allo zen giapponese; dal canto dei trovatori e dei catari, alla teurgia e all’alchimia; dagli esercizi spirituali di sant’Ignazio alla cura d’anime di matrice protestante.2 Almeno quattro diversi soggetti, nel corso della storia, hanno presentato un’offerta di cura: religioni, filosofie, medicine e occultismi. I limiti delle singole categorie sono tutt’altro che definiti e non vanno immaginati come una carta geografica: nella cura psicologica molti territori si accavallano a formare spazi confusi, dove si mescolano aspetti che appartengono a tradizioni diverse, a prima vista assai distanti tra loro. Come fece notare Plutarco, filosofia e medicina empirica sembrano rifarsi a un medesimo campo, non soltanto perché condividono lo stesso interesse per il pathos, che può essere passione o malattia, ma soprattutto perché sono entrambe pratiche laiche e terrene.3 Le religioni e gli occultismi, invece, si occupano di

potenze che agiscono oltre la natura: le prime credono in una qualche forma di divinità che progetta il divenire o lo sovrintende. I secondi sono tentativi di ottenere, con il potere personale e l’utilizzo di oggetti naturali, effetti slegati da qualsiasi rapporto di causa-effetto naturale. Gli occultismi sembrano costituirsi come movimenti di nicchia sotterranei, ma in effetti in questo gruppo confluiscono filoni che molti non riconoscerebbero affatto come occulti: nel settore delle medicine alternative moderne, per esempio, permane la credenza che sostanze prive di principi attivi producano effetti; caratteristica tipica della magia classica. Altri sono convinti che stelle distanti anni luce l’una dall’altra formino delle figure dotate di senso e in grado di esercitare influenze tangibili sui singoli individui. Si tratta di forme di pensiero che permettono all’individuo di sentirsi protetto e che possono effettivamente aiutare a migliorare il proprio disorientamento e lo stato di salute grazie all’effetto placebo. I quattro soggetti confluivano insieme nella medicina primitiva, praticata dal medicine man. Si trattava di un sapere fondato sul concetto di perdita dell’anima. Presso molti popoli primitivi si riteneva che un individuo cadesse malato quando la sua anima aveva abbandonato il corpo, rubata da stregoni o spiriti maligni. Compito del medicine man era allora ricomporre l’unità. I medicine men curavano non soltanto per mezzo della magia, ma anche tramite le preghiere, le conoscenze empiriche (massaggi, erbe e decotti, bagni d’acqua e di vapore, regole dietetiche e d’igiene corporea e mentale) e una certa saggezza

filosofica.4 Le prime psicoterapie Dopo il periodo preistorico di con-fusione nella figura del medicine man, con la nascita della scrittura si svilupparono la religione vera e propria, coi suoi miti dell’aldilà, la medicina empirica, ereditata dal medicine man, e la filosofia, che nell’antichità si esprimeva anche come prassi filosofica. Importanti esperienze di questo tipo furono, a puro titolo di esempio, quelle Yoghi e Tantra in India, il Taoismo in Cina, le scuole filosofiche nell’antica Grecia e infine gli occultismi magici. La psicoterapia moderna è una delle forme in cui si è trasformata la cura dall’origine comune di medicina, filosofia, occultismo e religione. Poiché nell’evoluzione culturale, come in quella biologica, in uno sviluppo successivo permangono alcuni modi di essere e di fare sviluppati in periodi precedenti, lo psicoterapeuta riassume nella propria persona gli aspetti anticamente presenti nel medicine man: oltre alla terapia, quindi, filosofia empirica, religione e, talvolta, ciarlataneria. Per questo motivo, come sostiene Guggenbühl-Craig, la psicoterapia contiene, insieme alla pratica di cura interiore per ricostruire il senso e lo sviluppo della morale dell’individuo, l’ombra religiosa della credenza nelle verità di fede, l’ombra filosofica della costruzione metafisica fine a se stessa e l’ombra dell’imbroglio, della fatuità e dell’empiria priva di basi tipica dell’occultismo.5

Nel corso del tempo è prevalso l’influsso ora dell’una ora dell’altra delle quattro fonti della cura psicologica. Nella Grecia antica, per esempio, le scuole filosofiche non erano solo un’istituzione destinata alla trasmissione del sapere, al pari di un’università moderna, ma, come ha mostrato lo storico della filosofia Pierre Hadot, anche pratiche che miravano alla crescita morale.6 I filosofi greci, oltre allo sviluppo della filosofia teorica, intraprendevano un lavoro di ricerca e di prassi volto alla presa di distanza da quello che oggi chiamiamo l’Io. Per compiere questo percorso, chi si avvicinava alle scuole era seguito da filosofi esperti che, come guide spirituali, orientavano i più giovani nella cura della psiche. In seguito, la Chiesa ritenne che la sola cura spirituale compatibile con il Dio unico fosse la cura dell’anima somministrata dai suoi officianti. Così la religione cristiana invase il campo proprio delle scuole di filosofia, clericalizzando la pratica filosofica. A tale scopo integrò i riti pagani preesistenti – le processioni, i voti, le preghiere, i pellegrinaggi – aggiungendovi alcuni esercizi spirituali praticati nelle scuole di filosofia, tra cui la confessione, diventata nel corso dei secoli suo monopolio esclusivo e identificante. Le scuole greche, considerate una minaccia per il cristianesimo, furono infine chiuse per ordine dell’imperatore Giustiniano nel 529 d.C. La decisione nasceva anche dal desiderio di evitare rivali alla religione imperiale e istituzionale, ritenuta il miglior collante a disposizione dei governanti per integrare una società

complessa come quella multiculturale del tempo. La dissociazione tra prassi filosofica, dedita alla cura dell’anima (o della psiche) divenuta appannaggio della Chiesa, e teoria filosofica, esercitata dai pensatori, caratterizzò la cultura occidentale per quasi millecinquecento anni, con un’irrimediabile perdita del tratto più distintivo della cultura classica: quell’unità armonica nel concepire natura e cultura, ricerca e cura, pensiero e stile di vita, che erano la caratteristica delle scuole filosofiche. La nuova espressione ecclesiastica delle pratiche filosofiche continuava a dare voce all’ombra, ma soltanto nel segreto del confessionale e al prezzo della sua negazione, invece che per scopi trasformativi e di consapevolezza. L’intimo, in questo modo, tendeva a essere trattato come qualcosa di sporco, da evacuare, piuttosto che come materiale da integrare nella personalità. Una pratica tanto nascosta provocò una lacerazione del percorso di cura: l’ombra, considerata come peccato, non era più accettata con benevolenza, né considerata inevitabile in un percorso di crescita intellettuale e morale. L’essere umano era condannato nella sua struttura – il peccato originale – proprio perché portatore di corpo, di sesso, di ombra e di desiderio. Era la sua stessa umanità a essere identificata come male. L’individuo era castigato per le intenzioni, oltre che per le azioni. La possibilità di integrare la propria intimità in una personalità equilibrata era impedita dalla condanna religiosa attraverso l’abuso dei sensi di colpa e il terrore dell’oltretomba.

La Riforma protestante abolì la confessione, sostituendola con la cura d’anime, che però creava a sua volta sensi di colpa. Durante i secoli del trionfo religioso un numero ristretto di persone sviluppò altre pratiche di psicoterapia, molto velate, per evitare persecuzioni. Tra queste possiamo ricordare esperienze come l’amor cortese, le società cavalleresche, le ricerche alchemiche e la magia, soprattutto nella sua versione teurgica, che aveva lo scopo di evocare potenze angeliche in grado di orientare l’individuo. In generale, per quasi millecinquecento anni la cura fu possibile soltanto a condizione che non si parlasse apertamente dell’ombra. Gli sviluppi della scienza nel Seicento avviarono una rivoluzione del modo di pensare. Nel Settecento gli intellettuali illuministi presero atto delle nuove scoperte e le diffusero al mondo, cercando di distruggere gli aspetti più retrivi della religione, che avevano suggestionato gli esseri umani per tanti secoli. L’orizzonte culturale e religioso di una società rimasta legata per oltre un millennio a una visione ecclesiale mutò in modo radicale. Per la prima volta, dai tempi della medicina e della filosofia greca, si tornò a svolgere apertamente una pratica laica di cura. Dalle religioni oltremondane alle religioni laiche Mentre le scoperte della scienza e l’Illuminismo distruggevano le superstizioni, rendendo obsoleti i dibattiti medievali sull’anima e poco attraenti gli esercizi spirituali praticati per secoli, il concetto tradizionale di anima si

andava sgretolando. Lo sviluppo dell’astronomia mostrava che gli spazi siderali erano vuoti. I progressi della fisiologia portavano alla consapevolezza che il cuore era un muscolo e che le idee nascevano dal cervello. La medicina cominciava a trovare spiegazioni per molti supposti miracoli. Soprattutto la progressiva diffusione dell’istruzione evidenziava come molti sacerdoti, istituzionalmente preposti alla guida psicologica di un popolo ignorante, non avessero le conoscenze, gli strumenti psicologici né l’elasticità mentale necessaria a maneggiare la vita interiore di uomini che erano divenuti più acculturati di loro. La diffusione della cultura conseguente alla possibilità di stampare i libri rappresentò un passaggio cruciale per lo sviluppo della secolarizzazione della società. La ricerca di senso, il desiderio di guarire dai disagi e dalle sofferenze interiori e in generale le forme di cura della psiche, trovavano sempre meno una risposta adeguata nella religione. La richiesta di cura insoddisfatta aveva bisogno di un nuovo punto di riferimento e lo individuò proprio nello sviluppo della psicoterapia moderna, che offrì così un nuovo spazio laico al territorio dell’intimo. La nuova cura dell’anima presentava una precisa combinazione di caratteristiche: a) si collocava all’interno dell’avanzante paradigma scientifico; b) veniva esercitata da nuovi «sacerdoti laici», i medici, che non erano formati dalla Chiesa; c) garantiva un’alternativa alla religione; d) presentava riferimenti teorici di carattere filosofico e scientifico. La psicologia dinamica fu così accettata dal

nuovo clima culturale ed ebbe un consenso crescente, da Mesmer a Charcot, fino a raggiungere il successo internazionale con Freud e Jung, che fondarono sistemi teorico-pratici di transizione tra la religione tradizionale e una scienza della mente. La loro influenza si è estesa su diverse generazioni di psicoterapeuti e su un pubblico sempre più vasto, influenzando fortemente la cultura del tempo. Tuttora i loro epigoni si richiamano spesso alle loro opere e utilizzano i loro modelli teorici durante le sedute di psicoterapia, come nella scrittura e nel dialogo. Quando si parla di psicoterapia, non si può dunque prescindere da un confronto con la loro opera, che contiene tutti gli elementi tipici dell’antico medicine man: il tentativo di cura empirica, la pratica filosofica, le verità di fede e, anche, la fatuità e la ciarlataneria tipica dell’occultismo. Si tratta di elementi che, in proporzione diversa, sono naturalmente presenti in qualsiasi psicoterapeuta contemporaneo. Per spiegare i comportamenti umani in maniera meno speculativa, è necessario che la psicoterapia esca dall’autoreferenzialità e si confronti con il resto del mondo scientifico. Per questo occorre valutare quanto della psicologia dei grandi sistemi freudiani e junghiani rimanga valido alla luce di alcuni sviluppi delle neuroscienze affettive, della psicologia animale comparata, e dell’evoluzionismo in generale.

2. Freud e l’inconscio Scoperta dell’inconscio – Appropriazione di un concetto Tra il 1915 e il 1924 Sigmund Freud propose per tre volte la propria celebrazione per i secoli a venire, elevando se stesso al livello di Copernico e di Darwin: si considerava alla loro altezza perché, a suo parere, la psicoanalisi era riuscita a dimostrare l’inconsapevolezza della vita psichica e l’importanza della sessualità in tutte le manifestazioni umane, provando in questo modo che l’Io «non è padrone in casa propria». Riteneva di aver inferto al genere umano un’umiliazione psicologica, che accostava all’umiliazione cosmologica, proveniente dal sistema copernicano, e a quella biologica, derivata dalla teoria dell’evoluzione. La «sua» scoperta dell’inconscio aveva la medesima importanza: le prime due erano rivelazioni che avevano tolto alla specie umana rispettivamente la centralità nell’Universo e la peculiarità rispetto agli altri animali; la scoperta che egli si attribuiva aveva a sua volta tolto all’essere umano l’idea di essere padrone in casa propria.1 L’idea che Freud abbia scoperto l’inconscio si è diffusa per decenni, non solo nella cultura popolare, ma anche nella maggior parte di quella specialistica. Eppure, nei secoli passati le persone non erano certo così ingenue come le dipingeva Freud, ed erano al corrente di possedere processi mentali inconsapevoli. Da sempre gli esseri umani sanno che la coscienza e la volontà non sono le sole determinanti dei pensieri e dei comportamenti.2

Eppure l’auto-investitura freudiana è stata uno dei più esagerati e fortunati interventi autopromozionali della storia della cultura, una campagna proseguita dai suoi seguaci che, vittime e ingannatori allo stesso tempo, hanno creato una vera e propria leggenda sul fondatore, il cui nucleo centrale consisteva proprio nel sostenere che Freud aveva scoperto quanto impropriamente affermava: l’inconscio e l’importanza della sessualità nella vita. Non mi sto riferendo a autori minori o a pubblicazioni popolari, ma a ciò che scrivono in pubblicazioni prestigiose i più importanti esponenti dell’International Psychoanalytical Association. Tra questi, Jean Laplanche, curatore della traduzione francese delle opere complete di Freud, autore insieme a Jean-Bertrand Pontalis della più consultata e influente enciclopedia di psicoanalisi del mondo, un lavoro che ha influenzato generazioni di psicoanalisti, di studiosi e di semplici lettori, alla voce «Inconscio» scrivono: «Se si dovesse riassumere in una parola la scoperta freudiana, questa è senza dubbio l’inconscio». Per non ripetere quanto ho già scritto nella prefazione italiana al libro di Pierre Janet, La psicoanalisi, che qui riprendo in parte, mi limito a ricordare che gli uomini hanno sempre saputo di «non essere i soli padroni in casa propria» attraverso molti concetti, tra i quali il daimon greco, la reminiscenza platonica o il pensiero intuitivo di Plotino. In letteratura il termine inconscius si ritrova fin dal terzoquarto secolo in Marziano Capella, poi in Cassiodoro, e viene italianizzato in inconscio già da Boccaccio. In seguito, la

nozione fu ampiamente utilizzata anche in filosofia.3 Il grande padre della psicoanalisi in Italia, Cesare Musatti, direttore delle opere complete di Freud in lingua italiana, non è inconsapevole di questa situazione; tuttavia anch’egli contribuisce a diffondere la versione ufficiale della leggenda. Secondo Musatti, prima di Freud e di Breuer (il collaboratore degli inizi), i medici credevano che gli atteggiamenti e i comportamenti non voluti fossero causati da spiriti maligni o da entità misteriose mentre con Freud e Breuer «fu la scoperta dell’inconscio (dell’inconscio in senso psicologico, perché con un significato metafisico filosofi anteriori di inconscio avevano già parlato)».4 Nonostante ciò che scrive Musatti, anche in psicologia e in psichiatria, ben prima di Freud (nato nel 1856) la nozione di inconscio era già pienamente padroneggiata dagli psichiatri che erano definiti spregiativamente «organicisti». Questi usavano in maniera corretta e moderna la nozione di inconscio nei loro libri e nessuno di loro si sarebbe mai sognato di rivendicarne la scoperta. Lo psichiatra tedesco Wilhelm Griesinger, nel suo manuale di patologia e terapia, pubblicato nel 1845, scriveva: «Il dolore mentale ha un’altra importante conseguenza: […] il paziente diviene inconscio delle cose che prima lo interessavano, che sono momentaneamente dimenticate»;5 Lo psichiatra darwiniano inglese Henry Maudsley, nel suo libro Physiology and Pathology of the Mind, pubblicato nel 1867, utilizza il termine «inconscio» come concetto base della mente, presentandolo come la sede generativa dei processi

psicologici: «La coscienza non rende conto delle condizioni essenziali che stanno sotto le manifestazioni mentali»;6 «La parte più importante dell’azione mentale, il processo essenziale dal quale dipende il pensiero è l’attività mentale inconscia»;7 «Questa semplice riflessione potrebbe insegnare agli psicologi quanto più fondamentale dello stato mentale conscio è lo stato mentale inconscio»;8 «L’idea che sorse nella mente come movente delle sue singolari azioni non è venuta da qualsiasi processo regolare di associazione cosciente; essa apparve come il risultato dell’attività cerebrale nei recessi della vita mentale inconscia».9 Prima di Freud, Pierre Janet aveva già coniato la parola «subconscio» per descrivere il sistema dei processi mentali non accessibili immediatamente alla coscienza, che secondo lui non finiscono in un deposito del rimosso, ma in coscienze parallele non aperte in quel momento, perché discretamente dissociate. Come vedremo, si tratta di una descrizione molto più aderente alla situazione che oggi descrivono le neuroscienze rispetto a quella freudiana. Sul versante terapeutico, sempre Janet, ben prima della psicoanalisi di Freud, propose un trattamento originale, definito «analisi psicologica».10 Già nel 1959, Charles Darwin, nell’Origine delle specie, utilizzava il concetto di «selezione inconscia» (unconscious selection): gli individui, secondo lui, indirizzano le loro energie per trovare i migliori partner possibili coi quali accoppiarsi, e in questo modo finiscono con l’operare, senza esserne consapevoli, una selezione a favore di caratteristiche

che possono, col tempo, modificare la specie. Nelle sue opere Darwin impiega centinaia di volte le parole unconscious e unconsciously:11 «Penso che avesse ragionato in una rapida e inconscia maniera».12 «Nessun filologo pensa che ciascuna lingua sia stata inventata, ma che si è sviluppata lentamente e inconsciamente attraverso molti passi».13 Mentre Freud frequentava ancora il ginnasio, Darwin, nella sua Origine dell’uomo, pubblicata nel 1871, aveva già capito che la chiave per la comprensione della vita umana passava attraverso la comprensione dei desideri sessuali inconsci, la cui predominanza nella vita psichica è spiegata dalla teoria dell’evoluzione. L’interesse psicologico maggiormente percepito è il sesso perché in ogni individuo agiscono sistemi e sottosistemi cerebro-mentali inconsci, selezionati dall’evoluzione e atti a garantire la miglior prole possibile: «Le femmine preferiscono o sono inconsciamente eccitate dai maschi più belli»;14 «È più probabile che le femmine siano eccitate da alcuni maschi e così inconsciamente preferiscano loro»;15 «Molte femmine […] hanno inconsciamente preferito i maschi più belli»;16 «Gli uomini preferiscono certe donne ad altre per una sorta di selezione inconscia legata alla capacità di allevare figli fino alla maturità».17 Darwin scrive che la scelta sessuale è così potente che ciascuno dei due sessi, nel corso delle generazioni, tramite la selezione sessuale, arriva a modellare la struttura fisica e la psicologia dell’altro sesso: «Il sistema cerebrale non solo regola la maggior parte delle funzioni esistenti del corpo, ma

ha un’azione indiretta sul progressivo sviluppo di varie strutture del corpo e di certe qualità mentali».18 Per esempio, se gli uomini sono più alti e più forti delle donne non è solo perché esiste competizione riproduttiva tra i maschi, ma è anche e soprattutto perché la scelta delle femmine è generalmente indirizzata verso un certo tipo di maschio atletico, per almeno due motivi. Il primo: la prole sarà maggiormente ambita perché presumibilmente erediterà parte dei tratti di fitness del partner; il secondo: un maschio più forte offre (almeno apparentemente) maggiore sicurezza alla femmina in termini di capacità di collaborazione protettiva per se stessa e per l’allevamento dei figli. L’evoluzione, per Darwin, assume quindi caratteristiche psicologiche: la mente, inconsciamente, diventa una forza che opera una selezione sessuale e che organizza lo sviluppo della vita, la costruzione individuale e sociale, nonché le scelte in funzione del successo riproduttivo. Tutto ciò porta le persone a migliorare la fitness valorizzando le proprie qualità (corpo, mente) al fine di aumentare la possibilità di essere scelti dal partner. Darwin, al contrario di Freud, ha offerto una grande quantità di dati empiricamente controllabili a sostegno della sua descrizione dell’importanza della sessualità come elemento inconscio centrale e decisivo nella vita umana. In effetti era già andato oltre quella che sarà la produzione freudiana, spiegando come la sessualità sia un richiamo e un principio organizzatore che deriva dall’ancor più profonda spinta verso la riproduzione, senza la quale non sarebbe

possibile la prosecuzione della vita. Oggi la teoria di Darwin, dopo centocinquant’anni, è più viva che mai ed è condivisa da tutto il mondo scientifico. Le ipotesi di Freud, invece, non sono empiricamente verificabili, anzi, molte sono ormai state falsificate. Poiché Darwin è stato il primo a svelare i motivi inconsci ultimi dai quali si originano le nostre scelte e le nostre azioni – mostrando come alla base del nostro comportamento spesso ci siano motivazioni sessuali di cui siamo inconsapevoli –, si può affermare che il fondatore della psicologia del profondo è stato proprio Charles Darwin. Il primatologo Frans de Waal sostiene che tra cinquant’anni il ritratto di Darwin sarà appeso in ogni dipartimento di psicologia.19 Penso che sia troppo pessimista: non ci sarà bisogno di aspettare tanto. Gli animali non umani Freud non ha dunque scoperto l’inconscio; lo ha descritto secondo le sue idee personali, e in maniera molto semplicistica, denotandolo come composto da una parte strutturale fatta di pulsioni sessuali/aggressive e una parte individuale costituita da contenuti mentali rimossi. Egli operava una distinzione tra gli esseri umani che possiedono semplici pulsioni (Triebe) e gli altri animali (chiamati semplicemente «animali») che, a suo avviso, sono caratterizzati dall’istinto (Instinkt). Questa distinzione è molto antica, ma ormai, dopo Darwin, è del tutto superata. Oggi sappiamo che non soltanto è semplicistico, ma proprio errato, separare nettamente l’eredità genetica

dall’influenza ambientale sul comportamento. Sia l’ambiente, sia la genetica possono incidere in maniera determinante sull’espressione di un comportamento. D’altra parte nulla viene appreso se non esistono i prerequisiti biologici dell’apprendimento. I comportamenti coordinati ereditariamente (gli «istinti») non sono rigidi ed è necessario che i prerequisiti biologici vengano attivati dall’ambiente che così modificano la loro espressione. Inoltre, i sistemi innati non sono integrati dagli stimoli ambientali allo stesso livello nelle diverse specie. Il comportamento di una scimmia antropomorfa è infinitamente più vicino a quello di un essere umano che a quello di uno squalo, di una rana o di un topo. In ogni caso, i comportamenti coordinati ereditariamente, come sostengono gli studiosi di psicologia animale e comparata, tra cui Angelo Tartabini, «non esistono soltanto negli altri animali, ma anche nell’uomo e sono molto efficaci. Sono molto importanti ai fini della nostra sopravvivenza e, a volte, sono molto più importanti di quanto la nostra cultura abbia potuto insegnarci finora».20 Darwin aveva notato che un bambino che piange, sorride o fa il broncio, è istintivo quanto un coccodrillo che azzanna.21 Non esiste un comportamento che si possa far risalire a un’unica variabile: i ragionamenti sono intrisi di stati affettivi ed emozioni di base, le quali sono influenzate dallo stato del corpo, che dipende dal metabolismo, dal sonno, dalla fame. Già William James, nel 1890, scriveva: «Tutte le antiche discussioni sull’istinto sono inutili giochi di parole – che noi possiamo dare il nome di istinto a impulsi

come quello di arrossire, starnutire, tossire, saltare, ridere, andare a tempo, è semplicemente questione di terminologia. Il processo è lo stesso dappertutto […] Gli istinti non sono sempre ciechi e invariabili […] l’uomo possiede tutti quelli che essi hanno, e altri ancora».22 James utilizzava il termine nel senso ampio della parola, anche per riferirsi a «tendenze a obbedire a impulsi di una certa natura elevata, quali il dovere o i fini universali».23 Il grande psicologo americano fu tra i primi a notare che le emozioni non sono per nulla meccaniche, bensì dotate di uno stato affettivo proprio, generato, simultaneamente alle azioni immediate, dagli stessi circuiti neurali che generano i movimenti emotivi. Stati affettivi e reazioni emotive, secondo James, avvengono contemporaneamente. Questa posizione, dopo oltre cento anni, è stata ripresa e sviluppata di recente dalle neuroscienze affettive in particolare da Jaak Panksepp.24 Negli ultimi decenni è stato anche ripreso l’uso del termine istinto, a volte con la piena consapevolezza dell’importanza dell’ambiente nella sua espressione, altre volte meno. L’idea che ci sia una sostanziale differenza tra gli esseri umani, immaginati liberi da condizionamenti biologici, e gli altri animali, che sarebbero istintualmente determinati, è una trappola che dà troppa importanza alla soggettività dell’Io e, come scriveva William James: «L’Io [trascendentale] è soltanto un’edizione brutta e a buon mercato dell’Anima. […] L’Anima veramente non spiegava nulla, ma almeno aveva qualche parvenza di nobiltà e di dignità. […] l’Io, invece, non è assolutamente nulla: è

l’aborto più inefficace che la filosofia abbia mai prodotto».25 Il concetto di Io dà l’idea di un pilota che guida un corpomacchina, invece di essere egli stesso il proprio corpo guidato dai suoi meccanismi neurali. Quella specie di pilota chiamato «Io» è una sensazione generata dalla complessità delle reti neurali, che sono in coordinamento discreto tra di loro. Discretamente coordinate significa anche relativamente dissociate, tanto che, nel momento in cui interrompiamo alcuni circuiti neurali, siamo in grado di produrre fenomeni di sdoppiamento di coscienza. Oggi abbiamo la possibilità di osservare come ogni lesione del cervello porti a una variazione del modo di essere, di pensare e di comportarsi, modificando profondamente proprio il tipo di sensazione che è stata chiamata «Io». Esiste un organismo, ma non un Io che lo guida. È il corpo che produce la sensazione della mente e dell’Io, così come produce la sensazione del calore, del dolore, dell’emozione e del movimento.26 Le scoperte scientifiche ci mostrano che i fenomeni sono assai differenti da come noi li percepiamo. I colori che riempiono la nostra vita di bellezza non esistono in natura: sono costruzioni del sistema occhio-cervello, sulla base delle lunghezze d’onda. E il sole è fermo all’orizzonte, non tramonta. Eppure, nonostante queste conoscenze, continuiamo a parlare dei magnifici colori che si producono al calar del sole. Lo facciamo perché la mente funziona a moduli relativamente indipendenti e la conoscenza cognitiva riguarda parti del cervello differenti da quelle coinvolte nella percezione. La stessa cosa accade per la nostra impressione

di operare scelte individuali, anche quando in effetti mettiamo in atto disposizioni che emergono da emozioni profonde, che risalgono (anche se per via inconsapevole, indiretta e tortuosa) fino alla necessità ancestrale del successo riproduttivo. La nostra vita è costruita nei nostri sistemi neurali, che a loro volta ci forniscono le istruzioni di base, tra cui senza dubbio figurano il mantenersi in vita, mostrare i propri lati migliori, collaborare, competere, avere attività sessuale con buoni partner e riprodursi. L’evoluzione ha strutturato ciascun individuo con le caratteristiche della sua specie, attraverso linee genetiche famigliari e attivazioni ambientali che lo rendono unico. Gli stimoli ambientali che ciascun individuo riceve dal suo ambiente contribuiscono in maniera determinante a formarne la psicologia. Noi sentiamo pienamente «nostri» i comportamenti e difficilmente ci accorgiamo che hanno anche una base biologica. Per comprendere quanto influisca la spinta emotiva nella vita di tutti i giorni si potrebbero citare molte evidenze. Ricordiamo a titolo di esempio il famoso esperimento effettuato dagli psicologi canadesi Donald Dutton e Arthur Aron in un parco molto frequentato: in una giornata ventosa, una ragazza fermava uomini soli che transitavano su due diversi ponti pedonali per sottoporre loro un test, lasciando poi il suo numero di telefono, in caso desiderassero ulteriori informazioni. Il primo era un ponte di tavole di legno, legato con cavi che vibravano col vento; il secondo era un ponte

stabile, alto pochi metri da terra. La ragazza ricevette un numero di telefonate, con corteggiamenti espliciti, di gran lunga superiore da parte degli uomini che transitavano sul ponte sospeso nella giornata ventosa, rispetto a quelli che transitavano sul ponte più stabile. Il relativo pericolo aveva evidentemente generato una disposizione comportamentale disinibita nei confronti della ragazza.27 Oggi conosciamo la spiegazione prossima: la dopamina, il neurotrasmettitore che viene rilasciato nel cervello in situazioni di pericolo, è lo stesso neurotrasmettitore che viene rilasciato durante l’innamoramento; quindi i due stimoli, sovrapponendosi, si associano. Molti studiosi sostengono che questo comportamento potrebbe avere anche una spiegazione remota, di tipo evoluzionistico: è possibile che nella preistoria dell’uomo, nelle situazioni di pericolo, siano sopravvissuti proprio gli individui che erano in grado di formare dei legami, selezionando così i geni che, attraverso la mediazione del sistema nervoso, spingono ancora oggi verso questo comportamento. Non possiamo sapere davvero se le cose sono andate in questo modo, anche se appare verosimile, oppure se la risposta emotiva si è formata nel cervello a causa di un vincolo di sviluppo. D’altra parte l’evoluzione è una scienza storica, e come tutte le ricostruzioni storiche, non ci offre sempre certezze. Tuttavia, sappiamo che reagire agli avvenimenti emotivi stringendo legami è una risorsa umana immediata, conosciuta e utilizzata ad esempio dai formatori aziendali che la sfruttano per favorire il team building, facendo

condividere al gruppo di lavoro esperienze che contengono intensità emotiva. Riuscire a comprendere che alcuni eventi della vita quotidiana ci sottopongono a pressioni che risvegliano risposte ancestrali, può aiutarci a ritrovare il senso del nostro comportamento: quando ci rendiamo conto di essere vittime di situazioni che per la loro forza oggettiva ci hanno causato danni, è d’aiuto individuare il ruolo delle risposte emotive caratteristiche della specie umana che hanno contribuito a sopraffarci. Buona parte del nostro comportamento è dunque inconscio, semi-automatico, emotivo, e deriva dall’esistenza del sistema mente-cervello-corpo che si è strutturato nel corso dell’evoluzione. Come dice Antonio Damasio, da un lato non conosciamo, se non a grandissime linee, la volontà del nostro corpo, dall’altro ci diamo attivamente da fare per realizzare questa volontà.28 Siamo abitati da sistemi psicobiologici inconsci che derivano dalla nostra storia evoluzionistica e che sono trasmessi attraverso i geni. Tuttavia, siamo altro rispetto ai nostri geni e alle nostre emozioni: un essere umano non è riducibile a nessuno di essi. Ciascun sistema psicobiologico è solo una piccola parte di noi stessi, spesso in conflitto con altri sistemi, che sono in grado di moderarlo. È grazie a una quantità enorme di valutazioni, compiute in un paio di decimi di secondo dal cervello, che i molteplici circuiti neurali offrono all’organismo il potere di esprimere, o di reprimere, tendenze fondamentali. Il cervello umano è

molto complesso ed è proprio questa molteplice articolazione che emancipa, almeno in parte, l’organismo umano dalle spinte comportamentali immediate. L’individuo va dunque immaginato come una molteplicità discretamente coordinata, o dissociata, secondo la stabilità delle singole persone. In sostanza, siamo un composto di numerose istanze, tra loro separate e conflittuali, che possono essere mediate solo a costo di una certa fatica, e mai completamente: l’insoddisfazione che Freud attribuiva allo sviluppo della civiltà deriva quindi soprattutto dal fatto che la moltitudine dei nostri Sé, non potrà mai essere appagata tutta nel suo insieme. Il compiacimento di alcune nostre parti interiori comporta inevitabilmente l’insoddisfazione di altre. La psicologia evoluzionistica di Freud e le fasi sessuali La psicologia evoluzionistica descritta da Freud in Totem e Tabù (1912-1913) è la spina dorsale della psicoanalisi, la struttura attorno alla quale l’autore costruisce il suo sistema. Questa struttura venne continuamente ripresa da Freud, come ad esempio nel Disagio della civiltà, del 1929: «Il bambino […] obbedisce a un modello filogenetico, andando al di là della reazione correntemente giustificata in quanto non v’è dubbio che il padre dei tempi preistorici fosse terribile e si poteva ritenerlo capace di qualsiasi aggressione. […] Non possiamo prescindere dall’ipotesi che il senso di colpa dell’umanità abbia origine dal complesso edipico, e sia stato acquisito con l’uccisione del padre da

parte dei fratelli coalizzati insieme».29 Un anno prima di morire, in L’uomo Mosé e la religione monoteistica, del 1934-1938, Freud presenta un ulteriore parricidio primordiale, che questa volta pone all’origine delle religioni monoteiste: «Gli uomini hanno sempre saputo di aver avuto un padre primigenio e di averlo ucciso».30 Freud sapeva che «ciò che deve aver lasciato l’impronta decisiva sull’evoluzione degli organismi è la storia dell’evoluzione della Terra».31 Fondamentalmente, egli rappresentava la psicoanalisi come una sorta di psicobiologia dinamica influenzata dall’evoluzione: «Il mio tentativo si ricollega a un’ipotesi di Darwin sulla primordiale condizione sociale dell’uomo».32 La sua (modesta) comprensione del darwinismo, unita al desiderio di trovare una base filogenetica alla sua teoria dell’origine dei disturbi mentali, lo portò a basarsi su una versione dell’evoluzione che non era affatto impostata sul lavoro di Darwin. La sua opera, basata principalmente sulla memoria filogenetica di un antico parricidio è, infatti, a tutti gli effetti lamarckiana. Eppure, nonostante l’interpretazione errata dell’evoluzionismo, generazioni di psicoanalisti, studiosi e lettori continuano a parlare di un Freud darwiniano. Il fondatore della psicoanalisi riteneva che gli esseri umani fossero vissuti anticamente in un’«orda primordiale», vessati da un padre che impediva loro l’accesso alle femmine, li castrava e li espelleva dal gruppo. In una situazione di tale violenza, i figli maschi infine si

accordarono e uccisero il padre. Per non ripetere questa storia di soprusi e violenza, i figli stabilirono un patto tra fratelli, che proibiva l’accesso alle donne del padre, rimaste libere. La decisione aveva lo scopo di evitare la tirannia paterna in nuove forme e di impedire le rivalità tra fratelli, condizione che avrebbe ostacolato lo sviluppo sociale.33 La proibizione dell’incesto, secondo Freud, si stabilì dunque per una decisione sociale, presa all’alba dei tempi dopo l’uccisione del padre padrone. Inoltre i fratelli assassini, oppressi dai sensi di colpa, divinizzarono il padre ucciso e lo trasfigurarono nell’avo totemico del loro gruppo. Si crearono così i due tabù fondamentali che caratterizzeranno la vita sociale per i millenni a seguire: la proibizione dell’incesto e il divieto del parricidio.34 Al termine di Totem e tabù, Freud scrisse la tanto famosa, quanto fantasiosa, frase: «Gli inizi della religione, della moralità, della società e dell’arte convergono nel complesso edipico».35 Di fronte a questa proibizione che impediva la soddifazione pulsionale, l’uomo avrebbe reagito con la sublimazione, creando la civiltà. Il divieto dell’accesso alla madre, stabilito nelle singole famiglie del periodo storico, era l’attualizzazione e la ripetizione di una proibizione originaria avvenuta nel periodo evoluzionistico. Questa idea che la storia individuale ricapitolasse l’evoluzione e che gli esseri umani dovessero quindi inevitabilmente reiterare nella loro vita le antiche modalità ancestrali di accettazione del tabù dell’incesto e del tabù del parricidio per poter vivere una vita sociale, deriva dalla credenza di Freud nella

