Manuale di psichiatria e psicoterapia 9788820761769

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Manuale di psichiatria e psicoterapia
 9788820761769

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NICOLA LALLI

MANUALE DI PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA

Nicola Lalli

Manuale di psichiatria e psicoterapia

contributi di: G. Bartocci, E. Bollea, M. Bordi, G. Cavaggioni, M. Conte, E. Costa, G. de Simone, A. Dionisi, G. Donini, F. Fagioli, M.a Fagioli, P. Fiori-Nastro, L. Frighi, P. Gentili, N. Giacchetti, A. Homberg, C. Lalli, G. Liotti, A. Manzi, A. Masini, S. Mazzoni, L. Onnis, R. Panieri, P. Pansini, M. Piccione, R. A. Pisani, F. Riggio, A. Scavo, R. Tatarelli, F. e S. Tucci

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 1999 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 1999 Lalli, Nicola (a cura di): Manuale di psichiatria e psicoterapia/Nicola Lalli (a cura di) Napoli : Liguori, 1999 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 6176 - 9 1. Clinica psichiatrica

2. Patologia psichiatrica

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————————————————— 14 13 12 11 10 09 08 07 06 05 04 03 02 01 00 99 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

1

Prefazione alla II edizione

3

Considerazioni di uno psichiatra

5

Introduzione

Parte prima Concetti generali 9

1 - Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo 1. Medicina e psichiatria: riflessioni sulla storia 11; 2. Medicina e psichiatria: un problema di metodo 15; Riferimenti bibliografici 22.

23

2 - Psichiatria: modelli a confronto 1. Considerazioni generali 24; 2. La psichiatria clinico-descrittiva 24; 3. Il modello psicopatologico 26; 4. Il modello psicoanalitico 27; 5. Il modello fenomenologico-esistenziale 29; 6. Il modello biologico 30; 7. Il modello sociale 31; 8. Il modello integrato pluralistico 33; 9. Il DSM-IV 33; Riferimenti bibliografici 33.

35

3 - Psichiatria e biologia 1. Gli psicofarmaci 36; 2. Alcune nozioni di neurofisiologia e di psicobiologia 36; 2.1. La trasmissione sinaptica 37; 2.2. I neurotrasmettitori 37; 2.3. I circuiti neuronali 39; 2.4. I recettori 39; 3. I modelli psicobiologici 40; 3.1. L’ansia 40; 3.2. La depressione 40; 3.3. La schizofrenia 40; 3.4. I disturbi della memoria 41; Riferimenti bibliografici 42.

43

4 - Psichiatria transculturale 1. Definizione ed ambito di competenza 45; 2. Cenni storici 48; 3. Psicopatologia e criteri diagnostici 50; 4. I fenomeni connessi alle migrazioni 52; 5. Linee organizzative per servizi pubblici di Psichiatria Transculturale 53; 6. Conclusioni e prospettive 54; Riferimenti bibliografici 56.

59

5 - Psichiatria e bioetica 1. Definizione e storia della bioetica. 61; 2. Dalla deontologia alla bioetica 62; 3. Dall’etica alla bioetica 63; 3.1. Mezzi e fini: etiche deontologiche e teleologiche 63; 3.2. L’etica giusnaturalistica e la legge naturale 64; 3.3. L’etica contrattualistica 65; 3.4. Un’etica dei diritti 65; 3.5. L’etica kantiana e la persona umana 66; 3.6. Le etiche utilitaristiche 66; 4. Cosa e` la bioetica 67; 4.1. Casi particolari 69; 4.1.1. Sperimentazione sull’uomo 69; 4.1.2. Eutanasia. Accanimento terapeutico 69; 4.1.3. Trapianto d’organi 70; 4.1.4. Statuto dell’embrione 71; 5. Quale bioetica? 72; 6. Dai princı`pi al diritto 73; 6.1. Il problema dell’informazione 75; 7. Dalla psichiatria alla bioetica 76; Riferimenti bibliografici 77.

VI

79

Indice

6 - Normalita`, salute e malattia: concetti generali 1. Considerazioni generali 81; 2. La salute mentale come acquisizione moderna 81; 3. Norma, normalita`, salute, malattia: problemi metodologici 83; 3.1. L’approccio concettuale 84; 3.2. Parametri utilizzabili 87; 3.2.1. Il comportamento 87; 3.2.2. Il vissuto soggettivo 88; 3.2.3. Il mondo interno 89; 3.3. La follia della normalita` 89; 4. Norma e normalita` 90; 5. Per un modello complementare dello sviluppo psichico 93; 6. Conclusioni 95; Riferimenti bibliografici 96.

97

7 - Teorie dello sviluppo psichico 1. Introduzione 98; 1.1. Natura-Cultura 98; 1.2. Animalita` -Umanita` 98; 1.3. Continuita` -Discontinuita` 99; 1.4. Deficit-Differenza 99; 2. J. Piaget 100; 2.1. Introduzione 100; 2.2. Stadio senso-motorio 100; 2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni) 104; 2.3.1. Il riconoscimento di Se´ 104; 2.3.2. Lo sviluppo del linguaggio 105; 2.3.3. Caratteristiche dello stadio pre-operatorio 106; 2.3.4. Operazioni mentali specifiche 107; 2.3.4.1. Il realismo 107; 2.3.4.2. L’animismo 108; 2.3.4.3. Il pensiero magico 108; 2.3.4.3.1. Genesi e natura del pensiero magico 109; 2.3.4.4. L’artificialismo 110; 2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni) 111; 2.4.1. La nozione d’identita` 112; 2.4.2. La classificazione 112; 2.4.3. L’ordinamento in serie 113; 2.4.4. Giudizio morale 113; 2.4.5. Le strategie mnemoniche 113; 2.4.6. La concezione del tempo 113; 2.4.7. La causalita` 114; 2.5. Stadio operatorio formale (dai 12 anni in poi) 115; 2.5.1. La logica formale 115; 2.5.2. Lo sviluppo della personalita` 116; 2.6. Commento alla teoria di Piaget 117; 3. S. Freud 117; 3.1. Gli stadi psicosessuali 118; 3.1.1. Stadio orale (dalla nascita ad 1 anno) 118; 3.1.2. Stadio anale (da 1 a 3 anni) 118; 3.1.3. Stadio fallico (dai 3 ai 5 anni) 118; 3.1.4. Fase di latenza (dai 5 ai 12 anni) 118; 3.1.5. Stadio genitale 118; 4. M. Klein 119; 4.1. Posizione paranoide 119; 4.2. Posizione depressiva 119; 5. Erik H. Erikson 120; 5.1. Gli stadi psicosociali 120; 5.1.1. Fiducia-Sfiducia (dalla nascita ad un anno) 120; 5.1.2. Autonomia-Vergogna e dubbio (dai 2 ai 3 anni) 121; 5.1.3. Iniziativa-Senso di colpa (dai 4 ai 5 anni) 121; 5.1.4. Industriosita`-Senso di inferiorita` (dai 6 ai 12 anni) 122; 5.1.5. Identita`-Dispersione (dai 13 ai 18 anni) 122; 5.1.6. Intimita`-Isolamento (dai 19 ai 25 anni) 123; 5.1.7. Generativita`-Stagnazione (dai 26 ai 40 anni) 123; 5.1.8. Integrita` dell’Io-Disperazione (dai 41 in poi) 123; 6. A. Maslow 125; 7. J. Bowlby-M. Ainsworth 125; 7.1. Bisogno di legame 126; 7.2. Importanza dell’ambiente 126; 7.3. Sviluppo dell’attaccamento 126; 7.3.1. Pre-attaccamento 126; 7.3.2. Attaccamento iniziale 126; 7.3.3. Attaccamento maturo 126; 7.3.4. Attaccamento a molte persone 126; 7.3.5. Strange situation 127; 7.3.5.1. Attaccamento sicuro 127; 7.3.5.2. Attaccamento insicuro 127; 8. H. Kohut 127; 9. Infant research 130; 9.1. Se´ emergente 131; 9.2. Se´ nucleare 131; 9.3. Se´ intersoggettivo 131; 9.4. Se´ verbale 131; 10. Conclusioni 132; Riferimenti bibliografici 133.

135

8 - Modello psicodinamico dello sviluppo psichico 1. Considerazioni generali 137; 1.1. Il temperamento 137; 1.2. Il carattere 138; 1.3. La personalita` 138; 1.4. L’Io 139; 1.5. Il Se´ 139; 2. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali 140; 2.1. Il concetto di istinto 141; 2.2. Istinto libidico. Istinto di morte 142; 2.3. La nascita e lo sviluppo psichico 143; 2.4. L’inconscio 144; 2.5. Emozioni ed affetti 145; 2.6. Il vissuto corporeo 147; 2.6.1. Dalla percezione all’immagine corporea 149; 2.7. La coscienza 151; 2.8. L’identita` 153; 3. Modello di sviluppo: dal carattere normale al patologico 155; 4. Stato e struttura: vegliasonno-sogno 158; 4.1. Il sogno: funzione e significato 162; 4.2. Il linguaggio del sogno 163; 5. Struttura, funzione, stato 164; Riferimenti bibliografici 165.

169

9 - Elementi di psicopatologia dinamica Parte I: 1. Quale psicopatologia? 171; 1.1. Modello clinico-descrittivo 171; 1.2. Modello fenomenologico-ermeneutico 173; 1.3. Modello psicodinamico 175; 2. Psicopatologia e filosofia: il problema della conoscenza 177; 2.1. Il concetto di realta` 177; 2.2. Realta` materiale-Realta` umana 179; 3. Conoscenza: dalla sensazione alla percezione 181; 3.1. La sensazione 181; 3.2. La percezione 181; 3.3. La rappresentazione 182; 3.4. L’ideazione 182; 3.5. Il ragionamento 182; 3.6. Il pensiero 182; 4. Conoscenza della realta`. Rapporto con la realta` 184; 4.1. Sensazione e percezione nella conoscenza della realta` umana 185; 5. Dalla psicopatologia alla clinica 188; 5.1. Psicopatologia della coscienza 189; 5.2. Lo stato crepuscolare 189; 5.1.2. L’ipnosi e la trance 190; 5.1.3. Modificati Stati di Coscienza (M.S.C.) 191; 5.1.4. La Personalita` Multipla 191; 5.2. Dissociazione. Scissione. Frammentazione 193; 5.3. La natura della schizofrenia 194; 5.3.1. Il manierismo 194; 5.3.2. Il manierismo come sintomo schizofrenico 196; 5.3.2. La perdita dell’evidenza naturale 201; 5.4. Le allucinazioni 204; 5.4.1. Definizione 204; 5.4.2. Classificazione 205; 5.4.3. La sindrome di C. Bonnet 206; Riferimenti bibliografici 207. Parte II: 1. Un accenno alla metodologia 208; 2. Disturbi dell’affettivita` 210; 3. Aspetti psicodinamici delle depressioni 211; 3.1. Perche´ rifiutiamo l’impostazione organicista 212; 3.2. Abraham, Freud, Klein 213; 3.3. Sprofondare nelle sabbie mobili 214; 3.3.1. La felicita` e` un totale inganno 214; 3.3.2. Ho sognato che avevo il sangue nero 215; 3.3.3. Depressioni fisiologiche 216; 3.3.4. L’oppressione 217; 3.3.5. Malattia mortale 217; 3.4. Oltre la depressione 218; 3.5. Come si cura la depressione? 218; 3.6. Un cobra velenoso 219; 3.7. L’affettivita` 220; 4. Affettivita` : la psicodinamica 220; 5. Allucinazione 225; 6. Elementi per una psicopatologia del delirio 227; Riferimenti bibliografici paragrafo 2 e 3 della Parte II: 241; Riferimenti bibliografici del paragrafo 6: 242.

Indice

243

VII

10 - Nosografia dei disturbi psichiatrici 1. Considerazioni generali 244; 2. Metodologia della classificazione 244; 2.1. Nosografia delle malattie somatiche 245; 2.2. Nosologia, malattia, sindrome, nosografia 246; 3. Storia della nosografia psichiatrica 247; 4. Criteri per una nosografia psichiatrica 248; Riferimenti bibliografici 251.

Parte seconda La clinica 255

11 - Il colloquio psichiatrico 1. Definizione 256; 1.1. La comunicazione: problemi teorici 257; 2. Il colloquio clinico direttivo 260; 2.1. Utilita` del colloquio clinico-direttivo 261; 2.1.1. Il caso clinico (1) 262; 3. Il colloquio psicodinamico 263; 3.1. Problemi teorici 263; 3.1.1. L’ipotesi psicodinamica 263; 3.1.2. L’ipotesi psicogenetica 264; 3.1.3. Il transfert 264; 3.1.4. Dimensione manipolativa ed interpretativa 264; 3.1.5. Il caso clinico (2) 265; 4. Le componenti del colloquio psicodinamico 267; 4.1. L’osservazione 267; 4.2. Le operazioni 268; 4.2.1. L’inizio 269; 4.2.2. La raccolta dei dati 269; 4.2.3. La formulazione di ipotesi 270; 4.2.4. I collegamenti 270; 4.2.5. L’ipotesi psicodinamica 271; 4.2.6. La chiusura 271; 5. Il primo colloquio 271; 6. Conclusioni 273; Riferimenti bibliografici 275.

277

12 - Le psiconevrosi: concetti generali 1. Definizione 279; 2. Eziologia 280; 2.1. Ipotesi biogenetica 280; 2.2. Ipotesi psicogenetica 281; 2.3. Ipotesi sociogenetica 281; 2.3.1. Le nevrosi sperimentali 282; 2.4. Il modello psicodinamico 285; 3. Conclusioni 288; Riferimenti bibliografici 289.

291

13 - La psiconevrosi d’ansia 1. Considerazioni generali 292; 2. Sintomatologia 292; 2.1. Fenomeni ansiosi acuti 293; 2.1.1. Crisi d’angoscia 293; 2.1.2. La depersonalizzazione 293; 2.2. Fenomeni ansiosi cronici 294; 2.2.1. Equivalenti ansiosi 294; 2.2.2. Disturbo d’ansia generalizzato 294; 2.3. Le nevrosi attuali 294; 3. Il carattere ansioso 295; 4. La psicodinamica 296; 5. Il caso clinico 297; 6. Diagnosi differenziale 299; 7. Note di terapia 299; Riferimenti bibliografici 300.

301

14 - La psiconevrosi fobica 1. Considerazioni generali 302; 2. Sintomatologia 303; 2.1. Fobie da situazioni, da animali o da oggetti 303; 2.2. Fobie d’impulso 304; 2.3. Fobie per il proprio corpo 305; 3. Il carattere fobico 306; 4. La psicodinamica 307; 5. Casi clinici 308; 6. Diagnosi differenziale 310; 7. Note di terapia 310; Riferimenti bibliografici 311.

313

15 - La psiconevrosi depressiva (o distimia) 1. Considerazioni generali 314; 2. Sintomatologia 314; 3. Il carattere depressivo 316; 4. La psicodinamica 317; 5. Il caso clinico 318; 6. Diagnosi differenziale 319; 7. Note di terapia 319; Riferimenti bibliografici 319.

321

16 - La psiconevrosi isterica 1. Considerazioni generali 322; 2. Sintomatologia 323; 2.1. Reazioni isteriche 323; 2.2. Isteria di conversione 324; 2.2.1. Conversione somatica 324; 2.2.2. Conversione psichica 326; 2.2.3. Sindromi algiche 327; 2.3. Sindromi rare 328; 2.4. La personalita` isterica 328; 3. Il carattere isterico 329; 4. La psicodinamica 332; 5. Il caso clinico 333; 5.1. L’isterico ed il medico 336; 6. Diagnosi differenziale 337; 7. Note di terapia 339; Riferimenti bibliografici 339.

341

17 - L’obesita` psicogena 1. Considerazioni generali 342; 1.1. Definizione 342; 1.2. Fisiopatologia 342; 1.2.1. Fattori congeniti 343; 1.2.2. Fattori acquisiti 343; 1.3. Incidenze culturali 344; 2. Classificazione dell’obesita` 344; 2.1. Obeso egosintonico 344; 2.2. Obeso egodistonico 344; 2.3. Obeso schizoide 345; 3. Il carattere dell’obeso 346; 4. La psicodinamica 346; 4.1. La famiglia dell’obeso 347; 5. Il caso clinico 350; 6. Diagnosi differenziale 351; 7. Terapia 351; 7.1. Considerazioni generali 351; 7.2. La relazione terapeutica 352; 7.3. I farmaci 353; Riferimenti bibliografici 355.

VIII

357

Indice

18 - La psiconevrosi ossessiva 1. Considerazioni generali 358; 2. Sintomatologia 358; 2.1. Sintomatologie prevalentemente basate sulla ruminazione mentale 359; 2.2. I cerimoniali 360; 3. Il carattere ossessivo 360; 4. La psicodinamica 360; 5. Il caso clinico 365; 6. Diagnosi differenziale 366; 7. Note di terapia 367; Riferimenti bibliografici 367.

369

19 - La psiconevrosi ipocondriaca 1. Considerazioni generali 370; 2. Sintomatologia 370; 3. Il carattere ipocondriaco 374; 4. La psicodinamica 375; 5. I casi clinici 377; 6. Diagnosi differenziale 379; 7. Note di terapia 382; Riferimenti bibliografici 382;

385

20 - L’anoressia psicogena 1. Considerazioni generali 386; 2. Sintomatologia 386; 2.1. Anoressia dell’infante 387; 2.2. Anoressia reattiva o isterica 388; 2.3. Anoressia delle persone anziane 388; 3. Il carattere dell’anoressica 388; 4. La psicodinamica 389; 5. I casi clinici 391; 6. Diagnosi differenziale 393; 7. Note di terapia 393; Riferimenti bibliografici 394.

395

21 - La patologia psicosomatica (o disturbi psicosomatici) 1. Considerazioni generali 396; 2. Il dualismo psiche-soma 397; 3. La conversione: un problema aperto 398; 4. Il modello psicoanalitico 399; 5. Il modello psicobiologico 400; 6. Due casi clinici 400; 7. L’alexitimia 402; 8. Dal carattere alexitimico al disturbo psicosomatico 406; Riferimenti bibliografici 409.

411

22 - La sindrome borderline e i disturbi di personalita` 1. Considerazioni generali 413; 2. La sindrome borderline 414; 2.1. La scissione 418; 2.2. La maschera 418; 2.3. La tendenza a far impazzire l’altro 419; 2.4. La personalita` paranoide 420; 2.5. La personalita` narcisistica 421; 3. Casi clinici 422; 4. Diagnosi differenziale 422; 5. La terapia 422; Riferimenti bibliografici 423.

425

23 - La personalita` psicopatica 1. Considerazioni generali 426; 2. Il quadro clinico 428; 2.1. Il criminale 430; 2.2. Il rivoluzionario 430; 2.3. Disturbi caratteriali dell’adolescente 430; 3. Eziologia 431; 3.1. Teoria ereditaria 431; 3.2. Ipotesi neurologica 431; 3.3. Ipotesi psicogenetica 432; 4. Terapia 434; Riferimenti bibliografici 435.

437

24 - Le perversioni sessuali o parafilie 1. Excursus storico 438; 2. Psicodinamica delle perversioni 439; 2.1. Considerazioni generali 439; 2.2. La sessualita` 440; 2.3. Desiderio – Erotismo – Seduzione 442; 2.4. Sessualita` e sviluppo psichico 444; 2.5. Psicodinamica della perversione 445; 2.6. Conclusioni 446; 3. La clinica 448; 3.1. Esibizionismo 448; 3.2. Feticismo 448; 3.3. Pedofilia 449; 3.4. Voyerismo 450; 3.5. Sado-Masochismo 451; 3.6. Travestitismo 452; 4. Diagnosi differenziale 452; 5. La terapia 453; Riferimenti bibliografici 454.

455

25 - Le tossicodipendenze 1. Definizione 456; 2. Cenni storici 458; 3. Dati epidemiologici 459; 4. Ipotesi eziopatogenetiche 461; 5. Classificazione delle sostanze stupefacenti 465; 5.1. Oppiacei (oppio, morfina, eroina, metadone) 465; 5.2. Cannabinoidi (marijuana, hashish) 467; 5.3. Sedativi-ipnotici (benzodiazepine) 467; 5.4. Amfetamine 468; 5.5. Cocaina 469; 5.6. Psicoticomimetici 470; 5.7. MDMA (ecstasy) 470; 6. Elementi di terapia 474; 7. Un caso clinico 476; Riferimenti bibliografici 477.

479

26 - L’alcolismo 1. Definizione 480; 2. Cenni di epidemiologia 481; 3. Metabolismo ed effetti dell’alcool sull’organismo 483; 4. Quadri clinici 485; 4.1. Intossicazione alcolica acuta 485; 4.2. Sindromi da impregnazione cronica alcolica 486; 4.2.1. Sindromi psicotiche 486; 4.2.2. Encefalopatie 487; 4.2.3. Demenze alcoliche 488; 4.2.4. Alcolismo ed epilessia 488; 5. Concetti psicodinamici generali sull’abuso etilico 488; 6. Interventi terapeutici 490; 6.1. Disintossicazione 491; 6.2. Astinenza, divezzamento e sostegno 491; 6.3. Psicoterapia e riabilitazione 492; 7. Dinamiche psichiche in gruppi di ex-alcolisti 492; Riferimenti bibliografici 496.

Indice

497

IX

27 - Le reazioni psicogene acute 1. Considerazioni generali 498; 2. Eventi traumatici e cortei psicopatologici 500; 3. La perdita come evento traumatico 503; 4. I casi clinici 503; 5. Il contenuto dell’evento traumatico 505; 6. Una immagine della reazione all’apparizione 506; 7. Note di terapia 507; Riferimenti bibliografici 507.

509

28 - Le psicosi affettive: la depressione 1. Considerazioni generali 510; 2. Nosografia della depressione 511; 3. Sintomatologia 512; 3.1. Depressione nevrotica o distimia 512; 3.2. Depressione endogena o maggiore, monopolare 512; 3.2.1. I sintomi psichici 512; 3.2.2. I sintomi somatici 513; 3.3. Depressione secondaria 514; 4. Eziopatogenesi 516; 4.1. I fattori genetici 516; 4.2. I fattori biochimici 517; 4.3. Le ipotesi psicologiche: relazionali e cognitive 519; 4.4. L’ipotesi psicodinamica 520; 5. Modello unitario della depressione: dallo psichico al biologico 521; 6. Diagnosi differenziale 523; 7. Il caso clinico 525; 8. La terapia 527; 9. La depressione involutiva 529; Riferimenti bibliografici 530.

533

29 - Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva 1. Considerazioni generali 533; 2. Sintomatologia 534; 3. Carattere ipomaniacale, carattere bipolare 535; 4. Eziopatogenesi 536; 4.1. Fenomenologia ed analisi strutturale della mania 536; 4.2. Ipotesi psicodinamica 537; 4.3. Ipotesi biologiche 538; 5. Diagnosi differenziale 538; 6. Il caso clinico 539; 7. Note di terapia 539; Riferimenti bibliografici 540.

541

30 - Disturbi schizofrenosimili 1. Considerazioni generali 542; 2. Il carattere schizoide 542; 2.1. La psicodinamica del carattere schizoide 543; 3. Le psicosi schizoaffettive 544; 4. La folie a` deux 545; 6. Note di terapia 546; Riferimenti bibliografici 546.

547

31 - La schizofrenia 1. Considerazioni generali 549; 2. Sintomatologia 551; 2.1. I sintomi fondamentali 551; 2.1.1. La dissociazione 551; 2.1.2. Incongruita` affettiva 552; 2.1.3. Ambivalenza 552; 2.1.4. Autismo 553; 2.2. Sintomi accessori 553; 2.2.1. Allucinazioni 553; 2.2.2. Deliri 553; 2.2.3. Idee di riferimento 553; 2.2.4. Sintomi catatonici 553; 2.2.5. Benommenheit 553; 2.3. Sintomi di primo ordine 554; 2.3.1. Allucinazioni uditive specifiche 554; 2.3.2. Furto del pensiero, o influenzamento del pensiero 554; 2.3.3. Esperienza di influenzamento somatico 554; 2.3.4. Percezione delirante 554; 2.4. Sintomi di secondo ordine 554; 2.4.1. Disturbi allucinatori di altro genere 554; 2.4.2. Intuizione delirante 554; 2.4.3. Impoverimento affettivo 554; 2.4.4. Perplessita` intesa come sensazione di confusione 554; 3. Esordio, status, evoluzione 555; 3.1. Schizofrenia ad evoluzione acuta 555; 3.1.1. Fase prodromica 555; 3.1.2. Fase acuta 556; 3.1.3. Status della malattia 556; 3.1.4. Evoluzione 556; 3.2. Schizofrenia ad evoluzione lenta 557; 4. Quadri clinici della schizofrenia 557; 5. La prognosi 558; 6. Eziopatogenesi 559; 6.1. Fattori genetici 560; 6.2. Fattori biochimici 562; 6.2.1. Ipotesi dopaminergica 562; 6.2.2. Ipotesi serotoninergica 562; 6.3. Fattori neurologici 563; 6.4. Fattori psicologici 564; 6.4.1. Il modello psicodinamico 564; 6.4.2. Il modello relazionale o sistemico 571; 6.4.2.1. I presupposti teorici 572; 6.4.2.2. L’influenza del modello terapeutico adottato sulla definizione e l’evoluzione della malattia 574; 6.4.2.3. Conclusioni 575; 7. Diagnosi differenziale 576; 8. Il caso clinico 578; 9. Note di terapia 582; 9.1. La terapia psicofarmacologica 582; 9.2. Le terapie psicologiche 584; 9.2.1. La psicoterapia relazionale o sistemica 584; 9.2.2. La psicoterapia analitica 584; 9.3. Tecniche psicologiche di sostegno. Tecniche di riabilitazione 585; 9.4. La terapia integrata 586; 9.4.1. Stadio iniziale 587; 9.4.2. Stadio intermedio 587; 9.4.3. Stadio difettuale 587; Riferimenti bibliografici 588.

591

32 - La paranoia 1. Definizione e cenni storici 593; 2. Psicogenesi 594; 3. Psicopatologia 594; 4. Nosografia 594; 4.1. Delirio di gelosia 595; 4.2. Delirio erotomane 595; 4.3. Delirio interpretativo (di Se´ rieux e Capgras) 595; 4.4. Delirio di persecuzione 595; 4.5. Delirio di querela 595; 4.6. Delirio di grandezza 595; 5. Diagnosi differenziale 595; 6. Decorso e prognosi 596; 7. Note di terapia 596; Riferimenti bibliografici 596.

597

33 - Le parafrenie 1. Definizione e cenni storici 598; 2. Psicopatologia e psicogenesi 598; 3. Nosografia 598; 3.1. Parafrenia fantastica 598; 3.2. Parafrenia espansiva 599; 3.3. Parafrenia confabulatoria 599; 3.4. Parafrenia sistematica 599; 4. Decorso e prognosi 599; 5. Diagnosi 600; 6. Note di terapia 600; Riferimenti bibliografici 600.

X

601

Indice

34 - Le reazioni organiche acute 1. La confusione mentale 602; 1.1. Malattie somatiche primitive cerebrali 602; 1.1.1. Confusione mentale organica acuta 602; 1.2. Malattie somatiche secondariamente cerebrali 602; 2. Demenza 603; 2.1. Sindrome amnestica 603; 2.2. Allucinosi organica 603; 2.3. Sindrome delirante organica 604; 2.4. Sindrome organica dell’umore 604; 2.5. Sindrome organica d’ansia 604; 2.6 Sindrome organica di personalita` 605; 3. Intossicazioni da sostanze psicoattive e/o tossiche 605; 3.1. Abuso 605; 3.2. Astinenza 605; 3.3. Farmaci a dosaggi terapeutici 605; Riferimenti bibliografici 606.

607

35 - Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche 1. Traumi cranici 608; 1.1. Disturbi post-traumatici acuti 608; 1.1.1. Disturbi post-traumatici cronici 608; 2. Malattie infettive 609; 2.1. Sifilide cerebrale 609; 2.1.1. Diagnosi, terapia e prognosi 610; 2.2. Altri processi infettivi 610; 3. Disturbi psichici nell’epilessia 611; 3.1. Disturbi acuti negli epilettici 611; 3.1.1. Crisi epilettiche parziali con sintomatologia complessa (epilessia temporale) 611; 3.1.2. Psicosi acute epilettiche 612; 3.2. Disturbi cronici negli epilettici 612; 3.2.1. Psicosi croniche 612; 3.2.2. Demenza epilettica 612; 3.2.3. Personalita` epilettica 613; 4. Terapia 613; 5. Tumori dell’encefalo 613; 6. Disturbi endocrini 614; Riferimenti bibliografici 615.

617

36 - Le demenze 1. Introduzione 617; 2. Nosografia ed epidemiologia 618; 2.1. Malattia di Alzheimer-Perusini 619; 2.1.1. Anatomia patologica - Eziopatogenesi 619; 2.1.2. Manifestazioni cliniche 620; 2.2. Malattia di Pick 622; 2.3. Demenza multi-infartuale 623; 2.4. Demenza da idrocefalo normoteso (NPH) 624; 2.5. Demenze post-traumatiche 624; 3. Diagnosi 624; 3.1. Strumenti diagnostici 624; 3.2. Elementi di diagnosi differenziale 626; 4. Prognosi e terapia 627; Riferimenti bibliografici 628.

Parte terza Patologia speciale psichiatrica 631

37 - Il sonno: normalita` e patologia 1. Considerazioni generali 632; 2. Ritmo circadiano e sonno 634; 3. Sonno e sogno 637; 4. Sonno e psicopatologia 638; 5. Patologia del sonno 639; 5.1. Fisiopatologia del sonno 639; 5.2. Le insonnie 641; 5.2.1. Insonnia reattiva legata a fattori ambientali 642; 5.2.2. Insonnia primaria psicogena 642; 5.2.3. Insonnia secondaria di origine farmacologica 643; 5.2.4. Insonnia secondaria di origine somatica 643; 5.2.5. Insonnia secondaria di origine psichiatrica 643; 5.3. Ipersonnie 643; 5.3.1. Ipersonnia psicogena 643; 5.3.2. Ipersonnia primaria 643; 5.3.3. Ipersonnia secondaria o da disturbi della vigilanza 644; 5.4. Parasonnie 645; 6. Terapia 646; Riferimenti bibliografici 648.

649

38 - Il concetto di stress 1. Il concetto di stress 650; Riferimenti bibliografici 654.

655

39 - La morte psicogena 1. Considerazioni generali 656; 2. Una possibile spiegazione 657; 3. Stress e morte psicogena 658; 3.1. L’ipnosi, il “lavaggio del cervello” e le pratiche voodoo 660; Riferimenti bibliografici 663.

665

40 - Psicopatologia da situazioni estreme 1. Introduzione 666; 2. Privazione sensoriale 666; 3. L’universo concentrazionario: i lager 671; 3.1. L’organizzazione del campo di sterminio 672; 3.2. Le reazioni psicologiche e psicopatologiche degli internati 673; 3.3. Spiegazione 675; 4. Il sequestro da parte di criminali o terroristi. La sindrome di Stoccolma 676; 5. Conclusioni 678; Riferimenti bibliografici 679.

Indice

681

XI

41 - L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica? 1. Considerazioni generali 682; 2. Cultura e adolescenza 682; 2.1. I riti di passaggio 684; 2.1.1. Mircea Eliade e i riti di iniziazione 684; 2.2.2. La teoria di Van Gennep: i riti di passaggio ed il concetto di margine 686; 3. Teorie sull’adolescenza 687; 3.1. S. Freud 687; 3.2. A. Freud 687; 3.3. E. Erikson 689; 3.4. M. Mahler 689; 3.5. P. Blos 690; 3.6. M. e M. E. Laufer 691; 3.7. H. Kohut 692; 4. Il concetto di crisi — La formazione della personalita` 692; 5. La crisi adolescenziale 693; 6. Crisi adolescenziale e disagio psichico 694; 6.1. Area pulsionale 694; 6.2. Vissuto corporeo 695; 6.3. Area relazionale 695; 6.4. Progettualita` e valori 696; 7. Il suicidio nell’adolescenza 696; 7.1. Condotta suicidaria 697; 7.1.1. Suicidio riuscito 697; 7.1.2. Suicidio mancato 697; 7.1.3. Suicidio dimostrativo 697; 7.1.4. Suicidio mascherato 698; 7.2. Psicodinamica del suicidio 698; 7.4. La prevenzione 700; Riferimenti bibliografici 701.

703

42 - La coppia: formazione e crisi 1. Considerazioni generali 704; 1.1. Ma che cos’e` una coppia? 704; 1.2. Metodologia e studio 705; 2. La scelta del partner 705; 3. La coppia come sistema difensivo 707; 3.1. L’idealizzazione 707; 3.2. Lotta contro la depressione 708; 3.3. Lotta contro il coinvolgimento eccessivo. Paura dello scacco 708; 3.4. La coppia senza sessualita` 708; 3.5. L’Io negativo 709; 3.6. Coppia e desiderio di immortalita` 709; 4. Un modello di sviluppo della coppia 709; Riferimenti bibliografici 710.

713

43 - Le famiglie separate: problematiche e interventi 1. Il processo dinamico della separazione 714; 2. Il ciclo evolutivo della famiglia separata 716; 2.1. La separazione: dalla decisione alla riequilibrazione attraverso la fase legale 717; 2.1.1. Fase decisionale 717; 2.1.2. Fase conflittuale 719; 2.1.3 Fase riequilibratrice 721; 2.2. I nuclei familiari monogenitoriali e la cogenitorialita` 722; 2.3. Le famiglie ricomposte: dall’arrivo dei nuovi partner alla costellazione familiare ricomposta 724; 3. Gli interventi di aiuto alla famiglia separata 728; 3.1. La consulenza familiare 729; 3.2. La mediazione familiare 730; 3.3. La psicoterapia familiare e individuale 733; 4. Il caso di Giulia 734; Riferimenti bibliografici 735.

737

44 - Psicopatologia della donna 1. Disturbi psichici nella vita psicosessuale della donna 738; 1.1. Sindrome premestruale 738; 1.2. Dismenorrea 739; 1.3. Amenorrea psicogena 740; 1.4. Disturbi psichici relativi all’interruzione volontaria di gravidanza 740; 1.5. La gravidanza immaginaria 741; 1.6. Sterilita` psicogena 741; 2. Disturbi psichici durante la gravidanza ed il puerperio 741; 2.1. Disturbi psichici in gravidanza 742; 2.2. Disturbi psichici in puerperio 743; 2.3. Disturbi psichici relativi all’allattamento 744; 2.4. Disturbi psichici in madri di bambini prematuri 745; 3. Disturbi psicofisici in menopausa 745; 4. Note di terapia 748; 4.1. Disturbi psichici nella vita sessuale della donna 748; 4.2. Disturbi psichici in gravidanza e puerperio 749; 4.3. Disturbi psicofisici in menopausa 750; Riferimenti bibliografici 750.

753

45 - Psicopatologia dell’invecchiamento 1. Considerazioni generali 754; 2. La psicopatologia 755; 2.1. Il deterioramento 756; 2.2. L’ansia 756; 2.3. La depressione 757; 2.4. Il delirio 758; Riferimenti bibliografici 758.

759

46 - Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni 1. Considerazioni generali 760; 2. Classificazione dei disturbi della sessualita` 761; 3. Alterazioni organiche 762; 4. Alterazioni psichiche primarie 763; 4.1. Omosessualita` 763; 4.1.1. Significati psicoanalitici della omosessualita` maschile 765; 4.2. Transessualismo 766; 4.3. Impotenza 767; 4.4. Frigidita` 768; 5. Alterazioni psichiche secondarie 770; 6. Alterazioni funzionali 770; 7. Prevenzione 771; 8. Note di terapia 772; Riferimenti bibliografici 773.

775

47 - Il suicidio 1. Definizione 776; 2. Considerazioni epidemiologiche 777; 3. Modelli interpretativi 780; 4. Considerazioni sulla terapia 782; Riferimenti bibliografici 784.

XII

Indice

Parte quarta Le terapie 787

48 - Elementi di igiene mentale 1. Concetti generali 788; 1.1. Criteri di norma in tema di salute psichica 788; 1.2. Cenni storici e scientifici 789; 2. Prevenzioni e gruppi a rischio 790; 2.1. Prevenzione primaria 790; 1.2. Prevenzione secondaria 791; 2.3. Prevenzione terziaria 792; 3. Problemi emergenti d’igiene mentale nel contesto socio-culturale attuale 793; 3.1. Nuova cronicita` 794; 3.2. Soggetti senza fissa dimora 794; 4. Emigrazione 796; 4.1. Aspetti generali e dati sull’immigrazione extracomunitaria in Italia 796; 4.2. Tutela della salute fisica e mentale degli immigrati 798; 5. Patologie ambientali 800; 5.1. Ecologia urbana 800; 5.2. Disastri 801; 6. Qualita` della vita ed etica della salute 802; Riferimenti bibliografici 804.

805

49 - Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica 1. Il medico ed il paziente 806; 1.1. Il medico: motivazioni psicologiche 806; 1.2. Il paziente: definizione e caratteristiche 807; 1.2.1. Il paziente con disturbi organici 807; 1.2.2. Il paziente con disturbi psichici 809; 2. Dal rapporto medico-paziente alla relazione terapeutica 810; 2.1. I fattori strutturali 810; 2.1.1. Il momento conoscitivo 810; 2.1.2. Il momento terapeutico 810; 2.1.3. Il momento affettivo 811; 2.1.4. Il momento etico 811; 2.1.5. Il setting 811; 2.2. I fattori strutturanti 811; 2.2.1. Intervento terapeutico tecnico 811; 2.2.2. Relazione terapeutica di sostegno 812; 2.2.3. Relazione terapeutica globale o psicosomatica 812; 3. Il rapporto medico-paziente in Psichiatria 813; 3.1. Il rapporto con lo psicotico 813; 3.2. Lo psichiatra ed il paziente nel rapporto mediato dal farmaco 815; 3.2.1. L’effetto placebo 815; 3.2.2. Effetto ed usi dello psicofarmaco 816; 4. Conclusioni 820; Riferimenti bibliografici 820.

823

50 - Il consenso informato 1. Introduzione 825; 1.1. Un po’ di storia 825; 2. La natura giuridica del consenso 828; 3. Deontologia del consenso 833; 4. L’informazione come presupposto giuridico del consenso 834; 4.1. Informazione o comuni- cazione? 836; 5. Situazione giuridica e giurisprudenziale 837; 5.1. Limiti dell’informazione per ottenere il consenso 844; 5.2. Vizi di consenso 845; 6. Il comportamento dello psichiatra 845; 7. Il consenso agli accertamenti diagnostici 846; Riferimenti bibliografici 852.

855

51 - Le urgenze in psichiatria 1. Caratteri dell’urgenza psichiatrica 856; 1.1. Nozioni generali 856; 1.2. Note storiche 856; 2. Classificazione delle urgenze psichiatriche 857; 2.1. Urgenze esclusivamente psichiatriche 857; 2.1.1. Crisi di agitazione 857; 2.1.2. Crisi depressive 857; 2.1.3. Crisi di angoscia 858; 2.1.4. Stato confusionale 858; 2.1.5. Blocco psicomotorio 858; 2.1.6. Minaccia di suicidio 858; 2.2. Urgenze somatopsichiche 858; 2.3. Urgenze pseudosomatiche 859; 2.4. Urgenze pseudopsichiatriche 859; 3. Linee generali di intervento: indicazioni e controindicazioni 859; 4. I casi clinici 860; 5. Conclusioni 861; Riferimenti bibliografici 862.

863

52 - Terapie psicofarmacologiche 1. Terapia dei disturbi dell’umore 864; 1.1. La terapia antidepressiva 864; 1.1.1. Gli antidepressivi 864; 1.2. La terapia antimaniacale 867; 1.2.1. Il litio 867; 1.2.2. La carbamazepina e la valpromide 870; 2. Terapia antipsicotica 870; 2.1. Neurolettici 871; 3. Terapia ansiolitica e ipnotica 875; 3.1. Farmaci non benzodiazepinici 876; 3.1.1. Il buspirone 876; 3.1.2. Lo zolpidem 876; 3.2. Le benzodiazepine 876; 4. La terapia elettroconvulsivante 879; 4.1. Generalita` 879; 5. Appendice 884; 5.1. I nuovi antidepressivi 884; 5.2. I nuovi neurolettici 885; Riferimenti bibliografici 886.

887

53 - Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci 1. Lo psicofarmaco come oggetto transizionale 888; 1.1. Premessa 888; 1.2. Il farmaco: da pharmacos a pharmacon 888; 1.3. Lo psicofarmaco: illusioni ed inganni 889; 1.4. L’oggetto transizionale 891; 2. L’effetto degli psicofarmaci sui processi psichici 893; Riferimenti bibliografici 901.

Indice

903

XIII

54 - La psicoterapia: considerazioni generali 1. Considerazioni generali 904; 2. Definizione della psicoterapia 904; 3. La terapia 904; 3.1. Fattori strutturali 905; 3.2. Fattori strutturanti 995; 3.3. Strumenti della terapia psicologica 906; 4. La relazione 907; 4.1. La funzione sciamanica 907; 4.2. Il magnetismo 910; 4.3. Considerazioni psicodinamiche sulla relazione 910; 5. Fattori strutturanti e relazione 911; 5.1. Tecnica psicologica di apprendimento o di addestramento 912; 5.2. Relazione psicologica di sostegno 912; 5.3. Relazione psicologica terapeutica: psicoterapia 912; 6. Indicazioni 914; 6.1. Psicoterapia familiare o sistemico-relazionale 914; 6.2. Psicoterapia di gruppo 915; 6.3. Psicoterapia cognitiva 915; 6.4. La psicoterapia analitica 916; 7. Valutazione dei risultati 916; 8. Il tempo: durata e fine 917; 9. La formazione dello psicoterapeuta 918; Riferimenti bibliografici 920.

921

55 - La psicoterapia analitica 1. Considerazioni generali 923; 2. La teoria 925; 2.1. La nascita 925; 2.2. Gli istinti. Le dinamiche oggettuali 926; 2.3. L’integrazione e la scissione 927; 2.4. La struttura dell’Io. I meccanismi di difesa 928; 2.5. Il conflitto edipico 931; 2.6. L’inconscio 934; 2.7. Le crisi di sviluppo 934; 2.8. Dipendenza ed autonomia 936; 3. La prassi 936; 3.1. Il primo colloquio come crisi 936; 3.2. Il setting 936; 3.3. Le funzioni dell’analista: presenza, memoria, continuita` 938; 3.3.1. Ascoltare-recepire 938; 3.3.2. La presenza dell’analista 938; 3.3.3. L’analista come memoria 939; 3.3.4. L’analista come intermediario del desiderio 940; 3.4. L’interpretazione. Le difese dall’analisi 940; 3.5. Transfert. Controtransfert 942; 3.6. Il sogno. L’interpretazione del sogno 944; 3.6.1. Sonno e sogno 945; 3.6.2. Il linguaggio del sogno 945; 3.6.3. L’interpretazione del sogno 946; 3.6.4. Alcuni sogni particolari 947; 3.7. Le separazioni 949; 3.8. L’analisi terminabile. La fine del lavoro psicoterapeutico 953; Riferimenti bibliografici 954.

957

56 - Le psicoterapie di gruppo 1. Premessa 958; 2. Note storiche 958; 3. L’approccio psicoanalitico alla psicoterapia di gruppo 959; 3.1. Psicoanalisi in gruppo o terapia psicoanaliticamente orientata dell’individuo in un setting di gruppo 960; 3.2. Psicoanalisi del gruppo 960; 3.3. Psicoanalisi attraverso il gruppo o piu` propriamente gruppoanalisi 961; 4. La gruppoanalisi 962; 4.1. Il piccolo gruppo 962; 4.1.1. Principi teorici 962; 4.1.2. Il metodo 967; 4.1.3. La tecnica 969; 4.2. Il gruppo intermedio 970; 5. Illustrazioni cliniche 973; 5.1. Una seduta del piccolo gruppo 973; 5.2. Una seduta del gruppo intermedio 975; 6. Altre psicoterapie di gruppo 978; 6.1. Lo psicodramma 978; 6.2. La Gestalt terapia 978; Riferimenti bibliografici 979.

981

57 - La psicoterapia relazionale o sistemica 1. Introduzione 983; 2. Le origini storiche 983; 2.1. Le matrici culturali 983; 2.1.1. L’orientamento “culturalista” della psicoanalisi post-freudiana 984; 2.1.2. L’interesse per il “mondo” del bambino nella psichiatria e psicoanalisi infantili 984; 2.1.3. L’attenzione per l’“ambiente” della psichiatria americana 985; 2.1.4. Lo sviluppo delle terapie di gruppo 985; 2.1.5. Il movimento dell’antipsichiatria europea 985; 2.2. Il percorso verso una nuova costruzione teorica 986; 2.2.1. I primi studi relazionali sulla schizofrenia 987; 3. Il modello concettuale di riferimento: la teoria dei sistemi 988; 3.1. Principi teorici generali 988; 3.2. I sistemi interattivi umani: la famiglia come sistema 990; 3.3. I sistemi disfunzionali e i comportamenti patologici 991; 3.3.1. Omeostasi e cambiamento 991; 3.3.2. I sistemi funzionali 991; 3.3.3. Il ciclo vitale familiare 992; 3.3.4. I sistemi disfunzionali 992; 4. Sintomo, diagnosi, intervento nella psicoterapia relazionale 993; 4.1. Il sintomo e i suoi significati 993; 4.1.1. Ambivalenza del significato del sintomo 993; 4.1.2. La comprensibilita` del sintomo all’interno del contesto 993; 4.2. Il senso dinamico della valutazione diagnostica 994; 4.3. L’intervento terapeutico e l’operatore psichiatrico 995; 4.3.1. L’intervento terapeutico nei suoi caratteri generali 995; 4.3.2. L’importanza della “convocazione” della famiglia 995; 4.3.3. Il ruolo dell’operatore psichiatrico 995; 4.3.4. La “riformulazione” della domanda 996; 5. Due esempi clinici 996; 5.1. La famiglia di Daniela: quando la paura del conflitto blocca l’autonomia 996; 5.2. La famiglia di Piergiorgio: un bambino che non poteva crescere 998; 6. I principali indirizzi terapeutici 1000; 6.1. Il modello strategico 1001; 6.1.1. I presupposti concettuali 1001; 6.1.2. Gli obiettivi terapeutici 1001; 6.1.3. Le tecniche di intervento 1002; 6.2. Il modello strutturale 1002; 6.2.1. Presupposti concettuali 1003; 6.2.2. Gli obiettivi terapeutici 1004; 6.2.3. Le tecniche di intervento 1004; 6.3. Il modello esperienziale 1005; 6.3.1. I presupposti concettuali 1005; 6.3.2. Obiettivi terapeutici 1005; 6.3.3. Le tecniche di intervento 1005; 6.4. Il modello di Bowen 1006; 6.4.1. Presupposti teorici 1006; 6.4.2. Obiettivi terapeutici 1006; 6.4.3. Tecniche di intervento 1006; 6.5. I modelli di ispirazione psicodinamica 1007; 6.6. Considerazioni critiche 1007; 7. Sviluppi della psicoterapia relazionale nella teoria e nella pratica 1008; 7.1. L’incontro con i paradigmi evolutivi 1008; 7.2. L’incontro con i paradigmi costruttivisti 1009; 7.3. L’incontro con l’ottica della complessita` 1010; 7.4. Il rinnovamento delle pratiche terapeutiche 1010; 7.5. La relazione terapeutica 1011; 8. L’importanza dei miti familiari 1012; 8.1. Il concetto di mito familiare 1012; 8.2. La dialettica “identita`-appartenenza” 1013; 8.2.1. Quando il mito diventa fonte di patologia 1014; 8.3. La dimensione transgenerazionale 1015; 9. Un terzo caso clinico. La famiglia di Maurizio: quando il peso dei miti puo` togliere il respiro 1015; 9.1. Il problema 1015; 9.2. Le storie trigenerazionali 1016; 9.3. Il lavoro con le “sculture del

XIV

Indice tempo’’ 1017; 9.4. I miti e i fantasmi familiari 1017; 9.5. L’intervento terapeutico 1018; 10. Conclusioni: verso un’etica della complessita` 1019; Riferimenti bibliografici 1020.

1023

58 - La psicoterapia cognitiva 1. Nozioni generali e sviluppo storico 1024; 2. Un modello teorico per la psicoterapia cognitiva 1025; 2.1. Conoscenza come struttura profonda 1025; 2.2. Lo sviluppo cognitivo e il processo di equilibrazione 1026; 2.3. I sistemi comportamentali 1027; 2.4. L’organizzazione gerarchica della conoscenza 1028; 2.5. La conoscenza come costruzione 1028; 2.6. La costruzione di strutture cognitive patogene 1030; 3. La prassi della psicoterapia cognitiva 1032; 3.1. La relazione terapeutica 1032; 3.2. Le tecniche terapeutiche 1033; 4. Indicazioni della psicoterapia cognitiva 1035; Riferimenti bibliografici 1036.

1039

59 - La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica 1. Introduzione 1040; 1.1. La relazione con l’oggetto nel modello strutturale 1040; 1.2. Lo spazio di coppia: le relazioni oggettuali e le identificazioni proiettive 1041; 1.3. I nuovi orientamenti tra intrapsichico e interpersonale 1043; 1.4. La psicoanalisi della coppia come teoria gruppale del legame di alleanza 1045; 2. Coniugalita` e collusione 1046; 3. Le tecniche psicoterapeutiche 1048; 3.1. Premessa 1048; 3.1.1 L’interpretazione 1048; 3.1.2. Il transfert e il controtransfert 1050; 4. Conclusioni 1053; Riferimenti bibliografici 1054.

1057

60 - La “malpractice” in psicoterapia 1. Un caso esemplare 1058; 1.1. La posizione di G.L. Klerman 1058; 1.2. La posizione di A.A. Stone 1059; 1.3. Alcune considerazioni 1060; 2. “Malpractice” in psicoterapia 1061; 2.1. Gestione del transfert 1061; 2.2. Violazione di segreto professionale e prevenzione di atti auto e/o eterolesivi 1063; 2.3. Prassi inadeguata o scorretta 1064; 2.4. Altri problemi per lo psicoterapeuta 1065; 3. Conclusioni 1065; Riferimenti bibliografici 1066.

1067

61 - Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata 1. Considerazioni generali 1070; 2. La riabilitazione in psichiatria 1071; 2.1. Cenni storici 1071; 2.2. Limiti delle attuali definizioni 1073; 2.3. Strutture e percorsi riabilitativi 1075; 2.3.1. Strutture residenziali 1076; 2.3.2. Strutture non residenziali 1077; 2.4. I pazienti della riabilitazione 1078; 2.5. Teorie e modelli in riabilitazione psichiatrica 1079; 2.5.1. Il modello psicoeducazionale 1079; 2.5.2. Social skills training 1080; 2.5.3. Il modello psico-sociale di Mark Spivak 1081; 2.5.4. Il modello psico-sociale di Luc Ciompi 1082; 2.5.5. Approccio analitico 1082; 2.5.6. Approccio relazionale sistemico 1083; 2.5.7. Strategia integrata multicontestuale 1084; 2.6. Psicofarmacologia e riabilitazione 1084; 2.6.1. Percentuali di ricadute in corso di trattamento farmacologico 1084; 2.6.2. Sintomi negativi e riabilitazione 1086; 2.6.3. Danni cerebrali irreversibili da neurolettici 1088; 3. Teoria e prassi per una riabilitazione psichiatrica 1089; 3.1. Intuizione, percezione e affettivita` 1090; 3.2. La crisi nello psicotico 1092; 3.3. La formazione del personale 1093; 4. Il Centro Diurno: la teoria diventa prassi 1094; 4.1.1. La psicoterapia di gruppo (gruppo pazienti) 1094; 4.1.2. La psicoterapia di gruppo (gruppo familiari) 1095; 4.2. Il rapporto terapeutico duale 1096; 4.3. Il rapporto nelle attivita` di atelier e di laboratorio 1096; 5. I casi clinici 1099; 6. Conclusioni 1103; Riferimenti bibliografici 1105.

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62 - Terapia integrata dei disturbi schizofrenici 1. Considerazioni generali 1107; 1.1. Dialettica pluralistica 1107; 1.2. Ipotesi eziologiche 1108; 1.3. Diagnosi 1109; 2. Basi teoriche del modello integrato 1110; 2.1. Bisogni specifici dello psicotico 1110; 2.1.1. Bisogno di un oggetto inanimato 1111; 2.1.2. Bisogno di continuita` 1112; 2.1.3. Bisogni relativi alla condizione simbiotica 1112; 2.1.4. Bisogno di non aver bisogno 1113; 2.2. Integrazione dell’e´quipe ed integrazione del paziente 1114; 3. Linee guida per una tecnica d’intervento 1114; 3.1. Lavoro: produzione materiale o attivita` fantastica? 1115; 3.2. Diritto a delirare 1116; 3.3. Reazioni emotive controtransferali 1119; 3.3.1. La paura 1119; 3.3.2. La noia 1119; 3.3.3. Le richieste impossibili 1119; 3.4. Capitalizzazione del giusto aiuto 1120; Riferimenti bibliografici 1121.

1123

63 - Psichiatria di consulenza e collegamento Riferimenti bibliografici 1132.

1135

64 - Il Day Hospital 1. Considerazioni generali 1136; Riferimenti bibliografici 1139.

Indice

1141

XV

65 - L’assistenza psichiatrica 1. Considerazioni generali 1141; Riferimenti bibliografici 1147.

1149

66 - Problemi medico-legali in Psichiatria 1. Disposizioni legislative attinenti alla Psichiatria 1150; 2. Cenni di Psichiatria Forense 1156; Riferimenti bibliografici 1159.

* * * 1161

Appendice 1 Epidemiologia psichiatrica 1. Indici generali 1162; 2. Comportamento da malattia, ruolo di paziente, morbilita` latente 1162; 3. Metodologia 1164; 4. Epidemiologia dei disturbi psichici nella popolazione generale 1164; 5. Epidemiologia della Schizofrenia 1165; 6. Epidemiologia dei disturbi affettivi 1166; 7. Conclusioni 1167; Riferimenti bibliografici 1168.

1169

Appendice 2 Descrizione e commento del DSM-IV, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 1. Descrizione ed uso del DSM-IV 1172; 2. Valutazione multiassiale 1174; 3. Annotazioni conclusive 1177; Riferimenti bibliografici 1178.

1179

Glossario

1198

Tavola sinottica multilingue

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Indice analitico (a cura di F. Riggio)

Prefazione alla II edizione

«La trasparenza dell’esistenza esige che si sia cio` che si insegna» S. Kierkegaard (Diario, 1834-1855)

Il Manuale di psichiatria e psicoterapia, edito nel 1991, ha mantenuto quanto aveva promesso: essere strumento di studio, come evidenziano le varie ristampe, e strumento di lavoro, ampliando il Manuale con varie monografie. L’altra faccia della luna. Il mistero del sonno. Il problema dell’insonnia del 1994; La passione sonnambulica. Scritti di Pierre Janet del 1996; Lo spazio della mente. Saggi di psicosomatica del 1997, ne sono la testimonianza. A distanza di otto anni ho deciso di apprestare una seconda edizione che non e` una semplice revisione, ma un notevole ampliamento come dimostra il numero dei capitoli, che da cinquanta passa a sessantasei, per nuove tematiche come: il consenso informato, la terapia integrata delle psicosi, la bioetica ed altre che sono diventate sempre piu` parti integranti della psichiatria. In questa operazione, la partecipazione e la collaborazione fattiva dell’editore sono state fondamentali. Ma le motivazioni che mi hanno indotto a questa seconda edizione sono soprattutto due. La prima e` legata alla crescente richiesta da parte degli studenti del Corso di Laurea in Psicologia di sostenere questo esame, tra l’altro facoltativo, che puo` essere letto come esigenza di un approfondimento della clinica. La seconda e` legata al nuovo corso degli studi della Facolta` di Medicina e Chirurgia (Tab. XVIIIter.) che riducendo gli esami, rende sempre meno nozionistica e sempre piu` globale ed umanistica la formazione del medico.

Pertanto mi e` sembrato necessario, per i primi ampliare le tematiche riguardanti la clinica e proporre nuove problematiche circa la prassi psicoterapeutica. Per i secondi proporre invece una piu` ampia informazione su argomenti riguardanti la psicologia che altrimenti sarebbero rimasti deficitari. Ma ulteriore scopo di questa seconda edizione e` proporre uno strumento non solo didattico e di lavoro, ma anche di ricerca. Creare un’interfaccia tra due discipline trop- po spesso ferme su sterili contrapposizioni, mentre la realta` dimostra, soprattutto nei servizi pubblici, l’utilita` e la necessita` di una integrazione e di una reciproca comprensione basate su un linguaggio comune: e questo non puo` essere certo quello del DSM-IV. Comunque, nonostante le numerose novita`, la struttura di base rimane immutata come immutata e` la dizione Manuale di psichiatria e psicoterapia: il che vuol dire proporre, come unica possibile cura della psiche, la cura con la psiche. Per questo il modello psicodinamico rimane il filo conduttore che in maniera coerente lega la spiegazione con la comprensione, fornendo al tempo stesso un modello conseguenziale di terapia. Come immutate rimangono la semplicita` e la chiarezza espositiva, perche´ ritengo giusto quanto afferma K. Popper: «Ogni intellettuale ha una responsabilita` tutta particolare. Ha il privilegio e la possibilita` di studiare; per questo egli ha contratto il debito nei confronti dei propri simili (o “della societa`”) di presentare il frutto del suo studio nella forma piu` chiara, piu` semplice, piu` modesta possibile». Roma, novembre 1999

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Nota per la Ia ristampa La ristampa di un Manuale a pochi mesi dall’inizio della distribuzione non e` certo evento frequente ed abituale. Bisogna pertanto evidenziare i motivi di questo successo: certamente la vese grafica, la distribuzione accurata, il prezzo contenuto, sono tutti fattori positivi per i quali debbo un ringraziamento all’Editore. Ma e` evidente che questo Manuale si pone in una linea di tendenza totalmente nuova rispetto alla trattati-

stica psichiatrica che continua ad attardarsi su teorie obsolete, a volte francamente incomprensibili. Il lungo e fruttuoso lavoro di ricerca che e` in parte espresso in questo Manuale e`, alla fine, pagante perche´ e` la risposta ad una esigenza di novita` e di concretezza che evidentemente le varie Accademie, pubbliche o private, non riescono ad offrire. Roma, maggio 2000

Considerazioni di uno psichiatra

Allora sono tante le persone che ci guardano, da tempo: venticinque e ventinove anni sono trascorsi da quando, per aver scritto di psicoanalisi, fui invitato ad attraversare via Nomentana per andare al Servizio Speciale di Psichiatria e Psicoterapia: Villa Massimo, cosı` si chiamava il luogo. Ero un neuropsichiatra e un neuropsiciatra mi aveva chiamato: io feci quella che, a quel tempo, si chiamava psicoanalisi e, a quel tempo, avevo addosso quel titolo nobiliare di psicoanalista, quello che si compera negli istituti privati di araldica. Io non feci quello che, a quel tempo, si chiamava psicoanalisi, io feci psichiatria. Affrontavo cioe` la malattia della mente piu` o meno latente o manifesta, anche se in psichiatria non erano mai entrate sedute dette analitiche, dinamiche di transfert e controtransfert, l’interpreta-

zione pubblica dei sogni, la realta` di grandi gruppi. Quasi venticinque anni dopo compare il Trattato di Psichiatria di N. Lalli, definito, nel convegno del 18 marzo 2000 all’Aula Magna dell’Universita` di Roma, nuovo e originale. Non posso dire perche´. Non ho lo spazio sufficiente per raccontare l’intelligenza e l’amicizia di Nicola Lalli, il coraggio e la coerenza e costanza con cui, intuita la novita` della scoperta e del pensiero, ha stimolato questa psichiatria che doveva rivoluzionare una realta` di impotenza della mente che non era mai riuscita a comprendere perche´ la fantasia della specie umana morisse, troppo spesso, prima del corpo. Massimo Fagioli Roma, maggio 2000

Introduzione

Homines dum docent, discunt. (Seneca, Epist. 7-8)

Sembra quasi impossibile, oggi, tentare una sintesi della Psichiatria: l’accumularsi delle conoscenze, se da un lato ha permesso notevoli progressi sul piano operativo, dall’altro ha reso problematica una sistemazione, metodologicamente corretta, di questa disciplina. Siamo di fronte ad una frammentazione del sapere psichiatrico. Dalla psichiatria biologica a quella fenomenologica, dalla psicosomatica alle numerose metodologie psicoterapeutiche, che si sono ritagliate uno spazio, piu` o meno ampio, rappresentato dallo specifico campo operativo lasciando pero` fuori una parte, spesso non piccola, della psicopatologia. Il DSM-III-R, con la sua tendenza ordinatrice e descrittiva, nel tentativo di codificare un idioma comune nella babele dei dialetti psichiatrici, sicuramente rappresenta una reazione a questa frammentazione. Ma rappresenta anche il prezzo che si e` costretti a pagare. La raccolta di tutti i fenomeni psicopatologici, con la rinuncia a qualsiasi modello interpretativo, lascia aperta come unica strada una catalogazione asistematica. Cosa che, a parer mio, rappresenta una regressione culturale. Inoltre il rapido progresso di alcune discipline, quali la biochimica e la neurofisiologia, ha condotto a scoperte e risultati di estremo interesse: ma questi risultati non possono egemonizzare la Psichiatria, che rimane tale nella misura in cui si occupa della globalita` e della storicita` dell’uomo, e non solo delle funzioni superiori ed integrative del S.N.C. Questa complessa situazione lasciava aperte varie possibilita`, ma tutte parziali: accettare la frammentazione, privilegiare esclusivamente il proprio campo operativo ed il proprio modello teorico, operare una semplice descrizione dei fenomeni, evidenziare ed ipertrofizzare le scoperte della neurobiologia, con il ri-

schio pero` della perdita d’identita` della Psichiatria. Oppure ordinare il materiale secondo uno schema ed una interpretazione che tenessero conto della specificita` della Psichiatria quale disciplina del rapporto interpersonale, senza per questo scotomizzare i dati e le acquisizioni della neurobiologia. Ho preferito seguire quest’ultimo itinerario, con la consapevolezza che la varieta` fenomenologica della psicopatologia puo` essere compresa ed unificata solo in un’ampia cornice di riferimento che tenga conto della complessa interazione tra psicologia e biologia, tra individuo e gruppo sociale. Filo conduttore una visione di tipo psicodinamico, ovverosia un modello teorico dello sviluppo umano che trova nella clinica la sua conferma e che si basa su alcuni assunti di base, come: — — —



la presenza di una situazione pulsionale duale (istinto libidico ed istinto di morte); l’esistenza dell’inconscio; l’importanza determinante dei rapporti interpersonali sia nella formazione della psicopatologia che nella sua risoluzione (transfert e controtransfert); il sintomo psicopatologico come portatore di un significato piu` o meno latente.

Chiaramente, questo modello non esclude l’importanza dei fattori biologici, ma li pone tra parentesi, privilegiando il rapporto interpersonale come fattore di conoscenza e di cambiamento. Date queste premesse, e` facile comprendere l’iter del Manuale. I capitoli sono stati ordinati con criteri relativamente semplici, ma precisi. Nella prima parte sono state proposte alcune tematiche di fondo, quali i criteri

6

Manuale di psichiatria e psicoterapia

di normalita` e patologia, i problemi attuali della Psichiatria, il problema della nosografia. Segue l’esposizione dei vari quadri clinici, secondo una vettorialita` che inizia dai disturbi esclusivamente su base psichica, per giungere a quelli ove c’e` una componente biologica probabile come nelle psicosi, o sicuramente accertata come nelle demenze. Ma non solo. La clinica e` suddivisa anche secondo il criterio della reversibilita`: dai disturbi reversibili come le psiconevrosi a quelli meno reversibili come le psicosi, o irreversibili come le demenze; reversibilita` che e` inversamente proporzionale sia ad un maggiore deterioramento delle funzioni psichiche sia ad una maggiore alienazione del rapporto con la realta`. Nella parte terza vengono considerate alcune patologie che, pur facendo parte di svariati quadri clinici, possono assumere una loro peculiare autonomia: quali l’insonnia, il suicidio ecc. Dalla clinica, ovverosia dalla descrizione del fenomeno, si passa alla terapia, ovverosia alla possibilita` della cura e della trasformazione. Dopo il capitolo dedicato alle terapie biologiche, ci si sofferma prevalentemente sulle varie modalita` psicoterapeutiche: riservando tale termine solo a metodologie con un elevato valore euristico sul piano teorico e con una ben codificata prassi di intervento. Nei capitoli sulle psicoterapie ho ritenuto opportuno descrivere la prassi ed i corrispondenti modelli teorici. Infatti la contemporanea descrizione della prassi terapeutica e del correlato modello teorico rende piu` coerente l’esposizione, piu` semplici i confronti. Un glossario con una breve spiegazionericapitolazione dei concetti salienti chiude il Manuale. Il Manuale vuole essere principalmente uno strumento didattico per quanti operano direttamente o indirettamente nel campo dei disturbi psichici. Compito difficile, tenuto conto del numero relativamente contenuto di pagine. Scelta, questa, ben precisa, che non vuol dire semplificare e ridurre, ma solamente proporre quanto c’e` di sicuramente accertato e quindi di non estemporaneo o transitorio nella Psichiatria.

Ma la Psichiatria, come tutte le altre discipline, e` in evoluzione; pertanto ho ritenuto opportuno e necessario affiancare al Manuale la pubblicazione, in tempi successivi, di una serie di monografie, ove gli argomenti principali saranno ripresi e trattati in maniera piu` ampia ed esauriente, con la possibilita` di un continuo aggiornamento. La comprensione e l’entusiasmo dell’Editore hanno permesso la realizzazione di questo progetto che trasforma il Manuale da strumento didattico in strumento di lavoro e di apertura a quanti operano nel campo della Psichiatria. Data la vastita`, la complessita` e la varieta` del campo psichiatrico, era pretenzioso e forse impossibile che questa fosse opera di un solo autore. Ho percio` chiesto la collaborazione di quanti avessero non solo una specifica competenza dell’argomento trattato, ma anche una lunga, sperimentata capacita` didattica tale da rendere il testo qualificato ed accessibile. Io mi sono riservato sia il compito di trattare numerosi argomenti che costituiscono da decenni un mio specifico campo di interesse, sia quello piu` difficile di coordinare l’intera opera cercando di dare unita` al volume. Il testo in corsivo all’inizio dei vari capitoli, racchiudendo le mie considerazioni pur non sempre in linea con tutti gli AA., assolve a questo compito di continuita`. A tutti i collaboratori che hanno direttamente contribuito alla stesura del Manuale va la mia riconoscenza: ma essa va anche a quanti indirettamente — autori, colleghi, pazienti — hanno reso possibili una riflessione ed un approfondimento dei temi affrontati. Temi che continueranno ad affascinare il ricercatore cosı` come l’uomo della strada, temi sui quali ci si continuera` ad interrogare, cercando risposte sempre piu` esaurienti e piu` complete. Ma... Sic rerum summa novatur semper, et inter se mortales mutua vivunt. Augescunt aliae gentes, aliae minuuntur, inque brevi spatio mutantur saecla animatum et quasi cursores vitae lampada tradunt. 1 (Lucrezio, De Rerum Natura, libro II 75-79) Roma, aprile 1991

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‘‘Cosı` la maggior parte delle cose si rinnova, di vicendevoli scambi vivono gli uomini. Popoli si accrescono, altri declinano, ed in breve tempo muta la stirpe degli uomini, che come maratoneti della vita si trasmettono la fiaccola’’. (Il poeta si riferisce al rito attico della ‘‘Lampadoforia’’: di notte, giovani vestiti di tuniche bianche si passavano di mano in mano fiaccole accese, espressione della vita e della sua caducita`).

Parte prima Concetti generali

1 Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo Nicola Lalli Parole chiave inconscio; relazione terapeutica; filosofia; epistemologia; metodo; immagine; pulsione; realta` umana; identita` dello psichiatra

Data l’impossibilita`, in questa sede, di ripercorrere la storia della Medicina, anche se alcuni accenni sono rinvenibili al Cap. 49 ‘‘Il rapporto medico-paziente’’, mi sembra necessario tracciare, almeno a grandi linee, il complesso rapporto tra Medicina e Psichiatria che sono sempre state, e per molti aspetti lo sono tuttora, collegate. Dopo Ippocrate e Galeno, che per secoli furono le uniche fonti del sapere medico, intorno al 1500 la Medicina fonda il suo statuto sulla brillante intuizione del Morgagni: cercare la sede e la natura della lesione per una razionale classificazione delle entita` morbose. Per comprendere l’importanza di questa operazione rimando al Cap. 10 ‘‘La nosografia dei disturbi psichiatrici’’. Si costituisce cosı` un metodo che arricchira` sempre piu` la conoscenza sull’organismo umano, anche se il prezzo sara` quello di esaminare l’uomo esclusivamente al tavolo autoptico. Il metodo sperimentale, successivamente, rendera` possibile confermare le ipotesi e quindi non solo discernere l’opinione dalla certezza, ma soprattutto mettere in crisi il pensiero dogmatico che era stato fino allora dominante. Comunque l’occasione di uno studio globale

dell’uomo tramonta definitivamente proprio quanto piu` si afferma una sempre maggiore conoscenza dell’uomo, per il passaggio dall’anatomia patologica alla fisiologia. La frattura tra soma e psiche, iniziata almeno due millenni prima, diventa sempre piu` irreversibile. Pertanto quando nel 1700 una nascente disciplina, la Psichiatria, cerchera` di ritagliarsi un proprio spazio sottraendo alle strettoie del pensiero teologico la comprensione del funzionamento della mente, inevitabilmente dovra` appoggiarsi alla Medicina. Per liberarsi dalla demonologia, frutto del dogma religioso di un’anima incorruttibile, la Psichiatria dovra` accettare la corruttibilita` del cervello come paradigma di base: parto precipitoso che generera` il mostro della neuropsichiatria, tuttora vivente. ` vero che ci furono numerosi tentativi, sia E prima che dopo Mesmer, di proporre un metodo diverso: dare importanza alle relazioni interpersonali come causa del disturbo mentale e come possibilita` di cura; per ulteriori approfondimenti rimando al paragrafo del Cap. 49. ‘‘La relazione terapeutica’’.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ma non ebbero molto successo. D’altra parte non si deve dimenticare che lo stesso S. Freud, ritenuto lo scopritore dell’inconscio e di una nuova disciplina per la ricerca e l’analisi della psiche, riteneva la ‘‘sua creatura’’ tutto sommato una buona fenomenologia, utile solo fino a quando la biochimica non avesse svelato le vere cause del funzionamento psichico. Uno dei pochi a mantenere la continuita` del pensiero nato con gli ipnotisti fu P. Janet, unico ed onesto oppositore di Freud: proprio per questo considero P. Janet l’iniziatore della Psichiatria dinamica, come ho cercato di dimostrare nel libro da me curato ‘‘La passione sonnambulica’’. Cosı` la Psichiatria, nata per curare la psiche, rimarra` sempre piu` neuropsichiatria, cioe` cura del cervello. Paradigma che alcuni ricercatori, anche se da posizioni diverse, hanno cercato di mettere in crisi proponendo una Psichiatria autonoma, capace di essere interdisciplinare, ma comunque autosufficiente ed in continua ricerca come testimoniano i numerosi incontri e le pubblicazioni di questi ultimi anni. Nel 1994 l’incontro-dibattito presso l’Aula Magna dell’Universita` ‘‘La Sapienza’’ propone un

tema impegnativo ‘‘La psicoterapia e l’inconscio nel decennio del cervello’’; vi partecipano relatori di diversa estrazione culturale, ed i relativi Atti sono stati pubblicati su ‘‘Il Sogno della Farfalla’’ (n. 4/1994). Successivamente, nel 1997, gli ‘‘Incontri di ricerca psichiatrica’’, i cui Atti sono stati pubblicati in La medicina abbandonata a cura di M. Fagioli. Infine il volume ‘‘L’isola dei Feaci. Percorsi psicoanalitici nella storia della psichiatria, nella clinica, nella letteratura (N. Lalli, 1998), editi da Nuove Edizioni Romane. In questa ottica il rapporto tra Medicina e Psichiatria si modifica: quest’ultima, pur riconoscendo la propria derivazione dalla prima, cerca non di annullare, ma di superarne il metodo. Nei prossimi quattro capitoli verra` offerta un’ampia panoramica sulla Psichiatria: intesa come disciplina che si interroga sulla natura dell’uomo, sulle cause della malattia mentale e sulle possibilita` di una cura legata strettamente ad una relazione interpersonale. Per questo Psichiatria e Psicoterapia rimangono strettamente integrate e collegate. * * *

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

1. Medicina e psichiatria: riflessioni sulla storia di Paolo Fiori-Nastro “Il medico biologo deve diventare filosofo e forse artista, perdendo l’identita` della ricerca sulla cura in quanto promessa e assicurazione di benessere per i propri simili”.1 Secondo una secolare e accreditata tradizione storiografica la medicina viene fatta iniziare, piu` o meno arbitrariamente (l’atteggiamento umano di opposizione alla malattia ha sicuramente origini molto piu` lontane), intorno al V sec. a.C. Le ragioni di una cosı` precisa collocazione storica delle sue origini sono legate non solo all’abbondanza di scritti medici che sono giunti fino a noi e che risalgono a quell’epoca, ma soprattutto alla trasformazione profonda che la teoria e la prassi medica subirono in quel periodo. Fino ad allora i medici erano stati dei semplici artigiani la cui attivita` si esauriva nell’applicazione pratica di un sapere tramandato per via orale (i medici si sono appropriati della scrittura solo nel V sec. a.C.) tra i membri consanguinei della famiglia degli Asclepiadi che, dal canto suo, esercitava un attento controllo sull’etica professionale dei suoi membri. Ogni medico artigiano (demiurgoi) esercitava la sua arte pubblicamente, nella sua bottega (iatreion) che si affacciava direttamente sulla strada, curava per lo piu` giovani, di basso livello sociale (schiavi), che si rivolgevano a lui per traumi, ferite e malattie infettive endemiche (peste, tifo, tbc, malattie intestinali). Ciascuno di questi medici aveva bisogno dei pazienti per vivere, e per questo doveva impegnarsi alacremente per raggiungere considerazione, fama e prestigio. Partecipava spesso a pubblici dibattiti dove cercava di dimostrare la pro-

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Cosı` veniva scritto su un grande pannello collocato nell’Aula Magna dell’Universita` di Roma “La Sapienza” il 7 giugno 1997, nel corso di un Convegno intitolato ”Cervello e malattia mentale” facente parte a sua volta di una serie di “Incontri di ricerca psichiatrica” i cui Atti sono stati pubblicati con il titolo La medicina abbandonata a cura di Marcella Fagioli, Nuove Edizioni Romane, Roma, 1998.

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pria bravura e la propria competenza, doveva distinguersi e primeggiare sui suoi colleghi, doveva dimostrare la validita` del suo sapere a confronto con le altre forme di medicina tanto in voga a quei tempi come la medicina teurgicotemplare, la magia e la medicina dei filosofi.2 Ponendosi come fine la propria autoaffermazione, al medico artigiano non bastava il saper fare (che e` proprio anche di altre forme di artigianato), ma doveva dimostrare consapevolezza per le scelte che guidavano la sua attivita` pratica. Il suo non poteva essere un sapere fondato sulla sola prassi (ogni artigiano conosce per esperienza il modo migliore per ottenere il risultato che si prefigge), ma si doveva accompagnare alla elaborazione di una “teoria” e di un “metodo”, che gli avrebbero permesso di dar conto del perche´ e del per come della prassi stessa (l’elaborazione di una impalcatura teorica e` cio` che distingue la semplice esperienza da una comprensione scientifica della realta`). La necessita` di autoaffermazione fu una motivazione importante che sospinse il medico artigiano verso una trasformazione radicale della sua attivita` da pratica artigianale a vera e propria arte, ma non fu l’unica perche´ contemporaneamente i medici del V sec. a.C. furono investiti da un movimento di pensiero che stava rivoluzionando il rapporto dell’uomo antico con la realta`. Circa un secolo prima, con i filosofi presocratici, si era fatta strada l’idea che la physis-natura poteva essere conosciuta. Fino ad allora, per migliaia di anni, gli esseri umani si erano sentiti immersi in una realta` che avevano pensato non conoscibile e con la quale l’unico rapporto che riuscivano ad avere era di soggezione religiosa di fronte alla ineluttabilita` del destino, del fato e della divinita`. Fino ad allora il mito (mythos = parola, favola, leggenda) era stato la principale forma di interpretazione della realta` che gli antichi possedevano ed alla quale cercavano di adeguare la loro vita. Nel momento stesso in cui comparve l’idea di poter conoscere la realta`, improvvisamente il

2 Cfr. P. Manuli, Medico e malattia in Il sapere degli antichi, M. Vegetti, a cura di, Boringhieri, Torino 1985.

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mito rivelo` la sua essenza di produzione che sovrapponeva alle cose un senso loro estraneo e pertanto impediva la possibilita` di coglierne il senso reale.3 Per la prima volta, nella storia dell’uomo, con i filosofi della natura (physiologoi) la realta` divenne un oggetto nuovo, non ancora conosciuto, capace di “suscitare meraviglia”4; il suo divenire, l’apparire e lo scomparire delle cose e degli uomini nascondevano un segreto che gli uomini medici e filosofi, dal V sec. a.C. in poi, cercheranno di scoprire. La storia della medicina, quindi, s’intreccia profondamente con la ricerca filosofica sulla conoscenza della realta`-natura-physis ed e` per questo che la sua trasformazione coincide con la ricerca di un sapere “certo” capace di essere tale non per la convalida di un dio, ma perche´ capace esso stesso di sconfiggere ogni suo avversario. «Episte´me e` detta la conoscenza certa: composta da ste´me=stare, ed epı`=su. Essa e` lo stare che e` proprio di un sapere innegabile e indubitabile che per questa sua innegabilita` ed indubitabilita` s’impone su ogni avversario che pretenda di negarlo o metterlo in dubbio».5 Un sapere, una conoscenza certa, una scienza (episte´me) che, corrispondendo profondamente alla realta`, fosse per questo vera. Inseriti nel solco tracciato dalla filosofia presocratica, nel V sec. a.C., anche i medici cominciarono a pensare che se la malattia non era il prodotto delle intenzioni capricciose o vendicative di un dio allora essa doveva avere cause naturali, e che queste potevano essere conosciute e comprese qualora fossero state indagate con un metodo corretto. All’interno delle prime scuole mediche che proprio in quel periodo videro la luce prese corpo la ricerca sul “metodo medico”: se lo scopo della

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Cfr. C. Lazzeri, La crisi: essere e divenire dell’uomo. Ineluttabilita` del cambiamento. Tesi di laurea in medicina e chirurgia, Universita` degli studi di Roma “La Sapienza”, 1990. 4 A. Armando, Corso di lezioni di Clinica Psichiatrica, I Scuola di Specializzazione in Psichiatria, a.a. 1998/99. 5 E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1984, p. 24.

medicina era di pervenire ad una conoscenza certa della malattia erano i medici che dovevano individuare una modalita` di esplorazione della realta` (organismo malato) che fosse la piu` idonea a raggiungere questo scopo. Sospinti dall’anelito alla conoscenza e dalla necessita` di dover dimostrare ai loro pazienti il come ed il perche´ di ogni loro decisione, i medici ippocratici approfondirono la ricerca di un metodo che fosse capace di produrre una conoscenza certa dell’oggetto indagato. Per raggiungere questo scopo essi individuarono uno schema molto preciso che, al di la` di piccole differenze, e` grosso modo quello seguito ancora oggi dai clinici medici moderni.6 Il primo passo era l’osservazione empirica dell’oggetto da conoscere nel senso di esperienza ` qualcosa diretta dei sensi, soprattutto visiva. E che rimanda all’esame obiettivo della medicina moderna, anche se i medici dell’antichita` si limitavano alla sola osservazione visiva del malato e dei liquidi in entrata ed in uscita dal suo organismo. Il secondo passo era legare l’oggetto osservato (corpo umano) alla sua storia (anamnesi). Pur se pervasa di un senso inquisitorio, l’anamnesi rappresentava la via attraverso la quale il medico ippocratico cercava di ottenere un sapere genericamente “antropologico” rivolgendo il suo sguardo non solo alla malattia, ma anche all’ambiente di vita dei suoi pazienti nel senso che cercava di legare, anche se molto genericamente, i dati clinici con i dati geografici, climatici e con le loro abitudini igieniche, dietetiche e sessuali. Una volta osservato, il segno clinico veniva poi collocato nel tempo sia per quanto riguardava l’epoca di comparsa, sia per quanto riguardava il rapporto con gli altri segni. La composizione della osservazione con la storia permetteva di trasformare ciascun segno in sintomo, cioe` permetteva di dotare il segno di un suo significato solo attraverso il quale si poteva comporre la diagnosi. La possibilita` di legare il presente con il pas-

6 Cfr. F. Voltaggio, La medicina come scienza filosofica, Laterza, Bari, 1998, p. 33 e seg.

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

sato e con il futuro trasformava la diagnosi da semplice elenco di sintomi (descrizione) a modo adeguato di comprensione del presente. Il rapporto con il paziente per mezzo della osservazione diretta dei segni e della loro collocazione nel tempo generava nei medici una “immagine” (eidos) peculiare di malattia che andava poi espressa con il discorso verbale (logos). In questo modo eidos e logos, memoria e pensiero, coincidevano nel senso che la parola (definizione) si riferiva ad un’idea generata dalla percezione di un oggetto (corpo malato) indagato con un metodo corretto e il pensiero smetteva di essere una produzione sovrapposta all’oggetto come era accaduto con il mito. Nella lotta per la supremazia di una forma di sapere laica rispetto alla medicina teurgicotemplare i medici ippocratici proponevano, infine, la prognosi come momento decisivo della spiegazione scientifica. Essi cercavano di opporsi alle predizioni dei sacerdoti guaritori: all’ingresso dei templi di Asclepio a Corinto, Atene, Epidauro e Cos, il pellegrino poteva trovare scolpiti i racconti delle guarigioni miracolose del dio (i malati si addormentavano nel tempio, vedevano il dio in sogno e questo era sufficiente a che l’indomani mattina al risveglio fossero completamente guariti) e soprattutto delle sue predizioni che avevano grande presa sul popolo. Con la prognosi i medici proposero una sapienza ugualmente proiettata nel futuro, ma assolutamente ancorata ad un metodo che consentiva una costante verifica della sua correttezza e, per questo, essa si mostrava come il momento decisivo della spiegazione scientifica visto che per prodursi necessitava della comprensione del passato e dell’interpretazione del presente. «Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo e` il compito» (Epidemie, I, 11). La possibilita` di legare osservazione e tempo, esperienza e conoscenza affascino` tutti coloro che erano interessati non solo alla efficacia terapeutica della medicina ippocratica, peraltro molto limitata, ma soprattutto alla sua validita` come teoria della conoscenza, consapevole della sua autonomia metodologica. La medicina divenne, in breve tempo, e so-

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prattutto con i medici ippocratici, quella techne che meglio delle altre sintetizzava i presupposti teorici dei filosofi presocratici. Essa sembrava preludere ad una conoscenza di valore superiore capace di individuare una specificita` degli esseri umani tutta ancora da indagare attraverso lo studio delle malattie, organiche e mentali. La sua caratteristica basilare era il metodo che permetteva al medico di legare secondo una procedura logica, di cui egli stesso era consapevole in ogni suo momento, la conoscenza (episte´me) con la realta` (physis) esorcizzando l’angoscia per quei saperi, religioso e mitico che, non riuscendo a conoscere la realta`, vi sovrapponevano un senso che le era estraneo. In conclusione, con Ippocrate ed i medici a lui contemporanei la medicina divenne l’unica techne (arte) capace di padroneggiare la natura perche´ provvista di un metodo che garantiva la conoscenza prodotta. Il passo successivo avrebbe dovuto essere una ulteriore elaborazione teorica e metodologica verso una conoscenza che abbiamo chiamato genericamente “antropologica”, che comprendesse cioe` non solo la realta` biologica, ma anche quella psichica degli esseri umani. Purtroppo, invece, la medicina, pur subendo trasformazioni profonde, cesso` di essere la via regia per la conoscenza della realta`; il medico perse la sua posizione di privilegio e si colloco` ai margini della ricerca sul “vero sapere” che d’ora in poi apparterra` in modo definitivo ed inequivocabile al filosofo. Cio` accadde tanto per una insufficienza degli stessi medici, che non colsero per nulla le prospettive aperte dalla individuazione di un nuovo metodo di esplorazione della realta` (fu Platone a esaltare il metodo della scuola ippocratica)7, quanto per la nefasta influenza delle teorizzazioni dei grandi filosofi che si appropriarono della ricerca su quella parte della natura umana che i medici non avevano saputo indagare dando inizio a quella separazione, mai ricomposta, tra medicina e filosofia.

7 Cfr. M. Vegetti, La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia, 1995.

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A questo proposito occorre tenere presente che fino a quando ‘‘l’anima” e` rimasta confusa con il corpo del quale ha rappresentato il principio “motore”, le sue malattie sono state sempre pensate come espressioni di un’alterazione negli equilibri degli umori o come alterazioni della loro natura8 e mai come malattie mentali nel senso moderno del termine. A partire dal III sec. a.C., i medici concentrarono la loro ricerca “solo” sul corpo umano abbandonando definitivamente anche la sola possibilita` di comprensione della “natura umana”. La medicina si sviluppo` nelle grandi scuole (Accademia, Liceo, Museo di Alessandria) dove i medici trovarono lo spazio e il tempo per una ricerca svincolata dalla pressione della prassi. La pratica della dissezione, e per qualche decennio della vivisezione, consentı` un progresso consistente delle conoscenze anatomiche: il rapporto tra funzione e struttura degli organi, la presenza di apparati, la presenza dei grandi alberi arterioso, venoso e nervoso furono tutte conquiste di questa nuova medicina che fece dell’anatomia il suo fondamento epistemologico.9 L’evoluzione rispetto alla medicina ippocratica e` evidente: l’anatomia divenne il livello fondante della medicina e aprı` la strada verso una trasformazione dell’immagine del corpo umano da contenitore cavo circondato dalla pelle ad agglomerato di organi, sistemi e strutture.10 Ma questo incremento del sapere anatomico non provoco` un contemporaneo progresso del sapere clinico e terapeutico: sarebbe stato necessario elaborare una nuova fisiologia ed una nuova patologia, ma i medici dell’epoca preferirono rimanere fedeli al pensiero tradizionale relativo alla teoria dei quattro umori e delle cause finali. Grandi medici come Erofilo, Erasistrato, Galeno e molti altri ancora preferirono conservare, nonostante le evidenze anatomiche, un pensiero

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Cfr. A. Bernabei, F. Fagioli, Figli di un dio maggiore, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, 4, 1993. 9 M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale vol. I, Laterza, Bari, 1996. 10 A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 14.

che potremmo definire mitologico visto che non aveva nessuna base empirica, ma che ha avuto il potere di ostacolare qualsiasi progresso sostanziale del sapere medico per quasi duemila anni fino a quando Harvey non lo ha “disintegrato” con la scoperta della circolazione sanguigna.11 La storiografia medica e` abbastanza concorde nel ritenere il 1628, anno di pubblicazione del De motu cordis et sanguinis in animalibus di Harvey, come l’inizio della scienza moderna e conseguentemente della medicina scientifica. Da questo momento la scienza, abbandonata definitivamente la pretesa di arrivare ad una verita` definitiva, assoluta, onnicomprensiva, ha perseguito una conoscenza dinamica in cui l’osservazione dei fatti e` tornata ad essere strettamente connessa alla teoria che, a sua volta, e` sottoposta continuamente alla verifica dell’esperimento. Si e` cercato di sostituire le idee di Ippocrate, di Aristotele, di Galeno, valide per 2000 anni, con una maggiore aderenza ai fatti, si sono elaborate strategie per la quantificazione dell’osservabile e la matematizzazione dei fenomeni naturali. Lo sviluppo della chimica, della fisica e della meccanica ha accresciuto le possibilita` di osservazione e di comprensione della realta` e le ipotesi del passato sono diventate finalmente semplici “congetture” sul funzionamento del nostro corpo. I progressi della scienza si sono susseguiti con un ritmo esaltante: astronomia, fisica, ottica, alchimia, zoologia, biologia, medicina hanno approfittato delle potenzialita` del metodo traendone enormi vantaggi e, nel contempo, confermandone la validita`, tanto che poi quando, a cavallo tra il 1700 e il 1800, anche la malattia mentale e` andata incontro ad un processo di disvelamento come era accaduto nel V sec. a.C. per la malattia organica, gli scienziati hanno pensato di avere gia` a disposizione il metodo idoneo anche per lo studio della realta` psichica degli esseri umani. Purtroppo, pero`, questo metodo e` risultato un valido strumento di esplorazione della realta` laddove i fenomeni studiati siano uniformi, ripetitivi e ripetibili come accade in fisica e in chimica; in

11 Cfr. W.P.D. Wightman, La nascita della medicina scientifica, Zanichelli, Bologna, 1980.

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biologia, in medicina, ma soprattutto in psichiatria gli esseri umani con la loro variabilita`, soggettivita`, spontaneita`, imprevedibilita`, fantasia va` per nificano un corretto utilizzo del metodo. E questo che le sue applicazioni, in psichiatria, sono rimaste limitate e del tutto insufficienti ad affrontare gli enigmi posti dalla malattia mentale.12

2. Medicina e psichiatria: un problema di metodo di Marcella Fagioli Lo studio ed eventuali proposizioni teoriche a proposito di psichiatria chiamano in primo luogo la scelta del pensiero se alla psichiatria noi leghiamo anche l’altra parola che e` psicoterapia, o viceversa la lasciamo isolata scegliendo immediatamente la tesi o l’ideologia che anche la malattia mentale e` una malattia dell’organo come tutte le altre malattie del corpo. Naturalmente, in questo secondo caso e` sufficiente parlare di metodo medico in generale e non cercare cosa, quanto e come un metodo psichiatrico si distingua dal metodo della medicina generale. Oltre cio` va anche riflettuto sul fatto che, se il metodo della conoscenza della malattia, in medicina generale, per un successivo sviluppo della ricerca sulla terapia, e` valido, in psichiatria e` giusto proporre che non puo` essere la stessa cosa. Possiamo ricordare il lungo periodo in cui si procedeva alla dissezione e alla osservazione del cadavere con lo scopo della conoscenza senza, ovviamente, nessuna intenzione di cura. Tentare di studiare la malattia mentale soltanto per conoscerla e comprenderla non e` stato mai possibile perche´ avrebbe portato all’abolizione di ogni ricerca sulla sintomatologia e sulle dinamiche psichiche di rapporto con la realta`, in particolare con la realta` umana. La metodologia diventerebbe quella della ricerca dell’alterazione biologica dell’organo, quando poi si rivela del tutto arbitrario il nesso tra alterazione d’organo e

12 G. De Simone, Arte e metodo nella relazione terapeutica, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, 3, 1992, p. 5.

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sintomatologia psichiatrica. Basta citare il solito esempio dell’emorragia o della trombosi cerebrale, o del trauma cranico che danno disturbi dell’attivita` motoria o delle facolta` mentali coscienti ma non propongono nessuna sindrome che possa essere definita come malattia mentale. La dizione della diagnosi (trombosi, ecc.) si riferisce ad alterazioni e lesioni del corpo nella sua realta` biologica. Le alterazioni delle facolta` mentali come memoria, riconoscimento degli oggetti e delle persone, possibilita` di apprendere ecc. non vengono valutate e definite malattie mentali. Ovvero dobbiamo pensare che, se e` stata formulata la dizione malattia mentale, i due termini si riferiscono ad un pensiero e ad una scoperta che ha permesso di isolare e delimitare sindromi che avevano caratteristiche specifiche che le distinguevano da altre legate a lesione degli organi del corpo; poi, a queste sindromi e` stato dato il nome di malattia. Ovvero ad un gruppo di sintomi e` stato dato il nome di malattia del corpo, ad un altro gruppo di sintomi e` stato dato il nome di malattia della mente. Osservando che anche nelle sindromi riferite ad alterazioni degli organi del corpo ci sono disturbi delle facolta` mentali, ci si puo` chiedere perche´ sono state isolate sindromi definite ugualmente malattie ma legate al termine mentali; salvo che questa definizione viene poi seguita dall’altro pensiero che dice: ma sono ugualmente dovute ad alterazioni degli organi del corpo. E qui, ora, abbiamo il dovere di fare riflessioni sul fatto che la concettualizzazione di malattia legata alla mente doveva comprendere una evoluzione del pensiero umano che si era reso piu` autonomo dalla religione; perche´ se la scienza, come e` noto dalla storia, aveva dovuto contrastare il pensiero religioso, nell’ambito della mente umana qualsiasi dipendenza da una impostazione religiosa di rapporto con la realta` impediva ogni idea di malattia nei confronti delle alterazioni della mente; conseguentemente nessun medico poteva considerare e comprendere l’alterazione della mente e la medicina era esclusa dalla ricerca. La medicina che, in qualche modo, era riuscita ad emergere dalla palude del pensiero reli-

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gioso pensando ed evidenziando le alterazioni del corpo come causate da agenti conoscibili e quindi affrontabili, si trovo` assolutamente impotente quando si tratto` di configurare come malattia i disturbi della mente. Facile, a prima vista, il pensiero che era l’idea religiosa del male, connaturato alla stessa natura umana, che precludeva qualsiasi possibilita` di comporre l’idea di malattia come perdita della sanita`. E se, nella storia, la coppia di termini sanita`malattia si e` fatta strada nella medicina del corpo, si puo` dire che, a tutt’oggi, non si e` fatta strada nella medicina della mente. Si puo` pensare che l’idea del male nel mondo sia particolarmente radicata nei riguardi del mondo umano, dei mali del corpo, ma sia particolarmente tenace e difficilmente sradicabile quando si tratta dei mali della mente. In altre parole, se l’ideologia morale che distingue il bene dal male, legata ad un giudizio della realta` e non ad una conoscenza di essa, puo` essere stata rifiutata dalla medicina del corpo, certamente non e` stata rifiutata dall’approccio metodologico che vuole presentarsi e chiamarsi medicina della mente. Allora dobbiamo pensare che resti in questa proposta di medicina della mente non soltanto l’idea del bene e del male invece di quella di sanita`-malattia, ma anche la credenza in una realta` statica per la quale non e` pensato il passaggio dell’una nell’altra e dell’altra nell’una. L’idea di sanita` non corrisponde ad un concetto medico, ma ad un’idea morale di bene; bene che si contrappone al male e che porta con se´ l’idea di punizione e distruzione e non certamente quella di cura. Anche se si volesse interpretare, nel male che aggredisce il bene, un pensiero primitivo che allude all’idea di malattia che attenta alla sanita`, l’interpretazione non sarebbe esatta perche´ il male resta sempre un ente o una forza che rimane staccata dal bene che resta sempre tale anche se distrutto. Ovvero si puo` evidenziare il pensiero che il male poteva aggredire il bene ma il bene non poteva mai diventare male perche´ manca totalmente l’idea di una trasformazione.

Se manca l’idea del cambiamento della sanita` in malattia manca, conseguentemente, l’idea della trasformazione della malattia in sanita`, e se non c’e` idea di guarigione, ovviamente, non c’e` idea di cura. Pero`, va ricordato che la dizione malattia mentale e la parola psichiatria compaiono nella seconda meta` del Settecento e, quindi, cio` lascerebbe credere che si era verificata una conoscenza della malattia mentale e conseguentemente erano comparsi il pensiero e l’intenzione della possibilita` di cura. Va evidenziato invece che, nella misura in cui, come e` noto, i primi medici che vollero fare psichiatria credevano che la malattia mentale fosse malattia del cervello, dobbiamo dedurre che l’idea e la scoperta della malattia, fuori del pensiero religioso del male, rimanevano confinate nell’ambito della malattia del corpo. Il pensiero medico, nonostante l’invenzione della parola psichiatria, rimaneva escluso dal rapporto con la malattia della mente. Si e` verificato cioe`, nella ricerca medica, uno strano fenomeno: si intuiscono e definiscono malattie, alterazioni della mente che vengono distinte dalle malattie del corpo; poi si dice che dipendono ugualmente, come le altre, da alterazioni degli organi del corpo. La sintomatologia clinica le distingue dalle sindromi dovute ad alterazioni del corpo, ma l’eziologia e` sempre l’alterazione della fisiologia corporea. Si compie cosı` un errore metodologico perche´, stabilito che ci sarebbero lesioni corporee, poi il metodo medico imporrebbe la ricerca dell’eziologia di tali alterazioni che sarebbero secondarie ad altre cause di malattia degli organi del corpo. Ovvero si pensa, a priori da ogni dimostrazione scientifica, che la malattia della mente e` causata da un’altra malattia che e` la malattia di un organo del corpo; poi non ci si chiede quale sia l’eziologia della prima malattia, quella del corpo, che causerebbe una seconda malattia che sarebbe la malattia mentale. Tutto questo contorto discorso e` la conseguenza di quel fatto storico per il quale l’intuizione di malattie mentali diverse da quelle corpo-

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ree e` stata immediatamente negata dalla proposizione che anche le malattie mentali sono malattie del corpo. Evidentemente se, in qualche modo, la medicina e` uscita dal pensiero religioso nel suo rapporto con il corpo e il funzionamento di esso, non ne e` uscita nel suo rapporto con la mente e il funzionamento della mente. Allora dobbiamo dire che e` rimasta, nel rapporto con la realta` psichica umana, l’idea del bene e del male. Idea che non e` stata superata perche´ la realta` psichica e`, nella specie umana, particolare e non paragonabile a quella delle altre specie animali; paragonabile perche´ simile a quella umana e` la realta` biologica. Pertanto viene di conseguenza che la medicina del corpo ha potuto svilupparsi soltanto a condizione di pensare al corpo come fatto biologico semplice prescindendo dal fatto che si trattava di un fatto biologico specifico che comprendeva la specificita` di essere di una specie particolare, ovvero della specie umana. Per far questo ha dovuto togliere al corpo umano la sua caratteristica peculiare che e` la realta` psichica. Se la negazione della specificita` umana consistente nello scindere la realta` psichica dal corpo ha permesso di fare conoscenza della realta` del corpo e scoprire e conseguentemente curare le malattie del corpo, non ha permesso di fare conoscenza della realta` della mente e conseguentemente non ha permesso di scoprire la malattia e curare le malattie mentali. Ovvero se per il corpo il male e` potuto diventare malattia conoscibile e conosciuta, definita e curabile, per la mente non e` stata ancora ideata un’immagine di malattia, restando il disturbo psichico manifestazione evidente, conseguenza di una malattia di un organo corporeo. A questo punto possiamo proporre che, evidentemente, per pensare la cura, senza la quale non c’e` medicina, e` necessaria una, il piu` possibile chiara, immagine di malattia senza la quale non c’e` diagnosi, e senza diagnosi non c’e` cura. Per giungere a questo e`, pero`, necessario che ci sia un pensiero analogo e simile a quello che, certamente, e` comparso nella mente umana ad un certo momento della sua storia, ovvero quello che intuı` che il corpo si puo` ammalare; premessa

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indispensabile alla possibilita` di scoprire e definire le malattie. Ora, difficile scoprire il perche´, nei riguardi della mente, un simile pensiero non appare essere comparso. Perche´, cioe`, non essendo comparso il pensiero della malattia, nel rapporto con la malattia mentale e` rimasta l’idea del male. Perche´, forse, non e` comparso il pensiero di una sanita` mentale che cade nella malattia. Invece e` ormai indispensabile che compaia il pensiero: anche la mente si puo` ammalare. Perche´, forse, al medico che affronta e cura le malattie del corpo, e` necessario proporre il coraggio di pensare di poter curare le malattie della mente; ma per poter pensare questo bisogna pensare che la malattia mentale non e` conoscibile se il metodo di conoscenza non comprende l’intenzione di curare. Il pensiero che l’intenzione di curare e` ovvia e sottintesa in ogni azione medica potrebbe esporsi a critica dal momento che si puo` evidenziare che l’intervento terapeutico come la somministrazione dei farmaci segue regole e meccanismi nei quali l’interesse e la volonta` del medico hanno un valore minimo se non completamente irrilevante. Non cosı`, e` da ritenere, nell’intervento terapeutico dello psichiatra in cui la personalita`, l’interesse e le intenzioni del medico hanno una importanza fondamentale. La dizione “intenzione di curare” comprende tre momenti che e` assolutamente necessario chiarire. La realta` psichica non ha nessuna possibilita` di essere studiata su un oggetto, potremmo dire, fermo, in quanto la realta` psichica non esiste se il corpo non e` piu` funzionante. Pertanto la possibilita` di avere conoscenze dallo studio del cadavere, come e` accaduto per l’anatomia e l’anatomia patologica, e` esclusa. L’intenzione di curare va nettamente separata e distinta dal pensiero di prendersi cura perche´ il prendersi cura non chiede nessuna conoscenza e teorizzazione della realta`. Esso si riferisce ad una matrice religiosa di rapporto con il mondo e con gli altri esseri umani, in cui oltre all’abolizione di ogni ricerca di conoscenza si gestisce una realta` e un concetto di amore che non e` quello richiesto a chi si accinge a curare la malattia.

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Per terzo va evidenziato che se e` auspicabile e possibile che il medico del corpo si mantenga estraneo e separato dal malato per fondare la sua opera sulla razionalita` e la tecnica, non e` possibile allo psichiatra proporsi un uguale atteggiamento perche´ negherebbe che l’unico fattore realmente terapeutico in psichiatria e` la persona del medico che si confronta con il malato con il suo sapere basato sulla propria formazione personale. Questa affermazione e` direttamente legata al pensiero che il corpo e la fisiologia di esso hanno un rapporto con l’ambiente che e` diverso da quello che ha la mente che si relaziona alla realta` umana ed in particolare alla realta` psichica umana. Forse la scoperta e la concettualizzazione delle malattie della mente chiedeva un metodo che pensasse quanto detto. La storia esplicita della psichiatria viene fatta iniziare nella seconda meta` del Settecento quando Weikart conio` il termine nel 1773; poi e` noto l’episodio di Pinel che nel 1793 libero` un malato mentale dalle catene, malato che, ritenuto pericoloso, si rivelo` poi mite e fedele servitore dello stesso Pinel. Ricordando questa storia dobbiamo anche ricordare che la cultura del tempo, di cui Pinel era un rappresentante significativo, pensava che le alterazioni della mente fossero causate da lesioni cerebrali. La convinzione del medico, che in questo modo si proponeva come psichiatra, si collocava sul pensiero illuminista che accanto alla scoperta di un nuovo pensiero, detto ragione, rispetto a quello religioso, ipotizzava una natura umana buona che non comprendeva l’ipotesi che potesse diventare cattiva. Conseguentemente, allorche´ esistevano alterazioni del pensiero e del comportamento violente e distruttive, esse dipendevano dalla lesione dell’organo che essi ritenevano deputato alla regolazione del pensiero e comportamento. La natura buona si configurava con l’essere razionale che faceva diventare gli uomini tolleranti e comprensivi nei riguardi di coloro che erano stati meno fortunati. Nello stesso periodo quanto era stato fino ad allora il male personificato nel fantasma del demoniaco, divenne un irrazionale fuori, al di la`,

contro quanto si comprendeva nell’idea di ragione, irrazionale che per quanto fosse stato sempre accanto all’idea di malattia del corpo, non prese mai la configurazione medica di malattia della mente, essendo le alterazioni del pensiero e comportamento sempre legate all’alterazione di organi, alterazioni che avrebbero potuto essere verificate e documentate. Non e` particolarmente indaginoso cogliere nell’idea di natura buona, come ragione inalterabile che distingue la specie umana dagli animali, la somiglianza con l’idea religiosa della scissione tra materia e spirito in cui accanto alla materia corruttibile risiede uno spirito incorruttibile. Somiglianza e parentela che impediscono, di conseguenza, di pensare ad una malattia della mente in quanto si connetterebbe, immediatamente, all’idea della corruttibilita` dello spirito, cosa non immaginabile per il pensiero religioso. L’idea storica del pensiero come ragione non permette e non ha permesso pertanto di pensare ad una malattia della mente che non fosse, in verita`, malattia del corpo perche´ l’idea di ragione ha rubato al pensiero religioso l’inalterabilita` dello spirito, causa e conseguenza del pensiero della scissione dalla materia che invece e` alterabile e corruttibile. Nella storia, nella seconda meta` del Settecento, troviamo l’episodio di Mesmer e della teoria del magnetismo animale. In esso, interpretando la teoria, possiamo ricavare l’idea dell’influenza che un essere umano puo` avere sugli altri esseri umani e l’idea che quanto era stato nell’ambito della magia e della religione poteva essere volto a fini terapeutici. E, nella misura in cui le pratiche terapeutiche non comprendevano interventi sul corpo o sugli organi del corpo mediante sostanze, possiamo ipotizzare anche un’idea di disturbo psichico senza lesioni di organi del corpo. Alcuni vogliono vedere nella storia del magnetismo animale il tentativo di scoprire e iniziare una pratica di psicoterapia che poi doveva proseguire nelle pratiche dell’ipnosi, nella psicoanalisi e nella psicoterapia moderna. Evidenziando che questo accadeva nello stesso periodo nel quale si sviluppo` la psichiatria, regaliamo a Mesmer il merito di aver aperto la

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

strada ad un metodo nuovo che doveva poi svilupparsi per tutto l’Ottocento con il discorso dell’ipnosi e successivamente arrivare fino a Breuer e Freud con il famoso caso clinico di Anna O., che segna l’inizio della psicoterapia propriamente detta. Quanto detto propone una ricerca sul pensiero sottostante a questi fatti ed, in particolare, alla scelta tra quella che possiamo chiamare teoria organica del disturbo mentale e la teoria che si fonda e conduce alla psicoterapia. La prima, abbiamo visto, e` direttamente legata all’idea dell’umano come ragione; la seconda, che separa nettamente il disturbo mentale dalla lesione organica e che si basa sulle interazioni della realta` psichica sulle altre realta` psichiche, rischia sempre di cadere in fantasticherie sine materia, ovvero in un rapporto magico con la realta` che esclude la razionalita`. Forse per questo ci sono opinioni e tesi che dicono che la psicoterapia inizia quando finisce l’ipnosi. Il momento viene raccontato come quello nel quale Freud, dopo la storia di Breuer e Bertha Pappenheim, detta Anna O., trattata mediante ipnosi, decise di togliere la mano dalla fronte dei pazienti per proporre quelle che sono note come libere associazioni. Noi dobbiamo estrapolare da questa storia un concetto per il quale a questo episodio puo` essere attribuito un significato di svolta nella misura in cui puo` essere interpretato come abbandono del metodo della medicina organica nella quale il rapporto medico-paziente e` unilaterale perche´ il paziente deve essere oggetto passivo del pensiero e dell’attivita` del medico. Si puo` riconoscere nel ben noto metodo delle libere associazioni questo tentativo di dare al paziente un’attivita` di collaborazione alla ricerca, mentre quello che era piu` simile alla medicina del corpo era l’ipnosi in cui non esisteva nessuna collaborazione tra medico e paziente che restava oggetto passivo. Noi vogliamo proporre, pero`, che questo metodo ha un fallimento sostanziale in se stesso nella misura in cui, nella storia, e` ignorato che un cardine della psicoterapia e` la negazione e il transfert negativo, per le quali cose quanto dice e comunica il paziente non e` piu` una collabora-

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zione, ma un’opposizione alla ricerca e al lavoro per raggiungere la conoscenza della malattia. Nel voler cioe` abbandonare il metodo ipnotico in quanto unilaterale e quindi troppo legato alla medicina generale si e` completamente ignorata una specificita` del disturbo-malattia psichiatrica, che e` quella per la quale il malato psichiatrico si oppone e aggredisce l’attivita` del medico tentando continuamente di portarla al fallimento: cosa che non accade mai nella medicina generale. Questo corrisponde ed e` la conseguenza del fatto che nella teorizzazione delle nevrosi detta psicoanalisi si e` ignorata la distruttivita` insita in ogni disturbo mentale. Estendendo, per quanto e` permesso in queste pagine, la ricerca teorica, e` da dire che questo tentativo di elaborare un metodo nuovo per le malattie psichiche fallisce in partenza per la teoria errata che sta a monte e che consiste nella proposizione di un’eziopatogenesi basata sull’idea che causa delle nevrosi e` la perversione sessuale. Ovvero la nevrosi, il disturbo psichico, starebbe nella sessualita` umana o meglio nella specificita` della sessualita` umana, in quanto la perversione e` caratteristica degli esseri umani. ` stato dimenticato invece il discorso che nel E disturbo psichico il problema e` la violenza e non la sessualita`; naturalmente non si tratta di considerare la violenza grossolanamente sadica, ma una violenza a livello delle relazioni psichiche tra gli esseri umani. Ma per comprendere questo era a sua volta necessario scoprire la pulsione caratteristica della specie umana, che non e` stata mai pensata. La pulsione propria della specie umana, la negazione come violenza non sadica ma difetto di conoscenza, possono essere legate al pensiero sulla realta` umana che avrebbe la sua caratteristica peculiare nel linguaggio parlato. Se il linguaggio parlato e` cio` che distingue l’uomo dagli animali, esso non puo` essere distruttivo: un pensiero di questo genere non permette di scoprire e concettualizzare la negazione come menzogna non consapevole. Le conseguenze, come abbiamo detto sopra, sono che il tentativo di un nuovo metodo che poteva avere un’intuizione originaria valida, ovvero quella di coinvolgere il paziente in una ri-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cerca ed in una cura, e` risultata totalmente fallimentare. Pensare, ora, di codificare un nuovo metodo della psicoterapia significa pensare anche ad un modo e metodo di fare psichiatria, il che a sua volta conduce ad un’impostazione di pensiero, nel rapporto con l’oggetto di conoscenza e di cura, che implica una separazione dal modo di pensiero e dal metodo di conoscenza sempre usato, che e` quello indicato come metodo scientifico; perche´ accade che se noi possiamo prendere delle concettualizzazioni dal metodo della medicina generale, poi pero` dobbiamo, piu` che cambiarlo, trasformarlo perche´ se possiamo raffigurare la proposizione clinica psichiatrica simile a quella della medicina generale per la quale l’osservazione piu` accurata doveva poi portare alla scoperta del latente, ovvero l’alterazione interna al corpo del funzionamento normale di organi, poi pero` in psichiatria viene a mancare la verificabilita` dell’evento nascosto ipotizzato, pensato ed eventualmente raffigurato. La ragione teorica metodologica di questo fatto sta proprio in quanto dicevamo prima, ovvero che rifiutata l’applicazione meccanica del metodo della medicina generale alla psichiatria, rifiuto che si basa sulla non accettazione dell’idea che in psichiatria ci possa essere un concetto di malattia dell’organo, noi impostiamo ovviamente la ricerca sul nesso tra psichiatria e psicoterapia. Proponiamo cioe` che non c’e` diagnosi se contemporaneamente non c’e` cura, come non c’e` cura se contemporaneamente non c’e` una continua diagnosi dello stato del paziente. Conseguentemente abbiamo di fronte l’emergenza di un’immagine di rapporto dinamico con la malattia e una raffigurazione della attivita` medica come quella cosa che, anche nella misura in cui ci sia una possibilita` di concettualizzare uno status immobile del paziente simile a quello che entro certi limiti si puo` pensare in medicina generale nella quale, per lo meno nelle sue linee generali, esiste il malato e possiamo dire rispettivamente il medico, in psichiatria dobbiamo in primo luogo concettualizzare che se anche esistesse uno status simile a questo, questo status si mobilizza nel rapporto col medico fino ad un arco di variazioni

che possono arrivare a non far vedere piu` la malattia anche se per un tempo determinato. ` in fondo lo sviluppo teorico di uno scleroE tico concetto di transfert che e` restato a livello di idea astratta e anche falsa per la ragione, prima accennata, per cui si e` voluto fare, stranamente e paradossalmente, una psicoterapia scissa dalla psichiatria. Scindendo la psichiatria dalla psicoterapia si toglie non solo l’oggetto di cura, perche´ se non c’e` psichiatria non c’e` malattia, ma anche l’oggetto di ricerca, perche´ la ricerca sugli esseri umani e` lecita soltanto se c’e` un fine di cura. Solo sulla base di queste premesse teoriche e sulla base di questa nuova impostazione mentale nei riguardi del disturbo psichico noi possiamo tentare di delineare un metodo che partendo dalla clinica possa giungere ad una proposizione chiara sul perche´ e sul per come noi ci muoviamo in un certo modo. La clinica, va chiarito, e` l’unica possibilita` che lo psichiatra ha, non esistendo assolutamente nessuno strumento che ci possa far vedere la realta` interna dell’individuo, come accade invece in gastroenterologia in cui ormai la clinica e` un fatto relativo rispetto all’esame radiografico al bario o un’ecografia; palpazione, auscultazione sono in questo caso del tutto irrilevanti. Non cosı` appunto in psichiatria, dove tutto e` basato sull’osservazione dello psichiatra che, spessissimo, deve cogliere non solo il disturbo ma addirittura la malattia mentale da piccoli segni nell’atteggiamento, nell’espressione, nel comportamento, nel linguaggio del paziente. Ben al di la` cioe` di quelle che possono essere chiassose crisi isteriche o bouffe´e deliranti eclatanti. Con cio` utilizziamo questa prima proposizione dell’osservazione clinica simile alla medicina generale; pero`, appunto, dopo questa prima parte, simile a quella dello pneumologo o cardiologo che rilevano uno status del polmone o del cuore da crepitii o da soffi, per lo psichiatra l’approccio cambia immediatamente perche´ lo psichiatra non puo` pensare, dedurre dai segni percepibili, osservabili, l’alterazione di un organo ma deve dedurre un’alterazione della mente che e` una proposizione che ci costringe ad immaginare, anche se non configurare, un’alterazione di tutta la persona che ci sta davanti.

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

Alterazione cioe` dell’identita` soggettiva di un altro essere umano che ha per suo diritto naturale e culturale un fatto di liberta` che nessun medico puo` violare. Pertanto se lo psichiatra si fermasse a questo punto verrebbe travolto da una serie di ipotesi su cio` che e` normale, lecito, sano, e giustamente non e` in grado di decidere, salvo a cadere nel rifugio dell’alterazione del comportamento; fatto che da solo parla di un fallimento della ` inutile, infatti, ricordare che le altepsichiatria. E razioni del comportamento sono sempre state controllate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Allora si puo` pensare che una possibile strada anche se non per risolvere, ma per aprire il problema, puo` essere questo nesso tra psichiatria e psicoterapia. Una prima proposizione puo` essere abbastanza semplice per e in tutti quei casi in cui e` l’individuo che si rivolge allo psichiatra. Evidenziamo che, nella misura in cui e` lo stesso individuo che domanda a dichiararsi malato, si rende paziente e come tale crea il medico. E il medico risponde nella misura in cui ha piu` mezzi del paziente procedendo a cambiare le cose che il paziente non riesce a cambiare. Supponiamo in varie forme di depressione. Qui allora il metodo e`, dopo il primo movimento che e` l’osservazione che serve per configurare in un engramma mentale un orientamento rispetto ai movimenti disordinati dell’altro, che lo psichiatra proceda immediatamente ad affrontare lo stato patologico o malattia nella misura in cui pensa la formulazione verbale di essa. Ovvero il rapporto dello psichiatra e` immediatamente psicoterapia nel momento stesso in cui riesce a comprendere e dare una formulazione verbale al male del paziente, perche´ esso significa interesse, conoscenza, e quindi possibilita` di cura. Questo non accade in medicina generale, e qui lo psichiatra si distacca dal metodo della medicina organica, perche´ se e` facilmente immaginabile che se un cardiologo riesce a pensare la diagnosi e a formularla: “Questo e` un infarto”, la cosa non cambia nulla nello stato di malattia del paziente. Il cardiologo ha bisogno di intervenire diciamo materialmente sullo stato patologico con un’azione fisica, intendendo con cio` anche la

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somministrazione di farmaci. Lo psichiatra non ha farmaci perche´ la sua formulazione mentale di un’apparente diagnosi tecnica e` immediatamente rapporto, che e` l’unico modo con il quale si puo` fare diagnosi che diventa immediatamente terapia in quanto risposta dello psichiatra allo stato di malattia del paziente. E la risposta quindi e` ovviamente nella realta` umana del medico e non in sostanze o strumenti tecnici e questo e` perche´, come abbiamo detto prima, la malattia mentale non e` la malattia di un organo ma espressione di tutto l’organismo. Il problema si complica nella misura in cui la psichiatria deve prendere in considerazione quel tipo di malato che, come viene detto, non ha coscienza di malattia e quindi non si rivolge di sua spontanea volonta` al medico. Qui si pongono due proposizioni: il malato viene portato dallo psichiatra o perche´ ha avuto un comportamento antisociale e quindi sono le istituzioni addette all’ordine sociale che lo portano dallo psichiatra, o perche´ sono i familiari o le persone che gli stanno vicino che si accorgono di atteggiamenti strani, non usuali, non riconoscibili come normali. Evidentemente la formulazione precedentemente fatta sulla domanda e risposta nel rapporto medico-paziente viene a mancare perche´ non ci sarebbe domanda da parte del paziente e quindi, conseguentemente, non ci sarebbe risposta da parte dello psichiatra. La formulazione non e` cosı` certa, apodittica, perche´ si puo` interpretare che ci sia una domanda indiretta proprio nel fatto che di fronte ad un atteggiamento non usuale gli altri intervengono per provvedere a sofferenze che il paziente non vuole confessare. Questo accade in molti casi di depressione latente o in alcune isterie. Compito del medico e` riuscire ugualmente a realizzare il rapporto col paziente che permetta il movimento della dinamica sopraddetta che compone la conoscenza, la definizione e l’intervento nel rapporto stesso che si riesce a stabilire tra medico e malato. Piu` complesse ancora sono le situazioni nelle quali, in effetti, si puo` riconoscere una totale assenza di coscienza di malattia che si accompa-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

gna ad una mancata realizzazione di sofferenza. Queste situazioni sono state definite in genere entro una dimensione paranoicale in cui c’e` lo sviluppo di un pensiero particolare che lo psichiatra deve valutare se puo` essere definito delirio o meno. Sono le situazioni in cui il delirio non si accompagna ad una realta` di sofferenza. In particolare, approfondendo, si tratta di quella contestata malattia definita schizofrenia in cui accanto alla realta` delirante, che spessissimo non e` neppure evidente, si nasconde una realta` di violenza senza limiti. Evidentemente in questo caso parlare di rapporto terapeutico medico-paziente e` ben difficile. Ben difficile e` stabilire un’intesa con una persona che nasconde possibilita` omicide, distruttive che non sono direttamente controllabili per cui, in effetti, e` la societa` che provvede a neutralizzare, per quanto e` possibile, questa forza distruttiva. ` noto dalla storia il problema degli psichiatri E che finivano poi per diventare custodi di persone che non avevano un minimo di possibilita` di relazioni sociali. Pero` dobbiamo riconoscere che se la psichiatria si e` sviluppata, lo ha fatto a partire da queste situazioni di custodia senza nessun pensiero di cura; cioe` la proposizione sociale per la quale la cultura mette a capo di queste istituzioni addette alla custodia non un poliziotto ma un medico dice gia`, di per se´, di una domanda culturale nella quale si chiede al medico di impostare una ricerca su quello che la societa` stessa dice essere malattia. Forse possiamo comporre un disegno per il quale la domanda, nella misura in cui non viene direttamente dal malato che non concepisce l’idea di malattia e con essa una possibilita` di cura, viene invece dalla societa` dei non malati. In ogni modo resta il fatto che lo psichiatra deve rispondere adoperandosi a curare quello che i sani dicono di non saper curare. In questo caso emerge evidente che il problema, dal momento che abbiamo escluso il discorso della malattia d’organo da trattare con

farmaci o mezzi tecnici, e` quello che lo psichiatra riesca a stabilire un rapporto anche col malato grave che di per se´ non e` in grado di stabilire nessun rapporto. Non posso naturalmente esprimere giudizi se a questa domanda della societa` gli psichiatri abbiano risposto riuscendo a fare una psichiatria che realizzi quelle dimensioni fondamentali di ogni societa` che distingue la specie umana dalle altre specie animali, ovvero la medicina in quanto sostanzialmente cura che e` fatto specifico dell’umano che non si trova in nessun’altra specie animale. Se la psichiatria, cioe`, e` riuscita ad entrare nell’ambito della medicina sia come ricerca sia come attivita` medica realizzando quello che in medicina generale e` diventato chiaro quando uscendo dal pensiero magico e` riuscita a comprendere che non c’e` cura se non c’e` conoscenza.

