Manuale di psichiatria e psicoterapia 9788820761769

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Manuale di psichiatria e psicoterapia
 9788820761769

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NICOLA LALLI

MANUALE DI PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA

Nicola Lalli

Manuale di psichiatria e psicoterapia

contributi di: G. Bartocci, E. Bollea, M. Bordi, G. Cavaggioni, M. Conte, E. Costa, G. de Simone, A. Dionisi, G. Donini, F. Fagioli, M.a Fagioli, P. Fiori-Nastro, L. Frighi, P. Gentili, N. Giacchetti, A. Homberg, C. Lalli, G. Liotti, A. Manzi, A. Masini, S. Mazzoni, L. Onnis, R. Panieri, P. Pansini, M. Piccione, R. A. Pisani, F. Riggio, A. Scavo, R. Tatarelli, F. e S. Tucci

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 1999 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 1999 Lalli, Nicola (a cura di): Manuale di psichiatria e psicoterapia/Nicola Lalli (a cura di) Napoli : Liguori, 1999 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 6176 - 9 1. Clinica psichiatrica

2. Patologia psichiatrica

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————————————————— 14 13 12 11 10 09 08 07 06 05 04 03 02 01 00 99 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

1

Prefazione alla II edizione

3

Considerazioni di uno psichiatra

5

Introduzione

Parte prima Concetti generali 9

1 - Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo 1. Medicina e psichiatria: riflessioni sulla storia 11; 2. Medicina e psichiatria: un problema di metodo 15; Riferimenti bibliografici 22.

23

2 - Psichiatria: modelli a confronto 1. Considerazioni generali 24; 2. La psichiatria clinico-descrittiva 24; 3. Il modello psicopatologico 26; 4. Il modello psicoanalitico 27; 5. Il modello fenomenologico-esistenziale 29; 6. Il modello biologico 30; 7. Il modello sociale 31; 8. Il modello integrato pluralistico 33; 9. Il DSM-IV 33; Riferimenti bibliografici 33.

35

3 - Psichiatria e biologia 1. Gli psicofarmaci 36; 2. Alcune nozioni di neurofisiologia e di psicobiologia 36; 2.1. La trasmissione sinaptica 37; 2.2. I neurotrasmettitori 37; 2.3. I circuiti neuronali 39; 2.4. I recettori 39; 3. I modelli psicobiologici 40; 3.1. L’ansia 40; 3.2. La depressione 40; 3.3. La schizofrenia 40; 3.4. I disturbi della memoria 41; Riferimenti bibliografici 42.

43

4 - Psichiatria transculturale 1. Definizione ed ambito di competenza 45; 2. Cenni storici 48; 3. Psicopatologia e criteri diagnostici 50; 4. I fenomeni connessi alle migrazioni 52; 5. Linee organizzative per servizi pubblici di Psichiatria Transculturale 53; 6. Conclusioni e prospettive 54; Riferimenti bibliografici 56.

59

5 - Psichiatria e bioetica 1. Definizione e storia della bioetica. 61; 2. Dalla deontologia alla bioetica 62; 3. Dall’etica alla bioetica 63; 3.1. Mezzi e fini: etiche deontologiche e teleologiche 63; 3.2. L’etica giusnaturalistica e la legge naturale 64; 3.3. L’etica contrattualistica 65; 3.4. Un’etica dei diritti 65; 3.5. L’etica kantiana e la persona umana 66; 3.6. Le etiche utilitaristiche 66; 4. Cosa e` la bioetica 67; 4.1. Casi particolari 69; 4.1.1. Sperimentazione sull’uomo 69; 4.1.2. Eutanasia. Accanimento terapeutico 69; 4.1.3. Trapianto d’organi 70; 4.1.4. Statuto dell’embrione 71; 5. Quale bioetica? 72; 6. Dai princı`pi al diritto 73; 6.1. Il problema dell’informazione 75; 7. Dalla psichiatria alla bioetica 76; Riferimenti bibliografici 77.

VI

79

Indice

6 - Normalita`, salute e malattia: concetti generali 1. Considerazioni generali 81; 2. La salute mentale come acquisizione moderna 81; 3. Norma, normalita`, salute, malattia: problemi metodologici 83; 3.1. L’approccio concettuale 84; 3.2. Parametri utilizzabili 87; 3.2.1. Il comportamento 87; 3.2.2. Il vissuto soggettivo 88; 3.2.3. Il mondo interno 89; 3.3. La follia della normalita` 89; 4. Norma e normalita` 90; 5. Per un modello complementare dello sviluppo psichico 93; 6. Conclusioni 95; Riferimenti bibliografici 96.

97

7 - Teorie dello sviluppo psichico 1. Introduzione 98; 1.1. Natura-Cultura 98; 1.2. Animalita` -Umanita` 98; 1.3. Continuita` -Discontinuita` 99; 1.4. Deficit-Differenza 99; 2. J. Piaget 100; 2.1. Introduzione 100; 2.2. Stadio senso-motorio 100; 2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni) 104; 2.3.1. Il riconoscimento di Se´ 104; 2.3.2. Lo sviluppo del linguaggio 105; 2.3.3. Caratteristiche dello stadio pre-operatorio 106; 2.3.4. Operazioni mentali specifiche 107; 2.3.4.1. Il realismo 107; 2.3.4.2. L’animismo 108; 2.3.4.3. Il pensiero magico 108; 2.3.4.3.1. Genesi e natura del pensiero magico 109; 2.3.4.4. L’artificialismo 110; 2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni) 111; 2.4.1. La nozione d’identita` 112; 2.4.2. La classificazione 112; 2.4.3. L’ordinamento in serie 113; 2.4.4. Giudizio morale 113; 2.4.5. Le strategie mnemoniche 113; 2.4.6. La concezione del tempo 113; 2.4.7. La causalita` 114; 2.5. Stadio operatorio formale (dai 12 anni in poi) 115; 2.5.1. La logica formale 115; 2.5.2. Lo sviluppo della personalita` 116; 2.6. Commento alla teoria di Piaget 117; 3. S. Freud 117; 3.1. Gli stadi psicosessuali 118; 3.1.1. Stadio orale (dalla nascita ad 1 anno) 118; 3.1.2. Stadio anale (da 1 a 3 anni) 118; 3.1.3. Stadio fallico (dai 3 ai 5 anni) 118; 3.1.4. Fase di latenza (dai 5 ai 12 anni) 118; 3.1.5. Stadio genitale 118; 4. M. Klein 119; 4.1. Posizione paranoide 119; 4.2. Posizione depressiva 119; 5. Erik H. Erikson 120; 5.1. Gli stadi psicosociali 120; 5.1.1. Fiducia-Sfiducia (dalla nascita ad un anno) 120; 5.1.2. Autonomia-Vergogna e dubbio (dai 2 ai 3 anni) 121; 5.1.3. Iniziativa-Senso di colpa (dai 4 ai 5 anni) 121; 5.1.4. Industriosita`-Senso di inferiorita` (dai 6 ai 12 anni) 122; 5.1.5. Identita`-Dispersione (dai 13 ai 18 anni) 122; 5.1.6. Intimita`-Isolamento (dai 19 ai 25 anni) 123; 5.1.7. Generativita`-Stagnazione (dai 26 ai 40 anni) 123; 5.1.8. Integrita` dell’Io-Disperazione (dai 41 in poi) 123; 6. A. Maslow 125; 7. J. Bowlby-M. Ainsworth 125; 7.1. Bisogno di legame 126; 7.2. Importanza dell’ambiente 126; 7.3. Sviluppo dell’attaccamento 126; 7.3.1. Pre-attaccamento 126; 7.3.2. Attaccamento iniziale 126; 7.3.3. Attaccamento maturo 126; 7.3.4. Attaccamento a molte persone 126; 7.3.5. Strange situation 127; 7.3.5.1. Attaccamento sicuro 127; 7.3.5.2. Attaccamento insicuro 127; 8. H. Kohut 127; 9. Infant research 130; 9.1. Se´ emergente 131; 9.2. Se´ nucleare 131; 9.3. Se´ intersoggettivo 131; 9.4. Se´ verbale 131; 10. Conclusioni 132; Riferimenti bibliografici 133.

135

8 - Modello psicodinamico dello sviluppo psichico 1. Considerazioni generali 137; 1.1. Il temperamento 137; 1.2. Il carattere 138; 1.3. La personalita` 138; 1.4. L’Io 139; 1.5. Il Se´ 139; 2. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali 140; 2.1. Il concetto di istinto 141; 2.2. Istinto libidico. Istinto di morte 142; 2.3. La nascita e lo sviluppo psichico 143; 2.4. L’inconscio 144; 2.5. Emozioni ed affetti 145; 2.6. Il vissuto corporeo 147; 2.6.1. Dalla percezione all’immagine corporea 149; 2.7. La coscienza 151; 2.8. L’identita` 153; 3. Modello di sviluppo: dal carattere normale al patologico 155; 4. Stato e struttura: vegliasonno-sogno 158; 4.1. Il sogno: funzione e significato 162; 4.2. Il linguaggio del sogno 163; 5. Struttura, funzione, stato 164; Riferimenti bibliografici 165.

169

9 - Elementi di psicopatologia dinamica Parte I: 1. Quale psicopatologia? 171; 1.1. Modello clinico-descrittivo 171; 1.2. Modello fenomenologico-ermeneutico 173; 1.3. Modello psicodinamico 175; 2. Psicopatologia e filosofia: il problema della conoscenza 177; 2.1. Il concetto di realta` 177; 2.2. Realta` materiale-Realta` umana 179; 3. Conoscenza: dalla sensazione alla percezione 181; 3.1. La sensazione 181; 3.2. La percezione 181; 3.3. La rappresentazione 182; 3.4. L’ideazione 182; 3.5. Il ragionamento 182; 3.6. Il pensiero 182; 4. Conoscenza della realta`. Rapporto con la realta` 184; 4.1. Sensazione e percezione nella conoscenza della realta` umana 185; 5. Dalla psicopatologia alla clinica 188; 5.1. Psicopatologia della coscienza 189; 5.2. Lo stato crepuscolare 189; 5.1.2. L’ipnosi e la trance 190; 5.1.3. Modificati Stati di Coscienza (M.S.C.) 191; 5.1.4. La Personalita` Multipla 191; 5.2. Dissociazione. Scissione. Frammentazione 193; 5.3. La natura della schizofrenia 194; 5.3.1. Il manierismo 194; 5.3.2. Il manierismo come sintomo schizofrenico 196; 5.3.2. La perdita dell’evidenza naturale 201; 5.4. Le allucinazioni 204; 5.4.1. Definizione 204; 5.4.2. Classificazione 205; 5.4.3. La sindrome di C. Bonnet 206; Riferimenti bibliografici 207. Parte II: 1. Un accenno alla metodologia 208; 2. Disturbi dell’affettivita` 210; 3. Aspetti psicodinamici delle depressioni 211; 3.1. Perche´ rifiutiamo l’impostazione organicista 212; 3.2. Abraham, Freud, Klein 213; 3.3. Sprofondare nelle sabbie mobili 214; 3.3.1. La felicita` e` un totale inganno 214; 3.3.2. Ho sognato che avevo il sangue nero 215; 3.3.3. Depressioni fisiologiche 216; 3.3.4. L’oppressione 217; 3.3.5. Malattia mortale 217; 3.4. Oltre la depressione 218; 3.5. Come si cura la depressione? 218; 3.6. Un cobra velenoso 219; 3.7. L’affettivita` 220; 4. Affettivita` : la psicodinamica 220; 5. Allucinazione 225; 6. Elementi per una psicopatologia del delirio 227; Riferimenti bibliografici paragrafo 2 e 3 della Parte II: 241; Riferimenti bibliografici del paragrafo 6: 242.

Indice

243

VII

10 - Nosografia dei disturbi psichiatrici 1. Considerazioni generali 244; 2. Metodologia della classificazione 244; 2.1. Nosografia delle malattie somatiche 245; 2.2. Nosologia, malattia, sindrome, nosografia 246; 3. Storia della nosografia psichiatrica 247; 4. Criteri per una nosografia psichiatrica 248; Riferimenti bibliografici 251.

Parte seconda La clinica 255

11 - Il colloquio psichiatrico 1. Definizione 256; 1.1. La comunicazione: problemi teorici 257; 2. Il colloquio clinico direttivo 260; 2.1. Utilita` del colloquio clinico-direttivo 261; 2.1.1. Il caso clinico (1) 262; 3. Il colloquio psicodinamico 263; 3.1. Problemi teorici 263; 3.1.1. L’ipotesi psicodinamica 263; 3.1.2. L’ipotesi psicogenetica 264; 3.1.3. Il transfert 264; 3.1.4. Dimensione manipolativa ed interpretativa 264; 3.1.5. Il caso clinico (2) 265; 4. Le componenti del colloquio psicodinamico 267; 4.1. L’osservazione 267; 4.2. Le operazioni 268; 4.2.1. L’inizio 269; 4.2.2. La raccolta dei dati 269; 4.2.3. La formulazione di ipotesi 270; 4.2.4. I collegamenti 270; 4.2.5. L’ipotesi psicodinamica 271; 4.2.6. La chiusura 271; 5. Il primo colloquio 271; 6. Conclusioni 273; Riferimenti bibliografici 275.

277

12 - Le psiconevrosi: concetti generali 1. Definizione 279; 2. Eziologia 280; 2.1. Ipotesi biogenetica 280; 2.2. Ipotesi psicogenetica 281; 2.3. Ipotesi sociogenetica 281; 2.3.1. Le nevrosi sperimentali 282; 2.4. Il modello psicodinamico 285; 3. Conclusioni 288; Riferimenti bibliografici 289.

291

13 - La psiconevrosi d’ansia 1. Considerazioni generali 292; 2. Sintomatologia 292; 2.1. Fenomeni ansiosi acuti 293; 2.1.1. Crisi d’angoscia 293; 2.1.2. La depersonalizzazione 293; 2.2. Fenomeni ansiosi cronici 294; 2.2.1. Equivalenti ansiosi 294; 2.2.2. Disturbo d’ansia generalizzato 294; 2.3. Le nevrosi attuali 294; 3. Il carattere ansioso 295; 4. La psicodinamica 296; 5. Il caso clinico 297; 6. Diagnosi differenziale 299; 7. Note di terapia 299; Riferimenti bibliografici 300.

301

14 - La psiconevrosi fobica 1. Considerazioni generali 302; 2. Sintomatologia 303; 2.1. Fobie da situazioni, da animali o da oggetti 303; 2.2. Fobie d’impulso 304; 2.3. Fobie per il proprio corpo 305; 3. Il carattere fobico 306; 4. La psicodinamica 307; 5. Casi clinici 308; 6. Diagnosi differenziale 310; 7. Note di terapia 310; Riferimenti bibliografici 311.

313

15 - La psiconevrosi depressiva (o distimia) 1. Considerazioni generali 314; 2. Sintomatologia 314; 3. Il carattere depressivo 316; 4. La psicodinamica 317; 5. Il caso clinico 318; 6. Diagnosi differenziale 319; 7. Note di terapia 319; Riferimenti bibliografici 319.

321

16 - La psiconevrosi isterica 1. Considerazioni generali 322; 2. Sintomatologia 323; 2.1. Reazioni isteriche 323; 2.2. Isteria di conversione 324; 2.2.1. Conversione somatica 324; 2.2.2. Conversione psichica 326; 2.2.3. Sindromi algiche 327; 2.3. Sindromi rare 328; 2.4. La personalita` isterica 328; 3. Il carattere isterico 329; 4. La psicodinamica 332; 5. Il caso clinico 333; 5.1. L’isterico ed il medico 336; 6. Diagnosi differenziale 337; 7. Note di terapia 339; Riferimenti bibliografici 339.

341

17 - L’obesita` psicogena 1. Considerazioni generali 342; 1.1. Definizione 342; 1.2. Fisiopatologia 342; 1.2.1. Fattori congeniti 343; 1.2.2. Fattori acquisiti 343; 1.3. Incidenze culturali 344; 2. Classificazione dell’obesita` 344; 2.1. Obeso egosintonico 344; 2.2. Obeso egodistonico 344; 2.3. Obeso schizoide 345; 3. Il carattere dell’obeso 346; 4. La psicodinamica 346; 4.1. La famiglia dell’obeso 347; 5. Il caso clinico 350; 6. Diagnosi differenziale 351; 7. Terapia 351; 7.1. Considerazioni generali 351; 7.2. La relazione terapeutica 352; 7.3. I farmaci 353; Riferimenti bibliografici 355.

VIII

357

Indice

18 - La psiconevrosi ossessiva 1. Considerazioni generali 358; 2. Sintomatologia 358; 2.1. Sintomatologie prevalentemente basate sulla ruminazione mentale 359; 2.2. I cerimoniali 360; 3. Il carattere ossessivo 360; 4. La psicodinamica 360; 5. Il caso clinico 365; 6. Diagnosi differenziale 366; 7. Note di terapia 367; Riferimenti bibliografici 367.

369

19 - La psiconevrosi ipocondriaca 1. Considerazioni generali 370; 2. Sintomatologia 370; 3. Il carattere ipocondriaco 374; 4. La psicodinamica 375; 5. I casi clinici 377; 6. Diagnosi differenziale 379; 7. Note di terapia 382; Riferimenti bibliografici 382;

385

20 - L’anoressia psicogena 1. Considerazioni generali 386; 2. Sintomatologia 386; 2.1. Anoressia dell’infante 387; 2.2. Anoressia reattiva o isterica 388; 2.3. Anoressia delle persone anziane 388; 3. Il carattere dell’anoressica 388; 4. La psicodinamica 389; 5. I casi clinici 391; 6. Diagnosi differenziale 393; 7. Note di terapia 393; Riferimenti bibliografici 394.

395

21 - La patologia psicosomatica (o disturbi psicosomatici) 1. Considerazioni generali 396; 2. Il dualismo psiche-soma 397; 3. La conversione: un problema aperto 398; 4. Il modello psicoanalitico 399; 5. Il modello psicobiologico 400; 6. Due casi clinici 400; 7. L’alexitimia 402; 8. Dal carattere alexitimico al disturbo psicosomatico 406; Riferimenti bibliografici 409.

411

22 - La sindrome borderline e i disturbi di personalita` 1. Considerazioni generali 413; 2. La sindrome borderline 414; 2.1. La scissione 418; 2.2. La maschera 418; 2.3. La tendenza a far impazzire l’altro 419; 2.4. La personalita` paranoide 420; 2.5. La personalita` narcisistica 421; 3. Casi clinici 422; 4. Diagnosi differenziale 422; 5. La terapia 422; Riferimenti bibliografici 423.

425

23 - La personalita` psicopatica 1. Considerazioni generali 426; 2. Il quadro clinico 428; 2.1. Il criminale 430; 2.2. Il rivoluzionario 430; 2.3. Disturbi caratteriali dell’adolescente 430; 3. Eziologia 431; 3.1. Teoria ereditaria 431; 3.2. Ipotesi neurologica 431; 3.3. Ipotesi psicogenetica 432; 4. Terapia 434; Riferimenti bibliografici 435.

437

24 - Le perversioni sessuali o parafilie 1. Excursus storico 438; 2. Psicodinamica delle perversioni 439; 2.1. Considerazioni generali 439; 2.2. La sessualita` 440; 2.3. Desiderio – Erotismo – Seduzione 442; 2.4. Sessualita` e sviluppo psichico 444; 2.5. Psicodinamica della perversione 445; 2.6. Conclusioni 446; 3. La clinica 448; 3.1. Esibizionismo 448; 3.2. Feticismo 448; 3.3. Pedofilia 449; 3.4. Voyerismo 450; 3.5. Sado-Masochismo 451; 3.6. Travestitismo 452; 4. Diagnosi differenziale 452; 5. La terapia 453; Riferimenti bibliografici 454.

455

25 - Le tossicodipendenze 1. Definizione 456; 2. Cenni storici 458; 3. Dati epidemiologici 459; 4. Ipotesi eziopatogenetiche 461; 5. Classificazione delle sostanze stupefacenti 465; 5.1. Oppiacei (oppio, morfina, eroina, metadone) 465; 5.2. Cannabinoidi (marijuana, hashish) 467; 5.3. Sedativi-ipnotici (benzodiazepine) 467; 5.4. Amfetamine 468; 5.5. Cocaina 469; 5.6. Psicoticomimetici 470; 5.7. MDMA (ecstasy) 470; 6. Elementi di terapia 474; 7. Un caso clinico 476; Riferimenti bibliografici 477.

479

26 - L’alcolismo 1. Definizione 480; 2. Cenni di epidemiologia 481; 3. Metabolismo ed effetti dell’alcool sull’organismo 483; 4. Quadri clinici 485; 4.1. Intossicazione alcolica acuta 485; 4.2. Sindromi da impregnazione cronica alcolica 486; 4.2.1. Sindromi psicotiche 486; 4.2.2. Encefalopatie 487; 4.2.3. Demenze alcoliche 488; 4.2.4. Alcolismo ed epilessia 488; 5. Concetti psicodinamici generali sull’abuso etilico 488; 6. Interventi terapeutici 490; 6.1. Disintossicazione 491; 6.2. Astinenza, divezzamento e sostegno 491; 6.3. Psicoterapia e riabilitazione 492; 7. Dinamiche psichiche in gruppi di ex-alcolisti 492; Riferimenti bibliografici 496.

Indice

497

IX

27 - Le reazioni psicogene acute 1. Considerazioni generali 498; 2. Eventi traumatici e cortei psicopatologici 500; 3. La perdita come evento traumatico 503; 4. I casi clinici 503; 5. Il contenuto dell’evento traumatico 505; 6. Una immagine della reazione all’apparizione 506; 7. Note di terapia 507; Riferimenti bibliografici 507.

509

28 - Le psicosi affettive: la depressione 1. Considerazioni generali 510; 2. Nosografia della depressione 511; 3. Sintomatologia 512; 3.1. Depressione nevrotica o distimia 512; 3.2. Depressione endogena o maggiore, monopolare 512; 3.2.1. I sintomi psichici 512; 3.2.2. I sintomi somatici 513; 3.3. Depressione secondaria 514; 4. Eziopatogenesi 516; 4.1. I fattori genetici 516; 4.2. I fattori biochimici 517; 4.3. Le ipotesi psicologiche: relazionali e cognitive 519; 4.4. L’ipotesi psicodinamica 520; 5. Modello unitario della depressione: dallo psichico al biologico 521; 6. Diagnosi differenziale 523; 7. Il caso clinico 525; 8. La terapia 527; 9. La depressione involutiva 529; Riferimenti bibliografici 530.

533

29 - Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva 1. Considerazioni generali 533; 2. Sintomatologia 534; 3. Carattere ipomaniacale, carattere bipolare 535; 4. Eziopatogenesi 536; 4.1. Fenomenologia ed analisi strutturale della mania 536; 4.2. Ipotesi psicodinamica 537; 4.3. Ipotesi biologiche 538; 5. Diagnosi differenziale 538; 6. Il caso clinico 539; 7. Note di terapia 539; Riferimenti bibliografici 540.

541

30 - Disturbi schizofrenosimili 1. Considerazioni generali 542; 2. Il carattere schizoide 542; 2.1. La psicodinamica del carattere schizoide 543; 3. Le psicosi schizoaffettive 544; 4. La folie a` deux 545; 6. Note di terapia 546; Riferimenti bibliografici 546.

547

31 - La schizofrenia 1. Considerazioni generali 549; 2. Sintomatologia 551; 2.1. I sintomi fondamentali 551; 2.1.1. La dissociazione 551; 2.1.2. Incongruita` affettiva 552; 2.1.3. Ambivalenza 552; 2.1.4. Autismo 553; 2.2. Sintomi accessori 553; 2.2.1. Allucinazioni 553; 2.2.2. Deliri 553; 2.2.3. Idee di riferimento 553; 2.2.4. Sintomi catatonici 553; 2.2.5. Benommenheit 553; 2.3. Sintomi di primo ordine 554; 2.3.1. Allucinazioni uditive specifiche 554; 2.3.2. Furto del pensiero, o influenzamento del pensiero 554; 2.3.3. Esperienza di influenzamento somatico 554; 2.3.4. Percezione delirante 554; 2.4. Sintomi di secondo ordine 554; 2.4.1. Disturbi allucinatori di altro genere 554; 2.4.2. Intuizione delirante 554; 2.4.3. Impoverimento affettivo 554; 2.4.4. Perplessita` intesa come sensazione di confusione 554; 3. Esordio, status, evoluzione 555; 3.1. Schizofrenia ad evoluzione acuta 555; 3.1.1. Fase prodromica 555; 3.1.2. Fase acuta 556; 3.1.3. Status della malattia 556; 3.1.4. Evoluzione 556; 3.2. Schizofrenia ad evoluzione lenta 557; 4. Quadri clinici della schizofrenia 557; 5. La prognosi 558; 6. Eziopatogenesi 559; 6.1. Fattori genetici 560; 6.2. Fattori biochimici 562; 6.2.1. Ipotesi dopaminergica 562; 6.2.2. Ipotesi serotoninergica 562; 6.3. Fattori neurologici 563; 6.4. Fattori psicologici 564; 6.4.1. Il modello psicodinamico 564; 6.4.2. Il modello relazionale o sistemico 571; 6.4.2.1. I presupposti teorici 572; 6.4.2.2. L’influenza del modello terapeutico adottato sulla definizione e l’evoluzione della malattia 574; 6.4.2.3. Conclusioni 575; 7. Diagnosi differenziale 576; 8. Il caso clinico 578; 9. Note di terapia 582; 9.1. La terapia psicofarmacologica 582; 9.2. Le terapie psicologiche 584; 9.2.1. La psicoterapia relazionale o sistemica 584; 9.2.2. La psicoterapia analitica 584; 9.3. Tecniche psicologiche di sostegno. Tecniche di riabilitazione 585; 9.4. La terapia integrata 586; 9.4.1. Stadio iniziale 587; 9.4.2. Stadio intermedio 587; 9.4.3. Stadio difettuale 587; Riferimenti bibliografici 588.

591

32 - La paranoia 1. Definizione e cenni storici 593; 2. Psicogenesi 594; 3. Psicopatologia 594; 4. Nosografia 594; 4.1. Delirio di gelosia 595; 4.2. Delirio erotomane 595; 4.3. Delirio interpretativo (di Se´ rieux e Capgras) 595; 4.4. Delirio di persecuzione 595; 4.5. Delirio di querela 595; 4.6. Delirio di grandezza 595; 5. Diagnosi differenziale 595; 6. Decorso e prognosi 596; 7. Note di terapia 596; Riferimenti bibliografici 596.

597

33 - Le parafrenie 1. Definizione e cenni storici 598; 2. Psicopatologia e psicogenesi 598; 3. Nosografia 598; 3.1. Parafrenia fantastica 598; 3.2. Parafrenia espansiva 599; 3.3. Parafrenia confabulatoria 599; 3.4. Parafrenia sistematica 599; 4. Decorso e prognosi 599; 5. Diagnosi 600; 6. Note di terapia 600; Riferimenti bibliografici 600.

X

601

Indice

34 - Le reazioni organiche acute 1. La confusione mentale 602; 1.1. Malattie somatiche primitive cerebrali 602; 1.1.1. Confusione mentale organica acuta 602; 1.2. Malattie somatiche secondariamente cerebrali 602; 2. Demenza 603; 2.1. Sindrome amnestica 603; 2.2. Allucinosi organica 603; 2.3. Sindrome delirante organica 604; 2.4. Sindrome organica dell’umore 604; 2.5. Sindrome organica d’ansia 604; 2.6 Sindrome organica di personalita` 605; 3. Intossicazioni da sostanze psicoattive e/o tossiche 605; 3.1. Abuso 605; 3.2. Astinenza 605; 3.3. Farmaci a dosaggi terapeutici 605; Riferimenti bibliografici 606.

607

35 - Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche 1. Traumi cranici 608; 1.1. Disturbi post-traumatici acuti 608; 1.1.1. Disturbi post-traumatici cronici 608; 2. Malattie infettive 609; 2.1. Sifilide cerebrale 609; 2.1.1. Diagnosi, terapia e prognosi 610; 2.2. Altri processi infettivi 610; 3. Disturbi psichici nell’epilessia 611; 3.1. Disturbi acuti negli epilettici 611; 3.1.1. Crisi epilettiche parziali con sintomatologia complessa (epilessia temporale) 611; 3.1.2. Psicosi acute epilettiche 612; 3.2. Disturbi cronici negli epilettici 612; 3.2.1. Psicosi croniche 612; 3.2.2. Demenza epilettica 612; 3.2.3. Personalita` epilettica 613; 4. Terapia 613; 5. Tumori dell’encefalo 613; 6. Disturbi endocrini 614; Riferimenti bibliografici 615.

617

36 - Le demenze 1. Introduzione 617; 2. Nosografia ed epidemiologia 618; 2.1. Malattia di Alzheimer-Perusini 619; 2.1.1. Anatomia patologica - Eziopatogenesi 619; 2.1.2. Manifestazioni cliniche 620; 2.2. Malattia di Pick 622; 2.3. Demenza multi-infartuale 623; 2.4. Demenza da idrocefalo normoteso (NPH) 624; 2.5. Demenze post-traumatiche 624; 3. Diagnosi 624; 3.1. Strumenti diagnostici 624; 3.2. Elementi di diagnosi differenziale 626; 4. Prognosi e terapia 627; Riferimenti bibliografici 628.

Parte terza Patologia speciale psichiatrica 631

37 - Il sonno: normalita` e patologia 1. Considerazioni generali 632; 2. Ritmo circadiano e sonno 634; 3. Sonno e sogno 637; 4. Sonno e psicopatologia 638; 5. Patologia del sonno 639; 5.1. Fisiopatologia del sonno 639; 5.2. Le insonnie 641; 5.2.1. Insonnia reattiva legata a fattori ambientali 642; 5.2.2. Insonnia primaria psicogena 642; 5.2.3. Insonnia secondaria di origine farmacologica 643; 5.2.4. Insonnia secondaria di origine somatica 643; 5.2.5. Insonnia secondaria di origine psichiatrica 643; 5.3. Ipersonnie 643; 5.3.1. Ipersonnia psicogena 643; 5.3.2. Ipersonnia primaria 643; 5.3.3. Ipersonnia secondaria o da disturbi della vigilanza 644; 5.4. Parasonnie 645; 6. Terapia 646; Riferimenti bibliografici 648.

649

38 - Il concetto di stress 1. Il concetto di stress 650; Riferimenti bibliografici 654.

655

39 - La morte psicogena 1. Considerazioni generali 656; 2. Una possibile spiegazione 657; 3. Stress e morte psicogena 658; 3.1. L’ipnosi, il “lavaggio del cervello” e le pratiche voodoo 660; Riferimenti bibliografici 663.

665

40 - Psicopatologia da situazioni estreme 1. Introduzione 666; 2. Privazione sensoriale 666; 3. L’universo concentrazionario: i lager 671; 3.1. L’organizzazione del campo di sterminio 672; 3.2. Le reazioni psicologiche e psicopatologiche degli internati 673; 3.3. Spiegazione 675; 4. Il sequestro da parte di criminali o terroristi. La sindrome di Stoccolma 676; 5. Conclusioni 678; Riferimenti bibliografici 679.

Indice

681

XI

41 - L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica? 1. Considerazioni generali 682; 2. Cultura e adolescenza 682; 2.1. I riti di passaggio 684; 2.1.1. Mircea Eliade e i riti di iniziazione 684; 2.2.2. La teoria di Van Gennep: i riti di passaggio ed il concetto di margine 686; 3. Teorie sull’adolescenza 687; 3.1. S. Freud 687; 3.2. A. Freud 687; 3.3. E. Erikson 689; 3.4. M. Mahler 689; 3.5. P. Blos 690; 3.6. M. e M. E. Laufer 691; 3.7. H. Kohut 692; 4. Il concetto di crisi — La formazione della personalita` 692; 5. La crisi adolescenziale 693; 6. Crisi adolescenziale e disagio psichico 694; 6.1. Area pulsionale 694; 6.2. Vissuto corporeo 695; 6.3. Area relazionale 695; 6.4. Progettualita` e valori 696; 7. Il suicidio nell’adolescenza 696; 7.1. Condotta suicidaria 697; 7.1.1. Suicidio riuscito 697; 7.1.2. Suicidio mancato 697; 7.1.3. Suicidio dimostrativo 697; 7.1.4. Suicidio mascherato 698; 7.2. Psicodinamica del suicidio 698; 7.4. La prevenzione 700; Riferimenti bibliografici 701.

703

42 - La coppia: formazione e crisi 1. Considerazioni generali 704; 1.1. Ma che cos’e` una coppia? 704; 1.2. Metodologia e studio 705; 2. La scelta del partner 705; 3. La coppia come sistema difensivo 707; 3.1. L’idealizzazione 707; 3.2. Lotta contro la depressione 708; 3.3. Lotta contro il coinvolgimento eccessivo. Paura dello scacco 708; 3.4. La coppia senza sessualita` 708; 3.5. L’Io negativo 709; 3.6. Coppia e desiderio di immortalita` 709; 4. Un modello di sviluppo della coppia 709; Riferimenti bibliografici 710.

713

43 - Le famiglie separate: problematiche e interventi 1. Il processo dinamico della separazione 714; 2. Il ciclo evolutivo della famiglia separata 716; 2.1. La separazione: dalla decisione alla riequilibrazione attraverso la fase legale 717; 2.1.1. Fase decisionale 717; 2.1.2. Fase conflittuale 719; 2.1.3 Fase riequilibratrice 721; 2.2. I nuclei familiari monogenitoriali e la cogenitorialita` 722; 2.3. Le famiglie ricomposte: dall’arrivo dei nuovi partner alla costellazione familiare ricomposta 724; 3. Gli interventi di aiuto alla famiglia separata 728; 3.1. La consulenza familiare 729; 3.2. La mediazione familiare 730; 3.3. La psicoterapia familiare e individuale 733; 4. Il caso di Giulia 734; Riferimenti bibliografici 735.

737

44 - Psicopatologia della donna 1. Disturbi psichici nella vita psicosessuale della donna 738; 1.1. Sindrome premestruale 738; 1.2. Dismenorrea 739; 1.3. Amenorrea psicogena 740; 1.4. Disturbi psichici relativi all’interruzione volontaria di gravidanza 740; 1.5. La gravidanza immaginaria 741; 1.6. Sterilita` psicogena 741; 2. Disturbi psichici durante la gravidanza ed il puerperio 741; 2.1. Disturbi psichici in gravidanza 742; 2.2. Disturbi psichici in puerperio 743; 2.3. Disturbi psichici relativi all’allattamento 744; 2.4. Disturbi psichici in madri di bambini prematuri 745; 3. Disturbi psicofisici in menopausa 745; 4. Note di terapia 748; 4.1. Disturbi psichici nella vita sessuale della donna 748; 4.2. Disturbi psichici in gravidanza e puerperio 749; 4.3. Disturbi psicofisici in menopausa 750; Riferimenti bibliografici 750.

753

45 - Psicopatologia dell’invecchiamento 1. Considerazioni generali 754; 2. La psicopatologia 755; 2.1. Il deterioramento 756; 2.2. L’ansia 756; 2.3. La depressione 757; 2.4. Il delirio 758; Riferimenti bibliografici 758.

759

46 - Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni 1. Considerazioni generali 760; 2. Classificazione dei disturbi della sessualita` 761; 3. Alterazioni organiche 762; 4. Alterazioni psichiche primarie 763; 4.1. Omosessualita` 763; 4.1.1. Significati psicoanalitici della omosessualita` maschile 765; 4.2. Transessualismo 766; 4.3. Impotenza 767; 4.4. Frigidita` 768; 5. Alterazioni psichiche secondarie 770; 6. Alterazioni funzionali 770; 7. Prevenzione 771; 8. Note di terapia 772; Riferimenti bibliografici 773.

775

47 - Il suicidio 1. Definizione 776; 2. Considerazioni epidemiologiche 777; 3. Modelli interpretativi 780; 4. Considerazioni sulla terapia 782; Riferimenti bibliografici 784.