«legge biogenetica» del biologo e filosofo ottocentesco Ernst Haeckel.36 Vi sono qui almeno tre errori. 1) La ripetizione di un evento non si può «fissare» stabilmente in biologia, come il (purtroppo) ripetuto taglio della coda ai cani non ha mai fatto nascere cani con la coda tagliata. L’evoluzione avviene per la comparsa casuale di caratteri favorevoli rispetto all’ambiente, i quali vengono conservati perché vantaggiosi (selezione naturale) o per motivi casuali (deriva genetica e migrazione): mutazione, selezione naturale, deriva genetica e migrazione sono i quattro fattori evoluzionistici finora scoperti. Su questo sviluppo agiscono anche dei vincoli strutturali, leggi della forma e le estinzioni di massa.37 2) La teoria della ricapitolazione non ha più fondamento scientifico: lo sviluppo del bambino non ricapitola affatto quello della specie. 3) Non ci possono essere ricordi degli avvenimenti evoluzionistici. La memoria non è ereditabile; si tratta di una funzione che riguarda l’esistenza individuale e non è trasmissibile. La ripetizione di un concetto o di un’esperienza agisce durante la vita di un individuo (non della specie), favorendo l’espressione di alcuni geni che creano connessioni neurali specifiche, ma non è in grado di modificare i geni, che rimangono intatti nel corso della vita dell’organismo, sopravvivono e si trasmettono anche per milioni di anni senza tramandare alcuna memoria degli avvenimenti accaduti nel passato ancestrale. I geni possono

modificarsi per mutazioni casuali, radiazioni o a causa di composti tossici, ma non certamente per opera della memoria umana. Ciò che si eredita, invece, sono i sistemi psicobiologici strutturali che formano i prerequisiti dei comportamenti, dell’affettività, della memoria e delle altre funzioni psicologiche. Per esempio, la paura sorge, in determinate condizioni, da un circuito neurale che si eredita geneticamente; il ricordo di un avvenimento pauroso invece è un contenuto che non si può in alcun modo ereditare. Noi non abbiamo paura dei ragni o del vuoto per il ricordo inconscio di aver visto qualcuno morire nel lontano passato evoluzionistico, ma perché chi aveva i circuiti neurali che elaboravano queste paure è sopravvissuto e ha trasmesso i suoi geni alla progenie. I ricordi e le rimozioni delle vite anteriori vanno lasciati alle persone romantiche. In senso simbolico possiamo dire che nasciamo con qualcosa che assomiglia più ai «programmi per scrivere» che ai «contenuti scritti»: quelli, li dobbiamo comporre noi individualmente durante la nostra vita. Le fasi sessuali Come fa notare lo storico della scienza Frank Sulloway, Freud prese da Haeckel anche la sua distinzione di fase orale, anale e fallica. Secondo Haeckel la prima fase della sessualità nella storia dell’evoluzione era quella orale, dove ogni creatura vivente ne mangiava un’altra. Con l’evoluzione si forma il tratto gastrointestinale e la sessualità viene

associata all’estremità del sistema digerente. Successivamente compaiono i genitali, considerati l’ultima fase della sessualità. Credendo a questa teoria, Freud era convinto che il bambino si trovasse a ripetere le fasi dello sviluppo dei caratteri sorti durante l’evoluzione. La «legge biogenetica fondamentale», di ispirazione lamarckiana, era dunque utilizzata ampiamente a fondamento scientifico della teoria dello sviluppo sessuale.38 La distinzione delle tre fasi sarebbe del tutto arbitraria senza la legge di ricapitolazione. Considerando le varie attività sessuali umane, potrebbe esserci, altrettanto infondatamente, una «fase della vista» e una «fase della mano». Come obietta Jaak Panksepp, il fatto che i bambini si tocchino i genitali, anche se ottengono brevi sensazioni sessuali, non è un’attività sessuale; la vera attività sessuale è tipica di un desiderio maturo che si basa su un sistema ormonale che nei bambini non è ancora sviluppato. È molto improbabile che toccandosi la bocca i lattanti abbiano sensazioni sessuali, e se i bambini le hanno toccandosi il pene o la vagina, queste sono fugaci, non legate direttamente agli ormoni sessuali del sistema del desiderio sessuale. La suzione e l’uso della bocca sembrano piuttosto elementi connessi al piacere non sessuale che prova il bambino nel momento in cui viene accudito, all’appagamento del sistema esplorativo della ricerca e allo sviluppo del sistema emotivo del gioco. Questi sono processi emotivi di base che vedremo meglio descritti nel capitolo sulle

emozioni di base. I sistemi emotivi primari, presenti fin dalla nascita, provocano emozioni e stati affettivi piacevoli di carattere non sessuale perché sono legati a mediatori chimici come la dopamina, l’ossitocina e le endorfine, molecole che sono molto diverse dai classici ormoni sessuali. Del resto, i bambini giocano allo stesso modo, in determinati periodi, con il naso e le orecchie, senza che sia il caso di pensare a una fase specifica loro dedicata. Sarebbero invece proprio queste tre ipotetiche fasi sessuali a spiegare, secondo Freud, l’origine dei disturbi mentali: «La sessualità perversa non è che una sessualità infantile amplificata, scomposta nei suoi singoli impulsi».39 In altre parole, se la sessualità infantile non viene organizzata dalla legge del padre, nell’adulto permane la perversione originaria di cui l’essere umano sarebbe biologicamente intriso. Nella visione di Freud i bambini sono perversipolimorfi che se non vengono «domati» nel corso dello sviluppo rimarranno perversi per tutta la vita.40 I sintomi nevrotici, dal canto loro, sono descritti come l’espressione convertita di pulsioni sessuali rimosse.41 Per Freud «la nevrosi è, per così dire, la negativa della perversione».42 Freud si spinge fino al punto di affermare che lo sviluppo della pulsione sessuale avviene soltanto con la pubertà esclusivamente a causa di una pressione sociale, perché «la società ha interesse a procrastinare il suo sviluppo al momento in cui il bambino abbia raggiunto un certo grado di maturità intellettuale», e se lo sviluppo sessuale non fosse ritardato fino alla pubertà «la pulsione romperebbe tutti gli

argini e spazzerebbe via l’opera faticosamente costruita della civiltà».43 La repressione sessuale causerebbe così un periodo di latenza della sessualità che va dal quinto anno fino alla pubertà.44 Oggi sappiamo che le cose avvengono proprio al contrario: non c’è alcun differimento sociale rispetto allo sviluppo sessuale, che è geneticamente programmato per un determinato periodo della vita, ma questo può invece essere anticipato da una precoce sessualizzazione del bambino, ovvero da abusi che causano gravi problemi fisici e psichici. Un confronto con la primatologia conferma che l’esplosione sessuale puberale non riguarda solo gli esseri umani. L’età puberale degli scimpanzé e dei bonobo è verso i sei-otto anni. Prima di quel periodo i piccoli maschi hanno forme non copulatorie di sessualità, comportamenti che il primatologo giapponese Takeshi Furuichi preferisce definire «pseudosessuali», mentre le femmine biologicamente immature sono più riservate.45 La trasformazione sessuale durante il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è radicale e porta alla copula anche nei bonobo.46 Si tratta in sostanza, di uno sviluppo sessuale non troppo dissimile da quello umano, pur non avendo i bonobo una società che «ha interesse a procrastinare il loro sviluppo». I bonobo non hanno il «periodo di latenza» e fanno giochi non copulatori così come avviene per i piccoli umani. Il «periodo di latenza», la cui esistenza non è mai stata dimostrata al di fuori del mondo psicoanalitico, ricorda un po’ l’araba fenice. Non è che Freud semplicemente confondesse repressione con educazione? I

cuccioli umani hanno tanti altri comportamenti che li differenziano dai cuccioli degli altri animali: vanno a scuola, studiano, leggono e imparano le convenzioni sociali, tra cui quelle di non mettersi le dita nel naso o di toccarsi in pubblico, ma non evitano affatto di mettersi le dita nel naso, di giocare al dottore, di esplorare il loro corpo o di toccarsi anche nelle parti intime quando non sono osservati. Freud scriveva in un momento storico altamente sessuofobico, un periodo in cui le donne avevano le gonne sotto le ginocchia, le adultere venivano denunciate e gli omosessuali finivano in manicomio o in carcere. Il fondatore della psicoanalisi era consapevole della repressione sessuale della società del suo tempo ma, invece di contrastarla, la appoggiava pienamente, ritenendola necessaria a garantire lo sviluppo della civiltà. Freud era convinto che una sessualità libera avrebbe comportato una forte regressione sociale, se non il ritorno allo stato di natura con la perdita di tutte le conquiste culturali. La repressione sessuale era quindi per lui inevitabile, anche se causava infelicità agli esseri umani: si trattava del prezzo da pagare per vivere in una società moderna. Difficile capire perché Freud temesse la libertà sessuale tanto da imputarle una simile valenza antisociale, anticulturale e distruttiva. Tuttavia, un pensiero che attribuisce un simile potere distruttivo alla libertà sessuale, decenni dopo la rivoluzione sessuale degli anni sessanta e settanta, appare oggi davvero invecchiato. Semmai, la discreta libertà sessuale odierna, ottenuta grazie alla secolarizzazione del mondo, allo sviluppo

tecnico dei mezzi di comunicazione, allo sviluppo sociale, culturale, scientifico e medico, all’emancipazione delle donne e degli omosessuali e alla femminilizzazione della società e dei suoi componenti (compresa la figura del padre, presente come mai prima d’ora nella cura dei figli), ci mostra quanto la liberazione sessuale abbia valore creativo, culturale, costruttivo e, soprattutto, altamente civilizzante. Non a caso è tanto temuta dai Paesi fondamentalisti e dai reazionari presenti in ogni schieramento politico. La libertà sessuale non solo non appare per nulla incompatibile con la civiltà, ma anzi, contribuisce in maniera determinante al suo sviluppo, tanto che senza di essa non vi è civiltà che possa dirsi libera. Memoria filogenetica – Prerequisiti biologici Freud inserì anche la teoria della rimozione organica, nel suo orizzonte evoluzionistico lamarckiano, secondo una strana congettura: all’inizio l’uomo era un animale che camminava a quattro zampe; il primo grande passo fu la conquista della stazione eretta; il fatto che il naso non fosse più a contatto con il terreno e a portata dei genitali degli altri animali determinò un affievolirsi delle capacità olfattive e la conseguente perdita dell’olfatto come funzione dominante. A ciò seguì una parziale atrofia e una significativa perdita delle zone erogene precedenti (naso, bocca, gola, ano). Gli stimoli visivi sostituirono la funzione dell’olfatto e con questo si determinò il superamento della periodicità dell’eccitazione sessuale che prima era

determinata dall’odore delle secrezioni vaginali, che variava ciclicamente. La stazione eretta rese visibili, e quindi bisognosi di protezione, i genitali prima nascosti, determinando la nascita del senso del pudore. Il nuovo ordine morale si basava dunque su quella che Freud chiamava «rimozione organica» delle funzioni sessuali precedenti, dovuta ai nuovi equilibri biologici. Secondo Freud, l’intera sessualità corse il rischio di soccombere a questa «rimozione organica» e rimase comunque associata a qualcosa di sporco.47 La rimozione era chiamata «organica» perché si era formata in seguito alle rinunce pulsionali cui il genere umano era stato costretto, evolvendo fino alla stazione eretta. Da ciò conseguirebbe il fatto che «il nucleo dell’inconscio psichico è formato dall’eredità arcaica dell’uomo; cade preda del processo di rimozione tutto ciò che nel progredire verso successive fasi di sviluppo deve essere abbandonato perché inutilizzabile, inconciliabile con il nuovo e a esso dannoso».48 Questo quadro è completamente lamarckiano nella sua impostazione, e del tutto superato oggi, come il resto dell’evoluzionismo freudiano. L’era glaciale – L’era della fantasia Nel 1983 fu ritrovato un manoscritto che chiarisce in maniera inequivocabile come certe convinzioni, di fatto lamarckiane, di Freud si ponessero a fondamento della sua psicoanalisi. Il manoscritto, intitolato Sintesi delle nevrosi di

traslazione, forma il dodicesimo e ultimo capitolo della metapsicologia freudiana.49 Non fu mai pubblicato, probabilmente perché l’autore era consapevole del carattere altamente speculativo delle congetture che aveva messo su carta. Tuttavia, le idee espresse nel manoscritto, esposte anche da Freud a Sándor Ferenczi in una famosa lettera del 12 luglio 1915,50 rappresentano l’ideale prosecuzione di Totem e Tabù del 1913 e vengono riprese in tutta la sua opera. Si tratta di una teoria richiamata in diversi momenti nelle sue opere, tra le quali L’Io e l’Es del 1922 e Inibizione, Sintomo e Angoscia del 1926, e ribadita in un contesto differente nell’Uomo Mosé e la religione monoteistica del 1934-1938.51 Freud era convinto che vi fosse una serialità nella comparsa temporale delle malattie degli individui, che procedeva secondo quest’ordine: isteria d’angoscia – isteria di conversione – nevrosi ossessiva – dementia praecox – paranoia – melancolia-mania. Questa serie, seguendo la teoria della ricapitolazione, ripeteva nello sviluppo individuale gli avvenimenti ancestrali dell’umanità. In altre parole, quelli che oggi sono i disturbi mentali sarebbero stati le fasi vissute dagli esseri umani nei tempi evoluzionistici. Andando ben al di là della psicologia (usava appunto il termine metapsicologia), sosteneva che dopo una lunga fase vissuta in una specie di paradiso terrestre – della cui esistenza sarebbe giunta a noi un’eco nel mito biblico – a causa della sopravvenuta era glaciale, l’umanità conobbe l’angoscia. La scarsa reperibilità di cibo, dovuta alla rigidità

del clima, costrinse gli esseri umani, soprattutto le donne, a limitare i rapporti sessuali fecondi, fatto che a sua volta produsse le nevrosi, in particolare l’isteria, e le perversioni, che si instaurarono in sostituzione dei normali rapporti sessuali. Soprattutto le donne subirono allora i divieti che nell’era glaciale escludevano la funzione genitale e, per via di questa eredità biologica, oggi le donne sarebbero particolarmente predisposte all’isteria di conversione. L’era glaciale aveva cioè lasciato come sedimento storico l’interruzione della vita sessuale, che caratterizza quello che Freud chiama periodo di latenza, ovvero la fase che va dai cinque-sei anni fino alla pubertà. In questo periodo le pretese pulsionali vengono trattate e respinte come pericoli «cosicché gli impulsi ulteriori della pubertà corrono il pericolo di soggiacere all’attrazione dei modelli infantili, e di seguirli nella rimozione».52 Alla fine del periodo glaciale, gli uomini vivevano riuniti in orde, sulle quali dominava come padre un uomo forte, saggio e brutale: da qui le nevrosi ossessive. Il padre primordiale era però geloso dei suoi figli e pertanto li castrava: si salvava da questa efferatezza solo chi riusciva a fuggire. Il comportamento del padre primordiale generò così la comparsa della paranoia e della schizofrenia. Da tutto ciò deriverebbero dunque la paura della castrazione, e anche l’omosessualità, poiché i figli fuggiti al padre vivevano in comunità esclusivamente maschili. Tuttavia, questo evento ebbe anche effetti positivi, dal momento che la convivenza dei figli maschi dovette generare per sublimazione della

sessualità i sentimenti sociali. I figli, infine, si coalizzarono e uccisero il padre, cosa che portò alla mania (l’euforia per la morte del tiranno) e alla melanconia (il senso di colpa per l’omicidio). Queste caratteristiche acquisite vennero trasmesse ai discendenti per via ereditaria, per cui tutto il percorso sarebbe da allora strutturato nella biologia e destinato a essere rivissuto dagli esseri umani. Nel racconto fantasioso, che ha del fantascientifico, Freud pensava di aver trovato una giustificazione al tema dominante della psicoanalisi: la nevrosi come acquisizione della civiltà. Poco importa che il paradiso terrestre in cui sarebbe vissuta l’umanità sia solo un racconto biblico e che semmai i riscontri antropologici ci parlano di una situazione di guerra continuata quanto più ci si allontana dal mondo contemporaneo.53 Poco importa che le glaciazioni non siano avvenute con uno schema così elementare come quello immaginato da Freud e che i dati paleontologici rivelino molta selvaggina nella dieta degli uomini primitivi. Poco importa, soprattutto, che non sia esistito nessun «padre primordiale», che la memoria degli eventi passati non possa essere tramandata per via genetica, che lo sviluppo individuale umano non ricapitoli quello della specie. Per Freud l’individuo nevrotico è, a dispetto di tutto, come un normale bambino, un antenato ancestrale o un membro adulto di una cultura primitiva: «Con i nevrotici siamo come in un paesaggio preistorico, per esempio nel giurassico».54 Il racconto può sedurre, per quanto è semplice e avvincente, colpisce le anime semplici, affascina ed è bello crederci.

Ma non è vero. Difficile non concordare con Frank Sulloway quando afferma che la teoria freudiana traeva la sua origine ed era permeata da ipotesi scientifiche di fine Ottocento che sono state ormai falsificate da decenni. In genere, una teoria si trova a soccombere nel momento in cui le sue basi si rivelano false. Per questo motivo, dice Sulloway, la teoria freudiana è compromessa quasi per intero.55 Il biologo evoluzionista Stephen Jay Gould a questo proposito è lapidario: «La teoria di Freud ci colpisce come una stravagante speculazione assolutamente priva di senso alla luce delle moderne idee sull’evoluzione. La fantasia filogenetica di Freud è davvero audace, trascende totalmente i dati, è speculativa all’estremo, è personalissima – ed è falsa».56 Psicologia Evoluzionistica – psicologia evoluzionistica L’evoluzione è un fatto. Comprendere come si sia sviluppata non è affatto semplice e tuttora ci sono dibattiti in corso, anche violenti. Particolarmente difficile da capire è lo sviluppo della mente. Abbiamo però sufficienti informazioni che ci permettono di sapere come non si è sviluppata: per esempio nelle modalità immaginate da Freud. Nel dibattito culturale e scientifico si rischiano fraintendimenti sul tema, molti dei quali nascono dal fatto che il termine «psicologia evoluzionistica» (scritto con la minuscola) esprime non soltanto un esteso campo di ricerca della psicologia alla luce dell’evoluzionismo, ma anche una

specifica scuola interpretativa, chiamata «Psicologia Evoluzionistica» (con la maiuscola), fondata, tra gli altri, da John Tooby e Leda Cosmides. Questo paradigma, tuttavia, è soltanto uno dei modi di intendere la psicologia evoluzionistica: già William James, nel suo fondamentale trattato del 1890, definiva la propria psicologia come evoluzionistica.57 Anche Pierre Janet, nel 1928, scriveva che la psicologia si rapporta all’evoluzione esattamente come le altre scienze.58 Non è per nulla opportuno, pertanto, lasciare a una sola scuola di pensiero una simile definizione, che invece deve essere patrimonio comune degli studiosi che fanno ricerche sul tema. Gli stessi critici del paradigma della «Psicologia Evoluzionistica», come i filosofi della scienza David Buller e Telmo Pievani, sono, a loro volta, definibili come «psicologi evoluzionisti» (con la minuscola) e pienamente consapevoli dell’importanza dell’evoluzione nello sviluppo della mente. Pievani ad esempio dice che «l’evoluzione ha molto da dire non solo sulla psicologia, ma anche sul senso morale, estetico e religioso della nostra specie», per cui «è importantissimo che si rifletta sulle cause remote [evoluzionistiche], e non soltanto su quelle prossime [psicologiche o neuroscientifiche]».59 E propone alcune linee di intervento, pienamente condivisibili, per una psicologia evoluzionistica «dal basso», che dovrebbe essere aggiornata «partendo dai dati reali» delle altre discipline scientifiche, tra cui quelli della psicologia animale comparata e delle neuroscienze.60 Il termine «psicologia» dovrebbe quindi contenere in sé

implicitamente l’aggettivo «evoluzionistica», senza riferirsi necessariamente al paradigma introdotto da Tooby e Cosmides. L’evoluzione del sistema cervello/mente nel corso di decine di milioni di anni è un fatto, non una questione di opinioni o un dato da accertare. Il dibattito verte semmai su quanto l’origine evoluzionistica del sistema cerebro-mentale influisca sull’individuo e su come le funzioni psicobiologiche si siano prodotte nel corso dell’evoluzione: se come adattamento vero e proprio alle condizioni ambientali, oppure come prodotto collaterale di altri adattamenti. Nell’evoluzione sono molto importanti le riutilizzazioni di adattamenti precedenti, una possibilità già indicata da Darwin con il nome di pre-adattamento e in seguito grandemente approfondita da Gould e Vrba con il termine exaptation.61 È bene sapere, infine, che il ruolo del caso dovuto alla deriva genetica ha acquistato di recente maggiore rilevanza per la comprensione dell’evoluzione. L’errore più comune di molti commentatori è proprio l’iper-adattazionismo, ossia l’interpretazione di ogni carattere come il frutto della selezione naturale; contemporaneamente, molti spesso sottovalutano il ruolo del caso e dei vincoli strutturali. Un altro errore frequente è quello di considerare l’evoluzione come un meccanismo che tende a un determinato progetto, in linea retta verso una meta precisa: al contrario, proprietà sviluppate per determinate funzioni vengono spesso riadattate per altre, certi adattamenti possono scomparire e tornare sotto altra forma o perfino essere rovesciati nella loro funzione

originaria. Le pinne dei pesci, per esempio, si sono evolute negli arti dei tetrapodi e nelle ali degli uccelli, ma quando alcuni discendenti di questi vertebrati tornarono a vivere nel mare (come delfini e balene) i loro arti svilupparono nuovamente pinne analoghe a quelle dei pesci, ma non omologhe, derivate cioè da strutture anatomiche differenti. Psicoanalisi ed evoluzione L’interpretazione freudiana un po’ fantasiosa dell’evoluzione fu notata dagli studiosi del tempo. L’antropologo inglese Robert R. Marett, nel 1920, in uno scritto dedicato a Totem e Tabù accusò lo psicoanalista viennese di costruire just-so stories, «storie proprio così», come quelle scritte da Kipling, «né migliori né peggiori di quelle dei miti dei primitivi riferiti al medesimo soggetto».62 Nonostante Freud fosse senza dubbio un naturalista e un evoluzionista convinto, l’opera freudiana non può essere tuttavia definita propriamente una psicologia basata sull’evoluzione, e questo per diversi motivi: a) -I disturbi del comportamento vengono ridotti alla dinamica pulsioni/repressione e sottovalutando abusi, maltrattamenti e sviluppi traumatici infantili tipici anche dei primati non umani a noi vicini. Freud in altre parole elabora una psicologia culturalista, riservata al solo genere umano, i cui disturbi affettivi avrebbero origini differenti rispetto agli altri mammiferi sociali. b) -La sua opera soffre di determinismo psichico, dal momento che le sue interpretazioni sono sempre di tipo

ambientale. Freud non considera a sufficienza l’importanza della componente biologica, al contrario dei suoi rivali del tempo, tra cui Pierre Janet, Carl Gustav Jung e William James. c) -Freud interpreta l’esperienza biologica fondamentale del legame di attaccamento madre-figlio come desiderio sessuale invece che come necessità psicobiologica di protezione e cura. d) -Riduce tutte le emozioni di base (ricerca, collera, paura, cura, sofferenza, gioco) al sesso, mentre le neuroscienze mostrano che possono essere ricondotte a circuiti autonomi che fanno uso di mediatori chimici differenti dagli ormoni del desiderio sessuale. e) -Il suo sistema è basato su idee metafisiche non evoluzionistiche, come la pulsione di morte, che diventano il fondamento della sua teoria. f) -Elabora un conflitto tra natura e cultura, che a suo modo di vedere sarebbero irrimediabilmente opposte tra loro invece che interagenti e complementari, come avviene nella visione evoluzionistica. Da qui nasce ad esempio il tema, molto romantico, del «disagio della civiltà», che costringerebbe il genere umano a vivere infelicemente a causa della repressione delle pulsioni da parte del mondo civilizzato. g) -Crede nella «legge di ricapitolazione» degli avvenimenti evoluzionistici, e inventa un’intera filogenesi per spiegare l’origine dei disturbi mentali. In particolare, come abbiamo visto, costruisce una vera e propria mitologia

sul complesso di Edipo, che avrebbe origini evoluzionistiche a partire dal ricordo di un parricidio la cui esperienza sarebbe ripetuta da ogni bambino. h) -La sua descrizione della genesi dei processi psicobiologici comuni alla specie umana è impostata sulla convinzione lamarckiana dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Si tratta di una credenza di cui è pienamente consapevole, e che rivendica apertamente più volte: «Una prosecuzione coerente del pensiero evoluzionistico di Lamarck diventa una conseguenza delle concezioni psicoanalitiche»;63 «L’eredità arcaica degli uomini non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche di ciò che fu vissuto da generazioni precedenti»;64 «Gli animali portano con sé le esperienze della loro specie, ossia hanno conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell’animale umano le cose, in fondo, non sarebbero diverse»;65 «Sembra dapprima che le esperienze dell’Io vadano perdute per gli eredi; quando però si ripetono con maggiore frequenza e intensità per molti individui delle successive generazioni, esse si trasformano, per così dire, in esperienze dell’Es, le cui impressioni vengono consolidate attraverso la trasmissione ereditaria».66 Tuttavia, bisogna dire che Freud stesso, in vecchiaia, era consapevole di quest’ultimo problema, ma in qualche modo non avvertì la necessità di rispondere nel merito alle critiche provenienti dal mondo scientifico: Da tempo mi sono comportato come se l’ereditarietà di tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori […] fosse fuori discussione. Quando parlavo del

persistere dell’antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata […] La mia posizione è resa più difficile dall’atteggiamento attuale della scienza biologica, che non vuol sentir parlare di proprietà acquisite dai discendenti per eredità. Ma confesso in tutta modestia che, ciononostante, non posso rinunciare a questo fattore nello sviluppo biologico.67

Sessualità – Riproduzione Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, Freud pensava che gli esseri umani avessero soltanto generiche pulsioni (Triebe), diversamente dagli altri animali, che erano guidati invece dagli istinti (Instinkte). Egli pensava che si fosse giunti a una separazione, una specie di frattura tra gli umani e gli altri animali, evidenziata anche nella sessualità umana, che lui considerava nettamente separata dalla sessualità riproduttiva: «Siete incorsi nell’errore di confondere tra loro sessualità e riproduzione, e così vi siete sbarrati la strada alla comprensione della sessualità, delle perversioni e delle nevrosi», scriveva.68 La sessualità animale era immaginata come una sequenza di semplici istinti meccanici, mentre quella umana veniva deanimalizzata allo scopo di essere interpretata con una psicodinamica che la snaturava completamente e che impediva di affrontarla nei suoi aspetti biologici immediati. D’altra parte, nello spirito di quei tempi, voler inquadrare la sessualità come un’esperienza comune a uomini e animali era considerato semplicemente assurdo.69 Da tempo, tuttavia, le ricerche primatologiche smentiscono il mito secondo cui gli umani sono l’unica specie ad avere rapporti sessuali a scopo ricreativo: oltre alle già

citate forme non copulatorie di sessualità infantile, i primatologi hanno scoperto che molte specie, come i bonobo adulti, sono altamente promiscui anche al di fuori del periodo riproduttivo.70 Queste scimmie praticano il sesso in tutte le posizioni possibili, compresa quella vis-à-vis, che è stata a lungo considerata esclusivamente umana. I primatologi spiegano con molti particolari come il sesso per i bonobo sia un comportamento ludico e sociale, ancor più che negli esseri umani: «I bonobo usano il sesso molto più che per procreare. Lo usano per fare amicizia. Per calmare qualcuno che è teso. Per riconciliarsi dopo uno sfogo di aggressività […], proprio come le persone usano il sesso per approfondire una relazione, per confortarsi, per conoscersi, per non dire per semplice divertimento, così pure fanno i bonobo», scrivono i primatologi Richard Wrangham e Dale Peterson.71 Tra le scimmie di questa specie esiste anche una forte pratica omosessuale, ovviamente non riproduttiva, praticata da quasi tutte le femmine.72 Ma questo tipo di sessualità riguarda anche molte altre specie: i leoni hanno centinaia di rapporti alla settimana, troppi per credere che non ricerchino il piacere. Tra i delfini la sessualità non ha palesemente scopi riproduttivi.73 L’omosessualità, forme di «travestitismo» e il sesso orale sono diffusi in moltissime specie (alcuni autori parlano di 1500 specie, altri li documentano in almeno 300 specie), e anche qui, ovviamente, si tratta di una sessualità che non ha finalità riproduttive.74 Ci sono innumerevoli evidenze che dovrebbero seppellire per sempre le tesi di chi ritiene che gli

animali hanno rapporti sessuali a solo scopo riproduttivo, per non dire delle tesi di chi definisce l’omosessualità un comportamento «non naturale». Il fatto è che il sesso come attività ludica, sociale e affettiva, e la riproduzione come attività biologica, sembrano tra loro dissociati solo perché il nostro sistema cerebromentale – come quello delle scimmie antropomorfe – è costruito in maniera relativamente dissociata, come vedremo più avanti. La chiave che ci permette di capire in che modo in diverse specie di primati (umani e non umani) si sia sviluppata la pratica sessuale ludica e sociale apparentemente a scopo non riproduttivo, secondo alcuni biologi evoluzionisti sembra essere il fenomeno dell’ovulazione manifesta o nascosta. L’ovulazione nascosta non è, come generalmente si crede, una prerogativa esclusivamente umana: è in effetti eccezionale tra gli altri mammiferi, ma è piuttosto diffusa tra i primati. Delle 68 specie di primati prese in esame in uno studio di Sillen-Tullberg e Møller, 32, compreso Homo sapiens, non hanno segnali visibili di ovulazione. Correlando queste specie con la monogamia, si vede che la stragrande maggioranza delle specie monogame di primati presentano un’ovulazione nascosta. In tutte queste specie i rapporti sessuali avvengono, come per noi, in momenti in cui la femmina non può procreare, vuoi perché non è in estro, vuoi perché è gravida. Questi primati, in sostanza, praticano una sessualità che a prima vista sembra essere solo ludica o

sociale, ma potrebbe essere il richiamo sviluppato dall’evoluzione in specie con ovulazione nascosta.75 Naturalmente vanno fatte salve le complessità del caso: molte specie con ovulazione manifesta, come i bonobo, godono di una sessualità ludica e sociale, ma è anche vero che ovulazione nascosta non significa necessariamente monogamia. A quanto pare, l’ovulazione dei primati, nel corso dell’evoluzione, è passata più volte da nascosta a manifesta e viceversa. Importanti biologi evoluzionisti, come Jared Diamond, ritengono che per quanto concerne Homo sapiens la monogamia si sia sviluppata successivamente allo sviluppo dell’ovulazione nascosta: gli uomini ancestrali, dice la teoria, per avere la certezza della paternità dovevano restare con la stessa donna e avere rapporti con lei il più frequentemente possibile, mentre per le donne era un vantaggio avere un compagno che le aiutasse nel compito di far sopravvivere i figli.76 Homo sapiens sembra quindi avere dei vincoli evoluzionistici ereditari che portano la specie, nel suo insieme, a percorrere la strada che l’evoluzione ha trovato più favorevole per garantire la continuità della vita. Si tratta di godere della piacevole spinta sessuale, ludica e sociale, e non finalizzata direttamente alla riproduzione, perché così ogni tanto un gamete maschile finisce con imbattersi in uno femminile e… l’evoluzione continua. Questa strategia evoluzionistica d’altra parte sembra funzionare meravigliosamente bene nel garantire la riproduzione della nostra specie.

L’evoluzione ha sviluppato sensazioni, emozioni, sentimenti e pensieri che sembrano essere pienamente emancipati dalle nostre parti più propriamente biologiche ma, quando si va a vedere nel dettaglio, come già sosteneva il premio Nobel François Jacob e come confermano i neuroscienziati affettivi e cognitivi, la realtà è un’altra: il cervello si è sviluppato per stratificazioni e intrecci, per cui le parti più recenti del cervello mantengono i legami con le parti più antiche: il pensiero è legato all’emozione, l’emozione alla sessualità e la sessualità alla riproduzione, anche non necessariamente in quest’ordine.77 Se anche la vita psicologica di un animale intellettualmente complesso come Homo sapiens è relativamente dissociabile e può far pensare al sesso o all’amore senza fini riproduttivi, non va però dimenticato quello che avevano già capito filosofi come Schopenhauer, al proposito citato da Darwin: «Il fine ultimo di tutti gli intrighi amorosi, siano essi tragici o comici, è davvero il più importante di tutti quelli della vita umana. Si tratta nientemeno che della creazione di una nuova generazione».78 Complesso di Edipo – Fantasie sessuali Probabilmente chi ama l’etica, l’arte, la filosofia, la scienza, la letteratura, la cultura e, in generale, tutte le caratteristiche che erano definite dai latini con il termine humanitas, dovrebbe considerare la prolungata impotenza del bambino e la sua dipendenza dalla madre come il maggior «dono» dell’evoluzione.

È solo grazie a questo ritardo che si è potuto sviluppare il nostro lungo periodo di apprendimento sociale, anche attraverso la cura, il gioco, la sperimentazione e l’imitazione: in pratica, la fase nella quale gli adulti trasmettono alle nuove generazioni il loro patrimonio di cultura. Questo periodo di dipendenza dagli adulti dipende dal fatto che il cervello infantile misura tre volte quello di una scimmia delle nostre dimensioni, e partorire una testa così grande sarebbe stato impossibile. L’evoluzione ha trovato la strada del parto prematuro per la nostra specie, seguito da un lungo attaccamento madre-figlio, che permette di completare lo sviluppo del cervello fuori dall’utero, sotto gli stimoli ambientali che attivano i sistemi cerebrali e forniscono al bambino l’apprendimento adeguato ai vari periodi critici che attraversa. Per questo motivo il bambino alla nascita è predisposto per essere amato, accudito ed educato, per anni, in un ambiente accogliente. Ne ha bisogno e se lo aspetta, perché non sarebbe in grado di sopravvivere senza i comportamenti protettivi parentali. Il tipo di attaccamento complementare, l’accudimento, si sviluppa in una madre sana a partire da un sistema emotivo fondamentale di cui sono dotati tutti i mammiferi sociali, e che offre al piccolo le cure e l’amore di cui ha bisogno. Questo allungamento dell’età infantile ha anche probabilmente favorito lo sviluppo del legame di coppia, con il conseguente aiuto paterno alla madre, oltre che al figlio. Il bambino, pertanto, se accolto e amato in un ambiente protettivo e benevolo, completa il suo sviluppo solo

molti anni dopo essere venuto alla luce, interagendo abbondantemente con l’ambiente esterno. Poiché due terzi dello sviluppo del cervello avvengono sotto l’influsso dell’ambiente, gli eventi esterni assumono un’importanza fondamentale nella formazione della psicologia umana. È facile comprendere allora che se gli stimoli della prima infanzia sono maladattativi diventa improbabile, se non impossibile, che il bambino cresca ben adattato all’ambiente. Gli studi condotti sui bambini deprivati o sottoprivati della presenza materna non lasciano adito a molti dubbi. D’altra parte, in tutti i mammiferi sociali i disturbi psicologici derivano sia dal sistema biologico, sia dagli stimoli dell’ambiente, in particolare a causa di traumi o maltrattamenti infantili. Tutto ciò sembra ovvio. Eppure Freud su questi temi ha sviluppato una personalissima teoria patogenetica nella quale crea una radicale quanto difficilmente rilevabile differenza tra i mammiferi e il genere umano. L’essenza del pensiero freudiano attribuisce infatti la genesi dei disturbi psicologici a un conflitto tra le pulsioni biologiche infantili e le norme sociali. Freud descrive queste pulsioni come sessuali e aggressive, a carattere soprattutto incestuoso, dal momento che il bambino sarebbe un perverso polimorfo con desideri di carattere violento e psicotico. L’attaccamento al seno materno sarebbe all’origine della masturbazione infantile, un modo per far defluire l’energia proveniente dai sentimenti erotici dei bambini nei confronti della madre.79 Il complesso di Edipo – il desiderio sessuale

inconscio del bambino sotto i cinque-sei anni di età nei confronti della madre – lo porterebbe a voler uccidere il padre, perché capirebbe che costituisce un impedimento all’attuazione di questi desideri. Tali sentimenti nascerebbero dal desiderio di «toglierlo di mezzo per sostituirsi a lui presso la madre» e genererebbero un comportamento ambivalente nei confronti del padre, a differenza di quello verso la madre, di natura esclusivamente affettuosa.80 Il declino di questo complesso avverrebbe in seguito alla minaccia di castrazione da parte del padre, attorno ai cinque-sei anni. Nella bambina che, secondo Freud, si vive già castrata perché soffre d’invidia del pene, il complesso edipico si manifesterebbe con il desiderio inconscio di ricevere dal padre un bambino, di generargli un figlio per compensare la grave mancanza che sarebbe alla base del senso d’inferiorità della donna. Nel momento in cui la bambina comprende che la mancanza del pene riguarda tutto il genere femminile «comincia a condividere il disprezzo dell’uomo per questo sesso minorato»,81 poiché «l’unico organo considerato davvero inferiore è quel pene atrofizzato che è la clitoride della bambina».82 A causa di questo senso di castrazione primario, nella bambina il complesso edipico è visto come secondario al complesso di evirazione. Come dicevamo, queste considerazioni non tengono minimamente conto del fatto che Homo sapiens è un normale mammifero, e che qualsiasi mammifero che abbia subito uno sviluppo traumatico durante l’infanzia cresce

psicologicamente disturbato.83 La specie umana non fa alcuna eccezione su questo punto e non si capisce per quale motivo sia necessario creare un sistema ad hoc, basato su fantasie incestuose. Lo stesso Freud, nei lavori precedenti all’elaborazione della psicoanalisi, riprendendo gli studi di Pierre Janet riconosceva che la principale genesi ambientale dei disturbi mentali si trovava proprio nei traumi, che vedeva, però, molto caratterizzati in senso sessuale, tanto che elaborò la celebre teoria della seduzione, con la quale attribuiva la causa delle nevrosi agli abusi sessuali subiti nell’infanzia. Si trattava di una visione riduttiva, ma considerare gli abusi sessuali come fonte di trauma era certamente corretto. In seguito abbandonò la teoria della seduzione, scrivendo che gli risultava difficile credere a una tale diffusione delle perversioni nei confronti dei bambini. Decise, in altre parole, di negare i ricordi dei pazienti e di ridurli a fantasia, una scelta che indusse parte del mondo occidentale a ignorare per quasi un secolo gli abusi e i maltrattamenti infantili.84 Oppure traumi infantili All’inizio del Novecento esistevano tutte le condizioni per capire come uno sviluppo traumatico generasse disagio mentale. L’idea era presente da sempre nella letteratura. Charles Dickens ne aveva fatto il tema dominante dei suoi libri, e Dostoevskij nei Fratelli Karamazov si domandava come fosse possibile l’esistenza di Dio, visto il terribile maltrattamento che subivano i bambini: «Il mio protagonista

prende un tema, secondo me, inoppugnabile: l’assurdità della sofferenza dei bambini e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica».85 Freud, invece, lesse i Karamazov come un libro sulle fantasie parricide dell’autore, che in poche pagine definì nevrotico, moralista immorale, reazionario, fallito, peccatore, delinquente, pedofilo, nevrotico, isterico grave, perverso, onanista, omosessuale latente, bisessuale e sadomasochista, e non si occupò del tema centrale del libro.86 Generazioni di studiosi e di lettori furono influenzate da questa lettura freudiana. Oltre a I fratelli Karamazov e ai grandi romanzi sociali di Dickens, tra cui Oliver Twist (1837), David Copperfield (1849), Canto di Natale (1843) e Tempi difficili (1854), si possono ricordare le inquietanti fiabe dei fratelli Grimm (1812-1815) e di Hans Christian Andersen (1835-1871), Piccole donne di Alcott (1869), Incompreso di Florence Montgomery (1869), Senza famiglia di Malot (1878), Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, Il piccolo Lord di F. H. Burnett (1886), Cuore di De Amicis (1886) e il celeberrimo Pinocchio (1881) di Carlo Collodi. Sono solo alcuni esempi di come nella letteratura dell’Ottocento si fosse ormai sviluppata una profonda sensibilità verso i maltrattamenti, le sofferenze e le terribili condizioni traumatiche a cui era esposta l’infanzia del tempo. In biologia, Charles Darwin aveva dimostrato quanto Homo sapiens somigliasse alle altre specie animali, in proporzione a quanto tempo era passato dalla separazione della sua linea evolutiva da un antenato comune. La

psicologia del profondo avrebbe dovuto trarne delle conseguenze, la più ovvia delle quali era che gli esseri umani e gli altri mammiferi sociali hanno espressioni emotive simili nella prima infanzia, che dipendono dalla necessità di attaccamento biologico alla madre. Se i mammiferi non umani diventavano insicuri o aggressivi in seguito ai maltrattamenti subiti nel corso dell’infanzia non c’era alcun motivo di dubitare che la stessa cosa accadesse anche agli umani. Specialisti di orientamento evoluzionistico, come il neurologo John Hughlings Jackson, lo psichiatra Henry Maudsley, gli psicologi William James e Pierre Janet, indicavano proprio le esperienze traumatiche come causa principale del disagio psicologico ambientale. Eppure abbiamo dovuto attendere ancora molti decenni prima che un dato così evidente si radicasse e divenisse l’elemento fondante per costruire modelli più adeguati ai dati empirici nella psicologia del profondo.87 Su questi temi all’inizio del Novecento si svolse una strenua battaglia culturale e scientifica tra Pierre Janet e Sigmund Freud. Il primo accusava il secondo di metafisica, misticismo e uso di metodi più consoni a una setta che a una scuola di pensiero scientifica. Secondo Janet, la psicoanalisi era una sorta di religione, e per diversi motivi. Dal punto di vista organizzativo era un’organizzazione internazionale privata, che agiva in maniera simile a una chiesa, condannando gli avversari e scomunicando gli eretici, un fatto inconsueto nel mondo scientifico. Dal punto di vista teorico, la psicoanalisi si basava su un dogma – quello della

sessualità – che la portava a male intepretare l’origine dei disturbi psicologici. Era errato anche il principio metodologico fondamentale, quella libera associazione che Janet considerava un’illusione un po’ naif, dal momento che la sola presenza dello psicoanalista evidentemente condizionava i pazienti. Allo stesso modo era semplicistica ed eccessiva la teoria della rimozione applicata a tutte le dimenticanze, che derivano da fenomeni di volta in volta molto diversi tra loro. Era grossolano ridurre a transfert tutti i rapporti affettivi e costruire lo stesso romanzo dell’infanzia per ogni individuo con l’applicazione indiscriminata di un complesso di Edipo, e altrettanto semplicistica ed eccessiva era la convinzione che dietro ogni sintomo ci fosse un transfert o una rimozione, invece che una pluralità di cause. Lo strumento interpretativo freudiano per eccellenza – la simbolizzazione – era anch’esso fuorviante, e veniva coartato da Freud e dai suoi seguaci al punto che ogni evento poteva significare qualcos’altro fino alla inevitabile riconferma della teoria desiderata. Questa forzatura, concludeva Janet, non poteva che portare a un determinismo psicologico esasperato. La psicoanalisi, in sostanza, era accusata di trasformare delle verità parziali in errori generali.88 Come sappiamo, la battaglia fu vinta da Freud, e Janet, con la sua psicologia dei traumi, finì nel dimenticatoio per molti decenni. Se Freud basava la psicoanalisi su ipotesi scientifiche che erano già superate ai suoi tempi, la maggior parte dei più importanti psicoanalisti suoi continuatori, come Melanie

Klein, Wilfred Bion e Anna Freud ne svilupparono ulteriormente le posizioni. Tuttavia, alcuni importanti contributi vennero proprio da psicoanalisti insoddisfatti delle teorie freudiane. John Bowlby ad esempio elaborò la teoria del legame di attaccamento, interpretando il rapporto del bambino con la madre alla luce dell’evoluzionismo darwiniano e in accordo con l’etologia di Niko Tinbergen, proprio nel tentativo di colmare lo scarto che la teoria freudiana creava tra la nostra specie e gli altri mammiferi. Sono molte le osservazioni che provano come il sistema dell’attaccamento sia diffuso in natura. Oltre ai mammiferi, per motivi legati all’allattamento, ricordiamo i famosi uccelli di Lorenz, che alla schiusa dell’uovo vedendo il ricercatore lo seguivano, assecondando la regola: «Segui il primo oggetto che vedi». Il sistema dell’attaccamento permane poi per tutta la vita; negli esseri umani dapprima si estende, pur in forme differenti, ai componenti della famiglia e quindi, in età adulta, agli amori della propria vita. Bowlby vedeva l’attaccamento del bambino alla madre come una base sicura, un requisito necessario per uno sviluppo sano. Non certo un’attrazione sessuale, dunque, ma un legame biologico, senza il quale il bambino patirebbe o morirebbe. Il sistema attaccamento-accudimento permette infatti al cervello e al corpo ancora immaturi del bambino di essere sostenuti per anni. Solo questo sostegno permette al bambino di crescere sano nel corpo e sereno ed equilibrato psicologicamente. Nel caso di un attaccamento inadeguato

insorgono i problemi che condizioneranno l’individuo per il resto della vita. Schore, nel 1994, ha mostrato come i disturbi precoci dell’attaccamento portino a un’attenuazione dei circuiti neurali che mettono in comunicazione la corteccia con le parti emotive del cervello. Si tratta di un deficit che riduce la capacità della corteccia di inibire l’attività del sistema emotivo. Per questo motivo ora sappiamo che le persone che hanno avuto un attaccamento precoce disorganizzato combatteranno per tutta la vita con una seria difficoltà a modulare le emozioni.89 La teoria dell’attaccamento di Bowlby fu osteggiata nell’ambiente psicoanalitico. Per illustrare le sue teorie, Bowlby presentò un filmato in cui era ripresa la reazione emotiva di una bambina di due anni alla separazione dalla madre, interpretando il comportamento della bambina come un fortissimo dolore da separazione, formato da fasi in sequenza di «protesta», «disperazione» e «distacco». Melaine Klein e altri, invece, interpretarono le reazioni della bambina come fantasie aggressive nei confronti della figura materna. Lo scontro fu aspro e vide prevalere la Klein e la linea degli «ortodossi»: il risultato fu che Bowlby si allontanò gradualmente dalla società psicoanalitica.90 Eppure nei primati non umani era stato osservato, fin dagli anni sessanta, lo stesso sistema di attaccamento documentato da Bowlby, quando Charles Kaufman e Leonard Rosemblum separarono scimmie in età infantile dalle loro madri.91 Famose divennero le ricerche di Harlow, che permisero di capire che il legame tra madre e bambino non

era basato sulla sessualità, come insisteva Freud, o sul nutrimento, come pensavano i comportamentisti, ma sull’affettività e il conforto. Harlow, nel 1958, in un famoso esperimento costruì due fantocci che richiamavano vagamente le forme di una scimmia. Il primo era fatto in ferro, con un biberon dal quale si poteva succhiare del latte; il secondo era fatto di pezza, quindi più caldo e morbido. Quando un cucciolo di macaco venne separato dalla madre e introdotto nella gabbia con i due fantocci si poté verificare sperimentalmente che egli andava dal fantoccio di ferro solo per nutrirsi, salvo ritornare immediatamente da quello di pezza, presumibilmente per confortarsi:92 il bisogno di conforto, dunque, prescindeva da qualsiasi legame di tipo sessuale o alimentare e occupava la maggior parte del tempo del cucciolo. Contributi significativi sul trauma furono elaborati anche da altri esponenti del mondo psicoanalitico, come Sándor Ferenczi, Abram Kardiner e Donald Winnicott, il quale descrisse l’importanza della madre come uno «scudo protettivo».93 La stessa definizione di «trauma cumulativo» fu formulata da una singolare figura di psicoanalista inglese di origine pakistana, Masud Khan, allievo di Winnicott. Il «trauma cumulativo» fu definito da Khan come un insieme di piccoli traumi ripetuti e di esperienze negative determinate da un contesto ambientale di accudimento non adeguati ai bisogni del bambino. Non si trattava di una vera scoperta, in effetti, ma di una riscoperta autonoma, e di una nuova definizione, del concetto di trauma per progressione di