Riferimenti bibliografici L. A. Armando, Dalla casa del padre alla casa piu` bella del mondo, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 3; 4; 1994 H. F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1991. F. Fagioli, Il problema dell’identita` dello psichiatra nell’ambito della relazione analitica con particolare riferimento al transfert erotico, da Anna O. ai giorni nostri, tesi di laurea in medicina e chirurgia, A.A. 1988-89 (in corso di pubbl.). ` possibile in psicoterapia F. Fagioli, A. Homberg, E parlare di malattia? ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 1; 2; 1992. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Marcella Fagioli, A. Masini, Relazione terapeutica (transfert), frustrazione, interpretazione, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 1; 2; 1992. A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli Milano 1987. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, Il Saggiatore, Mondadori 1987.

2 Psichiatria: modelli a confronto Nicola Lalli - Agostino Manzi Parole chiave: psicoanalisi; fenomenologia; neuroscienze; psichiatria clinica; psicopatologia; psichiatria sociale; comprensione; spiegazione

Fin da quando si e` costituita come disciplina autonoma, la psichiatria ha cercato di elaborare modelli teorici che potessero dare ragione della genesi dei disturbi mentali. Nel corso del tempo i modelli sono diventati non solo numerosi, ma spesso in netto contrasto tra di loro. Questa peculiarita` della psichiatria, se da una parte dimostra la complessita` della materia, dall’altra ne denota l’origine, che e` legata a matrici diverse: quella filosofica, quella medica, quella psicologica, quella sociale. La filosofia, come riflessione sulla natura e il destino dell’uomo e come disciplina che si occupa della conoscenza. (v. cap. 1 e 5) La medicina, che indaga non solo la normalita` e la patologia dell’uomo, ma e` anche metodo per fondare una terapia razionale. (v. cap. 1) La psicologia, sia generale che clinica, ha spesso fornito la base per la comprensione dei problemi psichici. (v. cap. 7 e 8) Le scienze sociali ed antropologiche che si occupano non dell’uomo “naturale”, ma dell’uomo nella concretezza dei rapporti sociali e culturali. (v. cap. 4)

La diversita` dei modelli teorici e` legata in gran parte alla differente importanza attribuita alle varie matrici culturali. Ulteriore singolarita` della Psichiatria e` che questi modelli si sono alternati nel tempo, spesso per contrastare un modello divenuto troppo importante ed egemone. Cosı` la psicoanalisi e` nata in parte come reazione all’organicismo, la fenomenologia in opposizione alla psicoanalisi e la psichiatria biologica contro una psichiatria divenuta eccessivamente psicologizzante. In questo capitolo cercheremo, in un rapido excursus, di descrivere i principali modelli, soprattutto per sottolinearne gli aspetti distintivi. Nei capitoli successivi mi soffermero` sui tre modelli principali che sono quello psicobiologico, quello culturale e quello psicodinamico. Quest’ultimo sara` il modello teorico di riferimento per spiegare sia la normalita` che la patologia psichica (v. cap. 8 e 9). * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali

3)

La psichiatria costituisce la sua identita` di disciplina medica in virtu` del processo di riconoscimento e di delimitazione di un’area di sofferenza, quella psichica che, se presente da sempre, solo negli ultimi 3 secoli si e` venuta a circoscrivere con chiarezza. Il riconoscimento dei disturbi mentali ha quindi da una parte favorito il costituirsi della psichiatria come disciplina unitaria, dall’altra, conseguentemente alla difficolta` ad indagare la patogenesi della malattia psichica, ne ha provocato una frammentazione in filoni o prospettive molteplici. Ricordiamo (rimandando per ulteriori approfondimenti al cap. 1) che lo sforzo della Psichiatria, che ne ha determinato il costituirsi come area clinico-terapeutica, e` stato quello di distinguere, in un coacervo di comportamenti anomali, quelli che erano espressione sintomatica di una condizione psicopatologica da quelli che erano legati a gravi handicap o a situazioni di emarginazione e di indigenza. Fatta questa distinzione, rimane pur sempre un’area molto ampia che va dal disagio psichico fino alla malattia mentale ed i tentativi di spiegazione, privilegiando a volte solo alcuni aspetti della psicopatologia, hanno finito per proporre non solo modelli patogenetici e linee terapeutiche molto diversi ma, in alcuni casi, anche molto riduttivi. A grandi linee le prospettive della psichiatria contemporanea si sono delineate sin dall’inizio, e spesso si sono ripresentate alternandosi nel tempo, tanto che la storia della psichiatria moderna (da Pinel in poi) puo` essere considerata l’esplicitazione della dialettica tra queste diverse linee di pensiero e di prassi terapeutica legate ad una diversa concettualizzazione teorica sull’origine della psicopatologia. Con un po’ di approssimazione questi filoni possono essere raggruppati, coerentemente all’ottica patogenetica che li accomuna, in tre aree:

Questa frammentazione in tanti filoni di cui cercheremo di chiarire, per sommi capi, le origini e gli sviluppi storici, ci da` l’idea della complessita` del problema psichiatrico. Questa complessita`, in termini positivi, puo` essere considerata una ricchezza, una potenzialita` di ricerca oppure, in termini negativi, come il risultato di una sostanziale mancanza di conoscenza della natura del disturbo psichico. La Psichiatria, a differenza delle altre branche della medicina, che si sono venute formando sui princı`pi del positivismo e della scienza sperimentale, percorre molteplici vie di ricerca: questo fenomeno e` facilmente comprensibile se si accetta il presupposto che lo psichico rappresenta la dimensione umana nella sua complessita` e specificita` e che male si adatta a qualsiasi tipo di riduzionismo. Molti dei filoni di cui abbiamo accennato si strutturano in maniera autonoma in quanto propongono una teoria genetica dei disturbi psichici e una coerente modalita` di terapia (es: il filone psicoanalitico e quello biologico); altri offrono notevoli dati per la conoscenza clinica ma il loro ruolo, in termini di proposta terapeutica, e` minore: ad esempio le acquisizioni in termini di comprensione del disturbo psichico presentate dalla fenomenologia esistenziale e dalla psicopatologia, pur completando il bagaglio culturale di psichiatri di diversa formazione, non hanno dato seguito a proposte terapeutiche coerenti. Questo per dire che, al di la` delle schematizzazioni necessarie ad esplicitare le caratteristiche fondamentali di queste diverse prospettive, nella realta` dell’operare clinico ogni terapeuta puo` integrare le informazioni prodotte dalle diverse scuole. Alcune prospettive della Psichiatria, ma soprattutto della psicologia, hanno posto l’integrazione a fondamento di nuovi sviluppi della prassi terapeutica (filone pluralistico-eclettico).

1)

2)

genesi psicologico-relazionale: ad es. psicoanalisi e psichiatrie dinamiche, psichiatria sociale ecc.; genesi biologica: ad es. neuroscienze, psichiatria clinico-descrittiva;

genesi ignota: ad es. fenomenologia, DSMIV, psicopatologia.

2. La psichiatria clinico-descrittiva Sulla scia delle altre discipline mediche, anche la psichiatria ha tentato di oggettivare l’insieme

Psichiatria: modelli a confronto

dei disturbi psichici in tante entita` nosografiche che si distinguessero per espressione sintomatologica, reperto anatomopatologico e decorso clinico. Precursore di questo filone e` Pinel, attivo in Francia tra il XVIII e il XIX secolo, che classifico` le malattie mentali in quattro forme principali: la melanconia, la mania (con o senza delirio), la demenza e l’idiotismo. Ma il vero slancio della clinica psichiatrica si ebbe nell’Ottocento quando l’identificazione della origine infettiva della sifilide, che come entita` clinica era gia` stata descritta in precedenza pur in assenza del dato eziologico, sembro` confermare l’idea che questa fosse la strada giusta per arrivare ad una piena conoscenza delle malattie mentali. Lo sforzo classificatorio, basato soprattutto sull’associazione dei sintomi, produsse una varieta` enorme di quadri patologici e di proposizioni nosografiche: lo stesso Kraepelin verso la fine dell’Ottocento sosteneva, dovendo ricredersi in seguito, che sarebbe stato sufficiente avere una conoscenza esaustiva di uno solo dei tre aspetti della pazzia (anatomopatologico, eziologico o sintomatologico) per poter arrivare ad una classificazione unitaria e rigorosa delle psicosi1. In nessun’altra entita` sintomatologica si ebbe un riscontro eziologico ed anatomopatologico come era accaduto per la lue. Questo fatto, se da una parte spense la speranza di risolvere il problema psichiatrico in un problema medico (allargando, quindi, l’area di azione della neurologia), dall’altra favorı` l’evoluzione del pensiero clinico in una direzione sicuramente piu` proficua i cui contributi sono divenuti fondamento di tutta la Psichiatria moderna. K. Jaspers ha saputo cogliere e spiegare quali sono i limiti e i frutti di questa metodologia di

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P. Hoff, Immanenza e ricorsi nella nosografia: il pensiero nosologico nella psichiatria tedesca da E. Krapelin ad oggi, in F. M. Ferro, Passioni della mente e della storia, Vita e Pensiero, Milano 1989. E` da notare che questa idea presuppone la possibilita`, una volta classificate correttamente le malattie psichiatriche, di arrivare alla stessa diagnosi partendo da uno qualsiasi dei punti di osservazione: Kraepelin, a dimostrazione di cio`, pretese di poter far diagnosi di lue a partire dai soli sintomi psichici, con il risultato di produrre una quantita` inaccettabile di diagnosi errate (v. K. Jaspers, Psicopatologia Generale, Il Pensiero Scientifico, Milano 1982).

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studio, indicando in Kahlbaum prima e in Kraepelin poi gli autori che seppero produrre i contributi piu` validi. Se e` vero che Kraepelin muoveva dall’idea dell’unita` morbosa come insieme di quadri che hanno stesse cause, stesse forme psicopatologiche, stesso sviluppo e decorso, stesso esito e stesso reperto cerebrale, di fatto il risultato delle sue ricerche fu quello di proporre una fondamentale distinzione nell’ambito delle psicosi: quella tra la psicosi maniaco-depressiva e la demenza precoce. L’identificazione di queste due entita`, che rimane tuttora valida, non risponde se non parzialmente a quelli che idealmente Kraepelin aveva indicato come i criteri per definire una unita` morbosa: di fatto vengono privilegiati come punti di osservazione il decorso clinico e l’espressione sintomatica. Conseguentemente gli studiosi che si confrontarono con questa proposizione teorica, ebbero il problema di delimitare quali fossero i limiti nosografici di queste entita`; privilegiare l’espressione sintomatica (le forme psicopatologiche) rispetto al decorso o viceversa, significava scegliere sotto quale categoria nosografica includere dei casi reali. Decidere che il decorso progressivo e irreversibile e` il criterio fondamentale per includere nel quadro della demenza precoce un determinato caso clinico significa escludere da questa diagnosi qualsiasi quadro psicotico che vada incontro a risoluzione. K. Jaspers sottolinea che Kraepelin, mosso dall’ideale della unita` morbosa, ha saputo delineare due gruppi in cui «deve esserci un nucleo stabile di verita`»; per cui «l’idea dell’unita` morbosa non e` un compito raggiungibile, ma il punto di orientamento piu` utile». Possiamo dire che tutta la Psichiatria contemporanea, soprattutto nello studio delle psicosi, si muove, almeno nella messa a punto di una nosografia operativa, su una prospettiva clinico descrittiva che sembra fornire il “nucleo di verita`” dal quale partire. Non e` un caso che il dibattito psichiatrico piu` forte non e` tanto nell’indicare cosa e` la psicosi, ma soprattutto come essa si manifesti e come puo` essere riconosciuta. Questo atteggiamento, definito neo-kraepeliniano, trova nel DSM (nelle sue varie edizioni) il massimo della esplicitazione.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

3. Il modello psicopatologico L’oggetto della psicopatologia e` il «ridursi delle capacita` di comportamento e dell’esperienza della realta`». (Blankenburg da Scharfetter). La psicopatologia ha dato come risultato piu` importante e condivisibile un attento studio descrittivo degli elementi che costituiscono la condizione patologica: elementi psicopatologici come il delirio, la percezione delirante, l’illusione ecc. appartengono al linguaggio comune della Psichiatria ed e` merito della psicopatologia aver loro dato una precisa descrizione e concettualizzazione. In termini storici, pero`, la prospettiva psicopatologica ha avuto un significato piu` ampio, ed e` quanto cercheremo di sottolineare tra breve; la nascita e lo sviluppo di questo filone sono strettamente connessi a quello precedentemente descritto e le teorizzazioni ivi prodotte si inseriscono in maniera incisiva nel dibattito sull’origine e sulla delimitazione nosografica dei disturbi psichici. Il filone clinico descrittivo aveva descritto e classificato una varieta` enorme di quadri nosografici a partire dall’idea che ogni singola manifestazione psicopatologica potesse considerarsi un disturbo a se´: si erano interpretate come entita` cliniche singoli fenomeni psicopatologici, come le allucinazioni, il delirio ecc. Questo fino al momento in cui autori come Kraepelin avevano ricondotto la ricerca verso la individuazione di quadri polisintomatici che lasciavano intuire una dimensione patologica unitaria. La psicopatologia, che aveva dato spunto alla clinica descrittiva, ne rappresenta il passaggio piu` logico: si pone come soggetto di studio dei singoli fenomeni che caratterizzano, al di la` del contesto clinico di presentazione (delle singole entita` cliniche), i vissuti (Erlebnisse) del paziente psichiatrico. K. Jaspers, filosofo e medico, definisce con la sua opera Psicopatologia generale (1913) quali sono il metodo e gli obbiettivi di questa disciplina. La conoscenza psicopatologica si muove su tre livelli: 1)

nel primo si pone la conoscenza dei fenomeni vissuti, di quelle specifiche “esperienze” che caratterizzano la dimensione psicotica. Cono-

2)

3)

scere queste unita` significa coglierle nella loro specificita`, darne una limitazione ed arrivare, di conseguenza, a una definizione univoca e priva di ambiguita`. La conoscenza del fenomeno psicopatologico e` sostanzialmente un processo analogico che ci permette di immedesimarci e rivivere vissuti che sono esclusivi del soggetto che li presenta: e` la oggettivizzazione di un fenomeno di per se´ soggettivo, che necessita, quindi, di un livello di comprensibilita` intrinseco. Questo concetto di comprensibilita`, come diremo meglio in seguito, avra` conseguenze importanti sulla concettualizzazione jaspersiana e schneideriana della schizofrenia. Una volta definiti gli elementi costitutivi, la psicopatologia cerca di capire geneticamente come possa essersi instaurato quel determinato vissuto soggettivo; la comprensione da statico-descrittiva si fa dinamica, cerca i legami tra gli avvenimenti psichici e l’emergere di determinati vissuti. Questo livello di conoscenza ha un limite che e` appunto il limite di comprensibilita` oltre il quale la comprensione lascia il posto ad una categoria diversa che e` la spiegazione, e questa si riduce a presupporre un’origine biologica frutto di un sillogismo: cio` che non si puo` comprendere psicologicamente deve avere per forza un’origine biologica. Da ultimo deve cercare di cogliere la totalita`, che non e` mai la somma dei fenomeni osservati (di numero finito), ma un’idea dell’ uomo in se´ che rimanda necessariamente ad un’idea di infinito (cioe` di non scomponibile e quindi non definitivamente conoscibile). La conoscenza psicopatologica oscilla tra la comprensione dei singoli elementi dello psichico e quella complessiva dell’individuo: sono due poli non necessariamente in accordo proprio per l’incomparabilita` (incommensurabilita`) di una dimensione finita con una infinita. Ecco perche´, ci dice K. Jaspers, individui che appaiono integri all’analisi delle singole funzioni psichiche possono sembrare “in un modo talvolta difficile a definire” anormali per quello che riguarda la personalita`.

Psichiatria: modelli a confronto

Secondo K. Jaspers, lo studio psicopatologico ci mette di fronte ad una doppia realta`; quella comprensibile, dove anche i fenomeni a noi lontani sono in grado di parlarci, ci appaiono come qualcosa di quantitativamente diverso, comunque potrebbero appartenerci, e quella incomprensibile, della alienazione schizofrenica. Il delirio di gelosia puo` non appartenerci, ma allo stesso tempo siamo in grado di comprenderne il significato (perche´ la gelosia e` esperienza comune). Correlare la gelosia con fenomeni psicopatologici come le percezioni deliranti che trasformano alcuni gesti della persona amata in conferme di tradimenti pone il limite della comprensione in quanto non sappiamo spiegare l’origine di questi vissuti2. Di fronte allo schizofrenico, il gesto strambo, il furore incontrollabile sembrano non offrirci nessuna possibilita` di comprensione analogica; il limite, che in altri casi si pone al livello della spiegazione, ora si presenta gia` al livello della comprensione. Questo concetto di comprensibilita` e di incomprensibilita` ci sembra centrale perche´ ripropone il tema dell’etiopatogenesi della patologia psichica, specificamente di quella psicotica. Avevamo visto come nell’ambito della clinica descrittiva il motore ideale della ricerca era la descrizione di complessi sintomatici ricorrenti che identificassero un’unita` clinica a cui far corrispondere uno specifico reperto anatomopatologico (ritenuto necessario come fondamento dell’unita` clinica stessa). La psicopatologia propone una nuova modalita` interpretativa: non e` l’unita` clinica a suggerirci il danno organico, ma la non riducibilita` di alcuni vissuti (erlebnisse) a una qualsiasi interpretazione-comprensione psicolo-

2 Spiegare l’origine dei vissuti psichici e` comprendere complessivamente quali sono le dinamiche da cui trae origine la vita psichica in tutti i suoi molteplici aspetti, normali e aberranti: non si puo` spiegare la gelosia se non si ha un modello che spieghi cosa siano l’affettivita`, il desiderio dell’altro ecc. Il limite dove si ferma la psicopatologia e` quello di non saper spiegare lo psichico, pur dovendosi continuamente confrontare con esso; vedremo che la psicanalisi proporra` un modello genetico di tutti i fenomeni psichici che spostera` questo limite alla proposizione teorica degli istinti: anticipando che il problema dell’incomprensibilita` dello schizofrenico non verra` comunque risolto.

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gica, anche abnorme (concetto dell’incomprensibilita`). K. Schneider, dopo aver stabilito che il concetto di malattia psichiatrica deve basarsi esclusivamente sulla presenza di alterazioni del soma, sostiene come molto probabile che ciclotimia e schizofrenia (la due patologie kraepeliniane) siano malattie in virtu` del fatto che «tra gli altri sintomi se ne riscontrano anche di quelli che non hanno alcun riscontro analogico nella vita psichica normale e nelle sue varianti abnormi»3. In questo senso K. Schneider (siamo negli anni ’50) pone un freno alle interpretazioni psicogenetiche delle malattie che gli studiosi di formazione psicoanalitica andavano proponendo, limitando il ruolo dello psichico a cofattore. Questa sua posizione, e in generale l’approccio psicopatologico complessivo al problema psichico (soprattutto per quello che riguarda la schizofrenia) e` di enorme importanza: altre teorizzazioni, come vedremo, lo riproporranno anche se in una veste nuova.

4. Il modello psicoanalitico La psichiatria psicodinamica (di cui la psicoanalisi rappresenta una componente importante) ha una storia e uno sviluppo in parte autonomi rispetto alle correnti precedentemente descritte: la psicoanalisi freudiana, in particolare, ma anche altre scuole da essa derivate, si organizza come un complesso di teorizzazioni e prassi che, se interessa psichiatri e studiosi di formazione non medica quasi sempre vicini al mondo accademico, trova spazio piu` nell’ambito di circoli privati che nei consueti luoghi di cura. L’origine della psichiatria dinamica e il suo sviluppo nel corso di questo secolo si pongono parallelamente alle altre correnti appena descritte e ad altre che descriveremo in seguito. Per capire questo dato e` necessario tener conto di un fatto fondamentale: il particolare interesse degli studiosi di approccio psicodinamico ai quadri che oggi definiremmo nevrotici, quadri che suggeri-

3

Aspetti della psichiatria contemporanea, p. 45.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

vano una possibilita` di comprensione genetica di tipo esclusivamente psicologico. Se Freud e` riconosciuto come lo studioso piu` proficuo in termini di teorizzazioni e applicazioni cliniche delle sue teorie, non bisogna dimenticare che il vero punto di partenza della psichiatria psicodinamica moderna ha luogo a Parigi per opera di autori come Charcot e Janet. P. Janet, in particolare, studio` a lungo l’opera dei magnetizzatori (Mesmer, Puyse´gur) che tra il XVIII ed il XIX secolo avevano iniziato a “curare”, mediante l’influenzamento (che veniva considerato come risultato di un magnetismo animale, cioe` di una forza sconosciuta e invisibile, come il magnetismo minerale, capace di influenzare l’individuo ad esso sottoposto). Sulla scia di questa tradizione un po’ bizzarra, si comincio` ad ipotizzare che molti quadri clinici in cui erano preponderanti i disturbi psichici potessero avere un’origine completamente psichica e potessero trovare risoluzione con un intervento psicologico, un intervento relazionale in cui il terapeuta, consapevole di cosa si celava dietro l’espressione sintomatologica, era in grado di dipanare il nodo complesso che aveva determinato l’anomalia psichica. Ben presto gli studi di Charcot sull’isteria e il trattamento ipnotico divennero famosi e diedero una forte spinta agli studi di questo tipo. P. Janet, che pur aveva collaborato con Charcot, e` il primo psichiatra (e filosofo) che tenta, con la proposizione della psicologia analitica (che e` allo stesso tempo strumento di indagine e di cura) di superare la mera prassi ipnotica, proponendo un modello di funzionamento dell’apparato psichico e un modello di patogenesi che si basano sulla concettualizzazione del subconscio come luogo della patogenesi dei disturbi psichici. Molte delle teorizzazioni di Janet sono state riprese, non sempre esplicitamente, da altri autori. Non e` questa la sede per analizzare gli sviluppi della psichiatria dinamica e le interessanti proposizioni teoriche dei vari autori. Riteniamo piu` interessante, per l’importanza storica e per il modo in cui si inserira` nel dibattito psichiatrico, accennare alle linee principali dell’opera di Freud, il cui pensiero e la cui prassi attraversano tutto il Novecento e inevitabilmente rappresentano il terreno di confronto sia all’interno della

prospettiva psicodinamica che tra questa e le altre prospettive della psichiatria. Le ipotesi su cui si basa il modello freudiano del funzionamento psichico sia normale che patologico sono state dedotte dalle informazioni che egli andava raccogliendo (e organizzando in un modello teorico del funzionamento della psiche) nel corso della sua attivita` analitica su soggetti adulti e nevrotici. Le ipotesi fondamentali sono due: il principio del determinismo psichico e il ruolo dell’inconscio. Secondo il primo, ogni evento mentale (anche quando venga agito con determinate azioni o comportamenti) e` da considerarsi l’effetto di una causa e puo` essere interpretato in funzione di questa. Nella maggior parte dei casi la causa non e` evidente o, per meglio dire, cosciente: esiste quindi una dimensione inconscia che e` alla base dell’attivita` mentale di ogni individuo e che, se opportunamente indagata, puo` rivelarne il significato. Secondo Freud la spinta “energetica” che alimenta ogni attivita` psichica e` la pulsione (o tensione); la pulsione viene definita come geneticamente determinata in quanto connaturata alla struttura stessa della psiche; le esperienze individuali possono modificare l’oggetto verso cui si orienta. La pulsione spinge l’individuo alle azioni necessarie alla sua (temporanea) cessazione (che in termini soggettivi viene percepita come gratificazione di un bisogno). Freud individuo` due tipi diversi di pulsione: quella sessuale e quella aggressiva (o di morte); queste due pulsioni agirebbero insieme (“fuse”) e sarebbero presenti in ogni condizione, normale o patologica, dell’individuo. Date queste brevi premesse, possiamo dire che lo sviluppo psichico di ogni individuo e` legato alle dinamiche di pulsione-soddisfacimento cosı` come vengono a presentarsi nel corso dell’esistenza. Secondo Freud in ogni individuo, nel corso della crescita, si possono identificare delle zone del corpo (zone erogene) dove maggiore e` la pulsione sessuale; in altre parole possiamo dire che la gratificazione dell’impulso sessuale deve necessariamente passare, nel corso dello sviluppo somatopsichico, attraverso l’utilizzazione di parti-

Psichiatria: modelli a confronto

colari strutture anatomiche che si avvicendano secondo uno schema fisso. Questo iter di sviluppo e` stato schematizzato da Freud in cinque fasi: orale, anale, fallica, di latenza, genitale. Soltanto un superamento soddisfacente di queste fasi e una evoluzione progressiva dell’individuo verso forme piu` mature di soddisfacimento dei bisogni determineranno un sviluppo psichico normale. Ogni nevrosi rappresenta il disvelamento di situazioni di sviluppo non pienamente superate: e` il concetto di fissazione, cioe` di una condizione di ancoramento a modalita` relazionali infantili che condizionano inconsciamente le modalita` relazionali dell’adulto, generando la conflittualita` tipica del nevrotico. I dati che ci sembra importante ribadire sono due: •

il fatto che la psicoanalisi proponga un modello di comprensione generale dell’apparato psichico (un modello psicologico, quindi); la concettualizzazione di una eziopatogenesi e di una prassi terapeutica esclusivamente psichiche.



Se lo sviluppo della psichiatria dinamica e della psicanalisi proporranno ulteriori teorizzazioni, concetti quali quelli di inconscio (e del suo ruolo nel determinismo psichico) e di istinto restano i capisaldi di tutto il filone. Intorno agli anni Trenta la teoria di Freud e` molto conosciuta, in tutto il mondo sono attive scuole di psicoanalisi e gia` gli epigoni di Freud (come Jung e Adler) propongono correzioni e nuove teorizzazioni, spesso antagoniste: la psicoanalisi si va imponendo come sistema di comprensione dello psichico, ma la sua area di azione rimane quella dei disturbi nevrotici: solo successivamente si iniziera` a proporre modelli di tipo psicodinamico anche per i disturbi piu` gravi. La psicoanalisi si propone quindi di comprendere il significato dei sintomi, ma anche di spiegare la genesi del disturbo stesso4. Lo fa postulando gli 4

Secondo lo schema freudiano, se la paralisi a guanto dell’isterica (il sintomo), ad esempio, puo` comprendersi se si disvela come funzionale all’angoscia di compiere atti ritenuti inopportuni ma vissuti come incontrollabili, la spiegazione

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istinti. Riteniamo importante sottolineare questi dati in quanto in questi stessi anni si va affermando un nuovo filone, quello fenomenologicoesistenziale, che, come vedremo, si pone in maniera critica sia rispetto alla psicoanalisi che al filone clinico e psicopatologico.

5. Il modello fenomenologico-esistenziale La prospettiva fenomenologico-esistenziale raccoglie i contributi delle due correnti filosofiche da cui mutua il nome, diffuse in Europa a partire dagli inizi del secolo ad opera soprattutto del filosofo E. Husserl e, successivamente, di M. Heidegger. La particolare visione dell’uomo proposta da queste due correnti ha offerto a Binswanger, psichiatra svizzero, la possibilita` di prospettare un nuovo approccio alla psicopatologia con la proposizione della Daseinanalyse (antropoanalisi). L’antropoanalisi viene proposta come uno strumento di comprensione di tutto lo spettro delle possibilita` esistenziali, cioe` di tutti i possibili modi di esistere che, anche se di queste due categorie non sono specificate le caratteristiche, vanno dal normale al patologico. ` importante sottolineare subito alcuni E aspetti. In primo luogo l’antropoanalisi nasce come critica alla psicoanalisi freudiana, critica che prende le mosse da una considerazione importante: la collocazione della psicoanalisi nel filone della psichiatria clinica; in secondo luogo l’antropoanalisi propone un modello di lettura della psicopatologia che vuole essere valido sia per le nevrosi che per le psicosi. “La “grande idea” di Freud — scrive Binswanger nel 1936 — incontra la “grande idea” della psichiatria clinica, cioe` il tentativo coerente di spiegare l’uomo e l’umanita` sulla base della biologia. La dottrina di Freud e la costituzione che la psichiatria clinica si e` data sono permeate dallo stesso e identico spirito, cioe` dallo spirito della biologia; anche per Freud infatti la psicologia e` una scienza naturale (biologicomplessiva dell’isteria (di una specifica modalita` conflittuale, cioe` nevrotica, di esperire la propria esistenza) va ricercata nella difficolta` a superare una specifica fase dello sviluppo infantile.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ca)”5. In questo senso la psicologia non rappresenta un’area teorica di ricerca e speculazione, ma un modo di organizzare i dati in attesa che la biologia ne chiarifichi origini e significato. Questa operazione di riduzione dell’uomo a homo natura (cioe` organizzato in funzione delle primitive forze istintuali) e` possibile solo grazie alla distruzione della «globalita` dell’esperienza umana dell’uomo, cioe` dell’esperienza antropologica»6. L’antropoanalisi e` distante dalla psicoanalisi quanto il concetto di homo natura da quello di esistenza; la spaccatura che si apre nella psicologia naturalista di Freud e` la stessa che si coglie tra la ricchezza dello studioso Freud che postula, teorizza e in fondo testimonia la propria peculiarita` di essere al mondo con la sua opera e la poverta` meccanicistica dell’homo natura che la sua teoria presenta come universale: «Freud — dice ancora Binswanger — si comporta in modo piu` antropologico della sua teoria scientifica»7. L’antropoanalisi punta quindi a cogliere la specificita` di ogni singola esistenza, il suo modo di essere al mondo, di essere con gli altri; la psicoanalisi, in quest’ottica, puo` avere una valenza ermeneutica, in grado di leggere una serie di eventi come cause (difficolta` del superamento delle fasi di sviluppo psichico) ed effetti (strutturazione di una carattere nevrotico; emergenza sintomatologica). Ma la concatenazione causale istinti-sviluppo-esiti da un punto di vista antropoanalitico non ha un significato reale: l’individuo affronta ogni momento dello sviluppo in virtu` di un suo particolare modo di essere che non puo` essere scelto (e` il concetto dell’essere-gettati nel mondo): l’a-priori esistenziale e` il dato immutabile della condizione umana in ogni sua espressione individuale, non riconducibile a nessuna semplificazione meccanicistica. L’individuo, come presenza nel mondo, puo` esperire la propria condizione secondo diversi

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L. Binswanger, Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973, p. 199. 6 L.Binswanger, La concezione dell’uomo in Freud, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973, p. 173. 7 Op. cit., p. 177.

livelli di liberta`: il progetto di mondo (weltentwurf) puo` esprimersi con un grado massimo di potenzialita` (che corrisponde ad un livello di appartenenza del Se´) o un grado minimo, quello della mondanizzazione (verweltlichung) cioe` della completa perdita di liberta` e della sopraffazione dell’angoscia (v. in proposito il cap. Normalita` , salute e malattia). Date queste premesse teoriche e` necessario fare alcune considerazioni: 1)

2)

l’antropoanalisi, in opposizione alla psicoanalisi, sostituisce quasi completamente la spiegazione del dato psicopatologico con la comprensione; tende ad eliminare non solo il vallo comprensibile-incomprensibile che la psicopatologia jaspersiana aveva posto tra le nevrosi e le psicosi, ma anche la distanza tra normalita` e patologia. Su questo secondo punto Binswanger e` molto chiaro, dichiarando, in piu` parti, la necessita` di non lasciarsi andare al giudizio (anche quello clinico), ma di comprendere il mondo dell’altro per quello che esso significa dal punto di vista antropoanalitico.

Conseguenza importante e`, pero`, la mancanza di ogni progettualita` terapeutica, conseguenza ovviamente coerente con le premesse di cui abbiamo accennato. La prospettiva fenomenologica ha avuto contributi teorici da molti autori, come R. Laing, ma anche di formazione diversa da quella psichiatrica (Sartre, ad es.). Ispirera` i movimenti dell’antipsichiatria e della psichiatria sociale cui accenneremo tra breve.

6. Il modello biologico La scoperta dei farmaci psicotropi, avvenuta negli anni ’50, ha rappresentato una svolta fondamentale per la storia della psichiatria. Questo per due ordini di motivi: in primo luogo perche´ ha permesso il trattamento sintomatologico dei quadri piu` gravi di disturbo mentale, favorendo un miglioramento complessivo della gestione (in termini di riduzione dei ricoveri e di convivenza

Psichiatria: modelli a confronto

con gli altri individui) del malato psicotico; in secondo luogo perche´ ha dato impulso a una nuova area di ricerca, quella psicobiologica, che si propone di spiegare l’area del mentale, sia nel suo funzionamento normale che anomalo, attraverso modelli funzionali psicobiologici. Ai fini del nostro discorso, e` necessario approfondire il secondo punto. La clinica descrittiva aveva individuato alcune entita` nosografiche cui era venuto a mancare il sostegno anatomopatologico che ne confermasse la patogenesi cerebrale. Il “nucleo di verita`” di cui abbiamo parlato in precedenza sembra confermato dal fatto che le categorie nosografiche dell’area psicotica sono accettate indipendentemente dalla ipotesi patogenetica con cui se ne interpreta la genesi. Le neuroscienze, alla luce degli effetti dei farmaci psicotropi capaci di modificare il dato psicopatologico o di indurre alterazioni psichiche in individui normali, propongono che l’alterazione cerebrale non va ricercata in alterazioni morfologiche grossolane (istologiche), ma in disfunzioni della trasmissione sinaptica di alcune aree cerebrali importanti per la modulazione del tono dell’umore, del pensiero, ecc. In questo senso, la psicobiologia si inscrive di diritto nel filone psicopatologico in quanto e` analoga, seppure rivisitata alla luce delle conoscenze degli ultimi cinquant’anni, l’impostazione speculativa di partenza. I nuovi criteri sui quali costruire la nosografia psichiatrica sono di poco diversi da quelli di Kraepelin: decorso, storia naturale, risposta a trattamenti specifici, fattori genetici, presenza di determinate alterazioni 8 biochimiche o ormonali (E. Sacher) . (vedi cap. 3) Lo sviluppo di questo filone ha avuto origine da due tipi di ricerche. Il primo tipo prende spunto dalle osservazioni fatte gia` nel 1927 da Beringer, che aveva associato la psicosi da mescalina alla schizofrenia, e si caratterizza, appunto, per lo studio delle psicosi sperimentali (indotte

8 In Principi di Neuroscienze, CEA, Milano 1988, pp. 744 e segg. Negli ultimi anni, accanto alla ricerca della disfunzione biochimica, e` stata rivalutata l’ipotesi della alterazione morfologica macroscopica; lo studio, in vivo, viene fatto attraverso le immagini Tc e Rm.

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da sostanze chimiche); il secondo tipo dai risultati ottenuti con i farmaci psicotropi in grado di controllare alcuni sintomi della depressione endogena, della ciclotimia, della schizofrenia, dell’ansia e dei disturbi ossessivi (v. cap. relativi). L’insieme delle informazioni dedotte con queste due linee di ricerca ha portato alla costruzione di modelli psicobiologici delle patologie sovradescritte. Il ragionamento speculativo e` il seguente: se un farmaco e` in grado di correggere la trasmissione sinaptica di determinate aree cerebrali e questo modifica la sintomatologia, si puo` supporre che il disturbo funzionale che il farmaco attenua e` all’origine del quadro psicopatologico. Successivamente si e` passati a localizzare la sede di azione di questi farmaci, i siti recettoriali ecc. utilizzando studi di istochimica su animali da laboratorio; attualmente, soprattutto per i disturbi schizofrenici e i disturbi ossessivo-compulsivi, si va affermando la visualizzazione morfologicofunzionale offerta dalla PET, che da` la possibilita` di studiare in vivo l’attivita` cerebrale e produrre un confronto tra individui “normali” e individui “malati”.

7. Il modello sociale Sotto questa denominazione possiamo includere un numero considerevole di correnti di pensiero della psichiatria che, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, si sono interrogate sulla modalita` complessiva delle relazioni umane all’interno della societa` (soprattutto capitalistica), sul rapporto individuo-ambiente (dove con questo secondo temine di confronto si intende l’organizzazione sociale) e sulla loro influenza nella genesi o, quanto meno, nella espressione delle malattie mentali. Il filone sociale si e` espresso con posizioni molto diverse; in alcuni casi, senza assumere posizioni di critica, e` stato proposto che l’emergenza di un disturbo psichico possa essere interpretato come un disadattamento individuale ad un particolare contesto sociale, accettando il fatto che l’anomalia riguarda comunque chi presenta il disturbo. In altri casi l’analisi ha assunto un significato nuovo: accettando una modalita` di analisi molto

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vicina a quella psicoanalitica e ritenendo che il disturbo psichico e` comunque originato da particolari modalita` relazionali, ci si e` chiesti quale fosse il ruolo dell’organizzazione sociale nella patogenesi del disturbo psichico. I contributi della sociologia e del pensiero politico di ispirazione marxista (basti pensare al concetto di alienazione che, se proposto da Marx in un contesto di analisi economica, e` necessariamente psicologico; v. cap. «Normalita` e patologia» 3.3) sono inscindibili da queste teorizzazioni e la loro diffusione ha influenzato notevolmente la psichiatria. Due cardini della psichiatria sociale sono lo studio epidemiologico, necessario a studiare la distribuzione del disturbo psichiatrico in relazione alle classi sociali, e il concetto di devianza che esprime, allo stesso tempo, una visione demedicalizzata del soggetto psichiatrico (che diventa primariamente un soggetto sociale) e la dinamica stigmatizzante che la societa` opera su di esso (deviato dalla norma). Possiamo dire che la prospettiva sociopolitica oscilla tra due posizioni: 1)

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nella prima e` comunque ben individuabile il soggetto portatore del disturbo che e` il risultato della organizzazione sociale secondo uno schema per cui la disuguaglianza sociale (in termini di possibilita` di espressione e soddisfacimento dei bisogni) produce emarginazione che si esprime con comportamenti di devianza sociale; di conseguenza, il rafforzamento dell’isolamento produce sofferenza che, presentandosi come disturbo psichico, determina la stigmatizzazione dell’individuo malato che viene avviato, in virtu` dell’intervento psichiatrico coerente all’organizzazione della societa`, all’internamento manicomiale; nella seconda, che estremizza le posizioni della prima, l’alienazione prodotta dall’organizzazione dalla societa` determina un degrado dei rapporti umani che interessa in grado diverso, tutti i suoi appartenenti. In quest’ottica la psichiatria, come competenza nella cura del singolo, perde ogni valenza.

La figura di psichiatra che emerge da questa nuova cultura psichiatrica ha caratteristiche che lo

allontanano dal ruolo tecnico di terapeuta, avvicinandolo a quello di intellettuale impegnato nel confronto politico e nella proposizione di modalita` di rinnovamento della vita sociale. Nello specifico dell’attivita` clinica si ricercano nuove modalita` di relazione, basate sulla comunita` e sulla “democratizzazione” dei ruoli, modalita` che dovrebbero proporsi in alternativa sia alle dinamiche relazionali della societa` che ha generato il malessere, sia alle consuete dinamiche gerarchiche pazienteterapeuta che cristallizzano, all’interno della terapia e del luogo di cura, i ruoli dettati dalle norme sociali. M. Jones, che si e` fatto fautore in Inghilterra sia di una revisione teorica del ruolo della terapia che della sua applicazione nell’Ospedale psichiatrico, dice che «il rapporto medico-paziente si e` ampliato fina ad includere tutte le persone che possono contribuire in qualsiasi modo a vantaggio del paziente. In questa metamorfosi la netta distinzione tra medico e paziente, curante e curato, non esiste piu`.»9 Nascono in questo contesto le comunita` terapeutiche, spesso all’interno degli ospedali psichiatrici, in cui a ogni malato, dipendentemente dal gravita` del disturbo, viene data la possibilita` di riallacciare una rete di relazioni sociali ed assumere un ruolo attivo nella propria cura e in quella degli altri: si associano momenti di incontro tra malati e terapeuti ad attivita` lavorative e ricreative. Abbiamo detto come la psichiatria sociopolitica nasca comunque in un’area di psichiatria dinamica, in un contesto teorico in cui, pero`, si ipertrofizzano i fattori esogeni (l’elemento sociale) rispetto ai dati intrapsichici (che sembrano assumere il ruolo di variabili dipendenti): in questo senso non e` certo il freudismo il riferimento teorico, in quanto in questo contesto «le forme sociali vengono addirittura subordinate alla fissita` della nevrosi edipica e degli istinti biologici»10; l’approccio sociale si caratterizza per la visione storica dell’individuo, che vuole superare sia il biologismo della psichiatria clinica che quello de-

9 M. Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale, cit. in A. Ballerini, p. 113. 10 G. Jervis, Introduzione a Classi sociali e malattie mentali, p. 18.

Psichiatria: modelli a confronto

gli istinti. Non si puo` disconoscere, altresı` , il ruolo del filone fenomenologico-esistenziale che ha contribuito ad affermare un approccio destigmatizzante del malato, nella necessita` di sostituire il giudizio con la comprensione, evenienza che e` tanto piu` possibile quanto piu` lo psichiatra sa porsi in un ruolo critico sia nei confronti della cultura in cui vive, sia rispetto al ruolo che questa stessa cultura gli ha assegnato. In Italia, la figura di F. Basaglia riassume in maniera esemplare queste istanze nuove che la psichiatria sociale ha presentato. Basaglia ha proposto un cambiamento dell’operare all’interno dell’Ospedale psichiatrico (luogo che e` stato considerato patogenetico e non curativo) sul modello di Jones e, allo stesso tempo, ha contribuito a dar vita ad un movimento di deistituzionalizzazione che ha portato, in Italia, alla chiusura dei manicomi (legge 180/78: si veda, a tale proposito, il cap. 65). In Inghilterra Laing, Berke e altri psichiatri hanno dato vita, a partire dalla meta` degli anni sessanta, al movimento “antipsichiatrico” (termine rifiutato dai suoi esponenti) che, con differenze da autore ad autore, ha avanzato la critica piu` radicale alla psichiatria tradizionale: alcuni esponenti di questo movimento si sono spinti a negare alla follia la connotazione di patologia che comunemente le viene associata, proponendone una lettura piu` esistenziale che psichiatrica.

8. Il modello integrato pluralistico Il modello integrato pluralistico nato negli Stati Uniti si e` esteso, anche se con qualche difficolta`, in Europa. Esso nasce fondamentalmente da due fattori: 1)

2)

il bisogno sempre piu` crescente, in un’ottica di ricerca del benessere psichico e fisico, di ricorrere a degli interventi psicoterapeutici per le situazioni piu` diverse, spesso non catalogate come disturbi, ma come semplice disagio; un tentativo di risposta che spesso ha messo insieme, a volte piuttosto acriticamente, prassi molto diverse seguendo il principio

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generale “che il fine giustifica i mezzi”: non e` tanto importante, quindi, cosa e come si fa, ma se quello che si fa riesce ad ottenere un qualsiasi risultato: modalita` legata anche alla proliferazione di figure assistenziali molto diverse (assistente sociale, matrimoniale ecc.). Nel capitolo sulle psicoterapie (v. cap. 54) e` stato accennato ai fattori aspecifici di cambiamento e probabilmente dobbiamo pensare che siano proprio questi ad essere attivati in queste modalita` di intervento. Ma accanto a questa visione poco utile c’e` invece una tendenza che cerca di ritrovare all’interno delle varie prassi psicoterapeutiche delle costanti terapeutiche che possano essere gestite al meglio nei singoli casi. Alla base di questa seconda posizione c’e` sicuramente il modello umanistico-esistenziale che puo` essere definito come una ricerca di modalita` d’intervento basata sulla comprensione e l’empatia al fine della realizzazione del paziente.

9. Il DSM-IV L’importanza del DSM come strumento standardizzato di diagnosi e` testimoniata dalla sua crescente affermazione che segnala pero` una rinuncia a qualsiasi ricerca eziologica, limitandosi esclusivamente, su di una base statistico-epidemiologica, a trovare cluster categoriali, ovvero insiemi di sintomi che tendono a riscontrarsi con una certa frequenza (sindromi). Per un ulteriore approfondimento e soprattutto per una critica articolata del DSM-IV si rimanda al cap. 10 ed al volume N. Lalli, Lo spazio della mente. Saggi di psicosomatica, Liguori Editore, Napoli, 1997.

Riferimenti bibliografici Ballerini A., Aspetti della psichiatria contemporanea, Sansoni, Firenze, 1973. Binswanger L., Tre forme di esistenza mancata, SE, Milano, 1992 (1956).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

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3 Psichiatria e biologia Nicola Lalli Parole chiave neurotrasmettitori; recettori; vie neuronali; modelli psicobiologici; neurofisiologia; psicofarmaci; psicobiologia

L’era psicofarmacologica, se da una parte ha dischiuso nuove prospettive alla Psichiatria sul piano dell’intervento terapeutico, dall’altra ha creato numerosi problemi collegati alla comprensione dell’effetto, se debba ritenersi sintomatico o curativo. Numerosi autori infatti ritengono che lo psicofarmaco possieda un’azione terapeutica, dal momento che agisce sui meccanismi di produzione di specifici neuromediatori ritenuti essere la causa,

per eccesso o per difetto, dei disturbi psichiatrici. Si e` giunti cosı` a proporre alcuni modelli psicobiologici dei disturbi psichiatrici: modelli che devono invece essere considerati come semplici induzioni, non sempre corrette e non sempre corredate da prove evidenti. Pur non condividendo questo posizione ritengo opportuno passarne in rassegna i principali modelli, dopo una breve introduzione sui neurotrasmettitori e sui loro effetti.

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1. Gli psicofarmaci Intorno agli anni ’50 inizia quella che e` definita la terza rivoluzione psichiatrica, dopo quella illuministica di Pinel che, separando il folle dall’emarginato, assicura al paziente psichiatrico un diritto di assistenza e di cura, e quella psicoanalitica che, introducendo il concetto di inconscio, propone che molti comportamenti umani non sono riconducibili alla razionalita` ed alla coscienza. Questa terza rivoluzione, nata quasi per caso, e` caratterizzata da una intensa ricerca e produzione di psicofarmaci, che a parte l’indubbia efficacia terapeutica hanno permesso l’acquisizione sempre piu` dettagliata di informazioni sul funzionamento del SNC. Gli psicofarmaci, infatti, debbono considerarsi come delle vere e proprie sonde chimiche che ci informano sulla modalita` di azione, trasmissione, inibizione delle cellule nervose. Gli studi avvengono inizialmente con animali da laboratorio e con una duplice modalita`. Una consiste nell’evidenziare la possibilita`, da parte di nuovi farmaci, di agire su specifiche funzioni o comportamenti dell’animale, permettendo di dedurre quale potrebbe essere l’effetto sull’uomo. Evidentemente queste prove sugli animali si riferiscono ad attivita` molto elementari: come il livello di vigilanza, il livello di sedazione, l’attivita` motoria ecc. Un altro modo invece di utilizzare gli animali di laboratorio consiste nel somministrare loro, per lunghi periodi, farmaci di cui si conosce la specifica attivita` nell’uomo, ed esaminare successivamente quali aree e nuclei cerebrali sono stati raggiunti e saturati. Questi esperimenti permettono di collegare il farmaco, del quale si conosce l’azione specifica, con i nuclei sui quali il farmaco agisce.

2. Alcune nozioni di neurofisiologia e di psicobiologia Il SNC e` formato da due tipi di cellule: i neuroni e la glia. I neuroni — costituiti da un corpo cellulare, da numerosi prolungamenti (i dendriti) e da un prolungamento specifico che e` l’assone — sono

circa 100 miliardi. I neuroni sono il principale veicolo dell’informazione. La glia, pur rappresentando circa l’85% delle cellule cerebrali, ha funzioni meno chiare: una e` sicuramente metabolica, un’altra e` quella di indicare, nella fase embrionale, il percorso dei neuroni; infine sembra partecipare anche alla elaborazione delle informazioni. I pensieri, le emozioni, i ricordi, insomma la vita psichica e` resa possibile dall’attivita` di trasmissione e dall’equilibrato funzionamento di questi 100 miliardi di neuroni. Se si pensa che ogni neurone, tramite i dendriti e le terminazioni assoniche, da` luogo a circa 10.000 terminazioni, ci si rende facilmente conto dell’incalcolabile numero di interconnessioni e quindi della complessita` del SNC. Il neurone possiede un prolungamento piu` o meno lungo, l’assone, che costituisce il principale veicolo della trasmissione nervosa. A riposo, l’interno del neurone ha cariche negative, ma se viene stimolato si ha una variazione del potenziale elettrico che si riduce pressoche´ a zero: questa variazione facilita l’ingresso, all’interno del neurone, degli ioni Na+ che in condizioni di riposo, sono all’esterno del neurone in una concentrazione da 25 a 50 volte superiore. L’immissione di ioni Na+ comporta una variazione di potenziale che si trasmette, con lo stesso meccanismo, nelle zone adiacenti e quindi a tutto l’assone. La conduzione assonica si propaga secondo la legge ‘‘del tutto o nulla’’, vale a dire che o lo stimolo e` sufficiente e quindi si propaga, oppure si estingue immediatamente. Questa modalita` di trasmissione ha una conseguenza fondamentale: cioe` la conduzione assonica e` poco discriminante. Questa proprieta` puo` essere utile in alcuni casi, come per esempio nei farmaci anestetici che funzionano proprio in questo modo. Nel caso che farmaci con effetto eccitatorio o inibitorio agissero solo sulla trasmissione a livello assonico, tale azione verrebbe ostacolata, proprio perche´ si trasmetterebbe con una modalita` ‘‘tutto o nulla’’. Invece nel SNC e` necessaria una graduazione dello stimolo molto piu` raffinata: a questa funzione provvedono le sinapsi. Qui, infatti, il messaggio puo` essere amplificato, modificato, bloccato, dando cosı` luogo a numerosissime variazioni. Per questo motivo gli psicofarmaci utilizzati sono tutti farmaci che agiscono a

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livello sinaptico, ove appunto e` possibile una accurata selezione e modulazione del messaggio.

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2.1. La trasmissione sinaptica

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I dendriti e gli assoni terminano con un bottone sinaptico (neurone presinaptico) che si collega mediante una piccola intercapedine (spazio intersinaptico), con un altro bottone sinaptico (neurone postsinaptico). Nel neurone presinaptico ci sono le cosiddette vescicole sinaptiche, che contengono i neurotrasmettitori: quando arriva lo stimolo elettrico (condotto dell’assone) le vescicole si spostano verso la membrana e versano il loro contenuto nello spazio intersinaptico. Una volta liberato, il neurotrasmettitore va a legarsi a specifici recettori postsinaptici. Questi recettori sono proteine conformate in modo tale da potersi legare solo con quello specifico neurotrasmettitore: e` lo stesso meccanismo di una chiave e di una serratura. Una volta avvenuto questo legame, nel neurone postsinaptico si innesca un processo di apertura dei canali per il Na+, per il Cl- e per il K+. Questi ioni, penetrando nella cellula postsinaptica, tendono a modificarne in maniera molto selettiva e rapida l’eccitabilita`. Ma a parte questo meccanismo, semplice nella sua complessita`, ne esistono altri, definiti ‘‘secondi messaggeri’’, che agiscono modificando ulteriormente la concentrazione ionica, oppure attivando sistemi di trasformazione di energia (come trasformazione di ATP in AMP). Con il che e` evidente che mentre l’impulso assonico e` piuttosto schematico (legge «del tutto o nulla»), ben diversa e` la situazione a livello sinaptico, ove un messaggio puo` essere tradotto, ampliato, inibito in modo molto settoriale e specifico. Il tempo d’azione del neurotrasmettitore e` breve: una volta agito, viene inattivato attraverso varie modalita`. O per degradazione da parte di specifici enzimi, o per riassorbimento nel neurone presinaptico (meccanismo del re-uptake), oppure per diffusione nello spazio intersinaptico e riassorbimento da parte della glia. L’aver compreso questo complesso meccanismo sinaptico ha dato la possibilita` di studiare e capire l’effetto di numerosi psicofarmaci che agiscono con diverse modalita`.

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Il farmaco puo` avere una struttura chimica simile al neurotrasmettitore, quindi, penetrando nelle vescicole specifiche, ne induce una fuoriuscita. Il farmaco puo` bloccare la funzione di riassunzione (re-uptake), aumentando cosı` il livello del neurotrasmettitore. Il farmaco puo` bloccare l’enzima addetto alla degradazione del neurotrasmettitore, aumentando cosı` la concentrazione dello stesso.

I primi due meccanismi agiscono a livello del neurone presinaptico, il blocco dell’enzima avviene a livello dello spazio intersinaptico. Ma il farmaco puo` agire anche sul neurone postsinaptico con due modalita`: d)

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situandosi sul sito recettoriale a causa della somiglianza di struttura chimica con il neurotrasmettitore, provoca la stessa azione del neurotrasmettitore; bloccando il recettore e quindi diminuendo o inibendo completamente l’azione del neurotrasmettitore.

Se si tiene conto di tutte queste possibilita`, ed inoltre che gli effetti sono legati alla quantita` del neurotrasmettitore, alla quantita` dei siti recettoriali, alla sede sulla quale agiscono (area frontale, sistema extrapiramidale, sistema limbico ecc.) e alla diversita` di neurotrasmettitori, si puo` comprendere quali e quante possibilita` possieda il SNC nel modulare la trasmissione.

2.2. I neurotrasmettitori I neurotrasmettitori erano conosciuti molto tempo prima dell’era psicofarmacologica; ma certamente l’introduzione degli psicofarmaci ha incrementato lo studio e la comprensione dei loro meccanismi d’azione. L’esempio piu` evidente riguarda le BDZ che hanno reso possibile la comprensione del meccanismo d’azione del GABA; viceversa, la conoscenza del GABA e dei suoi specifici recettori puo` portare alla ricerca di molecole ansiolitiche sempre piu` specifiche.

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Infatti la conoscenza di due specifici recettori GABA, ω1 e ω2, che sembrano collegati rispettivamente all’azione ansiolitica ed a quella miorilassante e sedativa, potranno portare a scoprire molecole sempre piu` specifiche, evitando gli effetti collaterali. Lo studio dei neurotrasmettitori inizia nel 1921 con il classico studio di O. Loewi che scoprı` l’acetilcolina, lavorando su di un preparato di cuore di rana. Stimolando il vago, il cuore cessava ad un certo punto di battere: il quesito consisteva nel sapere se l’arresto era dovuto all’eccesso di stimolazione del vago, o se questo, ipereccitato, liberava una sostanza con funzioni inibitorie sul battito. Il quesito fu risolto in modo semplice e geniale, ponendo un altro preparato di cuore di rana nel liquido di infusione: questa volta il cuore cesso` rapidamente di battere, anche senza stimolare il vago. Era evidente che la stimolazione del vago aveva liberato una sostanza che, isolata successivamente, fu denominata acetilcolina. In seguito furono scoperti altri neurotrasmettitori; attualmente se ne conoscono oltre 100. Di questi non tutti sono chiaramente definiti: pertanto accennero` solo a quelli piu` importanti e dei quali e` sicuramente conosciuto il meccanismo d’azione. a)

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Acetilcolina. Funge da neurotrasmettitore per il 10-15% dei neuroni presenti nel sistema nervoso, soprattutto per i neuroni che agiscono sulla muscolatura volontaria, sul cuore e sulle ghiandole. Molti neuroni, produttori di acetilcolina, si trovano nel nucleo di Meynert ed hanno una importanza fondamentale per i processi di memorizzazione. Infatti questo nucleo presenta evidenti segni di degenerazioni nella sindrome di Alzheimer; un’altra prova della importanza dell’acetilcolina, nella genesi della sindrome demenziale, e` dimostrata dal fatto che mentre il livello di acetilcolina e` basso, quello degli altri neurotrasmettitori e` normale. Noradrenalina e Serotonina. Questi due neurotrasmettitori, pur avendo funzioni diverse, sono accumunati perche´ ambedue correlati con la depressione. Comunque, piu`

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precisamente, i neuroni contenenti serotonina sono presenti in prevalenza nei nuclei del rafe, mentre quelli contenenti noradrenalina lo sono nel locus coeruleus e nell’area tegmentale. Una diminuzione dei loro livelli induce depressione. ` un’altra amina biogena fondaDopamina. E mentale. I neuroni produttori di dopamina sono prevalentemente localizzati nel corpo striato, nella substantia nigra e nell’area tegmentale. Una diminuzione della dopamina provoca il morbo di Parkinson; un aumento sembra essere collegato con la schizofrenia. La maggior parte dei neurolettici agisce bloccando i recettori per la dopamina. ` il neurotrasmettitore piu` speciGABA. E fico, perche´ si trova solamente nel SNC, ed anche quello piu` importante perche´ agisce su circa il 25-40% delle sinapsi cerebrali. La sua funzione principale e` quella di ridurre l’eccitabilita` neuronale: ha quindi una funzione inibitoria. Le BDZ agiscono attivando i recettori per il GABA. Encefaline o endorfine. Sono i neurotrasmettitori piu` semplici perche´ formati da pochi aminoacidi. I neuroni che producono encefaline sono diffusi soprattutto nel sistema limbico (soprattutto amigdala ed ipotalamo). Sono inoltre presenti nel midollo spinale (sostanza gelatinosa) dove svolgono una funzione fondamentale sulla modulazione del dolore. Acido glutammico. Aminoacido fondamentale, svolge anche un’azione di neurotrasmettitore. Stimola l’eccitabilita` dei neuroni e deve considerarsi come il neurotrasmetti` tore piu` importante ad azione eccitatoria. E ampiamente presente nel circuito che collega la corteccia cerebrale con il corpo striato, nei granuli del cervelletto e probabilmente nella via visiva. Istamina. Oltre ad avere una azione sui fenomeni allergici e sulla secrezione gastrica, e` ` presente soanche un neurotrasmettitore. E prattutto nelle aree che regolano il comportamento emotivo, con una distribuzione molto simile a quella della noradrenalina.

Psichiatria e biologia

2.3. I circuiti neuronali Sono costituiti da un insieme di nuclei e di vie afferenti in cui prevalgono neuroni che producono un particolare tipo di neurotrasmettitore. Data la complessita` dell’argomento rimando all’ottimo testo di Snyder. Qui mi preme sottolineare come alcuni di questi circuiti corrispondono o si sovrappongono a circuiti che erano gia` stati evidenziati da studi di neurofisiologia o da correlazioni cliniche ed anatomo-patologiche. L’esempio piu` eclatante e` rappresentato dal sistema limbico, gia` definito come il circuito dell’emotivita`, che e` anche il sistema in cui prevalgono i neuroni produttori di serotonina, noradrenalina ed endorfine, tutti neurotrasmettitori collegati con la vita emotiva.

2.4. I recettori Sono strutture estremamente importanti, poste sul neurone postsinaptico; ogni neurotrasmet-

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titore agisce sul recettore specifico. Agli inizi si credeva che esistesse un singolo recettore per ogni neurotrasmettitore; studi successivi hanno dimostrato che esistono invece recettori diversi. Cosı`, per esempio, la dopamina ha cinque tipi di recettori; la noradrenalina ne ha tre. La varieta` di recettori spiega perche´ lo stesso neurotrasmettitore puo` avere azioni diverse. I recettori sono i siti ai quali possono legarsi gli psicofarmaci con una duplice azione: agonista o antagonista. Nel primo caso rinforzano l’azione del neurotrasmettitore, nel secondo la riducono o la bloccano. Ho cercato di riassumere in poche pagine i risultati dello sforzo congiunto di neurofisiologi, farmacologi, biochimici, psichiatri, che hanno raccolto in pochi decenni una massa impressionante di dati; dati che hanno permesso la formulazione di modelli che cercano di spiegare se non il perche´, certamente il come di molte funzioni fondamentali del SNC e della loro patologia.

«Sono raffigurate tre configurazioni del GABA recettore / BDZ recettore / canale anionico. o (Da sinistra a destra) Nel 1 caso ambedue i siti recettoriali (sia per il GABA che per le BDZ) sono liberi: il canale anionico o o e` completamente chiuso. Nel 2 caso e` legato solamente il recettore per il GABA: il canale anionico e` appena aperto. Nel 3 caso sono legati ambedue i siti recettoriali (sia per il GABA che per le BDZ): il canale anionico si apre e rimane aperto completamente. L’apertura del canale permette il passaggio del Cl che depolarizza la membrana e quindi produce un effetto inibitorio sull’impulso e quindi clinicamente un effetto sedativo». (Da Receptor Mechanism in Depression and Anxiety di J. F. Tallman; D. W. Hommer. Per gentile concessione della The UpJohn Co.).

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3. I modelli psicobiologici 3.1. L’ansia Da tempo erano conosciuti farmaci (come i barbiturici) o sostanze (come l’alcool) che riuscivano a controllare l’ansia, esercitando pero` una marcata azione sedativa che ne limitava l’applicabilita` clinica. La scoperta delle BDZ ha evidenziato invece l’esistenza di una serie di molecole che, pur possedendo un marcato effetto ansiolitico, presentano una attivita` sedativa e miorilassante molto modesta. Questa specifica modalita` di azione ha stimolato numerose ricerche volte a scoprirne il meccanismo d’azione. La prima scoperta fu l’esistenza di specifici recettori per le BDZ; la seconda fu che i recettori per le BDZ sono distribuiti nelle stesse zone ove si trovano i recettori per il GABA, principale neurotrasmettitore a funzione inibitoria. Il che portava a ritenere che ci dovesse essere un legame tra BDZ e GABA. Successivamente e` stato dimostrato che il meccanismo delle BDZ si esplica attivando i siti recettoriali per il GABA, il quale a sua volta esercita la sua azione inibitoria favorendo l’apertura dei canali ionofori per gli ioni Cl− che, entrati nel neurone, ne attenuano l’eccitabilita`. Il GABA e` il neurotrasmettitore piu` diffuso nel SNC, agendo sul 25-40% delle sinapsi cerebrali. Si puo` considerare come il piu` potente schermo antistimolo che il SNC produce per difendersi dall’eccesso di stimoli, eccesso che se non fosse bloccato aumenterebbe l’attivita` eccitatoria cerebrale provocando una situazione di disturbo che si manifesta appunto come ansia. Questo modello molto semplice, ma che ha richiesto anni di ricerche, chiaramente ci puo` spiegare il come, non il perche´ dell’ansia. Anzi in effetti quello che possiamo affermare con sicurezza e` che questo modello ci spiega soprattutto come funzionano le BDZ, farmaci con indubitabile effetto ansiolitico. 3.2. La depressione La reserpina, usata per la cura dell’ipertensione e della schizofrenia, spesso induce nel-

l’uomo sindromi depressive anche gravi. Negli animali di laboratorio si era evidenziato che l’uso della reserpina, se sul piano comportamentale induceva un rallentamento psicomotorio, sul piano del biochimismo cerebrale induceva un abbassamento notevole di due neurotrasmettitori: la noradrenalina e la serotonina. Era pertanto logico pensare che questi due neurotrasmettitori potessero giocare un ruolo importante nella genesi della depressione. Ipotesi confermata successivamente dall’efficacia antidepressiva dell’iproniazide, che e` un farmaco IMAO, ovverosia inibitore della monoamminoossidasi, enzima che degrada i due neurotrasmettitori. L’IMAO, impedendo questa degradazione, indirettamente tende ad aumentare i livelli della noradrenalina e della serotonina. Una ulteriore riprova e` venuta ancora dagli psicofarmaci: i triciclici e la fluvoxamina, che hanno una netta azione antidepressiva, bloccano il meccanismo del re-uptake della serotonina e/o della noradrenalina. Sia con l’inibizione della MAO, sia con il blocco del re-uptake, si ottiene comunque un aumento del livello di questi due neurotrasmettitori aminici, la cui diminuzione risulta essere quindi sicuramente implicata nella genesi della depressione.

3.3. La schizofrenia L’introduzione dei neurolettici nella terapia della schizofrenia ha evidenziato un effetto collaterale molto spiacevole: i sintomi parkinsoniani. Questa sintomatologia ha spinto i ricercatori a capire i rapporti tra schizofrenia e dopamina. Questo neurotrasmettitore, fra le numerose funzioni, ne ha una importante, che e` quella di regolare e modulare il comportamento motorio. Lesioni del corpo striato o della substantia nigra, nuclei ricchi di neuroni dopaminergici, provocano il morbo di Parkinson. Una seconda via dopaminergica nasce invece nell’area tegmentale ventrale che ha strette connessioni con il sistema limbico. Il blocco dei recettori dopaminergici in questa sede potrebbe essere responsabile dell’attivita` antischizofrenica dei neurolettici: mentre l’azione sul nucleo striato darebbe luogo agli effetti indesiderati: cioe` le manifestazioni parkinsoniane. Comun-

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que credo sia corretto parlare, piu` che di modello, di ipotesi dopaminergica della schizofrenia. Infatti l’azione dei neurolettici e` molto sintomatica, ovverosia agisce su alcuni sintomi della schizofrenia, ma non ne modifica sostanzialmente il quadro di base.

3.4. I disturbi della memoria L’acetilcolina gioca un ruolo fondamentale nei processi di memorizzazione, come e` dimostrabile sia per la degenerazione, nella sindrome di Alzheimer, del nucleo basale di Meynert ricco di neuroni colinergici, sia per i disturbi della memoria provocati da due farmaci: la scopolamina e l’atropina, che hanno una spiccata attivita` anticolinergica. Il nucleo di Meynert e` costituito da vari sottonuclei, con proiezioni sia sulla corteccia che sull’ippocampo. In genere, mentre la distruzione o la lesione delle aree a proiezione corticale provoca modesti disturbi della memoria, questi sono invece marcati quando la lesione riguarda l’area a proiezione ippocampale. Il che dimostra che questa struttura e` fondamentale per i processi di apprendimento e di memorizzazione. Va ricordato inoltre che l’acetilcolina agisce su due diversi recettori: nicotinici e muscarinici. I farmaci che competono con l’acetilcolina, agendo sui recettori muscarinici, provocano i disturbi della memoria. Anche se finora non e` stato possibile sintetizzare farmaci agonisti, capaci di sostituire carenze colinergiche e quindi essere usati nei processi demenziali, l’importanza dell’acetilcolina sui processi di memorizzazione ed apprendimento, rimane fondamentale. Certamente la conoscenza dei meccanismi neurotrasmettitoriali ha aumentato la nostra capacita` di capire alcune modalita` fondamentali del funzionamento del SNC. Molte domande pero` rimangono ancora senza risposta, e nuove domande sono sollevate dai tanti quesiti risolti. Certamente, questi modelli non sono semplicistiche soluzioni del problema del perche´ si pensa, del perche´ si ricorda, del perche´ si puo` avere l’ansia o la depressione, ma ci indicano semplicemente il modo. Bisogna inoltre tener

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presente che «...le complesse funzioni mentali sono mediate da molte aree cerebrali, distinte a livello microscopico: dove si svolge una attivita` neurologica e` altrettanto importante di come si svolge». (S. Snyder, 1989). La diversita` legata al come e al dove, unita alla diversita` dei recettori ed alla reciproca interazione dei neurotrasmettitori, costituiscono tutti elementi di variabilita`: la complessita` si riaffaccia dietro l’apparente semplicita` degli schemi. Forse l’immagine che meglio puo` rendere questa complessita` puo` essere fornita dalle articolate operazioni necessarie per eseguire una suonata al pianoforte: che necessita di uno strumento, di uno spartito e di un esecutore. Il pianoforte rappresenta la complessa interazione neurotrasmettitori-recettori, strumenti fondamentali dell’attivita` psicobiologica. Lo spartito rappresenta i circuiti cerebrali, vie gia` preformate e meno suscettibili di variazione. Ma chi e` l’esecutore? La figura dell’esecutore non rimanda ad una entita` esterna od estranea. L’esecutore e` dato dalla complessita` e dalla necessaria integrazione, che permettono all’individuo di avere una identita`, una autoconsapevolezza ed una continuita`, pur nei cambiamenti. Sulla base di questa metafora, possiamo interpretare la psicopatologia delle psicosi come dovuta o a lesioni dello strumento o ad alterazioni dello spartito. Probabilmente la prima evenienza si ha nei casi acuti, la seconda nei casi cronici quando e` da ritenere che sia intervenuta un’alterazione delle principali vie o circuiti neurotrasmettitoriali che spiegherebbe la cronicita` del disturbo. I modelli psicobiologici certamente possono essere molto utili per aumentare le nostre conoscenze sulla patologia psichica, a condizione che vengano interpretati correttamente. Interpretati correttamente vuol dire sottolinearne tre aspetti fondamentali. Il primo e` che i modelli psicobiologici riguardano le situazioni cliniche psichiatriche piu` gravi: la depressione maggiore, la schizofrenia e la demenza. Quindi i modelli non sono applicabili a situazioni diverse come le psiconevrosi, le situazioni borderline, la personalita` psicopatica ecc. Il secondo e` che questi modelli ci informano sul come e non sul perche´ del disturbo.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Il terzo e` che il modello si riferisce ad una situazione di status, ovverosia ci propone uno spaccato trasversale della situazione neurotrasmettitoriale di quel paziente. Ma nulla ci dice su cosa e` successo prima, su cosa ha provocato quel disturbo, su quale importanza hanno avuto i rapporti significativi interpersonali nel determinare, facilitare o non impedire quella determinata situazione biochimica. In conclusione, questi dati debbono essere letti con molta discrezione, ma soprattutto alla luce di una fondamentale verita`: cioe` che dati clinici e biochimici possono avere un reale valore solo se inseriti all’interno della storia e del contesto globale del soggetto. Credo sia chiaro che la psicobiologia non puo`

essere scissa dalla clinica (psichiatrica); ed ambedue non possono essere separate dallo studio delle dinamiche intrapsichiche ed interpersonali del soggetto (psicoterapia).

Riferimenti bibliografici Per i vari problemi rimando ai capitoli specifici. Per quanto riguarda invece la psicobiologia credo che attualmente il testo piu` chiaro e completo, ma anche semplice, sia: Snyder S. H., Farmaci, droghe e cervello, Zanichelli, Bologna, 1989.

4 Psichiatria transculturale Goffredo Bartocci Parole chiave psichiatria; transcultura; psicoterapia; migrazioni; religione; fantasia di sparizione

L’importanza di questo capitolo risiede nel taglio nuovo dato alla Psichiatria Transculturale considerata non come museo di esotiche ‘‘pazzie’’, bensı` come disciplina di frontiera rispetto all’emergenza di nuove e piu` complesse problematiche psicopatologiche. L’impostazione teorico-metodologica e` segno della situazione attuale della Psichiatria che deve trovare una metodica piu` ampia ed articolata, rispetto alla semplicistica e rigida impostazione nosografica-descrittiva che ha costituito nel passato l’impalcatura della Psichiatria classica, poi di quella psicofarmacologica e che continua ora nel DSM-III-R e IV. Ci troviamo invece di fronte a nuovi problemi che comporteranno per lo psichiatra l’acquisizione di conoscenze e competenze, finora patrimonio di pochi. La massiccia immigrazione, con la conseguente composizione sempre piu` multirazziale e multiculturale della societa`, pone problemi teorici ed operativi complessi che possono trovare soluzione non solo sulla base di una apertura mentale esente da dogmatismi e riduttivismi etnocentrici, ma anche con l’aiuto di un modello psicodinamico che tenga conto dei meccanismi inconsci.

Basti pensare alla varieta` dei quadri psicopatologici legati a specifiche culture, quadri che sono resi ancora piu` complessi dal vissuto di sradicamento e dalla non comprensione od ostilita` della cultura del paese ospitante, il che rende difficilmente valutabile le interazioni tra questi fattori. Inoltre molti comportamenti possono essere legati a credenze religiose fortemente radicate, ove non e` sempre possibile evidenziare quanto ci possa essere di difensivo, nel senso che il comportamento viene accentuato come bisogno di riaffermazione della propria identita` culturale, e quanto ci sia di realmente patologico. Questi ed altri fenomeni possono lasciare perplesso l’operatore psichiatrico, che non sa decidere se certi comportamenti, nella loro diversita`, vanno rispettati perche´ il paziente e` ancora immerso nella ‘‘sua cultura’’, pur vivendo materialmente in un’altra, o se invece quei comportamenti sono comunque patologici e le spiegazioni, religiose o culturali, possono rappresentare solo un tentativo di razionalizzazione. Certamente tutto questo deve essere letto ed interpretato alla luce della ‘‘tolleranza’’, purche´ questa non sia un paravento che serva

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a coprire l’ignoranza o peggio ancora ‘‘l’aurea’’ astensione che non crea problemi. Ma a parte questi problemi operativi, la Psichiatria Transculturale puo` rappresentare il punto di incontro (o di scontro) di antichi problemi che non riguardano solo la Psichiatria, cioe` l’uomo malato, ma l’Antropologia, ovverosia l’uomo nella sua complessita`. Per esempio il problema del rapporto tra natura e cultura: quanto deve essere attribuito all’apprendimento e quindi alla cultura e quanto invece e` condizionato da meccanismi genetici e quindi alla natura. Gli etologi sembrano aver superato quest’antinomia congenito-acquisito. Infatti, secondo gli etologi, gli animali (uomo compreso) hanno schemi di comportamento altamente specifici, variabili secondo le varie specie e disposti

secondo un programma genetico ben preciso. La loro comparsa e` possibile pero` solo in seguito ad una serie di stimoli specifici che sono chiamati evocatori e che derivano dall’ambiente. Gli evocatori per l’uomo sono fattori esclusivamente sociali: in questo senso lo sviluppo del comportamento e` strettamente legato alla presenza di questi fattori organizzativi che comunque debbono essere presenti in particolari fasi dello sviluppo (imprinting). Questi dati, cosı` importanti, dovranno essere ulteriormente confortati proprio dallo studio delle manifestazioni psicopatologiche nelle diverse culture: la divisione dei disturbi in culture-bound e culture-free, esprime chiaramente questa esigenza. * * *

Psichiatria transculturale

1. Definizione ed ambito di competenza Non e` difficile definire l’area di competenza ` tradizionale della Psichiatria Transculturale. E noto che questa disciplina mira alla ricerca ed alla identificazione dei fattori socio-culturali nella genesi dei disturbi psichici, privilegiando da sempre lo studio della interazione dell’individuo con il suo contesto sociale, piuttosto che tendere alla liturgica obiettivazione di fattori organici e biochimici come causa univoca della alterazione patologica dello stato di benessere. ` piu` difficile invece riuscire a definire che E cosa sia la Psichiatria Transculturale o cosa essa possa oggi rappresentare. Questa disciplina, infatti, mostra al momento attuale una notevole apertura dell’arco del suo ventaglio operativo, raccogliendo intorno a se´ una serie di consensi ed interessi multidisciplinari e cosı` vaste prospettive ermeneutiche, che e` opportuno spendere qualche parola introduttiva onde chiarire la complessita` del quadro. Se da una parte l’osmosi della Psichiatria con gli aspetti culturali e antropologici ha portato la Psichiatria Transculturale a rappresentare la disciplina scientifica di estrazione medica che maggiormente ha contrastato il potere monotematico dell’ottica interpretativa proposta dalla cosiddetta psichiatria biologica, dall’altra, del tutto recentemente, assistiamo ad un recupero in positivo della sfera psicobiologica allorche´ si raccolga l’invito ad esaminare le interazioni fra gli avvenimenti proposti dall’ambiente esterno e le risposte individuali biologicamente determinate dal nostro apparato percettivo-interpretativo. Il territorio transculturale infatti e` il teatro che spontaneamente mostra le diverse modalita` di risposta e di interazione uomo-cultura-natura che nel corso della storia sono state elaborate dalle piu` disparate etnie, e facilita pertanto il lavoro di individuazione, secondo prassi di ricerca estrapolate dalla psicologia clinica, degli avvenimenti o situazioni-stimolo che tendono con piu` frequenza a determinare reazioni patologiche individuali o collettive. In altre parole la Psichiatria Transculturale, proprio per la sua storica propensione a fondere le prospettive metodologiche di altre discipline

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scientifiche, si presta ad essere un ponte di collegamento con campi del sapere tradizionalmente lontani. Se un disturbo psichiatrico presenta le stesse manifestazioni in due differenti contesti culturali, allora questo puo` essere rispettivamente il prodotto di geni che sono propri della specie umana o altrimenti la conseguenza di fattori ambientali comuni a tutte e due le culture. Piu` le culture sono diverse piu` sembra probabile che geni siano la causa delle malattie che si presentano in identiche sembianze. D’altra parte, differenze nella manifestazione delle forme morbose in piu` di una cultura possono portare alla identificazione di fattori ambientali che esercitano preponderante influenza nella conformazione della malattia (Leff, 1981)

I rapidi movimenti di assestamento fra vecchie prassi di lavoro e nuove frontiere di ricerca costringono pertanto la stessa Psichiatria Transculturale a cimentarsi continuamente con quella dimensione inerente ‘‘l’apparizione e la scomparsa di storie e di eventi umani’’, in questo caso anche prassi e consuetudini di lavoro, che abbiamo detto essere caratteristica di ogni processo di acculturazione ed umanamente reperibile in ogni relazione intersubiettiva. (Relazione I Convegno Internazionale di Igiene Mentale Transculturale, Villalago Terni, 1989; Bartocci 1990).

Lo stesso operatore, ricercatore transculturale, non puo` esimersi dal confronto con una serie di scelte. Gli Antropologi non possono non aver esercitato il lodevole sforzo di evidenziare motivazioni e significati psicologici nei comportamenti umani, al di la` di una semplice embricazione con funzioni e istituzioni socioculturali (Frighi, 1984).

Gli psichiatri non possono non aver effettuato una certa separazione dalla corrente dell’insegnamento medico tradizionale almeno quel tanto da rendere possibile lo sviluppo di quella capacita` che permetta di cogliere le caratteristiche ed i valori che ciascun contesto culturale nasconde

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dietro ogni macroscopica facciata, per poter apprezzare il polimorfo agire dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente esterno; nel nostro caso, prevalentemente inteso come ambiente di rapporto interumano. Quello specifico ambito cioe` dove non si dinamizzi soltanto il rapporto uomonatura, o uomo-cultura, ma soprattutto il rapporto uomo-uomo. Secondo tale prospettiva ed alla luce delle conoscenze acquisite riguardo alle dinamiche anche inconsce di rapporto, la definizione classica che legava l’ambito dell’operare della Psichiatria Transculturale ai rapporti tra Psichiatria e Cultura puo` essere allargata sino ad accettare al suo interno lo studio, l’analisi, la comprensione dell’agire e dell’utilizzazione di queste dinamiche in tutte le culture. Per vari motivi e` accaduto che le etnie caratterizzate dalla presenza di una concezione del mondo che non ha trovato immediata corrispondenza con quella della cultura egemone occidentale sono state da questa reattivamente collocate nel ghetto squalificante delle culture rozze, prelogiche, culture fobicamente giudicate immerse in una sorta di ‘‘magia’’ (ovvero di inconscio perverso) che, spogliata dell’elemento sia pure parziale di rapporto con l’esterno, assume le demoniache sembianze dell’opposto della ragione che, a quanto pare, e` considerata come unica categoria vedente e senziente, passaporto obbligato per trovare ospitalita` nel consesso delle culture forti o presunte tali. Una forza che spesso nasconde la boria che si fa scudo della altezzosa prosopopea per nascondere a sua volta la difficolta` di sciogliersi dallo sterile abbraccio monogamico con la reiterazione dell’identico, con la coazione classificatoria rappresentata dal DSM-IV e dalla illusione che questo strumento sia esente da condizionamenti culturali. Eppure non pochi sono stati gli avvertimenti di pericolo. Le basi concettuali della teoria psichiatrica occidentale e la sua stessa pratica sono spesso considerate a priori essere neutrali e scientifiche. Dovremmo sottoporre la psichiatria occidentale ad un esame approfondito cosı` come noi sottoponiamo ad esame le teorie esplicative di ogni malattia (Gaines, 1982).

Dovremmo smettere di pensare che le nostre valutazioni e prospettive riguardo all’accezione del comportamento normale siano tutte neutrali e che non necessitino pertanto di valutazioni critiche (Murphy, 1977). Le ricerche psichiatriche sono state condotte soprattutto nelle culture omogenee delle societa` urbane industrializzate. La psichiatria occidentale tenderebbe poi a porsi come libera da condizionamenti culturali (Littlewood e Lipsedge, 1987).

Frighi (1984) e` particolarmente esplicito al proposito allorche´ ci ricorda che la concezione mentale secondo cui i popoli cosiddetti primitivi rappresenterebbero stadi preliminari della nostra stessa cultura

puo` essere connotata come: delirio culturale (culturalismo) molto simile al delirio razziale (razzismo).

L’impasse o il fallimento delle soluzioni interpretative dei disturbi psichici da parte del pensiero occidentale od il ridimensionamento della psicoanalisi freudiana non possono giustificare la reazione suicidale di negare la possibilita` di seguire le tracce delle dinamiche inconsce dell’uomo. La sintesi fra Psichiatria, Antropologia e Psicoanalisi, intesa quest’ultima come scienza che studia le dinamiche ed i rapporti inconsci dell’uomo, permetterebbe oggi di guardare piu` in la` dei limiti imposti dall’accezione ipostatizzata di tali discipline che, prese singolarmente, impongono i rispettivi confini o i reciproci tranelli. L’Antropologia Culturale per esempio, allorche´ si ripresenti vestita da una presunta neutralita`, assume sembianze ‘‘sovraorganiche’’ e, parallelamente al suo distacco dalla culla dell’umano operare, determina una svalorizzazione, se non un occultamento dei fattori economici, politici, sociali, fisico-biologici-ambientali e di rapporto che sono spesso le radici dei disturbi psicologici. La radicalizzazione biologizzante della Psichiatria, a sua volta, non nasconde poi solamente l’annullamento delle importanti radici socioculturali della sofferenza e della patologia psichica

Psichiatria transculturale

quanto, e tuttora, la scotomizzazione del potere del mondo delle intenzioni-emozioni, nel determinismo della malattia mentale. (Bartocci 1988, 19901) Per non parlare infine della psicoanalisi in massima parte freudiana, nonostante l’apparente autonomia delle altre scuole o derivazioni, in quanto, salvo rare eccezioni, queste non hanno mai messo in crisi le proposizioni iniziali del loro Padre: proprio questa psicoanalisi che esce malconcia dal confronto transculturale per le superficiali e spesso gratuite affermazioni riguardo alle prime gesta fondanti dei nostri progenitori. Le dissertazioni enunciate in Totem e Tabu` rappresentano un esempio fulgido di un pensiero.... culture-bound (se non personal-bound), imposto retroattivamente alle etnie arcaiche secondo quel costume etnocentrico che si e` rivelato particolarmente prepotente nella storia della Psichiatria Transculturale. Storia particolarmente triste quella della psicoanalisi, in quanto dovrebbe essere proprio questa scienza, quella dell’inconscio, ad occuparsi del mondo delle intenzioni, degli affetti, dei desideri inconsci o per opposto di rabbie e disperazioni cannibaliche, degli annullamenti, delle proiezioni, che attribuiamo particolarmente potenti in tali popolazioni. ` proprio l’area inerente le intenzioni-emoE zioni inconsce, inoltre, che funge da spartiacque discriminativo fra le culture occidentali e quelle primitive. ` questa l’area dell’operare dell’Io inconscio, E il giardino dove si affondano le radici dell’essere, dell’Io dell’uomo, spesso purtroppo dell’Eden, minacciato e soggetto all’intervento del Nume. ` lı` che si trovano le cause della malattia E mentale, lı` la valutazione delle responsabilita` personali del suo apparire. Lı` avviene la demarcazione fra popoli primitivi che attribuiscono ‘‘ancora’’ a cause non organiche le malattie mentali e le culture piu` potenti che invece si rivolgono ` lı` che esclusivamente al mondo degli oggetti. E l’Io puo` venire piu` facilmente influenzato, rubato, agito-da. (Frighi, 1984). Inoltre, considerando anche l’aspetto della ‘‘Iatria’’ della psiche, e non solo quello delle cause di malattia, possiamo vedere che questo e`

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anche il territorio della cura, delle possibilita` di scambio, di dinamizzazione di quelle dimensioni inconsce, anche psicobiologiche, che non appartengono pero` alle scienze biologiche. Il luogo della cura dell’occidente e non solo dell’operare del ` infatti attraverso il conmago (Giardina, 1990). E fronto con l’Io inconscio, con la presenza dell’altro, che si attua la dinamizzazione della fiducia e non della fede e si strutturano reali possibilita` di investimento libidico e di terapia (Lalli, 1990). ` evidente, a questo punto, che l’operare di E tutti questi fattori, consci ed inconsci, rende possibile l’inserimento di un capitolo di Psichiatria Transculturale, intesa come punto di raccordo e di riunificazione interdisciplinare, solo all’interno di un Manuale di Psichiatria che sappia tenere conto della complessa interazione dello psichico e del biologico, della interazione di questi con i rispettivi ambienti culturali e che soprattutto utilizzi un modello analitico non freudiano, ovverosia un modello che non visualizzi l’inconscio come necessariamente perverso e non consideri il setting come rito fondante il processo terapeutico. Attraverso la revisione critica dei rituali del setting, sia che questi si manifestino all’interno delle sedute di psicanalisi che in quelle piu` ortodossamente ‘‘mediche’’, sotto forma di somministrazione del farmaco irrelata da ogni cultura e vissuto, e` possibile superare i limiti che ogni singola interpretazione del mondo porta con se´ ed uscire fuori dall’impasse terapeutico omoculturale che impedisce l’adozione di forme versatili di approccio terapeutico. L’operatore transculturale fisso nei propri schemi operativi, nel momento in cui momentaneamente rifiuti l’uso esclusivo del proprio mezzo terapeutico, per esempio quello farmacologico, si trova improvvisamente disarmato ed inerme di fronte al ricordo di una delle affermazioni purtroppo meno controverse della Psichiatria Transculturale e cioe` quella che ipotizza l’impossibilita` di una psicoterapia al di la` di una comune concezione del mondo tra terapeuta, paziente e gruppo sociale dove si attua l’intervento terapeutico. Mi riferisco alla citazione di Ellenberger (1970) che sottolinea come l’intervento di guarigione, la seduta terapeutica o

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la cerimonia puo` essere efficace solo all’interno di una struttura psicologica e sociologica che include: 1) la fede del guaritore nelle proprie abilita`; 2) la fede del paziente nelle capacita` del guaritore; 3) sia la malattia, sia il metodo di guarigione ed il guaritore devono essere accettati e riconosciuti come tali dal gruppo sociale.

Anche R. Prince (1980), piu` recentemente, non si discosta molto da tale triade. Gli studi transculturali sull’efficacia delle psicoterapie hanno evidenziato la preponderanza di alcuni aspetti legati al rapporto paziente-guaritore: una comune e condivisa concezione del mondo; una comune e condivisa identificazione ed attribuzione del fattore di causa; una notevole influenza dell’elemento suggestivo. Consideriamo pertanto scontato il valore terapeutico di questi fattori esogeni, mentre e` ancora necessario richiamare l’attenzione sui meccanismi endogeni di guarigione.

Tali constatazioni, nonostante l’incontrovertibile verita` attuale, nascondono un micidiale tranello: la reale individuazione delle enormi difficolta` procedurali sembra decretare l’impossibilita` di una psicoterapia transculturale e rimandare necessariamente ad una pratica omoculturale. Comunque si voglia procedere per favorire l’osmosi culturale in un setting clinico, e` perlomeno proponibile una possibilita` psicoterapeutica che si poggi sui primi due elementi propostici da Ellenberger, dove al termine ‘‘fede’’ e` opportuno sostituire quello di ‘‘consapevolezza’’, ‘‘riconoscimento’’, come fattori sufficenti a strutturare una situazione di rapporto terapeutico. La speranza ed il desiderio del paziente di poter trovare un esterno soddisfacente-terapeutico, confortati da una presenza del guaritore, un Io che sappia proporre il rapporto, anche passando attraverso momenti parziali suggestivi, rendono percorribile una terapia che non e` magica o ‘‘selvaggia’’ nel momento in cui si rispettino i tempi ed i modi della evoluzione di quel rapporto, unico nelle sue caratteristiche. Una volta chiarita almeno la possibilita` di una dinamizzazione di un rapporto psicoterapeutico, possiamo chiudere questa introduzione proponendo come schema di riferimento generale quello che, per quanto possa sembrare generico,

ben si confa` al nostro scopo, e cioe` quello sociopsicobiologico. ` infatti particolarmente pertinente alla PsiE chiatria Transculturale un approccio che contempli costantemente l’interazione reciproca di tutte queste distinte componenti, per poter distinguere e poi dissecare con la perizia del chirurgo le patologiche connivenze fra tali aspetti che, allorche´ operino isolati, raramente assumono la forza per tradursi in malattia mentale.

2. Cenni storici ` consuetudine datare la nascita esplicita di E un approccio scientifico che osservi i disturbi psichiatrici al di fuori della propria cultura con il viaggio di Kraepelin a Giava nel 1903 allo scopo dichiarato di poter comparare la presentazione delle forme patologiche mentali. Lo stesso Kraepelin definı` il suo approccio come ‘‘vergleichende psychiatrie’’ o psichiatria comparativa, introducendo il metodo dell’osservazione scientifica propria della psichiatria ai metodi antropologici che si erano rivolti per lo piu` alla descrizione dei tratti culturali, sistemi sociali, comportamenti rituali piuttosto che ad una analisi della insanita` psichica. Ulteriori sfumature terminologiche seguirono a tale prima definizione: Cultura e psicopatologia (Slotkin, 1955), Etnopsichiatria (Devereux, 1961), Psichiatria Transculturale (Wittkower e Rin, 1965), Psichiatria Cross-Culturale (Murphy e Leighton, 1965), Sociologia psichiatrica (Weimberg, 1967), Psichiatria Culturale (Kennedy, 1973), ‘‘Nuova’’ Psichiatria Transculturale (Kleinman, 1977) e piu` recentemente Igiene Mentale Transculturale (Frighi, Rovera, Bartocci, Primo Congresso Internazionale di Igiene Mentale Transculturale, Villalago, Terni, 1989) che ben sottolinea una capacita` ed una tradizione umanistica rivolta non solo a illuminare il ruolo dei fattori culturali nella eziologia, nelle forme di espressione, nella presentazione e nel decorso dei disturbi mentali (Marsella, 1982),

ma a comprendere anche ed interpretare tali fattori, a tracciare storie per significarne e distin-

Psichiatria transculturale

guerne i valori, avendo abbandonato l’illusione di potersi rivolgere al disturbo mentale al disopra di culture, ideologie, storie vissute. Gli anni ’50-’70 hanno rappresentato l’epoca di maggiore proliferazione di pubblicazioni tese alla identificazione delle particolarita` psicopatologiche presentate nelle diverse culture: si vedano i lavori di Carothers, Wittkower, Lambo, Laubscher, Tooth, Leighton ed altri. Contemporaneamente uscivano le prime riviste specializzate: Transcultural Psychiatry Research Review, International Journal of Social Psychiatry, Psychopatologie Africaine. Dagli anni ’70 in poi abbiamo assistito ad una esplosione di interesse per gli studi transculturali dei disturbi mentali. Tra questi emerge l’‘‘International Pilot Study on Schizofrenia’’ condotto dalla Organizzazione Mondiale della Sanita` nel 1973 attraverso l’adozione di metodologie e livelli organizzativi che solo organismi internazionali sono in grado di gestire. I risultati ottenuti tendono a modificare la comune eccezione della schizofrenia come sindrome sufficientemente identica in ogni cultura. Dall’IPSS emerge l’interessante risultato che la sintomatologia varia considerevolmente a seconda delle culture nonostante i tentativi operati per tentare di standardizzare le diagnosi o le classificazioni stesse. Come abbiamo sottolineato piu` volte, i fattori culturali non possono essere separati dalla espressione mentale patologica. Quest’ultima non e` un fenomeno universalmente identico ma riflette piuttosto la cultura dove questa prende forma, per quanto riguarda cioe` l’etiologia, le modalita` di presentazione e di esperire il fenomeno stesso, il decorso e l’esordio della sintomatologia. In breve, come l’IPSS conclude, i paesi non occidentali mostrano una prognosi migliore per i pazienti ‘‘schizofrenici’’ di quanto accada invece nei paesi d’occidente. Inoltre, il decorso dei disturbi e` notevolmente piu` breve che non quello rilevato nei paesi occidentali. (Marsella, 1982).

Attraverso un approccio metodologico preventivamente standardizzato, l’Organizzazione Mondiale della Sanita` ha successivamente patrocinato il ‘‘Collaborative Study of Depression’’ (Sartorius et al., 1980; Jablensky et al., 1981; OMS, 1983), condotto attraverso interviste su 573

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pazienti di cinque differenti nazioni (Canada, India, Iran, Giappone e Svizzera) allo scopo di indagare e comparare le forme di presentazione della depressione. Anche in questo caso, lo spettro delle manifestazioni che si riferiscono alla sindrome depressiva non e` universalmente omogeneo. Nelle culture non-europee i sintomi somatici sono l’espressione piu` frequente di un disturbo depressivo e i cosiddetti sintomi-chiave per una diagnosi di depressione quali la comunicazione diretta o la percezione da parte dell’intervistatore di umore depresso, sentimenti di colpa ed idee suicidali, non sono cosı` frequenti (Marsella, 1985).

Dopo gli anni ’70 la storia della Psichiatria Transculturale non puo` essere scollegata dalla presenza dei forti movimenti della psichiatria sociale o della cosiddetta antipsichiatria che hanno trasformato talune impostazioni concettuali del significato stesso di malattia mentale, imprimendo nuovi impulsi al lento incedere delle ricerche tradizionali in campo transculturale. L’interesse, almeno per quanto riguarda la realta` italiana, sembro` accentrarsi nella riproposizione della malattia mentale anche come risultato di lotta di potere, e nell’analisi con le situazioni mostrate dai gruppi di emarginati, subalterni, talvolta dalle semplici differenze mostrate dalle sacche folkloriche. Ai paesi sede di immigrazione o ai paesi in via di sviluppo venne lasciata la risoluzione dei loro rispettivi problemi: quelli inerenti l’immigrazione ai primi, e l’organizzazione di forme di assistenza e di terapie consone ai nuovi livelli di occidentalizzazione ai secondi. Cosı` mentre l’Italia era scossa dal vento delle riforme psichiatriche, contemporaneamente la Psichiatria Transculturale italiana segnava il passo, mostrando difficolta` ad integrare una tradizione di grandi valori umanistici (si pensi a Gramsci, De Martino, Lanternari, Frighi, Di Nola, Rovera, Seppilli e tanti altri), e trasformare la forma di presentazione didattica di tale disciplina. Del resto molti manuali di psichiatria, encomiabili per la perizia descrittiva di sindromi appartenenti ad altre culture quali l’Amok, il Koro, il Latah, il Whitigo, il Plibokto, il Voodu, le

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collocavano ancora all’interno del capitolo delle sindromi esotiche o pre-scientifiche, perpetuando piu` o meno consapevolmente una prospettiva del tutto etnocentrica. Puo` essere interessante notare, inoltre, come tali sindromi psicopatologiche trovassero collocazione accanto alle sindromi rare quali quella di Capgras, di Cotard, di Ganser, ovvero nel capitolo dei fenomeni ‘‘strani’’, apparentemente irrelati dal contesto della storia, impervi ad una analisi profonda che possa dare senso a quanto eppure e` nella storia1.

3. Psicopatologia e criteri diagnostici La designazione: culture-bound syndroms, forme morbose caratteristiche di determinati paesi (Frighi, 1984)

o ‘‘sindromi particolari a certe culture’’ (Ey, 1978) appare migliore delle precedenti in quanto indica una traccia, un nesso conoscitivo, piuttosto che operare una demarcazione nosografica. La dizione culture-bound, secondo Littlewood e Lipsedge (1987), delimita quelle forme che ricadono all’interno dei seguenti punti di riferimento: 1) Forme di comportamento limitate nel tempo, tipiche di quelle localita` e specifiche di quella particolare cultura che le considera certamente come ‘‘indesiderate’’, e considerate bizzarre dagli stessi osservatori esterni. 2) Queste possono anche essere determinate da cause organiche. 3) Il paziente non e` consapevole o responsabile di quanto accade. 4) Il comportamento assume spesso toni drammatici.

In opposizione al termine culture-bound viene adoperato il termine culture-free per indicare tutte quelle sindromi che appaiono in forme relativamente simili in ogni cultura e che, non mostrando legami o caratteristiche tali da poter essere considerate specifiche di una sola cultura, esprimono dinamiche umane piu` universali.

1 I riferimenti bibliografici del paragrafo 2 in: Marsella A. e White G., 1985.

` evidente che, anche per quanto riguarda le E culture-bound syndroms, e` soprattutto la modalita` di presentazione all’esterno delle dimensioni psichiche che da` il carattere di diversita` a problemi psicologici che solo si vestono con i colori propri di quella etnia, senza rappresentare una psicopatologia a se´ stante. Littlewood e Lipsedge (1987) infatti sottolineano che utilizzando un approccio interpretativo-fenomenologico anche le sindromi cosiddette ‘‘esotiche’’, staccate dall’alveo delle manifestazioni della nostra cultura, come per esempio il Koro, dove il malato sperimenta un timore panico per una supposta retrazione del pene nella cavita` addominale, mostrano similitudini dinamiche che si centrano su nuclei di vissuto emozionali ben piu` universali che non la particolare forma di presentazione comportamentale agita all’esterno. Si consideri a questo proposito la tendenza a concretizzare il disagio psichico in forme agite comportamentalmente di talune etnie non tecnicizzate, rispetto alla tendenza delle etnie occidentali a ‘‘psicologizzare’’ i disturbi affettivi. Le sindromi culture-bound infine non sono solo appannaggio di un tempo trascorso o di culture immobili nel tempo; esse emergono anche attualmente in corrispondenza a specifiche situazioni. Una sindrome culture-bound caratteristica del Sud Est Pacifico (Papua Nuova Guinea) va sotto il nome di Cargo-cult. Si tratta di un fenomeno che rispecchia movimenti millenaristici di altre epoche e civilta`, nel senso che comporta l’aspettativa dell’invio da parte di entita` sovrannaturali di merci di sostentamento di ogni genere per cui e` necessario, a questo fine, soltanto attendere e abbandonarsi ad uno stato globale di apatia ed indifferenza (Frighi, 1984).

Presso gli Aborigeni australiani delle regioni del nord si e` sviluppato un culto di salvezza, il Kurungara, del tutto estraneo alle tradizioni culturali di queste popolazioni, caratterizzato da forme di adorazione di una figura del male tradizionale, il Djamba, che spesso sfociano in comportamenti francamente patologici (Bartocci, 19902).

Psichiatria transculturale

Tale fenomeno e` stato collegato ai frequenti contatti di queste popolazioni con i bianchi. Gli aborigeni colpiti dai poteri apparentemente illimitati di quest’ultimi sperano di ottenere dalla adorazione della figura tradizionalmente temuta del Djamba tutti quei poteri che nella loro cultura si acquistano solo attraverso ben piu` faticose attivita`. Allo stupore, alla delusione delle aspettative suscitate dall’apparizione del nuovo, si sostituisce una indolente attesa di avventi sul piano del sovrannaturale. Le due situazioni sopradescritte si riferiscono ad atteggiamenti collettivi chiaramente legati a processi di transculturazione, la cui portata patologica, venendo smussata dal consenso o dalla aggregazione di un numero quantanche ristretto di persone, non si struttura o non viene stigmatizzata in psicopatologia individuale. Comunque, sia che il disagio si manifesti e prenda forma attraverso cortei psicopatologici individuali che collettivi o, come dicevamo, sotto l’aspetto di disturbi culture-bound aventi denominatori comuni, una corretta terapia rivolta a rappresentanti di altri ceppi etnici si deve poggiare su una accurata comprensione delle premesse culturali che fanno da sfondo e da proscenio ai gesti ed alle opere dell’uomo. Il lavoro di estrapolazione dei significati e dei riverberi provenienti dalle norme mondane di comportamento ha permesso, per esempio, di identificare la ‘‘cultura della vergogna’’ del popolo giapponese come un elemento predisponente l’atto suicidale, espressione ultima di tratti depressivi la cui comunicazione, in quanto giudicata offensiva per il gruppo sociale, viene interdetta o repressa. ‘‘La cultura della espiazione’’ delle popolazioni mediterranee, collegata alla colpevolizzazione religiosa del peccato, sembra essere un fattore che facilita la lamentazione depressiva. Numerosissimi sono i lavori scientifici che procedono ad una sorta di anatomia e fisiologia dei nessi: Psicopatologia e Cultura, ed a questi e` opportuno rivolgersi per lo studio delle caratteristiche di singole etnie. Attualmente ritengo piu` utile rimanere su tematiche che si riferiscano ad una visione globale

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della Psichiatria Transculturale e limitarmi ad accennare a due situazioni che sembrano prestarsi ad un ulteriore lavoro di approfondimento: 1)

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il ruolo svolto da radicali impostazioni religiose nella conformazione o nel determinismo di disturbi mentali culture-bound; il fenomeno della morte psicogena acuta.

Per quanto riguarda il primo punto occorre sottolineare che ogni religione porta con se´ una serie di norme di comportamento che autorizzerebbero a rivolgersi ad essa come uno dei tanti elementi costituenti una cultura, cosa comunemente accettata dall’Antropologia Culturale. La dimensione religiosa, pero`, proprio per gli attributi di sacralita` che le sono propri e che le vengono continuamente rinnovati, trascende la percorribilita` del solco culturale e non puo` essere collocata accanto alle rappresentazioni laiche dell’umano operare che compongono i quadri delle varie culture, quali lo sviluppo tecnologico, le codificazioni di corpi legislativi, o nel versante simbolico l’arte, la poesia e la filosofia. Ora, nel momento in cui non si consideri la religione come un tratto culturale aspecifico, siamo impossibilitati ad utilizzare per il nostro lavoro la dizione che ci ha continuamente accompagnato e cioe` quella che lega Psicopatologia e Cultura, in quanto, ripeto, la dimensione religiosa si pone statutariamente al di la` dell’uomo e pertanto, nonostante la contraddizione del termine ‘‘re-legare’’, si pone ‘‘sciolta’’ da una interazione di rapporto che e` per noi l’unica condizione che poniamo per esercitare una ricerca psicologica. L’approccio fenomenologico (Otto, 1936), accompagnato da una prassi di indagine propria della psicopatologia generale, sembra essere quello piu` pertinente per affrontare la dimensione religiosa nelle sue forme di presentazione sia sul piano dell’avvenimento individuale che sul piano della storia. Ultimamente in campo psicoanalitico si sono potute mettere a fuoco con piu` precisione alcune dinamiche particolari come quelle inerenti l’annullamento della realta` esterna attraverso la fantasia di sparizione (Fagioli, 1972). Queste scoperte permettono di seguire con

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

maggiore perizia anche i riflessi interni che seguono l’andamento del gioco delle apparizioni/sparizioni (Fagioli, 1974; Lalli, 1988; Bartocci, 1989) che costituiscono il nucleo dinamico dove successivamente e` possibile cogliere l’avvento e l’eventuale insediamento della divinita`. Rimane infine da ricordare che lo studio di talune esperienze apicali quali quelle misticoestatiche si sta avvalendo negli ultimi tempi dell’uso di mezzi tecnici biochimici e cioe` del tentativo di misurare i livelli ematici di principi attivi, registrabili durante la manifestazione di tali esperienze (Schwarz, 1960). Quello che attualmente appare fondamentale e` rendere visibile l’area del sacro attraverso una conoscibilita` relativa dei fenomeni ad esso inerenti. La seguente citazione che articola la dimensione religiosa all’accadere psichico puo` chiarire quanto stiamo tentando di esplicitare: la maggior parte delle ideologie religiose del mondo rappresenta un tentativo di formulare cognitivamente i contenuti dell’esperienza mistica (Prince, 1980).

L’esperienza mistica, l’apparizione del numinoso o, al contrario, la sparizione dell’umano diventano il campo di ricerca comparata per quella Psichiatria Transculturale che voglia affrontare i complessi fenomeni che in ogni cultura hanno portato alla realizzazione dello spirituale e del divino piuttosto che all’inveramento della fantasia. Su di un piano operativo, quando l’aspetto religioso diventa chiaramente patologico, o viceversa l’aspetto patologico si esprime attraverso concezioni religiose, le possibilita` di intervento terapeutico sono estremamente piu` complesse o addirittura impossibili. Si consideri ad esempio la situazione dei testimoni di Geova, dove l’attuazione sul piano comportamentale, prassico, delle credenze religiose, determina l’inveramento rituale delle dinamiche e conseguenzialmente la loro successiva incorreggibilita`. Per quanto riguarda il secondo punto, l’Ey (1978) distingue tre principali forme di morte

psicogena acuta: una forma africana che segue alla violazione di un importante tabu`; una forma polinesiana che sarebbe una malinconia, nella quale la morte e` conseguente alla vergogna sociale; una forma australo-melanesiana che uccide attraverso la magia. Per gli Aborigeni australiani l’avvento dell’insanita` o della morte fisica per l’operare di ‘‘intenzioni’’ accadeva e veniva considerata a livello culturale come conseguenziale ad un operare maligno di altri esseri umani. L’umano era considerato fonte privilegiata di malattia psichica e con essa anche organica. (Bartocci, 1990) La sovrapposizione e la connivenza fra dinamiche psichiche, cultura e fisiologia biologica del corpo porta alla rappresentazione di manifestazioni estreme che ci concedono di affacciare ancora una volta lo sguardo verso il giuoco drammatico dell’interazione fra lo psichico e il somatico. Un giuoco spesso interrotto dalla ‘‘facile’’ soluzione dell’intervento della scissione che, distaccando l’uno dall’altro, lascia illusoriamente sperare di salvaguardare almeno il corpo dalla arrogante presentazione degli avvenimenti psichici (v. Cap. 27).

4. I fenomeni connessi alle migrazioni Una ulteriore spinta innovativa per l’area di competenza della Psichiatria Transculturale si e` verificata sotto la pressione esercitata dall’imponente movimento migratorio in atto dai paesi sottosviluppati verso quelli industrializzati, e tra questi i paesi comunitari. L’Italia si e` trasformata da paese di emigrati in paese di immigrazione, non solo per quanto riguarda il movimento migratorio Sud-Nord (Africa-Europa) che investe la nostra nazione, che per le sue caratteristiche geografiche e storiche e` stata definita la ‘‘porta d’Europa’’, ma anche per il movimento migratorio di ‘‘ritorno’’ dei nostri stessi connazionali. I recenti ed incontrollabili movimenti migratori dai paesi sottosviluppati hanno sconvolto le vecchie procedure di osservazione condotte in

Psichiatria transculturale

loco ed in contesti omogenei, costringendo a trovare metodologie di ricerca, sistemi elaborativi e procedure terapeutiche atte ad affrontare i problemi di societa` diventate multirazziali e policulturali. La provocazione intrinseca ai massicci movimenti migratori attuali non si riferisce solo alla incontrollabilita` di questi, ma ad un ribaltamento di prospettive tradizionali. Si e` passati cioe` da un movimento colonizzante da parte delle razze indoeuropee verso i paesi sottosviluppati ad una sorta di ‘‘controcolonizzazione’’ da parte di gruppi extracomunitari che, per quanto relegati attualmente a ruoli subalterni, portano con se´ aspetti culturali e forme esistenziali che esercitano necessariamente una diffusa pressione transculturante, a cui i paesi europei sembrano solo ora prestare attenzione. L’atteggiamento dei paesi ospitanti determina una ulteriore situazione di rischio a cui il movimento migratorio espone. L’atto migratorio si costituisce come fattore di stress non solo per le dinamiche ed i fenomeni di distacco dall’alveo culturale tradizionale, ma anche per la situazione di confronto con le regole del tutto nuove presentate dal gruppo sociale sede di immigrazione. Alla variabilita` della storia personale di ogni emigrato che comprende motivazioni e vissuti del tutto particolari, a seconda del momento personale e del momento storico in cui si sia verificata la separazione dal proprio contesto culturale, si somma anche l’ignota disponibilita` delle leggi e delle persone del paese ospitante, che si strutturano in un fitto intreccio di realta` non immaginarie che rende difficili possibilita` concrete di orientamento. E questo e` valido non solo per l’emigrato ma anche per l’operatore clinico, che e` chiamato ad occuparsi di tali problemi. Tutto questo comporta che l’operatore che si voglia confrontare con la terapia dei problemi psicologici connessi all’emigrazione, debba affrontare contemporaneamete piu` di un versante: quello di rapporto con i vissuti personali del paziente e quello conoscitivo che indaghi la portata stressante della situazione materiale attuale. Appare pertanto realistico che un approccio terapeutico cosı` complesso venga effettuato all’interno di servizi pubblici che appaiono essere le

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sedi privilegiate per rispondere contemporaneamente alle problematiche sia psicologiche che materiali dell’emigrato.

5. Linee organizzative per servizi pubblici di Psichiatria Transculturale ` questo un paragrafo radicalmente nuovo E per la realta` italiana che si e` considerata immune dalla necessita` di provvedere ad una assistenza agli immigrati, a differenza di quei paesi, quali il Canada o l’Australia, che hanno dovuto confrontarsi con il problema di movimenti migratori, del resto autorizzati da questi stessi paesi se non indotti a scopo di ottenere forza-lavoro. In questi ultimi paesi si e` assistito ad una aggregazione spontanea di gruppi culturali omogenei in distretti cittadini specifici, che, in presenza di livelli economici accettabili, ha portato a forme di assistenza coagulate intorno a figure mediche private di identica estrazione linguistica, con le quali il disagio psichico potesse essere dialettizzato in una situazione presumibilmente empatica o per cosı` dire spontanea. Tale modello e` stato riproposto a livello pubblico con la inaugurazione di Centri Psichiatrici Multiculturali, contraddistinti dalla presenza contemporanea al servizio di operatori che rappresentino il maggior numero di ceppi etnici presenti in quel territorio, onde offrire al paziente la possibilita` iniziale di trovare un esponente della propria cultura come figura di riferimento. Completamente diversa e` invece la situazione inerente i movimenti migratori cosiddetti clandestini, caratterizzati da una grossa diffidenza nei confronti degli enti pubblici. Le statistiche internazionali che si riferiscono a questo tipo di situazione mostrano che tali gruppi di immigrati o si rivolgono a centri assistenziali religiosi o, se utilizzano gli enti pubblici, lo fanno esclusivamente per situazioni di ricovero ospedaliero. Lo schema di riferimento nosografico e terapeutico utilizzato dai centri psichiatrici multiculturali rimane quello di stampo occidentale in quanto e` questo modello che permette una suddivisione diagnostica e prognostica consona alla si-

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tuazione culturale del contesto dove viene condotto l’intervento terapeutico. La scelta della terapia va articolata non solo al tipo di patologia presentata individualmente, ma anche al luogo in cui la rappresentazione si svolge. Le esperienze degli ‘‘Aro villages’’ in Nigeria, ‘‘che consistono in comunita` nelle quali convivono pazienti psicotici (dimessi dal vicino ospedale psichiatrico) e le loro famiglie e gli abitanti del villaggio’’ (Frighi, 1981), caratterizzate dall’aggregazione dei pazienti in comunita` ad orientamento tradizionale e gestite solamente da lontano da operatori locali, o dagli stessi notabili del villaggio, mostrano una precisa coerenza terapeutica. Piu` confusive sembrano le scelte di altri servizi che in contesti urbani semindustriali hanno adottato formule miste di terapia e cioe` l’utilizzazione di operatori esterni strettamente legati a forme terapeutiche a sfondo magicoinduttivo. Tale ultime prassi seppure efficaci su particolari tipi di pazienti o all’interno del contesto culturale di origine, sembrano invece essere scollegate alla realta` attuale del paziente in fase di acculturazione e favorire piuttosto una guarigione per regressione che non quella per dinamizzazione del disagio. ` evidente che la complessita` del problema E non permette soluzioni standardizzate che possano essere affrontate esclusivamente nell’ambito di pur corrette competenze tecniche, ma deve essere necessariamente supportata da una programmazione organizzativa da parte di nuclei di coordinamento qualificati che possano fornire una continuita` didattica2 Basti ricordare, a questo proposito, che ‘‘l’American Psychological Association Code of Ethics’’ ha stabilito che gli operatori

6. Conclusioni e prospettive Vediamo cosı` come il cammino e gli obiettivi della Psichiatria Transculturale siano andati oltre i limiti descrittivi iniziali, sino ad abbracciare attualmente l’analisi ermeneutica del significato stesso del disturbo mentale e della sua relazione fra persona-salute-gruppo sociale. Un numero sempre piu` consistente di ricerche in campo transculturale e psichiatrico mostra che l’esperienza di malattia e` un’avventura INTERPRETATIVA che si poggia su situazioni sociali che si accordano con le premesse inerenti le ‘‘teorie’’ culturali delle malattie e del comportamento sociale generico. Nonostante il grande numero di studi antropologici e psichiatrici che ci hanno fornito molti resoconti delle credenze culturali riguardo i disturbi mentali... limitate sono le nostre conoscenze riguardo l’organizzazione simbolica e cognitiva della comprensione ed accezione del senso comune dei disordini mentali che alla fin fine da` alla esperienza di malattia un significato culturale ed una espressione sociale (White e Marsella, 1982).

dovrebbero aver espletato una formazione atta a fornire conoscenza e consapevolezza della importanza dell’implicazioni culturali, prima di iniziare attivita` cliniche con pazienti di differenti gruppi culturali (Marsella, 1989).

La Psichiatria Transculturale e` protesa ad occuparsi non solo del significato individuale, personale della malattia, ma anche dell’intersecarsi del momento esistenziale, l’interruzione del benessere, con il sistema culturale che da una parte gestisce dall’esterno l’apparizione dell’evento, dall’altra lo incanala e lo condiziona. Il compito della Psichiatria Transculturale trova cosı` un suo posto all’interno di un dibattito che travalica persino i gia` ampi spazi psicopatologici e culturali che abbiamo detto propri di tale ambito di conoscenze. Lungi dal voler formulare gerarchie epistemologiche, eppure e` proprio il doppio versante, biologico e culturale della Psichiatria Transculturale che permette a questa disciplina di poter ascoltare i molteplici inviti che da piu` parti chiamano a risposte scientifiche precise. ‘‘Nature or Nurture?’’. Un ritornello che va oltre la sua musicalita`.

La Regione Umbria recependo tali linee operative ha deliberato il patrocinio dell’Istituto Italiano di Igiene Mentale Transculturale con sede in Terni.

Parecchi eminenti biologi (Huxley, 1942; Medawar, 1960; Dobzansky, 1962) hanno esaminato il rapporto intercorrente tra evoluzione genetica ed evoluzione culturale. Potremmo dire cosı`, che

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l’evoluzione culturale continua l’evoluzione genetica con altri mezzi, avvalendosi cioe` degli oggetti del Mondo 3 (Popper e Eccles, 1977).

La transizione dall’innato all’acquisito assume quindi potere di intervento sulla evoluzione filogenetica della specie. L’adattamento non e` piu` genetico ma culturale; la specie umana non si suddivide piu` in sottospecie o in razze, ma in gruppi etnici, cioe` in gruppi culturali che sono in campo psicosociale cio` che razze e specie sono in campo biologico (Ruffie´, 1976).

In altre parole l’uomo acculturato spezza l’andamento della selezione naturale, sfuggendo allo stesso schema darwiniano che pure a sua volta aveva emancipato l’uomo dal delirio di immobilita` geneticamente divina. Ma la cultura supera il ruolo di risposta adattativa. Non pago di trovare soluzioni ai problemi immediati, lo spirito umano prevede problemi futuri. Razionalizza, intellettualizza tutto. Quando l’origine di un fenomeno non appare evidente, egli inventa una spiegazione e cosı` nascono miti e religioni. L’uomo che ha rimodellato il proprio ambiente fisico crea il proprio ambiente culturale; essendo sfuggito alle regole della selezione naturale, inventa le proprie regole, crea una morale che potra` modificare ma della quale non potra` piu` fare a meno (Ruffie´, 1976).