XII

Indice

Parte quarta Le terapie 787

48 - Elementi di igiene mentale 1. Concetti generali 788; 1.1. Criteri di norma in tema di salute psichica 788; 1.2. Cenni storici e scientifici 789; 2. Prevenzioni e gruppi a rischio 790; 2.1. Prevenzione primaria 790; 1.2. Prevenzione secondaria 791; 2.3. Prevenzione terziaria 792; 3. Problemi emergenti d’igiene mentale nel contesto socio-culturale attuale 793; 3.1. Nuova cronicita` 794; 3.2. Soggetti senza fissa dimora 794; 4. Emigrazione 796; 4.1. Aspetti generali e dati sull’immigrazione extracomunitaria in Italia 796; 4.2. Tutela della salute fisica e mentale degli immigrati 798; 5. Patologie ambientali 800; 5.1. Ecologia urbana 800; 5.2. Disastri 801; 6. Qualita` della vita ed etica della salute 802; Riferimenti bibliografici 804.

805

49 - Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica 1. Il medico ed il paziente 806; 1.1. Il medico: motivazioni psicologiche 806; 1.2. Il paziente: definizione e caratteristiche 807; 1.2.1. Il paziente con disturbi organici 807; 1.2.2. Il paziente con disturbi psichici 809; 2. Dal rapporto medico-paziente alla relazione terapeutica 810; 2.1. I fattori strutturali 810; 2.1.1. Il momento conoscitivo 810; 2.1.2. Il momento terapeutico 810; 2.1.3. Il momento affettivo 811; 2.1.4. Il momento etico 811; 2.1.5. Il setting 811; 2.2. I fattori strutturanti 811; 2.2.1. Intervento terapeutico tecnico 811; 2.2.2. Relazione terapeutica di sostegno 812; 2.2.3. Relazione terapeutica globale o psicosomatica 812; 3. Il rapporto medico-paziente in Psichiatria 813; 3.1. Il rapporto con lo psicotico 813; 3.2. Lo psichiatra ed il paziente nel rapporto mediato dal farmaco 815; 3.2.1. L’effetto placebo 815; 3.2.2. Effetto ed usi dello psicofarmaco 816; 4. Conclusioni 820; Riferimenti bibliografici 820.

823

50 - Il consenso informato 1. Introduzione 825; 1.1. Un po’ di storia 825; 2. La natura giuridica del consenso 828; 3. Deontologia del consenso 833; 4. L’informazione come presupposto giuridico del consenso 834; 4.1. Informazione o comuni- cazione? 836; 5. Situazione giuridica e giurisprudenziale 837; 5.1. Limiti dell’informazione per ottenere il consenso 844; 5.2. Vizi di consenso 845; 6. Il comportamento dello psichiatra 845; 7. Il consenso agli accertamenti diagnostici 846; Riferimenti bibliografici 852.

855

51 - Le urgenze in psichiatria 1. Caratteri dell’urgenza psichiatrica 856; 1.1. Nozioni generali 856; 1.2. Note storiche 856; 2. Classificazione delle urgenze psichiatriche 857; 2.1. Urgenze esclusivamente psichiatriche 857; 2.1.1. Crisi di agitazione 857; 2.1.2. Crisi depressive 857; 2.1.3. Crisi di angoscia 858; 2.1.4. Stato confusionale 858; 2.1.5. Blocco psicomotorio 858; 2.1.6. Minaccia di suicidio 858; 2.2. Urgenze somatopsichiche 858; 2.3. Urgenze pseudosomatiche 859; 2.4. Urgenze pseudopsichiatriche 859; 3. Linee generali di intervento: indicazioni e controindicazioni 859; 4. I casi clinici 860; 5. Conclusioni 861; Riferimenti bibliografici 862.

863

52 - Terapie psicofarmacologiche 1. Terapia dei disturbi dell’umore 864; 1.1. La terapia antidepressiva 864; 1.1.1. Gli antidepressivi 864; 1.2. La terapia antimaniacale 867; 1.2.1. Il litio 867; 1.2.2. La carbamazepina e la valpromide 870; 2. Terapia antipsicotica 870; 2.1. Neurolettici 871; 3. Terapia ansiolitica e ipnotica 875; 3.1. Farmaci non benzodiazepinici 876; 3.1.1. Il buspirone 876; 3.1.2. Lo zolpidem 876; 3.2. Le benzodiazepine 876; 4. La terapia elettroconvulsivante 879; 4.1. Generalita` 879; 5. Appendice 884; 5.1. I nuovi antidepressivi 884; 5.2. I nuovi neurolettici 885; Riferimenti bibliografici 886.

887

53 - Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci 1. Lo psicofarmaco come oggetto transizionale 888; 1.1. Premessa 888; 1.2. Il farmaco: da pharmacos a pharmacon 888; 1.3. Lo psicofarmaco: illusioni ed inganni 889; 1.4. L’oggetto transizionale 891; 2. L’effetto degli psicofarmaci sui processi psichici 893; Riferimenti bibliografici 901.

Indice

903

XIII

54 - La psicoterapia: considerazioni generali 1. Considerazioni generali 904; 2. Definizione della psicoterapia 904; 3. La terapia 904; 3.1. Fattori strutturali 905; 3.2. Fattori strutturanti 995; 3.3. Strumenti della terapia psicologica 906; 4. La relazione 907; 4.1. La funzione sciamanica 907; 4.2. Il magnetismo 910; 4.3. Considerazioni psicodinamiche sulla relazione 910; 5. Fattori strutturanti e relazione 911; 5.1. Tecnica psicologica di apprendimento o di addestramento 912; 5.2. Relazione psicologica di sostegno 912; 5.3. Relazione psicologica terapeutica: psicoterapia 912; 6. Indicazioni 914; 6.1. Psicoterapia familiare o sistemico-relazionale 914; 6.2. Psicoterapia di gruppo 915; 6.3. Psicoterapia cognitiva 915; 6.4. La psicoterapia analitica 916; 7. Valutazione dei risultati 916; 8. Il tempo: durata e fine 917; 9. La formazione dello psicoterapeuta 918; Riferimenti bibliografici 920.

921

55 - La psicoterapia analitica 1. Considerazioni generali 923; 2. La teoria 925; 2.1. La nascita 925; 2.2. Gli istinti. Le dinamiche oggettuali 926; 2.3. L’integrazione e la scissione 927; 2.4. La struttura dell’Io. I meccanismi di difesa 928; 2.5. Il conflitto edipico 931; 2.6. L’inconscio 934; 2.7. Le crisi di sviluppo 934; 2.8. Dipendenza ed autonomia 936; 3. La prassi 936; 3.1. Il primo colloquio come crisi 936; 3.2. Il setting 936; 3.3. Le funzioni dell’analista: presenza, memoria, continuita` 938; 3.3.1. Ascoltare-recepire 938; 3.3.2. La presenza dell’analista 938; 3.3.3. L’analista come memoria 939; 3.3.4. L’analista come intermediario del desiderio 940; 3.4. L’interpretazione. Le difese dall’analisi 940; 3.5. Transfert. Controtransfert 942; 3.6. Il sogno. L’interpretazione del sogno 944; 3.6.1. Sonno e sogno 945; 3.6.2. Il linguaggio del sogno 945; 3.6.3. L’interpretazione del sogno 946; 3.6.4. Alcuni sogni particolari 947; 3.7. Le separazioni 949; 3.8. L’analisi terminabile. La fine del lavoro psicoterapeutico 953; Riferimenti bibliografici 954.

957

56 - Le psicoterapie di gruppo 1. Premessa 958; 2. Note storiche 958; 3. L’approccio psicoanalitico alla psicoterapia di gruppo 959; 3.1. Psicoanalisi in gruppo o terapia psicoanaliticamente orientata dell’individuo in un setting di gruppo 960; 3.2. Psicoanalisi del gruppo 960; 3.3. Psicoanalisi attraverso il gruppo o piu` propriamente gruppoanalisi 961; 4. La gruppoanalisi 962; 4.1. Il piccolo gruppo 962; 4.1.1. Principi teorici 962; 4.1.2. Il metodo 967; 4.1.3. La tecnica 969; 4.2. Il gruppo intermedio 970; 5. Illustrazioni cliniche 973; 5.1. Una seduta del piccolo gruppo 973; 5.2. Una seduta del gruppo intermedio 975; 6. Altre psicoterapie di gruppo 978; 6.1. Lo psicodramma 978; 6.2. La Gestalt terapia 978; Riferimenti bibliografici 979.

981

57 - La psicoterapia relazionale o sistemica 1. Introduzione 983; 2. Le origini storiche 983; 2.1. Le matrici culturali 983; 2.1.1. L’orientamento “culturalista” della psicoanalisi post-freudiana 984; 2.1.2. L’interesse per il “mondo” del bambino nella psichiatria e psicoanalisi infantili 984; 2.1.3. L’attenzione per l’“ambiente” della psichiatria americana 985; 2.1.4. Lo sviluppo delle terapie di gruppo 985; 2.1.5. Il movimento dell’antipsichiatria europea 985; 2.2. Il percorso verso una nuova costruzione teorica 986; 2.2.1. I primi studi relazionali sulla schizofrenia 987; 3. Il modello concettuale di riferimento: la teoria dei sistemi 988; 3.1. Principi teorici generali 988; 3.2. I sistemi interattivi umani: la famiglia come sistema 990; 3.3. I sistemi disfunzionali e i comportamenti patologici 991; 3.3.1. Omeostasi e cambiamento 991; 3.3.2. I sistemi funzionali 991; 3.3.3. Il ciclo vitale familiare 992; 3.3.4. I sistemi disfunzionali 992; 4. Sintomo, diagnosi, intervento nella psicoterapia relazionale 993; 4.1. Il sintomo e i suoi significati 993; 4.1.1. Ambivalenza del significato del sintomo 993; 4.1.2. La comprensibilita` del sintomo all’interno del contesto 993; 4.2. Il senso dinamico della valutazione diagnostica 994; 4.3. L’intervento terapeutico e l’operatore psichiatrico 995; 4.3.1. L’intervento terapeutico nei suoi caratteri generali 995; 4.3.2. L’importanza della “convocazione” della famiglia 995; 4.3.3. Il ruolo dell’operatore psichiatrico 995; 4.3.4. La “riformulazione” della domanda 996; 5. Due esempi clinici 996; 5.1. La famiglia di Daniela: quando la paura del conflitto blocca l’autonomia 996; 5.2. La famiglia di Piergiorgio: un bambino che non poteva crescere 998; 6. I principali indirizzi terapeutici 1000; 6.1. Il modello strategico 1001; 6.1.1. I presupposti concettuali 1001; 6.1.2. Gli obiettivi terapeutici 1001; 6.1.3. Le tecniche di intervento 1002; 6.2. Il modello strutturale 1002; 6.2.1. Presupposti concettuali 1003; 6.2.2. Gli obiettivi terapeutici 1004; 6.2.3. Le tecniche di intervento 1004; 6.3. Il modello esperienziale 1005; 6.3.1. I presupposti concettuali 1005; 6.3.2. Obiettivi terapeutici 1005; 6.3.3. Le tecniche di intervento 1005; 6.4. Il modello di Bowen 1006; 6.4.1. Presupposti teorici 1006; 6.4.2. Obiettivi terapeutici 1006; 6.4.3. Tecniche di intervento 1006; 6.5. I modelli di ispirazione psicodinamica 1007; 6.6. Considerazioni critiche 1007; 7. Sviluppi della psicoterapia relazionale nella teoria e nella pratica 1008; 7.1. L’incontro con i paradigmi evolutivi 1008; 7.2. L’incontro con i paradigmi costruttivisti 1009; 7.3. L’incontro con l’ottica della complessita` 1010; 7.4. Il rinnovamento delle pratiche terapeutiche 1010; 7.5. La relazione terapeutica 1011; 8. L’importanza dei miti familiari 1012; 8.1. Il concetto di mito familiare 1012; 8.2. La dialettica “identita`-appartenenza” 1013; 8.2.1. Quando il mito diventa fonte di patologia 1014; 8.3. La dimensione transgenerazionale 1015; 9. Un terzo caso clinico. La famiglia di Maurizio: quando il peso dei miti puo` togliere il respiro 1015; 9.1. Il problema 1015; 9.2. Le storie trigenerazionali 1016; 9.3. Il lavoro con le “sculture del

XIV

Indice tempo’’ 1017; 9.4. I miti e i fantasmi familiari 1017; 9.5. L’intervento terapeutico 1018; 10. Conclusioni: verso un’etica della complessita` 1019; Riferimenti bibliografici 1020.

1023

58 - La psicoterapia cognitiva 1. Nozioni generali e sviluppo storico 1024; 2. Un modello teorico per la psicoterapia cognitiva 1025; 2.1. Conoscenza come struttura profonda 1025; 2.2. Lo sviluppo cognitivo e il processo di equilibrazione 1026; 2.3. I sistemi comportamentali 1027; 2.4. L’organizzazione gerarchica della conoscenza 1028; 2.5. La conoscenza come costruzione 1028; 2.6. La costruzione di strutture cognitive patogene 1030; 3. La prassi della psicoterapia cognitiva 1032; 3.1. La relazione terapeutica 1032; 3.2. Le tecniche terapeutiche 1033; 4. Indicazioni della psicoterapia cognitiva 1035; Riferimenti bibliografici 1036.

1039

59 - La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica 1. Introduzione 1040; 1.1. La relazione con l’oggetto nel modello strutturale 1040; 1.2. Lo spazio di coppia: le relazioni oggettuali e le identificazioni proiettive 1041; 1.3. I nuovi orientamenti tra intrapsichico e interpersonale 1043; 1.4. La psicoanalisi della coppia come teoria gruppale del legame di alleanza 1045; 2. Coniugalita` e collusione 1046; 3. Le tecniche psicoterapeutiche 1048; 3.1. Premessa 1048; 3.1.1 L’interpretazione 1048; 3.1.2. Il transfert e il controtransfert 1050; 4. Conclusioni 1053; Riferimenti bibliografici 1054.

1057

60 - La “malpractice” in psicoterapia 1. Un caso esemplare 1058; 1.1. La posizione di G.L. Klerman 1058; 1.2. La posizione di A.A. Stone 1059; 1.3. Alcune considerazioni 1060; 2. “Malpractice” in psicoterapia 1061; 2.1. Gestione del transfert 1061; 2.2. Violazione di segreto professionale e prevenzione di atti auto e/o eterolesivi 1063; 2.3. Prassi inadeguata o scorretta 1064; 2.4. Altri problemi per lo psicoterapeuta 1065; 3. Conclusioni 1065; Riferimenti bibliografici 1066.

1067

61 - Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata 1. Considerazioni generali 1070; 2. La riabilitazione in psichiatria 1071; 2.1. Cenni storici 1071; 2.2. Limiti delle attuali definizioni 1073; 2.3. Strutture e percorsi riabilitativi 1075; 2.3.1. Strutture residenziali 1076; 2.3.2. Strutture non residenziali 1077; 2.4. I pazienti della riabilitazione 1078; 2.5. Teorie e modelli in riabilitazione psichiatrica 1079; 2.5.1. Il modello psicoeducazionale 1079; 2.5.2. Social skills training 1080; 2.5.3. Il modello psico-sociale di Mark Spivak 1081; 2.5.4. Il modello psico-sociale di Luc Ciompi 1082; 2.5.5. Approccio analitico 1082; 2.5.6. Approccio relazionale sistemico 1083; 2.5.7. Strategia integrata multicontestuale 1084; 2.6. Psicofarmacologia e riabilitazione 1084; 2.6.1. Percentuali di ricadute in corso di trattamento farmacologico 1084; 2.6.2. Sintomi negativi e riabilitazione 1086; 2.6.3. Danni cerebrali irreversibili da neurolettici 1088; 3. Teoria e prassi per una riabilitazione psichiatrica 1089; 3.1. Intuizione, percezione e affettivita` 1090; 3.2. La crisi nello psicotico 1092; 3.3. La formazione del personale 1093; 4. Il Centro Diurno: la teoria diventa prassi 1094; 4.1.1. La psicoterapia di gruppo (gruppo pazienti) 1094; 4.1.2. La psicoterapia di gruppo (gruppo familiari) 1095; 4.2. Il rapporto terapeutico duale 1096; 4.3. Il rapporto nelle attivita` di atelier e di laboratorio 1096; 5. I casi clinici 1099; 6. Conclusioni 1103; Riferimenti bibliografici 1105.

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62 - Terapia integrata dei disturbi schizofrenici 1. Considerazioni generali 1107; 1.1. Dialettica pluralistica 1107; 1.2. Ipotesi eziologiche 1108; 1.3. Diagnosi 1109; 2. Basi teoriche del modello integrato 1110; 2.1. Bisogni specifici dello psicotico 1110; 2.1.1. Bisogno di un oggetto inanimato 1111; 2.1.2. Bisogno di continuita` 1112; 2.1.3. Bisogni relativi alla condizione simbiotica 1112; 2.1.4. Bisogno di non aver bisogno 1113; 2.2. Integrazione dell’e´quipe ed integrazione del paziente 1114; 3. Linee guida per una tecnica d’intervento 1114; 3.1. Lavoro: produzione materiale o attivita` fantastica? 1115; 3.2. Diritto a delirare 1116; 3.3. Reazioni emotive controtransferali 1119; 3.3.1. La paura 1119; 3.3.2. La noia 1119; 3.3.3. Le richieste impossibili 1119; 3.4. Capitalizzazione del giusto aiuto 1120; Riferimenti bibliografici 1121.

1123

63 - Psichiatria di consulenza e collegamento Riferimenti bibliografici 1132.

1135

64 - Il Day Hospital 1. Considerazioni generali 1136; Riferimenti bibliografici 1139.

Indice

1141

XV

65 - L’assistenza psichiatrica 1. Considerazioni generali 1141; Riferimenti bibliografici 1147.

1149

66 - Problemi medico-legali in Psichiatria 1. Disposizioni legislative attinenti alla Psichiatria 1150; 2. Cenni di Psichiatria Forense 1156; Riferimenti bibliografici 1159.

* * * 1161

Appendice 1 Epidemiologia psichiatrica 1. Indici generali 1162; 2. Comportamento da malattia, ruolo di paziente, morbilita` latente 1162; 3. Metodologia 1164; 4. Epidemiologia dei disturbi psichici nella popolazione generale 1164; 5. Epidemiologia della Schizofrenia 1165; 6. Epidemiologia dei disturbi affettivi 1166; 7. Conclusioni 1167; Riferimenti bibliografici 1168.

1169

Appendice 2 Descrizione e commento del DSM-IV, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 1. Descrizione ed uso del DSM-IV 1172; 2. Valutazione multiassiale 1174; 3. Annotazioni conclusive 1177; Riferimenti bibliografici 1178.

1179

Glossario

1198

Tavola sinottica multilingue

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Indice analitico (a cura di F. Riggio)

Prefazione alla II edizione

«La trasparenza dell’esistenza esige che si sia cio` che si insegna» S. Kierkegaard (Diario, 1834-1855)

Il Manuale di psichiatria e psicoterapia, edito nel 1991, ha mantenuto quanto aveva promesso: essere strumento di studio, come evidenziano le varie ristampe, e strumento di lavoro, ampliando il Manuale con varie monografie. L’altra faccia della luna. Il mistero del sonno. Il problema dell’insonnia del 1994; La passione sonnambulica. Scritti di Pierre Janet del 1996; Lo spazio della mente. Saggi di psicosomatica del 1997, ne sono la testimonianza. A distanza di otto anni ho deciso di apprestare una seconda edizione che non e` una semplice revisione, ma un notevole ampliamento come dimostra il numero dei capitoli, che da cinquanta passa a sessantasei, per nuove tematiche come: il consenso informato, la terapia integrata delle psicosi, la bioetica ed altre che sono diventate sempre piu` parti integranti della psichiatria. In questa operazione, la partecipazione e la collaborazione fattiva dell’editore sono state fondamentali. Ma le motivazioni che mi hanno indotto a questa seconda edizione sono soprattutto due. La prima e` legata alla crescente richiesta da parte degli studenti del Corso di Laurea in Psicologia di sostenere questo esame, tra l’altro facoltativo, che puo` essere letto come esigenza di un approfondimento della clinica. La seconda e` legata al nuovo corso degli studi della Facolta` di Medicina e Chirurgia (Tab. XVIIIter.) che riducendo gli esami, rende sempre meno nozionistica e sempre piu` globale ed umanistica la formazione del medico.

Pertanto mi e` sembrato necessario, per i primi ampliare le tematiche riguardanti la clinica e proporre nuove problematiche circa la prassi psicoterapeutica. Per i secondi proporre invece una piu` ampia informazione su argomenti riguardanti la psicologia che altrimenti sarebbero rimasti deficitari. Ma ulteriore scopo di questa seconda edizione e` proporre uno strumento non solo didattico e di lavoro, ma anche di ricerca. Creare un’interfaccia tra due discipline trop- po spesso ferme su sterili contrapposizioni, mentre la realta` dimostra, soprattutto nei servizi pubblici, l’utilita` e la necessita` di una integrazione e di una reciproca comprensione basate su un linguaggio comune: e questo non puo` essere certo quello del DSM-IV. Comunque, nonostante le numerose novita`, la struttura di base rimane immutata come immutata e` la dizione Manuale di psichiatria e psicoterapia: il che vuol dire proporre, come unica possibile cura della psiche, la cura con la psiche. Per questo il modello psicodinamico rimane il filo conduttore che in maniera coerente lega la spiegazione con la comprensione, fornendo al tempo stesso un modello conseguenziale di terapia. Come immutate rimangono la semplicita` e la chiarezza espositiva, perche´ ritengo giusto quanto afferma K. Popper: «Ogni intellettuale ha una responsabilita` tutta particolare. Ha il privilegio e la possibilita` di studiare; per questo egli ha contratto il debito nei confronti dei propri simili (o “della societa`”) di presentare il frutto del suo studio nella forma piu` chiara, piu` semplice, piu` modesta possibile». Roma, novembre 1999

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Nota per la Ia ristampa La ristampa di un Manuale a pochi mesi dall’inizio della distribuzione non e` certo evento frequente ed abituale. Bisogna pertanto evidenziare i motivi di questo successo: certamente la vese grafica, la distribuzione accurata, il prezzo contenuto, sono tutti fattori positivi per i quali debbo un ringraziamento all’Editore. Ma e` evidente che questo Manuale si pone in una linea di tendenza totalmente nuova rispetto alla trattati-

stica psichiatrica che continua ad attardarsi su teorie obsolete, a volte francamente incomprensibili. Il lungo e fruttuoso lavoro di ricerca che e` in parte espresso in questo Manuale e`, alla fine, pagante perche´ e` la risposta ad una esigenza di novita` e di concretezza che evidentemente le varie Accademie, pubbliche o private, non riescono ad offrire. Roma, maggio 2000

Considerazioni di uno psichiatra

Allora sono tante le persone che ci guardano, da tempo: venticinque e ventinove anni sono trascorsi da quando, per aver scritto di psicoanalisi, fui invitato ad attraversare via Nomentana per andare al Servizio Speciale di Psichiatria e Psicoterapia: Villa Massimo, cosı` si chiamava il luogo. Ero un neuropsichiatra e un neuropsiciatra mi aveva chiamato: io feci quella che, a quel tempo, si chiamava psicoanalisi e, a quel tempo, avevo addosso quel titolo nobiliare di psicoanalista, quello che si compera negli istituti privati di araldica. Io non feci quello che, a quel tempo, si chiamava psicoanalisi, io feci psichiatria. Affrontavo cioe` la malattia della mente piu` o meno latente o manifesta, anche se in psichiatria non erano mai entrate sedute dette analitiche, dinamiche di transfert e controtransfert, l’interpreta-

zione pubblica dei sogni, la realta` di grandi gruppi. Quasi venticinque anni dopo compare il Trattato di Psichiatria di N. Lalli, definito, nel convegno del 18 marzo 2000 all’Aula Magna dell’Universita` di Roma, nuovo e originale. Non posso dire perche´. Non ho lo spazio sufficiente per raccontare l’intelligenza e l’amicizia di Nicola Lalli, il coraggio e la coerenza e costanza con cui, intuita la novita` della scoperta e del pensiero, ha stimolato questa psichiatria che doveva rivoluzionare una realta` di impotenza della mente che non era mai riuscita a comprendere perche´ la fantasia della specie umana morisse, troppo spesso, prima del corpo. Massimo Fagioli Roma, maggio 2000

Introduzione

Homines dum docent, discunt. (Seneca, Epist. 7-8)

Sembra quasi impossibile, oggi, tentare una sintesi della Psichiatria: l’accumularsi delle conoscenze, se da un lato ha permesso notevoli progressi sul piano operativo, dall’altro ha reso problematica una sistemazione, metodologicamente corretta, di questa disciplina. Siamo di fronte ad una frammentazione del sapere psichiatrico. Dalla psichiatria biologica a quella fenomenologica, dalla psicosomatica alle numerose metodologie psicoterapeutiche, che si sono ritagliate uno spazio, piu` o meno ampio, rappresentato dallo specifico campo operativo lasciando pero` fuori una parte, spesso non piccola, della psicopatologia. Il DSM-III-R, con la sua tendenza ordinatrice e descrittiva, nel tentativo di codificare un idioma comune nella babele dei dialetti psichiatrici, sicuramente rappresenta una reazione a questa frammentazione. Ma rappresenta anche il prezzo che si e` costretti a pagare. La raccolta di tutti i fenomeni psicopatologici, con la rinuncia a qualsiasi modello interpretativo, lascia aperta come unica strada una catalogazione asistematica. Cosa che, a parer mio, rappresenta una regressione culturale. Inoltre il rapido progresso di alcune discipline, quali la biochimica e la neurofisiologia, ha condotto a scoperte e risultati di estremo interesse: ma questi risultati non possono egemonizzare la Psichiatria, che rimane tale nella misura in cui si occupa della globalita` e della storicita` dell’uomo, e non solo delle funzioni superiori ed integrative del S.N.C. Questa complessa situazione lasciava aperte varie possibilita`, ma tutte parziali: accettare la frammentazione, privilegiare esclusivamente il proprio campo operativo ed il proprio modello teorico, operare una semplice descrizione dei fenomeni, evidenziare ed ipertrofizzare le scoperte della neurobiologia, con il ri-

schio pero` della perdita d’identita` della Psichiatria. Oppure ordinare il materiale secondo uno schema ed una interpretazione che tenessero conto della specificita` della Psichiatria quale disciplina del rapporto interpersonale, senza per questo scotomizzare i dati e le acquisizioni della neurobiologia. Ho preferito seguire quest’ultimo itinerario, con la consapevolezza che la varieta` fenomenologica della psicopatologia puo` essere compresa ed unificata solo in un’ampia cornice di riferimento che tenga conto della complessa interazione tra psicologia e biologia, tra individuo e gruppo sociale. Filo conduttore una visione di tipo psicodinamico, ovverosia un modello teorico dello sviluppo umano che trova nella clinica la sua conferma e che si basa su alcuni assunti di base, come: — — —



la presenza di una situazione pulsionale duale (istinto libidico ed istinto di morte); l’esistenza dell’inconscio; l’importanza determinante dei rapporti interpersonali sia nella formazione della psicopatologia che nella sua risoluzione (transfert e controtransfert); il sintomo psicopatologico come portatore di un significato piu` o meno latente.

Chiaramente, questo modello non esclude l’importanza dei fattori biologici, ma li pone tra parentesi, privilegiando il rapporto interpersonale come fattore di conoscenza e di cambiamento. Date queste premesse, e` facile comprendere l’iter del Manuale. I capitoli sono stati ordinati con criteri relativamente semplici, ma precisi. Nella prima parte sono state proposte alcune tematiche di fondo, quali i criteri

6

Manuale di psichiatria e psicoterapia

di normalita` e patologia, i problemi attuali della Psichiatria, il problema della nosografia. Segue l’esposizione dei vari quadri clinici, secondo una vettorialita` che inizia dai disturbi esclusivamente su base psichica, per giungere a quelli ove c’e` una componente biologica probabile come nelle psicosi, o sicuramente accertata come nelle demenze. Ma non solo. La clinica e` suddivisa anche secondo il criterio della reversibilita`: dai disturbi reversibili come le psiconevrosi a quelli meno reversibili come le psicosi, o irreversibili come le demenze; reversibilita` che e` inversamente proporzionale sia ad un maggiore deterioramento delle funzioni psichiche sia ad una maggiore alienazione del rapporto con la realta`. Nella parte terza vengono considerate alcune patologie che, pur facendo parte di svariati quadri clinici, possono assumere una loro peculiare autonomia: quali l’insonnia, il suicidio ecc. Dalla clinica, ovverosia dalla descrizione del fenomeno, si passa alla terapia, ovverosia alla possibilita` della cura e della trasformazione. Dopo il capitolo dedicato alle terapie biologiche, ci si sofferma prevalentemente sulle varie modalita` psicoterapeutiche: riservando tale termine solo a metodologie con un elevato valore euristico sul piano teorico e con una ben codificata prassi di intervento. Nei capitoli sulle psicoterapie ho ritenuto opportuno descrivere la prassi ed i corrispondenti modelli teorici. Infatti la contemporanea descrizione della prassi terapeutica e del correlato modello teorico rende piu` coerente l’esposizione, piu` semplici i confronti. Un glossario con una breve spiegazionericapitolazione dei concetti salienti chiude il Manuale. Il Manuale vuole essere principalmente uno strumento didattico per quanti operano direttamente o indirettamente nel campo dei disturbi psichici. Compito difficile, tenuto conto del numero relativamente contenuto di pagine. Scelta, questa, ben precisa, che non vuol dire semplificare e ridurre, ma solamente proporre quanto c’e` di sicuramente accertato e quindi di non estemporaneo o transitorio nella Psichiatria.

Ma la Psichiatria, come tutte le altre discipline, e` in evoluzione; pertanto ho ritenuto opportuno e necessario affiancare al Manuale la pubblicazione, in tempi successivi, di una serie di monografie, ove gli argomenti principali saranno ripresi e trattati in maniera piu` ampia ed esauriente, con la possibilita` di un continuo aggiornamento. La comprensione e l’entusiasmo dell’Editore hanno permesso la realizzazione di questo progetto che trasforma il Manuale da strumento didattico in strumento di lavoro e di apertura a quanti operano nel campo della Psichiatria. Data la vastita`, la complessita` e la varieta` del campo psichiatrico, era pretenzioso e forse impossibile che questa fosse opera di un solo autore. Ho percio` chiesto la collaborazione di quanti avessero non solo una specifica competenza dell’argomento trattato, ma anche una lunga, sperimentata capacita` didattica tale da rendere il testo qualificato ed accessibile. Io mi sono riservato sia il compito di trattare numerosi argomenti che costituiscono da decenni un mio specifico campo di interesse, sia quello piu` difficile di coordinare l’intera opera cercando di dare unita` al volume. Il testo in corsivo all’inizio dei vari capitoli, racchiudendo le mie considerazioni pur non sempre in linea con tutti gli AA., assolve a questo compito di continuita`. A tutti i collaboratori che hanno direttamente contribuito alla stesura del Manuale va la mia riconoscenza: ma essa va anche a quanti indirettamente — autori, colleghi, pazienti — hanno reso possibili una riflessione ed un approfondimento dei temi affrontati. Temi che continueranno ad affascinare il ricercatore cosı` come l’uomo della strada, temi sui quali ci si continuera` ad interrogare, cercando risposte sempre piu` esaurienti e piu` complete. Ma... Sic rerum summa novatur semper, et inter se mortales mutua vivunt. Augescunt aliae gentes, aliae minuuntur, inque brevi spatio mutantur saecla animatum et quasi cursores vitae lampada tradunt. 1 (Lucrezio, De Rerum Natura, libro II 75-79) Roma, aprile 1991

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‘‘Cosı` la maggior parte delle cose si rinnova, di vicendevoli scambi vivono gli uomini. Popoli si accrescono, altri declinano, ed in breve tempo muta la stirpe degli uomini, che come maratoneti della vita si trasmettono la fiaccola’’. (Il poeta si riferisce al rito attico della ‘‘Lampadoforia’’: di notte, giovani vestiti di tuniche bianche si passavano di mano in mano fiaccole accese, espressione della vita e della sua caducita`).

Parte prima Concetti generali

1 Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo Nicola Lalli Parole chiave inconscio; relazione terapeutica; filosofia; epistemologia; metodo; immagine; pulsione; realta` umana; identita` dello psichiatra

Data l’impossibilita`, in questa sede, di ripercorrere la storia della Medicina, anche se alcuni accenni sono rinvenibili al Cap. 49 ‘‘Il rapporto medico-paziente’’, mi sembra necessario tracciare, almeno a grandi linee, il complesso rapporto tra Medicina e Psichiatria che sono sempre state, e per molti aspetti lo sono tuttora, collegate. Dopo Ippocrate e Galeno, che per secoli furono le uniche fonti del sapere medico, intorno al 1500 la Medicina fonda il suo statuto sulla brillante intuizione del Morgagni: cercare la sede e la natura della lesione per una razionale classificazione delle entita` morbose. Per comprendere l’importanza di questa operazione rimando al Cap. 10 ‘‘La nosografia dei disturbi psichiatrici’’. Si costituisce cosı` un metodo che arricchira` sempre piu` la conoscenza sull’organismo umano, anche se il prezzo sara` quello di esaminare l’uomo esclusivamente al tavolo autoptico. Il metodo sperimentale, successivamente, rendera` possibile confermare le ipotesi e quindi non solo discernere l’opinione dalla certezza, ma soprattutto mettere in crisi il pensiero dogmatico che era stato fino allora dominante. Comunque l’occasione di uno studio globale

dell’uomo tramonta definitivamente proprio quanto piu` si afferma una sempre maggiore conoscenza dell’uomo, per il passaggio dall’anatomia patologica alla fisiologia. La frattura tra soma e psiche, iniziata almeno due millenni prima, diventa sempre piu` irreversibile. Pertanto quando nel 1700 una nascente disciplina, la Psichiatria, cerchera` di ritagliarsi un proprio spazio sottraendo alle strettoie del pensiero teologico la comprensione del funzionamento della mente, inevitabilmente dovra` appoggiarsi alla Medicina. Per liberarsi dalla demonologia, frutto del dogma religioso di un’anima incorruttibile, la Psichiatria dovra` accettare la corruttibilita` del cervello come paradigma di base: parto precipitoso che generera` il mostro della neuropsichiatria, tuttora vivente. ` vero che ci furono numerosi tentativi, sia E prima che dopo Mesmer, di proporre un metodo diverso: dare importanza alle relazioni interpersonali come causa del disturbo mentale e come possibilita` di cura; per ulteriori approfondimenti rimando al paragrafo del Cap. 49. ‘‘La relazione terapeutica’’.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ma non ebbero molto successo. D’altra parte non si deve dimenticare che lo stesso S. Freud, ritenuto lo scopritore dell’inconscio e di una nuova disciplina per la ricerca e l’analisi della psiche, riteneva la ‘‘sua creatura’’ tutto sommato una buona fenomenologia, utile solo fino a quando la biochimica non avesse svelato le vere cause del funzionamento psichico. Uno dei pochi a mantenere la continuita` del pensiero nato con gli ipnotisti fu P. Janet, unico ed onesto oppositore di Freud: proprio per questo considero P. Janet l’iniziatore della Psichiatria dinamica, come ho cercato di dimostrare nel libro da me curato ‘‘La passione sonnambulica’’. Cosı` la Psichiatria, nata per curare la psiche, rimarra` sempre piu` neuropsichiatria, cioe` cura del cervello. Paradigma che alcuni ricercatori, anche se da posizioni diverse, hanno cercato di mettere in crisi proponendo una Psichiatria autonoma, capace di essere interdisciplinare, ma comunque autosufficiente ed in continua ricerca come testimoniano i numerosi incontri e le pubblicazioni di questi ultimi anni. Nel 1994 l’incontro-dibattito presso l’Aula Magna dell’Universita` ‘‘La Sapienza’’ propone un

tema impegnativo ‘‘La psicoterapia e l’inconscio nel decennio del cervello’’; vi partecipano relatori di diversa estrazione culturale, ed i relativi Atti sono stati pubblicati su ‘‘Il Sogno della Farfalla’’ (n. 4/1994). Successivamente, nel 1997, gli ‘‘Incontri di ricerca psichiatrica’’, i cui Atti sono stati pubblicati in La medicina abbandonata a cura di M. Fagioli. Infine il volume ‘‘L’isola dei Feaci. Percorsi psicoanalitici nella storia della psichiatria, nella clinica, nella letteratura (N. Lalli, 1998), editi da Nuove Edizioni Romane. In questa ottica il rapporto tra Medicina e Psichiatria si modifica: quest’ultima, pur riconoscendo la propria derivazione dalla prima, cerca non di annullare, ma di superarne il metodo. Nei prossimi quattro capitoli verra` offerta un’ampia panoramica sulla Psichiatria: intesa come disciplina che si interroga sulla natura dell’uomo, sulle cause della malattia mentale e sulle possibilita` di una cura legata strettamente ad una relazione interpersonale. Per questo Psichiatria e Psicoterapia rimangono strettamente integrate e collegate. * * *

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

1. Medicina e psichiatria: riflessioni sulla storia di Paolo Fiori-Nastro “Il medico biologo deve diventare filosofo e forse artista, perdendo l’identita` della ricerca sulla cura in quanto promessa e assicurazione di benessere per i propri simili”.1 Secondo una secolare e accreditata tradizione storiografica la medicina viene fatta iniziare, piu` o meno arbitrariamente (l’atteggiamento umano di opposizione alla malattia ha sicuramente origini molto piu` lontane), intorno al V sec. a.C. Le ragioni di una cosı` precisa collocazione storica delle sue origini sono legate non solo all’abbondanza di scritti medici che sono giunti fino a noi e che risalgono a quell’epoca, ma soprattutto alla trasformazione profonda che la teoria e la prassi medica subirono in quel periodo. Fino ad allora i medici erano stati dei semplici artigiani la cui attivita` si esauriva nell’applicazione pratica di un sapere tramandato per via orale (i medici si sono appropriati della scrittura solo nel V sec. a.C.) tra i membri consanguinei della famiglia degli Asclepiadi che, dal canto suo, esercitava un attento controllo sull’etica professionale dei suoi membri. Ogni medico artigiano (demiurgoi) esercitava la sua arte pubblicamente, nella sua bottega (iatreion) che si affacciava direttamente sulla strada, curava per lo piu` giovani, di basso livello sociale (schiavi), che si rivolgevano a lui per traumi, ferite e malattie infettive endemiche (peste, tifo, tbc, malattie intestinali). Ciascuno di questi medici aveva bisogno dei pazienti per vivere, e per questo doveva impegnarsi alacremente per raggiungere considerazione, fama e prestigio. Partecipava spesso a pubblici dibattiti dove cercava di dimostrare la pro-

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Cosı` veniva scritto su un grande pannello collocato nell’Aula Magna dell’Universita` di Roma “La Sapienza” il 7 giugno 1997, nel corso di un Convegno intitolato ”Cervello e malattia mentale” facente parte a sua volta di una serie di “Incontri di ricerca psichiatrica” i cui Atti sono stati pubblicati con il titolo La medicina abbandonata a cura di Marcella Fagioli, Nuove Edizioni Romane, Roma, 1998.