«piccole emozioni», già elaborato da Pierre Janet sessant’anni prima.94 Lo psichiatra francese aveva già sostenuto nel primo decennio del Novecento che l’eccessiva importanza attribuita a un particolare evento traumatico poteva condurre in errore, proprio perché la vera origine della parte ambientale dei problemi personali si trovava piuttosto in una moltitudine di «piccoli» traumi cumulativi che formavano quello che recentemente è stato denominato, da Giovanni Liotti, «sviluppo traumatico». Si tratta di una situazione in cui sussistono «condizioni stabili di minaccia soverchiante da cui è impossibile sottrarsi che costellano, ripetendosi, con effetti cumulativi, ampi archi di tempo dello sviluppo individuale».95 In questi casi non c’è soltanto attaccamento inadeguato al caregiver, ma anche una situazione ambientale e famigliare di violenza, negazione dei problemi e dei bisogni, ignoranza, negligenza e, soprattutto, mancato equilibrio psicologico dei genitori. Sia le madri sottomesse che quelle dominanti possono causare problemi ai figli. Le prime perché non li difendono e li lasciano schiacciare da un padre prevaricatore, castrante e violento, le seconde perché li schiacciano esse stesse con la loro personalità narcisista.96 Questa stessa dinamica si verifica anche nei primati non umani: «Le madri sottomesse sono quelle la cui prole ha più probabilità di essere maltrattata» scrive ad esempio la primatologa Sarah Hrdy.97 Anche i primati non umani, infatti, possono essere maltrattati durante l’infanzia, soprattutto quelli più deboli, a volte fino alla morte.98

Tuttavia, Janet, come vedremo meglio più avanti, insisteva che non bisognava «forzare» la ricerca dei ricordi traumatici perché non dava per scontato che i disturbi psicologici fossero sempre causati dal ricordo di un trauma particolare. Era più opportuno limitarsi a quella che chiamava analisi psicologica, ossia aiutare il paziente ad avere una visione più obiettiva del proprio passato e del proprio presente, ricostruendo assieme a lui la qualità della sua vita e offrendogli un aiuto riflessivo per comprendere appieno il clima in cui è vissuto e il senso che le figure importanti della sua vita hanno avuto nella sua storia. A questa parte di lavoro terapeutico deve però seguire, secondo Janet, una sintesi costruttiva e un aiuto per dirigersi verso i propri compiti esistenziali. Nulla in psicologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione Com’è stato possibile un errore simile? Perché siamo arrivati con così tanti decenni di ritardo a capire che prima di guardare alla specificità umana è opportuno tenere presente le somiglianze di comportamento che esistono con gli altri mammiferi sociali? Eppure tutta la medicina si è sviluppata attraverso lo studio delle nostre patologie anche negli altri animali. Da sempre si sapeva che un cane maltrattato durante l’infanzia avrebbe avuto come conseguenza un carattere evitante o aggressivo, oppure imprevedibile, mentre un cane allevato con amore era più quieto e affettivo. Siamo giunti con quasi un secolo di ritardo a imparare

dalle altre specie animali come funziona la nostra affettività. Eppure, come sostiene Jaak Panksepp, tutti i mammiferi sono, come noi, animali intensamente affettivi, che fanno esperienze affettive di loro stessi e del mondo in modo simile al nostro: «Come ipotizzò Darwin nell’Origine dell’uomo, le differenze mentali tra i mammiferi sono una questione “di grado e non di qualità”. I nostri sentimenti hanno una lunga storia evolutiva e le loro radici ancestrali sono ancora condivise da molte specie viventi».99 Questi sentimenti sono prodotti da strutture neurali sottocorticali, emozionali profonde, omologhe anche dal punto di vista biochimico, presenti nei mammiferi e studiate dai neuroscienziati cognitivi e affettivi allo scopo di comprendere la natura dei processi primari degli affetti umani.100 Il riconoscimento da parte di Darwin – nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, del 1872 – del fatto che gli animali hanno sentimenti e una forma di coscienza è stato sottovalutato per oltre un secolo. A livello sperimentale, come fa notare Panksepp, le ricerche sulla scia dell’intuizione darwiniana sono riprese solo da pochi anni. Per questo motivo, mentre nella scienza il primo errore di Cartesio (l’idea che mente e cervello siano entità radicalmente distinte) è stato sostanzialmente superato, il secondo errore (la vecchia idea che gli animali non pensino alle loro reazioni emotive e non abbiano sentimenti e coscienza) è ancora largamente presente.101 La mentalità antropocentrica che attribuisce la coscienza solo alla specie umana, basandosi sul linguaggio verbale e

sulla razionalità, sembra un’estensione, a livello di specie, del narcisismo individuale: un «narcisismo di specie». Le nostre funzioni corticali, come la razionalità e il linguaggio verbale, derivano anche da processi sottocorticali che abbiamo in comune con gli altri mammiferi, e per questo occorre integrare la tradizionale visione dall’alto al basso con cui si guarda alla coscienza umana, con un’altra opposta, dal basso verso l’alto, se la si vuol veramente comprendere. Già Niko Tinbergen faceva notare quanta resistenza ci fosse rispetto al semplice dato di fatto che l’essere umano è un animale. È una specie complessa, ha le sue specificità, ma è comunque un animale a tutti gli effetti. Il grave fraintendimento della psicologia non scientifica, aggiungeva Tinbergen, «deriva proprio dal pensare che le cause del comportamento umano siano qualitativamente diverse da quelle del comportamento animale. Come se salendo nella nella struttura gerarchica, passando dai riflessi di base, agli istinti, alle emozioni e ai sentimenti, si trovasse una barriera con la scritta “Vietato l’accesso allo studio oggettivo; riservato agli psicologi!”».102 Se noi non riconosciamo quanto errata sia questa attitudine siamo destinati a ripetere gli errori del passato. Occorre dunque essere consapevoli che le capacità introspettive, cognitive, emotive e sociali, il modo di rapportarsi agli altri e a noi stessi, le basi del nostro comportamento e tutte le altre caratteristiche che formano la mente sono emerse nel corso di centinaia di milioni di anni per mezzo dei meccanismi evoluzionistici. Circa 35 000 anni

fa è intervenuto un «grande balzo in avanti» con l’aumento della capacità di simbolizzazione e il progresso del linguaggio, fattori che hanno creato progressivamente maggior spazio di autonomia per la componente culturale, ma non hanno certo affrancato la specie umana dai suoi vincoli biologici.103 L’evoluzione della mente non è cominciata con l’inizio della vita: la reazione di allontanamento di un organismo unicellulare da una punta aguzza non è ovviamente emotiva e non lo sono neppure i movimenti di un organismo privo di sistema nervoso centrale come la medusa. La mente ha iniziato a strutturarsi, sia pur in forma embrionale, quando è apparso il sistema nervoso centrale, che ha aperto la strada allo sviluppo di un cervello sofisticato, che permetteva un discreto livello di interazione con l’ambiente, ma che conteneva anche una certa conflittualità tra le varie parti del cervello. Ma l’evoluzione della mente non ha determinato una frattura con la biologia: ne fa parte. Poiché la mente è nata e si è sviluppata nel corso dell’evoluzione, bisogna quindi guardare anche all’evoluzione per comprendere i nostri modi di agire. Per questo motivo la psicologia non può non essere evoluzionistica. La psiche è il modo di sentire e di esprimere se stessi nell’ambiente e nella propria interiorità, una funzione emersa da una struttura biologica che ha acquistato affettività e intelligenza nel corso di milioni di anni. Per questo motivo, come in biologia, anche in psicologia nulla ha

senso se non alla luce dell’evoluzione. Sostenere che la teoria dell’evoluzione è l’architettura unificante di tutte le neuroscienze non significa affermare che i modi di fare, le idee, i comportamenti, le relazioni umane dipendano soltanto da comandi biologici di cui noi saremmo i meri esecutori: niente determinismo biologico e neppure pan-adattazionismo! Come sosteneva S.J. Gould, non ha alcun senso riferire a storie evoluzionistiche qualsiasi comportamento umano. Ma i comportamenti umani sono possibili perché nel cervello esistono i requisiti biologici che ne consentono l’attuazione, requisiti che si sono formati, per diversi motivi, nel corso dell’evoluzione. L’interazione con l’ambiente ha poi consentito ampie variazioni individuali, culturali e sociali su un certo numero di processi di base, grazie ai quali viviamo infinite variazioni individuali, culturali e sociali di un numero finito di motivazioni, proprio come le combinazioni di un paio di decine di lettere dell’alfabeto permettono di scrivere tutte le storie del mondo. Nell’essere umano queste variazioni dipendono in larga parte dalla loro attivazione, durante l’infanzia, dall’apprendimento e dall’ambiente in generale. La cultura si sovrappone alla genetica diventando una seconda natura, che condiziona largamente l’espressione umana. Rimozione – Dissociazione Rimozione

Il termine «rimozione» è stato così fortunato che ha invaso ogni luogo dell’espressione umana, articoli scientifici,

letteratura, arte, mass-media e linguaggio comune, scalzando il semplice concetto di dimenticanza: ogni lacuna della memoria è diventata una «rimozione». Le persone non dimenticano: rimuovono ciò che non vogliono ricordare e il rimosso le traumatizza. Al centro dell’inconscio, dunque, esisterebbe un meccanismo che noi utilizziamo per difenderci, proibendo a noi stessi di ricordare e conoscere avvenimenti passati e fantasie. La teoria della rimozione è definita da Freud «il pilastro sul quale poggia l’edificio della psicoanalisi […], l’elemento più essenziale della psicoanalisi». Freud se ne attribuiva esplicitamente la scoperta – «Sono certo di aver elaborato autonomamente il concetto di rimozione»104 – ma la nozione faceva già parte del linguaggio comune e il termine è presente nei lavori di psichiatri precedenti come Griesinger. Laplanche e Pontalis ritengono che il concetto gli derivò, attraverso Meynert, dalla psicologia di Johann Friedrich Herbart.In senso lato il termine rimozione è usato da Freud come il prototipo delle operazioni difensive dell’individuo e costituisce un processo psicologico di cui sono dotati tutti gli esseri umani, processo che sarebbe all’origine della costituzione dell’inconscio come luogo separato dal resto dello psichismo.105 La teoria della rimozione come origine dei disturbi mentali viene elaborata da Freud negli anni novanta dell’Ottocento e descritta come un processo inconscio che esclude dalla coscienza il ricordo di un evento divenuto traumatico. La rimozione comporterebbe una serie di

disturbi psicologici. Successivamente, Freud, con lo stesso termine, ha però inteso soprattutto l’esclusione dalla coscienza di una rappresentazione legata a una pulsione: ciò che viene rimosso sono idee, fantasie, desideri che producono ripugnanza, più che la pulsione in sé. Quando il soddisfacimento di una pulsione, che di per sé provocherebbe piacere, porta a dispiacere rispetto ad altre esigenze, la si rimuove. La rimozione sarebbe dunque una difesa che deriva da desideri conflittuali che l’individuo non sarebbe in grado di gestire e che proprio per questo conflitto diventano traumatici. Il primato della rimozione e il suo ruolo fondazionale dell‘inconscio è, in ampie parti, smentito dalle neuroscienze contemporanee. Noi sappiamo che fino al terzo anno di vita non si sono ancora sviluppati i circuiti della memoria: le esperienze precoci del primo e secondo anno, che sono le più importanti, non possono quindi normalmente essere ricordate, e pertanto neppure rimosse. D’altra parte, le ricerche mostrano come gli eventi traumatizzanti della prima infanzia spesso vengono dimenticati anche per motivi psicobiologici: i cuccioli di topo, stressati sperimentalmente mediante l’allontanamento periodico dalla madre, mostrano per il resto della vita un aumento della corticotropina e dei glucocorticoidi, con la conseguente atrofia permanente dei neuroni dell’ippocampo.106 Nell’uomo la «rimozione» si rivela come un’amnesia verbale dovuta alla perdita dei neuroni della memoria in seguito a deficit neurologici prodotti dallo

stress. Le emozioni correlate alle esperienze, invece, sono conservate in altri luoghi del cervello (il PAG, la sostanza grigia periaqueduttale, l’amigdala e altre strutture) e rimangono libere, ossia non sono legate a particolari ricordi rappresentabili.107 Quando queste emozioni sono molto forti possono causare problemi psichici o psicosomatici, legandosi a parti sensoriali e motorie. Non si tratta quindi di ricordi rimossi che agiscono attraverso l’inconscio, ma di sistemi psicobiologici destrutturati in seguito a forti emozioni. I traumi della prima infanzia, che non si possono ricordare e quindi neppure rimuovere, non causano soltanto stress: l’alto livello di glucocorticoidi fa pensare che anche l’espressione della depressione, nella sua parte dovuta a cause ambientali, sia influenzata da esperienze traumatiche non ricordabili, non rimuovibili e che quindi non possono in alcun modo riemergere durante una psicoterapia. La sostanza è che una parte cospicua della nostra storia infantile viene perduta perché il nostro cervello è strutturato in modo da conservare, più che una corretta memoria episodica, antiche emozioni e modelli relazionali. La teoria dell’inconscio freudiano, formato da contenuti narrativi rimossi da cui possono emergere di colpo documenti importanti conservati nella loro scrittura originale, è fondata su una congettura che le neuroscienze hanno smentito: la memoria non è un polveroso archivio di documenti. I ricordi autobiografici, come mostra Antonio Damasio, non vengono conservati come tali; ogni volta che sono richiamati alla presenza riflessiva vengono semmai

ricostruiti, presi da parti diverse del cervello e assemblati per l’occasione, per poi essere smontati e depositati nuovamente in diverse localizzazioni cerebrali.108 Naturalmente questa complessa operazione fa sì che stimoli differenti prendano come basi costruttive del ricordo pezzi differenti, il che può portare a costruzioni di ricordi non conformi ai fatti. Elizabeth Loftus e John Palmer hanno dimostrato come un semplice scambio di termini in una domanda (nel loro caso sostituendo il verbo smashed a collided), è in grado di modificare sensibilmente la memoria in due gruppi sperimentali ai quali è stato mostrato il filmato di un incidente automobilistico.109 Ancora Loftus ha dimostrato che se insieme a ricordi corretti un adulto suggerisce eventi inventati, la metà dei bambini tenderà a ricordarli come veri.110 Anche la «libera associazione» del paziente non è così libera a ben vedere. Essa risente in maniera evidente del mondo interiore dello psicoanalista, le cui idee e aspettative inconsce passano inevitabilmente, nel corso del tempo, al paziente. Nonostante il terapeuta si illuda spesso di lavorare da una posizione «esterna», di proporsi come una tabula rasa su cui il paziente proietta il suo transfert, e di limitarsi a fare degli «interventi», le cose non stanno così. Una prova evidente è che gli analizzandi tendono spesso a lasciarsi influenzare dall’analista, aderendo al suo mondo interiore e diventando seguaci del modello di riferimento del loro terapeuta (freudiano, junghiano, ecc.). Si tratta di un processo che avviene naturalmente, perché il terapeuta è

una figura di attaccamento fondamentale, per cui non ci sarebbe nulla di negativo in questo comportamento. È necessario però esserne consapevoli e trarne le conseguenze teoriche. Anche il terapeuta tende ad aderire al paziente talvolta e succede che «sposi», in maniera troppo ingenua, i suoi ricordi e i suoi racconti, che sono versioni naturalmente parziali dei fatti. La credenza nella potenza della rimozione può portare a costruire falsi ricordi, errate convinzioni e a plasmare il proprio mondo interiore per aderire affettivamente alla visione dell’analista. Un terapeuta che compie una ricerca esasperata di situazioni rimosse rischia, dunque, di stimolare la costruzione di falsi ricordi che possono finire per danneggiare il mondo famigliare e sociale del paziente, danneggiando la vita e peggiorando la salute mentale dei pazienti. Gli studi sul trauma mostrano che i ricordi traumatici disturbano il soggetto non perché siano stati rimossi, ma perché, al contrario, il paziente non riesce a dimenticarli. Gli eventi emotivi tendono infatti a essere ricordati più facilmente di quelli neutri e il vero problema nella terapia con i traumatizzati non è quello di far emergere ricordi rimossi, bensì di alleggerirli e riconsolidarli attraverso l’empatia (e alcune tecniche fisiologiche), per depotenziarli e renderli così meno disturbanti. Chi ha vissuto eventi che hanno procurato lesioni alla propria o altrui integrità è invaso dalle immagini del trauma, che in un modo o nell’altro gli torneranno in mente per tutto

il resto della vita, facendogli rivivere l’esperienza violenta in seguito a qualsiasi minimo stimolo. I traumi si ripropongono in maniera quasi automatica, nonostante gli sforzi che si compiono per evitare di richiamarli alla memoria. Creano problemi al sonno, s’insinuano nei sogni e sono tanto presenti che l’individuo tende a rivivere interiormente l’esperienza centinaia o migliaia di volte, mostrando disagio psicologico, reattività, irritabilità. Il traumatizzato ha quasi sempre risposte di allarme, soprattutto se deve esporsi a fattori che gli ricordano per qualche aspetto l’evento traumatico. Per questo motivo uno dei sintomi più tipici di questi pazienti è la tendenza a evitare costantemente gli stimoli associati al trauma, spesso attraverso la costruzione di uno stile comportamentale distaccato dagli altri e da se stesso, che può portare all’incapacità di provare piacere, alla diminuzione delle prospettive di carriera, matrimonio, figli, e perfino di una durata normale della vita, come sostiene il DSM-5. Oggi dubitiamo perfino che sia possibile un’eventuale rimozione del trauma, e non ci sono comunque indizi che questa, se davvero esiste (e non sia invece una compartimentazione dissociativa non riconosciuta come tale), comporti davvero un problema psicologico. In particolare, non ci sono indizi che un bambino biologicamente sano, cresciuto amorevolmente in condizioni ambientali e psicologiche favorevoli, non sia in grado di far fronte alle proprie fantasie sessuali e aggressive. Invece sappiamo che un individuo allevato in un ambiente

svantaggiato può avere problemi a gestire le sue fantasie e le sue pulsioni. Ma non dipende dalla rimozione, bensì dalle difficili condizioni socio-ambientali e famigliari che lo hanno traumatizzato. Il passato è presente in noi soprattutto attraverso la nostra memoria emozionale e il nostro stile relazionale, due aspetti che sono correlati a una serie di eventi dimenticati o dissociati, cioè conservati non nell’inconscio, ma in coscienze parallele e tra loro separate. Una situazione che già Janet definiva «subconscia». Anche all’interno dello stesso mondo psicoanalitico si sono levate voci contro l’onnipresenza della rimozione. Voci importanti, come quelle di Peter Fonagy e Mary Target, che dubitano che esistano evidenze per pensare che il «recupero» di memoria «rimossa» sia effettivamente parte dell’azione terapeutica. Se esistono dimenticanze motivate ciò «non implica logicamente che il ricordare sia curativo». I due psicologi ritengono che gli psicoanalisti «dovrebbero evitare con cura la metafora archeologica» che si presenta nell’idea di riportare alla luce un passato sepolto. A loro avviso è un errore e una scorrettezza che porta fuori strada e deriva dall’inseguimento di «un falso dio», intendendo con questa espressione la deificazione stessa di Freud che impedisce a molti psicoanalisti di adeguarsi alle evidenze scientifiche degli ultimi decenni.111 Nel 1913 Pierre Janet denunciava la grossolana semplificazione che stava dietro alla convinzione che dimenticanze e sintomi fossero prodotti dalla rimozione o da un transfert. Si arrivava a forzature, che Janet chiamava

«costruzione simbolica», per collegare i sintomi a transfert e a rimozioni. I fenomeni invece risultano essere molto differenti a seconda dei casi: a volte la suggestione, altre volte l’emozione, la stanchezza, lo sfinimento, senza considerare le dimenticanze per cause organiche. «In un uomo normale, la rimozione non produce né fobia né subconscio»112 perché «ciò che caratterizza il subconscio, non è tanto il fatto che la tendenza si affievolisca o rimanga latente; al contrario, le tendenze si sviluppano e si realizzano prepotentemente senza che le altre tendenze della mente siano avvertite della loro attuazione e senza che possano agire per opporvisi […] resisteranno, continueranno a svilupparsi sopraffacendo talvolta le tendenze morali opposte. Ci saranno lotte, lacerazioni della coscienza, ma non entra in gioco il subconscio».113 Perché entri in gioco il subconscio occorre qualcos’altro: la dissociazione. Dissociazione Questa malattia sembra avere un potere analitico: decompone l’enorme sistema psico-fisiologico e ne separa le sue funzioni. Pierre Janet114

La dissociazione, ossia la mancanza di coerenza e di coordinamento tra le diverse parti della personalità umana, è stata il concetto centrale della psichiatria dinamica degli anni ottanta e novanta dell’Ottocento, per poi sfiorire, fino a venire del tutto oscurata e trascurata, in gran parte a causa del trionfale successo della psicoanalisi. Il rinnovato interesse nei confronti della dissociazione risale agli anni settanta e ottanta del Novecento.115 L’interesse nei confronti della dissociazione cominciò a

declinare già nel primo decennio del Novecento, per essere parzialmente ripreso dagli psichiatri che si occupavano delle persone traumatizzate durante e immediatamente dopo le due guerre mondiali. L’evento che diede la possibilità di riscoprire appieno l’importanza della dissociazione e la sua relazione con il trauma fu senza dubbio la guerra del Vietnam. Quello del Vietnam fu il primo conflitto durante il quale la televisione rivelò tutta la sua potenza: la copertura mediatica fu enorme. I mezzi di comunicazione diedero ampio spazio agli oppositori, ai reduci e ai traumatizzati, come ben descritto nel film di Oliver Stone, Nato il quattro luglio, tratto dal libro autobiografico del reduce Ron Kovic. Molti veterani si erano riuniti in un’associazione, chiamata Vietnam Veterans Against the War, che aveva organizzato dei rap groups terapeutici per i soldati traumatizzati, a cui partecipavano psichiatri volontari. Tra questi vi erano Robert Jay Lifton e Chaim Shatan, che insieme ad altri colleghi fondarono un gruppo di lavoro sui disturbi dei reduci chiamato Vietnam Veterans Working Group.116 Questi psichiatri identificarono presto un disturbo che inizialmente venne denominato sindrome post-Vietnam. In seguito all’istituzione di una commissione da parte dell’Associazione Americana di Psichiatria (APA), il problema fu indagato più in profondità. Alla fine si comprese, anche grazie ai contributi di Abram Kardiner, elaborati durante e dopo la Seconda guerra mondiale, che la sindrome post-Vietnam non era differente da altre gravi problematiche che spesso

insorgevano in seguito a shock molto violenti (non soltanto bellici). La patologia prese quindi il nome di disturbo posttraumatico da stress (PTSD) e fu sistematizzata nell’edizione del 1980 nel DSM, il manuale di riferimento degli psichiatri pubblicato dall’American Psychiatric Association. Da allora, gli studi sulla dissociazione hanno ricevuto una tale spinta e un tale livello di elaborazione che è impossibile riassumere in poche pagine lo stato dell’arte. Conviene qui rimandare, tra le tante opere in circolazione, ai lavori di Giovanni Liotti, Onno van der Hart, Bessel van der Kolk, Ellert Nijenhuis, Kathy Steele e degli psicoanalisti Philip Bromberg Russel Meares e Peter Fonagy. La nozione di dissociazione era stata discussa da diversi studiosi nell’ultimo quarto dell’Ottocento, ma il padre riconosciuto del concetto è senz’altro Pierre Janet, che descrisse il problema in maniera articolata e sistematica nel corso di tutta la sua vita. Lo stesso Janet aveva già capito che il rapporto del trauma con la dissociazione non è affatto lineare né deterministico, bensì multifattoriale e probabilistico. Invitava a non essere troppo zelanti nel cercare il trauma originario quando questo non compariva: «Non sempre si può affermare che ci sia stato un avvenimento traumatico cui è associata la persona in questione […]; converrà non intestardirsi a cercarli [i ricordi traumatici] quando non esistono».117 Solo in alcuni casi, «ma solo in alcuni, appunto», le conseguenze dello shock dipendono da un singolo evento traumatico. Perché il trauma diventi patologico, «bisogna che si associ a uno stato

mentale particolare, in grado di favorirne lo sviluppo». Nella maggior parte delle situazioni, precisava Janet, la risposta dissociativa ha una radice «molto più antica ed è stata provocata progressivamente da una serie di piccole emozioni […] che hanno costellato la vita senza determinare avvenimenti distinti, ricordati con chiarezza».118 Nel modello teorico di Janet «una nevrosi, con i suoi sintomi molteplici, è un’entità molto complessa, a cui concorrono cause diverse», per cui il ricordo traumatico «non agisce da solo».119 Le risposte delle persone allo stesso trauma sono troppo differenti: alcune dissociano gravemente, mentre una buona parte di esse assorbe l’evento in un tempo ragionevole. Janet invitava a non trascurare l’importanza della parte biologica, la «costituzione ereditaria» sulla quale s’intrecciano le prime esperienze ambientali e le condizioni dell’organismo biologico nel momento del trauma, perché malattie, fatica e depressioni interferiscono con l’adattamento alle avversità. In quell’occasione Freud equivocò il richiamo di Janet sull’importanza delle condizioni biologiche di partenza – un riferimento ancora oggi non a tutti ovvio –, sostenendo che lo psichiatra francese aveva fondato la sua teoria sul concetto di «degenerazione». Questo malinteso si trascina da oltre un secolo nel mondo freudiano.120 Le ricerche degli ultimi anni hanno confermato quanto Janet aveva osservato, ovvero l’importanza della multifattorialità in psicologia. Perfino le reazioni dissociative

nei pazienti sessualmente abusati sono influenzate non soltanto dall’abuso in sé, ma anche, e in certi casi soprattutto, dalle circostanze che lo permettono.121 In ogni caso gode di un consenso ampio la nozione che il grado di patologia famigliare subita dalle persone durante l’infanzia sia di fondamentale importanza nel determinare la differente resilienza con cui si affrontano le vicissitudini della vita. Per questo motivo, e poiché non tutte le esperienze traumatiche portano alla dissociazione e non tutte le dissociazioni sono conseguenti a traumi, uno psicoterapeuta dovrebbe evitare di interpretare ingenuamente singoli eventi come l’origine di tutti i problemi di un individuo. L’habitus mentale è, purtroppo, quello di trovare facili soluzioni per grandi problemi, come se gli esseri umani si muovessero coi princìpi della fisica meccanica. Ma la mente è molto più complessa. Struttura dissociativa della mente Freud aveva immaginato il Sé delle persone normali come un sistema unitario relativamente semplice, composto di un’antitesi (conscio/inconscio), in cui il territorio dell’inconscio poteva essere prosciugato dalla coscienza imperialista dell’Io: «Wo Es war, soll Ich werden…», «Dove c’era l’Es deve subentrare l’Io. È un’opera di civilizzazione, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee».122 Egli pensava che questa unitarietà della mente fosse propria dell’individuo normale e che soltanto i nevrotici mostrassero scissioni: «Il suo Io [l’Io del nevrotico] ha perduto la sua

unità».123 Janet, al contrario, aveva descritto l’Io come un insieme complesso e dinamico, composto di varie parti e diversi processi: quasi una pluralità di organi non sostituibili tra di loro. Una rappresentazione che aveva portato William James ad affermare: «La mente sembra abbracciare una confederazione di singole entità».124 Oggi diciamo, con un linguaggio non molto differente, che la mente è un aggregato di funzioni differenti, tanto da far pensare più a una moltitudine che non a un singolo Io. L’esistenza di sistemi e sottosistemi psicobiologici relativamente isolabili è stata dimostrata grazie alle neuroscienze ormai da diversi anni. Per indicare questa consapevolezza si è affermato il concetto di pensiero endofenotipico.125 Sappiamo che il cervello è un organo dotato di plasticità, ma questa plasticità non è completa, tanto che in caso di perdita di sostanza cerebrale, pur potendo recuperare nei casi più fortunati una parte delle funzioni, alcuni sistemi psicobiologici vengono danneggiati o persi irrimediabilmente. L’idea di essere abitati da un Io o da un inconscio unitario è una sensazione prodotta da differenti processi psicobiologici. L’unitarietà della coscienza è un’illusione, e lo stesso concetto di in-dividuus, «non divisibile» è da tempo in discussione. L’Io, l’inconscio, la psiche non si riferiscono a caratteristiche unitarie, ma sono il prodotto complesso di insiemi e sottoinsiemi funzionali che possono essere separati da un bisturi, alterati con i farmaci e modificati selettivamente da stimolazioni elettriche transcraniche. L’Io e la coscienza non sono dunque delle unità, ma ricostruzioni

grossolane e imprecise dei processi di diversi sistemi e sottosistemi cerebrali, tra i quali esiste almeno un Sé nucleare affettivo e vari Sé di tipo cognitivo.126 Ci sono dei vincoli metabolici precisi a causa dei quali il sistema mente/cervello si è sviluppato in maniera discretamente dissociata: il cervello umano, pur rappresentando soltanto il due per cento del peso corporeo, consuma il venti per cento dell’energia (ma nei bambini anche più del cinquanta per cento).127 I primati antropomorfi per sostenere un cervello che consuma circa il dieci per cento della loro energia sono costretti a mangiare per otto ore al giorno. Non avremmo mai potuto raggiungere la nostra efficienza energetica se non ci fosse stata l’invenzione della cottura che, predigerendo i cibi, ci ha consentito di assorbire calorie in modo molto più rapido ed efficiente, liberandoci dalla schiavitù dell’alimentazione continua. Probabilmente proprio questa combinazione di tempo libero e di un maggior numero di neuroni disponibili è stata la spinta evoluzionistica che ha portato a un rapido incremento del volume del cervello.128 D’altra parte, la maggior parte dell’energia viene utilizzata per mantenere intatto il cervello e solo una piccola parte rimane a disposizione per trasmettere segnali nei circuiti neurali. Se questi fossero tutti attivi contemporaneamente, la disponibilità energetica sarebbe insufficiente. L’evoluzione – nella sua profonda ignoranza – attraverso tentativi ed errori, per caso e per necessità, ha trovato una soluzione ingegnosa al problema: far funzionare solo una piccola porzione di neuroni alla volta,

e in parti diverse del cervello. Attivando maggiormente quei gruppi di neuroni che servono per elaborare e trasmettere quel determinato segnale, viene usata la minor quantità di energia per generare la maggior quantità di informazione. L’inconveniente di questo sistema è che non possiamo essere coscienti contemporaneamente di tutto: il nostro cervello, insomma, funziona in maniera discretamente dissociata, dal momento che, per motivi di efficienza energetica, la percentuale di cervello che può essere attiva in ogni istante varia tra l’uno e il sedici per cento.129 Le neuroscienze hanno anche dimostrato che i meccanismi decisionali dipendono dalle risposte somatiche che indicano al soggetto la bontà o meno di una determinata prospettiva. Anche i substrati emotivi di tipo corporeo – come un brivido di piacere – sono dunque utili per indagare e conoscere i processi decisionali razionali. È stata provata una connessione (che può essere dissociabile) tra emozione e ragione: i processi decisionali hanno bisogno del confronto con la memoria emozionale per poter essere attuati in maniera soddisfacente.130 Il ragionamento, come è stato ripetutamente rilevato dalle ricerche neuroscientifiche, non deriva unicamente dal pensiero razionale, ma ha bisogno delle emozioni corporee. Anche se alcune funzioni della mente possono richiamare quelle di un computer, la mente opera in maniera differente. Un computer è un oggetto sostanzialmente dualista, composto di hardware e di software, al contrario dell’organismo, che è un’unità (mente–cervello-organismo)

immersa in un ambiente. La sola energia dell’ambiente, la luce, il buio, il tocco di una mano modificano le mappe neurali e l’architettura cerebrale, mentre un computer non funziona certo secondo questo schema. Il computer dà una risposta identica a stimoli identici, mentre un cervelloorganismo dà risposte spesso differenti agli stessi stimoli. Un computer quando viene sovraccaricato da un software particolarmente pesante diminuisce in velocità; al contrario, il cervello diventa più veloce quanto più acquista informazioni, instaurando un maggior numero di connessioni neuronali. Il filosofo Daniel Dennett sostiene che noi non ragioniamo come un computer perché non siamo un computer, bensì una colonia di trilioni di robot molto complessi (le cellule), che relazionandosi tra loro hanno fatto emergere gradualmente, nel corso di centinaia di milioni di anni, la coscienza che abbiamo oggi.131 Dennett pensa che non si deve immaginare la coscienza come un’entità misteriosa, ma come una proprietà emergente che nasce dall’interazione di un’enorme quantità di cellule e infinite connessioni cerebrali, come quando da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno si forma l’acqua. La coscienza probabilmente è una proprietà emergente di questo tipo. Si tratta di un enigma che ha cominciato a risolversi con la costruzione dei computer, i quali sono dotati di funzioni prima riservate alla sola mente, come calcolo, riconoscimento delle forme, memoria. Se questo pensiero è corretto, se è vero che la coscienza è effetto dell’aumento di competenza e non la causa della

stessa, quando avremo costruito robot, o meglio colonie di robot sufficientemente complesse, anche in loro forse emergeranno forme di coscienza. Non è necessario postulare l’esistenza di una sorta di macchina virtuale da denominare variamente «Sé», «anima», «psiche», «Io» o «inconscio». Non servono entità misteriose che pensano, sentono, vedono, si emozionano e muovono il corpo. È il nostro corpo, e non qualcosa al suo interno, che pensa, sente, ama e ha coscienza di sé. Il lavoro che un tempo si riteneva fosse svolto da quella specie di macchina virtuale chiamata anima è in effetti distribuito su diversi circuiti neurali. È necessario scomporre questo «idolo» centrale in tante parti, nessuna delle quali può essere autonomamente un soggetto.132 La rappresentazione del sistema cervello/mente come struttura discretamente dissociata non era ancora chiara a Freud, che immaginava al suo posto una vaga «coscienza», la quale poteva «prosciugare» un ancor più approssimativo «inconscio». Janet, invece, dall’osservazione dei suoi pazienti aveva ricavato uno schema di funzionamento del cervello che oggi pare più corretto: descriveva un sistema con molti processi mentali che potevano essere connessi tra loro oppure dissociati, composti da parti consapevoli e inconsapevoli in un sistema dinamico che dipendeva dal richiamo dell’attenzione. Le parti dissociate del sistema immaginato da Janet sono subconsce, ma non inconsce: non sono cioè prodotte dal rimosso. Semplicemente non sono aperte, come un file digitale o un programma di computer. Non aperto significa semplicemente non posto all’attenzione

in quel momento; ma non vuol dire spento. Riprendendo la bella immagine dello psicoanalista Christopher Bollas, non si tratta tanto di «un pensiero non conosciuto», come sarebbe il rimosso, ma di «un conosciuto non pensato».133 I sistemi e i sottosistemi neurali possono funzionare anche da soli, in background, senza l’intervento della coscienza, e possono far sentire le loro esigenze con improvvisi segnali per richiedere attenzione. Dal punto di vista neuroscientifico si tratta di stati psicobiologici che producono emozioni, desideri e pensieri differenti, come il senso di trascendenza che proviene dalla neocorteccia mentre ascoltiamo una sinfonia di Mozart, che però viene avvertita contemporaneamente alla sensazione di fame che proviene dall’ipotalamo, che è una parte più antica del cervello: mentre una parte della mente si bea di sentire la musica, un’altra pensa che la musica non sia affatto interessante e che l’unica cosa che conta è che finisca presto per andare a mangiare. Una persona sana riesce a coordinare continuamente moltitudini di «pensieri» interiori contrapposti come questi, ma chi è dissociato ne può divenire preda, con scissioni della personalità che possono disturbare seriamente la sua vita e quella degli altri. La normale struttura dissociativa della mente, costruita nel corso di centinaia di milioni di anni dall’evoluzione, è elaborata da un individuo sano con risposte coerenti e coordinate. In molte circostanze la dissociazione è addirittura volontaria e assolutamente indispensabile, come avviene quando studiamo, leggiamo o scriviamo. La

dissociazione patologica avviene quando alcuni contenuti non comunicano bene tra loro, al punto di diventare impermeabili gli uni agli altri, e ostacolare così una vita equilibrata e la consapevolezza della propria storia. L’individuo finisce così con l’avere una serie di coscienze parallele, o di contenuti separati, da cui può venire invaso. L’Io diviso Cartesio sosteneva che corpo e spirito erano due sostanze differenti: mentre il primo era divisibile senza che noi perdessimo nulla in coscienza, il secondo non lo era. Se avesse ascoltato una persona in conflitto con se stessa o guardato alle intuizioni di artisti e poeti avrebbe potuto ricavare elementi differenti. Si pensi solo a Catullo e al suo celeberrimo Odi et amo: «Odio e amo. Come sia non so dire. Ma tu mi vedi qui crocifisso. Al mio odio e al mio amore». Oggi le neuroscienze, tramite lo studio delle lesioni cerebrali, ci mostrano una realtà assai differente da quella che Cartesio immaginava: un individuo, con una particolare area del cervello fuori uso, può essere in grado di leggere e scrivere perfettamente pur avendo perso la capacità di contare. Altre lesioni possono portare a perdere la capacità di riconoscere i volti delle persone o a non identificare più una gamba o un braccio come propri. La tesi di Cartesio era doppiamente errata: già la mancanza di una mano, un braccio o una gamba determina una lesione dell’identità di un individuo, come risulta evidente dai lavori sull’arto fantasma o da quelli di Alfred