Inventa le proprie regole ed una morale della quale non potra` piu` fare a meno, prendendo spesso a prestito sistemi di valutazione etnocen` allora opportuno che le trici e pertanto parziali. E regole non siano inventate ma piuttosto scoperte da quella che e` la realta` socio-psicobiologica dell’uomo, che include anche i processi inconsci della mente. L’episteme del pensiero occidentale, il fondamento della scienza moderna che «come struttura teorico-tecnica e` la forma suprema di potenza e quindi di ‘‘verita`’’ esistente sulla terra» (Severino, 1979) non puo` essere esclusivamente fondato sulla potenza della tecnica e sulle realizzazioni razionali ereditate dal pensiero greco, che ha tra l’altro piu` volte mostrato — come la nostra stessa

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civilta` — di essere intriso di macroscopici aspetti irrazionali (Dodds, 1951), ma si poggia anche sulle solide basi di un esperire inconscio che, una volta negato, viene contrapposto alla razionalita` quasi fosse un suo speculare ed alieno opposto. Uno sdoppiamento, un delirio del sosia, che lascia il passo all’intrusione di ben piu` pericolose forme di pensiero che autorizzano successivamente l’emergere di comportamenti scissi, a doppio binario, dove alla facciata del perbenismo si contrappongono attivita` «occulte» diventate tali in quanto «estraniatesi soltanto a causa del processo di rimozione» (Freud 1919, in Colamedici 1990). Se l’atto di nascita di questa Ragione, comunque si sia venuta conformando, passa necessariamente, come dice Vernant, attraverso un processo di svincolamento dalla mentalita` religiosa e che «grazie a questa laicizzazione del pensiero politico assicura l’avvento della filosofia», occorre tenere presente che l’opera di separazione dalla mentalita` religiosa e dagli atti che ne conseguono, non puo` essere stata effettuata una volta per tutte e che l’emancipazione da una struttura culturale e da strutture psicobiologiche continuamente operanti sia in direzioni razionali che in quelle opposte non-razionali, o per meglio dire operanti in direzioni che si dimostrano utili o viceversa dannose all’autonomia dell’uomo, ci riguarda in forme diverse oggi come allora. La Psicoanalisi, scienza relegata alla conoscenza della borghesia qualora la si intenda come figlia unica di un solo padre, diventa scienza dell’inconscio dell’uomo nel momento in cui si scioglie dal legame di dipendenza religioso con Freud. Appare allora possibile sottoporre all’indagine conoscitiva anche il pensiero magico, «quella dimensione specifica che puo` essere al tempo stesso meraviglia o alienazione dell’uomo» (Bartocci, 1990) ed opporsi alla universalizzazione appiattente su scala mondiale di una sola cultura che si illude che la conoscenza biologica del corpo sia automaticamente conoscenza della psiche. Ogni uomo ha lottato per trovare una sua strada per conoscere il mondo ed ognuna di queste esperienze ci e` fondamentale, cosı` nella storia della antropologia che in quella della psicopatologia.

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Dopo i rivolgimenti economici e politici che hanno seguito la seconda guerra mondiale, molte culture tradizionali scompaiono ad un ritmo sempre piu` rapido. Ora per il gruppo umano questo impoverimento culturale e` altrettanto pericoloso dell’impoverimento genetico per un gruppo animale: che esso si collochi al livello biologico o a quello culturale, il monomorfismo comporta gli stessi pericoli. Da alcuni anni ci si sforza di proteggere le specie in via di estinzione. Bisognerebbe difendere con lo stesso scrupolo le culture minacciate, dal momento che la loro molteplicita` costituisce la ricchezza dell’umanita` e la sua garanzia di sopravvivenza (Ruffie´, 1976).

Martino ci indicava, quello del cosiddetto mondo primitivo:

` questo un lavoro di riconoscimento dei riE spettivi valori culturali, di difesa di questi e nel contempo di separazione. Essere disponibili a lasciar morire qualcosa di se´, fors’anche una dimensione che e` stata bella ma che ora va trasformata per fare posto a quanto di nuovo si avvicina.

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Alcuni antropologi si chiedono se sia meglio resistere ad oltranza alle nuove condizioni di vita, magari arroccandosi in enclaves di folklore tradizionale, o se, invece, sia preferibile lanciarsi baldanzosamente su nuovi sentieri, buttandosi alle spalle il passato (Frighi, 1981).

Quando una concezione del mondo puo` lasciare il passo ad un’altra? Quando fare il balzo che per un attimo ci lascia sospesi nel vuoto? La situazione attuale della Psichiatria (e non solo di questa) ci induce a prendere a prestito e riproporre quanto Ernesto de Martino gia` negli anni bui del ’41 affermava: la nostra civilta` e` in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia... Tuttavia una cosa e` certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento e assumersi le proprie responsabilita`. Potra` essere lecito sbagliare nel giudicare: non giudicare non e` lecito. Potra` essere lecito agir male: non operare non e` lecito.

Ognuno dunque e` chiamato a scegliere il proprio posto di combattimento o di ricerca, se preferisce, per trovare quel filo mancante che possa facilitare la composizione delle immagini dell’ordito dell’operare dell’uomo moderno. Noi crediamo che questo filo possa essere quello che de

di quel mondo che oggi piu` che mai da` segni di presenza.

Ed e` bene che li dia.

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Psichiatria transculturale

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5 Psichiatria e bioetica Chiara Lalli - Nicola Lalli Parole Chiave sperimentazione; trapianto; espianto d’organo; eutanasia; accanimento terapeutico; statuto dell’embrione; qualita` della vita; dignita` della persona; deontologia; bioetica; etica; colpa metafisica; biotecnologia; tecnologia; legge 644; legge 194; donazione; living will; genetica

Per comprendere l’importanza assunta in questi ultimi decenni dalla bioetica, basterebbe tener presente che nel 1995 il Consiglio Nazionale degli Ordini dei Medici e Odontoiatri (FNOMCeO) aveva pubblicato, dopo un travagliato dibattito, un nuovo codice deontologico che andava a sostituire un codice che, basato sul giuramento d’Ippocrate, era rimasto immutato da decenni. A distanza di soli tre anni, la FNOMCeO, con delibera del 3.10.98, promulga un nuovo codice che rispetto al precedente apporta sostanziali modifiche su molti argomenti, ma prevalentemente sulla modalita` del rapporto medico-paziente. Al di la` di un dato formale che e` la sostituzione del termine “paziente” con quello di “cittadino” o in altri casi di “persona assistita”, c’e` una ridefinizione del rapporto medico-paziente “... in una prospettiva di rispetto reciproco e di fiducia in un’ottica paritaria”. ` una sorta di rivoluzione copernicana, perche´ E pone il paziente al centro del processo terapeu-

tico con piena autonomia e dignita`, in antitesi con il precedente atteggiamento del medico di tipo paternalistico-autoritario. Anche se per chi esercita la psicoterapia non c’e` alcuna novita`: da decenni proponiamo un rapporto basato sulla fiducia, sulla scelta autonoma del paziente e sulla libera autodeterminazione a collaborare nel processo di cura; non ultimo, da sempre definiamo il “paziente” come analizzando, eliminando anche l’ipocrisia del termine di “cittadino” o di “utente”. Quindi per noi nulla di nuovo, certamente rivoluzionario e` il nuovo assetto per il medico che si e` sempre piu` arroccato in un ruolo iperspecialistico ed anonimo. Ma quali sono i motivi di questo cambiamento? Le nuove frontiere tecnologiche e sperimentali, la lotta dei pazienti per acquisire la dignita` di persona e non di casi clinici, la legge sulla privacy e tante altre novita` hanno cambiato quel rapporto medico-paziente che da tempo si era deteriorato

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

nell’incontro tra un medico sempre piu` specialista ed asettico ed un paziente sempre piu` sfiduciato e rivendicativo. Ma sicuramente un motivo determinante e` legato all’avvento di nuove tecnologie che propongono una sfida formidabile che non riguarda solo l’uomo malato ma l’uomo nella sua interezza e nel confronto con il significato della propria esistenza. E questa sfida richiede che il rapporto medicopaziente assuma una nuova raffigurazione ove la autonomia, la autodeterminazione e la fiducia del paziente siano possibili e garantite. Ma cosa c’entra, a questo punto, la psichiatria con la bioetica? I motivi sono numerosi, ma mi soffermo soltanto su due. Il primo riguarda il consenso informato (vedi cap. 50) che per essere valido deve essere fornito da un soggetto nella piena capacita` di intendere e di volere. Ora e` evidente che la incapacita` di intendere e di volere non puo` essere limitata solo ad un banale deficit mnesico o ad una grave infermita` psichica. Per essere capace di intendere e di volere, cioe` per poter scegliere autonomamente e liberamente, quindi per mantenere il principio dell’autodeterminazione, il paziente deve essere visto come persona, come storia, come individuo che puo` scegliere, piu` o meno liberamente, secondo le sue problematiche psicologiche. Questo non vuol dire

che ogni paziente debba avere una consulenza psichiatrica, ma solo che ogni medico deve avere quel tanto di conoscenza dell’uomo come persona, e non solo come entita` biologica, che lo renda capace di comunicare in maniera chiara e adeguata ed essere capace di recepire anche il senso piu` nascosto della comunicazione del paziente. Il medico non puo` essere compreso se prima egli non capisce chi e` il paziente e cosa questi gli dice. Questo presuppone una formazione psicologica e psichiatrica del medico, quali che saranno la sua specializzazione ed il suo operare. Il secondo e` ancora piu` importante. Non e` possibile affrontare problemi come l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, l’inseminazione eterologa, l’interruzione di gravidanza ed altri ancora, senza sapere che queste tecniche o interventi evocano fantasmi, angosce, conflitti, da una parte e dall’altra e che non possono essere sconosciuti o ritenuti addirittura inesistenti. Altrimenti in questo modo ogni ricerca basata esclusivamente sulla biologia del malato sara` una ricerca dimezzata e quindi spesso inutile. La psichiatria, intesa come disciplina che si occupa del mondo interno dell’uomo, sia esso sano che malato, entra quindi di diritto nell’ambito di questa ricerca interdisciplinare che e` la bioetica. * * *

Psichiatria e bioetica

1. Definizione e storia della bioetica In principio la medicina si fornı` di una deontologia, poi venne la bioetica: per comprendere e definire queste due tematiche bisognerebbe ripercorrere le tappe del rapporto medico-paziente come si e` costruito nel corso dei secoli (per ulteriori informazioni vedi cap. 49). Comunque la cultura occidentale ha nel pensiero greco e nella dottrina ippocratica uno dei punti fondamentali di riferimento. Pergameno definiva il medico come “tecnico e filantropo”; Ippocrate lapidariamente affermava che “... il medico che riflette e` simile alla divinita`”. Queste scarne citazioni dimostrano l’essenza della filantropia: un paternalismo responsabile ed illuminato ma anche autoritario, perche´ pone il medico, per statuto, cioe` non tanto per il sapere ma per ruolo, su di un piano superiore rispetto al paziente. Questa posizione si modifica, il che non vuol dire che migliora, con il cristianesimo che ponendo in primo piano la salvezza dell’anima tende a trascurare quella del corpo ed a dimenticare non solo le nozioni empiricamente acquisite, ma soprattutto quella filantropia che di fatto poneva un limite al possibile abuso del medico. E privilegiando, per motivazioni di ordine fideistico, la vita ultraterrena, spesso finiva per considerare la malattia come espiazione e la morte come liberazione dai mali terreni: in questo modo il medico viene sostituito dal sacerdote che assume un potere, tutto immaginario, ma comunque di gran lunga superiore. ` solo con l’illuminismo e con i successivi E progressi nel campo anatomo-patologico, e poi di laboratorio, che la medicina comincia a riprendersi uno statuto di scientificita` e di autorevolezza. Man mano che il potere del medico aumenta, diminuisce sempre piu` la possibilita` da parte del paziente di essere parte attiva, anzi spesso egli diventa oggetto passivo della ricerca. Fino a giungere ad una situazione di una tale gravita` che, dopo questa storia, il rapporto medico-paziente non potra` mai piu` essere uguale. Mi riferisco ai numerosi esperimenti condotti, senza alcuna coscienza ma anche senza scienza,

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da medici che ritenevano poter usare gli uomini come cavie. Se gli esperimenti condotti nei lager nazisti o il nome del dott. Mengele sono diventati simboli di questa strumentalizzazione dell’uomo, non bisogna dimenticare che eventi non meno gravi erano avvenuti ed anche tempo prima, in una parte del mondo che poi si sarebbe opposta a questa barbarie. Non possiamo dimenticare che nel 1924 in Virginia fu promulgata la legge che autorizzava la sterilizzazione di persone chiuse in istituzioni carcerarie o manicomiali «... per evitare la trasmissione di pazzia, idiozia, epilessia, violenza, criminalita`». E poco dopo la California seguı` questo esempio, e ben 11.000 cittadini furono sterilizzati: questo comportamento fu lodato e portato ad esempio dai nazisti. Come non si possono dimenticare gli esperimenti sempre negli USA, e siamo negli anni ’50, di inoculazione di treponema pallidum a soggetti rinchiusi nei penitenziari, senza alcun avviso e senza alcuna terapia «... perche´ si doveva studiare l’evoluzione naturale della malattia». O le tante persone, spesso bambini, sottoposti a massicce dosi di radiazioni per esaminarne le conseguenze. Dopo il processo di Norimberga, nel 1949, fu concordato un codice (Codice di Norimberga) ove si ponevano limiti molto precisi alle sperimentazioni sull’uomo. Successivi incontri hanno fissato regole e protocolli sempre piu` severi: Helsinki (1964), Hawaii (1977), Hong Hong (1989) ecc. Ma in qualche modo quel magico filo, quel rapporto “filantropico” tra medico e paziente, si era irrimediabilmente spezzato. Contemporaneamente con l’inizio dell’era nucleare, il potere tecnologico distruttivo dell’uomo era giunto a livelli tali, da mettere in serio pericolo la sopravvivenza dell’umanita` intera. Non e` strano pertanto che quando le biotecnologie, in tempi brevissimi, renderanno possibili interventi assolutamente impensabili, come la manipolazione genetica, le regole della deontologia non saranno piu` sufficienti, perche´ l’uomo si trovera` di fronte a radicali mutamenti che investiranno non solo il suo statuto di paziente, ma la sua entita` umana. Si sente l’esigenza di porre un limite o perlomeno definire che non tutto cio` che e` possibile

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

(sul piano biotecnologico) e` anche eticamente accettabile. A questo punto possiamo dire che la deontologia cessa la sua funzione piu` che millenaria, per aprirsi ad una nuova disciplina che si situa al confine tra la filosofia, la morale, le discipline biologiche e psichiatriche, per determinare e definire il lecito e l’illecito che fino a poco tempo prima erano stati definiti dai limiti naturali che erano equivalenti di immutabili. Dal momento che la natura puo` essere ampiamente modificata dall’uomo, e` necessario che l’uomo (inteso nella sua globalita` di genere umano) si dia un codice etico molto piu` complesso e di piu` ampio respiro. Anche perche´ le scelte di oggi, piu` che mai, coinvolgono le generazioni future. Si struttura cosı`, da queste premesse, la bioetica che, seppur come neologismo nato solo nel 1971, era gia` da tempo nell’aria.

2. Dalla deontologia alla bioetica Il giuramento di Ippocrate (pur con il dubbio di qualche manipolazione successiva, soprattutto a proposito della proibizione di metodi abortivi) non deve essere eccessivamente idealizzato. Senza dubbio costituisce la base per un corretto comportamento del medico, tuttavia questa correttezza non e` finalizzata solo al paziente, ma serve anche a proteggere la categoria medica da maldicenze o critiche per eventuali comportamenti scorretti soprattutto da parte dei nuovi affiliati. Nel giuramento sono esplicitate alcune norme alle quali il medico deve scrupolosamente attenersi: come il rispetto della vita, il segreto professionale, il mantenere un comportamento adeguato anche al di fuori dell’esercizio della professione e soprattutto “esercitare la medicina in liberta` ed indipendenza di giudizio e di comportamento”. Questo punto segnala chiaramente quanto la categoria dei medici ritenesse la liberta` e l’indipendenza una peculiarita` di questa professione. Liberta` ed indipendenza che non solo stabiliscono che il medico non opera su commissione del paziente, ma soprattutto che non e` tenuto a com-

piere azioni contrarie al proprio codice morale. Principio fondamentale che definisce il ruolo professionale non tanto come terapeutico (terapeuo= sono al servizio), ma soprattutto come medico (mede`ri=rifletto, decido). Ma, in primo luogo, pone il medico in una posizione di autonomia, rispetto al potere politico o alla ideologia dominante. Ed il venir meno a questo imperativo basilare e` quanto e` avvenuto nella prima meta` di questo secolo: deroga determinante nel mettere in discussione il codice deontologico come unico strumento etico-decisionale per il medico. Ma non solo per questo: perche´ il medico nell’ambito delle sue decisioni non puo` non tener conto di due altre novita`. La prima e` che spesso il rapporto tra medico e paziente non e` piu` esclusivo e personalizzato se interviene il “terzo pagante”, sia esso il S.S.N. o una assicurazione privata. Perche´ in questo caso il medico, bene o male, deve tener conto anche di questo “terzo pagante” che spesso puo` dettare leggi in contrasto con l’etica medica. Il non poter assistere un paziente solo perche´ non coperto da una assicurazione e` un dato frequente e che non puo` non far riflettere. Un secondo problema riguarda le risorse sanitarie disponibili e quindi il rapporto costo-beneficio. Senza entrare nel merito della validita` in campo sanitario di una ideologia aziendale, e` pur vero che non esistono possibilita` illimitate di fornire assistenza medica, e pertanto quando c’e` una impossibilita` a poter far fronte a tutte le richieste di terapia puo` sorgere il conflitto se dare una priorita`, e con quali criteri. Se e` vero che negli USA circa il 70% della spesa medica, soprattutto farmacologica, e` impegnata per malati terminali o comunque incurabili, questo e` un dato che, al di la` di facili ideologie, non puo` essere sottovalutato rispetto a un problema di eventuali priorita`. Si pone quindi il problema etico, sociale e politico di come ripartire le risorse sanitarie dal momento che e` sempre piu` evidente che c’e` una sproporzione tra domanda e possibilita` di offerta: che diviene ancora piu` eclatante quando il paziente appartiene alle fasce sociali piu` deboli. E sorge il dubbio che a fronte di questo problema, a volte drammatico, il proliferare di tante

Psichiatria e bioetica

chiese, di tanti telepredicatori che assicurano miracoli facili (e quasi gratis), con qualche preghiera, piu` che dovuto all’emergenza di bisogni “spirituali”, sia semplicemente un falso rimedio ad un problema serio. ` vero che spesso in queste “imprese” circoE lano miliardi, ma forse la speranza di poter avere subito e gratis un “miracolo” rappresenta una motivazione sufficiente e molto diffusa. E anche rispetto a questa “visione del mondo” e` sempre piu` evidente che il medico non puo` essere semplicemente un tecnico, certamente preparato e diligente, ma deve essere una persona aperta ai problemi sociali, etici, psicologici e scientifici che si presentano per le nuove frontiere che si sono aperte e che oltre ai benefici aprono anche seri dilemmi. Quindi se la deontologia (e ben fanno gli ordini professionali a pretendere corsi ed aggiornamenti continui) e` importante per l’operare del medico e per un corretto rapporto con il cittadino-paziente, il medico deve porsi problemi che vanno ben oltre, e deve confrontarsi con tutte quelle problematiche che costituiscono l’essenza dell’uomo. Quando i medici si renderanno conto che la malattia non e` solo biochimica, ma e` il momento di crisi di una storia, di una biografia, di una vita che ripiegandosi su se stessa si deve interrogare non solo sul senso del passato, ma anche sulle scelte del futuro, allora la deontologia inevitabilmente si identifichera` nell’etica in generale e nella bioetica medica in particolare.

3. Dall’etica alla bioetica Il termine bioetica compare nel 1971 ed e` utilizzato dall’oncologo V.R. Potter per esprimere la necessita` per lo scienziato e per il medico, posto di fronte a radicali mutamenti nel campo biomedico, di riconfrontarsi con la cultura, i valori morali, le scienze biologiche, in un’ottica di umanita` e di concretezza. Nel tempo questo termine si e` imposto, pur con valenze diverse. Ma quali sono gli strumenti epistemologici, descrittivi ed operativi che possono codificare cio` che si deve fare e cio` che si

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deve proibire? Si puo` rispondere: la legge come promulgazione di divieti e\o di diritti, concordati democraticamente in sede parlamentare. Ma in una societa` che diventa sempre piu` complessa per modelli religiosi, culturali e sistemi di valori diversi, il rischio e` quello di creare una sorta di monolitismo etico magari camuffato. Per evitare questo rischio sempre maggiore in una societa` con una informazione globalizzata ed omogeneizzata, si tende a far prevalere il principio della responsabilita` e della autodeterminazione: ritorneremo su questi due concetti fondamentali, soprattutto per comprendere il rapporto con lo smisurato potere della tecnica che in molti casi ha eliminato uno dei fondamenti dell’etica, il senso di colpa (K. Jaspers). Ma prima di giungere a questa complessita` che e` molto moderna, possiamo forse riproporre un concetto fondamentale di Aristotele. Il filosofo affermava che nelle questioni etiche bisogna essere ragionevoli, piuttosto che insistere su di un tipo di esattezza che la natura dei casi non permette. Quindi scadere in un banale relativismo etico che puo` portare ad una morale permissiva e senza frontiere? La frase di Aristotele deve essere considerata esclusivamente come affermazione del principio che l’etica non puo` essere dogmatica, se non vuole essere violenta. Questo riferimento ad Aristotele serve anche a introdurre un problema piu` ampio: il fatto che, prima che nascesse la bioetica, l’etica esisteva da millenni. Non possiamo non rivedere brevemente quali sono state nel corso dei secoli le varie soluzioni, per cercare di dare una risposta corretta al problema: quale bioetica? Pertanto ci proponiamo di delineare brevemente le principali concezioni etiche che possono orientare il dibattito sulle questioni che la bioetica si trova ad affrontare.

3.1. Mezzi e fini: etiche deontologiche e teleologiche Una prima distinzione possibile delle concezioni etiche risiede in un diverso criterio di valu-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

tazione: il riferimento a princı`pi, le etiche deontologiche; oppure la considerazione delle conseguenze, quelle teleologiche. La distinzione tra le diverse etiche in base alla scelta di rinviare a dei princı`pi piuttosto che alle conseguenze delle azioni, e` ad esempio centrale nel pensiero di Max Weber. Weber sottolinea non tanto la diversita` di due tipi di etica, bensı` due piani diversi e in conflitto: il piano piu` propriamente teorico, in cui la riflessione morale si concentra sul discorso dei princı`pi, e quello piu` “pratico”, che rimanda alle conseguenze delle azioni (si pensi alle diverse posizioni di un filosofo morale e di un politico). Tale conflitto tra un’etica dell’intenzione o del puro volere e un’etica della responsabilita` che valuta le azioni in base alle conseguenze e` insanabile. Le etiche dei princı`pi possono rimandare a uno o piu` princı`pi, e questi possono essere assoluti e aprioristici, oppure derivati dall’esperienza e rivedibili. L’etica kantiana e` un’etica strutturata su un unico principio, considerato come assoluto e a priori. Le etiche che si rifanno ad una pluralita` di princı`pi (l’etica cristiana, ad esempio, che rimanda a piu` princı`pi tutti assoluti: i comandamenti divini) si scontrano con la difficolta` di indicare un criterio per ordinare i diversi princı`pi e di offrire una soluzione nel caso in cui due o piu` princı`pi assoluti entrino in conflitto. Vi sono anche etiche deontologiche che non considerano i princı`pi come assoluti, ma come regole derivate dall’esperienza. Le etiche deontologiche, pur nelle diversita` appena accennate, hanno un limite comune: offrire una struttura di riferimento a tutti i fanatismi morali; limite che nasce dall’ignorare le conseguenze delle applicazioni dei princı`pi e nel ritenere criterio determinante della vita morale solo la coerenza con quei princı`pi. Quando l’applicazione di un principio non tiene in considerazione gli effetti e le implicazioni possibili, il risultato puo` essere devastante e la fedelta` ai princı`pi risultare profondamente in contrasto con le condizioni e la realta` degli esseri umani. Le etiche teleologiche costituiscono un tentativo di rimediare a questi eccessi rigoristici, ponendo l’accento su una attenta valutazione delle

conseguenze. Ad una “cieca” fedelta` ai princı`pi si sostituisce la considerazione dei risultati di un atteggiamento o di un’azione. Questo spostamento accentua l’importanza della responsabilita` personale, ma nasconde una incompletezza. Se la valutazione morale si lega alla considerazione delle conseguenze, ci informa sui mezzi, lasciando poi aperta la valutazione sui fini.

3.2. L’etica giusnaturalistica e la legge naturale Secondo l’etica giusnaturalistica gli uomini hanno determinati obblighi e doveri per natura. La legge naturale precede il costituirsi di un’associazione sociale e politica e ne e` indipendente (ricordiamo Tommaso d’Aquino, Grozio, Pufendorf). Essa costituisce l’etica prevalente nella concezione cristiana e religiosa in genere. Il riconoscimento di doveri e diritti propri della natura umana comporta una loro classificazione e casistica. Vi sono diritti, ad esempio quello alla vita di un singolo, che trovano un limite in doveri paralleli, ovvero il diritto alla vita di tutti gli altri. Vi sono i doveri verso se stessi, verso gli altri, verso Dio. Doveri perfetti e doveri imperfetti. Vi e` poi il dovere nei confronti dello Stato. La riflessione su quest’ultimo dovere provoca, nel corso del XVII secolo, la crisi dell’etica giusnaturalistica, in quanto il dovere di obbedienza allo Stato, considerato come essenziale, e` in contraddizione con un dovere altrettanto essenziale: quello di opporre resistenza ad un governo ingiusto. Inoltre, il richiamo alla natura, con le profonde modificazioni delle condizioni di vita degli uomini, diviene sempre piu` ambiguo e meno decisivo. La trasformazione e il passaggio dell’uomo “naturale” all’uomo “culturale”, svuota e rende estremamente complicato il rinviare ad una legge o ad una condizione naturale. La legge naturale non e` dunque piu` in grado di offrire soluzione ai problemi che via via si presentano agli uomini. Basti pensare ai cambiamenti relativi alle relazioni familiari, al mondo dell’informazione, ai progressi tecnologici e scientifici che danno vita ad una serie di problematiche non risolvibili con

Psichiatria e bioetica

il richiamo alla natura umana. Non dimentichiamo che l’etica della legge naturale considera e deve considerare la natura umana immodificabile per poterne derivare doveri e diritti assoluti e validi per l’eternita`. Ma in tal modo le norme risultano essere troppo astratte e generiche.

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vece non accettano alcun vincolo etico. Il criterio etico decisivo rischia in questo modo di diventare un egoismo razionale, che considera e accetta i vincoli di una contrattazione in vista di un’ottimizzazione dei risultati. Il contrattualismo e` comunque costretto a rinviare a dei criteri aggiuntivi, non essendo in grado di esaurire lo spazio dell’etica.

3.3. L’etica contrattualistica Nasce nel XVII secolo come superamento e tentativo di soluzione della crisi dell’etica giusnaturalistica. La natura umana non puo` rappresentare il fondamento della morale e il criterio etico diviene un accordo artificiale, una convenzione: il contratto (pensiamo a Hobbes, Pufendorf, Spinoza, Locke). Una caratteristica del contrattualismo seicentesco e` quella di fondare solo una parte dell’etica, quella relativa alle istituzioni politiche e alle leggi, mentre rinvia a una fondazione diversa per la morale1. Con il XX secolo invece il contrattualismo si presenta come criterio etico non piu` ristretto alla politica e al diritto, ma in grado di indicare i principi etici in generale. Rawls, ad esempio, sostiene che attraverso accordi sia possibile stabilire i principi etici in generale assumendo, allo stesso tempo, un punto di vista generale. Si parla di “contrattualismo ideale” a proposito di Rawls perche´ si possono ricavare soluzioni normative efficaci solo se si accettano dei prerequisiti, ovvero se vengono stabiliti alcuni vincoli tra tutti coloro che sono coinvolti. Come ad esempio il ritenersi cittadini di una medesima comunita`, oppure l’accettare che gli interessi individuali confluiscano nell’interesse generale. Gauthier propone come rimedio un “contrattualismo reale”, secondo il quale l’accettazione del contratto si basa su ragioni prudenziali. Coloro che partecipano al contratto hanno la possibilita` di raggiungere il massimo livello di soddisfazione personale rispetto a coloro che in-

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Ad esempio Locke e Pufendorf rinviano alla concezione giusnaturalistica per quanto riguarda le questioni etiche in senso stretto.

3.4. Un’etica dei diritti Anche questa nasce come correttivo dell’etica giusnaturalistica. Ha origine nel secolo XVII e il suo obiettivo principale e` quello di salvaguardare lo spazio di autonomia individuale dall’ingerenza del potere politico. Per questo i diritti che vengono rivendicati sul piano etico sono essenzialmente diritti di liberta` da difendere dall’intervento illimitato dello Stato: diritto alla vita, alla liberta`, all’autonomia, alla proprieta`, alla resistenza. Le conseguenze sul piano storico sono le varie dichiarazioni di diritti, come negli Stati Uniti o in Francia con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Criticata durante il XIX secolo e nella prima meta` del successivo, vi e` una ripresa dell’etica dei diritti dopo la fine della seconda guerra mondiale, come reazione alla violazione dei diritti dell’uomo in seguito alle persecuzioni e al genocidio. Si e` inoltre assistito a un allargamento dei classici diritti a cui abbiamo accennato, fino ad abbracciare il diritto all’educazione, al lavoro, alla salute, ovvero diritti che non si riferiscono alla dimensione del cittadino, bensı` a quella della persona umana piu` ampiamente intesa. Nella seconda meta` del XX secolo l’etica dei diritti raggiunge il maggiore successo e diffusione nell’opinione pubblica. Questo comporta che le inadeguatezze sul piano teorico vengano aggravate; difatti l’allargamento della sfera dei diritti e il fatto che coloro i quali pretendano di vedersi riconosciuti e garantiti dei diritti siano aumentati non fa che acuire i conflitti. Inoltre assistiamo alla nascita di conflitti in campi finora garantiti da precisi limiti ‘‘naturali’’: il progresso tecnologico e scientifico crea diritti alla vita, alla morte, alla cura. Quale puo` essere il criterio per stabilire

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quali diritti debbano essere garantiti giuridicamente? Come, di fronte a casi concreti, risolvere i conflitti che nascono dai “nuovi” diritti? A causa di queste difficolta` l’etica dei diritti non costituisce una valida teoria, ma rischia di divenire un riferimento tanto frequente quanto privo di un fondamento valido.

continua lotta con la parte di noi che naturalmente tenderebbe ad appagare i propri appetiti e ` un costringimento inle proprie inclinazioni. E terno che non si fa volentieri, e da cui non deriva alcun godimento ma una contentezza di se´, una pace interna e il conforto di non avere “motivo di vergognarsi davanti a se stesso, e di temere lo 3 sguardo interno dell’esame di coscienza” .

3.5. L’etica kantiana e la persona umana L’etica kantiana costituisce un’etica normativa che merita un discorso a parte, anche per la centralita` che la persona umana acquisisce nella speculazione di Kant. Principio fondamentale dell’etica kantiana e` la legge fondamentale della ragion pura pratica: “opera in modo che la massima della tua volonta` possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”2. Questa legge ha valore universale e oggettivo e rappresenta l’unico criterio per un comportamento etico, oltreche´ fornire soluzioni ai conflitti etici. L’universalita` della legge kantiana si e` attirata le critiche di vuoto formalismo, privo di contenuti determinati e incapace di dare indicazioni nei casi particolari. Ma l’universalita` della legge morale si ha solo se il motivo determinante della volonta` e` la forma: solo se si astrae dal contenuto empirico la legge puo` mantenere una validita` universale, solo se la volonta` non e` determinata empiricamente puo` costituire un riferimento per le azioni degli uomini. Un’altra caratteristica dell’etica kantiana e` l’affermazione della sua autonomia. Movente dell’azione etica e` soltanto il rispetto della legge morale; pertanto vengono esclusi ragioni di ordine prudenziale e riferimenti a un senso morale o alla volonta` divina, in quanto sarebbero etiche eteronome. Anche la ricerca della felicita` non puo` essere il motivo determinante della volonta`, e questo comporta la mortificazione di impulsi, desideri, passioni; in una parola, della natura sensibile dell’uomo. Per questo la vita morale e` una

2 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 32.

3.6. Le etiche utilitaristiche Tali concezioni rimandano all’utilita` come criterio per le scelte etiche. La definizione di utilita` e` sempre legata a quella di bene che si deve ottenere. Proprio la caratterizzazione del concetto di bene costituisce uno dei criteri per distinguere le varie forme di utilitarismo. Un altro criterio e` quello che distingue il cosiddetto utilitarismo dell’atto, ovvero l’utilitarismo che considera le singole azioni, da quello della regola, che cerca di estendere il criterio di massimizzare l’utilita` per le norme in generale. Una prima distinzione nel definire il concetto di bene e` di riconoscere i piaceri su basi quantitative piuttosto che riconoscere differenze qualitative. Bentham, ad esempio, considera unico riferimento possibile la considerazione quantitativa del piacere e del dolore. Ma come e` possibile stabilire un criterio di misurazione del piacere? Le critiche mosse al criterio offerto da Bentham riguardano la difficolta` di indicare una base unica di valutazione tra piaceri diversi, di fare confronti interpersonali e soprattutto la scarsa considerazione per una giusta distribuzione del bene massimizzato. Mill propone, per rimediare a queste difficolta`, una differenziazione qualitativa tra i piaceri e insiste sulla sovranita` individuale nello stabilire una gerarchia di piaceri. Questa distinzione qualitativa dovrebbe anche risolvere gli eventuali contrasti che possono nascere tra piaceri diversi, richiamandosi in ultima analisi all’opinione di coloro che conoscono le forme di piacere in gioco. Nel XX secolo il criterio di valutazione si

3

Ivi, p. 87.

Psichiatria e bioetica

sposta sulle preferenze individuali: non c’e` piu` un riferimento comune e oggettivo per la valutazione morale, bensı` il riconoscimento dell’uguale valore di tutte le preferenze di coloro i quali sono coinvolti. Sara` etico quel corso di azione che riesce a massimizzare tutte le preferenze, che possono tendere verso oggetti molto diversi fra di loro. L’utilitarismo delle preferenze valorizza le esigenze di pluralismo e si avvicina a una elaborazione che potremmo definire mista. Accanto al criterio di massimizzare le preferenze si affiancano altri criteri, quali un criterio per selezionare le preferenze in base alla loro universalizzabilita` oppure imparzialita` sostanziale. Si puo` rimproverare all’utilitarismo di trasformare una valutazione di fatto delle preferenze individuali in una valutazione etica, preferenze che magari possono essere inadeguate alle necessita` degli individui che le manifestano e agli individui nella totalita` (pensiamo, come caso limite, ad una persona con intenti distruttivi o antisociali). Una possibile soluzione, secondo alcuni utilitaristi, sta nell’indicare un limite al di la` del quale un aumento della soddisfazione delle preferenze di un individuo comporta un risultato meno soddisfacente della soddisfazione di altri individui che si trovano in condizioni piu` disagiate, al fine di massimizzare le preferenze stesse.

c)

d)

a)

b)

La crescita esponenziale delle nuove biotecnologie che comportano capacita` inimmaginabili fino a qualche anno fa. Il problema della tecnica e del rapporto tra uomo e tecnologia: e` vero che l’uomo ha creato la tecnologia, ma questa sembra sfuggirgli di mano. Non possiamo non sottolineare che questi problemi sono nati anche rispetto all’enorme potenziale distruttivo emerso con la scoperta della fusione nu-

cleare della materia. Per anni il mondo ha vissuto drammaticamente il timore di una fine apocalittica, a causa di una tecnologia con un potere distruttivo mai fantasticato ` vero che le testate atomiche fino ad allora. E avevano bisogno di essere innescate da uomini: ma oltre a non potersi fidare dell’uomo, c’era anche il rischio, non minimo, che comunque l’apparato difensivo potesse “impazzire”. Il problema della globalizzazione economica e della limitazione delle risorse del pianeta terra. Le ideologie religiose diverse e spesso inconciliabili, che portano a tensioni molto piu` forti di quelli che sono sempre stati considerati i motivi di tutti i conflitti: cioe` i problemi economici.

Esamineremo questi vari problemi per capirne le implicazioni e le possibili soluzioni. a)

4. Cosa e` la bioetica Dopo aver considerato molto sinteticamente le diverse soluzioni offerte dalle varie etiche, ritorniamo alla bioetica sottolineando che essa nasce da specifiche situazioni che pertanto devono essere tenute presenti.

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Certamente ci sono possibilita` delle biotecnologie che fanno seriamente impensierire l’uomo circa il suo futuro: tra le tante, la manipolazione transgenica. Comunque, se e` vero che la scienza puo` essere utilizzata per fini utili, ma a volte dannosi anche se non voluti, e se e` vero che mettere al bando l’ingegneria genetica con il pretesto che puo` creare mostri sarebbe come abolire la stampa per evitare che qualcuno pubblichi un “Mein kampf”, e` pur sempre vero che molti di questi problemi andrebbero considerati singolarmente e concretamente non alla luce di principi generali: e` quanto cercheremo di fare al paragrafo 4. Da piu` parti si e` manifestato il timore, non infondato, che la tecnologia possa snaturare la natura umana. Dai primi tentativi del luddismo alla critica di M. Heidegger, questa preoccupazione attraversa ripetutamente la nostra cultura. Nel saggio La questione della colpa, K. Jaspers a proposito del nazismo parla di una colpa mai espiata. Ma di quale colpa parla Jaspers? Non certo di quella giuridica che si riferisce alle trasgressioni delle leggi, non di

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quella politica che si riferisce in gran parte agli errori degli uomini di Stato, ma anche dei governati «in quanto ciascuno porta una parte di responsabilita` riguardo al modo di essere governato», non a quella morale «che e` quella a cui noi rispondiamo alla nostra coscienza, per cui i delitti rimangono delitti, anche se vengono ordinati», bensı` alla colpa metafisica. «La colpa metafisica investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie e malvagita` che possono essere inflitte a un proprio simile… Questa colpa ha per oggetto l’infrazione del principio di solidarieta` tra gli uomini… quando l’uomo tratta il proprio simile non come uomo, ma come cosa, non in riferimento alla sua soggettivita` ma in modo oggettivo, come si trattano le cose… Questa e` la colpa metafisica. Una colpa da cui non e` possibile riscattarsi, perche´ cio` che il nazismo ha inaugurato, l’oggettivazione dell’uomo, e` la forma che l’umanita` ha via via vissuto sotto il regime della tecnica che proprio nell’organizzazione nazista ha trovato il suo pieno abbozzo... ` il concetto di efficienza, che l’apporto tecE nico assume come unico e assoluto valore, mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso, per attestarsi sul principio della pura funzionalita` priva di riferimento… La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura aziendale, fa si che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha piu` niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli e` tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui portera` la sua azione» (U. Galimberti). Questa lunga citazione, al di la` di ogni teorizzazione, mostra chiaramente come il processo di parcellizzazione del prodotto finale dell’attivita` umana possa portare ad una ignoranza totale dell’uso di quel prodotto. Gia` K. Marx aveva descritto e definito que-

c)

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sto processo come alienazione, e come caratteristica della modalita` di produzione capitalistica. Questo e` un problema reale e presente, ed il rischio della alienazione-deresponsabilizzazione puo` essere contrastato solo da un processo specularmente contrario: di riappropriazione e responsabilita` del proprio operare Il problema delle limitate risorse, in termini di cibo, riscaldamento, medicinali ecc. e` vissuto drammaticamente ed ogni giorno. Se non possiamo assumerci la responsabilita` di tutto, non possiamo neanche non tenere presente che nel piccolo ogni nostra scelta (e quindi anche terapeutica in termini di costi e impegno) deve tener conto di un aspetto piu` ampio. E qui mi riferisco con chiarezza a un problema tipico della mentalita` medica occidentale: l’accanimento terapeutico, che e` inutile sul piano economico, violento sul piano della persona. Le ideologie soprattutto religiose, che assumono spesso aspetti di radicalismo fanatico, non possono essere sottovalutate nell’ambito di questioni generali sulla bioetica: soprattutto quando queste ideologie riguardano centinaia di milioni di uomini.

Definiti questi ambiti generali del problema possiamo ritornare al nostro settore piu` specifico che potremmo definire bioetica medica, perche´ riguarda gli specifici problemi del trattamento medico o di quelle biotecnologie che potrebbero avere ripercussioni sull’uomo. Secondo G. Durand, le definizioni possono essere numerose: • •



La bioetica e` la ricerca etica applicata ai problemi posti dal progresso medico. La bioetica e` lo studio interdisciplinare dell’insieme delle condizioni necessarie per una gestione responsabile della vita umana (o della persona umana), nel quadro dei progressi del sapere e delle tecnologie biomediche. La bioetica e` la ricerca di soluzioni ai conflitti di valori che si presentano nel mondo dell’intervento biomedico.

Psichiatria e bioetica



La bioetica e` la scienza normativa del comportamento umano accettabile nell’ambito della vita e della morte.

Tutte queste definizioni contengono una gran parte di verita`, il che testimonia la complessita` dell’argomento. Ma forse, piu` che parlare di problemi in generale, e` piu` utile evidenziare situazioni specifiche, e questo per due motivi. Il primo e` che proprio nel proporre un problema specifico si evidenzia la possibilita` di una soluzione o comunque di una dialettica costruttiva. Il secondo, strettamente connesso, e` l’impossibilita` di partire da enunciati dogmatici da cui far discendere, con semplice processo deduttivo che spesso e` un puro sillogismo, la soluzione di casi complessi che a volte richiedono nuovi strumenti di conoscenza e di riflessione. 4.1 Casi particolari Accenniamo ad alcune situazioni paradigmatiche che sono emblematiche per la riflessione sulla bioetica. 4.1.1 Sperimentazione sull’uomo

` inevitabile che a volte, nella ricerca clinica, E sia necessario utilizzare l’uomo per la sperimentazione, poiche´ le prove di laboratorio o quelle tossicologiche sugli animali non possono fornirci ulteriori informazioni. ` ovvio che una sperimentazione puo` essere E giustificata solo nell’interesse della scienza e se il rapporto tra rischio-beneficio e` accettabile. In questi casi e` basilare il principio di autodeterminazione e di libera scelta da parte del paziente: tanto che non e` lecito utilizzare persone che potrebbero essere indirettamente condizionate, come persone in situazioni coattive (detenuti, minorati mentali ecc.) o che si prestino dietro compenso economico. Per offrire maggiori garanzie esistono specifici comitati, esterni alla sperimentazione, che valutano il rispetto delle norme deontologiche. Comunque un problema etico si pone quando la sperimentazione richieda uno studio clinico

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controllato con l’uso di due gruppi: uno trattato con la sostanza attiva, anche se non perfettamente conosciuta, e l’altro con una sostanza placebo che e` sicuramente inattiva. ` lecito che un gruppo di pazienti non sia sotE toposto, per un certo periodo di tempo, ad alcuna terapia? Normalmente sembra che questa situazione sia accettata, perche´ il beneficio generale che deriva dalla certezza di una sostanza come terapeutica puo` compensare il danno che deriva da un mancato trattamento. Ma questa deve essere riservata a casi strettamente necessari. In campo psichiatrico e` inaccettabile che si continuino a fare esperimenti di questo genere, quando si sa benissimo che la differenza tra uno psicofarmaco e l’altro e` assolutamente minima. In questi casi il motivo non e` scientifico, ma commerciale: dimostrare “scientificamente” risultati che gia` si conoscono a priori. Problemi piu` complessi possono nascere quando una terapia viene definita tale su di una base empirica, e quindi in assenza di qualsiasi sperimentazione. Il caso Di Bella e` certamente emblematico e i contrasti e le polemiche, sopiti ma non cessati, hanno evidenziato i problemi deontologici connessi soprattutto alle diverse posizioni circa il concetto di terapia e di verifica. In questo specifico caso, e non e` pensabile che non si possano ripresentare casi analoghi, sembra che il principio di autoderminazione e di libera scelta del paziente abbia finito con il prevalere: comunque le polemiche non sono terminate e certe posizioni rimangono inconciliabili.

4.1.2 Eutanasia. Accanimento terapeutico

Uniamo queste due situazioni che sembrano contrapposte, ma in effetti sono strettamente legate perche´ nascono da posizioni rigidamente pregiudiziali e sono fortemente influenzate da fattori emotivi. La parola eutanasia fu utilizzata da F. Bacon, che nel Novum Organum cosı` si esprime: «Compito del medico non e` solo quella di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare le sofferenze... ed i medici se non vogliono mancare al loro ufficio, e quindi all’umanita`, dovrebbero acquisire

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l’abilita` di aiutare i morenti a congedarsi dal mondo in modo dolce e quieto...». Questa posizione di Bacon, condivisa da altri filosofi come Hume e Kant, e` invece spesso rifiutata dal medico e non solo per motivi deontologici o ideologici. Troppo spesso il medico esperisce la morte come una sorta di insuccesso personale e pertanto reattivamente si “prodiga” in un accanimento terapeutico che e` assolutamente ingiustificato per il paziente. L’eutanasia puo` essere attiva o diretta, e passiva o indiretta. Nel primo caso il medico di fronte ad una situazione di grave sofferenza di un malato terminale, e su precisa richiesta, somministra un farmaco letale. Per questo si parla anche di suicidio assistito. Il problema dell’eutanasia e` strettamente collegato al concetto di vita: se si ritiene la vita come valore “sacrale” e` ovvio che l’eutanasia e` l’equivalente di un omicidio; se prevale il concetto di dignita` dell’uomo e di qualita` della vita, puo` essere un gesto terapeutico, anche se non sempre il medico, pur accettando il principio, potrebbe essere in grado di metterlo in atto. Le posizioni su questo problema sono spesso antitetiche: a volte vengono risolte con l’emanazione di leggi che approvino l’eutanasia, che altrimenti resterebbe un reato: come e` avvenuto per esempio in Olanda nel 1994. Comunque anche se nella maggior parte delle nazioni non esiste una legislazione del genere, non si puo` dimenticare che spesso l’eutanasia attiva viene eseguita da medici che a volte preferiscono l’anonimato, in altri casi si autodenunciano, soprattutto per porre all’attenzione pubblica questo problema. Per eutanasia passiva si intende invece la sospensione di quelle cure che manterrebbero il paziente in uno stato di vita vegetativa: si tratta pertanto di pazienti che vivono solo grazie ad apparecchiature speciali. In questi casi, le posizioni sono meno contrastanti anche perche´ alcuni studiosi cattolici accettano questa possibilita`: “nell’imminenza di una morte inevitabile si puo` rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario della vita”. Pertanto sembra esserci una minore conflittualita` circa la liceita` dell’eutanasia

passiva, comunque sorgono problemi di natura diversa. Se il paziente e` in coma chi puo` dare l’autorizzazione? Non certo il paziente: quindi dovrebbero assumerne la responsabilita` i familiari o eventualmente un giudice tutelare. E questo potrebbe non essere accettato dai familiari o dall’autorita` giudiziaria, ma soprattutto ci si potrebbe trovare di fronte al rifiuto da parte del medico di attuare l’eutanasia. All’estremo opposto dell’eutanasia (attiva o passiva) si pone l’accanimento terapeutico, che consiste nella irragionevole ostinazione a continuare una terapia anche quando si ha la sicurezza che non ci sara` alcun miglioramento, anzi che si prolungera` solamente la sofferenza del paziente. Certamente si puo` obiettare che non c’e` mai una sicurezza assoluta (ma perche´ in medicina c’e` la sicurezza assoluta?), ma questa e` una banale razionalizzazione. In effetti l’accanimento terapeutico deve essere visto come una perversione dell’atto medico che spesso e` legata a problematiche piu` o meno inconsce del medico (vedi Cap. 49, par. 1) e che trova una sua prima manifestazione, forse meno grave, nella tendenza alla medicalizzazione nei confronti di persone che presentano solo piccoli disagi o malesseri, con un costo elevatissimo per il paziente e per la societa`.

4.1.3 Trapianto d’organi

Da alcuni decenni e` possibile attuare il trapianto d’organi da donatori viventi e sani oppure da soggetti che presentano morte cerebrale. Questa possibilita` deve essere vista nell’ottica di migliorare la qualita` della vita: basti pensare a cosa significa un trapianto di rene per un paziente dializzato. Nel 1975 la legge 644/75 ha cercato di regolamentare questo complesso problema soprattutto cercando di evitare che il trapianto si trasformasse in commercio d’organi. Solo nel marzo ’99 una serie di articoli di legge hanno fornito precise normative in questo campo. In primo luogo ogni soggetto maggiore dei 18 anni puo` subire un espianto in caso di morte cerebrale, a meno che non abbia precedentemente

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disposto in maniera contraria. Se manca un preciso divieto vale la regola del silenzio-assenso. L’espianto puo` avvenire solo in presenza di accertata morte cerebrale e non possono essere trapiantate ne´ le gonadi ne´ l’encefalo. Per i minori e` necessario l’assenso congiunto dei genitori. ` possibile l’espianto da donatori vivi solo E per il midollo osseo, il rene ed il fegato. ` evidente che questa legge favorisce l’eE spianto, soprattutto dal momento che in Italia per motivi vari, di indole culturale e forse religiosa, i favorevoli sono poco numerosi. Comunque la legge tutela sia l’assoluta certezza della morte cerebrale, tramite una e´quipe medica che la deve certificare, sia la proibizione di un possibile commercio d’organi. Infatti il prelievo puo` avvenire solo in una situazione di gratuita`: non a caso si parla di donazione. Come si vede, in questo caso la normativa ha cercato di bilanciare il rispetto per il proprio corpo, il principio di solidarieta` e il miglioramento della qualita` della vita per il paziente che riceve il trapianto.

4.1.4 Statuto dell’embrione

Sotto questo titolo generico e` compresa tutta una serie di problemi che riguardano la fecondazione artificiale, l’ingegneria genetica, la sperimentazione sull’embrione, fino alla interruzione volontaria della gravidanza. Non ci soffermeremo su queste problematiche complesse, e spesso anche molto difficili da proporre, rimandando ai numerosi libri sulla bioetica (come per esempio G. Milano: Bioetica. Dalla A alla Z, Feltrinelli); ma semplicemente vogliamo sottolineare che dietro questi problemi che implicano la biologia, la medicina, l’etica si aggirano fantasmi ed angosce che spesso rendono queste tematiche ancora piu` conflittuali. Come non pensare che dietro il problema dell’ingegneria genetica non si nascondono i fantasmi di dar luogo a un ipotetico Frankenstein? Non a caso questa tecnica sofisticata e complessa viene comunemente definita “manipolazione genetica”. O come dietro il discorso della clonazione si

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nasconde il terrore per il doppio, quel doppio che rappresenta l’opposto dell’individualita` e quindi l’angoscia della non esistenza. Non e` un caso che presso alcune culture si ritiene che vedere una persona totalmente uguale a noi e` presagio di morte. Come non pensare che l’angoscia sottesa alla fecondazione eterologa che, in nome di princı`pi, spacca maggioranze politiche, non e` altro che l’antichissimo problema del “mater semper certa, pater incertus”? Ma come non pensare a quali problemi psicologici possa avere il bambino nato da una madre che potrebbe essere sua nonna? ed in questo caso non sono fantasmi, ma problemi reali. In questa sede vogliamo soffermarci invece esclusivamente sul problema della interruzione volontaria di gravidanza. La legge 194/78 del 1978 ha reso legale l’interruzione volontaria di gravidanza entro il 3˚ mese, su richiesta della donna e purche´ sia dimostrato che il proseguimento comporterebbe un danno alla salute fisica o psichica della donna. Come si vede, la legge offre ampie possibilita` e pone al centro della scelta l’autonomia e la liberta` della donna: e` ovvio che questa legge ha suscitato numerose polemiche, tanto da dover essere riconfermata, nel 1981, da un referendum. ` ovvio che la legge cercava di evitare gli E aspetti piu` negativi di un fenomeno esistente da sempre: come il mercato nero, il rischio spesso letale collegato a interventi eseguiti da persone non qualificate, l’impossibilita` a volte di poterlo eseguire, pur in presenza di motivi estremamente validi. Ed e` evidente che i legislatori abbiano tenuto presente che l’aborto e` pur sempre un grave trauma psichico che spesso lascia tracce indelebili, o che non dovesse essere usato come una sorta di contraccezione tardiva. Comunque il legislatore si trovava di fronte a vari quesiti e non del tutto secondari. Il primo era stabilire i diritti della donna e quelli dell’embrione e quali dovessero essere prioritari: sono stati privilegiati quelli della donna e credo che bene abbia fatto il legislatore, soprattutto se si pensa che ancora oggi numerosi studiosi sostengono che l’ovulo fecondato e` gia` una

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persona, non solo in termini biologici, ma addirittura legali. Il secondo era di tener conto della liberta` del medico e di rispettare quindi il suo credo ideologico o religioso. Ed infatti tutti coloro che non sono d’accordo possono, tramite l’obiezione di coscienza, esimersi dal fare interventi abortivi. Credo che questa legge valga qualche riflessione in tema di bioetica. Sicuramente e` una legge equa, non dogmatica, che rispetta la liberta` sia della donna che del medico. Questa legge non ha favorito l’aborto, ma ne ha solo limitato gli aspetti deteriori: forse il futuro potrebbe rendere, a causa di una migliore educazione e conoscenza della sessualita`, questa legge obsoleta. Ci sembra necessario riportare alcuni dati. Il primo e` che, rispetto al 1982, nel 1997 gli aborti sono diminuiti del 40%. Inoltre di fronte a notizie allarmistiche dei mass media, con qualche “esperto” sempre pronto a fare da ‘‘palo’’, circa la possibilita` di sopravvivenza del feto dopo la 28˚ settimana di gravidanza, bisogna ricordare che tale possibilita` e` appena dell’1%. Certamente bisogna tener conto anche di questa eventualita`, per quanto rara, ma non ci sembra lecito parlare di “omicidio’’, soprattutto tenendo presente le statistiche: il 99% delle donne che si sottopongono a I.V.G. lo fanno entro le prime 12 settimane. Questi dati dovrebbero indurre a una riflessione circa quello che si puo` definire come la legge del “progressivo aggiustamento”: nel tempo, se si evitano inutili crociate e dogmatici princı`pi, il cittadino tende a utilizzare lo strumento tecnico con sempre maggior cautela e comunque sempre in misura minore. Da questo rapido excursus sembra evidente che la bioetica si trova ad affrontare, in una ricerca che deve essere interdisciplinare, quattro aree fondamentali per la riflessione sull’uomo: a) b)

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il concetto di vita umana: quale l’origine ed il significato; la qualita` della vita: quali sono i limiti al di sotto dei quali la vita non e` piu` umana, ma pura sopravvivenza biologica; i diritti della persona malata come l’autono-

d)

mia, l’autodeterminazione, la dignita`, il diritto di accesso alle cure; lo statuto dell’embrione.

Rispetto a questi quesiti fondamentali, come vedremo, non esiste un parere comune e pertanto non esiste una bioetica, ma esistono diverse bioetiche. ` inevitabile scegliere. E

5. Quale bioetica? Precedentemente abbiamo visto che nel tempo si sono susseguite etiche normative e descrittive molto diverse tra loro; e` quindi normale che possano esistere bioetiche diverse. Senza voler essere riduttivi, possiamo ritenere che le varie posizioni possono raggrupparsi in due filoni principali: la bioetica dogmatica e la bioetica laica. La bioetica dogmatica, ispirata in genere da visioni religiose della vita, si propone in modo molto chiaro e schematico: esistono alcuni princı`pi che non sono dati dall’uomo, ma che sono dati all’uomo che vi si deve sottomettere. Utilizza una logica deduttiva, e anche quando sembra permissiva nella forma, rimane dogmatica nella sostanza. L’etica laica, pur in forme diverse, si pone come alternativa, soprattutto perche´ accetta il principio del pluralismo. Quindi l’etica laica non e` antireligiosa, ma antidogmatica: pluralista vuol dire semplicemente tener conto delle diverse posizioni, senza scadere in un banale relativismo etico. Questi principi sono stati esposti in maniera molto chiara nel “Manifesto di bioetica laica” (vedi bibliografia) che condividiamo e di cui riportiamo i passi salienti. La visione laica considera il progresso e la conoscenza come un valore etico fondamentale e nella conoscenza vede la fonte principale del progresso umano. Ed il progresso umano, nel bene o nel male, e` fatto dagli uomini, ed anche la stessa natura e` un concetto culturale e non una entita` fissa ed inamovibile. Pertanto il principio che fonda le scelte e` quello dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

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«Noi pensiamo, tuttavia, che il progresso in quanto tale non sia automatico, ne´ sia garantito ed inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo nella capacita` degli uomini di giudicare volta per volta... Ogni individuo ha pari dignita` e non devono esserci autorita` superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte le questioni che riguardano la sua salute e la sua vita». Un secondo principio e` il rispetto delle convinzioni religiose: «... questo rispetto non ci fa dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per se´ prescrizioni e soluzioni... e non vi puo` essere alcuna derivazione automatica a partire dalla fede». «Un terzo principio e` quello di garantire agli individui una qualita` della vita molto piu` del principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica. Se vi e` un senso nella espressione “rispetto della vita” questo non puo` risiedere nel separare il concetto astratto di “vita” dagli individui, per morire con il minimo di sofferenza possibile... Il quarto principio e` garantire ad ogni individuo un accesso alle cure mediche che siano dello standard piu` alto possibile, relativamente alla societa` nella quale vive ed alle risorse disponibili». Crediamo che sulla base di queste affermazioni si puo` tentare di dare una risposta ai quattro quesiti fondamentali per la bioetica. a)

b)

La vita umana e` una complessita` biologica e psicologica che nasce e si sviluppa all’interno del contesto umano. Non esiste una origine trascendente e quindi il concetto di “sacralita`” della vita e` puramente astratto. La qualita` della vita e` definibile in base ai principi di autonomia, autodeterminazione e rispetto della dignita` della persona umana. Una vita puramente vegetativa, una vita solo di sofferenza e senza alcuna speranza, e` la negazione della vita umana. La qualita` della vita non e` un valore astratto, ma si definisce rispetto a se stessi e a come si era prima della malattia che, se e` sicuramente incurabile e comporta sofferenze tali da renderla inaccettabile, diventa una negazione della vita umana.

c)

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` interessante notare che coloro che parlano E di sacralita` della vita tendono a negare ogni importanza alla qualita` della vita e viceversa. La persona malata ha il diritto di scegliere, determinarsi, accettare o meno le proposte terapeutiche: in piena consapevolezza, ha diritto di decidere come morire, come ha il diritto di accesso alle cure. Sicuramente l’ovulo fecondato ha enormi potenzialita`, ma deve percorrere un iter ben preciso: come annidarsi nell’utero, poi crescere seguendo un preciso piano biologico, per poter diventare una entita` autonoma quale e` solo al momento della nascita (anche se prematura).

Considerare l’ovulo fecondato come persona e` una aberrazione, come rispettare l’embrione evitando qualsiasi manipolazione o sperimentazione e` un dovere dell’uomo. Ma anche considerare l’ovulo fecondato come “vita” e` una aporia, perche´ anche il gamete e` “vita”, ma non puo` essere definita “vita umana”. ` comunque necessario cercare di definire E quando l’embrione non puo` essere sottoposto a manipolazioni o sperimentazioni. Una soluzione che al momento sembra logica ed accettabile e` quella proposta dalla commissione Warnock, che ha indicato come limite il 14˚ giorno. Dopo questo periodo non e` possibile piu` alcuna sperimentazione, perche´ l’embrione comincia ad assumere una identita`, anche se minima. ` una posizione al momento accettabile. E Quando diciamo al momento vuol dire anche tener conto della possibilita`, sulla base di nuove conoscenze, di poter cambiare opinione.

6. Dai princı`pi al diritto ` evidente che la scelta tra diversi comportaE menti e` lasciata alla libera autodeterminazione del soggetto, a meno che non esistano precise leggi al riguardo. Le leggi possono vietare o imporre o anche proporre, con apposite modalita`, la liceita` di certi comportamenti che altrimenti costituirebbero degli illeciti. Per esempio in Italia la legge vieta l’eutana-

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sia, impone l’intervento del medico in casi di urgenza, propone la possibilita` della I.V.G. Data la complessita` della materia, spesso il legislatore tende a non intervenire su specifici problemi, rinviando la scelta a princı`pi generali, ma spesso si finisce con il creare un vuoto legislativo, piuttosto pericoloso, come per esempio in Italia e` il problema della fecondazione eterologa o gli altri sistemi di procreazione. Il rapporto fra etica e diritto non e` stato mai completamente definito ed in linea di massima, a lungo, sono rimasti due settori distinti. «... La corrente probabilmente dominante nella filosofia del diritto del ventesimo secolo, vale a dire il positivismo giuridico (Hans Kelsen) o il realismo giuridico (Alf Ross), ha fatto valere una distinzione netta tra etica e diritto riferendosi ad una lunga tradizione, secondo cui l’etica era ridotta alla preoccupazione ed alla considerazione dei rapporti interpersonali, mentre il diritto era concepito come l’aspirazione al mantenimento di un ordine sociale creato da un dominatore potente... Nella sua forma piu` democratica quest’ordine e` stabilito come l’insieme delle regole delle azioni umane, in modo che ciascuno possa divenire tanto libero quanto e` possibile, senza impedire agli altri di esercitare la medesima liberta`. Cosı` la legge diviene un sistema di protezione di tutti contro tutti» (P. Kemp). A lungo il diritto ha oscillato tra una posizione positivistica, ove la legge si limita a codificare i comportamenti esistenti ed accettati, ed una naturalista, ove la legge diventa l’espressione codificata di princı`pi “naturali” che sono evidenti ed immutabili. Ad esempio l’imperativo “non uccidere” puo` essere considerato un principio universale, anche se esistono alcune limitazioni, come ad esempio la legittima difesa. Negli ultimi decenni pero` il diritto si e` sempre piu` spostato su di una posizione che si potrebbe definire umanista: cioe` tener conto di quei valori che sono fondamentali e costitutivi di una cultura (o di una nazione), ma anche delle nuove esigenze man mano che queste emergono per mutate situazioni. Ma i problemi posti dalla bioetica tendono ad una ulteriore trasformazione. «A partire dal momento in cui l’etica si e` estesa dalla preoccupazione per tutti i viventi, dal

corpo propriamente umano alla natura tutta intesa e a partire dal momento in cui una legislazione o una pratica giuridica decidono i limiti agli interventi sulla vita degli essere viventi, da allora il diritto non e` piu` semplicemente una sovrastruttura d’ordine sociale dato, ma e` l’espressione della cura e del rispetto che si ha per la corporeita` e per la natura in genere. Possiamo definire questa nuova svolta nella razionalita` etica verso la bioetica come la svolta dalla bioetica al biodiritto. Verosimilmente il termine biodiritto (in inglese biolaw), come il termine bioetica (bioethic), e` un’invenzione americana, che si riferisce all’insieme delle decisioni giudiziarie e/o leggi che riguardano le questioni bioetiche» (P. Kemp). Giustamente l’autore sottolinea come un nuovo diritto, soprattutto nel campo della bioetica, sia nato dalla necessita` delle corti di giustizia di rispondere a quesiti concreti. E noi crediamo che questa sia la posizione piu` giusta che non e` segno di un banale relativismo, ma segnala la necessita` di un dibattito che possa poi far stabilire i limiti: «... ma tali limiti non sono sostenibili in base ad un astratto diritto naturale, ne´ su una prospettiva metafisica o sui costumi tradizionalmente invalsi nella societa`. Ed e` questa la dimensione laica, laicita` intesa non piu` come questione di metodo, ma definita in termini di contenuto: esclusione di premesse metafisiche o religiose che pretendano di valer per tutti» (U. Scarpelli). E sicuramente la discussione su casi specifici, come la tolleranza delle diverse posizioni, porta a soluzioni accettabili. U. Scarpelli nei confronti della legge sulla I.V.G. sostiene: «... ammessa una pluralita` di convinzioni morali, la tolleranza suggerisce una legislazione che consenta agli individui di agire secondo coscienza... Il principio del rispetto incondizionato per la vita, dal quale non si puo` assolutamente prescindere nella coscienza cristiana, sfocia nella intolleranza quando si impone come principio giuridico coattivo, togliendo alla coscienza laica di realizzare la propria morale» (pag. 125). E siamo d’accordo con quanto afferma G. Berlinguer che, in quel momento storico, la 194 era l’unica legge possibile, anzi necessaria.

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Ma sicuramente, pur con incertezze e ritardi, la tendenza da parte del legislatore e` quella di salvaguardare i diritti civili, e soprattutto la possibilita` di autodeterminazione, come dimostra un apposito strumento dell’ordinamento giuridico volto proprio a tutelare le diverse liberta` di scelta: l’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza e` un elemento altamente equilibrante tra rispetto delle leggi e liberta` di scelta: l’esempio piu` evidente e` la possibilita` per il medico che non accetta, per motivi religiosi o deontologici, l’aborto, tramite una dichiarazione di obiezione di coscienza, di non eseguirlo. La situazione diviene piu` complessa quando ci si trova di fronte ad una legge che invece prescrive ` possibile sottrarsi ad un comportaun obbligo. E mento, seppur ritenuto moralmente inaccettabile, quando il sottrarsi costituisce un reato? Socrate e` famoso, oltre che per la maieutica, anche perche´ preferı` subire una condanna ingiusta, piuttosto che fuggire; perche´ la fuga gli avrebbe salvato la vita, ma lo avrebbe escluso per sempre dall’essere cittadino in Atene, ove cittadino significava in primo luogo essere rispettoso delle leggi, anche se ritenute ingiuste. Il problema dell’obiezione di coscienza si puo` porre in numerose occasioni nella pratica medica. In alcuni casi la richiesta del paziente (per esempio l’eutanasia) comporterebbe un illecito, e pertanto il rifiuto del medico non pone problemi. Il problema invece puo` nascere se il paziente chiede un intervento legalmente lecito, ma che il medico, per sua scienza e coscienza, non ritiene utile o comunque deontologicamente corretto. In questi casi, si deve ritenere che il principio di autodeterminazione, se e` valido per il paziente, e` valido anche per il medico, che puo` rifiutarsi si eseguire qualcosa che ritiene deolontologicamente scorretto. «I medici ed in genere tutti i professionisti del mondo sanitario non sono venditori di cure: lo studio medico non e` un negozio, dove il cliente deve essere accontentato. Un uomo arriva e chiede la vasectomia, una donna incinta vuole abortire, una coppia desidera l’inseminazione artificiale ed il medico non dovrebbe far altro che mettere il suo sapere e la sua tecnica al loro servizio? No. Il medico rimarra` sempre moralmente responsabile dei propri atti, respon-

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sabile del bene o del male che fa. Sta a lui quindi giudicare della moralita` dei servizi che presta: valutare la domanda, considerare la natura dell’atto, calcolare i rischi fisici e psicologici, le conseguenze» (G. Durand). Il problema e` di fondamentale importanza: in questo modo si propone che l’atto medico, anche se giuridicamente lecito, non puo` essere automatico. Se il medico dovesse rilevare nella domanda del paziente o un probabile danno per lo stesso, o un comportamento dal medico ritenuto deontologicamente scorretto, deve rifiutarsi (vedi cap. consenso informato)4.

6.1. Il problema dell’informazione Riteniamo che i problemi sollevati dalle biotecnologie debbano essere sottoposti al vaglio di tutti, perche´ interessano tutti i cittadini e perche´ ci sia sulle eventuali scelte un controllo democratico. Ma per fare questo e` necessario che tali tematiche non restino nel chiuso dei laboratori di alcuni gruppi industriali: il rischio che si crei un monopolio tecnico-industriale-politico che decida cose fondamentali per i cittadini, sulla testa dei cittadini, e` reale. Come non e` accettabile che i mass-media, piu` o meno consapevolmente, continuino in questo gioco perverso: proporre notizie eclatanti in prima pagina, come fondamentali o apocalittiche, salvo non parlarne piu` e non dare alcuna notizia

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Queste osservazioni sono perfettamente condivisibili e sono state spesso vissute direttamente nei servizi pubblici, soprattutto dagli psicoterapeuti. Non e` infrequente che di fronte ad una richiesta di psicoterapia, dal momento che mi rendo conto della inconsistenza della domanda, della incapacita` da parte del paziente di poter fare un lavoro su se stesso, ho risposto con un rifiuto, motivato ed articolato ed anche con proposte alternative, ma comunque con un rifiuto. Questo comportamento mi e` stato spesso contestato da alcuni colleghi che adducono l’obbligo di dover “per forza” praticare un atto psicoterapeutico dal momento che viene richiesto, e soprattutto se questo avviene in un servizio pubblico. Continuo ad essere convinto della correttezza della mia posizione. E non solo per un principio di economia, ma soprattutto perche´ un rifiuto motivato diventa una “frustrazione con interesse” e quindi un atto terapeutico (vedi cap. La psicoterapia analitica).

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circa il seguito. Non si puo` parlare per giorni del trapianto di una mano, salvo poi non sapere piu` nulla circa l’esito e gli eventuali problemi insorti. Pertanto e` necessario che si formi una conoscenza approfondita e seria, che ci sia una alfabetizzazione sulle possibilita` e sui rischi di queste nuove frontiere. Qualora la societa` civile non fosse in grado di comprendere i problemi sui quali potrebbero essere chiamati ad esprimersi, qualora non ci sara` una corretta e continua informazione, il rischio e` che si finira` per delegare ad un monopolio di tecnici ed industriali decisioni che riguardano anche il futuro della nostra societa` . Una corretta educazione scientifica e` l’unico antidoto ad apocalittiche visioni o a semplicistiche considerazioni, che possono far comodo sia a tendenze reazionarie sia a speculatori senza scrupoli.

7. Dalla psichiatria alla bioetica Abbiamo accennato alla necessita` di una corretta informazione: ma una corretta informazione non sarebbe tale, perche´ incompleta, se a fronte di queste nuove frontiere non ci ponessimo due quesiti fondamentali. Quali sono i fantasmi, le angosce, le speranze che queste novita` suscitano e come possono incidere sulle eventuali scelte? Qual e` la vera natura umana, dal momento che alcune di queste biotecnologie minacciano di colpire proprio la natura dell’uomo ed il concetto di vita umana? Crediamo che la psichiatria, intesa come disciplina che si occupa del mondo interno dell’uomo anche se prevalentemente nel suo aspetto patologico, puo` e deve essere una interlocutrice importante in questo dibattito. Comunque proprio la conoscenza della patologia psichica induce la psichiatria a chiarire non solo i concetti di norma e di salute mentale, ma soprattutto ad elaborare uno schema di come sia e di come debba evolvere l’uomo sul piano psichico. Il presente Manuale ha fatto di questo principio il proprio filo conduttore, come si puo` evidenziare dai vari capitoli (dal “Modello psicodi-

namico dello sviluppo psichico” alla “Psicoterapia analitica” ecc.). Pertanto in questo contesto non ci soffermiamo tanto sul problema dei vissuti psichici legati a queste novita`: in parte sono state accennati in precedenza. Riteniamo piu` opportuno soffermarci a fare alcune osservazioni sulla natura umana: da sempre dominio esclusivo dei filosofi, dei teologi o di alcune psicologie che spesso sono diventate egemoni, dal momento che esprimono, seppur con altri termini, una visione molto spesso di tipo “religioso”. Quello che possiamo affermare con certezza e` che e` falso che l’uomo nasca come essere perverso e narcisista (S. Freud) o come fondamentalmente psicotico (M. Klein): tesi che rappresenta l’espressione “scientifica” (??) della concezione cattolica, o religiosa in genere, del peccato originale. Il bambino nasce con un enorme potenziale ma anche con una grande fragilita`: caratteristiche che senbrano connotare proprio le possibilita` e i limiti dell’evoluzione dell’uomo. Il bambino puo` sviluppare questo enorme potenziale in maniera sana, oppure nell’iter dei processi evolutivi e delle relazioni interumane, puo` ammalarsi sul piano psicologico: ma questa e` una possibilita` e non un destino precostituito. Se l’uomo non e` perverso o schizoide di natura, e` comprensibile che ci sara` una tendenza da parte del genere umano a preservare queste potenzialita`, ad espanderle, non gia` a distruggerle per principio. L’uomo e` portato a cercare, a conoscere, tanto che alcuni autori hanno parlato di istinto “epistemofilico” dell’uomo. A volte in questa ricerca, in questo desiderio di conoscere e di cambiare puo` aver sbagliato, puo` essere stato aggressivo o distruttivo. Ma non e` questa la sua natura, la distruzione non e` il suo telos. Se accettiamo questo principio basilare, forse evitando ingenui determinismi possiamo pensare che l’uomo tendera`, come nel passato, ad un “progressivo adattamento” alle nuove situazioni e potra` gestirle in funzione di un miglioramento complessivo dell’umanita`. La conoscenza puo` essere fonte di dolore, ma

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anche di piacere: sicuramente non puo` essere considerata come un fatto proibito per principio o ritenuto come fattore di distruzione. In questa visione e` evidente che i valori etici tenderanno a mutare: non esistono princı`pi immutabili, ne´ naturali ne´ metafisici. Da quando la natura e` diventata sempre piu` mutabile da parte dell’uomo, all’uomo tocchera` una sempre maggiore responsabilita` nelle sue scelte. «Il motto cattolico potrebbe essere ‘‘valori etici eterni nelle situazioni nuove’’; il motto laico, “a situazioni nuove forme etiche nuove’’, che e` ispirato dal timore del male che, in situazioni nuove, possono involontariamente produrre forme etiche vecchie» (U. Scarpelli).

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6 Normalita`, salute e malattia: concetti generali Nicola Lalli - Agostino Manzi Parole chiave norma ideale; norma funzionale; norma statistica; guarigione; guaritore; normalita`

La definizione di normalita` e` certamente difficile, ma non impossibile; comunque e` indispensabile, essendo il parametro di riferimento per ulteriori due importanti definizioni: la patologia e la guarigione o, se preferiamo un termine meno categorico, il miglioramento. In Psichiatria, piu` che in altri campi della Medicina, il concetto di normalita` e` sfuggente, soprattutto perche´ nella genesi e nella espressivita` della psicopatologia, giocano un ruolo non indifferente fattori culturali e sociali che sono molto vari e diversi. Tuttavia, senza cadere in un relativismo culturale esasperato che porterebbe a riconoscere e definire la patologia, solo all’interno di una specifica cultura e quindi a negare evidenti patologie solo perche´ frequenti in quella cultura, possiamo dire che la relativita` puo` valere solo per disturbi lievi; mentre, per esempio, una depressione endogena e` riconoscibile comunque ed in ogni contesto culturale. Questa distinzione tra disturbi psiconevrotici e psicotici puo` costituire un primo criterio che ci aiuta a definire la patologia e quindi anche la normalita`, nel senso che il disturbo psichiatrico grave non induce a molti dubbi. Un secondo criterio riguarda l’uso del concetto

di normalita` rispetto allo specifico a cui si riferisce. Se dobbiamo utilizzare il concetto di normalita` (o il suo inverso, la patologia) per una perizia o per una ricerca epidemiologica e` necessario utilizzare criteri piu` oggettivi o comunque standardizzati. Se invece lo utilizziamo all’interno di un progetto terapeutico, valuteremo la patologia (ed il suo inverso, la normalita`) anche sulla base della sofferenza del paziente. Comunque possiamo considerare la norma sotto una triplice angolatura. 1)

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Norma ideale, che si riferisce ad un modello convenzionale al quale l’individuo deve adattarsi. Il pericolo maggiore e` costituito dallo scambiare un dato convenzionale per un dato naturale. Norma funzionale, che si riferisce ad un valido funzionamento dell’apparato psichico: il modello che viene ritenuto come normalefunzionale puo` variare quindi a seconda delle diverse teorie sullo sviluppo psichico. Nonostante alcuni pericoli, e` quello piu` clinico e piu` utilizzabile.

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Norma statistica, che si identifica con cio` che e` piu` frequente, confondendo spesso la norma con la media. Il rischio maggiore e` costituito dal non considerare che proprio il tratto medio puo` costituire il tratto patolo` il criterio che viene utilizzato per i gico. E tests mentali, valido per una funzione quale l’intelligenza, molto meno per un giudizio sulla personalita`.

Tutte e tre le concezioni presentano vantaggi e svantaggi. Tuttavia nella valutazione clinica, pur con gli ovvi limiti, noi utilizziamo prevalentemente la norma funzionale. Ed e` raro che due clinici, che pur possono essere in disaccordo su argomenti teorici, siano in grave disaccordo nella valutazione concreta di un caso clinico. Cioe`, se non ci sono mo-

tivazioni ideologiche, pur con qualche difficolta` il concetto di norma e di patologia si evince facilmente. Ma si potra` obiettare che alcuni comportamenti ritenuti patologici nel passato sono ora ` vero, e l’esempio piu` classico considerati normali. E e` la cancellazione dell’omosessualita` come patologia, avvenuta nel DSM-III e nella sua revisione, il DSM-III-R. Ma bisogna tener presente che il DSM-III-R come anche il DSM-IV, si basa su di una norma statistica, la stessa che dovrebbe far considerare normale la carie dentaria, solo perche´ molto frequente. Una patologia molto diffusa non e`, per questo, meno patologica. * * *

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

1. Considerazioni generali «Provate a chiedere ad un uomo molto ignorante come funzioni la luce elettrica, ed egli trovera` che gli avete chiesto una cosa ridicola. Vi rispondera`: “Non avete che da girar la chiavetta”. L’elettricista pratico vi darebbe una spiegazione alquanto piu` tecnica, parlandovi di correnti, di resistenze, di conduttivita`. Ma un fisico, che fosse anche un po’ filosofo, vi confesserebbe modestamente la propria ignoranza. “I fenomeni elettrici” direbbe egli “possono essere descritti e classificati: ma quanto a dire cosa l’elettricita` sia...” e alzerebbe le braccia al cielo. Quanto meglio comprendiamo una domanda, tanto piu` e` difficile rispondervi». Aldous Huxley La salute e` una condizione di cui si ha un’esperienza quasi inconsapevole: sembra coincidere con il fluire stesso della vita. La malattia, come agente che interferisce con questo fluire, sembra svelarla come condizione perduta. Proprio per questa ragione dare una definizione di salute non risulta semplice. Ci si puo` accontentare di dire, seguendo il senso comune, che la salute e` la condizione di assenza di malattia: malattia che si disvela nel negare la salute. In campo psichico, allora, la salute mentale dovrebbe corrispondere all’assenza di sofferenza e di comportamenti anomali. Sappiamo pero` che questo non basta: ad esempio lo psicopatico, il maniacale non grave possono non lamentare alcun malessere, avere un comportamento non dissimile da quello degli altri e non per questo possono essere considerati soggetti normali: la loro anormalita` risulterebbe evidente ad un attento esame psicologico o psichiatrico. Ma introducendo il termine di anormalita` e l’idea di confronto stiamo in realta` cambiando la domanda: non piu` cos’e` la salute, ma cos’e` la normalita`. Si tratta, a questo punto, di stabilire dei parametri di riferimento e verificarne il rispetto: il criterio di fondo con il quale sceglieremo i parametri stabilira` quale normalita` stiamo cercando (vedremo piu` avanti che possiamo considerare piu` tipi di normalita` o, meglio, di norma). Ma

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definire cos’e` la normalita` non coincide con il dire cos’e` la salute, proprio perche´ la necessita` di stabilire dei parametri ci allontana dalla possibilita` di avere un approccio concettuale. I criteri di normalita` sono utili ai fini operativi della clinica: e` inevitabile avere una precisa idea di normalita` quando si prospetta un lavoro terapeutico. Ma c’e` anche un aspetto “filosofico” della questione che per sua natura e` destinato a non avere una risposta esauriente e data una volta per sempre: non per questo non si deve provare ad affrontarlo, ed e` quanto faremo piu` avanti presentando i punti di vista di alcuni filosofi che si sono interessati al problema.

2. La salute mentale come acquisizione moderna La medicina moderna orienta sempre piu` i suoi sforzi verso un’azione che non sia soltanto curativa, ma anche preventiva delle malattie. La disponibilita` di sempre piu` adeguate tecniche diagnostiche e di strumenti di prevenzione e di cura ha indirizzato l’attenzione verso la salvaguardia del singolo, affinche´ ci si possa avvicinare a quello “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” che l’OMS ha stabilito come obiettivo da perseguire per ogni individuo. Ma in campo psichiatrico, molto spesso, la cura e la difesa della salute mentale sono state interpretate come necessita` di mantenimento dell’ordine sociale: concetto, quindi, piu` legato al benessere della societa` che a quello del singolo individuo. La psichiatria spesso si e` quindi offerta come braccio secolare del potere, condizione che, se (come vedremo) da una parte sembra essere retaggio della sua stessa istituzione, dall’altra si dimostra essere, con la sua riproposizione anche in epoca moderna, in particolari condizioni di coercizione politica e sociale (come nell’ex URSS), un rischio sempre immanente alla psichiatria, soprattutto quando questa non si da` un preciso statuto teorico e scientifico. In origine il malato di mente, come il malato di colera o di peste, sembra minare la salute

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complessiva della societa` e a partire da questo se ne reclama l’allontanamento, l’internamento: la salute e` una questione che non riguarda l’individuo ma la comunita` nel suo insieme; l’individuo, come parte malata, va allontanato nella salvaguardia del benessere generale. Il folle ha, pero`, da sempre suscitato l’interesse di chi si e` occupato dell’uomo, sia in veste di medico che di filosofo. Ippocrate nel V secolo a. C. considerava la follia una malattia del cervello, contrariamente alla comune credenza che il folle non fosse altro che un indemoniato. Gia` Ippocrate, quindi, poneva le basi del dibattito che si sviluppera` nei secoli successivi sull’origine esogena od endogena della malattia mentale. Insieme a medici romani di eta` posteriori (Asclepiade, prima, e Galeno poi) inaugurava quello spirito di conoscenza e di interesse verso la sfera del mentale che, dopo la lunga eclissi che va dall’inizio del medioevo al XVIII secolo, caratterizzera` la medicina moderna. Con il diffondersi del Cristianesimo, sanita` e malattia mentale torneranno ad essere condizioni di scarso interesse medico e di competenza piu` strettamente teologica. La follia ritornera` ad essere la manifestazione di entita` malefiche che hanno preso possesso dell’individuo: la cura, volta a liberare l’individuo dal demonio, prendera` la forma delle piu` crudeli torture e delle condanne a morte, possibilmente condotte dopo la confessione salvifica, da parte degli “indemoniati”, di colpe e misfatti di cui erano ritenuti artefici. In questo lungo periodo il ruolo del folle sembra coincidere con quello del capro espiatorio: l’impotenza dell’uomo di fronte alla minaccia alla propria sopravvivenza dovuta alle continue epidemie che ciclicamente devastano l’Europa, in un contesto culturale in cui si enfatizzano idee quali quelle di colpa, peccato e punizione divina, facilita questa identificazione. Solo nel XVI secolo un medico, Johann Weyer, si batte per riconoscere alla follia lo statuto di malattia mentale, proponendo di distinguere i malati dagli indemoniati. Nel Settecento l’istituzione psichiatrica trova la sua dimensione nell’istituto manicomiale: ai medici non era demandato altro compito se non quello di preservare l’isolamento del malato

stesso. Malgrado l’esistenza di ricoveri specializzati nell’assistenza di categorie precise di emarginati, l’assegnazione all’una o all’altra di queste strutture era basata su criteri poco chiari, spesso casuali, per cui l’indigente, il mendicante, il malato mentale erano confusi in un comune destino di segregazione o di assistenza generica che aveva luogo nei dormitori, nelle case dei poveri ecc. Con la creazione dei primi istituti riservati ai malati mentali si inizia a porre il problema, ancora attuale, della distinzione delle malattie dalle situazioni di devianza sociale e, conseguentemente, della demarcazione dei limiti di imputabilita` del malato mentale. ` da notare che il poter distinguere un comE portamento di semplice devianza sociale (con le difficolta` di delimitare questo ambito) da uno conseguente alla presenza di un disturbo mentale significa dover decidere per la responsabilita` e la punibilita` dell’uno e la non responsabilita` e non imputabilita` dell’altro. In questo senso la scelta dell’internamento demandava alla volonta` del medico il prendersi cura o meno di chi veniva ritenuto malato. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento prevale l’idea che il disturbo mentale sia dovuto a una perversione o a un deficit della volonta`; anche questo concetto tende, pero`, a unificare ogni forma di devianza sociale (anche il ladro, il mendicante possono essere interpretati come individui di poca o perversa volonta`). Alle terapie mediche tradizionali (purghe, salassi, riposo coercitivo ecc.) si affiancano i trattamenti rieducativi, basati sulla restrizione della liberta` attraverso l’imposizione di compiti gravosi da eseguire secondo orari e modalita` rigidi. Lo scopo e` quello di disciplinare la volonta` degli individui per poterne modellare il comportamento; la visione di salute mentale che emerge e` quella espressa da un individuo in grado di controllare a pieno la propria volonta` per asservirla ai codici di comportamento vigenti. Le voci piu` liberali, Chiarugi e Pinel ad esempio, contestano la validita` di questo tipo di trattamenti; Pinel, in particolare, pone la sofferenza del malato al centro dell’attenzione e auspica un impegno da parte dei medici perche´ trovino il modo di restituirgli la ragione. Anche per questi autori, comunque, la salute della societa` sembra dover es-

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sere lo scopo principale da perseguire: se la paura che annichilisce la mente va bandita, Samuel Tuke asserisce che «non ci puo` essere dubbio sul fatto che il principio della paura nella mente umana, quando sia suscitata moderatamente e giudiziosamente, come avviene mediante l’applicazione di leggi giuste ed egualitarie, ha un effetto salutare sulla societa`» (Description of the Retreat, 1813). Con la seconda meta` dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si acuisce lo sforzo di andare oltre l’aspetto fenomenico della malattia mentale per tentarne una conoscenza causale. Due le linee di interpretazione: • •

quella che riconosce la malattia come conseguente ad un danno neurologico; quella che riconosce nella sofferenza psichica il risultato di deficit relazionali, di vissuti traumatici ecc.

Il primo orientamento trova la sua validazione nella scoperta dell’origine infettiva della paralisi generale, entita` clinica riconosciuta nel 1798. L’origine sifilitica di un preciso quadro di disturbo psichico ha spinto verso la ricerca di analoghe noxae capaci di spiegare le altre manifestazioni patologiche che oggi, piu` correttamente, ascriveremmo alla nosografia neurologica. Emil Kraepelin e` l’esponente di spicco di questo approccio; nel suo Trattato vi e` lo sforzo di classificare i malati di mente sulla base di sintomi organizzati per sindromi il piu` possibile omogenee; lo scopo e` quello di facilitare l’eventuale scoperta degli agenti eziologici all’origine delle ` di Kraepelin la unificazione, varie patologie. E come dementia praecox, di una serie di quadri clinici che si caratterizzavano per il precoce, progressivo e irreversibile deterioramento delle facolta` mentali. Un orientamento molto diverso, precorritore di quello psicodinamico, ha radici nell’opera di Anton Mesmer che teorizza la possibilta` di interferire sull’andamento dei disturbi mentali attraverso la relazione interindividuale: l’energia in grado di operare in questo contesto viene individuata nel “magnetismo animale”. A partire dal magnetismo e attraverso le esperienze dell’ipnosi si fa strada l’idea dell’esistenza di una dimensione inconscia della malattia mentale la quale, se op-

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portunamente indagata, puo` aprire la strada a nuove modalita` terapeutiche. Su questa traccia si muovono autori diversi: Charcot, Bernheim, Janet, Freud, Jung. La conseguenza piu` importante e` che, di pari passo alla tendenza sempre piu` interpretativa della malattia mentale, se ne propone una visione eziologica di per se´ psicologica. Ecco allora che il problema salute-malattia assume, nella sfera del mentale, un significato diverso da quello che ha nelle altre specialita` mediche, venendo a convergere elementi di natura molto diversa: biologici, sociali, esistenziali. Al di la` delle differenze e delle conseguenze terapeutiche che ne derivano, il dato da rilevare e` che finalmente l’individuo viene posto al centro dell’interesse; soprattutto sul versante psicoanalitico il problema viene affrontato in una chiave interpretativa che separa l’idea di malattia da quella di colpa (e quindi quella di terapia da quella di espiazione-reclusione). A partire da questo momento si e` andato sempre piu` affermando il concetto della salute mentale come condizione da salvaguardare e da recuperare: la malattia non come destino da accettare, ma come contingenza da superare.

3. Norma, normalita`, salute, malattia: problemi metodologici I concetti di normalita`, salute e malattia erano troppo importanti perche´ rimanessero dominio esclusivo della medicina, da una parte, e della psichiatria, dall’altra. Naturalmente molti studiosi di discipline diverse, come vedremo, si sono occupati e hanno tentato di risolvere queste problematiche con le loro specifiche metodologie: filosofica, sociologica ecc... Comunque, mentre la medicina, nell’affrontare il problema salute-malattia, ha potuto usufruire di parametri misurabili e relativamente stabili, la psichiatria si e` trovata di fronte a una serie di variabili non solo non misurabili, ma anche non sempre confrontabili tra di loro. A fronte di questo problema sono state scelte tre metodologie diverse:

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la prima estremamente riduttiva: e` il metodo clinico che equipara la normalita` psichica con quella statistica; la seconda di eccessiva apertura ad ogni disciplina (in primis la filosofia) con il risultato di frantumare e rendere ambigui i concetti di malattia e di normalita`; la terza e` quella che noi riteniamo essere la piu` valida: fermo restando che il concetto di normalita` -malattia e` finalizzato ad una terapia-prevenzione, e` evidente che questa finalita` se da una parte delimita l’oggetto del discorso, dall’altra gli conferisce un percorso preciso.

Il concetti di salute, benessere, normalita` sono spesso confusi tra di loro creando una confusione semantica. Dobbiamo quindi delimitarli in maniera piu` precisa. Il concetto di salute e` strettamente legato al concetto di funzionalita`-potenzialita`: e` possibile darne, quindi, una definizione. Il concetto di benessere e` legato ad un vissuto totalmente soggettivo, quindi non definibile in maniera oggettiva. La normalita` attiene invece ad un concetto di valore e di conseguenza esprime la conformita` o meno alla struttura culturale e sociale. Questi tre concetti rimandano a discipline diverse come la medicina (salute), la filosofia (benessere), l’antropologia culturale e la sociologia (normalita`).

3.1. L’approccio concettuale Vediamo ora come alcuni autori hanno affrontato le questioni di cui stiamo parlando; lo sforzo e` quello di arrivare a definire la salute e la malattia in termini concettuali. Giorgio Prodi affronta il problema salute/malattia in maniera ampia ponendosi, a suo avviso, nel campo dell’oggettivita`. Il campo dell’oggettivita` viene definito il “dominio naturale-culturale da indagare con i metodi dell’osservazione scientifica”; restano fuori da questa tipo di indagine gli approcci che negano la necessita`, o la possibilita`, di parametri e di riferimenti oggettivi.

Dato un dominio di oggetti ed eventi osservabili, la norma e` data dall’oggetto ideale che lo rappresenta nei suoi parametri medi; questo oggetto e` allo stesso tempo statistico e ideale in quanto non coincidera` con nessuno degli oggetti reali appartenenti al dominio, ma ne assumera` le caratteristiche medie. Questa operazione consegue alla possibilita`, aprioristica, di saper individuare correttamente il dominio e discriminare gli oggetti dell’insieme. Secondariamente e` necessario riconoscere quali sono i valori che i singoli parametri possono assumere per ogni oggetto del dominio. In quanto esistenti, tutti i valori potrebbero essere giudicati normali: la scelta del range dei valori per i singoli parametri puo` pero` essere valutata in funzione delle conseguenze o degli effetti che essi producono. Quindi e` necessario: • •

stabilire i riferimenti oggettivi per gli oggetti su cui determinare i parametri; stabilire i limiti accettabili di variabilita` dei parametri in analisi.

Nel nostro caso, per il primo punto si puo` dire che la discriminante e` l’appartenenza alla specie umana (un criterio filogenetico) ed, eventualmente, a particolari tipologie (ad es.: maschi e femmine). Per il secondo punto, i valori normali dei parametri in esame devono essere considerati quelli per i quali “le strutture e le funzioni possono essere attive nel senso della loro determinazione filogenetica, consentendo la vita”. La normalita` e` cio` che esiste, sia che lo si individui nella specie che nella singola copia: vita e` un’espressione tautologica per norma. La normalita` non e` quindi rappresentabile come una curva gaussiana in cui e` necessario decidere, con una certa arbitrarieta`, la larghezza della base (o la distanza, a destra e sinistra dal valore centrale) ma come un valore-soglia che stabilisce la possibilita` dell’esistenza. La norma e la normalita` coincidono con la determinazione filogenetica. Se un individuo e` un insieme di correlati strutturali e funzionali, la salute e` il risultato vitale di questo insieme. Ogni funzione che si

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

altera compromettendo l’esistenza e` una deviazione verso la malattia: se la malattia e` compatibile con la vita, la norma e` elusa in modo compatibile. La deviazione dalla norma puo` avvenire a tre livelli: •





filogenetico: cio` sul codice genetico che determina le caratteristiche di strutture e funzioni; ontogenetico: cioe` sulla formazione delle strutture (sviluppo embrionale e post-embrionale); fenotipico-ambientale: cioe` sulla funzionalita` complessiva delle strutture formate.

La divisione implica una compenetrazione: l’aspetto fenotipico e` comune a tutte e tre le condizioni cosı` come la noxa ambientale e` quasi sempre alla base di ogni danno. Anche la condizione di salute/malattia mentale si decide ad uno di questi livelli. Negando la contrapposizione tra struttura e funzione, l’autore riconosce che se e` vero che la prima e` il substrato necessario alla seconda, e` anche vero che la seconda e` in grado di indurre lo sviluppo della prima: e` l’attivita`, cioe` la messa in funzione delle strutture, a determinare, anche nell’arco dell’intera esistenza, la loro configurazione piu` funzionale. L’autore prende in considerazione come esempio di attivita` complessa la competenza linguistica; perche´ un individuo sia in grado di acquisirla sono necessari: •

• •

l’integrita` del codice genetico atto a codificare lo sviluppo delle strutture preposte al linguaggio; il normale sviluppo embrionale e post-embrionale delle strutture stesse; il mantenimento nel tempo della loro integrita`.

Ma tutto cio` non basta. Soltanto la interazione tra strutture integre (fattore individuale genetico) e un codice linguistico (fattore ambientale-strutturato) rende possibile l’acquisizione della competenza linguistica, che in ultima analisi e` una competenza relazionale. Il fattore ambientale-strutturato comprende non solo i codici lin-

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guistici, ma anche le modalita` di relazione e gli stimoli che sono presenti nell’ambiente. Il linguaggio e` competenza nell’uso di un codice ma anche contenuto della comunicazione, fine, motivazione, affettivita`. Se il codice e` prodotto da una specifica cultura in un tempo e in un luogo determinati, la competenza linguistica di ogni individuo si pone proprio come conseguenza di questo codice. L’assenza del codice determinerebbe l’atrofia, cioe` il non sviluppo, di questa competenza. Conseguenza di quanto detto e` la negazione di una visione unitaria della malattia in uno schema o tutto organico o tutto funzionale. Per riassumere, vediamo qual e` la definizione dello stato di salute proposto dall’autore: «La salute e` definita come uno stato ottimale corrispondente a funzioni filogeneticamente stabilite che nell’uomo comprendono anche funzioni logiche, affettive, relazionali e implicano sistemi interpersonali e strutture sociali. La condizione piena di questa efficienza filogenetica potrebbe essere chiamata “benessere”. In tale definizione non e` compreso alcun contenuto positivo, che riguardi cioe` quanto venga realizzato attraverso l’efficienza ottimale (ad esempio nel lavoro o nel gioco). Tale contenuto varia col variare delle condizioni e delle fasi della cultura, e certo non puo` essere tipizzato in modo definitivo, e comunque non dalla medicina. Se pero` esso e` costretto alla sclerosi ed e` mantenuto invariato nel tempo, puo` costituire motivo di patologia, perche´ la struttura del singolo deve adattarsi continuamente a contenuti superati. Cio` che effettivamente si realizza non deve essere indifferente o, almeno non deve essere contraddittorio con l’efficienza e lo stato di salute che permettono la realizzazione». Un altro autore, Christopher Boorse, si propone di trovare una definizione di salute che sia in grado di superare quelli che riconosce come i relativismi e i limiti delle accezioni comuni a questa parola. Individua sette condizioni che vengono comunemente utilizzate per descrivere lo stato di salute o, al contrario, di malattia e ne rileva l’inadeguatezza: a)

la salute come valore: cioe` come condizione desiderabile. Se il benessere esprime questa

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b)

c)

d)

e)

f)

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condizione, molte situazioni di assenza di benessere non rientrano nella lista delle malattie, cosı` come molte malattie sono desiderabili in alcune condizioni (ad es.: la miopia per l’esonero dal servizio militare); la malattia come cio` che comporta trattamento medico: e` una discriminante ne´ necessaria (molte malattie non si avvalgono del trattamento), ne´ sufficiente; la salute come norma statistica: per le considerazioni su questo punto si rimanda al paragrafo “Norma e normalita`”; la malattia come disagio e sofferenza: la salute, di contro, come assenza di queste condizioni. In realta`, cosı` come molte malattie anche gravi decorrono a lungo senza sintomi, molte situazioni fisiologiche comportano un certo grado di sofferenza (il parto, le mestruazioni, ecc.); malattia come disabilita`: e` una definizione che non tiene conto delle forti discrepanze presenti tra gli individui rispetto ad alcune “abilita`”, legate, ad esempio, alla prontezza di riflessi, all’equilibrio, ecc. salute come adattamento all’ambiente: presuppone una dipendenza dall’ambiente e la necessita` di essere ambiente-specifici, cioe` di non poter vivere in condizioni diverse; salute come omeostasi: nasce dall’idea di C. Bernard dell’equilibrio del “mezzo interno”. Molte funzioni non sono pero` omeostatiche (la percezione, la locomozione, la crescita) ed e` quindi anche questo un criterio non onnicomprensivo.

L’autore propone una definizione di salute come assenza di malattia. Individuata la classe di riferimento (cioe` un gruppo di eta`, di appartenenza di sesso, di una stessa specie) i cui individui sono accomunati da uno stesso disegno funzionale (cioe` attivita` necessarie alla sopravvivenza del singolo e alla sua riproduzione), la malattia viene definita come un particolare stato interno che rappresenta un indebolimento della normale abilita` funzionale, cioe` una riduzione di una o piu` abilita` funzionali al di sotto dell’efficienza tipica, o una limitazione della stessa in seguito all’azione di un agente esterno.

Secondo l’autore questo approccio e` in grado di risolvere la maggior parte dei limiti che si presentano con altre modalita` di impostazione del problema: •



risolve la discrepanza tra giudizio di malattia e salute come condizione desiderabile perche´ rimanda al disegno della specie: l’emofilia e` una malattia mentre non lo e` l’incapacita` di rigenerare il tessuto nervoso; risolve il problema della definizione dei limiti delle variabili continue: posso definire malattia sia l’ipertiroidismo che l’ipotiroidismo ma non l’incapacita` di vedere al buio (dovrei includere i gatti nella specie umana!).

L’autore propone anche una definizione in positivo della salute; tre i livelli possibili: •





il livello individuale-potenziale: e` la salute come ideale sviluppo delle potenzialita` individuali. Se utilizziamo come esempio la capacita` delle performance atletiche, possiamo dire che la salute corrisponderebbe al potenziamento della forza, della coordinazione, della resistenza, senza necessariamente raggiungere il livello dei campioni olimpionici; il livello specie-potenziale: e` sottintesa l’esistenza di una condizione assoluta di salute; per restare all’esempio delle performance atletiche, possiamo dire che gli atleti olimpionici rappresentano il limite di specie del benessere fisico/atletico; il livello illimitato: ogni miglioramento di funzioni, anche oltre i limiti della propria specie, va nella direzione di un miglioramento dello stato di salute.

In nessuno dei tre casi e` individuabile un limite di espressione dello stato di salute (la salute come utopia individuale, di specie o assoluta). Inoltre non risulta possibile individuare quale sia la direzione salutare dello sviluppo delle potenzialita`; spesso l’incremento di una funzione ne decrementa un’altra: per restare all’esempio, e` impensabile che un buon scattista sia contemporaneamente un valido lanciatore di pesi. Interessante e` l’approccio ermeneutico di Ga-

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damer, che ascrive il problema della definizione della salute a un discorso piu` ampio che riguarda la riflessione dell’uomo sulla propria condizione e sul ruolo e sui limiti della scienza in questa discussione. La salute rimanda all’idea di unita`, a una visione globale dell’uomo: in questo senso la scienza medica, che sul filone della scienza moderna ha disgregato lo scibile in una molteplicita` di specializzazioni atte allo studio e alla cura delle malattie, sembra inadeguata ad affrontare la questione della salute. La salute, quindi, sembra nascondersi: «non e` possibile misurare la salute proprio perche´ essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi, che non puo` essere superato da nessun altro tipo di controllo». Ogni tentativo di misura e ogni proposta di standardizzazione di valori atti a quantificare il benessere assumono il significato di un travisamento dell’idea stessa di salute in quanto, essendo il risultato di convenzioni, si allontanano dall’essenza stessa della natura. Si deve, allora, pensare alla salute in un’ottica diversa: la salute come condizione inconsapevole che nell’atto stesso di perderla (come avviene per l’equilibrio) testimonia la sua inscindibile presenza nella nostra condizione (naturale) di uo` il «ritmo della vita, un processo incesmini. E sante in cui l’equilibrio si ristabilisce sempre». Ma, allora, se non e` possibile misurarla, si puo` provare a descriverla cosı` come la percepiamo: ‘‘come una specie di senso di benessere e ancora di piu` quando, in presenza di tale sensazione, siamo intraprendenti, aperti alla conoscenza, dimentichi di noi e quasi non avvertiamo gli strapazzi e gli sforzi”: quindi la salute non come un semplice “sentirsi bene”, ma come un “esserci , un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita” Come abbiamo visto, il pensiero dei filosofi, pur interessante e costruttivo, non fornisce circa il problema della salute dati o parametri utilizzabili. Sicuramente il merito dei filosofi e` di aver evidenziato il fatto che, ogni qualvolta si cerca di de-

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limitare il concetto di salute, si rischia di diluirlo o di spegnerne l’intensita` di significato. I filosofi sottolineano come il concetto di salute e i metodi di quantificazione siano difficilmente integrabili. Comunque e` necessario, pur tenendo presenti i limiti sopra esposti, cercare di definire alcuni parametri che ci diano la possibilita`, se non di quantificare, per lo meno di delimitare i concetti di salute e malattia. 3.2. Parametri utilizzabili Quando ci troviamo ad affrontare un problema diagnostico in campo psicopatologico, dobbiamo utilizzare tre parametri: il comportamento, il vissuto soggettivo, il mondo interno. 3.2.1. Il comportamento

` la modalita` complessiva sia verbale che non E verbale attraverso cui ognuno di noi non solo si manifesta all’altro, ma indica qual e` il grado di accettazione-conformismo nei confronti delle regole sociali vigenti. L’analisi di un comportamento ci da` informazioni poco utili, se non fuorvianti, sulla condi` zione di normalita` o patologia di un individuo. E necessario tener conto del contesto in cui tale comportamento ha luogo. Riportiamo un episodio riferito da K. Lorenz a dimostrazione di come sia importante quanto detto. Racconta Lorenz che, dopo molti sforzi, era riuscito a farsi adottare come madre da un gruppo di anatroccoli che lo seguivano dappertutto. Un giorno egli girava carponi tra l’erba del suo giardino e, guardandosi indietro, ripeteva frequentemente «qua, qua, qua...» per indurre gli anatroccoli a seguirlo: «...ero molto compiaciuto dei piccoli che obbedienti e precisi seguivano il mio “qua, qua” quando, ad un certo momento, alzai gli occhi e vidi una fila di volti allibiti affacciati sopra la siepe del giardino: un’intera comitiva di turisti mi guardava stupefatto. L’erba alta nascondeva gli anatroccoli e quello che vedevano i turisti era qualcosa di inspiegabile, un comportamento veramente folle».

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Questo episodio testimonia in maniera divertente quali errori di valutazione si possono commettere con un’osservazione di un comportamento che non tenga conto del contesto. Piu` drammatico, ma sicuramente piu` suggestivo, e` il commento di Laing a una descrizione fatta da E. Kraepelin a proposito di una paziente: «Signori... potete vedere una servetta di ventiquattr’anni nelle cui fattezze e sul cui volto sono chiaramente visibili i segni di un grave deperimento. Nonostante cio` la paziente e` in movimento continuo, dato che va sempre avanti ed indietro di pochi passi, si fa la treccia ai capelli per poi scioglierli un minuto dopo. Se cerchiamo di arrestare il suo movimento incontriamo una resistenza inaspettatamente energica: se mi piazzo davanti a lei con le braccia per fermarla, se non riesce a spingermi da una parte, si gira all’improvviso e mi sfugge come per continuare per la sua strada. Se la si afferra saldamente, ella storce i suoi lineamenti per il solito rigidi ed inespressivi, piangendo deplorevolmente.... Notiamo che ella tiene spasmodicamente stretto tra le dita della mano sinistra un pezzo di pane sbriciolato che assolutamente non permette che le venga strappato...». Ascoltiamo il commento di Laing: «Siamo qui in presenza di un uomo e di una ragazza. Se vediamo la situazione unicamente in base al punto di vista di Kraepelin, tutto va subito a posto: lui e` sano, lei e` malata, lui e` razionale, lei e` irrazionale. Cio` comporta che si considerino le azioni della paziente come avulse dall’esperienza che ella ha della situazione. Ma se esaminiamo le azioni di Kraepelin separate dal contesto della situazione quale egli la esperimenta e descrive... lo psichiatra, nelle vesti di quello che e` ipso facto sano di mente, dimostra come il paziente non sia in contatto con lui: il fatto che egli non sia in contatto con il paziente puo` solo dimostrare che c’e` qualcosa che non va nel paziente, ma non mai che ci sia qualcosa che non va nello psichiatra...».

3.2.2. Il vissuto soggettivo

Per vissuto soggettivo ci riferiamo a quel metodo di osservazione che non tende a spiegare,

ma a comprendere l’altro nella sua diversita` e soprattutto a non oggettivarlo in una serie di sintomi e di comportamenti. In questo senso possiamo affermare che e` sicuramente la fenomenologia la disciplina che piu` si e` impegnata in questo problema e che riconosce in K. Jaspers, L. Binswanger, E. Minkowski i principali autori. Anche R.D. Laing, del quale abbiamo citato la critica a E. Kraepelin, appartiene a questo filone. In questa visione il concetto normalita`-patologia non e` basato sui dati comportamentali, ma sullo studio dei vissuti, delle esperienze e delle modalita` di esistere del paziente. «L’attribuire valore determinante ai vissuti e alle esperienze significative che sottendono i comportamenti vuol dire non limitarsi ad un semplice esame esterno del paziente, ma cercare di penetrare il suo mondo mediante quello sforzo di rivivere le esperienze del paziente, modalita` che prende il nome di “comprensione per immedesimazione” o Einfu¨hlung. Cosı` facendo si giunge ben presto ad un limite in ambito psicopatologico, ad un muro contro il quale si spunta l’arma dell’Einfu¨hlung: si tratta di quel limite che separa i vissuti comprensibili da quelli incomprensibili, tipici delle psicosi endogene» (M. Rossi Monti, pag. 136). Questa formulazione comprensibile-incomprensibile dovuta a K. Jaspers avra` enormi conseguenze sulla psicopatologia soprattutto in ordine alla genesi della patologia. Se da una parte fornisce un metodo di distinzione tra processi comprensibili (psiconevrosi, reazioni psicogene ecc.) ed incomprensibili (psicosi endogene), dall’altra, identificando l’incomprensibilita` con un processo organico, rafforzera` la concezione dell’origine biologica delle psicosi. L. Binswanger invece non sara` interessato nella sua Daseinsanalyse (antropoanalisi o analisi esistenziale) a definire le modalita` della patologia, e quindi a formulare giudizi di sanita` o di anormalita`, ma si preoccupera` di indagare e svelare il mondo, anzi i diversi mondi, del malato mentale. Ogni mondo umano e` una possibilita` di esistere e di esprimersi, ed anche la patologia men-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

tale e` un modo particolare di esprimersi ed essere al mondo. Questa posizione ovviamente rinuncia a qualsiasi giudizio di tipo clinico, limitandosi a descrivere, a volte in modo molto minuzioso, la modalita` di essere del malato mentale. Il limite di questa posizione e` la rinuncia alla terapia. Comunque non si puo` rinunciare a dare una serialita`, un ordine a questi diversi modi di esistere che possono articolarsi in un ordine decrescente di liberta`. Al poter-essere come modalita` dell’individuo normale che esprime liberamente le sue potenzialita` dell’essere al mondo e dell’essere con gli altri, si contrappongono due modalita` ove questa potenzialita` e` fortemente limitata. Dall’avere-il-permesso-di-essere a quella molto piu` limitante e coartante dell’essere-costrettoad-essere. «Detto altrimenti, possono essere ordinati a seconda: del poter-essere (posso liberamente essere sottratto al massimo dagli altrui condizionamenti); dell’aver-il-permesso-di-essere (posso essere me stesso, ma solo nel ruolo che mi e` concesso), dell’essere-costretto-ad-essere (non posso essere se non nel segno di un’altrui imposizione). (D. Cargnello, Alterita` e Alienita` , pag. 30). Sempre su questa linea, E. Minkowski giunge a ritenere che nella patologia mentale grave c’e` una differenza di natura che rivela una particolare forma di vita che si svolge secondo un «essere altrimenti». L’antropoanalisi, accanto ad una ricchezza di dati e di osservazioni sulle particolari modalita` di essere delle varie patologie, pone anche un limite che e` quello di non proporre, dopo l’accurata descrizione, una qualsiasi forma di cambiamento (terapia) di questo modo di essere. Affascinante sul piano descrittivo, rimane molto deludente su quello operativo. Molte di queste proposizioni hanno trovato poi una seducente esposizione nelle opere di J.P. Sartre. Riteniamo che gli autori citati debbano essere letti e conosciuti non solo per la ricca descrizione dei vissuti interiori di ogni singolo soggetto, ma anche per il limite preciso di non proporre alcuna terapia.

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3.2.3. Il mondo interno

Corrisponde a quello che noi comunemente ` evidefiniamo struttura o apparato psichico. E dente che parte di questo mondo psichico si esprime attraverso il comportamento e attraverso la soggettivita`, ma non totalmente. Postulare l’esistenza di un mondo interno vuol dire postulare una dimensione inconscia dell’uomo che puo` trovare espressione con diverse modalita`, come ad esempio l’attivita` onirica. ` evidente che parlare di un mondo interno, E in assoluto (in maniera isolata) e` un’aporia. Il mondo interno si evidenzia solo nell’ambito di un rapporto duale dove lo psicoterapeuta e` in grado, sulla base di una sua sensibilita` e di una specificita` acquisita, di enucleare aspetti patologici altrimenti non percepibili. In quest’ottica a noi sembra che il modello medico e` quello che puo` darci una metodologia piu` corretta in ordine all’osservazione globale del paziente. Riteniamo, pero` che il modello medico va superato ed integrato con le discipline che attengono alla soggettivita` e al mondo interno. 3.3. La follia della normalita` Molti autori, in modo solo apparentemente provocatorio, hanno proposto che sia proprio l’adattamento alle norme vigenti ad essere segno di follia e non viceversa. Cosı` facendo hanno ovviamente proposto che sia la societa` ad essere “anormale” nel suo complesso, e pertanto la patologia e` da ascriversi ai meccanismi di relazione sociale che sono di per se´ patologici e patogeni. Questa posizione ha origini antiche. Gia` G.F. Hegel aveva parlato di alienazione nel senso che essa e` presente «...ogni volta che io non mi pongo come soggetto del mio agire, come soggetto che genera e prova sentimenti, ma mi alieno nell’oggetto che produco». Successivamente L. Feuerbach aveva applicato il concetto di alienazione alla religione, constatando che l’uomo «diventa tanto piu` povero, quanto piu` si arricchisce Dio». K. Marx portera` ad una estrema chiarificazione questo concetto, attraverso l’analisi dei meccanismi di produzione della societa` borghese.

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Per Marx l’alienazione e` insita nel meccanismo produttivo per cui «meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e piu` tu hai, piu` e` espropriata la tua vita, piu` tesaurizzi la tua essenza alienata» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844). Successivamente W. Reich cerchera`, in una sintesi psicologico-sociale, di riproporre questa tematica affermando che l’individuo, proprio adattandosi completamente alle regole alienate della societa`, diventa alienato. Questa tematica, anche se piu` sfumata, sara` ripresa nella psichiatria americana da K. Horney, E. Fromm ed altri. Tematica estremamente affascinante che sposta completamente i termini del problema: dall’uomo alienato in una societa` fondamentalmente sana (e che impone determinati valori), ad una societa` strutturalmente patologica, tale che ogni adattamento diventa indice di alienazione e non di sanita`. Abbiamo ritenuto opportuno segnalare questo punto di vista che, per quanto ideologico e poco utilizzabile in clinica, segnala sicuramente un problema importante: come l’adattamento e la normalizzazione possono essere aspetti di una patologia sociale diffusa. A noi sembra che questo punto di vista possa essere integrato in una visione ove la salute mentale (e non quindi la normalita`) e` correlata con lo sviluppo e la creativita` di ogni singolo individuo che riesce pero` realisticamente a tener conto dell’ambito sociale, storico e culturale nel quale e` immerso e vive, senza negarlo o annullarlo. Quindi possono essere patologici sia una ribellione cieca che un conformismo piatto e acritico. La salute mentale non puo` essere considerata come una invariabile assoluta, ma come una modalita` dinamica di rapporto tra un soggetto normalmente evoluto che si incontra (o se necessario si scontra) con i valori, le abitudini, le regole dell’ambiente in cui vive cercando di adattare questo alle sue reali capacita`. L’originalita`, la diversita`, la non accettazione e la tendenza a cambiare sono peculiarita` della persona psichicamente sana. Gli individui sani psichicamente sono diversi tra di loro ed imprevedibili molto piu` del nevro-

tico e dello psicotico, che invece sono ripetitivi e prevedibili.

4. Norma e normalita` Il termine normalita` deriva dalla radice latina norma (che significa squadra), che assume accezioni diverse a seconda di come la qualifichiamo. Generalmente vengono proposte tre modalita` della norma: •





norma ideale: e` la norma del dover essere, cioe` indica a quale comportamento deve mirare l’individuo per manifestarsi nel suo stato di benessere; pone l’individuo in una condizione di aspirazione: misurato lo scarto tra quello che si e` e quello che si dovrebbe essere, non resta che spingersi verso un limite in realta` irraggiungibile; norma funzionale: definisce una condizione di coerenza interna all’individuo tra aspirazioni e scopi, da una parte, ed efficienza e adeguatezza nel perseguirli, dall’altra; si avvicina alle necessita` della clinica; norma statistica: identifica il normale con il ` normale cio` che e` condipiu` frequente. E viso: se il range del possibile e` descritto dalla campana di Gauss, il normale e` rappresentato dall’intervallo intorno alla media.

L’utilizzazione di uno di questi criteri per definire lo stato di benessere psichico risulta difficile: a)

b)

la norma ideale e` una norma-limite verso cui tendere, ma in realta` irraggiungibile; ne consegue che, pur potendosi verificare diversi gradi di avvicinamento, si restera` comunque in una condizione di non normalita`: paradossalmente lo stato di malattia diviene la condizione comune. L’ideale, inoltre, lungi dall’essere assoluto, risente dell’arbitrarieta` della popolazione che lo esprime: normale e` essere “secondo il desiderio degli altri”, con la possibilita` di non condividere questo desiderio e che la norma ideale divenga ideologia; la norma statistica, proponendo il normale come il piu` frequente, postula nell’“essere

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

come gli altri” il conseguimento del benessere psichico. Oltre alla evidente acriticita`, e` un criterio difficilmente sostenibile per almeno due ordini di ragioni: b1) la prima e` che nell’eventualita` di una patologia molto frequente il francamente patologico si annulla nell’idea di norma: se si utilizzasse questo criterio in campo medico, la presenza di carie nella popolazione occidentale del XX secolo o il gozzo nelle regioni alpine fino a qualche decennio fa rappresenterebbero due esempi di normalita` in chiaro contrasto con il buon senso e la fisiopatologia. Nell’ambito del comportamento si potrebbe arrivare a conclusioni parimenti paradossali; potremmo dire che nella Germania degli anni ’30 e ’40 erano indice di normalita` il sentimento antisemita e il culto della “razza ariana”. In ambito medico, proprio per queste ragioni, si tende ad abbandonare il concetto di norma statistica; ad esempio il range di pressione arteriosa da considerare nella norma non e` quello mediamente espresso dalla popolazione, ma quello per cui il rischio di malattie vascolari risulta essere basso. Si e` passati da un criterio statistico ad uno probabilistico in virtu` della proposizione di validi modelli fisiopatologici che dimostrano la correlazione tra i due eventi, iniziale e finale; un approccio del genere, in ambito psicologico, presuppone la definizione di modelli di sviluppo in cui correlare il ruolo di variabili con gli esiti finali; b2) la seconda riguarda l’impossibilita` per l’individuo di introdurre regole nuove, comportamenti e una visione del mondo diversa da quella condivisa senza porsi in un ambito di anormalita`; sappiamo pero` che la storia dell’umanita` e` segnata dall’emergenza di individui di intelligenza e capacita` fuori dalla norma che hanno imposto nuove conoscenze proprio in opposizione a quelle della loro epoca. Un tentativo di superamento del concetto di norma statistica e` la proposizione del concetto di normativita`; per normativita` si intende la capacita` dell’individuo di introdurre nuove norme: e` una “marcia verso la liberta`” (Ey, H.) che solo lo stato di malattia

c)

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puo` ostacolare: in questo senso e` la malattia a mantenere l’individuo nella norma, la malattia intesa come ridimensionamento delle potenzialita` dell’individuo stesso. la norma funzionale e` quella di piu` facile utilizzazione in ambito clinico e puo` essere intesa in due modi: il primo presuppone un giudizio sulla “naturalita`” (alcuni autori parlano infatti di norma naturale) o legittimita` delle aspirazioni dell’individuo prima ancora che sulla capacita` dell’individuo di perseguirli: e` implicito un giudizio di valore che esclude un approccio oggettivo. L’altro modo e` proponibile nella misura in cui siamo in grado di descrivere un modello di sviluppo psichico “funzionale”, ovvero adatto ad un rapporto corretto e creativo con la realta` .