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pria bravura e la propria competenza, doveva distinguersi e primeggiare sui suoi colleghi, doveva dimostrare la validita` del suo sapere a confronto con le altre forme di medicina tanto in voga a quei tempi come la medicina teurgicotemplare, la magia e la medicina dei filosofi.2 Ponendosi come fine la propria autoaffermazione, al medico artigiano non bastava il saper fare (che e` proprio anche di altre forme di artigianato), ma doveva dimostrare consapevolezza per le scelte che guidavano la sua attivita` pratica. Il suo non poteva essere un sapere fondato sulla sola prassi (ogni artigiano conosce per esperienza il modo migliore per ottenere il risultato che si prefigge), ma si doveva accompagnare alla elaborazione di una “teoria” e di un “metodo”, che gli avrebbero permesso di dar conto del perche´ e del per come della prassi stessa (l’elaborazione di una impalcatura teorica e` cio` che distingue la semplice esperienza da una comprensione scientifica della realta`). La necessita` di autoaffermazione fu una motivazione importante che sospinse il medico artigiano verso una trasformazione radicale della sua attivita` da pratica artigianale a vera e propria arte, ma non fu l’unica perche´ contemporaneamente i medici del V sec. a.C. furono investiti da un movimento di pensiero che stava rivoluzionando il rapporto dell’uomo antico con la realta`. Circa un secolo prima, con i filosofi presocratici, si era fatta strada l’idea che la physis-natura poteva essere conosciuta. Fino ad allora, per migliaia di anni, gli esseri umani si erano sentiti immersi in una realta` che avevano pensato non conoscibile e con la quale l’unico rapporto che riuscivano ad avere era di soggezione religiosa di fronte alla ineluttabilita` del destino, del fato e della divinita`. Fino ad allora il mito (mythos = parola, favola, leggenda) era stato la principale forma di interpretazione della realta` che gli antichi possedevano ed alla quale cercavano di adeguare la loro vita. Nel momento stesso in cui comparve l’idea di poter conoscere la realta`, improvvisamente il

2 Cfr. P. Manuli, Medico e malattia in Il sapere degli antichi, M. Vegetti, a cura di, Boringhieri, Torino 1985.

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mito rivelo` la sua essenza di produzione che sovrapponeva alle cose un senso loro estraneo e pertanto impediva la possibilita` di coglierne il senso reale.3 Per la prima volta, nella storia dell’uomo, con i filosofi della natura (physiologoi) la realta` divenne un oggetto nuovo, non ancora conosciuto, capace di “suscitare meraviglia”4; il suo divenire, l’apparire e lo scomparire delle cose e degli uomini nascondevano un segreto che gli uomini medici e filosofi, dal V sec. a.C. in poi, cercheranno di scoprire. La storia della medicina, quindi, s’intreccia profondamente con la ricerca filosofica sulla conoscenza della realta`-natura-physis ed e` per questo che la sua trasformazione coincide con la ricerca di un sapere “certo” capace di essere tale non per la convalida di un dio, ma perche´ capace esso stesso di sconfiggere ogni suo avversario. «Episte´me e` detta la conoscenza certa: composta da ste´me=stare, ed epı`=su. Essa e` lo stare che e` proprio di un sapere innegabile e indubitabile che per questa sua innegabilita` ed indubitabilita` s’impone su ogni avversario che pretenda di negarlo o metterlo in dubbio».5 Un sapere, una conoscenza certa, una scienza (episte´me) che, corrispondendo profondamente alla realta`, fosse per questo vera. Inseriti nel solco tracciato dalla filosofia presocratica, nel V sec. a.C., anche i medici cominciarono a pensare che se la malattia non era il prodotto delle intenzioni capricciose o vendicative di un dio allora essa doveva avere cause naturali, e che queste potevano essere conosciute e comprese qualora fossero state indagate con un metodo corretto. All’interno delle prime scuole mediche che proprio in quel periodo videro la luce prese corpo la ricerca sul “metodo medico”: se lo scopo della

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Cfr. C. Lazzeri, La crisi: essere e divenire dell’uomo. Ineluttabilita` del cambiamento. Tesi di laurea in medicina e chirurgia, Universita` degli studi di Roma “La Sapienza”, 1990. 4 A. Armando, Corso di lezioni di Clinica Psichiatrica, I Scuola di Specializzazione in Psichiatria, a.a. 1998/99. 5 E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1984, p. 24.

medicina era di pervenire ad una conoscenza certa della malattia erano i medici che dovevano individuare una modalita` di esplorazione della realta` (organismo malato) che fosse la piu` idonea a raggiungere questo scopo. Sospinti dall’anelito alla conoscenza e dalla necessita` di dover dimostrare ai loro pazienti il come ed il perche´ di ogni loro decisione, i medici ippocratici approfondirono la ricerca di un metodo che fosse capace di produrre una conoscenza certa dell’oggetto indagato. Per raggiungere questo scopo essi individuarono uno schema molto preciso che, al di la` di piccole differenze, e` grosso modo quello seguito ancora oggi dai clinici medici moderni.6 Il primo passo era l’osservazione empirica dell’oggetto da conoscere nel senso di esperienza ` qualcosa diretta dei sensi, soprattutto visiva. E che rimanda all’esame obiettivo della medicina moderna, anche se i medici dell’antichita` si limitavano alla sola osservazione visiva del malato e dei liquidi in entrata ed in uscita dal suo organismo. Il secondo passo era legare l’oggetto osservato (corpo umano) alla sua storia (anamnesi). Pur se pervasa di un senso inquisitorio, l’anamnesi rappresentava la via attraverso la quale il medico ippocratico cercava di ottenere un sapere genericamente “antropologico” rivolgendo il suo sguardo non solo alla malattia, ma anche all’ambiente di vita dei suoi pazienti nel senso che cercava di legare, anche se molto genericamente, i dati clinici con i dati geografici, climatici e con le loro abitudini igieniche, dietetiche e sessuali. Una volta osservato, il segno clinico veniva poi collocato nel tempo sia per quanto riguardava l’epoca di comparsa, sia per quanto riguardava il rapporto con gli altri segni. La composizione della osservazione con la storia permetteva di trasformare ciascun segno in sintomo, cioe` permetteva di dotare il segno di un suo significato solo attraverso il quale si poteva comporre la diagnosi. La possibilita` di legare il presente con il pas-

6 Cfr. F. Voltaggio, La medicina come scienza filosofica, Laterza, Bari, 1998, p. 33 e seg.

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

sato e con il futuro trasformava la diagnosi da semplice elenco di sintomi (descrizione) a modo adeguato di comprensione del presente. Il rapporto con il paziente per mezzo della osservazione diretta dei segni e della loro collocazione nel tempo generava nei medici una “immagine” (eidos) peculiare di malattia che andava poi espressa con il discorso verbale (logos). In questo modo eidos e logos, memoria e pensiero, coincidevano nel senso che la parola (definizione) si riferiva ad un’idea generata dalla percezione di un oggetto (corpo malato) indagato con un metodo corretto e il pensiero smetteva di essere una produzione sovrapposta all’oggetto come era accaduto con il mito. Nella lotta per la supremazia di una forma di sapere laica rispetto alla medicina teurgicotemplare i medici ippocratici proponevano, infine, la prognosi come momento decisivo della spiegazione scientifica. Essi cercavano di opporsi alle predizioni dei sacerdoti guaritori: all’ingresso dei templi di Asclepio a Corinto, Atene, Epidauro e Cos, il pellegrino poteva trovare scolpiti i racconti delle guarigioni miracolose del dio (i malati si addormentavano nel tempio, vedevano il dio in sogno e questo era sufficiente a che l’indomani mattina al risveglio fossero completamente guariti) e soprattutto delle sue predizioni che avevano grande presa sul popolo. Con la prognosi i medici proposero una sapienza ugualmente proiettata nel futuro, ma assolutamente ancorata ad un metodo che consentiva una costante verifica della sua correttezza e, per questo, essa si mostrava come il momento decisivo della spiegazione scientifica visto che per prodursi necessitava della comprensione del passato e dell’interpretazione del presente. «Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo e` il compito» (Epidemie, I, 11). La possibilita` di legare osservazione e tempo, esperienza e conoscenza affascino` tutti coloro che erano interessati non solo alla efficacia terapeutica della medicina ippocratica, peraltro molto limitata, ma soprattutto alla sua validita` come teoria della conoscenza, consapevole della sua autonomia metodologica. La medicina divenne, in breve tempo, e so-

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prattutto con i medici ippocratici, quella techne che meglio delle altre sintetizzava i presupposti teorici dei filosofi presocratici. Essa sembrava preludere ad una conoscenza di valore superiore capace di individuare una specificita` degli esseri umani tutta ancora da indagare attraverso lo studio delle malattie, organiche e mentali. La sua caratteristica basilare era il metodo che permetteva al medico di legare secondo una procedura logica, di cui egli stesso era consapevole in ogni suo momento, la conoscenza (episte´me) con la realta` (physis) esorcizzando l’angoscia per quei saperi, religioso e mitico che, non riuscendo a conoscere la realta`, vi sovrapponevano un senso che le era estraneo. In conclusione, con Ippocrate ed i medici a lui contemporanei la medicina divenne l’unica techne (arte) capace di padroneggiare la natura perche´ provvista di un metodo che garantiva la conoscenza prodotta. Il passo successivo avrebbe dovuto essere una ulteriore elaborazione teorica e metodologica verso una conoscenza che abbiamo chiamato genericamente “antropologica”, che comprendesse cioe` non solo la realta` biologica, ma anche quella psichica degli esseri umani. Purtroppo, invece, la medicina, pur subendo trasformazioni profonde, cesso` di essere la via regia per la conoscenza della realta`; il medico perse la sua posizione di privilegio e si colloco` ai margini della ricerca sul “vero sapere” che d’ora in poi apparterra` in modo definitivo ed inequivocabile al filosofo. Cio` accadde tanto per una insufficienza degli stessi medici, che non colsero per nulla le prospettive aperte dalla individuazione di un nuovo metodo di esplorazione della realta` (fu Platone a esaltare il metodo della scuola ippocratica)7, quanto per la nefasta influenza delle teorizzazioni dei grandi filosofi che si appropriarono della ricerca su quella parte della natura umana che i medici non avevano saputo indagare dando inizio a quella separazione, mai ricomposta, tra medicina e filosofia.

7 Cfr. M. Vegetti, La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia, 1995.

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A questo proposito occorre tenere presente che fino a quando ‘‘l’anima” e` rimasta confusa con il corpo del quale ha rappresentato il principio “motore”, le sue malattie sono state sempre pensate come espressioni di un’alterazione negli equilibri degli umori o come alterazioni della loro natura8 e mai come malattie mentali nel senso moderno del termine. A partire dal III sec. a.C., i medici concentrarono la loro ricerca “solo” sul corpo umano abbandonando definitivamente anche la sola possibilita` di comprensione della “natura umana”. La medicina si sviluppo` nelle grandi scuole (Accademia, Liceo, Museo di Alessandria) dove i medici trovarono lo spazio e il tempo per una ricerca svincolata dalla pressione della prassi. La pratica della dissezione, e per qualche decennio della vivisezione, consentı` un progresso consistente delle conoscenze anatomiche: il rapporto tra funzione e struttura degli organi, la presenza di apparati, la presenza dei grandi alberi arterioso, venoso e nervoso furono tutte conquiste di questa nuova medicina che fece dell’anatomia il suo fondamento epistemologico.9 L’evoluzione rispetto alla medicina ippocratica e` evidente: l’anatomia divenne il livello fondante della medicina e aprı` la strada verso una trasformazione dell’immagine del corpo umano da contenitore cavo circondato dalla pelle ad agglomerato di organi, sistemi e strutture.10 Ma questo incremento del sapere anatomico non provoco` un contemporaneo progresso del sapere clinico e terapeutico: sarebbe stato necessario elaborare una nuova fisiologia ed una nuova patologia, ma i medici dell’epoca preferirono rimanere fedeli al pensiero tradizionale relativo alla teoria dei quattro umori e delle cause finali. Grandi medici come Erofilo, Erasistrato, Galeno e molti altri ancora preferirono conservare, nonostante le evidenze anatomiche, un pensiero

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Cfr. A. Bernabei, F. Fagioli, Figli di un dio maggiore, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, 4, 1993. 9 M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale vol. I, Laterza, Bari, 1996. 10 A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 14.

che potremmo definire mitologico visto che non aveva nessuna base empirica, ma che ha avuto il potere di ostacolare qualsiasi progresso sostanziale del sapere medico per quasi duemila anni fino a quando Harvey non lo ha “disintegrato” con la scoperta della circolazione sanguigna.11 La storiografia medica e` abbastanza concorde nel ritenere il 1628, anno di pubblicazione del De motu cordis et sanguinis in animalibus di Harvey, come l’inizio della scienza moderna e conseguentemente della medicina scientifica. Da questo momento la scienza, abbandonata definitivamente la pretesa di arrivare ad una verita` definitiva, assoluta, onnicomprensiva, ha perseguito una conoscenza dinamica in cui l’osservazione dei fatti e` tornata ad essere strettamente connessa alla teoria che, a sua volta, e` sottoposta continuamente alla verifica dell’esperimento. Si e` cercato di sostituire le idee di Ippocrate, di Aristotele, di Galeno, valide per 2000 anni, con una maggiore aderenza ai fatti, si sono elaborate strategie per la quantificazione dell’osservabile e la matematizzazione dei fenomeni naturali. Lo sviluppo della chimica, della fisica e della meccanica ha accresciuto le possibilita` di osservazione e di comprensione della realta` e le ipotesi del passato sono diventate finalmente semplici “congetture” sul funzionamento del nostro corpo. I progressi della scienza si sono susseguiti con un ritmo esaltante: astronomia, fisica, ottica, alchimia, zoologia, biologia, medicina hanno approfittato delle potenzialita` del metodo traendone enormi vantaggi e, nel contempo, confermandone la validita`, tanto che poi quando, a cavallo tra il 1700 e il 1800, anche la malattia mentale e` andata incontro ad un processo di disvelamento come era accaduto nel V sec. a.C. per la malattia organica, gli scienziati hanno pensato di avere gia` a disposizione il metodo idoneo anche per lo studio della realta` psichica degli esseri umani. Purtroppo, pero`, questo metodo e` risultato un valido strumento di esplorazione della realta` laddove i fenomeni studiati siano uniformi, ripetitivi e ripetibili come accade in fisica e in chimica; in

11 Cfr. W.P.D. Wightman, La nascita della medicina scientifica, Zanichelli, Bologna, 1980.

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biologia, in medicina, ma soprattutto in psichiatria gli esseri umani con la loro variabilita`, soggettivita`, spontaneita`, imprevedibilita`, fantasia va` per nificano un corretto utilizzo del metodo. E questo che le sue applicazioni, in psichiatria, sono rimaste limitate e del tutto insufficienti ad affrontare gli enigmi posti dalla malattia mentale.12

2. Medicina e psichiatria: un problema di metodo di Marcella Fagioli Lo studio ed eventuali proposizioni teoriche a proposito di psichiatria chiamano in primo luogo la scelta del pensiero se alla psichiatria noi leghiamo anche l’altra parola che e` psicoterapia, o viceversa la lasciamo isolata scegliendo immediatamente la tesi o l’ideologia che anche la malattia mentale e` una malattia dell’organo come tutte le altre malattie del corpo. Naturalmente, in questo secondo caso e` sufficiente parlare di metodo medico in generale e non cercare cosa, quanto e come un metodo psichiatrico si distingua dal metodo della medicina generale. Oltre cio` va anche riflettuto sul fatto che, se il metodo della conoscenza della malattia, in medicina generale, per un successivo sviluppo della ricerca sulla terapia, e` valido, in psichiatria e` giusto proporre che non puo` essere la stessa cosa. Possiamo ricordare il lungo periodo in cui si procedeva alla dissezione e alla osservazione del cadavere con lo scopo della conoscenza senza, ovviamente, nessuna intenzione di cura. Tentare di studiare la malattia mentale soltanto per conoscerla e comprenderla non e` stato mai possibile perche´ avrebbe portato all’abolizione di ogni ricerca sulla sintomatologia e sulle dinamiche psichiche di rapporto con la realta`, in particolare con la realta` umana. La metodologia diventerebbe quella della ricerca dell’alterazione biologica dell’organo, quando poi si rivela del tutto arbitrario il nesso tra alterazione d’organo e

12 G. De Simone, Arte e metodo nella relazione terapeutica, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, 3, 1992, p. 5.

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sintomatologia psichiatrica. Basta citare il solito esempio dell’emorragia o della trombosi cerebrale, o del trauma cranico che danno disturbi dell’attivita` motoria o delle facolta` mentali coscienti ma non propongono nessuna sindrome che possa essere definita come malattia mentale. La dizione della diagnosi (trombosi, ecc.) si riferisce ad alterazioni e lesioni del corpo nella sua realta` biologica. Le alterazioni delle facolta` mentali come memoria, riconoscimento degli oggetti e delle persone, possibilita` di apprendere ecc. non vengono valutate e definite malattie mentali. Ovvero dobbiamo pensare che, se e` stata formulata la dizione malattia mentale, i due termini si riferiscono ad un pensiero e ad una scoperta che ha permesso di isolare e delimitare sindromi che avevano caratteristiche specifiche che le distinguevano da altre legate a lesione degli organi del corpo; poi, a queste sindromi e` stato dato il nome di malattia. Ovvero ad un gruppo di sintomi e` stato dato il nome di malattia del corpo, ad un altro gruppo di sintomi e` stato dato il nome di malattia della mente. Osservando che anche nelle sindromi riferite ad alterazioni degli organi del corpo ci sono disturbi delle facolta` mentali, ci si puo` chiedere perche´ sono state isolate sindromi definite ugualmente malattie ma legate al termine mentali; salvo che questa definizione viene poi seguita dall’altro pensiero che dice: ma sono ugualmente dovute ad alterazioni degli organi del corpo. E qui, ora, abbiamo il dovere di fare riflessioni sul fatto che la concettualizzazione di malattia legata alla mente doveva comprendere una evoluzione del pensiero umano che si era reso piu` autonomo dalla religione; perche´ se la scienza, come e` noto dalla storia, aveva dovuto contrastare il pensiero religioso, nell’ambito della mente umana qualsiasi dipendenza da una impostazione religiosa di rapporto con la realta` impediva ogni idea di malattia nei confronti delle alterazioni della mente; conseguentemente nessun medico poteva considerare e comprendere l’alterazione della mente e la medicina era esclusa dalla ricerca. La medicina che, in qualche modo, era riuscita ad emergere dalla palude del pensiero reli-

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gioso pensando ed evidenziando le alterazioni del corpo come causate da agenti conoscibili e quindi affrontabili, si trovo` assolutamente impotente quando si tratto` di configurare come malattia i disturbi della mente. Facile, a prima vista, il pensiero che era l’idea religiosa del male, connaturato alla stessa natura umana, che precludeva qualsiasi possibilita` di comporre l’idea di malattia come perdita della sanita`. E se, nella storia, la coppia di termini sanita`malattia si e` fatta strada nella medicina del corpo, si puo` dire che, a tutt’oggi, non si e` fatta strada nella medicina della mente. Si puo` pensare che l’idea del male nel mondo sia particolarmente radicata nei riguardi del mondo umano, dei mali del corpo, ma sia particolarmente tenace e difficilmente sradicabile quando si tratta dei mali della mente. In altre parole, se l’ideologia morale che distingue il bene dal male, legata ad un giudizio della realta` e non ad una conoscenza di essa, puo` essere stata rifiutata dalla medicina del corpo, certamente non e` stata rifiutata dall’approccio metodologico che vuole presentarsi e chiamarsi medicina della mente. Allora dobbiamo pensare che resti in questa proposta di medicina della mente non soltanto l’idea del bene e del male invece di quella di sanita`-malattia, ma anche la credenza in una realta` statica per la quale non e` pensato il passaggio dell’una nell’altra e dell’altra nell’una. L’idea di sanita` non corrisponde ad un concetto medico, ma ad un’idea morale di bene; bene che si contrappone al male e che porta con se´ l’idea di punizione e distruzione e non certamente quella di cura. Anche se si volesse interpretare, nel male che aggredisce il bene, un pensiero primitivo che allude all’idea di malattia che attenta alla sanita`, l’interpretazione non sarebbe esatta perche´ il male resta sempre un ente o una forza che rimane staccata dal bene che resta sempre tale anche se distrutto. Ovvero si puo` evidenziare il pensiero che il male poteva aggredire il bene ma il bene non poteva mai diventare male perche´ manca totalmente l’idea di una trasformazione.

Se manca l’idea del cambiamento della sanita` in malattia manca, conseguentemente, l’idea della trasformazione della malattia in sanita`, e se non c’e` idea di guarigione, ovviamente, non c’e` idea di cura. Pero`, va ricordato che la dizione malattia mentale e la parola psichiatria compaiono nella seconda meta` del Settecento e, quindi, cio` lascerebbe credere che si era verificata una conoscenza della malattia mentale e conseguentemente erano comparsi il pensiero e l’intenzione della possibilita` di cura. Va evidenziato invece che, nella misura in cui, come e` noto, i primi medici che vollero fare psichiatria credevano che la malattia mentale fosse malattia del cervello, dobbiamo dedurre che l’idea e la scoperta della malattia, fuori del pensiero religioso del male, rimanevano confinate nell’ambito della malattia del corpo. Il pensiero medico, nonostante l’invenzione della parola psichiatria, rimaneva escluso dal rapporto con la malattia della mente. Si e` verificato cioe`, nella ricerca medica, uno strano fenomeno: si intuiscono e definiscono malattie, alterazioni della mente che vengono distinte dalle malattie del corpo; poi si dice che dipendono ugualmente, come le altre, da alterazioni degli organi del corpo. La sintomatologia clinica le distingue dalle sindromi dovute ad alterazioni del corpo, ma l’eziologia e` sempre l’alterazione della fisiologia corporea. Si compie cosı` un errore metodologico perche´, stabilito che ci sarebbero lesioni corporee, poi il metodo medico imporrebbe la ricerca dell’eziologia di tali alterazioni che sarebbero secondarie ad altre cause di malattia degli organi del corpo. Ovvero si pensa, a priori da ogni dimostrazione scientifica, che la malattia della mente e` causata da un’altra malattia che e` la malattia di un organo del corpo; poi non ci si chiede quale sia l’eziologia della prima malattia, quella del corpo, che causerebbe una seconda malattia che sarebbe la malattia mentale. Tutto questo contorto discorso e` la conseguenza di quel fatto storico per il quale l’intuizione di malattie mentali diverse da quelle corpo-

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ree e` stata immediatamente negata dalla proposizione che anche le malattie mentali sono malattie del corpo. Evidentemente se, in qualche modo, la medicina e` uscita dal pensiero religioso nel suo rapporto con il corpo e il funzionamento di esso, non ne e` uscita nel suo rapporto con la mente e il funzionamento della mente. Allora dobbiamo dire che e` rimasta, nel rapporto con la realta` psichica umana, l’idea del bene e del male. Idea che non e` stata superata perche´ la realta` psichica e`, nella specie umana, particolare e non paragonabile a quella delle altre specie animali; paragonabile perche´ simile a quella umana e` la realta` biologica. Pertanto viene di conseguenza che la medicina del corpo ha potuto svilupparsi soltanto a condizione di pensare al corpo come fatto biologico semplice prescindendo dal fatto che si trattava di un fatto biologico specifico che comprendeva la specificita` di essere di una specie particolare, ovvero della specie umana. Per far questo ha dovuto togliere al corpo umano la sua caratteristica peculiare che e` la realta` psichica. Se la negazione della specificita` umana consistente nello scindere la realta` psichica dal corpo ha permesso di fare conoscenza della realta` del corpo e scoprire e conseguentemente curare le malattie del corpo, non ha permesso di fare conoscenza della realta` della mente e conseguentemente non ha permesso di scoprire la malattia e curare le malattie mentali. Ovvero se per il corpo il male e` potuto diventare malattia conoscibile e conosciuta, definita e curabile, per la mente non e` stata ancora ideata un’immagine di malattia, restando il disturbo psichico manifestazione evidente, conseguenza di una malattia di un organo corporeo. A questo punto possiamo proporre che, evidentemente, per pensare la cura, senza la quale non c’e` medicina, e` necessaria una, il piu` possibile chiara, immagine di malattia senza la quale non c’e` diagnosi, e senza diagnosi non c’e` cura. Per giungere a questo e`, pero`, necessario che ci sia un pensiero analogo e simile a quello che, certamente, e` comparso nella mente umana ad un certo momento della sua storia, ovvero quello che intuı` che il corpo si puo` ammalare; premessa

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indispensabile alla possibilita` di scoprire e definire le malattie. Ora, difficile scoprire il perche´, nei riguardi della mente, un simile pensiero non appare essere comparso. Perche´, cioe`, non essendo comparso il pensiero della malattia, nel rapporto con la malattia mentale e` rimasta l’idea del male. Perche´, forse, non e` comparso il pensiero di una sanita` mentale che cade nella malattia. Invece e` ormai indispensabile che compaia il pensiero: anche la mente si puo` ammalare. Perche´, forse, al medico che affronta e cura le malattie del corpo, e` necessario proporre il coraggio di pensare di poter curare le malattie della mente; ma per poter pensare questo bisogna pensare che la malattia mentale non e` conoscibile se il metodo di conoscenza non comprende l’intenzione di curare. Il pensiero che l’intenzione di curare e` ovvia e sottintesa in ogni azione medica potrebbe esporsi a critica dal momento che si puo` evidenziare che l’intervento terapeutico come la somministrazione dei farmaci segue regole e meccanismi nei quali l’interesse e la volonta` del medico hanno un valore minimo se non completamente irrilevante. Non cosı`, e` da ritenere, nell’intervento terapeutico dello psichiatra in cui la personalita`, l’interesse e le intenzioni del medico hanno una importanza fondamentale. La dizione “intenzione di curare” comprende tre momenti che e` assolutamente necessario chiarire. La realta` psichica non ha nessuna possibilita` di essere studiata su un oggetto, potremmo dire, fermo, in quanto la realta` psichica non esiste se il corpo non e` piu` funzionante. Pertanto la possibilita` di avere conoscenze dallo studio del cadavere, come e` accaduto per l’anatomia e l’anatomia patologica, e` esclusa. L’intenzione di curare va nettamente separata e distinta dal pensiero di prendersi cura perche´ il prendersi cura non chiede nessuna conoscenza e teorizzazione della realta`. Esso si riferisce ad una matrice religiosa di rapporto con il mondo e con gli altri esseri umani, in cui oltre all’abolizione di ogni ricerca di conoscenza si gestisce una realta` e un concetto di amore che non e` quello richiesto a chi si accinge a curare la malattia.

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Per terzo va evidenziato che se e` auspicabile e possibile che il medico del corpo si mantenga estraneo e separato dal malato per fondare la sua opera sulla razionalita` e la tecnica, non e` possibile allo psichiatra proporsi un uguale atteggiamento perche´ negherebbe che l’unico fattore realmente terapeutico in psichiatria e` la persona del medico che si confronta con il malato con il suo sapere basato sulla propria formazione personale. Questa affermazione e` direttamente legata al pensiero che il corpo e la fisiologia di esso hanno un rapporto con l’ambiente che e` diverso da quello che ha la mente che si relaziona alla realta` umana ed in particolare alla realta` psichica umana. Forse la scoperta e la concettualizzazione delle malattie della mente chiedeva un metodo che pensasse quanto detto. La storia esplicita della psichiatria viene fatta iniziare nella seconda meta` del Settecento quando Weikart conio` il termine nel 1773; poi e` noto l’episodio di Pinel che nel 1793 libero` un malato mentale dalle catene, malato che, ritenuto pericoloso, si rivelo` poi mite e fedele servitore dello stesso Pinel. Ricordando questa storia dobbiamo anche ricordare che la cultura del tempo, di cui Pinel era un rappresentante significativo, pensava che le alterazioni della mente fossero causate da lesioni cerebrali. La convinzione del medico, che in questo modo si proponeva come psichiatra, si collocava sul pensiero illuminista che accanto alla scoperta di un nuovo pensiero, detto ragione, rispetto a quello religioso, ipotizzava una natura umana buona che non comprendeva l’ipotesi che potesse diventare cattiva. Conseguentemente, allorche´ esistevano alterazioni del pensiero e del comportamento violente e distruttive, esse dipendevano dalla lesione dell’organo che essi ritenevano deputato alla regolazione del pensiero e comportamento. La natura buona si configurava con l’essere razionale che faceva diventare gli uomini tolleranti e comprensivi nei riguardi di coloro che erano stati meno fortunati. Nello stesso periodo quanto era stato fino ad allora il male personificato nel fantasma del demoniaco, divenne un irrazionale fuori, al di la`,

contro quanto si comprendeva nell’idea di ragione, irrazionale che per quanto fosse stato sempre accanto all’idea di malattia del corpo, non prese mai la configurazione medica di malattia della mente, essendo le alterazioni del pensiero e comportamento sempre legate all’alterazione di organi, alterazioni che avrebbero potuto essere verificate e documentate. Non e` particolarmente indaginoso cogliere nell’idea di natura buona, come ragione inalterabile che distingue la specie umana dagli animali, la somiglianza con l’idea religiosa della scissione tra materia e spirito in cui accanto alla materia corruttibile risiede uno spirito incorruttibile. Somiglianza e parentela che impediscono, di conseguenza, di pensare ad una malattia della mente in quanto si connetterebbe, immediatamente, all’idea della corruttibilita` dello spirito, cosa non immaginabile per il pensiero religioso. L’idea storica del pensiero come ragione non permette e non ha permesso pertanto di pensare ad una malattia della mente che non fosse, in verita`, malattia del corpo perche´ l’idea di ragione ha rubato al pensiero religioso l’inalterabilita` dello spirito, causa e conseguenza del pensiero della scissione dalla materia che invece e` alterabile e corruttibile. Nella storia, nella seconda meta` del Settecento, troviamo l’episodio di Mesmer e della teoria del magnetismo animale. In esso, interpretando la teoria, possiamo ricavare l’idea dell’influenza che un essere umano puo` avere sugli altri esseri umani e l’idea che quanto era stato nell’ambito della magia e della religione poteva essere volto a fini terapeutici. E, nella misura in cui le pratiche terapeutiche non comprendevano interventi sul corpo o sugli organi del corpo mediante sostanze, possiamo ipotizzare anche un’idea di disturbo psichico senza lesioni di organi del corpo. Alcuni vogliono vedere nella storia del magnetismo animale il tentativo di scoprire e iniziare una pratica di psicoterapia che poi doveva proseguire nelle pratiche dell’ipnosi, nella psicoanalisi e nella psicoterapia moderna. Evidenziando che questo accadeva nello stesso periodo nel quale si sviluppo` la psichiatria, regaliamo a Mesmer il merito di aver aperto la

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

strada ad un metodo nuovo che doveva poi svilupparsi per tutto l’Ottocento con il discorso dell’ipnosi e successivamente arrivare fino a Breuer e Freud con il famoso caso clinico di Anna O., che segna l’inizio della psicoterapia propriamente detta. Quanto detto propone una ricerca sul pensiero sottostante a questi fatti ed, in particolare, alla scelta tra quella che possiamo chiamare teoria organica del disturbo mentale e la teoria che si fonda e conduce alla psicoterapia. La prima, abbiamo visto, e` direttamente legata all’idea dell’umano come ragione; la seconda, che separa nettamente il disturbo mentale dalla lesione organica e che si basa sulle interazioni della realta` psichica sulle altre realta` psichiche, rischia sempre di cadere in fantasticherie sine materia, ovvero in un rapporto magico con la realta` che esclude la razionalita`. Forse per questo ci sono opinioni e tesi che dicono che la psicoterapia inizia quando finisce l’ipnosi. Il momento viene raccontato come quello nel quale Freud, dopo la storia di Breuer e Bertha Pappenheim, detta Anna O., trattata mediante ipnosi, decise di togliere la mano dalla fronte dei pazienti per proporre quelle che sono note come libere associazioni. Noi dobbiamo estrapolare da questa storia un concetto per il quale a questo episodio puo` essere attribuito un significato di svolta nella misura in cui puo` essere interpretato come abbandono del metodo della medicina organica nella quale il rapporto medico-paziente e` unilaterale perche´ il paziente deve essere oggetto passivo del pensiero e dell’attivita` del medico. Si puo` riconoscere nel ben noto metodo delle libere associazioni questo tentativo di dare al paziente un’attivita` di collaborazione alla ricerca, mentre quello che era piu` simile alla medicina del corpo era l’ipnosi in cui non esisteva nessuna collaborazione tra medico e paziente che restava oggetto passivo. Noi vogliamo proporre, pero`, che questo metodo ha un fallimento sostanziale in se stesso nella misura in cui, nella storia, e` ignorato che un cardine della psicoterapia e` la negazione e il transfert negativo, per le quali cose quanto dice e comunica il paziente non e` piu` una collabora-