Adler sull’inferiorità d’organo.134 Se poi si perde l’uso di ampi gruppi di cellule cerebrali, si arriva a una chiara diminuzione della coscienza. Ci sono molti esperimenti che mostrano quanto sia evidente quello che Damasio chiama «l’errore di Cartesio». Tra i più impressionanti si possono ricordare quelli presentati da Roger Sperry e Michael Gazzaniga.135 Sperry vinse il premio Nobel nel 1981 per i suoi lavori sul taglio del corpo calloso, un’operazione effettuata in casi di grave epilessia. Il corpo calloso è la struttura che mette in comunicazione i due lobi cerebrali; in seguito al suo taglio, i lobi vengono separati e non comunicano più tra di loro. Ciò porta a risultati strabilianti: una persona può non essere più in grado di nominare un oggetto collocato sul lato sinistro del campo visivo, ad esempio. A causa dell’architettura e della diramazione dei circuiti neurali, l’oggetto viene visto solo dall’emisfero destro, il quale non è però dotato della funzione di elaborazione del linguaggio, che risiede nel lato sinistro. I pazienti sottoposti al taglio del corpo calloso sono in grado di nominare correttamente gli oggetti di uso comune se glieli si fa toccare a occhi chiusi con la mano destra (corrispondente all’emisfero sinistro), mentre non riescono a nominarli se li toccano con la mano sinistra (connessa all’emisfero destro).136 Alcuni esperimenti fanno pensare a una sorta di doppia coscienza: con la mano sinistra i pazienti riescono a mettere insieme alcuni oggetti copiando uno schema, ma se ci

provano con la destra compiono operazioni sbagliate. In altri esperimenti veniva mostrata a un soggetto la fotografia di una persona nuda all’emisfero destro; il soggetto cadeva in evidente imbarazzo pur sostenendo, senza mentire, di non aver visto nulla. In un altro esperimento Gazzaniga presentò all’emisfero destro la foto di una casa ricoperta di neve in un paesaggio invernale e all’emisfero sinistro una zampa di pollo. Nessuno dei due lati del cervello sapeva che cosa aveva visto l’altro. Quando fu chiesto al paziente quale oggetto tra quelli presenti nella stanza rappresentasse meglio la figura osservata, il paziente indicò con la mano destra un trespolo, e con la mano sinistra una pala da neve. Il paziente si accorse di aver scelto due oggetti differenti e costruì un’interpretazione per questo suo comportamento (con l’emisfero sinistro che elabora il linguaggio, ma che non aveva visto la casa ricoperta di neve): motivò il fatto con la possibilità che la pala potesse servire per ripulire il pollaio.137 Questo genere di esperimenti è fondamentale per comprendere come l’autoinganno non derivi solo dalla necessità di essere credibili, ma anche da quella di dare un senso logico alla dissociazione dei propri comportamenti. Questo autoinganno si verifica molto spesso nella realtà: incontriamo di frequente persone che, non sapendo realmente il motivo per cui attivano alcuni comportamenti, offrono a se stessi e agli altri una spiegazione per nulla autentica, senza nemmeno rendersene conto. In psicoterapia

si notano spesso costruzioni confabulatorie di questo tipo, a copertura di qualcosa che, per qualche complesso radicato, è inaccessibile. Per riuscire a trovare la verità dei propri comportamenti è spesso necessario un grande lavoro, che non può garantire sempre risultati soddisfacenti. L’inconscio freudiano esiste davvero? Se i processi di pensiero sono multilivello, operano in parallelo e sono accessibili all’attenzione molto parzialmente, a causa dei normali meccanismi di selezione (dissociazione fisiologica), non è necessario immaginare l’esistenza di un inconscio personale rimosso, così come fu descritto da Freud. Davvero abbiamo solo la possibilità di pensare che, se un contenuto problematico non è presente alla coscienza quotidiana, sia stato rimosso? E se, invece, non fosse accessibile perché il trauma ha disgregato le normali vie associative? In altre parole, per quale motivo ipotizzare che debba intervenire un meccanismo dall’alto, una volontà, sia pur inconscia, del soggetto di escludere un dato contenuto dalla coscienza? Non è molto più semplice pensare che ciò sia dovuto a una difficoltà associativa tra la memoria emozionale e la memoria cognitiva del soggetto ? La prima posizione, quella che attribuisce il restringimento di coscienza a un meccanismo che parte dalla responsabilità dell’individuo è di Freud, ed è espressa con il concetto di difesa e di rimozione. La seconda, rimasta sepolta per quasi un secolo, che ritiene che il trauma frammenti e disorganizzi dal basso le normali vie di comunicazione tra i vari tipi di

memoria è di Janet: «L’emozione ha un’azione dissolvente sulla mente».138 Importanti studiosi del concetto di dissociazione di scuola freudiana, come Bromberg, tendono a interpretare questo fenomeno soprattutto come meccanismo di difesa: «Per preservare il rapporto di attaccamento e proteggere la stabilità mentale, la mente innesca una soluzione per la sopravvivenza, la dissociazione».139 Probabilmente la posizione di Bromberg è l’unica che consente di salvare davvero la visione freudiana dell’inconscio. Sulla scia di Janet, Bromberg vede la dissociazione come il concetto centrale che permette di comprendere i disturbi psicologici e ritiene che la salute sia «la capacità di rimanere negli spazi tra realtà diverse senza perderne alcuna».140 Riconosce esplicitamente la priorità di Janet al riguardo e denuncia con parole molto nette il ritardo culturale dovuto al fondatore della psicoanalisi: «Freud ha assunto una posizione unilaterale anti-Janet che ci ha portato indietro di quasi cento anni».141 L’interpretazione della dissociazione come disorganizzazione automatica del funzionamento cerebrale innescato dalle emozioni generate dal trauma è, però, accettata da altri importanti psicoanalisti freudiani come Russell Meares. Lo psichiatra australiano fa notare come l’interpretazione della dissociazione come difesa non sia coerente col fatto che gli individui che dissociano più facilmente sono proprio quelli che sviluppano il disturbo postraumatico da stress. In tale occasione, perlomeno, non

può essere una difesa. Mentre successivamente, chi ha sperimentato una volta la dissociazione può essere in grado di riprodurre quest’esperienza a scopo protettivo, per cui – afferma Meares, riprendendo la posizione di Janet – «l’esperienza traumatica primaria creerebbe una vulnerabilità che conduce alla ricorrenza».142 Giovanni Liotti e gli studiosi cognitivi del trauma e della dissociazione seguono in toto l’idea di Janet secondo cui la dissociazione non è un meccanismo difensivo.143 In effetti, sembra che alcuni contenuti restino separati tra loro, creando stati dell’Io non integrati. Si tratta di coscienze parallele, non inconsce, ma subconsce, cioè in una posizione differente rispetto a quella che è cosciente in quel momento. Se il soggetto si sposta da una posizione all’altra, apre questi contenuti che così sono a sua disposizione o, per dirla più correttamente, egli è a loro disposizione: il suo Io assume un nuovo stato, un nuovo aspetto, un nuovo modo di essere e di comunicare. La dissociazione di stati mentali A volte in psicoterapia ci si trova di fronte a persone che parlano di un’infanzia felice (coscienza estesa, verbale), ma che si mostrano emozionalmente incongruenti con questa descrizione e trasmettono immagini non coerenti con una condizione di felicità. Sono episodi che evidenziano la caratteristica classica della coscienza: la compartimentazione, vale a dire la presenza di parti non integrate di se stessi, un fatto che può

portare a errate valutazioni e falsi ricordi. Il fenomeno si presenta non solo per sistemi diversi (differenza tra cognizione ed emozione, come nel nostro esempio), ma anche all’interno dello stesso sistema, come nelle forme di distorsione della memoria, tra cui l’amnesia dissociativa. È esperienza quotidiana, per esempio, il ritrovare contenuti narrativi separati, non coordinati in un racconto più ampio ed elaborato che permette una visione autenticamente rappresentativa della realtà e della complessità della vita. Si tratta di una ridotta capacità autoriflessiva che è tipica della dissociazione. Questi disturbi, quando sono estremi, possono condurre al disturbo dissociativo dell’identità (DID), dove il senso di Sé si sdoppia in personalità multiple denominate alter. Tuttavia, si tratta di un disturbo, se davvero esiste, piuttosto raro, mentre sono frequenti stati dell’Io non integrati, con modi di essere divergenti nelle varie situazioni: per esempio una persona empatica, molto disponibile e affettiva con gli amici, che invece a casa tiranneggia i figli; oppure, ancor più spesso, il contrario: empatico e premuroso in famiglia, squalo e tiranno sul lavoro. Insieme alla compartimentazione, l’altra caratteristica che descrive al meglio la dissociazione è il distacco. Questo è un termine che rimanda all’estraneità dai propri vissuti emotivi, situazione descritta con le nozioni di derealizzazione (estraneità e distacco dal mondo prossimo, che appare privo di valore affettivo), depersonalizzazione (distacco da se stessi e dal proprio corpo), passività patologica, distacco

dall’identità, vuoto terrifico.144 Le persone sopravvissute a situazioni traumatiche hanno dunque modi di essere frammentati, discontinui e, entro certi limiti, multipli. Mancano della capacità di compiere una sintesi tra le varie istanze interiori e, in questo modo, non riescono a raggiungere una coscienza sufficientemente ampia ed estesa, adeguata alla complessità della vita. La capacità di sintesi, chiamata da Janet «tensione psicologica», varia da una persona all’altra e dipende dalla propria biologia e dalle condizioni in cui l’individuo è stato allevato nella prima infanzia.145 Inconscio freudiano – Organizzazione dissociata della memoria Per Freud l’assioma centrale era che alla nascita il bambino non avesse ancora l’inconscio che lui immaginava come composto soprattutto di quei contenuti rimossi che si sarebbero accumulati nel corso della vita. Per le neuroscienze i processi infantili inconsci rappresentano invece la quasi totalità della personalità infantile, mentre la coscienza emergerà lentamente dallo sviluppo dei suoi sistemi psicobiologici sotto gli stimoli socioambientali. Per i neuroscienziati, l’inconscio è dunque qualcosa di molto diverso da come lo immaginava Freud. Si tratta di un elemento strutturale che non origina dalla coscienza, ma ne precede il suo sviluppo, sia filogeneticamente che ontogeneticamente. Gli organismi sono in grado di vivere per

decenni senza coscienza, ma non certo senza sofisticati sistemi di funzionamento automatico o semi-automatico. Gli esseri umani possiedono circuiti neurali che permettono di saltare la neocorteccia; se così non fosse, ci muoveremmo troppo lentamente e arriveremmo tardi rispetto alla necessità di risposta agli eventi.146 I sistemi neuronali che passano dalla neocorteccia sono più lunghi e complessi, quindi più lenti di quelli emotivi, che la eludono. Le neuroscienze hanno scoperto che la memoria ha almeno due forme: la prima è la memoria cosciente degli avvenimenti, chiamata memoria esplicita o dichiarativa; la seconda è chiamata memoria implicita o (non dichiarativa). La memoria esplicita è situata nell’ippocampo e nel lobo temporale mediale, la memoria implicita soprattutto nel cervelletto e nei gangli della base.147 Questi tipi di memoria a loro volta vanno divisi in sottotipi, tra cui importante è la differenza tra memoria semantica (conoscenze generali, mondo dei significati, vissuti soggettivi) ed episodica (cronaca dei fatti) dimostrata da Endel Tulving nel 1972.148 Brenda Milner, nel 1962, come ricorda Kandel, offrì la prima conferma sperimentale di questi due tipi di memoria dimostrando l’esistenza di una memoria implicita che fu preservata mentre la memoria episodica era andata persa.149 Aveva studiato per circa trent’anni un uomo, conosciuto per le sole iniziali H.M., che aveva subito, a causa di una grave malattia, l’asportazione della superficie interna dei lobi temporali e dell’ippocampo. In seguito a quest’intervento sembrava che l’uomo avesse perso la memoria degli ultimi

dieci anni. Milner constatò che H.M. ricordava molto bene le cose per alcuni minuti ed era in grado di sostenere una normale conversazione, purché non troppo lunga; ma era incapace di ricordare quanto era stato detto nel corso del tempo. Il paziente d’altra parte aveva mantenuto un’ottima memoria a lungo termine. Parlava normalmente l’inglese, aveva conservato il suo quoziente intellettivo e i suoi ricordi d’infanzia. Ciò che aveva perso era quindi la capacità di convertire la memoria a breve termine in memoria a lungo termine, al punto che non riconosceva la stessa Milner, anche dopo parecchi anni di incontri. D’altra parte non riconosceva neppure se stesso quando si vedeva allo specchio o in fotografia, avendo conservato l’immagine di sé giovane. Brenda Milner riteneva che il difetto di conversione della memoria fosse totale, ma nel 1962 scoprì che H.M. era in grado di apprendere e migliorare, con il passare del tempo, specifiche tecniche di disegno, pur senza ricordare di avere fatto esercizio nei giorni precedenti. Evidentemente era in grado di convertire memoria a breve termine in memoria a lungo termine, a condizione che questa trasmissione fosse inconscia. Esistono quindi circuiti neurali che presiedono alla formazione di ricordi inconsci (intendendo in questo caso la memoria semantica), che seguono vie differenti dai circuiti coscienti (memoria dichiarativa), evitando ad esempio di passare per l’ippocampo, che nel paziente era stato asportato. Quello del disegno fu il primo di una serie di ricordi inconsci rilevati da Milner in H.M.

Oggi sappiamo che i diversi tipi di memoria seguono circuiti neurali differenti, che permettono di immagazzinare le informazioni in aree differenti del cervello. Dagli studi di Milner si ricava anche che la memoria implicita è di solito automatica e si innesca senza che vi sia uno sforzo cosciente per attingervi. Numerose sono state anche le dimostrazioni a favore della non consapevolezza di eventi come le emozioni: i circuiti emozionali possono saltare la neocorteccia, e quindi non giungere alla coscienza, come ha dimostrato Joseph Ledoux nel 1996. Egli descrisse una via neuronale al di sotto della corteccia cosciente, che collega le informazioni percettive con le strutture che determinano la reazione di paura, saltando l’ippocampo, ove si formano i ricordi coscienti. I ricordi inconsapevoli di esperienze personali dimostrati dalle neuroscienze non sono ricordi episodici rimossi dai meccanismi di difesa, in altre parole non hanno a che fare con l’inconscio così com’è immaginato da Freud, riferito in modo particolare al linguaggio. E non trova neppure la sua spinta motivazionale in un’energia fondamentale come la libido, o nella dinamica di due pulsioni contrapposte come pulsione di vita e distruttività. I processi inconsci, come sono interpretati dalle neuroscienze, descrivono una complessa organizzazione di molteplici funzioni mentali, sviluppate in accordo con la teoria dell’evoluzione, che nel loro operare regolano l’agire umano e generano la coscienza. Tabù dell’incesto – Inibizione della depressione endogamica

Se analizziamo il tabù dell’incesto – uno dei temi principali della psicologia del profondo – comprendiamo quanto la conoscenza dell’evoluzione e della primatologia modifichino radicalmente l’interpretazione e la comprensione dei fenomeni umani. L’evidenza clinica del fatto che la riproduzione tra stretti consanguinei produce quella che viene chiamata una «depressione endogamica» (inbreeding depression), ossia una prole debole con una capacità riproduttiva ridotta, non è messa in dubbio da nessuno. Eppure molti studiosi ritengono che il tabù dell’incesto abbia un’origine culturale. Ma non c’è dubbio che l’evoluzione, col suo sottile gioco di mutazione e selezione, sarebbe in grado di ottenere lo stesso risultato, e infatti ha sviluppato differenti ostacoli alla depressione endogamica in quasi tutto il mondo vivente. Nelle specie in cui i piccoli sono allevati dalla madre e crescono con i fratelli e le sorelle, sembra che i piccoli abbiano ereditato una regola semplice per sottrarsi all’incesto: evitare l’accoppiamento con gli individui insieme ai quali si è cresciuti. Si tratta del cosiddetto effetto Westermarck, dal nome dello studioso che lo ha osservato la prima volta.150 L’effetto Westermarck è una sorta di imprinting invertito, che porta a una repulsione sessuale nei confronti delle persone con cui si è formato un legame durante l’infanzia ed è presente insieme al normale attaccamento, che porta invece all’amore nei confronti degli esseri che ci hanno allevato. Le ricerche effettuate da Shepher nei kibbutz israeliani

mostrano come gli individui cresciuti insieme prima dei sei anni di età non solo non si sposano tra di loro, ma addirittura tendono a evitare i rapporti sessuali con i propri ex compagni. Su 2769 matrimoni analizzati, nessuno era avvenuto tra soggetti cresciuti insieme, nonostante il fatto che sarebbero stati accolti con favore dalla comunità. Per gli esseri umani sembra esserci un periodo critico precedente al sesto anno d’età in cui vengono fissati i soggetti con cui non conviene avere rapporti sessuali.151 Alle stesse conclusioni giunsero le ricerche di Wolf, che registrò lo scarso successo dei matrimoni combinati tra bambini taiwanesi che avevano vissuto insieme sin dalla più tenera età: questi matrimoni, comparati ad altri, combinati tra estranei, avevano percentuali di fallimento enormemente maggiori.152 Un argomento a sostegno dell’effetto Westermarck è l’evidenza dell’attrazione sessuale genetica (GSA): le ricerche concordano nell’affermare che le persone, mediamente, percepiscono come erotici coloro che in qualche modo somigliano a loro. Si tratta di un fattore che, nella specie umana, ha un suo peso nelle relazioni amorose, anche se sembra inferiore ai fattori educativi e sociali.153 Poiché nessuno è più simile geneticamente – ma anche socialmente – dei famigliari, la cosa creerebbe molti problemi se non fosse bilanciata da un altro stimolo biologico che la limiti, come appunto l’inibizione all’incesto. Ma i consanguinei, in particolare fratello e sorella, che sono stati separati alla nascita, non essendo cresciuti insieme, non possono sviluppare questo tipo di inibizione sessuale, per cui

da adulti tendono a essere sessualmente attratti l’uno dall’altra. Freud e Lévi-Strauss Nel XX secolo, basandosi su assunti, poi dimostratisi errati, secondo i quali l’incesto era comune tra gli animali, c’era la tendenza a spiegare la diversità umana sostenendo che il tabù dell’incesto aveva un’origine esclusivamente culturale e sociale. Claude Lévi-Strauss, nel suo Teoria dell’alleanza, affermava che gli uomini avevano creato il tabù dell’incesto al fine di barattarsi le donne e allearsi tra loro.154 Se è senz’altro vero che con i matrimoni esogamici si creano alleanze, la spiegazione di Lévi-Strauss può però essere facilmente ribaltata: questa espansione sociale può anche dipendere proprio dal fatto che il genere umano ha biologicamente in sé i precursori dell’inibizione della sessualità endogamica per cui si trova costretto ad aprirsi al mondo per fare figli. Se fosse vera l’origine biologica dell’inibizione endogamica, Lévi-Strauss avrebbe scambiato la causa con l’effetto. Il più famoso propugnatore dell’origine culturale del tabù dell’incesto fu Sigmund Freud, il quale basò su quest’ipotesi una parte importante della sua costruzione teorica; osservando che la proibizione dell’incesto era quasi universale, Freud lo spiegò con la necessità di contrastare le tendenze incestuose che sarebbero state presenti in ogni essere umano. Per sostenere questa tesi contestò i lavori di

Westermarck, che poneva sullo stesso piano i consanguinei e le persone che condividono l’infanzia. Secondo Freud era un’insensatezza che l’istinto biologico si fosse smarrito al punto da colpire persone inoffensive dal punto di vista riproduttivo, invece che soltanto i consanguinei, che dal punto di vista della riproduzione sono dannosi.155 All’epoca però non era ancora stato descritto il legame di attaccamento nelle sue diverse declinazioni, in cui è presente una chiave emozionale che permette di identificare, per lo più correttamente, la parentela biologica. La regola che l’evoluzione ha «trovato» per evitare l’incesto è stata, infatti, quella di inibire l’accoppiamento tra le persone che hanno sviluppato un attaccamento infantile, indipendentemente dal fatto che si tratti di parenti di sangue o meno. L’inibizione all’incesto si mantiene per tutta la vita, anche quando la conoscenza di un’eventuale adozione è manifesta. La mente, come abbiamo visto, funziona a moduli, in maniera relativamente dissociata, e pertanto la conoscenza dell’origine di un comportamento spesso non è sufficiente a modificarlo: conoscenza esplicita e memoria emozionale afferiscono ad aree differenti del cervello. Facendo sua l’argomentazione dell’antropologo Robert Frazer, esposta nel libro Il ramo d’oro, Freud sostenne che se il tabù dell’incesto avesse avuto un’origine biologica non ci sarebbe stato bisogno di vietarlo tramite norme e regolamenti: «sarebbe superfluo che la legge proibisse e punisse ciò che la natura stessa proibisce e punisce».156 L’inibizione all’incesto non sarebbe pertanto ereditabile,

perché «non esistono leggi che ordinino all’uomo di mangiare e di bere, o che proibiscono di mettere le mani sul fuoco».157 La critica però non regge al confronto coi fatti. Alimentarsi, idratarsi, conservarsi in vita, rifuggire dal fuoco sono sicuramente gli effetti di meccanismi biologici antichissimi, e la loro mancanza avrebbe reso impossibile il perpetuarsi della vita animale. Eppure esistono anoressie, suicidi e persone che si danno fuoco. Contrariamente all’osservazione di Freud, varie società hanno adottato strategie di rinforzo che comprendono leggi divine, leggi laiche, condanne religiose, riprovazioni morali, sentenze della magistratura (TSO, trattamento sanitario obbligatorio per atti anticonservativi o autolesionistici, dichiarazioni di inabilità mentale), e anche, fortunatamente, programmi di aiuto psicologico e sociale. Tuttavia, questi stessi comportamenti possono anche essere incoraggiati o addirittura «santificati», se utili al gruppo. Si tratta della stessa ambiguità che avviene per l’incesto, normalmente vietato, ma favorito in particolari situazioni, ad esempio motivi dinastici. L’inibizione della depressione endogamica è flessibile: è una delle tante tendenze che entrano in rapporto con la sessualità e la bilanciano nella sua espressione, per cui necessità contingenti possono richiedere che debba essere superata, come avviene ad esempio nei casi di isolamento riproduttivo. In linea generale immaginare una contrapposizione netta

tra biologia istintuale, deterministica, e ambiente socioculturale è una semplificazione eccessiva per una realtà che appare invece molto articolata e composita, conflittuale già negli stessi aspetti naturali. Homo sapiens ha parti aggressive e competitive, ma è anche predisposto per cooperare; ha parti cooperative e può sacrificarsi per il gruppo, ma è pronto a competere ed eventualmente a combattere, per imporsi; possiede dei prerequisiti biologici che lo portano verso la vita sociale adottando la cultura dell’ambiente in cui nasce, ma cerca anche di piegare l’ambiente sociale ai suoi fini biologici. Ogni individuo ha un dosaggio differente di queste caratteristiche di base. L’uomo è un animale davvero complesso e conflittuale anche con se stesso: non è stato creato di colpo, e molti suoi sistemi psicobiologici si trovano quasi sempre a confliggere con altri sistemi divergenti, persino opposti, situati in aree differenti del cervello. Questi prerequisiti sono inoltre attivati dall’ambiente ed entro certi limiti possono essere forzati per adattarsi a una realtà sociale che è variegata anche all’interno della stessa popolazione. Per questo motivo, nella maggior parte dei casi, le predisposizioni che prevalgono sono quelle funzionali alle situazioni contingenti: lo stesso individuo sentirebbe fortemente o per nulla l’inibizione all’incesto a seconda che sia allevato in una famiglia occidentale di oggi o come erede al trono egizio nel periodo tolemaico. Sulla mancata o deviata espressione di questi requisiti, come di tutti gli altri, influisce naturalmente una complicata lotteria natura/ambiente, differente per ognuno

di noi. Il resto del mondo vivente Per avere un’indicazione sull’inibizione dell’incesto è necessario guardare agli altri animali e, come sempre, in particolare ai primati non umani. Ebbene, i risultati delle osservazioni etologiche sono tali da fugare ogni dubbio: «Quanto era lontano dal segno LéviStrauss», scrive il primatologo Frans de Waal, osservando che i meccanismi per cercare di evitare l’incrocio genetico tra consanguinei sono presenti in tutto il mondo animale. «La soppressione dell’“inincrocio” (inbreeding), come lo chiamano i biologi, è ben sviluppata in ogni sorta di animali, dai moscerini della frutta ai roditori ai primati non umani. È una sorta di mandato biologico per specie che si riproducono sessualmente».158 Le scimmie adulte tendono a evitare l’incesto con vari stratagemmi. Il più diffuso è la dispersione del nucleo famigliare, ossia il fatto che i membri di uno dei due sessi, raggiunta la fase adulta, si allontanano dal gruppo d’origine per unirsi a un altro. Questo comportamento è unanimemente interpretato dai primatologi come conseguenza di una pressione selettiva che tende a ridurre il numero degli incroci tra parenti. In linea generale le femmine delle scimmie antropomorfe che diventano mature e vanno in estro tengono lontani i maschi coi quali sono imparentate e manifestano attrazione sessuale tanto più forte nei confronti dei maschi meno

imparentati con loro. Le femmine mantengono anche relazioni di prossimità più assidue con i maschi immigrati di recente nel gruppo. Tutto ciò fa sì che l’incesto tra gli scimpanzé sia talmente raro che ci sono primatologi che, in anni di osservazione, non hanno mai assistito a un singolo caso. Se però, nonostante tutto, accade, la cosa è considerata dagli studiosi di primatologia come una patologia del comportamento, proprio come per gli umani, anche per via del fatto che durante la monta la diade incestuosa manifesta chiaramente disturbi nel rapporto. Sembrano situazioni inibite, disturbate, con erezioni incomplete, penetrazioni imperfette, eiaculazione rara o esterna.159 Anche tra i bonobo, scimpanzé nani con organizzazione matriarcale, l’incesto padre-figlia è impedito dal fatto che le figlie, raggiunta la pubertà, si trasferiscono in comunità vicine, mentre il sesso tra madri e figlie non è praticato, nonostante queste stiano spesso in compagnia delle loro madri. Si tratta dell’unico tipo di pratica sessuale assente in una specie caratterizzata da un alto tasso di omosessualità femminile.160 In altre scimmie l’inibizione all’incesto tramite la dispersione del nucleo famigliare viene praticata dai maschi: i babbuini maschi si trasferiscono da un gruppo all’altro soprattutto nei momenti in cui c’è un’alta percentuale di femmine in estro all’interno del loro gruppo d’origine. Lo stesso fanno i macachi, che non si accoppiano con i loro famigliari.161 In tutti i primati (umani e non umani) esiste il

rifiuto materno-filiale: la madre respinge la prole quando questa diventa troppo matura.162 Sono molti gli esempi simili anche in altri gruppi animali: le femmine di topo si accoppiano normalmente con maschi geneticamente diversi, che riconoscono tramite l’olfatto;163 le quaglie fanno in modo di evitare i fratelli;164 le madri degli scoiattoli, subito dopo lo svezzamento, respingono con grida di minaccia i piccoli che si vogliono accostare.165 Sono stati anche condotti diversi studi genetici in animali di difficile osservazione diretta, come i globicefali, un genere di delfini. I maschi adulti dei globicefali rimangono nello stesso gruppo assieme a madri e figlie. Nonostante questa prossimità, le analisi genetiche hanno dimostrato che gli incesti sono virtualmente inesistenti.166 Eibl-Eibesfeld fa notare che perfino nel regno vegetale si sono evoluti molteplici meccanismi per evitare l’autoimpollinazione: insomma, gli esempi che attestano l’origine biologica dell’inibizione endogamica sono innumerevoli.167 La soppressione dell’inincrocio avviene proprio secondo l’effetto di associazione scoperto da Westermarck: un germano reale allevato insieme a una volpoca prova stimoli sessuali nei confronti delle volpoche e non dei germani, a causa di una deviazione dell’imprinting, ma non sceglierà quasi mai, come partner sessuale, la singola volpoca con la quale è stato allevato.168 Per quale motivo un’inibizione tanto diffusa in tutto il mondo vivente dovrebbe avere un’origine differente nella specie umana?

Frans de Waal richiama il principio di parsimonia evolutiva, secondo il quale specie strettamente imparentate che mostrano lo stesso comportamento probabilmente condividono anche gli stessi processi mentali impliciti.169 Sostenere il contrario per l’inibizione endogamica nella specie umana richiederebbe dunque prove inoppugnabili, non certo semplici sensazioni. E non dimentichiamo che Freud e Lévi-Strauss avevano sviluppato le loro teorie anche perché pensavano che gli altri animali (ma osservati in cattività) non avessero questa inibizione. A meno che non sia dimostrato il contrario, è lecito pensare che considerare l’inibizione endogamica un tabù culturale esclusivamente umano è semplicemente sbagliato, opinione peraltro largamente condivisa dai biologi evoluzionisti, al punto che Jerry Coyne pone il tabù dell’incesto addirittura al primo posto nel suo elenco di condotte umane di probabile origine biologica con valore adattativo.170 Thanatos, o della psicologia popolare In una prima fase della sua opera, Freud cercò di ispirarsi alle teorie darwiniane della selezione naturale e sessuale. Forse immaginando che si trattasse di fattori contrapposti elaborò la teoria del conflitto dualista tra pulsioni dell’Io (di autoconservazione) e pulsioni sessuali. Nel corso degli anni si allontanò sempre più dal darwinismo (non interpretato correttamente), e lo sostituì con una dottrina sempre più metafisica. Arrivò infine a proporre l’esistenza di un conflitto

interiore tra una pulsione di vita (Eros) e una pulsione di morte, chiamata in seguito Thanatos, inserendosi così in una lunga tradizione filosofica.171 Freud riconduceva alla pulsione di morte non soltanto l’esistenza della guerra, ma anche della morale, come scrisse in risposta alla domanda di Einstein «Perché la guerra?», un testo che esemplifica bene il suo pensiero di quegli anni.172 La guerra, secondo Freud, nascerebbe a causa della pulsione di morte, presente in tutti gli esseri umani, che quando si rivolge verso l’esterno diventa pulsione distruttiva. In questo modo l’individuo proteggerebbe la propria vita scaricandosi e distruggendone un’altra. Una parte della pulsione di morte rimane però all’interno dell’individuo e dà origine a una serie di fenomeni, sia normali sia patologici, tra i quali spicca l’origine della coscienza morale. L’aggressività viene introiettata e assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-io, come coscienza morale, alla parte rimanente dell’Io, con la stessa aggressività che avrebbe mostrato contro gli individui estranei, riuscendo così a tenere a bada gli impulsi. È così che la civilizzazione, secondo Freud, controlla il pericoloso desiderio di aggressione presente nell’individuo facendolo sorvegliare «come da una guarnigione nella città conquistata».173 Freud si rende conto di non avere prove, tanto che si di‐ fende con Einstein con una sorta di excusatio non petita: «Lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è

così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?».174 Questa frase è centrale, e rende l’idea di quanto Freud fosse consapevole del carattere speculativo delle proprie teorie, pur se continuava a difenderle come scientifiche. Per Freud non c’è speranza di sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini, tanto che attraverso la pulsione di morte egli immagina che negli esseri umani vi sia una specie di adattamento biologico che porta verso la guerra. Quella che chiama «la nostra mitologica dottrina delle pulsioni» può essere contenuta solo per mezzo dello sviluppo dell’amore tra gli esseri umani: «La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa Ama il prossimo tuo come te stesso».175 Lo sviluppo dell’amore va però unito all’educazione di una categoria di persone elevate, portatrici della verità, alle quali «dovrebbe spettare la guida delle masse incapaci di autonomia».176 Nella parte finale della sua lettera ad Einstein, Freud giustifica le sue idee con una bizzarra interpretazione della teoria dell’evoluzione, sostenendo che gli occidentali benestanti e acculturati sono pacifisti perché più evoluti «organicamente» delle altre popolazioni e dei ceti sociali più bassi: «Siamo pacifisti perché a ciò siamo necessitati da ragioni organiche». Ma c’è un pericolo, perché «le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura». Per evitare la guerra occorrerebbe un’evoluzione culturale di questi soggetti, evoluzione che lo psicoanalista viennese

confonde ancora una volta con l’evoluzione biologica: «Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tal specie». Per le persone acculturate dei popoli sviluppati il rifiuto della guerra è insomma un fatto biologico: «Non si tratta di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale […]. Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti?».177 Non bisogna ovviamente commettere l’ingenuità di leggere le parole di un autore del secolo passato pretendendo di trovarvi un’etica e una conoscenza sviluppate solo successivamente. Freud parlava allora come la maggior parte delle persone della sua classe sociale. E purtroppo avrebbe verificato nel giro di pochissimi anni, e fin troppo direttamente, che gli occidentali benestanti e acculturati non erano affatto «organicamente» più pacifisti delle popolazioni e dei ceti sociali più bassi. Tuttavia, il pensiero di Freud lascia insoddisfatti proprio perché non aggiunge nulla allo spirito del tempo. Era sentimento comune che l’amore predicato dalle religioni fosse un valido aiuto morale e che il governo dovesse essere affidato a persone in grado di governare la «plebaglia», proprio come era un luogo comune pensare che gli uomini si distruggessero per un qualche «istinto di morte». È curioso inoltre questo atteggiamento nei confronti dell’opera della religione. In L’avvenire di un’illusione Freud

scrive che non è affatto sicuro che al tempo dell’illimitato dominio delle dottrine religiose gli uomini fossero più felici di oggi. E si dichiara addirittura certo che non erano più morali.178 Eppure, quando deve rispondere a Einstein, ricade nello stereotipo dell’amore predicato dalle religioni, uno dei trascendentali dell’essere di San Tommaso: unum, verum, bonum. In sostanza, la proposta di Freud per limitare le guerre è fatta di belle parole, con l’appello a indefinite astrazioni, come il concetto di «amore» e di «persone elevate» che praticano il «culto della verità», senza alcuna ulteriore precisazione; parole evidentemente immaginate da Freud come indicatrici di solide entità effettivamente esistenti, invece di quei complessi concetti multiformi che davvero sono. Giovanni Jervis scrive che quando si accettano formule astratte e risolutive, se non intimidatorie, come la «verità» o il «male», non solo ci si allontana dalla comprensione della vita vissuta, ma si oscura la realtà umana, perché vi piomba sopra il cappello dell’Assoluto.179 Non stupisce, pertanto, che dall’appello ai facili sentimenti Freud passi al suggerimento di governare il popolo in maniera sostanzialmente dittatoriale, non dissimile a quanto si legge già nel Platone della Repubblica. Il concetto di «psicologia basata sul senso comune», o «psicologia ingenua», ha giocato un ruolo significativo nel secolo scorso. Per psicologia ingenua s’intende ciò che conosciamo intuitivamente e ciò che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni per comprendere il mondo. Si tratta di

una psicologia utile nell’immediato, perché ci permette di formarci delle idee sugli altri individui e sulle situazioni sociali, idee che di solito funzionano in maniera adeguata e che ci consentono una discreta rappresentazione interna. La nostra psicologia ingenua si esprime anche con concetti come «bene», «male», «amore», «odio» e, ovviamente, «persone elevate». E a causa della psicologia ingenua ci aspettiamo che l’amore sia un sentimento semplice e puro, non ulteriormente scomponibile, e che se una persona è «buona» o «di valore» in particolari situazioni lo sia sempre, in ogni suo comportamento. Nel momento in cui veniamo a conoscere aspetti che fanno parte della complessa umanità dell’altro, ma che a noi sembrano negativi, ecco che l’altro viene trasferito dalla categoria di «persona elevata» a quella dei «manipolatori», e noi razionalizziamo il tutto affermando di «esserci sbagliati» o «essere stati ingannati». Queste generalizzazioni sono del tutto ignare della complessità della natura umana e dell’intreccio di elementi egoisti e altruisti sempre presenti nella medesima persona, pur se in quantità differente a seconda degli individui. La psicologia ingenua, di cui siamo dotati, ci porta a compiere valutazioni inadeguate, a fidarci più delle persone che dei meccanismi di controllo oppure a essere apodittici nei giudizi. Ed è sempre la nostra psicologia ingenua che ci fa credere che l’appello a valori spirituali elevati sia la strada per la prevenzione dei mali sociali. Nel 1932, ai tempi in cui Freud scriveva le frasi citate

sopra, la teoria dell’evoluzione, la teoria della relatività e la teoria dei quanti avevano già ampiamente permesso di comprendere che i vari aspetti della realtà sono molto più complessi di quello che appaiono. Perché la guerra? Oltre la psicologia ingenua Le belle parole non fermano comportamenti autodistruttivi, attentatori suicidi, né le nazioni guidate da psicopatici. La strada per prevenire le guerre esiste, ma si sviluppa dal basso ed è un lavoro enorme, di estrema complessità, in cui tutti siamo protagonisti. È un lavoro che non può prescindere da sviluppi strutturali, economici, scientifici e tecnologici di grande portata, legati alla diffusione della lacità e della scienza. A questi vanno aggiunti il miglioramento effettivo della qualità del lavoro; delle condizioni di vita; lo sviluppo dell’istruzione; l’espansione dell’empatia e della tolleranza; la diminuzione dell’identificazione tribale (compresi i nazionalismi); l’inclusione reciproca nel proprio cerchio morale; la cultura della legalità; la maggior femminilizzazione nel mondo. Questi sono i lavori (in corso) che diminuiscono la violenza. Sono tutti fattori che vanno a loro volta scomposti e realizzati in infinite pratiche differenti, al fine di migliorare la qualità di vita e la qualità delle relazioni famigliari e sociali per tutti. Si tratta di uno sviluppo per nulla utopistico. In parte si è già realizzato, tanto che si è già verificata un’importante diminuzione della violenza, degli omicidi e delle guerre, che è probabilmente la caratteristica meno

conosciuta e più significativa del tempo in cui viviamo.180 Una ricerca che ho effettuato in collaborazione con la psichiatra Paola Rocca, dell’Università di Torino, conferma la tendenza, anche in Italia, a una sensibile diminuzione di tutti i tipi di omicidi.181 La psicologia del profondo dovrebbe dunque rifuggire dal senso comune, dai concetti popolari, dalle semplificazioni e dalle ricerche d’effetto della comunicazione mediatica di massa. In quasi tutti i casi, le ricerche mostrano una realtà contraria a quella che appare nei media, tanto che ironicamente si potrebbe formulare una legge, meglio, un principio empirico, che recita: «Quando un fenomeno viene scoperto e cavalcato dai mass-media, significa che è in diminuzione». Spesso un fenomeno approda sui media e viene proposto come «emergenza» non come effetto del fatto che la sua incidenza sia aumentata, ma per via del fatto che la sensibilità collettiva inizia a non tollerarlo più. I modelli teorici su cui si basano le psicoterapie dovrebbero poggiare sulle ricerche scientifiche che mostrano come la realtà profonda, spesso, non sia quella che appare. In questo senso, nessuna acquisizione scientifica è più certa dell’evoluzione che ha strutturato il nostro corpo e il nostro cervello. La strada che ci permette di trovare qualcosa di più solido rispetto alle intuizioni dei propri maestri di riferimento e la lettura dei quotidiani consiste, quindi, anche nel capire come siamo stati modellati nel corso del tempo e quali sono i caratteri fondamentali che condividiamo con gli altri mammiferi.

Ed è proprio la chiave interpretativa della teoria dell’evoluzione che impedisce di accettare il vecchio luogo comune dell’esistenza di un principio come la freudiana «pulsione di morte», che non offre alcun vantaggio adattativo all’essere umano, non aumenta la sua aspettativa di vita né accresce il suo successo riproduttivo. Al contrario, la sua eventuale presenza in un individuo sarebbe altamente nociva e la ghigliottina della selezione naturale provvederebbe a eliminarla. Non c’è alcun motivo per cui la selezione naturale avrebbe dovuto favorire la sua emersione e la sua diffusione nella specie umana. L’ossessione della dominanza Per descrivere le motivazioni umane Nietzsche utilizzava il concetto di «volontà di potenza». Si tratta di un concetto più adeguato. Il sistema motivazionale che Nietzsche chiamava in questo modo è una rielaborazione e un’estensione del meccanismo di dominazione/sottomissione, un sistema di competizione di rango ben presente nei mammiferi sociali. La stessa struttura sociale gerarchica di molte specie animali deriva da questa «volontà». Come afferma il primatologo Dario Maestripieri, il sistema competitivo di rango si esprime nella nostra vita di ogni giorno fin dal modo in cui rispondiamo al telefono, scriviamo un’email o porgiamo attenzione a un’altra persona.182 Il sistema competitivo di rango, la tendenza a difendere il gruppo e il territorio e l’emozionalità aggressiva sono tutti meccanismi alla base della violenza e delle uccisioni di

membri della stessa specie. Nei mammiferi la violenza sanguinaria all’interno della specie è soprattutto una caratteristica maschile e può raggiungere elevati livelli di crudeltà. L’osservazione delle scimmie antropomorfe permette ancora una volta di comprendere come i nostri cugini lottino per acquisire status, perché è lo status che dà la possibilità di ottenere un maggior accesso alle femmine, e determina quindi un vantaggio riproduttivo. Le ricerche dei primatologi e degli psicologi animali comparati mostrano chiaramente quanto gli scimpanzé siano feroci. Gli scimpanzé compiono incursioni nei territori degli altri gruppi per conquistare nuovo territorio e uccidono spesso membri della stessa specie. Se si imbattono in un maschio di un altro gruppo, non esitano a squarciargli la gola e a strappargli i testicoli, per evitare che possa riprodursi in caso di sopravvivenza. È stato calcolato che scimpanzé, cacciatori raccoglitori e agricoltori primitivi hanno pressappoco gli stessi alti tassi di mortalità dovuti a omicidi, mentre la violenza non letale degli scimpanzé supera di centinaia, migliaia di volte la violenza umana. Anche presso gli scimpanzé, come negli esseri umani, capita che un esemplare sia particolarmente aggressivo, violento e ipersessuale, tanto da non poter accettare il rifiuto della sorella. In questi casi, la insegue, la raggiunge, la percuote e la stupra.183 Il commento di Richard Wrangham a questo proposito ben comunica il clima di brutalità in cui si trovano

a vivere gli scimpanzé: «La violenza maschile che circonda e minaccia le comunità degli scimpanzé è talmente estrema che essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e nel gruppo sbagliato significa la morte».184 Angelo Tartabini fa rilevare come nei primati non umani spesso i cuccioli siano oggetto di maltrattamenti gravi, che possono essere operati non solo dai genitori, ma anche da altri membri del gruppo.185 Oltre a mostrare livelli di violenza analoghi, i gorilla si distinguono per il loro comportamento infanticida nei confronti dei figli del precedente maschio alfa.186 Negli oranghi la situazione è particolare in quanto le femmine copulano volontariamente solo con i maschi di grandi dimensioni. Quelli più piccoli, regolarmente rifiutati, ricorrono allo stupro. Dalla metà a un terzo dei rapporti sessuali tra oranghi avviene tramite la violenza sessuale. Dei 179 accoppiamenti a cui ha assistito John Mitani, l’88% era forzato, mentre Herman Riiksen ha contato 27 stupri tra i 58 accoppiamenti a cui ha assistito. «Il fatto che gli oranghi maschi stuprino regolarmente è il segreto meglio custodito della letteratura divulgativa di argomento zoologico», commenta Wrangham al proposito. In alcuni casi gli stupri superano la barriera della specie: Biruté Galdikas, primatologa canadese, ha purtoppo dovuto assistere, senza potere intervenire, allo stupro operato da un orango nei confronti di una donna che faceva parte della sua spedizione.187 Va precisato, a scanso di equivoci, che lo stupro è un adattamento comportamentale per certi oranghi,

ma non lo è per specie a noi più vicine come i gorilla, gli scimpanzé e i bonobo. Non lo è neppure per gli umani, nonostante ipotesi forzate in tal senso da parte di alcuni autori.188 Lo stesso comportamento che in una specie è un adattamento in altre può essere patologico: si pensi banalmente al cannibalismo copulatorio della mantide religiosa. Al di là di queste osservazioni, ciò che interessa ai fini del nostro discorso può essere riassunto con le parole di Richard Wrangham: «La brutalità umana non è unica. È condivisa da altre specie che formano bande […] con cui condividiamo la propensione a fare a pezzi i nemici».189 Frans De Waal fa giustamente notare che è sufficiente vedere i canini di un babbuino o la mole di un gorilla per capire che si tratta di macchine da guerra evolute allo scopo per sconfiggere i rivali alla ricerca dell’unica moneta che conta nella selezione naturale: la riproduzione.190 Sappiamo che la guerra umana, nella sua preparazione e nel suo svolgimento, è molto diversa dalle spedizioni punitive degli altri animali: richiede organizzazione, sviluppo delle strategie, armi, tecnica e superamento della compassione, tutti elementi che si ottengono, o si rafforzano, per mezzo dello sviluppo della cultura.191 La guerra non è certo un adattamento biologico acquisito nel passato. Tuttavia i diversi prerequisiti biologici della guerra umana, senza i quali non si potrebbe scatenare alcun conflitto, sono già dentro di noi. Edward O. Wilson sostiene che è difficile capire se il modello di violenza e di aggressività territoriale, comune a

umani e scimpanzé, sia stato ereditato da un progenitore comune o non si sia piuttosto sviluppato indipendentemente nelle due linee evolutive in risposta a pressioni selettive simili. In base alle somiglianze nei dettagli comportamentali fra le due specie, però, una discendenza comune appare l’opzione più verosimile.192 La buona notizia è che se abbiamo ereditato i prerequisiti della violenza e dell’aggressività da antenati comuni, abbiamo anche ereditato dagli stessi antenati i presupposti del comportamento cooperativo e sociale. Frans de Waal fa infatti notare che condividiamo questo pluralismo comportamentale con tutti gli altri primati: «Le scimmie e le grandi scimmie si sforzano, come noi, di conquistare posizioni di potere, di procurarsi il piacere del sesso, di assicurarsi sicurezza e affetto, di uccidere per impadronirsi di nuovi territori, e attribuiscono grande valore alla fiducia e alla cooperazione».193 Gli scimpanzé, come noi, possono tenere un comportamento sociale ripugnante, ma anche manifestare la più tenera amicizia cooperativa. Lo sviluppo della cultura, con la comunicazione, la tecnica e la straordinaria capacità organizzativa sociopolitica tipica degli umani, può favorire guerre atroci, ma è anche il principale presupposto per inibirle. Non è certo un caso che i risultati delle ricerche statistiche degli studiosi che si occupano di violenza nel corso della storia siano concordi nel sostenere che stiamo assistendo, nei decenni, nei secoli e nei millenni, al più forte declino delle guerre, degli omicidi e della violenza in generale che si sia mai verificato dall’inizio

della storia dell’umanità.194 L’ombra dell’eusocialità È utile riflettere sul fatto che le guerre sono tipiche anche di specie sociali che sono molto distanti da noi dal punto di vista evoluzionistico, tanto da far pensare che la violenza intraspecifica possa anche essere la paradossale ombra della socialità. Le formiche, ad esempio, sono diffuse dappertutto e contendono all’essere umano il ruolo di specie predominante. Sono probabilmente anche gli animali più aggressivi e bellicosi che esistano sulla Terra. Non sono certo seconde agli esseri umani in quanto a cattiveria organizzata e al loro confronto noi siamo gentili e miti. Vivono in una situazione di aggressione ininterrotta con le popolazioni confinanti e praticano il genocidio ogni volta che è possibile, anche utilizzando le armi chimiche di cui sono dotate; se possedessero armi nucleari, immaginano gli entomologi Hölldobler e Wilson, distruggerebbero il mondo in una settimana. Si mordono, si strozzano, si mutilano le une con le altre fino a che i vincitori arrivano al nido nemico e uccidono la regina e le operaie che ancora resistono; le mangiano, saccheggiano i depositi, catturano le larve, le pupe e le operaie più giovani e le portano via con sé come schiave destinate a servire la colonia vincitrice per il resto della vita. Sono persino in grado di compiere azioni suicide. A volte una specie di formiche particolarmente aggressiva può arrivare a dominare l’ambiente fino a minacciare le aree

abitate dalla specie umana.195 Questi comportamenti, tutt’altro che rituali, hanno permesso alle formiche di moltiplicarsi all’infinito, colonizzando tutto il mondo, dalle foreste, alle praterie, alle campagne, a qualunque pezzo di terra si trovi nelle città moderne, molto più di quanto abbia fatto il genere umano. È stato calcolato che le formiche, insieme alle termiti, rappresentano quasi un terzo della biomassa animale delle foreste tropicali. Tutti i biologi concordano nel pensare che le guerre tra formiche riguardano il territorio e il cibo, e tutti sono d’accordo sul fatto che il controllo del territorio e la maggiore disponibilità di cibo aumenti il loro successo riproduttivo. Un filone intero di evoluzionisti (tra i quali spiccano i nomi di Gould e Eldredge) ritiene che il successo riproduttivo sia un effetto collaterale dell’aumento delle risorse, mentre la scuola alternativa (tra cui Dawkins e Trivers) sostiene che il controllo del cibo e del territorio sia un mezzo per ottenere una maggiore riproduzione. Questa polemica, tanto aspra e centrale nella biologia evoluzionistica del passato, negli ultimi anni della vita di Gould (morto nel 2002) si era piuttosto smorzata, anche perché le due interpretazioni mostravano di non essere incompatibili, soprattutto tenendo presente che la selezione rimodella e modifica le strutture preesistenti mantenendo i vantaggi acquisiti. Se poi si considera che la mente ha una struttura dissociata è difficile negare che, in generale, le tendenze

all’allargamento del territorio e all’accumulo di risorse (le uniche motivazioni che interessano alle formiche in quel momento) siano anche una trasformazione delle tendenze psicobiologiche più elementari, in particolare un miglior successo riproduttivo (attraverso la regina che trasmette i loro geni). Le tendenze primarie non possono mai scomparire. Lo stesso Darwin, nel 1871, scriveva che un barlume di coscienza esiste anche nel più piccolo animale, una frase rimasta a lungo inascoltata. Oggi sappiamo che la coscienza è progressiva e che esistono mappe neuronali primordiali che sono funzionali alla coerenza di molte attitudini differenti, una coerenza che dai neuroscienziati è chiamata proto-Sé. Studiando il cervello delle formiche, scopriamo che questi animali non sono affatto «stupidi», quasi fossero dei robot meccanici. Hanno occhi composti di numerosi fotorecettori, ciascuno dei quali agisce separatamente; antenne per odorare e toccare; peli per percepire gli spostamenti d’aria. Sono in grado di crearsi mappe mentali (quindi hanno almeno un proto-Sé) e possono modificare l’ambiente. Ricevono contemporaneamente migliaia di input sensoriali e metabolici e riescono a elaborare i vari stimoli grazie a gangli cerebrali chiamati corpora pedunculata (mushroom bodies), che permettono loro di scegliere la strategia più appropriata istante per istante. Si tratta di una complessità che aveva già riempito di meraviglia Charles Darwin: «Il cervello della formica è uno dei più meravigliosi atomi di materia del mondo, forse più del cervello umano».196