Al pari della crescita somatica, anche lo sviluppo psichico va pensato come un armonico dispiegarsi nel tempo dell’individuo verso la costituzione di una precisa identita`. Lo sviluppo puo` immaginarsi come un processo continuo, indistinto, in cui i momenti trasformativi, discreti, si susseguono quasi impercettibilmente l’uno nell’altro ma anche, ed e` il modo in cui viene normalmente rappresentato dagli studiosi dell’eta` evolutiva, come un processo a tappe il cui superamento e` indispensabile per la qualita` dell’esito finale. In questa seconda ottica, se e` possibile pensare ad un’analisi in itinere della crescita psichica come verifica del superamento delle specifiche tappe evolutive in relazione all’eta` anagrafica, e` nell’individuo adulto che si potra` verificare l’esito complessivo di tale processo. Il primo problema che si pone e` quello che riguarda l’elaborazione di un modello teorico valido e universale (la cui validita`, cioe`, non sia limitata alla cultura che lo produce: cultura sia storica e geografica che psicologica). Mentre per lo sviluppo somatico e` piu` facile sia identificare dei parametri e stabilire il ruolo delle variabili che definire le caratteristiche finali dello sviluppo “normale”, per lo sviluppo psichico, anche per la difficolta` di definire il risultato ottimale, risulta piu` difficile definire gli aspetti intermedi. Una condizione intermedia di crescita e` normale o

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patologica dipendentemente dalle conseguenze funzionali: la displasia congenita dell’anca manifestera` con evidenza, nella successiva lussazione e nella conseguente zoppia, la sua anormalita`. Stabilire dei correlati specifici tra anomalie funzionali dell’apparato psichico e particolari momenti patogenici dello sviluppo presuppone la conoscenza di numerosi parametri di valutazione: i modelli piu` noti dello sviluppo psichico prendono in considerazione soprattutto gli aspetti motori e cognitivi della vita del bambino, aspetti strettamente correlati con lo sviluppo neurologico, piu` che con quello psicologico. Un altro aspetto e` quello che riguarda le variabili: possiamo distinguere variabili naturali, in realta` abbastanza stabili nel tempo, e variabili culturali/relazionali. Le seconde comprendono sostanzialmente le modalita` e i contenuti del rapporto con gli adulti significativi sia nella specificita` di quella particolare relazione, sia nella generalita` del contesto culturale in cui il nucleo stesso vive e di cui ripropone le istanze. In questo senso se lo sviluppo psichico e` il complesso risultato di un rapporto dinamico che si instaura tra l’individuo in crescita e l’esterno, in relazione ai suoi bisogni, e` innegabile che la direzione di questo sviluppo verra` data dall’adulto in funzione del concetto di crescita/educazione di cui e` portatore. ` necessario considerare il fatto che esiste un E range assoluto di variabilita` che ha il suo limite superiore nella piu` piena espressione, in un individuo ideale, dello stadio evolutivo attuale dell’uomo. All’interno di questo limite le potenzialita` di ogni singolo individuo, in virtu` di condizioni costituzionali e relazionali piu` o meno favorevoli, potranno trovare un diverso grado di attuazione o, nei casi sfavorevoli, un grado insufficiente che rappresentera` la condizione di anormalita`. Per meglio chiarire questo concetto possiamo utilizzare un esempio medico: lo sviluppo staturale. Sappiamo che l’altezza media della popolazione occidentale e` andata incrementandosi negli ultimi decenni di parecchi centimetri. Questo ci induce a pensare che il miglioramento delle condizioni ambientali, e quindi alimentari, igieniche etc., e` stato in grado di far esprimere potenzialita`

di crescita che le precedenti condizioni, complessivamente sfavorevoli, mantenevano espresse in maniera ridotta: non riconosciamo quindi nella statura mediamente piu` bassa delle generazioni precedenti un’anomalia, ma una diversita` di sviluppo di potenzialita` primarie (genetiche) rimaste invariate. Quindi fattori o variabili esterne sono in grado di modulare l’attuazione di queste possibilita`. Di fronte ad un individuo di bassa statura che si pone ai limiti della curva di Gauss per la distribuzione di frequenza dell’altezza in una determinata popolazione dovremmo chiederci se e` la conseguenza di uno sviluppo francamente patologico (ad esempio, come esito di una precoce attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi e precoce ossificazione delle cartilagini di accrescimento), se e` la conseguenza di una crescita comunque sana ma avvenuta in condizioni sfavorevoli o se l’assetto genico di partenza (es: genitori molto bassi) esprimeva una potenzialita` limitata. Possiamo provare a ragionare per analogia sul piano psicologico e definire tre possibilita` di sviluppo: •





uno sviluppo complessivamente soddisfacente in cui le potenzialita` primitive vengono portate ad un livello di attuazione qualitativamente e quantitativamente valido; uno sviluppo parzialmente inibito per delle potenzialita` che non trovano una loro piena attuazione. La possibilita` di cogliere il momento in cui la condizione sfavorevole e` iniziata comporta sia la possibilita`, a patologia conclamata, di risalire al periodo di sviluppo maggiormente inibito, sia di attuare una prevenzione cercando di modificare l’ambiente se questo si evidenzia come particolarmente patogeno. Per rimanere nell’ambito delle analogie con disturbi somatici, questa prevenzione corrisponde ad una terapia che blocchi l’asse ipotalamo-ipofisigonadi nel caso si accerti la patologica tendenza ad una ossificazione precoce delle cartilagini; la terza evenienza e` quella in cui vi e` un deficit delle potenzialita`: l’universo relazionale dell’individuo in crescita si dimostra gravemente insufficiente e favorisce l’anchi-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

losi delle potenzialita` stesse. In questo caso le possibilita` di recupero tardivo sono scarse. Per tornare all’esempio e` come se si lasciassero ossificare completamente, alla puberta`, le cartilagini di accrescimento, precludendo ogni possibilita` di crescita e di intervento terapeutico. Le psicosi rappresentano il paradigma di questo sviluppo che definiamo difettuale; resta da definire quanto l’annullamento delle potenzialita` non si correli ad un ` importante sottolineare deficit iniziale. E che non soltanto lo sviluppo psichico va favorito e non ostacolato, ma soprattutto che qualora cause traumatiche agiscano a lungo nei primi anni di vita si hanno deficit irreversibili. Emblematici gli esempi noti in letteratura (ma anche le cronache ci riferiscono spesso di questi casi) di bambini abbandonati o vissuti in condizioni di segregazione o allevati da animali selvatici, ad es.: le due bambine Amala e Kamala trovate in India, che erano state allevate da un branco di lupi, Vittorio, il bambino selvaggio dell’Areyron, catturato nella foresta di Torn nel 1799 e seguito dal dottor Itard. In questi casi si e` dimostrato che, malgrado gli sforzi terapeutici, il deficit di sviluppo rimane irrecuperabile proprio per l’atrofizzazione di quel nucleo di potenzialita` non espresse nei tempi fisiologici dello sviluppo. Per riassumere quanto detto fino a questo punto, possiamo individuare tre coppie concettuali per le tre situazioni esposte: potenzialita` espresse-benessere psichico=salute mentale; potenzialita` inibite-sviluppo conflittuale=patologia mentale; potenzialita` non attivate-sviluppo difettuale= patologia mentale grave. Per esprimere un giudizio di salute o di patologia dobbiamo tenere presente un modello di sviluppo psichico che possa essere esplicativo delle varie patologie. In un altro capitolo (vedi cap. 7) e` stata proposta una serie di modelli che spesso sono molto ` diversi o addirittura incompatibili tra di loro. E necessario pertanto proporre un modello che, te-

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nendo conto delle piu` recenti acquisizioni, sia soprattutto coerente ed esplicativo delle varie sindromi psichiatriche. Brevemente riportiamo alcuni elementi del modello complementare di sviluppo elaborato da N. Lalli nel 1991 e che verra` esposto nel capitolo successivo. Questo modello sara` il punto di riferimento per la spiegazione e la comprensione delle varie sindromi psichiatriche (vedi la voce ‘‘psicodinamica’’ delle varie patologie).

5. Per un modello complementare dello sviluppo psichico Un modello che ha l’intento di superare i limiti di quelli gia` proposti e che nel contempo prende in considerazione le acquisizioni ottenute da autori diversi, spesso messe in opposizione le une alle altre, e` quello che verra` proposto di seguito. Questo modello puo` essere definito complementare, nel senso che tiene conto sia degli aspetti pulsionali che quelli delle relazioni oggettuali, in una visione che integra le componenti esogene ed endogene all’individuo. ` necessario pero` ridefinire alcuni aspetti E delle pulsioni poiche´ cosı` come esse vengono proposte nella teoria freudiana risulta difficile valorizzare gli aspetti relazionali dello sviluppo: l’avvicinamento e il successivo allontanamento dall’oggetto risultano infatti processi automatici, condizionati esclusivamente dalla dinamica pulsione-scarica. Dobbiamo postulare l’esistenza di una dimensione istintuale-pulsionale che permette all’individuo sia l’avvicinamento all’oggetto sia il successivo allontanamento. Questa dimensione istintuale deve essere intesa come la possibilita` stessa alla relazione: deve avere caratteri di plasticita` perche´ deve permettere all’individuo di adattarsi alla enorme variabilita` dell’ambiente umano, inteso come universo delle relazioni possibili (N. Lalli, 1991). Alla nascita le valenze istintuali sono predominanti proprio perche´ il bambino non ha ancora imparato a confrontarsi con una realta` esterna complessa; d’altra parte la scarsa specificita` degli

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istinti della nostra specie favorisce processi di apprendimento molto articolati che non trovano riscontro negli altri animali. Si puo` immaginare che il bambino inizialmente si relazioni con l’altro da se´, in virtu` di due istinti: quello libidico, che permette l’attaccamento e quello di morte come sparizione dell’oggetto frustrante. Durante la vita intrauterina il feto e` in uno stato di simbiosi con la madre determinato dalla contiguita` pelle-utero; non esiste la sensazione del se´ come altro dal non se´, proprio perche´ lo sviluppo avviene in una dimensione omogenea e costante. La nascita rappresenta il primo momento di separazione e con essa compare il vissuto della propria individualita` e, allo stesso tempo, del mondo esterno. Il prendersi cura del bambino da parte della madre o di un altro adulto segna allo stesso tempo un momento di continuita` (il contatto somatico attraverso gli stimoli tattili e termici ad esso correlati) ma anche di novita`, proprio perche´ il bambino percepisce la discontinuita` di questo rapporto e la possibilita` che non sia soddisfacente. Un tale vissuto puo` quindi indurre un desiderio di sparizione a vantaggio di un recupero, nel ricordo, della dimensione precedente. Queste dinamiche rafforzano comunque la percezione del proprio se´ e offrono all’apparato psichico la possibilita` di strutturare vissuti complessi, emozioni, memoria: di essere qualcosa di piu` di un nucleo pulsionale. Si comincia a prefigurare la sensazione di un contenitore: e` l’apparato psichico che, prendendo coscienza di se´, comincia a strutturarsi per arrivare, nel tempo, alla complessita` dell’individuo adulto. Se il polo pulsionale ha queste caratteristiche di dualita`, intese come possibilita` di investimento sessuale di un oggetto e di separazione da quest’ultimo, possiamo immaginare la crescita come un continuo superamento delle modalita` relazionali gia` acquisite, nella direzione di un loro arricchimento (N. Lalli, 1991). Ogni crisi che viene superata segna un salto qualitativo (maturativo) nel processo di apprendimento delle capacita` relazionali, ogni tappa d’arresto rafforza le modalita` gia` acquisite, rappre` proprio sentando un momento di regressione. E

nei momenti di crisi che il ruolo esterno di chi si prende cura del bambino assume un’importanza fondamentale: facilitare la maturazione significa spingere il bambino verso l’autonomia, ostacolarla significa mantenerlo in uno stato inadeguato di dipendenza. Lo sviluppo ha, quindi, due caratteristiche fondamentali: •



di circolarita` in quanto gli istinti, naturalmente portati ad investire nel mondo esterno, vengono attivati dagli oggetti che ne svelano (cioe` attuano) le potenzialita`: e` il concetto di epigenesi. A loro volta gli oggetti, investiti di significato, sono in grado di modulare le forze pulsionali e condizionare lo sviluppo, sia normale che patologico; di linearita` in quanto, immaginando un ideale vettore che rappresenti la vita di un individuo, sulla direttrice dello sviluppo si puo` procedere in avanti verso la crescita o tornare indietro, in senso regressivo. Linearita` non significa continuita`: si procede comunque per crisi, intese come momenti nodali in cui condizioni oramai inadeguate (sia per quel che riguarda la modalita` dell’investimento pulsionale che l’oggetto di relazione) debbono essere superate altrimenti rappresentano una tappa d’arresto.

Riassumendo quanto e` gia` stato proposto, si puo` dire che, in linea teorica, perche´ lo sviluppo abbia luogo in maniera adeguata, e` necessario che si realizzino una serie di condizioni: 1) 2)

3)

che le potenzialita` istintuali siano presenti; che il mondo esterno, rappresentato dalle figure che si prendono cura del bambino, sappia interagire in maniera ottimale al fine di attivare queste potenzialita`; che ogni crisi, conseguentemente ad una dialettica corretta tra pulsioni e relazioni oggettuali, venga superata nella direzione della crescita.

L’individuo psicologicamente sano e` quello che, al termine di tale processo, pur strutturato in un carattere particolare ed influenzato dalla specificita` dell’ambiente nel quale ha vissuto, mani-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

festa una capacita` critica, un costante senso della realta` e una dimensione creativa continua. Sono quasi sempre le situazioni traumatiche a mettere in evidenza la “sanita`” della struttura psichica (risposta coerente e superamento della crisi) o la sua inadeguatezza (emergenza di sintomi nevrotici: rituali ossessivi, fobie, ritiro depressivo ecc.). Resta da stabilire quali sono i limiti di tolleranza al trauma oltre i quali anche l’individuo normale perde la sua integrita` psichica: poter stabilire questa soglia significa comprendere in quale punto di quella continuita` normalita` patologia si puo` segnare il territorio di confine tra queste due condizioni. Anche se le procedure sperimentali non possono riprodurre condizioni di trauma che siano sovrapponibili a quelle “naturali” (per ovvie ragioni, sia pratiche che etiche), e` possibile trarre qualche conclusione prendendo in considerazione la letteratura prodotta da persone, spesso da specialisti, che hanno esperito quelle che Bettelheim ha definito situazioni estreme. L’esperienza terribile dei lager nazisti ha messo in evidenza una serie di elementi di cui il piu` importante sembra essere il seguente: che nella condivisa situazione di totale deprivazione affettiva e di completo disconoscimento della stessa dimensione umana, individui diversi reagiscono in maniera diversa. Nello spettro dei vissuti psichici e dei comportamenti, due sembrano essere paradigmatici nella loro diversita` proprio per le contrapposte dinamiche che sottendono: l’adattamento e l’adeguamento. Possiamo definire con il termine adeguamento la situazione in cui l’individuo, pur non accettando le costrizioni ambientali in cui vive, ma non potendo neanche rifiutarle perche´ imposte in maniera coercitiva, ripone nel futuro la possibilita` di un cambiamento e si piega formalmente alle regole senza condividerle. Presupposti dell’adeguamento sono quindi: il senso della realta` (impossibilita` attuale di modificare l’ambiente), la speranza (come possibilita` di differire il momento trasformativo) e, soprattutto, l’esistenza di una identita` ben strutturata che l’individuo difende, mantenendo vive le istanze ideali. L’adattamento e` il risultato, invece, di un profondo lavoro di trasformazione operato dall’am-

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biente sull’individuo che finisce con l’identificarsi con le regole e con le figure autoritarie che le impongono; e` evidente che i presupposti di cui abbiamo parlato sopra, in special modo l’esistenza di una identita` ben strutturata, sono deficitari. Non e` un caso che nei campi di concentramento quelli che “reggono meglio”, per usare una espressione di Bettelheim, sono gli individui che gia` nel periodo precedente della loro vita hanno manifestato, aderendo a movimenti politici progressisti o alla Resistenza (ma anche ai gruppi scout), una forte carica ideale e un anelito a trasformare la realta`. Emblematica di un processo di adattamento totale e` la figura del Kapo`: e` la vittima che diviene aguzzino del proprio compagno di prigionia, in un processo di identificazione con l’aggressore. Al di la` di queste due particolari modalita` di risposta, l’esperienza dei campi di concentramento ha evidenziato che in eccezionali condizioni di violenza psichica e fisica quello che avviene con piu` facilita` e` l’annichilimento della personalita` dell’individuo, costretto a morire, prima che di stenti e di privazioni materiali, per l’annullamento della speranza di poter essere di nuovo riconosciuto nella propria dimensione umana. Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda al capitolo “Psicopatologia da situazioni estreme”.

6. Conclusioni In un rapido excursus abbiamo cercato di delineare i principali nodi attinenti al problema della normalita` e della patologia in generale e in particolare in psichiatria. Sembra evidente che, per quanto questi concetti possano essere complessi e difficili, e` necessario darne una definizione, soprattutto quando ci troviamo in ambito clinico ovvero in un campo ove e` necessario porre non solo una diagnosi, ma anche una terapia. Non e` un caso che tutti gli autori che hanno ritenuto possibile sfuggire a questo problema si sono ritrovati poi nell’impossibilita` di definire qualsiasi modalita` d’intervento: al massimo ci si poteva limitare ad una discussione piu` o meno

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

brillante, piu` o meno articolata sul caso clinico. ` evidente, d’altro canto, la pericolosita` del E concetto di normalita` e di come questa normalita` massificata possa essere di per se stessa segno di patologia. Per questo motivo ci e` sembrato necessario, per evitare la duplice trappola o del nichilismo terapeutico o della ideologia dominante come segno di normalita`, riproporre il concetto di salute mentale. Per salute mentale intendiamo lo sviluppo normale delle potenzialita` dell’individuo che puo` essere evidenziato dal comportamento, dal vissuto soggettivo e dall’assetto intrapsichico del soggetto. Il range della salute mentale puo` essere abbastanza ampio fino ad un limite oltre il quale si puo` evidenziare la patologia: patologia psichica che puo` essere acuta o cronica, conflittuale o difettuale. Un altro problema importante, a lungo dibattuto e non certamente risolto, e` se la patologia psichica debba essere considerata come un continuum che va dalla normalita` alla psicosi, o se invece le varie situazioni sono non solo distinguibili dalla normalita`, ma anche diverse tra di loro. Nel primo caso viene proposta una psicopatologia definita modale, nel secondo caso categoriale. Per esempio, mentre il modello psicoanalitico e` modale, quello del DSM-IV e` categoriale. Come dicevamo, e` un problema aperto: comunque riteniamo che se da una parte e` concepibile pensare che non ci sia un taglio netto tra normalita` e patologie conflittuali, non altrettanto puo` dirsi per le psicopatologie piu` gravi.

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7 Teorie dello sviluppo psichico* Nicola Lalli Parole chiave deficit; conflitto; stadi di sviluppo; senso-motorio; pre-operatorio; operatorio concreto; operatorio formale; zone erogene; stadi psicosociali; attaccamento; imprinting; narcisismo; Se´ grandioso; infant-research

Lo studente del corso di laurea in Medicina al V anno, improvvisamente, si trova a studiare una clinica — quella psichiatrica — non avendo compiuto alcuno studio propedeutico. ` comprensibile quindi la difficolta` non solo E di inserirsi nello spirito di questa disciplina, ma soprattutto di cogliere il significato di molti concetti come personalita`, sviluppo psichico, crisi ecc. Pertanto ho ritenuto necessario proporre una panoramica ampia, ma sintetica, delle principali teorie dello sviluppo psichico per dimostrare non solo come a monte della clinica ci sono studi ed

* La dott.ssa A. Marzo ha collaborato alla parte del capitolo relativa all’opera di J. Piaget.

osservazioni che rendono possibili la comprensione e la spiegazione delle varie sindromi, ma anche per evidenziare come possono esserci disaccordi su alcuni punti nodali dello sviluppo psichico. Da Piaget a S. Freud, da M. Klein alla infant research, troviamo spesso notevoli contrasti: e` utile che il lettore ne sia informato. Come sara` utile proporre successivamente un modello unico di sviluppo psicodinamico che possa render conto anche della genesi e della patologia (vedi cap. 8). * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Introduzione Costruire un modello unico e completo dello sviluppo psichico e` sempre stato il sogno di numerosi ricercatori. Conoscere con sicurezza le caratteristiche delle varie fasi di sviluppo sarebbe utile sia in campo pedagogico che clinico, perche´ permetterebbe non solo di adottare comportamenti e programmi adeguati da parte dei genitori e docenti, ma anche di distinguere precocemente normalita` e patologia. Nonostante l’impegno ed i molteplici dati raccolti, questo progetto non e` stato mai realizzato: i singoli Autori hanno descritto modelli parziali di sviluppo, privilegiando alcune componenti e tralasciandone altre. Ritengo utile proporre le teorie piu` interessanti, ognuna delle quali e` costituita da un insieme di assunti di base, di ipotesi, di verifiche, ma soprattutto da un metodo di ricerca. Per studiare lo sviluppo psichico del bambino esistono fondamentalmente due metodi. Il primo osserva direttamente il bambino sul campo, ossia in situazioni di normalita` e nell’ambiente in cui egli vive. Il secondo utilizza il cosiddetto “bambino clinico”; dalla patologia dell’adulto si risale all’organizzazione psichica del bambino ed al modo in cui essa si struttura. Prima di esporre alcuni dei principali modelli, e` importante tener presente che esistono quattro punti fondamentali, che rappresentano da sempre fonte di controversie. 1.1. Natura-Cultura Natura-cultura, dilemma secolare di pertinenza prima dei filosofi, diventato oggi tema ricorrente in varie discipline scientifiche. Qual e` l’importanza del patrimonio genetico e quindi dell’ereditarieta`, nel determinare lo sviluppo e la diversita` di un individuo? Qual e` e quant’e` invece l’importanza dell’ambiente? Certamente l’ereditarieta` e` evidente nel campo delle attitudini: tutti sanno che la famiglia Bach ha generato ottimi compositori per ben sette generazioni, fino al piu` illustre Johan Sebastian Bach. In questo caso, i fautori dell’ipotesi ambientalistica

sostengono che la continuita` dell’attitudine possa spiegarsi in termini culturali-ambientali. I Bach, fin dalla tenera eta`, sono vissuti in un ambiente musicale e gia` a 3-4 anni veniva loro insegnato l’uso di uno o piu` strumenti musicali. D’altra parte e` di frequente riscontro trovare figli di persone geniali o particolarmente dotate, che presentano uno sviluppo psichico normale o addirittura inferiore alla media, per cui la genialita` e` forse il felice connubio di numerose combinazioni. Gli Autori favorevoli alla visione sociale e culturale dello sviluppo psichico sostengono che l’ereditarieta` e` ben poca cosa e che l’uomo mai si svilupperebbe se non fosse costantemente circondato dalla cultura e dai rapporti sociali. Molti propongono come esempio paradigmatico rari casi di bambini cresciuti nella foresta e ritrovati successivamente, ai quali e` stato impossibile insegnare il linguaggio ed un comportamento adeguato, in quanto il quoziente intellettivo risultava assolutamente inferiore alla media e non modificabile nonostante i notevoli sforzi dei pedagoghi. Gli studiosi di antropologia culturale e di etnopsichiatria, dopo aver superato l’ottica europocentrica che considerava la nostra cultura come cultura-tipo e aver accettato l’originalita` e la validita` di altre culture, proprio sulla base della diversita`, ritengono che la personalita` sia totalmente influenzata dalle modalita` educative, dalle abitudini e dai valori sociali. T. Nathan ritiene che la personalita` sia una struttura specifica di origine sociale: l’emergere dell’apparato psichico, continua l’Autore, e` possibile grazie al contenitore culturale: «....pertanto la cultura e` il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano». Senza giungere a questi estremismi, l’ambiente ha certamente un’importanza patoplastica per lo sviluppo psichico. La controversia tra natura e cultura rischia, se estremizzata, di rimanere irrisolta.

1.2. Animalita`-Umanita` L’uomo giustamente si considera come la specie piu` evoluta fra gli esseri viventi. Il problema

Teorie dello sviluppo psichico

centrale, accettando ovviamente la teoria evoluzionistica, rimane se l’uomo e` un primate che ha sviluppato, sotto la pressione selettiva, capacita` quantitativamente o qualitativamente diverse. Sappiamo che l’uomo si distingue dagli altri animali per la postura eretta, per la visione (tridimensionale e cromatica), per la trasformazione del faringe in laringe che ha dato luogo alla fonazione e quindi al linguaggio, per le capacita` estremamente raffinate della mano: nell’homunculus di Penfield la mano rappresenta il 25-30% della corteccia motoria. L’uomo possiede molteplici capacita` non necessariamente legate alla sola struttura morfologica, capacita` che nessun animale possiede, come l’anticipazione del futuro, il senso della morte, la fantasia, la creativita`, l’inconscio. Tutto questo probabilmente e` dovuto allo sviluppo del S.N.C., sviluppo che anche in questo caso e` piu` qualitativo che quantitativo. La corteccia cerebrale del macaco e` solamente il 2% in meno di quella dell’uomo, ma l’uomo possiede il 25% in piu` di centri associativi. Tutto questo inevitabilmente ci induce a considerare l’uomo come un primate che staccatosi da un ceppo comune, milioni di anni fa, ha subı`to dapprima una lenta crescita e poi negli ultimi 800.000 anni improvvisamente una crescita esponenziale delle capacita` e possibilita`, legate alla sempre maggiore complessita` del S.N.C. Accanto a queste qualita`, l’uomo paga un prezzo: la follia. ` questa peculiarita` umana che rende impossiE bile utilizzare gli animali per studiare le tappe evolutive dell’uomo, le malattie mentali o sperimentare eventuali psicofarmaci e che rende totalmente aleatori tutti gli esperimenti compiuti sugli animali per comprendere la vita psichica dell’uomo.

1.3. Continuita`-Discontinuita` Una ulteriore domanda che ci poniamo e` se l’uomo si sviluppa per gradi, quindi in maniera continuativa, oppure per crisi. Lo svezzamento, la deambulazione, l’acquisizione del linguaggio, la puberta`, sono considerate

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crisi di sviluppo, ossia momenti estremamente significativi e delicati dell’eta` evolutiva. ` probabile che esista una discontinuita` evoE lutiva che presenti peculiarita` complesse e non sempre definibili. Il problema della discontinuita` si osserva, anche in eta` adulta, ma e` legato a fattori socioeconomici: l’orologio biologico, ovvero il tempo del ciclo biologico dell’uomo e l’orologio culturale, ovvero l’evoluzione psicologica e lavorativa, non sempre sono sincronizzati fra loro, e determinano spesso situazioni di malessere o di crisi. Basti pensare all’adolescenza prolungata, alla donna psicologicamente matura per avere figli, ma biologicamente in eta` avanzata, oppure alla cosiddetta crisi della “mezza eta`”.

1.4. Deficit-Differenza Questo concetto rinvia a quello piu` complesso della normalita` (vedi cap. 6). Sicuramente possiamo affermare che non esiste un percorso evolutivo universale. Ma se non esiste un tale percorso, non e` nemmeno accettabile che possano esistere tanti percorsi evolutivi diversi quanti sono gli individui. L’importante e` cercare di evidenziare se la differenza e` tale da rientrare nella variabilita` della norma o e` invece sintomo di un deficit e, come tale, segno di una malattia o di una imperfezione. * * * Molto sinteticamente ho esposto alcune delle tematiche centrali riguardanti il problema dello sviluppo psichico. Ora sorge il problema di come proseguire per proporre uno schema che sia chiaro, plausibile e didattico insieme. Si potrebbe prendere come punto di riferimento l’eta` ed in base ad essa esporre le diverse teorie, ma a causa della grande differenza tra gli Autori cio` potrebbe creare solo confusione. Ho preferito riassumere le principali teorie, cercando di coglierne poi le eventuali incongruenze. Ogni teoria privilegia un aspetto particolare dello sviluppo psichico. J. Piaget privilegia lo sviluppo delle capacita` logiche; Erikson le valenze

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

psicosociali, la psicoanalisi ortodossa l’importanza delle zone erogene e dei meccanismi difensivi; altri Autori invece le motivazioni (Maslow) o il problema dell’attaccamento (Bowlby).

2. J. Piaget

2.1. Introduzione Il pensiero di J. Piaget, nonostante le numerose critiche, continua a rimanere un punto fermo per la comprensione dello sviluppo mentale del bambino, argomento a cui l’Autore ha dedicato, da solo e poi in e´quipe, decenni di ricerca. Il pensiero del bambino presenta modalita` e processi profondamente diversi da quelli dell’adulto e si sviluppa nel tempo, seguendo tappe abbastanza costanti, per giungere alla complessita` del pensiero operatorio formale. Senza entrare nel merito specifico, ci sembra utile sottolineare quali siano i capisaldi della teoria piagetiana. Il bambino nasce con un patrimonio genetico che costituisce la base dello sviluppo sia biologico che mentale. La crescita avviene nell’incontro tra strategie innate e rapporto con la realta` : da questo incontro, sulla base delle esperienze, le strategie iniziali non solo cambiano, ma diventano sempre piu` complesse. Secondo l’Autore esiste una stretta correlazione tra sviluppo somatico e mentale, sviluppo che si basa su due processi continuamente interagenti tra loro: l’adattamento e l’organizzazione. Il bambino fin dalla nascita e` fondamentalmente un “esploratore”, un soggetto attivo di ricerca che si rapporta con l’ambiente sulla base di due processi: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione e` il processo mediante il quale le nuove esperienze e le nuove informazioni vengono assorbite e poi elaborate in modo da adattarsi alle strutture gia` esistenti. L’accomodamento e` il processo fondamentale che comporta la modificazione delle idee o delle strategie, a seguito delle nuove esperienze. Il bambino, mentre si adatta al mondo, co-

struisce i propri schemi mentali, rendendoli sempre piu` complessi. Descriveremo brevemente gli stadi fondamentali dello sviluppo, suddivisi dall’Autore in sottostadi che corrispondono all’acquisizione di ulteriori schemi operativi: 2.2. Stadio senso-motorio (0-2 anni); 2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni); 2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni); 2.5. Stadio operatorio formale (12 anni in poi). 2.2. Stadio senso-motorio Piaget paragona lo sviluppo mentale del bambino alla sua crescita organica: entrambi tendono verso un progressivo equilibrio. L’azione umana e` una continua ricerca di equilibrio: lo sviluppo psicologico e la crescita del bambino possono essere considerati come stadi di equilibrio successivi, che vanno progressivamente adattandosi alle sue continue scoperte intellettive, sociali ed affettive. Il bambino alla nascita non e` in grado di riconoscere il mondo esterno da quello interno, l’‘‘Io” bambino e` al centro della realta`, in quanto inconsapevole di se stesso e` incapace di compiere una separazione tra soggettivita` e oggettivita` della realta` esterna. Durante i primi mesi di vita, egli non concepisce ne´ percepisce le cose immerse nell’universo esterno come oggetti permanenti, non conosce lo spazio e la causalita`, non ha in altre parole la nozione di oggetto. Per il bambino la percezione esterna e` composta da immagini e suoni che appaiono e scompaiono senza una ragione obiettiva. Inizialmente le cose non esistono “lontane dal proprio campo percettivo”, non c’e` ricerca attiva degli oggetti ne´ il tentativo di ritrovarli, ma attesa passiva che il quadro visivo desiderato ritorni ad ogni suo richiamo. Fra i tre e i sei mesi il fanciullo comincia ad afferrare cio` che vede, coordina la percezione visiva con quella tattile. Egli reagisce inizialmente al movimento dell’oggetto seguendolo prima con gli occhi, poi con lo spostamento laterale della testa. Reagisce inoltre ai movimenti di caduta come

Teorie dello sviluppo psichico

«...non sapesse che egli si sposta per seguire il movimento e, non sapesse, per conseguenza, che il suo corpo e il mobile si trovano nello stesso spazio: basta infatti che l’oggetto non si trovi nell’esatta continuazione del movimento di accomodamento che il bambino rinuncia a cercarlo ... come se il movimento dell’oggetto e le impressioni cenestesiche che accompagnano i movimenti degli occhi, della testa o del busto, siano considerati dal bambino un tutt’uno». Quando perde l’oggetto, l’unico tentativo che compie nella speranza di ritrovarlo e` prolungare i movimenti gia` compiuti, quindi conosciuti, e nel ritornare al punto in cui l’oggetto e` sparito. Egli attribuisce permanenza agli oggetti fintantoche´ riesce a seguirli e a ritrovarli con movimenti semplici. Il fanciullo non concepisce il loro movimento come indipendente dalla propria attivita`, continua a cercare nel punto in cui ha visto sparire l’oggetto, convinto che resti a sua “disposizione”, dipendente dalle sue azioni. Tra i quattro e i sei mesi inizia ad esplorare il luogo in cui l’oggetto e` sparito anche se lontano dal proprio campo visivo. Ricerca con le mani il mobile che non raggiunge con lo sguardo. Non si tratta pero` di una vera ricerca in senso attivo, in quanto il bambino si limita a tendere il braccio, a riprodurre il gesto di afferrare, perche´ l’oggetto e` per lui ancora a “disposizione”. Egli non inventa altri movimenti per cercare l’oggetto sparito, ma ripete quelli conosciuti e interessanti. Quando una parte dell’oggetto e` visibile, egli lo riconosce e lo afferra, ma non compie alcuna ricerca quando l’oggetto e` interamente sparito. Il fanciullo e` ora capace, partendo da una frazione visibile, di ricostruire la totalita` dell’insieme. Egli crede dunque nella materialita` dell’oggetto anche quando esso e` visibile in parte: ma una volta sparito dal proprio campo percettivo, l’oggetto, per il bambino, smette di esistere. Dai cinque ai sette mesi, in realta`, il fanciullo e` capace di allontanare un ostacolo che nasconde l’oggetto, non nel tentativo di ritrovarlo, poiche´ l’oggetto nascosto dietro uno schermo, ma in parte visibile, e` concepito dal bambino non come coperto, ma come pronto ad apparire, e solo l’azione puo` conferirgli una realta` totale. Egli in realta` non fa altro che scartare uno ostacolo che

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si presenta al soggetto e non all’oggetto; cerca, in altre parole, di liberare la sua percezione. L’universo rimane ancora un insieme di immagini che appaiono e scompaiono, ma permangono piu` a lungo, semplicemente perche´ egli prolunga nel tempo le sue azioni. Il fanciullo osserva con crescente interesse i movimenti delle sue mani, mette in rapporto un certo suo gesto con una determinata conseguenza, scopre che la sua mano e` capace di far muovere gli oggetti sospesi. Diventa consapevole delle proprie mani, strumenti reali con le quali poter afferrare gli oggetti e giungere cosı` ad un continuo ed effettivo risultato. Il bambino scopre dunque il senso di efficacia che accompagna la propria attivita` . Con la conquista della prensione prima e della manipolazione poi, il fanciullo si rende conto che il desiderio precede l’effetto atteso. Fino a questo momento causa ed effetto erano su di uno stesso piano, l’universo esterno e quello interno erano indissociabili. Ora il bambino diventa consapevole dell’intenzione, la causa diventa dunque interna, l’effetto esterno. Il fanciullo esamina con grande attenzione le capacita` ed i movimenti delle sue mani, diventando cosciente progressivamente del loro potere sugli oggetti. Egli non si rende ancora conto che le mani appartengono al suo corpo e le considera alla stregua degli altri oggetti. Il bambino e` capace di afferrare, scuotere o tirare gli oggetti ma non stabilisce ancora una relazione tra un determinato gesto e la sua reale efficacia, inoltre non comprende i rapporti spaziali e fisici. Per il soggetto sono i suoi desideri ed i suoi sforzi efficaci nel generare un risultato interessante; «...i legami di causalita` si stabiliscono sempre in occasione di un risultato ottenuto per caso». Quando il bambino impara un gesto che risulta efficace, egli comincia ad applicarlo a tutto, come se quel medesimo gesto fosse efficace, indipendentemente da ogni contatto spaziale e fisico, di riprodurre e di continuare qualsiasi spettacolo interessante, malgrado ripetuti insuccessi. «...Ecco dunque la prova che la causalita` attribuita al gesto non e` ancora una causalita`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

fisica, fondata sui caratteri esterni dell’azione, ma una causalita` per semplice efficacia». Tra i sei e i sette mesi il bambino impara ad imitare, ed utilizza questa nuova conquista per far ripetere agli altri i gesti interessanti. Egli dunque imita un movimento esterno e per farlo deve osservare ed incorporare il gesto. Tra l’ottavo e il decimo mese comincia a cercare l’oggetto scomparso dal proprio campo percettivo, studia gli spostamenti dei corpi e inizia a coordinare l’attivita` visiva con quella tattile. Cio` non significa che abbia acquisito una corretta nozione di oggetto, in quanto continua a conferirgli una posizione assoluta. Se un oggetto viene spostato visibilmente, e poi nascosto, il bambino dopo una breve e superficiale ricerca ritorna nel luogo in cui lo ha cercato precedentemente e ritrovato. Egli ricerca l’oggetto scomparso, non si accontenta piu` di prolungare un gesto di accomodamento, ma conferisce ancora alle cose una posizione privilegiata. L’oggetto resta dunque “a disposizione” in un certo contesto relativo ad una certa azione. Il bambino non attribuisce una struttura obiettiva alle cose che lo circondano, non ha ancora acquisito coscienza delle relazioni di posizione e di spostamento. Tra i nove e gli undici mesi gli oggetti cominciano ad acquisire causalita`, anche se non vengono ` una “causaritenuti ancora indipendenti dall’io. E lita` che tende a spazializzarsi”, ossia “a esteriorizzarsi senza tuttavia distaccarsi dall’io, senza tuttavia dissociarsi ancora dall’efficacia del gesto”. Il bambino capace di afferrare, scuotere e tirare gli oggetti e` in grado ora di allontanare la mano di un’altra persona quando questa trattiene o afferra un oggetto. Tutto cio` indica che il fanciullo considera quella mano estranea al proprio corpo, capace di muoversi indipendentemente dalla sua attivita`. Egli l’allontana per impedire un’azione non voluta, agisce dunque intenzionalmente. Quella mano e` diventata per il bambino autonoma. La causalita` non e` piu` dipendente interamente dalla propria attivita`, il soggetto comincia ora ad attribuire capacita` particolari anche agli altri. Quando il bambino non riesce a riprodurre uno spettacolo interessante, si serve delle mani altrui come intermediari necessari, esercitando su di

esse una leggera pressione per farle muovere e realizzare cosı` il suo desiderio. Egli concepisce dunque le persone come esterne, ma la loro attivita` resta ancora legata ai ` una causalita` intersuoi gesti e ai suoi desideri. E media, in parte obiettiva, in parte spazializzata. Alla fine del primo anno di vita il tempo diventa progressivamente indipendente dall’Io, e` ancora un momento di transizione tra soggettivita` e obiettivita`. Per la prima volta il fanciullo ricorda gli spostamenti dell’oggetto in cui non e` intervenuto: egli ricorda dunque gli spostamenti come tali e non la propria attivita`. Tra la fine del primo anno di vita e la meta` del secondo, il bambino impara a tener conto degli spostamenti visibili successivi, non cerca piu` l’oggetto in posizioni privilegiate. Con la conquista progressiva delle relazioni spaziali, egli lo cerca nel luogo esatto in cui l’oggetto e` stato spostato. Il bambino scopre inoltre il tempo non legato alla sua attivita` ma proprio di tutti gli elementi che compongono l’universo esterno. Per la prima volta si rivela capace di ordinare nel tempo gli avvenimenti esterni percepiti direttamente. Egli e` in grado di rievocare un’immagine mentalmente. Le nozioni di un “prima” e di un “poi” non sono piu` limitate all’azione propria ma estese agli avvenimenti stessi che il bambino prevede e ricorda. Verso la fine del secondo anno di eta` diventa capace di dirigere le sue ricerche grazie alla rappresentazione degli spostamenti invisibili: egli e` ora in grado di dedurli e di percepirli. Riesce ad immaginare l’itinerario dell’oggetto anche quando esso e` invisibile. La sua permanenza non obbedisce piu` all’azione del soggetto ma a leggi indipendenti dall’io. La ricerca dell’oggetto diventa dunque cosciente. Esso «e` concepito come identico a se stesso qualunque siano i suoi spostamenti invisibili o la complessita` degli schermi che lo nascondono». La vera rappresentazione ha inizio nel momento in cui il soggetto puo` immaginare l’itinerario dell’oggetto, anche senza percepirlo. Il fanciullo e` ora capace di rievocare i ricordi non legati alla percezione diretta. Grazie alle rappresentazioni e alla memoria di rievocazione, egli e` in grado di ricostruire mentalmente un’im-

Teorie dello sviluppo psichico

magine. «Per mancanza di rappresentazioni propriamente dette, il tempo... rimaneva necessariamente legato alle percezioni attuali, ai ricordi pratici sorti dall’azione recente e alle anticipazioni dovute all’azione in corso». Ma non appena l’assimilazione mentale si e` liberata dalla percezione diretta e puo` funzionare senza appoggio esterno, «le immagini.... si prolungano da se stesse nel futuro e nel passato sotto

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forma di rappresentazioni». Il ricordo dunque non e` soltanto un ricordo pratico dettato dall’esperienza, ma il ricordo dell’attivita` propria che permette al bambino di situare nel tempo e tra gli altri elementi dell’universo esterno la sua attivita`. Data l’importanza e la complessita` dei notevoli cambiamenti durante lo stadio senso-motorio, e` utile fornire una tabella riassuntiva.

Fasi dello stadio senso-motorio Mesi

Fasi

Sviluppo della nozione di oggetto

Sviluppo della causalita`

Costruzione del tempo

Intelligenza senso-motoria

0-3

I-II

Nessuna condotta particolare relativa agli oggetti spariti.

Non stabilisce nessi di causalita`.

Capace di coordinare nel tempo i movimenti e le percezioni. Esegue atti in ordine temporale.

Esercizio dei riflessi. Integrazione tra visione, suzione, udito e fonazione.

3

III

Inizio di permanenza dell’oggetto come prolungamento dell’attivita` del bambino. Nessuna reazione alla scomparsa dell’oggetto. L’oggetto e` a ‘‘disposizione’’.

Causalita` magico-fenomenistica. Scopre che la sua mano puo` muovere gli oggetti. Scopre l’efficacia del gesto.

Il tempo comincia ad applicarsi alla successione dei fenomeni. Nozione del ‘‘prima’’ e del ‘‘poi’’ relativi alla sua attivita`. Inizia a localizzare i ricordi nel tempo.

Inizia la prensione e la coordinazione della percezione visiva con quella tattile. Non riesce sempre ad afferrare l’oggetto apparso nel campo visivo.

4

III

Ricostruisce l’oggetto visibile parzialmente

/

/

Riesce a fissare gli occhi su oggetti vicini e lontani.

5-7

III

E` capace di allontanare l’ostacolo che nasconde l’oggetto.

Impara ad imitare. L’attivita` degli altri dipende dalla ‘‘sua’’.

/

Punta un oggetto e lo afferra. Riconosce gli oggetti familiari. Passa un oggeto da una mano all’altra.

8-12

IV

Ricerca attivamente l’oggetto scomparso, senza tenere conto della successione degli spostamenti visibili. L’oggetto e` ancora a ‘‘disposizione’’. Cerca l’oggetto in una posizione privilegiata: nel luogo trovato precedentemente.

Inizio di concetto di causalita`: causalita` intermedia, in parte obiettiva, in parte spazializzata. Oggetti e persone sono in parte autonomi, in parte dipendenti dalla sua attivita`.

/

Afferra il bicchiere e beve.

12-18

V

Tiene conto degli spostamenti visibili successivi. L’oggetto visibile diventa permanente e indipendente.

Oggettivazione e spazializzazione della causalita`.

/

Emerge la capacita` inventiva di fronte a situazioni nuove.

18-24

VI

Rappresentazione degli spostamenti invisibili. La ricerca dell’oggetto diventa cosciente. Immagina l’itinerario dell’oggetto invisibile.

Causalita` rappresentativa.

Sviluppo delle rappresentazioni temporali. Memoria di rievocazione.

Prevede e progetta.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni) Dallo schema precedente possiamo evidenziare i cambiamenti e le capacita` acquisite dal bambino alla fine del secondo anno di vita, alle quali si aggiungono, ora, la deambulazione, il riconoscimento di Se´ ed il linguaggio.

2.3.1. Il riconoscimento di Se´

A circa sei mesi il bambino riconosce le persone familiari e la loro immagine riflessa allo specchio. Questa capacita` si evidenzia sia dalla reazione di giubilo alla comparsa dell’immagine, sia dalla reazione di stupore alla sua scomparsa. Numerosi Autori hanno studiato questo fenomeno. Data la sua importanza riteniamo opportuno proporre una visione unica e completa che rappresenti la sintesi di vari Autori, quali Zazzo R., M. Lewis ecc. Riportiamo, inoltre, delle semplici sperimentazioni per evidenziare il suo evolversi. L’apparato strumentale utilizzato e` piuttosto semplice: un vetro, uno specchio ed una coppia di gemelli monozigoti. Fino a 12 mesi le reazioni del bambino di fronte allo specchio o ad un vetro dietro il quale si trova il gemello sono simili. Il bambino cerca di toccare o raggiungere sia la propria immagine che ` evidente che il fanciullo non e` quella dell’altro. E in grado di distinguere la propria immagine dalla percezione dell’altro: il che implica un non riconoscimento di se´, e soprattutto l’impossibilita` di concettualizzare lo spazio virtuale. A 12 mesi il bambino, davanti allo specchio, mostra un comportamento singolare: comincia ad osservare sia le parti del proprio corpo visibili (in genere le mani), sia l’immagine di queste nello specchio, e c’e` un primo abbozzo di riconoscimento, anche se parziale. Intorno ai 20-22 mesi questo comportamento scompare, e ne appare un altro. Il bambino guardandosi mostra una reazione di evitamento, come se percepisse qualcosa di strano: l’immagine di se´, o di un qualcuno che compie i suoi stessi movimenti. Questa reazione e` dovuta ad una elevata consapevolezza ceneste-

sica: il bambino e` perplesso di fronte ad un altro che compie esattamente i suoi movimenti. Cio` suggerisce che a questa eta` il fanciullo abbia gia` una precisa concezione del proprio corpo, mentre non ha ancora acquisito quella dello spazio virtuale, tanto e` vero che presenta il fenomeno dell’aggiramento. Ovverosia il bambino, dopo essersi guardato allo specchio, lo aggira per guardare se vi sia qualcuno dietro di esso. L’evitamento e l’aggiramento scompaiono nell’arco di uno o due mesi ed in genere all’eta` di 24 mesi il bambino raggiunge una consapevolezza di se´ tale da permettergli il riconoscimento di se stesso allo specchio: a questa eta` ricompare lo stesso giubilo che era apparso a 6 mesi di fronte all’immagine dell’altro. Questo stadio e` dimostrato da due prove: la piu` interessante e` la prova della macchia. Se al bambino viene fatta una macchia sul viso, inizialmente egli cerca di toglierla sull’immagine allo specchio1. Verso i 24 mesi, al contrario, vedendo la stessa macchia sul viso, passa la mano su di essa. Questo comportamento non indica ancora la formazione di un concetto di spazio virtuale come diverso da quello reale: se il bambino viene messo davanti allo specchio e alle sue spalle sopraggiunge un familiare, egli tende a muoversi verso l’immagine riflessa. Solo all’eta` di 30 mesi tendera` a girarsi per guardare alle sue spalle. A questa eta`, dunque, il bambino ha la piena consapevolezza di se´ e riesce a vedersi con gli occhi dell’altro. Per avere una corretta immagine di se´, il fanciullo deve acquisire una corretta concezione dello spazio e degli altri oggetti. Si deve dunque pensare che l’operazione di riconoscimento di Se´ non sorga all’improvviso, ma sia frutto di un lungo processo di elaborazione, che puo` essere sottoposto ad ulteriori rimaneggiamenti, non solo per eventuali deficit (fissazioni), ma anche per l’acquisizione di nuove capacita`. La prova piu` evidente e` l’esperimento con il video. Il bambino ripreso da una telecamera vede la sua

1 L’esperimento della macchia e` stato ideato e realizzato nel 1979 da M. Lewis e da J. Brooks-Gunn.

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immagine sul video, immagine che ha una caratteristica: e` antispeculare. All’eta` di 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video. Piu` tardi, in genere verso i quattro anni, egli mostra qualche difficolta` a riconoscersi al video. ` una regressione? Come mai? E Secondo Zazzo non si tratta di una regressione ma di una maggiore capacita` osservativa e critica. Ovverosia il bambino a 24-30 mesi si riconosce globalmente, sulla base della sua immagine corporea. Successivamente acquisisce una capacita` discriminatoria ulteriore che gli permette di capire con un certo imbarazzo che l’immagine che osserva e` sua, ma antispeculare. Questa osservazione pone un problema centrale dello sviluppo psichico. Cioe` non solo che una funzione si sviluppa per gradi, ma soprattutto che una funzione sviluppata puo` essere momentaneamente messa in crisi dal sopraggiungere di funzioni piu` elevate.

2.3.2. Lo sviluppo del linguaggio

Con l’apparire del linguaggio la vita affettiva del bambino ed il suo pensiero si modificano profondamente. Egli e` ora capace di raccontare le azioni passate e di anticipare quelle future, trasformando in tal modo le condotte concrete in pensiero. L’azione da puramente percettiva e motoria diventa immagine, immagine di rappresentazioni interiori. Hanno inizio la socializzazione dell’azione ed i rapporti di scambio e di comunicazione con altri individui. L’imitazione del periodo senso-motorio era una comunicazione non verbale tra il bambino e l’adulto. Inizialmente era imitazione dell’azione, poi imitazione dei suoni, ed infine del linguaggio. Tra i due e i sette anni il linguaggio non ha come obiettivo primario la comunicazione, in quanto e` ancora egocentrico. Non vi e` nessun tentativo da parte del bambino di assumere il ruolo di ascoltatore. Si tratta di conversazioni rudimentali, legate all’azione concreta in se stessa.

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«Fin verso ai sette anni, i bambini non sanno per nulla discutere fra loro e si limitano a lasciar cozzare le loro affermazioni contrastanti: quando cercano di darsi reciprocamente delle spiegazioni, solo con grande fatica riescono a vedere le cose dal punto di vista di colui che non conosce cio` di cui si tratta, e parlano come per se stessi; soprattutto succede che, lavorando nella stessa stanza o alla stessa tavola, ognuno parli per conto proprio, credendo di ascoltare e capire tutti gli altri; e` una sorta di “monologo collettivo”, che consiste nell’incitarsi reciprocamente all’azione piu` che a comunicarsi pensieri veri e propri». Il bambino piccolo non parla soltanto agli altri, ma parla in continuazione con se stesso, in un monologo spontaneo che diminuira` gradualmente nel tempo. Non vi e` ancora un’autentica socializzazione, «invece di uscire dalla propria visuale per coordinarla con quella degli altri, l’individuo resta ancora incosciamente centrato su se stesso». Grazie alla socializzazione dell’azione e all’uso del linguaggio, l’intelligenza senso-motoria o pratica, qual era all’inizio, diventa pensiero propriamente detto. Attraverso l’uso del linguaggio il bambino puo` ora comunicare la sua vita interiore. Compaiono i primi “perche´” ai quali l’adulto troppo spesso fa fatica a rispondere. I “perche´” dei bambini hanno un doppio significato: causa e finalita`. «La causalita` dei bambini piccoli... e` una causalita` psicologica indifferenziata, una causalita`, cioe`, in cui la forza causale individuata presenta delle connotazioni di motivazione, di intenzione o di dovere». (Flavell) «Un evento che produce un evento, una motivazione che conduce a un’azione, un’idea che da` origine a un’altra idea sono per il bambino la stessa cosa; o, piuttosto, il mondo fisico e` ancora confuso con il mondo intellettuale o psichico». Per i bambini piccoli “nella natura non esiste il caso’’, perche´ tutto e` “fatto per” gli uomini e i bambini, secondo un saggio piano prestabilito di ` quindi la “racui l’essere umano e` il centro. E gione-d’essere” delle cose che viene ricercata dal “perche´”, cioe` una ragione che sia causale e finalistica; e appunto perche´ ogni cosa ha la sua ragione il bambino che si imbatte in fenomeni

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fortuiti pone domande su di essi”. La causalita` inizialmente si confonde con il suo egocentrismo intellettuale. Se il bambino guarda la realta` attraverso i suoi occhi, la realta` non puo` che obbedire alle sue stesse motivazioni ed ai suoi stessi impulsi interni. In altre parole le leggi naturali si confondono con quelle morali. Anche il gioco diventa simbolico, di immaginazione ed imitazione. «La sua funzione consiste.... nel soddisfare l’io con una trasformazione del reale in funzione dei desideri: il bambino che gioca con la bambola riproduce la propria vita ma correggendola a suo piacimento, rivive tutti i suoi piaceri e i suoi conflitti, ma risolvendoli e soprattutto compensando e completando la realta` grazie all’immaginazione. In breve il gioco simbolico non e` un tentativo del soggetto di sottomettersi al reale, ma al contrario un’assimilazione deformante del reale all’io». Il simbolo e` compreso dal bambino in quanto l’immaginario si riferisce a ricordi di situazioni vissute, spesso intime e personali. L’acquisizione del linguaggio comunque in qualche modo contrasta la posizione egocentrica del bambino. Il relazionarsi con gli altri, l’esprimere i propri stati interni, il cominciare a pensare che anche gli altri hanno stati interni, aiutano il bambino a capire non solamente che ci sono anche gli altri, in quanto soggetti attivi, ma soprattutto che lui e` parte del mondo. Questo lungo processo termina intorno ai 6-7 anni, e comporta una sorta di rivoluzione copernicana: non piu` l’Io al centro del mondo, ma parte integrante di una complessita` qual e` il gruppo.

a) b) c) d) e) f)

l’egocentrismo; la concentrazione (una cosa alla volta); l’irreversibilita`; il ragionamento primitivo o trasduttivo; l’identita` dell’oggetto; l’inizio della capacita` di classificazione.

a) Egocentrismo ` la tendenza ad essere “incentrato sull’io”. Il E bambino guarda le cose unicamente dalla sua prospettiva non rendendosi conto che esistono molteplici punti di vista. Questo dato e` evidente soprattutto nel linguaggio o comunque nella conversazione, ove il bambino non tiene conto dell’interlocutore, come se l’altro conoscesse il suo stesso pensiero. b) Concentrazione Il bambino tende a concentrarsi su di un unico aspetto evidente di un evento, tralasciando gli altri altrettanto importanti e deformando in questo modo il suo pensiero. Egli finisce cioe` per considerare una parte come il tutto. Se il bambino vede versare la stessa quantita` di acqua da un bicchiere basso e largo ad un altro alto e sottile, egli da` per scontato che la quantita` di acqua nel secondo bicchiere e` maggiore, poiche´ ha incentrato momentaneamente l’attenzione sull’altezza raggiunta dal liquido. Solo alla fine del periodo pre-operatorio inizia la fase di decentramento: il bambino comincia a tener conto contemporaneamente dei diversi aspetti di una stessa situazione. L’io dunque non sara` piu` per il bambino l’unico punto di riferimento. c) Irreversibilita` (vedi realismo, pag. seguente).

2.3.3. Caratteristiche dello stadio pre-operatorio

Ci siamo soffermati particolarmente sul processo di acquisizione del riconoscimento di Se´ e del linguaggio, ritenendoli due funzioni fondamentali di questo stadio. Da non dimenticare che il linguaggio e` il mezzo attraverso il quale l’Autore e` riuscito ad estrapolare le caratteristiche e le capacita` acquisite nel tempo dal fanciullo. Le caratteristiche dello stadio pre-operatorio sono:

d) Ragionamento primitivo (trasduttivo) ` la modalita` di pensiero per cui due avveniE menti che avvengono per caso contemporaneamente non solo sono strettamente collegati, ma uno e` causa dell’altro. Il bambino dunque ritiene il nesso cronologico necessariamente causale. Questo tipo di ragionamento che e` all’origine del pensiero magico, secondo l’Autore, tende a scomparire intorno ai sei anni. e) Identita` dell’oggetto L’oggetto e` ora concepito dal bambino come

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identico a se stesso, quali che siano i cambiamenti ` questa una conquista imesterni da esso subiti. E portante, che coinvolge anche l’indentita` sessuale del bambino. Verso i 5-6 anni, infatti, egli sa perfettamente che indossando abiti femminili non potrebbe mai diventare una bambina. Incomincia a delinearsi la capacita` di pensare al “come se”. f) Capacita` di classificazione Il bambino verso la fine dello stadio preoperatorio (6 anni circa) e` in grado di fare raggruppamenti sulla base di somiglianze piu` o meno complesse. Manca comunque la capacita` chiamata da Piaget “inclusioni di classi”, che verra` acquisita verso i 7-8 anni. Capacita` che permettera` al fanciullo di capire che alcuni oggetti sono sottoclassi di una classe comune. Supponiamo di mostrare al bambino un numero di sfere di legno in gran parte marroni ed in piccola parte bianche, e di domandargli se ci siano piu` palline marroni o piu` palline di legno. Egli, non riuscendo a capire che la classe delle palline marroni e` inclusa in quelle di legno, risponde che le prime sono in quantita` maggiore rispetto alle seconde.

2.3.4. Operazioni mentali specifiche

Queste funzioni, soprattutto le prime quattro, sono alla base della modalita` del pensiero preoperatorio del bambino. Vediamo, ora, in maniera particolareggiata quali sono le operazioni mentali specifiche.

2.3.4.1. Il realismo

Il bambino e` cosciente del contenuto dei propri pensieri, avverte la loro esistenza e nota particolari minutissimi. Egli dunque «ha la giusta percezione dei dati della coscienza, ma e` inconsapevole della via per la quale sono stati raggiunti»; in altre parole, possiede la capacita` da Piaget definita «intuizione infantile». Egli attribuisce al contenuto dei propri pensieri una diversa localizzazione, ossia «situa nell’universo o negli altri cio` che noi situiamo in noi

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stessi, e situa in se stesso cio` che noi situiamo in altri». ` sensibile al mondo che lo circonda, ma E essendo inconsapevole dei suoi processi mentali, finisce per considerare i suoi pensieri e i suoi sentimenti, obiettivi, come se ognuno di noi provasse le sue stesse emozioni e formulasse i suoi stessi pensieri. In altre parole le sue rappresentazioni e i suoi strumenti del pensiero sono da lui percepiti come assoluti; egli si pone al centro dell’universo, ignorando “l’esistenza della propria soggettivita`”. ` solo «attraverso una serie di delusioni, nonE che´ attraverso l’esperienza della resistenza altrui, che apprendera` il carattere soggettivo dei suoi sentimenti». Il bambino parla di se´ in terza persona; egli probabilmente «non ha capito che la rappresentazione che ha di se stesso e` diversa da quella che puo` averne un altro. Per parlare di se´ non cerca di mettersi dal punto di vista altrui, ma crede di mettersi dall’unico punto di vista possibile, il punto di vista assoluto». Il bambino che parla di se´ in terza persona «ha in parte coscienza del proprio io, ma forse non il senso del proprio io». L’incapacita` del fanciullo di concepire un ruolo diverso dal suo lo porta a non sentire il bisogno di spiegare o giustificare le proprie affermazioni, i propri ragionamenti, troppo spesso accompagnati da grossolane contraddizioni. Egli non e` capace di ricostruire la sequenza del proprio ragionamento non appena sviluppato: «egli pensa, ma non puo` pensare il suo stesso pensiero». (Flavell) Pensiero ne´ logico ne´ reversibile. Un’azione mentale e` “reversibile” se nel momento in cui viene formulata puo` ripercorrere la stessa via cognitiva, per tornare al punto di partenza immutato. Il pensiero pre-operatorio e` dunque un pensiero irreversibile, lento, contraddittorio; il bambino non e` capace di mantenere inalterata la sua premessa nel corso di una sequenza di ragionamento. ` inoltre incapace di separare i diversi aspetti E del suo ragionamento, in quanto egli concentra la sua attenzione su di un unico aspetto evidente,

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trascurandone altri altrettanto importanti e deformando in questo modo il suo pensiero. Non e` in grado di collegare adeguatamente le trasformazioni successive di un evento che lo rendono logico e coerente. Il bambino piccolo afferma sempre, ma non dimostra mai. I primi concetti o pre-concetti sono dunque estremamente concreti, non astratti: il bambino piccolo concentra tutta la sua attenzione su di un aspetto saliente di un evento, traendo da esso una conclusione, che si impone alla sua percezione. Egli si limita a “giustapporre” un elemento di pensiero ad un altro, senza un rapporto causale e logico. Non e` capace di stabilire delle vere relazioni di causalita` fra elementi successivi di una catena di ragionamenti.

2.3.4.2. L’animismo

I bambini inizialmente attribuiscono “vita” sia ad oggetti animati che inanimati. L’attribuire vita ad oggetti inanimati diminuisce con l’eta`. La tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzione e` da Piaget chiamata “animismo infantile”. Fino all’eta` di 6-7 anni tutti i corpi per il bambino sono «coscienti e vivi, anche quelli immobili. La coscienza e` legata ad una attivita` qualsivoglia, sia che questa attivita` emani dagli oggetti stessi, sia che questi la subiscano dall’esterno». Il fanciullo «ignora che possano esserci azioni non accompagnate da coscienza. L’attivita` e` per lui necessariamente intenzionale e cosciente». Tra i 6-7 anni coscienza e vita sono attribuite dal bambino solamente a tutto cio` che si muove, indipendentemente dalla sua origine, sia esso provocato interamente dall’esterno o dotato di moto proprio. ` un momento di transizione in cui il fanE ciullo considera cosciente cio` che si muove, semplicemente perche´ ignora il movimento spontaneo. Il bambino confonde cio` che e` meccanico con cio` che e` biologico. Tra i 6 ed i 7 anni egli attribuisce coscienza e vita solamente ai corpi dotati di moto proprio, ma

«i fanciulli differiscono... su cio` che si debba considerare... moto proprio». Egli distingue ora, il moto ricevuto dall’esterno dal moto proprio, ma attribuisce ancora coscienza e vita agli astri, al vento ed alle nuvole. Secondo Freud l’animismo e` un fenomeno dovuto alla «proiezione di percezioni interiori all’esterno». Piaget critica questa interpretazione, sostenendo che all’origine dell’animismo vi siano due fattori: individuali o biologici e sociali. Tra i fattori sociali, assume una certa importanza il rapporto del bambino con i propri genitori, in particolare quello con la madre che intervenendo in tutti i suoi atti e in tutti i suoi affetti impedisce al fanciullo di distinguere la sua attivita` da quella degli altri. In altre parole, i genitori concorrono nel creare l’indifferenziazione tra l’io e il mondo esterno. I fattori di ordine individuale sono due: l’indissociazione e l’introiezione. Il bambino non distingue, inizialmente, gli atti intenzionali da quelli non intenzionali, il mondo psichico da quello fisico, il soggettivo dall’oggettivo e attribuisce alle cose vita, coscienza ed emozioni. L’introiezione e` la tendenza ad attribuire agli astri ed alle cose i medesimi sentimenti che si provano di fronte ad essi. «...Tutto cio` che resiste o che obbedisce all’io, e` concepito come avente un’attivita` identica a quella dell’io che comanda o che cerca di vincere una resistenza». L’introiezione e` dunque l’interpretazione del suo egocentrismo. L’educazione e gli obblighi che comporta sono per il bambino estesi alle cose. In altre parole, ogni cosa segue i suoi stessi obblighi e le sue stesse regole. I fattori che generano l’animismo danno origine anche al pensiero magico del bambino.

2.3.4.3. Il pensiero magico

Il pensiero pre-operatorio e` fondamentalmente un pensiero magico. Piaget definisce “magia” «l’uso che l’indivi-

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duo crede di poter fare dei rapporti di partecipazione» per poter «modificare la realta`». Definisce “partecipazione” «il rapporto... fra due esseri o due fenomeni... aventi una diretta influenza l’uno sull’altro, pur non esistendo fra loro ne´ contatto spaziale ne´ legame causale intellegibile». Ogni magia presuppone sempre una partecipazione. Entrambe, magia e partecipazione, sono distinte secondo Piaget dall’animismo infantile, ossia «dalla tendenza che ha il fanciullo a prestar vita e coscienza agli esseri inanimati». In altre parole, quando il bambino crede che un astro lo segua fa dell’animismo; quando crede di farlo muovere compie una magia per participazione. Piaget distingue le partecipazioni e le pratiche magiche del bambino in quattro categorie secondo il loro contenuto e il loro rapporto causale: a)

b)

c)

d)

«la magia per partecipazione dei gesti e delle cose», in cui il fanciullo grazie ad un gesto o ad una operazione mentale realizza un determinato avvenimento o ne scongiura un altro; «la magia per partecipazione del pensiero e delle cose», in cui il pensiero, una parola o uno sguardo sono per il bambino capaci di modificare la realta`. Come se gli strumenti del pensiero fossero legati alle cose stesse e capaci di agire su di loro. Anche in questo caso, come nel precedente, i gesti tendono a diventare simbolici; «la magia per partecipazione di sostanze», in cui la magia non e` piu` legata ad un gesto o ad un pensiero, ma ad un corpo o ad un luogo che il bambino utilizza per influenzare un avvenimento o agire su di un altro corpo; «la magia per partecipazione di intenzioni e magia per comando», in cui i corpi sono animati e dotati di intenzione dal bambino. Sicuramente alla base di questa credenza troviamo l’egocentrismo e il rispetto dei genitori, che spinge il bambino a credere che il mondo ubbidisca a leggi piu` morali che fisiche.

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2.3.4.3.1. Genesi e natura del pensiero magico

Il pensiero magico ha da sempre colpito l’immaginazione, ed e` stato per vari ricercatori, anche in campi diversi, fonte di interesse. Basti pensare al pensiero magico attribuito agli uomini primitivi. Frazer vede «nella magia la semplice applicazione alla causalita` esterna delle leggi di somiglianza e di contiguita` che governano le nostre associazioni di idee». L’Autore spiega la sua forma, ma non l’efficacia che il gesto magico assume per il bambino e la sua irrazionalita`. Freud, invece, ritiene che la magia sia prodotta dal desiderio, ritiene inoltre che dietro ogni pratica magica del fanciullo vi sia una affettivita` particolare. Egli considera la magia il risultato del narcisismo infantile, ossia «uno stadio dello sviluppo affettivo durante il quale il fanciullo non si interessa che alla propria persona, ai propri desideri e ai propri pensieri». Il bambino innamorato di se stesso considera, secondo Freud, i suoi pensieri e i suoi desideri capaci di influenzare magicamente gli avvenimenti e dotati di tutta l’efficacia necessaria. Secondo Piaget, Freud attribuisce al fanciullo un narcisismo adulto, come se egli fosse capace di distinguere il “proprio io dalla persona altrui”. Ma il bambino, essendo incapace di compiere questa distinzione, considera il proprio pensiero “onnipotente”, in altre parole ignora tutto cio` che e` estraneo a lui. «Il narcisismo, cioe` l’egocentrismo assoluto, produce sı` la credenza magica, ma solo per quel tanto che implica l’assenza di coscienza dell’io». Di conseguenza, quando il soggetto comanda al proprio corpo, probabilmente crede di comandare al mondo, «per uno spirito che non distingue o distingue male l’io dal mondo esterno... ogni cosa puo` agire su tutto; o, se si preferisce, la partecipazione risulta da un’indifferenziazione tra coscienza dell’azione dell’io su se stesso e coscienza dell’io sulle cose». La partecipazione e la magia del bambino dipendono sia dal suo egocentrismo assoluto, sia dall’atteggiamento che i genitori assumono nei suoi confronti, obbedendo ed esaudendo ogni suo

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` naturale, dunque, che il bisogno e desiderio. E bambino non riesca a distinguere la propria attivita` da quella dei genitori. ` chiaro che se i suoi desideri vengono esauE diti e quindi rinforzati il bambino creda di comandare un essere vivente o una cosa. Gli avvenimenti sui quali il bambino cerca di agire magicamente possono essere ostili o propizi. I riti magici del bambino sono eseguiti per «accattivarsi la benevolenza o per sventare la cattiva sorte». La “magia per partecipazione” e` legata, secondo Piaget, a due fattori: all’indifferenziazione «o alla confusione fra il proprio punto di vista e i movimenti esterni», per cui il soggetto ha l’impressione che gli astri camminino insieme a lui, e all’animismo per cui egli crede che gli astri siano vivi perche´ capaci di seguirlo. Le pratiche magiche tendono al simbolismo «perche´ ogni pensiero e` simbolico». «Cio` che lo stadio magico ...presenta di tipico e` appunto che i simboli sono ancora concepiti come partecipi delle cose .... Il fanciullo localizza nelle cose cio` che invece e` dovuto all’attivita` del suo io».

2.3.4.4. L’artificialismo

L’artificialismo infantile e` la tendenza a concepire tutti i corpi come “fatti per” l’uomo. ` un fenomeno complesso e generale, la cui E origine e` sicuramente influenzata dall’insegnamento religioso. Spesso nel bambino ricorre il concetto che Dio abitante il cielo possa in qualche modo creare gli astri. All’origine della credenza vi sono sicuramente i genitori, i quali hanno insegnato che Dio ha creato il cielo e la terra, e che ogni cosa ubbidisce alle sue leggi. Il bambino inizialmente attribuisce «spontaneamente ai genitori le perfezioni e gli attributi che piu` tardi trasferira` in Dio, se l’educazione religiosa gliene fornira` l’occasione». Attributi quali l’onniscienza e l’onnipotenza che gli adulti perderanno non appena il fanciullo scoprira` i limiti della perfezione umana. Se l’uomo e` inve-

stito, inizialmente, da attributi divini, egli puo` fabbricare ogni cosa. Quando il bambino parla di Dio, egli lo immagina uomo. Il pensiero infantile e` egocentrico «... e, come tale, intermedio fra il pensiero autistico o simbolico del sogno o della fantasticheria e il pensiero logico». Egli concepisce gli oggetti come “fatti per...”, il sole e` fatto per scaldare, la notte per dormire, tutte le cose sono “fatte per” l’uomo. Se per il bambino l’intera esistenza e` organizzata dai genitori, ed ogni cosa e` “fatta per” l’uomo, e l’uomo e` investito da poteri divini, quali l’onniscienza e l’onnipotenza, e` logico dedurre che il fanciullo concepisce le cose come “fatte da” suo padre e sua madre. Cio` spiega facilmente il passaggio da “fatto per” l’uomo a ‘‘fabbricato dall’uomo’’. L’artificialismo e l’animismo sono, almeno all’inizio, fenomeni complementari. Il bambino concepisce gli esseri come vivi e fabbricati allo stesso tempo, in altre parole ogni cosa nasce, cresce, vive grazie all’uomo che la ha costruita. Artificialismo ed animismo si uniscono a formare il pensiero infantile. Se il fanciullo assimila l’apparizione degli astri alla nascita di un essere vivente, la nascita e` per lui una specie di fabbricazione di cui non si puo` precisare il “come”, ma che consiste nel costruire qualcosa di vivo. Come concepisce il bambino la sua nascita? Sicuramente vi e` un legame stretto tra genitori e figli, ma non ancora un vero rapporto di causa ed effetto. Il bambino appartiene ai propri genitori; egli si considera preesistente alla loro stessa attivita`. ` curioso come molti bambini piccoli credano E che i morti ritornino piccoli e rinascano sottoforma di bebe`. Il bambino domanda e riceve troppo spesso dai propri genitori spiegazioni strane, racconti di api o di cicogne. Quando il bambino domanda, egli non chiede come “si fanno” i bambini, ma “da dove “ vengono”, i bambini sono dunque per lui preesistenti, ed i genitori ordinano il loro apparire. Non vi e`

Teorie dello sviluppo psichico

fabbricazione alcuna, ma semplicemente un legame diretto. Quando domandiamo loro “come” i bambini nascono, questi rispondono assimilando la nascita alla fabbricazione. I fanciulli comprendono che “la materia con cui i genitori fabbricano i loro figli viene dal loro stesso corpo”. La curiosita` relativa alla nascita sembra precedere, nella maggior parte dei casi, quella sull’origine delle cose (frequente fra i 4-7 anni) e sull’artificialismo infantile. L’interesse sul problema della nascita spinge il bambino verso l’origine dell’uomo, alla quale intorno ai 4-5 anni egli trova una soluzione artificialistica. «Una coppia di antenati (uomini) ha creato tutto, e tutto si spiega cosı`». Verso i 7-9 anni, il bambino trova nuove spiegazioni; egli fa discendere l’uomo dagli animali o ` la natura dalle piante, ossia dalla natura stessa. E ora il principio di tutto. Animismo ed artificialismo sono concetti che si sviluppano, nel bambino, parallelamente. Esiste, dunque, tra gli stadi dell’artificialismo spontaneo e quella dell’animismo, uno stretto rapporto.

2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni) Lo stadio operatorio concreto e`, secondo Piaget ed altri Autori che si sono occupati dello sviluppo infantile, una delle fasi piu` importanti per la quantita` e la qualita` delle sue operazioni. L’eta` di 6 anni concide con l’inizio della scolarizzazione propriamente detta. Sicuramente tutto cio` conduce ad un profondo cambiamento nella vita sociale, intellettiva ed affettiva del bambino. Nel periodo pre-operatorio la funzione del linguaggio non aveva come obiettivo la comunicazione. In altre parole i bambini piu` piccoli parlano tra loro, ma non si ascoltano, e se si riuniscono per svolgere un lavoro insieme non si aiutano. Nel periodo operatorio concreto, al contrario, si rimane colpiti dalla concentrazione individuale e dalla reale collaborazione nello svolgere un’attivita` comune.

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Il bambino dopo i 7 anni e` in grado di collegare, coordinare e separare le sue azioni da quelle degli altri. Non vi e` piu` un tentativo di comunicazione, ma vere e proprie discussioni. Le conversazioni diventano effettive comunicazioni reciproche, con reali scambi di informazioni. Ogni partecipante sostiene il proprio punto di vista ricercando spiegazioni causali e giustificazioni logiche. Dunque il bambino spiega non solo l’azione concreta, ma il proprio pensiero. Egli e` in grado, ora, di rivederlo e di riflettere in modo critico su di esso. Scompare l’egocentrismo del linguaggio e del pensiero cognitivo. Scompaiono le condotte impulsive precedenti. L’interazione sociale con i coetani gli permette di riesaminare il suo pensiero e di confrontarlo con quello degli altri. Inizia la riflessione, che e` ancora linguaggio interiore, al contrario della discussione sociale che e` riflessione esteriore. «Compiere una introspezione.... significa, in sostanza, osservare se stessi, ponendosi pero` in un certo senso al di fuori di se stessi; significa considerare momenti successivi di un processo di pensiero a carattere piu` o meno unitario, e percio` anche rendersi conto che certe convinzioni, prima non possedute, si sono venute formando, ed altre si sono invece dimostrate erronee; che dunque certi punti di vista sono mutati e che, percio`, puo` esistere una varieta` di punti di vista». (Petter) L’analisi di una sequenza di ragionamento risulta difficile per il bambino che non ha raggiunto il livello del pensiero reversibile. Un’azione mentale che ha carattere reversibile e` da Piaget chiamata “operazione’’. Dunque pensiero reversibile e pensiero operatorio sono secondo l’Autore equivalenti. La reversibilita` rende il bambino capace di separare le connessioni di tipo causale esistenti tra due fenomeni da quelle percettivamente simili, contigue nello spazio o nel tempo, ma soprattutto di riconoscere e separare i processi causali che portano a risultati imprevedibili, ovverosia fortuiti. Grazie alla reversibilita` del pensiero egli e` in grado ora di compiere un’operazione logica. Il passaggio dall’intuizione alla logica si compie verso i sette anni, epoca in cui il bambino inizia ad elaborare concetti, classi, rela-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

zioni, compie operazioni aritmetiche, geometriche, temporali e cosı` via. Anche le esperienze del bambino non vengono piu` da lui considerate come singoli eventi separati tra loro, ma riuniti in “classi”, sempre piu` complesse. Vediamo, ora, in maniera particolareggiata alcune delle acquisizioni fondamentali.

2.4.1. La nozione d’identita`

Alla fine del periodo senso-motorio, l’oggetto, per il fanciullo e` diventato permanente, ossia e` concepito come identico a se stesso, quali che siano i suoi spostamenti. Successivamente, l’oggetto, e` concepito come identico a se stesso, quali che siano le trasformazioni superficiali subite. Infatti intorno ai 7 anni il bambino scopre un principio nuovo, chiamato da Piaget “conservazione”. Vediamo, ora, un esempio concreto. Se mostriamo ad un bambino due sfere di creta uguali e lo invitiamo a palparle e a soppesarle, egli conclude che la quantita` di sostanza in entrambe e` uguale. Se schiacciamo una delle due sfere fino a deformarla, a differenza della fase precedente, egli afferma che la quantita` di materia e` rimasta invariata nonostante la sua trasformazione. La reversibilita` del pensiero, propria del periodo operatorio, ha permesso al bambino di ricostruire l’oggetto. Dunque egli comprende che alcune proprieta` della materia, quali il numero, il peso e la quantita` restano invariate, quali che siano i cambiamenti nella forma o nella disposizione spaziale subiti. ` questa una forma piu` evoluta del concetto di E permanenza dell’oggetto.

2.4.2. La classificazione

Incomincia, in questo periodo, l’acquisizione della relazione tra classi piu` complesse e piu` ampie. Il bambino comincia a capire, per esempio,

che la classe “rosa” e` compresa in quella piu` ampia di “fiore”, e che le palline di legno, marroni o bianche, al di la` del colore, appartengono ad una classe comune, quella del “legno”. Tutto cio` e` possibile se l’oggetto e` percepito direttamente dal bambino; in altre parole, egli e` in grado di compiere una operazione logica complessa, quando l’oggetto e` visibile. Il fanciullo non e` in grado di ricostruire mentalmente un’immagine quando non e` piu` da lui direttamente percepibile. L’esperimento della E. Markmann e` paradigmatico. L’Autrice mostrando ad alcuni bambini quattro lettini e quattro seggioline, che ella chiama “mobili”, alla domanda «se vi siano piu` lettini o piu` mobili?» ottiene una risposta corretta: che vi sono piu` mobili, classe che include i lettini. Successivamente, nascondendo gli oggetti dietro uno schermo, e togliendone alcuni, ripete loro la medesima domanda. In questo caso i bambini, fino all’eta` di 11-12 anni, non riescono a rispondere correttamente fintantoche´ gli oggetti sono loro nascosti e quindi non percepibili. Questo esperimento dimostra chiaramente che lo sviluppo cognitivo e` graduale. Piaget lo divide in diverse fasi, ognuna delle quali presuppone condizioni di equilibrio successive, che vanno progressivamente adattandosi alle continue scoperte intellettuali, sociali ed affettive del bambino. Ogni stadio raggiunto presuppone una percezione dell’ambiente sempre piu` complessa. Perche´ si verifichi un cambiamento qualitativo e` necessaria, dunque, una ristrutturazione degli equilibri passati per raggiungere una stabilita` intellettuale futura. In altre parole, l’acquisizione di una nuova capacita` attraversa una serie di passaggi evolutivi, che sono a volte messi in discussione dal bambino prima di raggiungere la stabilita` intellettuale di quelli successivi. Ci sembra utile ricordare quanto abbiamo detto a proposito dell’acquisizione dell’identita` del Se´, soprattutto sul comportamento del bambino di fronte alla sua immagine proiettata su di uno schermo.

Teorie dello sviluppo psichico

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2.4.3. L’ordinamento in serie

2.4.5. Le strategie mnemoniche

Oltre l’inclusione in classi, il bambino in questo periodo acquisisce anche la capacita` di ordinare in serie, per esempio mettere in ordine oggetti dal piu` piccolo al piu` grande, dal piu` scuro al piu` chiaro. L’ordinamento in serie comporta l’acquisizione della transitivita`, ovverosia della operazione per cui se A e` maggiore di B e B e` maggiore di C, A e` maggiore di C. Ai nostri occhi puo` sembrare una operazione semplice, ma in realta` questa capacita` implica un maggior distacco dai dati osservabili e comporta un livello di astrazione maggiore. ` su queste basi che nel periodo operatorio E concreto il bambino comincia a comprendere i fondamenti della matematica ed acquisisce il concetto di numero.

Un problema importante per lo sviluppo del bambino e` sicuramente legato alla memoria, in altre parole alla modalita` con la quale il fanciullo riesce a ricordare una serie impressionante di dati che egli assorbe quotidianamente. Dalle ricerche condotte da Piaget, confermate successivamente da Flavell, emerge un fatto interessante, ovverosia i bambini fin dall’eta` di 4-5 anni ripetono mentalmente i dati che devono ricordare solamente se questa strategia viene loro suggerita. Intorno ai 6-7 anni, i fanciulli scoprono da soli questa possibilita` rendendola ancora piu` efficace, collegando i dati da memorizzare con le immagini. Tale modalita` di pensiero e` possibile solo per un numero di informazioni limitato: di fronte a situazioni piu` complesse i bambini organizzano il materiale da memorizzare in categorie e classi.

2.4.4. Giudizio morale

Piaget e` stato il primo Autore a collegare la nascita del senso morale con lo sviluppo intellettivo del bambino, distinguendone due stadi: la morale eteronoma e quella autonoma. La prima, chiamata da Piaget anche realismo morale, inizia intorno ai 5 anni, ed e` caratterizzata da un assolutismo morale (le regole sono assolute ed immutabili) e da una giustizia immanente (ad una infrazione segue sempre il giusto castigo). Inoltre, il giudizio “buono-cattivo” e` da lui considerato indipendente dalle motivazioni: cio` sembra collegabile all’incapacita` di guardare oltre i fatti contingenti. Verso i 7 anni comincia a svilupparsi una moralita` diversa, chiamata autonoma o della reciprocita`. Le regole del gioco non sono piu` immutabili, purche´ tutti siano d’accordo nel cambiarle; la convinzione che la punizione segua sempre un cattivo comportamento si attenua fortemente. Il bambino comincia a giudicare le azioni in base alle motivazioni, non solo agli effetti. L’antinomia bene-male, giusto-ingiusto, assume, ora, la caratteristica di quello che sara` il senso morale dell’adulto.

* * * Dopo aver esaminato le diverse capacita` acquisite dal bambino nel periodo operatorio concreto, approfondiremo due concetti fondamentali: il tempo e la causalita`. Entrambi si sviluppano lungo tutto l’arco di tempo che va dal periodo pre-operatorio a quello operatorio concreto. 2.4.6. La concezione del tempo

Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, inteso come “tempo fisico”, e` strettamente collegata con la nozione di movimento e di velocita`. Il tempo e` un concetto non preesistente nel bambino, ma costruito lentamente e gradualmente, legato alle operazioni logiche che si vanno formando e che lo costituiscono. Il bambino, inizialmente, confonde la successione degli eventi percepiti con le successioni e le distanze spaziali. Se un corpo mobile attraversa punti successivi, A, B, C, D, il fanciullo intuisce correttamente che il punto C e` stato raggiunto “dopo” il

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punto A, e che e` occorso “piu` tempo” per percorrere l’itinerario AC rispetto all’itinerario AB. Apparentemente il bambino sembra possedere un concetto di successione e durata temporale corretto, simile a quello dell’adulto. «... Sino a che si tratta di percorrere semplicemente le posizioni successive di un mobile nel corso di un solo evento, la successione temporale si confonde con la successione spaziale...». Molto sinteticamente, potremmo schematizzare le cose dicendo che per il bambino “piu` in fretta” e` uguale a “piu` lontano” (sorpasso) e che “piu` lontano” e` uguale a “piu` tempo”. Anche nel tempo vissuto o tempo soggettivo gli eventi del passato vengono da lui collocati in un “prima” ed in un “poi”, secondo motivazioni ` facile, personali, legate a situazioni contestuali. E infatti, che il bambino in situazioni e momenti diversi cambi la cronologia degli eventi. Il tempo vissuto e` dunque una serie di eventi che iniziano e finiscono. Nel periodo operatorio, il tempo diventa unico ed omogeneo, e solamente nello stadio successivo un concetto astratto. Il tempo e` un concetto estremamente complesso; lo stesso Autore ammette la difficolta` incontrata nello studiarlo.

2.4.7. La causalita`

Animismo, artificialismo e pratiche magiche, rappresentano la concezione infantile della causalita`, e la sua rappresentazione del mondo e del reale. Quando si domanda al fanciullo di spiegare le cause che generano il movimento delle cose e degli astri, egli risponde attribuendo ad esso una volonta` esterna ed una interna. Il suo pensiero e` animistico ed artificialistico allo stesso tempo, ma anche magico, poiche´ «...per un verso noi diamo degli ordini alle cose (il sole e la luna, le nuvole e il cielo ci obbediscono), per un altro queste cose si sottomettono ai nostri desideri perche´ esse stesse desiderano farlo». Tale concezione infantile del reale rimane a lungo nel bambino, anche quando questi spiega il

movimento della natura attraverso la natura stessa, ossia generato da un agente interno ed uno esterno, dove il primo e` volonta` degli oggetti, ed il secondo «...e` costituito dalla somma dei corpi che attirano o respingono (in senso, per cosı` dire, “morale”) l’oggetto in movimento. Cosı` il lago attira i fiumi; la notte e la pioggia attirano le nubi; il sole e le nubi si respingono reciprocamente; le rocce aiutano l’acqua a scorrere, e cosı` via. Si tratta semplicemente di un prolungamento dell’atteggiamento artificialista-animista, ma l’artificialismo e` trasferito agli oggetti esterni». Successivamente il movimento viene attribuito dal bambino a cause sempre piu` fisiche, in quanto egli ritiene che la forza esterna agisca per contatto, spingendo o tirando. Questa spiegazione e` ancora legata al pensiero animistico ed artificialistico, in quanto il concetto di forza o motore interno non e` ancora abolito, «...il corpo in movimento mantiene l’iniziativa e puo` utilizzare la forza esterna oppure sottrarsi alla sua influenza. Cosı` il sole e` trascinato dalle nuvole, ma nello stesso tempo ci segue e utilizza il vento per i suoi fini. E lo stesso accade per le nuvole». Infine, con il superamento della mentalita` animistica-artificialistica, il bambino attribuisce al movimento un concetto meccanico, fondato sull’inerzia. Ricapitolando: «Il primo stadio e` magico: noi facciamo muovere le nuvole camminando. Le nuvole ci obbediscono a distanza. L’eta` media di questo stadio e` intorno ai cinque anni. Il secondo stadio e` sia artificialistico che animistico. Le nuvole si muovono perche´ Dio o gli uomini le fanno muovere. L’eta` media di questo stadio e` intorno ai sei anni. Durante un terzo stadio, la cui eta` media e` intorno ai sette anni, il bambino suppone che le nuvole si muovano da sole, ma non dice nulla di preciso sul modo in cui si compie questo movimento. Il movimento, pero`, e` anche condizionato da cause morali e fisiche, e cio` dimostra che l’artificialismo e` stato semplicemente trasferito agli oggetti. Sono il sole, la luna, ecc., che fanno muovere le nuvole; i corpi celesti, pero`, determinano questi movimenti non nel modo in cui una causa fisica determina i suoi effetti, ma piuttosto come un uomo costringe un altro dandogli un ordine, con o senza l’intervento

Teorie dello sviluppo psichico

della forza fisica. Durante questo terzo stadio, il bambino non dice nulla di preciso sul “come” del movimento spontaneo delle nuvole, ma e` evidente che nella sua mente vi e` gia`, latente, uno schema motorio che prepara la strada alla spiegazione del quarto stadio. I bambini del quarto stadio, infatti, dicono che il vento spinge le nuvole, ma il vento, a sua volta, e` venuto fuori dalle nuvole. L’eta` media di questo stadio e` intorno agli otto anni. Quando, infine, viene raggiunto il quinto stadio (in media intorno ai nove anni) compare una spiegazione corretta». Finche´ il pensiero logico continua ad essere trasduttivo, ovverosia a collegare causalmente eventi contemporanei, l’idea di causalita` rimane ancora inficiata dal sincretismo. Solo con lo stadio successivo il bambino riuscira` a stabilire un vero concetto di causalita`.

2.5. Stadio operatorio formale (dai 12 anni in poi)

2.5.1. La logica formale

Questo stadio e` caratterizzato dalla capacita` di eseguire operazioni formali. Il bambino comincia ad utilizzare le idee nello stesso modo con cui prima utilizzava gli oggetti. Fondamentale differenza e` che le prime sono molto piu` flessibili e manipolabili e possono dar luogo a sintesi o a ipotesi completamente nuove e diverse. Il bambino piccolo e` solamente un osservatore esterno, incapace di riflettere sugli eventi. Egli pensa «concretamente, problema per problema, man mano che la realta` gliene propone, e non collega mai le proprie soluzioni a teorie generali che ne manifesterebbero i princı`pi. Cio` che, al contrario, colpisce nell’adolescente, e` il suo interesse per problemi inattuali, senza rapporto con la realta`, vissuti giorno per giorno, o che anticipano, con un’ingenuita` disarmante, situazioni future, spesso chimeriche. Cio` che stupisce soprattutto e` la sua facilita` nell’elaborare teorie astratte». L’adolescente, come il bambino, vive nel pre-

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sente, ma vive anche nel futuro. Il mondo e` per lui pieno di teorie e di progetti su se stesso e sulla vita. In altre parole, mentre il bambino «si occupa per lo piu` del presente, di cio` che e` oggetto della sua esperienza immediata, l’adolescente estende la sfera della sua attivita` concettuale all’ipotetico, al futuro, a cio` che e` lontano nello spazio». (Flavell) Egli estende dunque il suo pensiero dal reale al possibile. Il passaggio dal pensiero concreto a quello formale, chiamato anche ipotetico-deduttivo, e` un passaggio graduale. Fino a questo momento, dunque, le operazioni del pensiero si basavano esclusivamente sulla realta`, sugli oggetti tangibili e da lui direttamente percepibili, oggetti che potevano essere manipolati e sottoposti ad esperienze concrete. Ma nel momento in cui il pensiero si libera della realta` nasce l’immaginazione. In altre parole, nasce la rappresentazione degli oggetti assenti, che equivale alla rappresentazione del reale. L’ordinamento in serie e l’inclusione in classi, tipici del pensiero concreto, lasciano posto alla “logica delle proposizioni”, ossia al ragionamento per ipotesi. Il pensiero libero dalla realta` e` ora capace di costruire teorie attraverso la riflessione. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo: l’emancipazione del pensiero stesso, ossia la libera attivita` della riflessione spontanea. «Dopo gli undici o dodici anni, il pensiero formale diviene appunto possibile, e le operazioni logiche cominciano a venir trasposte dal piano della manipolazione concreta al piano delle idee pure espresse in un qualsiasi linguaggio (il linguaggio delle parole o quello dei simboli matematici ecc.), ma senza l’appoggio della percezione, dell’esperienza, o persino della convinzione ...il pensiero formale e` quindi “ipotetico-deduttivo”, cioe` in grado di trarre conclusioni da pure ipotesi e non soltanto da una osservazione concreta». Il bambino e` ora capace non solo di applicare operazioni agli oggetti, ma di riflettere su di esse. L’adolescente come il bambino piccolo e` egocentrico, poiche´ «...ogni nuovo potere della vita mentale comincia incorporandosi il mondo in un’assimilazione egocentrica, e solo in seguito

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trova l’equilibrio, componendosi con un accomodamento al reale. Abbiamo quindi un egocentrismo intellettuale dell’adolescenza, paragonabile all’egocentrismo del neonato, che assimila l’universo alla propria attivita` fisica, ed a quello della prima infanzia che assimila le cose al pensiero in fieri (gioco simbolico ecc.). Quest’ultima forma di egocentrismo si manifesta nella convinzione dell’onnipotenza della riflessione, come se il mondo si dovesse sottomettere ai sistemi e non i sistemi ` l’eta` metafisica per eccellenza: l’io e` alla realta`. E abbastanza forte per ricostruire l’universo e abbastanza grande per incorporarselo. Poi, esattamente come l’egocentrismo sensomotorio si riduce progressivamente mediante l’organizzazione degli schemi d’azione, e come l’egocentrismo del pensiero specifico della prima infanzia termina con l’equilibrio delle operazioni concrete, cosı` l’egocentrismo metafisico viene a poco a poco corretto, in una riconciliazione tra pensiero formale e realta`: l’equilibrio viene raggiunto quando la riflessione comprende che la propria funzione non e` quella di contraddire, bensı` di precedere e interpretare l’esperienza. Allora tale equilibrio supera di gran lunga quello del pensiero concreto perche´, accanto al mondo reale, ingloba le costruzioni indefinite della deduzione razionale e della vita interiore».

2.5.2. Lo sviluppo della personalita`

Accanto alla logica formale e al completamento delle costruzioni del pensiero, si definisce la personalita`. «...In genere gli psicologi distinguono fra io e personalita` o addirittura li oppongono l’uno all’altra. L’io sarebbe un dato, se non immediato, per lo meno relativamente primitivo: e` in un certo modo il centro dell’attivita` del soggetto, ed e` caratterizzato appunto dal suo egocentrismo, conscio o inconscio. La personalita` risulta, invece, dalla sottomissione o meglio dall’autosottomissione ad una qualsiasi disciplina... Si e` arrivati persino a considerare la personalita` un prodotto sociale, la persona sarebbe allora legata al ruolo (persona = la maschera sociale) che ha nella societa`. Effettivamente la personalita` implica la

cooperazione: l’autonomia della persona si oppone sia all’anomia, o assenza di regole (l’io), sia all’eteronomia, o sottomissione a coercizioni imposte dall’esterno: in questo senso la persona e` solidale ai rapporti sociali che mantiene e determina». L’elaborazione della personalita` comincia intorno agli otto anni, e si delinea intorno ai 12, ed e` influenzata dalle regole e dai valori che si vanno affermando, nonche´ dal senso morale. La personalita` nasce dunque nel momento in cui si forma “un programma di vita”, il quale presuppone la libera riflessione e il pensiero formale o ipotetico-deduttivo. L’adolescente, nella sua megalomania, si attribuisce una funzione essenziale nella salvezza del mondo, ed organizza tutta la sua vita in funzione di essa. L’adolescente «...in virtu` della sua personalita`... si pone su un piano di eguaglianza rispetto ai piu` anziani di lui, ma si sente diverso da loro per la vita nuova che lo agita. E allora, come e` suo compito, vuole superarli e sbalordirli, trasformando il mondo. Ecco perche´ i sistemi o piani di vita degli adolescenti sono colmi di sentimenti generosi, progetti altruistici o fervore mistico, e tempestosi di megalomania e egocentrismo cosciente». Egli scopre l’amore, inteso come proiezione di un ideale in un essere reale. Grazie ai progetti ed ai programmi di vita, egli si inserisce nella societa` adulta. Societa` che egli condanna e disprezza, e deve percio` riformare. I bambini piccoli socializzano attraverso il gioco collettivo ed il lavoro comune. «Le societa` di adolescenti, invece, sono soprattutto societa` di discussione: fra due amici intimi, o in piccoli cenacoli, il mondo viene ricostruito in comune, e soprattutto ci si perde in discorsi senza fine per combattere il mondo reale. A volte vi e` una reciproca critica delle rispettive soluzioni, ma l’accordo si ritrova sulla necessita` assoluta di riforme. Vengono poi le societa` piu` ampie, i movimenti giovanili, nei quali si esplicano i tentativi di riorganizzazione positiva ed i grandi entusiasmi collettivi.

Teorie dello sviluppo psichico

L’autentico adeguamento alla realta` si avra` quando da riformatore l’adolescente diventera` realizzatore. Allo stesso modo che l’esperienza riconcilia il pensiero formale con la realta` delle cose, cosı` il lavoro effettivo e continuativo, quando viene intrapreso in una situazione concreta e ben definita, guarisce da tutte le fantasticherie». Le passioni e la megalomania dell’adolescente sono reali preparazioni alla personale attivita` creativa che continuera` nella successiva opera dell’uomo.

2.6. Commento alla teoria di Piaget

Ci siamo soffermati a lungo sulla teoria di Piaget per la quantita` di ricerche e di dati che hanno permesso all’Autore di strutturare i princı`pi generali dello sviluppo cognitivo del bambino e di descrivere le modalita` e le caratteristiche del pensiero infantile. Piaget nasce biologo ed epistemologo e sottolinea questa sua specificita` collegando le fasi dello sviluppo biologico con le tappe di acquisizione della capacita` logica. Piaget ha avuto ammiratori, critici e denigratori. Da parte nostra riteniamo che molte delle sue ricerche siano valide, pero` le capacita` cognitive devono essere integrate con altri fattori come quelli emotivi e culturali per meglio delineare la complessita` dello sviluppo dell’uomo dalla nascita fino alla adolescenza. I primi stadi senso-motorio, pre-operatorio e operatorio sono stati accettati da molti Autori, al contrario dell’ultimo stadio ove la concordanza diminuisce nettamente. Durante la crescita il bambino evolve, e le variabili personali e culturali rendono lo sviluppo meno omogeneo rispetto a quanto sostenuto dall’Autore. Questa non omogeneita` costituisce in fondo la critica principale mossa agli studi di Piaget, perche´ mette in crisi quello che egli si auspicava di trovare: cioe` la costanza di sviluppo delle attivita` logiche. In effetti ulteriori ricerche condotte non hanno confermato questa ipotesi, tanto che lo stesso Piaget ha dovuto ammettere che esiste un

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de´calage orizzontale, ovverosia in ogni stadio e` presente una struttura generale, ma non tutte le possibilita` sono presenti.

3. S. Freud Dopo l’esauriente esposizione degli studi di Piaget, epistemologo e secondariamente psicologo, mi sembra utile proporre il pensiero di Freud, sia per l’importanza assunta nella cultura sia perche´ rappresenta l’antitesi di Piaget. Nell’arco di 40 anni, S. Freud costruisce una complessa, anche se spesso incoerente, teoria dello sviluppo dell’uomo. I primi anni di vita sono ricostruiti sulla base della terapia psicoanalitica condotta con pazienti adulti: in un solo caso c’e` una diretta osservazione del bambino, un nipote di Freud che di fronte all’assenza della madre reagisce con il gioco del rocchetto: con un filo di spago egli fa comparire e scomparire l’oggetto. Freud spiega questa dinamica come modalita` per controllare l’evento assenza2. La metodologia utilizzata prevalentemente da Freud di ricostruire lo sviluppo infantile dall’osservazione di patologie di adulti ha comportato una serie di ipotesi, messe in crisi da un modello di osservazione simile a quello di Piaget: la diretta osservazione del bambino. Alla nascita, il bambino ha due istinti fondamentali: quello libidico (nel quale sono compresi i cosiddetti istinti vitali che riguardano i bisogni fisiologici per la sopravvivenza) e quello aggressivo che successivamente assumera` la dizione di istinto di morte. Il bambino, secondo Freud, e` per un lungo periodo totalmente narcisista e agisce solamente per ottenere la gratificazione degli istinti vitali: e` il principio del nirvana, ovvero la tendenza al mantenimento dello stato omeostatico di piacere. L’istinto libidico tendera` successivamente ad investire particolari zone del corpo, chiamate zone erogene. A seconda delle diverse zone inte-

2 Per una critica a questa proposizione di S. Freud, vedi i capp. 4, 8, 55.

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ressate, si distinguono cinque stadi detti stadi “psicosessuali”.

3.1. Gli stadi psicosessuali

3.1.1. Stadio orale (dalla nascita ad 1 anno)

I primi contatti del bambino con il mondo avvengono tramite la bocca: pertanto la regione orale diventa il mezzo privilegiato di rapporto con la madre vissuta come oggetto che gratifica il bambino tramite l’alimentazione. Questo stadio termina con lo svezzamento: il bambino deve ora abituarsi ad un tipo diverso di alimentazione, il che vuol dire anche ad un rapporto diverso con la madre.

3.1.2. Stadio anale (da 1 a 3 anni)

Man mano che il bambino cresce comincia a spostare l’interesse alla zona anale e uretrale: inizia il controllo degli sfinteri collegato al piacere di trattenere o di emettere. Spesso in questa fase i genitori possono diventare ossessivi circa il controllo degli sfinteri, nel senso di pretendere che il figlio acquisti al piu` ` in questo stadio che presto questa capacita`. E spesso puo` sorgere un conflitto tra autonomia del bambino e tendenza dei genitori ad imporre propri tempi e bisogni.

3.1.3. Stadio fallico (dai 3 ai 5 anni)

Verso i 3-4 anni il bambino comincia a provare piacere nella manipolazione dei propri genitali: e` in questa fase che puo` iniziare la masturbazione. L’investimento sui genitali da` luogo a quello che, secondo Freud, e` il nodo centrale dello sviluppo umano: il conflitto edipico. Il bambino comincia a presentare un forte attaccamento erotico nei confronti della madre ed ovviamente considera il padre come rivale nel possesso della madre. Ma il padre e` vissuto anche come minaccioso e forte, tale comunque da poterlo castrare: in-

sorge l’ansia di castrazione. Come riuscira` a superarla? Egli tendera` ad identificarsi con il padre: interiorizzando il padre, egli ne assumera` il potere. Questo processo di identificazione e` dovuto a quello che Freud considera il tabu` piu` importante, perche´ fonda il genere umano: il tabu` dell’incesto. Lo stesso processo, ma con i ruoli scambiati, avviene per la bambina: solo che questa avra` meno angoscia, perche´ per lei la vagina rappresenta gia` una castrazione avvenuta. Ma questo costituira` poi, secondo Freud, il problema irrisolvibile della donna: l’invidia del pene. Pertanto in questo periodo il bambino avra` costituito le tre strutture fondamentali della personalita`: l’Es, l’Io ed il Super-Io. L’Es che rappresenta il serbatoio pulsionale ed e` presente fin dalla nascita, l’Io che si forma nel rapporto di mediazione tra le forze aggressive e distruttive dell’Es ed il mondo esterno, ed il Super-Io che costituisce la base del dovere e della ` ovvio che la dimensione inconscia e` moralita`. E sempre piu` strutturata ed occupa gran parte della personalita` umana. Infatti e` inconscio l’Es, il Super-Io e l’Io per la parte che riguarda i meccanismi difensivi. Questo inconscio, in gran parte dovuto alla rimozione, dominera` l’uomo, che ne e` ovviamente inconsapevole.

3.1.4. Fase di latenza (dai 5 ai 12 anni)

A questo punto il bambino e` ormai un essere completo. La fine della conflittualita` edipica lo portera` ad impegnare le proprie energie nella ricerca, nello studio, nel rapporto con i coetanei.

3.1.5. Stadio genitale

Con la puberta` si risvegliano le cariche libidiche ed aggressive che dovranno trovare una modalita` espressiva sempre piu` matura per giungere ad un’identita` sessuale tanto piu` valida, quanto meglio sono stati superati gli stadi precedenti. Se questo non avviene, l’adolescenza da crisi passeggera puo` trasformarsi in situazione di patologia piu` o meno grave.

Teorie dello sviluppo psichico

Schema sintetico dello sviluppo secondo Freud: Eta`

Stadio

Zona Erogena

Principale Problema di Sviluppo

0-1

orale

bocca

svezzamento

1-3

anale

ano

controllo sfinteri

3-5

fallico

genitali

conflitto edipico

5-12

latenza

energie sessuali latenti

sviluppo dei meccanismi difensivi

13-18

genitale

genitali

rapporto con l’altro sesso - identita` sessuale matura

* * * Esamineremo ora l’opera di M. Klein che si inserisce nel filone freudiano, con connotazioni ancora piu` pessimistiche. Ma, come vedremo, gran parte di queste teorie dello sviluppo, soprattutto riguardanti i primi anni di vita, saranno completamente messe in discussione dalle ricerche successive.

4. M. Klein L’indagine condotta da S. Freud per comprendere il significato dei sintomi nevrotici l’aveva indotta ad una serie di speculazioni sullo sviluppo psicologico del bambino, derivanti da ricordi e fantasie di adulti in terapia psicoanalitica. Era ovvio che l’interesse da parte della comunita` psicoanalitica fosse quello di studiare direttamente i bambini per verificare le ipotesi sullo sviluppo mentale. Bisognava cercare un metodo diverso da quello adoperato con gli adulti: non era possibile lavorare con le libere associazioni, poiche´ i bambini sono piu` propensi ad agire che a parlare, e pertanto la Klein ritenne che l’unica possibilita` fosse l’osservazione delle modalita` di gioco. Il gioco diventa quindi lo strumento fondamentale di ricerca per comprendere le fantasie o le angosce piu` profonde del bambino.

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Molto sinteticamente riferiamo solo quanto puo` servire a comprendere il modello di sviluppo psichico. Secondo la Klein il bambino naturalmente attraversa due fasi di sviluppo definite rispettivamente: posizione paranoide e posizione depressiva.

4.1. Posizione paranoide Si evidenzia nei primi 4-6 mesi di vita del bambino, ma puo` comunque ripresentarsi nel corso della vita dando luogo ad una specifica patologia: la paranoia e la schizofrenia. Il bambino alla nascita e` portatore di una forte carica aggressiva che supera di gran lunga quella libidica, tanto che il bambino e` costretto, a causa dell’intensa angoscia, a proiettare sull’oggetto primario questa carica distruttiva. L’oggetto primario e` il seno materno che viene scisso in oggetto buono e cattivo, vissuto che non dipende tanto dalle qualita` reali dell’oggetto quanto piuttosto dall’intensita` delle pulsioni. Comincia cosı` un gioco di introiezioni e proiezioni mediato da alcuni meccanismi difensivi fondamentali. Come l’idealizzazione, per cui il seno e` vissuto come fonte di gratificazione illimitata e immediata, la scissione, il diniego ed il controllo onnipotente che mirano a scindere l’oggetto, a negare o manipolare onnipotentemente la realta`, per evitare le gravi angosce persecutorie. Se il bambino riesce a superare questa fase carica di grande angoscia, si avvia alla seconda fase: la posizione depressiva.

4.2. Posizione depressiva Il bambino e` ormai capace (dopo i 6 mesi) di recepire la madre come oggetto unico, contemporaneamente buono e cattivo. Si determina una situazione di ambivalenza, intesa come dinamica di amore-odio. Pertanto permane una quota di sadismo, che suscita in lui una nuova angoscia: quella depressiva. Ora, non essendo piu` possibile la scissione totale, distruggere una parte dell’oggetto ritenuto cattivo vuol dire perderlo nella sua

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Pur di estrazione psicoanalitica, l’Autore centra la propria attenzione sulla interazione tra individuo ed ambiente (familiare e sociale), tanto da definire gli stadi di sviluppo stadi psicosociali, a differenza di Freud che aveva parlato di stadi psicosessuali. Scopo fondamentale dell’uomo e` la ricerca di una propria identita`, che pur variando nel tempo e` caratterizzata dall’esigenza di una coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale. Prima di passare ad esporre le caratteristiche dei vari stadi ci sembra opportuno sottolineare gli aspetti fondamentali del pensiero di Erikson che si possono riassumere in tre assunti di base.

totalita`. Pertanto il bambino dovra` innescare ulteriori meccanismi difensivi, come la maniacalita`, o ritrovare meccanismi piu` primitivi, tipici della fase precedente. Se riesce invece ad inibire l’aggressivita`, il bambino giunge al meccanismo della riparazione accettando l’unita` e la validita` dell’oggetto, che ha resistito agli attacchi delle sue fantasticherie sadiche. Questo meccanismo di difesa porta l’Io ad un processo di identificazione stabile con un oggetto divenuto gratificante, perche´ riparato. La posizione depressiva, se non completamente superata, potra` ripetersi successivamente come sintomatologia depressiva. Come risulta chiaramente, il quadro che la Klein offre del bambino nel suo normale sviluppo e` di gran lunga piu` negativo di quello offerto da Freud. Ad un bambino “perverso polimorfo” viene sostituito un bambino che e` profondamente distruttivo, malato e per giunta completamente in balı`a dei propri istinti. Infatti il superamento o meno di queste fasi non dipende tanto dall’oggetto esterno, quanto dalla potenza delle pulsioni: solo se le pulsioni di vita avranno il sopravvento su quelle di morte, il bambino potra` essere salvo da una grave disintegrazione psichica. Nonostante l’evidente assurdita` di queste proposizioni, il kleinismo ebbe largo seguito nella psicoanalisi, forse perche´ questa volta, a differenza di Freud, l’Autrice aveva osservato sul campo i bambini, e quindi non si trattava piu` solo di fantasiose ricostruzioni di ricordi, magari deformati, degli adulti circa la propria infanzia, ma di materiale clinico direttamente osservato. Questa visione della Klein, di un bambino pieno di odio e gravemente disturbato, suscitera` come vedremo una serie di reazioni, sia nel campo psicoanalitico che nel campo piu` vasto della psicologia.

5.1. Gli stadi psicosociali

5. Erik H. Erikson

5.1.1. Fiducia-Sfiducia (dalla nascita ad un anno)

Erikson e` l’unico Autore che, occupandosi dello sviluppo della personalita`, ci ha fornito un quadro completo, anche se a volte un po’ schematico, dell’intero ciclo vitale dell’uomo: dalla nascita alla vecchiaia.

Erikson chiama fiducia (trust) quella che T. Benedek chiama confidenza (confidence). Essa nasce sulla base di un rapporto affettivo, prevalentemente con la madre, caratterizzato da prevedibilita` e costanza. «...La fiducia deriva dall’espe-

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2)

3)

Nel ciclo vitale l’individuo passa attraverso una serie di tappe evolutive (stadi) che sono caratterizzate da una coppia antinomica: una conquista ed un fallimento. Questa situazione (come per es. fiducia-sfiducia) e` definita “qualita` dell’Io”. Questi stadi non sono, come per Freud, definiti da specifici momenti biologici, bensı` da particolari modalita` sociali. Ogni tappa deve portare al rinforzo della specifica qualita` positiva dell’Io: solo in questo modo il soggetto puo` accedere validamente allo stadio successivo. Le qualita` dell’Io sono esperite come vissuti (quindi accessibili all’introspezione) come modalita` comportamentali (quindi osservabili) e come strutture del mondo interno (quindi inconsce). Vediamo ora in particolare i vari stadi.

Teorie dello sviluppo psichico

rienza della prima infanzia in una misura che non sembra dipendere dal nutrimento ricevuto o dalle manifestazioni d’affetto, ma piuttosto dalla qualita` del rapporto con la madre. Cio` che consente alla madre di fondare la fiducia nei figli e` una combinazione ideale di sensibilita` per le esigenze individuali del bambino, e di fiducia in se stessa sperimentata nella forma particolare ad una determinata cultura ed appoggiata dalla stabilita` di questa». Come si vede, Erikson sottolinea l’importanza di tutto il contesto sociale nel creare fiducia. Se la madre e` la diretta trasmettitrice di questa fiducia, essa deve essere supportata dall’intero nucleo familiare e dal constesto sociale. Egli inoltre ritiene che la fiducia non nasce tanto dai consensi e dalle proibizioni ma «...i genitori debbono essere capaci di trasmettere al bambino una convinzione profonda, quasi fisica, che cio` che essi fanno ha un significato. In ultima analisi non sono le frustrazioni a rendere nevrotici i bambini, ma la mancanza in queste frustrazioni di un significato sociale» (E. Erikson, Infanzia e societa` , pag. 223). Se questa fiducia non viene attivata il bambino cade in una situazione non solo di sfiducia, ma di impossibilita` di costruire un Io valido. Un grave fallimento in questo stadio puo` essere la causa di una futura sintomatologia schizofrenica.

5.1.2. Autonomia-Vergogna e dubbio (dai 2 ai 3 anni)

Il raggiungimento della maturita` muscolare prepara l’esperienza per due modalita` contrapposte: trattenere e lasciare andare. Inoltre in questo periodo iniziano la stazione eretta e la capacita` di verbalizzare. Queste due acquisizioni fondamentali portano il bambino ad esperire l’autonomia: ma e` ovvio che questa autonomia deve essere guidata e sorretta. Il tenersi in piedi, da solo, espone il bambino non solo alla vertigine della sua capacita`, ma anche all’esperienza della caduta e quindi della vergogna. In questo momento il bambino deve essere guidato e “sorretto” in queste capacita` iniziali. Se il bambino non e` sufficientemente guidato, rivolgera` contro se stesso il bisogno di

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manipolazione: egli manipolera` il suo universo interiore. «Invece di considerare le cose come oggetti da utilizzare per le proprie esperienze, si lascera` ossessionare dalla propria tendenza alla ripetizione. Certo grazie a tale ossessione egli rientrera` in seguito in possesso dell’ambiente ed apprendera` a dominare le cose per mezzo di un controllo ostinato e minuto, non riuscendo piu` a farlo in maniera piu` ampia e piu` libera». La vergogna nasce dalle sensazioni della propria piccolezza, legata alla capacita` di stare in piedi e al trovarsi quindi esposto all’osservazione altrui. Ovviamente, se questa situazione e` vissuta in maniera da sentirsi deriso, il bambino cerchera` di sfuggire nascondendosi per cercare in questo modo di “salvare la faccia”. Comunque, osserva giustamente Erikson, se la vergogna raggiunge un livello eccessivo il bambino cerchera` di nascondere questo vissuto e sviluppera` una tendenza patologica alla bugia, con una determinazione segreta di farla franca con ogni mezzo. “Fratello della vergogna e` il dubbio”. Se la prima nasce dalla consapevolezza, stando in piedi della propria piccolezza, il secondo nasce dal fatto che c’e` una parte posteriore che il bambino non puo` vedere e che diventa per lui la zona per un attacco imprevisto ed imprevedibile. Un fallimento eccessivo in questa fase puo` portare ad un futuro sviluppo paranoicale.

5.1.3. Iniziativa-Senso di colpa (dai 4 ai 5 anni)

Lo spirito di iniziativa e` legato da una parte alla raggiunta autonomia, dall’altra alla capacita` di pianificare e conquistare il mondo. Questo periodo e` contraddistinto da azioni spesso vigorose o violente che possono essere vissute dai genitori come aggressive e quindi eccessivamente penalizzate. ` ovvio che nella sua fase di iniziativa il E bambino possa eccedere con la sua irruenza: quindi rompere gli oggetti, o fare del male al fratellino o al compagno di giochi. A volte questi atteggiamenti possono concretizzarsi con atti di sfida, che sono legati anche all’emergere della

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

` infatti piu` facile che questo differenza sessuale. E accada ai bambini che alle bambine. Il pericolo che incombe in questo stadio e` che l’esuberanza legata alle nuove capacita` locomotorie e mentali possa essere vissuta o fatta vivere come atteggiamento aggressivo e lesivo. In questo caso e` facile che possa insorgere il senso di colpa. Erikson ritiene questo stadio di estrema importanza. ` infatti il periodo in cui comincia a formarsi E anche il senso della moralita` e del dovere. «In nessun altro periodo della propria vita il bambino e` cosı` disposto ad apprendere con sveltezza ed avidita` e a crescere nel senso della condivisione dei doveri, come nel corso del periodo che stiamo esaminando. Ma e` anche la fase ove il bambino puo` inasprire il senso della moralita` fino a farlo diventare intolleranza verso gli altri, sotto forma di moralismo continuo e puntiglioso». Inoltre, se questa fase non viene risolta nel senso di aumentare ed indirizzare lo spirito d’iniziativa, «...i residui del conflitto intorno allo spirito d’iniziativa possono esprimersi patologicamente negli adulti come negazione isterica che determina la repressione del desiderio o la soppressione dell’organo che dovrebbe soddisfarlo, per mezzo della paralisi o dell’impotenza... oppure nella ma` come se la cultura avesse lattia psicosomatica. E reso l’individuo troppo severo e lo avesse spinto ad identificarsi con la sua severita` fino al punto di lasciargli come unica via d’uscita la malattia».

5.1.4. Industriosita`-Senso di inferiorita` (dai 6 ai 12 anni)

In questo periodo il bambino e` pronto a fare il suo ingresso nella vita sociale; l’evento piu` importante e` l’ingresso nella scuola. Il bambino dovra` confrontarsi con nuove realta`, entrare in competizione, misurarsi con la capacita` di apprendimento. Egli potra` ottenere l’approvazione attraverso la produttivita`, imparando a leggere, a scrivere, a partecipare alle attivita` sportive ecc. L’esigenza di una capacita` produttiva prende il sopravvento sui capricci e sulle modalita` del gioco:

la diligenza e la perseveranza diventano qualita` importanti. In questo periodo, se il bambino incontrera` eccessive difficolta` potra` sentirsi inadeguato ed inferiore. «Se egli dispera dei suoi strumenti o delle sue capacita` o del suo prestigio tra i coetanei... il bambino si sente mal dotato strumentalmente ed anatomicamente e si considera condannato alla mediocrita` ed alla inadeguatezza. Lo sviluppo di molti bambini e` sconvolto dal fatto che la vita familiare non e` riuscita a prepararli a quella scolastica o dal fatto che la vita scolastica non riesce ad appoggiare le promesse dei primi stadi». Inoltre se il bambino non gode del piacere dell’industriosita` , ed «...accetta il lavoro come unico dovere e il lavorare come il solo criterio di dignita`, egli puo` diventare lo schiavo conformista e non pensante del sistema tecnologico in cui vive e di coloro che sono in condizione di sfruttare tale sistema». Con questa modalita` di fallimento l’Autore non propone piu` una tipica patologia clinica, ma la normalita` patologica: ovvero come l’individuo possa diventare “normotico” ed adattarsi passivamente alla realta`.