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zione, ma un’opposizione alla ricerca e al lavoro per raggiungere la conoscenza della malattia. Nel voler cioe` abbandonare il metodo ipnotico in quanto unilaterale e quindi troppo legato alla medicina generale si e` completamente ignorata una specificita` del disturbo-malattia psichiatrica, che e` quella per la quale il malato psichiatrico si oppone e aggredisce l’attivita` del medico tentando continuamente di portarla al fallimento: cosa che non accade mai nella medicina generale. Questo corrisponde ed e` la conseguenza del fatto che nella teorizzazione delle nevrosi detta psicoanalisi si e` ignorata la distruttivita` insita in ogni disturbo mentale. Estendendo, per quanto e` permesso in queste pagine, la ricerca teorica, e` da dire che questo tentativo di elaborare un metodo nuovo per le malattie psichiche fallisce in partenza per la teoria errata che sta a monte e che consiste nella proposizione di un’eziopatogenesi basata sull’idea che causa delle nevrosi e` la perversione sessuale. Ovvero la nevrosi, il disturbo psichico, starebbe nella sessualita` umana o meglio nella specificita` della sessualita` umana, in quanto la perversione e` caratteristica degli esseri umani. ` stato dimenticato invece il discorso che nel E disturbo psichico il problema e` la violenza e non la sessualita`; naturalmente non si tratta di considerare la violenza grossolanamente sadica, ma una violenza a livello delle relazioni psichiche tra gli esseri umani. Ma per comprendere questo era a sua volta necessario scoprire la pulsione caratteristica della specie umana, che non e` stata mai pensata. La pulsione propria della specie umana, la negazione come violenza non sadica ma difetto di conoscenza, possono essere legate al pensiero sulla realta` umana che avrebbe la sua caratteristica peculiare nel linguaggio parlato. Se il linguaggio parlato e` cio` che distingue l’uomo dagli animali, esso non puo` essere distruttivo: un pensiero di questo genere non permette di scoprire e concettualizzare la negazione come menzogna non consapevole. Le conseguenze, come abbiamo detto sopra, sono che il tentativo di un nuovo metodo che poteva avere un’intuizione originaria valida, ovvero quella di coinvolgere il paziente in una ri-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cerca ed in una cura, e` risultata totalmente fallimentare. Pensare, ora, di codificare un nuovo metodo della psicoterapia significa pensare anche ad un modo e metodo di fare psichiatria, il che a sua volta conduce ad un’impostazione di pensiero, nel rapporto con l’oggetto di conoscenza e di cura, che implica una separazione dal modo di pensiero e dal metodo di conoscenza sempre usato, che e` quello indicato come metodo scientifico; perche´ accade che se noi possiamo prendere delle concettualizzazioni dal metodo della medicina generale, poi pero` dobbiamo, piu` che cambiarlo, trasformarlo perche´ se possiamo raffigurare la proposizione clinica psichiatrica simile a quella della medicina generale per la quale l’osservazione piu` accurata doveva poi portare alla scoperta del latente, ovvero l’alterazione interna al corpo del funzionamento normale di organi, poi pero` in psichiatria viene a mancare la verificabilita` dell’evento nascosto ipotizzato, pensato ed eventualmente raffigurato. La ragione teorica metodologica di questo fatto sta proprio in quanto dicevamo prima, ovvero che rifiutata l’applicazione meccanica del metodo della medicina generale alla psichiatria, rifiuto che si basa sulla non accettazione dell’idea che in psichiatria ci possa essere un concetto di malattia dell’organo, noi impostiamo ovviamente la ricerca sul nesso tra psichiatria e psicoterapia. Proponiamo cioe` che non c’e` diagnosi se contemporaneamente non c’e` cura, come non c’e` cura se contemporaneamente non c’e` una continua diagnosi dello stato del paziente. Conseguentemente abbiamo di fronte l’emergenza di un’immagine di rapporto dinamico con la malattia e una raffigurazione della attivita` medica come quella cosa che, anche nella misura in cui ci sia una possibilita` di concettualizzare uno status immobile del paziente simile a quello che entro certi limiti si puo` pensare in medicina generale nella quale, per lo meno nelle sue linee generali, esiste il malato e possiamo dire rispettivamente il medico, in psichiatria dobbiamo in primo luogo concettualizzare che se anche esistesse uno status simile a questo, questo status si mobilizza nel rapporto col medico fino ad un arco di variazioni

che possono arrivare a non far vedere piu` la malattia anche se per un tempo determinato. ` in fondo lo sviluppo teorico di uno scleroE tico concetto di transfert che e` restato a livello di idea astratta e anche falsa per la ragione, prima accennata, per cui si e` voluto fare, stranamente e paradossalmente, una psicoterapia scissa dalla psichiatria. Scindendo la psichiatria dalla psicoterapia si toglie non solo l’oggetto di cura, perche´ se non c’e` psichiatria non c’e` malattia, ma anche l’oggetto di ricerca, perche´ la ricerca sugli esseri umani e` lecita soltanto se c’e` un fine di cura. Solo sulla base di queste premesse teoriche e sulla base di questa nuova impostazione mentale nei riguardi del disturbo psichico noi possiamo tentare di delineare un metodo che partendo dalla clinica possa giungere ad una proposizione chiara sul perche´ e sul per come noi ci muoviamo in un certo modo. La clinica, va chiarito, e` l’unica possibilita` che lo psichiatra ha, non esistendo assolutamente nessuno strumento che ci possa far vedere la realta` interna dell’individuo, come accade invece in gastroenterologia in cui ormai la clinica e` un fatto relativo rispetto all’esame radiografico al bario o un’ecografia; palpazione, auscultazione sono in questo caso del tutto irrilevanti. Non cosı` appunto in psichiatria, dove tutto e` basato sull’osservazione dello psichiatra che, spessissimo, deve cogliere non solo il disturbo ma addirittura la malattia mentale da piccoli segni nell’atteggiamento, nell’espressione, nel comportamento, nel linguaggio del paziente. Ben al di la` cioe` di quelle che possono essere chiassose crisi isteriche o bouffe´e deliranti eclatanti. Con cio` utilizziamo questa prima proposizione dell’osservazione clinica simile alla medicina generale; pero`, appunto, dopo questa prima parte, simile a quella dello pneumologo o cardiologo che rilevano uno status del polmone o del cuore da crepitii o da soffi, per lo psichiatra l’approccio cambia immediatamente perche´ lo psichiatra non puo` pensare, dedurre dai segni percepibili, osservabili, l’alterazione di un organo ma deve dedurre un’alterazione della mente che e` una proposizione che ci costringe ad immaginare, anche se non configurare, un’alterazione di tutta la persona che ci sta davanti.

Medicina e psichiatria: dalla storia al metodo

Alterazione cioe` dell’identita` soggettiva di un altro essere umano che ha per suo diritto naturale e culturale un fatto di liberta` che nessun medico puo` violare. Pertanto se lo psichiatra si fermasse a questo punto verrebbe travolto da una serie di ipotesi su cio` che e` normale, lecito, sano, e giustamente non e` in grado di decidere, salvo a cadere nel rifugio dell’alterazione del comportamento; fatto che da solo parla di un fallimento della ` inutile, infatti, ricordare che le altepsichiatria. E razioni del comportamento sono sempre state controllate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Allora si puo` pensare che una possibile strada anche se non per risolvere, ma per aprire il problema, puo` essere questo nesso tra psichiatria e psicoterapia. Una prima proposizione puo` essere abbastanza semplice per e in tutti quei casi in cui e` l’individuo che si rivolge allo psichiatra. Evidenziamo che, nella misura in cui e` lo stesso individuo che domanda a dichiararsi malato, si rende paziente e come tale crea il medico. E il medico risponde nella misura in cui ha piu` mezzi del paziente procedendo a cambiare le cose che il paziente non riesce a cambiare. Supponiamo in varie forme di depressione. Qui allora il metodo e`, dopo il primo movimento che e` l’osservazione che serve per configurare in un engramma mentale un orientamento rispetto ai movimenti disordinati dell’altro, che lo psichiatra proceda immediatamente ad affrontare lo stato patologico o malattia nella misura in cui pensa la formulazione verbale di essa. Ovvero il rapporto dello psichiatra e` immediatamente psicoterapia nel momento stesso in cui riesce a comprendere e dare una formulazione verbale al male del paziente, perche´ esso significa interesse, conoscenza, e quindi possibilita` di cura. Questo non accade in medicina generale, e qui lo psichiatra si distacca dal metodo della medicina organica, perche´ se e` facilmente immaginabile che se un cardiologo riesce a pensare la diagnosi e a formularla: “Questo e` un infarto”, la cosa non cambia nulla nello stato di malattia del paziente. Il cardiologo ha bisogno di intervenire diciamo materialmente sullo stato patologico con un’azione fisica, intendendo con cio` anche la

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somministrazione di farmaci. Lo psichiatra non ha farmaci perche´ la sua formulazione mentale di un’apparente diagnosi tecnica e` immediatamente rapporto, che e` l’unico modo con il quale si puo` fare diagnosi che diventa immediatamente terapia in quanto risposta dello psichiatra allo stato di malattia del paziente. E la risposta quindi e` ovviamente nella realta` umana del medico e non in sostanze o strumenti tecnici e questo e` perche´, come abbiamo detto prima, la malattia mentale non e` la malattia di un organo ma espressione di tutto l’organismo. Il problema si complica nella misura in cui la psichiatria deve prendere in considerazione quel tipo di malato che, come viene detto, non ha coscienza di malattia e quindi non si rivolge di sua spontanea volonta` al medico. Qui si pongono due proposizioni: il malato viene portato dallo psichiatra o perche´ ha avuto un comportamento antisociale e quindi sono le istituzioni addette all’ordine sociale che lo portano dallo psichiatra, o perche´ sono i familiari o le persone che gli stanno vicino che si accorgono di atteggiamenti strani, non usuali, non riconoscibili come normali. Evidentemente la formulazione precedentemente fatta sulla domanda e risposta nel rapporto medico-paziente viene a mancare perche´ non ci sarebbe domanda da parte del paziente e quindi, conseguentemente, non ci sarebbe risposta da parte dello psichiatra. La formulazione non e` cosı` certa, apodittica, perche´ si puo` interpretare che ci sia una domanda indiretta proprio nel fatto che di fronte ad un atteggiamento non usuale gli altri intervengono per provvedere a sofferenze che il paziente non vuole confessare. Questo accade in molti casi di depressione latente o in alcune isterie. Compito del medico e` riuscire ugualmente a realizzare il rapporto col paziente che permetta il movimento della dinamica sopraddetta che compone la conoscenza, la definizione e l’intervento nel rapporto stesso che si riesce a stabilire tra medico e malato. Piu` complesse ancora sono le situazioni nelle quali, in effetti, si puo` riconoscere una totale assenza di coscienza di malattia che si accompa-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

gna ad una mancata realizzazione di sofferenza. Queste situazioni sono state definite in genere entro una dimensione paranoicale in cui c’e` lo sviluppo di un pensiero particolare che lo psichiatra deve valutare se puo` essere definito delirio o meno. Sono le situazioni in cui il delirio non si accompagna ad una realta` di sofferenza. In particolare, approfondendo, si tratta di quella contestata malattia definita schizofrenia in cui accanto alla realta` delirante, che spessissimo non e` neppure evidente, si nasconde una realta` di violenza senza limiti. Evidentemente in questo caso parlare di rapporto terapeutico medico-paziente e` ben difficile. Ben difficile e` stabilire un’intesa con una persona che nasconde possibilita` omicide, distruttive che non sono direttamente controllabili per cui, in effetti, e` la societa` che provvede a neutralizzare, per quanto e` possibile, questa forza distruttiva. ` noto dalla storia il problema degli psichiatri E che finivano poi per diventare custodi di persone che non avevano un minimo di possibilita` di relazioni sociali. Pero` dobbiamo riconoscere che se la psichiatria si e` sviluppata, lo ha fatto a partire da queste situazioni di custodia senza nessun pensiero di cura; cioe` la proposizione sociale per la quale la cultura mette a capo di queste istituzioni addette alla custodia non un poliziotto ma un medico dice gia`, di per se´, di una domanda culturale nella quale si chiede al medico di impostare una ricerca su quello che la societa` stessa dice essere malattia. Forse possiamo comporre un disegno per il quale la domanda, nella misura in cui non viene direttamente dal malato che non concepisce l’idea di malattia e con essa una possibilita` di cura, viene invece dalla societa` dei non malati. In ogni modo resta il fatto che lo psichiatra deve rispondere adoperandosi a curare quello che i sani dicono di non saper curare. In questo caso emerge evidente che il problema, dal momento che abbiamo escluso il discorso della malattia d’organo da trattare con

farmaci o mezzi tecnici, e` quello che lo psichiatra riesca a stabilire un rapporto anche col malato grave che di per se´ non e` in grado di stabilire nessun rapporto. Non posso naturalmente esprimere giudizi se a questa domanda della societa` gli psichiatri abbiano risposto riuscendo a fare una psichiatria che realizzi quelle dimensioni fondamentali di ogni societa` che distingue la specie umana dalle altre specie animali, ovvero la medicina in quanto sostanzialmente cura che e` fatto specifico dell’umano che non si trova in nessun’altra specie animale. Se la psichiatria, cioe`, e` riuscita ad entrare nell’ambito della medicina sia come ricerca sia come attivita` medica realizzando quello che in medicina generale e` diventato chiaro quando uscendo dal pensiero magico e` riuscita a comprendere che non c’e` cura se non c’e` conoscenza.

Riferimenti bibliografici L. A. Armando, Dalla casa del padre alla casa piu` bella del mondo, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 3; 4; 1994 H. F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1991. F. Fagioli, Il problema dell’identita` dello psichiatra nell’ambito della relazione analitica con particolare riferimento al transfert erotico, da Anna O. ai giorni nostri, tesi di laurea in medicina e chirurgia, A.A. 1988-89 (in corso di pubbl.). ` possibile in psicoterapia F. Fagioli, A. Homberg, E parlare di malattia? ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 1; 2; 1992. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Marcella Fagioli, A. Masini, Relazione terapeutica (transfert), frustrazione, interpretazione, ‘‘Il Sogno della Farfalla’’, Wichtig Ed. Milano 1; 2; 1992. A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli Milano 1987. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, Il Saggiatore, Mondadori 1987.

2 Psichiatria: modelli a confronto Nicola Lalli - Agostino Manzi Parole chiave: psicoanalisi; fenomenologia; neuroscienze; psichiatria clinica; psicopatologia; psichiatria sociale; comprensione; spiegazione

Fin da quando si e` costituita come disciplina autonoma, la psichiatria ha cercato di elaborare modelli teorici che potessero dare ragione della genesi dei disturbi mentali. Nel corso del tempo i modelli sono diventati non solo numerosi, ma spesso in netto contrasto tra di loro. Questa peculiarita` della psichiatria, se da una parte dimostra la complessita` della materia, dall’altra ne denota l’origine, che e` legata a matrici diverse: quella filosofica, quella medica, quella psicologica, quella sociale. La filosofia, come riflessione sulla natura e il destino dell’uomo e come disciplina che si occupa della conoscenza. (v. cap. 1 e 5) La medicina, che indaga non solo la normalita` e la patologia dell’uomo, ma e` anche metodo per fondare una terapia razionale. (v. cap. 1) La psicologia, sia generale che clinica, ha spesso fornito la base per la comprensione dei problemi psichici. (v. cap. 7 e 8) Le scienze sociali ed antropologiche che si occupano non dell’uomo “naturale”, ma dell’uomo nella concretezza dei rapporti sociali e culturali. (v. cap. 4)

La diversita` dei modelli teorici e` legata in gran parte alla differente importanza attribuita alle varie matrici culturali. Ulteriore singolarita` della Psichiatria e` che questi modelli si sono alternati nel tempo, spesso per contrastare un modello divenuto troppo importante ed egemone. Cosı` la psicoanalisi e` nata in parte come reazione all’organicismo, la fenomenologia in opposizione alla psicoanalisi e la psichiatria biologica contro una psichiatria divenuta eccessivamente psicologizzante. In questo capitolo cercheremo, in un rapido excursus, di descrivere i principali modelli, soprattutto per sottolinearne gli aspetti distintivi. Nei capitoli successivi mi soffermero` sui tre modelli principali che sono quello psicobiologico, quello culturale e quello psicodinamico. Quest’ultimo sara` il modello teorico di riferimento per spiegare sia la normalita` che la patologia psichica (v. cap. 8 e 9). * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali

3)

La psichiatria costituisce la sua identita` di disciplina medica in virtu` del processo di riconoscimento e di delimitazione di un’area di sofferenza, quella psichica che, se presente da sempre, solo negli ultimi 3 secoli si e` venuta a circoscrivere con chiarezza. Il riconoscimento dei disturbi mentali ha quindi da una parte favorito il costituirsi della psichiatria come disciplina unitaria, dall’altra, conseguentemente alla difficolta` ad indagare la patogenesi della malattia psichica, ne ha provocato una frammentazione in filoni o prospettive molteplici. Ricordiamo (rimandando per ulteriori approfondimenti al cap. 1) che lo sforzo della Psichiatria, che ne ha determinato il costituirsi come area clinico-terapeutica, e` stato quello di distinguere, in un coacervo di comportamenti anomali, quelli che erano espressione sintomatica di una condizione psicopatologica da quelli che erano legati a gravi handicap o a situazioni di emarginazione e di indigenza. Fatta questa distinzione, rimane pur sempre un’area molto ampia che va dal disagio psichico fino alla malattia mentale ed i tentativi di spiegazione, privilegiando a volte solo alcuni aspetti della psicopatologia, hanno finito per proporre non solo modelli patogenetici e linee terapeutiche molto diversi ma, in alcuni casi, anche molto riduttivi. A grandi linee le prospettive della psichiatria contemporanea si sono delineate sin dall’inizio, e spesso si sono ripresentate alternandosi nel tempo, tanto che la storia della psichiatria moderna (da Pinel in poi) puo` essere considerata l’esplicitazione della dialettica tra queste diverse linee di pensiero e di prassi terapeutica legate ad una diversa concettualizzazione teorica sull’origine della psicopatologia. Con un po’ di approssimazione questi filoni possono essere raggruppati, coerentemente all’ottica patogenetica che li accomuna, in tre aree:

Questa frammentazione in tanti filoni di cui cercheremo di chiarire, per sommi capi, le origini e gli sviluppi storici, ci da` l’idea della complessita` del problema psichiatrico. Questa complessita`, in termini positivi, puo` essere considerata una ricchezza, una potenzialita` di ricerca oppure, in termini negativi, come il risultato di una sostanziale mancanza di conoscenza della natura del disturbo psichico. La Psichiatria, a differenza delle altre branche della medicina, che si sono venute formando sui princı`pi del positivismo e della scienza sperimentale, percorre molteplici vie di ricerca: questo fenomeno e` facilmente comprensibile se si accetta il presupposto che lo psichico rappresenta la dimensione umana nella sua complessita` e specificita` e che male si adatta a qualsiasi tipo di riduzionismo. Molti dei filoni di cui abbiamo accennato si strutturano in maniera autonoma in quanto propongono una teoria genetica dei disturbi psichici e una coerente modalita` di terapia (es: il filone psicoanalitico e quello biologico); altri offrono notevoli dati per la conoscenza clinica ma il loro ruolo, in termini di proposta terapeutica, e` minore: ad esempio le acquisizioni in termini di comprensione del disturbo psichico presentate dalla fenomenologia esistenziale e dalla psicopatologia, pur completando il bagaglio culturale di psichiatri di diversa formazione, non hanno dato seguito a proposte terapeutiche coerenti. Questo per dire che, al di la` delle schematizzazioni necessarie ad esplicitare le caratteristiche fondamentali di queste diverse prospettive, nella realta` dell’operare clinico ogni terapeuta puo` integrare le informazioni prodotte dalle diverse scuole. Alcune prospettive della Psichiatria, ma soprattutto della psicologia, hanno posto l’integrazione a fondamento di nuovi sviluppi della prassi terapeutica (filone pluralistico-eclettico).

1)

2)

genesi psicologico-relazionale: ad es. psicoanalisi e psichiatrie dinamiche, psichiatria sociale ecc.; genesi biologica: ad es. neuroscienze, psichiatria clinico-descrittiva;

genesi ignota: ad es. fenomenologia, DSMIV, psicopatologia.

2. La psichiatria clinico-descrittiva Sulla scia delle altre discipline mediche, anche la psichiatria ha tentato di oggettivare l’insieme

Psichiatria: modelli a confronto

dei disturbi psichici in tante entita` nosografiche che si distinguessero per espressione sintomatologica, reperto anatomopatologico e decorso clinico. Precursore di questo filone e` Pinel, attivo in Francia tra il XVIII e il XIX secolo, che classifico` le malattie mentali in quattro forme principali: la melanconia, la mania (con o senza delirio), la demenza e l’idiotismo. Ma il vero slancio della clinica psichiatrica si ebbe nell’Ottocento quando l’identificazione della origine infettiva della sifilide, che come entita` clinica era gia` stata descritta in precedenza pur in assenza del dato eziologico, sembro` confermare l’idea che questa fosse la strada giusta per arrivare ad una piena conoscenza delle malattie mentali. Lo sforzo classificatorio, basato soprattutto sull’associazione dei sintomi, produsse una varieta` enorme di quadri patologici e di proposizioni nosografiche: lo stesso Kraepelin verso la fine dell’Ottocento sosteneva, dovendo ricredersi in seguito, che sarebbe stato sufficiente avere una conoscenza esaustiva di uno solo dei tre aspetti della pazzia (anatomopatologico, eziologico o sintomatologico) per poter arrivare ad una classificazione unitaria e rigorosa delle psicosi1. In nessun’altra entita` sintomatologica si ebbe un riscontro eziologico ed anatomopatologico come era accaduto per la lue. Questo fatto, se da una parte spense la speranza di risolvere il problema psichiatrico in un problema medico (allargando, quindi, l’area di azione della neurologia), dall’altra favorı` l’evoluzione del pensiero clinico in una direzione sicuramente piu` proficua i cui contributi sono divenuti fondamento di tutta la Psichiatria moderna. K. Jaspers ha saputo cogliere e spiegare quali sono i limiti e i frutti di questa metodologia di

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P. Hoff, Immanenza e ricorsi nella nosografia: il pensiero nosologico nella psichiatria tedesca da E. Krapelin ad oggi, in F. M. Ferro, Passioni della mente e della storia, Vita e Pensiero, Milano 1989. E` da notare che questa idea presuppone la possibilita`, una volta classificate correttamente le malattie psichiatriche, di arrivare alla stessa diagnosi partendo da uno qualsiasi dei punti di osservazione: Kraepelin, a dimostrazione di cio`, pretese di poter far diagnosi di lue a partire dai soli sintomi psichici, con il risultato di produrre una quantita` inaccettabile di diagnosi errate (v. K. Jaspers, Psicopatologia Generale, Il Pensiero Scientifico, Milano 1982).

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studio, indicando in Kahlbaum prima e in Kraepelin poi gli autori che seppero produrre i contributi piu` validi. Se e` vero che Kraepelin muoveva dall’idea dell’unita` morbosa come insieme di quadri che hanno stesse cause, stesse forme psicopatologiche, stesso sviluppo e decorso, stesso esito e stesso reperto cerebrale, di fatto il risultato delle sue ricerche fu quello di proporre una fondamentale distinzione nell’ambito delle psicosi: quella tra la psicosi maniaco-depressiva e la demenza precoce. L’identificazione di queste due entita`, che rimane tuttora valida, non risponde se non parzialmente a quelli che idealmente Kraepelin aveva indicato come i criteri per definire una unita` morbosa: di fatto vengono privilegiati come punti di osservazione il decorso clinico e l’espressione sintomatica. Conseguentemente gli studiosi che si confrontarono con questa proposizione teorica, ebbero il problema di delimitare quali fossero i limiti nosografici di queste entita`; privilegiare l’espressione sintomatica (le forme psicopatologiche) rispetto al decorso o viceversa, significava scegliere sotto quale categoria nosografica includere dei casi reali. Decidere che il decorso progressivo e irreversibile e` il criterio fondamentale per includere nel quadro della demenza precoce un determinato caso clinico significa escludere da questa diagnosi qualsiasi quadro psicotico che vada incontro a risoluzione. K. Jaspers sottolinea che Kraepelin, mosso dall’ideale della unita` morbosa, ha saputo delineare due gruppi in cui «deve esserci un nucleo stabile di verita`»; per cui «l’idea dell’unita` morbosa non e` un compito raggiungibile, ma il punto di orientamento piu` utile». Possiamo dire che tutta la Psichiatria contemporanea, soprattutto nello studio delle psicosi, si muove, almeno nella messa a punto di una nosografia operativa, su una prospettiva clinico descrittiva che sembra fornire il “nucleo di verita`” dal quale partire. Non e` un caso che il dibattito psichiatrico piu` forte non e` tanto nell’indicare cosa e` la psicosi, ma soprattutto come essa si manifesti e come puo` essere riconosciuta. Questo atteggiamento, definito neo-kraepeliniano, trova nel DSM (nelle sue varie edizioni) il massimo della esplicitazione.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

3. Il modello psicopatologico L’oggetto della psicopatologia e` il «ridursi delle capacita` di comportamento e dell’esperienza della realta`». (Blankenburg da Scharfetter). La psicopatologia ha dato come risultato piu` importante e condivisibile un attento studio descrittivo degli elementi che costituiscono la condizione patologica: elementi psicopatologici come il delirio, la percezione delirante, l’illusione ecc. appartengono al linguaggio comune della Psichiatria ed e` merito della psicopatologia aver loro dato una precisa descrizione e concettualizzazione. In termini storici, pero`, la prospettiva psicopatologica ha avuto un significato piu` ampio, ed e` quanto cercheremo di sottolineare tra breve; la nascita e lo sviluppo di questo filone sono strettamente connessi a quello precedentemente descritto e le teorizzazioni ivi prodotte si inseriscono in maniera incisiva nel dibattito sull’origine e sulla delimitazione nosografica dei disturbi psichici. Il filone clinico descrittivo aveva descritto e classificato una varieta` enorme di quadri nosografici a partire dall’idea che ogni singola manifestazione psicopatologica potesse considerarsi un disturbo a se´: si erano interpretate come entita` cliniche singoli fenomeni psicopatologici, come le allucinazioni, il delirio ecc. Questo fino al momento in cui autori come Kraepelin avevano ricondotto la ricerca verso la individuazione di quadri polisintomatici che lasciavano intuire una dimensione patologica unitaria. La psicopatologia, che aveva dato spunto alla clinica descrittiva, ne rappresenta il passaggio piu` logico: si pone come soggetto di studio dei singoli fenomeni che caratterizzano, al di la` del contesto clinico di presentazione (delle singole entita` cliniche), i vissuti (Erlebnisse) del paziente psichiatrico. K. Jaspers, filosofo e medico, definisce con la sua opera Psicopatologia generale (1913) quali sono il metodo e gli obbiettivi di questa disciplina. La conoscenza psicopatologica si muove su tre livelli: 1)

nel primo si pone la conoscenza dei fenomeni vissuti, di quelle specifiche “esperienze” che caratterizzano la dimensione psicotica. Cono-

2)

3)

scere queste unita` significa coglierle nella loro specificita`, darne una limitazione ed arrivare, di conseguenza, a una definizione univoca e priva di ambiguita`. La conoscenza del fenomeno psicopatologico e` sostanzialmente un processo analogico che ci permette di immedesimarci e rivivere vissuti che sono esclusivi del soggetto che li presenta: e` la oggettivizzazione di un fenomeno di per se´ soggettivo, che necessita, quindi, di un livello di comprensibilita` intrinseco. Questo concetto di comprensibilita`, come diremo meglio in seguito, avra` conseguenze importanti sulla concettualizzazione jaspersiana e schneideriana della schizofrenia. Una volta definiti gli elementi costitutivi, la psicopatologia cerca di capire geneticamente come possa essersi instaurato quel determinato vissuto soggettivo; la comprensione da statico-descrittiva si fa dinamica, cerca i legami tra gli avvenimenti psichici e l’emergere di determinati vissuti. Questo livello di conoscenza ha un limite che e` appunto il limite di comprensibilita` oltre il quale la comprensione lascia il posto ad una categoria diversa che e` la spiegazione, e questa si riduce a presupporre un’origine biologica frutto di un sillogismo: cio` che non si puo` comprendere psicologicamente deve avere per forza un’origine biologica. Da ultimo deve cercare di cogliere la totalita`, che non e` mai la somma dei fenomeni osservati (di numero finito), ma un’idea dell’ uomo in se´ che rimanda necessariamente ad un’idea di infinito (cioe` di non scomponibile e quindi non definitivamente conoscibile). La conoscenza psicopatologica oscilla tra la comprensione dei singoli elementi dello psichico e quella complessiva dell’individuo: sono due poli non necessariamente in accordo proprio per l’incomparabilita` (incommensurabilita`) di una dimensione finita con una infinita. Ecco perche´, ci dice K. Jaspers, individui che appaiono integri all’analisi delle singole funzioni psichiche possono sembrare “in un modo talvolta difficile a definire” anormali per quello che riguarda la personalita`.

Psichiatria: modelli a confronto

Secondo K. Jaspers, lo studio psicopatologico ci mette di fronte ad una doppia realta`; quella comprensibile, dove anche i fenomeni a noi lontani sono in grado di parlarci, ci appaiono come qualcosa di quantitativamente diverso, comunque potrebbero appartenerci, e quella incomprensibile, della alienazione schizofrenica. Il delirio di gelosia puo` non appartenerci, ma allo stesso tempo siamo in grado di comprenderne il significato (perche´ la gelosia e` esperienza comune). Correlare la gelosia con fenomeni psicopatologici come le percezioni deliranti che trasformano alcuni gesti della persona amata in conferme di tradimenti pone il limite della comprensione in quanto non sappiamo spiegare l’origine di questi vissuti2. Di fronte allo schizofrenico, il gesto strambo, il furore incontrollabile sembrano non offrirci nessuna possibilita` di comprensione analogica; il limite, che in altri casi si pone al livello della spiegazione, ora si presenta gia` al livello della comprensione. Questo concetto di comprensibilita` e di incomprensibilita` ci sembra centrale perche´ ripropone il tema dell’etiopatogenesi della patologia psichica, specificamente di quella psicotica. Avevamo visto come nell’ambito della clinica descrittiva il motore ideale della ricerca era la descrizione di complessi sintomatici ricorrenti che identificassero un’unita` clinica a cui far corrispondere uno specifico reperto anatomopatologico (ritenuto necessario come fondamento dell’unita` clinica stessa). La psicopatologia propone una nuova modalita` interpretativa: non e` l’unita` clinica a suggerirci il danno organico, ma la non riducibilita` di alcuni vissuti (erlebnisse) a una qualsiasi interpretazione-comprensione psicolo-

2 Spiegare l’origine dei vissuti psichici e` comprendere complessivamente quali sono le dinamiche da cui trae origine la vita psichica in tutti i suoi molteplici aspetti, normali e aberranti: non si puo` spiegare la gelosia se non si ha un modello che spieghi cosa siano l’affettivita`, il desiderio dell’altro ecc. Il limite dove si ferma la psicopatologia e` quello di non saper spiegare lo psichico, pur dovendosi continuamente confrontare con esso; vedremo che la psicanalisi proporra` un modello genetico di tutti i fenomeni psichici che spostera` questo limite alla proposizione teorica degli istinti: anticipando che il problema dell’incomprensibilita` dello schizofrenico non verra` comunque risolto.

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gica, anche abnorme (concetto dell’incomprensibilita`). K. Schneider, dopo aver stabilito che il concetto di malattia psichiatrica deve basarsi esclusivamente sulla presenza di alterazioni del soma, sostiene come molto probabile che ciclotimia e schizofrenia (la due patologie kraepeliniane) siano malattie in virtu` del fatto che «tra gli altri sintomi se ne riscontrano anche di quelli che non hanno alcun riscontro analogico nella vita psichica normale e nelle sue varianti abnormi»3. In questo senso K. Schneider (siamo negli anni ’50) pone un freno alle interpretazioni psicogenetiche delle malattie che gli studiosi di formazione psicoanalitica andavano proponendo, limitando il ruolo dello psichico a cofattore. Questa sua posizione, e in generale l’approccio psicopatologico complessivo al problema psichico (soprattutto per quello che riguarda la schizofrenia) e` di enorme importanza: altre teorizzazioni, come vedremo, lo riproporranno anche se in una veste nuova.

4. Il modello psicoanalitico La psichiatria psicodinamica (di cui la psicoanalisi rappresenta una componente importante) ha una storia e uno sviluppo in parte autonomi rispetto alle correnti precedentemente descritte: la psicoanalisi freudiana, in particolare, ma anche altre scuole da essa derivate, si organizza come un complesso di teorizzazioni e prassi che, se interessa psichiatri e studiosi di formazione non medica quasi sempre vicini al mondo accademico, trova spazio piu` nell’ambito di circoli privati che nei consueti luoghi di cura. L’origine della psichiatria dinamica e il suo sviluppo nel corso di questo secolo si pongono parallelamente alle altre correnti appena descritte e ad altre che descriveremo in seguito. Per capire questo dato e` necessario tener conto di un fatto fondamentale: il particolare interesse degli studiosi di approccio psicodinamico ai quadri che oggi definiremmo nevrotici, quadri che suggeri-

3

Aspetti della psichiatria contemporanea, p. 45.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

vano una possibilita` di comprensione genetica di tipo esclusivamente psicologico. Se Freud e` riconosciuto come lo studioso piu` proficuo in termini di teorizzazioni e applicazioni cliniche delle sue teorie, non bisogna dimenticare che il vero punto di partenza della psichiatria psicodinamica moderna ha luogo a Parigi per opera di autori come Charcot e Janet. P. Janet, in particolare, studio` a lungo l’opera dei magnetizzatori (Mesmer, Puyse´gur) che tra il XVIII ed il XIX secolo avevano iniziato a “curare”, mediante l’influenzamento (che veniva considerato come risultato di un magnetismo animale, cioe` di una forza sconosciuta e invisibile, come il magnetismo minerale, capace di influenzare l’individuo ad esso sottoposto). Sulla scia di questa tradizione un po’ bizzarra, si comincio` ad ipotizzare che molti quadri clinici in cui erano preponderanti i disturbi psichici potessero avere un’origine completamente psichica e potessero trovare risoluzione con un intervento psicologico, un intervento relazionale in cui il terapeuta, consapevole di cosa si celava dietro l’espressione sintomatologica, era in grado di dipanare il nodo complesso che aveva determinato l’anomalia psichica. Ben presto gli studi di Charcot sull’isteria e il trattamento ipnotico divennero famosi e diedero una forte spinta agli studi di questo tipo. P. Janet, che pur aveva collaborato con Charcot, e` il primo psichiatra (e filosofo) che tenta, con la proposizione della psicologia analitica (che e` allo stesso tempo strumento di indagine e di cura) di superare la mera prassi ipnotica, proponendo un modello di funzionamento dell’apparato psichico e un modello di patogenesi che si basano sulla concettualizzazione del subconscio come luogo della patogenesi dei disturbi psichici. Molte delle teorizzazioni di Janet sono state riprese, non sempre esplicitamente, da altri autori. Non e` questa la sede per analizzare gli sviluppi della psichiatria dinamica e le interessanti proposizioni teoriche dei vari autori. Riteniamo piu` interessante, per l’importanza storica e per il modo in cui si inserira` nel dibattito psichiatrico, accennare alle linee principali dell’opera di Freud, il cui pensiero e la cui prassi attraversano tutto il Novecento e inevitabilmente rappresentano il terreno di confronto sia all’interno della

prospettiva psicodinamica che tra questa e le altre prospettive della psichiatria. Le ipotesi su cui si basa il modello freudiano del funzionamento psichico sia normale che patologico sono state dedotte dalle informazioni che egli andava raccogliendo (e organizzando in un modello teorico del funzionamento della psiche) nel corso della sua attivita` analitica su soggetti adulti e nevrotici. Le ipotesi fondamentali sono due: il principio del determinismo psichico e il ruolo dell’inconscio. Secondo il primo, ogni evento mentale (anche quando venga agito con determinate azioni o comportamenti) e` da considerarsi l’effetto di una causa e puo` essere interpretato in funzione di questa. Nella maggior parte dei casi la causa non e` evidente o, per meglio dire, cosciente: esiste quindi una dimensione inconscia che e` alla base dell’attivita` mentale di ogni individuo e che, se opportunamente indagata, puo` rivelarne il significato. Secondo Freud la spinta “energetica” che alimenta ogni attivita` psichica e` la pulsione (o tensione); la pulsione viene definita come geneticamente determinata in quanto connaturata alla struttura stessa della psiche; le esperienze individuali possono modificare l’oggetto verso cui si orienta. La pulsione spinge l’individuo alle azioni necessarie alla sua (temporanea) cessazione (che in termini soggettivi viene percepita come gratificazione di un bisogno). Freud individuo` due tipi diversi di pulsione: quella sessuale e quella aggressiva (o di morte); queste due pulsioni agirebbero insieme (“fuse”) e sarebbero presenti in ogni condizione, normale o patologica, dell’individuo. Date queste brevi premesse, possiamo dire che lo sviluppo psichico di ogni individuo e` legato alle dinamiche di pulsione-soddisfacimento cosı` come vengono a presentarsi nel corso dell’esistenza. Secondo Freud in ogni individuo, nel corso della crescita, si possono identificare delle zone del corpo (zone erogene) dove maggiore e` la pulsione sessuale; in altre parole possiamo dire che la gratificazione dell’impulso sessuale deve necessariamente passare, nel corso dello sviluppo somatopsichico, attraverso l’utilizzazione di parti-

Psichiatria: modelli a confronto

colari strutture anatomiche che si avvicendano secondo uno schema fisso. Questo iter di sviluppo e` stato schematizzato da Freud in cinque fasi: orale, anale, fallica, di latenza, genitale. Soltanto un superamento soddisfacente di queste fasi e una evoluzione progressiva dell’individuo verso forme piu` mature di soddisfacimento dei bisogni determineranno un sviluppo psichico normale. Ogni nevrosi rappresenta il disvelamento di situazioni di sviluppo non pienamente superate: e` il concetto di fissazione, cioe` di una condizione di ancoramento a modalita` relazionali infantili che condizionano inconsciamente le modalita` relazionali dell’adulto, generando la conflittualita` tipica del nevrotico. I dati che ci sembra importante ribadire sono due: •

il fatto che la psicoanalisi proponga un modello di comprensione generale dell’apparato psichico (un modello psicologico, quindi); la concettualizzazione di una eziopatogenesi e di una prassi terapeutica esclusivamente psichiche.