In altre parole, anche il cervello delle formiche è dissociato e complesso, con comportamenti coordinati ereditariamente di differente profondità che, come gli input esterni, non sono tutti avvertiti contemporaneamente. Ciò significa che se è vero che le formiche nella loro percezione cercano sostanzialmente cibo e territorio e nient’altro, questa strategia si inserisce in sistemi antichi della loro struttura, che nel passato portavano verso un maggiore successo riproduttivo. E sono, ovviamente, strategie di cui non sono «coscienti». Pulsione di morte – Aumento della fitness Le guerre antiche, alla fine delle quali si uccidevano gli adulti, gli anziani e i piccoli della parte sconfitta e si portavano a casa come trofei di guerra le donne più belle, sono molto illuminanti: Neottolemo, il figlio ormai adulto di Achille, durante il sacco di Troia incontra Andromaca e, affascinato da lei, decide di portarla con sé come schiava. Non prima, però, di aver ucciso il piccolo Astianatte, il figlio bambino di lei e di Ettore. Che senso aveva, per Neottolemo, allevare il figlio di Ettore, quando poteva generare figli suoi con Andromaca? In seguito Neottolemo immola Polissena, la figlia più giovane di Priamo, alla memoria del padre. E gli ateniesi dell’età classica? Il popolo tanto decantato, il migliore, più democratico e colto dell’antichità? Coloro che, come affermava Pericle, anche in fatto di generosità si comportavano in modo contrario ai più perché tenevano la città «aperta anche agli stranieri», e si procuravano gli amici

«non ricevendo benefici, ma facendoli»? Gli ateniesi «costanti nell’amicizia», «benevolenti», che vivevano in una città «aperta a tutti», che «è un esempio di educazione per la Grecia»? Sono gli stessi ateniesi che, racconta Tucidide poche pagine più avanti, finita la guerra con la città di Melo, «uccisero tutti i Meli di età adulta che avevano catturato e resero schiavi i bambini e le donne».197 Il comportamento di Neottolemo e degli ateniesi non era differente da quello degli altri guerrieri dell’età antica. Era quello l’usuale modo di agire dopo una vittoria: come Cartagine con Selinunte, Roma con Cartagine, i visigoti di Alarico con Roma, gli arabi con i visigoti e così via. Anche i siti archeologici offrono la prova delle violenze e delle uccisioni nei villaggi tribali preistorici: i cimiteri dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico sono pieni di persone uccise da randelli, lance, frecce, sfondamento del cranio, armi da taglio che hanno scalfito le ossa. Si tratta di comportamenti che periodicamente riaffiorano: basti pensare alle recenti «pulizie etniche» in alcune regioni europee. La cooperazione all’interno del gruppo, probabilmente, è solo un lato della medaglia, di cui l’altro lato è l’aggressività tra gruppi diversi, la guerra tra bande, il tribalismo, il nazionalismo, il fanatismo, il conformismo sociale, il campanilismo, il razzismo e la guerra.198 Wilson sostiene che l’indifferenza morale con cui la natura ha trovato una strategia evoluzionistica per le specie sociali ci ha portato a essere una chimera evoluzionistica: egoisti o altruisti a

seconda del caso e spesso con i due impulsi in conflitto.199 Nella specie umana il problema è reso più complicato dal fatto che esistono individui intelligenti, attenti, egocentrici, grandiosi, ma affascinanti, con tendenza alla noia e continuo bisogno di stimoli. Questi possiedono un’affettività del tutto superficiale. In questi individui, che chiamiamo «psicopatici», non si sono formati i normali prerequisiti dell’empatia. Non si tratta solo dei serial killer; molti di loro sono corporate psychopaths, psicopatici di successo, i quali, cresciuti in un ambiente favorevole, riescono a sviluppare una notevole competenza sociale e sono in grado di adattarsi all’ambiente, trovando consenso. Per questo riescono a manipolare e a distruggere senza che gli altri se ne accorgano, se non quando è tardi. È una categoria diffusa tra le persone di potere, dall’industria, alla finanza, alla politica. Le loro alte capacità cognitive di solito li mettono in grado di sapere esattamente come devono apparire in determinate circostanze, per cui possono fingere di provare emozioni ed empatia, passando per persone premurose e normali. Se i serial killer rovinano famiglie, gli psicopatici al potere rovinano società. Le risposte a una domanda complessa come quella del perché esista la guerra sono quindi numerose e su più livelli; riguardano i geni, l’epigenetica, l’individuo, la specie e gli aspetti sociali, culturali e politici. Le scelte di Homo sapiens non possono essere ridotte alla manifestazione di una supposta energia libidica, la cui esistenza è portata da Freud come substrato delle pulsioni

sessuali, o a un semplicistico conflitto tra un paio di pulsioni (ce ne sono molte di più). E non derivano neppure da un immaginario conflitto tra pulsioni dell’Io, che permettono di mantenere il proprio organismo in vita, raggiungere la salute, la ricchezza, la pace dei sensi, e quello che Freud riteneva essere il suo contrario, ossia il principio del piacere o la sessualità. Il conflitto tra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali è immaginario; la spinta all’autoconservazione esiste proprio in funzione della riproduzione di cui la più visibile manifestazione è proprio la pulsione sessuale. Contrariamente a quanto pensava il primo Freud, questi sono sistemi che si completano armonicamente l’uno con l’altra, tanto che in biologia evoluzionistica sono accomunati in un unico concetto definito col termine fitness, che sta a indicare la probabilità che un individuo si riproduca. La pulsione di morte elaborata dal secondo Freud, invece, è forse ancora più debole. La sua esistenza non darebbe alcun vantaggio adattativo e porterebbe alla scomparsa del suo portatore. La teoria dell’evoluzione, l’etologia e le neuroscienze affettive ci mostrano che non esiste una pulsione di morte, bensì un’aggressività intraspecifica, che è comparsa ancestralmente (per caso) e si è poi sviluppata, in funzione della vita, in quanto contribuiva all’aumento di fitness, aiutando a sconfiggere competitori nella lotta riproduttiva. L’aggressività non deriva da alcuna «pulsione di morte»: al contrario, si è sviluppata con il desiderio sessuale, in funzione della riproduzione, e quindi della vita. Altruismo

In una specie tanto complessa come la nostra non esiste solo l’aggressività: la specie umana ha ampi margini di scelta e l’evoluzione ha sviluppato altri sistemi psicobiologici, tra i quali quelli che Darwin chiama «gli istinti sociali». Uno degli scopi fondamentali della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a raggiungere una discreta capacità mediatrice tra le varie istanze espresse dalla struttura dissociativa della propria mente. Per questo scopo è necessario acquisire, secondo la definizione di Bromberg, «la capacità di rimanere negli spazi tra realtà diverse»,200 tra le quali assume una particolare importanza il mancato bilanciamento tra il senso dell’io e il mondo esterno, in tutte le forme patologiche in cui si esprime: egoismo, narcisismo, avarizia ecc. La teoria dell’evoluzione ha molto da dire su questi temi, dal momento che l’evoluzione degli istinti sociali è alla base del lavoro di Darwin sull’Origine dell’uomo. La nostra specie è obbligatoriamente gregaria: non c’è stato un momento preciso in cui gli esseri umani sono diventati sociali. Discendiamo da altre specie di scimmie che erano già molto sociali e per le quali la vita comunitaria non è mai stata frutto di una scelta, ma una necessità di sopravvivenza. Il fatto che nel corso delle generazioni, in una specie sociale, gli individui sociali siano avvantaggiati rispetto ai solitari, potrebbe spiegare lo sviluppo della socialità. Frans de Waal recupera il concetto darwiniano degli istinti sociali come sviluppo evoluzionistico: «L’uomo e altri animali sono stati dotati della capacità di provare

autentico amore, simpatia e interesse, un fatto che un giorno potrà essere pienamente conciliato con l’idea che l’autopromozione genetica sia il motore dei processi evolutivi».201 Per lungo tempo il pessimismo romantico ha negato la presenza degli istinti sociali come elemento adattativo e costitutivo della natura umana, ma essi appaiono presenti, insieme agli egoismi, all’aggressività e alla crudeltà. Anche i primi che seguirono Darwin, come Thomas Henry Huxley, non riuscivano ad accettare appieno la visione darwiniana degli istinti sociali e della morale. In seguito e per molto tempo, il divenire di una persona è stato per lo più interpretato in conformità a quello che Martin Seligman chiama il dogma filosofico e psicologico «dell’intima corruzione».202 L’espressione designa in sostanza il sostituto secolare del dogma religioso del peccato originale, una convinzione che propone la corruzione della natura umana come principio di ogni male nel mondo. In sostanza l’essere umano sarebbe privo, fin dall’origine, di qualsiasi virtù morale: qualsiasi atto positivo sarebbe sempre il compenso di azioni maligne o al massimo la diversione di un’energia originariamente orientata al proprio piacere egoistico, a partire da quello sessuale. Per Freud il bene deriva da istinti negativi: «La disposizione sessuale generalmente perversa dell’infanzia può essere considerata come la sorgente di tutta una serie delle nostre virtù, nella misura in cui, mediante formazione reattiva, essa fornisce la spinta a creare tale virtù».203 Molti biologi hanno subito l’influsso di questa visione. Le

due teorie che stanno alla base dell’altruismo – la selezione di parentela, o kin selection, di Hamilton, per cui un individuo si sacrifica per i propri famigliari quando questi possiedono una certa percentuale dei suoi stessi geni204 e l’altruismo reciproco di Trivers, che considera gli atti di generosità come investimenti per ottenere aiuto in futuro – sono state anch’esse lette in chiave esclusivamente «egoista».205 Se queste due teorie vengono interpretate in modo riduttivo non spiegano tuttavia gli atti di generosità e l’altruismo di cui l’essere umano è capace, anche a favore d’individui geneticamente lontani, con i quali non intrattiene alcuna relazione di parentela, e persino di individui di specie differenti, che non potranno restituire nulla in futuro. È possibile che l’altruismo sia nato da una spinta individuale ed egoriferita, ma che poi abbia poi acquistato, una sua identità autonoma.206 Non mi sembra comunque che queste teorie possano precludere l’idea che altre forme di altruismo si siano sviluppate in seguito ai vincoli metabolici che hanno portato alla struttura dissociativa del cervello/mente. Non c’è alcuna evidenza di carattere scientifico che ci obblighi a immaginare la virtù come derivante da una cultura che compensa il male originario insito nella nostra struttura biologica. Siamo sicuri che «occorre cercare di insegnare generosità e altruismo, perché siamo nati egoisti», come scrive Dawkins?207 Siamo certi che non ci sia virtù nelle specie complesse, e in particolar modo nella natura umana? Lo stesso Richard Dawkins nella prefazione

all’edizione del trentennale del suo Il gene egoista ha in effetti corretto il tiro, chiedendo esplicitamente ai lettori: «Per favore, cancellate mentalmente quella frase malandrina e altre simili». Affermare che gli umani sono «nati egoisti» è fuorviante, e l’autore riteneva infine che il suo libro avrebbe potuto intitolarsi altrettanto correttamente «Il gene cooperativo» o «il veicolo altruista» (il veicolo, nel pensiero di Dawkins, è l’individuo).208 Darwin pensava che l’altruismo si fosse formato perché negli ultimi milioni di anni, per le specie sociali, la generosità, l’onestà, il coraggio, la gentilezza e in genere gli istinti sociali si erano rivelati vantaggiosi nel contesto della selezione sessuale: chi possedeva queste caratteristiche aveva secondo lui la capacità di aiutare il proprio partner, i figli e gli altri individui che facevano parte del proprio gruppo.209 Partendo da queste basi, i meccanismi atti a valutare gli stati d’animo degli altri e a intervenire, per esempio con il comportamento di consolazione e l’aiuto mirato, si sono estesi e sono diventati sempre più complessi.210 La presenza nel cervello umano di un sistema specchio, che ci fa soffrire della sofferenza dell’altro, ne sarebbe una conseguenza. Complessità e scelta Uno degli scopi di questo libro è proprio quello di evidenziare che noi possiamo raggiungere una discreta soddisfazione di noi stessi, il sentimento che i greci chiamavano eudemonia, solo scegliendo di sviluppare le

parti migliori della nostra umanità, ossia i sistemi che favoriscono empatia e cooperazione. Non si tratta, però, di conflitto tra principio del piacere e principio di realtà, e neppure di conflitto tra Eros e Distruzione, o tra due gruppi distinti di pulsioni. Dentro di noi ci sono molti sistemi psicobiologici differenti, intrecciati tra loro, che sono relativamente isolabili, ma non sono degli zombie, come fanno notare Koch e Crick, perché la complessità del sistema nervoso richiede il lavoro di tanti sottosistemi contemporaneamente per trovare volta per volta le soluzioni migliori. Ed è proprio questa complessità cerebrale, alla base della nostra multifattorialità mentale, che ci permette gradi differenti di libertà di scelta per seguire il piano d’azione più adeguato alla situazione.211 Le soluzioni che un organismo ha rispetto a un problema dipendono esclusivamente dalla complessità delle sue reti neurali. Ogni singolo individuo ha circa un milione di miliardi di connessioni cerebrali, un cane ne ha mille miliardi, un topo ne ha un miliardo. Gli animali intellettivamente più complessi, avendo più connessioni cerebrali, hanno più soluzioni a disposizione rispetto a un problema. Un essere umano ha a disposizione più soluzioni di una scimmia, che ne ha più di un cane, che ne ha più di un topo. Se con maggiori soluzioni a disposizione s’intende un maggior grado di libertà, ciò significa che l’essere umano è più libero di una scimmia, che a sua volta è più libera di un cane, che è più libero di un topo. La differenza, però, è solo di grado. Come sostiene Edoardo Boncinelli, se proprio volessimo indicare

una qualità, dovremmo scrivere che la vera differenza tra l’essere umano e gli altri animali è che il primo pensa di essere libero, mentre gli altri animali si limitano a esercitare il grado di libertà di cui dispongono.212 Non bisogna dimenticare che gli strati cerebrali evolutivamente successivi si sovrappongono ai precedenti, restando con essi in relazione, il che a sua volta spiega il legame tra il nostro modo di pensare, le nostre emozioni e i nostri istinti più profondi. Ragioniamo molto diversamente quando siamo stanchi, affamati, o eccitati, perché la razionalità è influenzata dalle emozioni che a loro volta risentono degli istinti che dipendono dal metabolismo. Questo legame deriva anche dal fatto che, nel corso del tempo, alcuni sistemi e sottosistemi cerebrali si sono rivelati utili, con qualche modifica, anche per funzioni differenti rispetto a quelle che li avevano selezionati inizialmente. Il nostro pensiero riflessivo, come tutto il resto di ciò che viene elaborato dalla neocorteccia, è intrecciato con il tronco encefalico e quindi con comportamenti più profondi. Davvero possiamo pensare che i vestiti eleganti non abbiano proprio niente a che fare con il piumaggio dell’uccello del paradiso? Questo intreccio è reso evidente dal fatto che perfino la finanza, l’industria, le professioni, lo studio, la letteratura, l’accademia e le scoperte scientifiche sono strutturate su un sistema competitivo di rango, che porta a un aumento di status, che a sua volta incrementa la fitness. Sarebbe però sbagliato eccedere dalla parte opposta con questa interpretazione e dedurre che il comportamento degli

organismi sia sempre indirizzato verso la riproduzione. Gli organismi, e particolarmente gli esseri umani, vanno immaginati come mediatori, alla luce della riflessione e della cultura, di tutti i sistemi – variamente dissociati – di cui sono portatori. È l’insieme intrecciato di differenti sistemi motivazionali, sia di origine biologica sia di origine culturale e sociale, che spingono all’azione e generano, in maniera indiretta, il miglioramento delle condizioni di vita. I sistemi motivazionali sono oggi differenziati e parzialmente autonomi, in misura differente l’uno dall’altro. Lo sviluppo del cervello/mente in una struttura discretamente dissociata ha permesso ai sistemi motivazionali di rendersi relativamente indipendenti, per cui non è scontato che nel singolo individuo le elaborazioni concettuali originino sempre per fini sessuali. Emozioni di base Come abbiamo visto, i sistemi psicobiologici, che le neuroscienze affettive ci fanno conoscere, rivelano un notevole pluralismo che non può essere ridotto alle due sole pulsioni contrapposte, di vita e di morte. Jaak Panksepp, ad esempio, ha descritto sette sistemi emotivi istintualiautomatici di base, di cui i primi quattro, filogeneticamente più antichi, sono presenti anche nei rettili. Si tratta di sistemi misurabili, la cui esistenza può essere analizzata coi metodi della biologia.213 Panksepp li descrive come segue: 1) La ricerca, legata alla dopamina. Si tratta del sistema più grande e pervasivo, che funge da piattaforma per lo

sviluppo del desiderio sessuale. La sua attivazione porta a perseguire ricompense di diversi tipi e fa sentire rinvigorimento positivo, quando non eccitazione euforica, per il piacere di stare al mondo. Negli esseri umani, insieme alle funzioni corticali superiori, fornisce l’energia per la ricerca di valori esistenziali e di costruzione di significato. Un eccesso o una diminuzione dell’attività di questo sistema contribuisce ampiamente alla mania e alla depressione. 2) La collera che, insieme al desiderio sessuale, è legata alla dominanza, mediata da testosterone e vasopressina. Questo sistema può portare a un’irritabilità cronica se viene attivato troppo nell’infanzia, ad esempio nel caso di maltrattamenti e carenze di cura. Il legame con il testosterone è diretto. 3) La paura e l’ansia, legate al cortisolo, che ha un ruolo primario nell’incolumità fisica e nella risposta al pericolo. Insieme alla collera provoca la reazione di «attacco o fuga». La sua eccessiva attivazione nell’infanzia promuove le fobie. 4) Il desiderio sessuale primitivo, legato agli ormoni sessuali, che promuove la riproduzione. In alcuni gruppi di rettili, e soprattutto negli uccelli e nei mammiferi, si sono sviluppati altri sistemi, che si sono integrati con i circuiti neurali superiori. 5) La cura, l’accudimento, l’affetto e l’amore, legati all’ossitocina e all’attivazione della dopamina cerebrale, insieme al sistema degli oppioidi, della prolattina e altre sostanze chimiche ancora da identificare, che si riassume nella devozione materna e nei circuiti di accudimento dei

padri. Si tratta di un sistema che esprime anche legami non sessuali, come l’amicizia. Lo sviluppo della capacità di prendersi cura del prossimo è ritenuto fondamentalmente umano fin dai tempi più antichi. Senza cura, nella specie umana non ci sarebbero società, cultura e civiltà. 6) La sofferenza/panico (tristezza) legata ad alcuni sistemi neurali che producono anche ansia e sofferenza da separazione, e che quindi promuovono il legame di attaccamento. Il bisogno di essere curato e amato non è semplicemente un derivato del bisogno di cura fisica, ma è il bisogno emotivo di un conforto che traiamo dal legame affettivo con chi si prende cura di noi. Un’insufficiente risposta di cura, durante l’infanzia, attiva in maniera prolungata il sistema della sofferenza, causando disturbi cronici dell’umore (depressione e ansia cronica) che possono esaurire le risorse di gioia vitale del sistema della ricerca. La sofferenza è aumentata dal fattore di rilascio della corticotropina e ridotta fortemente dagli oppioidi endogeni, dall’ossitocina e dalla prolattina, ossia dal sistema di cura, con cui il sistema della sofferenza è in stretta relazione. Gli oppioidi endogeni, simili alle sostanze oppiacee che creano dipendenza, mediano le relazioni sociali, tanto da generare dipendenza da coloro con cui si è formato un legame di attaccamento.214 7) Il gioco e la fantasia (la gioia sociale), sistema legato a endorfine e dopamina, molecole che attivano i fattori di crescita neuronale, in particolare nella corteccia e nell’amigdala, promuovendo sentimenti positivi e aiutando

l’individuo a inserirsi appieno nell’ambiente sociale.215 A questi sistemi è probabile che se ne aggiungeranno altri nel futuro. Naturalmente i sistemi di base si combinano tra di loro e con altri stimoli, anche di natura riflessiva e ambientale, per generare le emozioni più complesse. Panksepp e Biven sottolineano esplicitamente come l’idea freudiana delle due pulsioni sia contraddetta dalle neuroscienze, che ormai hanno dimostrato non soltanto l’esistenza di diversi sistemi biologici non sessuali e non distruttivi, ma come si provi piacere anche attraverso sistemi emotivi non sessuali come il legame sociale, il gioco, la cura e la ricerca. Questa pluralità di appagamenti, indipendenti dagli ormoni sessuali, rende oggi poco ragionevole sostenere che tutti i piaceri siano legati alla libido. Il cervello dei mammiferi – e dunque il nostro – è eminentemente sociale. Tutti questi sistemi primari sono considerati da Panksepp «endofenotipi» che si sono evoluti nel corso del tempo e che normalmente si modificano con l’apprendimento, l’uso e la memoria. Sono questi i fattori che diversificano tra di loro i singoli individui, piuttosto simili invece sul piano strutturale fondamentale.216 Questi dati fanno pensare che alcuni nodi filosofici importanti siano oggi da riformulare. La famosa posizione di Thomas Nagel, secondo il quale non possiamo sapere che cosa prova davvero un pipistrello,217 oggi andrebbe ripensata, dal momento che in effetti conosciamo bene molte delle emozioni che provano i pipistrelli, visto che questi mammiferi sociali condividono con noi gli stessi sistemi

emotivi di base. Chi accusa di antropomorfismo gli psicologi animali e comparati ignora che Homo sapiens si è portato dietro, nel corso dell’evoluzione, gli stessi sistemi emotivi di base che hanno gli altri mammiferi sociali. Alla luce della molteplice articolazione del cervello umano, la teoria della motivazione freudiana, basata sull’idea che «il programma del principio del piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana»,218 appare ormai decisamente datata. Eppure su queste basi Freud la riteneva irrealizzabile («gli ordinamenti dell’Universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è previsto che l’uomo sia felice»), ammettendo la felicità solo nel libero e continuo sfogo istintuale allo stato di natura («Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale»).219 Ma sono i presupposti stessi di Freud che non sono validi. Il primo presupposto errato è l’identificazione che Freud opera tra piacere e felicità, due stati della mente che sono assai differenti. Il piacere è dato dall’appagamento immediato; la felicità invece è uno stato molto più complesso. Per gli antichi greci lo scopo della vita era raggiungere uno stato particolare di felicità che essi chiamavano eudemonia. Platone la definisce come scelta di una vita buona, una vita in cui si fuggono gli eccessi e si «pratica sempre sana filosofia». Dunque non qualsiasi filosofia, ma una filosofia sana, che porti ad acquisire «la capacità di discernere la vita onesta e la vita trista», vale a

dire la facoltà di non lasciarsi «impressionare dalle ricchezze e da simili mali», che porterebbero a condotte di tipo tirannico.220 Il secondo presupposto errato della teoria freudiana, quello del disagio della civiltà, è che la vita allo stato di natura sia più felice. Ma gli altri animali, quelli che vivono allo stato di natura, non sembrano di fatto più felici di noi.221 Le grandi scimmie non ci somigliano solo nell’aspetto fisico ma anche nella gioia e nel dolore. E sappiamo dagli studi di antropologia che neppure le tribù di cacciatori-raccoglitori, che vivono in una situazione tecnologicamente meno complessa rispetto all’Occidente industrializzato, sembrano essere più felici.222 Gli anni in cui Freud scriveva Il disagio della civiltà erano quelli in cui Hitler stava per salire al potere in una Germania (e un’Europa) intrisa di razzismo, sessismo e omofobia. Francamente è difficile pensare che fossero anni più civili di quelli che stiamo vivendo ora. Da allora, l’incremento della complessità tecnologica e socio-culturale nel mondo occidentale non ha affatto ridotto le libertà sessuali: anzi, mai c’è stata tanta libertà sessuale come oggi. Anche uno sguardo sincronico conferma che sviluppo socioeconomico e libertà sessuale non sono inversamente correlati, come pensava Freud: nei Paesi islamici, sicuramente meno sviluppati di quelli occidentali, sessuofobia e segregazione sessuale sono pratica comune, mentre in quelli occidentali la cosa, ormai, sembra avviata per diventare un triste ricordo (a meno di capovolgimenti, sempre possibili). Si tratta di una

correlazione confermata anche all’interno delle singole nazioni: per esempio, in certe zone rurali degli Stati Uniti si trovano sacche socio-culturali con tradizioni sessuali conservatrici tra cui, verginità prematrimoniale e omofobia; mentre nelle grandi città costiere, a maggior sviluppo socioeconomico la cosa sarebbe considerata una bizzarria, o una violenza. La pessimistica visione freudiana secondo cui lo sviluppo della civiltà imporrebbe «grandi sacrifici» alla sessualità si rivela contraddetta dai fatti. La privazione della libertà sessuale è solo una delle condizioni di infelicità, non l’unica e probabilmente neppure la più importante: maltrattamenti, malattie, lutti, fallimenti economici ed esistenziali sembrano almeno altrettanto importanti. In particolare, la privazione della libertà sessuale non deriva dallo sviluppo della civiltà, come pensava Freud, ma da complesse tradizioni sociali e religiose. Le scoperte e le opportunità offerte dalla scienza e dalla tecnica (pillola, accesso all’informazione, Internet) aumentano quantità e qualità dei rapporti sessuali. Si tratta di uno sviluppo che ci permette di capire che la libertà sessuale non è affatto quel fattore di disgregazione della società che si immaginava. Sublimazione – Ricerca di status Freud immaginava almeno un piccolo-grande antidoto all’infelicità causata dalla repressione sessuale della civiltà, un rimedio reso possibile dal fatto che la sessualità, secondo lui, era un impulso relativamente maneggevole, che poteva essere deviato verso obiettivi che non erano quelli per i quali

era sorto. L’antidoto era una diversione della pulsione sessuale, che chiamò sublimazione, un meccanismo che sposterebbe la pulsione sessuale verso una meta non sessuale e non aggressiva, come il lavoro e lo studio, favorendo così la società e la cultura. La prima sublimazione, per Freud, deriverebbe dalle minacce paterne di evirazione che costringerebbero il bambino a desessualizzare le tendenze libidiche incestuose e a trasformarle in qualcosa di socialmente accettabile. Anche in questo caso Freud costruisce una psicodinamica completamente sganciata da quella degli altri mammiferi sociali. Fatte salve le eccezioni, il comportamento sessuale delle specie animali è generalmente correlato al grado di dimorfismo sessuale: dove c’è un’elevata differenza morfologica tra maschio e femmina, troviamo spesso gli harem e i maschi dominanti. Nelle specie dove maschio e femmina sono fisicamente simili, troviamo più frequentemente la monogamia o la promiscuità. La specie umana pare essere relativamente monogamica: la maggior parte degli adulti è infatti impegnata in legami di coppia sostanzialmente stabili per un periodo più o meno lungo, pur con evasioni, anche nelle società dove la poliginia è legale. Come abbiamo visto, tra i primati non umani i maschi cercano di aumentare il proprio status e di esercitare la dominanza. Lo status viene utilizzato anche per ottenere maggior disponibilità sessuale, non necessariamente per compensare una mancanza di appagamento sessuale. In uno studio sui macachi si è visto che la frequenza della

masturbazione è incomparabilmente maggiore negli animali di basso rango rispetto a quelli di rango elevato: «Il successo dell’accoppiamento maschile è correlato positivamente con lo status sociale».223 In generale, gli animali dominanti conducono un’esistenza più sana, più comoda e meno stressante dei subordinati. Soprattutto godono di maggiore disponibilità sessuale che, in un ambiente privo di controllo delle nascite, significa riprodursi di più.224 A rigore, non c’è alcun motivo per pensare che nella nostra specie le cose vadano al contrario. Anzi, le ricerche sono concordi nel mostrare che gli uomini che godono di posizioni professionali elevate sposano donne più attraenti in confronto a uomini la cui posizione professionale è di livello inferiore.225 La ricerca di status non è però una questione esclusivamente maschile: nella nostra specie riguarda allo stesso modo il genere femminile: le donne di migliore condizione sociale possono permettersi uomini di status più elevato. Le donne hanno mediamente minore interesse verso la quantità e preferiscono la qualità, probabilmente per via della diversa conformazione dell’apparato riproduttivo che permette loro solo un numero ridotto di figli. Mentre in altre specie la scelta sessuale è prevalentemente esercitata dalle femmine (uno dei motivi per cui la teoria della selezione sessuale di Darwin fu rifiutata per oltre un secolo), nella specie umana è reciproca (se non impedita da situazioni socio-culturali).226 Lo sviluppo della corteccia e il successivo sviluppo della cultura – una sorta di seconda natura – ha creato nuove possibilità per sottrarsi ad antichi vincoli

biologici, regalando ampi gradi di libertà, di cui l’epitome è il controllo delle nascite. Un individuo con una buona posizione, a pari età e caratteristiche fisiche, ha maggiore disponibilità di relazioni sessuali rispetto a una persona di basso grado sociale. Lo status elevato si rivela un fattore tanto potente da riuscire a compensare anche la scarsa avvenenza o il declino fisico dovuto all’età, cioè i fattori fisici considerati per primi dai potenziali partner sessuali. È quindi coerente con questi dati pensare che anche gli esseri umani non perseguano lo status allo scopo di compensare le frustrazioni sessuali, bensì che cerchino la loro elevazione sociale allo scopo di ottenere vantaggi, tra i quali sicuramente quello di godere di una maggiore disponibilità sessuale (a fini subconsci riproduttivi). Tra i fondatori di scuole di psicologia dinamica, chi si era avvicinato di più a queste conclusioni è stato Alfred Adler, il primo allievo scismatico di Freud, che nella sua psicologia considera l’aspirazione alla superiorità come istanza fondamentale negli esseri umani, compensata dalla presenza di un sentimento sociale.227 Lo status è ricercato dal partner sessuale non solo perché offre una vita migliore, ma anche perché è uno dei più potenti indicatori del successo riproduttivo dei propri figli; in altre parole, garantisce di generare prole che a sua volta sarà ambita. Favorire la riproduzione anche dei propri figli è una pulsione biologica, più o meno subconscia, preziosa per ogni specie vivente e ancor più per gli esseri umani, che sono probabilmente gli unici animali pienamente consapevoli

del loro istinto riproduttivo, che fornisce un piccolo senso d’immortalità. L’istinto riproduttivo condiziona l’esistenza di tutti, e in modo particolare del genere femminile per motivi psicofisiologici. È esperienza comune degli psicoterapeuti osservare il dolore delle persone, soprattutto donne, che si avviano verso un’età matura senza essere riuscite ad avere figli. Questa sofferenza svela una motivazione autentica e profonda, un vero e proprio lutto. La riproduzione è anch’essa costruzione di senso e andrebbe considerata in uno schema euristico delle motivazioni, come pure la ricerca di status ad essa correlata. L’ingresso dell’evoluzione culturale nella nostra specie ha completamente cambiato la situazione. Gli esseri umani aumentano il proprio status anche approfittando di pratiche che si sono sviluppate nell’alveo della cultura: pettegolezzo, sicurezza di sé, guida morale, auto-attribuzione di poteri spirituali, capacità linguistiche, esibizioni verbali, gusto per l’arte, letteratura, filosofia, scienza, sport; ma anche beneficienza, il mantenimento della parola data e il tenere fede a un impegno oneroso dimostrando di volere investire in un rapporto. Anche la capacità di mandare un segnale onesto (il «principio dell’handicap») è un modo per ottenere vantaggi: la lunga coda del pavone maschio è uno svantaggio e un grave impaccio per chi la porta se pensiamo ai predatori; ma il fatto stesso che un pavone sia in vita nonostante la sua lunga coda indica il buono stato di salute del suo organismo, che gli ha permesso di sottrarsi ai predatori benché svantaggiato da quell’«handicap», fatto

che a sua volta rende quell’individuo molto desiderabile per le femmine. Nella specie umana avviene qualcosa di simile nel caso dei regali costosi (che segnalano la reale disponibilità economica di chi li fa), degli sport rischiosi (che denunciano un’ottima condizione fisica), ma anche dell’autoironia intelligente di cui è campione Woody Allen.228 Sono tutte pratiche che, tra le altre cose, aumentano lo status all’interno del proprio gruppo, e quindi la fitness riproduttiva. La politica, che è la versione socio-culturale più diretta della lotta per la dominanza, è sicuramente uno dei modi più utilizzati in questo contesto, come esprime bene Mauro Rostagno: Non era possibile portare avanti un’altra linea dove c’ero io, reprimevo il dissenso da dio, a botte di cultura e di potere; accentratore, prepotente, maiale con le donne, approfittavo del fatto di essere il «leader fascinoso», «carismatico» per scoparmi le compagne, con cui ho combinato casini inenarrabili, un «rovinafamiglie» […] Anche la «cultura» (ero un «Pierino» tutti 30 e lode, ai tempi, prima del ’68), le migliaia di libri letti forsennatamente nella mia vita, fin dall’età più tenera, tutto il sapere che ero riuscito a ingerire, non so se a digerire, lo usavo a scopo di mantenere o aumentare le mie posizioni di potere […]. Ci sono voluti anni per chiamarmi maiale anche a me; ma prima si diceva «leader», ed era la stessa cosa.229