5.1.5. Identita`-Dispersione (dai 13 ai 18 anni)

` il periodo della puberta` e della adolescenza. E Dai cambiamenti fisici che inducono il bambino ad accettare una identita` anche sessuale, al cambiamento dovuto alla messa in discussione di tutti gli stadi precedenti per trovare una nuova, defini` la fase d’integrazione delle vicissitiva identita`. E tudini libidiche, delle capacita` sviluppate e dei talenti innati con le possibilita` offerte dai ruoli sociali. Questo stadio e` caratterizzato dalle forti passioni, dagli “innamoramenti” che non sono un fatto puramente sessuale. «L’amore degli adolescenti e` in gran misura un tentativo di definire la propria identita` per mezzo della proiezione di una immagine ancora confusa del proprio Io su di un’altra persona, al fine di vederla cosı` riflessa e progressivamente

Teorie dello sviluppo psichico

` per questo che per tanti giovani piu` chiara. E amare vuol dire conversare». Ma se il bisogno di trovare una propria identita` diventa ricerca esasperata di modelli identificativi molteplici e spesso discordanti, l’adolescente rischia una diffusione del proprio ruolo (role diffusion) ed un deficit nella funzione della propria identita`: quanto piu` a monte ci sono gravi carenze, tanto piu` questo processo puo` degenerare in forme di psicosi o di gravi psicopatie. 5.1.6. Intimita`-Isolamento (dai 19 ai 25 anni)

Tutto cio` che si e` acquisito nelle fasi precedenti, con la tendenza alla conservazione, viene sostituito dalla tendenza a trascendere se stessi e a rischiare nel desiderio di intimita` con l’altro. Si e` alla ricerca di un oggetto amato con cui continuare a realizzarsi. Riferendosi a Freud, Erikson sostiene che in questo stadio si avvera quello che il maestro viennese riteneva costituire la perfetta normalita`, “lieben und arbeiten”, cioe` amare e lavorare. ` ovvio che, nell’elaborare questo stadio, l’inE dividuo puo` passare attraverso situazioni parziali che, se elaborate, possono portare alla capacita` di una vera intimita`. Se invece emerge la paura di perdersi, o di perdere quelle capacita` cosı` faticosamente acquisite negli stadi anteriori, il soggetto evita le esperienze e tende a chiudersi in un profondo isolamento. Come controparte della incapacita` alla intimita`, nasce l’atteggiamento di negazione violenta. Egli tende a distruggere le persone la cui esistenza sembra rappresentare un pericolo per la propria. Sorgono cosı` i pregiudizi, che poi vengono sfruttati nella politica e nella guerra. L’altro, che non puo` essere intimo, diventa inevitabilmente un nemico. Questa situazione puo` costituire la base del borderline. 5.1.7. Generativita`-Stagnazione (dai 26 ai 40 anni)

` l’eta` della maturita`. «La tendenza analitica E a drammatizzare la dipendenza dei bambini ci

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rende ciechi di fronte all’esigenza della maturita`. L’uomo maturo ha bisogno che si abbia bisogno di lui e la maturita` ha bisogno di essere guidata ed incoraggiata per cio` che e` stato prodotto e di cui bisogna prendersi cura». La generativita` quindi non riguarda solo il desiderio di mettere al mondo dei figli e di allevarli, ma di creare qualcosa di utile con il proprio lavoro, di insegnare agli altri la propria esperienza. Generativita` include quindi sia produttivita` che creativita` e costituisce un momento fondamentale sia sul piano individuale che sociale. «Quando questa forma viene a mancare, si afferma una regressione ad un bisogno ossessivo di pseudo-intimita` che e` spesso accompagnato da un senso diffuso di stagnazione e di impoverimento personale». Questa crisi si esprime con una frase tipica: “cosa ho fatto della mia vita?”

5.1.8. Integrita` dell’Io-Disperazione (dai 41 in poi)

` l’ultimo passo da compiere: accettare tutto E cio` che si e` fatto, cio` che si e` e cio` che si potrebbe essere ancora. «...Accettazione del proprio ed irripetibile ciclo vitale, come qualcosa di necessario ed insostituibile e quindi anche un nuovo e diverso modo di amare i propri genitori, essa corrisponde ad un senso di unisono con epoche lontane... Ma sebbene consapevole della relativita` di tutte le forme di vita, chi ha acquistato l’integrita` dell’Io e` pronto a difendere la dignita` del proprio stile di vita... egli sa infatti che la vita del singolo non e` che il risultato della coincidenza fortuita di un ciclo vitale individuale con un particolare momento della storia...». ` quindi questo senso di compartecipazione E totale alla propria storia, al nucleo familiare, al gruppo di appartenenza, fino al genere umano che si manifesta come integrita` dell’Io. Ma forse ` la paura la vera prova e` accettare la morte. «E della morte ad esprimere la mancanza o la perdita di questa integrita`, onde il proprio unico ciclo vitale non e` piu` accettato per se`. La disperazione si affaccia ad esprimere il sentimento che il tempo e` breve, troppo breve per ricomincare un’altra vita. Una disperazione che si nasconde

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dietro il disgusto anche quando questo prende la forma di “mille piccoli disgusti” incapaci di fare insieme un grande rimorso». Erikson ha formulato una teoria dello sviluppo umano molto affascinante e completa, anche se in alcuni punti schematica. Difetto piu` evidente e` una certa superficialita` nella descrizione di alcuni eventi psichici, per cui per esempio non si comprende bene su quali basi una madre possa infondere fiducia o sfiducia nel bambino. Ma se la teoria di Erikson viene letta come un grande affresco dell’avventura dell’uomo, con le sue capacita` e le sue cadute, allora possiamo apprezzare meglio alcune proposizioni che non solo sono ancora validissime, ma che offrono uno

spunto per ulteriori ricerche. Uno dei punti piu` importanti della teorizzazione di Erikson e` soprattutto il bisogno di ricerca d’identita` in genere ed in particolare nel periodo adolescenziale. Libri come “Il giovane Lutero” o “Gioventu` e crisi d’identita`” sono un resoconto raffinato e profondo della crisi adolescenziale. Altro merito di Erikson e` quello di aver evidenziato la forte interazione tra individuo ed ambiente e posto le basi per una psicopatologia basata sul fallimento delle varie tappe evolutive. Il senso della storia e la tensione morale ne fanno un intellettuale europeo che e` riuscito a mitigare un rigore morale con un genuino ottimismo di stampo prettamente americano.

Modello di sviluppo secondo Erikson ` — ETA ANNI

` QUALITA DELL’IO

PERSONE

FUNZIONI FONDAMENTALI

` E PROBLEMI SPECIFICI ATTIVITA

0-1 Infanzia

Fiducia Sfiducia

Madre

Ricevere Dare

Fiducia basata sull’esperienza e sulla prevedibilita` del mondo. Fiducia di poter influenzare gli eventi.

2-3 Fanciullezza

Autonomia Dubbio- vergogna

Genitori Famiglia

Trattenere Lasciare

Deambulazione, verbalizzazione, controllo sfinteri. Nasce il senso di autonomia. Se frustrato o deriso nasce la vergogna e il dubbio.

4-5 Fase del gioco

Iniziativa Senso di colpa

Famiglia Asilo Coetanei

Fare (eseguire) Fare come (gioco)

Comincia la conquista del mondo: a volte con irruenza. Se questa iniziativa viene bloccata il bambino potrebbe provare sensi di colpa.

6-12 Fase scolarita`

Industriosita` Senso di inferiorita`

Compagni di classe Amici

Fare delle cose insieme

Inizio della scolarita`, necessita` di ottenere l’approvazione da parte di estranei. Inizia ad imparare a leggere, a scrivere. Inizia la competitivita`. Se queste iniziative vengono bloccate nasce in lui il senso di inferiorita`.

13-18 Adolescenza

Identita` Confusione di ruoli

Gruppo di coetanei e persone esterne alla famiglia

Essere se stessi

Adolescenza: maturazione sessuale e problema dell’identita` sessuale. Senso dell’imitazione. Ricerca della propria identita` attraverso l’identificazione con personaggi famosi. Puo` nascere una confusione di ruoli.

19-25 Giovane adulto

Intimita` Isolamento

Partners Amicizie

Trovare se stessi in un’altra persona

Raggiunta l’identita`, il giovane desidera confrontarla con altre persone. Inizia il desiderio di intimita` affettiva. Se l’identita` non e` stata raggiunta, invece dell’intimita` si sviluppa la tendenza all’isolamento.

26-40 Eta` adulta

Generativita` Stagnazione

Lavoro Formazione di famiglia

Solidarieta` Far essere Prendersi cura

E` l’eta` matura, l’individuo ormai adulto sente la necessita` di generare, di creare, sia nel lavoro e sia nella famiglia. L’individuo che non riesce si sente vuoto e svuotato. La vita diventa una lunga attesa della vecchiaia e della morte.

> 40 Eta` matura

Integrita` dell’Io Disperazione

L’umanita` e la specie

Essere ancora Essere stato

Ormai gran parte della vita e` trascorsa. L’uomo e` quello che e` stato o quello che ha fatto. Altrimenti c’e` la disperazione ed il rimpianto.

Teorie dello sviluppo psichico

6. A. Maslow ` considerato il pioniere ed uno dei piu` rapE presentativi teorici della psicologia umanistica. Contro l’atteggiamento deterministico e riduzionistico delle teorie psicoanalitiche e comportamentali, la teoria umanistica considera lo sviluppo umano condizionato sı`, da alcuni bisogni fondamentali, ma prevalentemente indirizzato verso la propria autorealizzazione. A. Maslow studia ed osserva lungamente i meccanismi psicologici non di persone malate, bensı` di persone sane e creative. In questo modo egli si oppone al pessimismo freudiano: «la natura umana non e` affatto cattiva come si suppone che sia... e` come se Freud ci avesse descritto la meta` malata della psicologia e a noi ora spetta il compito di completarla con la meta` sana». Egli si oppone ai teorici del comportamentismo che credono di poter risalire ai comportamenti umani dallo studio degli animali di laboratorio. Egli ritiene che l’essere umano e` una specie qualitativamente diversa dagli altri esseri viventi. Su questa base egli propone una sorta di piramide delle motivazioni: alla base i bisogni primari, all’apice l’autorealizzazione. Se i bisogni fisiologici non vengono soddisfatti il soggetto dovra` dedicare tempo ed energia per esaudirli, restringendo cosı` la sua ricerca verso valori piu` elevati come l’amore, la stima, l’autorealizzazione. I bisogni vanno dal fisiologico allo psicologico: e` importante che ogni gradino sia completamente superato e risolto per poter accedere a quello successivo. Una gratificazione insufficiente o distorta blocca il normale sviluppo della personalita` ed il raggiungimento dei livelli piu` alti. L’ipotesi di Maslow sembra eccessivamente utopica e non facilmente realizzabile. C’e` alla base una mentalita` sicuramente molto piu` ottimistica di quella europea, quale poteva essere quella americana. Questo relativismo spinge a cercare di capire se sia possibile trovare un modello di sviluppo psichico il piu` vicino possibile ad una realta` umana, che pur accettando le diversita` culturali possa delineare i tratti comuni di un normale sviluppo

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psichico. Gli Autori che esamineremo successivamente si sono occupati di evidenziare le modalita` di sviluppo secondo la teoria dell’attaccamento visto come modello universale e non culturalmente determinato.

Modello di sviluppo secondo Maslow.

7. J. Bowlby - M. Ainsworth J. Bowlby e` uno psicoanalista che consapevole come molti altri ricercatori della impossibilita` di poter dimostrare le ipotesi freudiane e kleiniane, ritiene di dover ricercare un modello dello sviluppo psichico metodologicamente fondato. Pertanto egli rivolge la sua attenzione ad una nascente disciplina: l’etologia (studio del comportamento degli animali). Autori come K. Lorenz, E. Hess e von Frish avevano dimostrato che negli animali esistono specifiche sequenze di comportamento presenti in tutti gli individui della specie, e che sono schemi innati e non appresi. Nulla di rilevante, ma la novita` della ricerca e` che questi schemi istintivi innati per attivarsi hanno bisogno di uno stimolo esterno specifico che deve intervenire al momento giusto. Quindi l’istinto non e` un puro dato energetico che cerca un oggetto qualsiasi per scaricarsi (che e` la base della teoria freudiana sugli istinti), ma ha bisogno di una informazione giusta ed al momento giusto. Queste sequenze istintive

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

riguardano la ricerca del cibo, l’accoppiamento, l’attaccamento e la difesa del territorio. Uno dei fenomeni piu` interessanti, messo in evidenza soprattutto da K. Lorenz, e` l’imprinting. Se un piccolo di anatra nelle prime 16 ore di vita, anziche´ trovare la madre naturale, si trova a contatto con una persona (o un altro animale) si leghera` a questa e con questa attivera` la specifica sequenza di schemi istintivi anche se l’oggetto a cui si lega puo` essere lo sperimentatore stesso. Da questi studi Bowlby prende lo spunto per studiare le modalita` dell’attaccamento del bambino nei confronti dell’adulto. La teoria di Bowlby si fonda su due assunti di base.

ambientali che non solo attivano, ma rendono possibile lo svolgersi delle sequenze innate. Questo problema e` oggetto di studio da parte di numerosi altri AA., anche con metodiche diverse. Ricordiamo tra questi M. Ainsworth, che descrive l’attaccamento come «...un vincolo o legame affettivo che l’individuo stabilisce tra se´ ed un altro individuo particolare». Secondo l’Autrice esistono diversi livelli di attaccamento.

7.3. Sviluppo dell’attaccamento

7.3.1. Pre-attaccamento

7.1. Bisogno di legame Alla nascita il bambino e` dotato di un insieme di segnali e di risposte che obbediscono a schemi innati e che costituiscono il comportamento di attaccamento. Il bambino segnala la necessita` di aiuto o di contatto tattile attraverso il pianto, l’irrequietezza o il sorriso, che inducono una risposta da parte dell’adulto. Il bambino ha bisogno di mantenere uno stretto contatto tattile, visivo ed emotivo con l’adulto. Qualsiasi situazione che metta a rischio questo bisogno scatena una serie di richiami secondo schemi innati. Schemi innati, quindi, che si attivano automaticamente nel momento in cui il bambino avverte una situazione che minaccia il bisogno di legame.

7.2. Importanza dell’ambiente Affinche´ questi schemi istintivi vengano attivati e si sviluppino, e` necessario che ci sia una risposta da parte degli adulti. Se non c’e` risposta adeguata, lo schema di attaccamento si atrofizza o si devia, con grave danno per lo sviluppo psicologico successivo. Questi due punti essenziali comportano una nuova concezione di istinto e di correlazione fra innato ed acquisito, ossia del rapporto tra fattori endogeni ed esogeni. Risulta chiaramente l’interdipendenza tra schemi istintivi innati e risposte

Nei primi tre mesi di vita il bambino dirige i comportamenti di attaccamento in maniera indifferenziata: questi sono rivolti a promuovere l’avvicinamento ed il sostegno da parte dell’adulto, chiunque esso sia.

7.3.2. Attaccamento iniziale

Intorno ai 4 mesi il bambino comincia a inviare segnali in maniera sempre piu` discriminata diretti alla persona che si prende cura di lui.

7.3.3. Attaccamento maturo

A 6 mesi circa il bambino fa oggetto dei suoi segnali di aiuto una sola persona poiche´ e` in grado di distinguere nettamente il volto dell’A.S. da quello di qualsiasi altro. Il bambino non solo richiama l’attenzione, ma vuole anche la presenza e la vicinanza dell’adulto perche´ questi diventi per lui una “base sicura” per esplorare il mondo circostante. In questo periodo, a volte, compare l’ansia di poter perdere l’oggetto unico, ansia che si manifesta con il sintomo “paura degli estranei”.

7.3.4. Attaccamento a molte persone

Il periodo precedente termina intorno ai 9-10 mesi, quando il bambino tendera` sempre piu` a

Teorie dello sviluppo psichico

legarsi anche ad altre persone, soprattutto coetanei. Intorno ai 4-5 anni il bambino comincia a diventare sempre piu` autonomo. ` evidente che questa autonomia e` legata non E solo ad una maggiore sicurezza, ma soprattutto all’acquisizione di capacita` specifiche, come il linguaggio, la deambulazione, la logica, che rendono il mondo da esplorare sempre piu` ampio. Anche se in situazioni di emergenza possono ricomparire modalita` primitive di attaccamento. Dopo i 12 anni il bambino normale dovrebbe aver raggiunto una sufficiente autonomia. Se i comportamenti di attaccamento persistono, si deve parlare di una situazione di dipendenza, ovvero di un mancato o parziale sviluppo normale: l’Ainsworth a questo proposito descrive due tipi di attaccamento e propone un esperimento per evidenziarli: il metodo della strange situation.

7.3.5. Strange situation

` una situazione sperimentale, effettuata con E bambini di 1-2 anni. Eseguita in un laboratorio, consiste in una serie di situazioni diverse nelle quali il bambino si trova: 1) 2) 3) 4) 5)

dapprima solo con la madre; con la madre ed un estraneo; solo con l’estraneo; completamente da solo per qualche minuto; di nuovo con la madre.

Si evidenziano due situazioni: attaccamento sicuro ed insicuro.

7.3.5.1. Attaccamento sicuro

Il bambino riesce a mantenere il contatto con la madre, soprattutto dopo l’assenza. La preferisce agli estranei e la saluta al ritorno o piange se va via. Riesce a stare da solo.

7.3.5.2. Attaccamento insicuro

Si manifesta con due modalita`:

1)

2)

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Distacco-evitamento. Quando la madre ricompare, il bambino la ignora. Presenta una scarsa tendenza a cercare il contatto con le persone. Se viene preso in braccio, tende ad evitare il contatto. Tratta gli estranei quasi allo stesso modo con cui tratta la madre. Resistenza-ambivalenza. Quando la madre ricompare, il bambino si mostra iroso e rabbioso, cerca di rifiutarla, ma nel contempo vuole mantenere una vicinanza. Se viene separato dalla madre reagisce con pianto e con violenza. Il bisogno di contatto e la tendenza a manifestare la propria rabbia per essere stato abbandonato si alternano in maniera ambivalente.

Queste modalita` possono stabilizzarsi e persistere anche nel comportamento da adulto. Ci siamo soffermati un po’ piu` a lungo su questa tematica, anche se parziale come modello dello sviluppo psichico, per due motivi fondamentali. Da una parte perche´ le modalita` comportamentali sopradescritte sono le manifestazioni di sistemi motivazionali fondamentali come quello dell’attaccamento-dipendenza-separazione-autonomia che sono, come vedremo, dinamiche fondamentali per comprendere la modalita` delle relazioni oggettuali. Dall’altra perche´ i comportamenti patologici sono evidenziabili fin dai primi anni di vita e possono essere corretti. Il comportamento insicuro legato ad una carenza di empatia da parte dei genitori puo` essere modificato stimolando in loro una maggiore attivita` empatica. Il concetto di empatia, come vedremo, diventera` un tema dominante per la psicologia del Se´. In questo contesto ci occuperemo, fra i tanti, di H. Kohut.

8. H. Kohut Per Kohut il Se´ e` «...un centro di iniziative ed un contenitore di impressioni»; non e` piu` quindi, come era stato considerato dalla psicologia dell’Io, una rappresentazione o un prodotto dell’attivita` dell’Io, ma e` esso stesso un agente attivo. Il Se´ comincia ad emergere nel momento in

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cui si incontrano «...le potenzialita` innate del bambino e le aspettative dei genitori nei suoi confronti». Ma il Se´ nascente e` estremamente fragile, pertanto ha bisogno della presenza e della partecipazione degli altri perche´ possa svilupparsi. Questi altri, che per il bambino non sono ancora differenziati, ma vissuti come prolungamenti del Se´, vengono chiamati oggetti-Se´. Il bambino vive questi oggetti-Se´ come parte integrante e strutturante della propria personalita`: egli usa le attivita` psichiche dell’adulto come fossero sue. «La psiche rudimentale del bambino partecipa all’organizzazione psichica altamente sviluppata dell’oggetto-Se´; il bambino sperimenta gli stati d’animo dell’oggetto-Se´; essi vengono trasmessi al bambino attraverso il contatto ed i toni della voce, e forse anche attraverso altri nessi, ma come fossero i suoi». Gli oggetti-Se´ tramite una dimensione empatica rispondono ai bisogni del bambino: e` come se ci fosse una simmetria tale da consentire al bambino di strutturare, man mano, la propria dimensione psichica. In una prima fase il bambino ha bisogno di esprimere e vivere una situazione narcisistica, come desiderio di essere ammirato e riconosciuto. Ben diverso quindi dal narcisismo freudiano che e` piu` simile ad una dinamica autistica. Per Kohut il bambino possiede un sano narcisimo che lo porta a sentirsi grandioso ed ammirato. Se questo avviene, se cioe`, l’adulto reagisce positivamente, il bambino, man mano che costruisce il Se´, puo` parzialmente rinunciare a questa dimensione onnipotente. Successivamente il bambino tendera` a vivere uno dei genitori, o ambedue, come idealizzati e potenti: da questa fusione il bambino puo` trarre il senso della propria esistenza e validita`. Validita` che nasce dal rispecchiamento empatico: il bambino vive il genitore come forte e valido e si rispecchia in questo oggetto-Se´. Se non ci sono eccessive frustrazioni, ovvero se il genitore risponde e corrisponde a questo bisogno primordiale ed arcaico, avverra` quello che Kohut chiama “internalizzazione trasmutante”. In una lunga serie di esperienze sufficientemente positive (in questo Kohut ritiene che un sano sviluppo sia collegato ad una presenza suffi-

cientemente valida dell’adulto) si costituiscono due poli che rimarranno la base del Se´, anche se ovviamente sempre piu` maturi. Da una parte la tendenza ad una sana ambizione e sicurezza di se´, dall’altra la fiducia nell’esistenza di un oggetto-Se´ valido che successivamente diventera` fiducia nei valori o negli ideali. Questi due poli possono essere variamente sviluppati, e quindi variamente interagenti tra di loro. Se invece questi aspetti non si sviluppano, si giungera` ad una patologia narcisistica caratterizzata da un senso di imperfezione e soprattutto da una bassa autostima. Le deviazioni dei genitori dalla loro funzione di oggetti-Se´ ottimali fanno sı` che il bambino li viva come “aggressori non empatici dell’integrita` del suo Se´”. Mancanze sporadiche non creano alcun problema; mancanze periodiche addirittura possono facilitare il processo di integrazione del Se´. Per Kohut cio` che e` deleterio e determina patologia e` la cronica mancanza di empatia, dovuta alla patologia dei genitori. Quando c’e` una patologia dei genitori questa inevitabilmente si riflette sul bambino. I genitori con problematiche psicopatologiche o con narcisimo mascherato da atteggiamenti falsamente iperprotettivi sono incapaci di essere oggetti-Se´ empatici. Di fronte alla carenza dei genitori l’originaria ricerca di oggetti-Se´ non solo si blocca, ma si disgrega in impulsi sessuali ed aggressivi. Questa affermazione e` di notevole rilievo perche´, come gia` aveva affermato Fairbairn, il bambino cerca non soddisfazioni pulsionali di scarica (aggressive o sessuali), ma cerca un oggetto che risponda. Se questa corrispondenza manca, non si ha la formazione di un Se´ adeguato e questo fa emergere le pulsioni aggressive e sessuali (ovviamente premature). «Sicurezza di Se´ non distruttiva ed elementi libidici non coattivi sono intrecciati ed inclusi nella prima ricerca d’oggetto del bambino. Sia la sicurezza di Se´ che la sessualita` infantile, quando lo sviluppo procede bene, sono componenti di piu` ampie figurazioni di relazioni con oggetti-Se´ empatici. La comparsa di aggressivita` distruttiva o di pura ricerca di piacere nell’isolamento indica che gia` si e` verificato un guasto patologico» (J. Greenberg, S. Mitchell).

Teorie dello sviluppo psichico

Lo studio di Kohut si concentra sulle primitive relazioni oggettuali e sull’importanza che hanno queste per la formazione del Se´. Comunque, pur dando una importanza diversa alle relazioni interpersonali, egli conserva, come psicoanalista ortodosso, la teoria delle pulsioni. Ma a differenza di Freud ritiene esserci una energia istintuale libidica primaria, che si ramifica in due direzioni: libido narcisistica e libido oggettuale. Mentre quella narcisistica continuera`, pur nella maturazione, ad investire oggetti Se´ ed assumere nell’adulto funzioni tipo Io ideale, la libido oggettuale che si sviluppera` successivamente, se quella narcisistica ha avuto un normale sviluppo nei primi anni, tendera` ad investire oggetti “veri”, cioe` vissuti come nettamente separati e diversi dal soggetto. Come la maggior parte degli psicoanalisti Kohut, pur proponendo un modello di sviluppo completamente diverso, sente il dovere di rientrare nell’ortodossia freudiana: per questo motivo egli postula due istinti (anche se elimina quello di morte) ed in parte sembra giustificarsi affermando che la sua teoria non e` altro che una modifica di quella freudiana: si sarebbe limitato soltanto ad evidenziare una fase piu` precoce, quella narcisistica, e i conseguenti disturbi collegati ad uno sviluppo patologico del Se´ infantile. Infatti successivamente il bambino, nell’investire gli oggetti “reali”, presenterebbe le classiche fasi dello sviluppo previsto da Freud. Ma Kohut si rende ben presto conto che nella sua teorizzazione il concetto di pulsione e` una forzatura: pertanto nel 1977 e` costretto a rivedere la propria teoria. Kohut sostiene, in accordo con Fairbairn e Sullivan, che la teoria delle pulsioni di Freud deriva dalla mentalita` ottocentesca, positivista e riduzionistica, che proponeva una inevitabile separazione tra soggetto che osserva e oggetto che e` osservato. Postulato non piu` accettabile, anche alla luce della scienza e della fisica moderna, in quanto non e` possibile scindere l’osservatore dall’osservato. E pertanto la psicoanalisi puo` essere definita come disciplina del comportamento umano che si basa sulla “introspezione ed empatia”. Questa affermazione permette a Kohut da una parte di superare antinomie insolubili, dall’al-

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tra di proporre una critica piu` radicale alla teoria classica delle pulsioni. «...poiche´ tale struttura e` essenzialmente meccanicistica, si lascia sfuggire il livello piu` importante in cui opera l’esperienza umana. Nel suo ultimo articolo pubblicato postumo Kohut definisce la nozione di pulsione come un concetto biologico vago e insipido» (J. Greenberg, S. Mitchell). La teoria freudiana delle pulsioni e` riduttiva: e` come volere comprendere una grande opera pittorica attraverso l’analisi dei colori: si perde la complessita` e la globalita` del quadro. Per questo Kohut insiste di nuovo sull’importanza delle prime fasi e sul superamento della fase narcisistica. «Un Se´ indebolito e frammentato si preoccupera` in senso difensivo di mete di pura ricerca di piacere .... Il modello delle pulsioni freudiano si e` sempre occupato di “prodotti di disintegrazione” di uno sviluppo difettoso del Se´... Inizialmente il Se´ non cerca una riduzione di tensione o una espressione istintuale, ma relazioni, attaccamento, connessione con altri. Se c’e` una severa ferita al Se´ ed alle sue relazioni, queste costellazioni primarie si disgregano e subentra un deterioramento che si manifesta attraverso la ricerca del piacere o esplosioni di rabbia. Cosı` la teoria classica ha fatto delle conseguenze di una grave psicopatologia, gli elementi costruttivi della sua psicologia dello sviluppo» (J. Greenberg, S. Mitchell). Credo che questa ultima affermazione segnali una distanza profonda, direi abissale, dalla teoria freudiana. E come si puo` evidenziare la critica piu` profonda non e` tanto alla teoria delle pulsioni, quanto piuttosto aver scambiato la patologia con la normalita`. Il contributo di Kohut alla psicologia del Se´ e` sicuramente notevole, ma se ci siamo soffermati a lungo su questo Autore e` anche per evidenziare che il tentativo di una sintesi tra teoria pulsionale e teoria delle relazioni oggettuali e` un percorso difficile e pieno di trappole (teoriche). Kohut ha cercato di bilanciare ortodossia ed innovazione, ripetendo il copione di tanti altri psicoanalisti che, pur proponendo teorie completamente diverse, hanno sentito il bisogno di mantenersi fedeli a Freud. ` forse necessario portare fino in fondo una E critica a Freud per poter propore un modello

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realmente innovativo? Credo di sı`, come credo che la teoria complementare, che tiene conto sia delle pulsioni che delle relazioni oggettuali, e` al momento l’unica strada percorribile per comprendere lo sviluppo psicologico. Per questo rimando al cap. 8. ` utile proporre pero` alcune delle piu` recenti E acquisizioni sul bambino da parte degli studiosi di psicologia evolutiva, prima di passare ad esporre un modello di sviluppo integrato e completo.

9. Infant research Condensiamo in questo paragrafo i risultati degli studi degli ultimi 20 anni sullo sviluppo e sull’evoluzione del bambino nei primi mesi o anni di vita. Studi caratterizzati sia da una osservazione diretta di bambini normali, nel loro habitat o in condizioni sperimentali poco artificiose, sia dal tentativo di comprendere le tappe evolutive del bambino attraverso prove sperimentali (come la strange situation o il visual cliff). Su questa ricerca si sono aperti due fronti. Uno collegato prevalentemente al cognitivismo che si occupa di studiare le diverse funzioni, l’altro collegato con il campo analitico in senso lato che cerca di evidenziare lo sviluppo globale del bambino, piu` che le singole funzioni. Al di la` dei metodi e degli scopi, sicuramente possiamo dire che molti dei risultati sono comparabili o comunque portano a conclusioni simili. Gli studi di psicologia sperimentale, soprattutto di derivazione cognitivista, hanno portato a parlare di “bambino competente”, volendo intendere che il bambino fin dalle prime ore e` dotato di numerose e complesse capacita`. Secondo numerosi Autori, le capacita` cognitive si sviluppano rapidamente ed in varie direzioni. Fin dalle prime settimane di vita il bambino e` in grado di riconoscere la madre dall’odore. Egli inoltre distingue oggetti che presentano caratteristiche diverse ed e` attratto fortemente da tutto cio` che e` in movimento e dai contrasti di forme o di colori. Tutto questo sembra essere prevalentemente

innato, comunque e` fortemente influenzato da un ambiente ricco di stimoli. A 5-6 mesi il bambino perfeziona la vista al punto di poter riconoscere il viso dell’A.S. e distinguerlo da altri soggetti. Inoltre i bambini sono in grado di riconoscere oggetti identici, anche se in posizioni diverse: come per esempio il riconoscimento di un viso ` in questo moanche da diverse angolazioni. E mento che il bambino attiva sempre di piu` la cosiddetta percezione transmodale: ovvero riesce a collegare diversi sensi, e quindi piu` percezioni, tra di loro, in modo da avere una informazione piu` completa. Comunque la capacita` del bambino che piu` ha colpito gli psicologi e` quella di riuscire a raggruppare gli oggetti in categorie, sulla base di alcuni elementi comuni. Questa capacita`, gia` evidenziata da Piaget, inizierebbe secondo questi Autori molto piu` precocemente, gia` ad un anno, quando il bambino inizia a raggruppare oggetti sulla base del colore, o distinguere oggetti commestibili da oggetti non commestibili, capacita` spiegata con l’ipotesi della discrepanza, secondo la quale i bambini tendono a prestare maggiore attenzione a stimoli diversi da quelli abituali, sempre che questa discrepanza non sia eccessiva. Quindi confrontano gli eventi nuovi con gli schemi di eventi o oggetti gia` appresi, e tendono a modificare gli schemi, rendendoli sempre piu` complessi. Questa complessita` viene favorita dalla categorizzazione ovvero dalla capacita` di riunire gli oggetti in categorie o classi di insiemi. Inoltre sempre nel primo anno assistiamo al prodigioso sviluppo della memoria; il bambino gia` a due mesi e` capace di riconoscere un oggetto visto poco tempo prima. Con il passare dei mesi questa capacita` si estende ad oggetti visti anche molto tempo prima. Ma accanto allo studio delle capacita` cognitive, gli Autori, sempre usando il metodo sperimentale, si sono interessati anche degli aspetti emotivi. ` ovvio che data l’impossibilita` del bambino E piccolo di poter verbalizzare le proprie emozioni, le variazioni emotive vengono studiate tramite le variazioni psicofisiologiche. Cosı` a 3-4 mesi l’interruzione di una attivita` di gioco o la tachicardia segnalano una situazione di ansia legata ad eventi imprevisti, mentre la tendenza ad incrementare

Teorie dello sviluppo psichico

l’attivita` motoria o il pianto segnala una richiesta di soddisfacimento di bisogni. Invece il bambino manifesta tranquillita` attraverso il rilasciamento muscolare o la chiusura degli occhi. La gioia o il benessere che nascono da avvenimenti eccitanti (legati in genere a cambiamenti non eccessivi delle situazioni, come dire che il bambino gia` a 4 mesi non sopporta la ripetitivita` e la monotonia) sono espressi con il sorriso, la vocalizzazione o con l’incremento della motricita`. A 6-8 mesi il bambino comincia a condividere i vissuti emotivi degli adulti: tende ad allontanare un adulto iroso o arrabbiato e invia segnali di attaccamento verso adulti disponibili. Da tutte queste ricerche emergono due dati essenziali. Il primo e` che il bambino possiede ed utilizza capacita` molto selettive e specifiche gia` dai primi giorni, il che evidenzia quanto fosse errata la concezione freudiana di un bambino fondamentalmente amorfo, incapace e narcisista. Il secondo e` che osservazioni, pur diverse sia per metodologia che per teoria, tendono a confermare ampiamente i dati messi in evidenza da Piaget. Altri AA., prevalentemente di estrazione psicodinamica, invece hanno cercato di evidenziare lo sviluppo globale del bambino. Tra questi ricordiamo Stern, Emde ecc. Secondo Stern, fin dalla nascita il bambino sperimenta il senso di Se´. «...I neonati cominciano a sperimentare il senso di un Se´ emergente fin dalla nascita; essi sono predisposti ad essere coscienti dei processi di autorganizzazione. Non sperimentano mai un periodo di totale indifferenziazione tra il Se´ e l’altro. I neonati sono anche predisposti a rispondere selettivamente a eventi esterni di carattere sociale e non sperimentano mai qualcosa come una fase autistica» (Stern, pag. 27). Pertanto il Se´ e` un principio organizzatore primario che, a differenza di quanto proposto da Kohut, non ha bisogno di oggetti-Se´, perche´ emerge spontaneamente gia` al momento della nascita. Stern distingue quattro fasi di sviluppo del Se´ «... ognuna delle quali definisce un diverso campo di esperienza di Se´ e di relazione sociale».

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9.1. Se´ emergente Il Se´ emergente si forma da 0 a 2 mesi, ed e` caratterizzato dalla sensazione esprimibile come “Io sono”.

9.2. Se´ nucleare Il Se´ nucleare, tra i 2 e i 6 mesi, consolida questa sensazione di unicita` e di differenziazione dagli altri e puo` esprimersi con il vissuto “io sono io, non un altro”.

9.3. Se´ intersoggettivo Il Se´ intersoggettivo, tra i 7 e i 15 mesi, e` caratterizzato dalla sensazione che la soggettivita` e l’unicita` permangono pur nello scambio emotivoaffettivo con gli altri, e puo` essere espresso dal vissuto “io sono io, pur nel rapporto con l’altro”.

9.4. Se´ verbale Il Se´ verbale, dai 16 mesi in poi, e` caratterizzato dalla possibilita` di pensare e parlare e quindi comunicare con gli altri le proprie sensazioni, emozioni e pensieri, e puo` essere espresso dal vissuto: “Io sono capace di esprimere i miei stati d’animo e di capire quelli dell’altro”. Inizia cosı` la fase della intersoggettivita`. Due punti fondamentali della teorizzazione di Stern riguardano il Se´ nucleare e il Se´ verbale. «Durante il periodo che va dai 2 ai 6 mesi i bambini consolidano il senso di un Se´ nucleare come una entita` fisica separata, compatta, provvista di confini, con un senso di essere “agente”, dotato di affettivita` e di continuita` temporale. Le capacita` di separazione sono il risultato positivo dell’attivita` e dell’organizzazione del Se´ “che sta con un altro”, non il prodotto passivo di un fallimento della capacita` di differenziarsi dall’altro». Quindi per Stern la capacita` di separazione e` secondaria ad un sano sviluppo del Se´ che avviene quando c’e` una empatia reciproca tra adulto e bambino che «permette a questi di ricono-

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scere gli stati emotivi e riconoscersi attraverso i propri vissuti emotivi». Questo principio di condivisione sviluppa il Se´ e lo porta ad organizzarsi come entita` autonoma, autosufficiente e valida. Comunque numerosi Autori, come Emde, Klinnert, Sander ecc., che si sono occupati soprattutto dei primi mesi dello sviluppo, sottolineano l’importanza e la centralita` dell’esperienza del bambino con chi gli fornisce l’empatia e la disponibilita` , attraverso l’accudimento. Il bambino possiede precoci strutture motivazionali, biologicamente predisposte, che si sviluppano nel contesto delle relazioni di accudimento e persistono per tutta la vita. Lo sviluppo e` considerato come un processo continuo di interazione che si svolge in maniera bidirezionale: dall’ambiente verso il bambino e dal bambino verso la madre. La funzione di accudimento (empatia) si attua attraverso una condivisione di significati e di emozioni (a livello preverbale, inconscio) ed una disponibilita`. «Questa disponibilita` non deve essere totale. La madre deve essere vicina al bambino, rassicurandolo, ma deve predisporre un ambiente necessario perche´ il bambino si senta spinto verso un piu` elevato livello di sviluppo in modo sufficiente e non eccessivo. Questa regolazione assicura l’equilibrio, e` l’evitamento degli estremi ed il mantenimento dell’integrita` individuale: la regolazione funziona nel senso di rendere possibile una esplorazione ottimale in un orizzonte di sicurezza» (Emde). Questa dinamica si puo` mettere in evidenza mediante il cosiddetto “visual cliff”. Si tratta di un piano di cristallo trasparente lungo alcuni metri ed al di sotto del quale, dopo circa due metri, si presenta un avvallamento che da` al bambino la sensazione di sprofondare. Il bambino di 4-5 mesi non si rende conto del problema e attraversa tranquillamente tutto il piano. A circa 7 mesi il bambino invece percepisce (anche perche´ ha una cognizione diversa dello spazio e della profondita`) un pericolo. Quando il bambino si trova sul piano ed incontra questa situazione (il precipizio), fissa il volto della madre. Se vi coglie segni di paura cessa l’esplorazione, se invece coglie segnali di piacere o di interesse egli continua l’esplorazione, superando l’ostacolo.

Potremmo soffermarci a lungo su queste teorie, anche per evidenziarne alcuni limiti e forse anche l’eccessivo ottimismo circa le iniziali capacita` del bambino. Rimane fondamentale l’importanza del clima di una disponibilita` partecipe, per favorire l’attivita` esplorativa del bambino: attivita` fondamentale per la sua ulteriore formazione. Inoltre ci preme sottolineare che il passare del tempo ed una osservazione sempre piu` attenta e completa, hanno portato ad una visione dello sviluppo del bambino completamente diversa, anzi potremmo dire ribaltata. Dal piccolo amorfo ed autistico bambino di Freud, al piccolo psicotico della Klein, siamo giunti alla visione di un bambino che in condizioni ambientali valide non solo e` recettivo, competente, attento, ma soprattutto non e` necessariamente e primariamente distruttivo ed aggressivo. Questo non toglie che eventuali situazioni ambientali di carenza o ostilita` possano incidere negativamente sullo sviluppo e creare una patologia, piu` o meno grave, piu` o meno persistente.

10. Conclusioni Questa che puo` sembrare una trattazione prolissa circa il problema dello sviluppo psicologico e` in effetti una sintesi ridotta, ma non riduttiva. Ridotta perche´ quanto espresso in queste poche pagine e` il risultato della ricerca degli ultimi 80 anni, le cui pubblicazioni potrebbero riempire una intera biblioteca. Non riduttiva perche´, pur con inevitabili tagli (ho citato solo alcuni Autori) o volute ipertrofie (l’ampio spazio dato a Piaget, autore troppo citato ma poco conosciuto), c’e` un filo conduttore ben preciso. Da una parte e` evidente la complessita` di formulare una teoria dello sviluppo psicologico che tenga conto di tutti i fattori — biologici, psicologici, culturali — che influenzano lo sviluppo. Dall’altra e` inevitabile tentare la descrizione di un modello di sviluppo che riesca a trovare un comune denominatore in modo da essere applicabile non solo per la comprensione della normalita`, ma anche della psicopatologia.

Teorie dello sviluppo psichico

` quanto proporro` nel capitolo successivo: il E comune denominatore e` il modello psicodinamico.

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8 Modello psicodinamico dello sviluppo psichico Nicola Lalli Parole-chiave affetti; emozioni; carattere; crisi; coscienza; inconscio; stato; struttura; modalita` anaclitica; modalita` diaclitica; modello; epigenesi; temperamento; personalita`; Io; Se´

In successione abbiamo esaminato i vari quadri di riferimento della psichiatria, i modelli piu` accreditati dello sviluppo psichico e la definizione di normalita`-salute e di malattia. A questo punto mi sembra necessario proporre il modello di sviluppo psichico che usero` nel corso del Manuale, cercando di connotarne gli aspetti fondamentali e distintivi. ` mia specifica preoccupazione cercare di E mantenere il massimo della coerenza, pur accettando gli aspetti validi che provengono da teorie e modelli interpretativi diversi. Questo modello, definito complementare, e` un modello psicodinamico che permette di cogliere sia le modalita` di uno sviluppo sano e normale, sia la distorsione di questi processi evolutivi che determinano le singole patologie. Infatti all’inizio di ogni capitolo riguardante le diverse patologie, si trovera` un sottocapitolo titolato “Psicodinamica di...” che cerchera` di spiegare il come e il perche´ di queste disfunzioni. Ma cosa intendiamo per psicodinamico? Il termine dinamico e` stato introdotto prima-

riamente per distinguere i disturbi funzionali da quelli organici: in questo senso dinamico significava che il disturbo era di origine psicogena e quindi trasformabile. Successivamente si e` costituito un corpus teorico sempre piu` ampio, fino a costituire uno dei filoni piu` importanti di questa disciplina che e` la Psichiatria Dinamica. Per ulteriori approfondimenti rimando ad un libro affascinante che rimane tuttora un punto di riferimento fondamentale: ‘‘La scoperta dell’inconscio’’ di H. F. Hellenberger. Attualmente il termine dinamico definisce la concettualizzazione di un apparato psichico che non solo e` sempre in rapporto con il mondo esterno, ma e` anche dotato di specifiche energie. Energie legate ai due istinti fondamentali dell’uomo: quello libidico e quello di morte. Istinti che nel rapporto con la realta` esterna strutturano le diverse istanze psichiche come le emozioni, gli affetti, l’immagine corporea, la coscienza, ecc., costituendo cosı` quell’unita` dell’uomo che viene definita carattere. Data la complessita` del problema, ritengo utile dividere il presente capitolo in quattro parti:

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1)

Considerazioni generali. In questa parte cerchero` di proporre precise definizioni di alcuni concetti che molto spesso sono usati come fossero intercambiabili, generando cosı` solo confusione. Mi riferisco a termini come temperamento, carattere, personalita`, Io, Se´, che provengono da teorizzazioni diverse ed hanno quindi significati diversi. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali. Cerchero` di descrivere brevemente le peculiarita` di questo modello, definito appunto complementare, proponendo le istanze fondamentali dell’apparato psichico che strutturano il carattere: a) il concetto di istinto e la teoria duale; b) la dinamica della nascita; c) l’inconscio; d) le emozioni e gli affetti; e) il vissuto corporeo;

2)

3)

4)

f) la coscienza; g) il senso di identita`. Modello di sviluppo: a partire da questi elementi di base, cerchero` di esporre un modello di sviluppo che per crisi successive portera` alla costituzione di un carattere sano, accennando anche ai motivi che, inducendo una distorsione di questo processo, creano le varie psicopatologie. Stato e struttura. Dopo aver esaminato le varie vicissitudini pulsionali e relazionali che comportano la struttura dell’apparato psichico che quindi presuppone una stabilita` , dobbiamo tener presente che ogni individuo vive quotidianamente l’alternanza di tre stati della mente (utilizzo il termine mente per connotare la complementarita` funzionale del Sistema Nervoso Centrale e dell’apparato psichico) che so- no rispettivamente: Veglia - Sonno - Sogno. * * *

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

1. Considerazioni generali Da millenni l’uomo ha cercato di individuare le caratteristiche psicologiche e comportamentali dei singoli individui: la caratterizzazione di vizi o virtu` spesso e` stata collegata con una particolare fisionomia oppure con la somiglianza a diversi tipi di animali, ai quali appunto si attribuiscono vizi o virtu` degli uomini. In questa ricerca la favolistica, il teatro, la letteratura abbondano in descrizioni. Ma accanto alla descrizione si e` cercato anche di capirne le origini e le cause: ricerca che continua tuttora anche se con mezzi piu` raffinati e sofisticati. In questo lungo iter sono comparse nel tempo alcune denominazioni che continuano ad essere usate, spesso scollegate pero` dal contesto teorico all’interno del quale sono state utilizzate, creando spesso piu` confusione che chiarezza. Mi riferisco a termini come temperamento, carattere, personalita`, Io e Se´ usati a volte come sinonimi, a volte come antitesi. Pertanto mi sembra necessario, anche ai fini della successiva trattazione, fornire una precisazione, onde eliminare inutili confusioni.

a)

b) c)

d)

il picnico: soggetto con prevalenza del torace e dell’addome sugli arti e tendenza all’adiposita`; l’atletico: caratterizzato da una struttura scheletrica e muscolare molto forte; l’astenico (o leptosomico): piuttosto alto e longilineo con debole struttura muscolare e scheletrica; il displastico: un tipo misto.

L’autore prevede una serie di tipologie intermedie: ma l’aspetto piu` interessante, rimasto a lungo nella psichiatria, e` il collegamento di due temperamenti con due classiche malattie psichiatriche. Il picnico sarebbe soggetto alla psicosi maniaco-depressiva; l’astenico o leptosomico alla schizofrenia. Successivamente questi due tratti saranno descritti come due caratteristiche basilari di personalita`: l’estroversione e l’introversione. Successivamente W.H. Sheldon, psichiatra americano, descrive tre somatotipi collegati a tre temperamenti ben diversi: a)

1.1. Il temperamento Per temperamento si intende l’insieme dei tratti emotivi-affettivi e comportamentali, collegati ad una particolare costituzione somatica che e` definita somatotipo. ` la descrizione piu` antica che, se pur in E maniera piu` articolata e complessa, continua ad essere utilizzata soprattutto per collegare gli aspetti psichici con quelli somatici. Nell’antichita` venivano distinti quattro temperamenti collegati ognuno ad un eccesso di un particolare umore: come il sangue, la bile, ecc. Su questa base si distinguevano quattro temperamenti: collerico, flemmatico, sanguigno e bilioso. Ognuno di questi caratteri era visto anche come terreno favorevole per l’insorgenza di alcuni disturbi, sia somatici che psichici. Questa teoria e` stata ripresa recentemente ed ha avuto ampia diffusione, per merito di E. Kretschmer, psichiatra tedesco. Egli, in base a vari dati antropometrici, distingue quattro tipologie:

137

b)

c)

il somatotipo endomorfico (rotondo e grassottello) e` collegato alla somatotonia, caratterizzata da estroversione e dalla disinibizione nell’esprimere emozioni; il mosomorfico (con masse muscolari e scheletriche ben evidenti) alla viscerotonia, caratterizzata da grande energia e tendenza all’azione; l’ectomorfico (con corpo sottile e fragile) alla cerebrotonia, caratterizzata da inibizione sia dell’affettivita` che dell’azione.

Ovviamente questi caratteri basilari possono essere ampiamente variabili, ma comunque, mediante misure antropomorfiche, gli individui saranno sempre attribuibili alle tre categorie basilari. Inoltre l’Autore ritiene che questi tratti temperamentali sono collegabili a specifiche patologie. Ho citato solo due dei principali autori che si sono occupati del temperamento. Comunque, nonostante un temporaneo successo ed interesse, attualmente e` un termine poco utile e poco usato: e pertanto in questo constesto non sara` adottato.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1.2. Il carattere

1.3. La personalita`

Carattere, etimologicamente, vuol dire incisione: pertanto indica quei tratti psicologici e comportamentali stabili che “caratterizzano” ogni singolo individuo. Sicuramente e` S. Freud che ne indica una possibile interpretazione su base genetico-evolutiva, collegando i diversi tratti caratteriali ad una fissazione a particolari fasi evolutive. Avremo cosı` il carattere orale, anale, fallico ed infine il carattere genitale che rappresenterebbe il modello ipotetico di maturita` e di sviluppo dell’individuo. Successivamente introdurra` una distinzione tra sintomi psiconevrotici veri e propri e tratti del carattere. Nel primo caso si ha un insuccesso della rimozione con comparsa di sintomi; nel secondo invece c’e` un successo della rimozione che pero`, eccessiva, genera la nevrosi di carattere, ove mancano sintomi specifici ma si struttura una organizzazione patologica dell’intera personalita` che determina la perdita delle capacita` creative e di rapporto con la realta`. E su questa base W. Reich formula la concezione del carattere come una sorta di armatura che tende ad immobilizzare e coartare l’indivi` una difesa eccessiva, dovuta alla cultura duo. E ed alla societa` che tendono a reprimere la libera istintualita` dell’individuo. Questa accezione negativa tendera` sempre piu` a sfumare fino ad arrivare alla concezione del carattere come l’insieme dei tratti fisiologici e comportamentali dell’individuo, tratti che si sviluppano a partire dall’interazione del bambino con il mondo esterno. Pertanto possiamo parlare di un carattere normale e di un carattere che assume, a secondo degli insuccessi dei processi evolutivi, tratti sempre piu` patologici. Dal carattere nevrotico su base conflittuale, ma ancora asintomatico, al disturbo strutturale del carattere che e` legato ad alcuni deficit dell’apparato psichico. Ritornero` successivamente su questi concetti, dal momento che utilizzero` appunto il termine di carattere per indicare i tratti stabili dell’individuo siano essi normali o patologici.

Si intende per personalita`, secondo H.J. Eysenck, «...la somma totale degli schemi di condotta dell’organismo attuali e potenziali, ereditari ed acquisiti. Essa si origina e si sviluppa attraverso l’interazione funzionale dei quattro settori principali nei quali sono organizzati questi schemi di condotta: il settore cognitivo (intelligenza), conativo (carattere), affettivo (temperamento), somatico (costituzione)» (da U. Galimberti). La citazione di Eysenck non e` a caso, ma e` dovuta a due motivi ben precisi. Il primo e` una definizione largamente condivisibile, il secondo e` che il concetto di personalita`, pur usato da numerosi Autori con significati diversi, rimane un termine specifico della ricerca psicologica. Attraverso ricerche, prevalentemente su campioni di persone normali, gli psicologi clinici cercano, mediante test sempre piu` complessi e soprattutto con procedimenti di elaborazione sempre piu` sofisticati, di individuare alcuni tratti fondamentali della psiche che variamente sommandosi o interagendo possono spiegare la complessita` e la diversita` dei singoli individui. Non a caso un test di valutazione clinica molto conosciuto, come l’MMPI, e` definito test di “personalita`”. Gli studi piu` recenti, sempre sulla base di elaborazione di questionari, hanno portato alla cosiddetta teoria dei “Big Five”. Sono stati estrapolati cinque fattori normativi della personalita` che sono: Nevroticismo, Estroversione, Apertura all’esperienza, Amabilita` e Coscienziosita`. Questi fattori variamente interagendo spiegano le diversita` personali, mentre l’aumento eccessivo o la mancanza possono determinare specifiche patologie. Per questi motivi ritengo piu` utile riservare il termine personalita` agli studi di psicologia clinica che, usando strumenti di rilevazione diversi da quelli dell’indagine clinica, non sempre offrono dati comparabili o utilizzabili dalla clinica. Pertanto mi sembra piu` corretto non utilizzare questo termine: purtroppo rimane il concetto di “Disturbo di personalita`” perche´ largamente utilizzato, soprattutto da quando il DSM (nelle

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

sue varie versioni) ne ha fatto una categoria nosografica altamente specifica. Pertanto, per evitare ulteriori fraintendimenti utilizzero` il termine “Disturbo di personalita`”, ma e` evidente che esso sara` utilizzato nel presente Manuale come equivalente di disturbo del carattere strutturale (ved. cap. 22).

1.4. L’Io Nonostante l’uso generalizzato di questo pronome, e` stata sicuramente la psicoanalisi a sostantivizzarlo e renderlo una istanza fondamentale dell’apparato psichico, insieme all’Es ed al SuperIo. Comunque il significato di Io e` estremamente intricato e complicato, e lo stesso Freud lo usa spesso in accezioni diverse. Sul piano genetico, S. Freud propone in un primo tempo che l’Io si forma come differenziazione dall’Es nel rapporto con la realta` esterna: successivamente invece lo propone come precipitato di identificazioni successive. Sul piano funzionale l’Io comunque rimane l’istanza fondamentale dell’apparato psichico: nella sua parte conscia come capacita` di conoscenza e di rapporto con il mondo, mentre nella parte inconscia come sede dei meccanismi difensivi. Successivamente, soprattutto negli Stati Uniti, nascera` una specifica psicologia definita appunto Psicologia dell’Io soprattutto ad opera di H. Hartmann. Dato fondamentale e` la concettualizzazione che questa istanza non e` al servizio degli istinti, bensı` del rapporto con la realta`. L’Io, attraverso processi di maturazione, apprendimento ed adattamento, sviluppa sempre piu` la capacita` di esplorare e rapportarsi con il mondo traendone piacere; piacere che tendera` sempre piu` ad irrobustire questa funzione. Il concetto di forza dell’Io, come sinonimo di sanita` mentale, e` un elaborato della Psicologia dell’Io, come pure l’importanza delle gratificazioni esterne per la sua crescita e sviluppo. Numerosi studi successivi tenderanno sempre piu` a connotare l’Io come fonte delle motivazioni, come istanza organizzativa dell’esperienza e come

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luogo di una autopercezione continua che fonda il senso d’identita` dell’individuo. Per queste caratteristiche il concetto d’Io e quello di carattere sono in gran parte assimilabili. Pertanto nel Manuale l’uso di Io e di carattere potra` essere intercambiabile con una differenza: parlero` di Io soprattutto come il fondamento delle istanze che si evolve a partire dalla nascita per mediare il rapporto tra realta` esterna e inconscio; mentre parlero` di carattere soprattutto per definire la struttura stabile che pertanto si adatta meglio per la descrizione clinica.

1.5. Il Se´ ` un termine che assume significati diversi a E seconda delle diverse teorie che utilizzano questo termine. Complessivamente il Se´ connota sia una funzione che e` quella autoriflessiva ed autoreferenziale delle percezioni e delle esperienze, sia un nucleo centrale che rimane stabile e coeso pur nel fluire inevitabile degli eventi e delle relazioni del soggetto. Molto spesso le teorie del Se´ tendono a contrapporsi a quelle delle relazioni oggettuali, o comunque a contrapporre il Se´ alla realta` esterna. Non e` un caso che molto spesso una fondamentale operazione del bambino, quella di distinguere l’Io dal mondo esterno, viene spesso designata con la formula “distinzione del Se´ dal non Se´”. Il termine Se´ e` stato utilizzato in filosofia prima ancora di entrare nel lessico psicologico e psichiatrico. Fu W. James a introdurlo per primo nell’ambito della psicologia distinguendone tre modalita` fondamentali: Se´ materiale, Se´ sociale, Se´ spirituale, ad indicare i tre aspetti fondamentali dell’uomo: il vissuto corporeo, quello relazionale, ed il mondo dei valori e delle aspettative. Successivamente sara` la psicologia sociale ad impadronirsi di questo termine per sottolineare la matrice fondamentalmente culturale ed interpersonale della formazione dell’individuo, fino a giungere a considerare l’individuo come un precipitato, una stratificazione delle opinioni e dei

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giudizi che gli altri ci comunicano, piu` o meno esplicitamente, su di noi. Ma e` H. Kohut (vedi cap. 7) che formula una teoria del Se´ completa e coerente. Alcune di queste formulazioni, soprattutto il concetto di narcisismo, saranno utilizzate per elaborare una teoria dei disturbi di personalita`. O. Kernberg ritiene che la mancata coesione del Se´ determini quella “diffusione dell’identita`” sorta di marker psicologico del borderline. Il termine Se´, pur con varie modalita`, sara` spesso utilizzato per contrapporre ad una realizzazione vera un Falso-Se´ che sarebbe una sorta di maschera utilizzata dal borderline per gestire meglio la propria patologia proprio perche´ coperta di questa maschera (vedi cap. 22). Infine la psicologia umanistico-esistenziale utilizzera` ampiamente questo termine. Da R. May, che afferma che ogni individuo possiede un nucleo originario che cerca di affermarsi e di emergere per cui l’aspettativa maggiore dell’uomo e` l’autorealizzazione di questo Se´, fino a A.H. Maslow (vedi cap. 7) che pone la realizzazione del Se´ al vertice della piramide dello sviluppo umano. Inoltre il Se´ sara` un concetto fondamentale nella ricerca della infant research (vedi cap. 7). Comunque non sono mancate critiche anche molto radicali a questo concetto, soprattutto perche´ questo concetto esprime in maniera piu` evidente la convinzione che il soggetto o il Se´ sia una entita` unica e totalmente integrata. «L’assurdo e` che dentro di noi vive una persona che pensa per noi; questa persona noi la chiamiamo Se´». Questo concetto per Minsky serve a spiegare tutto senza spiegare alcunche´: «... come funziona la visione? Semplice: il nostro Se´ guarda attraverso i nostri occhi allo stesso modo come noi guardiamo alla finestra». Come facciamo a parlare? Anche qui tutto sembra venire da dentro: e` il nostro Se´ che ha qualcosa da comunicare ecc... Ora e` chiaro che tutte queste risposte non sono affatto risposte, bensı` parole pressoche´ vuote che assomigliano a delle risposte quel tanto che basta per non farci piu` fare domande». (M. Minsky). La critica di Minsky comunque va ben oltre il Se´ perche´ si inserisce in un dibattito aperto: se l’individuo e` una unita` coesa e sempre coerente

(come sostiene in particolar modo la teoria del Se´) o piuttosto e` composito di varie parti che spesso sono in netto contrasto o diverse tra di loro. In certi casi la polemica viene spinta fino all’etimo stesso di individuo (che vuol dire non diviso) che sarebbe un puro artifizio, perche´ l’uomo, anche il piu` normale, e` composto di numerose parti a volte molto diverse o in contrasto tra di loro. Comunque anche il termine Se´, poiche´ e` applicabile correttamente solo all’interno di specifiche teorie, non sara` utilizzato in questo contesto se non in riferimento a formulazioni specifiche della teoria del Se´. Pertanto possiamo concludere, dopo questo breve excursus, che nel Manuale saranno utilizzati solo due termini: carattere ed Io, che sono abbastanza sovrapponibili con una sola differenza: mentre l’Io verra` usato soprattutto nella descrizione delle varie fasi evolutive, quello di carattere sara` maggiormente utilizzato per connotare situazioni piuttosto stabili, siano esse sane o patologiche.

2. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali Il modello che esporro` si basa sui seguenti punti qualificanti. 1)

2)

3)

` un modello complementare, ovverosia poE stula la base pulsionale dello sviluppo psichico, ma propone anche la fondamentale importanza delle relazioni interpersonali. Lo sviluppo e` epigenetico ovverosia si ritiene che le pulsioni, o altre situazioni innate, siano innescate e attivate solo in presenza di ` sufficienti ed appropriati stimoli esterni. E noto che il bambino, se entro i primi tre mesi dalla nascita viene messo in acqua, nuota. Trascorso tale periodo, il bambino ‘‘dimentica’’ questa sua capacita`, e sara` costretto, faticosamente, a doverla riapprendere. Lo sviluppo avviene per crisi successive. Crisi vuol dire: separazione da una situa-

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4)

zione psichica ormai superata che se continuasse diventerebbe anacronistica e quindi patologica. Separazione possibile solo in una interazione positiva tra il soggetto e l’ambiente circostante. Si postula che lo sviluppo dell’uomo si situa tra due estremi: da quello di massima dipendenza, ad uno di sempre maggiore autonomia che lo porta a risolvere il bisogno di ‘‘dipendenza dall’oggetto’’, sviluppando nel contempo la capacita` ‘‘alla solitudine’’.

Ritengo piu` utile usare il termine complementare, piuttosto che il termine misto o bifattoriale (come fanno J.R. Greenberg e S.A. Mitchell) perche´ presenta analogie con il modello complementare, in fisica, della luce: modello che ne postula la natura corpuscolare ed ondulatoria. Complementare vuol dire quindi accettare sia la teoria degli istinti, sia quella dell’importanza delle relazioni interpersonali. Poiche´ il concetto di istinto e` quello piu` carico di ambiguita`, dovro` soffermarmi, piu` a lungo, su questo problema. 2.1. Il concetto di istinto L’uomo possiede due istinti: quello libidico e quello di morte. Perche´ due istinti, e perche´ specificamente questi? Per dare una risposta dobbiamo inserire l’uomo ed il suo sviluppo nella evoluzione generale della vita e delle sue differenziazioni. Oltre 4 miliardi di anni fa il passaggio dall’inorganico al biologico fu segnato da una svolta che potrebbe sembrare poco logica e poco economica. Il passaggio dalla simmetria della materia inorganica (prodotti recemici) alla asimmetria del biologico. La materia vivente e` asimmetrica perche´ utilizza soltanto prodotti destrogiri (come gli zuccheri) o levogiri (come gli aminoacidi): i rispettivi isomeri non solo non sono utilizzabili, ma a volte possono risultare addirittura dannosi. Questo brevissimo accenno al complesso problema dell’asimmetria e` solo per postulare che qualcosa di analogo puo` essere avvenuto nel passaggio dai primati superiori all’uomo: ovverosia dall’animalita` all’umanita`.

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Datare questo avvenimento non e` facile: sicuramente all’interno dell’era quaternaria (iniziata 2 milioni di anni fa). Ma se questo passaggio lo dobbiamo attribuire all’homo habilis (1.500.000 anni fa), o all’homo erectus (500.000 anni fa), o all’homo sapiens (200.000 anni fa), o addirittura in tempi piu` vicini, rimane campo aperto ad una ricerca interdisciplinare. Pero` possiamo ipotizzare che il passaggio dall’‘‘animalita`’’ all’‘‘umanita`’’ e` stato segnato da una svolta riduttiva: da una serie di istinti programmati e predeterminati, ad istinti con una minore specificita`, ma con una maggiore plasticita`. L’istinto libidico che tende ad unire, l’istinto di morte che tende a separare: istinti poco ‘‘specialistici’’, ma proprio per questo con maggiori potenzialita`. Questi due istinti regolano il cammino fondamentale dell’uomo: dalla dipendenza alla autonomia. Perche´ questa riduzione? Perche´, in termini evolutivi, questa riduzione permette un migliore adattamento alla complessita` . Infatti il problema dell’uomo non e` tanto l’adattamento a situazioni ambientali, che in genere cambiano in tempi lunghi. A partire dall’ultima glaciazione (12.000 anni fa), l’uomo in effetti non ha dovuto affrontare grandi cambiamenti nel mondo della natura. Ma l’uomo deve affrontare una situazione assolutamente specifica: l’adattamento all’ambiente umano. Ed e` questo che, cambiando continuamente, sottopone l’uomo ad uno sforzo che sarebbe assolutamente impensabile per qualsiasi animale. Il mondo umano, cioe` la cultura, le tradizioni, le abitudini, le regole di vita ecc. possono cambiare in maniera molto rapida e radicale. E l’uomo deve adattarsi continuamente a situazioni culturali diverse: ha bisogno pertanto di una maggiore plasticita`, che non ci sarebbe se egli fosse portatore di istinti altamente specializzati e quindi rigidi. Inoltre la dualita` istintuale si avvicina e realizza quella asimmetria che sembra costituire la specificita` del biologico. Possiamo ipotizzare che la vita psichica si sviluppi solo in una situazione duale-asimmetrica

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(istinto di vita-istinto di morte; sonno-veglia; Io-tu ecc.) e che la patologia psichica e la morte biologica possono essere lette come passaggi verso la simmetria. Nel campo psichico l’identificazione proiettiva, la simbiosi, la confusione sonno-veglia, sono espressioni di una tendenza alla simmetria ed alla omogeneita`, segni evidenti di una grave psicopatologia. Nel campo biologico la morte e` il ritorno alla natura, a quella simmetria tipica della materia inorganica (N. Lalli, 1991). 2.2. Istinto libidico. Istinto di morte L’istinto libidico spinge alla ricerca dell’oggetto e puo` esprimersi con due modalita`. Sul piano fenomenico, queste due modalita` si differenziano per l’importanza che assume l’oggetto. Esiste una modalita` che possiamo definire anaclitica (ovverosia di appoggio all’oggetto) che va dall’attaccamento, al bisogno di rinforzo per l’autostima, ecc. e che esprime quindi una dipendenza dall’oggetto. Ed una modalita` che possiamo definire diaclitica (ovverosia che non presenta una dipendenza dall’oggetto) e che si esprime come ideale dell’Io, come creativita`, fantasia, in altre parole come investimento sessuale. Per istinto di morte seguo la teorizzazione di M. Fagioli: e` l’istinto che si esplica alla nascita e che si manifesta come fantasia di sparizione contro la realta` (aspetto distruttivo) o come fantasia di sparizione verso situazioni interne (aspetto creativo). Capire in che modo interagiscono questi due istinti e` un problema fondamentale, perche´ si ` pone alla base del problema della separazione. E evidente che dobbiamo non solo chiederci cosa e` che ci spinge verso l’oggetto, ma anche cosa ne permette la separazione. La complessita` di questa domanda ha portato con facili semplificazioni a postulare il principio della scarica: la separazione e` inevitabile ed automatica ogni qualvolta la tensione viene scaricata. Anche il concetto di narcisismo presenta una uguale genesi1. Con il che si 1

Il mito di Narciso deve essere interpretato alla luce della

viene a postulare che una capacita` (la separazione) — che si deve acquisire nel tempo — gia` esiste a monte e prima ancora di una serie di relazioni interpersonali che permettono di svilupparla. Ma proporre la separazione come automatica ed inevitabile, anche dopo il soddisfacimento del desiderio, vuol dire riproporre in maniera surrettizia un modello di scarica: modello meno meccanicistico, ma pur sempre di scarica. Dobbiamo pertanto pensare che se esiste una pulsione che direziona verso l’oggetto, ci deve essere anche una pulsione che agisce in senso ` contrario: ovverosia che porti alla separazione. E nella dialettica tra queste pulsioni e le relazioni interpersonali che dobbiamo trovare la genesi dello sviluppo psichico: sia normale che patologico. Quale e` dunque il significato dell’oggetto e della relazione nello sviluppo psichico? Se l’oggetto servisse solamente a sviluppare potenzialita` che sarebbero tutte innate nel bambino, l’oggetto sarebbe abbastanza squalificato e soprattutto non si spiegherebbe la complessita`, la varieta` della vita psichica e negheremmo un fattore fondamentale come l’apprendimento. Se l’oggetto servisse invece a costruireriempire (mediante le introiezioni e le identificazioni) il bambino, vorrebbe dire ridurre quest’ultimo ad un puro contenitore, negando quindi qualsiasi possibilita` di cambiamento e di crescita reale. Dobbiamo ritenere quindi che ci sia una dinamica piu` complessa che puo` essere compresa sulla base di una ipotesi che lega la nascita, la crisi, il cambiamento ed il trauma. Necessita` fondamentale per l’uomo e` quella di mantenere l’integrita` del proprio apparato psichico, ovverosia quella coesione originaria, che e` l’Io originario. Ma questa integrita` non puo` essere stasi perenne: la crisi, il cambiamento sono inevitabili (“la stasi e` morte”, affermava G. F. Hegel). Ma se questi sono troppo traumatici il bambino pridinamica di Eco. Eco e` colei che non riesce a separarsi, come evidenzia la necessita` di attaccare e ‘‘staccare’’ le parole dell’altro (il fenomeno dell’eco). Narciso, incapace di rapportarsi con questa dinamica, si rifugia nel narcisismo, ovverosia nella indifferenza, come incapacita` di sostenere una dinamica, di intensa bramosia.

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

ma, l’adulto poi, metteranno in atto una serie di meccanismi difensivi che sono collegabili con l’istinto di morte come tendenza che cerca di allontanare, far sparire, o controllare onnipotentemente l’oggetto frustrante. Dico difensivo perche´ il bambino cerca appunto non di ritornare alla situazione precedente ma soltanto di salvaguardare l’integrita` psichica, e quindi di riequilibrare la turbata situazione attuale. Non si puo` parlare di situazione precedente perche´ il bambino si trova in una crisi, ovverosia a cavallo tra il ripristinare la situazione che e` stata turbata o accettare l’avventura verso una nuova situazione. ` chiaro quindi che la crisi puo` avere una E doppia valenza: maturativa o regressiva. Postulare l’evoluzione per crisi significa evidenziare l’importanza dell’oggetto in genere, ma soprattutto nel momento della crisi, quando un adulto valido e gratificante aiuta il bambino a rinforzare le valenze libidiche, in modo da contrastare le tendenze che lo porterebbero a non tentare l’avventura, ma a rifugiarsi nelle comodita` dell’acquisito. Ma se consideriamo che la crisi, come momento di passaggio-cambiamento, non e` solo evento psichico, ma anche biologico, (nel senso di acquisizione di nuove capacita`) ci rendiamo conto della inevitabilita` della crisi e quindi dell’importanza fondamentale della gestione della stessa. La prima crisi, per importanza e per cronologia, e` la nascita; a questa ne seguiranno altre legate direttamente alla crescita ed alla evoluzione psicofisica del bambino, che rappresenta il punto di vista epigenetico.

2.3. La nascita e lo sviluppo psichico Alla nascita e nei primi mesi di vita l’espressione istintuale trova il massimo della manifestazione: l’istinto libidico come attaccamento, l’istinto di morte come sparizione dell’oggetto frustrante. Con la nascita e con l’attivazione dell’istinto di morte, si costituisce l’Io e l’inizio della vita psichica. Chiaramente la nascita deve essere intesa come una nuova situazione che segue ad una precedente, che e` quella della vita endouterina. Questa

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fase, per il feto, e` caratterizzata da due situazioni fondamentali: a) b)

c’e` una dinamica di contatto che e` mediata prevalentemente dalla cute; il feto vive una situazione di simbiosi, ove non e` possibile distinguere un interno ed un esterno, un Io ed un non-Io. Sara` la nascita appunto che, interrompendo questa situazione, attiva la possibilita` e l’inizio di una vita psichica e di un Io.

Alla nascita l’Io e` prevalentemente somatico, ovverosia trae la sua forza a livello tattile e cenestesico, come avveniva gia` nella precedente situazione endouterina, con una differenza fondamentale. La cesura della nascita, imponendo una rottura dell’omeostasi e quindi l’inevitabile ‘‘vissuto’’ del non essere piu` in simbiosi, fa del bambino una unita` separata e divisa che deve lottare per mantenere questa nuova situazione. Nuova situazione che ha alcuni aspetti in comune con quella precedente: la culla e le braccia dell’A.S. (Adulto Significativo), segnalano queste diversita`, ma anche questa continuita` nel cambiamento. La fantasia di sparizione contro la nuova realta`: la luce, ed il recupero del ricordo della precedente esperienza endouterina, fanno sı` che si costituisca la ‘‘sensazione’’ di un contenitore. Questo contenitore rappresenta l’abbozzo dell’apparato psichico che racchiudera` i successivi vissuti. Ma questa sensazione di un contenitore interno e` estremamente fragile, pronto a lacerarsi, come spesso si irrita la pelle del bambino. Percio` questa immagine-sensazione interna deve trovare supporto e fortificarsi sulla base delle successive esperienze tattili: la pelle, che gia` nel liquido amniotico ha rappresentato il principale mezzo di comunicazione e di osmosi, anche dopo la nascita continua ad essere luogo privilegiato che focalizza le attenzioni e le cure degli adulti nei confronti del bambino. In questo modo, il fragile Io si consolida, sempreche´ ci sia una dinamica oggettuale valida, che deve passare attraverso le comunicazioni, le emozioni e gli affetti che la pelle raccoglie e trasmette al bambino. L’Io fondamentalmente somatico tende a strutturarsi come Io-pelle. Ovverosia una struttura che e` sempre piu` psichica, ma che ha ancora nel somatico la sua base.

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Se le modalita` di rapporto interpersonale sono valide, lo scambio continuo, osmotico tra l’Io e l’esterno rendono sempre piu` questo Io-pelle un Io libidico ovverosia un Io capace di investimento sessuale, ed ove la ‘‘pelle’’ si e` trasformata in una duplice qualita` psichica: la recettivita` e la resistenza. Mi e` sembrato indispensabile riproporre il problema degli istinti, perche´ e` solo sulla base di una teoria istintuale che e` possibile proporre l’esistenza, la natura e le funzioni dell’inconscio. Eliminare le pulsioni vuol dire eliminare l’inconscio o, al massimo, trasformarlo in inconscio cognitivo.

2.4. L’inconscio ` stupefacente dover constatare come ormai E da alcuni decenni la ricerca sull’inconscio da parte della psicoanalisi sia praticamente assente o banalizzata. Basti osservare che un autore — abbastanza conosciuto come A. Modell — nel suo libro ritenuto innovativo Psicoanalisi in un nuovo contesto, non parla mai di inconscio. Credo invece piu` euristico non solo ritenere che esista un inconscio, ma che questa dimensione sia fondamentale nella vita psichica dell’uomo; ma bisognera` allora cercarne una definizione corretta: vediamone alcune. L’inconscio e` una mera potenzialita`: definizione possibile, ma troppo generica. L’inconscio e` una funzione: ma allora di quale apparato? L’inconscio e` un apparato: ma come si configura questo apparato? L’incoscio e` una struttura. Ma cosa intendiamo per struttura? Una organizzazione preesperienziale o post-esperienziale? Ritengo invece che l’inconscio deve essere considerato come uno stato della mente, ovverosia come una complessita` che si manifesta e che puo` momentaneamente scomparire per dare luce al conscio. Il concetto di stato implica l’esistenza non di apparati diversi, ma di variazioni dinamiche di uno stesso substrato organico, cioe` il S.N.C. In questo modo si supera sia l’antitesi

mente-soma, sia la fantasticheria che esista una parte nascosta e misteriosa dove risiederebbe l’inconscio. Ci troveremmo cosı` molto vicini alla dinamica del rapporto veglia-sonno-sogno (vedi N. Lalli, A. Fionda, L’altra faccia della luna. Il mistero del sonno, con particolare riferimento ai cap. VI e VII, Liguori, Napoli 1994). Le modalita` di estrinsecazione dell’inconscio sono fondamentalmente due: l’inconscio come stato della mente e l’inconscio come apparato piu` o meno rigido ed immutabile. Chiarito questo quesito, potremmo anche definire meglio il concetto di inconscio come potenzialita`. Iniziamo da una osservazione molto semplice e comune. In qualsiasi situazione di rapporto il soggetto presenta una duplice articolazione: da una parte e` attivo perche´ investe l’oggetto, dall’altra e` recettivo perche´ e` investito dall’oggetto. Investimento e recettivita` indicano una dinamica complessa che implica affetti, istinti, percezioni, fantasie, ecc... Per semplificare questa complessita`, mi soffermero` a considerare una situazione piu` parziale, ma significativa: la percezione visiva. Il soggetto nel rapporto con l’oggetto ha una percezione visiva dell’oggetto. In questa ottica possiamo dire che esiste una situazione di passivita`: ovvero il soggetto non puo` non vedere l’oggetto. Passivita` tanto maggiore quanto minore e` la capacita` di recettivita`, come avviene nello psicotico che vive l’esser guardato come intrusivita` violenta alla quale puo` cercare di sottrarsi solo con un meccanismo ben conosciuto: il negativismo che avviene in presenza e per la presenza dell’oggetto. Lo psicotico non puo` impedirsi di vedere: pertanto se vuole evitare l’altro deve volgere la testa dall’altra parte e deliberatamente. Comunque ritorniamo ad una situazione di normalita`: il soggetto percepisce visivamente l’oggetto, ma ad un certo punto l’oggetto andra` via. La separazione, prima o poi, dovra` comunque avvenire, e questa separazione e` inevitabile, come lo e` la nascita. Altrimenti si creerebbe una situazione di simbiosi mortale, come sarebbe mortale la permanenza del feto nell’utero oltre un certo periodo.

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Inevitabilmente, quindi, l’oggetto materiale non c’e` piu` e pertanto cessa lo stimolo visivo. In questo momento il soggetto si trovera`, per un attimo, in uno stato particolare che possiamo definire di deprivazione: la percezione visiva non e` piu` possibile. Cosa succede in questo momento? Il soggetto, per mantenere la continuita` di relazione con l’oggetto ed una propria continuita` interna, deve inserire la non piu` presente percezione visiva nella propria struttura psichica. Cioe` dovra` formare ` ovvio che per questa dinamica una immagine. E ci riferiamo a relazioni affettivamente significative per il soggetto e non gia` a situazioni banali. Ma questa immagine puo` formarsi con modalita` diverse: dalla normalita` alla patologia. Molto schematicamente possiamo distinguere quattro modalita`. a)

b)

c)

d)

Si formera`, in maniera creativa, una immagine: certamente la percezione e` pur sempre un atto soggettivo, ma questa deve tener conto della realta` esterna. Creativa quindi vuol dire che l’immagine trae origine, oltre che dal dato materiale esterno, anche dalla situazione psichica che corrisponde a quella dell’inconscio mare calmo. L’immagine si formera` sulla base di un oggetto interno deteriorato. Questo oggetto interno e` dovuto ad una dinamica di bramosia che comporta l’introiezione dell’oggetto (che risulta intero, ma deteriorato) e successiva scissione e rimozione. Questo oggetto interno sara` successivamente proiettato all’esterno: e` la dinamica dell’inconscio rimosso (psiconevrosi). L’immagine si forma sulla base di oggetti ` la dinamica interni frammentati e parziali. E dell’inconscio frammentato (psicosi schizofreniche). L’immagine non si forma: la fantasia di sparizione contro l’oggetto esterno comporta, alla scomparsa dell’oggetto materiale, l’incapacita` di formare qualsiasi immagine e quindi mantenere un legame, per quanto al` quanto avviene nello terato, con l’altro. E schizofrenico difettuale e nel simplex (seppur con eziologia diversa).

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Se consideriamo la capacita` di rapporto con l’oggetto e la capacita` di separazione, possiamo evidenziare tre situazioni. La prima corrisponde ad una situazione di inconscio mare calmo. E in questo caso possiamo parlare realmente di inconscio come stato della mente che si manifesta al momento della separazione-deprivazione come possibilita` di formare una immagine creativa. In questo caso possiamo parlare anche di un inconscio come potenzialita` creativa. La seconda e` quella relativa all’inconscio rimosso. In questo caso possiamo ritenere l’inconscio come una struttura che determina in maniera molto rigida ed iterativa la formazione dell’immagine. La terza infine corrisponde ad una situazione di vuoto interno. Quindi da una parte ci troviamo di fronte ad un inconscio sano che continua ad avere la capacita` di formare (creare) immagini: immagini che ovviamente nel bambino devono stabilizzarsi, nell’adulto invece vanno ad arricchire il suo mondo interno. Dall’altra avremo un inconscio che, strutturato sulla base di immagini alterate introiettate, costituisce l’inconscio rimosso. Per ulteriori approfondimenti rimando ad altri lavori (N. Lalli, 1994-1998).

2.5. Emozioni ed affetti ` evidente che c’e` una stretta correlazione tra E pulsioni, emozioni, affetti e strutturazione dell’inconscio. Ma la prima domanda da porsi e` se emozioni ed affetti hanno il medesimo significato, o se invece corrispondono a ‘‘sentimenti’’ diversi; uso ‘‘sentimento’’ nel senso piu` comune: ovvero come uno dei tre processi fondamentali che fondano la vita psichica insieme agli altri due processi che sono il conoscere e il volere. Per emozione dobbiamo intendere l’aspetto piu` primitivo del sentire, caratteristica peculiare della materia organica che ad un livello superiore utilizza ben definite vie neurofisiologiche (come il circuito di Papez). L’emozione presenta una stret-

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ta correlazione e corrispondenza con il soma (dalla mimica, alle variazioni di costanti biologiche) e si esprime con due vissuti fondamentali ed antitetici: piacere-dispiacere. Per piacere non deve intendersi ne´ una assenza di dispiacere, ne´ uno stato di nirvana, ma piuttosto una situazione armonica tra soma, psiche e ambiente. Non mi sembra superfluo rammentare la radice etimologica (plak) che vuol dire sostenere, concordare. Per dispiacere dobbiamo intendere invece una situazione di disarmonia che nasce o da un bisogno insoddisfatto o dalla mancanza di un rapporto gratificante, o da una alterazione dell’omeostasi individuo-ambiente. Possiamo ipotizzare che il piacere e` piu` uniforme, mentre il dispiacere puo` avere diverse gradazioni come dolore, ansia, angoscia. Le emozioni cosı` intese fanno parte ovviamente del patrimonio biologico del bambino, ma la qualita` — negativa o positiva — e` certamente dovuta alla modalita` del rapporto interpersonale. Nei primi mesi di vita e` pensabile che la dinamica mentale sia condizionata dalle emozioni e che queste abbiano una funzione primaria nella dinamica integrativa delle percezioni. La pelle, l’udito, la vista possono integrarsi o meno in relazione alla qualita` di questo sentimento: una situazione emotiva di dispiacere puo` rendere difficoltosa o impossibile questa integrazione tra gli aspetti orali e visivi e tra questi ultimi e quelli uditivi. Anche qui rimane centrale la dinamica rapporto-separazione. Nel rapporto con l’altro, se il bambino vive una situazione soddisfacente riesce a separarsi e, al momento della separazione, a mantenere dentro di se´ il ricordo dell’oggetto, che nelle prime fasi e` prevalentemente costituito sulla base uditiva, visiva e cenestesica. Si formano cosı` delle immagini, anche se non definite; e queste immagini tendono sempre piu` ad integrarsi e a fondersi e porteranno successivamente alla verbalizzazione: cioe` il passaggio dal ricordo-immagine al simbolo verbale. Ma ad una certa fase dello sviluppo compaiono gli affetti, ‘‘sentimenti’’ piu` complessi ed articolati. Quando e come nascono gli affetti?

Forse non c’e` un momento particolare, ma un lungo percorso che porta la polarita` piaceredispiacere a legarsi ad immagini ben precise. Ed e` a questo punto che le emozioni si trasformano in affetti, la cui bipolarita` rivela l’antica origine. Infatti anche gli affetti hanno una duplice polarita` che non possiamo piu` definire piaceredispiacere, ma dinamica complessiva del rapporto con l’altro. I ‘‘sentimenti’’ che colorano continuamente la vita umana sono innumerevoli. Piacere, amore, ansia, angoscia, odio, gelosia, sofferenza, coraggio, desiderio, paura, orgoglio, attrazione: tanti nomi per indicare due situazioni fondamentali collegate agli affetti. Da una parte quelli legati all’istinto libidico: desiderio, amore, investimento libidico. Dall’altra quelli collegati all’istinto di morte: rabbia, odio. Fino a quella dinamica estrema che si esprime come annullamento, quando la rabbia o l’odio non sono ulteriormente sopportabili e gestibili. Non e` questa la sede per affrontare la complessita` e la genesi e l’importanza degli affetti nella vita dell’uomo. Sicuramente la psicoanalisi non e` stata in grado di proporre una teoria soddisfacente degli affetti. Come osserva giustamente A. Green, questa difficolta` «...e` rappresentata dai nostri preconcetti e dal modo stesso in cui sono stati posti i problemi sin dall’inizio nell’ambito della teoria freudiana» (Green A., 1978). Per Freud l’affetto e` una quantita` di energia (Affektbertrag) che accompagna gli eventi della vita psichica. Egli inoltre differenzia l’origine degli affetti dalle rappresentazioni: l’affetto e` una traccia mnestica di azioni appartenenti al passato filogenetico delle specie; e` evidente l’influenza di Darwin in questa concettualizzazione. Questo tantum puro di energia, secondo Freud, puo` diventare fattore di disorganizzazione dell’apparato psichico ed avere conseguenze dannose per il funzionamento del pensiero. L’apparato psichico secondo Freud ha in fondo questa funzione fondamentale: ottimizzare l’aspetto razionale a scapito del pericoloso aspetto affettivo. Con il passare del tempo Freud porra` sempre piu` come referente della sua teoria della affettivita` l’angoscia, anzi questa diventa l’affetto per eccellenza e pertanto necessariamente sottoposto al processo

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di Verdrangung. Al di la` di facili critiche bisogna sottolineare che questa concettualizzazione della pericolosita` degli affetti avra` una precisa corrispondenza sul piano della prassi terapeutica: e` la concezione dell’analista neutrale. Comunque questa teoria degli affetti sara` variamente interpretata e modificata dai successori di Freud, ma senza alcuna sostanziale modifica. E giustamente osserva Green: «Ci si puo` chiedere se l’assenza di una teoria degli affetti generalmente accettata non sia da imputare ai limiti propri dell’ambito analitico. E credo che la risposta e` sicuramente affermativa» (A. Green, 1978). Pertanto bisogna riprendere un discorso che a partire dagli istinti, e da una diversa teorizzazione di questi, giunge a postulare una teoria degli affetti. A questo proposito mi sembra utile citare un passo del lavoro di G. De Simone Conoscenza ed affetti. Il dire ed il fare in psicoterapia: «...A questo punto forse possiamo essere piu` precisi nel dire che caratteristica dell’uomo non e`, come specie evoluta, solo quella di sentire. Il sentire come irritabilita`, sensibilita` e` caratteristica della materia vivente, come percezione sensoriale, appartiene alla specie animale ed anche al feto umano nel suo ambiente. Forse possiamo dire che caratteristica dell’uomo e` soprattutto sentire affetti a partire da immagini. Quando si ha la comparsa dell’affetto? Forse proprio quando la pulsione si lega all’immagine. Possiamo introdurre una definizione di affetto a partire dalla pulsione nel senso che quando la pulsione si lega all’immagine diventa affetto. Certo l’immagine mantiene una direzionalita` nel rapporto con la realta` (investimento) e gli affetti mantengono un sentire in rapporto con la realta` (la carica). Alla base c’e` il concetto assolutamente originale di pulsione come investimento nel rapporto con la realta` esterna. Fatto che si ritrova nella clinica, nei fenomeni empatici, nella percezione affettiva della relazione terapeutica. Ma in questo campo non c’e` dubbio che la teorizzazione forte e radicale, con cui confrontarsi, e` quella di Massimo Fagioli, nella quale viene proposto il punto di congiunzione tra l’impostazione relazionale e quella pulsionale, dove e`

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la pulsione stessa che si dirige verso l’esterno come reazione ad uno stimolo che proviene dall’esterno inanimato. Il punto di vista relazionale accetta che il neonato possa percepire uno stimolo esterno, quindi non c’e` piu` l’autoerotismo, il narcisismo; tuttavia che dal bambino possa partire qualcosa verso il mondo esterno non viene concepito. Inoltre, se il bambino appena nato e` in grado di percepire gli affetti della madre, perche´, un attimo prima del rapporto con la madre, non puo` percepire gli stimoli esterni fisici che sono ben piu` violenti? Forse non si concepisce — suggerisce Fagioli cui e` stata posta la domanda — che il neonato possa avere una reazione psichica a partire da uno stimolo fisico, da un fatto materiale (non spirituale), che cioe` possa iniziare la sua attivita` fisica non da stimoli, affetti, psiche della madre (in cui si puo` nascondere sempre l’idea che il bambino dipende dalla psiche, cioe` da qualcosa di spirituale) ma da uno ‘‘schiaffo della natura’’. C’e` un residuo di spiritualismo? Forse a monte c’e` l’ideologia che non ci puo` essere fusione tra psichico e fisico, che la materia possa determinare la psiche. Eppure questa acquisizione dell’origine materiale della psiche e` in grado di provocare accelerazioni vertiginose nella ricerca» (G. De Simone, 1994).

2.6. Il vissuto corporeo Il corpo o soma e` fondamentale nella costruzione dell’apparato psichico per il semplice fatto che non esisterebbe un apparato psichico se non ci fosse un corpo. In questo contesto non mi soffermero` sul rapporto psiche-soma, ma su come si costituisce il nostro vissuto corporeo, cioe` su come noi vediamo noi stessi: la costituzione dello schema corporeo e` fondamentale per la costruzione dell’identita`. Per esprimere questa complessita` vorrei riportare alcuni passi significativi di filosofi e psicologi che si sono occupati di questo problema. James sostiene: «ogni qual volta due persone si incontrano ci sono in realta` sei persone pre-

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senti. Per ogni uomo ce n’e` uno per come egli stesso si crede, uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli e` realmente» (James W., 1890). Merleau-Ponty afferma: «Il corpo e` l’unico mezzo che io ho per andare al cuore delle cose» (Merleau-Ponty M., 1970). Schopenauer, ne Il mondo come volonta` e rappresentazione, cosı` si esprime: «Se gli uomini fossero teste d’angelo alate senza corpo, la filosofia non disporrebbe del punto di appoggio che le permette di oltrepassare il mondo empirico, non potrebbe lacerare il velo di Maya» (Schopenauer A., 1819). E Nietzsche infine, in Cosı` parlo` Zaratustra, afferma: «Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che si chiama Se´. Abita nel tuo corpo, e` il tuo corpo. Ai dispregiatori del corpo voglio dire una parola. Essi non devono, secondo me, imparare o insegnare ricominciando daccapo, bensı` devono dire addio al proprio corpo, e cosı` ammutolire» (Nietzsche F., 1883-1885; le citazioni sono tratte da N. Lalli, 1997). Questi brevi accenni evidenziano chiaramente come dietro il problema dello schema corporeo si nasconda il tema centrale dell’uomo. Il corpo come ambiguita` dell’essere e dell’avere, ma anche come possibilita` di conoscere, di agire, il corpo come incontro con l’altro, il corpo come sessualita` che implica l’acquisizione di una specifica identita`, ma anche come ingombro, come malato, come intralcio nel rapporto con gli altri. Il concetto di schema corporeo a lungo sara` appannaggio della neurologia e sara` utilizzato per spiegare alcune sindromi particolari come l’arto fantasma o la nosoagnosia. Schilder invece ritiene che lo schema corporeo si costituisce infatti non solo sulla base delle sensazioni (cenestesiche, tattili, ecc.), ma soprattutto mediante l’integrazione di queste sensazioni con i vissuti esistenziali ed emotivi del singolo soggetto. Ma l’elaborazione di Schilder, nonostante il successo di cui godra` a lungo, non riesce a chiarire un fatto fondamentale: come avviene il passaggio «... dalla nozione neurologica di schema corporeo, alla nozione psicologica di immagine

del corpo in cui entra in gioco tutta l’esistenza del soggetto» (Martinelli R., 1974). Successivamente sara` la fenomenologia a tentare di delucidare questa complessa formazione: fra questi citero` solamente Merleau-Ponty. Merleau-Ponty, proponendo la fondamentale ambiguita` del corpo, oscillante tra l’essere e l’avere, apre uno squarcio che supera sia la visione strettamente neurologica che quella psicologica astratta. Merleau-Ponty cerca infatti una articolazione — nella dimensione fenomenologica — tra il biologico e lo psichico. La struttura dell’essere al mondo e` la temporalita`: ed e` per una dimensione temporale che i processi fisiologici e psichici si articolano e si legano. Ed e` in questa ottica che Merleau-Ponty propone la spiegazione dell’arto fantasma: «...il braccio fantasma e` un vecchio presente che non si decide a diventare passato». Ma se questa proposizione e` certamente interessante, meno condivisibile e` la proposizione di Merleau-Ponty circa lo schema corporeo. «Lo schema corporeo, anziche´ essere il residuo della cenestesia, ne diviene la legge di costituzione ... l’unita` sensomotoria del corpo e` per cosı` dire di diritto, essa non si limita ai contenuti effettivamente e casualmente associati nel corso della nostra esperienza, ma in un certo modo li precede e rende appunto possibile la loro associazione». Questa concezione sembra richiamare strutture categoriali di tipo kantiano e, rinnegando la storicita` dell’individuo ovverosia l’importanza non tanto delle strutture, quanto piuttosto dei rapporti interpersonali ai fini dello sviluppo, sembra riproporre un modello di tipo biologico. Piu` interessanti sono i contributi delle varie scuole che sottolineano invece l’importanza delle relazioni oggettuali nella formazione del Se´ e quindi anche nella formazione dell’immagine corporea. Fisher e Cleveland sviluppano una teoria relativa all’immagine corporea che sposta il problema dall’immagine alla modalita` con la quale l’individuo percepisce i propri confini corporei. Tramite tests proiettivi (Rorschach e Inkblot test) defini-

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scono due modalita` espresse mediante un punteggio: il punteggio di barriera (indice dei confini corporei stabiliti) e il punteggio di penetrazione (indice dei confini corporei fragili). Questa visione che da` fondamentale importanza alle prime pratiche di socializzazione del bambino, pur nella schematicita` ha una sua importanza. Infatti questa concezione permette agli autori di passare dal concetto di immagine corporea al concetto di confini corporei. «Porre l’accento sui confini corporei significa valorizzare la rappresentazione simbolica di un limite che ha funzione di immagine stabilizzatrice, di envelope protettivo per la persona ... L’immagine di un limite ha funzione capitale nella economia e nella organizzazione psichica. Essa non e` dunque una funzione mentale (come lo schema corporeo dei neurologi), ma ha una funzione psicologica di stabilizzazione sia nel rapporto dell’individuo a se stesso, sia nel rapporto dell’individuo con l’altro (ricordiamo che il problema della funzione dei confini corporei e` legato a quello della differenziazione soggetto-oggetto, attraverso i primi contatti corporei con la madre, e che sono i soggetti schizofrenici quelli in cui si e` riscontrata una maggiore disintegrazione dei confini corporei stessi)» (Martinelli R., 1975). Questa teorizzazione mi sembra interessante perche´ pur partendo da una metodologia diversa, e` molto simile a quanto affermato nel mio lavoro e riportato nel paragrafo 2.3. Schonfeld, che si occupa dell’adolescenza, si interessa ovviamente anche alla trasformazione dello schema corporeo. L’autore ritiene che esso nasce da un contesto psicosociale ed assolve ad una precisa funzione nell’economia psichica e nel processo di adattamento dell’individuo all’ambiente, perdendo cosı` ogni connotazione di struttura neurologica integrativa di dati sensoriali. A parte questo dato, a me sembrano rilevanti due osservazioni dell’autore circa l’importanza dei fattori sociali nella costruzione dell’immagine corporea dell’adolescente: «Come i genitori reagiscono ai mutamenti a livello corporeo e come il ragazzo interpreta queste reazioni. Fin dall’infanzia la madre comunica al bambino le sue attitudini nei confronti del corpo di lui attraverso il

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modo di stringerlo, di nutrirlo, di toccarlo; piu` tardi la sua approvazione o disapprovazione puo` essere espressa verbalmente. Il bambino costruisce, dunque, fin dai primi mesi di vita, l’immagine del proprio corpo facendo rientrare in essa la valutazione di quelli che si prendono cura di lui». Un secondo aspetto e` che l’adolescente costruisce una immagine ideale «... confrontando il proprio corpo con quello dei pari, identificandosi con persone che egli fisicamente ammira, recuperando le indicazioni che il suo ambiente culturale da` sulla bellezza e la prestanza fisica» (Martinelli R., 1975). Da questi accenni molto sintetici, risulta chiaramente come il concetto di schema o immagine corporea si sia progressivamente evoluto attraverso una concettualizzazione che ha integrato fattori biologici, psichici e sociali. Bisogna quindi tener conto di tutta una serie complessa di parametri per cercare di delineare questo concetto cosı` complesso, ma soprattutto tener conto che esistono due vissuti diversi che man mano si strutturano e si fondono: la percezione corporea e l’immagine corporea.

2.6.1. Dalla percezione all’immagine corporea

Nell’uomo esistono due fondamentali e distinti vissuti relativi al corpo: la percezione corporea e l’immagine corporea. Vissuti che devono essere distinti sia per la diversa genesi, sia per il significato e la diversa importanza in ordine alla psicopatologia. ` ovvio che i due vissuti variamente si inteE grano fra di loro: e per questo vengono confusi o considerati come analoghi. Ma per comprendere il concetto di percezione corporea, bisogna introdurre alcuni concetti teorici di riferimento. Durante la gravidanza, il feto nel rapporto con il liquido amniotico sviluppa un investimento libidico legato appunto a questa situazione di rapporto. Alla nascita emerge la pulsione di morte come fantasia di sparizione con una dinamica ben precisa: da un lato tende a far scomparire il mondo esterno materiale, dall’altro attiva come immagine-ricordo la precedente situazione endouterina. Questa unione di carica libidica e di

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fantasia di sparizione costituisce la vitalita` e si concretizza nella possibilita` di dar luogo ad una prima immagine-ricordo, continuando successivamente a produrre immagini interne che sono sempre immagini legate a situazioni di rapporto. La vitalita` e` quindi una dinamica biologica, psichica e relazionale ad un tempo. Nei primi mesi essa e` estremamente fragile e quindi ha bisogno del supporto di valide relazioni oggettuali onde permettere la strutturazione di un apparato psichico sempre piu` valido, cioe` sempre piu` capace di affrontare nel tempo i successivi rapporti e le connesse separazioni senza fantasie di sparizione contro l’oggetto. Ovverosia acquisire la capacita` di rapportarsi — percepire — separarsi — ricordare. La percezione corporea e` la percezione del nostro corpo vivente e finito (cioe` con dei confini ben definiti) vissuto come integro e vitale. Ora, mentre la vitalita` e` legata alla carica pulsionale libidica unita alla fantasia di sparizione, la costruzione dell’Io e` legata alla possibilita` di avere validi rapporti interpersonali che possano soddisfare il desiderio del bambino. La patologia della percezione corporea si determina quando c’e` una distorta situazione relazionale che costringe il bambino ad operare un continuo meccanismo di scissione, il che comporta inevitabilmente una diminuzione o una perdita della vitalita`, e quindi l’incapacita` di mantenere la propria integrita`. Se vogliamo riferirci alla terminologia fenomenologica, potremmo dire che la situazione normale corrisponde al vissuto del «corpo che sono» (Leib), quella patologica al vissuto del «corpo che ho» (Ko¨rper). Questa percezione del corpo, positiva o negativa che sia, accompagna costantemente l’uomo nella sua vita; in alcuni momenti importanti esso puo` assumere un ruolo determinante in ordine al vissuto psichico: in modo particolare nel periodo dell’adolescenza. La percezione corporea e` quindi un vissuto che ha una genesi precoce e ben precisa. A differenza invece dell’immagine corporea che si forma piu` tardivamente (nei primi anni di vita) e che si costruisce sulla base delle esperienze percettive dei corpi altrui vissuti dal soggetto nei diversi rapporti oggettuali. Se le immagini sono la

rappresentazione mentale di percezioni, non e` concepibile che possano essere le sensazioni interne a formare l’immagine corporea. Le percezioni interne (cenestesi) non costituiscono immagine, bensı` sono le percezioni di oggetti esterni che danno luogo ad immagini e queste si basano prevalentemente sulla vista e sull’udito. Ma perche´ questo accada sono necessari diversi passaggi ed apprendimenti da parte del bambino. Infatti dapprima il bambino deve cominciare a riconoscere l’unita` delle persone che gli sono vicine, pur nei loro cambiamenti. Poi il bambino deve imparare a riconoscere le correlazioni tra immagini esterne ed espressioni mimiche dell’altro; ovverosia percepire l’intenzione dell’altro oltre la facciata. E deve collegare questa percezione con le proprie sensazioni interne affettive. ` da questa associazione-fusione che si crea E l’immagine corporea, che chiaramente e` strettamente correlata con lo sviluppo psichico complessivo del soggetto. Evidente che in questa ottica e` importante non solo come il bambino si sente e si vede, ma anche e soprattutto come gli altri lo vedono, lo apprezzano e lo giudicano. ` evidente che un precoce disturbo della perE cezione corporea inevitabilmente finisce per influenzare negativamente l’immagine del corpo: ma il fatto che i due vissuti siano interattivi non deve farli confondere. Soprattutto in quella fase che giustamente viene definita di seconda nascita — ovverosia la adolescenza — queste problematiche possono riaffiorare e prendere diverse strade. Sicuramente possiamo affermare che una distorta percezione corporea o della propria immagine corporea si manifesta sempre con un disagio psichico piu` o meno grave, piu` o meno evidente. ` quasi la regola che negli adolescenti, quanE do l’immagine corporea tende a definirsi, il disagio psichico e` molto spesso collegato al proprio corpo vissuto come non adeguato, ingombrante, pieno di difetti, comunque non corrispondente a cio` che si vorrebbe. Questo vissuto non costituisce necessariamente una patologia, ma puo` rap-

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presentare solo una crisi momentanea. E per comprendere questa crisi adolescenziale dobbiamo inserire un terzo elemento che e` l’immagine corporea idealizzata. Ovverosia, oltre la percezione corporea che e` collegata alla vitalita` e l’immagine corporea che e` collegata alla integrazione delle relazioni oggettuali (rispecchiamento empatico), esiste anche una immagine corporea interna che potremmo definire ideale o idealizzata e che e` legata fondamentalmente a valori sociali e culturali: struttura, questa, piu` labile e meno importante delle prime due. Come ben sappiamo, la crisi adolescenziale fisiologica e` spesso incentrata su di un vissuto negativo ed insoddisfacente della propria immagine corporea che ci fa comprendere che la conflittualita` avviene tra l’immagine corporea, retaggio diacronico delle relazioni oggettuali, e quella ideale, che viene acquisita tramite il gruppo di appartenenza. Nella maggior parte dei casi questa conflittualita` si estingue per la fusione delle immagini quando l’adolescente, attraverso un cammino piu` o meno lungo, finisce con l’accettare una nuova specifica identita` che e` quella sessuale, che segna il superamento dell’identificazione ed il passaggio ad una ulteriore fase evolutiva. Questa dinamica ci permette di cogliere due aspetti fondamentali della correlazione tra percezione corporea, immagine corporea e immagine idealizzata, e proporre una ipotesi di fondo. Intanto possiamo affermare che l’immagine corporea idealizzata e` quella meno importante e significativa proprio perche´ piu` tardiva e piu` legata a stereotipi sociali e culturali. Tanto che, nella crisi fisiologica puberale, l’eventuale conflittualita` con l’immagine corporea precedente viene rapidamente superata. Ma questo avviene se esiste una solida, anche se non ancora ben definita, immagine corporea ed una sana percezione corporea. Se invece una delle due, o peggio ancora ambedue, sono deboli o mal adattate, il conflitto non solo e` piu` complesso, ma puo` non risolversi affatto. Sono i casi dove l’immagine idealizzata tende a prevalere o sostituire quella di base (perche´ debole o deficitaria) e ci troviamo di fronte alla

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patologia conclamata dell’adolescente che deve disperatamente identificarsi, per imitazione, con modelli piu` o meno falsi, imitandone spesso gli aspetti piu` negativi. Molto sinteticamente possiamo ipotizzare tre livelli di patologia. Un primo livello riguarda una alterazione della percezione corporea: alterazioni piu` o meno gravi e che si riscontrano in varie psiconevrosi e nella depressione. Questa errata percezione corporea e` spesso legata a fattori conflittuali. Un secondo livello e` l’associazione con una concomitante alterazione dell’immagine corporea che nei casi piu` gravi puo` giungere fino a livelli di dispercezione delirante (l’anoressia psicogena). Un terzo livello riguarda una frammentazione, piu` che una alterazione, dell’immagine corporea fino a giungere ad un dissolvimento dei confini dell’Io: e` quanto osserviamo nelle psicosi schizofreniche.

2.7. La coscienza La coscienza sul piano fenomenologico e` stata poco studiata o per lo meno e` rimasta ferma agli studi classici di W. James e di K. Jaspers: piu` approfonditi invece gli studi sul piano neurobiologico, che pero` hanno spesso portato a sovrapporre e, quindi confondere, il concetto di coscienza con quello di vigilanza. La coscienza da una parte ha una estrema variabilita` di espressioni e di manifestazioni, dall’altra puo` essere ricondotta ad alcune funzioni fondamentali che nel mutuo interscambio e nella copresenza la costituiscono. Quindi nessuna di queste funzioni, considerata isolatamente, puo` farci comprendere la coscienza, perche´ la non presenza di tutte le funzioni necessarie rende impossibile lo stato di coscienza. La prima, in ordine di importanza e genetico, e` la vigilanza, che e` il “tono di fondo inviato dalle strutture reticolari alla neocortex”. Questo tono serve a mantenere viva l’attenzione del soggetto verso il mondo esterno. La vigilanza di una persona normale puo` andare da un massimo (stato di allarme) ad un minimo (sonnolenza), per giungere ad una situazione (sonno) ove non e` eviden-

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ziabile ma e` potenzialmente evocabile, in seguito a stimoli adeguati. Pertanto dobbiamo considerare che la vigilanza non viene mai meno totalmente, salvo casi di gravi patologie che momentaneamente (intossicazioni) o stabilmente (danni cerebrali) compromettono questa funzione, fino ad abolirla totalmente nello stato di coma. La seconda funzione e` la memoria, che fornisce i contenuti mentali dello stato di coscienza. I contenuti mentali possono essere vari, e sono evocati dall’attenzione selettiva che e` strettamente legata alla necessita` da parte del S.N.C. di selezionare, gia` a livello talamico, la enorme quantita` di sensazioni alle quali siamo soggetti. Ma a parte questa selezione che potremmo definire non consapevole, quindi a livello piu` neurofisiologico che psicologico, c’e` una attenzione selettiva che ci porta a scegliere, a mettere a fuoco certi contenuti mentali particolarmente interessanti per noi in quel momento. L’attenzione selettiva determina il campo della coscienza che, come un campo visivo, puo` essere molto ampio ma poco definito, o viceversa molto definito ma poco ampio. Infine ultima funzione fondamentale e` l’autoconsapevolezza: essa e` sempre presente, anche se non siamo sempre “consapevoli” di questa funzione. L’autoconsapevolezza e` la capacita`, mentre attiviamo e focalizziamo percezioni o contenuti di memoria, di essere consapevole che sono “io” a compiere questa operazione e sono “io” che ricevo e che elaboro i dati contenutistici della memoria o delle percezioni. Sottolineo che e` la presenza e l’interazione di queste funzioni a determinare la complessa attivita`, predominante nello stato di veglia, che definiamo coscienza. La sindrome “apallica” e` un chiaro esempio di come la mancanza di una di queste funzioni rende impossibile l’attivita` della coscienza. La sindrome “apallica” o “coma lucido” e` una sindrome derivante da estese lesioni della corteccia cerebrale. In questi casi e` conservata la vigilanza, come e` dimostrato dalla persistenza del ritmo sonno-veglia, ma anche una modesta attenzione, come si evince dalla reattivita` del soggetto a particolari stimoli, indice non di reattivita` automatica, come il volgere gli occhi alla voce di persone conosciute, ma non ci sono piu` contenuti

mentali. In questi casi si parla infatti di “vigilanza senza coscienza”. Questa complessita` della coscienza e` stata comparata ad un campo composto di memoria, sensazioni, ricordi, percezioni, stato d’animo, un campo non immobile, ma che fluisce nel tempo. ` quanto W. James definiva come “flusso di E coscienza”. Credo che a questo punto sia utile cercare di capire come ed in che modo si strutturi generalmente l’attivita` che noi definiamo “la coscienza”. Se siamo convinti che alla nascita il bambino ha gia` un Io ed una attivita` psichica, se riteniamo che e` presente una dimensione inconscia come retaggio-ricordo del precedente rapporto con il liquido amniotico, credo che sia evidente l’impossibilita` che ci sia uno stato di coscienza cosı` come e` stato descritto. ` evidente che, affinche´ questa complessa E funzione possa costituirsi, il bambino deve acquisire la capacita` di discernere le sensazioni propriocettive da quelle esterne, avere la capacita` di distinguere chiaramente tra Io e non-Io, possedere una capacita` di visione nitida, la capacita` di trasduzione delle percezioni ed una attivita` associativa funzionante. Ipoteticamente possiamo pensare che tutto questo avvenga intorno al quinto mese di vita. Mi baso, per questa ipotesi, fondamentalmente su alcuni dati sicuramente accertati: a)

b)

c)

intorno al quinto mese di vita il processo di maturazione neurologica e` abbastanza avanzato, tale da permettere un’attivita` associativa corticale sufficientemente valida; sempre intorno a questo periodo, la capacita` visiva del bambino e` molto aumentata; egli riesce ad avere una visione piu` chiara e distinta degli oggetti; in questo periodo avviene la completa strutturazione del ciclo del sonno e quindi una alternanza sonno-veglia qualitativamente uguale a quella dell’adulto, anche se quantitativamente diversa.

Infatti intorno al quinto mese il sonno REM che ha prevalso nei primi mesi tende a diminuire, mentre la fase NREM acquisisce il III e IV stadio

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che configurano lo stadio ad onde lente (SWS) che e` fondamentale non solo per il riposo, ma anche per la crescita, perche´ e` in questo stadio che si ha il maggior rilascio di ormone della crescita. A questo punto la funzione del sonno REM acquista sempre piu` la sua specificita`, dal momento che il sonno NREM assolve alle funzioni di reintegrazione. E ricordiamo inoltre che, soprattutto in questa fase, i numerosi studi sul ricambio del RNA hanno dimostrato che il consolidamento della memoria avviene proprio durante la fase REM. Quindi c’e` una progressione evolutiva sia psicologica che biologica. In questo periodo sembra che si raggiunga una definizione-distinzione ed una integrazione tra esperienze propriocettive e percezioni visive ed uditive. Il che significa che prima di questo periodo c’e` una predominanza delle esperienze propriocettive, che sono alla base di quello che ho definito Io somatico, rispetto a quelle visive ed uditive. In altri termini dobbiamo pensare che fino al quarto mese il bambino non sia in grado di distinguere nettamente le percezioni interne ed esterne e questa “non distinzione” potrebbe comportare una sovrapposizione tale da non rendere possibile la distinzione tra Io e Non-Io, cioe` tra soggetto e mondo esterno. Possiamo cioe` ipotizzare che al quinto mese, in concomitanza di una maturazione biologica e psicologica e di una strutturazione definitiva del ciclo veglia-sonno, il bambino sia in grado stabilmente di distinguere prima, e di integrare poi, le esperienze propriocettive con quelle uditive e visive. Inoltre l’integrazione tra percezioni uditive e visive (quindi l’integrazione tra suono ed immagine) costituira` la matrice del linguaggio. Questo processo di integrazione sara` poi presente per tutta la vita, per lo meno per quanto riguarda lo stato di veglia. Numerosi dati fanno ritenere che lo stato di sonno possa comportare invece una sorta di regressione ad uno stadio di pre-integrazione. Con l’addormentamento, inibite le vie sensoriali uditive e visive, ci sarebbe un prevalere di quelle propriocettive. La maggiore sensibilita` alle proprio-

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cezioni, unita alla possibilita` mnemonica di avere a disposizione immagini e suoni, puo` costituire una situazione molto simile a quella dei primi mesi di vita: una capacita` di percezione transmodale che potrebbe costituire la base e la specificita` dell’attivita` onirica.

2.8. L’identita` L’identita` e` una istanza psichica della quale generalmente non si e` consapevoli se non per un processo di attenzione selettiva, che si forma nel corso del processo evolutivo dall’integrazione tra immagine corporea, autoriconoscimento, autoconsapevolezza e senso di continuita` del proprio essere pur nel variare degli eventi. L’identita` e` strettamente collegata con la progressiva capacita` del bambino di riconoscere gli adulti, di sentirsi riconosciuto e di riconoscersi. Mi soffermero` soprattutto su questi due ultimi aspetti. Il bambino possiede strutture motivazionali, anche biologicamente predisposte, che lo portano a cercare il rapporto, il soddisfacimento e l’essere riconosciuto come entita` autonoma. La capacita` del bambino, gia` ad 8-10 giorni, di “agganciare” lo sguardo della madre e` uno degli aspetti piu` significativi di questa fondamentale esigenza di relazione da parte del neonato. Le funzioni primarie di accudimento da parte dell’adulto si attuano attraverso una condivisione ed una empatia, mediate dai canali non verbali (come la comunicazione non verbale e la dinamica inconscia) e che si manifestano come disponibilita` ad accogliere le esigenze del bambino. Questa disponibilita` non puo` essere totale: la madre deve essere vicina al bambino, rassicurarlo e predisporre un ambiente tale che lo induca ad esplorare. Emde riferisce un particolare tipo di disponibilita` emozionale della madre: come quando essa, pur svolgendo le proprie attivita`, e` attenta al richiamo del bambino. Una disponibilita` cosı` concepita assicura al bambino una esplorazione ottimale, in un orizzonte di sicurezza. Dopo la nascita il bambino, anche per la progressiva maturazione sia dell’apparato recettivo

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periferico sensoriale che di quello centrale (S.N.C.), riesce pian piano a riconoscere il volto della madre e poi dei familiari: il che avviene intorno ai 6 mesi. La capacita` di riconoscere riguarda sia la realta` materiale che l’immagine allo specchio: come si evidenzia dalla reazione di giubilo alla comparsa del viso ormai noto, o la reazione di stupore se l’immagine scompare. Perche´ il bambino possa riconoscere se stesso nell’immagine allo specchio occorreranno ben altri 18 mesi: cioe` dovra` raggiungere l’eta` dei due anni. Intorno ai 12 mesi la reazione del bambino, messo di fronte ad uno specchio, e` quella di cercare di toccare l’immagine riflessa, come se si trovasse di fronte a un altro bambino. Dopo i 12 mesi il bambino posto davanti allo specchio mostra un comportamento singolare: comincia ad osservare parti mobili del proprio corpo come le mani e subito dopo l’immagine di queste parti nello specchio: questo puo` essere considerato un primo abbozzo di riconoscimento di se stesso. Intorno ai 20-22 mesi questo comportamento scompare ed appare un fenomeno singolare. Il bambino si guarda globalmente, ma mostra una reazione di evitamento, una riluttanza a guardarsi, come se percepisse qualcosa di assolutamente nuovo: l’immagine di un qualcuno che compie esattamente gli stessi movimenti che lui compie. Questa reazione di evitamento e` dovuta ad una elevata consapevolezza cenestesica: il bambino e` perplesso di fronte ad un altro che mima esattamente i suoi movimenti. Il che fa pensare che il bambino, a questa eta`, possieda gia` una precisa concezione del suo corpo, mentre non ha ancora la concezione dello spazio virtuale, come si evidenzia dal fatto che a questa eta` e` ancora presente il fenomeno dell’aggiramento. Ovverossia il bambino, dopo essersi guardato allo specchio, va ad esplorare dietro lo specchio, per vedere se c’e` qualcuno. L’evitamento e l’aggiramento scompaiono nell’arco di 1-2 mesi, ed in genere all’eta` di 24 mesi il bambino acquisisce la capacita` di riconoscere se stesso allo specchio. La veridicita` di questa particolare capacita` a

24 mesi e` dimostrata da alcune prove: la piu` interessante e` la prova della macchia. Se al bambino viene messa una macchia di colore sul viso, prima dei 20-22 mesi egli cerca di togliersela pulendo l’immagine allo specchio. A 24 mesi, invece, il bambino, vedendo la macchia sul viso riflessa nello specchio, passa la mano sul suo viso. Questo comportamento comunque non indica la formazione del concetto di spazio virtuale; infatti se il bambino viene messo davanti allo specchio, ed alle spalle sopraggiunge un familiare, nel vedere l’immagine il bambino tende ad avvicinarsi allo specchio. All’eta` di 30 mesi invece tendera` a girarsi, per guardare alle sue spalle. Quindi a questa eta` il bambino ha una piena consapevolezza dello spazio, sia reale che virtuale, e possiamo ritenere che tenda a strutturare anche un concetto molto preciso della propria identita`. Oppure possiamo dire che l’emergenza dell’identita` gli permette di collocare l’altro da Se´ correttamente nello spazio materiale, il che implica un chiaro concetto di definizione di Io e di differenza tra Io e Non-Io. ` evidente che l’operazione del riconosciE mento di se stesso non sorge all’improvviso, ma e` frutto di un lungo processo di elaborazione: ed inoltre bisogna tener presente che questo processo puo` essere sottoposto a ulteriori rimaneggiamenti, sia per eventuali deficit, ma anche per l’acquisizione di nuove capacita`. La prova piu` evidente e` l’esperimento con il video. Il bambino viene ripreso da una telecamera e vede la sua immagine sul video. Questa immagine ha una caratteristica: e` antispeculare. All’eta` di 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video. Piu` tardi, in genere verso i 4 anni, il bambino puo` mostrare qualche difficolta` a riconoscersi al video. ` una regressione? Secondo R. Come mai? E Zazzo non si tratta di una regressione, ma questa reazione e` dovuta all’acquisizione di maggiori capacita` osservative e critiche del bambino. Ovverossia il bambino che a 24-30 mesi si riconosce globalmente, soprattutto sulla base di una sua immagine corporea, successivamente acquisisce una capacita` discriminativa ulteriore che gli fa

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

notare, e quindi per un po’ di tempo con un certo imbarazzo, che la sua immagine e` antispeculare. Questa osservazione pone un problema centrale dello sviluppo psichico. Cioe` non solo che una funzione si sviluppa per gradi, ma soprattutto che una funzione sviluppata puo` essere momentaneamente messa in crisi per il sopraggiungere di funzioni piu` elevate. Questa nuova acquisizione, l’identita`, puo` essere messa a dura prova se l’A.S. non riesce ad accettarla e favorirla, e puo` essere sicuramente messa in crisi se l’A.S. nega questa dimensione del bambino. Oppure l’identita` puo` continuare a svilupparsi in una fisiologica “opposizione” agli adulti: fino a giungere a compimento con la fase adolescenziale che comporta una ulteriore crescita. Pertanto possiamo dire che l’identita` nasce con la formazione della percezione e dell’immagine corporea e con il riconoscimento di se stesso, e prosegue nel tempo soprattutto come autoconsapevolezza e come continuita` di se stessi, pur nel variare degli eventi, sia psichici che somatici. Secondo E. H. Erikson lo sviluppo dell’individuo puo` essere formulato proprio in termini di una sempre maggiore crescita del senso di identita`; per altri autori, invece, non esisterebbe un senso di identita`, che pertanto sarebbe un puro costrutto artificiale. Ritengo piu` valida la prima ipotesi, e l’importanza di questa istanza risalta evidente in psicopatologia, proprio quando il senso di identita` viene messo in crisi. Pertanto ritornero` su questo argomento nel Capitolo riguardante la Psicopatologia (vedi Cap. 9).