Se lo sviluppo della psichiatria dinamica e della psicanalisi proporranno ulteriori teorizzazioni, concetti quali quelli di inconscio (e del suo ruolo nel determinismo psichico) e di istinto restano i capisaldi di tutto il filone. Intorno agli anni Trenta la teoria di Freud e` molto conosciuta, in tutto il mondo sono attive scuole di psicoanalisi e gia` gli epigoni di Freud (come Jung e Adler) propongono correzioni e nuove teorizzazioni, spesso antagoniste: la psicoanalisi si va imponendo come sistema di comprensione dello psichico, ma la sua area di azione rimane quella dei disturbi nevrotici: solo successivamente si iniziera` a proporre modelli di tipo psicodinamico anche per i disturbi piu` gravi. La psicoanalisi si propone quindi di comprendere il significato dei sintomi, ma anche di spiegare la genesi del disturbo stesso4. Lo fa postulando gli 4

Secondo lo schema freudiano, se la paralisi a guanto dell’isterica (il sintomo), ad esempio, puo` comprendersi se si disvela come funzionale all’angoscia di compiere atti ritenuti inopportuni ma vissuti come incontrollabili, la spiegazione

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istinti. Riteniamo importante sottolineare questi dati in quanto in questi stessi anni si va affermando un nuovo filone, quello fenomenologicoesistenziale, che, come vedremo, si pone in maniera critica sia rispetto alla psicoanalisi che al filone clinico e psicopatologico.

5. Il modello fenomenologico-esistenziale La prospettiva fenomenologico-esistenziale raccoglie i contributi delle due correnti filosofiche da cui mutua il nome, diffuse in Europa a partire dagli inizi del secolo ad opera soprattutto del filosofo E. Husserl e, successivamente, di M. Heidegger. La particolare visione dell’uomo proposta da queste due correnti ha offerto a Binswanger, psichiatra svizzero, la possibilita` di prospettare un nuovo approccio alla psicopatologia con la proposizione della Daseinanalyse (antropoanalisi). L’antropoanalisi viene proposta come uno strumento di comprensione di tutto lo spettro delle possibilita` esistenziali, cioe` di tutti i possibili modi di esistere che, anche se di queste due categorie non sono specificate le caratteristiche, vanno dal normale al patologico. ` importante sottolineare subito alcuni E aspetti. In primo luogo l’antropoanalisi nasce come critica alla psicoanalisi freudiana, critica che prende le mosse da una considerazione importante: la collocazione della psicoanalisi nel filone della psichiatria clinica; in secondo luogo l’antropoanalisi propone un modello di lettura della psicopatologia che vuole essere valido sia per le nevrosi che per le psicosi. “La “grande idea” di Freud — scrive Binswanger nel 1936 — incontra la “grande idea” della psichiatria clinica, cioe` il tentativo coerente di spiegare l’uomo e l’umanita` sulla base della biologia. La dottrina di Freud e la costituzione che la psichiatria clinica si e` data sono permeate dallo stesso e identico spirito, cioe` dallo spirito della biologia; anche per Freud infatti la psicologia e` una scienza naturale (biologicomplessiva dell’isteria (di una specifica modalita` conflittuale, cioe` nevrotica, di esperire la propria esistenza) va ricercata nella difficolta` a superare una specifica fase dello sviluppo infantile.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ca)”5. In questo senso la psicologia non rappresenta un’area teorica di ricerca e speculazione, ma un modo di organizzare i dati in attesa che la biologia ne chiarifichi origini e significato. Questa operazione di riduzione dell’uomo a homo natura (cioe` organizzato in funzione delle primitive forze istintuali) e` possibile solo grazie alla distruzione della «globalita` dell’esperienza umana dell’uomo, cioe` dell’esperienza antropologica»6. L’antropoanalisi e` distante dalla psicoanalisi quanto il concetto di homo natura da quello di esistenza; la spaccatura che si apre nella psicologia naturalista di Freud e` la stessa che si coglie tra la ricchezza dello studioso Freud che postula, teorizza e in fondo testimonia la propria peculiarita` di essere al mondo con la sua opera e la poverta` meccanicistica dell’homo natura che la sua teoria presenta come universale: «Freud — dice ancora Binswanger — si comporta in modo piu` antropologico della sua teoria scientifica»7. L’antropoanalisi punta quindi a cogliere la specificita` di ogni singola esistenza, il suo modo di essere al mondo, di essere con gli altri; la psicoanalisi, in quest’ottica, puo` avere una valenza ermeneutica, in grado di leggere una serie di eventi come cause (difficolta` del superamento delle fasi di sviluppo psichico) ed effetti (strutturazione di una carattere nevrotico; emergenza sintomatologica). Ma la concatenazione causale istinti-sviluppo-esiti da un punto di vista antropoanalitico non ha un significato reale: l’individuo affronta ogni momento dello sviluppo in virtu` di un suo particolare modo di essere che non puo` essere scelto (e` il concetto dell’essere-gettati nel mondo): l’a-priori esistenziale e` il dato immutabile della condizione umana in ogni sua espressione individuale, non riconducibile a nessuna semplificazione meccanicistica. L’individuo, come presenza nel mondo, puo` esperire la propria condizione secondo diversi

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L. Binswanger, Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973, p. 199. 6 L.Binswanger, La concezione dell’uomo in Freud, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973, p. 173. 7 Op. cit., p. 177.

livelli di liberta`: il progetto di mondo (weltentwurf) puo` esprimersi con un grado massimo di potenzialita` (che corrisponde ad un livello di appartenenza del Se´) o un grado minimo, quello della mondanizzazione (verweltlichung) cioe` della completa perdita di liberta` e della sopraffazione dell’angoscia (v. in proposito il cap. Normalita` , salute e malattia). Date queste premesse teoriche e` necessario fare alcune considerazioni: 1)

2)

l’antropoanalisi, in opposizione alla psicoanalisi, sostituisce quasi completamente la spiegazione del dato psicopatologico con la comprensione; tende ad eliminare non solo il vallo comprensibile-incomprensibile che la psicopatologia jaspersiana aveva posto tra le nevrosi e le psicosi, ma anche la distanza tra normalita` e patologia. Su questo secondo punto Binswanger e` molto chiaro, dichiarando, in piu` parti, la necessita` di non lasciarsi andare al giudizio (anche quello clinico), ma di comprendere il mondo dell’altro per quello che esso significa dal punto di vista antropoanalitico.

Conseguenza importante e`, pero`, la mancanza di ogni progettualita` terapeutica, conseguenza ovviamente coerente con le premesse di cui abbiamo accennato. La prospettiva fenomenologica ha avuto contributi teorici da molti autori, come R. Laing, ma anche di formazione diversa da quella psichiatrica (Sartre, ad es.). Ispirera` i movimenti dell’antipsichiatria e della psichiatria sociale cui accenneremo tra breve.

6. Il modello biologico La scoperta dei farmaci psicotropi, avvenuta negli anni ’50, ha rappresentato una svolta fondamentale per la storia della psichiatria. Questo per due ordini di motivi: in primo luogo perche´ ha permesso il trattamento sintomatologico dei quadri piu` gravi di disturbo mentale, favorendo un miglioramento complessivo della gestione (in termini di riduzione dei ricoveri e di convivenza

Psichiatria: modelli a confronto

con gli altri individui) del malato psicotico; in secondo luogo perche´ ha dato impulso a una nuova area di ricerca, quella psicobiologica, che si propone di spiegare l’area del mentale, sia nel suo funzionamento normale che anomalo, attraverso modelli funzionali psicobiologici. Ai fini del nostro discorso, e` necessario approfondire il secondo punto. La clinica descrittiva aveva individuato alcune entita` nosografiche cui era venuto a mancare il sostegno anatomopatologico che ne confermasse la patogenesi cerebrale. Il “nucleo di verita`” di cui abbiamo parlato in precedenza sembra confermato dal fatto che le categorie nosografiche dell’area psicotica sono accettate indipendentemente dalla ipotesi patogenetica con cui se ne interpreta la genesi. Le neuroscienze, alla luce degli effetti dei farmaci psicotropi capaci di modificare il dato psicopatologico o di indurre alterazioni psichiche in individui normali, propongono che l’alterazione cerebrale non va ricercata in alterazioni morfologiche grossolane (istologiche), ma in disfunzioni della trasmissione sinaptica di alcune aree cerebrali importanti per la modulazione del tono dell’umore, del pensiero, ecc. In questo senso, la psicobiologia si inscrive di diritto nel filone psicopatologico in quanto e` analoga, seppure rivisitata alla luce delle conoscenze degli ultimi cinquant’anni, l’impostazione speculativa di partenza. I nuovi criteri sui quali costruire la nosografia psichiatrica sono di poco diversi da quelli di Kraepelin: decorso, storia naturale, risposta a trattamenti specifici, fattori genetici, presenza di determinate alterazioni 8 biochimiche o ormonali (E. Sacher) . (vedi cap. 3) Lo sviluppo di questo filone ha avuto origine da due tipi di ricerche. Il primo tipo prende spunto dalle osservazioni fatte gia` nel 1927 da Beringer, che aveva associato la psicosi da mescalina alla schizofrenia, e si caratterizza, appunto, per lo studio delle psicosi sperimentali (indotte

8 In Principi di Neuroscienze, CEA, Milano 1988, pp. 744 e segg. Negli ultimi anni, accanto alla ricerca della disfunzione biochimica, e` stata rivalutata l’ipotesi della alterazione morfologica macroscopica; lo studio, in vivo, viene fatto attraverso le immagini Tc e Rm.

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da sostanze chimiche); il secondo tipo dai risultati ottenuti con i farmaci psicotropi in grado di controllare alcuni sintomi della depressione endogena, della ciclotimia, della schizofrenia, dell’ansia e dei disturbi ossessivi (v. cap. relativi). L’insieme delle informazioni dedotte con queste due linee di ricerca ha portato alla costruzione di modelli psicobiologici delle patologie sovradescritte. Il ragionamento speculativo e` il seguente: se un farmaco e` in grado di correggere la trasmissione sinaptica di determinate aree cerebrali e questo modifica la sintomatologia, si puo` supporre che il disturbo funzionale che il farmaco attenua e` all’origine del quadro psicopatologico. Successivamente si e` passati a localizzare la sede di azione di questi farmaci, i siti recettoriali ecc. utilizzando studi di istochimica su animali da laboratorio; attualmente, soprattutto per i disturbi schizofrenici e i disturbi ossessivo-compulsivi, si va affermando la visualizzazione morfologicofunzionale offerta dalla PET, che da` la possibilita` di studiare in vivo l’attivita` cerebrale e produrre un confronto tra individui “normali” e individui “malati”.

7. Il modello sociale Sotto questa denominazione possiamo includere un numero considerevole di correnti di pensiero della psichiatria che, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, si sono interrogate sulla modalita` complessiva delle relazioni umane all’interno della societa` (soprattutto capitalistica), sul rapporto individuo-ambiente (dove con questo secondo temine di confronto si intende l’organizzazione sociale) e sulla loro influenza nella genesi o, quanto meno, nella espressione delle malattie mentali. Il filone sociale si e` espresso con posizioni molto diverse; in alcuni casi, senza assumere posizioni di critica, e` stato proposto che l’emergenza di un disturbo psichico possa essere interpretato come un disadattamento individuale ad un particolare contesto sociale, accettando il fatto che l’anomalia riguarda comunque chi presenta il disturbo. In altri casi l’analisi ha assunto un significato nuovo: accettando una modalita` di analisi molto

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vicina a quella psicoanalitica e ritenendo che il disturbo psichico e` comunque originato da particolari modalita` relazionali, ci si e` chiesti quale fosse il ruolo dell’organizzazione sociale nella patogenesi del disturbo psichico. I contributi della sociologia e del pensiero politico di ispirazione marxista (basti pensare al concetto di alienazione che, se proposto da Marx in un contesto di analisi economica, e` necessariamente psicologico; v. cap. «Normalita` e patologia» 3.3) sono inscindibili da queste teorizzazioni e la loro diffusione ha influenzato notevolmente la psichiatria. Due cardini della psichiatria sociale sono lo studio epidemiologico, necessario a studiare la distribuzione del disturbo psichiatrico in relazione alle classi sociali, e il concetto di devianza che esprime, allo stesso tempo, una visione demedicalizzata del soggetto psichiatrico (che diventa primariamente un soggetto sociale) e la dinamica stigmatizzante che la societa` opera su di esso (deviato dalla norma). Possiamo dire che la prospettiva sociopolitica oscilla tra due posizioni: 1)

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nella prima e` comunque ben individuabile il soggetto portatore del disturbo che e` il risultato della organizzazione sociale secondo uno schema per cui la disuguaglianza sociale (in termini di possibilita` di espressione e soddisfacimento dei bisogni) produce emarginazione che si esprime con comportamenti di devianza sociale; di conseguenza, il rafforzamento dell’isolamento produce sofferenza che, presentandosi come disturbo psichico, determina la stigmatizzazione dell’individuo malato che viene avviato, in virtu` dell’intervento psichiatrico coerente all’organizzazione della societa`, all’internamento manicomiale; nella seconda, che estremizza le posizioni della prima, l’alienazione prodotta dall’organizzazione dalla societa` determina un degrado dei rapporti umani che interessa in grado diverso, tutti i suoi appartenenti. In quest’ottica la psichiatria, come competenza nella cura del singolo, perde ogni valenza.

La figura di psichiatra che emerge da questa nuova cultura psichiatrica ha caratteristiche che lo

allontanano dal ruolo tecnico di terapeuta, avvicinandolo a quello di intellettuale impegnato nel confronto politico e nella proposizione di modalita` di rinnovamento della vita sociale. Nello specifico dell’attivita` clinica si ricercano nuove modalita` di relazione, basate sulla comunita` e sulla “democratizzazione” dei ruoli, modalita` che dovrebbero proporsi in alternativa sia alle dinamiche relazionali della societa` che ha generato il malessere, sia alle consuete dinamiche gerarchiche pazienteterapeuta che cristallizzano, all’interno della terapia e del luogo di cura, i ruoli dettati dalle norme sociali. M. Jones, che si e` fatto fautore in Inghilterra sia di una revisione teorica del ruolo della terapia che della sua applicazione nell’Ospedale psichiatrico, dice che «il rapporto medico-paziente si e` ampliato fina ad includere tutte le persone che possono contribuire in qualsiasi modo a vantaggio del paziente. In questa metamorfosi la netta distinzione tra medico e paziente, curante e curato, non esiste piu`.»9 Nascono in questo contesto le comunita` terapeutiche, spesso all’interno degli ospedali psichiatrici, in cui a ogni malato, dipendentemente dal gravita` del disturbo, viene data la possibilita` di riallacciare una rete di relazioni sociali ed assumere un ruolo attivo nella propria cura e in quella degli altri: si associano momenti di incontro tra malati e terapeuti ad attivita` lavorative e ricreative. Abbiamo detto come la psichiatria sociopolitica nasca comunque in un’area di psichiatria dinamica, in un contesto teorico in cui, pero`, si ipertrofizzano i fattori esogeni (l’elemento sociale) rispetto ai dati intrapsichici (che sembrano assumere il ruolo di variabili dipendenti): in questo senso non e` certo il freudismo il riferimento teorico, in quanto in questo contesto «le forme sociali vengono addirittura subordinate alla fissita` della nevrosi edipica e degli istinti biologici»10; l’approccio sociale si caratterizza per la visione storica dell’individuo, che vuole superare sia il biologismo della psichiatria clinica che quello de-

9 M. Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale, cit. in A. Ballerini, p. 113. 10 G. Jervis, Introduzione a Classi sociali e malattie mentali, p. 18.

Psichiatria: modelli a confronto

gli istinti. Non si puo` disconoscere, altresı` , il ruolo del filone fenomenologico-esistenziale che ha contribuito ad affermare un approccio destigmatizzante del malato, nella necessita` di sostituire il giudizio con la comprensione, evenienza che e` tanto piu` possibile quanto piu` lo psichiatra sa porsi in un ruolo critico sia nei confronti della cultura in cui vive, sia rispetto al ruolo che questa stessa cultura gli ha assegnato. In Italia, la figura di F. Basaglia riassume in maniera esemplare queste istanze nuove che la psichiatria sociale ha presentato. Basaglia ha proposto un cambiamento dell’operare all’interno dell’Ospedale psichiatrico (luogo che e` stato considerato patogenetico e non curativo) sul modello di Jones e, allo stesso tempo, ha contribuito a dar vita ad un movimento di deistituzionalizzazione che ha portato, in Italia, alla chiusura dei manicomi (legge 180/78: si veda, a tale proposito, il cap. 65). In Inghilterra Laing, Berke e altri psichiatri hanno dato vita, a partire dalla meta` degli anni sessanta, al movimento “antipsichiatrico” (termine rifiutato dai suoi esponenti) che, con differenze da autore ad autore, ha avanzato la critica piu` radicale alla psichiatria tradizionale: alcuni esponenti di questo movimento si sono spinti a negare alla follia la connotazione di patologia che comunemente le viene associata, proponendone una lettura piu` esistenziale che psichiatrica.

8. Il modello integrato pluralistico Il modello integrato pluralistico nato negli Stati Uniti si e` esteso, anche se con qualche difficolta`, in Europa. Esso nasce fondamentalmente da due fattori: 1)

2)

il bisogno sempre piu` crescente, in un’ottica di ricerca del benessere psichico e fisico, di ricorrere a degli interventi psicoterapeutici per le situazioni piu` diverse, spesso non catalogate come disturbi, ma come semplice disagio; un tentativo di risposta che spesso ha messo insieme, a volte piuttosto acriticamente, prassi molto diverse seguendo il principio

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generale “che il fine giustifica i mezzi”: non e` tanto importante, quindi, cosa e come si fa, ma se quello che si fa riesce ad ottenere un qualsiasi risultato: modalita` legata anche alla proliferazione di figure assistenziali molto diverse (assistente sociale, matrimoniale ecc.). Nel capitolo sulle psicoterapie (v. cap. 54) e` stato accennato ai fattori aspecifici di cambiamento e probabilmente dobbiamo pensare che siano proprio questi ad essere attivati in queste modalita` di intervento. Ma accanto a questa visione poco utile c’e` invece una tendenza che cerca di ritrovare all’interno delle varie prassi psicoterapeutiche delle costanti terapeutiche che possano essere gestite al meglio nei singoli casi. Alla base di questa seconda posizione c’e` sicuramente il modello umanistico-esistenziale che puo` essere definito come una ricerca di modalita` d’intervento basata sulla comprensione e l’empatia al fine della realizzazione del paziente.

9. Il DSM-IV L’importanza del DSM come strumento standardizzato di diagnosi e` testimoniata dalla sua crescente affermazione che segnala pero` una rinuncia a qualsiasi ricerca eziologica, limitandosi esclusivamente, su di una base statistico-epidemiologica, a trovare cluster categoriali, ovvero insiemi di sintomi che tendono a riscontrarsi con una certa frequenza (sindromi). Per un ulteriore approfondimento e soprattutto per una critica articolata del DSM-IV si rimanda al cap. 10 ed al volume N. Lalli, Lo spazio della mente. Saggi di psicosomatica, Liguori Editore, Napoli, 1997.

Riferimenti bibliografici Ballerini A., Aspetti della psichiatria contemporanea, Sansoni, Firenze, 1973. Binswanger L., Tre forme di esistenza mancata, SE, Milano, 1992 (1956).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

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3 Psichiatria e biologia Nicola Lalli Parole chiave neurotrasmettitori; recettori; vie neuronali; modelli psicobiologici; neurofisiologia; psicofarmaci; psicobiologia

L’era psicofarmacologica, se da una parte ha dischiuso nuove prospettive alla Psichiatria sul piano dell’intervento terapeutico, dall’altra ha creato numerosi problemi collegati alla comprensione dell’effetto, se debba ritenersi sintomatico o curativo. Numerosi autori infatti ritengono che lo psicofarmaco possieda un’azione terapeutica, dal momento che agisce sui meccanismi di produzione di specifici neuromediatori ritenuti essere la causa,

per eccesso o per difetto, dei disturbi psichiatrici. Si e` giunti cosı` a proporre alcuni modelli psicobiologici dei disturbi psichiatrici: modelli che devono invece essere considerati come semplici induzioni, non sempre corrette e non sempre corredate da prove evidenti. Pur non condividendo questo posizione ritengo opportuno passarne in rassegna i principali modelli, dopo una breve introduzione sui neurotrasmettitori e sui loro effetti.

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1. Gli psicofarmaci Intorno agli anni ’50 inizia quella che e` definita la terza rivoluzione psichiatrica, dopo quella illuministica di Pinel che, separando il folle dall’emarginato, assicura al paziente psichiatrico un diritto di assistenza e di cura, e quella psicoanalitica che, introducendo il concetto di inconscio, propone che molti comportamenti umani non sono riconducibili alla razionalita` ed alla coscienza. Questa terza rivoluzione, nata quasi per caso, e` caratterizzata da una intensa ricerca e produzione di psicofarmaci, che a parte l’indubbia efficacia terapeutica hanno permesso l’acquisizione sempre piu` dettagliata di informazioni sul funzionamento del SNC. Gli psicofarmaci, infatti, debbono considerarsi come delle vere e proprie sonde chimiche che ci informano sulla modalita` di azione, trasmissione, inibizione delle cellule nervose. Gli studi avvengono inizialmente con animali da laboratorio e con una duplice modalita`. Una consiste nell’evidenziare la possibilita`, da parte di nuovi farmaci, di agire su specifiche funzioni o comportamenti dell’animale, permettendo di dedurre quale potrebbe essere l’effetto sull’uomo. Evidentemente queste prove sugli animali si riferiscono ad attivita` molto elementari: come il livello di vigilanza, il livello di sedazione, l’attivita` motoria ecc. Un altro modo invece di utilizzare gli animali di laboratorio consiste nel somministrare loro, per lunghi periodi, farmaci di cui si conosce la specifica attivita` nell’uomo, ed esaminare successivamente quali aree e nuclei cerebrali sono stati raggiunti e saturati. Questi esperimenti permettono di collegare il farmaco, del quale si conosce l’azione specifica, con i nuclei sui quali il farmaco agisce.

2. Alcune nozioni di neurofisiologia e di psicobiologia Il SNC e` formato da due tipi di cellule: i neuroni e la glia. I neuroni — costituiti da un corpo cellulare, da numerosi prolungamenti (i dendriti) e da un prolungamento specifico che e` l’assone — sono

circa 100 miliardi. I neuroni sono il principale veicolo dell’informazione. La glia, pur rappresentando circa l’85% delle cellule cerebrali, ha funzioni meno chiare: una e` sicuramente metabolica, un’altra e` quella di indicare, nella fase embrionale, il percorso dei neuroni; infine sembra partecipare anche alla elaborazione delle informazioni. I pensieri, le emozioni, i ricordi, insomma la vita psichica e` resa possibile dall’attivita` di trasmissione e dall’equilibrato funzionamento di questi 100 miliardi di neuroni. Se si pensa che ogni neurone, tramite i dendriti e le terminazioni assoniche, da` luogo a circa 10.000 terminazioni, ci si rende facilmente conto dell’incalcolabile numero di interconnessioni e quindi della complessita` del SNC. Il neurone possiede un prolungamento piu` o meno lungo, l’assone, che costituisce il principale veicolo della trasmissione nervosa. A riposo, l’interno del neurone ha cariche negative, ma se viene stimolato si ha una variazione del potenziale elettrico che si riduce pressoche´ a zero: questa variazione facilita l’ingresso, all’interno del neurone, degli ioni Na+ che in condizioni di riposo, sono all’esterno del neurone in una concentrazione da 25 a 50 volte superiore. L’immissione di ioni Na+ comporta una variazione di potenziale che si trasmette, con lo stesso meccanismo, nelle zone adiacenti e quindi a tutto l’assone. La conduzione assonica si propaga secondo la legge ‘‘del tutto o nulla’’, vale a dire che o lo stimolo e` sufficiente e quindi si propaga, oppure si estingue immediatamente. Questa modalita` di trasmissione ha una conseguenza fondamentale: cioe` la conduzione assonica e` poco discriminante. Questa proprieta` puo` essere utile in alcuni casi, come per esempio nei farmaci anestetici che funzionano proprio in questo modo. Nel caso che farmaci con effetto eccitatorio o inibitorio agissero solo sulla trasmissione a livello assonico, tale azione verrebbe ostacolata, proprio perche´ si trasmetterebbe con una modalita` ‘‘tutto o nulla’’. Invece nel SNC e` necessaria una graduazione dello stimolo molto piu` raffinata: a questa funzione provvedono le sinapsi. Qui, infatti, il messaggio puo` essere amplificato, modificato, bloccato, dando cosı` luogo a numerosissime variazioni. Per questo motivo gli psicofarmaci utilizzati sono tutti farmaci che agiscono a

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livello sinaptico, ove appunto e` possibile una accurata selezione e modulazione del messaggio.

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2.1. La trasmissione sinaptica

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I dendriti e gli assoni terminano con un bottone sinaptico (neurone presinaptico) che si collega mediante una piccola intercapedine (spazio intersinaptico), con un altro bottone sinaptico (neurone postsinaptico). Nel neurone presinaptico ci sono le cosiddette vescicole sinaptiche, che contengono i neurotrasmettitori: quando arriva lo stimolo elettrico (condotto dell’assone) le vescicole si spostano verso la membrana e versano il loro contenuto nello spazio intersinaptico. Una volta liberato, il neurotrasmettitore va a legarsi a specifici recettori postsinaptici. Questi recettori sono proteine conformate in modo tale da potersi legare solo con quello specifico neurotrasmettitore: e` lo stesso meccanismo di una chiave e di una serratura. Una volta avvenuto questo legame, nel neurone postsinaptico si innesca un processo di apertura dei canali per il Na+, per il Cl- e per il K+. Questi ioni, penetrando nella cellula postsinaptica, tendono a modificarne in maniera molto selettiva e rapida l’eccitabilita`. Ma a parte questo meccanismo, semplice nella sua complessita`, ne esistono altri, definiti ‘‘secondi messaggeri’’, che agiscono modificando ulteriormente la concentrazione ionica, oppure attivando sistemi di trasformazione di energia (come trasformazione di ATP in AMP). Con il che e` evidente che mentre l’impulso assonico e` piuttosto schematico (legge «del tutto o nulla»), ben diversa e` la situazione a livello sinaptico, ove un messaggio puo` essere tradotto, ampliato, inibito in modo molto settoriale e specifico. Il tempo d’azione del neurotrasmettitore e` breve: una volta agito, viene inattivato attraverso varie modalita`. O per degradazione da parte di specifici enzimi, o per riassorbimento nel neurone presinaptico (meccanismo del re-uptake), oppure per diffusione nello spazio intersinaptico e riassorbimento da parte della glia. L’aver compreso questo complesso meccanismo sinaptico ha dato la possibilita` di studiare e capire l’effetto di numerosi psicofarmaci che agiscono con diverse modalita`.

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Il farmaco puo` avere una struttura chimica simile al neurotrasmettitore, quindi, penetrando nelle vescicole specifiche, ne induce una fuoriuscita. Il farmaco puo` bloccare la funzione di riassunzione (re-uptake), aumentando cosı` il livello del neurotrasmettitore. Il farmaco puo` bloccare l’enzima addetto alla degradazione del neurotrasmettitore, aumentando cosı` la concentrazione dello stesso.

I primi due meccanismi agiscono a livello del neurone presinaptico, il blocco dell’enzima avviene a livello dello spazio intersinaptico. Ma il farmaco puo` agire anche sul neurone postsinaptico con due modalita`: d)

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situandosi sul sito recettoriale a causa della somiglianza di struttura chimica con il neurotrasmettitore, provoca la stessa azione del neurotrasmettitore; bloccando il recettore e quindi diminuendo o inibendo completamente l’azione del neurotrasmettitore.

Se si tiene conto di tutte queste possibilita`, ed inoltre che gli effetti sono legati alla quantita` del neurotrasmettitore, alla quantita` dei siti recettoriali, alla sede sulla quale agiscono (area frontale, sistema extrapiramidale, sistema limbico ecc.) e alla diversita` di neurotrasmettitori, si puo` comprendere quali e quante possibilita` possieda il SNC nel modulare la trasmissione.

2.2. I neurotrasmettitori I neurotrasmettitori erano conosciuti molto tempo prima dell’era psicofarmacologica; ma certamente l’introduzione degli psicofarmaci ha incrementato lo studio e la comprensione dei loro meccanismi d’azione. L’esempio piu` evidente riguarda le BDZ che hanno reso possibile la comprensione del meccanismo d’azione del GABA; viceversa, la conoscenza del GABA e dei suoi specifici recettori puo` portare alla ricerca di molecole ansiolitiche sempre piu` specifiche.

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Infatti la conoscenza di due specifici recettori GABA, ω1 e ω2, che sembrano collegati rispettivamente all’azione ansiolitica ed a quella miorilassante e sedativa, potranno portare a scoprire molecole sempre piu` specifiche, evitando gli effetti collaterali. Lo studio dei neurotrasmettitori inizia nel 1921 con il classico studio di O. Loewi che scoprı` l’acetilcolina, lavorando su di un preparato di cuore di rana. Stimolando il vago, il cuore cessava ad un certo punto di battere: il quesito consisteva nel sapere se l’arresto era dovuto all’eccesso di stimolazione del vago, o se questo, ipereccitato, liberava una sostanza con funzioni inibitorie sul battito. Il quesito fu risolto in modo semplice e geniale, ponendo un altro preparato di cuore di rana nel liquido di infusione: questa volta il cuore cesso` rapidamente di battere, anche senza stimolare il vago. Era evidente che la stimolazione del vago aveva liberato una sostanza che, isolata successivamente, fu denominata acetilcolina. In seguito furono scoperti altri neurotrasmettitori; attualmente se ne conoscono oltre 100. Di questi non tutti sono chiaramente definiti: pertanto accennero` solo a quelli piu` importanti e dei quali e` sicuramente conosciuto il meccanismo d’azione. a)

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Acetilcolina. Funge da neurotrasmettitore per il 10-15% dei neuroni presenti nel sistema nervoso, soprattutto per i neuroni che agiscono sulla muscolatura volontaria, sul cuore e sulle ghiandole. Molti neuroni, produttori di acetilcolina, si trovano nel nucleo di Meynert ed hanno una importanza fondamentale per i processi di memorizzazione. Infatti questo nucleo presenta evidenti segni di degenerazioni nella sindrome di Alzheimer; un’altra prova della importanza dell’acetilcolina, nella genesi della sindrome demenziale, e` dimostrata dal fatto che mentre il livello di acetilcolina e` basso, quello degli altri neurotrasmettitori e` normale. Noradrenalina e Serotonina. Questi due neurotrasmettitori, pur avendo funzioni diverse, sono accumunati perche´ ambedue correlati con la depressione. Comunque, piu`

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precisamente, i neuroni contenenti serotonina sono presenti in prevalenza nei nuclei del rafe, mentre quelli contenenti noradrenalina lo sono nel locus coeruleus e nell’area tegmentale. Una diminuzione dei loro livelli induce depressione. ` un’altra amina biogena fondaDopamina. E mentale. I neuroni produttori di dopamina sono prevalentemente localizzati nel corpo striato, nella substantia nigra e nell’area tegmentale. Una diminuzione della dopamina provoca il morbo di Parkinson; un aumento sembra essere collegato con la schizofrenia. La maggior parte dei neurolettici agisce bloccando i recettori per la dopamina. ` il neurotrasmettitore piu` speciGABA. E fico, perche´ si trova solamente nel SNC, ed anche quello piu` importante perche´ agisce su circa il 25-40% delle sinapsi cerebrali. La sua funzione principale e` quella di ridurre l’eccitabilita` neuronale: ha quindi una funzione inibitoria. Le BDZ agiscono attivando i recettori per il GABA. Encefaline o endorfine. Sono i neurotrasmettitori piu` semplici perche´ formati da pochi aminoacidi. I neuroni che producono encefaline sono diffusi soprattutto nel sistema limbico (soprattutto amigdala ed ipotalamo). Sono inoltre presenti nel midollo spinale (sostanza gelatinosa) dove svolgono una funzione fondamentale sulla modulazione del dolore. Acido glutammico. Aminoacido fondamentale, svolge anche un’azione di neurotrasmettitore. Stimola l’eccitabilita` dei neuroni e deve considerarsi come il neurotrasmetti` tore piu` importante ad azione eccitatoria. E ampiamente presente nel circuito che collega la corteccia cerebrale con il corpo striato, nei granuli del cervelletto e probabilmente nella via visiva. Istamina. Oltre ad avere una azione sui fenomeni allergici e sulla secrezione gastrica, e` ` presente soanche un neurotrasmettitore. E prattutto nelle aree che regolano il comportamento emotivo, con una distribuzione molto simile a quella della noradrenalina.

Psichiatria e biologia

2.3. I circuiti neuronali Sono costituiti da un insieme di nuclei e di vie afferenti in cui prevalgono neuroni che producono un particolare tipo di neurotrasmettitore. Data la complessita` dell’argomento rimando all’ottimo testo di Snyder. Qui mi preme sottolineare come alcuni di questi circuiti corrispondono o si sovrappongono a circuiti che erano gia` stati evidenziati da studi di neurofisiologia o da correlazioni cliniche ed anatomo-patologiche. L’esempio piu` eclatante e` rappresentato dal sistema limbico, gia` definito come il circuito dell’emotivita`, che e` anche il sistema in cui prevalgono i neuroni produttori di serotonina, noradrenalina ed endorfine, tutti neurotrasmettitori collegati con la vita emotiva.