Viene da pensare che Darwin avrebbe apprezzato questa autentica self-disclosure di un coraggioso ex dirigente politico di sinistra, un uomo che negli ultimi anni della sua vita si è dedicato completamente alla lotta contro la mafia, tanto da venirne assassinato. Le tendenze umane più profonde sono proprio quelle espresse in questo brano, con brillante intelligenza anticonformista, e senza le inibizioni tipiche delle persone che non hanno mai guardato dentro sé

stesse. Non c’è solo questo; come abbiamo visto, il cervello umano è dissociato e complesso e ci sono naturalmente anche altre motivazioni. Ma elevare il proprio status per aumentare la propria desiderabilità sessuale è un fenomeno comune, che ha radici ancestrali nella nostra natura. Il comportamento di Mauro Rostagno è tutt’altro che un’eccezione nel mondo politico, come risulta chiaro dalla cronaca e dalla storia. Un semplice sguardo disincantato al comportamento sessuale degli uomini che raggiungono il potere politico ci mostra città proibite, lanterne rosse, harem, ginecei, centinaia di cortigiane/i, concubine/i, amanti bellissime/i: «Scoppieranno guerre per gli occhi delle donne», scriveva Jack Kerouac in Angeli di desolazione; ma le evidenze sono che la sessualità ha sempre giocato un ruolo tutt’altro che secondario nelle guerre, fin dalle scorribande dei villaggi pre-statuali per rapire le donne degli altri villaggi: la guerra di Troia e il ratto delle sabine non sono solo letteratura. In tutta la storia umana i vincitori si sono presi le donne dei perdenti come prede ambite: stupri di massa, schiave sessuali, nuove mogli, rapimenti di ragazze innocenti e comfort women erano e sono parte indissolubile della guerra. Il «Sé grandioso» di capi militari e di governo porta a schiacciare le altre popolazioni e conquistare nuovi territori anche per gli occhi delle donne. Ma la storia passata e le cronache contemporanee ci permettono di verificare, quasi quotidianamente, che la competizione per l’accesso sessuale non è una cosa che riguarda solo gli uomini di potere, ma è presente, sia pur in misura diversa, in ogni

essere umano. A causa dell’asimmetria riproduttiva, le donne sono un bene prezioso: mentre un maschio può fecondare molte donne, una donna può partorire al massimo un figlio ogni anno. Questa asimmetria, onnipresente nel Regno animale, unita al relativo dimorfismo sessuale della nostra specie, spiega la nascita e lo sviluppo della tendenza maschile a competere, anche con la violenza, per riprodursi. Ma naturalmente non giustifica la violenza: gli esseri umani hanno raggiunto uno sviluppo della corteccia cerebrale che permette loro di riflettere su se stessi e di inibire eventuali pulsioni prevaricatrici. Il capovolgimento freudiano delle cause con gli effetti (lavoro, cultura, ricerca dello status per sublimare la scarsa disponibilità sessuale) si spiega ancora una volta con la sua modesta comprensione della teoria darwiniana. Dopo la teoria patogenetica delle fantasie incestuose al posto dei maltrattamenti infantili, qui abbiamo la sublimazione del sesso come spiegazione dell’origine della civiltà, senza alcuna spiegazione del motivo per il quale in Homo sapiens le cose dovrebbero andare diversamente rispetto agli altri primati. Oggi, a un secolo di distanza da Freud, conosciamo il comportamento dei primati in natura e vediamo meglio la debolezza dell’impostazione freudiana. D’altra parte è addirittura la letteratura a mostrarci l’importanza dello status per il successo sessuale. È forse un caso che la celeberrima frase: «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere

in cerca di moglie», con cui Jane Austen inizia Orgoglio e pregiudizio, colpisca tanto nel segno, da essere considerato uno dei più efficaci incipit mai scritti nella storia della letteratura? È così strano pensare che perfino il ritiro sullo studio, o sul lavoro, in seguito a frustrazione amorosa o sessuale, possa contenere il desiderio subconscio di un ulteriore aumento di status? Tutt’al più la ricerca di status, in un cervello discretamente dissociato come quello umano, può perdere (in alcune situazioni) il suo legame originario con la sessualità, ma il processo con cui si manifesta, generalmente, è quello. Se ammettiamo che l’evoluzione abbia strutturato l’organismo umano e fornito i prerequisiti della vita sociale, dobbiamo anche accettare il fatto che lavoro, politica, scienza e cultura non nascono per sublimazione di una sessualità insoddisfatta. Al contrario, qualunque forma di civilizzazione, a partire dall’educazione individuale, risente anche della ricerca di status da parte di una grande quantità di persone. In sostanza Freud mal interpretava la sessualità su almeno sette punti fondamentali: 1) L’attività sessuale ludica e sociale, apparentemente non riproduttiva, è una strategia riproduttiva che si è evoluta nella nostra specie e che è condivisa con altre specie ad ovulazione nascosta, e funziona meravigliosamente bene nel garantire la riproduzione. 2) La sublimazione ribalta l’ordine degli eventi: si ricerca lo status anche per scopi sessuali, non per sublimare una sessualità insoddisfatta. 3) Freud dà più importanza alle fantasie

sessuali che agli eventi reali traumatici. 4) Propone una personale teoria dello sviluppo sessuale infantile, sulla base della legge della ricapitolazione filogenetica di Haeckel, che oggi non è più considerata valida. 5) Afferma che la sessualità si sviluppa in due tempi, con un periodo di latenza la cui esistenza non è mai stata dimostrata da ricerche indipendenti. 6) Sostiene contro ogni dato sperimentale che l’esplosione biologico-sessuale della pubertà sia causata dalle spinte sociali, che ritardano lo sviluppo sessuale a causa della barriera dell’incesto. In questo modo, la società e la cultura avrebbero provocato nella specie umana delle «alterazioni biologiche della vita sessuale», temendo la forza disgregatrice della sessualità. 7) Anche senza negare l’importanza della sessualità, i fattori motivazionali dell’essere umano risultano comunque numerosi, multilivello, e discretamente dissociati. Il piacere originato dal loro appagamento non è di tipo sessuale perché deriva da mediatori chimici differenti. Le posizioni di Freud sulle donne, sulla sessualità femminile, sulla masturbazione, l’omosessualità e la libertà sessuale (per lui incompatibile con la società) riflettono il pensiero del tempo e non hanno fondamento scientifico. Risulta difficile accoglierle, tanto più oggi, a un secolo di distanza. Transfert – Attaccamento Transfert, o traslazione, è il concetto più complesso da definire di tutta la psicoanalisi dal momento che ha subito

una forte evoluzione già nel pensiero di Freud e ha assunto un’estensione differente per autori diversi in seguito. Come osserva Ellenberger, il termine transfert indicava il fenomeno già noto come «rapporto», che Janet aveva già riproposto all’attenzione della comunità scientifica. L’innovazione di Freud non consiste nell’aver introdotto la nozione di traslazione, ma nell’idea di analizzarla come strumento fondamentale in terapia.230 Per permettere l’analisi Freud ritenne di dover negare qualsiasi valore di autenticità al rapporto affettivo tra paziente e analista, interpretando un rapporto del genere come una resistenza e una ripetizione del legame affettivo infantile con le figure parentali. Con il transfert, il paziente «inserirà il medico in una delle “serie” psichiche che il paziente ha formato sino a quel momento».231 Nel corso dell’evoluzione del pensiero freudiano, il transfert diventa via via più centrale poiché la sua analisi permetterebbe di rivedere il passato nel presente, per poi superarlo. Nel legame transferale i sentimenti possono essere positivi o negativi, a seconda della storia del paziente, che rivive parte della sua vita passata nel rapporto analitico, dove il terapeuta lo aiuta a «rendersi conto che quella che gli appare come realtà è, in effetti, soltanto l’immagine riflessa di un passato dimenticato».232 Complementare al transfert del paziente è il controtransfert dell’analista, cioè quell’insieme di sentimenti che sorgono in lui nei confronti dell’analizzando, stimolati dal transfert del paziente. Il legame tra analista e paziente non sarebbe dunque autentico

e non dipenderebbe da loro, ma dalla situazione analitica che riproduce la dipendenza adulto-bambino. Viene in mente Tristano che cerca di dimostrare all’eremita Ogrin che l’amore di Isotta non è vero: «Mi ama soltanto a causa di un filtro».233 Il setting analitico sarebbe ciò che per Tristano e Isotta era il filtro, una situazione che creerebbe automaticamente un falso sentimento. Lo scrittore svizzero Denis de Rougemont, nel suo illuminante saggio L’amore e l’Occidente, sostiene che Tristano, con questa negazione, sembra comprendere che tutto ciò che contraddice e confuta un legame è in realtà la sua tutela, un’osservazione che ci fa riflettere su come lo stesso infinito lavoro di analisi del transfert finisca col prolungare una situazione già di per sé suggestiva. All’interno dello stesso mondo freudiano si è discusso sul fatto che uno dei motivi per cui era stata teorizzata l’inautenticità di una situazione emotiva di coinvolgimento tra una donna analizzata e il suo analista derivasse anche dalla ricerca di una via d’uscita da una situazione imbarazzante, che avrebbe potuto causare problemi personali e professionali: «Il medico che sperimenta questo evento per la prima volta fatica a tenere in pugno la situazione analitica», scrive Freud, paragonando l’insorgere del transfert al grido d’allarme durante una rappresentazione teatrale.234 Se così stanno le cose, viene da domandarsi se sia davvero necessario negare l’autenticità di un sentimento per evitare di agirlo. Ci sono molti motivi di opportunità, di lealtà, di professionalità, anche inerenti lo

stesso lavoro che si sta conducendo, che sono di per sé sufficienti a dissuadere da comportamenti fuori luogo in una situazione terapeutica. La negazione della verità del sentimento, ossia l’affermazione che l’amore di transfert non è amore, inevitabilmente porta nel corso del tempo alla negazione della verità dell’amore stesso, cioè a ridurre ogni amore, salvo il primo con la madre, ad amore di transfert.235 È stato John Bowlby a portare nella psicologia le prove del fatto che i bisogni di attaccamento persistono per tutta la vita, capovolgendo in questo modo il pensiero freudiano sulla questione. Inevitabilmente, se una persona ha bisogno di attaccarsi a figure significative, significa che il sentimento affettivo nei confronti del terapeuta non è un’inautentica e nevrotica regressione alla dipendenza infantile, ma una fisiologica riattivazione dei bisogni di attaccamento in un rapporto importante, soprattutto là dove si trovano protezione e conforto. Senza la capacità da parte del terapeuta di dare risposte empatiche ai bisogni di attaccamento del paziente non c’è alcuna possibilità di recuperare nell’altro quell’autostima che è il fondamento che lo aiuterà a ritrovare sicurezza esplorativa interna ed esterna, e costruire un senso per la propria vita. È quindi necessario che l’alleanza terapeutica sia una base sicura per il paziente, necessaria ad aiutarlo a modificare modi di essere che si sono rivelati inadeguati. È ovvio che in quest’alleanza il paziente traumatizzato riproporrà gli schemi organizzativi che ha interiorizzato da bambino,

magari a causa del rifiuto, della derisione, dei maltrattamenti e dei modelli educativi vissuti nell’infanzia. Il rapporto affettivo terapeuta-paziente è anche l’occasione per riparare uno schema di attaccamento che si era attivato in maniera negativa. Le diverse modalità di attaccamento da parte del paziente non sempre sono inconsapevoli. Il terapeuta ha la possibilità di riconoscere la loro origine e in una certa misura di agire su di essi, portando i modelli operativi inadeguati all’attenzione critica e riflessiva del paziente.236 Interpretazione – Narrazione Il cambiamento

L’interpretazione è probabilmente uno dei più gravi errori di Freud, e senz’altro quello che si è maggiormente diffuso. Non solo l’interpretazione elaborata con tecniche freudiane, ma il fatto stesso di ritenerla un elemento centrale del lavoro terapeutico e il principio attivo del cambiamento del paziente. Se l’interpretazione assume valenza centrale, la stessa psicologia dell’inconscio diventa infatti una psicologia superficiale, una relazione terapeutica anaffettiva, che crede di affrontare complessità emotive interne utilizzando unicamente un intervento cognitivo esterno. Sempre più terapeuti oggi comprendono che le grandi ferite del subconscio guariscono soprattutto per vie subconsce, da cui l’affettività non può essere esclusa. Freud, come abbiamo visto, immaginava invece la psicoanalisi come un sistema

teorico razionalizzante che esprimeva con la celeberrima frase poi divenuta l’epitome della psicoanalisi: «Dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io».237 Il racconto («l’interpretazione») ha invece solo la responsabilità di una parte del cambiamento del paziente, e neppure la più rilevante, dal momento che il maggior fattore di regolarizzazione affettiva si sviluppa nel rapporto profondo tra il reciproco subconscio del terapeuta e del paziente. Piuttosto che «interpretare» i temi affettivi, di fatto negandoli, è meglio lavorare sulle modalità con le quali vengono manifestati, sulla funzione di realtà, sulle capacità di mediare, gestire e far fronte ai propri sentimenti. Inoltre, l’interpretazione esprime una visione dell’individuo basata sul determinismo psichico, ossia la credenza che tutte le nostre azioni, idee e sentimenti, sono determinate da avvenimenti accaduti in vita. La teoria dell’evoluzione, lo sviluppo della biologia moderna, le varie branche in cui si articolano le neuroscienze, in particolare la neurobiologia molecolare e le neuroscienze cognitive e affettive, hanno ormai sconfitto l’idea che la mente nasca come una tabula rasa e provato che la nostra affettività e i nostri modi di essere, sia normali sia patologici, sono influenzati dalle funzioni biologiche. Tutto ciò sancisce di fatto la morte del determinismo psichico, che tuttavia sopravvive ancora presso molti psicoanalisti. La memoria emotiva e quella episodica viaggiano su binari separati: mentre la prima è già presente alla nascita, la seconda ha bisogno di circuiti neurali che si formeranno

solo dopo la prima infanzia (generalmente dopo i due anni), per cui la maggior parte degli eventi che strutturano la personalità avvengono senza che sia stato possibile ricordarli. Di nuovo, il ruolo dell’interpretazione in questi contesti è piuttosto dubbio. L’interpretazione è basata sull’ipertrofia simbolica, ovvero sull’idea che qualcosa significhi sempre qualcos’altro, che – come faceva notare Janet – risulta sempre utile a confermare la teoria. Un ulteriore motivo (il quinto) che rende l’interpretazione problematica è il fatto che Freud riteneva che una presa di coscienza e una rielaborazione delle fantasie traumatiche fosse l’elemento decisivo nella risoluzione dei sintomi del paziente, mentre oggi i terapeuti sanno che la conoscenza dell’origine di un comportamento non è sufficiente a modificarlo. Occorre un riconsolidamento, una ristrutturazione della memoria emozionale, che non è ottenibile esclusivamente con una talking cure (cura tramite la parola). L’ultimo motivo è che l’interpretazione per Freud è lo strumento unico del terapeuta, che invece, per operare bene, deve averne molti a sua disposizione, per rispondere con interventi multilivello a problemi multifattoriali. Freud era troppo ottimista sulla possibilità di cambiamento e di cura per mezzo delle sue interpretazioni. La prima consapevolezza di un terapeuta deve essere quella di avere chiara la distinzione tra situazioni in cui si possono ottenere miglioramenti e maturazioni (ad esempio, fobie o

attacchi di panico) e quelle dove il lavoro consiste soprattutto nell’evitare che il paziente si procuri troppi danni (come in certi disturbi della personalità). La seconda è che un cambiamento strutturale della personalità in pochi anni non è comunque facile, perché la parte profonda del Sé nucleare è scolpita nei sistemi sottocorticali della linea mediana, che sono collocati nel tronco encefalico superiore, un luogo difficilmente accessibile.238 Sono proprio questi antichi sistemi che generano le risposte emotive che esprimono la parte profonda del nostro carattere. La terza caratteristica di cui occorre essere consapevoli è ancora più importante e va dichiarata al paziente stesso: nessuna psicoterapia può impedire alla memoria emozionale di farsi sentire, di tanto in tanto, e di «far male». La costruzione del senso aiuta a rendere le emozioni meno impetuose e violente; il rapporto terapeutico e l’apertura all’empatia forniscono nuove esperienze emotive che nel tempo attenueranno alcuni effetti dei traumi; lo scorrere del tempo permette la costruzione di nuove connessioni che potranno inibire la frequenza e l’intensità di alcuni automatismi tramite lo sviluppo di un controllo ricorsivo sulle espressioni emotive, ma puntare al superamento pieno e definitivo delle emozioni veementi è ancora un lavoro in corso. Tuttavia alcune tecniche di approccio multimodale per il riconsolidamento dei ricordi dolorosi sembrano promettenti, e altre se ne svilupperanno. A questo proposito sembra importante la capacità di riconsolidamento, da parte dei terapeuti, dei ricordi dolorosi del paziente tramite un

alleggerimento affettivo, con un sense of humour misurato, partecipativo, centrato e bilanciato. Sembrano promettenti anche nuovi farmaci. Fatte salve queste precisazioni, la guarigione di alcuni sintomi, l’evoluzione culturale e psicologica, l’aumento della capacità di introspezione profonda e la maturazione etica (con la promozione e lo sviluppo delle emozioni prosociali di cura e empatia; sofferenza e affetto; gioco sociale gioioso, leale, cooperativo e creativo) sono obiettivi attualmente percorribili in psicoterapia. Le persone affette da disturbi di personalità ottengono risultati meno soddisfacenti, ma possono comunque compiere anch’esse passi importanti e cercare di procurarsi minori danni. L’ambiente emotivo

Il modello originario freudiano immaginava le guarigioni in seguito a una qualche interpretazione dell’analista, in grado di schiudere una porta serrata, permettendo così l’accesso al rimosso (che spesso consisteva in «terribili» fantasie sessuali, di solito incestuose o aggressive, che avrebbero nevrotizzato il paziente). Scopo della psicoanalisi era quello di rendere cosciente l’inconscio, intendendo in particolare la consapevolezza dei conflitti interiori tra pulsioni sessuali, aggressive, difese, transfert, paura della castrazione e adeguamento al sociale. Da tempo nel complesso mondo freudiano, composto da innumerevoli scuole differenti, che spesso hanno ben poco in comune tra loro se non il culto del maestro e la difesa della corporazione, si rifiuta l’idea che l’obiettivo della cura sia il

miglioramento dei sintomi. Scopo della psicoanalisi, oggi, è un cambiamento strutturale della personalità. Purtroppo, però, nella valutazione di questo cambiamento profondo entrano in gioco elementi autoreferenziali. Duecentocinquant’anni di storia della psicoterapia moderna ci mostrano che il cambiamento del proprio modo di essere e di porsi nel mondo sono sostanzialmente indipendenti dalle interpretazioni di scuola e dal modello di riferimento. Al congresso di medicina di Londra del 1913, di fronte agli psicoanalisti che rivendicavano la validità della psicoanalisi vantando i miglioramenti dei loro pazienti, Janet aveva osservato che le persone possono ottenere risultati con i più svariati metodi senza che ciò provi nulla sull’efficacia di singole pratiche; il magnetismo animale di Mesmer aveva curato migliaia di pazienti; così anche la suggestione nello stato vigile, che la scuola di Nancy diretta da Bernheim aveva chiamato psicoterapia; lo stesso era accaduto con l’ipnosi, praticata da Auguste Forel e in seguito da tanti altri. Ancor prima, e a fianco, dello sviluppo della psicoterapia moderna sono prosperate innumerevoli istituzioni e pratiche che trasformavano le persone: i templi di Esculapio, le preghiere e gli esorcismi di una grande Chiesa istituzionalizzata, le meditazioni di una disciplina spirituale orientale o i riti di una setta occidentale. Decine di migliaia di persone sarebbero pronte a giurare di essere cambiate con modelli diversi e in forte competizione tra loro: religiosi, freudiani, junghiani, adleriani, cognitivi, bioenergetici… Quasi il trenta per cento della popolazione si

affida alla medicina omeopatica – cioè a farmaci senza alcun principio attivo – convinta di trarne beneficio. Tuttora nessuno può avere certezze sulle ragioni per cui le persone migliorano e cambiano atteggiamenti e comportamenti utilizzando approcci e pratiche terapeutiche tra le più disparate, anche se proprio questa diversità di approcci fa pensare che i motivi non abbiano strettamente a che fare con interpretazioni e approcci delle diverse scuole. La situazione è talmente evidente che già nel 1936 lo psicologo americano Saul Rosenzweig era stato portato a illustrare i risultati delle diverse scuole di psicoterapia con il famoso «verdetto del dodo» (dodo bird verdict). Il dodo è un uccello (estinto) che, in Alice nel paese delle meraviglie, interrogato su chi fosse arrivato primo in una corsa di tre partecipanti che sostenevano tutti di avere vinto, rispose: «Tutti hanno vinto e tutti devono ricevere il premio».239 Il verdetto del dodo in psicoterapia è poi diventato oggetto di discussione dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. Ci sono motivi che fanno ritenere che il verdetto del dodo non sia poi così surreale. Oggi vi è una sostanziale convergenza sull’idea che la qualità della relazione terapeutica, unico fattore comune a tutti questi diversi modelli, sia uno dei principali fattori predittivi e curativi in psicoterapia, se non il principale.240 Lo sviluppo delle conoscenze viene a dare infine ragione a Pierre Janet che, all’inizio del Novecento, sosteneva che la guarigione dipende soprattutto dal rapporto (rapport). Il concetto di rapport, denominato «alleanza terapeutica», com’è avvenuto per

tante altre nozioni centrali della psicologia, è stato riscoperto in maniera indipendente soltanto nella seconda metà del secolo scorso.241 L’alleanza terapeutica non è solo il fattore comune a diverse scuole di psicoterapia, ma si ritrova anche in quei percorsi estranei al mondo psicoterapeutico, come le religioni e le pratiche pseudoscientifiche che riescono a incidere positivamente sui disturbi psicologici della persona. La stessa psicoanalisi classica ha verosimilmente ottenuto i suoi successi col rapporto, pur negandolo. La consapevolezza del ruolo terapeutico dell’empatia allontana dalla classica visione freudiana dove gli aspetti relazionali del rapporto venivano interpretati esclusivamente come elementi transferali da sciogliere, la principale manifestazione della «malattia» da guarire. In tempi passati si era arrivati a tali livelli di negazione dell’affettività analitica che possono essere efficacemente riassunti in una frase di Cesare Musatti che ho avuto occasione di udire durante una sua conferenza: «Considero il paziente davvero guarito quando, anni dopo la fine dell’analisi, non ricevo più i suoi auguri di Natale».242 Non voglio credere che in seduta gli psicoanalisti freudiani fossero così distanti e cinici come appariva dai loro interventi e dai loro scritti. Quel che è certo è che da tempo, ormai, diverse scuole relazionali in psicoanalisi si trovano d’accordo nel ritenere che l’analisi sia soprattutto un incontro autentico tra due persone. I pazienti vivono le interpretazioni e la stessa ritualità delle sedute come una

forma d’interesse del terapeuta e sono questi gli elementi che creano accudimento e rassicurazione, e che diventano l’elemento centrale inconscio dell’analisi, creando le condizioni per la trasformazione positiva.243 Interpretare fantasie, sogni, lapsus e transfert, permettere al paziente di affrontare fantasie sessuali «insostenibili», far riemergere traumi alla coscienza: oggi non sembrano più questi i principali fattori della cura. L’orientamento sta sempre più mutando anche nel complicato mondo psicoanalitico. Il cambiamento, come affermano Fonagy e Target, non deriva da «interpretazioni» e dal recupero della memoria episodica, ma dal cambiamento dei modelli di valore e degli schemi comportamentali, da un’evoluzione dei modi di vivere con se stessi e con altri.244 Qualcosa che significa, per usare il linguaggio del neuropsicologo affettivo Allan Schore, la maturazione del cervello destro, che è un sistema non verbale, attraverso meccanismi non verbali e non linguistici, che sono il cuore del processo di trasformazione.245 Il cambiamento terapeutico, secondo Fonagy, non avviene con il recupero del rimosso, elemento che in nessun caso dovrebbe essere considerato curativo, ma proprio con l’esperienza di «Sé con l’altro». Per lui la psicoterapia è più una costruzione attiva di un modo di sperimentare se stessi con gli altri che la narrazione ricostruttiva di un passato rimosso.246 È proprio il Sé con l’altro, non l’interpretazione, che permette l’esposizione a quelle esperienze emotive che

correggono modi di essere inadeguati. Come sostiene Frans de Waal, l’empatia è la forma originaria prelinguistica del rapporto interindividuale, che ha subito l’influenza della cultura solo in un secondo tempo.247 Per questo motivo i danni causati da una cattiva empatia non possono che essere riparati empaticamente. L’esperienza di sé con l’altro nei momenti d’incontro favoriti dall’alleanza terapeutica deve però essere vissuta all’interno di una situazione autentica, senza l’enfasi di una strategia accudente di tipo manipolativo. Per questo motivo, come osservano Liotti e Farina, il terapeuta deve avere sufficiente esperienza per riuscire a passare, nei momenti opportuni, dall’attaccamento alla cooperazione e viceversa, tenendo presente che la maggior parte del lavoro deve essere dedicato alla cooperazione.248 Oggi, quindi, si tende a vedere il punto di svolta della terapia in «qualcosa in più» della comunicazione verbale, qualcosa che avviene nella stessa conoscenza relazionale terapeutica. Una relazione che, nel corso del suo sviluppo, permette l’emersione di momenti d’incontro, momenti significativi che portano a un’espansione della coscienza.249 Questi momenti sono fondamentali per permettere al paziente di ristrutturare le conseguenze di cure inadeguate e traumi del passato e vanno favoriti anche attraverso la selfdisclosure, il processo in cui l’analista rivela qualcosa di se stesso. Senza «qualcosa in più» delle pseudo-interpretazioni, senza partecipazione affettiva e riparativa del terapeuta, è difficile trasformare davvero il mondo interiore e il contesto

intersoggettivo del paziente. Come osserva Lingiardi, la figura raccomandata da Freud dell’analista-chirurgo «che mette da parte tutti i suoi affetti e perfino la sua umana pietà» oggi, fortunatamente, non è più concepibile.250 Occorre anche essere eclettici nel modo di condurre l’analisi. L’approccio terapeutico non rigido, indicato da Janet, che non disdegnava neppure tecniche di intervento che oggi chiameremmo cognitivo-comportamentali, appare ancora il più convincente e attuale. Il terapeuta deve rimanere in una situazione di equilibrio: accettare la responsabilità del rapporto e non negare il bisogno di direzione del paziente, ma allo stesso tempo incoraggiare le persone a vivere autonomamente, diminuendo la propria importanza. La maturazione etica e responsabile dei pazienti sembra indispensabile per integrare le parti dissociate della personalità. Per Janet, dunque, il perfetto rapport appare la pietra filosofale della psicoterapia.251 È certo necessario un delicato lavoro sugli aspetti traumatici della propria storia, che usualmente sono ben presenti e praticamente mai rimossi. Si tratta di una condivisione che crea appunto rapport: un insieme di emozioni che comprendono attaccamento, condivisione autentica, cooperazione. Queste forme relazionali sono il presupposto indispensabile per il recupero della stabilità psicologica. Lavorare per fasi certamente aiuta: prima stabilizzare il paziente, stabilire l’alleanza terapeutica, aiutarlo a mettersi in condizione di sicurezza. Poi identificare

ed elaborare eventuali memorie traumatiche, e comunque lavorare sulla qualità della vita passata per cercare di elaborarla. È naturalmente necessario rendere le memorie traumatiche meno travolgenti dal punto di vista emotivo, costruendo una narrazione più neutrale e dotata di senso per riuscire a integrare le parti dissociate in una personalità più ampia e consapevole. Infine il paziente va aiutato nel suo comportamento esplorativo per realizzare, per quanto possibile, la sua eudemonia. Si tratta di fasi che non vanno interpretate rigidamente, e che tendono a ripetersi a spirale nel percorso evolutivo del paziente. Il racconto

Tuttavia l’elemento emotivo ha il limite di essere vacuo se non viene orientato da un racconto, anzi dal racconto. Mentre Freud privilegiava l’interpretazione per svelare pseudoverità che abitavano il paziente, la tendenza che propongono le scuole relazionali e cognitive è quella di costruire col paziente una storia che dia senso alla sua storia, passata e presente, e che lo aiuti nella creazione del proprio futuro. In psicoterapia, il livello emotivo e quello cognitivo sono come i due poli di un magnete. Occorre però essere consapevoli che il racconto, per usare le parole di Bromberg, «non veicola semplicemente il significato, ma lo crea come esito di un processo relazionale».252 L’aspetto negativo di questa creazione comune di significato è che lo pseudo-mascheramento di «fantasie incestuose», l’«accesso al numinoso», la mitologia di un culto e la sobria

ricostruzione della storia di un paziente hanno un valore terapeutico troppe volte simile. Questo non autorizza a presentare qualunque narrazione al paziente, come se tutte fossero di pari valore. Al contrario, una psicoterapia seria deve integrare le componenti emotive e somatosensoriali dissociate del paziente con la costruzione di un racconto che sia il più verosimile possibile a quanto avvenuto in passato: sarà quest’elaborazione, infatti, a dargli, per anni, una nuova identità. Si tratta di una narrazione che deve avvenire (a) nella consapevolezza dei limiti della memoria del paziente, (b) tenendo presente che gli episodi davvero importanti spesso non sono rammentabili perché sono avvenuti con un cervello troppo poco connesso, che non era ancora in grado di fissarli e (c) conoscendo la naturale tendenza del cervello all’inganno e all’autoinganno, strategia particolarmente aggressiva e presente in tutto il mondo animale.253 L’autoinganno è continuo nel cervello umano254 e non colpisce solo il paziente, ma anche il terapeuta che cerca di costruire un racconto nel quale tutti i tasselli si incastrano secondo il proprio modello di riferimento. Tuttavia un racconto terapeutico esprime differenti gradi di probabilità ed è sempre bene mantenere un certo grado di dubbio, ricordando che il racconto può funzionare, anche quando errato, proprio perché è funzionale al vero agente terapeutico che filtra attraverso le modalità inconsce in cui si esprime il legame con il terapeuta, tra cui l’attaccamento, l’empatia e la cooperazione.

Questo è un punto particolarmente importante perché si legge ancora troppo spesso che un disturbo è stato determinato da un particolare trauma, mentre tutt’al più possiamo dire che sembra essersi manifestato successivamente a un trauma (e neppure di questo possiamo essere sicuri, per via dei disturbi della memoria). In alcune situazioni le conseguenze del trauma possono anche essere preponderanti, ma è bene ricordare che, anche in psicoterapia, correlazione non significa causalità, e che potrebbe anche trattarsi di coincidenza, occasione scatenante, o costruzione ad hoc. La psicologia ingenua di cui siamo dotati, ci spinge verso facili attributi di causalità che non saremo mai in grado di verificare e che diamo per scontati; è una spinta emotiva a cui non è facile resistere. Una strategia da contrappore a questa tendenza è la consapevolezza del fatto che ogni problema umano si inserisce in una complicata miscela composta dalla nostra natura biologica e dalle condizioni in cui sono stati attivati i sistemi emotivi e cognitivi durante la prima infanzia. È questa unità biologia/ambiente che forma la struttura, quel carattere che, come diceva Eraclito, diventa il destino di un individuo: sono le condizioni iniziali che causeranno problemi e sofferenze per il resto della vita. Se non rendiamo il paziente consapevole dell’aleatorietà delle nostre supposizioni riguardo agli attributi di causalità, forse realizziamo comunque un’azione terapeutica, ma certamente cadiamo vittime di ingenuità e precipitiamo nell’inautenticità.

3. La fonte dell’etica «Dovere! […] Quale origine è degna di te?». Immanuel Kant «Il problema di che cosa ora, soprattutto nel contesto dato, sia propriamente il bene e perché lo si debba incondizionatamente fare, anche persino a proprio danno, questo problema di fondo si presenta per lo più senza risposta». Joseph Ratzinger, Benedetto XVI

L’origine dell’etica La questione del corretto bilanciamento tra spinte egoiste e altruiste è centrale nella psicoterapia. La teoria, l’approccio e la pratica di uno psicoterapeuta cambiano a seconda che egli ritenga che la morale provenga dalle convenzioni sociali, dalla «legge del padre», da comandamenti divini oppure trovi la sua base in precursori psicobiologici innati presenti in ogni individuo. La filosofia e la teologia si sono interrogate per millenni sulla grande questione dell’origine dell’etica rimanendo su un piano esclusivamente culturale. Ancora oggi filosofi, teologi e psicologi non sentono il bisogno di andare a vedere se la scienza ha qualcosa da dirci su questi temi. Heidegger scrive che «la scienza non pensa» e che pertanto non può dare risposte utili sui grandi temi della vita, che richiedono la capacità di raggiungere altezze a cui può accedere soltanto il «pensiero meditante» della filosofia e non quello «calcolante» della scienza.1 Tuttavia è proprio grazie al lavoro di Charles Darwin, uno studioso che utilizzava il misero «procedimento oggettivante», che oggi sappiamo che i precursori della

morale si sono formati nel corso dell’evoluzione e sono scolpiti nel nostro sistema mente/cervello. Dalle cure parentali alla consonanza empatica di intenzioni, la moralità umana non si sviluppa dal nulla […]. Le condizioni di possibilità del giudizio morale vengono dal basso, non dall’alto di un principio trascendentale o dogmatico […]. Il giudizio morale ha le sue basi nell’evoluzione della natura umana, pur mantenendo un carattere di specificità umana».2

In un certo qual modo potremmo dire, seguendo la citazione di Telmo Pievani, che la genetica è la genesi dell’etica. Biologia della morale Con un geniale colpo d’ala, Darwin ha cambiato radicalmente la visione dell’essere umano, argomentando le proprie teorie in scritti che conservano, a distanza di un secolo e mezzo, una vitalità straordinaria. Non ci si stupisce mai abbastanza del fatto che la sua opera sia così tanto citata e contemporaneamente così poco letta. Attribuire le basi della moralità a un insieme di istinti sociali e alle parti cognitive del sistema mente/cervello, invece che a Dio o a una «legge del padre», è una rivoluzione antropologica epocale, e risale al 1871. Nel quarto e nel quinto capitolo dell’Origine dell’uomo Darwin sostiene che l’etica trova le sue basi nel corso dell’evoluzione come conseguenza dello sviluppo degli istinti sociali, a partire dai vincoli famigliari che uniscono gli animali sociali complessi. Insieme al successivo sviluppo delle facoltà mentali, necessarie per riflettere su se essi, questo sistema ha fornito i precursori dell’etica nel genere umano.

Tutto deriva dal fatto che per la sopravvivenza di un animale sociale è necessario che siano vivi anche altri animali della sua stessa specie. I singoli individui si trovano a dover badare non soltanto alla propria vita, ma anche a quella degli altri, a cominciare da quella dei parenti stretti. Gli istinti sociali sono un potente alleato in questo compito. Gli animali sono giunti alla socialità grazie allo sviluppo casuale di sensazioni come il «dolore per la separazione e [la] gioia per l’associazione»,3 sensazioni che, consolidate nel tempo grazie alla loro fitness, sono diventate la base degli istinti sociali, che a loro volta si sono probabilmente rinforzati nel corso dell’evoluzione per mezzo della selezione sessuale: nell’accoppiamento venivano verosimilmente favoriti i partner che dimostravano di possedere aspetti sociali più marcati.4 «Sviluppo casuale» non significa che l’evoluzione sia un processo casuale: in effetti se l’evoluzione fosse solo «casual» non ci sarebbe probabilmente il tempo per formare organismi intelligenti, complessi e sociali. L’evoluzione è piuttosto un processo cumulativo, che lavorando su mutazioni casuali seleziona i piccoli vantaggi per la sopravvivenza, tramandandoli alle generazioni successive. Il meccanismo ha il suo perno fondamentale nella selezione naturale, che non è per nulla casuale.5 Oltre alla selezione naturale e alla selezione sessuale, inoltre, altri fattori di evoluzione influenzano e rinforzano il processo: tra questi, la deriva genetica e la migrazione; ma sull’evoluzione delle specie influiscono molto anche i vincoli

strutturali, le leggi della forma e le estinzioni. Materialismo etico Gli animali in cui si sono sviluppati gli istinti sociali cooperano e provano piacere nello stare insieme. Darwin pensava che questo stato affettivo fosse probabilmente «un’estensione dell’affetto per i genitori e per i figli» che è il primo a formarsi degli istinti sociali.6 Vivere in associazione può essere vantaggioso per la prole, perché si è maggiormente protetti dai pericoli, mentre vivere da soli potrebbe essere molto più pericoloso. Darwin riteneva che gli istinti sociali fossero alla base dei sentimenti dell’amore e della simpatia. L’uno è rivolto verso figure biologicamente vicine, gli stretti famigliari, o coloro che si vorrebbe diventassero tali. L’altro si esprime nei confronti di membri conosciuti e benvisti della propria comunità, o verso figure che, per un motivo o per l’altro, si vorrebbe facessero parte della propria comunità. Maggiore è il livello di simpatia reciproca all’interno di una comunità, maggiore è, per Darwin, la possibilità di prosperare della società stessa. Ed è certo «che gli animali associati hanno un senso di affetto reciproco, non provato dagli animali non associati» e che «si rendono l’un l’altro servizi».7 Un animale con istinti sociali, ma senza intelligenza, può avere anch’esso un comportamento sociale, ossia arrivare a provare «pietà per le disgrazie e le angosce degli altri» fino a sacrificarsi per loro, ma non può avere un senso morale inteso «come la capacità di paragonare le sue azioni e i

motivi passati e futuri, e di approvarli o di disapprovarli». D’altra parte, un essere umano intelligente, quando perde il legame con i suoi istinti sociali, non è in grado di esprimere un autentico comportamento morale, perché l’uno non si può manifestare senza l’altro. Potrebbe però, con la freddezza di un computer, fingere un comportamento morale, dare spietati giudizi morali e anche elaborare un sistema morale per poter aumentare la propria reputazione sociale: è ciò che fanno gli psicopatici mascherati da moralisti. Il senso morale, dunque, non coincide con gli istinti sociali, è successivo al loro sviluppo e necessita delle parti cognitive che derivano dallo sviluppo della neocorteccia e dalla sua espressione in un determinato ambiente sociale. La facoltà riflessiva permette di rappresentare con immagini (images) le azioni passate ed è indispensabile per riflettere sul significato e sul valore sociale delle proprie azioni, in modo da «approvarne alcune e disapprovarne altre». Darwin ritiene che «qualsiasi animale, dotato d’istinti sociali ben marcati, compresi quelli verso i genitori e i figli, acquisterebbe inevitabilmente un senso morale o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto sviluppati, o quasi altrettanto, che nell’uomo». Un animale sarebbe in grado, con questa acquisizione, di valutare le azioni secondo propri criteri morali. Con ogni probabilità, tuttavia, questo giudizio non coinciderebbe con quello degli esseri umani: «Sarà bene premettere, per prima cosa, che non intendo sostenere che ogni animale esclusivamente sociale, se le sue facoltà intellettuali

diventassero attive e tanto altamente sviluppate come nell’uomo, acquisterebbe esattamente lo stesso nostro senso morale». Se un’altra specie acquistasse elevati istinti sociali e uno sviluppo mentale come quello umano, verrebbe probabilmente ad avere un senso morale adatto alla sua specie, non alla nostra. Regole morali Gli istinti sociali «comprendono la considerazione per il giudizio dei propri simili» e portano ad adeguarsi alla comunità in cui si vive. Viene così mescolato ciò che è più propriamente biologico, per esempio il sentimento genitorifigli, con ciò che è sociale, come un’abitudine rituale della comunità che l’individuo è spinto ad accettare. Darwin faceva l’esempio di chi mangia cibi non consentiti dalla tradizione: «Sarebbe difficile distinguere tra il rimorso provato da un indù che ha ceduto alla tentazione di mangiare cibi impuri e quello provato dopo aver commesso un furto, ma probabilmente il primo sarebbe più duro».8 La spinta istintiva ad adeguarsi al sistema morale sociale può portare all’assorbimento e alla ripetizione di comportamenti che vanno in opposizione al benessere fisico e alla salute psicologica. Con questa linea interpretativa si possono comprendere comportamenti che a un occhio esterno sembrano assurdi, quando non apertamente immorali o criminali, in quanto contro-istintuali, come la disponibilità all’omicidio-suicidio, o i rituali più discutibili, come i sacrifici umani o l’infibulazione. In altre parole, gli

istinti sociali, al pari di tutti gli altri istinti, possono essere male attivati. Darwin, in sostanza, spiega vissuti e comportamenti assurdi o deplorevoli – come il senso dell’onore che porta a un duello mortale, oppure l’omicidio rituale – come una sorta di attivazione parziale e errata di una serie di istinti, tra i quali quelli sociali. Poiché il primo istinto sociale è quello di non dispiacere al nostro ambiente, se questo ambiente è malato, ad esempio perché i suoi leader sono psicopatici (i quali tendenzialmente raggiungono il potere più frequentemente delle persone sane),9 tenderemo a non accorgercene e ad adeguarci comunque alle sue richieste, per non riuscire sgraditi ai «nostri amici ed eguali».10 Di questa tendenza gli psicopatici fanno ottimo uso. Le regole morali sembrano così trovare le basi biologiche in un sistema di comandi genetici tra loro conflittuali, che creano un conflitto altrettanto vivo entro lo stesso individuo: alcuni richiedono la coerenza con certe istintività sociali primarie, altri con il giudizio dei propri simili. «I desideri e le opinioni dei membri della stessa comunità, all’inizio espressi oralmente, ma più tardi anche per iscritto, formano entrambi la sola guida alla nostra condotta, o rinforzano grandemente gli istinti sociali; tali opinioni tuttavia, talora, hanno una tendenza direttamente opposta a questi istinti».11 Ne nasce una difficoltà nello stabilire un sistema di regole e princìpi. Fissare un codice di leggi civili o religiose, oppure un sistema etico, non soltanto è impresa disperata, ma è soprattutto alla base di errori che sono ben osservabili nella

storia e purtroppo anche nell’attualità della nostra specie. La sensibilità muta e si evolve; non può essere costretta entro regole immutabili. È possibile, forse, riconoscersi in alcune norme generali, ma poi, nei casi specifici, sorgono spesso i problemi. Il comando «non uccidere», per non citare che il più discusso, sembra trovare le sue basi negli istinti sociali e sembra condivisibile da parte di tutti gli esseri umani, eppure nella sua applicazione si scatenano enormi conflitti etico-politici: basti pensare ai dibattiti sull’aborto, l’eutanasia o il testamento biologico, che vedono contrapporsi posizioni etiche radicalmente diverse rispetto alla libertà di scelta dell’individuo. L’etica solleva grandi questioni. Uno stato può vietare comportamenti che non ritiene etici, ma le leggi possono sempre rivelarsi immorali e violente, soprattutto quando sono espressione di individui paranoico-persecutivi che si impadroniscono del potere, come è avvenuto in molti momenti della storia. E anche senza arrivare a tanto, è sufficiente che le norme siano scritte in un momento in cui prevale, come scrive Darwin, «ignoranza, e la debole capacità di ragionare»,12 perché le leggi esprimano una qualità morale quanto meno dubbia. Qualità morali Darwin presenta una genesi della morale molto complessa: contraddittoria e sofisticata fin dal principio. Quando egli si auspica che vengano seguiti gli istinti

migliori, perché da ciò si ricava maggior soddisfazione, certo non sottovaluta comunque l’importanza centrale della cultura: «Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto di più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc., che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale».13 Se la morale ha origine nella biologia, dunque, essa trova nella cultura il motore per uno sviluppo straordinario, che la natura, da sola, non avrebbe mai potuto offrire tanto rapidamente. Una vita virtuosa non è quindi per Darwin un risultato spontaneo, determinato dai geni di ciascuno. Ancora una volta non vi è nel suo pensiero alcun cedimento al determinismo biologico. Al contrario: una condotta virtuosa deriva da millenni di cultura – fattore indispensabile per l’umanizzazione di Homo sapiens – ed è un bene che deve essere trasmesso di generazione in generazione, anche per mezzo di sanzioni nei confronti dei comportamenti antisociali. Non possiamo dimenticare che, se da un lato l’individuo ha istinti sociali, dall’altro possiede istinti di prevaricazione, tra i quali un forte egoriferimento. Sono forze in contrasto le une con le altre. Nell’orizzonte di una simile battaglia interiore caratterizzata da un’ambivalenza etica che trova le sue origini ultime nella biologia, il ruolo dell’educazione e delle norme culturali rimane dunque fondamentale.