3. Modello di sviluppo: dal carattere normale al patologico Nel corso dello sviluppo il bambino deve attraversare una serie di crisi, che rappresentano momenti in cui sono messe in discussione la struttura e la modalita` relazionale di quella specifica fase per accedere ad una situazione piu` evoluta. Queste crisi, tappe fondamentali dello sviluppo, sono innescate anche dalla progressiva ma-

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turazione biologica del bambino che sviluppa nuove potenzialita` e capacita`, rendendo anacronistiche quelle precedenti. Le tappe di sviluppo fondamentali, dopo quella della nascita, sono: a)

b)

c)

d)

e)

f)

Riconoscimento dell’oggetto come unico: ovverosia il passaggio del rapporto da un og` in questa fase getto parziale ad uno totale. E che compare l’angoscia per la perdita dell’oggetto (6-8 mesi). Svezzamento. Questa fase corrisponde non tanto ad un fatto materiale, quanto piuttosto al passaggio da una fase di totale dipendenza ad una di maggiore autonomia, favorita anche dalla maggiore capacita` espressiva verbale, legata all’acquisizione del linguaggio (8-10 mesi). Fase esplorativa: e` la capacita` di movimento, di deambulazione che permette al bambino di allontanarsi attivamente dall’oggetto, ma di poterne pero` individuare la presenza, mediante il richiamo e l’ascolto (12-18 mesi). Individuazione: il bambino comincia a distinguere nettamente l’Io dal non-Io e soprattutto comincia ad esprimersi in prima persona, usando il pronome Io, e a riconoscere l’immagine di se stesso allo specchio come propria (18-24 mesi). Conoscenza del diverso: il bambino scopre di essere fisicamente e poi psichicamente di` una crisi fondamentale per lo sviverso. E luppo dell’identita` psichica e sessuale (2-3 anni). Incontro con l’esterno: conoscenza di una nuova realta`, quella sociale e quindi accettazione di un mondo diverso da quello familiare (3-5 anni). Questi primi anni sono sicuramente importanti e fondamentali per la struttura del carattere: e` ovvio che la possibilita` di una ulteriore crescita e di un cambiamento rimane sempre aperta e possibile. Pero` dobbiamo ritenere che le strutture basilari, normali o patologiche, nell’arco di questi anni sono formate. Dai 5 anni in poi possiamo ritenere, in linea di massima, che non ci siano piu` crisi fonda-

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g)

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mentali, bensı` una fase di quiescenza che permette al bambino l’acquisizione e l’apprendimento di sempre piu` complesse strut` questa ture conoscitive e di nuove capacita`. E la fase dello sviluppo delle competenze sociali, delle capacita` relazionali, l’apprendimento di categorie logiche sempre piu` complesse, l’acquisizione dei valori e degli ideali. ` ovvio che questo processo e` tanto piu` E facilitato quanto piu` ci troviamo di fronte a una struttura di un carattere normale. Puberta` : intorno ai 12-14 anni si presenta l’ultima fondamentale crisi che e` la puberta`. La modificazione somatica piu` o meno rapida rimette in discussione le strutture psicologiche precedentemente consolidate. E alla puberta` seguira` quella delicata fase che e` l’adolescenza (vedi Cap. 41) che con l’assunzione di una identita` sessuale rappresenta anche la fine dei grandi cambiamenti psicologici e l’apertura completa verso la vita come avventura autonoma e irripetibile.

Le crisi comunque non devono essere considerate come un momento puntiforme, ma come una fase che puo` essere piu` o meno lunga: comunque e` una fase ove (come l’etimologia indica) ci deve essere una scelta tra la sicurezza della situazione attuale e l’avventura verso una situazione nuova e quindi sconosciuta. Le crisi rappresentano quindi momenti decisivi perche´ implicano una scelta sulla quale influiranno vari fattori: a)

b) c)

Situazione complessiva di sviluppo psichico: le crisi quindi non sono legate a particolari e parziali zone erogene, ma alla intera organizzazione psichica del bambino; acquisizione di nuove capacita`, collegate alla maturazione biologica del bambino; importanza e significativita` dell’A.S. sulla possibilita` o meno di affrontare le crisi. Per esempio l’insorgenza di specifiche e non risolte conflittualita` dell’A.S. possono paralizzare l’evoluzione del bambino. Come esperienza paradigmatica potrei riportare l’esperienza dell’asilo: se l’ansia del bambino di allontanarsi da un ambiente protettivo si

unisce alle angosce di abbandono da parte dell’A.S., l’insieme puo` rendere al bambino difficile o impossibile superare la crisi. Quindi la crisi, va concettualizzata come momento ove convergono le dinamiche relazionali e i precedenti stadi di sviluppo del bambino. E per i primi anni e` evidente l’importanza dell’A.S. sull’evoluzione del bambino. Infatti se la dinamica di rapporto da parte dell’A.S. e` intrisa di ostilita`, indifferenza, in una parola di non gratificazione delle esigenze e del desiderio, il bambino inevitabilmente va incontro ad una delusione che, se ripetuta nel tempo, genera un affetto di rabbia. Ma la rabbia non puo` essere vissuta troppo a lungo, perche´ penosa e pericolosa per l’equilibrio del bambino. Pertanto il bambino e` costretto ad operare una scissione ed una rimozione. Il bambino deve quindi scindere questa situazione unitaria, ma fragile, dell’Io-pelle. Si costituisce cosı` una situazione molto precisa: l’Io-pelle tende ad irrigidirsi e diventare corazza caratteriale, l’inconscio originario tende a diventare sempre meno ‘‘osmotico’’ e meno accessibile, mentre sulla base delle scissioni e rimozioni si costituisce l’inconscio rimosso. Ovverosia la scissione ha portato inevitabilmente alla rimozione dell’affetto rabbia, che si trasforma nella dinamica della bramosia: il bambino fantastica di introiettare l’oggetto frustrante, per poterlo controllare. Sottolineo ancora una volta che e` l’oggetto frustrante che comporta l’introiezione: un oggetto gratificante non ha bisogno di essere introiettato. Ma l’introiezione comporta l’angoscia del danneggiamento e della perdita dell’oggetto: si comprende, quindi, perche´ in questa situazione ogni separazione e` vissuta come abbandono-morte. Inoltre la ripetitivita` di questa dinamica con la formazione di oggetti interni, e non invece di ricordi e fantasie, comporta un incremento dell’inconscio rimosso. Ma accanto alla rabbia puo` emergere anche l’odio; anche in questo caso l’affetto, ritenuto troppo lesivo, si trasforma in una dinamica piu` complessa che e` l’invidia che si esplicita attraverso il meccanismo della negazione. Ed e` sulla

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base della negazione che saranno poi possibili le proiezioni, ovverosia il mettere sull’altro quelle identificazioni operate attraverso l’introiezione. Quindi, come si vede, le due dinamiche, bramosia e invidia, sono strettamente collegate, ed ambedue concorrono sia ad alterare il rapporto con la realta`, sia alla formazione della corazza caratteriale. In questa situazione si forma una ulteriore struttura, con funzioni bloccanti e punitive, che e` il Super-Io. La formazione del Super-Io deriva dall’introiezione di dinamiche punitive piu` che normative, provenienti dall’ambiente culturale e mediate dai genitori o da altre figure significative.2 Il Super-Io si differenzia nettamente dall’Io ideale, perche´ ha funzioni non evolutive, ma punitive e colpevolizzanti, aumentando quindi una gia` presente tendenza alla rigidita` ed al blocco. Si arriva cosı` alla formazione di un contenitore rigido, che e` la trasformazione patologica dell’Io-pelle. Contenitore che ha una duplice funzione: quella di impedire una ulteriore recettivita` e quella di contenere gli oggetti interni. Questo contenitore rigido, questa ‘‘corazza caratteriale’’ che si stabilizza nel tempo, costituisce il carattere nevrotico di cui, brevemente, riassumero` la genesi. La presenza di problematiche frustranti ed iterative vissute nella relazione con l’A.S. da parte del bambino comporta che questi, non potendo realisticamente cambiare la situazione esterna, deve attuare una modificazione autoplastica. Modificazione autoplastica che, pur comportando una perdita in termini di sviluppo, recettivita` e creativita`, permette al bambino di affrontare-sopportare comunque la situazione esterna frustrante. Questa modificazione e` legata all’insorgenza dell’angoscia attivata dalle dinamiche pulsionali negative dell’A.S. L’angoscia comporta la messa

2

Mantengo il termine Super-Io solo per una piu` facile comprensione. In effetti il Super-Io e` l’insieme delle introiezioni, e le introiezioni sono oggetti interni derivanti da situazioni relazionali frustranti. Quindi il Super-Io non e` una struttura unitaria, bensı` un insieme di oggetti.

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in atto di una serie di meccanismi difensivi: in primo luogo la rimozione che rende inconscia la situazione problematica, trasformando cosı` il problema in conflitto. Il conflitto e` pertanto l’esito della trasformazione di un problema interpersonale irrisolvibile (o comunque irrisolto) in una dinamica inconscia che ha prevalentemente carattere difensivo. La diversa configurazione delle dinamiche istintuali in gioco, unita alla peculiarita` ed alla predominanza dei meccanismi difensivi utilizzati, da` luogo a diversi tipi di carattere nevrotico, esito finale e visibile di una situazione conflittuale che rimane invece inconscia. Il concetto di carattere nevrotico, oltre a spiegare la genesi e la diversita` delle varie psiconevrosi, spiega anche la possibilita`, che evidenziamo continuamente nella clinica, di avere sintomi simili in psiconevrosi pur diverse tra loro. Proprio perche´ l’uso di meccanismi difensivi puo` essere comune a diverse attivita` difensive. ` sulla base di questa constatazione che ho E diviso le psiconevrosi in due grandi circoli: quello della bramosia e quello dell’invidia. Questa suddivisione in due grandi categorie puo` sembrare un passo indietro (si pensi alla teoria di P. Janet o ai due tipi caratteriali di E. Kretschmer). In effetti e` il tentativo di spiegare una evidenza clinica: la possibilita` di trovare sintomi comuni in psiconevrosi diverse. Inoltre e` un tentativo di evitare la parcellizzazione di queste sindromi, ridotte a un puro agglomerato di sintomi, come avviene nel DSM-IV. Ed infine elimina l’ambiguita` della cosiddetta personalita` premorbosa che e` una contraddizione logica e clinica. Infatti questo termine o indica una personalita` normale, ed allora bisogna spiegare come e perche´ si sviluppano i sintomi; oppure indica una personalita` con tratti gia` patologici, ed allora il concetto di pre-morboso e` assolutamente incongruo. Il carattere nevrotico e` di per se´ una struttura instabile perche´ rappresenta l’esito del compromesso tra pulsioni, desiderio, ansia e meccanismi difensivi. Il carattere nevrotico puo` rimanere tale per tutta la vita, costituendo cosı` uno stile di vita, oppure puo` scompensarsi per motivi diversi. Motivi intrapsichici (aumento dell’ansia, dimi-

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nuzione della validita` dei meccanismi difensivi ecc.), motivi interpersonali (situazioni esistenziali frustranti, delusioni ecc.) o anche motivi biologici (malattie organiche, fasi particolari del ciclo della vita ecc.). La rottura di questo equilibrio comporta l’assestamento della personalita` ad un livello sicuramente di minore efficienza, perche´ il soggetto dovra` mettere in atto ulteriori meccanismi difensivi che porteranno alla formazione dei sintomi specifici delle diverse psiconevrosi. Sintomi che hanno quindi una genesi precisa e un ben preciso significato nell’economia dell’individuo, rappresentando un ulteriore compromesso del paziente: siamo cosı` alla psiconevrosi sintomatica (N. Lalli, 1988-1991).

4. Stato e struttura: veglia-sonno-sogno Dobbiamo distinguere nettamente il concetto di struttura che comporta l’organizzazione e l’esistenza di un apparato specifico abilitato ad una o piu` funzioni, dal concetto di stato che indica invece la modificazione di una funzione. L’esempio piu` classico di stato e` il sonno, che come ben sappiamo non ha una struttura specifica, ma sopraggiunge per modificazione di un particolare assetto (stato) del Sistema Nervoso Centrale. I tre stati fondamentali della mente, collegati a specifiche situazioni funzionali del S.N.C., ampiamente studiati e riconosciuti, sono: la veglia, il sonno ed il sogno. I) La veglia, che comporta lo stato di coscienza, rende possibile la conoscenza, il movimento, il pensiero: in altri termini tutta la complessa attivita` di conoscenza e di esplorazione del mondo. II) Il sonno NREM, o sonno profondo, comporta la possibilita` di reintegrare le energie utilizzate durante la veglia. III) Il sonno REM comporta il sogno e quindi la possibilita` di creare nuove immagini, selezionare i dati della memoria, far emergere in maniera evidente l’inconscio.

` molto singolare che quando si descrive la E struttura psichica dell’individuo si dimentica che ognuno di noi e` sottoposto a questa alternanza quotidiana che rappresenta l’oscillazione tra la stabilita` e il cambiamento. Quindi non solo dobbiamo considerare questi tre stati della mente nella loro genesi e nel loro evolversi, ma anche nel quotidiano, ove queste oscillazioni sono responsabili non solo dello stato di benessere fisico e psichico ma anche del mantenimento e del cambiamento delle strutture psichiche. Pertanto esamineremo nell’ordine questi tre stati: veglia, sonno, sogno. (Per ulteriori approfondimenti su questo specifico problema si rimanda a N. Lalli, A. Fionda L’altra faccia della Luna. Il mistero del sonno, Napoli, 1994) Veglia, sonno profondo (o sonno NREM), sonno desincronizzato (o sonno REM) sono tre stati diversi, ma strettamente integrati, della complessa attivita` del S.N.C. e rappresentano il continuum vitale dell’uomo. Prima di descrivere le loro diversita` fenomenologiche e funzionali, debbo sottolineare che questi tre stati sembrano sottomessi ad una regola fondamentale che si potrebbe definire ‘‘della separazione e della non interferenza’’. Nella normalita`, infatti, questi stati sono nettamente separati l’uno dall’altro; il passaggio avviene in maniera graduale e codificata da particolari meccanismi neurofisiologici che tramite la loro attivazione o disattivazione impediscono qualsiasi interferenza o sovrapposizione. Nella patologia questa regola viene meno, tanto da ritenere che la sovrapposizione o l’interferenza tra questi stati possano essere considerate segno patognomonico di disfunzionamento mentale. Ne citero` due per esemplificare. Da una parte la narcolessia, la cui genesi e` legata alla netta riduzione del tempo che intercorre tra la fine dello stato di veglia e l’inizio della fase REM: arco di tempo definito ‘‘latenza REM’’ e che nell’uomo ha una durata media di 70’-80’. Questo passaggio, nella narcolessia, avviene invece d’emble´e, creando i tipici segni del disturbo: l’incoercibile sonnolenza e la caratteristica atonia muscolare.

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Dall’altra le allucinazioni del delirium tremens, che sono dovute ad una sovrapposizione della fase REM allo stato di veglia.

2)

I) Lo stato di veglia e` caratterizzato da attenzione, autoconsapevolezza e possibilita` di compiere azioni altamente finalizzate. Affinche´ si realizzino queste funzioni e` necessario che il S.N.C. si trovi nelle seguenti condizioni:

3)

a)

b)

c)

integrita` della corteccia cerebrale, metabolismo cerebrale con maggior consumo di glucosio ed attivita` elettrica cerebrale rapida e di basso voltaggio (onde alfa e beta); attivazione di tutta una serie di apparati sottocorticali, dal bulbo all’ipotalamo, che sono influenzati ed influenzano la corteccia (tono di base che determina la vigilanza); contemporanea inibizione di alcuni meccanismi deputati al sonno, in primo luogo il sistema ponto-genicolo-occipitale (PGO).

«Anatomicamente il sistema di veglia e` costituito da una rete di neuroni situati nella formazione reticolare mesencefalica. Durante la veglia questi neuroni eccitano la corteccia per mezzo di neurotrasmettitori, in particolare l’acetilcolina: essi stessi ricevono un innervamento noradrenergico che proviene in particolare dal locus coeruleus. Tutto funziona come se numerosi meccanismi di controllo impedissero al sonno di sopraggiungere durante la veglia e l’inizio del sonno. I due meccanismi di controllo piu` importanti sono posti sia in una parte del sistema di veglia (locus coeruleus), sia al livello del sistema del raphe dorsalis (che e` attivo durante la veglia, l’addormentamento e il sonno leggero)» (J. A., Hobson). II) Comunque, affinche´ avvenga il passaggio dalla veglia al sonno NREM, sono necessarie almeno due condizioni fondamentali: l’attivazione del ritmo circadiano e l’assenza di forti stimolazioni sensoriali. Le caratteristiche del S.N.C. durante il sonno NREM sono: 1)

l’attivita` elettrica corticale si modifica fino a costituire un tracciato di onde lente e di fusi;

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una marcata diminuzione del consumo di glucosio e di ossigeno della corteccia cerebrale, mentre le riserve energetiche si accumulano nella glia, sotto forma di glicogeno; l’inibizione dei centri aminergici.

Sul piano fenomenologico questo stato comporta una riduzione pressoche´ totale della vigilanza e della coscienza, riduzione del tono muscolare e della recettivita` agli stimoli esterni. Possono comparire attivita` mentali caratterizzate da un pensiero lucido astratto, in genere privo di immagini. III) Siamo cosı` arrivati all’aspetto piu` complesso, che e` il sonno desincronizzato o paradosso (o sonno REM) con le seguenti caratteristiche: 1) 2) 3)

4) 5)

L’attivita` corticale mostra un tracciato EEG molto simile a quello della veglia. L’attivita` metabolica cerebrale e` aumentata notevolmente. Una serie di parametri biologici fondamentali subiscono profonde variazioni: come l’inibizione attiva del tono muscolare e la caduta della omeotermia. Si attiva il sistema PGO. Inoltre e` fondamentale, perche´ si instauri la fase REM, la presenza di una situazione di estrema sicurezza e tranquillita`, come risulta dagli studi di M. Jouvet.

«Si vede che il sogno e` possibile solo dopo la verifica di numerosi sistemi di sicurezza: questa protezione sembra molto adeguata, perche´ il sonno si accompagna ad un aumento della soglia della veglia e ad una paralisi quasi totale. Sordo, cieco, paralizzato, l’animale diventa molto vulnerabile: non puo` sognare se non e` al sicuro». (M. Jouvet) «Questa nozione di sicurezza e` importante ed esplicita in parte le variazioni della durata del sogno in differenti specie: gli animali cacciati, che sono raramente al sicuro, dormono poco, il loro sonno e` molto leggero e la durata totale dei periodi di sonno paradosso non eccede i 15-20 minuti nelle 24 ore; invece i cacciatori (carnivori) ed il gatto domestico, quando e` perfettamente al sicuro e non deve cacciare per nutrirsi, dormono

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molto e la durata del sonno paradosso puo` superare i 200 minuti ogni 24 ore» (M. Jouvet). ` utile sottolineare questi due aspetti. Il E sonno paradosso e` protetto da una serie di passaggi, quasi a significarne l’estrema importanza, ma anche l’estrema vulnerabilita` e che una situazione di sicurezza influenza favorevolmente la durata del sonno REM. Mi sembra interessante e possibile poter collegare quest’ultima peculiarita` con la fase endouterina, che sicuramente rappresenta nell’uomo il massimo di protezione e di sicurezza rispetto a fattori traumatici esterni. Poiche´ la fase REM che e` presente stabilmente solo nei mammiferi e` collegata con la produzione onirica, dobbiamo cercare, a questo punto, di comprendere quale possa essere il significato dell’attivita` onirica sul piano evoluzionistico. Abbiamo gia` descritto quali sono i fenomeni caratteristici di questa fase: attivita` cerebrale rapida, simile a quella della veglia; completa inibizione del tono muscolare; presenza di rapidi movimenti oculari; recettivita` per gli stimoli interni nettamente aumentata rispetto alla fase NREM; incremento del metabolismo cerebrale e attivazione del sistema PGO. Ma il dato piu` singolare e` la caduta della regolazione omeostatica in genere, di quella omeotermica in particolare. ` questo uno dei dati meno comprensibili che E fa dire a M. Jouvet: «... non si capisce come il sogno possa costituire un vantaggio evolutivo, dal momento che corrisponde allo stato in cui l’animale e` piu` vulnerabile: lo stato di sogno e` in effetti il momento piu` pericoloso del ciclo a tre tempi sonno-veglia-sogno, poiche´ il cervello chiude la porta al mondo esterno, e dunque agli eventuali pericoli, per aprirsi ad un programma endogeno». Questa singolarita`, quindi inspiegabile in termini evoluzionistici, deve pero` essere compresa, altrimenti si rischia di perdere in gran parte il significato della fase REM. Ma soprattutto deve essere compreso perche´ proprio in questa fase viene meno il meccanismo di autoregolazione della temperatura corporea, che e` un meccanismo fondamentale di sopravvivenza per gli animali omeotermi che sono animali molto piu` evoluti dei

poichilotermi. Quindi potremmo dire che c’e` una regressione a fasi piu` antiche dello sviluppo. Perche´ mai gli animali omeotermi durante la fase REM si trasformano, momentaneamente, in poichilotermi? Per fornire una possibile ipotesi esplicativa bisogna tener presente una ulteriore differenza fondamentale: mentre per gli animali poichilotermi i neuroni continuano a riprodursi, negli animali omeotermi i neuroni non solo non si riproducono dalla nascita in poi, ma dai 20 anni in poi inizia una loro fisiologica distruzione. Questa specificita` anatomica sembrerebbe essere penalizzante e comportare, per gli animali omeotermi, una minore capacita` di immagazzinare memoria o comunque di modellare funzionalmente la rete neuronale in funzione dell’apprendimento. Invece, forse, e` vero proprio il contrario! Infatti noi sappiamo che le informazioni si fissano a livello sinaptico: se le cellule nervose si rinnovassero continuamente, inevitabilmente quelle nuove potrebbero trasmettere solo il patrimonio genetico, mentre l’informazione acquisita andrebbe perduta. La divisione delle cellule comporterebbe inevitabilmente la perdita dell’informazione per la strutturazione di nuovi circuiti che sarebbero sı` pronti e recettivi a nuove informazioni, ma perderebbero quelle acquisite in precedenza. Quello che invece tende a rimanere stabile e` il patrimonio genetico del neurone: cioe` il patrimonio innato3. Ed e` quanto osserviamo negli animali meno evoluti: un corredo di istinti o di schemi cognitivo-comportamentali gia` presenti alla nascita e che si ripetono immutabili nel ciclo di vita di ogni singolo individuo, nei millenni nell’ambito di ogni singola specie. Dobbiamo ritenere che la non riproduzione del neurone serva proprio, anche se e` apparentemente paradossale, a rendere possibile l’apprendimento e quindi il cambiamento. Infatti si mantiene stabile la persistenza dei ricordi di quanto e` E` evidente che se un neurone muore e se ne riproduce uno nuovo, questo avra` lo stesso patrimonio genetico del primo, ma non le informazioni. 3

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avvenuto in precedenza, il patrimonio dei vissuti che costituiscono la storia che e` la base della identita` dell’uomo. Quindi l’omeotermia si e` evoluta di pari passo con la fase REM, altro meccanismo evolutivo fondamentale. Ma l’omeotermia si e` anche parallelamente evoluta con la non riproduzione dei neu` probabile che in questa complessita` si roni. E doveva costituire una nuova modalita` che permettesse al S.N.C. di ‘‘processare’’ correttamente e continuamente le nuove informazioni. La fase REM potrebbe essere devoluta esattamente a questo compito: l’elaborazione ed il mantenimento dei ricordi o delle tracce mnestiche. Perche´ mai poi ci sia una contemporanea caduta del meccanismo omeotermico, lo vedremo successivamente. Ma seguiamo ancora M. Jouvet. «Lo studio dell’omeostasi potrebbe offrire qualche dato ulteriore: esiste in effetti, nel corso del sonno paradosso, una continuita` ontogenetica tra i movimenti del feto (di topo o di cavia) in utero, quelli del topolino o del gattino neonato nei quali il sistema di inibizione posturale non e` ancora funzionante, ed il comportamento onirico dell’adulto. I movimenti del feto sono senza dubbio l’espressione motrice della formazione di sinapsi preformate geneticamente nel corso della maturazione del S.N.C. Noi sappiamo in effetti che l’ambiente puo` modificare l’organizzazione funzionale ` cosı` che l’attivita` e anatomica del cervello. E corticale unitaria e l’organizzazione dei dendriti nella corteccia visiva possono essere modificate nei gattini mediante la occlusione prolungata delle palpebre, o che l’aspetto architettonico o enzimatico della corteccia puo` essere alterato nel topo dall’isolamento o dalla iperstimolazione sensoriale. Sembra dunque difficile capire come una programmazione genetica definitiva, stabilita al fine di una maturazione, possa essere efficace per organizzare dei futuri comportamenti innati a dispetto delle modificazioni plastiche sinaptiche indotte dall’ambiente. Inoltre la programmazione genetica definitiva di centinaia di miliardi di connessioni sinaptiche richiederebbe un numero di geni ben superiore a quelli che esiste nel genoma. Per questo motivo sembrerebbe piu` soddisfacente il concetto di una programmazione genetica ricorrente e periodica».

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Il meccanismo di questa programmazione ricorrente viene definita da Jouvet «apprendimento filogenetico endogeno». A riprova di questa sua tesi endogena, Jouvet ha evidenziato nel gatto alcuni comportamenti ottenuti mediante l’ablazione di parti del nucleus coeruleus che e` deputato ad inibire l’attivita` motoria. Durante la fase REM, il gatto puo` quindi muoversi e si evidenziano comportamenti non finalizzati e ripetitivi: sequenze di esplorazione, di avvicinamento alla preda, di pulizia del corpo etc. Che tutto questo possa servire ad una ripetizione e ad un apprendimento di schemi endogeni, cioe` innati, e` molto plausibile per gli animali. Ma temo che questo non sia applicabile all’uomo, visto che in questi i comportamenti innati, rispetto a quelli appresi, sono veramente minimi. Ancora una volta l’osservazione in laboratorio, ed esclusivamente sugli animali, comporta risultati e teorie che non sono applicabili ed estendibili all’uomo, la cui complessita` comporta schemi interpretativi diversi. Nell’uomo dobbiamo ritenere che durante la fase REM il S.N.C. si esercita con quei residui di memoria a breve termine (derivanti dalle esperienze quotidiane) e che cerca non solo di vagliarle ed approfondirle, ma anche di fare quello che Piaget definisce «il gioco interiore della mente». Provare cioe` nuove soluzioni o nuove associazioni per tentativi ed errori. Cosa resa possibile dal fatto che l’inibizione della motricita` impedisce un pericoloso quanto cieco passaggio all’atto. Il fatto che Jouvet abbia dimostrato che in fase REM l’animale e` cieco e sordo ad ogni stimolo esterno testimonia semplicemente la non recettivita` a stimoli provenienti dall’esterno. Ma e` proprio questa situazione che rende possibile e favorisce una maggiore recettivita` agli stimoli interni. Che tutto questo debba avvenire in una situazione di estrema protezione, di inibizione motoria e con un massiccio dispendio energetico e metabolico e` perfettamente logico e comprensibile e soprattutto testimonia l’estrema complessita` ed importanza della fase REM. Ma la domanda che dobbiamo porci, ed alla quale occorre dare una risposta, e` perche´ in questa fase viene meno il meccanismo omeostatico di

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cui la perdita dell’omeotermia rappresenta l’aspetto piu` eclatante. Sembrerebbe poco logico e poco comprensibile: un processo evoluto, come l’omeotermia, viene meno in una fase che abbiamo visto ha bisogno di grande sicurezza e protezione. Sembra veramente paradossale! Credo che sia proponibile una ipotesi che apra ad ulteriori approfondimenti. La caduta dei meccanismi omeostatici nella fase REM rende questa situazione aperta e non codificata, capace di massima recettivita` e liberta`, a differenza della situazione omeostatica che, come ben sappiamo, preservando l’organismo da possibili variazioni serve a mantenerne la stabilita`. Stabilita` che se e` utile sul piano fisiologico lo e` molto meno su quello dello sviluppo psichico che implica e necessita di un maggior grado di liberta`. Quindi dobbiamo ritenere che la singolarita` della fase REM sia proprio quella di essere alla base della creativita` e del cambiamento e quindi costituisca un momento fondamentale per lo sviluppo e l’evoluzione psichica dell’uomo. La veglia ed il sonno NREM, visti in chiave evoluzionistica, presentano una peculiarita` comune che li rende fondamentali per la sopravvivenza. La veglia permette un rapporto con la realta` finalizzato alla difesa, alla ricerca di cibo, di sicurezza, del partner ecc. Il sonno NREM (per lo meno per le specie piu` evolute che ne sono provviste) serve fondamentalmente per la reintegrazione delle energie consumate in questa attivita`. Ambedue gli stati sono regolati dal principio di omeostasi: cioe` la tendenza da parte dell’organismo a mantenere stabili i principali parametri biologici. Aspetto necessario e fondamentale per lo stabile mantenimento di un assetto biologico ottimale, al fine di un corretto adattamento alla realta`. La fase REM in questa ottica sembra essere uno stato regressivo, o comunque non funzionale. Ma se vogliamo dare un senso a questa ‘‘singolarita`’’ dobbiamo ritenere che proprio questo liberarsi dalle regole omeostatiche, conferisce alla fase REM una peculiarita`: quella di essere preposta non all’adattamento ed alla ripetitivita`, ma alla novita` ed alla creativita`. E perche´ questo possa accadere e` necessario,

come ha ampiamente dimostrato M. Jouvet, che ci sia uno stato di sicurezza e di tranquillita`. Alcuni AA. hanno definito i sogni come ‘‘figli di un cervello ozioso’’. Definizione sicuramente affascinante ma che forse rende meno l’idea, rispetto al considerare l’attivita` onirica come ‘‘un gioco della mente’’. Di quella mente che dopo aver messo in atto le fondamentali funzioni cognitive e razionali, necessarie alla sopravvivenza e all’adattamento, puo` permettersi il lusso di dare spazio ad una attivita` mentale che abbia sempre piu` le caratteristiche dello psichico. Ed ove per psichico ovviamente intendo prevalentemente l’attivita` inconscia.

4.1. Il sogno: funzione e significato Ed e` in questo contesto che dobbiamo inserire la possibilita` di comprendere le funzioni ed il significato del sogno. Il sogno ha caratteristiche di tipo ‘‘allucinatorio’’, nel senso che colui che sogna non e` consapevole del suo particolare stato psicologico, ma vive come vere le immagini o le parole del sogno. Il sogno e` caratterizzato da immagini molto vivide, accompagnate spesso da sensazioni uditive e di movimento: quindi nel sogno sono impegnate la sensorialita` visiva, uditiva e cenestesica, meno gli altri sensi come il gusto, l’olfatto o il tatto. Intense invece possono essere le emozioni che variano dalla gioia all’angoscia. Sul piano fenomenologico il sogno e` caratterizzato da tre processi fondamentali (J. Allan Hobson, 1987); 1) 2)

3)

L’attivita` del S.N.C. che corrisponde appunto alla fase REM. Il blocco delle afferenze sensoriali tramite una prima inibizione presinaptica dei terminali afferenti dei nervi cutanei, e da una ulteriore inibizione dei livelli piu` elevati dei circuiti sensoriali. Blocco delle afferenze motorie: questo fenomeno e` dovuto ad una inibizione post-sinaptica dei motoneuroni della via finale comune situata nel midollo spinale e nel tronco encefalico. La generazione di segnali interni che ven-

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gono vissuti, a causa della specifica situazione sensoriale, come provenienti dall’esterno. «Sulla base di questi tre processi, il cervello si prepara a processare l’informazione che proviene dal suo interno, escludere i dati provenienti dall’esterno ed a non agire in rapporto alla informazione generatasi al suo interno». Certamente questi dati sono validi; ma la neurofisiologia non puo` dirci nulla di piu` circa il ` evidente significato delle informazioni interne. E che le informazioni interne nascono dall’esperienza, dalla memoria, dai residui diurni, ma anche e soprattutto dalla organizzazione psichica complessiva del soggetto. Infatti che prevalga una struttura di inconscio rimosso o uno stato di inconscio mare calmo, la produzione onirica e` molto diversa. Sulla base delle nozioni di neurofisiologia e delle esperienze cliniche, il sogno puo` essere considerato come una particolare modalita` di pensiero, che permette al soggetto non solo di rappresentarsi la sua situazione interna, ma anche di tentare soluzioni, piu` o meno congrue, delle sue problematiche e delle sue conflittualita`. Il sogno e` un momento di riflessione ed un tentativo di soluzione di problemi o di conflitti mediante la rappresentazione drammatica, come in uno scenario teatrale, delle pulsioni, delle angosce, delle speranze e dei desideri. In una parola e` in gioco tutta la complessa e piu` profonda struttura psi` quindi il sonno che perchica del sognatore. E mette l’emergere del sogno e non viceversa come sosteneva S. Freud. Gia` da decenni, sulla base di considerazioni di clinica psicoanalitica, avevamo contestato questa affermazione di Freud, ma se fosse necessario possiamo oggi utilizzare anche un dato che ci proviene dagli studi di neurofisiologia del sonno. L’evidenziamento di una specifica funzione neurofisiologica, il CAP (Cyclic Alternative Pattern) (vedi M. G. Terzano), meccanismo che serve a stabilizzare il sonno e che e` presente solo durante la fase NREM, e` una conferma ulteriore, su base neurofisiologica, che il sogno non e` un esaudimento allucinatorio dei desideri necessario per proteggere il sonno.

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Le funzioni del sogno sono invece molteplici e non del tutto chiarite. Le piu` importanti sono: attivare i circuiti cerebrali, attivare il passaggio delle informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine ed inoltre, probabilmente, eliminare una serie di informazioni inutili o superflue. Ma sicuramente il sogno assolve anche una funzione, quella forse da piu` tempo accertata, di aprire al mondo dell’inconscio, avendo parzialmente chiuso, con il sonno, al mondo esterno. Ma prima di affrontare questo problema, credo sia necessario sottolineare un particolare aspetto del sogno. Noi sappiamo che il sogno avviene, e probabilmente occupa gran parte della fase REM, che nell’adulto corrisponde a circa il 20% del sonno totale, ovverosia circa 80-90 minuti per notte. Si ritiene inoltre che il sogno, per quanto articolato e complesso, puo` avvenire nell’arco di pochi secondi. Ora, mediamente, a parte rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte minima. Dobbiamo dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva attivita` onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo. Nel senso che probabilmente l’attivita` onirica nel suo insieme ha funzioni numerose e complesse, il sogno ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano riguardano esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche psicologiche conflittuali o comunque piu` importanti in quel momento, per quella persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano sono tentativi di visualizzare, e a volte di risolvere, conflitti, problemi o possono essere una libera produzione, un gioco della mente.

4.2. Il linguaggio del sogno Il sogno si esprime mediante un linguaggio, la cui caratteristica fondamentale e` di essere costituito prevalentemente per immagini. Il bambino conosce il mondo attraverso le sensazioni tattili, acustiche, ma soprattutto visive.

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All’inizio non c’e` il verbo, ma l’immagine, che deve essere distinta dalla pura sensazione visiva, perche´ implica una capacita` di organizzazione psichica piu` complessa. Il bambino recepisce miriadi di sensazioni visive, le seleziona e le elabora soprattutto sulla base della continuita` e della ripetitivita` dell’oggetto. Dal momento che riesce a formare le immagini, il bambino comincia a crearne di nuove ed a giocarci: il sogno puo` essere visto come continuazione di questa attivita` ludica. Il linguaggio onirico e` un linguaggio prevalentemente per immagini, e di queste conserva due proprieta` caratteristiche: la sinteticita` e l’ambiguita` . Su un piano evolutivo culturale, possiamo paragonare il sogno alla scrittura ideografica che e` piu` universale, ma meno definita di quella fonetica. L’immagine ci fornisce infatti una informazione piu` rapida e sintetica, ma in qualche modo anche meno definita e precisa. Ovverosia l’immagine, piu` della parola, puo` avere significati multipli, perche´ l’immagine rende possibili due meccanismi: la condensazione e lo spostamento. In questo modo una immagine puo` fondersi o sostituirsi ad un’altra, dando luogo al simbolo, ove appunto una immagine puo` essere al posto di un’altra con un significato completamente diverso. A differenza del segno che indirettamente rimanda alla presenza di una realta` precisa, e del segnale che e` un indice convenzionale ed esplicito. Ma la vera profonda differenza e` basata sul fatto che nel processo onirico manca il senso del tempo come categoria vettoriale: manca la “freccia del tempo” che e` invece fondamentale nel pensiero cosciente. Questa mancanza rende possibile di non tener conto del prima e del dopo, e quindi invertire, per cui il dopo puo` avvenire prima: e` la base del principio di contraddizione, l’esatto opposto di quel principio basilare della logica che e` il principio di non contraddizione. Per questo nel sogno possono accadere avvenimenti con situazioni antitetiche ed opposte che non destano, nel sognatore, alcuno stupore o alcuna incredulita`. Quindi la struttura del linguaggio onirico e` caratterizzata da spostamento, condensazione, as-

senza del principio di continuita` e contiguita` e di quello di non contraddizione. Se questa e` la struttura del linguaggio onirico, i contenuti sono immagini che possono derivare da: a) b) c)

immagini riguardanti il passato; immagini tratte da situazioni presenti (resti diurni); costituzione di immagini completamente nuove.

Le scene possono essere semplici o molto complesse ed articolate. Normalmente il soggetto vive il sogno come realta`; a volte invece ‘‘sa’’ che sta sognando. Questa evenienza puo` indicare un tentativo di superamento dell’angoscia, nel senso che se il contenuto del sogno suscita angoscia, pensare che si sta sognando e` un modo per sdrammatizzarlo. L’esperienza onirica viene successivamente, nella veglia, organizzata in un racconto del sogno che ascoltato e recepito dal terapeuta ne rende possibile l’interpretazione. Abbiamo esaminato le varie istanze psichiche di sviluppo, la cui integrazione costituisce il carattere normale-sano. Non e` altrettanto facile descrivere un modello psicopatologico cosı` univoco e lineare, perche´ la patologia psichiatrica compromette sempre piu` di una istanza psichica. Pertanto nel capitolo successivo cerchero` di sottolineare alcuni problemi teorici e metodologici attinenti alla conoscenza ed alla dinamica della osservazione. Sarebbe piu` didattico proporre per ogni funzione e istanza psichica il dato psicopatologico corrispondente. Ma questo evidenziarlo finirebbe per comportare numerose ripetizioni: pertanto rimando ai singoli capitoli dedicati alle sindromi cliniche.

5. Struttura, funzione, stato In chiusura mi sembra utile fornire qualche precisazione circa i concetti di struttura, funzione e stato, anche per meglio comprenderne la complessa interazione.

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Alla nascita il bambino e` un organismo vivo, vitale, funzionante, il cui sviluppo sul piano somatico e` determinato in gran parte da un programma genetico, anche se le influenze ambientali possono modificarlo notevolmente. Sul piano psichico lo sviluppo e` basato su due istinti fondamentali la cui fusione, alla nascita, determina la formazione dell’Io, che e` meno programmato rispetto al soma e che sara` notevolmente determinato dalle dinamiche interazionali tra gli adulti ed il bambino. A parte gli istinti, l’inconscio e l’Io primario, nell’arco di poco tempo si attivano tutte le istanze psichiche che ho descritto nei paragrafi precedenti, per giungere in breve alla costituzione di una struttura psichica che ho definito come carattere. Questo carattere puo` strutturarsi in maniera sana o patologica, a seconda dei diversi eventi della vita relazionale del bambino. La difficolta` che il clinico incontra quando cerca di formulare un modello dello sviluppo psicologico e` dovuta al fatto che in genere egli ha a che fare con persone che presentano gia` una struttura organizzata e quindi abbastanza stabile (il carattere). Coloro che studiano il bambino nelle prime fasi dello sviluppo osservano invece una grande mobilita` che e` poi alla base dei notevoli e rapidi progressi che il bambino compie in poco tempo. Quindi c’e` una certa difficolta`, che si esprime anche sul piano lessicale, a integrare queste due modalita` di osservazione. Per rendere possibile questa integrazione ho sostenuto che e` preferibile usare il termine Io, anziche´ quello di carattere, sia nella fase dello sviluppo che nello studio delle funzioni della struttura psichica, ovvero quando ci troviamo di fronte a una maggiore mobilita` del soggetto. Nella fase iniziale dello sviluppo, come abbiamo visto, si forma un Io-pelle (o Io primario) o Io libidico che diventa sempre piu` funzionale nel corso degli anni; successivamente, intorno agli 8-10 anni, si ha la formazione di un Io-ideale che rappresenta il complesso dei valori normativi e delle aspettative che il soggetto si prefigge e si attende. L’Io ideale si forma sicuramente dai valori assorbiti dall’ambiente familiare e sociale, ma

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che sono anche liberamente elaborati da ogni singola persona. Se invece il bambino si trova ad affrontare difficolta` e frustrazioni superiori alle proprie forze, tendera` a strutturare un cosiddetto Iosecondario o corazza caratteriale che rappresenta gia` una patologia, anche se non sintomatica: e` il carattere nevrotico. La struttura psichica, definita carattere, si manifesta e viene evidenziata attraverso una serie di modalita` definite funzioni. Quanto piu` la struttura si esprime nella sua globalita` tanto piu` la funzione sara` complessa. Una funzione complessa puo` definirsi una dinamica: ad esempio la dinamica relazionale esprime la complessita` di diverse funzioni. In altri casi ci troviamo di fronte a funzioni semplici: esse sono l’espressione di una singola istanza della struttura psichica o implicano particolari attivita` del S.N.C.: come ad esempio la memoria. Definire l’inconscio come stato della mente vuol dire ribadire l’esistenza di un inconscio mobile e creativo (inconscio mare calmo), in contrapposizione a quello rimosso che, come struttura, e` invece statico e ripetitivo. Alcuni di questi concetti saranno ripresi successivamente nel capitolo sulla psicopatologia; come spesso succede, la patologia puo` evidenziare meglio alcune aspetti della normalita`.

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9 Elementi di psicopatologia dinamica Nicola Lalli Parole chiave delirio; sensazione; percezione; rappresentazione; illusione; allucinazione; pensiero; percezione delirante (P.D.); coscienza; psicopatologia fenomenologica; psicopatologia dinamica; modificati stati di coscienza (M.S.C.); manierismo; autismo; depersonalizzazione; spiegare; comprendere; episte´me; doxa; certezza; verita`; realta`; introiezione; proiezione; immagine; metodo; ¨ berstieg paradigma; Erlebnis; Praecoxgefu¨hl; U

Scrivere di psicopatologia e` compito arduo e complesso, non solo perche´ ne esistono modelli diversi e quindi si finirebbe con lo scrivere una sorta di storia della psichiatria, ma soprattutto perche´, in una visione non riduttiva, la psicopatologia diventa una teoria della clinica. Il che equivarrebbe a scrivere un altro libro in aggiunta al presente che invece e` prevalentemente clinico, dal momento che descrive, ordina e spiega i diversi quadri clinici ma non si sofferma a considerare i processi e i percorsi teorici che hanno indotto a quelle conclusioni. Per fare questo bisognerebbe scrivere una “Teoria della clinica”: in attesa cerchero` di definire cosa si intende per psicopatologia dinamica. La psicopatologia dinamica e` una disciplina che si occupa non solo di comprendere e spiegare l’evento psicopatologico nella sua formazione e nel suo manifestarsi, ma anche di modificare quella psicopatologia dal momento che e` stata evidenziata. Quindi non disciplina

asettica, puramente osservativa e descrittiva, ma prassi perche´ inevitabilmente il cogliere la psicopatologia porta l’osservatore (psichiatra-psicoterapeuta) a modificarla. In parte e` quanto gia` proposto nei vari capitoli: da “Il modello dello sviluppo psichico” ai sottocapitoli di ‘‘psicodinamica’’ che precedono la descrizione dei diversi quadri clinici. Pertanto nel presente capitolo mi occupero` in maniera piu` specifica ed articolata dei problemi metodologici e teorici della psicopatologia. In primo luogo la problematica inerente l’osservazione e la comprensione del paziente (vedi anche capitolo 11 e 49) che apre inevitabilmente al problema piu` generale del processo della conoscenza. Qual e` la corrispondenza tra la realta` di cio` che viene osservato e quanto noi percepiamo? Come puo` influire l’osservatore, per quanto o in

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quanto partecipe, nella conoscenza dell’altro? E quel che percepiamo dell’altrui realta` e` una nostra costruzione o invece corrisponde ad una realta` oggettiva? La conoscenza dell’altro avviene attraverso gli stessi canali percettivi che ci permettono la conoscenza della realta` materiale, oppure c’e` qualcosa in piu` e di diverso che ci permette di cogliere la realta` umana, soprattutto nella sua espressivita` psicopatologica? Inevitabilmente queste domande si collegano strettamente ad una domanda essenziale che, seppure non esclusiva della ricerca psichiatrica, trova nella espressivita` psicopatologica una maggiore profondita` ed una possibile conferma. Qual e` lo specifico della natura umana? Se la specificita` e` l’attivita` psichica, quali sono le peculiarita` di questa: come si forma e che rapporto c’e` tra attivita` psichica e biologia? Non sara` possibile dare una risposta esaustiva a tutti i problemi e per questo ho preferito intitolare il capitolo “Elementi di psicopatologia”; pero`

e` anche vero che una risposta e` possibile, almeno per i problemi fondamentali. La complessita` delle tematiche esposte puo` comportare, pur nella comunanza di una visione globale, alcune differenze. Per questo ho diviso il capitolo in due parti. Nella prima, oltre un sintetico profilo storico, saranno trattati quesiti metodologici e teorici ed alcuni fenomeni psicopatologici di particolare rilievo. Nella seconda, sara` dato spazio ad alcuni autori che riprendono alcune tematiche fondamentali (come l’affettivita`, il delirio, le allucinazioni) alla luce di una teoria completa e complessiva dello sviluppo e del manifestarsi dello psichico, che e` quella di M. Fagioli. L’unicita` del capitolo e la divisione in due parti implicano una convergenza di vedute, ma anche alcune differenze. Credo che le differenze rappresentino stimoli per una ulteriore ricerca. ***

Elementi di psicopatologia dinamica

Parte I 1. Quale psicopatologia? di Nicola Lalli Se vogliamo definire cosa sia la psicopatologia dinamica, dobbiamo necessariamente differenziarla da metodi di osservazione che sottendono paradigmi teorici diversi. Metodi e paradigmi derivanti da particolari contesti culturali e scientifici che si sono succeduti nel tempo, ma non in progressione tale da giustificarne una esposizione storica. Anzi questa potrebbe risultare falsificante perche´ indurrebbe, surrettiziamente, a credere in una evoluzione globale della psichiatria che nei fatti non c’e`. Sicuramente la psicopatologia clinico-descrittiva, che si basa sul paradigma scientifico naturalistico, si e` sviluppata prima di quella fenomenologica, che si basa invece sulla intenzionalita` della coscienza. Ma e` pur vero che la prima e` ritornata in auge negli ultimi decenni e sembra, al momento, essere dominante. Pertanto, piu` che una descrizione storica preferisco delineare le peculiarita` e le differenze dei tre modelli fondamentali della psicopatologia: quello clinico-descrittivo, quello fenomenologicoermeneutico, quello psicodinamico. 1.1. Modello clinico-descrittivo La psicopatologia clinico-descrittiva sottende un modello naturalistico della malattia, molto simile a quello adottato, con tanto successo, in medicina. Dato fondamentale e` il concetto di sindrome: insieme di sintomi che si presentano “naturalmente e significativamente sul piano statistico” in una determinata sindrome, che si differenzia dalle altre, anche per uno o piu` sintomi peculiari, definiti “patognomonici”. Il sintomo e` pertanto il segno di un qualche disturbo che, seppure non chiaramente visibile, e` deducibile dalla presenza di questi segni-sintomi. Si costituiscono cosı` delle “unita` naturali” di malattia che presentano un particolare decorso e, quindi, una prognosi specifica.

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In questa visione il paziente e` considerato alla pari di un oggetto. Il vissuto del paziente ed il senso del sintomo perdono ogni valore, anzi possono essere di intralcio per una conoscenza oggettiva della malattia. Se un soggetto si frattura un arto (dato oggettivo) e si lamenta (dato soggettivo), per l’ortopedico che deve evidenziare il luogo e la natura del trauma, questo lamento puo` essere inutile e fastidioso. Per cui se l’ortopedico anestetizza o seda il paziente per eliminare il lamento, compie da una parte una operazione umanitaria, dall’altra facilita il suo compito di osservazione e di indagine della patologia del paziente. Situazione ben diversa se invece a lamentarsi e` un depresso. In questo caso il lamento, la disperazione costituiscono oltre al sintomo visibile anche il dato soggettivo del paziente che ci permette non solo di comprendere il suo vissuto, ma anche di evidenziarne la natura (e` un simulatore, e` un depresso, e` a rischio di suicidio, e` un nevrotico ecc.?) Se in questo caso l’osservatore volesse utilizzare lo stesso metodo dell’ortopedico, cioe` esclusivamente quello di osservare, potrebbe, per farlo meglio, sedare il lamento (in questo caso dobbiamo parlare non di ragioni umanitarie o tecniche, ma esclusivamente di un transfert scorretto dell’osservatore). Ma in questo caso l’operatore, a giusto titolo, non puo` definirsi uno psichiatra, ma solamente un ortofrenico. ` evidente che in psicopatologia occorre un E metodo di osservazione (e di prassi) che non puo` essere uguale a quello utilizzato dal medico per le malattie organiche. Proposizione possibile solo se si accetta che la vita psichica presenta modalita` espressive e di funzionamento ben diverse da quelle del soma. Se la modalita` di osservazione invece rimane esclusivamente rivolta al sintomo inteso come entita` oggettiva e separata dal contesto complessivo del paziente, e` inevitabile che il modello teorico sottostante dell’osservatore, anche se non sempre esplicitato, e` quello di una osservazione naturalistica ed il disturbo psichico viene inevitabilmente equiparato ad un disturbo somatico. Quanto sia primario il modello teorico e quanto la modalita` di osservazione e` difficile stabilirlo: comunque e`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

certo che teoria e prassi sono strettamente condizionate. Griesinger e` riconosciuto come lo psichiatra che ha portato alle estreme conseguenze questa equiparazione, affermando che le malattie psichiatriche sono malattie del cervello. Ma siccome Griesinger e` vissuto nell’800, potrebbe sembrare una posizione ormai superata. Invece rimane ancora attuale: la psichiatria biologica e la farmacopsichiatria, anche se con metodologie piu` sofisticate, ripropongono la medesima tesi di Griesinger. Con una differenza. Mentre l’austero psichiatra tedesco era estremamente coerente, gli attuali farmacopsichiatri invece, con disinvoltura ed incuranti di cadere in una evidente contraddizione, parlano anche di soggettivita`, di vissuto psichico, di significativita` del rapporto medico-paziente, di psicoterapia. Ad un osservatore mediamente attento non sfugge pero` che il cipiglio fiero e sicuro che mostrano — quando espongono il loro pensiero corroborato da disegni o diapositive con frecce, numeri, zone cerebrali, a riprova della validita` dei loro modelli psicobiologici — si spegne improvvisamente quando parlano di soggettivita` e psicoterapia per mutarsi in uno sguardo spento, attonito pervaso da un sorriso vagamente manierato. La rapidita` del cambiamento e` difficilmente spiegabile in termini di variazione di un qualche neuromediatore: molto piu` logico e comprensibile che sia collegata alla incongruita` della proposizione. A dimostrazione che l’incongruita` (dato soggettivo e psicologico) non solo e` percepibile, ma si manifesta nel somatico ed a volte anche con un effetto antiestetico. Quanto ai presupposti teorici che ne sono alla base, questi hanno una lontana ascendenza che nel positivismo trova il massimo sviluppo. Positivismo che alla fine dell’800 aveva portato all’estremo la postulazione della netta dicotomia tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura: proposizione che aveva in Bacone e Galilei gli antesignani. Per conoscere la natura era necessario isolare dal contesto il fenomeno da osservare, eliminando qualsiasi interferenza, osservatore compreso. Questo metodo, definito sperimentale ed iniziato da Galilei, fornira` ottimi risultati e sara`

vincente rispetto alla fisica aristotelica, che aveva dominato sulla base di un dogmatismo (Ipse dixit) che non ammetteva controprove. Ad esempio, Aristotele sosteneva che la velocita` di caduta di un oggetto e` direttamente proporzionale al suo peso: questa legge sembrava evidente ed inconfutabile. Infatti se si lasciano cadere da una torre una piuma ed un sasso, quest’ultimo giunge a terra molto prima della piuma. Galilei ritenne questa “evidenza” falsa e pertanto effettuo` un esperimento. Due masse di ferro rispettivamente da 1 e 100 libbre furono fatte cadere dalla torre di Pisa: fu “evidente” che queste giungevano a terra con una differenza infinitesimale di tempo. Se fosse stata vera l’affermazione di Aristotele, la massa da 1 libbra sarebbe dovuta arrivare a terra in un tempo cento volte inferiore a quella di 100 libbre. L’esperimento quindi forniva la possibilita` di superare le apparenze per giungere alle leggi vere della fisica; questa possibilita` permetteva all’uomo di trasformare la conoscenza in potenza, ovvero in controllo e sfruttamento della natura. Questa metodologia comportava pero` l’eliminazione di due fattori: il tempo e l’osservatore. Il tempo perche´ l’esperimento non doveva avere una vettorialita` cosı` da poter essere eseguito in qualsiasi momento e sempre con gli stessi risultati; una volta iniziata la procedura, l’osservatore non doveva piu` interagire. ` pur vero che gli astronomi si erano resi E conto che nell’osservazione degli astri c’era un fattore personale che poteva, rispetto ad un fenomeno stabile come il passaggio di una stella, fornire tempi diversi anche se minimi. Per questo fenomeno fu coniato il termine, che verra` ripreso qualche secolo dopo dalla psicologia, di equazione personale: l’osservatore, a causa della propria equazione personale (conseguenza della diversita` dei tempi di reazione), forniva risultati leggermente sfalsati. Ma a questo errore si poteva rimediare proprio calcolando le singole equazioni personali: come dire che se l’osservatore non era eliminabile o non era “asettico”, rappresentava un elemento di disturbo che andava successivamente corretto. Questo modello, pur con alcune modifiche, sara` adottato dalla medicina che con l’anatomia

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patologica e gli esperimenti di laboratorio riuscira` in breve tempo a costruire un corpo teorico fondamentale per la conoscenza dell’organismo umano: termine che denota tuttora il corpo umano e la cui ascendenza etimologica (organon=strumento) la dice lunga sulla concezione del corpo umano. Ma questo paradigma scientifico, se comportava una migliore conoscenza che rendeva possibile la manipolazione della natura (tecnologia), sul piano epistemologico portava sempre piu` ad approfondire la frattura tra osservatore ed oggetto osservato, quindi tra uomo e mondo. Questa problematica sara` affrontata e apparentemente risolta da I. Kant che, con la formulazione di categorie a priori della conoscenza, se riproponeva di nuovo la centralita` dell’uomo nel processo di conoscenza lasciava un residuo — inderivabile ed inconoscibile — che era il noumeno. L’idealismo accentuera` ulteriormente questa posizione della centralita` dell’uomo nel processo di conoscenza della realta`. Se Hegel risolvera` la realta` materiale in quella dello Spirito, bisogna dire che le affermazioni del grande filosofo in campo prettamente scientifico erano assolutamente risibili e totalmente false. Da questo momento il distacco fra filosofia e tecnologia diventera` sempre maggiore. Il problema di una osservazione che fornisse garanzie di veridicita` ma che tenesse conto anche dell’osservatore trovera` una soluzione, anche se parziale, con il concetto di intenzionalita` della coscienza.

1.2. Modello fenomenologico-ermeneutico Questo termine introdotto in ambito psicologico da Brentano denota la peculiarita` dei fenomeni psichici che hanno sempre un loro originario riferimento all’oggetto. Il concetto di intenzionalita` sara` ampliato da E. Husserl che lo proporra` come fondamento del rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza. «La caratteristica delle esperienze vissute (Erlebnisse), che puo` essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia orientata oggettivamente, e` l’in-

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tenzionalita`... L’intenzionalita` e` cio` che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di indicare la corrente dell’esperienza vissuta, come corrente di coscienza e come unita` di coscienza». Quindi la coscienza (intesa nel senso complessivo delle capacita` psichiche e conoscitive dell’uomo) non e` una cosa tra le altre, ma un processo in continua trasformazione, un suo “trascendersi” in altro. Ritornero` sulle riflessioni di Husserl perche´ in gran parte costituiranno la base dell’edificio teorico da cui nascera` la psicopatologia fenomenologica, dopo aver accennato ad un autore che insieme a H. Bergson, ha contribuito al salto qualitativo riguardante il problema della conoscenza e della realta` dell’uomo. Mi riferisco al padre dello storicismo G. Dilthey, che ancora prima di Husserl propone due concetti fondamentali. In primo luogo aver considerato l’Erlebnis, inteso come la complessita` del vissuto umano (l’equivalente quindi della coscienza di cui parla la filosofia da Cartesio a Hegel), come fondamento della conoscenza: «…l’Erleben e` lo spirito umano individuale, la coscienza immediata che appartiene a ogni uomo, l’insieme dei dati vissuti di cui si e` immediatamente certi senza bisogno di alcuna ulteriore mediazione. I contenuti dell’Erleben non sono realta` che esistono al di la` della coscienza (Cartesio direbbe che sono “essere oggettivo”, vol. III, p. 2) e quindi l’affermazione della loro esistenza non ha bisogno di alcuna giustificazione» (E. Severino, La Filosofia contemporanea, p. 167). Inoltre G. Dilthey propone una netta differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito, con la nota distinzione tra spiegare (Erkla¨ren) e comprendere (Verstehen). Come vedremo piu` avanti, sara` proprio il concetto di comprensione che diventera` la chiave di volta della psicopatologia fenomenologica di K. Jaspers. «Il campo della psicopatologia si estende pertanto a tutto lo psichico che possa essere colto in concetti di valore immutabile e comunicabili». Con questa affermazione, a p. 2 della sua monumentale Psicopatologia generale, K. Jaspers nel 1913 apre un capitolo nuovo che puo` conside-

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rarsi, soprattutto sul piano metodologico, come punto di riferimento fondamentale per la psicopatologia e per la psichiatria. L’affermazione, i cui i corsivi sono miei, e` senz’altro condivisibile e si puo` considerare come una sorta di proposizione metodologica basilare: tutto lo psichico puo` essere compreso e diventa oggetto di scienza, nel momento in cui e` possibile esprimerlo in concetti che sono non solo immutabili, ma anche comunicabili. E subito dopo K. Jaspers aggiunge: «…L’oggetto della psicopatologia e` l’accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le dimensioni della realta` psichica. Vogliamo esaminare non solo l’esperienza vissuta (Erleben) dell’uomo, ma anche le condizioni e le cause dalle quali essa dipende, quali relazioni ha ed i modi con cui si manifesta obiettivamente» (Psicopatologia generale, pp. 2-3). K. Jaspers si pone come spartiacque rispetto alla precedente impostazione clinico-nosografica che si fondava su un paradigma naturalistico dell’osservazione. Non dobbiamo dimenticare che gli sono contemporanei S. Freud, C.G. Jung, E. Bleuler che rappresentano anch’essi un punto di riferimento teorico importante. Eppure l’opera di K. Jaspers aggiunge qualcosa di radicalmente nuovo: una metodologia che vuole essere scientifica. Non bisogna dimenticare che l’autore era medico, oltre che filosofo. «La variazione metodologica (l’Autore si riferisce all’opera di E. Bleuler), pur avendo modificato la direzione della via che parte dal sintomo indicando la possibilita` di una comprensione piu` completa della follia, non ha la capacita` strutturale di fornire al pensiero psichiatrico gli strumenti operativi adatti per afferrare piu` compiutamente il contenuto e la sua dialettica con la forma da un lato e con il significato dall’altro. Lo strumento operativo piu` idoneo a questo superamento sara` mediato da K. Jaspers nella fenomenologia» (A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, p. 64). Comunque mi sembra opportuno soffermarmi sulla dizione di K. Jaspers che oggetto della psi-

copatologia e` «l’accadere psichico reale e cosciente». Il concetto di “reale” pone ovviamente il problema della conoscenza di questo ‘‘reale’’. Se riteniamo che l’uomo come essere psichico e` un “soggetto”, e` ovvio che egli non puo` essere conosciuto se ridotto ad “oggetto” come vorrebbe la metodologia naturalistica, metodo che e` applicabile con successo solo nel mondo delle scienze fisiche. La conoscenza e` quindi un processo intersoggettivo, che non implica pero` necessariamente un concetto di parita`-uguaglianza. In psicopatologia devono esserci necessariamente un osservatore ed un osservato; e per quanto tutto questo debba essere letto alla luce di un processo intersoggettivo, si deve pur sempre accettare l’esistenza di una diversita`. Quindi intersoggettivita` e differenza costituiscono la piattaforma di base: comunque si ripropone la domanda. Come possiamo avere la certezza che quell’accadere psichico (oggetto della psicopatologia) rivelato dal paziente o rilevato dall’osservatore, sia un evento reale? Anche l’allucinato, il delirante ha la certezza dell’esistenza dell’oggetto, delle “voci”, di una persecutorieta` permanente, ma noi sappiamo che la loro certezza non corrisponde alla verita`. Se questa domanda viene spostata sull’osservatore non cambia molto: come e` possibile essere certi che quanto rileviamo dall’osservato corrisponde a verita` realta`? Il fenomenologo ci risponderebbe che se si utilizza la categoria del comprendere, il problema non si pone. «Il comprendere e` il procedimento conoscitivo specificamente rivolto a qualsivoglia rappresentazione psichica colta nella sua singolarita` e nel suo continuo divenire vitale, e quindi nella sua finalita` o intenzionalita`» (P.F. Pieri, Dizionario Junghiano, p. 155). Quindi non ci deve tanto interessare la realta`verita` dell’oggetto, quanto piuttosto la sua finalita`: in altri termini, anziche´ chiederci «cosa e` e perche´ si verifica questo fenomeno», dobbiamo chiederci «qual e` lo scopo di quel fenomeno». Ma in questa visione, ampiamente sviluppata da C.G. Jung, e` evidente lo spostamento episte-

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mologico: da una ricerca causale-genetica ad una finalistica-teleologica. Ma ritorniamo a Jaspers ed alla psicopatologia: l’autore, come abbiamo visto, limita l’oggetto della psicopatologia all’accadere psichico “cosciente”. Possiamo oggi ritenere valida questa affermazione? Assolutamente no. Perche´ vorrebbe dire cogliere puramente gli aspetti comportamentali e recepire solo una parte della comunicazione del paziente: quella manifesta-cosciente. Infatti tutto cio` che e` latente-inconscio non verrebbe rilevato o considerato, con grave amputazione della conoscenza. Ma se i due predicati dell’oggetto della psicopatologia reale e cosciente sono messi in crisi e` evidente che, pur con i notevoli aspetti positivi, l’intera metodologia di Jaspers rischia di cadere in contraddizione e quindi essere poco utilizzabile. Con questo non si vogliono negare alcuni evidenti meriti del filone fenomenologico ermeneutico che e` andato ben oltre la tematica jaspersiana. Se mi sono soffermato su K. Jaspers e` perche´ questo autore ha avuto nel suo complesso una maggiore influenza sulla psichiatria. Non bisogna dimenticare pero` che numerosi altri autori hanno, usando in modi diversi la fenomenologia husserliana, apportato ulteriori approfondimenti nel campo dell’accadere psichico sia normale che patologico. Nel Dizionario di Psicologia di Galimberti, l’autore segnala giustamente alcune tematiche fondamentali e specifiche delle varie correnti fenomenologiche: da L. Binswanger a MerleauPonty, da Minkowski a molti AA. italiani che hanno dato un notevole contributo come D. Cargnello, E. Borgna, B. Callieri, F. Barison e lo stesso autore del Compendio di Psicologia da cui riprendo le tematiche fondamentali: «I. La relazione intenzionale individuoambiente non nel senso che l’individuo sia un’entita` che si relaziona ad un’altra entita` che e` l’ambiente, ma che il rapporto, l’essere nel mondo, e` la situazione originaria che si da` all’esperienza fenomenologica. II. La temporalita`, intesa non come passato, presente e futuro, ma come capacita` di darsi un

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passato, un presente, un futuro. Quando si destruttura questa capacita` abbiamo i fenomeni patologici della depressione che si raccoglie tutta nel passato, o sulla mania che si esprime in un presente senza passato e senza futuro. III. Il corpo, inteso non come organismo (Ko¨rper) secondo la dizione della scienza medica, ma come corpo vivente (Leib) aperto ad un mondo e intenzionato alle cose. (Alcuni elementi di questa concettualizzazione, pur in un’ottica diversa, sono stati ripresi nei capitoli 8 e 42). IV. Le cose sono rilevanti non in quanto fatti, ma in quanto esprimono un significato, per cui, anche se il pianto e il riso dal punto di vista neurologico e anatomico impegnano la stessa muscolatura, non hanno comunque lo stesso significato. V. L’uomo e` al mondo con i suoi simili (Mitdasein) che non esistono semplicemente accanto a lui, ma sono cooriginari alla stessa esperienza che il singolo fa da se´». (Vedi U. Galimberti, p. 404). Molte di queste tematiche, anche se non sempre in maniera completa, sono entrate ormai nel lessico della psichiatria, anche se spesso ne viene misconosciuta l’origine o comunque la teoria dalle quali provengono.

1.3. Modello psicodinamico La tematica della comprensione ha certamente aperto un mondo nuovo per la ricerca psicopatologica. La realta` (psichica) per Jaspers consiste sia in quella che si coglie immediatamente (come comprensione genetica) sia in quella a cui si puo` pervenire attraverso collegamenti oggettivi: ...«stabilendo un collegamento oggettivo fra i molteplici fatti, onde dedurne la regolarita` in base a esperienze ripetute, noi spieghiamo causalmente». Quindi, come e` evidente, K. Jaspers non rinuncia a spiegare che «...non esiste alcun processo reale, sia di natura fisica sia psichica, che non sia accessibile per principio alla spiegazione causale...». ` possibile quindi dare una spiegazione, ma E su quali basi? Evidentemente la comprensione

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apre allo psicologico ma fino ad un certo punto, perche´ qualsiasi fenomeno psicopatologico che non e` “reale e cosciente” rischia di diventare incomprensibile, e l’incomprensibile rimanda ad un’eventuale causa biologica. Come si vede si riintroduce, surrettiziamente, il modello naturalistico. L’incomprensibile jaspersiano non e` legato tanto ad una reale incomprensibilita` dello schizofrenico, ma alla metodologia di osservazione. Jaspers ripete lo stesso errore di S. Freud quando questi affermava, aprioristicamente, che lo psicotico non stabilisce un transfert. Fenomeno ampiamente smentito da molti psicoanalisti che, lavorando con gli psicotici, constatarono che questi stabiliscono un transfert particolare, che e` ben diverso dall’affermare che non stabiliscono alcun transfert. Credo che la proposizione di Jaspers sulla peculiarita` dell’oggetto della psicopatologia sia limitativa al punto che puo` divenire inservibile. In altri termini, oggetto di studio della psicopatologia non puo` essere esclusivamente l’evento psichico “reale e cosciente”. Un secondo punto rispetto al quale si deve essere polemici e` l’atteggiamento apragmatico della psicopatologia fenomenologica. Una volta presupposta che qualsiasi diversita` e` sempre e solo un modo di essere al mondo (verita` parziale), si finisce per proporre l’accettazione della diversita` psicopatologica che e` astensione da qualsiasi proposizione terapeutico-trasformativa. Con la comprensione viene esaltato l’aspetto idiografico del paziente, ma non si riesce ad inserire questo aspetto nella cornice nomotetica di una teoria dello sviluppo psichico. Questa non e` mancanza, ma rifiuto sistemico di una teoria generale dello sviluppo della vita psichica e costituisce il terzo fallimento della fenomenologia. Proprio in opposizione a questi deficit della psicopatologia fenomenologica, il modello dinamico propone formulazioni ben diverse. La psicopatologia dinamica accetta la comprensione, se per comprensione si intende un modello di lettura e di osservazione dei fenomeni psichici che non puo` essere assolutamente simile a quello del modello naturalistico-oggettivante.

Abbiamo gia` visto quali ne sono i limiti: l’abolizione del tempo e l’esclusione dell’osservatore. Ma se il tempo emerge e si costituisce proprio con l’essere vivente in genere con quello umano in particolare, eliminare il tempo vuol dire eliminare il vivente: quindi si rischia di capire ben poco, dopo una trasformazione di questo genere. E poi l’esclusione dell’osservatore: se la prima situazione e` improbabile, la seconda e` sicuramente impossibile. Comunque accettare il comprendere non vuol dire aver risolto il problema, perche´ bisogna definire il processo della comprensione. La comprensione si basa sull’empatia, sull’immedesimazione, sulla dinamica introiezione-proiezione? Per non disperdere il filo del discorso rimando al paragrafo «Psicopatologia e filosofia, il problema della conoscenza». Ma se diamo momentaneamente per scontato il processo della comprensione, riteniamo che sia necessario fornire anche una spiegazione dell’evento psichico. Spiegazione che e` possibile utilizzando la teoria dello sviluppo psichico, la conoscenza del presente e del passato del paziente, ma soprattutto la dinamica relazionale. ` la modalita` della relazione oggettuale del E paziente che ci fornisce e ci conferma quanto da noi osservato e quanto riferito dal paziente. Ma non basta; perche´ oltre al comprendere ed allo spiegare si attiva una terza componente fondamentale: la tendenza a trasformare, a cambiare l’altro di cui abbiamo “percepito” la psicopatologia. Questa triade costituisce un “campo tensionale”, ove l’osservatore non e` asettico spettatore, ma attore di una dinamica che lo spinge non solo a comprendere-spiegare, ma anche dopo aver compreso a porsi in una situazione di cambiamento. Nel “campo tensionale” la presenza di un osservatore-osservato e di un osservato-osservatore, pur nella diversita` delle rispettive capacita`, innesta un circuito, che non e` asettico luogo di comunicazione, verbale o preverbale, con contenuti puramente informativi. La comunicazione e` sempre promotiva ed innesca una serie di tensioni (aspettative, paure, desideri) che possono interagire in vario modo: da quelle conflittuali che rendono la situazione piu` tesa, a quelle collusive

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che tendono a smorzarla e farla cadere nella banalita`. Inoltre bisogna tener conto che c’e` un campo piu` ampio, non sempre ben definibile (la struttura istituzionale, il modo dell’invio ecc.) che gioca un ruolo non secondario. Se questa e` la specifica modalita` osservativaoperativa di una psicopatologia dinamica, dobbiamo poi tener conto che essa si fonda su una ben precisa teoria dello sviluppo psichico e della natura della psiche. Per la teoria dello sviluppo psichico rinvio al Cap. 8; mi soffermero` brevemente invece sul problema della natura della psiche. Possiamo sinteticamente affermare che fin dall’antichita` l’uomo ha oscillato tra due poli: la psiche come il prodotto piu` evoluto della animalita` (quindi con una differenza esclusivamente quantitativa) o come equivalente di anima quindi sostanza trascendente, immutabile ed incorruttibile. Una terza ipotesi, derivazione piu` evoluta della prima, propone la psiche come diversa da quella degli altri esseri viventi, ma la cui formazione si attiva nel corso dello sviluppo, in un periodo che puo` oscillare dai 3 ai 6-7 anni. Questa ipotesi viene riproposta da S. Freud che ritiene che il piccolo “perverso polimorfo” si civilizza intorno ai 3 anni con il superamento del complesso edipico e la formazione del Super-Io. Salvo essere sempre a rischio di una regressione psicopatologica, che lo potrebbe riportare ai livelli primitivi. Una ulteriore ipotesi considera infine la psiche come puro epifenomeno del biologico e quindi priva di una sua autonomia e identita`. Ma esiste anche una ulteriore proposizione. La vita psichica non solo ha peculiarita` qualitative ben precise, ma si forma anche in un momento preciso dello sviluppo di ogni singolo essere umano: la nascita. Dopo il lungo periodo di rapporto con il liquido amniotico della fase fetale, il neonato deve rinunciare a questa situazione per affrontarne una completamente nuova: quella del rapporto con una realta` non umana, ovvero con una realta` materiale.

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In questa situazione il neonato fa una fantasia di sparizione, indice dell’emergenza dell’istinto di morte e cerca di recuperare la situazione precedente. Data l’impossibilita` materiale di attuare questa operazione, egli recupera invece, sulla base di tracce mnestiche, il ricordo del precedente rapporto libidico che lo portera` successivamente a ricercare nuovamente nel mondo un’altra realta` umana. La biologia intesa come sviluppo programmato dell’uomo puo` considerarsi conclusa con la nascita. Da questo momento l’organismo umano continuera` a svilupparsi e a completarsi; ma tutto cio` che e` cambiamento dipendera` dai processi psichici. Questa impostazione ha notevoli e diverse implicazioni, come vedremo.

2. Psicopatologia e filosofia: il problema della conoscenza Da millenni l’uomo, da quello della strada all’epistemologo, dal filosofo allo psichiatra, si interroga su due quesiti fondamentali: la natura della “realta`” e la possibilita` e le modalita` della conoscenza. Problematiche strettamente connesse che hanno portato a diverse formulazioni e a numerosi tentativi di soluzione.

2.1. Il concetto di realta` Realta` o reale, come indica l’etimologia, si riferisce a qualcosa che ha sicura ed effettiva esistenza. Si riferisce quindi fondamentalmente ad una realta` materiale, visibile, che esiste indipendentemente dalla attivita` del soggetto. Questa concezione formulata da una corrente filosofica, definita appunto realismo, ha dominato la filosofia fino a qualche secolo fa, con l’unica eccezione dello scetticismo. In questa visione la realta` puo` essere conosciuta attraverso i sensi, le percezioni e l’intelletto, che trasformano questa realta` in idea della realta`. Idea, etimologicamente, vuol dire “visibile”;

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l’ideazione quindi e` l’attivita` conoscitiva del soggetto nei confronti della realta` oggettiva. «Per Hegel la filosofia greca e` solamente comprensione dell’idea… La comprensione dell’idea e` quel modo di pensare che e` consapevole solamente delle cose e dei loro significati (o categorie) ed e` dimentico a se stesso: il pensiero vede la realta`, ma non vede questo suo vedere, che tuttavia avvolge e illumina la realta`» (E. Severino, vol. II, p. 10). Ora e` vero che la filosofia greca pone una distinzione tra verita` come episte´me e opinione come doxa. Ma e` fondamentale la convinzione che c’e` una identita` immediata di verita` e certezza: precisando che la verita` appartiene all’esistenza e alla conoscibilita` di un mondo esterno, mentre la certezza e` una determinazione soggettiva. «Noi possiamo essere certi di cose vere e false: cio` vuol dire che la ‘certezza’ e` uno stato del pensare (cioe` della coscienza, della mente), mentre la ‘verita`’ e` uno stato delle cose» (E. Severino, ibidem, p. 13). Questi concetti, come vedremo, potranno servirci per comprendere meglio alcuni problemi che si pongono alla psicologia e alla psicopatologia. Come e` possibile conoscere, e quello che conosciamo e` reale o no, cioe` e` vero o invece siamo ingannati da una qualche illusione? Problemi non di secondaria importanza in psicopatologia: in fondo il delirante e` colui che e` assolutamente certo di qualcosa che noi sappiamo non essere vero. Pertanto puo` essere utile ripercorrere il lungo cammino ed il faticoso travaglio del pensiero umano circa queste problematiche. Per un lungo periodo, la filosofia ha assunto un atteggiamento prevalentemente speculativo che cambia intorno alla meta` del ’500, almeno nell’ambito della nostra cultura occidentale. Con l’inizio della scienza moderna non si tende piu` a contemplare, ma a dominare la realta`: per fare questo si dovra` rinunciare a una visione globale del Tutto, per rivolgersi alle singole parti che, una volta isolate dal contesto, possono essere meglio verificate. Il problema della episte´me, della unita` di certezza-verita` si sposta dalla comprensione del Tutto alla verifica dell’esperimento, che dara`

frutti innegabili nelle scoperte scientifiche, anche se ad un costo molto elevato. Mi sembra necessario, a questo punto, riportare le notazioni di un filosofo precedentemente citato. «Nella dinamica moderna — il cui fondatore e` Galileo Galilei (1564-1642) — il movimento dei corpi viene considerato separatamente dall’insieme degli eventi che, da vicino o da lontano, lo accompagnano … e in Galilei questa separazione che isola il fenomeno dal movimento ha insieme un carattere conoscitivo e un carattere pratico … Ma rivolgendosi alla natura cosı` isolata, la scienza moderna opera un ulteriore isolamento: prescinde da tutti gli aspetti della natura che differiscono dagli aspetti quantitativi, prescinde cioe` dalla qualita`. Ma in questo caso — a partire da Galilei — nega anche l’esistenza di cio` da cui prescinde. Cio` non significa che la scienza moderna sostenga che l’uomo non percepisce colori, suoni, sapori, odori, caldo, freddo e gli aspetti qualitativi della realta`; significa che tali aspetti, per la scienza, dipendono appunto dal nostro modo di percepire la realta` e cioe` non esistono nella realta` vera e propria, indipendentemente dal nostro apparato percettivo» (II vol., pp. 22-23). Pertanto, se la conoscenza e` conoscenza della quantita`, la matematica e` lo strumento principe per conoscere la realta`: in questo modo si evita di cadere in un relativismo assoluto. Per Galilei «l’universo e` scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche». ` quindi la matematica il metodo necessario E per giungere all’episte´me, per conoscere la realta`, per giungere a una certezza assoluta. Verita` che viene raggiunta attraverso la verifica (che significa appunto fare vero) dell’esperimento. Ma questa verita` si basa su una serie di operazioni pratiche realizzate a partire dalla condizione basilare che e` l’isolamento del fenomeno che si vuole osservare. Come ho gia` evidenziato, “questa dissezione della natura” per essere efficace deve eliminare due fattori fondamentali dell’osservazione: il tempo e l’osservatore stesso. Per un lungo periodo l’eliminazione del fattore tempo e dell’osservatore e` la regola: anche

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se togliere questi due fattori vuol dire togliere ` evidente che questa l’umano all’osservazione. E impostazione ha una profonda ripercussione non solo sulla visione della natura e le modalita` della conoscenza, ma anche sulla concezione stessa del soggetto osservante. Non e` un caso che proprio a partire dalla meta` del ’600 inizia una nuova profonda riflessione sull’uomo e sulla conoscenza. Cartesio, conosciuto esclusivamente come il fondatore della dicotomia mente-corpo, dicotomia che esisteva invece da almeno 2000 anni, e` colui che attraverso il dubbio, e quindi la possibilita` di una affermazione, ripropone il problema della verita` come qualcosa che non puo` essere ridotto alla verifica degli esperimenti. La res cogitans di Cartesio ripropone la possibilita` (anche se con l’ambiguita` coesistente della res extensa) di una ricerca della verita`. «La verita` si rivolge al tutto, anche nel senso che mette in questione tutto e confronta tutto a se stessa e pertanto giudica tutto. Anche in Cartesio il dubbio investe il tutto e proprio per questo si imbatte in cio` che e` assolutamente indubitabile. E con Cartesio si inizia a ritenere che il pensiero e` l’essenza della realta`: l’idea non e` l’id quod cognoscitur (cio` che e` conosciuto), bensı` l’id quo cognoscitur (cio` per mezzo della quale — idea — si conosce)» (E. Severino). Queste proposizioni cartesiane saranno riprese da Spinoza, che nella Sostanza cerchera` una concordanza immanente tra pensiero e realta` esterna. Anche se ambedue i filosofi non potranno rinunciare (e non solo per evitare persecuzioni) all’idea di un Dio. Forse e` solo G.B. Vico (nella Scienza nuova) a proporre in maniera decisamente laica che la mente umana puo` veramente guardare se stessa nel prodursi come fatto storico. Il verum ipsum factum vuol dire che nonostante tutti i limiti imposti dalla teologia imperante, l’uomo fa la storia e questo e` il campo di conoscenza che costituisce la nuova episte´me. Successivamente l’empirismo riproporra` con forza il problema della natura dell’intelletto e le possibilita` della conoscenza. G. Locke con il Saggio sull’intelletto umano, G. Berkeley con il Trattato dei princı`pi della co-

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noscenza umana fino a D. Hume con il Trattato sulla natura umana, pur con modalita` diverse, ripropongono un tema unico: come superare il dogmatismo teologico e riconoscere che l’uomo e` il metro della realta`, pur con limitazioni ed ambiguita`. Kant, nel riconoscimento del debito a Hume e nel proporre la possibilita` della conoscenza mediante categorie a priori, apre la strada all’idealismo. In tutti questi filosofi il problema della natura, quello della realta`, quello della conoscenza sono tematiche fondamentali, anche perche´ vanno di pari passo con il pensiero scientifico che cerca sempre piu` di dare per scontati o superati questi problemi, nella esclusiva ricerca di ulteriori approfondimenti di quel metodo sperimentale che aveva dato tanti successi nel campo della tecnologia. Con la nascita della psicologia l’osservazione si spostera` sempre piu` sulla natura e sulle peculiarita` del soggetto.

2.2. Realta` materiale – Realta` umana Realta` e` un termine talmente ampio e semanticamente inflazionato da richiedere qualche precisazione. In senso lato corrisponde a tutto cio` che esiste ed e` visibile. In senso piu` approfondito dobbiamo fare una netta distinzione tra realta` materiale e realta` umana. La realta` materiale riguarda tutto l’esistente inorganico; la realta` umana riguarda la specificita` umana ed e` quindi realta` psichica. Distinzione che non e` sovrapponibile, come spesso viene proposto, a quella di mondo internomondo esterno. Infatti, mentre il mondo interno corrisponde alla realta` psichica del soggetto, il mondo esterno corrisponde a tutto cio` che e` fuori da esso (comprendendo quindi sia la realta` materiale che la realta` psichica). ` evidente che rimane fondamentale distinE guere cio` che appartiene al mondo esterno da quanto appartiene al mondo interno. Se riteniamo che alla base della dinamica di conoscenza del mondo esterno (quindi riguar-

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dante sia la realta` materiale che quella psichica) ci sia esclusivamente il meccanismo della introiezione-proiezione, non come dinamica psicopatologica ma come normalita`, e` evidente la difficolta` o l’impossibilita` di distinguere tra fantasticherie e realta`. La non differenza, o l’uguaglianza, tra realta` interna ed esterna ha permesso a S. Freud di conferire una equiparazione tra stimoli interni e stimoli esterni. Gli stimoli interni (come fantasie) hanno la stessa “realta` ” di stimoli esterni. «…L’impressione che si riceve e` che tali avvenimenti siano sempre richiesti come qualcosa di necessario appartenente a un nucleo essenziale della nevrosi. Se fanno parte della realta`, tanto meglio; se la realta` non li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con la fantasia. Il risultato e` lo stesso, a tutt’oggi non siamo riusciti a dimostrare una diversita` di conseguenze a seconda che la parte maggiore di questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realta`» (S. Freud, vol. VIII, 1915-17, p. 526). ` un Freud maturo quello che scrive, non E quello del 1897, che continua a ritenere che l’importanza di eventi esterni realmente accaduti sia ininfluente tanto da aggiungere che se questi eventi non sono forniti dalla realta`, il paziente li elabora sulla base di “accenni”. Pertanto bisogna distinguere, a proposito di realta`, tra quella materiale e quella psichica, come e` necessario distinguere tra mondo interno e mondo esterno. Infatti, se la realta` psichica coincide con il mondo interno, non altrettanto puo` dirsi per il mondo esterno che comprende sia la realta` materiale sia quella psichica (degli altri esseri umani), realta` diverse che implicano due modalita` diverse di osservazione e di conoscenza. Infatti, quando il soggetto con la sua realta` psichica si confronta con la realta` esterna materiale, basera` la sua conoscenza su processi logicodeduttivi e su modalita` di osservazione che possono essere anche oggettivanti. Se invece il soggetto, con la sua realta` psichica, si confronta con un’altra realta` psichica esterna, dovra` attuare modalita` conoscitive e di rapporto diverse. In questa ottica, si comprende l’importanza della distinzione tra comprendere e spiegare.

Comprendere l’altro implica infatti necessariamente postulare l’esistenza di una dinamica inconscia alla base della vita psichica, che permetta a seconda della maggiore o minore sanita` dell’osservatore e quindi della sua capacita` recettiva di comprendere-capire la realta` psichica dell’altro, sia essa normale o patologica. Nella dinamica di rapporto ovviamente si osservano anche gli aspetti della realta` materiale dell’altro come l’espressione mimica, il comportamento, ecc. Queste modalita` espressive possono essere evidenziate e spiegate anche con una osservazione di tipo oggettivante, ma ben poco ci dicono circa la realta` psichica profonda di quella persona. Solo se nel rapporto oggettuale riusciamo a comprendere gli affetti, il pensiero, l’intenzionalita` dell’altro, possiamo affermare di conoscere la sua realta` psichica. Altrimenti ci fermiamo ad un livello molto superficiale di osservazione, perche´ utilizziamo quella logica tipica dell’esperimento che in questo caso puo` tener conto solo degli aspetti parziali e visibili e quindi dirci ben poco sulla realta` psichica dell’uomo. E di questo possiamo avere una evidente conferma sul piano della psicopatologia. Se un paziente presenta alterazioni della conoscenza della realta` materiale, spesso queste alterazioni (transitorie o stabili) sono legate ad alterazioni organiche del S.N.C. come ad esempio la demenza, lo stato confusionale, fino ai disturbi piu` chiaramente neurologici, come le afasie, le aure epilettiche eccetera. In questi casi l’alterazione percettiva della realta` materiale e` legata a una alterazione dei meccanismi biologici della percezione, della coscienza e della memoria. Quando un paziente in stato di confusione mentale mostra il singolare disturbo di «riconoscimento di sconosciuto o di disconoscimento di conosciuto», questo disturbo avviene perche´ il paziente ha perduto la capacita` di conoscere e discriminare i tratti fisionomici delle persone a lui vicine. Questa situazione apparentemente e` simile alla sindrome di Capgras; anche in questo caso il paziente non riconosce i familiari, ma afferma che sono degli estranei perche´, pur avendo medesime sembianze, sono delle copie e quindi degli impostori.

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In questo caso il disturbo non e` dovuto a un deficit o a una alterazione percettiva, ma a un vissuto piu` profondo di alienazione-estraneita`. Mentre il confuso non riconosce la fisionomia del familiare, che pertanto diventa uno sconosciuto, nel caso del delirio di Capgras l’altro e` diventato un estraneo. Il vissuto di estraneita` ha una dinamica e una complessita` ben diverse dal non riconoscimento per deficit percettivo-mnestico.

3. Conoscenza: dalla sensazione alla percezione L’esempio precedente, anche se molto riduttivo, ci impone la necessita` di riprendere il discorso sulla conoscenza e sulle diverse possibilita` di alterazione della stessa. In una prima parte mi soffermero` molto sinteticamente sulla conoscenza e sulle singole funzioni che partecipano a questo processo, per evidenziare che una psicopatologia che si limitasse a studiare i disturbi delle singole funzioni, sarebbe riduttiva perche´ valida solo in casi particolari.

3.1. La sensazione Caratteristica peculiare della materia vivente e` la reattivita` agli stimoli ambientali, reattivita` che nel corso dello sviluppo evolutivo si trasforma in sensibilita`, per la formazione di specifici organi (organi di senso) capaci di raccogliere stimoli minimi, come una molecola o un fotone, ma soprattutto di essere altamente selettivi. Dagli apparati periferici gli stimoli vengono inviati, attraverso specifiche vie, al S.N.C. che li decodifica. La maggior parte degli stimoli sono di origine ambientale e vengono raccolti dai cinque sensi di cui sono dotati sia gli animali che gli uomini. Esistono pero` anche stimoli interni, che provengono dal nostro corpo e che, come il dolore e la cenestesi, sono di fondamentale importanza per la conoscenza e per la costruzione dello schema corporeo e quindi dell’apparato psichico. Nei primi mesi di vita e` possibile che la stimo-

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lazione di un organo di senso possa attivare alternativamente o contemporaneamente un altro organo: si tratta di un processo definito transmodale che assume particolare importanza nel processo di costruzione dell’Io. La sensazione pertanto costituisce il gradino piu` primitivo e meno selettivo del processo di conoscenza. Un dato importante e` che gli apparati sensoriali sono attivi fin dagli ultimi mesi della vita fetale, anche se presentano una difformita` nel processo di maturazione. L’apparato che si sviluppera` piu` tardivamente e solo alla nascita e` quello della vista: ne vedremo successivamente le implicazioni.

3.2. La percezione Lo stimolo o gli stimoli, dopo essere giunti al S.N.C., vengono decodificati in particolari e specifiche aree corticali. Pertanto la percezione e` il gradino successivo (anche se molti autori identificano sensazione e percezione) della conoscenza, perche´ ci permette di essere consapevoli che lo stimolo e` dovuto ad un oggetto reale. Come avvenga il processo di percezione e` uno dei problemi piu` complessi e non sempre totalmente chiariti. Valga come esempio il fenomeno della vista. Il processo visivo inizia con l’assorbimento di onde elettromagnetiche da parte delle molecole di rodopsina contenute nei coni e nei bastoncelli della retina. Successivamente questo evento chimico viene trasformato in impulsi elettrici che tramite il nervo ottico giungono al corpo genicolato e successivamente alla corteccia visiva. L’area corticale deputata alla visione e` molto estesa e presenta una grande capacita` analitica; inoltre essa e` in relazione con altre aree corticali, in particolar modo quella temporale. Esistono anche aree estremamente limitate (a pochi neuroni) che sono specializzate e sensibili solo a stimoli altamente specifici: pertanto la visione e` possibile solo con una complessa interazione e correlazione tra queste aree.

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3.3. La rappresentazione ` il processo mediante il quale siamo in grado E di riprodurre nel nostro mondo interno un oggetto o una realta` esterna in assenza di stimolazione. ` una tappa intermedia tra la percezione e E quella successiva dell’ideazione. La rappresentazione e` legata strettamente alla capacita` di conservare i dati percettivi e quindi alla memoria. 3.4. L’ideazione L’ideazione consiste nella formazione e nella coordinazione di piu` idee in costrutti sempre piu` complessi ed articolati. L’idea indica un contenuto della mente che deriva da un processo di progressiva astrazione e categorizzazione delle varie esperienze percettive. Idea viene spesso usata come sinonimo di concetto, anche se quest’ultimo sembra indicare un livello di astrazione maggiore e pertanto posto alla base del processo successivo che e` il ragionamento. 3.5. Il ragionamento Procedimento discorsivo che, con regole sintattiche e grammaticali ben precise e sulla base di argomentazioni e per passaggi successivi, arriva a una conclusione. Rispetto alla genesi della conoscenza ed alla validita` del risultato si distinguono due fondamentali modalita`. Il ragionamento induttivo, che partendo dalla considerazione dei casi specifici e particolari, arriva a conclusioni piu` ampie e generali. Il ragionamento deduttivo che, al contrario, giunge a conclusioni specifiche e particolari partendo da una o piu` premesse generali che possono essere date o come a-priori o come frutto di altri ragionamenti. Queste due modalita` traggono la loro genesi sempre da osservazioni empiriche o comunque da dati della realta` esterna. Esiste infine un terzo tipo di ragionamento,

che puo` prescindere dai dati sensoriali e percettivi e che procede per ipotesi puramente logicoformali: e` il ragionamento tipico della matematica.

3.6. Il pensiero Rappresenta l’attivita` piu` complessa e globale dell’uomo e si identifica con l’integrazione delle funzioni e dei processi mentali piu` complessi per giungere alla formazione-creazione di un pensiero che con i contenuti piu` svariati puo` non avere piu` alcun collegamento diretto con la realta` esperienziale. Il pensiero viene comunicato e quindi reso accessibile attraverso il linguaggio. Uno dei problemi piu` complessi sul quale e` aperto tuttora un ampio confronto e` il rapporto tra pensiero e linguaggio: quanto siamo debitori, ma forse anche schiavi del linguaggio, o se invece il pensiero potrebbe articolarsi anche al di la` del linguaggio. Questo rapido excursus solo per sottolineare le tappe ed i processi che sono ritenuti implicati nella comprensione e, potremmo dire, nella conoscenza in generale. Ovvero come noi conosciamo la realta`, come ce la rappresentiamo e quanto questa rappresentazione influenza a sua volta la conoscenza. In questi ultimi decenni il problema della conoscenza si e` sempre piu` accentrato non tanto sul soggetto in generale, ma sugli organi e le funzioni che sono specificamente deputate alla conoscenza. Quindi sul S.N.C. e sul suo funzionamento: ma quando ci si interroga sul come e perche´ il S.N.C. riesca a trasformare la realta` esterna in un dato interno, ci troviamo di fronte a un paradosso. Infatti la conoscenza dell’apparato della conoscenza vuol dire utilizzare lo strumento della conoscenza per indagarlo: come se l’occhio pretendesse di vedere se stesso. Paradosso che puo` essere superato solo se accettiamo che la mente umana e` qualcosa di piu` della somma delle varie funzioni e delle varie aree associative, senza incorrere pero` nel dubbio “ossessivo” circa l’esistenza o meno di un mondo esterno e la possibilita` di conoscerlo, riaprendo una secolare quanto inutile polemica.

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A. Sokal e J. Bricmont, filosofi analitici, hanno ben sintetizzato l’inutilita` di queste posizioni. «Se qualcuno si accanisse a sostenere che l’unica cosa che esiste nell’universo e` la propria mente, o che il mondo esterno esiste, ma e` impossibile averne una qualsiasi conoscenza (anche approssimativamente) affidabile, non ci sarebbe alcun modo di convincerlo del contrario. Ma non abbiamo mai incontrato un sofista o uno scettico radicale sincero, e dubitiamo che ne esista uno. Il rifiuto pratico di queste dottrine e` obbligatorio, non solo per il fisico, il biologo, ma anche per lo storico, l’idraulico e per ogni essere umano nella sua vita quotidiana». H. Maturana e F. Varela, teorici della complessita`, continuano: «Ci scontriamo allora con grandi difficolta` e resistenze, perche´ ci sembra che l’unica alternativa alla visione del funzionamento del sistema nervoso mediante rappresentazioni e` quella della negazione della realta` circo` come camminare sul filo del rasoio. Da stante. E una parte c’e` una trappola: l’impossibilita` di comprendere il fenomeno conoscitivo se si considera un mondo di oggetti che non ci informa perche´ non c’e` un meccanismo che di fatto permetta tale ‘informazione’. Dall’altra parte un’altra trappola: il caos e l’arbitrio dell’assenza dell’oggettivita` per cui qualunque cosa appare possibile. Dobbiamo quindi imparare a camminare sulla linea mediana, sul filo stesso del rasoio. Da un lato abbiamo infatti la trappola costruita dalla supposizione che il sistema nervoso operi usando rappresentazioni del mondo… Dall’altro lato abbiamo l’altra trappola, quella della negazione dell’ambiente circostante, della supposizione che il sistema nervoso funzioni completamente nel vuoto, per cui tutto ` l’estremo dell’assoluta vale e tutto e` possibile. E solitudine conoscitiva o solipsismo (dalla tradizione filosofica classica che afferma che esiste solamente la propria interiorita`). Ed e` una trappola perche´ non ci permette di spiegare come possa esistere una adeguatezza o una commensurabilita` fra il funzionamento dell’organismo e il suo mondo. Questi due estremi o queste due trappole sono esistiti fino dai primi tentativi di comprensione del fenomeno della conoscenza, sino alle

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sue radici piu` classiche; oggi predomina l’estremo rappresentazionista; in altri tempi ha predominato la visione contraria» (L’albero della conoscenza, p. 121). E J. Mc Dowell aggiunge: «Va superato il Mito del Dato della tradizione empirista senza pero` rinunciare — come farebbero subito, e ben volentieri, molti filosofi post-moderni — all’attrito dell’esperienza, che ci permette di distinguere le nostre elaborazioni intellettuali dai sogni e dalle fantasie. La nozione di esperienza cerca di evitare gli errori opposti del platonismo (che pone la mente umana fuori della natura) e del mero naturalismo, che elimina lo spazio delle ragioni e delle giustificazioni: in realta` l’esperienza non solo causa i nostri pensieri ma li giustifica in un processo in cui mente e mondo interagiscono reciprocamente. L’esperienza e` fin dall’inizio permeata di concetti: ma da cio` non deriva una conseguenza antirealistica. La percezione incontaminata non esiste. Persino quando percepisco passivamente il colore rosso, questa mia percezione e` impregnata di concetti. Ma cio` non significa che tale percezione non ci dica come le cose stanno effettivamente, o che il mondo esterno non abbia a che fare con le nostre ragioni». Ma se epistemologi e filosofi sono concordi nel ritenere che noi conosciamo una realta` esterna che esiste di per se´, rimane il problema di capire come funziona il Sistema Nervoso Centrale, perche´ se e` evidente che non potrebbe esistere una attivita` psichica in assenza di un S.N.C. e` pur vero che questa attivita` non si riduce al puro funzionamento dello stesso. Sicuramente l’attivita` psichica nasce dalla complessa organizzazione ed integrazione delle varie aree cerebrali. Tutto questo ci porta sempre piu` a considerare, come gia` ampiamente affermato nel capitolo 8, che la psiche (che comprende anche le funzioni mentali) non ha una struttura o un topos ben preciso, ma e` uno stato della mente. Questo comporta che i processi psichici sono da ricollegarsi alla cosiddetta ipotesi “emergentista”, secondo la quale i processi complessi sono dovuti a particolari stati di aggregazione e di integrazione della materia vivente: nel caso specifico, del S.N.C.

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Il filosofo J. Searle dice che la caratteristica della “liquidita`” manca ad ogni singola molecola d’acqua, ma emerge dalla loro aggregazione. Quindi inutile continuare a proporre temi riduzionisti, o peggio ancora computazionali: bisogna accettare la complessita` di un organo, il S.N.C., che produce una qualita` diversa, frutto dell’integrazione delle singole parti. Il fatto che il S.N.C. dell’uomo e` simile per il 98% a quello di molti primati non ci dice nulla se non si tiene conto del dato per cui nell’uomo c’e` un 30% in piu` di aree associative. Ma rimane il problema di inverare quanto riusciamo a comprendere, dopo aver capito come riusciamo a cogliere la realta` del mondo esterno. Certamente e` un problema aperto, anche se non alla possibilita` di poter fare qualsiasi affermazione. Sokal e J. Bricmont: «Sono assai frequenti oggigiorno le proposte di ridefinire il concetto di ‘‘verita`’’, tradizionalmente intesa come corrispondenza tra affermazione e realta`, per significare semplicemente l’utilita` oppure l’accordo intersoggettivo. Ma queste ridefinizioni radicali non funzionano. Sarebbe certamente utile far credere alle persone che se guidano in stato di ubriachezza andranno all’inferno o moriranno di cancro, ma questo non basta per rendere vere queste affermazioni. In altre epoche la gente concordava nel dire che la Terra fosse piatta, ma sappiamo ora che sbagliavano. Ne´ utilita` ne´ accordo intersoggettivo sono equivalenti a verita`. Inoltre queste ridefinizioni non riescono neppure, come vorrebbero, a soppiantare la concezione tradizionale di verita`. Dire che qualcosa e` utile (per un determinato scopo) e` gia` un’affermazione oggettiva (dev’essere realmente utile per uno scopo dichiarato) che si basa implicitamente sulla nozione di verita` come corrispondenza. Lo stesso vale per l’accordo intersoggettivo: dire cosa pensano le (altre) persone e` un’affermazione oggettiva che descrive una parte del mondo (sociale) ‘cosı` com’e`’. Se insistiamo tanto sulla distinzione analitica tra essere vero ed essere considerato vero, e` appunto per condividere che la scienza non sia presa come verita`. Ma per mettere in discussione le opinioni prevalenti, e` essenziale tenere a mente

che anche un largo consenso puo` indurre in errore: che esistono fatti indipendenti dalle nostre affermazioni, e che e` nel confronto con i fatti (nella misura in cui possiamo accertarcene) che queste ultime devono essere valutate».

4. Conoscenza della realta`. Rapporto con la realta` Mi sono dilungato sul problema generale della conoscenza; ho cercato di proporre quali sono le modalita` del processo di conoscenza; successivamente ho proposto l’importanza di differenziare la realta` materiale dalla realta` psichica. Credo che a questo punto sia necessario porre una ulteriore distinzione tra due processi, che seppure si integrano debbono essere separati per una piu` accurata comprensione delle dinamiche connesse: conoscenza della realta`, rapporto con la realta`. Quando affermiamo che un paziente presenta un alterato rapporto con la realta`, in genere ci riferiamo allo psicotico. Ma la stessa dizione potrebbe essere applicabile ad un paziente con disturbi organici, come uno stato confusionale o una demenza: e` evidente pero` che si tratta di due alterazioni profondamente diverse. Nel primo caso l’alterazione riguarda il rapporto con la realta` umana, nel secondo caso l’alterazione coinvolge le capacita` di conoscenza della realta` materiale e secondariamente di quella umana. Pertanto possiamo affermare che mentre la conoscenza cosı` come e` stata definita si riferisce prevalentemente alla realta` materiale, il rapporto con la realta` umana implica processi diversi e piu` complessi di conoscenza. Questo non per proporre una ulteriore inutile dicotomia, ma semplicemente per sottolineare un dato fondamentale. Mentre la realta` materiale puo` essere conosciuta attraverso il procedimento induttivo-detuttivo, la realta` umana richiede una modalita` diversa che si basa sul rapporto che attiva una percezione inconscia, dopo di che e` possibile, ma solo dopo, attuare anche una conoscenza che puo` avere i caratteri del processo induttivo-deduttivo. Quindi la comprensione dell’altro e` un feno-

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meno piu` complesso di cui bisogna capire quali sono i procedimenti. Freud e numerosi altri autori sostengono che la comprensione-conoscenza dell’altro avviene attraverso il processo di introiezione-proiezione. Se cosı` fosse, come facciamo a distinguere un processo “normale” da uno patologico? Se ci limitassimo esclusivamente ad un contenuto macroscopicamente alterato (come il delirio o la paranoia) e` chiaro che sfuggirebbero alla nostra attenzione tutta una serie di “proiezioni normali” (cioe` con contenuto plausibile) per cui diventa impossibile poter definire la verita`. Non e` un caso che quando due persone non sono d’accordo sulla lettura di un loro comportamento possono accusarsi reciprocamente di “aver proiettato sull’altro” un proprio desiderio o fantasticheria: accusa reciproca che potrebbe durare all’infinito. Ma anche accettando il concetto di proiezione, bisognerebbe capire attraverso quali meccanismi essa avvenga. Tutti conoscono l’assioma freudiano della dinamica del paranoico. La proposizione, inaccettabile per un uomo, di avere un’attrazione omosessuale che si esprimerebbe con la frase: «io amo lui» viene ribaltata in quella piu` accettabile «non lo amo, anzi lo odio», e subito dopo avverrebbe la vera proiezione: «non sono io che lo odio, e` lui che mi odia». Questa dinamica sembra la trasposizione a livello metapsicologico del noto gioco delle tre carte. Gli stessi J. Laplanche e J. B. Pontalis sono perplessi non solo circa la genesi, ma anche circa l’uso di questo processo, non solo per spiegare fenomeni patologici ma anche per spiegare il normale processo di apprendimento e conoscenza. Il concetto di proiezione gode comunque di ampio consenso, visto che viene accettato anche dalla psichiatria clinica per spiegare le allucinazioni. Ma proiettare significa che una persona mette fuori di se´ una immagine o un affetto: e` possibile che questo avvenga, ed in che modo? Attraverso quali canali viene attuata (sensoriali, telepatici o altri)? Non sembra che tutto questo sia stato mai chiarito. Certamente il termine proiezione e` talmente

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usato ed entrato nell’uso comune, ma soprattutto sembra cosı` utile a spiegare tutto, che non ci si sofferma piu` a pensare se questo meccanismo esiste e se possa essere utilizzato per la comprensione di dinamiche psicologiche e soprattutto psicopatologiche. La proposizione di H. Kohut che la comprensione avvenga per “empatia e introspezione” sembra essere molto piu` accettabile, anche se non sempre molto definibile. Pertanto dobbiamo esaminare se nell’ambito della “comprensione-conoscenza” dell’altro ci siano delle dinamiche piu` specifiche e forse piu` complesse dei meccanismi della conoscenza cosı` come descritta per la realta` materiale. Ho sottolineato precedentemente che la sensazione e la percezione sono i due processi primari della conoscenza. Forse puo` essere utile rivedere se questi processi, nell’ambito della conoscenza interumana, possono presentare peculiarita` che li diversificano dalla percezione della realta` materiale.

4.1. Sensazione e percezione nella conoscenza della realta` umana A me sembra che la teoria della nascita di M. Fagioli, prevalentemente esposta in Istinto di morte e conoscenza, debba essere ripresa come filo conduttore. Sottolineo che cito questo libro non a caso, perche´ non a caso il termine “conoscenza” viene posto come tema centrale per l’uomo. Negli ultimi mesi della fase endouterina, il feto da una parte recepisce numerosi stimoli anche dall’ambiente esterno, perche´ alcuni apparati sensoriali come l’udito sono attivi e funzionanti; dall’altra vive una situazione molto singolare che gli permette di realizzare il senso di un rapporto totalmente umano. «Il bambino nell’utero, attraverso la cute, aveva la capacita` di realizzare, percependo le qualita` dell’oggetto (calma, calore) l’esistenza dell’oggetto… In una situazione di cecita` fisica il bambino puo`, dalle qualita` dell’oggetto, realizzare una esistenza-presenza dell’oggetto stesso. Il

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bambino percepisce con le sue possibilita` che dobbiamo considerare libidiche le qualita`, le caratteristiche dell’oggetto e ne realizza l’esistenza» (Istinto di morte e conoscenza, pp. 110-111). Sicuramente c’e` una innata disposizione al rapporto fin dalla fase fetale: anche se questo puo` sembrare poco dimostrabile dal momento che il feto vive l’impossibilita` di distinguere un Io da un non-Io. Questa disposizione e` su base libidica, ed e` la stessa, seppur piu` complessa, che permettera` al neonato, una volta immesso nel mondo della realta` materiale, di cercare un altro rapporto umano. Comunque da questa situazione endouterina, ove dominano la omeostasi e la protezione da stimoli nocicettivi, improvvisamente il feto subisce la prima fondamentale crisi della sua vita: la nascita. C’e` una radicale trasformazione ed in tempi anche molto brevi: non solo vengono attivate funzioni fondamentali, come la respirazione e la circolazione del sangue, ma soprattutto il neonato si trova ad essere bombardato da una quantita` enorme, eccessiva, di stimoli nuovi e soprattutto non piacevoli. Inoltre c’e` una novita` assoluta, che e` la luce, dovuta alla attivazione dell’apparato visivo. Pertanto il neonato si trova improvvisamente ad affrontare una realta` nuova, quella materiale, che e` fatta di luce, di freddo, di stimoli intensi e diversi da risultare comunque dolorosi. Non dobbiamo dimenticare che per giungere a questa esperienza egli ha dovuto vivere una esperienza non meno drammatica: l’attraversamento del canale del parto. Possiamo ipotizzare che il neonato di fronte a questa situazione traumatica, costituita dalla presenza inevitabile di una realta` materiale, nuova e aggressiva, cerchi di rifiutarla. Questo rifiuto si esplicita, secondo M. Fagioli, con una doppia articolazione. Da una parte la tendenza a ritornare allo stadio precedente, dall’altra l’annullamento di quella realta` materiale strana ed inquietante. Nell’ambito della teoria pulsionale dobbiamo ritenere che questa dinamica sia possibile per l’emergere di una specifica fantasia, quella di sparizione, espressione dell’i-

stinto di morte: ed e` questa fantasia di sparizione che rende possibile la “tendenza” a recuperare lo stato precedente. Questa proposizione potrebbe sembrare molto “teorica” ed ipotetica: in effetti ci sono delle conferme indirette che provengono sia dall’osservazione diretta del neonato nei primi giorni di vita, sia dalla clinica. Lo studio dei neonati ha dimostrato le sviluppate capacita` sensoriali e percettive, ma soprattutto la “tendenza” a cercare o ricercare situazioni piacevoli. Inoltre, su un piano piu` ampio, sappiamo benissimo che di fronte a situazioni traumatiche anche l’adulto tende a fare il “morto”, che puo` essere una modalita` piu` evidente, sul piano comportamentale, della fantasia di sparizione. Comunque, nella tendenza a tornare indietro e nella impossibilita` materiale di poterla attuare, forse possiamo evidenziare uno degli aspetti fondamentali del bambino nei confronti della realta` esterna (sia materiale che psichica). Egli nei fatti non puo` cambiare la realta` esterna e pertanto deve per forza cambiare qualcosa dentro di lui: e` l’adattamento autoplastico, ben diverso da quello alloplastico che indica la capacita` di cambiare la realta` esterna. Ed in questa impossibilita` materiale a tornare indietro il neonato, sulla base di tracce mnestiche che potrebbero essere prevalentemente tattilicenestesiche, opera un cambiamento fondamentale con la creazione di un’immagine che e` l’inconscio mare calmo. Sicuramente in tutta questa dinamica gioca un ruolo fondamentale il sistema visivo che si attiva solo alla nascita. Ma alla nascita e per un lungo periodo di tempo le capacita` visive del neonato sono molto ridotte. Questa difficolta` di poter fare immagini con stimoli provenienti dall’esterno potrebbe facilitare la creazione di un’immagine che proviene da precedenti situazioni prevalentemente tattilicenestesiche. Se ricordiamo il processo della percezione (o sensazione) transmodale e` probabile che le precedenti sensazioni tattili e cenestesiche attivate dal contatto con il liquido amniotico possono essere

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alla base di una immagine che appunto non deriva da percezioni esterne. A questo punto dobbiamo tentare una precisazione sul processo di sensazione e di percezione. Se riteniamo che tutto cio` che il feto puo` avvertire e` a livello della sensazione, e` solo alla nascita — nella distinzione Io non-Io — che puo` strutturare la capacita` della percezione. Pertanto possiamo definire la percezione come una capacita` diversa e piu` selettiva perche´ legata alla possibilita` di un rapporto oggettuale con possibilita` di formare anche una immagine. In questa ottica, come e` evidente, sensazione e percezione non possono essere considerate intercambiabili. Pertanto dobbiamo pensare che dalla nascita in poi si attivi la capacita` alla percezione che conserva della sensazione la capacita` di sentire le qualita` fisiche, ma riesce a discriminare meglio perche´ oltre quelle fisiche riesce a percepire anche quelle psichiche dell’altro. Alla nascita il bambino possiede una capacita` visiva pari a 1/20, cioe` praticamente vede molto confusamente, per raggiungere i 2/10 verso il sesto mese, e solo a due anni raggiunge la capacita` di 10/10. Nel rapporto con l’A.S., il neonato dovra` confrontare l’immagine primaria (l’inconscio mare calmo) con vissuti e situazioni varie e diverse: l’oggetto potra` corrispondere (oggetto buono) o potra` non corrispondere (oggetto cattivo) alle aspettative del bambino. Pertanto egli sara` costretto a correggere il suo investimento-vedere, la sua capacita` di percepiredistinguere. Perche´ nel rapporto potra` aumentare il suo benessere o il suo malessere. Questa correzione potrebbe costituire il nucleo iniziale della capacita` successiva di poter cambiare il proprio giudizio. Si potrebbe considerare questo il nucleo di una capacita` successiva ¨ berstieg? molto piu` complessa che e` l’U A questo punto possiamo trarre delle prime conclusioni: a)

La realta` materiale, pur avendo una importanza notevole per la sopravvivenza prima e

b)

c)

d)

e)

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per l’adattamento poi, non ha quella ricchezza e quella complessita` che presenta la realta` umana, che costituisce pertanto la fonte primaria per la crescita del bambino. Ed anche successivamente tutto cio` che riguardera` i vissuti ed il cambiamento avverra` a livello psichico e sulla base dei rapporti interumani. Fin dalla nascita il bambino cerchera` non solo un rapporto interumano, ma soprattutto un rapporto soddisfacente e potra` percepire le qualita` della realta` psichica degli altri sulla base di una conferma o disconferma del suo stato primario. Avverra` quindi un cambiamento interno e sara` questo cambiamento a segnalare le qualita` del rapporto interumano e quindi le valenze psichiche dell’altro. La percezione, sia della realta` materiale che di quella umana, diventa sempre piu` distinta: egli sara` non solo in grado di distinguere ma anche di poter operare una inversione di giudizio, qualora i dati della realta` (materiale e/o psichica) disconfermassero la sua precedente percezione. Il bambino affinera` sempre piu` la percezione della realta` psichica dell’altro, sulla base di quanto l’altro gli provoca: dalle proprie emozioni ed affetti egli percepisce la realta` emotiva ed affettiva dell’altro. Pertanto il processo della conoscenza prevede due processi diversi. Mentre la realta` materiale sara` conosciuta a partire dalla percezione fino a giungere al ragionamento, quella psichica avra` un percorso piu` complesso. Anche la conoscenza dello psichico inizia con una percezione che e` legata in parte ad una realta` visibile come il comportamento, la mimica, il linguaggio ed in parte ad una comprensione che ci proviene da quanto noi sentiamo e proviamo di fronte alla realta` psichica dell’altro. Non e` necessario postulare una dinamica di introiezione-proiezione, ma piuttosto una serie di cambiamenti. Mentre per la realta` materiale il processo della conoscenza si attua mediante la registrazione, l’accumulo (la memoria) ed il confronto dei dati, per la realta` psichica entra in

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f)

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gioco invece una dinamica di comprensionecambiamento e di elaborazione del cambiamento. ` ovvio che colui che vuole assumersi il E compito (o l’onere) di comprendere lo psichico deve possedere una sua situazione interna valida e recettiva. Ma esaminiamo cosa succede concretamente di fronte a un paziente che puo` mostrare un comportamento, un linguaggio, una mimica che possono indurci a ritenere che l’altro presenta una patologia schizofrenica. Fin qui ci siamo soffermati a un livello di osservazione che potremmo definire di tipo clinico, che ci fornisce una conoscenza che e` parziale e poco verificabile. Ma lo schizofrenico ha un suo mondo interno e quindi una dinamica di rapporto molto particolare: dinamica che determina nell’osservatore una specifica sensazione definita come Praecoxgefu¨hl, che e` una percezione e una reazione all’incontro con lo schizofrenico. Pertanto l’osservazione-conoscenza produce dei cambiamenti ed e` dall’analisi di questi cambiamenti che lo psichiatra puo` cominciare a comprendere la realta` psichica dell’altro. Solo dopo questa comprensione potra` iniziare anche a spiegare ed eventualmente approfondire la struttura psichica dell’altro: potra` usare anche il ragionamento, ma comunque e` necessario che questo avvenga dopo e non prima e non al posto del processo di comprensione, come ho chiarito prima. La realta` psichica quindi puo` essere percepita e compresa attraverso i cambiamenti che noi recepiamo: ma credo sia utile definire cosa intendo per cambiamenti.

Cambiamento non vuol dire che l’osservatore debba attivare i propri nuclei schizofrenici per comprendere o immedesimarsi nell’altro. Quando noi percepiamo qualcosa della realta` materiale, perche´ questa sia una percezione deve cambiare qualcosa dentro di noi: in questo caso, come abbiamo visto, c’e` un cambiamento che riguarda lo stato dell’apparato periferico e del S.N.C.

Quando noi percepiamo l’essere schizofrenico, perche´ sia una percezione deve cambiare nell’incontro qualcosa dentro di noi: ma questo cambiamento riguarda il nostro assetto psichico globale. Per esplicitare meglio ritorno all’esempio del Praecoxgefu¨hl: questa e` una percezione particolare, che un osservatore psichiatrico, attento e con esperienza, avverte. Percezione dovuta alla presenza di una specifica dinamica dello schizofrenico che e` tale perche´ ha eliminato qualsiasi sua situazione di umanita`. `` questa situazione che viene percepita dall’osE servatore come “estraneita`”, come “essere fatto fuori” o come impossibilita` di rapporto. Se l’osservatore e` capace di essere recettivo e` su questo suo cambiamento che puo` fondare la sicurezza che la realta` psichica dell’altro e` veramente malata. ` a partire da questo cambiamento che egli E potra` poi costruire la sua ricerca e la terapia intesa come spinta a trasformare questa realta` patologica. Sono questi i presupposti per una psicopatologia dinamica: cerchero` in seguito brevemente di descrivere alcuni dei fenomeni piu` importanti ma soprattutto quelli che sono stati meno sviluppati nel presente Manuale. A questo punto e` necessario sottolineare che il processo della conoscenza e` ampiamente condizionato da fattori emotivi ed affettivi. Deliberatamente nella parte precedente ho posto tra parentesi questa connessione allo scopo di rendere meno complesso il problema: questi fattori saranno invece ampiamente considerati nella successiva descrizione di alcuni quadri psicopatologici.

5. Dalla psicopatologia alla clinica Nei precedenti paragrafi ho sottolineato le peculiarita` della psicopatologia dinamica in relazione al problema della conoscenza e quindi a quello piu` specifico della modalita` di osservazione da parte dello psichiatra. Nel passaggio dalla psicopatologia alla clinica si evidenziano ulteriori possibilita` che fanno della psicopatologia dinamica un modello di ricerca altamente specifico. Un primo dato e` il ritenere inutile spiegare la

Elementi di psicopatologia dinamica

psicopatologia alla luce di alterazioni di singole funzioni psichiche, come avviene invece per altre psicopatologie. Un secondo dato e` la possibilita` di distinguere teoricamente concetti che sono spesso ritenuti interscambiabili: ne parlero` a proposito della scissione e della dissociazione. Un terzo e` mostrare come nella ricerca psichiatrica possano evidenziarsi imprevisti quanto imprevedibili fili conduttori, dallo stato crepuscolare all’ipnosi, dalla dissociazione alla personalita` multipla. Ed infine, ma non ultimo, la possibilita` di comprendere che se ci fermiamo al puro piano fenomenologico e` facile confondere, per superficiali similitudini, disturbi di natura organica con disturbi di natura psicologica: credo che questa imprecisione abbia fortemente alimentato l’ideologia della natura organica dei disturbi psichiatrici.