2.4. I recettori Sono strutture estremamente importanti, poste sul neurone postsinaptico; ogni neurotrasmet-

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titore agisce sul recettore specifico. Agli inizi si credeva che esistesse un singolo recettore per ogni neurotrasmettitore; studi successivi hanno dimostrato che esistono invece recettori diversi. Cosı`, per esempio, la dopamina ha cinque tipi di recettori; la noradrenalina ne ha tre. La varieta` di recettori spiega perche´ lo stesso neurotrasmettitore puo` avere azioni diverse. I recettori sono i siti ai quali possono legarsi gli psicofarmaci con una duplice azione: agonista o antagonista. Nel primo caso rinforzano l’azione del neurotrasmettitore, nel secondo la riducono o la bloccano. Ho cercato di riassumere in poche pagine i risultati dello sforzo congiunto di neurofisiologi, farmacologi, biochimici, psichiatri, che hanno raccolto in pochi decenni una massa impressionante di dati; dati che hanno permesso la formulazione di modelli che cercano di spiegare se non il perche´, certamente il come di molte funzioni fondamentali del SNC e della loro patologia.

«Sono raffigurate tre configurazioni del GABA recettore / BDZ recettore / canale anionico. o (Da sinistra a destra) Nel 1 caso ambedue i siti recettoriali (sia per il GABA che per le BDZ) sono liberi: il canale anionico o o e` completamente chiuso. Nel 2 caso e` legato solamente il recettore per il GABA: il canale anionico e` appena aperto. Nel 3 caso sono legati ambedue i siti recettoriali (sia per il GABA che per le BDZ): il canale anionico si apre e rimane aperto completamente. L’apertura del canale permette il passaggio del Cl che depolarizza la membrana e quindi produce un effetto inibitorio sull’impulso e quindi clinicamente un effetto sedativo». (Da Receptor Mechanism in Depression and Anxiety di J. F. Tallman; D. W. Hommer. Per gentile concessione della The UpJohn Co.).

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3. I modelli psicobiologici 3.1. L’ansia Da tempo erano conosciuti farmaci (come i barbiturici) o sostanze (come l’alcool) che riuscivano a controllare l’ansia, esercitando pero` una marcata azione sedativa che ne limitava l’applicabilita` clinica. La scoperta delle BDZ ha evidenziato invece l’esistenza di una serie di molecole che, pur possedendo un marcato effetto ansiolitico, presentano una attivita` sedativa e miorilassante molto modesta. Questa specifica modalita` di azione ha stimolato numerose ricerche volte a scoprirne il meccanismo d’azione. La prima scoperta fu l’esistenza di specifici recettori per le BDZ; la seconda fu che i recettori per le BDZ sono distribuiti nelle stesse zone ove si trovano i recettori per il GABA, principale neurotrasmettitore a funzione inibitoria. Il che portava a ritenere che ci dovesse essere un legame tra BDZ e GABA. Successivamente e` stato dimostrato che il meccanismo delle BDZ si esplica attivando i siti recettoriali per il GABA, il quale a sua volta esercita la sua azione inibitoria favorendo l’apertura dei canali ionofori per gli ioni Cl− che, entrati nel neurone, ne attenuano l’eccitabilita`. Il GABA e` il neurotrasmettitore piu` diffuso nel SNC, agendo sul 25-40% delle sinapsi cerebrali. Si puo` considerare come il piu` potente schermo antistimolo che il SNC produce per difendersi dall’eccesso di stimoli, eccesso che se non fosse bloccato aumenterebbe l’attivita` eccitatoria cerebrale provocando una situazione di disturbo che si manifesta appunto come ansia. Questo modello molto semplice, ma che ha richiesto anni di ricerche, chiaramente ci puo` spiegare il come, non il perche´ dell’ansia. Anzi in effetti quello che possiamo affermare con sicurezza e` che questo modello ci spiega soprattutto come funzionano le BDZ, farmaci con indubitabile effetto ansiolitico. 3.2. La depressione La reserpina, usata per la cura dell’ipertensione e della schizofrenia, spesso induce nel-

l’uomo sindromi depressive anche gravi. Negli animali di laboratorio si era evidenziato che l’uso della reserpina, se sul piano comportamentale induceva un rallentamento psicomotorio, sul piano del biochimismo cerebrale induceva un abbassamento notevole di due neurotrasmettitori: la noradrenalina e la serotonina. Era pertanto logico pensare che questi due neurotrasmettitori potessero giocare un ruolo importante nella genesi della depressione. Ipotesi confermata successivamente dall’efficacia antidepressiva dell’iproniazide, che e` un farmaco IMAO, ovverosia inibitore della monoamminoossidasi, enzima che degrada i due neurotrasmettitori. L’IMAO, impedendo questa degradazione, indirettamente tende ad aumentare i livelli della noradrenalina e della serotonina. Una ulteriore riprova e` venuta ancora dagli psicofarmaci: i triciclici e la fluvoxamina, che hanno una netta azione antidepressiva, bloccano il meccanismo del re-uptake della serotonina e/o della noradrenalina. Sia con l’inibizione della MAO, sia con il blocco del re-uptake, si ottiene comunque un aumento del livello di questi due neurotrasmettitori aminici, la cui diminuzione risulta essere quindi sicuramente implicata nella genesi della depressione.

3.3. La schizofrenia L’introduzione dei neurolettici nella terapia della schizofrenia ha evidenziato un effetto collaterale molto spiacevole: i sintomi parkinsoniani. Questa sintomatologia ha spinto i ricercatori a capire i rapporti tra schizofrenia e dopamina. Questo neurotrasmettitore, fra le numerose funzioni, ne ha una importante, che e` quella di regolare e modulare il comportamento motorio. Lesioni del corpo striato o della substantia nigra, nuclei ricchi di neuroni dopaminergici, provocano il morbo di Parkinson. Una seconda via dopaminergica nasce invece nell’area tegmentale ventrale che ha strette connessioni con il sistema limbico. Il blocco dei recettori dopaminergici in questa sede potrebbe essere responsabile dell’attivita` antischizofrenica dei neurolettici: mentre l’azione sul nucleo striato darebbe luogo agli effetti indesiderati: cioe` le manifestazioni parkinsoniane. Comun-

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que credo sia corretto parlare, piu` che di modello, di ipotesi dopaminergica della schizofrenia. Infatti l’azione dei neurolettici e` molto sintomatica, ovverosia agisce su alcuni sintomi della schizofrenia, ma non ne modifica sostanzialmente il quadro di base.

3.4. I disturbi della memoria L’acetilcolina gioca un ruolo fondamentale nei processi di memorizzazione, come e` dimostrabile sia per la degenerazione, nella sindrome di Alzheimer, del nucleo basale di Meynert ricco di neuroni colinergici, sia per i disturbi della memoria provocati da due farmaci: la scopolamina e l’atropina, che hanno una spiccata attivita` anticolinergica. Il nucleo di Meynert e` costituito da vari sottonuclei, con proiezioni sia sulla corteccia che sull’ippocampo. In genere, mentre la distruzione o la lesione delle aree a proiezione corticale provoca modesti disturbi della memoria, questi sono invece marcati quando la lesione riguarda l’area a proiezione ippocampale. Il che dimostra che questa struttura e` fondamentale per i processi di apprendimento e di memorizzazione. Va ricordato inoltre che l’acetilcolina agisce su due diversi recettori: nicotinici e muscarinici. I farmaci che competono con l’acetilcolina, agendo sui recettori muscarinici, provocano i disturbi della memoria. Anche se finora non e` stato possibile sintetizzare farmaci agonisti, capaci di sostituire carenze colinergiche e quindi essere usati nei processi demenziali, l’importanza dell’acetilcolina sui processi di memorizzazione ed apprendimento, rimane fondamentale. Certamente la conoscenza dei meccanismi neurotrasmettitoriali ha aumentato la nostra capacita` di capire alcune modalita` fondamentali del funzionamento del SNC. Molte domande pero` rimangono ancora senza risposta, e nuove domande sono sollevate dai tanti quesiti risolti. Certamente, questi modelli non sono semplicistiche soluzioni del problema del perche´ si pensa, del perche´ si ricorda, del perche´ si puo` avere l’ansia o la depressione, ma ci indicano semplicemente il modo. Bisogna inoltre tener

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presente che «...le complesse funzioni mentali sono mediate da molte aree cerebrali, distinte a livello microscopico: dove si svolge una attivita` neurologica e` altrettanto importante di come si svolge». (S. Snyder, 1989). La diversita` legata al come e al dove, unita alla diversita` dei recettori ed alla reciproca interazione dei neurotrasmettitori, costituiscono tutti elementi di variabilita`: la complessita` si riaffaccia dietro l’apparente semplicita` degli schemi. Forse l’immagine che meglio puo` rendere questa complessita` puo` essere fornita dalle articolate operazioni necessarie per eseguire una suonata al pianoforte: che necessita di uno strumento, di uno spartito e di un esecutore. Il pianoforte rappresenta la complessa interazione neurotrasmettitori-recettori, strumenti fondamentali dell’attivita` psicobiologica. Lo spartito rappresenta i circuiti cerebrali, vie gia` preformate e meno suscettibili di variazione. Ma chi e` l’esecutore? La figura dell’esecutore non rimanda ad una entita` esterna od estranea. L’esecutore e` dato dalla complessita` e dalla necessaria integrazione, che permettono all’individuo di avere una identita`, una autoconsapevolezza ed una continuita`, pur nei cambiamenti. Sulla base di questa metafora, possiamo interpretare la psicopatologia delle psicosi come dovuta o a lesioni dello strumento o ad alterazioni dello spartito. Probabilmente la prima evenienza si ha nei casi acuti, la seconda nei casi cronici quando e` da ritenere che sia intervenuta un’alterazione delle principali vie o circuiti neurotrasmettitoriali che spiegherebbe la cronicita` del disturbo. I modelli psicobiologici certamente possono essere molto utili per aumentare le nostre conoscenze sulla patologia psichica, a condizione che vengano interpretati correttamente. Interpretati correttamente vuol dire sottolinearne tre aspetti fondamentali. Il primo e` che i modelli psicobiologici riguardano le situazioni cliniche psichiatriche piu` gravi: la depressione maggiore, la schizofrenia e la demenza. Quindi i modelli non sono applicabili a situazioni diverse come le psiconevrosi, le situazioni borderline, la personalita` psicopatica ecc. Il secondo e` che questi modelli ci informano sul come e non sul perche´ del disturbo.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Il terzo e` che il modello si riferisce ad una situazione di status, ovverosia ci propone uno spaccato trasversale della situazione neurotrasmettitoriale di quel paziente. Ma nulla ci dice su cosa e` successo prima, su cosa ha provocato quel disturbo, su quale importanza hanno avuto i rapporti significativi interpersonali nel determinare, facilitare o non impedire quella determinata situazione biochimica. In conclusione, questi dati debbono essere letti con molta discrezione, ma soprattutto alla luce di una fondamentale verita`: cioe` che dati clinici e biochimici possono avere un reale valore solo se inseriti all’interno della storia e del contesto globale del soggetto. Credo sia chiaro che la psicobiologia non puo`

essere scissa dalla clinica (psichiatrica); ed ambedue non possono essere separate dallo studio delle dinamiche intrapsichiche ed interpersonali del soggetto (psicoterapia).

Riferimenti bibliografici Per i vari problemi rimando ai capitoli specifici. Per quanto riguarda invece la psicobiologia credo che attualmente il testo piu` chiaro e completo, ma anche semplice, sia: Snyder S. H., Farmaci, droghe e cervello, Zanichelli, Bologna, 1989.

4 Psichiatria transculturale Goffredo Bartocci Parole chiave psichiatria; transcultura; psicoterapia; migrazioni; religione; fantasia di sparizione

L’importanza di questo capitolo risiede nel taglio nuovo dato alla Psichiatria Transculturale considerata non come museo di esotiche ‘‘pazzie’’, bensı` come disciplina di frontiera rispetto all’emergenza di nuove e piu` complesse problematiche psicopatologiche. L’impostazione teorico-metodologica e` segno della situazione attuale della Psichiatria che deve trovare una metodica piu` ampia ed articolata, rispetto alla semplicistica e rigida impostazione nosografica-descrittiva che ha costituito nel passato l’impalcatura della Psichiatria classica, poi di quella psicofarmacologica e che continua ora nel DSM-III-R e IV. Ci troviamo invece di fronte a nuovi problemi che comporteranno per lo psichiatra l’acquisizione di conoscenze e competenze, finora patrimonio di pochi. La massiccia immigrazione, con la conseguente composizione sempre piu` multirazziale e multiculturale della societa`, pone problemi teorici ed operativi complessi che possono trovare soluzione non solo sulla base di una apertura mentale esente da dogmatismi e riduttivismi etnocentrici, ma anche con l’aiuto di un modello psicodinamico che tenga conto dei meccanismi inconsci.

Basti pensare alla varieta` dei quadri psicopatologici legati a specifiche culture, quadri che sono resi ancora piu` complessi dal vissuto di sradicamento e dalla non comprensione od ostilita` della cultura del paese ospitante, il che rende difficilmente valutabile le interazioni tra questi fattori. Inoltre molti comportamenti possono essere legati a credenze religiose fortemente radicate, ove non e` sempre possibile evidenziare quanto ci possa essere di difensivo, nel senso che il comportamento viene accentuato come bisogno di riaffermazione della propria identita` culturale, e quanto ci sia di realmente patologico. Questi ed altri fenomeni possono lasciare perplesso l’operatore psichiatrico, che non sa decidere se certi comportamenti, nella loro diversita`, vanno rispettati perche´ il paziente e` ancora immerso nella ‘‘sua cultura’’, pur vivendo materialmente in un’altra, o se invece quei comportamenti sono comunque patologici e le spiegazioni, religiose o culturali, possono rappresentare solo un tentativo di razionalizzazione. Certamente tutto questo deve essere letto ed interpretato alla luce della ‘‘tolleranza’’, purche´ questa non sia un paravento che serva

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a coprire l’ignoranza o peggio ancora ‘‘l’aurea’’ astensione che non crea problemi. Ma a parte questi problemi operativi, la Psichiatria Transculturale puo` rappresentare il punto di incontro (o di scontro) di antichi problemi che non riguardano solo la Psichiatria, cioe` l’uomo malato, ma l’Antropologia, ovverosia l’uomo nella sua complessita`. Per esempio il problema del rapporto tra natura e cultura: quanto deve essere attribuito all’apprendimento e quindi alla cultura e quanto invece e` condizionato da meccanismi genetici e quindi alla natura. Gli etologi sembrano aver superato quest’antinomia congenito-acquisito. Infatti, secondo gli etologi, gli animali (uomo compreso) hanno schemi di comportamento altamente specifici, variabili secondo le varie specie e disposti

secondo un programma genetico ben preciso. La loro comparsa e` possibile pero` solo in seguito ad una serie di stimoli specifici che sono chiamati evocatori e che derivano dall’ambiente. Gli evocatori per l’uomo sono fattori esclusivamente sociali: in questo senso lo sviluppo del comportamento e` strettamente legato alla presenza di questi fattori organizzativi che comunque debbono essere presenti in particolari fasi dello sviluppo (imprinting). Questi dati, cosı` importanti, dovranno essere ulteriormente confortati proprio dallo studio delle manifestazioni psicopatologiche nelle diverse culture: la divisione dei disturbi in culture-bound e culture-free, esprime chiaramente questa esigenza. * * *

Psichiatria transculturale

1. Definizione ed ambito di competenza Non e` difficile definire l’area di competenza ` tradizionale della Psichiatria Transculturale. E noto che questa disciplina mira alla ricerca ed alla identificazione dei fattori socio-culturali nella genesi dei disturbi psichici, privilegiando da sempre lo studio della interazione dell’individuo con il suo contesto sociale, piuttosto che tendere alla liturgica obiettivazione di fattori organici e biochimici come causa univoca della alterazione patologica dello stato di benessere. ` piu` difficile invece riuscire a definire che E cosa sia la Psichiatria Transculturale o cosa essa possa oggi rappresentare. Questa disciplina, infatti, mostra al momento attuale una notevole apertura dell’arco del suo ventaglio operativo, raccogliendo intorno a se´ una serie di consensi ed interessi multidisciplinari e cosı` vaste prospettive ermeneutiche, che e` opportuno spendere qualche parola introduttiva onde chiarire la complessita` del quadro. Se da una parte l’osmosi della Psichiatria con gli aspetti culturali e antropologici ha portato la Psichiatria Transculturale a rappresentare la disciplina scientifica di estrazione medica che maggiormente ha contrastato il potere monotematico dell’ottica interpretativa proposta dalla cosiddetta psichiatria biologica, dall’altra, del tutto recentemente, assistiamo ad un recupero in positivo della sfera psicobiologica allorche´ si raccolga l’invito ad esaminare le interazioni fra gli avvenimenti proposti dall’ambiente esterno e le risposte individuali biologicamente determinate dal nostro apparato percettivo-interpretativo. Il territorio transculturale infatti e` il teatro che spontaneamente mostra le diverse modalita` di risposta e di interazione uomo-cultura-natura che nel corso della storia sono state elaborate dalle piu` disparate etnie, e facilita pertanto il lavoro di individuazione, secondo prassi di ricerca estrapolate dalla psicologia clinica, degli avvenimenti o situazioni-stimolo che tendono con piu` frequenza a determinare reazioni patologiche individuali o collettive. In altre parole la Psichiatria Transculturale, proprio per la sua storica propensione a fondere le prospettive metodologiche di altre discipline

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scientifiche, si presta ad essere un ponte di collegamento con campi del sapere tradizionalmente lontani. Se un disturbo psichiatrico presenta le stesse manifestazioni in due differenti contesti culturali, allora questo puo` essere rispettivamente il prodotto di geni che sono propri della specie umana o altrimenti la conseguenza di fattori ambientali comuni a tutte e due le culture. Piu` le culture sono diverse piu` sembra probabile che geni siano la causa delle malattie che si presentano in identiche sembianze. D’altra parte, differenze nella manifestazione delle forme morbose in piu` di una cultura possono portare alla identificazione di fattori ambientali che esercitano preponderante influenza nella conformazione della malattia (Leff, 1981)

I rapidi movimenti di assestamento fra vecchie prassi di lavoro e nuove frontiere di ricerca costringono pertanto la stessa Psichiatria Transculturale a cimentarsi continuamente con quella dimensione inerente ‘‘l’apparizione e la scomparsa di storie e di eventi umani’’, in questo caso anche prassi e consuetudini di lavoro, che abbiamo detto essere caratteristica di ogni processo di acculturazione ed umanamente reperibile in ogni relazione intersubiettiva. (Relazione I Convegno Internazionale di Igiene Mentale Transculturale, Villalago Terni, 1989; Bartocci 1990).

Lo stesso operatore, ricercatore transculturale, non puo` esimersi dal confronto con una serie di scelte. Gli Antropologi non possono non aver esercitato il lodevole sforzo di evidenziare motivazioni e significati psicologici nei comportamenti umani, al di la` di una semplice embricazione con funzioni e istituzioni socioculturali (Frighi, 1984).

Gli psichiatri non possono non aver effettuato una certa separazione dalla corrente dell’insegnamento medico tradizionale almeno quel tanto da rendere possibile lo sviluppo di quella capacita` che permetta di cogliere le caratteristiche ed i valori che ciascun contesto culturale nasconde

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dietro ogni macroscopica facciata, per poter apprezzare il polimorfo agire dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente esterno; nel nostro caso, prevalentemente inteso come ambiente di rapporto interumano. Quello specifico ambito cioe` dove non si dinamizzi soltanto il rapporto uomonatura, o uomo-cultura, ma soprattutto il rapporto uomo-uomo. Secondo tale prospettiva ed alla luce delle conoscenze acquisite riguardo alle dinamiche anche inconsce di rapporto, la definizione classica che legava l’ambito dell’operare della Psichiatria Transculturale ai rapporti tra Psichiatria e Cultura puo` essere allargata sino ad accettare al suo interno lo studio, l’analisi, la comprensione dell’agire e dell’utilizzazione di queste dinamiche in tutte le culture. Per vari motivi e` accaduto che le etnie caratterizzate dalla presenza di una concezione del mondo che non ha trovato immediata corrispondenza con quella della cultura egemone occidentale sono state da questa reattivamente collocate nel ghetto squalificante delle culture rozze, prelogiche, culture fobicamente giudicate immerse in una sorta di ‘‘magia’’ (ovvero di inconscio perverso) che, spogliata dell’elemento sia pure parziale di rapporto con l’esterno, assume le demoniache sembianze dell’opposto della ragione che, a quanto pare, e` considerata come unica categoria vedente e senziente, passaporto obbligato per trovare ospitalita` nel consesso delle culture forti o presunte tali. Una forza che spesso nasconde la boria che si fa scudo della altezzosa prosopopea per nascondere a sua volta la difficolta` di sciogliersi dallo sterile abbraccio monogamico con la reiterazione dell’identico, con la coazione classificatoria rappresentata dal DSM-IV e dalla illusione che questo strumento sia esente da condizionamenti culturali. Eppure non pochi sono stati gli avvertimenti di pericolo. Le basi concettuali della teoria psichiatrica occidentale e la sua stessa pratica sono spesso considerate a priori essere neutrali e scientifiche. Dovremmo sottoporre la psichiatria occidentale ad un esame approfondito cosı` come noi sottoponiamo ad esame le teorie esplicative di ogni malattia (Gaines, 1982).

Dovremmo smettere di pensare che le nostre valutazioni e prospettive riguardo all’accezione del comportamento normale siano tutte neutrali e che non necessitino pertanto di valutazioni critiche (Murphy, 1977). Le ricerche psichiatriche sono state condotte soprattutto nelle culture omogenee delle societa` urbane industrializzate. La psichiatria occidentale tenderebbe poi a porsi come libera da condizionamenti culturali (Littlewood e Lipsedge, 1987).

Frighi (1984) e` particolarmente esplicito al proposito allorche´ ci ricorda che la concezione mentale secondo cui i popoli cosiddetti primitivi rappresenterebbero stadi preliminari della nostra stessa cultura

puo` essere connotata come: delirio culturale (culturalismo) molto simile al delirio razziale (razzismo).

L’impasse o il fallimento delle soluzioni interpretative dei disturbi psichici da parte del pensiero occidentale od il ridimensionamento della psicoanalisi freudiana non possono giustificare la reazione suicidale di negare la possibilita` di seguire le tracce delle dinamiche inconsce dell’uomo. La sintesi fra Psichiatria, Antropologia e Psicoanalisi, intesa quest’ultima come scienza che studia le dinamiche ed i rapporti inconsci dell’uomo, permetterebbe oggi di guardare piu` in la` dei limiti imposti dall’accezione ipostatizzata di tali discipline che, prese singolarmente, impongono i rispettivi confini o i reciproci tranelli. L’Antropologia Culturale per esempio, allorche´ si ripresenti vestita da una presunta neutralita`, assume sembianze ‘‘sovraorganiche’’ e, parallelamente al suo distacco dalla culla dell’umano operare, determina una svalorizzazione, se non un occultamento dei fattori economici, politici, sociali, fisico-biologici-ambientali e di rapporto che sono spesso le radici dei disturbi psicologici. La radicalizzazione biologizzante della Psichiatria, a sua volta, non nasconde poi solamente l’annullamento delle importanti radici socioculturali della sofferenza e della patologia psichica

Psichiatria transculturale

quanto, e tuttora, la scotomizzazione del potere del mondo delle intenzioni-emozioni, nel determinismo della malattia mentale. (Bartocci 1988, 19901) Per non parlare infine della psicoanalisi in massima parte freudiana, nonostante l’apparente autonomia delle altre scuole o derivazioni, in quanto, salvo rare eccezioni, queste non hanno mai messo in crisi le proposizioni iniziali del loro Padre: proprio questa psicoanalisi che esce malconcia dal confronto transculturale per le superficiali e spesso gratuite affermazioni riguardo alle prime gesta fondanti dei nostri progenitori. Le dissertazioni enunciate in Totem e Tabu` rappresentano un esempio fulgido di un pensiero.... culture-bound (se non personal-bound), imposto retroattivamente alle etnie arcaiche secondo quel costume etnocentrico che si e` rivelato particolarmente prepotente nella storia della Psichiatria Transculturale. Storia particolarmente triste quella della psicoanalisi, in quanto dovrebbe essere proprio questa scienza, quella dell’inconscio, ad occuparsi del mondo delle intenzioni, degli affetti, dei desideri inconsci o per opposto di rabbie e disperazioni cannibaliche, degli annullamenti, delle proiezioni, che attribuiamo particolarmente potenti in tali popolazioni. ` proprio l’area inerente le intenzioni-emoE zioni inconsce, inoltre, che funge da spartiacque discriminativo fra le culture occidentali e quelle primitive. ` questa l’area dell’operare dell’Io inconscio, E il giardino dove si affondano le radici dell’essere, dell’Io dell’uomo, spesso purtroppo dell’Eden, minacciato e soggetto all’intervento del Nume. ` lı` che si trovano le cause della malattia E mentale, lı` la valutazione delle responsabilita` personali del suo apparire. Lı` avviene la demarcazione fra popoli primitivi che attribuiscono ‘‘ancora’’ a cause non organiche le malattie mentali e le culture piu` potenti che invece si rivolgono ` lı` che esclusivamente al mondo degli oggetti. E l’Io puo` venire piu` facilmente influenzato, rubato, agito-da. (Frighi, 1984). Inoltre, considerando anche l’aspetto della ‘‘Iatria’’ della psiche, e non solo quello delle cause di malattia, possiamo vedere che questo e`

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anche il territorio della cura, delle possibilita` di scambio, di dinamizzazione di quelle dimensioni inconsce, anche psicobiologiche, che non appartengono pero` alle scienze biologiche. Il luogo della cura dell’occidente e non solo dell’operare del ` infatti attraverso il conmago (Giardina, 1990). E fronto con l’Io inconscio, con la presenza dell’altro, che si attua la dinamizzazione della fiducia e non della fede e si strutturano reali possibilita` di investimento libidico e di terapia (Lalli, 1990). ` evidente, a questo punto, che l’operare di E tutti questi fattori, consci ed inconsci, rende possibile l’inserimento di un capitolo di Psichiatria Transculturale, intesa come punto di raccordo e di riunificazione interdisciplinare, solo all’interno di un Manuale di Psichiatria che sappia tenere conto della complessa interazione dello psichico e del biologico, della interazione di questi con i rispettivi ambienti culturali e che soprattutto utilizzi un modello analitico non freudiano, ovverosia un modello che non visualizzi l’inconscio come necessariamente perverso e non consideri il setting come rito fondante il processo terapeutico. Attraverso la revisione critica dei rituali del setting, sia che questi si manifestino all’interno delle sedute di psicanalisi che in quelle piu` ortodossamente ‘‘mediche’’, sotto forma di somministrazione del farmaco irrelata da ogni cultura e vissuto, e` possibile superare i limiti che ogni singola interpretazione del mondo porta con se´ ed uscire fuori dall’impasse terapeutico omoculturale che impedisce l’adozione di forme versatili di approccio terapeutico. L’operatore transculturale fisso nei propri schemi operativi, nel momento in cui momentaneamente rifiuti l’uso esclusivo del proprio mezzo terapeutico, per esempio quello farmacologico, si trova improvvisamente disarmato ed inerme di fronte al ricordo di una delle affermazioni purtroppo meno controverse della Psichiatria Transculturale e cioe` quella che ipotizza l’impossibilita` di una psicoterapia al di la` di una comune concezione del mondo tra terapeuta, paziente e gruppo sociale dove si attua l’intervento terapeutico. Mi riferisco alla citazione di Ellenberger (1970) che sottolinea come l’intervento di guarigione, la seduta terapeutica o

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la cerimonia puo` essere efficace solo all’interno di una struttura psicologica e sociologica che include: 1) la fede del guaritore nelle proprie abilita`; 2) la fede del paziente nelle capacita` del guaritore; 3) sia la malattia, sia il metodo di guarigione ed il guaritore devono essere accettati e riconosciuti come tali dal gruppo sociale.

Anche R. Prince (1980), piu` recentemente, non si discosta molto da tale triade. Gli studi transculturali sull’efficacia delle psicoterapie hanno evidenziato la preponderanza di alcuni aspetti legati al rapporto paziente-guaritore: una comune e condivisa concezione del mondo; una comune e condivisa identificazione ed attribuzione del fattore di causa; una notevole influenza dell’elemento suggestivo. Consideriamo pertanto scontato il valore terapeutico di questi fattori esogeni, mentre e` ancora necessario richiamare l’attenzione sui meccanismi endogeni di guarigione.

Tali constatazioni, nonostante l’incontrovertibile verita` attuale, nascondono un micidiale tranello: la reale individuazione delle enormi difficolta` procedurali sembra decretare l’impossibilita` di una psicoterapia transculturale e rimandare necessariamente ad una pratica omoculturale. Comunque si voglia procedere per favorire l’osmosi culturale in un setting clinico, e` perlomeno proponibile una possibilita` psicoterapeutica che si poggi sui primi due elementi propostici da Ellenberger, dove al termine ‘‘fede’’ e` opportuno sostituire quello di ‘‘consapevolezza’’, ‘‘riconoscimento’’, come fattori sufficenti a strutturare una situazione di rapporto terapeutico. La speranza ed il desiderio del paziente di poter trovare un esterno soddisfacente-terapeutico, confortati da una presenza del guaritore, un Io che sappia proporre il rapporto, anche passando attraverso momenti parziali suggestivi, rendono percorribile una terapia che non e` magica o ‘‘selvaggia’’ nel momento in cui si rispettino i tempi ed i modi della evoluzione di quel rapporto, unico nelle sue caratteristiche. Una volta chiarita almeno la possibilita` di una dinamizzazione di un rapporto psicoterapeutico, possiamo chiudere questa introduzione proponendo come schema di riferimento generale quello che, per quanto possa sembrare generico,

ben si confa` al nostro scopo, e cioe` quello sociopsicobiologico. ` infatti particolarmente pertinente alla PsiE chiatria Transculturale un approccio che contempli costantemente l’interazione reciproca di tutte queste distinte componenti, per poter distinguere e poi dissecare con la perizia del chirurgo le patologiche connivenze fra tali aspetti che, allorche´ operino isolati, raramente assumono la forza per tradursi in malattia mentale.

2. Cenni storici ` consuetudine datare la nascita esplicita di E un approccio scientifico che osservi i disturbi psichiatrici al di fuori della propria cultura con il viaggio di Kraepelin a Giava nel 1903 allo scopo dichiarato di poter comparare la presentazione delle forme patologiche mentali. Lo stesso Kraepelin definı` il suo approccio come ‘‘vergleichende psychiatrie’’ o psichiatria comparativa, introducendo il metodo dell’osservazione scientifica propria della psichiatria ai metodi antropologici che si erano rivolti per lo piu` alla descrizione dei tratti culturali, sistemi sociali, comportamenti rituali piuttosto che ad una analisi della insanita` psichica. Ulteriori sfumature terminologiche seguirono a tale prima definizione: Cultura e psicopatologia (Slotkin, 1955), Etnopsichiatria (Devereux, 1961), Psichiatria Transculturale (Wittkower e Rin, 1965), Psichiatria Cross-Culturale (Murphy e Leighton, 1965), Sociologia psichiatrica (Weimberg, 1967), Psichiatria Culturale (Kennedy, 1973), ‘‘Nuova’’ Psichiatria Transculturale (Kleinman, 1977) e piu` recentemente Igiene Mentale Transculturale (Frighi, Rovera, Bartocci, Primo Congresso Internazionale di Igiene Mentale Transculturale, Villalago, Terni, 1989) che ben sottolinea una capacita` ed una tradizione umanistica rivolta non solo a illuminare il ruolo dei fattori culturali nella eziologia, nelle forme di espressione, nella presentazione e nel decorso dei disturbi mentali (Marsella, 1982),

ma a comprendere anche ed interpretare tali fattori, a tracciare storie per significarne e distin-

Psichiatria transculturale

guerne i valori, avendo abbandonato l’illusione di potersi rivolgere al disturbo mentale al disopra di culture, ideologie, storie vissute. Gli anni ’50-’70 hanno rappresentato l’epoca di maggiore proliferazione di pubblicazioni tese alla identificazione delle particolarita` psicopatologiche presentate nelle diverse culture: si vedano i lavori di Carothers, Wittkower, Lambo, Laubscher, Tooth, Leighton ed altri. Contemporaneamente uscivano le prime riviste specializzate: Transcultural Psychiatry Research Review, International Journal of Social Psychiatry, Psychopatologie Africaine. Dagli anni ’70 in poi abbiamo assistito ad una esplosione di interesse per gli studi transculturali dei disturbi mentali. Tra questi emerge l’‘‘International Pilot Study on Schizofrenia’’ condotto dalla Organizzazione Mondiale della Sanita` nel 1973 attraverso l’adozione di metodologie e livelli organizzativi che solo organismi internazionali sono in grado di gestire. I risultati ottenuti tendono a modificare la comune eccezione della schizofrenia come sindrome sufficientemente identica in ogni cultura. Dall’IPSS emerge l’interessante risultato che la sintomatologia varia considerevolmente a seconda delle culture nonostante i tentativi operati per tentare di standardizzare le diagnosi o le classificazioni stesse. Come abbiamo sottolineato piu` volte, i fattori culturali non possono essere separati dalla espressione mentale patologica. Quest’ultima non e` un fenomeno universalmente identico ma riflette piuttosto la cultura dove questa prende forma, per quanto riguarda cioe` l’etiologia, le modalita` di presentazione e di esperire il fenomeno stesso, il decorso e l’esordio della sintomatologia. In breve, come l’IPSS conclude, i paesi non occidentali mostrano una prognosi migliore per i pazienti ‘‘schizofrenici’’ di quanto accada invece nei paesi d’occidente. Inoltre, il decorso dei disturbi e` notevolmente piu` breve che non quello rilevato nei paesi occidentali. (Marsella, 1982).

Attraverso un approccio metodologico preventivamente standardizzato, l’Organizzazione Mondiale della Sanita` ha successivamente patrocinato il ‘‘Collaborative Study of Depression’’ (Sartorius et al., 1980; Jablensky et al., 1981; OMS, 1983), condotto attraverso interviste su 573

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pazienti di cinque differenti nazioni (Canada, India, Iran, Giappone e Svizzera) allo scopo di indagare e comparare le forme di presentazione della depressione. Anche in questo caso, lo spettro delle manifestazioni che si riferiscono alla sindrome depressiva non e` universalmente omogeneo. Nelle culture non-europee i sintomi somatici sono l’espressione piu` frequente di un disturbo depressivo e i cosiddetti sintomi-chiave per una diagnosi di depressione quali la comunicazione diretta o la percezione da parte dell’intervistatore di umore depresso, sentimenti di colpa ed idee suicidali, non sono cosı` frequenti (Marsella, 1985).

Dopo gli anni ’70 la storia della Psichiatria Transculturale non puo` essere scollegata dalla presenza dei forti movimenti della psichiatria sociale o della cosiddetta antipsichiatria che hanno trasformato talune impostazioni concettuali del significato stesso di malattia mentale, imprimendo nuovi impulsi al lento incedere delle ricerche tradizionali in campo transculturale. L’interesse, almeno per quanto riguarda la realta` italiana, sembro` accentrarsi nella riproposizione della malattia mentale anche come risultato di lotta di potere, e nell’analisi con le situazioni mostrate dai gruppi di emarginati, subalterni, talvolta dalle semplici differenze mostrate dalle sacche folkloriche. Ai paesi sede di immigrazione o ai paesi in via di sviluppo venne lasciata la risoluzione dei loro rispettivi problemi: quelli inerenti l’immigrazione ai primi, e l’organizzazione di forme di assistenza e di terapie consone ai nuovi livelli di occidentalizzazione ai secondi. Cosı` mentre l’Italia era scossa dal vento delle riforme psichiatriche, contemporaneamente la Psichiatria Transculturale italiana segnava il passo, mostrando difficolta` ad integrare una tradizione di grandi valori umanistici (si pensi a Gramsci, De Martino, Lanternari, Frighi, Di Nola, Rovera, Seppilli e tanti altri), e trasformare la forma di presentazione didattica di tale disciplina. Del resto molti manuali di psichiatria, encomiabili per la perizia descrittiva di sindromi appartenenti ad altre culture quali l’Amok, il Koro, il Latah, il Whitigo, il Plibokto, il Voodu, le

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collocavano ancora all’interno del capitolo delle sindromi esotiche o pre-scientifiche, perpetuando piu` o meno consapevolmente una prospettiva del tutto etnocentrica. Puo` essere interessante notare, inoltre, come tali sindromi psicopatologiche trovassero collocazione accanto alle sindromi rare quali quella di Capgras, di Cotard, di Ganser, ovvero nel capitolo dei fenomeni ‘‘strani’’, apparentemente irrelati dal contesto della storia, impervi ad una analisi profonda che possa dare senso a quanto eppure e` nella storia1.