Sul piano della teoria e della prassi, nella psicologia del profondo ha grande rilevanza che l’essere umano sia naturalmente portato a riflettere moralmente sui propri comportamenti nei confronti degli altri, proprio per la presenza contemporanea in ciascuno di noi degli istinti sociali e della capacità riflessiva. È quindi importante stimolare la funzione cooperativa con i pazienti nella cura, a condizione che questi non siano psicopatici, carenti proprio dei precursori biologici dell’empatia. Gli esseri umani normali, guidati verso l’acquisizione di un senso morale dalla loro stessa costituzione biologica, sentono come naturali i richiami a una spinta morale interiore, che può essere attivata in psicoterapia da richiami espliciti e comportamenti impliciti. Darwin sottolinea che sono gli stessi istinti sociali, con l’aiuto dell’intelletto, dell’educazione e delle abitudini, a portare verso la regola aurea: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te».14 A limitare l’espressione dell’istinto morale in un individuo può esserci una genetica sfavorevole, una pessima attivazione infantile degli istinti sociali, un’insufficiente capacità intellettiva di riflessione, lo sviluppo in un ambiente famigliare, ambientale, o socio-politico in cui prevalgono gli psicopatici: una o più di queste caratteristiche possono impedire alla capacità morale di svilupparsi compiutamente e portare l’individuo verso uno sbocco antisociale. È un’antica intuizione filosofica che la ragione e la morale abbiano caratteristiche comuni che ci permettono di dialogare: Eraclito considerava il logos come una ragione

universale, che appartiene agli esseri umani. La realtà dei fatti non è molto differente da questa supposizione. Se l’evoluzione è riuscita a sviluppare nel corso del tempo gli istinti sociali e la capacità di riflettere su di essi, significa che ha posto le basi di quella che noi oggi chiamiamo salute mentale, stabilità emotiva, equilibrio psicologico e tutti gli altri fattori che consentono un buon livello di adattamento sociale. Senza di questi non sarebbe possibile la costruzione di società come quelle umane. Una discreta capacità di coordinamento di se stessi si è probabilmente sviluppata a mano a mano che comparivano nuove funzioni, nel corso dell’evoluzione, perché comportava dei vantaggi, anche in senso riproduttivo. Senza il riconoscimento di una realtà comune, infatti, si creano inevitabilmente discrepanze che impediscono la costruzione di qualsiasi dimensione sociale, a cominciare da un rapporto con il proprio partner e con i figli. Oltre che da alcuni precursori del comportamento morale il rapporto sociale è favorito proprio dalla capacità di condividere il principio di realtà. Indagini morali Il genere umano ha dunque dei precursori biologici per i concetti di bene e male che non dipendono da entità superuraniche, ma da circuiti neurali molto umani, che tengono conto anche degli stimoli del corpo e dell’insieme delle informazioni recuperate dall’ambiente. Per questo motivo noi tutti ci ritroviamo istintivamente in accordo su molte espressioni che consideriamo morali, come

la cura affettuosa dei figli, l’amore coniugale, l’amicizia sociale, le sofferenze psicologiche rispetto a certi comportamenti, e così via. Emozioni e sentimenti come questi ci permettono di relazionarci su basi comuni con tutti gli esseri umani. Gli istinti sociali sono spesso conflittuali, per cui la dimensione riflessiva apre a indagini interiori che non danno sempre risposte immediate o «giuste». I conflitti morali, immaginati per lo più come razionali, non sono mai privi di emozionalità e gli individui si trovano spesso a fare i conti con un sistema morale che propone come «bene» qualcosa che essi effettivamente sentono tale. Abbiamo visto che la psicopatia di un individuo o di un gruppo, può contagiare gran parte di una società, poiché uno degli istinti sociali più forti è quello che porta ad adeguarsi al sistema morale del proprio ambiente. Pertanto, gli istinti sociali, quando non sono tenuti in equilibrio riflessivo, e soprattutto quando prevalgono i conformismi acritici, possono generare mostruosità. Tuttavia le risposte ai problemi morali da parte di un largo pubblico sembrano confermare una notevole uniformità nella specie umana, sia tra le persone, sia tra le diverse culture. Jonathan Haidt ha investigato il caso di fratello e sorella che in un’occasione singola e particolare, con la protezione di pillola anticoncezionale e preservativo, compiono incesto.15 La maggioranza delle persone intervistate su questo caso si dice contraria, anche se poi le motivazioni portate a sostegno del loro rifiuto risultano poco convincenti. A quanto sembra, prima emerge il giudizio, e

solo in seguito le persone cercano di dare una spiegazione al proprio giudizio, passaggio questo che di solito non regge a un’analisi razionale. Gli individui sembrano prima giudicare e poi cercare di giustificare il giudizio tramite una razionalizzazione. La conoscenza di ciò che è sbagliato e la spiegazione del perché lo sia sembrano essere due processi separati. Il primo atteggiamento viaggia su circuiti neurali di tipo istintivo immediato, più arcaici del secondo, il che significa che mentre noi riteniamo di giungere a giudizi morali tramite il ragionamento, in realtà vi perveniamo soprattutto con l’emotività. Anche la proposta a culture diverse e la somministrazione a un numero elevatissimo di persone del dilemma morale ideato dai filosofi Philippa Foot e Judith Jarvis Thomson hanno sempre dato gli stessi risultati.16 Un carrello su rotaie, fuori controllo, è diretto contro un gruppo di cinque persone che camminano sui binari. C’è uno scambio che permette di deviare il carrello su un binario secondario, dove cammina una sola persona. È lecito deviare il carrello e far morire una persona che non sarebbe morta, per salvarne cinque che senza alcuna deviazione morirebbero? Quasi tutti rispondono che è lecito. Ma se il problema viene posto in maniera diversa le risposte cambiano: il carrello procede su un binario verso cinque persone; per arrestarlo si potrebbe gettare sui binari un uomo grasso che sta guardando la scena da un ponte. Ecco che in questo caso le proporzioni si invertono e quasi tutti rispondono che non è lecito compiere questa azione. La stessa risposta si ottiene quando si chiede

se sia lecito uccidere una persona che sta bene per prelevare i suoi organi e salvare con essi cinque persone che senza trapianto morirebbero. Il motivo della risposta «sì» o «no» sta nel fatto che nel primo caso ciò che viene utilizzato per garantire salvezza è il binario alternativo, e la persona che vi sta camminando sopra sarebbe in qualche modo una vittima casuale delle circostanze; nel secondo e nel terzo caso verrebbe invece utilizzata direttamente una persona, che diventa così il mezzo per raggiungere un fine, un concetto evidentemente vietato dal nostro senso morale, come già aveva sostenuto Kant. Tuttavia la maggior parte delle persone non è in grado di motivare la propria decisione perché viene presa su base emotiva. Le risposte a simili dilemmi morali non subiscono variazioni di rilievo nelle differenti culture. Il risultato delle ricerche sui problemi morali sembra dunque dare ragione a Darwin rispetto all’esistenza di alcuni concetti sociali che sono parte integrante della natura umana, e quindi condivisi tra tutti gli uomini, indipendentemente dalla cultura di appartenenza o dalle opinioni. A conclusione della Critica della ragion pratica Kant scrisse le meravigliose parole che furono scolpite sulla sua lapide: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti […]: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».17 Meraviglia e venerazione che crescono conoscendoli meglio.

4. Jung e gli archetipi dell’inconscio collettivo L’evoluzione della psiche secondo Carl Gustav Jung All’inizio del suo percorso, quando era ancora vicino a Freud, Jung si proponeva di agganciare le teorie psicoanalitiche ai risultati della biologia evoluzionistica: «Sarà uno dei grandi compiti futuri trasferire la metapsicologia freudiana all’interno della biologia».1 Il proposito fu messo in atto nell’arco di tempo che va dall’inizio degli anni dieci e la fine degli anni venti del Novecento; poi questo lavoro fu messo in secondo piano a favore della simbologia dell’alchimia e dei numerosi spiritualismi di cui fu sempre più intrisa la psicologia junghiana. In quel periodo in cui Jung si ispirava al darwinismo filtrato dalle psicologie pragmatiche, pluraliste ed evoluzioniste di William James e di Pierre Janet. Di quest’ultimo aveva seguito i corsi al Collège de France durante l’inverno del 1902-1903 a Parigi. Le lezioni e la psicologia di Janet influenzarono fortemente la sua opera: «Io non provengo da Freud, ma da Eugen Bleuler [il suo professore di psichiatria] e da Pierre Janet [per la psicologia del profondo] che furono i miei diretti maestri».2 Il modello psichiatrico di Jung è infatti di tipo bleuleriano, mentre il suo modello psicologico è in ampie parti una rielaborazione della psicologia di Pierre Janet. Le nozioni janetiane di «automatismi», «tendenze all’azione» e «idee fisse subconsce» furono riprese da Jung e ridenominate

«archetipi» e «complessi».3 La «sintesi» fu ridefinita (in maniera meno felice) con l’espressione «composizione delle diverse coscienze».4 Ellenberger sostiene giustamente che la descrizione che Janet aveva fatto delle due nevrosi fondamentali, l’isteria e la psicoastenia, venne ripresa e riscritta da Jung nella sua elaborazione dei tipi psicologici estroverso e introverso.5 Jung non aveva dubbi sulla derivazione biologica della nostra psiche: «Fin dove la nostra esperienza ci permette di trarre conclusioni riguardanti l’essenza della psiche, essa ci mostra il processo psichico come un fenomeno dipendente dal sistema nervoso», e arrivava alla conclusione che i fatti psichici «consistono in immagini di processi semplici cerebrali, e in immagini di queste immagini in serie quasi infinita».6 In termini moderni diremmo che i processi mentali sono originati da sistemi cerebrali, a loro volta scomponibili in sottosistemi. Per questo motivo secondo Jung lo psicologo deve risalire spesso alla «sicurezza propria del modo biologico di considerare le cose». La psicologia deve ammettere, infatti, che «esiste una larga coincidenza tra i suoi dati di fatto e i dati biologici».7 In quegli anni Jung sosteneva con disinvoltura posizioni evoluzioniste ancora oggi molto discusse: «Un rapido sguardo alla storia dell’evoluzione è sufficiente per insegnarci che numerose funzioni complesse […] in origine non erano altro che derivazioni dell’istinto di procreazione». Egli sposava in pieno il concetto di evoluzione per selezione

naturale e lo applicava in maniera piuttosto deterministica. Siccome «i primi istinti artistici nell’evoluzione animale [sono] al servizio dell’istinto di riproduzione, limitati alla stagione degli amori […] non si può sollevare alcun dubbio sull’origine sessuale della musica».8 Oggi siamo più cauti, perché sappiamo che l’evoluzione non è così semplice, e avviene anche per fattori di tipo diverso. Le caratteristiche sviluppate casualmente possono poi trasmettersi per milioni di anni, anche senza avere alcun valore adattivo, mentre caratteristiche sviluppatesi originariamente per una funzione si rivelano utili per altre funzioni. La maggior parte delle espressioni umane non sono adattamenti, ma nuovi utilizzi di strutture che si erano sviluppate sotto l’effetto di pressioni selettive precedenti. Jung aveva però ragione nel sostenere che la mente e la stessa coscienza si fossero formate in maniera naturale nel corso dell’evoluzione: «Madre natura ha creato questa curiosissima fra tutte le inaudite curiosità naturali, la coscienza».9 Ed era anche convinto che, «tenendo conto della struttura del corpo, sarebbe sorprendente se la psiche fosse l’unico fenomeno biologico che non mostri chiare tracce della sua storia evolutiva ed è estremamente probabile che questi segni distintivi siano in strettissimo rapporto proprio con la sua base istintuale».10 La mente, chiamata solitamente psiche, affonda la propria radice nel corpo per cui: «la psicologia può distaccarsi solo artificiosamente da premesse biologiche».11 Ricordiamo che Jung pubblicava questi pensieri in un contesto culturale

marcatamente idealista, entro il quale era scandaloso, ancor più di quanto lo sia oggi, definire la psiche un «fenomeno biologico», o una «curiosità naturale», al pari di una cascata, un geyser, un vulcano o la coda di un pavone. La mente «non nasce come tabula rasa, né ogni uomo ha un cervello del tutto nuovo e a lui peculiare. Il cervello con cui l’uomo nasce è il risultato dell’evoluzione di un’infinita serie di antenati, si costituisce compiutamente differenziato in ogni embrione, e dà immancabilmente, quando entra in funzione, risultati già prodottisi infinite volte nella serie degli antenati».12 Per questo motivo «noi dobbiamo oggi partire dall’ipotesi che l’uomo non rappresenta un’eccezione rispetto alle altre creature, ma come ogni animale possiede, in ogni circostanza, una psiche preformata e corrispondente alla specie, la quale rivela, se attentamente osservata, segni evidenti di predisposizioni di carattere ereditario».13 In pratica il cervello, sosteneva Jung, riceve per via ereditaria quelli che oggi per noi sono i prerequisiti del comportamento e delle idee, formatisi nel corso dell’evoluzione. Questi sistemi comuni alla specie umana generano una similitudine di base tra gli esseri umani di tutte le culture del mondo. Jung insisteva molto su questi temi: «A nessun biologo verrebbe mai in mente che ogni individuo acquisisce da capo il suo modo di comportarsi». Per questo motivo è più probabile che un essere umano «venga alla luce con un modo di comportamento specificamente umano e non con quello di un ippopotamo, o con nessuno». Ciascun individuo,

avendo in sé predisposizioni che generano le attività umane, non può che comportarsi in maniera umana e attuare modelli di comportamento umani.14 Tuttavia la coscienza rimaneva anche per lui un enigma di cui dichiarava di non conoscere la soluzione, anche se la paragonava, con un’immagine ancora attuale, al fascio di luce emesso da un proiettore: «Soltanto gli oggetti su cui cade la luce entrano nel campo della percezione». Jung immaginava la coscienza dell’Io «come una composizione delle diverse “coscienze sensoriali” dove l’indipendenza delle singole coscienze trapassa nell’unità del superiore Io». Come Janet, anche Jung riteneva che l’Io fosse l’immagine non di un solo processo, ma «di moltissimi processi e del loro gioco reciproco»,15 e riteneva che da questa molteplicità si formasse l’unità che ci dà la sensazione di essere un singolo individuo. Proprio perché l’Io è composto da elementi psichici differenti e conflittuali, preferiva parlare non tanto di Io, quanto piuttosto di «complesso dell’Io», un’espressione utilizzata moltissime volte nei suoi scritti. La coscienza, e quindi il comportamento, hanno presupposti biologici ereditari «a prescindere dagli inevitabili influssi ambientali».16 Noi facciamo fatica a riconoscere i presupposti biologici per due motivi: il primo perché sono inconsci; il secondo perché ci appartengono strettamente e li sentiamo quindi come parte della nostra identità. I presupposti biologici della psiche, dunque, non sono qualcosa di astratto, ma si esprimono in tendenze che ingannano la stessa coscienza, che è convinta di compiere

scelte «individuali» anche quando viene influenzata da predisposizioni ereditarie (arche)tipiche della specie umana. Noi riusciamo a trasformare gli istinti in motivazioni razionali, al punto che «non siamo più in grado di riconoscere, sotto i molti veli, il velo originario», per cui ci sembra «di non possedere quasi più istinti».17 Va segnalato che, dopo oltre cento anni dalla sua elaborazione, l’argomento della cecità agli istinti, che è stato proposto per la prima volta da William James, è ancora un tema attuale e molto discusso nel dibattito evoluzionistico contemporaneo.18 Inconscio collettivo Jung immaginava un inconscio personale composto da differenti parti della personalità che ridefinì col termine «complessi», dando così visibilità a un termine che era stato introdotto in origine dallo psichiatra tedesco Georg Theodor Ziehen pochi anni prima.19 Egli rimase, nella loro descrizione, sostanzialmente fedele all’insegnamento di Janet che interpretava le idee fisse subconsce come meccanismi della psiche dotati di una certa autonomia: «Oggi sappiamo tutti che “abbiamo dei complessi”. Che invece i complessi abbiano noi, è cosa meno nota».20 Ispirandosi all’evoluzionismo, Jung elaborò quindi la concezione del secondo inconscio, «l’inconscio collettivo» o di specie. Si tratta di una teoria che fa risaltare in modo chiaro la doppia determinazione (innata-acquisita) dell’essere umano. Oggi sappiamo che non si tratta di due

parti davvero separate, come a volte sembra dalla lettura di Jung. In ogni caso il contributo di Jung sull’inconscio collettivo, interpretato come struttura ereditaria e generatrice che deriva dall’«esistenza psichica degli antenati giù giù fino alle prime origini»,21 ha avuto notevole importanza nella psicologia del profondo, tanto che Freud scrisse Totem e tabù, aprendo alcune parti della sua psicologia al concetto di inconscio strutturale e filogenetico, proprio in seguito ai primi lavori junghiani. L’inconscio collettivo, per Jung, è costituito dall’insieme delle informazioni, delle istruzioni, delle conoscenze e delle tendenze di cui siamo dotati alla nascita e di cui non siamo consapevoli. Appartengono a tutta la specie umana e si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione, tanto che, secondo Jung, l’inconscio collettivo si potrebbe rappresentare con l’immagine di un essere umano vecchio di due milioni di anni – il tempo di evoluzione indipendente di Homo sapiens – al di là della giovinezza e della vecchiaia, della nascita e della morte.22 Su questi temi esiste una certa concordanza tra la visione di Jung e alcune visioni contemporanee della psicologia evoluzionistica. Jung pensava a una trama di sviluppo preesistente a tutte le differenti culture sociali in cui si sviluppa il mondo: emozioni, pulsioni, prerequisiti del ragionamento, proto-senso morale, grammatica linguistica di base, modo di comunicare emozionale, sistema di relazioni ecc. Si tratta di un’idea discussa, ma esiste sicuramente una certa omogeneità d’idee e di comportamenti tra le diverse

culture. Gli esseri umani condividono miriadi di esigenze comuni, oltre a quelle primarie di proteggere i figli, di non essere vessati da altri, di migliorare la salute. Le organizzazioni internazionali funzionano proprio perché gli esseri umani interpretano il mondo in base a credenze e desideri largamente condivisi: tutti possiedono il senso dell’io, l’empatia, la considerazione dei rapporti di parentela, il senso dell’aiuto reciproco, il senso dell’arte, della bellezza, la spinta a migliorare se stessi e tutte quelle innumerevoli caratteristiche che noi definiamo umane. Tutti gli umani condividono anche comportamenti culturali di base: abbellimento di se stessi, corteggiamento, matrimonio, formazione di famiglie, gelosia, adulterio, senso di proprietà, vita sociale con gerarchie, regole di comportamento, divisione dei lavori tra i sessi con un carico maggiore per le donne riguardo ai figli, alleanze sociali, ospitalità, miti e leggende di gruppo, riti di carattere religioso, superstizioni, senso dell’eroismo e sua esaltazione sociale, medicina, ostetricia, iniziazioni di vario tipo, fondamenti del senso morale comune e così via. Sono tutti elementi che si trovano, pur in forme differenti, in ogni cultura. Donald Brown ritiene questi, ed altri, i tratti che permettono di riconoscere ogni popolazione come parte del popolo universale umano23 e in qualche modo questo elenco ricorda le «istituzioni primarie» introdotte da Kardiner e utilizzate in antropologia per indicare i tratti comuni dell’umanità.24 Qualche secolo fa abbiamo capito che eravamo una sola

specie; qualche decennio fa i genetisti delle popolazioni ci hanno spiegato che le differenze genetiche sono superficiali e del tutto insufficienti a suddividere l’umanità in «razze».25 Oggi, come scrive McLuhan, ci troviamo in un’ulteriore situazione: «Il sistema di circuiti elettrici ha sovvertito il regime di “tempo” e di “spazio” e riversa su di noi istantaneamente e continuamente le vicende di tutti gli altri uomini. Ha ricostituito il dialogo su scala globale. Il suo messaggio è Cambiamento Totale, fine del campanilismo, psichico, sociale, economico e politico. I vecchi raggruppamenti civici, regionali e nazionali sono diventati impraticabili». Archetipi Jung usa ante litteram un linguaggio chomskiano per descrivere l’inconscio collettivo, il quale «è propriamente lo strato germinale sempre vivo e creativo» che ha la «necessità di generare ancora quelle idee che le dominanti dell’inconscio hanno sempre espresso».26 Il termine «idea» va inteso, seguendo l’insieme della sua psicologia, come «molto dominante», perché Jung nel corso della sua opera precisa numerose volte che le infinite variazioni delle storie umane e dei modi di essere individuali possono essere raggruppati in un certo numero di temi dominanti (archetipi), alcuni dei quali, afferma, furono perfino proiettati nel cielo a formare le costellazioni: «Tutta la mitologia sarebbe una specie di proiezione dell’inconscio collettivo. Lo vediamo chiarissimamente nel cielo stellato, le

cui caotiche forme furono ordinate mediante proiezione d’immagini».27 Queste proiezioni sarebbero generate da sistemi psicobiologici che si trovano nell’inconscio collettivo e che gli sembrano alla base del comportamento e dell’ideazione comune alla specie umana. Idifferenti sistemi psicobiologici che si trovano nell’inconscio collettivo sono alla base del comportamento e dell’ideazione comune alla specie umana. Parte di queste strutture, chiamate da Jung archetipi, sono «sistemi organizzati in modo specificamente umano, pronti a funzionare, risultato di milioni di anni di evoluzione umana».28 Sono strutture formatesi nel tempo per generare comportamenti, idee e immagini, e costituiscono le informazioni-guida «esistenti a priori, ereditarie e universalmente diffuse»,29 trasmesse per via genetica. Sono quindi «pura natura incontaminata, ed è la natura che spinge l’uomo a pronunciare parole e a compiere atti del cui senso non è consapevole, al punto che non ci pensa neppure».30 Gli archetipi, «in quanto istinti», conducono a eseguire un «modello di comportamento innato» basato su programmi genetici.31 Il bambino, quindi, alla sua nascita racchiude in sé «la trama fondamentale del suo essere», come nell’uccello sono innati l’istinto migratorio e quello di costruire il nido.32 La stessa capacità di simbolizzare è un processo che non viene prodotto volontariamente dal singolo individuo, ma che «si è formato fin dai primordi dell’umanità e continua ad agire».33 Questi sistemi, secondo Jung, sono l’unica parte della

psicologia che può essere studiata in maniera scientifica, perché sono stili di comportamento tipici della specie umana «che quando diventano consci appaiono come rappresentazioni».34 Prescindono dalle esperienze ambientali e culturali dell’individuo e provocano risposte comportamentali simili nei loro motivi fondamentali.35 Sono delle invarianti inconsce che differiscono solo superficialmente tra le varie culture e tra individuo e individuo. La loro diversa espressione si può sempre ricondurre a una cifra limitata di invarianti. Gli archetipi producono quindi i motivi comuni della storia dell’umanità rappresentati nei miti, nelle leggende e nelle fiabe. Per questo motivo, secondo lo psicologo svizzero, in psicologia l’inconscio collettivo può essere studiato in due modi: il primo, nelle classiche sedute di analisi; il secondo interpretando psicologicamente la mitologia, le religioni, l’alchimia e l’astrologia, discipline che derivano, appunto, da proiezioni delle rappresentazioni generate dalla natura umana, ossia dall’inconscio collettivo. Nella loro essenza, queste rappresentazioni si ripetono tutti i giorni sotto vesti differenti, e noi stessi ci ritroviamo protagonisti di simili vicende reinterpretando sempre gli stessi ruoli: la preferenza nei confronti dei propri figli di sangue rispetto a quelli del consorte (Cenerentola); i giovani che si vogliono unire nonostante appartengano a gruppi diversi (Giulietta e Romeo); la differente esigenza sessuale tra uomini e donne (don Giovanni). In una psicoterapia junghiana è dunque necessario capire quale mito stiamo

rappresentando e quali immagini archetipiche stiamo incarnando. Dal punto di vista terapeutico è necessario prendere distanza dalla forza pulsionale della natura umana. Tuttavia Jung sottolinea che anche andare forzatamente contro gli archetipi porta a squilibri psicologici e sofferenze di grande intensità, poiché la forza degli istinti disattesi non va sottovalutata. Per vivere un’individualità sana occorre reggere un’armonia inevitabilmente conflittuale della stessa natura umana istintuale. Questa è, infatti, un insieme di forze discordanti, che si esprimono in continuo rapporto dialettico, sia tra di loro sia con il patrimonio di valori e di modelli acquisiti dalla cultura. Se i modelli di comportamento non fossero trasmessi per via genetica «si potrebbe ottenere tutto con l’educazione e, senza danno, storpiare l’uomo a macchina psichica o allevarlo al culto di un ideale».36 Ma non si può, scrive Jung, perché i programmi biologici, che ci strutturano e di cui siamo inconsci, lo impediscono. La presenza di strutture interne è il motivo per cui, quando manca qualcosa d’importante nell’ambiente, si possono creare situazioni traumatiche. Per esempio: il legame madre-bambino è stato strutturato dall’evoluzione nel corso di milioni di anni, per cui il bambino alla nascita si aspetta di incontrare una madre che lo accolga, lo nutra e lo ami. Se la madre amorosa, dispensatrice di nutrimento e sicurezza, manca, o è deficitaria, il piccolo individuo, non curato e non appagato, soffre. Una visione che anticipa di un paio di decenni quella

di John Bowlby, pur con qualche venatura spiritualista, come vedremo. La presenza del modello di comportamento (archetipo) madre-figlio, ritiene Jung, ci influenzerà tutta la vita: mentre con lo scorrere degli anni un individuo si sottrae alla madre personale, spesso non avviene altrettanto con il materno, ossia con il modello di comportamento dipendente (archetipico) che si ha nei confronti della madre; il distacco dalla madre è dunque autentico soltanto se contemporaneamente si ha anche il distacco dal modello di comportamento di bambino bisognoso della madre. Se ciò non avviene, la dipendenza dalla madre verrà proiettata sulla moglie, o su qualche altra persona, e non ci potrà essere una vera maturazione. Allo stesso modo, quando l’individuo si libera soltanto del padre individuale, e non del relativo modello, può passare la vita a cercare nuovi padri, a fuggirli, e a ripetere, quindi, la storia paterna. Senza fare i conti con i sistemi psicobiologici inconsci noi non possiamo raggiungere un rapporto equilibrato con le nostre parti maschili e femminili. Attribuire alla madre o al padre individuale tutto quanto proviene dai sistemi di comportamento figlio-madre, o figliopadre, impedisce di capire cosa succede dentro di noi. Un individuo, secondo Jung, deve essere consapevole di questa sua doppia determinazione e comportarsi di conseguenza, stando attento alle richieste ataviche che lo abitano. La rimozione che crea maggiori problemi non è quindi quella dell’inconscio personale, ma quella dell’inconscio

collettivo, ossia di tutti i sistemi psicobiologici che rendono l’individuo un essere umano radicato nella sua biologia. Per questo motivo, Jung afferma che Freud, Adler e tutti quelli che teorizzano la natura personale della psiche creano in realtà «una psicologia della persona», che rimane in superficie, i cui fattori causali «sono ritenuti di natura quasi interamente personale».37 Con-fusioni archetipiche La mente è oggi descritta come un insieme di parti cognitive ed emozionali che generano, anche interagendo tra loro, emozioni, pensieri e azioni organizzate. Queste parti sono denominate in diversa maniera dalle diverse scuole, ma tutte, sostanzialmente, corrispondono a quelli che nelle neuroscienze sono chiamati «sistemi» (cognitivi o emozionali) o «endofenotipi»: una caratteristica neurobiologica o un’attività mentale ben definita. Le idee di Jung contengono alcune intuizioni sul pensiero endofenotipico, ma i suoi archetipi appaiono oggi troppo deterministici: l’evoluzione fornisce i prerequisiti biologici, non i programmi di cui parla spesso lo psichiatra svizzero. Jung, al proposito, si spingeva verso posizioni estreme: «Si può affermare che se si riuscisse a recidere d’un tratto tutte le tradizioni esistenti nel mondo, tutta la mitologia e tutta la storia religiosa tornerebbero da capo con la generazione successiva».38 L’affermazione appare davvero eccessiva: duecentomila anni di evoluzione culturale non si ricostruirebbero ovviamente in una sola generazione, e nel

lungo tempo ci sarebbe una nuova coevoluzione biologicoculturale che cambierebbe tutto. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale non sono così facilmente distinguibili come sembra a prima vista. La separazione operata da Jung tra istinti e archetipi appare insomma artificiosa e confusa. Jung opera questa classificazione, ma precisa numerose volte nel corso della sua opera che gli archetipi sono anch’essi istinti. Da una parte li distingue, dall’altra li riunisce. I problemi a utilizzare il modello junghiano sono anche altri, e non di facile risoluzione. In primo luogo, il suo testo è pesantemente compromesso da concezioni lamarckiane e da spiritualismi diversi, che finiscono col renderlo inattuale. In secondo luogo, il termine «archetipo» è stato utilizzato in maniera disinvoltamente polisemica da Jung nel corso della sua produzione, con almeno tre significati differenti: 1) un’immagine figurativa o mentale, 2) un sistema biologico, 3) una sorta di entità spirituale. Quando Jung si fermava a precisare, lo definiva «il modo ereditato della funzione psichica», e lo assimilava al pattern of behaviour degli altri animali: un modello di comportamento, o un programma di sviluppo. Ne parlava come di una struttura generativa, ma vuota dal punto di vista contenutistico. Nel suo caratteristico linguaggio ampolloso, lo chiamava una facultas praeformandi.39 Ma in questo modo, a rigor di termini, l’eroe, il vecchio saggio, l’anima o l’ombra, chiamati usualmente archetipi, non sarebbero tali, ma soltanto immagini archetipiche, mentre l’archetipo ereditabile

sarebbe la disposizione a formare tali figure. Tuttavia, questa distinzione non esiste nel corpus junghiano, nel quale l’autore si contraddice infinite volte. Queste incoerenze spiegano le inevitabili confusioni in cui incorre usualmente chi non ha studiato in maniera analitica la sua opera. Anche certi psicologi junghiani, spesso, proseguono questa sovrapposizione semantica nei loro scritti. Soprattutto l’abituale rappresentazione degli archetipi tipica dell’ultimo Jung viene caricata di spiritualità, fino a trasformarli in una specie di potenze pagane. In molti casi, capire che cosa Jung intendesse dire davvero, o a che cosa si riferiscano i diversi autori junghiani quando usano un termine come quello di archetipo, è davvero questione di scelta individuale. Senza considerare le entità spirituali, per evitare un linguaggio incoerente, ambiguo e misterioso, è dunque necessario scomporre e analizzare il termine almeno negli altri due significati. 1) -L’uso della parola «archetipo», nel senso di «immagine archetipitica» è ancora attuale. In questo caso, Jung riprende il senso greco originario del termine archetypon da Platone, che lo utilizzava per indicare l’originale di una serie qualsiasi, e se ne serve senza indebite estensioni di significato. I motivi comuni all’umanità, rappresentabili figurativamente, il fanciullo divino, la madre, il saggio, il male, il matrimonio, l’eroe, l’anima ecc., possono ancora oggi essere chiamati immagini (arche)tipiche, o archetipi. Una scultura primitiva può rappresentare e

richiamare l’archetipo della grande madre; la luce di una candela nel buio l’archetipo dell’anima; particolari bambini l’archetipo del fanciullo divino (gli dèi fanciulli, il figlio di Dio, i lama reincarnati… oggi con la subcultura New Age sono arrivati anche i «bambini indaco»). 2) -Il vocabolo «archetipo», per indicare i sistemi psicobiologici precursori dei comportamenti, delle immagini e delle idee, non sembra, invece, avere oggi alcuna utilità. In questo senso appare troppo vago, vetusto, spiritualista, metafisico, in sostanza confusivo. Cito, a titolo di esempio, questo brano: Tutto ciò che è nel bambino si fonde indissolubilmente, per così dire, con l’immagine materna. Quanto io dico non è vero soltanto per il caso singolo, ma si verifica anche storicamente. È l’esperienza vissuta dalla serie degli antenati, è una verità organica come il rapporto tra i sessi. Anche l’archetipo, immagine materna collettiva ereditaria, è dotato di una forza attrattiva straordinariamente intensa, che spinge il bambino ad aggrapparsi istintivamente a sua madre.40

Che cosa sta sostenendo Jung? Si tratta di un’espressione comprensibile? È davvero «un’immagine materna collettiva ereditaria» che spinge il bambino ad aggrapparsi a sua madre? O non è, piuttosto, molto più adeguato e verosimile descrivere la stessa situazione in questo modo: Il neonato, quando viene alla luce, è dotato di un sistema psicobiologico di attaccamento nei confronti del caregiver, un sistema che si è formato nel corso dell’evoluzione delle specie, così come si sono formate le differenze sessuali.

Tutta l’opera junghiana è compromessa da arcaismi e spiritualismi volutamente evocativi. Jung dice: «Là dove, in qualunque senso, manca la madre individuale, si avverte una perdita, e l’immagine materna collettiva fa sentire le sue esigenze».41 Ma si potrebbe dire molto più efficacemente: «Se il neonato non è seguito da un caregiver dotato di un

buon sistema di accudimento, va incontro a seri problemi». Non si tratta solo di lessico da aggiornare, ma di un quadro teorico effettivamente ambiguo. Dietro la locuzione «l’archetipo della madre che spinge il bambino» ci può stare tutto: l’idea originaria della madre, un’icona, uno «spirito» materno o la dea madre (di fatto, molti junghiani interpretano la frase proprio in questo modo). Le persone non sanno di che cosa stanno davvero parlando e sono trascinate in un universo spiritualista da una comunicazione vaga e evocativa. L’ambiguità del termine archetipo da un lato, il determinismo biologico dall’altro, rendono la nozione inutilizzabile per indicare le basi psicobiologiche del comportamento. Non ha neppure senso introdurre nuovi vocaboli per sostituirlo, come invece propone lo psichiatra junghiano Stevens, perché alla fine si tratta proprio di concetti diversi.42 Non c’è spazio, oggi, per confusioni tra spiritualità e biologia. Gli errori evoluzionistici di Jung La psicologia evoluzionistica di Jung vorrebbe essere darwiniana, e non esplicitamente lamarckiana come quella di Freud, ma cade anch’essa nell’errore della memoria filogenetica, al quale lo psicologo svizzero aggiunge, soprattutto nella seconda parte della sua vita, spiritualismi e finalismi di varia natura. I numerosi errori d’interpretazione della teoria dell’evoluzione possono confondere un lettore che non conosce le basi dell’evoluzionismo, motivo per cui

queste opere andrebbero presentate criticamente e non studiate dogmaticamente, come troppo spesso avviene nelle scuole junghiane di formazione. Già negli anni cinquanta del Novecento il biologo Adolf Portmann fece notare a Jung alcune delle sue incongruenze scientifiche, tra le quali il fatto che egli spesso confondeva, nel suo concetto di inconscio collettivo, due elementi tra loro differenti: l’eredità dei sistemi psicobiologici e i ricordi di quanto era accaduto agli individui e alle varie popolazioni del mondo.43 La prima è una posizione coerente con la sintesi moderna dell’evoluzionismo, la seconda è un residuo di sapore lamarckiano che si basa sulla credenza nella trasmissione dei caratteri acquisiti. Se è vero che Jung ha precisato più volte che con il concetto di archetipo si riferiva alla trasmissione genetica dei precursori biologici dei contenuti, e non ai contenuti stessi, è anche vero che in molte parti della sua opera ha continuato a parlare di ricordi ancestrali, dando l’impressione di affrontare il tema con una certa leggerezza. Spesso dimostra di non avere chiaro che noi tendiamo a reagire come i nostri avi perché condividiamo con loro la medesima struttura psicobiologica e non perché ricordiamo (non si sa bene come) gli accadimenti avvenuti in epoche passate: la paura dei serpenti o dei ragni (se ha davvero una componente di origine genetica, come sembra) non deriva dal ricordo, bensì dal fatto che gli individui in cui è emerso questo timore si sono riprodotti di più degli altri. In questo modo, i geni dei circuiti neurali che creano la paura nei

confronti dei serpenti si sono diffusi per via ereditaria e sono giunti fino a noi. L’ormai anziano Jung, reputava che in psicologia fosse sufficiente avere una concezione evoluzionistica generica e che fosse irrilevante conoscere i meccanismi sottili dell’evoluzione. Fu proprio questo ciò che scrisse allo psicologo analista inglese Michael Fordham, uno dei suoi più importanti collaboratori, che gli muoveva obiezioni su questo tema: per la psicologia non avrebbe avuto importanza, a suo parere, sapere se i modelli di comportamento da lui chiamati archetipi venissero «trasmessi per tradizione, o migrazione, o per ereditarietà».44 Una difesa di questo tipo appare oggi quanto mai superficiale, non solo perché le approssimazioni rendono vana qualsiasi teoria, ma soprattutto perché la conoscenza di come avviene l’evoluzione cambia radicalmente la visione del mondo e incide direttamente sulla psicologia personale, sulla teoria psicologica e sullo stesso modo di fare terapia. La teoria biologica di Jung fu comunque largamente trascurata. Tra i pochi che hanno lavorato sulle concordanze tra la parte biologica junghiana e la teoria dell’evoluzione va segnalato lo psichiatra junghiano inglese Anthony Stevens.45 Stevens si dimostra pienamente consapevole della prospettiva darwiniana e del suo valore unificante nelle scienze del comportamento, e ammette inoltre che molti concetti junghiani derivano dalla psicologia di Janet; segnala anche i lamarckismi junghiani e accenna agli spiritualismi diffusi del maestro, dal quale però non prende le distanze.

Non denuncia insomma le parti pseudoscientifiche e magiche del pensiero junghiano, oggi abbondantemente riprese dalla subcultura New Age.46 D’altra parte le battaglie dell’ultimo Jung contro «la scienza oggettivante», nell’opera di Stevens rimangono sullo sfondo, cosicché la figura di Jung ne risulta di fatto ingigantita. Parapsicologia – Scienza Jung è una figura complessa e contraddittoria: da una parte ha elaborato una psicologia del profondo su basi biologico-evoluzionistiche di un certo interesse e dall’altra ha trascurato la sua stessa elaborazione per sviluppare posizioni basate sui fenomeni paranormali. Le credenze paranormali, niente affatto rare nella storia della scienza, erano piuttosto comuni a cavallo tra Otto e Novecento e avevano coinvolto altri studiosi di quell’epoca. Anche Freud spiegava vari fenomeni con la telepatia;47 William James fu il fondatore della Società parapsicologica e perfino Alfred Russel Wallace, co-scopritore della teoria dell’evoluzione assieme a Darwin, cercava di collegarsi con gli spiriti. Furono pochi gli psicologi a manifestare un’invincibile sfiducia riguardo alla parapsicologia, come Pierre Janet, che riteneva ogni forma di spiritismo una sorta di dissociazione semi-volontaria, in cui l’attribuzione di causalità veniva erroneamente assegnata ad agenti incorporei esterni anziché allo stesso individuo.48 Jung, pur sottolineando le basi biologiche della psiche, dà l’impressione, nel tempo, di finire fuori strada e di rinunciare

a tenere unite psiche e corpo, senza capire fino in fondo che «la mente è funzione del corpo», come aveva intuito Darwin.49 L’idea filosofico-religiosa dello Jung degli ultimi decenni può essere definita come «monismo neutrale», la posizione di quanti credono che la vita sia sorta da un principio comune che univa spirito e materia all’inizio dell’Universo. Questo principio comune sarebbe esistito prima ancora di ogni tipo di evoluzione, per cui spirito e materia continuerebbero a essere in qualche modo collegati tra loro: «Nel mondo vi sono allo stesso tempo dualismo e unità», scriveva;50 e ancora: «Quantunque anima e corpo ‐ costituiscano sotto molti aspetti un’unità, pure essi appaiono sostanzialmente così diversi che siamo costretti ad attribuire all’anima, come al corpo, una natura particolare».51 Questo modo di pensare ben, illustrato da William James nel 1890 nei suoi Principi di psicologia,52 è un’idea profondamente dualista, incentrata sull’esistenza di un mondo spirituale. Il ragionamento dei monisti neutrali parte dal presupposto che nulla di quello che c’è nel mondo è frutto di una nuova creazione, ma soltanto di una nuova disposizione di materiali originari ed eterni. A questa premessa i monisti neutrali ne aggiungono un’altra: nel mondo esiste la coscienza, se si ammette l’evoluzione senza intervento della creazione, bisogna dunque ammettere che qualche forma di coscienza sia esistita fin da prima dell’origine delle cose. Ad ogni atomo originario di materia, dunque, doveva essere accoppiato fin dall’origine un atomo originario di coscienza. Allo stesso modo in cui gli atomi di materia hanno sviluppato

corpi e tessuti cerebrali, con un processo analogo si sarebbero prodotte quelle forme di coscienza più ampie, giù giù fino alla nostra. Questo è il motivo per cui spirito e materia sarebbero legati, e proprio questo legame è alla base della teoria junghiana della sincronicità. È evidente che sulla base di questi presupposti, in cui Jung credeva fermamente, si ricade fatalmente nel dualismo cartesiano, quell’idea che Ryle chiama il «dogma dello spettro nella macchina», chiamato anima, Io, Psiche o comunque si voglia. È questo spettro che guiderebbe il nostro corpo e che rimarrà dopo la nostra morte.53 Tuttavia, fin quando non verrà dimostrata l’esistenza degli spiriti, queste ipotesi sono solo speculazioni prive di senso. Le posizioni evoluzionistiche di Jung mostrano spesso una certa confusione, del resto comune ai suoi tempi. Non manca in lui neppure il razzismo, laddove spesso afferma che vi sia una differenza tra le «razze», comprese la «razza ariana» e quella «ebraica».54 Ma non sono queste opinioni che hanno particolarmente influito sul rifiuto della psicologia junghiana da parte del mondo scientifico. La psicologia freudiana è ancora più lamarckiana della sua, e Freud non si mostra meno razzista nei confronti dei neri. La responsabilità di quest’opposizione va piuttosto imputata alle posizioni spiritualiste e parapsicologiche di Jung, alle sue polemiche degli ultimi decenni contro «il materialismo della scienza oggettivante», alla creazione di una scuola e alla formazione di allievi che hanno sviluppato le parti più mistiche del suo pensiero, fino alla sua autoidentificazione in illuminato

gnostico che afferma di conoscere verità oltreumane: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste».55 Jung riportava le proprie esperienze di pre-morte e parlava del suo contatto con l’aldilà usando parole che ricordano quelle di Rutger Hauer nei panni del replicante Roy Batty in Blade Runner.56 Sosteneva che i sogni, oltre che riferirsi alla storia interiore di un soggetto, potevano effettivamente trasmettere messaggi extrapsichici e credeva alla sincronicità, nelle sue parole «un ordinamento acausale degli eventi», «un caso particolare del generale coordinamento acausale, e precisamente quello dell’omogeneità di processi psichici e fisici».57 Queste dubbie credenze non erano separate dalla sua elaborazione scientifica, e, anzi, costituivano il nucleo della sua teoria psicologica e della sua pratica terapeutica. Va ricordato, tuttavia, che verso la fine degli anni trenta del Novecento quasi il novanta per cento degli psicologi americani riteneva che la parapsicologia fosse una disciplina scientifica.58 Jung fu molto influenzato dal clima dell’epoca e basò la teoria della sincronicità sui lavori di Rhine, il cui nome ricorre circa un’ottantina di volte nelle opere di quel periodo.59 Egli era molto esplicito al riguardo: «Gli esperimenti di Rhine dimostrano che non si tratta di puro caso».60 Nel corso del tempo ci si accorse che i risultati ottenuti da Rhine non erano ripetibili ed erano dovuti a errori metodologici o forzature. Gli esperimenti di Rhine, dunque, non dimostravano nulla, al contrario di ciò che

pensava Jung, eppure l’interesse nei confronti della parapsicologia cominciò a scemare decisamente solo a partire dagli anni sessanta. Jung era consapevole della debolezza delle sue affermazioni e, per dar loro forza e risalto, ebbe la non eccellente idea di pubblicare il suo lavoro sulla sincronicità assieme a uno scritto del fisico e premio Nobel Wolfang Pauli, mente geniale ma psicologicamente fragile. Pauli era in cura da tempo presso Jung e presso la sua principale collaboratrice, Marie-Louise Von Franz, per una depressione e una seria forma di alcolismo, dalla quale peraltro non riuscì mai a liberarsi. La sua era una evidente situazione di dipendenza che non gli permetteva la giusta distanza, tanto che leggere oggi quegli scritti, in cui il premio Nobel usa la teoria dei quanti a sostegno della teoria degli archetipi e della sincronicità del suo terapeuta e maestro, crea un senso di tristezza. Il divenire dello junghismo, in conclusione, è una tragedia scientifica, psicologica, intellettuale e morale: il viaggio va dal tentativo di costruire una psicologia su base scientifica a una pseudoscienza riempita di pensiero magico e di superstizione, di cui tuttavia si trovavano in effetti le basi già nel periodo degli scritti evoluzionistici.61 Non c’è da stupirsi che la sua figura sia gravemente screditata presso gli scienziati.62 La deriva antiscientifica post-junghiana La

maggioranza

dei

continuatori

di

Jung

sembra

enfatizzare proprio l’atteggiamento antimaterialistico e antiscientifico prevalente nel secondo periodo dello psicologo svizzero: metafisica, astrologia, parapsicologia, sincronicità, spiritismo e pensiero magico. Valgano come esempio le posizioni di Umberto Galimberti, che gode di un certo ascolto in Italia, e di James Hillman, sicuramente il post-junghiano più noto al grande pubblico. Galimberti e Hillman non hanno reciproca simpatia; ritengono, anzi, di essere distanti l’uno dall’altro e su posizioni molto differenti. Tuttavia, esiste una forte somiglianza tra i loro lavori, particolarmente su un nodo teorico ben definito: la battaglia contro la scienza. Galimberti sostiene l’inidoneità dell’evoluzione «a spiegare l’origine dell’uomo e la sua peculiarità»,63 mentre Hillman reinserisce la dimensione mitologica tradizionale che, procedendo tra anime e demoni, traduce la psicologia in una teologia rinascimentale composta di riti e magie, il tutto con un linguaggio così intenso che si possono immaginare spiriti vaganti e dèi pagani. I registri simbolici di questi due autori, apparentemente lontani, sono in realtà molto simili: entrambi perseguono una sorta di concezione neo-tolemaica e antropocentrica che enfatizza una differenza essenziale tra gli uomini e gli altri animali, idea che li porta a trascurare, quando non a rifiutare apertamente, l’animalità umana. Entrambi hanno in comune l’utilizzo di un linguaggio ipnotico e affascinante pur con evidenti differenze di stile: Hillman fa ampio ricorso alle immagini e alle personificazioni, mentre Galimberti cerca le argomentazioni

etimologiche e i giochi linguistici. Il risultato, in ambedue i casi, è l’intensità di un registro poetico capace di rendere la parola avvincente. Mancano tuttavia gli argomenti fattuali, ed è assente in modo sistematico la verifica degli enunciati per mezzo delle evidenze scientifiche. D’altra parte l’esperienza, scrive Einstein, «è l’alfa e l’omega di tutto il nostro sapere intorno alla realtà»;64 un pensiero indifferente ai fatti può sostenere qualunque affermazione e il suo contrario, senza dirci nulla di valido. Questi autori trasformano la psicologia in narrazione, confondendo il ragionamento con la metafisica, la realtà con la poesia e la riflessione col sogno. Da sempre la storia del pensiero manifesta una tensione, quando non un conflitto, tra la saggezza e le parole, tra filosofi e sofisti, tra la ricerca della verità e il perseguimento della bellezza. Già Seneca lamentava che l’antico amore per la conoscenza (filo-sofia) si fosse trasformato in amore della parola (filo-logia).65 Questa è sempre stata l’eterna tentazione dei filosofi. Ora lo è anche degli psicologi, che sono tanto innamorati dell’espressione della bellezza al punto di sostituirla alla ricerca della verità, nell’autocompiacimento di quell’incanto che allontana dal mondo.