5.1. Psicopatologia della coscienza Desidero iniziare con i disturbi della coscienza anche perche´ ad un lettore disattento potrebbe sembrare che questa problematica sia stata trattata molto superficialmente, soprattutto se confrontata con i numerosi autori che hanno dedicato capitoli interi ai disturbi della coscienza. Comunque tali disturbi della coscienza, una volta unificati, debbono essere successivamente suddivisi almeno in disturbi quantitativi e qualitativi. I primi attengono ad una patologia della vigilanza e sono prevalentemente di origine organica: pertanto in questo Manuale sono stati descritti al cap. 34 ‘‘Reazioni Organiche Acute’’. I secondi che riguardano invece la patologia dell’attenzione, dei contenuti della coscienza e della memoria, quasi sempre di origine psicologica, sono stati descritti al cap. 27, “Reazioni Psicogene acute”. Quindi ho preferito tener conto dell’eziologia e non di vaghe somiglianze del quadro clinico: rimando pertanto ai due rispettivi capitoli per un approfondimento dell’argomento.

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In questa sede invece mi soffermero` su di un quadro clinico singolare: lo stato crepuscolare.

5.2. Lo stato crepuscolare Come la visione ha un campo visivo che puo` restringersi per cause patologiche, cosı` anche la coscienza ha un campo di coscienza. Per campo di coscienza si intende la normale capacita` del soggetto di spaziare da un contenuto di coscienza all’altro con estrema facilita`. Nello stato crepuscolare, invece, il campo di coscienza si restringe limitandosi ad alcuni contenuti, in genere a forte carica emotiva, mentre e` evidente lo scotoma su tutta la realta` circostante. Il paziente esclude il mondo esterno e non risponde ad alcuno stimolo. In uno stato di tipo onirico vive tematiche a forte contenuto emotivo, spesso accompagnate da manifestazioni allucinatorie prevalentemente visive. La durata dello stato crepuscolare e` piuttosto breve; alla fine dell’episodio si evidenzia come dato di estremo interesse un’amnesia piu` o meno completa dell’episodio accaduto. Le cause possono essere organiche o psichiche. Sul piano organico la causa piu` frequente e` rappresentata dall’epilessia: lo stato crepuscolare puo` manifestarsi o come equivalente di una crisi epilettica, soprattutto nell’epilessia temporale, oppure nella fase sub-confusionale che segue la fine di un’attacco di grande male. Il paziente inebetito, perplesso, disorientato nel tempo e nello spazio presenta una compulsione alla fuga: non e` infrequente che in questo vagabondaggio possa commettere atti criminosi. In altri casi invece il paziente rimane immobile o in uno stato estatico a causa di allucinazioni visive di tipo mistico (visione della madonna, di angeli ecc.) o in uno stato di grande angoscia se le allucinazioni hanno carattere terrifico (visione di diavoli, di mostri ecc.). Lo stato crepuscolare epilettico quindi sembra essere in grado di poter esprimere solo le due situazioni estremizzate del bene e del male e soprattutto non personalizzate. Ma lo stato crepuscolare puo` essere anche di

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origine psichica. Si tratta di caratteri isterici che, in seguito ad una grave delusione, presentano un quadro allucinatorio molto particolare: tendono a rivivere allucinatoriamente la presenza di una persona scomparsa o assente, dialogano con questa, mentre non rispondono ad alcuna sollecitazione esterna. A differenza dell’epilessia, nella quale e` evidente una disgregazione del campo di coscienza, nello stato crepuscolare isterico c’e` invece una forte polarizzazione su di un evento specifico e significativo della vita del paziente, anche se vissuto in modo abnorme. Un dato di estremo interesse e` il fatto che alla fine dell’episodio si instaura un’amnesia piu` o meno completa dell’episodio. Lo stato crepuscolare isterico presenta notevoli somiglianze con un particolare stato della coscienza, che e` lo stato ipnotico. Come nello stato crepuscolare, anche nello stato ipnotico il soggetto e` fortemente concentrato su se´ stesso e sui propri contenuti emotivi, oltre che sulla figura dell’ipnotizzatore; scotomizza tutta la realta` circostante, ed alla fine dello stato ipnotico presenta un’amnesia completa. Amnesia molto singolare perche´ il soggetto, dopo il risveglio, puo` mettere in atto dei comandi o dei suggerimenti ricevuti dall’ipnotizzatore durante lo stato di trance, comportamenti di cui il paziente non riesce a comprenderne le motivazioni. P. Janet, che studio` ed adopero` a fini terapeutici l’ipnosi, riteneva che questo fenomeno singolare fosse dovuto ad un restringimento del campo di coscienza dell’ipnotizzato, che si concentrava esclusivamente sulla figura dell’ipnotizzatore tanto da rischiare nel tempo, se l’ipnosi veniva ripetuta in maniera non corretta, uno stato di forte dipendenza. Per ulteriori particolari cfr. La passione sonnambulica. Scritti di P. Janet (a cura di N. Lalli), Liguori Editore, 1996. Ma in cosa consiste l’ipnosi?

5.1.2. L’ipnosi e la trance

Fromm e Nasc la definiscono cosı`: «…uno stato modificato di coscienza caratterizzato da un

aumento dell’assorbimento nell’esperienza interna mentre, parallelamente, si modifica o si riduce la percezione dell’ambiente esterno e l’interazione con esso». Per Granone «…l’ipnotismo e` la possibilita` di indurre in un soggetto un particolare stato psicofisico che permette di influire sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del soggetto stesso, per mezzo del rapporto creatosi fra questo e l’ipnotizzatore … L’ipnosi e` un modo di essere dell’organismo per l’azione di determinati stimoli dissociativi che lo fanno regredire a livelli di comportamenti parafisiologici». Vorrei sottolineare tre aspetti qualificanti dell’ipnosi: a) b)

c)

` uno stato psicofisico dovuto ad una partiE colare modificazione della coscienza. Questa modificazione e` legata ad una dinamica di dissociazione con emergenza di contenuti emotivo-affettivi che possono indurre modificazioni somatiche e viscerali. Alla fine della fase ipnotica c’e` una amnesia completa, anche se rimane il “ricordo” di eventuali ordini dati nel corso dell’ipnosi.

La maggior parte degli autori ritiene l’ipnosi (sia quella autoindotta che eteroindotta) legata ad una particolare influenzabilita` dei soggetti presente in una percentuale che si aggira intorno al 10% della popolazione. Durante lo stato ipnotico sono presenti modificazioni neurofisiologiche rilevabili all’E.E.G. Secondo Bliss, nell’ipnosi e` compromessa la capacita` di attenzione che nel normale stato di veglia e di vigilanza puo` spostarsi da un contenuto all’altro e dall’esterno all’interno e viceversa. Nell’ipnosi questa capacita` viene inibita, con conseguente concentrazione su uno o piu` vissuti spesso spiacevoli, che al risveglio tendono a dissociarsi dalla coscienza, creando cosı` uno stato di amnesia lacunare. Questi fenomeni possono essere presenti anche in situazioni diverse dall’ipnosi ma con gli stessi meccanismi e dare luogo ai cosiddetti “Modificati Stati di Coscienza”.

Elementi di psicopatologia dinamica

5.1.3. Modificati Stati di Coscienza (M.S.C.)

Si intendono per M.S.C. stati di trance conseguenti alla normale capacita` neurofisiologica del S.N.C. di attivare un meccanismo di dissociazione, in particolari situazioni mentali o per effetto di specifiche droghe. I M.S.C. possono essere autoindotti (autoipnosi) o eteroindotti (ipnosi). L’induzione puo` essere facilitata dall’uso di particolari droghe o mediante particolari tecniche, come ad esempio stimoli acustici ritmici e prolungati (ad es. il tamburo) che producono modificazioni evidenziabili all’E.E.G. (onde teta 4-7 c/s). Altre cause che possono indurre M.S.C. sono: a) l’iperventilazione; b) l’ipoglicemia; c) la deprivazione sensoriale o di sonno; d) l’ipermobilita` o l’immobilita` protratta; e) le stimolazioni intense e prolungate. Spesso, soprattutto nelle cerimonie religiose con fini di cura, i vari agenti possono essere utilizzati contemporaneamente. Lo stato di trance e` quindi un fenomeno comune e facilmente inducibile. Nota giustamente Lapassade che, essendo la trance un fenomeno fisiologico e non un mistero, ci si dovrebbe interrogare sul perche´ essa e` stata rimossa piuttosto che continuare a rimuoverla. I fenomeni prodotti dai M.S.C. sono: a) temporanea modificazione dello stato di vigilanza/attenzione; b) capacita` di attenzione focalizzata o selettiva; c) suggestionabilta`; d) variazioni della sensibilita` (anestesia); e) amnesia alla fine dell’episodio; f) stati illusionali o allucinatori; g) intensificazione di esperienze emozionali che finiscono con l’assumere significati particolari. Qual e` l’eziologia dei M.S.C.? Sul piano neurofisiologico, nonostante la mole di lavori, non si e` giunti ad una conclusione univoca. Secondo Mandell, i M.S.C., pur nella diversita` fenomenologica, sono sempre dovuti ad un unico meccanismo di base: azione inibitoria dell’amigdala, disinibizione del lobo temporale e duratura ipersincronia del setto ippocampale.

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Sul piano psicodinamico, molti AA. ritengono il fenomeno dei M.S.C. quale espressione delle capacita` fisiologiche della mente di potersi dissociare di fronte ad eventi traumatici. Concetto molto simile a quanto proposto da P. Janet con il concetto di ‘‘disaggregazione psichica’’; Bliss ritiene lo stato di trance un normale meccanismo adattativo nell’ambito dell’evoluzione umana.

5.1.4. La Personalita` Multipla

Il disturbo denominato Personalita` Multipla (P.M.) rappresenta la variante piu` frequente dei M.S.C. In questi casi il M.S.C. e` autoindotto ed il soggetto non e` consapevole dell’esistenza di un’altra personalita` a causa di una amnesia. Il concetto di P.M., molto in voga nella psichiatria di fine ’800, tende a scomparire nei primi anni del ’900, mentre permane molto forte il fascino di questa singolare condizione umana nella letteratura e nel cinema. Ricompare improvvisamente negli U.S.A. intorno al 1970 ed in poco tempo si trasforma in una sorta di epidemia; dagli anni ’80 in avanti i casi di P. M. si sono decuplicati, finendo con l’assumere un aspetto abbastanza inquietante. Tra gli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 vengono riportati nella letteratura psichiatrica diversi casi di P.M.; gli AA. sostengono che in questi casi e` stata rilevata un’elevata frequenza di abusi sessuali subı`ti dai pazienti nell’infanzia. Situazione traumatica che viene considerata causa della P.M.: infatti il bambino, di fronte a questa situazione traumatica, attiva un meccanismo di dissociazione con conseguente formazione di una seconda personalita`. Con gli anni ’80, improvvisamente, c’e` un’epidemia di P.M.: non solo cresce il numero dei casi diagnosticati, ma di pari passo cresce anche il numero delle personalita` all’interno della P.M. (da 5 a 10 personalita`). A questo punto si pone il problema di comprendere il motivo di questa escalation e in che modo i fattori culturali o sociali possono influire. Infatti e` evidente che o questa sindrome e` stata misconosciuta e sottovalutata nel passato, oppure che c’e` una tendenza ad utilizzare una categoria diagnostica per fini diversi.

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Spanos, in una prospettiva socio-cognitiva, e` molto perplesso circa la validita` di questa etichetta diagnostica. Pur riconoscendo che esiste un meccanismo di base difensivo (M.S.C.-dissociazione) ritiene che questo meccanismo puo` essere sfruttato in maniera determinante da fattori culturali e sociali. Egli ritiene che la P.M. possa veicolare il tentativo di risolvere un conflitto, oppure una modalita` di agire piu` o meno consapevolmente una opposizione, o deliberatamente (e saremmo quindi nel caso della simulazione) per difendersi da responsabilita` di tipo penale. Di quest’ultima utilizzazione sono riportati casi eclatanti: l’ultimo in ordine di tempo e` quello di un uomo che, accusato di aver violentato una donna, si e` difeso sostenendo che a violentarla non e` stata la sua vera personalita`, ma quella alternante. Il giudice ha ritenuto di dover sospendere ogni giudizio, in attesa che gli psichiatri si pronuncino. Spanos ritiene che spesso questo disturbo viene indotto, piu` o meno consapevolmente, dagli operatori psichiatrici che, con una serie di domande, possono fornire al paziente predisposto gli strumenti per ritenere di essere una personalita` multipla. Perry (1972) ha valutato che il 17% dei terapeuti che trattano la P.M. sono loro stessi pazienti o ex pazienti diagnosticati come P.M. o con disturbi dissociativi. Ma soprattutto Spanos evidenzia che c’e` una stretta correlazione tra aumento di diagnosi di P.M. e movimento evangelico cristiano. «...La storia di Michelle (dal libro Michelle ricorda, ove viene raccontata la storia di una donna con disturbi psicologici che aveva subı´to torture da rituali satanici durante l’infanzia) diviene parte della propaganda utilizzata dal movimento evangelico cristiano che assunse sempre piu` importanza in molti aspetti della vita sociale e politica americana, durante gli anni ’80. Questo movimento rinvigorı` la mitologia del satanismo. Come gia` avvenuto nel XVI e XVII secolo, questa mitologia nuovamente rafforzata sostiene l’esistenza di una cospirazione multinazionale po-

tente, ma segreta, che esegue dei crimini orrendi. ... Una parte dei terapeuti che si identificano come cristiani attivi si sono uniti al movimento P.M. negli anni ’80, e ben presto racconti come quello di Michelle cominciano a ripetersi tra gli altri soggetti affetti da P.M. Entro la meta` degli anni ’80, il 25% dei pazienti con P.M. in terapia aveva riscoperto ricordi di un abuso da rituale satanico, ed entro il 1992 la percentuale di persone che aveva riscoperto tali ricordi era pari a circa l’80%». Possiamo affermare quindi che la coscienza, per motivi vari (dalla trance a situazioni traumatiche) puo` andare incontro ad un particolare disturbo che e` la dissociazione. Esistono altre patologie e comunque i disturbi della coscienza sono importanti sul piano diagnostico, e pertanto e` necessario distinguerli dalle altre patologie. Per esempio, molto spesso lo stupor e` compreso tra i disturbi della coscienza: in realta` lo stupor, che puo` essere catatonico o depressivo, indica una situazione di completa abolizione della dimensione relazionale, e quindi nulla ha a che fare con i disturbi della coscienza. Inoltre, sempre a proposito di psicopatologia della coscienza, sembra utile sottolineare un altro concetto che spesso e` usato in psicopatologia, ma senza una chiara definizione: lucidita` della coscienza. Con questo termine si indica che non c’e` alcuna compromissione dello stato di coscienza e che pertanto gli eventuali disturbi (soprattutto allucinatori) sono dovuti ad una patologia piu` grave e diversa: come ad es. la schizofrenia. La lucidita` della coscienza e` uno dei requisiti fondamentali per porre, nei casi dubbi, la diagnosi di schizofrenia che deve essere invece messa in dubbio se si evidenzia uno screzio confusionale. I disturbi della coscienza ed i collegati fenomeni dissociativi mi inducono a delineare il controverso problema della dissociazione e della scissione, dinamiche che sono troppo spesso ritenute intercambiabili e che hanno creato confusione sul piano diagnostico e su quello della comprensione psicodinamica.

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5.2. Dissociazione. Scissione. Frammentazione Frequentemente nella letteratura psichiatrica i termini dissociazione e scissione sono ritenuti intercambiabili, creando notevole confusione anche e soprattutto dal momento che il concetto di dissociazione e` storicamente legato a quello di schizofrenia. Cerchero` di dimostrare, invece, che tali concetti esprimono dinamiche e psicopatologie diverse. Il termine dissociazione e` proposto da W. James che, traducendo in questo modo il termine di P. Janet di de´saggre´gation, ne accetta anche l’ipotesi che questo processo sia la causa dei disturbi isterici per una separazione-dissociazione di particolari nuclei ideo-affettivi dal campo di coscienza. Successivamente E. Bleuer, nel 1913, individua nella dissociazione (spaltung) la base della schizofrenia: da questo momento iniziera` una sovrapposizione terminologica. Il termine dissociazione verra` tradotto prevalentemente con splitting nella lingua anglosassone, con clivage in quella francese e con dissociazione in italiano; data l’importanza assunta da Bleuer nella definizione-spiegazione della schizofrenia, dissociazione finira` per indicare in genere il fenomeno psicopatologico tipico della schizofrenia. Nello stesso periodo S. Freud utilizza il termine scissione ma, comprendendo il rischio di una confusione terminologica, correttamente usera` due diverse dizioni. Con Bewusstseinspaltung indichera` la dissociazione della coscienza, fenomeno tipico dell’isteria. Mentre con Ichspaltung indichera` un disturbo strutturale dell’Io, presente nelle psicosi e causato da un meccanismo specifico che e` il diniego. Successivamente questa formulazione sara` ripresa dalla scuola inglese (Fairbain, Klein, ecc.) che distinguera` una scissione dell’Io e una scissione dell’oggetto, proponendo che a una scissione interna corrisponda anche e sempre una scissione esterna: l’oggetto buono e l’oggetto cattivo. Comunque nel tempo la confusione termino-

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logica tendera` ad aumentare: ne e` dimostrazione che due AA. pur molto esperti, come G. Benedetti e M. Peciccia, nell’utilizzare il concetto di dissociazione a proposito della schizofrenia, sono costretti a distinguere la dissociazione isterica dalla dissociazione schizofrenica. E non si comprende perche´ viene utilizzato lo stesso termine per due patologie molto diverse. Negli U.S.A. il concetto di dissociazione finira` per essere utilizzato quasi esclusivamente per disturbi di tipo isterico: il libro di Michelson e Ray, Handbook of dissociation (1996), ne e` una chiara dimostrazione. Si crea cosı` una nuova categoria diagnostica che e` quella dei Disturbi Disso` evidente che questi disturbi, per fenociativi. E menologia e dinamica, sono dei tipici disturbi isterici. Anche il DSM-IV si uniformera` su questa posizione, con la categoria diagnostica: Disturbi Dissociativi. La caratteristica essenziale dei Disturbi Dissociativi e` «…la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, della identita` o della percezione dell’ambiente»; essi comprendono: — — — — —

amnesia dissociativa; fuga dissociativa; disturbo dissociativo dell’identita` (equivalente della personalita` multipla); disturbo di depersonalizzazione; disturbo dissociativo N.A.S.

Pur non essendo d’accordo con una nosografia, che ancora una volta accomuna disturbi diversi, credo che sia accettabile la definizione di “dissociazione”. Ma quale e` la dinamica della dissociazione? G. Liotti afferma: «la discontinuita` della coscienza e della memoria, non causata da lesioni organiche cerebrali, da stati tossici o infettivi, o dall’uso di droghe, costituisce una difesa automatica della mente di fronte ad eventi psicologicamente traumatici… Dobbiamo a Bliss la teoria piu` articolata e documentata che riconnette la discontinuita` della coscienza e della memoria osservata nei Disturbi Dissociativi, alla fenomenologia dell’ipnosi. Secondo tale teoria, la dissociazione conseguente ad eventi traumatici e` assimilabile

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ad una sorta di trance ipnotica spontanea, automaticamente autoindotta nella vittima del trauma». Secondo l’autore questo stato di trance e` utile per «…ridurre il dolore (essendo associato ad analgesia o ridotta percezione cosciente del dolore) e per recuperare precocemente, attraverso l’amnesia degli eventi accaduti durante la trance, l’integrita` del comportamento qualora riesca a sfuggire il trauma (integrita` che sarebbe ridotta, per il perdurare della paura qualora si conservasse viva memoria del pericolo mortale corso)». Pertanto, per dissociazione deve intendersi un fenomeno psicopatologico che presenta caratteristiche tipiche dei fenomeni isterici. Invece per scissione deve intendersi un processo psicopatologico piu` grave e permanente perche´ colpisce la struttura dell’Io, che si scinde in due parti corrispondenti a due dinamiche affettive e relazionali opposte: un dato importante e` che il soggetto ne e` parzialmente consapevole. La scissione si evidenzia sul piano comportamentale e relazionale, come ambivalenza. Anche per la scissione possiamo ritenere che ci sia un’origine traumatica, ma evidentemente deve presentare caratteristiche diverse dalla dissociazione. Infatti la scissione e` dovuta a traumi psichici ripetuti nel tempo per un grave disturbo relazionale dell’A.S. con il bambino. Quest’ultimo, per difendersi dall’incomprensibilita` dell’A.S., ma per mantenere comunque un legame con la figura significativa, deve scindersi, come deve scindere anche l’oggetto. Una paziente che aveva avuto gravi problemi con la figura materna, da adulta e sulla base di alcune esperienze con il figlio di cinque anni si ricorda che da bambina era convinta di avere due madri. Questa convinzione nasceva dalla imprevedibilita` e dal sadismo della madre; nell’impossibilita` di comprenderne lo stato d’animo, la paziente presentava una reazione quasi allucinatoria: che la madre avesse due aspetti o addirittura che lei avesse due diverse madri. «A volte, quando rientrava a casa, mi sembrava che avesse un viso diverso e a volte che fosse vestita anche in maniera diversa». ` evidente che la scissione non puo` ritenersi E

un normale processo dello sviluppo psichico, ma deve essere considerata una psicopatologia che, ove presente, da` luogo ai cosiddetti ‘‘Disturbi di Personalita` ’’ (vedi Capitolo 22). Ma se la dissociazione e` tipica dell’Isteria e la scissione dei Disturbi di Personalita`, cosa c’entra la schizofrenia? Gia` nel Capitolo 31 ho chiarito che lo stesso Bleuer era convinto che il vero disturbo della schizofrenia fosse da attribuirsi non tanto alla dissociazione (spaltung), ma ad un fenomeno sottostante definito Zerspaltug, che si puo` tradurre con frammentazione. Quindi nella schizofrenia, soprattutto nei casi acuti e disorganizzati, si evidenzia una frammentazione del pensiero, epifenomeno della frammentazione dell’apparato psichico. Ma oltre la frammentazione sono presenti altri disturbi singolari e diversi che inducono a una riflessione piu` approfondita sulla natura della schizofrenia. 5.3. La natura della schizofrenia Uno dei principali dibattiti che hanno attraversato la storia della schizofrenia riguarda il quesito se il disturbo di base debba ascriversi ad un minus, cioe` a un difetto, o se al contrario debba considerarsi la presenza di un plus, di una diversita` alienata. Comunque il dibattito rimane aperto e l’ipotesi difettuale, che sembra essere predominante, non riesce a spiegare la complessita` di questa malattia. Nel riprendere questo dibattito mi sembra utile concentrare la riflessione su due singolari manifestazioni della schizofrenia: il manierismo e la perdita dell’evidenza naturale. Nel primo caso si tratta di un plus, nel secondo e` evidente che ci si riferisce a un minus. 5.3.1. Il manierismo

Da alcuni decenni il concetto di manierismo e` pressoche´ scomparso dalla clinica della schizofrenia, perche´ confuso con banali disturbi motori

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come le stereotipie, o peggio ancora confuso con i disturbi extra-piramidali dovuti all’uso dei neurolettici; questi ultimi, in effetti, con la creazione di uno stato difettuale di natura iatrogena, tendono a coprire eventuali manifestazioni manieristiche. Gia` Kahlbaum, nel definire il quadro della catatonia, aveva notato la presenza di questi gesti goffi affettati, impropri, come una caratteristica frequente. Anche Kraepelin e successivamente Bleuer avevano sottolineato l’importanza dei manierismi. Per Bleuer il manierismo si mostra in tutta la sua evidenza soprattutto nel linguaggio: lo stile manierato e` ricercato, pomposo, ridondante; espongono banalita` con espressioni altisonanti e contorte e con un tono «…come se fossero in gioco i piu` alti interessi dell’umanita`». Comunque, l’autore che piu` di ogni altro si e` soffermato sul manierismo e` certamente Binswanger che, in Tre forme di esistenza mancata, considera, accanto all’esaltazione fissata ed alla stramberia, il manierismo come una delle modalita` piu` appariscenti del fallimento esistenziale. F. Barison ritiene il manierismo non solo presente in tutte le diverse forme di schizofrenia, ma come l’essenza della malattia stessa. Secondo questo autore, le caratteristiche del manierismo sono: la parassitarieta`, l’intenzionalita` ed il finalismo espressivo, modalita` che portano lo schizofrenico a proporsi nella sua alterita`. Anche per M. Fagioli il manierismo e` la manifestazione fondamentale della schizofrenia: «…lo schizofrenico non e` soltanto un uomo chiuso al mondo, non e` soltanto un autistico, ma e` un autistico manierato; esiste un manierismo che e` qualcosa di particolare e di unico per lo schizofrenico». Nel libro La marionetta e il burattino, nel proporre una diagnostica differenziale con il simplex che rappresenta la forma piu` povera della schizofrenia, cosı` egli descrive il manierismo: «…La possibilita` di rendere inesistenti gli affetti nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla… Il suo pensiero e` la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero e di cio` che non e` materiale da cio` che e` materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della

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mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia, la fantasia di sparizione, che rende inesi` la recita stente se´ e gli altri». Ed aggiunge «… E di un uomo che non vuole andare incontro a delusioni, non vuole diventare castrato, cioe` pieno di odio e rabbia in un rapporto sadomasochistico con gli altri. Diventa e preferisce essere manierato, affettato, legnoso. Ha scelto la strada dell’opposizione e del rifiuto portando il suo modo di essere nel rapporto con gli altri ad un modo di essere pantomimico… E rifiuta anche di vivere e rivelare la sua realta` di poppante desideroso di carezze. Da questo rifiuto nasce la persona manierata, affettata, cortese, che tende sempre a tenere lontano l’altro, a distanziarlo fino a paralizzarlo nella piu` disumana espressione dell’esibizionismo della schizofrenia catatonica» (La marionetta e il burattino, pp. 98-100). Queste affermazioni sono state ulteriormente ribadite in un convegno sul “Manierismo schizofrenico” (vedi bibliografia). Da parte mia, nel riproporre il caso Ho¨lderlin, sostenevo il manierismo come un sintomo certamente importante e di cui si puo` comprendere il significato. Nel 1807, a 37 anni, il poeta vive ormai in preda a una forma di schizofrenia catatonica a Tubinga, presso il falegname Zimmer che lo ospita. Riporto due brani del mio intervento per chiarire ulteriormente il problema: L’abbigliamento e` bizzarro, trasandato, capelli incolti, unghie lunghissime che non vuole assolutamente che gli vengano tagliate e in queste condizioni suona ripetutamente, monotonamente, ossessivamente, sempre gli stessi brani su di una spinetta. Questo suono ossessivo ed iterativo ed una altrettanta iterativa verbigerazione senza senso e con voce tonante sono i primi segni della presenza del poeta, per quei tanti visitatori che, da varie parti della Germania, vengono a visitarlo. Alcuni per amore, altri per pieta`, altri per semplice curiosita`. Il successo di Iperione, e la traduzione delle tragedie di Sofocle hanno reso famoso il poeta. Aperta la porta, lo spettacolo che compare ai visitatori e` tra l’inquietante e il patetico fino a scivolare a volte in situazioni al limite del ridicolo, per la bizzarria del comportamento manierato.

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A questo punto, molto brevemente, vorrei riportare alcuni brani di persone che hanno visto Ho¨lderlin in queste condizioni. Il primo e` un ragazzo appena diciottenne che morira` trentenne a Roma; e` un poeta non molto famoso, ma e` una persona di grande umanita` che praticamente dedica due anni della sua vita a fare compagnia a Ho¨lderlin. Credo che sia la persona che piu` di ogni altro ci possa dare indicazioni sullo stato mentale di Ho¨lderlin. Cito alcuni passi essenziali del suo diario su Ho¨lderlin. «Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un’interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una magra figura che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le piu` cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso e che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare con “Sua Maesta`, Sua Santita`, Gentile Signor Padre...”. Le visite inquietano Ho¨lderlin grandemente, le riceve sempre di malavoglia. Una volta ebbi modo di ripetergli, dopo infinite volte, che il suo Iperione era stato ristampato e che Uhland e Schwab stavano curando l’edizione delle sue poesie. Come unica risposta Ho¨lderlin si produceva in un profondo inchino, accompagnato da queste parole: “Voi siete molto benevolo, signor Von Waiblinger, vi sono molto grato Vostra Santita`”. E troncava il discorso in questo modo».

Waiblinger aveva preso una casetta sulle colline della vallata del Neckar: «Salivamo lassu` ed entrando nella stanza, Ho¨lderlin si inchinava ogni volta raccomandandosi in maniera assolutamente pressante alla mia benevolenza e al mio affetto. Si produceva costantemente in vuote frasi di cortesia come se in questo modo volesse tenere a grande distanza gli altri. Se si desidera individuare un senso nel suo comportamento non puo` essere che questo».

Questo ragazzo di 19 anni riesce a cogliere acutamente questa peculiare modalita` del manierismo: tenere a distanza gli altri, allontanarli, non permettere che possano avvicinarsi troppo. Ma

Waiblinger coglie un’altra cosa che a me sembra rilevante, quando afferma: «A volte Ho¨lderlin si sedeva di fronte alla finestra aperta e magnificava il panorama con parole comprensibili. Notai anche che quando era immerso nella natura, aveva un rapporto sereno con se stesso».

Spesso persone che hanno subito gravi delusioni nei rapporti interpersonali riescono ad avere come unico referente la natura e nella contemplazione della natura in qualche modo ritrovano un minimo di calma e di tranquillita`. «In un modo o nell’altro, a meno che non si trovasse in uno stato di completa apatia, egli era perennemente occupato con se stesso, ma se un visitatore andava a trovarlo, le circostanze piu` fortuite potevano renderlo chiuso e inaccessibile. Quando e` stimolato da ricordi dolorosi, cerca con amarezza di ridurre la sua stanzetta, che per lui e` l’intero mondo, a uno spazio ancora piu` limitato. Come se cosı` si sentisse piu` sicuro, meno inquieto, e potesse sopportare meglio il dolore. Allora si mette a letto».

Da questi sintetici elementi e` evidente che la psicopatologia di Ho¨lderlin e` costituita, a parte rari momenti di lucidita`, da verbigerazioni, schizofasia, neologismi, manierismo, agitazione psicomotoria e pressoche´ totale incapacita` di ricordare gli avvenimenti del passato e del presente. Io vorrei soffermarmi brevemente su due aspetti. Il primo e` la perdita totale del Se´; egli rinnega se stesso in una serie di nomi e di comportamenti che non sono maschere, ma semplicemente tentativi di copertura di un mondo interno distrutto e frammentato; la seconda e` la totale, o pressoche´ totale, rottura dei rapporti interumani, che si esprime con il comportamento manierato. Prima di proseguire credo sia necessario soffermarsi sulla dinamica del manierismo, cioe` sulla possibilita` di comprenderne il significato. 5.3.2. Il manierismo come sintomo schizofrenico

In verita`, a parte l’accurata descrizione di Binswanger, nella letteratura psichiatrica il ma-

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nierismo e` poco considerato o comunque e` posto insieme ai tanti sintomi della catatonia. Dei vari autori ne citero` solo due: C.G. Jung nel 1907 nell’opera Psicologia della dementia praecox propone “l’affettazione” (un insieme di manierismi, leziosita` e ricerca di originalita`) come una modalita` che puo` essere presente anche nell’isteria, ove e` dovuta all’ambizione del soggetto, in genere in classi sociali inferiori, di darsi un’apparenza di superiorita`; ma che e` presente soprattutto nella dementia praecox con due modalita`: i neologismi e la scomposizione fonetica di un nome tale da renderlo incomprensibile. Egli definisce queste parole, secondo l’espressione di una paziente, “parole di potenza”. Jung sottolinea che questo atteggiamento e` fondamentalmente volto ad allontanare o comunque rendere impossibile il dialogo con l’altro, «Invece di rispondere scompongono la domanda ed eventualmente aggiungono associazioni puramente fonetiche, perche´ non vogliono rispondere alla domanda». Oltre che da questa tendenza ad allontanare l’altro, il manierismo e` generato da un qualche complesso e quindi il suo significato e` rintracciabile. Questa spiegazione del manierismo trova un’ulteriore conferma in un autore molto lontano da Jung per formazione culturale: H.S. Sullivan. Nel 1940, nel testo La moderna concezione della psichiatria, questi cosı` si esprime: «Ma ora vorrei parlare dei manierismi dell’ebefrenico. I manierismi, ebefrenici e non, nascono dalla stereotipizzazione di un gesto, o di qualche altra forma di movimento che abbia un significato interpersonale (...). I pazienti ebefrenici hanno spesso un linguaggio molto manierato: sono enfatici e parlano a volte in modo che da` inevitabilmente l’impressione di un profondo disprezzo per l’interlocutore. Nei reparti dei grandi ospedali psichiatrici si puo` qualche volta stare a sentire una “conversazione” fra due di questi pazienti disintegrati che stanno insieme perche´ si considerano reciprocamente inoffensivi. Il colloquio procede con il debito riguardo per la regola che si deve parlare uno alla volta. Vi possono essere anche intonazioni diverse, come se per esempio ci fossero domande e risposte, oppure come se un’osservazione di uno provocasse la sorpresa dell’altro.

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Ma le osservazioni dell’uno hanno soltanto una remotissima relazione, seppure l’hanno, con le osservazioni dell’altro. Ciascuno dei due parla a se stesso, solo che lo fa come una specie di doppio solitario, giocato secondo le regole del linguaggio convenzionale. Il caso e` ben diverso se si intromette qualcuno con il quale il paziente non abbia una lunga abitudine, o peggio che mostri di avere interesse per lui e ascolti quello che dice. I manierismi, che durante la “conversazione” erano poco usati, ora sono di scena. Si puo` anche avere un’esibizione di cattivo umore o di collera, e il paziente puo` andarsene tutto risentito. Altrimenti scoppiera` a ridere in modo “sciocco” di tanto in tanto, scoraggiando l’intruso con l’incoerenza e la futilita` dei suoi discorsi. Il riso sciocco, le smorfie insensate e il resto sembrano provocati da qualche pensiero osceno o di disprezzo per l’interlocutore (...) Una delle sue preoccupazioni principali sembra sia quella di conservare lo status quo per quanto forte sia la pressione esercitata dagli altri».

Questa lunga citazione di H. S. Sullivan ha il solo fine di sottolineare, come gia` aveva intuito il giovane Waiblinger, che il comportamento manierato e` finalizzato ad evitare, piu` o meno totalmente, il rapporto con l’altro. Se questa e` la motivazione del sintomo, dobbiamo cercare di comprendere il significato di quel particolare comportamento manierato. E per quanto riguarda Ho¨lderlin, credo che possiamo trovare una risposta nella sua biografia e nella storia della sua malattia. Espongo solo a grandi linee avvenimenti, vissuti e comportamenti significativi per la comprensione della genesi della sua psicopatologia. Certamente dati biografici importanti sono la morte del padre quando egli ha appena due anni, quindi un padre sconosciuto; e successivamente la morte del patrigno, a cui egli si era grandemente affezionato, avvenuta quando egli aveva appena nove anni. In una lettera giovanile il poeta fa risalire «la invincibile inclinazione alla tristezza» proprio alla morte del patrigno, anche se questo dolore gli resta «chiuso, opaco, incomprensibile». A questo vissuto di perdita, mai elaborato, J. Laplanche attribuisce la genesi della psicosi del poeta. Ma accanto alla perdita bisogna tener presente che c’e` una presenza, al femminile, che sara`

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per Ho¨lderlin una vera persecuzione. La madre e la nonna che nulla comprendono della natura del giovane, vogliono assolutamente che egli acquisisca uno status borghese, che vuol dire diventare pastore, avere una parrocchia ed infine sposarsi. Tre cose che Ho¨lderlin aborre profondamente perche´ sono sinonimo di schiavitu` e per lui invece essere poeta vuole dire essere totalmente e completamente libero. In questo conflitto, la madre avra` buon gioco sia per la giovane eta` (e` inviato alla Stift di Tubinga appena diciottenne), sia perche´, come amministratrice dei beni ereditati dal padre, lesinera` sempre i soldi al figlio, che per essere poeta dovra` esercitare un mestiere meno aborrito di quello di pastore: quello di precettore. Per circa dieci anni dovra` passare da una famiglia all’altra, nell’umile veste di precettore. Afferma giustamente S. Zweig: «A trent’anni e` ancora il povero diavolo che mangia alla mensa altrui, il maestro che fa lezione nel suo consunto abito nero e che dipende ancora dalla borsa della madre».

Sotto il frusto abito del precettore egli nasconde i suoi ideali e le sue ambizioni, ma anche una rabbia sorda, un cupo risentimento sempre ricoperti da un comportamento improntato a una grande “gentilezza”. Quella “gentilezza” che aveva profondamente colpito Schiller nel 1793 e` in effetti gia` indizio di una patologia, anche se sufficientemente compensata, caratterizzata da: estrema suscettibilita`, difficolta` a rapportarsi con gli altri, angoscia di non riuscire a preservare la propria liberta` e la propria identita`. La lotta con la madre che egli profondamente odia, ma per la quale ha sempre parole di devozione e di rispetto, e` una lotta perduta. Paradigmatica e` questa lettera inviata alla madre il 28 novembre 1798, mentre sta terminando la tragedia La morte di Empedocle: «(...) il mio ultimo tentativo di acquistare valore coi miei propri mezzi, come voi dite; se esso fallira`, cerchero` in tutta tranquillita` e modestia di rendermi utile agli uomini nella funzione piu` semplice che potro` trovare; considerero` le aspirazioni della mia giovinezza per quelle che esse

sono cosı` frequentemente, una fortuita esuberanza, un mezzo esagerato per evadere dalla sfera che mi assegnano le mie disposizioni naturali e le condizioni in cui sono cresciuto».

` una lettera piena di disperata rassegnazione E coperta da rispettoso ossequio; ma sappiamo bene che dietro questo “rispetto” per la madre e questo suo presentarsi “modesto” ci sono ben altre aspettative. Ma tra l’apparire e l’essere, sara` quest’ultimo a disintegrarsi: e` l’inizio di un suicidio psichico, altrettanto tragico, ma forse meno olimpico, di quello che attribuisce ad Empedocle nella tragedia che sta terminando di scrivere. Da questa lettera possiamo intravedere quello che anni dopo diventera` un comportamento chiaramente manierato: apparire ossequioso e modesto. Gli altri, apparentemente, hanno sempre ragione: importante e` che siano il piu` lontano possibile. La vita di Ho¨lderlin e` caratterizzata da un continuo pellegrinaggio, anche dovuto al suo carattere irritabile, sensitivo, a volte francamente ostile. Una sola volta egli credette di trovare un po’ di pace: ma sara` l’ultima disperante delusione. Nel 1796 ancora una volta riprende il cammino ed ancora una volta come precettore. Questa volta a Francoforte presso il banchiere Gontard: saranno i due anni piu` felici della sua vita. Ama, riamato, Susette (la Diotima delle liriche) moglie del banchiere: e` un amore platonico, tra due spiriti accomunati da interessi culturali e da una sensibilita` che nasce anche dal disprezzo per il mondo borghese in cui vivono. Ma a questa ultima illusione seguira` la piu` grave delle delusioni: i pettegolezzi dei servitori inducono il banchiere Gontard a metterlo bruscamente alla ` certamente l’umiliazione piu` grave ed il porta. E dolore piu` insopportabile, soprattutto per la fine del rapporto con Susette che, unico vero rapporto affettivo, aveva restituito al poeta calma e serenita`. Dal settembre 1798 al giugno 1800 vive a Homburg: in poverta` e solitudine. Gli basta poter vedere “da lontano” ogni tanto la sua amata: Poco ho vissuto. Ma spira fredda gia` la mia sera. E cheto, come le ombre,

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sono gia` qui e, senza ormai piu` canto, mi dorme in petto il cuor rabbrividito.

Poi, privo di soldi e dopo aver cercato altre sistemazioni sempre come precettore, deve tornare dalla madre: ma e` una vicinanza terribile e di nuovo dovra` mettersi in cammino. Nel gennaio 1802 egli giunge a Bordeaux, ancora una volta nel ruolo di precettore. Di questo periodo si conoscono pochi dati. Allorche´ a giugno ritorna in patria, presenta uno stato di grave agitazione psicomotoria e di confusione: la follia ormai e` evidente per tutti. Pur se in quegli anni egli produce il meglio della sua lirica, egli si trova anche nella piu` totale solitudine, come ben esprime Ricordo (18021803). Ma ora quegli uomini sono salpati per le Indie, nel promontorio arioso presso le erte vigne da cui la Dordogna scende e insieme alla Garonna sfarzosa esce fiume ampio come mare. Il mare dona e toglie il ricordo; l’amore fissa i suoi occhi fedeli. Ma il poeta fonda cio` che resta.

In pochi versi e` espresso tutto il dramma del poeta: egli e` totalmente solo, unica compagnia la poesia. Ma anche la sua onnipotenza, un Io megalomanico, che si esprime in una lotta titanica per la creazione di un nuovo linguaggio lirico. Non a caso il periodo tra il 1798 e il 1803 e` il piu` fecondo per Ho¨lderlin: La morte di Empedocle, i Poemi, le traduzioni di Pindaro e di Sofocle. Ma si esprime anche la tendenza nel desiderio di oblio totale, quasi ad un suicidio, come quello di Empedocle. «E per altri quarant’anni sulle torbide acque del tempo galleggia, senza coscienza, soltanto il suo cadavere spirituale, quel profilo deformato e spettrale che lui, ignaro di se stesso, chiama a volte “il Signor bibliotecario”, a volte “Scardanelli”». Ma ritorniamo al tema del manierismo. Certamente il comportamento di Ho¨lderlin si presenta come manierato: l’estrema ossequiosita`, i titoli altisonanti attribuiti agli ospiti, gli inchini ecc., anche se dietro questo si avverte, ed a volte

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emerge chiaramente, una profonda rabbia. Ed il comportamento manierato e` l’espressione di un conflitto profondo ed irrisolto. Egli, persona colta e sensibile, consapevole della sua genialita`, e` costretto per una intera vita a mendicare ospitalita` e cibo pur di conservare la propria autonomia, la propria individualita`: «(...) nel frusto abito del precettore, l’ultimo a tavola e` gia` vicino alla livrea dal servitore, deve imparare il gesto servile dell’uomo oppresso; ombroso, angosciato, tormentato, consapevole della forza del suo spirito, solo per soffrirne impotente, perde presto il passo libero e risonante con cui il suo ritmo procede come sulle nuvole ed anche dentro di lui si spezza l’equilibrio. Ho¨lderlin diventa diffidente e suscettibile, una parola, anche fuggevole poteva difenderlo. Sempre piu` impara a nascondere la sua faccia interiore di fronte alla brutalita` della gente che era costretto a servire». (S. Zweig).

Ma nel momento in cui cadono tutte le difese, emerge quanto fosse stato umiliante per lui essere ossequioso nei confronti di persone che non stimava affatto. E con il suo comportamento manierato, se da una parte mima una traumatica esperienza, dall’altra esprime anche una ribellione e una vendetta. Questa volta e` lui a decidere come ed a chi attribuire i titoli di “Vostra Maesta`” “Vostra Eccellenza” ecc., ed e` lui a decidere, se i visitatori diventano inopportuni, quando metterli alla porta. Lui che per tutta la vita si era sentito inopportuno, o era stato brutalmente cacciato via. Il comportamento manierato e` quindi una rappresentazione di quel conflitto fondamentale che aveva finito per distruggere la personalita` di ` una recita? Non credo che possa Ho¨lderlin. E paragonarsi ad una recita, come potrebbe essere quella di un isterico. Ho¨lderlin non c’e` piu`, al suo posto c’e` “Scardanelli” o il “Signor bibliotecario”. Questa era stata l’ultima carica ricoperta a Homburg, che gli aveva permesso di vivere adeguatamente sul piano materiale, ma che, soprattutto, lo riconosceva indirettamente, se non come poeta, per lo meno come letterato. E qui vive gli ultimi mesi, prima della totale disgregazione, che sono anche quelli che meglio ricorda; perche´ tutto il

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resto sembra essersi dissolto completamente. Egli scrivera` ancora poesie, che non hanno piu` forma, ma sono soltanto un suono: solo il ritmo continua a sopravvivere. ` evidente che la mia lettura del caso Ho¨lderE lin e` un tentativo di spiegare il manierismo e soprattutto di evidenziare come questo comportamento possa essere compreso e spiegato. Ma a fronte di questa posizione, M. Fagioli sostiene che e` inutile cercare di spiegare, e soprattutto non e` la delusione a creare questo particolare modo di essere manierati. Dice M. Fagioli: «No! Lo schizofrenico non si ammala per delusione; se si ammala per la delusione non e` schizofrenico. Lo schizofrenico e` tale per conto suo. C’e` questo assoluto modo di essere di cui e` stato detto. Pero` la tentazione di spiegare le cose e` troppo forte; e` tanto tanto forte. Certo, e` divertentissima la faccenda con l’ossessivo. L’ossessivo fa i rituali da solo, e` verissimo, anzi quando si presenta qualcuno va meglio; mentre lo schizofrenico scatta proprio quando si presenta qualcuno; quando c’e` uno stimolo. Pero` per lui e` uno stimolo generico, puo` essere qualsiasi stimolo, anche se in effetti deve essere uno stimolo umano. Come dire, un segno, un suono, uno stimolo qualsiasi di realta` umana; basta quello per farlo scattare, perche´ lui dica io non sono realta` umana… E proprio il rifiuto dell’identita` ` il ‘non ci sono’ portato al livello assoumana. E luto, con questo annullamento il rapporto interumano per cui lui recita e … non e` confusione. Lo schizofrenico non e` confuso per niente, e` lucidissimo!… Sai benissimo che lo schizofrenico e` lucidissimo, il rapporto con la realta` e` preciso, non c’e` nessun deterioramento. Perche´ e` un modo di essere che annulla la realta` e l’annulla in maniera particolare. Non l’annulla cioe` nel senso di non vedere le cose, come nello scotoma per cui non vedi la bottiglia e ce l’hai sotto il naso, cioe` questa povera sintomatologia di malattia di noi normali. No, l’annulla in quel modo particolare per cui vede benissimo, sa il significato delle cose in maniera perfetta pero`, verrebbe da dire, non ha un rapporto affettivo o, piu` che affettivo, non ha un rapporto libidico con la realta`. Come se gli mancasse questa dimensione di vitalita`».

Ed infine nel sottolineare che il manierismo non e` una mancanza (un minus), ma una dinamica pulsionale che lo ha reso non umano e che lo spinge ora ad annullare tutto cio` che puo` essere “umano”. «…E questo elemento di manierismo, questo elemento di strano rapporto con le cose, con la realta`; ai limiti con se stessi. Perche´ se sono un uomo posso parlare, posso mandare all’inferno una persona; magari se sono arrabbiato, mi alzo e me ne vado o che so io. Per loro, questo senso comune si perde completamente, ` il discorso per cui non sono piu` esseri umani. E che facevamo prima sul nome: non sono Ho¨lderlin e non perche´ non sono Ho¨lderlin, ma perche´ non sono un essere umano». Sicuramente quando ci troviamo di fronte a un soggetto con manierismo schizofrenico questa e` certamente la realta` piu` profonda. Ed e` proprio di fronte a questo “essere” dello schizofrenico che lo psichiatra attento percepisce quella particolare sensazione definita come Pra¨ecoxgefuhl. Ma credo anche che prima, in un’epoca piu` o meno lontana e forse non sempre coglibile, ci deve essere stata una delusione cosı` disastrosa da rendere il bambino, l’adolescente e forse anche il giovane, non piu` umano, quindi manierato, come estremo tentativo ed ultima difesa, come dire: se l’umano mi ha distrutto, l’unica possibilita` e` non essere piu` umano. Non si puo` non tener conto che molto spesso lo schizofrenico, prima di diventare manierato, ha vissuto stati di angoscia spesso a livelli insopportabili. L’interesse del caso Ho¨lderlin consiste proprio nel fatto che questa dinamica dell’angoscia e` ben visibile nel corso della sua adolescenza ed eta` giovanile, prima del crollo definitivo a trentasette anni. Comunque, al di la` di possibili spiegazioni, e` evidente l’importanza di comprendere l’essenza della schizofrenia che forse puo` manifestarsi in maniera tanto piu` chiara quanto meno e` coperta da fenomeni produttivi come il delirio, le allucinazioni eccetera. Forse per questo lo studio della cosiddetta schizofrenia paucisintomatica puo` attrarre l’interesse degli studiosi, per riuscire a comprendere quello che Racamier definisce l’essenza della schizofrenia: «…l’arte di essere non essendo». Fra questi di notevole interesse lo studio di

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W. Blankenburg, che ritiene la perdita dell’evidenza naturale la causa ultima e fondante della schizofrenia. Mi sembra utile riproporre, anche se brevemente, il pensiero dell’autore che ci fornisce una lettura fenomenologica di questo minus della schizofrenia.

5.3.2. La perdita dell’evidenza naturale

La monografia di W. Blankenburg, pubblicata nel 1979, ci induce ad una ulteriore riflessione sulla natura della schizofrenia, anche per la precisione e la meticolosita`, tipicamente teutonica, di un apparato teorico-metodologico, filosofico e psicopatologico che introduce e fa da supporto all’esposizione di un singolo, ma approfondito caso clinico. Caso clinico che viene ricostruito e studiato esclusivamente dai vissuti narrati dalla paziente e di cui l’autore e` attento e fedele cronista. Il libro, pieno di luci e ombre, e` comunque affascinante, come lo sono in genere le descrizioni fenomenologiche, anche se alla fine lasciano adito a perplessita` e dubbi. Per meglio evidenziare tutto questo, ma anche per rispettare l’iter del pensiero di Blankeburg, mi sembra utile sottolineare i quattro punti qualificanti di questo lavoro: la motivazione alla scelta del paziente, il concetto di disturbo fondamentale, il progetto fenomenologico ed infine la storia della paziente, Anna Ran. L’autore inizia considerando che in genere la maggior parte degli studiosi interessati alla schizofrenia si sono soffermati agli aspetti piu` eclatanti, cioe` sui sintomi produttivi e sulla produzione delirante in particolare. Ma questa scelta potrebbe, aggiunge l’autore, occultare una specificita` di questa sindrome che egli individua nella perdita della evidenza naturale: disturbo assimilabile all’autismo povero di Minkowski. Ma per una serie di commistioni tra piano clinico e fenomenologico «… il concetto di autismo e` diventato inutilizzabile dal punto di vista scientifico». La ricerca sulla schizofrenia comporta un paradosso di non facile soluzione «… la` dove i sintomi sono caratteristici, essi non sembrano essere

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originari, ma sembrano essere la conseguenza di un confronto con la malattia; d’altronde la` ove essi possono essere considerati come originari, essi si offrono in forma caratteristica». Formulazione che apre ad un problema complesso: cioe` se la schizofrenia e` da considerarsi una malattia che va a incidere su di una personalita` e pertanto i sintomi dovrebbero essere considerati tutti come secondari, o se invece si tratta di uno sviluppo abnorme di una personalita` gia` predisposta. L’autore, sorvolando su questo problema, rimane convinto che la ricerca sulla schizofrenia debba essere condotta sui casi ove si evidenzia una sintomatologia paucisintomatica. Scelta accettabile, ma che apre a un ulteriore problema: l’esistenza o meno di due diverse forme di schizofrenia. Comunque e` condivisibile che lo studio attento e meticoloso di un singolo caso puo` fornirci molto piu` dei numerosi studi statistici che spesso dietro i numeri nascondono il nulla. Fatta questa prima scelta, l’autore passa a definire un obiettivo centrale: la ricerca del “disturbo fondamentale”. «…I problemi che indirizzano la nostra ricerca sono ben piu` fondamentali. Ne va della possibilita` di mettere in luce quel che negli schizofrenici e` disturbato alla base del loro essere` in questo senso che parliamo di diuomini. E sturbo fondamentale… Bisogna sottolineare che disturbo fondamentale non significa, nel nostro contesto, alcunche´ di eziologico. A noi basta mettere in evidenza un momento antropologicostrutturale di base e analizzarlo piu` da vicino». «… Un ebefrenico che, in una data situazione, adotti un comportamento prevalentemente laterale (vorbei) manifesta la sua assenza di familiarita` con gli usi del suo mondo-ambiente (Umwelt), senza pero` esprimere necessariamente diffidenza». Questa frase denota la sottigliezza semiologica per cui il comportamento laterale viene letto non come sintomo a se´ stante, ma come un modo di esprimere qualcosa di molto piu` categoriale: l’assenza di familiarita`; inoltre sottolinea che l’assenza di familiarita` non genera necessariamente una diffidenza, che e` tipica del mondo paranoideo. Inoltre l’autore con una ulteriore sottigliezza

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semiologica distingue tra l’aver-fiducia-in e l’essere-in-familiarita`, alla cui perdita egli attribuisce la modalita` esistenziale di fondo della schizofrenia. Ma come riuscire a comprendere questa essenza? A questo proposito l’autore dice: «… A nostro avviso, la psicopatologia non puo` fare a meno di questo concetto di comprensione; esso non e` superato, ma deve essere precisato in funzione dei limiti che gli competono» (p. 83). E con un ampio riferimento a vari autori, Blankenburg passa ad esporre il terzo punto del suo discorso: il progetto fenomenologico, ovvero la modalita` di osservazione-comprensione in fenomenologia. Egli ritiene che lo stesso metodo di Jaspers si limita ad una “psicologia descrittiva” e pertanto si deve percorrere un ulteriore passo, seguendo nei limiti del possibile le indicazioni di Husserl e di Heidegger «… La fenomenologia, nel senso di Husserl, non si esaurisce mai in una semplice riproduzione dell’esperienza o del vissuto, ma si dirige sempre al tempo stesso, in maniera consapevolmente metodica, verso il logos di quel che appare come l’in-che (Worinnen) di ogni apparire» (p. 17). Appare chiaro che l’autore indichi una strada ben precisa: da una fenomenologia descrittiva si deve giungere a una fenomenologia eidetica per poter comprendere l’essenza dei fenomeni. Ma cosa significa esattamente comprendere e soprattutto in che modo si attua un processo di comprensione tale che ci porti a veder-capire la realta` psichica? «… In considerazione dell’ambiguita` del concetto di comprensione e` necessario sottolineare che lo scopo dell’esperienza fenomenologica, diversamente da quanto sosteneva Jaspers, non consiste soltanto nella rappresentazione intuitiva di quel che accade al malato. Non si tratta di entrare, per cosı` dire, nella pelle del malato per co-provare cio` che il malato prova. Il grado in cui cio` e` possibile dipende da condizioni soggettive che variano da un osservatore all’altro. Il tipo di approccio fenomenologico qui prospettato cerca invece di cogliere il modo di essere del malato, attraverso le sue autodescrizioni. L’accesso e` un accesso duplice: da una parte attraverso l’autoesplicazione del malato, dall’altra attraverso la co-

municazione ermeneutica… Lo scopo e` riuscire a cogliere nel malato la costituzione costantemente riferita al corpo, di se´ e del mondo» (pp. 31-32). Giustamente l’autore rifiuta la comprensione come un processo di immedesimazione; pertanto la comprensione si deve basare sulla rappresentazione intuitiva del terapeuta, sulle auto-esplicazioni del malato e sulla comunicazione ermeneutica. Credo che a questo punto bisogna soffermarsi a riflettere: da una parte l’autore propone la possibilita` di un’intuizione che non sarebbe comunque molto affidabile perche´ «puo` variare da un osservatore all’altro» e pertanto la vera conoscenza e` affidata alle auto-esplicazioni del malato e alla comunicazione ermeneutica. Per quanto riguarda il primo punto mi sembra di aver sottolineato a sufficienza la limitazione, soprattutto del paziente schizofrenico, all’auto-riflessione: e sicuramente l’esperienza dell’alienazione da parte del paziente non puo` essere equivalente dell’esperienza che lo psichiatra ha nel confrontarsi con l’alienazione. Deve esistere quindi quella famosa differenza che rende possibile, in una metodica precisa, il poter cogliere la psicopatologia. Rimane quindi fondamentale la capacita` dell’osservatore per comprendere-intuire il dato psicopatologico. Per quanto riguarda la comunicazione ermeneutica, l’autore non ci offre ulteriori lumi, per cui dobbiamo rifarci ad autori come H. G. Gadamer per il quale «…comprendere e` l’originario modo dell’attuarsi dell’esserci, che e` essere nel mondo. Prima di qualunque differenziazione nelle diverse direzioni dell’interesse teorico o pratico, il comprendere il modo di essere dell’esserci in quanto poter-essere e possibilita`». In questo modo si attua il cosiddetto circolo ermeneutico che propone che oggetto e soggetto sono in una reciproca appartenenza, tanto che il conosciuto e` possibile perche´ e` gia` entro l’orizzonte del conoscente e quindi la conoscenza si codetermina. Ma questo modello non sembra, nello studio-osservazione-comprensione della psicopatologia, portarci molto avanti. Quindi alla fine tutto si riduce alla pura autoesplicazione della paziente di cui, dicevo prima, l’autore e` attento cronista. Si rimane colpiti per l’accurata descrizione del

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caso clinico, per la dolorosita` anche se rara, e per l’ebefrenicita` molto frequente con cui la paziente declina il suo essere «…una che ha perduto l’evidenza naturale», per cui tutto le sembra estraneo, difficile, a volte ostile. Ma quello che piu` colpisce e` la fine di questa storia. «… In coincidenza con il cambiamento del terapeuta, imposto dalle circostanze, e con il crescente convincimento di A. che non si fosse ancora verificata alcuna modificazione fondamentale, le tendenze suicidiarie tornarono palesemente in primo piano. Agli inizi del 1968 A. mise fine ai suoi giorni, in un momento in cui non era sorvegliata e poco prima del previsto inizio di una nuova attivita` lavorativa (come era accaduto in occasione del suo primo tentativo di suicidio)». Certo la tendenza suicidiaria puo` costituire un problema di difficile gestione e quindi nulla puo` essere addebitato al terapeuta: quello che colpisce, invece, e` che l’autore getta lı` come per caso, e come un fatto banale, un evento certamente significativo. La paziente si suicida in occasione di “un cambiamento del terapeuta”: ma se l’evento e` cosı` banale, perche´ sottolinearlo? Se non e` banale, perche´ non prenderlo in considerazione? Ben ottanta anni prima, Breuer si era dovuto accorgere, a proprie spese, che il cambiamento del terapeuta aveva avuto effetti disastrosi sulla sua paziente Anna O. (strano destino di un nome!). Cito questo particolare storico, solo per evidenziare che se non c’e` un metodo ben preciso, e` difficile, forse impossibile, distinguere cio` che e` banale da cio` che e` fondamentale, e non solo dal racconto del paziente ma anche per il paziente. Certamente Blankenburg non vuole far passare questo gesto suicidiario, come aveva fatto Binswnger a proposito di Ellen West, per un “atto di liberta`”, ma sicuramente lo propone come l’unica alternativa possibile per la paziente. Giunti a questo punto, ancora una volta ci si ritrova con una strana sensazione: da una parte affascinati per la ricercatezza delle descrizioni psicopatologiche, dall’altra sbalorditi per il nichilismo terapeutico che sembra essere strutturale alla fenomenologia. Mi sembra necessario tentare di dare una lettura chiarificatrice di queste due singolari discre-

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panti sensazioni. Per quanto riguarda il fascino, credo che esso risieda nella illusione che la fenomenologia con la metodica della epoche´, possa fornirci una conoscenza pura, non inquinata da pregiudizi o da scotomi personali; una conoscenza disincantata, preriflessiva, immediata. Una conoscenza dove l’Io empirico del singolo osservatore possa sempre trascendere in un Io trascendentale. Ma e` semplicemente un’illusione o forse e` piu` esattamente una idealizzazione della conoscenza che presenta ben altri e piu` complessi problemi. Per quanto attiene al nichilismo terapeutico, esso non e` legato a un particolare autore o a una particolare corrente fenomenologica ma sembra essere strutturale alla fenomenologia che poi stranamente non rinuncia ad utilizzare l’arsenale terapeutico. La paziente Anna aveva praticato numerosi cicli di insulino-terapia e di ESK terapia e svariate forme di psicoterapia. Pertanto e` necessario dare una plausibile spiegazione di questo fenomeno, soprattutto dal momento che c’e` un ritorno della fenomenologia e numerosi psichiatri si professano seguaci e non solo cultori delle teorizzazioni fenomenologiche, anche quelle piu` avanzate. Il nichilismo terapeutico in fenomenologia e` un dato strutturale, potrei dire ontico, dal momento che e` legato strettamente alla sua origine. La fenomenologia, sul piano filosofico, nasce come reazione a una mentalita` scientifica-tecnologica che aveva trovato nel positivismo l’espressione piu` coerente ed estremizzata. Da Galilei in poi, con il metodo sperimentale il problema della verita`, della ricerca epistemica, era andato sempre piu` scomparendo, sotto la spinta di una ricerca tesa solo alla conoscenza di leggi che, fornendo la possibilita` di prevedere i fenomeni, aumentava a dismisura il potere di dominio dell’uomo. A fronte di questa disumanizzazione, la fenomenologia si e` contrapposta cercando, con Husserl in primo luogo, di riprendere la strada di una ricerca filosofica. Cosı` Husserl definisce il principio di tutti i principi: «…nessuna immaginabile teoria puo` coglierci in errore nel principio di tutti i principi, cioe` che ogni visione originalmente offerente e` una sorgente legittima di conoscenza, che tutto

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cio` che si da` originalmente nell’intuizione (per cosı` dire in carne e ossa) e` da assumere come esso si da`, ma anche soltanto nei limiti in cui si da`». In questo processo di intuizione e` necessario porre tra parentesi (epoche´) qualsiasi atteggiamento naturalistico scientifico che non e` conoscenza, ma solo pregiudizio. Infatti la fenomenologia della conoscenza e` qualcosa di radicalmente contrapposto alla scienza naturale della conoscenza, ossia alla forma storica assunta dalla psicologia. Nella fenomenologia di Husserl «… noi diventiamo osservatori completamente disinteressati del mondo». Credo che il metodo fenomenologico, utile e necessario, come momento di contrapposizione ad uno scientismo positivista e riduttivo, ha finito per trasformare un probabile strumento conoscitivo in una trappola. Per ottenere una osservazione, la piu` pura possibile, la piu` vicina all’essenza dei fenomeni, ha ritenuto che ogni atteggiamento operativo potesse inquinare la purezza dell’osservazione. L’assunzione della metodologia fenomenologia in psicopatologia, ha inevitabilmente trasferito questo assunto di base anche in psichiatria. Con tutte le conseguenze che ben conosciamo: l’inesistenza di una patologia perche´ la psicopatologia e` un modo di essere al mondo conseguenzialmente, l’assenza metodologica di qualsiasi prassi terapeutica. Sottolineo assenza metodologica perche´ poi gli stessi fenomenologi sono molto prodighi di qualsiasi forma di terapia, ma solo perche´ in assenza di un concetto di terapia, una terapia vale l’altra. In questo modo ovviamente la prassi e` scollegata dall’osservazione e per evitare il temuto inquinamento dell’osservazione si cade in una situazione che possiamo definire di scissione tra osservazione e terapia. Ma se parliamo di scissione siamo gia` nell’ambito di una psicopatologia.

5.4. Le allucinazioni Brevemente mi soffermero` su questo disturbo solo per ribadire due concetti basilari, anche se gia` ampiamente esposti.

Il primo riguarda il problema metodologico: utilita` o meno di ritenere un disturbo psicopatologico spiegabile come alterazione di una singola specifica funzione psichica. Come abbiamo visto a proposito della coscienza, il considerare l’allucinazione come disturbo della percezione porta a conclusioni errate (vedi nella parte II: allucinazioni). Il secondo riguarda l’eziologia: la necessita` di comprendere che una eziologia psicologica presenta una sintomatologia ben diversa da una eziologia organica. Infatti i disturbi di natura organica comportano o un deficit, piu` o meno grave, della funzione oppure una alterazione, ma in genere a carattere elementare. L’allucinazione visiva o uditiva, vissuta come reale, rappresenta una complessita` che non puo` essere paragonabile alla fenomenologia dei disturbi su base organica. Infatti una alterazione dei centri cerebrali deputati alla decodificazione degli stimoli visivi ed uditivi comporta un disturbo deficitario o un disturbo produttivo, ma a carattere elementare quali le agnosie e le afasie. In alcuni casi puo` essere presente, insieme ad una lesione organica, anche una componente psicologica: questi casi presentano peculiarita` che credo siano ben rappresentate dalla sindrome di C. Bonnet.

5.4.1. Definizione

Da quando Esquirol (nel 1838) definı` le allucinazioni come una percezione senza oggetto, questa definizione e` rimasta abbastanza immutata nella trattatistica psichiatrica con l’eccezione di Jaspers che, infatti, nel 1913 gia` faceva presente che le allucinazioni sono false percezioni, che non rappresentano pero` una distorsione reale, ma «balzano fuori da loro stesse come qualcosa di completamento nuovo e si verificano insieme alle percezioni reali». C. Scharfetter definisce le allucinazioni come «modalita` di esperienza vicina alla percezione sensoriale». Comunque la maggior parte degli AA. definisce le allucinazioni come:

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— esperienze percettive in assenza di uno stimolo esterno, che — si verificano spontaneamente ed involontariamente e non possono essere controllate (ad eccezione delle allucinazioni visive da allucinogeni ove la chiusura degli occhi puo` farle diminuire o scomparire), e che — sono vissute come esistenza reale dell’oggetto o di un agente e situate nello spazio esterno. e) 5.4.2. Classificazione

a) b)

c)

d)

Allucinazioni uditive (vedi parte II). Allucinazioni visive. Si presentano o come fenomeni elementari, oppure come scene complesse con figure statiche o in movimento, spesso colorate. Le allucinazioni visive sono piu` facilmente riscontrabili in stati di intossicazione, assunzione di sostanze allucinogene, disturbi neurologici (tumori centrali, epilessia, psicosindrome organica). Una delle forme piu` conosciute e` il delirium tremens, stato confusionale-allucinatorio, dovuto ad astinenza alcolica: compaiono allucinazioni di animali, piu` o meno piccoli e piu` o meno terrificanti; scene con immagini molto piccole (allucinazioni lillipuziane). Allucinazioni olfattive e gustative. Molto spesso sono legate a processi espansivi delle aree cerebrali deputate al gusto e all’olfatto, oppure dovute a disturbi epilettici: spesso un’allucinazione olfattiva o gustativa puo` rappresentare l’aura di una crisi temporale. Questi disturbi possono essere presenti in forme psicotiche, come la schizofrenia o la depressione maggiore, anche se piuttosto raramente. Nel primo caso il disturbo e` collegato ad un delirio di veneficio, nel secondo ad un delirio di morte-putrefazione di cui l’allucinazione e` solo una parte. Ma e` evidente, che in questi casi non si tratta di un disturbo della percezione ma di un disturbo complessivo del pensiero e dell’affettivita`. Allucinazioni tattili (o aptiche). Il paziente si lamenta di strane e particolari sensazioni

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cutanee: bruciori intensi, sensazioni di perforazione o di gelo. In questo caso i disturbi sono dovuti a psico-sindromi organiche. Una forma particolare, definita delirio dermatozoico e caratterizzata da sensazioni di bruciori, formicolii, punture che il paziente attribuisce a piccoli animali (vermi, scarafaggi, ` presente in genere in soggetti anecc.). E ziani con processi di atrofia cerebrale. Allucinazioni cenestesiche. Presentano un polimorfismo notevole. A volte sono descritte come sensazione di essere pietrificati, gelati, vuoti, attraversati da raggi: in questi casi si tratta di sindromi schizofreniche ove il sintomo e` una parte, spesso significativa, di un delirio di influenzamento. A volte invece il vissuto puo` essere legato ad una grave sindrome depressiva (Sindrome di Cotard).

Una forma particolare e` la dismorfofobia (vedi cap. 14), che per quanto definita una fobia puo` essere molto piu` spesso un vissuto prodromico di una crisi psicotica. Il paziente vive a livello somatico, come cambiamento angoscioso, quello che avviene a livello psichico. Per quanto riguarda l’eziologia, le allucinazioni possono essere presenti: a)

b) c)

d) e) f) g) h)

in situazioni fisiologiche: sono le allucinazioni ipnagogiche (in fase di addormentamento) o ipnopompiche (al risveglio); in particolari sindromi come la deprivazione sensoriale (vedi cap. 40); in situazioni di intossicazione ed in presenza di un quadro confusionale, come nel delirium tremens, ove la ricchezza allucinatoria ha portato a definire questo stato come allucinosi; nelle psico-sindromi organiche; nella epilessia; nella schizofrenia; nella depressione grave; raramente nella psiconevrosi ossessiva.

Le allucinazioni devono essere distinte dalle pseudoallucinazioni, che raggruppano due distinti ordini di fenomeni.

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In alcuni casi il vissuto e` meno estesico ed e` relegato allo spazio interno. Si tratta a volte di voci interne (iperendofasia) tipiche della depressione, a volte invece come eco del pensiero che puo` preludere ad un fenomeno piu` grave come il furto del pensiero, ed e` presente in genere nella sindrome schizofrenica. In altri casi invece si definiscono pseudoallucinazioni disturbi che, pur avendo le stesse caratteristiche delle allucinazioni, sono vissuti dal paziente con consapevolezza della irrealta` o della patologicita` del fenomeno. ` evidente la differenza notevole dalle alluciE nazioni, che fanno parte integrante del vissuto psicotico del paziente e sono vissute sempre come vere. Le forme di pseudoallucinazioni sono tipiche di disturbi ove c’e` l’associazione di disturbi organici (sia degli organi periferici che centrali adibiti alle percezioni) con un disagio psicologico: esempio classico e` la sindrome di C. Bonnet.

5.4.3. La sindrome di C. Bonnet

La sindrome di C. Bonnet e` dovuta a lesioni, piuttosto gravi della vista (retinopatia), associate a lesioni cerebrali (disturbi circolatori cerebrali, atrofia), unite spesso a fattori di disagio psichico come l’isolamento e la deprivazione sociale. In questi casi l’allucinazione e` sempre criticata: il paziente e` consapevole della stranezza della sua esperienza. Situazione ben diversa dalle alterazioni percettive che intervengono nel corso della psicosi, ove il disturbo e` solo una parte di una alterazione piu` globale, che porta il paziente a vivere con certezza quanto crede di vedere o quanto crede di ascoltare, perche´ l’allucinazione non riguarda la vista o l’udito, ma la struttura psichica nella sua complessita`. La sindrome di C. Bonnet e` una singolare sindrome riscontrata tipicamente in pazienti affetti da gravi forme di patologia visiva; per il suo caratteristico quadro clinico, si situa al limite fra psichiatria ed oculistica. La sindrome fu descritta per la prima volta alla fine del ’700 da Charles

Bonnet il quale, dopo averla osservata, ne soffrı` egli stesso in tarda eta`. I fenomeni che caratterizzano tale sindrome sono la presenza di allucinazioni complesse, descritte come assai vivide e realistiche e caratterizzate da intensa policromaticita` . I pazienti in genere hanno consapevolezza della natura irrealistica delle visioni e sono quindi consapevoli che quanto vedono di fronte a loro non esiste nella realta`. I pazienti inoltre riferiscono che l’insorgenza delle allucinazioni e` del tutto slegata da fatti od eventi particolari e che non e` assolutamente possibile controllare l’inizio del fenomeno, ne´ influenzare in alcun modo il contenuto dell’allucinazione. Nella maggioranza dei casi le allucinazioni rappresentano figure di grandezza naturale, colorate, solide ed in movimento; compaiono sempre nella stessa area del campo visivo, e presentano una concretezza tale da sembrare in tutto e per tutto oggetti reali, tanto che la comparsa dell’allucinazione comporta uno scotoma su quanto e` sullo sfondo. ` interessante soffermarci sul vissuto espeE rienziale dei pazienti. La maggior parte di essi riferisce di essere disturbato dalla presenza delle allucinazioni, non tanto per il contenuto, che anzi molto descrivono di per se´ piacevole, quanto piuttosto per l’invasivita` delle allucinazioni, sulle quali il soggetto non puo` operare alcun controllo. Gia` in precedenza e` stato evidenziato come un criterio diagnostico differenziale di importanza fondamentale sia costituito dal fatto che il paziente mantiene la consapevolezza che le immagini viste di fronte a se´, sebbene molto vivide ed in tutto e per tutto simili a quelle reali, sono pero` solamente un fenomeno allucinatorio. Tale consapevolezza, tuttavia, non esime i pazienti dallo sperimentare sensazioni di grave angoscia, spesso accompagnate dal pensiero opprimente di essere sul punto di impazzire. L’invasivita` del fenomeno allucinatorio si accompagna cosı` a una sensazione di fragilita` e di timore per il proprio equilibrio psicologico, che esita, nella grande maggioranza dei casi, in una richiesta di trattamento terapeutico finalizzato a far cessare le allucinazioni.

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Un altro dei fattori significativi emersi in alcuni studi condotti sulla sindrome di Charles Bonnet e` quello dell’“isolamento sociale” (Holroyd S., Rabins P.V., Finkelstein D., Lavrisha M., 1994). In molti pazienti osservati si e` evidenziato uno stato di solitudine e di isolamento sociale, che concorre ad una condizione complessiva di “deprivazione sensoriale”, ritenuta importante nella genesi della sindrome. Ma oltre alla presenza di una grave patologia oculare che comporta una perdita marcata dell’acuita` visiva, gli stessi AA. hanno evidenziato che nei soggetti selezionati era possibile riscontrare un basso punteggio al test cognitivo Telephone Interview for Cognitive Status. Pertanto gli AA. ritengono che molto spesso siano presenti gravi lesioni diffuse di tipo corticale e giungono cosı` ad un modello patogenetico di tipo “multifattoriale”. Comunque una grave patologia visiva e` il fattore sempre presente e pertanto il decremento dell’acuita` visiva deve essere considerato il fattore determinante.

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Parte II

1. Un accenno alla metodologia di Francesca Fagioli, Andrea Masini La proposizione e il discorso per il quale dovremmo considerare la realta` che dovrebbe essere causa di sintomatologia psichiatrica comprendono la necessita` di considerazioni sia di metodo sia di sostanza. Metodo e sostanza che a loro volta comprendono l’obbligo di una considerazione generale sul livello culturale e scientifico attuale che rivela la cancellazione totale di qualsiasi ricerca, teoria e ipotesi su una chiara metodologia psichiatrica. Dalla definizione del DSM-IV alle considerazioni attuali di molti degli insegnanti universitari di psichiatria diventa evidente che non si considera piu` nessuna diagnosi come tale e con cio` nessuna formazione psichiatrica tale che possa condurre a una osservazione fenomenologica di una possibile malattia. Tali considerazioni non vanno disgiunte da un fenomeno politico e culturale che e` storico, per il quale sull’onda del movimento detto ’68 si e` proceduto a seguire la teoria dell’inesistenza di una malattia mentale specifica per orientare tutte le forze, le possibilita` sociali all’assistenza di asociali che venivano considerati anormali soltanto perche´ non si adattavano alle regole sociali. L’idea di 200 anni fa, figlia dell’illuminismo, che poteva esistere un disturbo o una alterazione del funzionamento psichico della realta` umana stessa che poteva essere definito malattia e come tale affrontato con un’idea e una metodologia di cura e non soltanto di assistenza generica, e` stata completamente cancellata. Parlare per esempio di una storia che va oltre la pretesa e la rivendicazione di una clinica e di una semiologia psichiatrica, che ebbe il suo successo nella descrizione e definizione di manieri1 smo , propone l’immagine di uno psichiatra raffi-

1 Cfr. AA.VV., Il manierismo schizofrenico, in Il Sogno della Farfalla, anno 6, n., 3 1997, pp. 3-51.

natissimo dalle capacita` osservative e percettive acutissime. La diagnosi clinica di malattia mentale che 50 anni fa ancora esisteva e che chiedeva la definizione di un comportamento alterato in senso psichiatrico e non in senso sociale o legale, forse poteva essere considerata come clinica delle manifestazioni del soggetto in osservazione. 50 anni dopo noi, nel cercare la sostanza e le dinamiche che sottendono quelle manifestazioni osservate, riteniamo giusto e opportuno riproporre l’impostazione medico-clinica e inoltre ci rivolgiamo ad una realta` latente e quindi non manifesta come l’altra che poteva essere percepita direttamente dai 5 sensi dello psichiatra. Ad esempio, nella misura in cui lo psichiatra rileva un atteggiamento e un comportamento manierato, cioe` non normale, rivendica e propone una percezione di un gesto o ai limiti del suono delle parole che non sono uguali a quelle comunemente intese o percepite nei normali. Lo psichiatra deve saper distinguere il fatto psichiatrico tra le mille ed infinite variazioni degli atteggiamenti e dei comportamenti che ogni persona propone, vuoi una diversa dall’altra, vuoi nella stessa persona: cio` perche´ va considerato che tali comportamenti, atteggiamenti, espressioni, sono legati a fatti emotivi non direttamente percepibili dai 5 sensi. Lo psichiatra deve saper distinguere comportamento, atteggiamento, espressione legata al fatto emotivo dal fatto psichiatrico, ovvero da cio` che definiamo malattia. Considerare ancora, oltre questo e senza negare questo che possiamo indicare con il termine fenomenologia, realta` ancora piu` nascoste che si possono considerare interpretazioni ovvero deduzioni che opinano qualche cosa, deduzioni che pensano qualche cosa che non e` manifestazione sensibile, cause e moventi dell’espressione fenomenologica stessa, propone la evidenziazione del fatto che c’e` stato un periodo storico in cui la ricerca della realta` umana ha tentato di approfondirsi per comprendere quanto non e` direttamente percepibile dai 5 sensi, ma puo` essere dedotto non solo dalle manifestazioni evidenti sopraddette ma anche dalla composizione tra di loro di tali manifestazioni. Perche´, poi, sono le cose la-

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tenti che vengono considerate movente e causa delle manifestazioni fenomenologiche stesse. Teoria potremmo dire, nella misura in cui quanto detto si puo` configurare metodo medico per il quale i sintomi vanno a trovare le loro cause nella realta` interna del paziente che va dedotta da segni che non sono di per se´ la malattia stessa. Cosı` se usiamo le parole depressione, schizoidia, schizofrenia possiamo ancora riferirci alla definizione verbale di percezioni, di segni, espressioni di un altro essere umano che si distaccano in maniera tale dalla norma, che pur comprende una variabilita` infinita, da porci nella situazione di definizione di malattia che implica un rifiuto delle manifestazioni e del contenuto delle manifestazioni stesse perche´ non rientrano appunto nelle infinite variazioni di espressione e di essere della realta` umana che vanno considerate normali. Quando poi, oltre queste definizioni di espressione, noi proponiamo che esse siano legate ad un disturbo di qualcosa, che pur avendo il suo termine verbale che lo indica e lo definisce non e` direttamente percepibile dai 5 sensi, noi proponiamo un metodo di pensiero che va oltre il logico-razionale che si concretizza nel movimento che va dalla percezione alla definizione verbale di essa. Parlare appunto, supponiamo, di affettivita` o di anaffettivita` implica la dichiarazione che l’esistenza della malattia e` basata su un riferimento a qualcosa che non soltanto non e` percepibile direttamente dai 5 sensi ma ha avuto una definizione, dedotta da altre manifestazioni sensibili, che e` legata ad una cultura ed una storia; cosı` si puo` dire anche forse dell’indifferenza, della distrazione, del lapsus, etc. Basti pensare ad esempio che affettivita` e` legata ad un’immagine di procurare benessere fisico agli altri o, ai limiti, semplici piacevolezze, mentre noi dobbiamo considerare che il termine affettivita` puo` essere applicato ad una realta`, piu` o meno interna, che procede da una curiosita` a un interesse che porta alla comprensione della realta` umana stessa: non solo, ma dalla comprensione si passa al movimento e all’azione per cui, nella misura in cui questa realta` si giudica estranea, si procede contemporaneamente alla modifi-

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cazione di essa per portarla in quei parametri che possono rientrare nella definizione di umano. A sua volta questo discorso trascina alla teorizzazione, o meglio alla accettazione di teorie che hanno pensato a una forma di questo movimento a procedere come attivita` che trae le sue radici in una realta` biologica specificatamente umana che e` stata definita carica sessuale originaria e vitalita` 2 A questo punto possiamo giustificare quanto affermato precedentemente ovvero il fatto di dover considerare 50 anni di storia in cui si e` sviluppata una ricerca sulle dimensioni piu` latenti della realta` psichica umana. Il termine di carica sessuale originaria si trova in Freud3, pero` questa dimensione di energia, o attivita`, attivita` connessa al termine energia viene collocata alla nascita. Tale collocazione determina una crisi del pensiero che entra nella confusione piu` totale perche´, direttamente, porta al pensiero della dissociazione neonatale, smarrimento, dissipazione, in quanto questa carica non e` contenuta da nessuna forma che implichi una descrizione e con cio` una definizione che possa concettualizzare un contenimento e pertanto un elemento di conoscenza: quella che puo` essere formulata come immagine. Carica sessuale posta alla nascita, configura un nome che non ha la cosa relativa ed attinente al nome stesso. Un ulteriore sviluppo del pensiero ha collocato tale idea al suo giusto posto, ovvero nella vita endouterina, come realta` del feto nell’utero che ha la possibilita` di svilupparsi come vitalita` e poi alla nascita come immagine interiore4. Perche´ cosı` poi accade che questa immagine interiore rende la realta` latente conoscibile, affrontabile, ai limiti curabile, superando cosı` l’idea millenaria di un caos originario che puo` essere contenuto e controllato soltanto da una ragione

2

Fagioli M. (1975), Psicanalisi della nascita e castrazione umana, N.E.R Roma 1989; p. 69 e ss. 3 Freud S. (1914), Introduzione al Narcisismo, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Vol.VII. p. 445. 4 Cfr. Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza. NER Roma 1996.

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che compare qualche anno piu` tardi. La ragione trae le sue radici e fonti energetiche dall’opposto della vitalita` ovvero da quella che potremo chiamare anaffettivita`. Ragione che e` realta`, piu` o meno pulsionale, (affettiva?) che origina il suo essere dalla negazione totale da tutto cio` che e` prima del suo sorgere che viene considerato non umano. E il cosı` definito non umano va negato, possibilmente eliminato perche´ la ragione possa sorgere e funzionare. Nascita mostruosa che si realizza per la morte di cio` che la precede e, nella negazione della propria storia, trova la sua lucidita` che la rende schiava e padrona del mondo inanimato.

2. Disturbi dell’affettivita` di Annelore Homberg, Andrea Masini Le cosiddette facolta` o funzioni mentali sono le caselle in cui la psicopatologia e` solita suddividere la realta` psichica, nel tentativo di creare ordine nel mare magnum dei dati clinici. Ma questa anatomia della mente nasconde anche la speranza che, una volta fatte le caselle, si possa individuare il substrato organico per ciascuna di esse – cioe` le aree cerebrali coinvolte – e quindi cogliere la radice dei disturbi psichici in un’alterazione dei tessuti preposti a secernere facolta` come “intelligenza”, “memoria”, “percezione”, “pensiero”. Una di queste caselle porta il nome “affettivita`” e sarebbe il contenitore naturale per i cosiddetti disturbi dell’affettivita`. ` bene tener presente che il termine affettiE vita` ha due significati. In primo luogo esso indica l’insieme degli affetti e delle emozioni coscienti ` secondo quest’accevissuto da un individuo. E zione che la sindrome depressiva e la sua controparte, l’esaltazione maniacale, sono diventate i disturbi dell’affettivita` per antonomasia. A dire il vero, la sindrome depressiva non ha fatto il suo ingresso nella storia come disturbo dell’affettivita`, bensı` dell’umore (in altri paesi come mood disorder o Gemu¨tskrankheit), riferendosi cioe` all’antica idea di una discrasia umorale. In questa malattia causata dall’umore nero spiccavano, tra tanti altri sintomi, stati di “tristezza e

paura senza motivo”, vale a dire affetti non comprensibili come reazione normale agli eventi della vita. Negli ultimi 300 anni l’attenzione dei medici si e` andata gradualmente concentrando su questo vissuto emotivo, tant’e` vero che nell’Ottocento la vecchia diagnosi “melancolia” fu sostituita con quella di “depressione”. Alla sindrome depressiva e` dedicata una casella che dovrebbe contenere tutti quei quadri psicopatologici in cui prevalgono affetti alterati: non tanto affetti in qualche modo strani o inconsueti di per se´, quanto stati affettivi la cui presenza, intensita` o durata appare immotivata e incomprensibile. A cio` corrispose probabilmente l’intenzione di localizzare le regioni del cervello preposte a “produrre” il vissuto emotivo. Secondo un’ipotesi, ad esempio, le malattie cosiddette affettive deriverebbero da malfunzionamenti dei neuroni in aree cerebrali arcaiche, situate nel “cervello rettiliano” che rappresenterebbe quanto in noi rimane del mondo animale. Nel tentativo di fare una psichiatria psicodinamica, che colleghi cioe` la classica descrizione clinica con quanto sappiamo del mondo inconscio, ci troviamo paradossalmente a dover contestare la definizione della sindrome depressiva come disturbo degli affetti coscienti. Nelle forme depressive che richiedono l’intervento dello psichiatra, la realta` psichica si e` ammalata ben oltre il problema degli affetti consapevolmente vissuti, evidenziando lesioni e carenze complessive dell’immagine interna e del pensiero inconscio. Cercheremo quindi di esporre in seguito perche´ la tristezza (“l’umore depresso”) non e` sufficiente per fare la diagnosi di malattia depressiva. Per quanto riguarda poi l’eventuale nesso tra la depressione e gli affetti inconsci, esistono certamente forme depressive contrassegnate dalla presenza inconscia di affetti malati, da rabbia e odio. Ma cio` non vale per tutte le depressioni. In altri quadri la realta` psichica e` andata oltre questa castrazione psichica giungendo fino alla dissociazione, frammentazione, polverizzazione dell’immagine interna. Piu` in generale dobbiamo contestare il concetto che gli affetti facciano da ponte tra gli esseri umani e il mondo animale. Riteniamo, al contrario, che gli affetti da noi vissuti e le immagini interiori

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che inevitabilmente vi si connettono siano una caratteristica umana che ci distingue qualitativamente dagli animali. Ancora piu` fuorviante e` poi l’idea che le malattie psichiche derivino da un eccesso o dall’emergenza incontrollata degli affetti. E che, viceversa, il contenimento o addirittura l’assenza di affetti sia indice di sanita` mentale. Quanto appena detto ci porta al secondo significato della parola. Affettivita` intesa come capacita` libidica, ovvero come capacita` di rispondere affettivamente, con interesse e investimento sessuato, agli stimoli del mondo interumano. Quest’accezione, ben esposta nella pagine sulla metodologia che introducono questo capitolo, costituisce una novita` assoluta nella ricerca psichiatrica ed e` corredata da un concetto opposto che si pone con nitidezza: l’anaffettivita`. Proponiamo che i concetti psicodinamici di affettivita`/anaffettivita`, intesi come modalita` globali dell’individuo di rapportarsi ai suoi simili, possano gettare una nuova luce su molti aspetti delle malattie mentali. Tra l’altro, essi costringono a rivedere tutto il sistema d’inquadratura. ` per tale motivo che in questo capitolo discuE teremo quadri clinici che la psicopatologia classica non inserirebbe mai nella sua tradizionale casella dell’affettivita`. Tuttavia, se si considera la seconda accezione della parola – affettivita` «come attivita` che trae le sue radici da una realta` specificamente umana definita carica sessuale originaria» – sono quadri da considerarsi come disturbi dell’affettivita` a tutti gli effetti. Anzi, ne costituiscono addirittura il prototipo. Essi quadri vanno da un’improvvisa incapacita` di amare che il malato stesso segnala come problema (nella sofferenza depressiva), fino alla mancanza pressoche´ totale di affettivita` in alcune forme di disturbo della personalita`. Infine riteniamo che il concetto di anaffettivita` possa aprire la strada verso la comprensione dei disturbi schizofrenici, da sempre punto nevralgico e decisivo per l’identita` della psichiatria.

3. Aspetti psicodinamici delle depressioni di Annelore Homberg «In verita`, io non so il perche´ della mia tristezza... Come l’abbia presa, come l’ho trovata, di che

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sostanza e` fatta, da dove e` nata, devo ancora capirlo...». Nella terminologia in uso all’epoca del Mercante di Venezia (1597), Antonio, uno dei protagonisti, e` preda della melanconia. Il termine ci porta indietro nel tempo, al passaggio tra il V e IV secolo a. C., quando nella Grecia antica si inizio` a formulare il pensiero della “bile nera”. Pensiero che avrebbe influenzato l’operato medico per millenni, e per certi versi lo influenza ancora. Piu` che una realta` osservabile del corpo, quella strana sostanza nera rappresenta una metafora. All’inizio si pensava fosse il sangue andato incontro a una trasformazione patologica, ma poi essa diventa uno degli elementi costitutivi della cosiddetta tetrade umorale. Contemporaneamente, sanita` e malattia diventano una questione di equilibrio o squilibrio tra i quattro umori del corpo, e il pensiero sulla “melancolia”, cioe` sulla prevalenza della bile nera, si imposta secondo binari precisi: — Nella natura umana vi sarebbe implicita una componente tendenzialmente pericolosa, l’atra bile appunto, che va gestita mantenendone l’equilibrio con gli altri elementi dell’organismo. Quando l’equilibrio si rompe – per condizioni esterne sfavorevoli o per un’inappropriata condotta di vita – la bile nera invade il corpo provocando, oltre a diversi tipi di disturbi somatici, “tristezza e senza motivo”. — Una prevalenza costituzionale della bile nera, che non supera cioe` un certo livello quantitativo, secondo Aristotele non fa malattia ma porta al “tipo melancolico”. Con cio` viene introdotta la categoria dei temperamenti o caratteri costituzionali. — Il tipo melanconico avrebbe come caratteristica quella di creare e pensare cose nuove. Viene qui proposto un collegamento tra la presenza della bile nera e la creativita`. Secoli dopo, i “nati sotto Saturno” del Rinascimento italiano, la melancholy e lo spleen inglesi, il Weltschmerz romantico si riferiranno proprio a questo nesso, che colloca una qualita` positiva – la capacita` di creare idee e cose nuove – sotto quella spada di Damocle che condizionera` buona parte del pensiero futuro sull’artista e sul genio. Chi nasce con una prevalenza della bile nera e quindi con un talento

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creativo, rischierebbe piu` degli altri di cadere nella melancolia come malattia (1). Anche se il modello umorale delle malattie si dissolve con l’Illuminismo, tali principi continueranno a influenzare il pensiero medico. Sorprendente, ad esempio, e` l’analogia tra l’immagine della bile nera quale fonte interna di pericoli della quale non ci possiamo liberare, e la concezione dell’inconscio tracciata da Freud alla fine dell’Ottocento. E se oggi, nel secolare oscillare della nostra disciplina tra approcci piu` globali alla psiche e ristretta visione organicista, l’ideologia organicista sembra di nuovo preponderante, va detto che anch’essa ripropone l’antica idea di una discrasia, che questa volta riguarderebbe i neurotrasmettitori. In alcuni contesti di divulgazione di massa, brutalmente tale squilibrio viene detto essere di ordine genetico, non causato cioe` in alcun modo dall’esterno. Piu` cautamente, i manuali specialistici parlano di una multifattorialita`. Esattamente come 2.500 anni fa, quando si proponeva che una miscela imponderabile di fattori alimentari, climatici, costituzionali e comportamentali fosse la causa per l’impazzimento della bile nera.

3.1. Perche´ rifiutiamo l’impostazione organicista Ci e` impossibile accettare l’equazione secondo la quale la familiarita` di un disturbo sarebbe sinonimo di ereditarieta`. Se cosı` fosse, anche l’attuale malnutrizione nel terzo mondo sarebbe un disturbo ereditario. Ma nonostante la sua palese incongruita` e malgrado il fatto che le ricerche genetiche hanno sempre portato e continuano a portare a risultati addirittura opposti (2), la falsa equazione continua a venir riproposta. Condannando il depresso all’idea di essere affetto da una malattia cronica su base genetica, di cui si possono abbreviare e mitigare i singoli episodi, ma che in toto risulterebbe incurabile. E non ce la sentiamo neppure di sostenere che piove perche´ siamo usciti con l’ombrello. Vale a dire, continuo a pensare che sono depressa e per questo ho “la serotonina bassa”, e non il contrario. Un determinato vissuto interno, i nostri affetti e le realta` pulsionali si legano necessa-

riamente a continue modificazioni biochimiche del cervello, ma non e` lecito rovesciare l’affermazione e sostenere che i vissuti psichici altro non siano che la sovrastruttura di casuali cambiamenti biochimici. Tuttora mi batte forte il cuore dopo che ho incontrato un uomo. Difficilmente un uomo mi piace perche´, prima che ne sospettassi l’esistenza, per motivi del tutto ignoti l’adrenalina mi e` andata alle stelle. Se qualcuno in quell’istante mi somministra un calmante, forse il battito cardiaco diminuera`, ma continuero` a essere attratta da quell’uomo. In altre parole: anche quando si riesce a migliorare il tono dell’umore con l’aiuto degli antidepressivi, la realta` interna che sostiene la depressione, pur meno visibile, continuera` a esistere. Possiamo dire che, come tutte le droghe, gli psicofarmaci sono in grado di intervenire su alcuni aspetti quantitativi della realta` psichica, accelerandone o rallentandone lo svolgimento, diminuendo o aumentando l’intensita` percepita. Ma non cambiano qualitativamente la psiche, in particolare non cambiano la struttura e i contenuti del pensiero inconscio. Non e` quindi corretto sostenere che i farmaci abbiano una funzione riequilibrante perche´ colmerebbero ipotetiche carenze dei neurotrasmettitori cerebrali. L’intervento farmacologico consiste, al contrario, nell’indurre un’alterazione artificiale dei processi biochimici nel cervello. In altre parole, i farmaci alterano processi che come tali non sono affatto patologici, ma accompagnano adeguatamente gli affetti e le immagini inconsce che fanno la depressione. Cosı` come, ripetiamo, l’aumentato tasso di adrenalina e la tachicardia, che ne consegue, non costituiscono una malattia, bensı` sono del tutto coesi al mio vissuto di attrazione per un uomo. Da tutto cio` deduciamo che non esistono motivi logici per ritenere che il cervello del depresso presenti alterazioni funzionali o lesioni microstrutturali. Fatta eccezione per quelle depressioni che insorgono in concomitanza con una malattia organica del cervello, partiamo dall’affermazione che nella depressione l’organo cervello e` perfettamente integro. Oltre a queste considerazioni di pura e sem-

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plice logica, la nostra specificita` di essere psichiatri fornisce ulteriori motivi per rifiutare il modello organicista. La vecchia argomentazione secondo la quale la depressione grave non si legherebbe ad alcun evento particolare nella vita del depresso e` infatti sostenibile solo se lo psichiatra non si riferisce al paziente nella sua totalita`, ma ne ritaglia unicamente gli aspetti dimostrabili agli occhi degli altri. Lo psichiatra si limita a fotografare e pesare, ad appuntare sul foglio le affermazioni coscienti del paziente. Quanto nel malato non puo` essere registrato e documentato in maniera riproducibile non lo riguarderebbe, cosı` come il cardiologo non e` interessato ai sogni del cardiopatico. Sulla base della nostra storia personale e di formazione dobbiamo invece sostenere che e` proprio lı`, nel mondo delle immagini sognate e agı`te, degli affetti e dei moti pulsionali sconosciuti allo stesso malato, che si radica la realta` violentissima della depressione. Solo a patto di tentare di conoscere e di dinamizzare questa realta` detta inconscia, lo psichiatra potra` scoprire che non esistono depressioni senza causa. Tutte le depressioni – anche le piu` gravi, anche le forme che si alternano agli stati maniacali – sono “reattive”: nel senso che e` una caratteristica dell’essere umano avere reazioni agli stimoli del suo ambiente che possono essere totalmente sottratte all’osservazione cosciente. Va subito aggiunto che il nostro inconscio reagisce anche a stimoli che esulano completamente dagli elenchi dei cosiddetti “eventi stressanti della vita”. Reagiamo al contenuto piu` nascosto delle cose interumane, al senso delle immagini e dei movimenti in cui ci imbattiamo, e puo` cosı` accadere che, per il solo fatto di aver visto un altro essere umano muoversi e ridere in un certo modo, veniamo presi dal desiderio... o dalla depressione.

3.2. Abraham, Freud, Klein Ma se cosı` e`, se la causa delle depressioni sta nell’inconscio, perche´ a tutt’oggi, dopo cento anni di psicoanalisi, la depressione e` un enigma? Tra l’altro, se gli esistenti studi sull’inconscio avessero

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risolto il problema, non vi sarebbero motivi per l’attuale rifioritura del pensiero organicista. Non possiamo tentare qui una risposta esauriente, ma effettivamente sembra che le scuole analitiche classiche abbiano abdicato di fronte alla depressione, lasciando la depressione maggiore, che sarebbe di natura organica, in mano agli psicofarmacologi. Per quanto i motivi di questo ritiro siano molteplici, vale forse la pena accennare a tre autori che hanno impostato una teoria della depressione che evidentemente non e` stata in grado di portare a conoscenze valide. All’inizio del Novecento e` Karl Abraham il primo a trattare gravi pazienti maniaco-depressivi con i nuovi principi psicoanalitici. Egli evidenzia in loro affetti molto violenti, in particolare l’odio, e immagini sognate o fantasticate che si legano al tema del cannibalismo. Al divorare, intero o a pezzi, un altro essere umano. Queste osservazioni vengono per cosi dire bloccate da Sigmund Freud. Si ignora quanti pazienti depressi egli abbia trattato, ma nel 1917 Freud risponde ad Abraham con il saggio Lutto e malinconia. Per tutti gli anni a venire questo scritto condizionera` il pensiero sulla depressione, legandola a una perdita d’oggetto e alla “scelta oggettuale su base narcisistica” (al fatto di aver perso, materialmente o simbolicamente, qualcuno o qualcosa a cui si teneva perche´ conferiva validita` alla propria persona). Dei vari aspetti clinici della depressione, Freud sceglie quello delle autoaccuse. In verita` esse sarebbero accuse che il depresso rivolge all’oggetto perduto e per questo introiettato (forse sarebbe meglio dire: che il malato fantastica inconsciamente di aver introiettato e di avere quindi dentro di se´). Dal punto di vista clinico la scelta di considerare l’autoaccusa come sintomo guida di tutti vissuti malinconici, e` piu` che opinabile. E sottolineando come tutto il processo debba necessariamente partire dal vissuto di una perdita, Freud elimina l’idea che la depressione possa essere anche la reazione inconscia alla comparsa di qualcosa. In seguito Abraham s’adeguera` e individuera` nella tendenza del depresso a “introiettare” l’oggetto, la regressione ad una primordiale fase

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orale nella vita di tutti, fase in cui amare l’altro sarebbe tutt’uno con il divorarlo e quindi distruggerlo. La fissazione a questa prima fase orale sarebbe tipica per il futuro depresso e avverrebbe su base sia traumatica che costituzionale. Con cio` si aprono le porte all’antico typus melancholicus, ma anche a spiegazioni ereditarie. La sua allieva Melanie Klein riprendera` poi l’idea di una fase evolutiva percorsa da tutti, quando concettualizza la cosiddetta “posizione depressiva” che tutti vivrebbero a partire dal sesto mese di vita. Il depresso per cosı` dire tenderebbe a ricadervi perche´ un tempo non e` riuscito a superarla con successo (3).

3.3. Sprofondare nelle sabbie mobili ` importante tener presente che le depresE sioni non delineano un’entita` nosografica ben precisa, ma sottintendono un ambito vasto e sfumato. Tant’e` vero che nei manuali classici la depressione era l’unico argomento a essere discusso sia nella parte dedicata alle nevrosi, sia nei capitoli sulle psicosi. Essa e` considerata la malattia dell’umore o dell’affettivita` per eccellenza, e il cosiddetto abbassamento del tono dell’umore ne sarebbe l’elemento patognomico. Gli attuali schemi nosografici, come il DSM, propongono elenchi di sintomi osservabili su cui apporre crocette, e la diagnosi sarebbe sicura se queste superano un certo numero. Fino a poco tempo fa, la diagnosi richiedeva invece che vi fossero tre ordini di sintomi. L’abbassamento del tono dell’umore era considerato il sintomo guida, ma vi dovevano essere ugualmente un rallentamento psicomotorio che riguarda ovviamente il comportamento e il vissuto psicofisico, e l’orientamento del pensiero in senso depressivo, vale a dire un disturbo del pensiero che dalla tipica autosvalutazione del depresso giunge fino alla presenza di un delirio depressivo vero e proprio. Che cos’e` allora la depressione, un disturbo dell’umore, del vissuto somatico, del comportamento, del pensiero? ` certo e` che alla fine risulta un quadro di E sofferenza piu` o meno accentuata, che s’accompa-

gna ad un vissuto anche corporeo di pesantezza. Tristezza, sofferenza, pesantezza, distruzione sembrano quindi termini adatti a delineare il vissuto depressivo. Ma se consideriamo solo le prime tre parole, ci imbattiamo nel problema di dover stabilire quale sia un “giusto” tono dell’umore. E dovremmo saper indicare con esattezza quanta sofferenza fa parte della vita normale, e quando essa diventa indice di malattia.

3.3.1. La felicita` e` un totale inganno

Per indicare quanto sia fondamentale chiarirsi le idee su questo punto, riportiamo una recente intervista del collega M. Fagioli sul tema. «Una volta stabilito il limite della depressione come stato conclamato di malattia, per il resto ciascuno oggi si fa la diagnosi per conto proprio. Basta un abbassamento del tono dell’umore, un malumore, che scatta l’autodefinizione di depressione. Consideriamo allora questa situazione chiamata depressione, per differenziarla dal suo opposto. Cos’e` questa non-depressione: contentezza, gioia, iperattivita` oppure, addirittura, felicita`? Va subito detto che questa cosiddetta felicita` potrebbe nascondere uno stato ancora piu` patologico che e` l’euforia, l’esaltazione. Esiste poi un’altra non-depressione ancora che e` l’anaffettivita` o schizoidia. Una situazione, molto piu` grave della cosiddetta depressione, nella quale la persona non avverte alcun malessere ed evidenzia un comportamento ineccepibile, ma e` priva di qualsiasi rapporto con gli altri basato sulla ‘‘timia”, sulla dinamizzazione degli affetti. Puo` essere una realta` socialmente auspicabile, ma umanamente e` pericolosa. La non-depressione, questa cosiddetta condizione normale, che cos’e`? Anaffettivita`, oppure, in alternativa, euforia, esaltazione, fino ad arrivare agli stati ipomaniacali? Cantare dalla mattina alla sera? Sui parametri fisici del benessere oggi c’e` un certo accordo; sappiamo, ad esempio, che necessitiamo di 22 gradi ambientali. Nei riguardi della depressione vige invece un difetto di pensiero.

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Sarebbe un abbassamento del tono dell’umore e se ne parla come se fosse il livello dell’acqua. Come se si sapesse benissimo qual e` il tono dell’umore normale, e non e` vero. ` un momento Lo stesso vale per la felicita`. E di soddisfazione, prendere il sole, godersi una doccia fredda d’estate? Forse no. Si lega all’essere riusciti a realizzare qualcosa? A un rapporto d’amore riuscito o comunque alla realizzazione di una cosa bella? Forse nemmeno dopo realizzazioni massime di questo tipo c’e` la felicita`, piuttosto uno stato d’animo, difficilmente definibile, di calma, autostima, di stare bene. Tuttavia, se il benessere e` abbastanza definibile per quanto riguarda la realta` fisica, rispetto alla realta` psichica la definizione diventa nuovamente difficile. Qualche volta, ripeto, e` solo apparente perche´ esistono persone che non sono depresse e quindi sembra che stiano bene, ma sono totalmente anaffettive. Osserviamo, tra l’altro, che molti scivolano in questa anaffettivita` perche´ non sopportano la depressione. Questo e` un punto importante anche come fenomeno sociale: non si sopporta la depressione. Lo psichiatra deve saper distinguere quando un vissuto depressivo e` malattia, e allora deve intervenire. Quando si tratta invece di “altra” depressione, bisogna che vada cauto. Altrimenti avalla la cultura delle droghe, della pillola della felicita` comprata per un malumore qualsiasi. Una situazione deleteria, perche´ la dimensione patologica non sta nella cosiddetta depressione, che anzi e` fatta di insoddisfazione e di esigenze non realizzate che potrebbero spingere a una ricerca. Patologica e` l’idea immediata di assumere sostanze chimiche piuttosto che cercare il rapporto interumano e una spiegazione del malessere. Si vuole subito la felicita`, felicita` che si traduce in uno stato di intossicazione maniacale. Una ricerca fatta con altri esseri umani non dara` euforia, ma porta a uno star bene certamente maggiore. Dato che non viviamo in un paradiso terrestre, non c’e` niente di malato in molte situazioni di cosiddetta depressione, a patto che non diventino depressioni patologiche di competenza psichiatrica.» (4)

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3.3.2. Ho sognato che avevo il sangue nero

A differenza della scuola psicoanalitica fondata sul pensiero di Freud, riteniamo che l’essere umano formi il suo Io nel momento della nascita, ed e` un’identita` primordiale, una prima realta` di immagine interna che e` certamente fragile, ma ` nella continua non frammentata ne´ asociale. E dialettica con altri esseri umani che questo Io naturalmente portato al rapporto percorrera` le tappe successive del suo sviluppo, dall’allattamento allo svezzamento, fino alla crisi puberale. Quella realta` detta inconscia si e` mostrata diversa da quanto si e` sempre pensato, che fosse cioe` il regno inespugnabile di pulsioni ostili al principio di realta`. Sappiamo oggi che l’inconscio e` in continuo rapporto con la realta` circostante e costantemente reattivo alle esperienze interumane. Dopo ogni separazione da un’esperienza importante di rapporto, quest’ultima verra` trasformata in un ricordo che non e` solo raffigurazione cosciente, ma anche immagine inconscia. E come tale contribuira` alla trasformazione, precisazione oppure, al contrario, all’imbruttimento dell’Io. L’inconscio va pensato come sede di pulsioni, affetti, immagini e pensieri, espressi tramite immagini, che fanno il nostro rapporto piu` profondo e valido con la realta` umana, anche se questa originaria capacita` di rapporto e conoscenza puo` rovinarsi in seguito alle delusioni subı`te da altri esseri umani. Quest’impostazione, convalidata dalla clinica, ha importanti conseguenze quando affrontiamo il mondo onirico dei nostri pazienti. Se conosciamo l’esperienza di rapporto che il malato ha vissuto, le immagini da lui raccontate ci permetteranno di comprendere come egli ha elaborato questo rapporto. Possiamo cioe` cogliere com’e` fatta, in quel momento, la sua realta` psichica piu` profonda, quella realta` nascosta che puo` rendere le cose piu` belle ma che le puo` anche imbruttire. Che e` capace di straordinarie intuizioni, ma che in caso di malattia dell’inconscio nega o fa addirittura sparire internamente il vissuto. (5) La paziente scopre di avere il sangue nero. Raccontato all’interno della relazione terapeu-

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tica, il sogno racconta della sua reazione a uno stimolo che e` la realta` umana del medico stesso. Confrontandosi con questa realta` che avrebbe il sangue rosso, cioe` sarebbe caratterizzata da vita e calore, la paziente inconsciamente si dichiara diversa e, possiamo dire, carente. Il suo sangue e` diventato nero: lei ha fatto sparire, ”annerito”, reso inesistente in se´ questa dimensione di vitalita`, calore, movimento. L’esempio permette di proporre il pensiero che alla base di ogni vissuto depressivo si trovi una reazione a uno stimolo interumano, che sfocia nella constatazione inconscia di una carenza. ` per una carenza negli affetti, nell’immagine, E della sessualita` o del pensiero sulla realta`, che il depresso non riesce a stabilire un rapporto valido con lo stimolo nuovo; non riesce, possiamo dire, a conoscerlo per quello che e`. A questa constatazione di carenza corrisponde un vissuto psicofisico, piu` o meno grave, di abbattimento, pesantezza e sofferenza che e` tipico della depressione. Questa sofferenza si discosta dal vissuto di dolore. Il dolore fisico porta rapidamente ad individuare il punto del corpo che fa male e a toglierci le scarpe troppo strette. Il vissuto malamente indicato come sofferenza depressiva tende invece a indurre una ricerca diffusa, e` la molla per una dinamizzazione di tutte le forze alla ricerca di qualcosa che e` sentito, ma per ora non ben localizzabile. Il pensiero di una carenza alla base del vissuto depressivo – carenza che per altro non e` congenita, ma prodotta dal depresso stesso che ha annullato o grandemente negato le sue dimensioni originariamente valide – getta una nuova luce sul nesso freudiano tra depressione ed esperienza di perdita. Possiamo considerare che la perdita subita non sia di per se´ l’elemento causale, ma che faccia scoprire una carenza sottostante di identita` umana. Quanto perduto – danaro, posizione sociale, lavoro, fidanzate, mariti, prestigio, potere – funzionava da stampella e, venuto a mancare l’appoggio, la realta` dell’individuo si scopre variamente zoppicante. Per gravi difetti strutturali, ma a volte anche per il solo fatto di prestare troppo ascolto ai luoghi comuni profusi dagli altri. Non e` quindi a causa di questa o quell’altra

perdita che si cade in depressione o, peggio, ci si uccide e si uccidono altre persone. Le situazioni di perdita costringono piuttosto a scoprire le carte, e qualora queste carte dovessero rivelarsi lacere, la cura non passa attraverso la restituzione delle cose perdute, ma richiedera` il recupero e la realizzazione dell’identita` interna.

3.3.3. Depressioni fisiologiche

Possiamo servirci di questo termine paradossale per indicare una situazione interna in cui la carenza, smascherata da uno stimolo nuovo dell’ambiente interumano, e` relativa e storicamente determinata. Quest’evenienza ci porta immediatamente a introdurre un concetto che riguarda una fondamentale caratteristica della psiche umana: quella di essere in continua evoluzione e trasformazione. Mentre il nostro corpo ha raggiunto il suo massimo di completezza e funzionalita`, altrettanto non puo` essere detto della realta` psichica. La cosa e` di notevole interesse per la psichiatria, perche´ dobbiamo tener conto del fatto che, psichicamente parlando, quel che andava bene fino a ieri, oggi potrebbe non essere piu` sufficiente e quindi scatenare una sensazione di carenza. Alcune statistiche rilevano che, a differenza del passato, oggi sono in maggioranza le donne ad essere depresse. Nel valutare questo dato, come non tener conto del fatto che nel corso dell’ultimo secolo le possibilita` di realizzazione delle donne sono molte cambiate? In epoca vittoriana, ad esempio, una donna frigida non solo era esonerata dal viversi come carente, ma incarnava addirittura un ideale sociale. Oggi invece, nell’epoca dei contraccettivi, l’inconscio di molte donne considera inaccettabile un’eventuale mancanza di liberta` e desiderio, e la contraccambia con un vissuto depressivo che punta il dito su una piaga che giustamente andrebbe affrontata. Con il termine “depressione fisiologica” ribadiamo il concetto che queste condizioni sono potenzialmente evolutive, nel senso che il vissuto di sofferenza puo` indurre la persona a ribellarsi a quanto e` storicamente superato, ad andare verso una trasformazione interna che colmi la carenza.

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Se lo psichiatra etichetta come malattia questo tipo di situazione che ha in se´ la possibilita` di una ricerca, egli si mette tragicamente al servizio dell’esistente. Contribuisce a soffocare un potenziale di critica ed evoluzione che deriva da quanto di piu` prezioso gli esseri umani portano in se´.

3.3.4. L’oppressione

Come forma particolare di depressione non patologica consideriamo una situazione che si viene a creare ogni qual volta la carenza interna derivi da un passaggio non ancora avvenuto. Grazie a una generica sensibilita`, intatta e conservata, la persona avverte una dimensione di negazione o annullamento in chi la circonda, ma non e` in grado di tradurre questo suo sentire in una conoscenza verbalizzata. La situazione opprimente viene vissuta con una sofferenza anche del corpo, con un senso di pesantezza e rallentamento, ma non si riesce a formulare un pensiero su quel “tu non sei quello che sei” che l’altro propone: sulla violenza psichica subı`ta. Questo quadro, che andrebbe particolarmente considerato quando il medico visita un bambino dichiarato depresso, non e` di per se´ patologico, in quanto la mancanza di parole che diano la conoscenza, il fatto di non saper ancora “dare il nome alle cose” costituiscono una carenza relativa che l’evoluzione futura potra` sempre colmare. Tuttavia, una diagnosi violenta di depressione e malattia fatta dagli altri puo` precipitare le cose, fino al punto in cui l’individuo perde ogni fiducia nel proprio sentire, oppure annienta addirittura questa sua sensibilita` aderendo al falso giudizio degli altri. Da oscillazione del tono dell’umore, la depressione si trasforma in alterazione del pensiero inconscio. (6)

3.3.5. Malattia mortale

Vi e` pero` un punto, non facile da individuare, in cui viene meno la capacita` di reagire alla sofferenza dinamizzando un atteggiamento di ricerca. ` il punto in cui inizia la depressione come maE

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lattia. Ed e` qui che lo specialista deve intervenire in quanto il depresso da solo non puo` piu` nulla, caduto com’e` in un’inerzia che e` disperazione di non poter mai conoscere. Il malato non riesce piu` a creare alcun movimento interno. Possiamo pensare che gli affetti inconsci, soprattutto l’odio intensissimo diretto contro uno stimolo interumano, abbiano portato a una paralisi interna, che puo` esprimersi con il quadro clinico dello stupor. (7). «L’angoscia della distruzione e` il motivo del blocco stuporoso di ogni depresso che ha paura di distruggere l’oggetto dell’amore.» (8). Puo` tuttavia accadere che la violenza interna si volga verso l’esterno e diventi distruttivita` manifesta. Non scisso tra corpo e mente come lo sono altri malati mentali, il malato di depressione tramuta l’odio con cui ha reagito allo stimolo esterno in arma contro se stesso. Si distrugge esistenzialmente, con scelte autolesive di rapporto, ma anche materialmente: colpendo le proprie possibilita` economiche oppure la sua realta` fisica con l’abuso di alcool e stupefacenti. Fino all’autodistruzione completa che e` il suicidio. La realta` clinica con cui lo psichiatra si cimenta ogni giorno e` complessa, nella misura in cui si riscontrano spesso, forse prevalentemente, forme in cui elementi di depressione si mescolano ad altre dimensioni psicopatologiche. Frequentemente il quadro psicodinamico e` sporco, nel senso che vi sono elementi di una frammentazione inconscia che s’accompagnano a stati di angoscia e connettono queste “depressioni agitate” all’ambito delle psicosi dissociative. Infine sono da prendere in considerazione le situazioni in cui lo stato depressivo si alterna a fasi di euforia o eccitamento maniacale. E quell’altra situazione ancora in cui la depressione ha assunto la forma di un delirio, con convinzioni non criticabili di colpa, rovina o indebitamento che coartano la vita del malato. Per quanto sia schematico, ci sembra tuttavia possibile enucleare una condizione clinica che potremmo denominare il vero depresso. Un’immagine che rende quanto vorremmo delineare e` la figura del cavaliere nel “Settimo sigillo” di

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ingmar Bergman, impegnato in una partita a scacchi con la morte. Accade raramente che un simile depresso “puro” si rechi dallo psichiatra. Dotato di un certo spessore affettivo – al contrario della personalita` razionale o fatua – e con una struttura interna portata alla ricerca, egli tende a tenersi le cose per se´. Non chiede quindi aiuto a nessuno, nemmeno ai familiari, superbo forse del fatto che e` capace di reggere a lungo situazioni interne di sofferenza. Grazie alla sua serieta` e capacita` di dedizione puo` fare cose egregie nel suo campo d’applicazione. Meriti che tuttavia non gli sono di alcun sollievo in quel momento in cui, esposto a un elemento frustrante della realta` interumana, si trova preda di una spaventosa violenza interiore: “un corridoio colmo di coltelli conficcati nei muri con le lame rivolte verso di me”. Alla lunga, ma a volte forse anche a causa di un’improvviso corto circuito, questo tumulto di affetti violentissimi puo` far sembrare che la so` probabile che, quapravvivenza sia impossibile. E lora la morte dovesse vincere la partita, un depresso “vero” uccida solo se stesso. Risparmiera` la vita degli altri, anche se il suo gesto va letto comunque come attacco frontale agli altri, alle loro possibilita` di benessere e realizzazione.

cale indicano un ulteriore peggioramento della situazione. Nella psicoterapia della malattia maniaco-depressivo e` quindi importante raggiungere un punto a partire dal quale il paziente riesce a tenere la depressione, senza cadere nella frammentazione interna e nell’agire euforico. Tra le situazioni piu` tragiche che si possono incontrare in psichiatria, sono i casi di suicidioomicidio commesso da pazienti depressi. Tipico e` il caso della madre che uccide i propri figli e poi tenta di sopprimere se stessa. Piu` frequentemente si tratta di patologie con presenza di un delirio depressivo, per cui rimandiamo alle considerazioni sul delirio contenuto in questo manuale. Aggiungiamo solo quanto sia ingannevole l’idea, che pure si offre veloce, che il depresso abbia voluto portare con se´ le persone a cui teneva particolarmente, perche´ nel suo delirio credeva che non avessero futuro. Dobbiamo invece pensare che non vi e` alcun amore, per quanto grottescamente distorto, nel gesto della soppressione. La realta` dell’omicida-suicida va concettualizzata come una situazione di onnipotenza inconscia, che fa decidere sulla sorte degli altri come se essi fossero degli oggetti di cui si ha il possesso.