3. Psicopatologia e criteri diagnostici La designazione: culture-bound syndroms, forme morbose caratteristiche di determinati paesi (Frighi, 1984)

o ‘‘sindromi particolari a certe culture’’ (Ey, 1978) appare migliore delle precedenti in quanto indica una traccia, un nesso conoscitivo, piuttosto che operare una demarcazione nosografica. La dizione culture-bound, secondo Littlewood e Lipsedge (1987), delimita quelle forme che ricadono all’interno dei seguenti punti di riferimento: 1) Forme di comportamento limitate nel tempo, tipiche di quelle localita` e specifiche di quella particolare cultura che le considera certamente come ‘‘indesiderate’’, e considerate bizzarre dagli stessi osservatori esterni. 2) Queste possono anche essere determinate da cause organiche. 3) Il paziente non e` consapevole o responsabile di quanto accade. 4) Il comportamento assume spesso toni drammatici.

In opposizione al termine culture-bound viene adoperato il termine culture-free per indicare tutte quelle sindromi che appaiono in forme relativamente simili in ogni cultura e che, non mostrando legami o caratteristiche tali da poter essere considerate specifiche di una sola cultura, esprimono dinamiche umane piu` universali.

1 I riferimenti bibliografici del paragrafo 2 in: Marsella A. e White G., 1985.

` evidente che, anche per quanto riguarda le E culture-bound syndroms, e` soprattutto la modalita` di presentazione all’esterno delle dimensioni psichiche che da` il carattere di diversita` a problemi psicologici che solo si vestono con i colori propri di quella etnia, senza rappresentare una psicopatologia a se´ stante. Littlewood e Lipsedge (1987) infatti sottolineano che utilizzando un approccio interpretativo-fenomenologico anche le sindromi cosiddette ‘‘esotiche’’, staccate dall’alveo delle manifestazioni della nostra cultura, come per esempio il Koro, dove il malato sperimenta un timore panico per una supposta retrazione del pene nella cavita` addominale, mostrano similitudini dinamiche che si centrano su nuclei di vissuto emozionali ben piu` universali che non la particolare forma di presentazione comportamentale agita all’esterno. Si consideri a questo proposito la tendenza a concretizzare il disagio psichico in forme agite comportamentalmente di talune etnie non tecnicizzate, rispetto alla tendenza delle etnie occidentali a ‘‘psicologizzare’’ i disturbi affettivi. Le sindromi culture-bound infine non sono solo appannaggio di un tempo trascorso o di culture immobili nel tempo; esse emergono anche attualmente in corrispondenza a specifiche situazioni. Una sindrome culture-bound caratteristica del Sud Est Pacifico (Papua Nuova Guinea) va sotto il nome di Cargo-cult. Si tratta di un fenomeno che rispecchia movimenti millenaristici di altre epoche e civilta`, nel senso che comporta l’aspettativa dell’invio da parte di entita` sovrannaturali di merci di sostentamento di ogni genere per cui e` necessario, a questo fine, soltanto attendere e abbandonarsi ad uno stato globale di apatia ed indifferenza (Frighi, 1984).

Presso gli Aborigeni australiani delle regioni del nord si e` sviluppato un culto di salvezza, il Kurungara, del tutto estraneo alle tradizioni culturali di queste popolazioni, caratterizzato da forme di adorazione di una figura del male tradizionale, il Djamba, che spesso sfociano in comportamenti francamente patologici (Bartocci, 19902).

Psichiatria transculturale

Tale fenomeno e` stato collegato ai frequenti contatti di queste popolazioni con i bianchi. Gli aborigeni colpiti dai poteri apparentemente illimitati di quest’ultimi sperano di ottenere dalla adorazione della figura tradizionalmente temuta del Djamba tutti quei poteri che nella loro cultura si acquistano solo attraverso ben piu` faticose attivita`. Allo stupore, alla delusione delle aspettative suscitate dall’apparizione del nuovo, si sostituisce una indolente attesa di avventi sul piano del sovrannaturale. Le due situazioni sopradescritte si riferiscono ad atteggiamenti collettivi chiaramente legati a processi di transculturazione, la cui portata patologica, venendo smussata dal consenso o dalla aggregazione di un numero quantanche ristretto di persone, non si struttura o non viene stigmatizzata in psicopatologia individuale. Comunque, sia che il disagio si manifesti e prenda forma attraverso cortei psicopatologici individuali che collettivi o, come dicevamo, sotto l’aspetto di disturbi culture-bound aventi denominatori comuni, una corretta terapia rivolta a rappresentanti di altri ceppi etnici si deve poggiare su una accurata comprensione delle premesse culturali che fanno da sfondo e da proscenio ai gesti ed alle opere dell’uomo. Il lavoro di estrapolazione dei significati e dei riverberi provenienti dalle norme mondane di comportamento ha permesso, per esempio, di identificare la ‘‘cultura della vergogna’’ del popolo giapponese come un elemento predisponente l’atto suicidale, espressione ultima di tratti depressivi la cui comunicazione, in quanto giudicata offensiva per il gruppo sociale, viene interdetta o repressa. ‘‘La cultura della espiazione’’ delle popolazioni mediterranee, collegata alla colpevolizzazione religiosa del peccato, sembra essere un fattore che facilita la lamentazione depressiva. Numerosissimi sono i lavori scientifici che procedono ad una sorta di anatomia e fisiologia dei nessi: Psicopatologia e Cultura, ed a questi e` opportuno rivolgersi per lo studio delle caratteristiche di singole etnie. Attualmente ritengo piu` utile rimanere su tematiche che si riferiscano ad una visione globale

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della Psichiatria Transculturale e limitarmi ad accennare a due situazioni che sembrano prestarsi ad un ulteriore lavoro di approfondimento: 1)

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il ruolo svolto da radicali impostazioni religiose nella conformazione o nel determinismo di disturbi mentali culture-bound; il fenomeno della morte psicogena acuta.

Per quanto riguarda il primo punto occorre sottolineare che ogni religione porta con se´ una serie di norme di comportamento che autorizzerebbero a rivolgersi ad essa come uno dei tanti elementi costituenti una cultura, cosa comunemente accettata dall’Antropologia Culturale. La dimensione religiosa, pero`, proprio per gli attributi di sacralita` che le sono propri e che le vengono continuamente rinnovati, trascende la percorribilita` del solco culturale e non puo` essere collocata accanto alle rappresentazioni laiche dell’umano operare che compongono i quadri delle varie culture, quali lo sviluppo tecnologico, le codificazioni di corpi legislativi, o nel versante simbolico l’arte, la poesia e la filosofia. Ora, nel momento in cui non si consideri la religione come un tratto culturale aspecifico, siamo impossibilitati ad utilizzare per il nostro lavoro la dizione che ci ha continuamente accompagnato e cioe` quella che lega Psicopatologia e Cultura, in quanto, ripeto, la dimensione religiosa si pone statutariamente al di la` dell’uomo e pertanto, nonostante la contraddizione del termine ‘‘re-legare’’, si pone ‘‘sciolta’’ da una interazione di rapporto che e` per noi l’unica condizione che poniamo per esercitare una ricerca psicologica. L’approccio fenomenologico (Otto, 1936), accompagnato da una prassi di indagine propria della psicopatologia generale, sembra essere quello piu` pertinente per affrontare la dimensione religiosa nelle sue forme di presentazione sia sul piano dell’avvenimento individuale che sul piano della storia. Ultimamente in campo psicoanalitico si sono potute mettere a fuoco con piu` precisione alcune dinamiche particolari come quelle inerenti l’annullamento della realta` esterna attraverso la fantasia di sparizione (Fagioli, 1972). Queste scoperte permettono di seguire con

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

maggiore perizia anche i riflessi interni che seguono l’andamento del gioco delle apparizioni/sparizioni (Fagioli, 1974; Lalli, 1988; Bartocci, 1989) che costituiscono il nucleo dinamico dove successivamente e` possibile cogliere l’avvento e l’eventuale insediamento della divinita`. Rimane infine da ricordare che lo studio di talune esperienze apicali quali quelle misticoestatiche si sta avvalendo negli ultimi tempi dell’uso di mezzi tecnici biochimici e cioe` del tentativo di misurare i livelli ematici di principi attivi, registrabili durante la manifestazione di tali esperienze (Schwarz, 1960). Quello che attualmente appare fondamentale e` rendere visibile l’area del sacro attraverso una conoscibilita` relativa dei fenomeni ad esso inerenti. La seguente citazione che articola la dimensione religiosa all’accadere psichico puo` chiarire quanto stiamo tentando di esplicitare: la maggior parte delle ideologie religiose del mondo rappresenta un tentativo di formulare cognitivamente i contenuti dell’esperienza mistica (Prince, 1980).

L’esperienza mistica, l’apparizione del numinoso o, al contrario, la sparizione dell’umano diventano il campo di ricerca comparata per quella Psichiatria Transculturale che voglia affrontare i complessi fenomeni che in ogni cultura hanno portato alla realizzazione dello spirituale e del divino piuttosto che all’inveramento della fantasia. Su di un piano operativo, quando l’aspetto religioso diventa chiaramente patologico, o viceversa l’aspetto patologico si esprime attraverso concezioni religiose, le possibilita` di intervento terapeutico sono estremamente piu` complesse o addirittura impossibili. Si consideri ad esempio la situazione dei testimoni di Geova, dove l’attuazione sul piano comportamentale, prassico, delle credenze religiose, determina l’inveramento rituale delle dinamiche e conseguenzialmente la loro successiva incorreggibilita`. Per quanto riguarda il secondo punto, l’Ey (1978) distingue tre principali forme di morte

psicogena acuta: una forma africana che segue alla violazione di un importante tabu`; una forma polinesiana che sarebbe una malinconia, nella quale la morte e` conseguente alla vergogna sociale; una forma australo-melanesiana che uccide attraverso la magia. Per gli Aborigeni australiani l’avvento dell’insanita` o della morte fisica per l’operare di ‘‘intenzioni’’ accadeva e veniva considerata a livello culturale come conseguenziale ad un operare maligno di altri esseri umani. L’umano era considerato fonte privilegiata di malattia psichica e con essa anche organica. (Bartocci, 1990) La sovrapposizione e la connivenza fra dinamiche psichiche, cultura e fisiologia biologica del corpo porta alla rappresentazione di manifestazioni estreme che ci concedono di affacciare ancora una volta lo sguardo verso il giuoco drammatico dell’interazione fra lo psichico e il somatico. Un giuoco spesso interrotto dalla ‘‘facile’’ soluzione dell’intervento della scissione che, distaccando l’uno dall’altro, lascia illusoriamente sperare di salvaguardare almeno il corpo dalla arrogante presentazione degli avvenimenti psichici (v. Cap. 27).

4. I fenomeni connessi alle migrazioni Una ulteriore spinta innovativa per l’area di competenza della Psichiatria Transculturale si e` verificata sotto la pressione esercitata dall’imponente movimento migratorio in atto dai paesi sottosviluppati verso quelli industrializzati, e tra questi i paesi comunitari. L’Italia si e` trasformata da paese di emigrati in paese di immigrazione, non solo per quanto riguarda il movimento migratorio Sud-Nord (Africa-Europa) che investe la nostra nazione, che per le sue caratteristiche geografiche e storiche e` stata definita la ‘‘porta d’Europa’’, ma anche per il movimento migratorio di ‘‘ritorno’’ dei nostri stessi connazionali. I recenti ed incontrollabili movimenti migratori dai paesi sottosviluppati hanno sconvolto le vecchie procedure di osservazione condotte in

Psichiatria transculturale

loco ed in contesti omogenei, costringendo a trovare metodologie di ricerca, sistemi elaborativi e procedure terapeutiche atte ad affrontare i problemi di societa` diventate multirazziali e policulturali. La provocazione intrinseca ai massicci movimenti migratori attuali non si riferisce solo alla incontrollabilita` di questi, ma ad un ribaltamento di prospettive tradizionali. Si e` passati cioe` da un movimento colonizzante da parte delle razze indoeuropee verso i paesi sottosviluppati ad una sorta di ‘‘controcolonizzazione’’ da parte di gruppi extracomunitari che, per quanto relegati attualmente a ruoli subalterni, portano con se´ aspetti culturali e forme esistenziali che esercitano necessariamente una diffusa pressione transculturante, a cui i paesi europei sembrano solo ora prestare attenzione. L’atteggiamento dei paesi ospitanti determina una ulteriore situazione di rischio a cui il movimento migratorio espone. L’atto migratorio si costituisce come fattore di stress non solo per le dinamiche ed i fenomeni di distacco dall’alveo culturale tradizionale, ma anche per la situazione di confronto con le regole del tutto nuove presentate dal gruppo sociale sede di immigrazione. Alla variabilita` della storia personale di ogni emigrato che comprende motivazioni e vissuti del tutto particolari, a seconda del momento personale e del momento storico in cui si sia verificata la separazione dal proprio contesto culturale, si somma anche l’ignota disponibilita` delle leggi e delle persone del paese ospitante, che si strutturano in un fitto intreccio di realta` non immaginarie che rende difficili possibilita` concrete di orientamento. E questo e` valido non solo per l’emigrato ma anche per l’operatore clinico, che e` chiamato ad occuparsi di tali problemi. Tutto questo comporta che l’operatore che si voglia confrontare con la terapia dei problemi psicologici connessi all’emigrazione, debba affrontare contemporaneamete piu` di un versante: quello di rapporto con i vissuti personali del paziente e quello conoscitivo che indaghi la portata stressante della situazione materiale attuale. Appare pertanto realistico che un approccio terapeutico cosı` complesso venga effettuato all’interno di servizi pubblici che appaiono essere le

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sedi privilegiate per rispondere contemporaneamente alle problematiche sia psicologiche che materiali dell’emigrato.

5. Linee organizzative per servizi pubblici di Psichiatria Transculturale ` questo un paragrafo radicalmente nuovo E per la realta` italiana che si e` considerata immune dalla necessita` di provvedere ad una assistenza agli immigrati, a differenza di quei paesi, quali il Canada o l’Australia, che hanno dovuto confrontarsi con il problema di movimenti migratori, del resto autorizzati da questi stessi paesi se non indotti a scopo di ottenere forza-lavoro. In questi ultimi paesi si e` assistito ad una aggregazione spontanea di gruppi culturali omogenei in distretti cittadini specifici, che, in presenza di livelli economici accettabili, ha portato a forme di assistenza coagulate intorno a figure mediche private di identica estrazione linguistica, con le quali il disagio psichico potesse essere dialettizzato in una situazione presumibilmente empatica o per cosı` dire spontanea. Tale modello e` stato riproposto a livello pubblico con la inaugurazione di Centri Psichiatrici Multiculturali, contraddistinti dalla presenza contemporanea al servizio di operatori che rappresentino il maggior numero di ceppi etnici presenti in quel territorio, onde offrire al paziente la possibilita` iniziale di trovare un esponente della propria cultura come figura di riferimento. Completamente diversa e` invece la situazione inerente i movimenti migratori cosiddetti clandestini, caratterizzati da una grossa diffidenza nei confronti degli enti pubblici. Le statistiche internazionali che si riferiscono a questo tipo di situazione mostrano che tali gruppi di immigrati o si rivolgono a centri assistenziali religiosi o, se utilizzano gli enti pubblici, lo fanno esclusivamente per situazioni di ricovero ospedaliero. Lo schema di riferimento nosografico e terapeutico utilizzato dai centri psichiatrici multiculturali rimane quello di stampo occidentale in quanto e` questo modello che permette una suddivisione diagnostica e prognostica consona alla si-

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tuazione culturale del contesto dove viene condotto l’intervento terapeutico. La scelta della terapia va articolata non solo al tipo di patologia presentata individualmente, ma anche al luogo in cui la rappresentazione si svolge. Le esperienze degli ‘‘Aro villages’’ in Nigeria, ‘‘che consistono in comunita` nelle quali convivono pazienti psicotici (dimessi dal vicino ospedale psichiatrico) e le loro famiglie e gli abitanti del villaggio’’ (Frighi, 1981), caratterizzate dall’aggregazione dei pazienti in comunita` ad orientamento tradizionale e gestite solamente da lontano da operatori locali, o dagli stessi notabili del villaggio, mostrano una precisa coerenza terapeutica. Piu` confusive sembrano le scelte di altri servizi che in contesti urbani semindustriali hanno adottato formule miste di terapia e cioe` l’utilizzazione di operatori esterni strettamente legati a forme terapeutiche a sfondo magicoinduttivo. Tale ultime prassi seppure efficaci su particolari tipi di pazienti o all’interno del contesto culturale di origine, sembrano invece essere scollegate alla realta` attuale del paziente in fase di acculturazione e favorire piuttosto una guarigione per regressione che non quella per dinamizzazione del disagio. ` evidente che la complessita` del problema E non permette soluzioni standardizzate che possano essere affrontate esclusivamente nell’ambito di pur corrette competenze tecniche, ma deve essere necessariamente supportata da una programmazione organizzativa da parte di nuclei di coordinamento qualificati che possano fornire una continuita` didattica2 Basti ricordare, a questo proposito, che ‘‘l’American Psychological Association Code of Ethics’’ ha stabilito che gli operatori

6. Conclusioni e prospettive Vediamo cosı` come il cammino e gli obiettivi della Psichiatria Transculturale siano andati oltre i limiti descrittivi iniziali, sino ad abbracciare attualmente l’analisi ermeneutica del significato stesso del disturbo mentale e della sua relazione fra persona-salute-gruppo sociale. Un numero sempre piu` consistente di ricerche in campo transculturale e psichiatrico mostra che l’esperienza di malattia e` un’avventura INTERPRETATIVA che si poggia su situazioni sociali che si accordano con le premesse inerenti le ‘‘teorie’’ culturali delle malattie e del comportamento sociale generico. Nonostante il grande numero di studi antropologici e psichiatrici che ci hanno fornito molti resoconti delle credenze culturali riguardo i disturbi mentali... limitate sono le nostre conoscenze riguardo l’organizzazione simbolica e cognitiva della comprensione ed accezione del senso comune dei disordini mentali che alla fin fine da` alla esperienza di malattia un significato culturale ed una espressione sociale (White e Marsella, 1982).

dovrebbero aver espletato una formazione atta a fornire conoscenza e consapevolezza della importanza dell’implicazioni culturali, prima di iniziare attivita` cliniche con pazienti di differenti gruppi culturali (Marsella, 1989).

La Psichiatria Transculturale e` protesa ad occuparsi non solo del significato individuale, personale della malattia, ma anche dell’intersecarsi del momento esistenziale, l’interruzione del benessere, con il sistema culturale che da una parte gestisce dall’esterno l’apparizione dell’evento, dall’altra lo incanala e lo condiziona. Il compito della Psichiatria Transculturale trova cosı` un suo posto all’interno di un dibattito che travalica persino i gia` ampi spazi psicopatologici e culturali che abbiamo detto propri di tale ambito di conoscenze. Lungi dal voler formulare gerarchie epistemologiche, eppure e` proprio il doppio versante, biologico e culturale della Psichiatria Transculturale che permette a questa disciplina di poter ascoltare i molteplici inviti che da piu` parti chiamano a risposte scientifiche precise. ‘‘Nature or Nurture?’’. Un ritornello che va oltre la sua musicalita`.

La Regione Umbria recependo tali linee operative ha deliberato il patrocinio dell’Istituto Italiano di Igiene Mentale Transculturale con sede in Terni.

Parecchi eminenti biologi (Huxley, 1942; Medawar, 1960; Dobzansky, 1962) hanno esaminato il rapporto intercorrente tra evoluzione genetica ed evoluzione culturale. Potremmo dire cosı`, che

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l’evoluzione culturale continua l’evoluzione genetica con altri mezzi, avvalendosi cioe` degli oggetti del Mondo 3 (Popper e Eccles, 1977).

La transizione dall’innato all’acquisito assume quindi potere di intervento sulla evoluzione filogenetica della specie. L’adattamento non e` piu` genetico ma culturale; la specie umana non si suddivide piu` in sottospecie o in razze, ma in gruppi etnici, cioe` in gruppi culturali che sono in campo psicosociale cio` che razze e specie sono in campo biologico (Ruffie´, 1976).

In altre parole l’uomo acculturato spezza l’andamento della selezione naturale, sfuggendo allo stesso schema darwiniano che pure a sua volta aveva emancipato l’uomo dal delirio di immobilita` geneticamente divina. Ma la cultura supera il ruolo di risposta adattativa. Non pago di trovare soluzioni ai problemi immediati, lo spirito umano prevede problemi futuri. Razionalizza, intellettualizza tutto. Quando l’origine di un fenomeno non appare evidente, egli inventa una spiegazione e cosı` nascono miti e religioni. L’uomo che ha rimodellato il proprio ambiente fisico crea il proprio ambiente culturale; essendo sfuggito alle regole della selezione naturale, inventa le proprie regole, crea una morale che potra` modificare ma della quale non potra` piu` fare a meno (Ruffie´, 1976).

Inventa le proprie regole ed una morale della quale non potra` piu` fare a meno, prendendo spesso a prestito sistemi di valutazione etnocen` allora opportuno che le trici e pertanto parziali. E regole non siano inventate ma piuttosto scoperte da quella che e` la realta` socio-psicobiologica dell’uomo, che include anche i processi inconsci della mente. L’episteme del pensiero occidentale, il fondamento della scienza moderna che «come struttura teorico-tecnica e` la forma suprema di potenza e quindi di ‘‘verita`’’ esistente sulla terra» (Severino, 1979) non puo` essere esclusivamente fondato sulla potenza della tecnica e sulle realizzazioni razionali ereditate dal pensiero greco, che ha tra l’altro piu` volte mostrato — come la nostra stessa

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civilta` — di essere intriso di macroscopici aspetti irrazionali (Dodds, 1951), ma si poggia anche sulle solide basi di un esperire inconscio che, una volta negato, viene contrapposto alla razionalita` quasi fosse un suo speculare ed alieno opposto. Uno sdoppiamento, un delirio del sosia, che lascia il passo all’intrusione di ben piu` pericolose forme di pensiero che autorizzano successivamente l’emergere di comportamenti scissi, a doppio binario, dove alla facciata del perbenismo si contrappongono attivita` «occulte» diventate tali in quanto «estraniatesi soltanto a causa del processo di rimozione» (Freud 1919, in Colamedici 1990). Se l’atto di nascita di questa Ragione, comunque si sia venuta conformando, passa necessariamente, come dice Vernant, attraverso un processo di svincolamento dalla mentalita` religiosa e che «grazie a questa laicizzazione del pensiero politico assicura l’avvento della filosofia», occorre tenere presente che l’opera di separazione dalla mentalita` religiosa e dagli atti che ne conseguono, non puo` essere stata effettuata una volta per tutte e che l’emancipazione da una struttura culturale e da strutture psicobiologiche continuamente operanti sia in direzioni razionali che in quelle opposte non-razionali, o per meglio dire operanti in direzioni che si dimostrano utili o viceversa dannose all’autonomia dell’uomo, ci riguarda in forme diverse oggi come allora. La Psicoanalisi, scienza relegata alla conoscenza della borghesia qualora la si intenda come figlia unica di un solo padre, diventa scienza dell’inconscio dell’uomo nel momento in cui si scioglie dal legame di dipendenza religioso con Freud. Appare allora possibile sottoporre all’indagine conoscitiva anche il pensiero magico, «quella dimensione specifica che puo` essere al tempo stesso meraviglia o alienazione dell’uomo» (Bartocci, 1990) ed opporsi alla universalizzazione appiattente su scala mondiale di una sola cultura che si illude che la conoscenza biologica del corpo sia automaticamente conoscenza della psiche. Ogni uomo ha lottato per trovare una sua strada per conoscere il mondo ed ognuna di queste esperienze ci e` fondamentale, cosı` nella storia della antropologia che in quella della psicopatologia.

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Dopo i rivolgimenti economici e politici che hanno seguito la seconda guerra mondiale, molte culture tradizionali scompaiono ad un ritmo sempre piu` rapido. Ora per il gruppo umano questo impoverimento culturale e` altrettanto pericoloso dell’impoverimento genetico per un gruppo animale: che esso si collochi al livello biologico o a quello culturale, il monomorfismo comporta gli stessi pericoli. Da alcuni anni ci si sforza di proteggere le specie in via di estinzione. Bisognerebbe difendere con lo stesso scrupolo le culture minacciate, dal momento che la loro molteplicita` costituisce la ricchezza dell’umanita` e la sua garanzia di sopravvivenza (Ruffie´, 1976).

Martino ci indicava, quello del cosiddetto mondo primitivo:

` questo un lavoro di riconoscimento dei riE spettivi valori culturali, di difesa di questi e nel contempo di separazione. Essere disponibili a lasciar morire qualcosa di se´, fors’anche una dimensione che e` stata bella ma che ora va trasformata per fare posto a quanto di nuovo si avvicina.

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Alcuni antropologi si chiedono se sia meglio resistere ad oltranza alle nuove condizioni di vita, magari arroccandosi in enclaves di folklore tradizionale, o se, invece, sia preferibile lanciarsi baldanzosamente su nuovi sentieri, buttandosi alle spalle il passato (Frighi, 1981).

Quando una concezione del mondo puo` lasciare il passo ad un’altra? Quando fare il balzo che per un attimo ci lascia sospesi nel vuoto? La situazione attuale della Psichiatria (e non solo di questa) ci induce a prendere a prestito e riproporre quanto Ernesto de Martino gia` negli anni bui del ’41 affermava: la nostra civilta` e` in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia... Tuttavia una cosa e` certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento e assumersi le proprie responsabilita`. Potra` essere lecito sbagliare nel giudicare: non giudicare non e` lecito. Potra` essere lecito agir male: non operare non e` lecito.

Ognuno dunque e` chiamato a scegliere il proprio posto di combattimento o di ricerca, se preferisce, per trovare quel filo mancante che possa facilitare la composizione delle immagini dell’ordito dell’operare dell’uomo moderno. Noi crediamo che questo filo possa essere quello che de

di quel mondo che oggi piu` che mai da` segni di presenza.

Ed e` bene che li dia.

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Psichiatria transculturale

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5 Psichiatria e bioetica Chiara Lalli - Nicola Lalli Parole Chiave sperimentazione; trapianto; espianto d’organo; eutanasia; accanimento terapeutico; statuto dell’embrione; qualita` della vita; dignita` della persona; deontologia; bioetica; etica; colpa metafisica; biotecnologia; tecnologia; legge 644; legge 194; donazione; living will; genetica

Per comprendere l’importanza assunta in questi ultimi decenni dalla bioetica, basterebbe tener presente che nel 1995 il Consiglio Nazionale degli Ordini dei Medici e Odontoiatri (FNOMCeO) aveva pubblicato, dopo un travagliato dibattito, un nuovo codice deontologico che andava a sostituire un codice che, basato sul giuramento d’Ippocrate, era rimasto immutato da decenni. A distanza di soli tre anni, la FNOMCeO, con delibera del 3.10.98, promulga un nuovo codice che rispetto al precedente apporta sostanziali modifiche su molti argomenti, ma prevalentemente sulla modalita` del rapporto medico-paziente. Al di la` di un dato formale che e` la sostituzione del termine “paziente” con quello di “cittadino” o in altri casi di “persona assistita”, c’e` una ridefinizione del rapporto medico-paziente “... in una prospettiva di rispetto reciproco e di fiducia in un’ottica paritaria”. ` una sorta di rivoluzione copernicana, perche´ E pone il paziente al centro del processo terapeu-

tico con piena autonomia e dignita`, in antitesi con il precedente atteggiamento del medico di tipo paternalistico-autoritario. Anche se per chi esercita la psicoterapia non c’e` alcuna novita`: da decenni proponiamo un rapporto basato sulla fiducia, sulla scelta autonoma del paziente e sulla libera autodeterminazione a collaborare nel processo di cura; non ultimo, da sempre definiamo il “paziente” come analizzando, eliminando anche l’ipocrisia del termine di “cittadino” o di “utente”. Quindi per noi nulla di nuovo, certamente rivoluzionario e` il nuovo assetto per il medico che si e` sempre piu` arroccato in un ruolo iperspecialistico ed anonimo. Ma quali sono i motivi di questo cambiamento? Le nuove frontiere tecnologiche e sperimentali, la lotta dei pazienti per acquisire la dignita` di persona e non di casi clinici, la legge sulla privacy e tante altre novita` hanno cambiato quel rapporto medico-paziente che da tempo si era deteriorato

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

nell’incontro tra un medico sempre piu` specialista ed asettico ed un paziente sempre piu` sfiduciato e rivendicativo. Ma sicuramente un motivo determinante e` legato all’avvento di nuove tecnologie che propongono una sfida formidabile che non riguarda solo l’uomo malato ma l’uomo nella sua interezza e nel confronto con il significato della propria esistenza. E questa sfida richiede che il rapporto medicopaziente assuma una nuova raffigurazione ove la autonomia, la autodeterminazione e la fiducia del paziente siano possibili e garantite. Ma cosa c’entra, a questo punto, la psichiatria con la bioetica? I motivi sono numerosi, ma mi soffermo soltanto su due. Il primo riguarda il consenso informato (vedi cap. 50) che per essere valido deve essere fornito da un soggetto nella piena capacita` di intendere e di volere. Ora e` evidente che la incapacita` di intendere e di volere non puo` essere limitata solo ad un banale deficit mnesico o ad una grave infermita` psichica. Per essere capace di intendere e di volere, cioe` per poter scegliere autonomamente e liberamente, quindi per mantenere il principio dell’autodeterminazione, il paziente deve essere visto come persona, come storia, come individuo che puo` scegliere, piu` o meno liberamente, secondo le sue problematiche psicologiche. Questo non vuol dire

che ogni paziente debba avere una consulenza psichiatrica, ma solo che ogni medico deve avere quel tanto di conoscenza dell’uomo come persona, e non solo come entita` biologica, che lo renda capace di comunicare in maniera chiara e adeguata ed essere capace di recepire anche il senso piu` nascosto della comunicazione del paziente. Il medico non puo` essere compreso se prima egli non capisce chi e` il paziente e cosa questi gli dice. Questo presuppone una formazione psicologica e psichiatrica del medico, quali che saranno la sua specializzazione ed il suo operare. Il secondo e` ancora piu` importante. Non e` possibile affrontare problemi come l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, l’inseminazione eterologa, l’interruzione di gravidanza ed altri ancora, senza sapere che queste tecniche o interventi evocano fantasmi, angosce, conflitti, da una parte e dall’altra e che non possono essere sconosciuti o ritenuti addirittura inesistenti. Altrimenti in questo modo ogni ricerca basata esclusivamente sulla biologia del malato sara` una ricerca dimezzata e quindi spesso inutile. La psichiatria, intesa come disciplina che si occupa del mondo interno dell’uomo, sia esso sano che malato, entra quindi di diritto nell’ambito di questa ricerca interdisciplinare che e` la bioetica. * * *

Psichiatria e bioetica

1. Definizione e storia della bioetica In principio la medicina si fornı` di una deontologia, poi venne la bioetica: per comprendere e definire queste due tematiche bisognerebbe ripercorrere le tappe del rapporto medico-paziente come si e` costruito nel corso dei secoli (per ulteriori informazioni vedi cap. 49). Comunque la cultura occidentale ha nel pensiero greco e nella dottrina ippocratica uno dei punti fondamentali di riferimento. Pergameno definiva il medico come “tecnico e filantropo”; Ippocrate lapidariamente affermava che “... il medico che riflette e` simile alla divinita`”. Queste scarne citazioni dimostrano l’essenza della filantropia: un paternalismo responsabile ed illuminato ma anche autoritario, perche´ pone il medico, per statuto, cioe` non tanto per il sapere ma per ruolo, su di un piano superiore rispetto al paziente. Questa posizione si modifica, il che non vuol dire che migliora, con il cristianesimo che ponendo in primo piano la salvezza dell’anima tende a trascurare quella del corpo ed a dimenticare non solo le nozioni empiricamente acquisite, ma soprattutto quella filantropia che di fatto poneva un limite al possibile abuso del medico. E privilegiando, per motivazioni di ordine fideistico, la vita ultraterrena, spesso finiva per considerare la malattia come espiazione e la morte come liberazione dai mali terreni: in questo modo il medico viene sostituito dal sacerdote che assume un potere, tutto immaginario, ma comunque di gran lunga superiore. ` solo con l’illuminismo e con i successivi E progressi nel campo anatomo-patologico, e poi di laboratorio, che la medicina comincia a riprendersi uno statuto di scientificita` e di autorevolezza. Man mano che il potere del medico aumenta, diminuisce sempre piu` la possibilita` da parte del paziente di essere parte attiva, anzi spesso egli diventa oggetto passivo della ricerca. Fino a giungere ad una situazione di una tale gravita` che, dopo questa storia, il rapporto medico-paziente non potra` mai piu` essere uguale. Mi riferisco ai numerosi esperimenti condotti, senza alcuna coscienza ma anche senza scienza,

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da medici che ritenevano poter usare gli uomini come cavie. Se gli esperimenti condotti nei lager nazisti o il nome del dott. Mengele sono diventati simboli di questa strumentalizzazione dell’uomo, non bisogna dimenticare che eventi non meno gravi erano avvenuti ed anche tempo prima, in una parte del mondo che poi si sarebbe opposta a questa barbarie. Non possiamo dimenticare che nel 1924 in Virginia fu promulgata la legge che autorizzava la sterilizzazione di persone chiuse in istituzioni carcerarie o manicomiali «... per evitare la trasmissione di pazzia, idiozia, epilessia, violenza, criminalita`». E poco dopo la California seguı` questo esempio, e ben 11.000 cittadini furono sterilizzati: questo comportamento fu lodato e portato ad esempio dai nazisti. Come non si possono dimenticare gli esperimenti sempre negli USA, e siamo negli anni ’50, di inoculazione di treponema pallidum a soggetti rinchiusi nei penitenziari, senza alcun avviso e senza alcuna terapia «... perche´ si doveva studiare l’evoluzione naturale della malattia». O le tante persone, spesso bambini, sottoposti a massicce dosi di radiazioni per esaminarne le conseguenze. Dopo il processo di Norimberga, nel 1949, fu concordato un codice (Codice di Norimberga) ove si ponevano limiti molto precisi alle sperimentazioni sull’uomo. Successivi incontri hanno fissato regole e protocolli sempre piu` severi: Helsinki (1964), Hawaii (1977), Hong Hong (1989) ecc. Ma in qualche modo quel magico filo, quel rapporto “filantropico” tra medico e paziente, si era irrimediabilmente spezzato. Contemporaneamente con l’inizio dell’era nucleare, il potere tecnologico distruttivo dell’uomo era giunto a livelli tali, da mettere in serio pericolo la sopravvivenza dell’umanita` intera. Non e` strano pertanto che quando le biotecnologie, in tempi brevissimi, renderanno possibili interventi assolutamente impensabili, come la manipolazione genetica, le regole della deontologia non saranno piu` sufficienti, perche´ l’uomo si trovera` di fronte a radicali mutamenti che investiranno non solo il suo statuto di paziente, ma la sua entita` umana. Si sente l’esigenza di porre un limite o perlomeno definire che non tutto cio` che e` possibile

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

(sul piano biotecnologico) e` anche eticamente accettabile. A questo punto possiamo dire che la deontologia cessa la sua funzione piu` che millenaria, per aprirsi ad una nuova disciplina che si situa al confine tra la filosofia, la morale, le discipline biologiche e psichiatriche, per determinare e definire il lecito e l’illecito che fino a poco tempo prima erano stati definiti dai limiti naturali che erano equivalenti di immutabili. Dal momento che la natura puo` essere ampiamente modificata dall’uomo, e` necessario che l’uomo (inteso nella sua globalita` di genere umano) si dia un codice etico molto piu` complesso e di piu` ampio respiro. Anche perche´ le scelte di oggi, piu` che mai, coinvolgono le generazioni future. Si struttura cosı`, da queste premesse, la bioetica che, seppur come neologismo nato solo nel 1971, era gia` da tempo nell’aria.