Epilogo Freud era consapevole del carattere altamente speculativo delle proprie ipotesi. Conosceva il suo temperamento immaginifico. In una lettera privata al suo amico e collega Wilhelm Fliess dichiarò di non sentirsi «un uomo di scienza», ma «uno che ha il temperamento del conquistador, o se vuoi dell’avventuriero».1 Temeva anche una possibile smentita delle sue teorie: «Non possiamo indovinare quali risposte [la biologia] potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi».2 Nell’introduzione ho definito i sistemi freudiani e junghiani una forma di transizione tra la religione tradizionale e la scienza della mente. Come nella religione infatti, in queste teorie si speculava senza preoccuparsi del confronto con la realtà. Come nella religione si istituzionalizzavano percorsi di formazione, separando la psicoterapia dalle altre forme condivise di sapere. E come nella religione si faceva ricorso al principio di autorità per risolvere le dispute. Che cosa penseremmo di Darwin, se avesse creato una scuola internazionale per insegnare la teoria dell’evoluzione, scomunicando coloro che non si formavano direttamente da lui, magari tacciandoli di «evoluzionismo selvaggio»? O se avesse cercato di tacitare chi sosteneva un meccanismo evolutivo differente dalla selezione naturale usando parole come quelle usate da Freud per il suo campo d’indagine: «Nessuno meglio di me

può sapere che cos’è la psicoanalisi».3 Il grande sociologo della scienza Robert K. Merton sosteneva che la scienza ha un suo ethos basato su quattro imperativi tra loro correlati: l’universalismo, il comunismo scientifico, il disinteresse e il dubbio sistematico.4 Inutile domandarsi se questo ethos sia stato rispettato nelle psicologie del profondo. Sembra quasi che si sia verificato un evento analogo a ciò che in biologia è chiamato in causa nella speciazione. L’effetto del fondatore fa sì che i geni dei fondatori di una nuova popolazione si diffondano nel corso del tempo, fino a che l’isolamento porterà alla genesi di una nuova specie. Lo stesso fenomeno avviene in ambito culturale. Una chiusura di breve durata non è di per sé negativa: può essere una «cintura protettiva» per teorie ancora acerbe;5 ma quando un gruppo si chiude in se stesso per troppo tempo, il gergo interno diventa l’unico sistema di comunicazione e gli incontri con gli altri restano sterili. Così nascono le religioni, le ideologie e anche le psicoterapie legate al culto del fondatore. I membri di quella corrente finiscono col percepirsi nel giusto senza più avvertire la necessità di un confronto critico con le altre correnti e le altre discipline. Nell’Ottocento e nel Novecento si sono sviluppate in questo modo le ideologie che hanno colmato il vuoto di certezze lasciato dal crollo delle religioni tradizionali. Lo spazio rimasto libero è stato immediatamente riempito con forme di transizione, tra cui le psicoterapie. L’deologia, secondo la definizione dello storico Fernand Braudel, è «un

sistema confuso di credenze, di affermazioni, di partiti presi, collegati tra loro da una logica spesso imperfetta». L’ideologia avvolge l’individuo, lo afferra per sottometterlo con una costrizione, che peraltro viene accettata con gioia. L’ideologia è un surrogato di civiltà che intende riparare le lacerazioni e colmare i vuoti derivanti dal deterioramento della civiltà esistente.6 Oggi il mondo è cambiato, le grandi idelogie sembrano aver perso definitivamente la loro forza, e probabilmente ha ragione la filosofa Franca D’Agostini quando sostiene che viviamo in un’epoca di morti viventi, con ideologie superate che continuano a fare danno, e anche in un’epoca di sepolti vivi, con teorie frettolosamente tumulate senza averne colto la loro ricchezza e potenzialità.7 Tra i morti viventi, per i motivi illustrati in questo libro, possiamo inserire anche i grandi sistemi filosofico-psicologici sistematizzati da Freud e Jung. Mentre i contributi degli psicologi darwiniani vissuti a cavallo del Novecento, in particolare William James e Pierre Janet, sono stati sepolti vivi, per molto tempo, dal successo dei primi.8 La rivoluzione scientifica degli ultimi decenni ha nuovamente sparigliato le carte. La biologia molecolare e le neuroscienze mostrano che i ricordi sono fissati dentro di noi tramite le connessioni cerebrali; i vincoli del metabolismo del sistema cervello/mente spiegano perché la coscienza si sia evoluta in maniera discretamente dissociata; la primatologia e le neuroscienze affettive svelano come il nostro modo subconscio e affettivo di «ragionare» sia

largamente condiviso con i primati non umani e trovi la sua migliore descrizione nella teoria dell’evoluzione; la psicologia animale comparata indica che molte tendenze che noi riteniamo di origine culturale sono in realtà diffuse in altre specie e richiedono quindi una spiegazione differente. Le neuroscienze cognitive mostrano che l’Io e l’inconscio non sono elementi unitari, ma scomponibili in diversi sistemi psicobiologici che reagiscono in modo diverso. I sepolti vivi, come James e Janet, che avevano anticipato nelle loro psicologie questi sviluppi, stanno sempre più riemergendo. Pluralismo Se le nostre emozioni sono condivise con gli altri mammiferi, dobbiamo arrenderci all’evidenza: nonostante tutta la nostra meravigliosa cultura, rimaniamo degli animali affettivi. Abbiamo bisogno di conforto non per via di qualche nevrosi infantile, ma per motivi del tutto fisiologici in un mammifero sociale, legati alla necessità di innalzare i livelli di alcuni mediatori chimici, tra cui l’ossitocina, che promuove la cooperazione e la sensazione di amore e di gioia. Il maggior conforto spiega, per esempio, perché gli sposati vivono più a lungo di celibi e nubili, hanno minori tassi di alcolismo, depressione e malattie, e, per quanto riguarda il tema di questo libro, chiarisce perché l’interazione affettiva implicita sia così importante nella cura del paziente. La scienza ci aiuta a capire le strategie migliori da

utilizzare in terapia. Per questo occorre che la comunità scientifica si ritrovi su uno schema condiviso basato sulla scienza e sulla laicità. Laicità, non significa solo chiusura agli elementi religiosi e irrazionali nel setting; significa anche non sostituire la religione tradizionale con le credenze del modello metafisico-psicologico di riferimento della propria scuola. Questo significa saper riconoscere le debolezze del proprio quadro teorico: non c’è laicità quando si rimane attaccati a ipotesi non confermate e non è scientifico evitare il confronto con tutte le discipline scientifiche che hanno a che fare con il comportamento e il sistema mente/cervello. La laicità scientifica presuppone la disponibilità al sacrificio delle parti superate del proprio modello interpretativo. I pazienti hanno bisogno di informazioni corrette per uscire dallo stato di smarrimento in cui si trovano. Chiarire la qualità di una situazione famigliare che ha creato uno sviluppo traumatico e cercare di ripararlo empaticamente, cognitivamente o con qualunque altra tecnica utile è diverso dal ricondurre un disagio psicologico a fantasie non verificabili. Sapere che i precursori dell’etica, delle emozioni, dei nostri sentimenti si sono formati con l’evoluzione e sono comuni a tutta la nostra specie è diverso dal credere che la morale e la religione non abbiano niente a che fare con la biologia e tutto dipenda dalla legge del padre o dalle convenzioni sociali. Capire la propria storia con il modello dissociativo del cervello/mente è diverso dal pensare che i propri disturbi siano causati dalla rimozione di

rappresentazioni indesiderate. Avere una visione corretta dell’evoluzione è diverso dal credere alle favole del creazionismo, ai ricordi del padre primordiale castrante o alla sincronicità junghiana. Sapere che i pazienti si legano al terapeuta perché sono spinti a farlo da un sistema di attaccamento che è condiviso con molti mammiferi sociali è diverso dal credere al transfert. Le persone non imparano nozioni neutre: ciò che si viene a sapere esercita una pressione sul sistema mente/cervello, una forza che, nel tempo, può portare a cambiare non solo il modo di vedere le cose, ma anche lo stesso atteggiamento con cui ci si pone nel mondo. Le informazioni corrette sono fondamentali per andare verso uno degli obiettivi più importanti della psicoterapia: l’aumento della consapevolezza. Cambiare è difficile. È doloroso abbandonare schemi e riferimenti sostenuti per decenni. Si tratta di modi di pensare che sono diventati dei compagni di strada che ci hanno orientato per tanto tempo. Eppure, occorre essere disposti a una trattativa continua con il vecchio modo di pensare.9 Per non irrigidirsi sugli schemi passati è importante, ma non per tutti sufficiente, «restare tra gli spazi tra realtà diverse senza perderne alcuna».10 La salute mentale di un terapeuta richiede qualcosa in più, un movimento proattivo, dentro e fuori se stessi, una curiosità psicologica e intellettuale. Per un terapeuta è necessaria non soltanto la capacità di restare negli spazi, ma anche quella di navigare tra gli spazi per andare a cercare nuovi possibili

modi di comprendere la realtà, utilizzando quel meraviglioso percorso in divenire che si chiama scienza. Un terapeuta deve quindi interrogare le altre discipline per sentire i loro punti di vista sui grandi temi: il tabù dell’incesto è davvero soltanto un prodotto culturale o la cultura rinforza un’inibizione naturale? Il lavoro è la sublimazione di pulsioni sessuali o nasce come mezzo per elevare il proprio status, anche a fini sessuali? Siamo originariamente perversi-polimorfi, dunque biologicamente cattivi, oppure un insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo? Il paziente è cambiato perché ha capito oppure ha capito perché è cambiato sotto la pressione di potenti forze implicite, più o meno indipendenti da quanto è stato detto? Abbattuto il muro di Berlino, è ora di abbattere il muro di Vienna. Seppelliamo i morti viventi e diamo alla psicoterapia la dignità che merita aprendola alla scienza e riservando il suo insegnamento alle università. Non si deve lasciare una specialità così importante in mano a scuole private. Per comprendere in modo adeguato il funzionamento del sistema mente/cervello, occorrono le neuroscienze cognitive e affettive insieme a discipline come biologia evoluzionistica, genetica del comportamento, biochimica, paleontologia, ecologia del comportamento umano, psicologia cognitiva, psicologia animale comparata, antropologia, filosofia della mente e molto altro, senza dimenticare logica ed epistemologia. La conoscenza di queste discipline cambia

strutturalmente la realtà interiore e favorisce il superamento del dualismo, dell’antropocentrismo, del finalismo e del vitalismo, permettendo di sviluppare una sana consapevolezza della propria e altrui complessità, modificando lo sguardo interiore e mutando l’approccio con se stessi e con i propri pazienti. La formazione scientifica è l’indispensabile vaccino contro la ciarlataneria sciamanica dello psicoterapeuta medicine man. È una ricerca faticosa, ma anche stimolante. È uno sforzo da cui scaturisce un sentimento di eudemonia, quello stesso sentimento che noi vorremmo suscitare nei nostri pazienti.

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Note Premessa 1 2

G. Jervis, 2007, p. 73. E. R. Kandel, 1983, p. 139.

Introduzione 1

T. Franklin et al., 2010. D. Noble, 2006, pp. 111-18. 2 J. Panksepp, 2011b. 3 E. Mayr, 2004, pp. 1-39. 4 J. Panksepp, L. Biven, 2012, p. 485, p. 530 e pp. 14-15. A. Damasio, 2010. 5 J. Panksepp, L. Biven, 2012, pp. 457-59. 6 A. Damasio, 2010, pp. 235-37. Cfr. anche A. Damasio, 1994, p. 162-65. 7 J. Panksepp, L. Biven, 2012, pp. 457-505. 8 A. Damasio, 2010, pp. 34-43; J. Panksepp, L. Biven, 2012, pp. 51-101; B. Merker, 2007, pp. 63-81.

Capitolo primo 1 2 3 4 5 6

M. Heidegger, 1927, p. 308. H. F. Ellenberger, 1970. Plutarco, De tuenda sanitate praecepta, 122e. L. Levy-Bruhl, 1922. Ellenberger, 1970. Cfr. A. Guggenbühl-Craig, 1983, pp. 15-26. P. Hadot, 1987, 1995, 2001.

Capitolo secondo 1

S. Freud, 1915-17, p. 446; 1916 (1917), p. 660-64; 1924a, pp. 57-58. 2 Cfr. L. L. White, 1960. 3 N. Abbagnano, 1971, pp. 476-77. 4 C. Musatti, 1982, p. 43-44. 5 W. Griesenger, 1845-1861, ed. inglese, p. 36 [trad. mia]. 6 H. Maudsley, 1867. p. VIII [trad. mia]. 7 Ivi, p. 20 [trad. mia]. 8 Ivi, 1867, p. 133 [trad. mia]. 9 Ivi, 1867, p. 308 [trad. mia]. 10 P. Janet, 1893. 11 Ricerca effettuata tramite motori di ricerca su Darwin C., 1829-1882, Opere complete on-line. http://darwinonline.org.uk 12 C. Darwin, 1871b, Vol. I, p. 67 [trad. mia]. (Le citazioni di Darwin di questo capitolo rimandano alla prima edizione originale inglese). 13 Ivi, vol. I, p. 55. 14 Ivi, vol. II, p. 234. 15 Ivi, vol. II, p. 50. 16 Ivi, p. 141. 17 Ivi, p. 370. 18 Ivi, p. 461. 19 F. de Waal, 2013, p. 130. 20 A. Tartabini, 2003, pp. 39-40. Citazioni riferite all’intero capoverso.

21 22 23 24 25 26 27 28 29 30

C. Darwin, 1838-1840, p. 110. W. James, 1890, pp. 713-14; pp. 716-19. W. James, 1890, p. 716. J. Panksepp e L. Biven, 2012, pp. 69-71. W. James, 1890, p. 259. M. S. Gazzaniga, 1998, pp. 27-47. D. Dutton e A. Aron, 1974, pp. 510-17. A. Damasio, 2003, p. 247. S. Freud, 1929, p. 617. S. Freud, 1922, p. 497; 1926b pp. 301-02; 1934-1938, p.

421. 31

S. Freud, 1920, p. 224. 32 S. Freud, 1912-1913, p. 129. 33 S. Freud, 1912-1913. 34 S. Freud, 1912-1913, p. 147. 35 S. Freud, 1912-1913, p. 159. 36 S. Freud, 1905, p. 448: «L’ontogenesi può essere considerata come una ripetizione della filogenesi»; 1913, p. 267: «Il principio “l’ontogenesi riproduce la filogenesi” dovrebbe essere applicabile anche alla vita psichica». 37 S. J. Gould e R. C. Lewontin, 1979. 38 F. J. Sulloway, 1992 e F. J. Sulloway, 1994. 39 J. Panksepp e L. Biven, 2012, p. 300-05. 40 S. Freud, 1915, pp. 469-70. 41 S. Freud, 1905, pp. 476-77. 42 S. Freud, 1905, p. 477 e p. 535. 43 S. Freud, 1915-17, p. 470. 44 S. Freud, 1905, pp. 487-90.

45

T. Furuichi, 1992. 46 C. Hashimoto e T. Furuichi, 1996, p. 160. 47 Cfr. S. Freud, 1929, pp. 589n.-590n. e p. 595n. Cfr. anche S. Freud, 1910-1917, pp. 430-31. 48 S. Freud, 1919, p. 64. 49 S. Freud, 1915 (1985). 50 in Freud, S., Ferenczi, S., 1996, ed. it. p. 74-75. 51 S. Freud, 1912-1913; 1922, p. 497; 1926b pp. 301-02; 1934-1938. 52 S. Freud, 1926b, p. 302. 53 S. Pinker, 2011. 54 S. Freud, 1938, p. 565. 55 F. Sulloway, 1992 e F. J. Sulloway 1994. 56 S. J. Gould, 2002b, p. 151. 57 W. James, 1890, vedi in particolare p. 125. 58 P. Janet, 1928, p. 93. 59 T. Pievani, 2014b, p. 237 e 241; D. Buller, 2005. Pur senza differenziarlo con le maiuscole, la critica di Pievani si riferisce in maniera chiara al paradigma chiamato «Psicologia Evoluzionistica», di cui il lavoro di Tooby e Cosmides (1992) è il testo fondazionale. 60 T. Pievani, 2014, pp. 242-43. 61 S. J. Gould, E. Vrba, 1982. 62 R. R. Marett, 1920, pp. 205-06. R. Kipling, 1902. Questa accusa è stata successivamente ripresa da altri autori a proposito di teorie eccessivamente speculative. Tra questi, Stephen Jay Gould che l’ha utilizzata nella sua polemica contro la sociobiologia.

63

S. Freud, 1873-1939, p. 291, lettera a Groddeck del 5 giugno 1917. 64 S. Freud, 1934-1938, p. 419-20. 65 S. Freud, 1934-1938, p. 421. 66 S. Freud, 1922, p. 500. 67 S. Freud, 1934-1938, p. 420. 68 S. Freud, 1915-1917, pp. 469-70. 69 Si veda G. Miller, 2000, p. 65. 70 T. Enomoto, 1990. T. Kano, 1992, J. H., Manson, S. Perry, A. Parish, 1997. 71 R. Wrangham, D. Peterson, 1996, p. 180. 72 T. Enomoto, 1990. T. Kano, 1992. 73 J. Diamond, 1997, p. 11. 74 B. Bagemhil, 2000. 75 B. Sillen-Tullberg, A. P. Møller, 1993; J. Diamond, 1997, p. 86. 76 J. Diamond, 1997, pp. 94-95. 77 F. Jacob, 1977; J. Panksepp e L. Biven, 2012; A. Damasio, 2010. 78 Da C. Darwin, 1871, p. 439. 79 S. Freud, 1925, p. 209. 80 S. Freud, 1922, p. 494. 81 S. Freud, 1925, pp. 207-17, in particolare p. 212. 82 S. Freud, 1932, p. 178. 83 G. Liotti, B. Farina, 2011. 84 M. Orbecchi, 2014, pp. 26-27. 85 F. M. Dostoevskij, 1878-1880, p. XXI. 86 S, Freud, 1927b, pp. 521-38.

87

Queste accuse si trovano soprattutto in P. Janet, 1913. Per una discussione sul tema, rimando alla mia introduzione all’edizione italiana. 88 P. Janet, 1919, vol. 1, p. 606. 89 A. N. Schore, 1994. 90 J. Holmes, 1993, pp. 4-5. 91 I. C. Kaufman, L. A. Rosenblum, 1967. 92 H. Harlow, 1958. 93 Per un’analisi della posizione di Sándor Ferenzy si veda V. Lingiardi, C. Mucci, 2014. 94 M. Khan, 1974, pp. 41-66; P. Janet, 1913, p. 71. 95 G. Liotti, B. Farina, 2011, p. 33 e segg. 96 G. Liotti, B. Farina, 2011, p. 81 e segg. 97 S. Blaffer-Hrdy, 1976. 98 A., Tartabini, 2000. 99 J. Panksepp e L. Biven, 2012, pp. 515-16. La citazione di Darwin, 1871, si trova a p. 110 dell’edizione citata. La traduzione è leggermente modificata. 100 J. Panksepp, 2011b. 101 J. Panksepp e L. Biven, 2012. 102 N. Tinbergen, 1951, pp. 279-80. 103 Cfr. J. Diamond, 1991, pp. 46-76. 104 S. Freud, 1914a, p. 388. 105 J. Laplanche, J.-B., Pontalis, 1967, p. 517. 106 Cfr. Kandel, 1999, p. 96-98. 107 J. Panksepp e L. Biven, 2012, p. 248. 108 A. Damasio, 1999, pp. 266-76; A. Damasio, 2003, p. 239.

109

E.F. Loftus, J. C. Palmer, 1974. 110 E. F. Loftus e J. A., Coan, 1994. 111 P. Fonagy e M. Target, 1997, pp. 120-21. 112 P. Janet, 1913, p. 101. 113 Ivi, pp. 105-07. 114 P. Janet, 1907, p. 185. 115 B. van der Kolk, O. van de Hart, C. R. Marmar, 1996, pp. 306-08 in B. van der Kolk, O. van de Hart, L Weisaeth, 1996. 116 C. Shatam, 1973. 117 P. Janet, 1913, p. 72. 118 Ivi, pp. 69-71. 119 P. Janet, 1913, p. 68-71. 120 S. Freud, 1892-1895, 261; H. Ellenberger, p. 620. Cfr. P. Bromberg, 1998, p. 134: «Per la verità sebbene Janet abbia ben compreso le passioni e le esigenze del trauma e della dissociazione, non era in grado di spiegare il perché delle scissioni nella personalità se non chiamando in causa l’ormai antiquata nozione di debolezza o “degenerazione” ereditaria». 121 M. R. Nash et al. 1993. 122 Freud, 1932, p. 190. 123 Freud, 1926, p. 388. Anche un autorevole e informato freudiano, come Philip Bromberg, 1998, p. 135, si lascia trascinare su questo errore: «Freud […] [ci ha tramandato] l’illusione terapeutica che di fatto, o per lo meno dove era implicato il conflitto psichico, la struttura del Sé possa essere assunta come unitaria».

124

W. James, 1890, p. 259. 125 J. Panksepp, L. Biven, 2012, pp. 474-77; P. Rocca, F. Bogetto, 2010, p. 10. 126 Cfr. S. Pinker, 2002; J. Panksepp e L. Biven, 2012, pp. 240, 419-20, 424-32, 444-45, 448-50. 127 C. W., Kuzawa, et al., 2014. 128 K. Fonseca-Azevedo, S. Herculano-Houzel, 2012. R. Wrangham, 2009, pp. 119-40. 129 Simon B. Laughlin, 2004; B. A. Olshausen, D. J. Field, 2004. 130 Vedi A. Damasio, 1994, pp. 235-301. 131 D. C. Dennett, 2005. 132 R. Descartes, 1641, p. 261: «Vi è una grande differenza fra lo spirito e il corpo, perché il corpo, di sua natura, è sempre divisibile, e lo spirito è interamente indivisibile». 133 C. Bollas, 1982, in P. Fonagy e M. Tarbet, 1997, p. 105. 134 A. Adler, 1907, pp. 35-59. 135 M. S. Gazzaniga, 2005. 136 M. S. Gazzaniga, 1998; M. S. Gazzaniga, 1985; Cfr. anche P. Watzlawick, 1977, pp. 36-37. 137 M. S. Gazzaniga, 2005, pp. 132-33. 138 P. Janet, 1889, p. 466. 139 P. Bromberg, 2011, p. 43. 140 P. Bromberg, 2008, p. 116. 141 Bromberg, 1993, p. 135. 142 R. Meares, 2000, pp. 63-64. 143 Vedi ad es. G. Liotti, B. Farina, 2011 e le opere di van der Kolk, van der Hart, Nijenhuis.

144

E. A. Holmes et al., 2005; G. Liotti, B. Farina, 2011; O. Van der Hart, E.R.S. Nijenhuis, e K. Steele, 2006. 145 P. Bromberg, 2008, p. 51. 146 Cfr. J. LeDoux, 1996. 147 E. R. Kandel, 1998, pp. 39-68, in particolare pp. 65-66. 148 E. Tulving, 1972, pp. 381-402. 149 Vedi: E. R. Kandel, 2006, pp. 117-23. 150 E. A. Westermarck, 1891-1901. 151 J. Shepher, 1971; e J. Shepher, 1983. 152 A. P. Wolf, 1995. 153 B. W. Domingue et al., 2014. 154 C. Lévi-Strauss, 1949-1967. 155 S. Freud, 1912-1913, pp. 127-28. 156 Freud, 1912-1913, p. 128. 157 Freud, 1912-1913, pp. 127. 158 F. de Waal, 2013, p. 89, corsivo mio. 159 A. Tartabini, 2003, pp. 124-25. 160 F. de Waal, 2013, p. 90. 161 I. Eibl- Ebesfeld 1967-1987, p. 610. 162 A. Tartabini, M. J. A. Simpson, 1987. 163 I. Eibl- Ebesfeld 1967-1987, p. 610; I. Eibl-Ebesfeld, 1984, pp.170-72. 164 P. Bateson, 1983. 165 I. Eibl- Ebesfeld 1967-1987, p. 611. 166 M. T. Erickson, 2000, p. 213. 167 I. Eibl- Ebesfeld 1984, p. 172. 168 K. Lorenz, 1973, p. 143. 169 F. de Waal, 2006, p. 88.

170

J. Coyne, 2012. J. Coyne, 2009. 171 S. Freud, 1920, p. 235. 172 S. Freud, 1933, p. 299. 173 S. Freud, 1929, (1930), pp. 610-11. 174 S. Freud, 1932, p. 300. 175 S. Freud, 1932, p. 300. 176 S. Freud, 1932, p. 301. 177 S. Freud, 1932, pp. 302-03, passim. (Il corsivo è di Freud). 178 S. Freud, 1927, p. 467. 179 G. Jervis, 2007, p. 106. 180 S. Pinker, 2011. 181 M. Orbecchi, P. Rocca, 2011. 182 Cfr. D. Maestripieri, 2012 pp. 19-59. 183 E. O. Wilson, 2012. 184 R. W. Wrangham, D. R. Peterson, 1996, pp. 22 e segg., pp. 160 e segg. 185 A. Tartabini, 2000, pp. 13-29 e 42 e segg. 186 D. Fossey, 1984. R. Wrangham, 1996, pp. 118-23. 187 R. W. Wrangham 1996, pp. 105-15. 188 R. Thornhill, e C. T. Palmer, 2000. 189 R. Wrangham, 1996, p. 166. 190 F. de Waal. 2005. p. 65. 191 I. Eibl-Ebesfeld, 1984, pp. 241-81. 192 E. O. Wilson, 2012, pp. 86-87. 193 F. de Waal, 2013, p. 24. 194 Su questi temi si veda S. Pinker, 2011. 195 B. Hölldobler, E. O. Wilson, 1994, p. 18, e pp. 107-27.

196

C. Darwin, 1871a, p. 60. 197 Tucidide, II, 39.1-46.2 e V, 116.4. 198 Cfr. T. Pievani, 2014b, pp. 124 e 156. 199 E. O. Wilson, 2012, pp. 17 e 22. 200 P. Bromberg, 1998, p. 116. 201 F. de Waal, 2006, p. 28. 202 M. E. P. Seligman, 2002. 203 S. Freud, 1905, p. 542. 204 W. D. Hamilton, 1963 e 1964. 205 R. Trivers, 1971. 206 Cfr. F. de Waal, 2006, pp. 33-38. 207 R. Dawkins, 1976-1989, p. 5. 208 R. Dawkins, 2006, prefazione. 209 C. Darwin, 1871a, pp. 90-111. 210 F. De Waal, 2006, pp. 52 e 59. 211 Citato in A. Berti, 2010, p. 21. 212 E. Boncinelli in: E. Boncinelli e G. Giorello, 2009, pp. 90-91. 213 J. Panksepp e L. Biven, 2012, pp. 307-36. 214 J. Panksepp e L. Biven, 2012, p. 344. 215 J. Panksepp e L. Biven, 2012. Un riassunto di questi sistemi si trova alle pp. 35-41. 216 J. Panksepp e L. Biven, 2012. 217 T. Nagel, 1974. 218 S. Freud, 1929, p. 568. 219 S. Freud, 1929, p. 602, passim. 220 Platone, La Rep. X, 618c, 619a e 619e [trad. it. di Franco Sartori].

221

A. Tartabini, 2000; R. Wrangham, 1996. 222 R. Lee, 1979. 223 R. Thomsen, J. Soltis, 2004. 224 D. Maestripieri. 2012, p. 39. 225 D. Buss, 1994, p. 87. 226 Su questi temi si veda C. Darwin, 1871; D. Symons, 1979; H. Cronin, 1991; D. Buss, 1994; J. Diamond, 1997; A. Zahavi e A. Zahavi, 1997; G. Miller, 2000; M. Ridley, 2003; F. de Waal, 2005, pp. 64-69, 75-83; D. Maestripieri, 2012 pp. 19-59. 227 A. Adler, 1907 e 1920. 228 A. Zahavi, e A. Zahavi, 1997. 229 M. Rostagno, 1978, p. 109. 230 H. Ellenberger 1970, p. 565. 231 S. Freud, 1912a, p. 524. 232 S. Freud, 1920, p. 205. 233 De Rougemont, 1939, p. 83. 234 S. Freud, 1913-1914, (1915), p. 365; F. Napolitano, 2006, pp. 1109-10. 235 Es. F. Napolitano, 2006, pp. 1112. 236 G. Liotti, 1987 e 2011. 237 Freud, 1932, pag. 190. 238 J. Panksepp e L. Biven, 2012, pp. 432-35. 239 S. Rosenzweig, 1936. 240 V. Lingiardi, 2002, pp. 5-17. Si veda in generale sul concetto di alleanza terapeutica e la sua evoluzione in psicoanalisi. 241 Sul tema dell’alleanza terapeutica V. Lingiardi, 2002;

vedi G. Liotti, F. Monticelli, 2014. Vedi J. D. Safran, J. C. Muran, 2000. 242 Testimonianza personale. 243 Cfr. P. Fonagy e M. Target, 1997, p. 118. 244 Si vedda V. Lingiardi, 2002, p. 19. 245 A. N. Schore, 2003b, p. 375. 246 P. Fonagy, 1999. P. Fonagy e M. Target, 1997, pp. 11618. 247 F de Waal, 2006, p. 46. 248 G. Liotti, B. Farina, pp. 152-161. G. Liotti, 2014, p. 12. e pp. 19-39. 249 Cfr. Boston Change Process Study Group, 2010. 250 J. R. Haule, 1986, p. 93. 251 V. Lingiardi, 2002, p. 20; S. Freud, 1912b, p. 36. 252 P. Bromberg, 1998, p. 191. 253 Vedi R. Trivers, 2000; R. Trivers. 2011. 254 Vedi M. Gazzaniga, 1985, 1998, 2005, 2008.

Capitolo terzo 1

M. Heidegger, 1951–1952. Vol. I, p. 41, e Vol. II, pp. 122-124. 2 T. Pievani, 2014b, p. 151 e pp. 155-56. 3 C. Darwin, 1871, pp. 95-96. 4 G. Miller, 2000, p. 305. 5 Cfr. R. Dawkins, 1986, p. 71. 6 C. Darwin, 1871, p. 96. 7 C. Darwin, 1871, pp. 92 e segg. per le citazioni dell’intero paragrafo. 8 C. Darwin, 1871, pp. 103 e 107. 9 R. D. Hare, 1993, pp. 122-44. 10 C. Darwin, 1871, p. 102. 11 Ivi, p. 107. 12 Ivi, p. 107. 13 Ivi, p. 462. 14 Ivi, pp. 110-11. 15 S. Pinker, 2002, p. 331 e segg. 16 M. D. Hauser, 2006. 17 I. Kant, 1788, p. 313.

Capitolo quarto 1

C. G. Jung, Lettera a Ernest Jones del 25 febbraio 1909. 2 C. G, Jung, 1934c, p. 258. 3 Cfr. H. Ellenberger, 1970, p. 844 e p. 470. 4 C. G. Jung, 1926, p. 350. 5 H. Ellenberger, 1970, p. 438. 6 C. G. Jung, 1926, pp. 347-48. 7 C. G. Jung, 1936b, p. 133. 8 C. G. Jung, 1912, (1913), pp. 146-47, passim. 9 C. G. Jung, 1928-1931, pp. 389-90. 10 C. G. Jung, 1946-1954, p. 218. 11 C. G. Jung, 1936b, p. 133. 12 C. G. Jung, 1928-1931, pp. 399-400. 13 C. G. Jung, 1938-1954, p. 80. 14 C. G. Jung, 1946-1954, pp. 243. 15 C. G. Jung, 1926, p. 348. 16 C. G. Jung, 1929, p. 130. 17 C. G. Jung, 1919, p. 152. 18 W. James, 1890, pp. 712-54. 19 H. Ellenberger, pp. 801 e 804. 20 C. G. Jung, 1934, p. 112. 21 C. G. Jung, 1929, p. 130. 22 C. G. Jung, 1931, p. 376. 23 Cfr. D. E. Brown, 1991. 24 A. Kardiner, 1939. 25 Vedi, per esempio, L. L., Cavalli Sforza, 1996, particolarmente pp. 18-33, 50-58.

26

C. G. Jung, 1928-1931, pp. 350-51 e p. 399. 27 C. G. Jung, 1927-1931a, p. 171. 28 C. G. Jung, 1909-1949, p. 336. 29 C. G. Jung, 1936b, p. 140. 30 C. G. Jung, 1946-1954, pp. 218-43. 31 Ivi, p. 185. 32 C. G. Jung, 1909-1949, p. 336. 33 C. G. Jung, 1928, p. 57 e segg. 34 C. G. Jung, 1946-1954, p. 243. 35 C. G. Jung, 1936a, p. 43. 36 C. G. Jung, 1928-1931, p. 400. 37 C. G. Jung, 1936a, p. 44. 38 C. G. Jung, 1911 (1912)-1952, p. 38. 39 C. G. Jung, 1938-1954, p. 81. 40 C G, Jung, 1927, p. 401. 41 C. G., Jung, 1927, p. 400. 42 A. Stevens, 2000, p. 98. 43 A. Portmann, 1965, p. 89. 44 C. G. Jung, 1956-1961, pp. 167-68. 45 A. Stevens, 2000. 46 A. Stevens, 1982-2002. 47 S. Freud, 1921 e 1922. Galileo compilava oroscopi e Newton dedicò una grande quantità di tempo e di energie a scrivere di esoterismo. A. Albini, 2008; J. Gleick, 2003. 48 H. Ellenberger, 1970, p. 1038. 49 C. Darwin, 1838-1840, p. 75. 50 C. G. Jung, 1925, p. 135. 51 C. G. Jung, 1936c, p. 550.

52

W. James, 1890, pp. 124-51. 53 G. Ryle, 1949, p. 11. 54 Gli esempi, nelle sue opere, sono molto numerosi. A puro titolo di esempio si veda Jung, 1934a, pp. 236-37. 55 C. G. Jung, 1955 in W. McGuire, R.F.C., Hull, (a cura di) 1977, p. 319. 56 Si veda a titolo di esempio il cap. X e XI di A. Jaffé (a cura di), 1961. La stesura finale del libro è stata approvata dalla famiglia Jung, tuttavia non è stata da lui rivista; il libro è uscito postumo. 57 C. G. Jung, 1952, p. 535. 58 J. E. Alcock, 1993, pp. 60-67. 59 C. G. Jung, 1952, p. 461 e segg. 60 C. G. Jung, 1957, intervista a Richard Evans, in McGuire, W., Hull, R.F.C., (a cura di), 1977, pp. 393-95. 61 Cfr. R. Noll, 1994. 62 Vedi al proposito R. Dawkins, 2006, p. 57. 63 U. Galimberti, 1999, pp. 183-85 e p. 763. 64 A. Einstein, 1934. 65 Seneca, Lettere a Lucilio, 108.23

Epilogo 1

Freud, 1887-1904, lettera a Fliess del 1° febbraio 1900. 2 S. Freud, 1920, p. 245 [traduzione lievemente modificata]. 3 Freud, 1914a, p. 381. 4 R. K. Merton, 1949, 1957, 1968. 5 I. Lakatos, in I. Lakatos, A. Musgrave, A., 1993, pp. 21114. 6 F. Braudel, 1974, p. 2021. 7 F. D’Agostini, 2014. 8 William James è letto come filosofo, non come psicologo. In Italia, l’ultima edizione dei suoi Principles of Psychology risale al 1909. Negi Stati Uniti, prima delle recenti versioni digitali, si risaliva al 1950. 9 Cfr. R. Casati, 2011, pp. 3-8. 10 P. Bromberg, 1993, p. 116.

Indice Frontespizio Presentazione Premessa Introduzione Nuovi orizzonti Evoluzione e inconscio 1. L’evoluzione della cura Le prime psicoterapie Dalle religioni oltremondane alle religioni laiche 2. Freud e l’inconscio Scoperta dell’inconscio – Appropriazione di un concetto Gli animali non umani La psicologia evoluzionistica di Freud e le fasi sessuali Le fasi sessuali Memoria filogenetica – Prerequisiti biologici L’era glaciale – L’era della fantasia Psicologia Evoluzionistica – psicologia evoluzionistica Psicoanalisi ed evoluzione Sessualità – Riproduzione Complesso di Edipo – Fantasie sessuali Oppure traumi infantili Nulla in psicologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione Rimozione – Dissociazione Rimozione Dissociazione

Struttura dissociativa della mente L’Io diviso L’inconscio freudiano esiste davvero? La dissociazione di stati mentali Inconscio freudiano – Organizzazione dissociata della memoria Tabù dell’incesto – Inibizione della depressione endogamica Freud e Lévi-Strauss Il resto del mondo vivente Thanatos, o della psicologia popolare Perché la guerra? Oltre la psicologia ingenua L’ossessione della dominanza L’ombra dell’eusocialità Pulsione di morte – Aumento della fitness Altruismo Complessità e scelta Emozioni di base Sublimazione – Ricerca di status Transfert – Attaccamento Interpretazione – Narrazione Il cambiamento L’ambiente emotivo Il racconto

3. La fonte dell’etica L’origine dell’etica Biologia della morale Materialismo etico Regole morali Qualità morali Indagini morali 4. Jung e gli archetipi dell’inconscio collettivo L’evoluzione della psiche secondo Carl Gustav Jung Inconscio collettivo Archetipi Con-fusioni archetipiche Gli errori evoluzionistici di Jung Parapsicologia – Scienza La deriva antiscientifica post-junghiana Epilogo Pluralismo Note Premessa Introduzione Capitolo primo Capitolo secondo

5 2 8 12 12 16 23 26 29 32 32 38 45 49 54 55 59 62 65 69 73 81 85 85 93

97 104 107 109 111 114 117 121 124 130 132 137 140 143 147 150 156 165 169 169 173 180

183 183 184 186 188 190 193 197 197 202 205 210 214 217 221 224 227 268 268 269 270 271

Capitolo terzo Capitolo quarto Epilogo Bibliografia

283 284 287 232