3.5. Come si cura la depressione? 3.4. Oltre la depressione Una paziente con trascorsi episodi depressivi inizia una breve fase di eccitamento maniacale con il sogno di cadere dalla bicicletta che poi si disintegra. Aveva cioe` perduto la sua dimensione di vitalita` (la bicicletta) in reazione ai segni dell’incipiente puberta` del figlio, da lei prontamente negati e annullati in quanto non accettava la prospettiva di autonomia e separazione dai genitori che ogni puberta` comporta. Cio` aveva pero` portato a una polverizzazione dell’immagine interna. Constatando il passaggio dalla grave perdita di vitalita` alla frammentazione inconscia e al successivo quadro di eccitamento, possiamo ribadire che quel tanto di affettivita`, che nel vissuto depressivo e` ancora conservato viene a mancare del tutto nel viraggio maniacale. Psicodinamicamente parlando, l’euforia e l’esaltazione mania-

Con il rapporto di psicoterapia. L’affermazione non autorizza atteggiamenti euforici ne´ ci affranca dal modo abituale di porsi in medicina. La sindrome depressiva va affrontata con la stessa impostazione con cui, ad esempio, un internista guarda ai tumori. Per la prognosi da lui enunciata conta ovviamente la tipologia del tumore, ma anche la sua estensione e diffusione nell’organismo. In analogia, e` diversa la condizione clinica di chi vive un primo crollo depressivo rispetto a chi da anni attraversa gravi fasi depressive, avendo gia` sperimentato una serie di ricoveri e interventi farmacologici. ` facile dedurre da cio` quanto sia importante E riconoscere e affrontare le malattie psichiche quando sono ancora agli esordi. Va pero` tenuto presente che la psiche umana evidenzia margini d’imprevedibilita` che il nostro corpo in genere

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non possiede. In medicina organica una prognosi infausta e` il risultato di una serie di parametri oggettivi, mentre in psichiatria non possiamo mai escludere che un paziente grave, “senza speranze”, possa trarre un inaspettato giovamento dalla terapia. In cio`, il principale elemento prognostico favorevole di cui disponiamo e` forse la constatazione di una reattivita` del paziente alla situazione di rapporto che noi gli dobbiamo comunque proporre. In secondo luogo, la priorita` accordata alla psicoterapia non va intesa come una presa di posizione ideologica contro l’uso dei farmaci. In determinati contesti puo` essere realistico prescriverli, ad esempio quando il paziente deve affrontare la vita quotidiana e il rapporto terapeutico non e` ancora sufficientemente valido per permettere cio`. Considerazioni analoghe valgono per il ricovero: in certi momenti, soprattutto quando esiste un pericolo acuto per la vita, esso va messo in atto. Quel che conta, e` un’impostazione metodologica corretta secondo la quale sono i farmaci ad essere coadiuvanti del lavoro di psicoterapia, e non viceversa. Sia gli antidepressivi che il ricovero sono misure d’urgenza e di vigilanza che hanno un senso unicamente nella misura in cui creano i presupposti per la realizzazione del rapporto terapeutico.

3.6. Un cobra velenoso Quando parliamo di psicoterapia delle depressioni, ci riferiamo a una metodologia precisa. La psicoterapia non puo` consistere in un generico atteggiamento di sostegno e empatia, che anzi nel caso del depresso risulterebbe particolarmente dannoso. Come abbiamo detto sopra, il paziente depresso alberga in se´ una notevole violenza psichica. Quando il depresso parla delle sue colpe, lo psichiatra deve quindi sapere che, per certi versi, egli ha ragione, anche se le autoaccuse, espressione di un Super-Io menzognero, non colgono o piuttosto servono a nascondere le reali carenze dell’Io. Tenendo presente che questo Io deriva dall’identita` della nascita e non da identificazioni con le figure genitoriali, possiamo cosı` dire che il depresso sente una reale mancanza

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di realizzazione, sulla quale e` necessario indagare. Tuttavia, all’inizio del lavoro il terapeuta non sa quale degli infiniti stimoli del mondo interumano possa aver scatenato la reazione depressiva. Puo` comprendere la dinamica inconscia solo qualora riesca a dinamizzare un viraggio che e` fondamentale: il paziente giunge al punto in cui il senso di carenza si scatena nei confronti della realta` umana del suo medico. ` lı` che inizia quel che potremmo chiamare il E transfert negativo, intendendo con cio` il fatto che il paziente inizia a percepire che il terapeuta non e` come lui. Non e` depresso o angosciato, e le sue interpretazioni del rapporto inconscio veicolano un contenuto di costanza, resistenza, coerenza, ` a questa diversita` del interesse reale per l’altro. E terapeuta che il depresso reagira` con ostilita`, in particolare con la dinamica della negazione che e` riassumibile come pensiero inconscio del tipo “tu non sei quello che sei”. Sostenere, affrontare, superare il transfert negativo, “quando nella stanza s’aggira un cobra”, e` il perno di ogni lavoro psicoterapeutico. Nel caso della depressione e` importante per un duplice motivo. In primo luogo, perche´ l’instaurarsi del rapporto inconscio violento permette al depresso di non rivolgere piu` l’odio contro se stesso, ma contro un altro essere umano che e` in grado di sostenerlo senza venirne distrutto. L’aspettativa inconscia del depresso grave nei confronti del rapporto interumano e` infatti caratterizzata dall’idea della distruzione. Nella misura in cui egli pensa che il rapporto con il medico lo rovinera`, e` ovviamente importante che cio` non accada. Dato che il pensiero immediatamente successivo sara` quello che egli, il depresso, distruggera` il medico, e` altrettanto fondamentale che il terapeuta sappia sostenere il rapporto senza andare incontro a lesioni e danni nell’identita`. (9) Al contempo, l’interpretazione del transfert negativo fornisce al paziente un filo metodologico che e` promessa e speranza di una conoscibilita`. Lo toglie in altre parole dalla disperazione di non poter mai conoscere. Possiamo considerare l’atteggiamento della ricerca come una sottile linea di demarcazione che separa le situazioni psichiche attigue dalla malattia mentale. Il malato incon-

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sciamente non ha piu` alcuna speranza di poter comprendere quanto gli e` accaduto, e forse per questo e` quasi sempre convinto, nell’inconscio, di ` quindi fondamentale per l’eessere incurabile. E sito della terapia che il paziente realizzi di nuovo la possibilita` di una ricerca, ricerca sulla propria realta` interna e sulla vera natura dei rapporti interumani. Quanto appena detto pone ovviamente il problema della formazione dello psichiatra. Per realizzare un’identita` terapeutica che sappia suscitare e affrontare il transfert negativo senza cadere in diverse forme di rassegnazione (tra cui la cosiddetta sindrome del burn out), pensiamo che la formazione debba andare molto oltre cio` che attualmente viene insegnato nelle scuole di specializzazione. Prima di tutto e` indispensabile che lo psichiatra faccia un lavoro personale che lo guarisca da eventuali dimensioni psicopatologiche. Inoltre deve disporre di strumenti teorici e metodologici che lo mettano veramente in grado di affrontare la violenza psichica dei pazienti, ma anche di non deluderne le speranze.

3.7. L’affettivita` Se cerchiamo quali difetti dell’Io inconscio si nascondono dietro il vissuto depressivo, possiamo incontrare una moltitudine di manchevolezze dell’essere, dell’immagine interna. Ma vorremmo chiudere con l’accenno ad un’ipotesi recente, secondo la quale tutte le carenze potrebbero condurre a un unico problema di fondo che e` l’anaffettivita` . L’impossibilita` di conoscere in cui il depresso e` caduto e` sempre anche un’incapacita` di amare. Come e` gia` stato detto nell’introduzione metodologica a questo capitolo, il concetto psicodinamico di affettivita` non ha nulla a che vedere con termini come affettuosita`, essere “buoni”, o ` con un atteggiamento vagamente assistenziale. E una realta` interna, di volere che l’altro umano sia (e, al contrario, di non accettare che egli non e` quel che potrebbe essere), che riconduciamo ad una dimensione libidica, di vitalita`, insita nella nascita umana. (10)

In questo senso possiamo riprendere il tradizionale nesso tra depressione e affettivita`, dovendo pero` specificare che nella depressione vi e` una carenza di affettivita` che il malato sente e segnala con la sua sofferenza. Quando una paziente depressa, bionda, sogna di avere le radici dei capelli neri e il resto della capigliatura ossigenato, possiamo pensare a una realta` di questo tipo. Ella comunica che alla base di cio` che ha in testa, del suo pensiero cioe`, vi e` attualmente una realta` di annullamento del “biondo naturale”. In altre parole, il suo pensiero si e` sviluppato annullando un’originaria dimensione libidica e partendo quindi da un substrato di anaffettivita`, il che rende finto il suo desiderio e interesse per gli altri. «Il suo pensiero e` una nascita mostruosa che si realizza per la morte di cio` che la precede.» Tuttavia, interpretando e frustrando le dimensioni negative che hanno portato alla perdita di questa originaria realta` affettiva, il lavoro terapeutico puo` fare sı` che l’inconscio la recuperi. Che ritrovi i propri bambini perduti. Quando parliamo della possibilita` di guarire dalla depressione, non possiamo quindi considerare la sola remissione dal singolo episodio depressivo. Solo nella misura in cui le immagini inconsce del paziente e la struttura del suo pensiero sono qualitativamente cambiate, vi e` la realistica prospettiva che non vi saranno ricadute. Solo se si e` innescata l’invisibile spirale tra capacita` di amare e possibilita` di conoscere, il paziente potra` sostenere le crisi della vita futura senza angoscia di ricadere nelle malattia.

4. Affettivita`: la psicodinamica di Andrea Masini Proporre che il “Disturbo antisociale di personalita`” e` un grave disturbo dell’affettivita`, mi rendo conto, costituisce una novita` nella classificazione dei disturbi psicopatologici. Ma ormai si sta facendo sempre piu` evidente nella ricerca psichiatrica attuale il fatto che la base di molti disturbi noti e` una patologia della sfera affettiva. La perdita dell’affettivita` nella nota dizione di anaffettivita` sembra essere schematicamente il

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tratto fondamentale di questo disturbo, che puo` strutturarsi in sindrome oppure attraversare trasversalmente molti altri disturbi come fattore prognostico negativo5; la perdita e non la alterazione di questa sembra distinguerla da altri disturbi propriamente e classicamente riferiti agli affetti come la depressione e la mania. Il disturbo antisociale di personalita` viene classificato attualmente nel DSM-IV tra i disturbi di personalita`; il manuale individua, come e` nel suo stile, una serie di disturbi del comportamento e cerca con questi di ottenere dei criteri il piu` possibile obiettivi cosı` da rendere questa diagnosi una tra le piu` affidabili e riproducibili di tutta la classificazione. Non si occupa, al contrario, della descrizione della personalita` di questi soggetti ne´ tanto meno della psicopatologia in senso classico intesa nel senso della descrizione accurata dei sintomi, ne´ infine si preoccupa di proporre un’ipotesi psicodinamica. La prima descrizione di questo disturbo e` universalmente attribuita a Pinel, che lo definı` “manie sans de´lire”. Anche il concetto di considerare il disturbo antisociale una patologia di tutta la personalita` e` piuttosto antico e condiviso; si puo` gia` intravederlo nella descrizione del cosiddetto “criminale nato” che ne fa Lombroso nel 1876, ma che verra` poi ulteriormente chiarita da Bumke nel 1936 e infine da Schneider nel 1942 con la famosa definizione di “coloro che fanno soffrire”6. Si fa riferimento cosı` al fatto che il disturbo e` molto precoce nelle sua insorgenza e inficia tutta la struttura interna dell’individuo che ne e` affetto tanto da non poter piu` distinguere, come si fa in altre patologie, quanto e` malattia e quanto al contrario e` struttura di personalita`. ` erroneo al contrario ritenere, come si fa E comunemente con altri disturbi, che il disturbo di personalita` sia in questo caso qualcosa di meno grave di una sindrome perche´ il soggetto e` arrivato comunque alla strutturazione di una perso-

5 Kernberg O., Disturbi gravi di personalita`, Boringhieri, Torino 1990; p. 57. 6 Schneider K., Psicopatologia clinica, Citta` nuova, Roma 1983; p. 49.

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nalita` ben definita mentre invece ritengo la formazione di una personalita` antisociale tra le patologie forse piu` gravi della classificazione nosografica. Il pensiero, invece, di considerare questa patologia una patologia dell’affettivita` puo` apparire del tutto nuovo pur avendo in Magnan (1893) un illustre predecessore, ma a nostro avviso serve per chiarire qualcosa che forse non e` mai stato chiarito prima. Questi soggetti hanno perduto, e precocemente, qualunque traccia di affettivita` nei confronti degli altri esseri umani pur conservando spesso un’intelligenza e una razionalita` apparentemente normale, che al contrario potrebbe e superficialmente sembrare ben sviluppata. Ed e` per questo che e` sempre stata considerata di volta in volta un disturbo minore o altrimenti misconosciuto, nella misura in cui la nostra cultura ha da sempre considerato la patologia psichiatrica nel suo complesso e genericamente una patologia della ragione intendendo con cio` la follia come perdita di ragione e la “normalita`” come acquisizione della razionalita`. Solo ipotizzando che non e` nella ragione la specificita` umana che noi possiamo tentare di comprendere e spiegare questo disturbo che altrimenti rischia di far passare questi soggetti come del tutto normali salvo poi sorprenderci se il loro comportamento arriva, e inaspettatamente, all’omicidio seriale che si legge sui quotidiani la mattina con il caffe`. Anche il termine anaffettivo, che ben si adatta a descrivere il sintomo fondamentale di questi soggetti, puo` essere considerato generico perche´ comune anche ad altre patologie, se non se ne comprende bene il senso con il quale viene qui adoperato. Si tratterebbe di una perdita totale e precoce di tutta l’affettivita` del soggetto nel suo complesso che pertanto si muoverebbe soltanto sulla base di un pensiero lucido e sul calcolo freddo di un vantaggio personale. Ma mi rendo conto della necessita` di chiarire ulteriormente. Parlare di affettivita` o anaffettivita` fa riferimento a qualcosa di intuitivamente facilmente comprensibile a tutti ma difficilmente spiegabile in un trattato di psicopatologia e ancor piu` indimostrabile sul piano dell’obiettivita` scientifica.

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Pur tuttavia non si puo` prescindere da questo diciamo concetto nel confrontarsi con la realta` interna degli esseri umani come pretende di fare la psichiatria. Se poi volessimo tentare di spiegare che cosa intendiamo con il termine affettivita` ci troveremmo immediatamente a muoverci nei frangenti burrascosi ed incerti del pensiero filosofico che mal si adatta ad un trattato scientifico. Cio` che e` evidente e` che l’affettivita` e` sempre stata considerata in opposizione all’intelletto,7 e tuttora viene descritta dai moderni trattati di psichiatria ancora cosı`,8 senza mai proporne una descrizione esaustiva ma solo una definizione per opposizione. Tutti pero` concordano nel ritenerla composta dalle emozioni e dai sentimenti nonche´ da un “fondo” che costituirebbe il cosiddetto tono, lo stato basale dell’affettivita`. Ma con cio` credo abbiamo chiarito ben poco. Se poi mi e` concessa una posizione personale, riterrei l’affettivita` una caratteristica esclusivamente umana che sottintende il movimento, l’interesse degli esseri umani verso gli altri soggetti della stessa specie con i quali stabilisce delle relazioni che comprendono delle reazioni reciproche (sentimenti, emozioni, immagini), tutto cio` che in altri termini noi potremmo chiamare realta` psichica. Tale caratteristica della specie umana sembra essere originaria e di molto precedente al suo opposto, quello che definiamo al contrario come intelletto o ragione che, come si sa, compare nella nostra storia solo dopo il primo anno di vita. E infine vorrei solo aggiungere che molta parte di quanto noi abbiamo tentato di descrivere come affettivita` e` in realta` una caratteristica non cosciente del nostro essere. Solo cosı` posso adesso sperare di aver reso piu` chiaro il perche´ la perdita di parte o di gran parte di tutto cio` possa determinare una patologia tanto grave che va sotto il nome rassicurante di “disturbo antisociale di personalita`”. Di fatto l’aspetto antisociale da tutti e sempre

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Cartesio, Trattato delle passioni dell’anima, (1649). Cfr. P. Sarteschi, C. Maggini: Manuale di Psichiatria. Ed. S.B.M., Noceto (Parma), 1989. 8

evidenziato come disturbo del comportamento (il DSM-IV li chiama i disturbi della condotta) non sembra piu` cosı` a mio avviso il tratto saliente. L’ostilita` per le norme sociali in assenza di un’ideologia precisa, gli episodi di irresponsabilita`, il rifiuto delle regole, etc. sono quanto resta di quell’affettivita` grandemente perduta. Questi comportamenti, determinati sulla base dell’odio e della rabbia, comunque testimoniano che qualcosa degli affetti e` rimasto anche se nel suo aspetto piu` distruttivo. L’asocialita`, che va distinta dall’antisocialita`, non va pensata come incapacita` di avere relazioni oggettuali, che questi soggetti hanno: ma i loro rapporti sono limitati nel tempo e improntati da una dinamica di controllo e di utilizzo della relazione al fine di ottenere vantaggi personali da questa. L’aggressivita`, possono essere brutali, freddi, spietati e crudeli, e` una costante del disturbo che puo` portare a gesti eterolesivi ma mai autolesivi, ma va intesa soprattutto come distruttivita` nel rapporto interumano che si esplica come annullamento9 dell’altro e delle qualita` dell’altro e solo secondariamente come sadismo materiale, cioe` si realizza come gestione di quell’anaffettivita` di cui parlavamo precedentemente. Puo` essere spesso impulsiva, dettata da una pulsione che mira a distruggere prima di tutto il rapporto con l’altro. Pulsione che, istintuale ed improvvisa, puo` essere inconscia oppure parzialmente cosciente cioe` dettata da un pensiero lucido precedente, che porta a quella caratteristica sempre descritta come “passaggio all’atto” che implica un’incapacita` di rappresentazione interna. ` incapace di sentimenti, tratta le persone E come tratta gli oggetti perche´ forse e` realmente incapace di distinguere gli uni dagli altri e qui mi ricollego a quanto detto sopra: in questa incapacita` si ritrova tutta la patologia di questi soggetti che hanno perduto qualcosa di fondamentale e originario della realta` umana. Fondamentale perche´ ritengo caratteristica tipicamente umana

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Il concetto di annullamento e` qui utilizzato come scoperto e proposto da Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza, NER, Roma 1996.

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quella di attribuire all’uomo un valore in se´ a prescindere da qualunque valutazione soggettiva e di fatto non c’e` diritto giuridico al mondo o costituzione che neghi in teoria a qualunque essere umano questo valore in se´; originario perche´ a mio giudizio cio` non sembra qualcosa di culturalmente acquisito sia perche´ comune a societa` diverse, sia perche´ e` difficile pensare che l’uomo sia naturalmente cosi perverso da avere una dimensione cannibalica degli istinti naturali inibiti dall’angoscia della sanzione penale. Di nuovo vorrei sottolineare che questa dimensione interna, che ho chiamato banalmente affettivita`, e` una realta` di tutti gli esseri umani che ha caratteristiche vorrei dire biologiche della specie, cioe` naturalmente ogni individuo viene al mondo con questo patrimonio che, se mai si perverte, si perverte successivamente in una patologia psichiatrica nota. Ha pochi sensi di colpa e raramente ansia: sono, queste, caratteristiche evidenziate da tutti gli Autori e facilmente deducibili nella psicopatologia di questi soggetti da quanto detto sopra; anche dopo fatti criminosi appaiono calmi e sembrano non rendersi realmente conto di quanto hanno fatto, come se fossero realmente privi di un’emotivita`. Non hanno coscienza di malattia e molto raramente si rivolgono spontaneamente ad uno psichiatra. Inseguono spesso un utile come fa il delinquente, ma diversamente da questo non sempre e` un utile materiale: piu` ampiamente, l’utile puo` essere la soddisfazione di un bisogno parziale o la realizzazione di un’idea fortemente radicata nel pensiero del soggetto. Possono presentare promiscuita` sessuale e abuso di sostanze. Possono essere presenti tutti i tipi di perversioni, comprese l’omosessualita` e la pedofilia. L’unico vero problema diagnostico di questa patologia si pone nei confronti del “disturbo schizoide” o meglio nei confronti di quello che un tempo si chiamava schizofrenia simplex di Bleuler10: e di fatto le due personalita` si avvicinano molto, tanto a volte da non essere distinguibili. Questo puo` essere sostenuto anche dal fatto che

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spesso una perdita di affettivita` di questo tipo viene raggiunta dal processo schizofrenico ed e` ipotizzabile che le due patologie abbiano un’origine comune. Quello che forse le differenzia sul piano clinico e` “il passaggio all’atto”, cioe` l’antisociale passa all’atto in virtu` della sua impulsivita` piu` spesso, o meglio in virtu` di quell’affettivita` rimasta che si esprime, come dicevamo, in odio e rabbia; al contrario lo schizoide puo` in teoria e solo in teoria annullare totalmente se stesso e gli affetti in una proposizione di non essere. Piu` intelligente dell’antisociale, non fa “errori”, non cade nella stupidita` della rabbia cieca ma riesce a condurre la sua vita fatta di niente senza mai cadere nel codice penale: La reazione ultima al rapporto sadomasochistico si realizza come annullamento di se´ e del mondo. La possibilita` di rendere inesistenti gli affetti nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla. Un robot materiale che agisce fisicamente il corpo nelle azioni fisiologiche di sopravvivenza. Anaffettivo nei riguardi di se´ ed degli altri conduce la sua esistenza occupando soltanto lo spazio necessario al suo corpo. Il suo pensiero, diventato divino e tenuto gelosamente nascosto alla percezione altrui, e` la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero e di cio` che non e` materiale da cio` che e` materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia di sparizione che rende inesistente se´ e gli altri11. Vorrei tentare ora di descrivere un’ipotesi psicodinamica di questa patologia partendo dall’ipotesi freudiana, anche se ormai superata, perche´ storicamente la prima formulata. La teoria psicanalitica fin dall’inizio della teorizzazione freudiana si e` basata sul concetto che la sessualita` infantile alle sue origini sia perversa: «gli scopi sessuali dei perversi sono identici a quelli dei bambini», «la possibilita` che ogni essere

10 Bleuler E., Trattato di psichiatria, Feltrinelli, Milano 1967. 11 Fagioli M. (1974), La marionetta e il burattino, NER, Roma 1991; p. 87.

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umano ha di pervertirsi, in determinate circostanze ha le sue radici nel fatto che questi una volta e` stato bambino»12. In quest’ottica il neonato, fin quando agisce secondo il principio del piacere, non sopportandola, cerca di scaricare immediatamente la tensione che gli provoca la sensazione di fame. Sara` lo sviluppo successivo dell’Io che blocchera` la tendenza verso lo scarico delle pulsioni e successivamente del Super Io che, attraverso l’introiezione delle figure genitoriali, fara` sı` che il bambino impari a controllare gli impulsi seguendo il ` in questa dinamica che si principio di realta`. E collocherebbe, per la teoria freudiana, il soggetto antisociale: regredito alla perversione infantile, dotato di un Super Io “arcaico”, non controllerebbe le pulsioni aggressive e distruttive nei confronti dell’oggetto. Come il neonato, dopo aver superato la prima fase narcisistica della libido, l’antisociale avrebbe trovato un rapporto oggettuale ambivalente, ma questo si esplicherebbe senza alcun controllo da parte dell’Io attraverso un meccanismo di stimolo-risposta immediato, incapace di operare un contenimento, una rimozione delle istanze stesse. Questa dinamica sembra adattarsi perfettamente a quanto avevamo osservato a proposito delle modalita` di comportamento del soggetto antisociale. Egli aggredisce, distrugge deliberatamente, ruba, fa uso di sostanze, totalmente in balı`a dei suoi impulsi incontrollati. Riusciremmo cosı` a cogliere forse il perche´ di quella che abbiamo chiamato la sua impulsivita` aggressiva. Ed ancora potremmo pensare cosı` di cogliere l’antisocialita`, nella misura in cui ci viene detto che il primo rudimento delle norme sociali si baserebbe sull’introiezione delle figure genitoriali, la strutturazione del Super Io. Quello che pero` non riusciamo a capire secondo questa impostazione e` la anaffettivita` del disturbo e quella che abbiamo definito l’incapacita` di sentimento. Forse dovremmo dedurre che

12 Fenichel O., Trattato di psicanalisi, Astrolabio, Roma 1951, p. 365.

il neonato non solo e` perverso come l’antisociale, ma e` anche anaffettivo, nel senso che abbiamo attribuito a questa parola, cioe` incapace di rapporti profondi, di rapporti empatici, capace solo di rapporti di potere e controllo. Forse dovremmo dedurre che il neonato come l’antisociale conosce solo impulsi aggressivi e dinamiche distruttive per altro momentanee e drammatiche. Ma tutto cio` non ci sembra possibile. Non ci sembra possibile che il neonato sia dominato da impulsi perversi, proprio nel significato che a questi si da`: di una fissazione della libido a oggetti polimorfi che non sono in grado di fornire una soddisfazione reale. Come farebbe a crescere e sviluppare il neonato e con lui il genere umano se questo fosse dominato da impulsi perversi incapaci di fornire una soddisfazione reale e senza una carica affettiva orientata verso il rapporto interumano? Ed e` soprattutto il problema dell’affettivita` che ci sembra posto inadeguatamente nella teoria freudiana. Ci sembra pertanto necessario presupporre una carica affettiva che viene persa poi nei singoli disturbi psicopatologici, ma poi, con lo sviluppo, e non originariamente. L’incapacita` di sentimenti del disturbo antisociale deve essersi costituita durante lo sviluppo psichico del soggetto come perdita di una dimensione di affettivita`, come perdita di una fondamentale dinamica di rapporto interumano. Al di la` del concetto ormai screditato di narcisismo primario, anche la dinamica di rapporto oggettuale cosı` come postulata da Freud va rivista. Essa dinamica in gran parte e primitivamente sarebbe basata su una dinamica di introiezione. Ma perche´ questi soggetti antisociali non riescono a costituire un Super Io se i genitori, pur violenti, sono presenti ? Perche´ non riescono a introiettarli? Perche´ l’introiezione, di per se´ basata su odio e rabbia, non e` sufficiente a dare una ragione di tanta anaffettivita`. L’odio e la rabbia costituiscono comunque una dinamica "affettiva" anche se distruttiva e quindi una dinamica di rapporto. Dobbiamo, allora, ricorrere al concetto di istinto di morte e alla dinamica annullamento-

Elementi di psicopatologia dinamica

sparizione come formulata da Massimo Fagioli per cercare di comprendere qualcosa13. E tra le diverse modalita` in cui la fantasia di sparizione si esplica, piu` specificatamente, mi rifarei a quel particolare tipo che non arriva a distruggere completamente l’oggetto (come forse accade nel caso dello schizoide) determinando il vuoto, il pensiero puro, ma rende inanimati gli oggetti: ‘‘Si tratterebbe di un uso degli occhi verso l’oggetto tendente a togliere all’oggetto la vita, la vitalita`, un guardare mettendo nell’oggetto anaffettivita`...’’14. Forse, come dicevamo, l’antisociale non e` riuscito completamente a cancellare gli affetti come lo schizoide, non e` riuscito a farsi un’identita` per indifferenza assoluta, seppure a questa tenda con la sua freddezza con la sua brutalita`. Ma questi suoi affetti residui sono pericolosi, costituiscono la possibilita` e la minaccia di una distruttivita` perche´ associati, in una miscela esplosiva, con quella perdita di realta` umana che abbiamo descritto: “tratta le persone come tratta gli oggetti” e sono ancor piu` pericolosi quando, come avviene di solito, sono non riconosciuti perche´ negati da una razionalita` che tende a vedere ancora il male nell’inconscio e il bene nella ragione.

5. Allucinazione di Francesca Fagioli “...via, ombra orrenda! Via beffa illusoria!”

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Allucinazione. Termine che indica quello che con tutta sicurezza si puo` definire un sintomo, una problematica psichiatrica nettamente separata da altre possibilita` di ricerca, pensiero e discorso che riguarda caratteristiche della mente umana come percezione, illusione, amore odio… delirio. Cio` perche´ questi altri termini hanno una

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Cfr: Fagioli M (1972), Istinto di morte e conoscenza, NER, Roma 1996. 14 Op. cit., p. 155n. 15 W. Shakespeare Macbeth, atto II, scena IV, i Meridiani, Mondadori, Milano 1976, p. 955).

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gradualita` di passaggio da una realta` di rapporto normale con il mondo che permette quindi opinioni ed eventualmente definizioni diverse di una certa condizione umana che si pone in una zona non chiaramente definita, mentre il termine allucinazione che indica questo disturbo mentale separa nettamente il sano dal malato o una norma, anche se variabile, da una non norma di rapporto con la realta` all’esterno di se´. La proposizione per la quale, nel pensiero occidentale, il linguaggio, ovvero la simbolizzazione della percezione delle cose fuori di noi, si e` riferita sempre ed esclusivamente a cose esistenti ovvero percepibili con i cinque sensi, e` l’ovvio che si costruisce sulla stessa realta` della conoscenza che e` basata appunto sulla reazione degli organi di senso ad uno stimolo esterno che quindi deve esistere come cosa che agisce o viene recepita dagli organi di senso stessi. Illusione-allucinazione, le due parole appunto, linguaggio di un pensiero che si riferisce al rapporto dell’uomo con il mondo esterno, compongono un’armonia che e` soltanto apparente e che, in verita`, sintetizza due parti separate, scisse l’una dall’altra, in quanto una si riferisce ad un’alterazione del rapporto sensoriale del corpo umano con la realta` esterna di cui la parola indica un’alterazione e l’altro, invece, si riferisce ad un disturbo del pensiero che crea qualche cosa che non esiste nella realta` fuori del corpo umano ed e` quindi soltanto un prodotto che trae la sua forza dall’interno dell’uomo stesso, proponendo la ricerca di un movimento interno che si stacca, si distingue dalla percezione, in quanto manca, completamente, la dinamica di qualcosa d’esistente fuori del corpo che viene percepito dal corpo stesso. In altre parole, potremo verbalizzare che manca il movimento, sia che esso si verifichi dall’interno di un corpo all’esterno di esso o viceversa. La creazione di un pensiero per cui l’allucinato ritiene di percepire qualcosa, ovvero e` convinto che i suoi organi di senso siano stimolati, e` una deformazione del movimento stesso del rapporto dell’uomo con la realta` che, anche allorche´ ponga qualche cosa di creazione propria fuori di

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se´, nel mondo esterno, comprende la creazione di un oggetto che poi puo` essere percepito dagli altri. L’allucinato non riesce a costruire nulla fuori di se´ che possa poi essere percepito dagli altri. Tanto che, in effetti, potremmo ironizzare sulla definizione di allucinazione come falsa percezione perche´ dovremmo aggiungere che, se allucinazione e` una falsa percezione, quanto allucinato dovrebbe essere visto dai sani in maniera vera e non falsa. Questo invece, appunto, e` quello che accade con l’illusione. La discrepanza potrebbe anche essere evidenziata in una cornice di riferimento del discorso della conoscenza in cui possiamo, in effetti, pensare che, mentre nell’illusione c’e` soltanto un disturbo percettivo per cui si vedono le cose inesatte secondo certi criteri di definizione precisa delle cose fuori di noi, fatto necessario per muoversi e agire nel mondo, nel caso dell’allucinazione, invece, nella misura in cui la verbalizzazione del disturbo chiama la parola credenza e credere e non percepire, il difetto di conoscenza sta nell’elaborazione del pensiero che elabora e deduce il proprio rapporto con la realta`, non costruito o soltanto basato sui cinque sensi, ma sul rapporto che, senza nessuna percezione, propone una realta` comunemente definita di affetti nel rapporto dell’uomo col mondo. Affetti quindi che sorgono da dentro il corpo umano, anche se va ipotizzato che questi affetti traggano la loro vita da stimoli che vanno considerati sempre esterni anche se nascono e sorgono all’interno del corpo. Prima forma di conoscenza che e` l’apprendimento dell’esistente e della forma delle cose fuori dal corpo umano e conoscenza come movimento di pensiero che nella simbolizzazione linguistica, concettualizza le cose, i significati e il senso di esse e dei loro rapporti per ricavare, mediante segni che possono essere visti o uditi, qualcosa non immediatamente percepibile dai cinque sensi ma, come si suol dire, dedotta dall’uso di essi. A questo punto, forse ci possiamo permettere la licenza di formulare, fissare parole diverse per indicare l’uno e l’altra cosa, lasciando la parola conoscenza alla prima forma di essa, appunto

quella della percezione dei cinque sensi ed elaborazione di tale percezione, e usare la parola sapienza per la seconda in cui, in effetti, si dice, nella misura in cui un allucinato crede di sapere e non di conoscere, crede di sapere — come si suol dire — che un elefante e` passato per strada. La formulazione “crede di sapere”16 indica proprio questo metodo di pensiero per cui, in effetti, io posso essere convinto che una macchina ha frenato per strada dai segni delle gomme sull’asfalto e anche che ha frenato bruscamente, realizzando una realta` di conoscenza, anche se il fatto e` passato, che non deriva dalla percezione diretta della cosa. Allora possiamo dire che io non conosco in quanto non ho percepito l’auto che ha frenato bruscamente, ma so per deduzione che l’auto ha frenato bruscamente. L’alterazione quindi della mente cui l’allucinato va incontro comprende l’alterazione di questo metodo di pensiero, nella misura in cui e` noto che nell’allucinato i cinque sensi funzionano perfettamente. L’allucinato non vede una forchetta piu` lunga di quanto sia in realta` o un piatto piu` grande; l’allucinato dice, accanto a percezioni esatte delle cose che lo circondano, di percepire un’altra cosa che in verita` non esiste. Come dire che nell’allucinato possiamo assistere alla contemporaneita` di una percezione esatta delle cose del mondo, accanto ad una menzogna che sta nell’affermazione dell’esistenza di una cosa, che in verita` non esiste. Ovvero l’allucinato gestisce e riconosce di avere gli organi di senso sani e funzionanti, pero` pensa di aver, si potrebbe dire, scoperto nella realta` qualcosa che potrebbe proporre come pensiero deduttivo, come scoperta di qualche cosa di nascosto e che invece dichiara essere... reazione degli organi di senso ad uno stimolo esterno. E a questo punto fa di un pensiero deduttivo

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Avamt and quit my sight!... Hence, horrible shadow Unreal moch’ry, hence! Francesca Fagioli, in La medicina abbandonata, Atti Aula Magna, a c. di M.a Fagioli, N.E.R., Roma 1998.

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un’alterazione della percezione e della conoscenza. Come dire che quello che e` un disturbo del pensiero viene proposto come disturbo della conoscenza derivato dalla percezione e non dalla deduzione. Allora dobbiamo pensare e forse dobbiamo proporre che il disturbo sta nella elaborazione delle percezioni e non nella percezione stessa. Il difetto di trasformazione delle percezioni in pensiero verbale o immagine mentale che non riescono ad essere costruite e conseguentemente espresse mediante comportamento viene pensato ed eventualmente detto come se fossero percezioni, cioe` viene dichiarata una percezione che non esiste come se dovesse rivendicare una sensibilita` degli organi di senso che in verita` non andrebbe rivendicata perche´, abbiamo detto, gli organi di senso sono perfettamente funzionanti. Allora dobbiamo pensare che questa rivendicazione della percezione sensoriale voglia negare una assenza generica di sensibilita`, facendoci pensare che l’elaborazione della simbolizzazione e del pensiero verbale sia legata a questo concetto di sensibilita` e non al concetto di astrazione verbale propria delle percezioni dei cinque sensi nel rapporto delle cose col mondo. L’allucinato vuole dire che sa dell’esistenza di certe cose come se avesse compreso cose non immediatamente percepibili, ma le propone, invece che come pensiero verbale o concetto o ricerca o ipotesi di lavoro, come reazione e percezione degli organi di senso. Con cio`, ovviamente, dice che non ha scoperto nulla e che non riesce a sapere nulla della realta` nascosta delle cose, per intendere la quale, pertanto, occorre quest’altra realta` o concetto di sensibilita` che non e` quella dei cinque organi di senso. ` una realta` che ci propone, dicendoci di una E carenza di sensibilita` accanto ad un perfetto funzionamento dei cinque sensi, il legame del pensiero con la realta` biologica, perche´ quest’altra sensibilita` non immediatamente deducibile dal funzionamento degli organi di senso va in ogni modo pensata e considerata come realta` biologica. Contemporaneamente e dall’altro lato, noi possiamo evidenziare come l’allucinazione sia,

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per un verso, patognomonica di malattia mentale e, per l’altro verso, disturbo psichico dal momento che abbiamo detto che gli organi di senso funzionano perfettamente. Ovvero, nell’allucinazione possiamo proprio trovare gli elementi per realizzare quella ricerca che, per un verso, non e` discorso sul non materiale scisso dalla materia, ma per altro verso non e` neppure lesione d’organo, segno di alterazione dell’organismo, perche´, come abbiamo detto, e` creazione, invenzione di un oggetto, di uno stimolo, una percezione che non esiste, ovvero pur non essendo creazione di cose e` pero` attivita` di pensiero che non riesce ad essere reale, nella misura in cui non riesce a concretizzare un qualcosa che puo` essere stimolo e determinare la percezione degli organi di senso. Una attivita` di pensiero che non diventa reale nella sua espressione fa pensare di non essere reale essa stessa o, in altre parole, di non essere attivita`, di non esistere come attivita`, ovvero che l’allucinato che racconta di questa percezione che in verita` non c’e` racconta anche che non soltanto non c’e` l’oggetto che stimola i sensi, ma non c’e` nemmeno l’attivita` che inventa un oggetto inesistente. Quindi non e` pensiero, perche´ per lo meno, non e` legato alla sensibilita`, a quell’indefinito movimento interno che abbiamo chiamato sensibilita` al di fuori dei cinque sensi. Potremo arrivare a concettualizzare una malattia del pensiero che, nella misura in cui si stacca completamente dalla realta` biologica, si perde, non e` piu` pensiero e diventa inesistente come attivita` dell’organismo umano. Anche l’atteggiamento, il comportamento, il movimento e la parola, possono essere dissociati, fatto che ci dice che le caratteristiche di malattia psichiatrica indicano che la malattia psichiatrica e` tale quando il pensiero e` alterato e si perde e non quando sono alterati gli organi del corpo.

6. Elementi per una psicopatologia del delirio di Gianfranco De Simone L’origine e l’evoluzione del concetto di delirio sono state considerate, insieme all’allucinazione,

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il tema fondamentale per la formazione e lo sviluppo di una psicopatologia. Tutte le malattie mentali che sono state descritte hanno sempre incluso la possibilita` di manifestarsi con una forma di delirio. Ad eccezione dell’isteria, a cui forse anche per questo non e` stato mai riconosciuto un definitivo rango di malattia psichica. Tuttavia c’e` da considerare che se in presenza di un’allucinazione dobbiamo sempre parlare di malattia, la stessa cosa non e` possibile davanti a certe manifestazioni di tipo delirante, che possiamo collocare in un ambito psicopatologico solo dopo averne valutato anche i tanti aspetti relazionali, culturali, sociali che concorrono a formare il senso di realta` del pensiero. Storicamente il termine delirio compare nella medicina ippocratica per indicare le deviazioni dal solco (lira) tracciato dalla ragione che si manifestano durante alcune malattie somatiche per lo piu` febbrili. Quest’idea originaria di complicanza di una malattia somatica accompagnera` tutte le nosologie mediche e poi psichiatriche fino ai nostri giorni, dove essa e` ancora presente nel termine delirium inteso come disturbo organico della co` con il termine tedesco Wahn che si scienza. E cerca di mettere fine all’ambiguita` presente nella parola latina e mantenuta nella lingua italiana e francese. Ad indicare il delirio la parola Wahn compare nel linguaggio psichiatrico alla fine del Settecento, dopo aver cambiato nel tempo vari significati (desiderio, sospetto, supposizione errata, illusione) e dopo che — attraverso la radice “wahn”, intesa come “senza”, “mancante” “vuoto” — era giunta a designare con il termine Wahnsinn la follia stessa come “insensatezza”. Se, come suggerisce Heidegger, questo termine sta ad indicare un “pensare senza”, Wahn rappresenta una rottura nel linguaggio psichiatrico le cui conseguenze sono visibili nei tentativi durante l’Ottocento di abbandonare il riferimento somatico e di interpretare il “pensare senza” come “mancanza di idee razionali”. Ma questa rotta portera` ad una deriva spiritualista e alla necessita` di ammettere un delirio “naturale” dei poeti e degli artisti accanto a quello dei folli,

finendo con l’estendere il concetto di malattia a tutte le forme d’irrazionale. Per contro finira` con l’imporsi il “pensare senza” inteso come “senza cervello” basato sull’idea di processo, che sara` un concetto cardine di tutta la psichiatria del Novecento legato ad un’idea di mancanza di continuita`, di collegamenti, per lesione cerebrale che porta ad un cambiamento (Verwandlung) responsabile del delirio senza ritorno. Risulta evidente che i problemi di terminologia del delirio implicano fin dall’inizio problemi di metodo tali che e` indispensabile in via preliminare indagare le modalita` in cui nella storia e` stato pensato il fenomeno delirante. Terremo presente sullo sfondo della nostra trattazione la definizione di delirio proposta nella presentazione agli Incontri di Ricerca Psichiatrica del 1997 all’Universita` ‘‘La Sapienza’’ di Roma, «come fatto di pensiero, di rapporto con la realta` che sbaglia il nesso tra percezione, rappresentazione e significato delle cose percepite». Questo ci permettera` di collegarci storicamente ai termini basilari e alle ricerche piu` innovative sull’origine del pensiero e sui suoi sviluppi patologici, riaprendo nuovi spazi di comprensione del delirio che, come tutta la psicopatologia, necessita di una nuova e piu` approfondita elaborazione. Solo cosı` si possono rivalutare in senso dinamico, ridando ad essi valore diagnostico, quegli elementi di conoscenza clinica prodotta dalla piu` attenta psicopatologia descrittiva. Le piu` antiche annotazioni sul delirio comprendono due termini con cui sono indicati, senza ulteriori distinzioni, un delirio di pensiero (paraphrone´in) e un delirio di parole (paralere´in): il deviare del giudizio e il vaneggiare, cioe` il pensiero e le parole — il pensiero verbale diremmo oggi — vengono riconosciuti come il terreno del delirio fin dalla nascita della medicina. I due termini sono neologismi tecnici, inventati dai medici e presenti solo nelle cartelle del Corpus ippocratico, per indicare un sintomo che si contrappone alla lucidita` (katanoe´in) e che accompagna sempre una malattia con compromissione dello stato generale, febbre o squilibrio di umori. Quando i fluidi del corpo si riscaldano e si

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mescolano vorticosamente ne consegue che «il paziente delira ed e` fuori di se´». Quando si riesce a guarire la febbre e la malattia, il delirio scompare e il paziente ritorna lucido e razionale. Tuttavia alcune volte il delirio non recede ed in questo caso, si annota, «alcuni impazziscono». E quando il delirio non e` piu` segno di frenite ma diventa segno di follia non e` piu` oggetto dell’intervento del medico; esce dall’ambito della iatria. La vera follia (mania) viene avvicinata dal medico soprattutto per fare una diagnosi differenziale e una prognosi, per valutare la curabilita` della malattia del corpo legata al sintomo psichico, e stabilire alla fine se i segni «indicano malattia o mania». Questa contrapposizione nei testi piu` rigorosamente clinici, spesso trascurata dalla storiografia psichiatrica, e` ancora piu` evidente laddove in un testo la follia viene messa accanto alla morte e alla malattia, come uno status che va distinto dalla morte, dalla salute e dalla malattia ma che ancora non si riesce a distinguere. Non si puo` distinguere in quanto la ragione, essendo anima superiore, immutabile e immortale non e` considerata soggetta a malattia. Essa e` immutabile e, si pensa, solo cio` che e` soggetto a cambiamento si puo` ammalare, non cio` che non si modifica. La psiche, l’anima razionale e` un principio immutabile, un principio esterno all’uomo, che e` prima di lui e che entrando nel suo corpo lo definisce (per Platone perfino lo muove) e lo qualifica come essere pensante. Questa concezione accompagnera` tutta la storia del pensiero psichiatrico; cambieranno i riferimenti alle nozioni mediche, ma sempre sottintesa restera` la domanda: come si produce il delirio in una psiche che e` immutabile? Il delirio e` provocato dai movimenti del corpo che con le sue alterazioni esercita un condizionamento sull’anima e le sue facolta`. Se la febbre da` la possibilita` empirica di pensare un cambiamento di stato, il movimento dei fluidi (sangue, umori) giustifica i deliri senza febbre. Se cio` che e` movimento e` visto in campo psichico come disordine, fonte di errore, si comprende perche´ le passioni sono forze che squilibrano, che provocando trasmutatio ed emotio mentis portano alla malattia.

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Il disturbo di conoscenza prodotto nel delirio viene spiegato facendo ricorso alla nozione di “sensorio comune”, un concetto ben accolto da tutta la psichiatria antica, che unifica in un senso solo tutto cio` che proviene dai cinque sensi. La vita psichica e` concepita come suddivisa in tre funzioni: intelletto, memoria, immaginazione; il sensorio comune collega i sensi con le immagini percettive e i ricordi. Una tale suddivisione restera` nei trattati di medicina nel capitolo sui deliri fino al ’700 ed in essi alle funzioni psichiche viene riconosciuta la possibilita` di alterarsi solo in quanto sono legate al “sensorio comune” cioe` al corpo, ammalarsi nel senso di non integrarsi, di immagini e ricordi che non possono unirsi nel pensiero. Il pensiero razionale poggia la sua verita` sull’adeguamento alla realta`, sulla capacita` di rispecchiarla fedelmente. L’uomo pensa il vero quando guarda dentro di se´ con le sue funzioni psichiche (i sensi, la memoria, l’intelletto) e riesce ad avere le immagini mentali impresse, senza deformazioni. Su queste rappresentazioni, immagini di rispecchiamento della realta` percepita, puo` formulare una proposizione verbale che ha significato se e` vera ed e` vera se c’e` corrispondenza tra quelle rappresentazioni e la realta` esterna. Tutto cio` che oscura, rende opaca questa corrispondenza e` fonte di errore, errore di riferimento, di giudizio, disturbo di conoscenza. La freddezza del cervello, la freddezza e la secchezza del pneuma, e` cio` che favorisce la chiarezza e la lucidita` del pensiero. La ricerca della sede del nous, della gnome coincide con la ricerca dell’organo freddo per eccellenza. Cio` che riscalda come la febbre, le passioni, annebbia i pensieri e viene cercato come causa dei deliri. In questo metodo di pensiero diventa inevitabile il nesso tra il delirio e il sogno. «I sogni – dira` Galeno – sono un delirio della persona che dorme». Nelle percezioni si formano immagini che si depositano nei sensi e nel sensorio comune; nel sonno queste immagini formano i sogni. Se la funzione del sensorio e` debole, se c’e` scarsa sensibilita` ne risulta che le rappresentazioni hanno una vita autonoma distaccata e allora accade che esse non corrispondono piu` ad oggetti, «accade di pensare o di ricordare una cosa che e` un’imma-

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gine di un’altra cosa, questo accade anche a quelli che delirano». Il delirio, il sogno e le allucinazioni sono tutti fenomeni patologici che nascono da una disfunzione del sensorio comune, cioe` da un disturbo della coscienza (la parola che indica e sviluppa il concetto di sensorio comune). C’e` l’idea che la rappresentazione (phantasmata), copia della realta`, se e` autonoma dai ricordi e dal giudizio dell’intelletto, costruisce un mondo proprio simile a quello del sogno: «il delirante infatti confonde le sue immagini mentali con la realta`». La psicopatologia antica arrivera` alle soglie dell’Ottocento con molte classificazioni sui deliri e con questi stessi concetti, i quali non riescono a pensare la malattia del pensiero e di conseguenza la cura. Nel ’700 con l’acquisizione della funzione dei sensi, si finisce per mettere in risalto il ruolo dell’immaginazione (phantasia) come causa delle affezioni nervose e si cerca di utilizzare la forza dell’immaginazione per la cura. Whytt, illustre medico della scuola scozzese, maestro di Cullen, a meta` del ’700 puo` affermare con orgoglio: «Ho guarito malattie con febbre e delirio piu` con l’uso di bagni caldi ai piedi che con qualsiasi altro rimedio». Quella antica e mai superata sospensione della ricerca medica sulla mania (la follia e` malattia o non malattia?) rendeva improbabile l’incontro della iatria con la psiche. Il primo momento di questo incontro si realizza quando Pinel riprende il discorso ippocratico sulla mania facendone un cardine della sua concezione della malattia mentale. Ancora una volta tutto ruota intorno al problema del delirio. Il delirio cessa definitivamente di essere il tramite, il sintomo cardine per potersi occupare di follia; Pinel pone l’attenzione sulla “manie sans de´lire”. Il termine delirio, sia generale che parziale, quando e` presente nella mania viene opposto alla demenza e all’idiotismo. Si realizza in questo modo un nuovo ambito in cui il folle e` un malato ed e` un malato curabile e come tale puo` e deve essere osservato e indagato clinicamente dall’alienista, come tale va tenuto distinto dai diseredati, poveri, cerebropatici. Nuovo impulso ricevono la ricerca sul delirio

e l’osservazione dei deliranti che permette ad Esquirol di constatare che lesioni, distruzioni di zone del cervello, disfunzioni o eccitazioni localizzate del cervello non hanno «alcuna virtu` costruttiva e non possono quindi dare luogo a costruzioni, a quei veri e propri sistemi ideativi che sono i deliri». Mentre i disturbi cerebrali che gia` Esquirol chiama processi possono secondo lui «disordinare le immagini rappresentative ma non dar luogo a costruzioni come i deliri, che, se non corrispondono alla realta` delle cose, pure seguono i procedimenti normali del pensiero e presentano spesso un’innegabile coerenza logica». Si impianta la moderna concezione del delirio. «I deliri — scrive Esquirol — sono errori morbosi di giudizio che non si lasciano rettificare dall’esperienza ne´ dalla critica». Questo consentira` una classificazione delle idee deliranti in base al loro contenuto di pensiero erroneo (di gelosia, di grandezza, di rovina ecc.). Il fondamento concettuale continua ad essere nella teoria della conoscenza aristotelica e tomista che riceve dagli sviluppi del razionalismo e dalla teoria della coscienza solo una maggiore definizione, cosı` riassunta da Esquirol: «La percezione e` una copia della realta`; il ricordo e` una copia della copia, tirata senza la presenza del modello e percio` piu` imperfetta. Le rappresentazioni si formano per effetto della realta` che stimola i sensi e per effetto di stimoli interni, i ricordi. Tutte le rappresentazioni e i ricordi derivano da immagini percettive». Anche per Esquirol, al fondo, il pensiero muta secondariamente, e` tenuto fuori da ogni alterazione in se´; inoltre il delirio e` soprattutto un fenomeno secondario al cambiamento patologico degli affetti. Non piu` i mutamenti degli umori ma i venti delle passioni, sono questi che aumentano la credulita` e abbassano la critica spingendo all’errore di giudizio e al delirio. Il trattamento e` possibile proprio su questa base, gia` indicata da Pinel: «Il fine e` di soggiogare le passioni che, dominando il pensiero, lo mantengono nel delirio». Con Esquirol e per tutto l’Ottocento raggiunge il pieno sviluppo quella modalita` di pensare il fenomeno delirante che, come visto, inizia con gli ippocratici e si fonda sul processo conosci-

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tivo che ha segnato l’evoluzione culturale scientifica occidentale, secondo cui cio` che mette in relazione il pensiero e la cosa e` la rappresentazione mentale, l’immagine percettiva. Una svolta nel modo di pensare il delirio si avra` quando viene recepito in psichiatria il punto di vista della fenomenologia di Husserl, secondo cui cio` che mette in relazione il pensiero e la cosa e` l’intenzionalita` della coscienza. Per poter chiarire le implicazioni di questo passaggio occorre tener presente che ogni ricerca che ha per oggetto l’attivita` del pensiero deve fare i conti apertamente o in modo implicito con una teoria del significato. Tutte le teorie del significato hanno avuto come unica posta in gioco il potere della ragione di identificare l’oggetto della conoscenza e poterlo comunicare col suo linguaggio. Il significato richiede che si stabiliscano dei collegamenti tra le cose e le parole che le indicano. Questi nessi sono stati concepiti a partire dal De Interpretazione di Aristotele in termini di rappresentazioni mentali (raffigurazioni di cio` che dalla realta` proviene ai sensi). Il significato e` dato dalla corrispondenza tra le parole e queste raffigurazioni. Cosı` due parole hanno lo stesso significato quando sono legate alla stessa rappresentazione mentale e l’uguaglianza o meno delle rappresentazioni stabilisce se due parole si riferiscono o meno alle stesse cose. Questa classica teoria del significato, ripetiamolo, ha consentito di pensare il delirio come errore di giudizio, soprattutto come un errore di riferimento. All’origine di ogni delirio, verra` detto, c’e` sempre un delirio di riferimento. Questo complica il compito dello psichiatra che per fare la diagnosi di delirio deve tener conto che il riferimento e` anche stabilito socialmente e che ci sono i contesti di significato. Per Husserl il riferimento delle parole alle cose non e` diretto, non c’e` corrispondenza diretta tra significato (rappresentazione) e oggetto, proposizione e fatto, da cui far derivare la conoscenza vera. Ogni linguaggio anche scientifico non puo` evitare quel carattere indiretto del riferimento a oggetti, perche´ nel modo di riferirsi all’oggetto entra in gioco l’intenzionalita` di chi l’attua. Que-

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sto fatto non rende piu` possibile controllare semplicisticamente la veridicita` del pensiero con la mera valutazione dei nessi logici fra significati. Con l’intenzionalita` il soggetto attribuisce significati agli oggetti che possono essere descritti non soltanto nei loro aspetti logico-formali ma nel modo di vivere l’esperienza. Dopo la fenomenologia non possiamo continuare a riferirci, dice Husserl, solo ai contenuti sensoriali «senza essere in grado di giudicarli, di gioire, di amarli, desiderarli» perche´ senza questo non si puo` parlare di «vivere» ne´ di essere psichico. Con gli atti intenzionali noi attribuiamo qualita` agli oggetti, diamo significati nuovi, pur essendo invariati i contenuti sensoriali. Quello che l’indagine fenomenologica deve analizzare non e` l’oggetto, ne´ se le rappresentazioni dell’oggetto rispecchiano la realta`, ma il soggetto, i modi in cui esso ha coscienza delle cose e fa esperienza delle cose stesse, i suoi modi di conoscere. Con questo metodo l’indagine sul delirio si sposta dal contenuto e dal tema dell’idea patologica alle modalita` di pensiero attraverso cui l’idea si forma nella coscienza del soggetto. La psichiatria con la fenomenologia, a partire da Jaspers, vede l’occasione di riaffermare il primato della coscienza razionale in contrasto col riduzionismo organicista e con la psicoanalisi, e si misura nella capacita` di mettere in forma e donare senso alle operazioni deliranti della mente che erano sempre apparse prive di senso. Per il fenomenologo, l’uomo, diversamente dall’animale, e` un donatore di senso (sinngebung) e le malattie mentali sono i modi in cui l’uomo non riesce a dare senso alle cose e alla propria esistenza. La psicopatologia fenomenologica centrera` il suo interesse sulla ricerca di modelli di pensiero (percezione delirante, intuizione delirante, ecc.) capaci di donare senso alle manifestazioni deliranti. L’introduzione della problematica tra senso e significato richiede qualche precisazione. I due termini originariamente si riferiscono alla sfera linguistica e in particolare alla struttura logica delle proposizioni basate sulla descritta garanzia di corrispondenza con l’ordine naturale delle cose.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Il significato, come cio` che collega un nome a una cosa, e` sempre stato pensato costituito di due aspetti e su questo si e` impostata la logica binaria. ` solo alla fine del secolo scorso che G. Frege, E studioso di logica, nel suo tentativo di fondare la matematica come linguaggio esemplare, propone la distinzione tra significato (bedeutung) e senso (sinn) sostenendo che ad una parola noi dobbiamo collegare sempre due cose: non solo il significato, cioe` l’oggetto designato da quella parola, ma anche il senso che «denota il modo in cui l’oggetto viene dato». Questo esclude che si possa parlare solo di cio` che esiste secondo il riferimento diretto dal nome alla cosa, dal momento che posso «nominare tutto cio` che posso pensare» (Frege). Taluni amplificando questo formalismo logico arriveranno logicamente ad escludere che si possa “decidere cio` che esiste” (come dire l’impossibilita` di fare diagnosi di delirio!). Da qui si assistera` a vari tentativi di correggere questa ontologia formale con richiami al “senso di realta`” e da Russel a Wittgenstein si cerchera` di ridurre empiristicamente il senso al significato. «Se una proposizione non ha senso — taglia corto Wittgenstein — e` perche´ noi non abbiamo fatto il riferimento all’oggetto». ` nel passaggio dalla logica tradizionale alla E logica trascendentale che il termine senso acquista un valore filosofico piu` ampio di cose dei sensi e di senso direzionale (legato all’intenzionalita`). Il segno linguistico (la parola, la frase, ecc. ) acquista una direzione intenzionale; esso ‘significa’ proprio in quanto ha un senso, un tendere verso determinati contenuti. Questi contenuti intenzionali non sono necessariamente un oggetto esterno ma possono essere oggetti fantasticati, pensati o addirittura impossibili. Cio` che la parola ‘esprime’ non e` legato necessariamente all’esistenza del significato, inteso come rappresentazione percettiva di cose, ma al senso intenzionale verso un oggetto. Il senso pertanto e` immanente al vissuto, viene vissuto cosı` come si trova nell’intuizione immediata, attuata dalla coscienza secondo le sue intenzioni. Per tale metodo di conoscenza che tanta accoglienza ha avuto nella psichiatria, il senso e` cio` che rimane nella percezione dopo che essa viene sottoposta alla riduzione fenomenologica (epo-

che´), con la quale mettiamo tra parentesi il dato percettivo e sospendiamo ogni giudizio sulla realta` e oggettivita` individuali. Dopo questa sospensione, il senso della percezione ridotta e` tutto cio` che appartiene al vissuto (Erlebnis), — cio` che al vissuto – dice Husserl – non puo` essere tolto via col pensiero –. Il percepito come senso, quindi, non contiene altro che quanto effettivamente appare nell’immediatezza percettiva, ma al tempo stesso nella percezione immediata noi possiamo cogliere il senso e distinguerlo dall’oggetto ut sic. Ma, va precisato, questo partire dai fenomeni dati immediatamente in modo intuitivo e` solo un momento parziale che richiede, per raggiungere la conoscenza fenomenologica, che su questo senso si diriga la riflessione. Non la riflessione come introspezione che coglie i fatti empirici, ma quella fenomenologia che coglie le essenze, cio` che e` immutabile. Per afferrare le essenze la coscienza non puo` basarsi sulle esperienze vissute ma deve spostare lo sguardo verso se stessa, sulle proprie forme a priori, “pure forme di visione” le chiama Husserl. Per conoscere il senso originario, l’essenza del fenomeno, il fenomenologo ha bisogno di idee a priori, di ammettere delle strutture a priori di ogni esperienza che garantiscono la veridicita` delle cose. «Il giudizio fenomenologico deve adeguarsi soltanto a cio` che in tale riflessione viene afferrato» (Husserl). Le ideen husserliane, pur volendo distinguerle dalle idee platoniche o sostanzialistiche, presuppongono e mantengono la concezione dell’uomo diviso in sensibilita` e spirito, non lontana da un’impostazione dualistica cartesiana, figlia del pensiero religioso, secondo cui la garanzia di pensare cose vere puo` venire solo da qualcosa di immateriale immutabile che trascende l’uomo. In quest’ottica il senso rimane soprattutto un dato dei sensi (l’immaginatio sensibilis husserliana), un erede del sensorio e come tale indistinguibile dai significati (Husserl alla fine rinuncera` ad una vera distinzione tra i due). Conseguentemente anche l’analisi fenomenologica, per ricavare cio` che vi e` di essenziale nei fenomeni, e` costretta ad applicare nel proprio metodo una forma di astrazione ideativa che, partendo dalle precostituite forme pure di visione,

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riconosce come essenza tutto cio` che nel variare dei fenomeni resta immutato, cio` che resta invariabile e immodificato sia nelle forme oggettive che soggettive di esperienza vissuta. Questo non consentira` una psichiatria veramente dinamica. Il metodo tra l’altro manterra` anche nell’applicazione clinica il suo oscillare tra intuizione e astrazione. Intuizioni nelle categorie diagnostiche, nelle descrizioni delle forme patologiche, immobilismo nella cura dove occorre un metodo che movimenti l’inerzia del paziente, cogliendone le possibilita` di movimento e non contemplando le sue fissita`. Ma soprattutto l’idea di un immateriale immutabile traccia un limite invalicabile che impedira` l’accesso ad ogni idea di malattia del pensiero e di delirio come malattia del pensiero. Lo studio scientifico del delirio, secondo Schneider, comincia con Jaspers nel momento in cui, all’inizio del secolo, influenzato dalla fenomenologia husserliana, prende le distanze dalla definizione di delirio come errore di giudizio non criticabile. Egli individua i caratteri delle idee deliranti nella certezza soggettiva, nell’incorreggibilita` e impossibilita` di contenuto. Jaspers e` partito dalla considerazione che il delirio in ogni epoca e` stato ritenuto il fenomeno fondamentale della follia, eppure non c’e` mai stata una chiara delimitazione delle caratteristiche della sua forma di pensiero. Per lui il vero delirio e` un fenomeno primario che insorge in modo immediato, come vissuto originario, gia` formato, non derivabile da altri elementi psicologici, in cui le alterazioni della percezione hanno un’importanza solo occasionale e per nulla decisiva. All’origine di un vero delirio c’e` un processo primario che e` un processo psichico del quale possiamo indicare solo l’esistenza in quanto in se´ resta incomprensibile. Questo perche´ col metodo della ragione non si riesce a comprendere logicamente il passaggio dal modo di pensare che precede il delirio al modo di pensare patologico dopo la rottura processuale. Se lo psichiatra puo` rintracciare un continuum, un filo di comprensione nella personalita` del delirante che motivi il delirio, se egli puo` evidenziare i fattori ambientali, gli stati d’animo che comprensibilmente possono aver condotto il paziente a delirare, allora ci troviamo davanti ad uno sviluppo o ad una rea-

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zione. Questi vanno nettamente distinti dai deliri di natura processuale, in cui c’e` una rottura, uno iatus col precedente, e l’insorgenza di un nuovo che non e` rintracciabile col metodo razionale nel precedente. Quando si arriva in contatto con i fenomeni psichici primari originari e irriducibili, siamo arrivati di fronte al processo. Jaspers si distanzia dal determinismo del processo organico di Kraepelin. Costui aveva fatto dell’idea del processo cerebrale un elemento di conoscibilita` empirica nel senso che forme diverse di malattie mentali (catatonia, ebrefrenia, ecc.) erano state unificate per il loro unico decorso proprio con l’idea che all’origine ci fosse un processo cerebrale che con il suo mutamento faceva confluire tutto in un progressivo deterioramento mentale fino alla demenza. In questo caso l’idea di malattia mentale come malattia d’organo si lega all’idea che il cervello, organo immodificabile, e` sano in quanto immutabile, e che se esso cambia si ammala; il suo cambiamento e` sempre un mutamento peggiorativo che, in qualunque forma si manifesti, porta al deterioramento. Jaspers tenta di introdurre il concetto di cambiamento (Verwandlung) in un ambito psichico. ` uno dei rari tentativi di trovare argomenti all’iE dea che la psiche non puo` piu` essere considerata immodificabile, fatto che contrasta con l’idea stessa di fondare una psicopatologia. Nel processo Jaspers pensa di trovare il dinamismo e la profondita` della psiche e finisce per trovare l’incomprensibilita`. Da immutabile la psiche diventa, se si muove, incomprensibile. Col processo psichico siamo di fronte all’incomprensibile, inteso non come cio` che non e` stato ancora compreso, ma come qualcosa che non e` ritenuto comprensibile dalla ragione. L’incomprensibilita` e` legata all’impossibilita` di immedesimazione e di ricavare in noi nella riflessione («ogni comprendere e` un autocomprendersi») le esperienze interne dell’altro. Una psiche sana ancorata alle sue strutture razionali puo` comprendere una psiche che si muove seppure in modo abnorme? «No» e` la risposta di Jaspers ineccepibilmente coerente con la conoscenza delle “essenze” immutabili. Il problema, appena sfiorato dopo secoli, di

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una possibilita` di cambiamento a livello psichico viene pero` subito fatto rientrare ancorandolo al substrato organico: «Invece di processo psichico si potrebbe anche dire evento biologico totale, purche´ il termine biologico non sia inteso nel senso di determinata conoscibilita`» (Jaspers). Dal nesso tra incomprensibilita` e processo primario discende un’ulteriore riflessione sulla quale Jaspers e` stato esplicito e le cui conseguenze sono state ignorate, e cioe` l’affermazione della totale incurabilita` del processo psichico rispetto a quello organico: «l’incurabilita` e` cosı` connaturata al processo psichico come il fatto che il vecchio non puo` ridiventare giovane». Si afferma che nel processo psichico c’e` un’alterazione generale piu` che in quello organico e si finisce col dire che esso si ammala ma non e` curabile, che non c’e` e non ci sara` mai la cura del processo psichico. La possibilita` di pensare curabili i disturbi mentali come il delirio e` esclusivamente legata al fatto che esso resti nell’ambito delle malattie somatiche (l’idea ippocratica), perche´ solo se la malattia mentale e` malattia del corpo si puo` attribuire ad essa un’eventualita` di cura legata al progresso della medicina. Se si stacca la malattia psichica dalle malattie del corpo ci si stacca dal terreno della curabilita`. La follia, per secoli ai margini della iatria, con Jaspers cerca di entrare nel campo del sapere, della loghia, e risulta incomprensibile. Vedremo in seguito come con un nuovo metodo di pensiero che si contrappone ai descritti modi della ragione di affrontare la realta` psichica si possa arrivare a conclusioni opposte; e cioe` che proprio nel momento in cui si afferma che la malattia mentale e` malattia organica, scatta l’idea dell’incurabilita`. Per sostenere una tale posizione occorre formulare un pensiero specifico di malattia psichica. E per questo e` indispensabile uscire dal solco del pensiero secolare tracciato dalla logica razionale che per garantire se stessa ha dovuto sempre postulare l’immutabilita` del pensiero. ` necessario arrivare a pensare non solo l’iE dea di movimento e di cambiamento patologico del pensiero, ma anche l’idea della trasformazione del biologico in psichico. Solo l’idea di una trasformazione del pensiero consente di proporsi

una conoscenza di cio` che sta prima della coscienza, di cio` che fonda il pensiero, che e` all’origine del pensiero verbale. Cosı` da uscire dall’inevitabile dicotomia organico o spirituale, secondo cui il pensiero originario, se riguarda la percezione e` riducibile all’attivita` cerebrale, se non deriva da percezioni e` pensiero dello spirito; dicotomia che continuera` nella scissione tra pensiero cosciente e inconscio. Pertanto dietro l’incomprensibilita` del salto, dello iatus tra pensiero patologico derivabile e pensiero inderivabile schizofrenico c’e` la non conoscenza del salto dal biologico allo psichico come trasformazione. Il nuovo metodo di pensiero porta a cogliere lo stato precedente, cio` che precede il fenomeno e che dopo la trasformazione non e` piu` visibile e pertanto puo` essere dedotto solo con una attivita` di pensiero, si potrebbe dire… rischiando il delirio, ‘nominando’ quello che gli altri non vedono e non pensano. Un metodo di pensiero che risulta importante per impostare una psicopatologia fondata su un concetto di malattia psichica. Perche´ quella fondata, oltre che da Jaspers, da K. Schneider e` una psicopatologia che, come malattia, «esiste solo nella sfera somatica»; in quanto «noi chiamiamo patologico l’abnorme psichico solo quando esso e` riconducibile a processi morbosi organici». «Designare come patologiche le stranezze psichiche — conclude Schneider — non ha alcun valore di conoscenza, alcun valore metodologico». Come si vede, rimane “incompresa” e del tutto irrisolta l’antica ippocratica sospensione: malattia o mania. Quello che al momento della fondazione della medicina era un interrogativo, un’apertura di ricerca, dopo venti secoli e` una scelta metodologica, di fondare una psicopatologia “a doppio binario”. La doppia articolazione del pensiero logico, su cui ci siamo dilungati e che in Husserl diventa dicotomia senso (percepito)-idea, la troviamo nel termine stesso di percezione delirante, il modello di pensiero piu` importante che la psicopatologia con Jaspers e Gruhle ha indicato come fenomeno essenziale del vero delirio (porta di ingresso nella schizofrenia) in cui ad una qualunque percezione normale viene collegato un significato senza un motivo razionalmente comprensibile.

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Cio` che risulta incomprensibile, alla luce della logica sopradescritta, e` come sia possibile che due percezioni, una normale l’altra delirante che hanno la stessa struttura, siano diverse per il significato, che e` parte integrante della percezione stessa. Cosı`, ad esempio, due sbadigli del bambino in perfetta salute significano per la madre la certezza che egli morira` dopo due giorni. La madre delirante percepisce i singoli gesti del bambino come noi li percepiamo ma con in piu` un simultaneo nuovo significato che per noi non esiste e per lei e` un inequivocabile segno di morte. Gli psichiatri che non si rassegnavano all’incomprensibilita`, come Matussek, Conrad, Jansarik, erano costretti ad ammettere un disturbo della percezione per spiegare la P.D. degli schizofrenici. Altri invece, come Barison, indagando la produttivita` del pensiero schizofrenico, cercheranno di cogliere il senso ultimo della creazione di nuovi significati avvicinandola alla creativita` artistica. Osservando lo stesso fenomeno, nello schizofrenico, si puo` arrivare a concludere che e` un cerebropatico o un artista. Queste contrapposizioni si avvertono anche riguardo agli altri concetti psicopatologici indicati come vie di accesso al vero delirio, l’intuizione delirante e lo stato d’animo delirante (Wahnstimmung). Secondo alcuni l’intuizione delirante non essendo stato possibile distinguerla sul piano formale e semeiologico da un’intuizione normale, non ha specifico valore diagnostico di schizofrenia ma al piu` di uno sviluppo delirante paranoico. Intorno allo stato d’animo o umore delirante si e` riattivato l’antico dibattito sul ruolo primario o meno dell’affettivita` nella genesi del delirio. Dalla Wahnstimmung, uno stato d’animo di penosa indeterminatezza che si fa sempre piu` insopportabile, si esce nel momento in cui compare un’idea delirante che configura un oggetto falso, ma creduto vero, per cui le cose sono affermate con ritrovata certezza e non piu` sentite con il carattere angosciante di prima. In questa lettura che valorizza il ruolo dell’affetto, sarebbe l’umore alterato che altera la funzione percettiva della realta`; questa provocherebbe il delirio il quale a sua volta risolve lo stato d’animo iniziale. In una tale ottica non si riuscira` a spiegare quanto succede nelle Bouffe´es deliranti in cui componenti

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affettive e alterazioni percettive di tipo illusionale insorgono acutamente insieme e regrediscono di pari passo con la stessa rapidita`. Tuttavia al di la` degli abituali contrasti tra psichiatri, legati alla fragilita` del modello conoscitivo che moltiplica i punti di vista, lo studio della Wahnstimmung ha il suo interesse nel fatto di indagare le condizioni che preparano il delirio, vissuti affettivi, rappresentazioni indefinite, significati sospesi, tutto cio` che precede il pensiero verbale e che non e` ancora delirio. Il tentativo piu` rilevante di correggere dall’interno i limiti dell’analisi fenomenologica e` stato senza dubbio quello di L. Binswanger, quando egli stesso fa propria la critica ad Husserl svolta da Heidegger: «Gli atti intenzionali nel loro svolgersi producono senso; ma non ci dicono nulla del modo di essere della persona che li compie». L’intenzionalita` si fonda sulla temporalita` della presenza umana (Dasein). L’Esserci, nel dispiegare la capacita` dell’uomo di progettare l’esistenza, indica il significato delle cose. In ogni forma di alienazione mentale si tratta di cogliere l’incrinatura delle strutture — strutture esistenziali a priori — che organizzano il mondo progettato da quella esistenza alienata, diversa dal mondo comune. Il delirio e` un modo costitutivo di essere, proprio per questo non si ha un delirio ma si e` deliranti. Il pensiero verbale costruito dal delirante indica direttamente il significato che le cose hanno, perche´ il suo linguaggio indica le forme del progetto con cui si rapporta al mondo e questo lo rende comprensibile all’analisi esistenziale. Seguendo questa impostazione e arricchendola del suo personale contributo di pensiero, Binswanger indaga a tutto campo il mondo dello schizofrenico. Tuttavia, nella sua ultima opera “Wahn”, sente il bisogno di ritornare ad Husserl e cerca di affrontare il problema della struttura del pensiero. Riprende la terminologia che abbiamo incontrato all’inizio della nostra trattazione: aistesis, mneme, fantasia sono le tre funzioni dalla cui organizzazione deriva il pensiero. Nel delirio non si trova un difetto nel ricordo, scarso e` il ruolo della fantasia che e` solo impoverita; il disturbo e` concentrato sulla sensazione e quindi sconfina nell’alterazione della percezione.

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` sconcertante come in questo tentativo maturo E di indagare teoricamente il delirio come un disturbo dell’ordine strutturale del pensiero non ci sia nulla di veramente originale che risponda alle ambizioni dell’opera di distinguere il vero pensiero da quello falso. Le intuizioni, per la scelta metodologica forse, non vengono sviluppate e si rimane sul piano descrittivo. Un discorso a parte merita la psicoanalisi. Freud, ancor prima di Jaspers e in modo diverso, nel settimo capitolo de L’interpretazione dei Sogni aveva parlato di Processo primario, spiegando che e` l’inconscio e non il cervello il luogo di elezione di questo processo. Il processo primario e` limitato alle sole attivita` di spostamento e di condensazione, eppure questi due dinamismi primitivi della psiche accompagnano non solo il processo schizofrenico ma la formazione dei miti, dei sogni, dei rituali ossessivi, la fantasia dei poeti. Freud non e` interessato ai grandi temi della psicopatologia psichiatrica che vengono solo sfiorati e inglobati negli schemi di riferimento delle nevrosi. Il delirio e` la via di ritorno del rimosso, secondo lo schema psicoanalitico classico: con l’aumento di intensita` del conflitto, aumenta l’angoscia, aumentano le difese e i sintomi e in particolare aumenta la proiezione. La proiezione e` considerata un modo primitivo e normale per conoscere, attivo nell’animismo e nei miti; e` inoltre il modo di introdurre il significato nelle cose della realta`. Ma al tempo stesso e` il meccanismo patologico di formazione del sintomo paranoico in cui il delirio ha la funzione di alleggerire la colpa di impulsi sessuali inaccettabili. Cio` che sta nell’inconscio e` cio` che non puo` essere vissuto nella realta` cosciente, la malattia viene fuori quando il rimosso non riesce a restare immobilizzato nell’inconscio dalla rimozione e ritorna disordinatamente a invadere la coscienza. Il delirio viene spiegato e interpretato come un sogno, c’e` un significato latente (il frammento di fatto personale del passato) e c’e` un significato manifesto (il travestimento del fatto ad opera del delirio che come il sogno ha il funzionamento psichico del processo primario). In Costruzioni nell’analisi (1937) Freud cam-

bia l’impostazione della tecnica analitica verso un concetto di costruzione, in cui l’analista non e` solo passivo ascoltatore di cio` che viene in mente al paziente, ma propone una sua ricostruzione. Nel costruire qualcosa che non c’e`, dice Freud, l’analista fa qualcosa di analogo alla costruzione del delirante, rischia il delirio. La riflessione psicoanalitica sul delirio col tempo accentuera` l’idea di un continuum nel passaggio dal pensiero normale al patologico: sarebbe piu` esatto dire dal normalmente patologico all’eccessivamente patologico. Basti pensare al processo paranoideo che con la Klein viene indicato come un fondamentale elemento strutturale nel normale sviluppo dell’individuo o il concetto di identificazione come massimo traguardo terapeutico. Psicoanalisi e fenomenologia hanno lasciato nel corso di un secolo irrisolti i problemi della formazione del pensiero normale e patologico. La psichiatria fenomenologica andava alla ricerca di una forma nel fondo della psiche che potesse dare senso al disordine, allo strano schizofrenico. In questo c’era forse un rifiuto di considerare il profondo come il negativo, l’informe, il disordine inconscio della realta` psichica, come proponeva la psicoanalisi. Ma cercando una forma solo nella coscienza non ha trovato la malattia ma una diversita`, una variante formalmente simile al pensiero creativo. Per i grandi clinici l’idea freudiana che la psiche si ammala per il solo fatto di diventare inconscia non era accettabile. Mentre per chi lavorava in psicoterapia non era accettabile l’idea che sotto la coscienza, al fondo, si incontra non l’inconscio ma solo il substrato biologico. Sembrava inevitabile il metodo che per occuparsi di malattia psichica si dovesse sempre tenere separati inconscio e coscienza, psicoanalisti e psichiatri. Uniti dalla mancanza di coraggio per lanciare un’accusa al tradizionale metodo di pensiero e porsi il problema mai posto di pensare un’origine del pensiero. Eppure proprio gli psichiatri erano spinti a porsi questo problema. Dal momento che normalmente non si delira e poi ad un certo punto si inizia a delirare. C’e` un inizio, un’origine del pensiero delirante. Questa millenaria acquisizione

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dell’indagine medica, come visto, si e` dovuta sempre confrontare con l’immutabilita` di un pensiero razionale (teologico, filosofico, psichiatrico, psicoanalitico) per il quale non c’e` un inizio, un’origine del pensiero normale. Anche quando la psicoanalisi ha accettato l’idea di rivolgersi alle tappe dello sviluppo psichico che precedono la razionalita` dell’uomo adulto (cio` di cui si e` occupata la filosofia e la psichiatria) non ha pensato la nascita ma l’innato: la fantasia inconscia innata della Klein, la pre-concezione, conoscenza innata dell’oggetto di Bion. Per pensare il delirio bisogna trovare il modo di affrontare il problema di come pensare qualcosa che i cinque sensi non possono percepire. Bisogna cioe` portarsi sullo stesso terreno del pensatore delirante che pensa qualcosa che non trova corrispondenza con la realta` percepibile. Per intraprendere questa strada di ricerca e uscire da tutte le contraddizioni che abbiamo discusso, e` risultata fondamentale l’acquisizione di un nuovo modo di indagare i fenomeni psichici17 basato su tre concetti inediti: l’intenzionalita` non cosciente, l’elaborazione inconscia delle percezioni, l’immagine interiore. Una relazione intenzionale, si e` detto, sembra essere in atto anche se l’oggetto non esiste nella realta` esterna. Si puo` immaginare, nominare una cosa, credere in essa indipendentemente dalla sua esistenza. La scoperta nella relazione terapeutica con lo schizofrenico dell’intenzionalita` inconscia ha evidenziato la possibilita` umana di rapportarsi a livello cosciente ad una cosa e considerarla inesistente a livello inconscio. Quest’attivita` psichica, che fa capo alla diversita` della reazione biologica umana agli stimoli (pulsione), riconosce al pensiero umano una caratteristica che rompe decisamente con tutte le tradizioni precedenti.

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Il nuovo metodo di pensiero fa riferimento alle teorizzazioni di M. Fagioli esposte nei suoi libri e ad una prassi e una ricerca i cui sviluppi sono stati dibattuti in tre Convegni dell’Istituto Orientale di Napoli (’96), della “Sapienza” di Roma (’97), di Wu¨rzburg (’99) da cui sono tratte queste considerazioni finali che devono il loro stimolo piu` forte alle ipotesi sui rapporti tra linguaggio e realta` psichica esposte nelle tesi di laurea di Marcella Fagioli, relatore N. Lalli (a. a. ’92-93).

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Ritenere inesistente una cosa presente alla percezione dei sensi, o meglio viverla come inesistente, e` cio` che allontana qualitativamente sia dalla neurofisiologia sia dalla psicologia del mondo animale. La realta` umana contiene ed esprime fin dal primo momento della nascita una “ribellione ai cinque sensi”. In una sintesi estrema si potrebbe dire che le conseguenze di questa ribellione della nostra specie siano riassumibili, limitatamente al nostro tema, in tre dimensioni dell’immateriale umano: la religione, la ragione astratta, l’immagine interiore. Possiamo sostenere che alla base di un’idea religiosa, una razionale e una come immagine interiore ci sia un diverso modo di pensare cio` che non e` direttamente percepibile. L’idea stessa di immagine interiore come pensiero, proposta trent’anni fa da M. Fagioli nei suoi scritti, e` stata difficile da accettare in quanto mette insieme cose da sempre ritenute inconciliabili (le varie dicotomie nella storia del pensiero) e cioe` l’idea – considerata la parte nobile del pensiero legata al concetto, all’essere, allo spirito – e l’immagine considerata copia della realta` esterna o fantasma senza rapporti con la realta`. L’immagine interiore viene distinta dall’immagine mentale prodotta dalla coscienza che, abbiamo visto, e` sempre un’immagine che proviene dall’esterno. L’immagine interiore invece e` concettualizzata come un’immagine che non prendiamo dall’esterno ma che si crea e si forma dall’interno di noi stessi. Si forma per trasformazione dello stimolo sensoriale, per separazione da esso e ricordo. Indagando la fenomenologia della nascita umana, Fagioli riconosce una specifica capacita` di reagire agli stimoli con un’attivita` psichica (pulsione) che inizia come delirio (il mondo non esiste). Delirio che non e` un delirio come errore di pensiero che deforma la realta`, ma e` un “pensare qualcosa che non esiste”. Tuttavia insieme all’elaborazione degli stimoli dell’ambiente nuovo nel venire alla luce si attua anche l’elaborazione dell’ambiente precedente per cui si fa una memoria dell’esperienza vissuta materialmente che in un certo senso corregge il delirio in quanto e` verita` di rapporto, autenticita` di vissuto. E forse sta qui

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la matrice che poi determina quella caratteristica umana del pensiero falso e del pensiero vero che si giochera` nei rapporti interumani e nel rapporto con la realta`. Il pensiero umano iniziato come delirio (‘pensiero senza’, senza oggetto, senza vissuto, che non e` vero pensiero) viene corretto dal pensiero vero che, nel ricordo, elabora il rapporto vissuto in precedenza. Pensiero questo, che e` immagine, ricreazione fantastica di un oggetto sentito con tutto il corpo e non visto; immagine che non prendiamo dall’esterno ne´ che ci viene data a priori ma che creiamo dall’interno per trasformazione di quanto concretamente vissuto. L’immagine interna deriva da uno stimolo esterno ma, una volta formatasi per trasformazione dello stimolo, quest’ultimo non e` piu` verificabile ne´ confrontabile direttamente con la realta` percepita. Deve essere ricavato da una inferenza di pensiero. E tutto cio` diversamente dalla elaborazione cosciente della percezione e del ricordo cosciente, in cui lo stimolo non e` deformato anzi deve corrispondere e rispecchiare esattamente la cosa percepita; solo cosı` c’e` garanzia di rapporto con ` questo un aspetto rilevante da la realta` esterna. E considerare perche´ pone il problema e la novita` di un pensiero in cui i criteri di verita` non sono piu` garantiti dall’esterno, ma solo dalla realta` umana. Abbiamo visto che l’immateriale, come idea o rappresentazione, per essere definito vero dalla ragione, ha sempre richiesto una garanzia: dalla corrispondenza con la realta` esterna, da categorie a priori, dal divino. Questo vale anche per la rappresentazione mentale inconscia freudiana che nasce tutt’all’interno dell’individuo ma senza stimoli e senza alcun rapporto con la realta`, anzi e` un pericolo per la realta`, regredire al suo livello e` fonte di malattia. L’identita` e` garantita dall’identificazione, che garantisce anche di capire l’altro, la conoscenza per assimilazione. Oppure, dal narcisismo a Lacan, la garanzia e` nell’immagine allo specchio in cui si conferma l’idea antica della ragione di capire se stessa per rispecchiamento della realta` esterna. L’immagine interiore nasce per uno stimolo esterno ma la trasformazione dello stimolo impedisce che vi sia qualcosa di esterno a fare da

garante. La garanzia e` dentro di noi, in cio` che abbiamo vissuto e ricordato, che costituisce una struttura di sanita` originaria, pensata come immagine interiore. All’esterno per l’essere umano non ci sono garanzie, ci sono solo stimoli e, dopo la nascita, soprattutto gli stimoli dell’ambiente umano che possono sviluppare l’immagine interna o alterarla, spegnerla. Nella citata tesi sull’origine del linguaggio si argomenta un interessante confronto tra “la realta` che precede la visione fisica delle cose” e la “visione fisica delle cose”. Il neonato fa immagini basandosi su cio` che vive e su cio` che lo stimola nel rapporto materno in cui utilizza tutti i sensi meno la vista (che matura successivamente). Queste immagini non possono avere confronto alcuno con la realta` esterna, sono creazioni del bambino, frutto della sua attivita` psichica. Sono immagini senza percezione visiva ma che tuttavia si riferiscono a qualcosa che esiste e che e` direttamente legato al rapporto concreto, vissuto materialmente. Acquisendo questi concetti noi possiamo ammettere, nel seguire il nostro discorso, una forma iniziale di pensiero senza percezione e possiamo distinguere: un pensiero senza percezione che si riferisce a qualcosa che non esiste, che e` quel pensiero senza rapporto concreto senza memoria di cio` che si e` toccato, succhiato, vissuto; e un pensiero senza percezione che porta in se´ la memoria del vissuto, che ha elaborato l’oggetto esistente anche se non percepito “figurativamente”, che ha trasformato la percezione in qualcosa di non materiale, in pensiero muto, l’immagine interiore che non si fa percepire. Ci viene detto pertanto che l’immagine interiore che precede la visione fisica ed elabora il rapporto vissuto, puo` avere in se´ una capacita` di riferirsi al rapporto interumano. L’alterazione o la perdita dell’immagine puo` portare ad un’alterazione o perdita di quanto restava in essa del rapporto con la realta`. Quando compare la visione fisica delle cose si rende necessario un confronto tra l’immagine esterna vista e imposta dalla realta` e l’immagine ` in questo interna creata per il rapporto vissuto. E piano, possiamo dire, che avviene la famosa “a-

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daequatio”, in cui all’“adaequatio rei et intellectus” di aristotelica e tomistica memoria possiamo far precedere quella tra l’immagine esterna e l’immagine interiore. ` su questo confronto che si cimentera` poi la E sicurezza e certezza delle proprie immagini inventate e la sicurezza e certezza delle proprie percezioni. Su questo si fonda un sano rapporto con la realta`. Quella “ribellione ai cinque sensi” che fa l’identita` umana e di pensiero e` quella stessa che puo` fare la malattia del pensiero. Rivendicare la certezza del proprio pensiero senza percezioni, infatti, puo` essere delirio o pensiero creativo. L’immagine dunque, per quanto riguarda il nostro tema, ha una potenzialita`, la quale si puo` poi manifestare nel pensiero verbale, quando si va a costruire il discorso verbale e si entra cosı` nell’ambito che riguarda il delirio. Abbiamo visto come la possibilita` di formulare pensieri sulle cose e di comunicarli richieda che si stabiliscano dei nessi tra le parole e le cose, nessi concepiti come rappresentazioni mentali. A queste immagini percettive e ai nomi che le indicano e` sempre stato imposto l’assetto statico precostituito della ragione come unica garanzia per la costruzione dei significati. Una metodologia che persegue d’indagare la realta` psichica senza scissione tra pensiero inconscio e cosciente non puo` accettare l’idea che il pensiero verbale, il linguaggio parlato che si forma sull’eliminazione di cio` che non e` cosciente, sia garanzia di un corretto rapporto con la realta`. Nel formarsi del linguaggio dall’immagine il soggetto si deve ricordare dell’esperienza precedente. Se quello che precede il linguaggio viene ricordato, non viene eliminato, il linguaggio ha in se´ la capacita` di parlare di inconscio, di comprendere l’inconscio, di intenderne il senso. In questo modo e` stata concettualizzata l’esistenza di un pensiero verbale che nasce per trasformazione dell’immagine, un pensiero verbale che deriva dall’immagine ma non per negazione, ` a questo concetto annullamento della stessa. E fagioliano di trasformazione — dalla sensazione/percezione all’immagine e poi dall’immagine al pensiero verbale, senza che il precedente vada perduto, ma, invisibile, rimane nelle cose nuove — che si lega il concetto di latente. Quell’imma-

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gine latente che e` invisibile e che in ogni lavoro di psicoterapia, di interpretazione dei sogni bisognerebbe poi scoprire e verbalizzare. La distinzione (per diversa formazione) e il confronto tra immagini percettive e immagini inconsce ci obbligano inoltre a distinguere tra significati che si riferiscono alle immagini esterne e quelli legati alle immagini interiori. Si raggiunge in tal modo la possibilita` di dare un fondamento teorico alla distinzione tra senso e significato. Il significato ha la sua origine nella comparsa dell’elaborazione cosciente delle percezioni e riguarda le rappresentazioni definite, indeformate, condivise e verificabili che sono copie delle cose. Il senso trova la sua origine nell’elaborazione inconscia delle percezioni, in cui entrano in gioco il ‘sentire’ e le sensazioni (e` qui l’aggancio biologico fantasticato con il sensorio comune) vissute nel rapporto umano e trasformate in immagini indefinite, personali e non percepibili se non comunicate nel linguaggio e colte in altre manifestazioni. ` quanto viene esplicitato nel citato “InconE tro sulla Psichiatria” dell’Universita` di Wu¨rzburg nella relazione di Fagioli «…Mi serve per pensare…», in cui il senso viene legato all’immagine interiore, all’affettivita`, al movimento umano, e distinto dai significati legati alla ragione. Possiamo dire che nel corso dell’esistenza, se il significato e` ancorato alla fissita` della registrazione dei fatti, il senso e` affidato al movimento, alla forma che acquista l’immagine dopo il rapporto con l’essere umano. L’immagine esterna deve essere garantita dalla cosa per essere, perche´ l’essere e` nella cosa di cui essa e` copia ed ha bisogno del linguaggio razionale che le attribuisce il significato legandola alla cosa che rappresenta. Se il senso e` connesso all’immagine interiore e al movimento umano, esso implica l’essere e non ha bisogno del linguaggio razionale per essere. Questo ci puo` far ipotizzare che se il significato si attribuisce, in modo condiviso anche convenzionalmente e socialmente, o in modo arbitrario, il senso e` nelle cose umane, si coglie, si abolisce, si ignora, le parole servono a coglierlo ed esprimerlo, a renderlo percepibile o a distruggerlo. Forse solo l’artista geniale crea il senso.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

L’uomo, prima che un donatore di senso, e` soprattutto un portatore di senso. Pertanto dovremmo occuparci non solo di una patologia dei significati ma di una patologia del senso e questo forse puo` spingerci oltre l’idea del delirio come una patologia della coscienza dei significati, l’idea prevalente, come abbiamo descritto, in tutta la psichiatria del Novecento. Anzi, tenendo conto di quanto detto all’inizio, l’idea prevalente in tutta la storia della psichiatria. Dall’idea di delirio come frenite, come disturbo del sensorio, della coscienza (delirium), delle passioni che tolgono lucidita` e aboliscono o alterano i significati. Quell’idea che ha sempre reso difficile e spesso impossibile la diagnosi di delirio quando i significati sono mantenuti, non c’e` disordine affettivo ed e` inalterato il rapporto lucido con le cose e il linguaggio razionale; ha reso difficile e spesso impossibile cioe` la diagnosi di certe forme di schizofrenia, in cui e` il senso ad essere abolito o perduto e in cui i significati sono inalterati. Questo riapre la ricerca sulla percezione delirante con il collegamento a quanti (Jaspers, Gruhle, Barison, Fagioli), ammettendo che nel normale, nel paranoico e nello schizofrenico c’e` la struttura inalterata della percezione (e quindi non c’e` il disturbo organico), lasciavano aperta la ricerca su cio` che cambia nella intenzionalita`. Per cui si puo` dire che se l’intenzionalita` e` simile nel normale e nel paranoico, dove ha un cambiamento e` nello schizofrenico, in cui i significati sono mantenuti e c’e` una intenzionalita` diversa nel dare un senso; intenzionalita` che non e` piu` incomprensibile se la leghiamo ad una intenzionalita` inconscia in quanto quest’ultima la possiamo rintracciare nell’espressione, nel movimento umano. Lo possiamo fare se noi stessi non teniamo fuori l’inconscio che ci serve per ‘‘renderci conto’’ del senso delle manifestazioni dell’altro. In un recente libro sulla percezione delirante, Armando, confrontando la struttura delle percezioni deliranti col processo della nascita, ipotizza che «la precedente esperienza, il ‘remoto’ cui attingere significati, sembra non poter essere altro che la prima immagine, come cio` cui attingere un’autenticita` di senso ed una verifica dello stesso». Il percorso dell’autore nel cercare un’unita`

delle percezioni deliranti (normale, paranoicale, artistica, schizofrenica) e di farla corrispondere all’unita` dell’esperienza, suggerisce il problema di un passaggio graduale, dal pensiero normale a quello schizofrenico, senza dover pensare ad un anders, ad una diversita` totale. La possibilita` di affrontare questo grande tema aperto della psicopatologia e` nella ricerca sull’affettivita` e sui rapporti tra affettivita` e pensiero. Questo puo` ricevere una chiarificazione partendo dal rapporto con l’immagine, a patto di rifiutare la tradizione di tenere seperati il disturbo dell’affettivita` e quello del pensiero. Il pensiero fa l’anaffettivita`, nel senso che ci si rende anaffettivi col pensiero, proprio eliminando l’immagine e il vissuto ad essa legato. In questo modo l’anaffettivita` entra nel problema del delirio, in quanto essa e` un difetto di conoscenza; non della conoscenza razionale e dei significati perseguita attraverso il distacco dalle passioni e dagli affetti. Il modo di costruire i pensieri nel delirante, soprattutto in certi tipi di delirio, e` tutt’altro che irrazionale, anzi e` simile nello strutturarsi al modo visto in precedenza con cui la ragione costruisce il pensiero verbale. Piu` in generale si puo` dire che l’affettivita` e il suo rapporto con l’immagine hanno un’importanza basilare nelle molteplicita` delle forme con cui si presenta il delirio; dal delirio acuto con massima componente affettiva (prevalenza del disturbo dei significati?) al delirio schizofrenico con massima anaffettivita` (prevalenza di una patologia del senso?). Cio` per il ruolo che l’affettivita` e l’immagine hanno nella costruzione del pensiero verbale. Viene accettato che ci sono soggetti che hanno scarso rapporto con gli affetti e le cose umane, gli schizoidi, che riescono a fare un linguaggio cosciente fatto di pensieri lucidi che corrispondono agli oggetti della realta`, che descrivono esattamente le cose viste e udite, che mantengono i significati. Ma, ancora, perche´ si vada nel delirio schizofrenico bisogna che il linguaggio cosciente sia portato ad esprimere cose inesistenti e impossibili. Sia portato ad “inventare” pensieri di cose inesistenti e impossibili da vivere, da sentire, percepire. Forse questo delirante cerca di ritrovare il

Elementi di psicopatologia dinamica

ricordo che ha perduto o eliminato o mai fatto. Quelle memorie che i normali hanno, perche´ tutti vedono gli oggetti, le persone in base a quello che ognuno ha dentro di se´ di immagini, di affetti, di quanto ha costruito e vissuto dentro di se´, perche´ ognuno vive e ha la sua forma di rappresentazione della realta` e la esprime in mezzo agli altri. Il linguaggio che nasce per eliminazione dell’immagine interna e` quella che poi elimina l’inconscio e con esso gli affetti, i vissuti, quanto ha vissuto nel proprio corpo con il rapporto con gli altri, la memoria di cio` che ha sentito e toccato, amato e odiato. Rimane l’idea staccata dal corpo, rimane il pensiero cosciente che puo` pensare solo la realta` materiale delle cose e pensa la realta` umana senza latente, senza senso, perche´ ha perduto il proprio. Il cognitivista Kline, dopo lunga indagine, ricava che «l’80% degli schizofrenici non cadeva in un’illusione visiva di cui erano vittime il 100% dei normali» e ne trae la conclusione che «la ragione per cui gli schizofrenici sono schizofrenici e` che vedono il mondo nel modo in cui esso e`». Questo dato, che viene utilizzato per confermare l’incomprensibilita` dello schizofrenico, per noi puo` confermare la validita` di un metodo di ricerca. Ci sono veri malati di mente che non possono accettare le illusioni, che non sopportano l’irrazionale e perseguono un rapporto letteralmente esatto con la realta` delle cose, a dispetto dell’idea tuttora radicata che la follia e` irrazionalita`. Veri malati di mente, quelli definiti spesso incomprensibili, imprevedibili, indiagnosticabili, trasformano l’anaffettivita` in pensiero verbale perche´ non riescono a fare la rappresentazione, perche´ hanno perso l’immagine, perche´ manca quel sentire vivo che porta i vissuti a entrare nella formazione dell’immagine. Arrivano cosı` a quel “pensare senza” che non e` vero pensiero, senza quell’immagine interiore che ci hanno detto “serve per pensare”, e che forse a conclusione possiamo azzardare: serve anche per non delirare.

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Riferimenti bibliografici paragrafi 2 e 3 della Parte Seconda 1)

Per la storia della melanconia, cfr. i testi: Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, Il Melangolo, Genova 1981. Flashar H., Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, W. De Gruyter, Berlino 1966. Jackson S.W., Melancholia & Depression, Yale University Press, New Haven 1986. Starobinski J., La malinconia allo specchio, Garzanti, Firenze 1990.

2)

Per una critica all’ipotesi ereditaria, cfr.: Zerbin-Ru¨ din E., Genoma ed autodeterminazione: contradictio in adjecto? In “Il Sogno della Farfalla” VI, 4, 1997. Fagioli M., Homberg A., Il cervello non s’ammala mai. Due o tre domande sulla depressione. In Il Sogno della Farfalla V, 2, 1996.

3)

Per la teoria psicoanalitica “classica” sulle depressioni, cfr.: Abraham K. (1912), Note per l’indagine e il trattamento della follia maniaco-depressiva e di stati affini. In: Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1975. Abraham K. (1924), Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici. In: Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1975. Freud S. (1917), Lutto e melanconia. In: O.S.F., vol. VIII, Boringhieri, Torino. Klein M. (1935), Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In: Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Klein M. (1940), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi. In: Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Gaylin W. (a cura di), Il significato della disperazione, Astrolabio, Roma 1977.

4)

Riassunto a stralci dell’intervista a Massimo Fagioli nella trasmissione “Depressione” condotta da C. Patrignani e A. Ferrante sull’emittente romana Telesimpaty, 27.2.1998. Videocassetta della Harvey Produzioni Multimediali, Roma 1998.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

5)

Cfr. Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane 19968. ` il vedere che l’uomo vuole. Cfr. Homberg A., E Appunti per una teoria della depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Fagioli F., Homberg A., Masini A., Limiti della conoscenza nel blocco catatonico e nello stupor depressivo. In: G. Merlin, G. Borgherini (a cura di), La sindrome di apatia schizofrenica tra concezioni fenomenologiche e mondo delle scale, CLEUP, Padova 1991. Fagioli M., Mi serve per pensare. In: Il Sogno della Farfalla VIII, 2, 1999. Cfr. sulla psicoterapia delle depressioni e sul tema del transfert negativo: Fagioli M., Una depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Anzilotti C., La relazione terapeutica negativa. In: Il Sogno della Farfalla V, 2, 1996. Il film di M. Bellocchio, Diavolo in corpo, Italia 1986.

6)

7)

8) 9)

10)

Cfr. in questo manuale Fagioli F., Masini M., Un accenno alla metodologia, p. 206. Inoltre: Fagioli M., Una depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Fagioli M., Homberg A., Il cervello non s’ammala mai. Due o tre domande sulla depressione. In Il Sogno della Farfalla, V, 2, 1996. Masini A., Dal ‘‘fare il bene per Dio’’, al ‘‘fare il bene per gli uomini’’; l’affettivita` come obbligo storico. In: Crisi del freudismo e prospettive della scienza dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma, 2000.

Riferimenti bibliografici paragrafo 6: Aristotele, Opere, VII Laterza, 1973. Armando L. A., Percezione delirante idea della cura unita` dell’esperienza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.

AA.VV., La medicina abbandonata (a cura di M. Fagioli) Nuove Edizioni Romane, Roma 1998. AA.VV., Fantasia di sparizione formazione dell’immagine idea della cura (a cura di Armando, Fiorinastro, Masini) Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Binswanger L., Delirio, Marsilio, Venezia 1990. Esquirol E.D., Des maladies mentales, Paris 1838. Fagioli M., Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Fagioli M., Se avessi disegnato una donna, in Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma, 1996. Fagioli M., La parola dell’inconscio. Ipotesi che legano gli studi linguistici alla realta` psichica, Tesi di laurea in medicina e chirurgia, Universita` “La Sapienza” di Roma, 1992-93 (in corso di pubblicazione). Fagioli M., Mi serve per pensare…, in Il sogno della Farfalla, VIII, 2, 1999, pp. 6-20. Frege G., Senso e significato in logica e aritmetica, Einaudi, Torino 1965. Freud S., Opere, Boringhieri, Torino. Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima, Marsilio, Venezia 1984. Gruhle H.W., Sul delirio in Il sogno della farfalla, IV, 3, 1995. Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970. Husserl E., (1913), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965. Husserl E., (1900) Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1968. Ippocrate, Opere, Utet, Torino 1965. Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 1982. Kraepelin E., Dementia praecox, ETS, Pisa 1989. Pancheri P., Biondi M., Il delirio, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1994. Pinel P., La Mania, Marsilio, Venezia 1987. Schneider K., (1966) Psicopatologia clinica, Sansoni, Firenze 1967. Whytt R., Traite´ des maladies nerveuses, hypocondriaques et hyste´riques, P. Didot, Paris 1777. Wittgenstein L., Della certezza, Einaudi, Torino 1978.

10 Nosografia dei disturbi psichiatrici Nicola Lalli Parole chiave classificazione naturale; nomenclatura; nosologia; nosografia; sindrome; carattere; reazioni; malattia

La classificazione e` un’operazione necessaria e fondamentale per ogni disciplina, perche´ rende comprensibili dati e fenomeni che altrimenti sarebbero caotici ed incomprensibili. Non a caso la classificazione kraepeliniana, per quanto parziale perche´ fondata unicamente sul decorso, ha segnato comunque l’inizio e la nascita della Psichiatria come disciplina autonoma. L’aspirazione di ogni disciplina e` quella di poter disporre di una classificazione quanto piu` naturale e quindi piu` attinente all’essenza dei fenomeni: una sorta di tavola di Mendeleev. Ma credo che questo sia impossibile per la Psichiatria, perche´ sono implicati non solo fenomeni biologici e naturali, che possono avere una certa ripetitivita`, ma soprattutto fenomeni psichici e storici, che in genere ripetitivi non sono. Pertanto bisognera` accettare che ogni sforzo nosografico in Psichiatria mostrera` sempre uno scarto, una impossibilita` di raccogliere tutti i dati psicopatologici. Questo non vuol dire pero` rinunciare al progetto e accontentarsi di una semplice descrizione dei fenomeni, come fa il DSM-IV. Ri-

tengo che una nosografia psichiatrica debba avere invece la pretesa di ordinare i dati, secondo un criterio teorico di riferimento tale da costituire una sorta di reticolo all’interno del quale sistemare i vari fenomeni psicopatologici. Salvo apportare modificazioni, qualora la clinica ed ulteriori conoscenze lo rendessero necessario. Attualmente ritengo che la nosografia psichiatrica possa essere ordinata per categorie, caratterizzate da fenomeni specifici e patognomonici, cosı` suddivise: a) b) c) d) e) f)

reazioni; disturbi del carattere su base conflittuale; disturbi strutturali del carattere; disturbi strutturali del carattere con dipendenza da sostanze tossiche; disturbi psicotici; disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali La classificazione e` una delle prime e fondamentali operazioni che ogni disciplina deve compiere, per dare ordine ad una serie di eventi e di fenomeni che altrimenti rimarrebbero frammentari e spesso incomprensibili. La classificazione presenta inoltre una duplice utilita`: teorica e pratica. Sul piano teorico serve ad ipotizzare e quindi ricercare le eventuali cause dei sintomi sulla base di eventi analoghi; sul piano pratico serve fondamentalmente per la diagnosi, che esprime la possibilita` di conoscenza e di codificazione e quindi la possibilita` di terapia e di prognosi. Una classificazione e` tanto piu` valida quanto piu` rispecchia un ordine ed una sequenza naturale, ovverosia immanente ai fenomeni che si classificano. Ma non sempre questo e` possibile. Pertanto si hanno due tipi di classificazione: una naturale e l’altra artificiale o convenzionale. La classificazione artificiale si identifica con la nomenclatura, ovverosia l’ordinamento mediante numeri di codice. Si tratta quindi di una soluzione di comodo: attribuiamo ai vari fenomeni denominazioni o numeri diversi, con il preciso scopo di rendere piu` rapida ed economica la ricerca e la comunicazione: tra codice e fenomeno non esiste alcuna correlazione, ma il tutto si basa su di una pura convenzione. La classificazione naturale tende invece a riprodurre quell’ordine e quella serialita` che e` insita nei fenomeni stessi. L’esempio piu` conosciuto e` la tavola periodica di Mendeleev, ove gli elementi naturali sono ordinati secondo il loro peso atomico: il valore euristico di questa classificazione e` stato evidenziato dal fatto che le caselle rimaste vuote sono state successivamente riempite dalla scoperta di quegli elementi che sono facilmente degradabili e sono difficilmente reperibili allo stato naturale, ma la cui esistenza era stata prevista proprio dalla classificazione di Mendeleev. Certamente l’aspirazione di ogni classificazione sarebbe di avvicinarsi al modello naturale. Ma questo non sempre e` possibile, soprattutto nel campo umano, per la complessita` dei fenomeni che non si presentano con quella linearita` e periodicita`, come e` tipico del mondo natu-

rale. Inoltre, soprattutto quando classifichiamo delle patologie, dobbiamo tener presente non solo che queste possono essere determinate da cause diverse, ma anche che una diversa interazione tra queste cause puo` indurre fenomeni diversi. Ora dobbiamo chiederci quali sono le possibilita` e le difficolta` nel proporre una classificazione dei disturbi psichiatrici.

2. Metodologia della classificazione Il primo punto da stabilire e` che cosa tendiamo a classificare. A volte classifichiamo le malattie; a volte le variazioni del comportamento o le persone con le loro variabilita` caratteriali; a volte gli epifenomeni di variazioni biologiche. A questa complessita` che attiene allo specifico psichiatrico si aggiunge una difficolta` che attiene all’osservatore. Questa difficolta` nasce dal fatto che l’oggetto di osservazione non solo non e` immobile, ma varia anche secondo l’ottica con la quale si osserva. Cosa che puo` essere meglio evidenziata dall’esempio del bosco e dell’albero. Se noi osserviamo un bosco ad una certa distanza, vediamo un insieme di alberi che si strutturano con una gestalt ben precisa: sappiamo che e` formato di alberi, ma di questi ci sfugge la precisa connotazione. Se ci avviciniamo, ed anzi entriamo nel bosco, le cose cambiano: possiamo esaminare per bene i singoli alberi, ma perdiamo di vista il bosco. Ed il problema si ripropone quando osserviamo l’albero ad una certa distanza, o quando ci avviciniamo per studiarne le particolarita` delle foglie e dei fiori. Senza voler portare questa situazione all’infinito, e` evidente in altri termini che la nostra osservazione, e quindi anche i dati che costituiscono la classificazione, variano in misura ` della vicinanza o della lontananza dall’oggetto. E chiaro quindi che i sintomi ed il soggetto portatore dei sintomi possono mostrare aspetti diversi a seconda della nostra distanza: che questa volta dobbiamo intendere non in termini fisici, ma psichici. Vediamo sicuramente cose diverse, nello stesso paziente, se l’approccio e` esclusivamente oggettivante-nosografico, o se invece stabiliamo un rapporto psicoterapico. Questo non vuol dire

Nosografia dei disturbi psichiatrici

che e` impossibile fare una classificazione: vuol dire che bisogna tener presenti, oltre che la mutevolezza dell’oggetto, anche le modalita` di osservazione. Questo aspetto trova il suo apice nella problematica del comprendere e dello spiegare. A lungo si e` dibattuto se lo psichiatra deve comprendere o spiegare: definendo la prima come la categoria della soggettivita` e del rapporto interpersonale, e la seconda come la categoria della oggettivita` e della osservazione fredda e scientifica. Senza voler cadere in facili schematismi, credo che le due possibilita` possano essere presenti nello psichiatra e che dipendano anche dalle modalita` del rapporto e dalla patologia. In effetti queste due categorie si possono esplicitare attraverso due domande fondamentali: ‘‘chi sono io per il paziente’’ o ‘‘che cosa ha il paziente’’, che implicano non solo modalita` di rapporto diverse, ma anche situazioni cliniche diverse. (Vedi capitolo: «Rapporto medico-paziente»). Ma evidentemente se i fenomeni possono presentarsi con aspetti diversi, questo non vuol dire che quei fenomeni sono completamente diversi. L’albero visto nel contesto del bosco e quello visto da vicino, hanno, pur nella diversita`, molte piu` cose in comune di quanto a prima vista non sembrerebbe. Una conoscenza piu` completa ci deriva dall’osservare l’albero, mantenendo il bosco come immagine di sfondo, o viceversa. In campo clinico la modalita` di osservazione puo` essere condizionata da una impostazione teorica diversa e da una diversa distanza rispetto all’oggetto. Ma anche in questi casi prevale alla fine il primato del fatto sulla teoria, come si evince dal fatto che clinici pur con orientamenti diversi, di fronte ad uno stesso paziente, magari con concetti o parole diverse, esprimono lo stesso parere clinico e diagnostico. Quindi, nonostante la variabilita` del fenomeno, in parte dovuta al fenomeno stesso, in parte ad impostazioni teoriche diverse, rimane un primato del fatto, che rende possibile una classificazione dei disturbi psichiatrici, anche accettando che per il momento non tutti i disturbi psicopatologici possono essere inquadrati con sicurezza e con coerenza. Ma questo non e` un problema, perche´ a meno che non si prendano come punto di riferimento le scienze

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naturali, e` evidente che nelle scienze umane c’e` sempre uno scarto. Comunque un dato che ci conferma, nonostante le difficolta`, la possibilita` di una osservazione e quindi di una classificazione e` che l’oggetto dell’osservazione spesso tende a permanere abbastanza stabile nel tempo: le manifestazioni di una depressione descritta ben 3000 anni fa potrebbero essere direttamente trasferite in un moderno Manuale di Psichiatria. Questi pochi elementi segnalano una possibilita` di poter proporre una nosografia dei disturbi psichiatrici: ma prima di arrivare a proporre una nosografia, credo opportuno osservare cosa e` successo in Medicina. Certamente la metodologia medica non e` direttamente estrapolabile: ma l’iter metodologico puo` essere un utile punto di riferimento.

2.1. Nosografia delle malattie somatiche La classificazione, su base metodologicamente corretta, inizia intorno al 1500 per merito di Morgagni, che gia` nel titolo della sua opera enuncia il principio basilare De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis. Ovverosia la ‘‘fisionomia’’ di un morbo si delinea attraverso due parametri: la sede e la natura. Ovverosia il poter stabilire la sede anatomica del disturbo ha permesso di unificare sintomi che precedentemente erano ritenuti appartenere a sindromi totalmente diverse. Questo criterio fondamentale ha favorito lo studio delle cause (natura), ovverosia l’eziologia. Un dato sicuramente accertato, tanto da diventare una sorta di assioma, e` il seguente: se un complesso di sintomi e` spiegabile con una sola causa e` inutile cercarne altre. In altri termini, si e` visto che si puo` quasi sempre risalire ad una causa prima, per spiegare tutto il corteo sintomatologico. Sicuramente questa affermazione nasce da una visione un po’ meccanicistica dell’organismo ed in questo assioma della medicina sembra riecheggiare quanto affermava G. Galilei «...la natura non opera con l’intervento di molte cose quello che puo` operare con poche». In effetti la conoscenza piu` approfondita delle varie interazioni biologiche ed il fatto che una

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

stessa causa puo` determinare effetti diversi porta oggi a ritenere che la malattia, pur essendo determinata spesso da una sola causa, puo` richiedere per lo sviluppo e per il mantenimento una serie di concause. Comunque la possibilita` di definire la sede e la natura e` stato il metodo che ha permesso alla medicina di uscire da una fase di puro conglomerato di sintomi e costruire una nosologia ed una nosografia ben definita.

2.2. Nosologia, malattia, sindrome, nosografia A questo punto e` utile tentare una precisazione di questi concetti che spesso si usano impropriamente. Per nosologia si intende il complesso di conoscenze e di spiegazioni che riguardano un certo disturbo che, una volta definiti l’eziologia, la patogenesi ed il quadro anatomopatologico, si connota come malattia. Per nosografia si intende una classificazione razionale ` evidente che quanto piu` delle varie malattie. E noi conosciamo circa un quadro morboso (nosologia) tanto piu` possiamo attuare una nosografia corretta e completa che si avvicina ad una classificazione naturale. Ma dobbiamo distinguere la sindrome dalla malattia. Per malattia intendiamo un processo fisiopatologico caratterizzato da una eziologia nota, da una patogenesi accertata, da un quadro anatomico definito, qualunque sia il qua` evidente che il quadro sintodro sintomatico. E matico tende a mantenersi costante come l’eziologia e la patogenesi, ma nel caso che ci fossero variazioni sintomatologiche la malattia continua ad essere definita sulla base della eziopatogenesi e non della sintomatologia. Noi sappiamo che molti quadri di malattie somatiche sono cambiati: un esempio per tutti e` il tifo addominale, che attualmente presenta un quadro molto diverso da quello classico. Ma nonostante la variazione del quadro sintomatologico e` possibile fare la diagnosi, e quindi instaurare una terapia razionale, perche´ conosciamo l’eziologia e la patogenesi. Questo e` un dato importante. In effetti la sintomatologia puo` avere manifestazioni diverse, e se non conosciamo bene l’eziologia e la patogenesi potremmo credere di trovarci di fronte ad un

sintomo nuovo, od una malattia diversa. Questo puo` facilmente succedere in Psichiatria, ove la difficolta` di stabilire una precisa eziopatogenesi ha fatto sı` che variazioni sintomatologiche siano state considerate come nuove entita` patologiche o che variazioni della sintomatologia classica possano porre dubbi diagnostici non sempre facilmente risolvibili. Quindi la sicura conoscenza dell’eziologia e della patogenesi fa definire una situazione morbosa come malattia. Per sindrome, invece, intendiamo un insieme di sintomi che si ritrovano con una certa frequenza e costanza e che pertanto fanno presupporre che questo insieme di sintomi non sia casuale, ma significativo e probabilmente derivante da una specifica causa. In Psichiatria ci troviamo di fronte a sindromi piu` che a malattie, per lo meno se le intendiamo secondo il modello medico. Ne deriva che in Psichiatria non e` sempre possibile, almeno al momento attuale, definire la nosologia e quindi strutturare una nosografia altrettanto completa e precisa di come e` stato fatto in medicina. In Psichiatria infatti non possiamo utilizzare la metodologia medica della sede e della natura. Infatti, se per quest’ultima possiamo avere un numero sufficiente di conoscenze, la sede e` difficilmente definibile. Anche quando ci rifacciamo ad un modello topografico della psiche, non e` possibile evidenziare una sede. A meno che non facciamo corrispondere la sede con il SNC; ma in questo caso la Psichiatria si trasforma in Neuropsichiatria: ovverosia in un falso tentativo di risolvere il problema. Dire che le patologie psichiatriche sono patologia del SNC e` come dire praticamente nulla. A parte il fatto che, escluse specifiche malattie ove c’e` una sicura correlazione tra disturbi psichiatrici e lesioni del SNC, tutto il resto, pur essendo stato molto indagato, ha fornito risultati piuttosto modesti. Inoltre il disturbo psichico si crea e si mantiene sulla base di numerosi fattori, per cui e` difficile isolare una sola causa. ` chiaro quindi che il metodo medico, utilizE zato per la nosografia, non e` applicabile alla Psichiatria in toto; puo` essere utilizzato solo in alcune particolari malattie che sono molto specifiche e che occupano un posto preciso, ma anche marginale in Psichiatria: alcune forme di demenza

Nosografia dei disturbi psichiatrici

di cui si conosce l’eziologia, le epilessie, alcuni disturbi secondari su base organica. Questo dato puo` provocare una certa confusione se e` utilizzato rigidamente. Infatti se si utilizza il modello medico per la definizione di sindrome e di malattia, mediamente in Psichiatria dovremmo parlare di sindromi. Se invece si tiene presente un modello teorico del funzionamento psichico (per esempio il modello psicodinamico), molti disturbi psicopatologici potrebbero essere definiti, molto piu` correttamente, come malattia. Mi riferisco in particolar modo alle psiconevrosi, ove e` possibile proporre una eziologia, una patogenesi, un quadro clinico ed una evoluzione ben precisa. Non sempre questo discorso puo` farsi per altre psicopatologie, come per esempio le psicosi che pertanto piu` correttamente andrebbero definite sindromi. Questa situazione puo` portare a varie soluzioni e, come vedremo, non tutte auspicabili. La meno auspicabile e` la proposizione che in Psichiatria non e` possibile, o e` inutile, tentare una qualsiasi nosografia. Comunque credo utile riproporre brevemente alcune fasi della storia della nosografia in Psichiatria, per proporre infine un modello di classificazione.

3. Storia della nosografia psichiatrica Questo breve excursus non ha la pretesa di fare una storia della nosografia psichiatrica, ma solo di segnalare alcuni passaggi significativi. Il primo tentativo di mettere ordine nella confusa sintomatologia psicopatologica risale alla seconda meta` dell’Ottocento. Autori francesi e tedeschi tentano, sull’onda dei successi della medicina, di mutuare da questa la metodologia. Kahlbaum formula una ipotesi che postula una stretta corrispondenza tra eziologia, patologia cerebrale, sintomatologia clinica e decorso: questi parametri dovevano essere utilizzati per unificare sintomi molto diversi. Questa operazione, che non e` mai riuscita, ha comunque pesato a lungo sulla Psichiatria, rimanendo per molti come l’ideale a cui tendere. Successivamente E. Kraepelin, con spirito molto cli-

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nico, utilizza fondamentalmente due parametri: sintomatologia clinica e decorso. Sulla base di questi due criteri egli isola due entita` ‘‘nosologiche’’: la demenza precoce e la psicosi maniacodepressiva. Oltre le notevoli differenze dei quadri clinici, il dato piu` significativo e` l’esito in demenza per la demenza precoce, e la guarigione, per lo meno dell’episodio, per la psicosi maniacodepressiva. Questa dicotomia kraepeliniana e` tuttora operante all’