2. Dalla deontologia alla bioetica Il giuramento di Ippocrate (pur con il dubbio di qualche manipolazione successiva, soprattutto a proposito della proibizione di metodi abortivi) non deve essere eccessivamente idealizzato. Senza dubbio costituisce la base per un corretto comportamento del medico, tuttavia questa correttezza non e` finalizzata solo al paziente, ma serve anche a proteggere la categoria medica da maldicenze o critiche per eventuali comportamenti scorretti soprattutto da parte dei nuovi affiliati. Nel giuramento sono esplicitate alcune norme alle quali il medico deve scrupolosamente attenersi: come il rispetto della vita, il segreto professionale, il mantenere un comportamento adeguato anche al di fuori dell’esercizio della professione e soprattutto “esercitare la medicina in liberta` ed indipendenza di giudizio e di comportamento”. Questo punto segnala chiaramente quanto la categoria dei medici ritenesse la liberta` e l’indipendenza una peculiarita` di questa professione. Liberta` ed indipendenza che non solo stabiliscono che il medico non opera su commissione del paziente, ma soprattutto che non e` tenuto a com-

piere azioni contrarie al proprio codice morale. Principio fondamentale che definisce il ruolo professionale non tanto come terapeutico (terapeuo= sono al servizio), ma soprattutto come medico (mede`ri=rifletto, decido). Ma, in primo luogo, pone il medico in una posizione di autonomia, rispetto al potere politico o alla ideologia dominante. Ed il venir meno a questo imperativo basilare e` quanto e` avvenuto nella prima meta` di questo secolo: deroga determinante nel mettere in discussione il codice deontologico come unico strumento etico-decisionale per il medico. Ma non solo per questo: perche´ il medico nell’ambito delle sue decisioni non puo` non tener conto di due altre novita`. La prima e` che spesso il rapporto tra medico e paziente non e` piu` esclusivo e personalizzato se interviene il “terzo pagante”, sia esso il S.S.N. o una assicurazione privata. Perche´ in questo caso il medico, bene o male, deve tener conto anche di questo “terzo pagante” che spesso puo` dettare leggi in contrasto con l’etica medica. Il non poter assistere un paziente solo perche´ non coperto da una assicurazione e` un dato frequente e che non puo` non far riflettere. Un secondo problema riguarda le risorse sanitarie disponibili e quindi il rapporto costo-beneficio. Senza entrare nel merito della validita` in campo sanitario di una ideologia aziendale, e` pur vero che non esistono possibilita` illimitate di fornire assistenza medica, e pertanto quando c’e` una impossibilita` a poter far fronte a tutte le richieste di terapia puo` sorgere il conflitto se dare una priorita`, e con quali criteri. Se e` vero che negli USA circa il 70% della spesa medica, soprattutto farmacologica, e` impegnata per malati terminali o comunque incurabili, questo e` un dato che, al di la` di facili ideologie, non puo` essere sottovalutato rispetto a un problema di eventuali priorita`. Si pone quindi il problema etico, sociale e politico di come ripartire le risorse sanitarie dal momento che e` sempre piu` evidente che c’e` una sproporzione tra domanda e possibilita` di offerta: che diviene ancora piu` eclatante quando il paziente appartiene alle fasce sociali piu` deboli. E sorge il dubbio che a fronte di questo problema, a volte drammatico, il proliferare di tante

Psichiatria e bioetica

chiese, di tanti telepredicatori che assicurano miracoli facili (e quasi gratis), con qualche preghiera, piu` che dovuto all’emergenza di bisogni “spirituali”, sia semplicemente un falso rimedio ad un problema serio. ` vero che spesso in queste “imprese” circoE lano miliardi, ma forse la speranza di poter avere subito e gratis un “miracolo” rappresenta una motivazione sufficiente e molto diffusa. E anche rispetto a questa “visione del mondo” e` sempre piu` evidente che il medico non puo` essere semplicemente un tecnico, certamente preparato e diligente, ma deve essere una persona aperta ai problemi sociali, etici, psicologici e scientifici che si presentano per le nuove frontiere che si sono aperte e che oltre ai benefici aprono anche seri dilemmi. Quindi se la deontologia (e ben fanno gli ordini professionali a pretendere corsi ed aggiornamenti continui) e` importante per l’operare del medico e per un corretto rapporto con il cittadino-paziente, il medico deve porsi problemi che vanno ben oltre, e deve confrontarsi con tutte quelle problematiche che costituiscono l’essenza dell’uomo. Quando i medici si renderanno conto che la malattia non e` solo biochimica, ma e` il momento di crisi di una storia, di una biografia, di una vita che ripiegandosi su se stessa si deve interrogare non solo sul senso del passato, ma anche sulle scelte del futuro, allora la deontologia inevitabilmente si identifichera` nell’etica in generale e nella bioetica medica in particolare.

3. Dall’etica alla bioetica Il termine bioetica compare nel 1971 ed e` utilizzato dall’oncologo V.R. Potter per esprimere la necessita` per lo scienziato e per il medico, posto di fronte a radicali mutamenti nel campo biomedico, di riconfrontarsi con la cultura, i valori morali, le scienze biologiche, in un’ottica di umanita` e di concretezza. Nel tempo questo termine si e` imposto, pur con valenze diverse. Ma quali sono gli strumenti epistemologici, descrittivi ed operativi che possono codificare cio` che si deve fare e cio` che si

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deve proibire? Si puo` rispondere: la legge come promulgazione di divieti e\o di diritti, concordati democraticamente in sede parlamentare. Ma in una societa` che diventa sempre piu` complessa per modelli religiosi, culturali e sistemi di valori diversi, il rischio e` quello di creare una sorta di monolitismo etico magari camuffato. Per evitare questo rischio sempre maggiore in una societa` con una informazione globalizzata ed omogeneizzata, si tende a far prevalere il principio della responsabilita` e della autodeterminazione: ritorneremo su questi due concetti fondamentali, soprattutto per comprendere il rapporto con lo smisurato potere della tecnica che in molti casi ha eliminato uno dei fondamenti dell’etica, il senso di colpa (K. Jaspers). Ma prima di giungere a questa complessita` che e` molto moderna, possiamo forse riproporre un concetto fondamentale di Aristotele. Il filosofo affermava che nelle questioni etiche bisogna essere ragionevoli, piuttosto che insistere su di un tipo di esattezza che la natura dei casi non permette. Quindi scadere in un banale relativismo etico che puo` portare ad una morale permissiva e senza frontiere? La frase di Aristotele deve essere considerata esclusivamente come affermazione del principio che l’etica non puo` essere dogmatica, se non vuole essere violenta. Questo riferimento ad Aristotele serve anche a introdurre un problema piu` ampio: il fatto che, prima che nascesse la bioetica, l’etica esisteva da millenni. Non possiamo non rivedere brevemente quali sono state nel corso dei secoli le varie soluzioni, per cercare di dare una risposta corretta al problema: quale bioetica? Pertanto ci proponiamo di delineare brevemente le principali concezioni etiche che possono orientare il dibattito sulle questioni che la bioetica si trova ad affrontare.

3.1. Mezzi e fini: etiche deontologiche e teleologiche Una prima distinzione possibile delle concezioni etiche risiede in un diverso criterio di valu-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

tazione: il riferimento a princı`pi, le etiche deontologiche; oppure la considerazione delle conseguenze, quelle teleologiche. La distinzione tra le diverse etiche in base alla scelta di rinviare a dei princı`pi piuttosto che alle conseguenze delle azioni, e` ad esempio centrale nel pensiero di Max Weber. Weber sottolinea non tanto la diversita` di due tipi di etica, bensı` due piani diversi e in conflitto: il piano piu` propriamente teorico, in cui la riflessione morale si concentra sul discorso dei princı`pi, e quello piu` “pratico”, che rimanda alle conseguenze delle azioni (si pensi alle diverse posizioni di un filosofo morale e di un politico). Tale conflitto tra un’etica dell’intenzione o del puro volere e un’etica della responsabilita` che valuta le azioni in base alle conseguenze e` insanabile. Le etiche dei princı`pi possono rimandare a uno o piu` princı`pi, e questi possono essere assoluti e aprioristici, oppure derivati dall’esperienza e rivedibili. L’etica kantiana e` un’etica strutturata su un unico principio, considerato come assoluto e a priori. Le etiche che si rifanno ad una pluralita` di princı`pi (l’etica cristiana, ad esempio, che rimanda a piu` princı`pi tutti assoluti: i comandamenti divini) si scontrano con la difficolta` di indicare un criterio per ordinare i diversi princı`pi e di offrire una soluzione nel caso in cui due o piu` princı`pi assoluti entrino in conflitto. Vi sono anche etiche deontologiche che non considerano i princı`pi come assoluti, ma come regole derivate dall’esperienza. Le etiche deontologiche, pur nelle diversita` appena accennate, hanno un limite comune: offrire una struttura di riferimento a tutti i fanatismi morali; limite che nasce dall’ignorare le conseguenze delle applicazioni dei princı`pi e nel ritenere criterio determinante della vita morale solo la coerenza con quei princı`pi. Quando l’applicazione di un principio non tiene in considerazione gli effetti e le implicazioni possibili, il risultato puo` essere devastante e la fedelta` ai princı`pi risultare profondamente in contrasto con le condizioni e la realta` degli esseri umani. Le etiche teleologiche costituiscono un tentativo di rimediare a questi eccessi rigoristici, ponendo l’accento su una attenta valutazione delle

conseguenze. Ad una “cieca” fedelta` ai princı`pi si sostituisce la considerazione dei risultati di un atteggiamento o di un’azione. Questo spostamento accentua l’importanza della responsabilita` personale, ma nasconde una incompletezza. Se la valutazione morale si lega alla considerazione delle conseguenze, ci informa sui mezzi, lasciando poi aperta la valutazione sui fini.

3.2. L’etica giusnaturalistica e la legge naturale Secondo l’etica giusnaturalistica gli uomini hanno determinati obblighi e doveri per natura. La legge naturale precede il costituirsi di un’associazione sociale e politica e ne e` indipendente (ricordiamo Tommaso d’Aquino, Grozio, Pufendorf). Essa costituisce l’etica prevalente nella concezione cristiana e religiosa in genere. Il riconoscimento di doveri e diritti propri della natura umana comporta una loro classificazione e casistica. Vi sono diritti, ad esempio quello alla vita di un singolo, che trovano un limite in doveri paralleli, ovvero il diritto alla vita di tutti gli altri. Vi sono i doveri verso se stessi, verso gli altri, verso Dio. Doveri perfetti e doveri imperfetti. Vi e` poi il dovere nei confronti dello Stato. La riflessione su quest’ultimo dovere provoca, nel corso del XVII secolo, la crisi dell’etica giusnaturalistica, in quanto il dovere di obbedienza allo Stato, considerato come essenziale, e` in contraddizione con un dovere altrettanto essenziale: quello di opporre resistenza ad un governo ingiusto. Inoltre, il richiamo alla natura, con le profonde modificazioni delle condizioni di vita degli uomini, diviene sempre piu` ambiguo e meno decisivo. La trasformazione e il passaggio dell’uomo “naturale” all’uomo “culturale”, svuota e rende estremamente complicato il rinviare ad una legge o ad una condizione naturale. La legge naturale non e` dunque piu` in grado di offrire soluzione ai problemi che via via si presentano agli uomini. Basti pensare ai cambiamenti relativi alle relazioni familiari, al mondo dell’informazione, ai progressi tecnologici e scientifici che danno vita ad una serie di problematiche non risolvibili con

Psichiatria e bioetica

il richiamo alla natura umana. Non dimentichiamo che l’etica della legge naturale considera e deve considerare la natura umana immodificabile per poterne derivare doveri e diritti assoluti e validi per l’eternita`. Ma in tal modo le norme risultano essere troppo astratte e generiche.

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vece non accettano alcun vincolo etico. Il criterio etico decisivo rischia in questo modo di diventare un egoismo razionale, che considera e accetta i vincoli di una contrattazione in vista di un’ottimizzazione dei risultati. Il contrattualismo e` comunque costretto a rinviare a dei criteri aggiuntivi, non essendo in grado di esaurire lo spazio dell’etica.

3.3. L’etica contrattualistica Nasce nel XVII secolo come superamento e tentativo di soluzione della crisi dell’etica giusnaturalistica. La natura umana non puo` rappresentare il fondamento della morale e il criterio etico diviene un accordo artificiale, una convenzione: il contratto (pensiamo a Hobbes, Pufendorf, Spinoza, Locke). Una caratteristica del contrattualismo seicentesco e` quella di fondare solo una parte dell’etica, quella relativa alle istituzioni politiche e alle leggi, mentre rinvia a una fondazione diversa per la morale1. Con il XX secolo invece il contrattualismo si presenta come criterio etico non piu` ristretto alla politica e al diritto, ma in grado di indicare i principi etici in generale. Rawls, ad esempio, sostiene che attraverso accordi sia possibile stabilire i principi etici in generale assumendo, allo stesso tempo, un punto di vista generale. Si parla di “contrattualismo ideale” a proposito di Rawls perche´ si possono ricavare soluzioni normative efficaci solo se si accettano dei prerequisiti, ovvero se vengono stabiliti alcuni vincoli tra tutti coloro che sono coinvolti. Come ad esempio il ritenersi cittadini di una medesima comunita`, oppure l’accettare che gli interessi individuali confluiscano nell’interesse generale. Gauthier propone come rimedio un “contrattualismo reale”, secondo il quale l’accettazione del contratto si basa su ragioni prudenziali. Coloro che partecipano al contratto hanno la possibilita` di raggiungere il massimo livello di soddisfazione personale rispetto a coloro che in-

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Ad esempio Locke e Pufendorf rinviano alla concezione giusnaturalistica per quanto riguarda le questioni etiche in senso stretto.

3.4. Un’etica dei diritti Anche questa nasce come correttivo dell’etica giusnaturalistica. Ha origine nel secolo XVII e il suo obiettivo principale e` quello di salvaguardare lo spazio di autonomia individuale dall’ingerenza del potere politico. Per questo i diritti che vengono rivendicati sul piano etico sono essenzialmente diritti di liberta` da difendere dall’intervento illimitato dello Stato: diritto alla vita, alla liberta`, all’autonomia, alla proprieta`, alla resistenza. Le conseguenze sul piano storico sono le varie dichiarazioni di diritti, come negli Stati Uniti o in Francia con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Criticata durante il XIX secolo e nella prima meta` del successivo, vi e` una ripresa dell’etica dei diritti dopo la fine della seconda guerra mondiale, come reazione alla violazione dei diritti dell’uomo in seguito alle persecuzioni e al genocidio. Si e` inoltre assistito a un allargamento dei classici diritti a cui abbiamo accennato, fino ad abbracciare il diritto all’educazione, al lavoro, alla salute, ovvero diritti che non si riferiscono alla dimensione del cittadino, bensı` a quella della persona umana piu` ampiamente intesa. Nella seconda meta` del XX secolo l’etica dei diritti raggiunge il maggiore successo e diffusione nell’opinione pubblica. Questo comporta che le inadeguatezze sul piano teorico vengano aggravate; difatti l’allargamento della sfera dei diritti e il fatto che coloro i quali pretendano di vedersi riconosciuti e garantiti dei diritti siano aumentati non fa che acuire i conflitti. Inoltre assistiamo alla nascita di conflitti in campi finora garantiti da precisi limiti ‘‘naturali’’: il progresso tecnologico e scientifico crea diritti alla vita, alla morte, alla cura. Quale puo` essere il criterio per stabilire

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quali diritti debbano essere garantiti giuridicamente? Come, di fronte a casi concreti, risolvere i conflitti che nascono dai “nuovi” diritti? A causa di queste difficolta` l’etica dei diritti non costituisce una valida teoria, ma rischia di divenire un riferimento tanto frequente quanto privo di un fondamento valido.

continua lotta con la parte di noi che naturalmente tenderebbe ad appagare i propri appetiti e ` un costringimento inle proprie inclinazioni. E terno che non si fa volentieri, e da cui non deriva alcun godimento ma una contentezza di se´, una pace interna e il conforto di non avere “motivo di vergognarsi davanti a se stesso, e di temere lo 3 sguardo interno dell’esame di coscienza” .

3.5. L’etica kantiana e la persona umana L’etica kantiana costituisce un’etica normativa che merita un discorso a parte, anche per la centralita` che la persona umana acquisisce nella speculazione di Kant. Principio fondamentale dell’etica kantiana e` la legge fondamentale della ragion pura pratica: “opera in modo che la massima della tua volonta` possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”2. Questa legge ha valore universale e oggettivo e rappresenta l’unico criterio per un comportamento etico, oltreche´ fornire soluzioni ai conflitti etici. L’universalita` della legge kantiana si e` attirata le critiche di vuoto formalismo, privo di contenuti determinati e incapace di dare indicazioni nei casi particolari. Ma l’universalita` della legge morale si ha solo se il motivo determinante della volonta` e` la forma: solo se si astrae dal contenuto empirico la legge puo` mantenere una validita` universale, solo se la volonta` non e` determinata empiricamente puo` costituire un riferimento per le azioni degli uomini. Un’altra caratteristica dell’etica kantiana e` l’affermazione della sua autonomia. Movente dell’azione etica e` soltanto il rispetto della legge morale; pertanto vengono esclusi ragioni di ordine prudenziale e riferimenti a un senso morale o alla volonta` divina, in quanto sarebbero etiche eteronome. Anche la ricerca della felicita` non puo` essere il motivo determinante della volonta`, e questo comporta la mortificazione di impulsi, desideri, passioni; in una parola, della natura sensibile dell’uomo. Per questo la vita morale e` una

2 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 32.

3.6. Le etiche utilitaristiche Tali concezioni rimandano all’utilita` come criterio per le scelte etiche. La definizione di utilita` e` sempre legata a quella di bene che si deve ottenere. Proprio la caratterizzazione del concetto di bene costituisce uno dei criteri per distinguere le varie forme di utilitarismo. Un altro criterio e` quello che distingue il cosiddetto utilitarismo dell’atto, ovvero l’utilitarismo che considera le singole azioni, da quello della regola, che cerca di estendere il criterio di massimizzare l’utilita` per le norme in generale. Una prima distinzione nel definire il concetto di bene e` di riconoscere i piaceri su basi quantitative piuttosto che riconoscere differenze qualitative. Bentham, ad esempio, considera unico riferimento possibile la considerazione quantitativa del piacere e del dolore. Ma come e` possibile stabilire un criterio di misurazione del piacere? Le critiche mosse al criterio offerto da Bentham riguardano la difficolta` di indicare una base unica di valutazione tra piaceri diversi, di fare confronti interpersonali e soprattutto la scarsa considerazione per una giusta distribuzione del bene massimizzato. Mill propone, per rimediare a queste difficolta`, una differenziazione qualitativa tra i piaceri e insiste sulla sovranita` individuale nello stabilire una gerarchia di piaceri. Questa distinzione qualitativa dovrebbe anche risolvere gli eventuali contrasti che possono nascere tra piaceri diversi, richiamandosi in ultima analisi all’opinione di coloro che conoscono le forme di piacere in gioco. Nel XX secolo il criterio di valutazione si

3

Ivi, p. 87.

Psichiatria e bioetica

sposta sulle preferenze individuali: non c’e` piu` un riferimento comune e oggettivo per la valutazione morale, bensı` il riconoscimento dell’uguale valore di tutte le preferenze di coloro i quali sono coinvolti. Sara` etico quel corso di azione che riesce a massimizzare tutte le preferenze, che possono tendere verso oggetti molto diversi fra di loro. L’utilitarismo delle preferenze valorizza le esigenze di pluralismo e si avvicina a una elaborazione che potremmo definire mista. Accanto al criterio di massimizzare le preferenze si affiancano altri criteri, quali un criterio per selezionare le preferenze in base alla loro universalizzabilita` oppure imparzialita` sostanziale. Si puo` rimproverare all’utilitarismo di trasformare una valutazione di fatto delle preferenze individuali in una valutazione etica, preferenze che magari possono essere inadeguate alle necessita` degli individui che le manifestano e agli individui nella totalita` (pensiamo, come caso limite, ad una persona con intenti distruttivi o antisociali). Una possibile soluzione, secondo alcuni utilitaristi, sta nell’indicare un limite al di la` del quale un aumento della soddisfazione delle preferenze di un individuo comporta un risultato meno soddisfacente della soddisfazione di altri individui che si trovano in condizioni piu` disagiate, al fine di massimizzare le preferenze stesse.

c)

d)

a)

b)

La crescita esponenziale delle nuove biotecnologie che comportano capacita` inimmaginabili fino a qualche anno fa. Il problema della tecnica e del rapporto tra uomo e tecnologia: e` vero che l’uomo ha creato la tecnologia, ma questa sembra sfuggirgli di mano. Non possiamo non sottolineare che questi problemi sono nati anche rispetto all’enorme potenziale distruttivo emerso con la scoperta della fusione nu-

cleare della materia. Per anni il mondo ha vissuto drammaticamente il timore di una fine apocalittica, a causa di una tecnologia con un potere distruttivo mai fantasticato ` vero che le testate atomiche fino ad allora. E avevano bisogno di essere innescate da uomini: ma oltre a non potersi fidare dell’uomo, c’era anche il rischio, non minimo, che comunque l’apparato difensivo potesse “impazzire”. Il problema della globalizzazione economica e della limitazione delle risorse del pianeta terra. Le ideologie religiose diverse e spesso inconciliabili, che portano a tensioni molto piu` forti di quelli che sono sempre stati considerati i motivi di tutti i conflitti: cioe` i problemi economici.

Esamineremo questi vari problemi per capirne le implicazioni e le possibili soluzioni. a)

4. Cosa e` la bioetica Dopo aver considerato molto sinteticamente le diverse soluzioni offerte dalle varie etiche, ritorniamo alla bioetica sottolineando che essa nasce da specifiche situazioni che pertanto devono essere tenute presenti.

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Certamente ci sono possibilita` delle biotecnologie che fanno seriamente impensierire l’uomo circa il suo futuro: tra le tante, la manipolazione transgenica. Comunque, se e` vero che la scienza puo` essere utilizzata per fini utili, ma a volte dannosi anche se non voluti, e se e` vero che mettere al bando l’ingegneria genetica con il pretesto che puo` creare mostri sarebbe come abolire la stampa per evitare che qualcuno pubblichi un “Mein kampf”, e` pur sempre vero che molti di questi problemi andrebbero considerati singolarmente e concretamente non alla luce di principi generali: e` quanto cercheremo di fare al paragrafo 4. Da piu` parti si e` manifestato il timore, non infondato, che la tecnologia possa snaturare la natura umana. Dai primi tentativi del luddismo alla critica di M. Heidegger, questa preoccupazione attraversa ripetutamente la nostra cultura. Nel saggio La questione della colpa, K. Jaspers a proposito del nazismo parla di una colpa mai espiata. Ma di quale colpa parla Jaspers? Non certo di quella giuridica che si riferisce alle trasgressioni delle leggi, non di

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quella politica che si riferisce in gran parte agli errori degli uomini di Stato, ma anche dei governati «in quanto ciascuno porta una parte di responsabilita` riguardo al modo di essere governato», non a quella morale «che e` quella a cui noi rispondiamo alla nostra coscienza, per cui i delitti rimangono delitti, anche se vengono ordinati», bensı` alla colpa metafisica. «La colpa metafisica investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie e malvagita` che possono essere inflitte a un proprio simile… Questa colpa ha per oggetto l’infrazione del principio di solidarieta` tra gli uomini… quando l’uomo tratta il proprio simile non come uomo, ma come cosa, non in riferimento alla sua soggettivita` ma in modo oggettivo, come si trattano le cose… Questa e` la colpa metafisica. Una colpa da cui non e` possibile riscattarsi, perche´ cio` che il nazismo ha inaugurato, l’oggettivazione dell’uomo, e` la forma che l’umanita` ha via via vissuto sotto il regime della tecnica che proprio nell’organizzazione nazista ha trovato il suo pieno abbozzo... ` il concetto di efficienza, che l’apporto tecE nico assume come unico e assoluto valore, mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso, per attestarsi sul principio della pura funzionalita` priva di riferimento… La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura aziendale, fa si che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha piu` niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli e` tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui portera` la sua azione» (U. Galimberti). Questa lunga citazione, al di la` di ogni teorizzazione, mostra chiaramente come il processo di parcellizzazione del prodotto finale dell’attivita` umana possa portare ad una ignoranza totale dell’uso di quel prodotto. Gia` K. Marx aveva descritto e definito que-

c)

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sto processo come alienazione, e come caratteristica della modalita` di produzione capitalistica. Questo e` un problema reale e presente, ed il rischio della alienazione-deresponsabilizzazione puo` essere contrastato solo da un processo specularmente contrario: di riappropriazione e responsabilita` del proprio operare Il problema delle limitate risorse, in termini di cibo, riscaldamento, medicinali ecc. e` vissuto drammaticamente ed ogni giorno. Se non possiamo assumerci la responsabilita` di tutto, non possiamo neanche non tenere presente che nel piccolo ogni nostra scelta (e quindi anche terapeutica in termini di costi e impegno) deve tener conto di un aspetto piu` ampio. E qui mi riferisco con chiarezza a un problema tipico della mentalita` medica occidentale: l’accanimento terapeutico, che e` inutile sul piano economico, violento sul piano della persona. Le ideologie soprattutto religiose, che assumono spesso aspetti di radicalismo fanatico, non possono essere sottovalutate nell’ambito di questioni generali sulla bioetica: soprattutto quando queste ideologie riguardano centinaia di milioni di uomini.

Definiti questi ambiti generali del problema possiamo ritornare al nostro settore piu` specifico che potremmo definire bioetica medica, perche´ riguarda gli specifici problemi del trattamento medico o di quelle biotecnologie che potrebbero avere ripercussioni sull’uomo. Secondo G. Durand, le definizioni possono essere numerose: • •



La bioetica e` la ricerca etica applicata ai problemi posti dal progresso medico. La bioetica e` lo studio interdisciplinare dell’insieme delle condizioni necessarie per una gestione responsabile della vita umana (o della persona umana), nel quadro dei progressi del sapere e delle tecnologie biomediche. La bioetica e` la ricerca di soluzioni ai conflitti di valori che si presentano nel mondo dell’intervento biomedico.

Psichiatria e bioetica



La bioetica e` la scienza normativa del comportamento umano accettabile nell’ambito della vita e della morte.

Tutte queste definizioni contengono una gran parte di verita`, il che testimonia la complessita` dell’argomento. Ma forse, piu` che parlare di problemi in generale, e` piu` utile evidenziare situazioni specifiche, e questo per due motivi. Il primo e` che proprio nel proporre un problema specifico si evidenzia la possibilita` di una soluzione o comunque di una dialettica costruttiva. Il secondo, strettamente connesso, e` l’impossibilita` di partire da enunciati dogmatici da cui far discendere, con semplice processo deduttivo che spesso e` un puro sillogismo, la soluzione di casi complessi che a volte richiedono nuovi strumenti di conoscenza e di riflessione. 4.1 Casi particolari Accenniamo ad alcune situazioni paradigmatiche che sono emblematiche per la riflessione sulla bioetica. 4.1.1 Sperimentazione sull’uomo

` inevitabile che a volte, nella ricerca clinica, E sia necessario utilizzare l’uomo per la sperimentazione, poiche´ le prove di laboratorio o quelle tossicologiche sugli animali non possono fornirci ulteriori informazioni. ` ovvio che una sperimentazione puo` essere E giustificata solo nell’interesse della scienza e se il rapporto tra rischio-beneficio e` accettabile. In questi casi e` basilare il principio di autodeterminazione e di libera scelta da parte del paziente: tanto che non e` lecito utilizzare persone che potrebbero essere indirettamente condizionate, come persone in situazioni coattive (detenuti, minorati mentali ecc.) o che si prestino dietro compenso economico. Per offrire maggiori garanzie esistono specifici comitati, esterni alla sperimentazione, che valutano il rispetto delle norme deontologiche. Comunque un problema etico si pone quando la sperimentazione richieda uno studio clinico

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controllato con l’uso di due gruppi: uno trattato con la sostanza attiva, anche se non perfettamente conosciuta, e l’altro con una sostanza placebo che e` sicuramente inattiva. ` lecito che un gruppo di pazienti non sia sotE toposto, per un certo periodo di tempo, ad alcuna terapia? Normalmente sembra che questa situazione sia accettata, perche´ il beneficio generale che deriva dalla certezza di una sostanza come terapeutica puo` compensare il danno che deriva da un mancato trattamento. Ma questa deve essere riservata a casi strettamente necessari. In campo psichiatrico e` inaccettabile che si continuino a fare esperimenti di questo genere, quando si sa benissimo che la differenza tra uno psicofarmaco e l’altro e` assolutamente minima. In questi casi il motivo non e` scientifico, ma commerciale: dimostrare “scientificamente” risultati che gia` si conoscono a priori. Problemi piu` complessi possono nascere quando una terapia viene definita tale su di una base empirica, e quindi in assenza di qualsiasi sperimentazione. Il caso Di Bella e` certamente emblematico e i contrasti e le polemiche, sopiti ma non cessati, hanno evidenziato i problemi deontologici connessi soprattutto alle diverse posizioni circa il concetto di terapia e di verifica. In questo specifico caso, e non e` pensabile che non si possano ripresentare casi analoghi, sembra che il principio di autoderminazione e di libera scelta del paziente abbia finito con il prevalere: comunque le polemiche non sono terminate e certe posizioni rimangono inconciliabili.

4.1.2 Eutanasia. Accanimento terapeutico

Uniamo queste due situazioni che sembrano contrapposte, ma in effetti sono strettamente legate perche´ nascono da posizioni rigidamente pregiudiziali e sono fortemente influenzate da fattori emotivi. La parola eutanasia fu utilizzata da F. Bacon, che nel Novum Organum cosı` si esprime: «Compito del medico non e` solo quella di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare le sofferenze... ed i medici se non vogliono mancare al loro ufficio, e quindi all’umanita`, dovrebbero acquisire

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l’abilita` di aiutare i morenti a congedarsi dal mondo in modo dolce e quieto...». Questa posizione di Bacon, condivisa da altri filosofi come Hume e Kant, e` invece spesso rifiutata dal medico e non solo per motivi deontologici o ideologici. Troppo spesso il medico esperisce la morte come una sorta di insuccesso personale e pertanto reattivamente si “prodiga” in un accanimento terapeutico che e` assolutamente ingiustificato per il paziente. L’eutanasia puo` essere attiva o diretta, e passiva o indiretta. Nel primo caso il medico di fronte ad una situazione di grave sofferenza di un malato terminale, e su precisa richiesta, somministra un farmaco letale. Per questo si parla anche di suicidio assistito. Il problema dell’eutanasia e` strettamente collegato al concetto di vita: se si ritiene la vita come valore “sacrale” e` ovvio che l’eutanasia e` l’equivalente di un omicidio; se prevale il concetto di dignita` dell’uomo e di qualita` della vita, puo` essere un gesto terapeutico, anche se non sempre il medico, pur accettando il principio, potrebbe essere in grado di metterlo in atto. Le posizioni su questo problema sono spesso antitetiche: a volte vengono risolte con l’emanazione di leggi che approvino l’eutanasia, che altrimenti resterebbe un reato: come e` avvenuto per esempio in Olanda nel 1994. Comunque anche se nella maggior parte delle nazioni non esiste una legislazione del genere, non si puo` dimenticare che spesso l’eutanasia attiva viene eseguita da medici che a volte preferiscono l’anonimato, in altri casi si autodenunciano, soprattutto per porre all’attenzione pubblica questo problema. Per eutanasia passiva si intende invece la sospensione di quelle cure che manterrebbero il paziente in uno stato di vita vegetativa: si tratta pertanto di pazienti che vivono solo grazie ad apparecchiature speciali. In questi casi, le posizioni sono meno contrastanti anche perche´ alcuni studiosi cattolici accettano questa possibilita`: “nell’imminenza di una morte inevitabile si puo` rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario della vita”. Pertanto sembra esserci una minore conflittualita` circa la liceita` dell’eutanasia

passiva, comunque sorgono problemi di natura diversa. Se il paziente e` in coma chi puo` dare l’autorizzazione? Non certo il paziente: quindi dovrebbero assumerne la responsabilita` i familiari o eventualmente un giudice tutelare. E questo potrebbe non essere accettato dai familiari o dall’autorita` giudiziaria, ma soprattutto ci si potrebbe trovare di fronte al rifiuto da parte del medico di attuare l’eutanasia. All’estremo opposto dell’eutanasia (attiva o passiva) si pone l’accanimento terapeutico, che consiste nella irragionevole ostinazione a continuare una terapia anche quando si ha la sicurezza che non ci sara` alcun miglioramento, anzi che si prolungera` solamente la sofferenza del paziente. Certamente si puo` obiettare che non c’e` mai una sicurezza assoluta (ma perche´ in medicina c’e` la sicurezza assoluta?), ma questa e` una banale razionalizzazione. In effetti l’accanimento terapeutico deve essere visto come una perversione dell’atto medico che spesso e` legata a problematiche piu` o meno inconsce del medico (vedi Cap. 49, par. 1) e che trova una sua prima manifestazione, forse meno grave, nella tendenza alla medicalizzazione nei confronti di persone che presentano solo piccoli disagi o malesseri, con un costo elevatissimo per il paziente e per la societa`.

4.1.3 Trapianto d’organi

Da alcuni decenni e` possibile attuare il trapianto d’organi da donatori viventi e sani oppure da soggetti che presentano morte cerebrale. Questa possibilita` deve essere vista nell’ottica di migliorare la qualita` della vita: basti pensare a cosa significa un trapianto di rene per un paziente dializzato. Nel 1975 la legge 644/75 ha cercato di regolamentare questo complesso problema soprattutto cercando di evitare che il trapianto si trasformasse in commercio d’organi. Solo nel marzo ’99 una serie di articoli di legge hanno fornito precise normative in questo campo. In primo luogo ogni soggetto maggiore dei 18 anni puo` subire un espianto in caso di morte cerebrale, a meno che non abbia precedentemente

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disposto in maniera contraria. Se manca un preciso divieto vale la regola del silenzio-assenso. L’espianto puo` avvenire solo in presenza di accertata morte cerebrale e non possono essere trapiantate ne´ le gonadi ne´ l’encefalo. Per i minori e` necessario l’assenso congiunto dei genitori. ` possibile l’espianto da donatori vivi solo E per il midollo osseo, il rene ed il fegato. ` evidente che questa legge favorisce l’eE spianto, soprattutto dal momento che in Italia per motivi vari, di indole culturale e forse religiosa, i favorevoli sono poco numerosi. Comunque la legge tutela sia l’assoluta certezza della morte cerebrale, tramite una e´quipe medica che la deve certificare, sia la proibizione di un possibile commercio d’organi. Infatti il prelievo puo` avvenire solo in una situazione di gratuita`: non a caso si parla di donazione. Come si vede, in questo caso la normativa ha cercato di bilanciare il rispetto per il proprio corpo, il principio di solidarieta` e il miglioramento della qualita` della vita per il paziente che riceve il trapianto.

4.1.4 Statuto dell’embrione

Sotto questo titolo generico e` compresa tutta una serie di problemi che riguardano la fecondazione artificiale, l’ingegneria genetica, la sperimentazione sull’embrione, fino alla interruzione volontaria della gravidanza. Non ci soffermeremo su queste problematiche complesse, e spesso anche molto difficili da proporre, rimandando ai numerosi libri sulla bioetica (come per esempio G. Milano: Bioetica. Dalla A alla Z, Feltrinelli); ma semplicemente vogliamo sottolineare che dietro questi problemi che implicano la biologia, la medicina, l’etica si aggirano fantasmi ed angosce che spesso rendono queste tematiche ancora piu` conflittuali. Come non pensare che dietro il problema dell’ingegneria genetica non si nascondono i fantasmi di dar luogo a un ipotetico Frankenstein? Non a caso questa tecnica sofisticata e complessa viene comunemente definita “manipolazione genetica”. O come dietro il discorso della clonazione si

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nasconde il terrore per il doppio, quel doppio che rappresenta l’opposto dell’individualita` e quindi l’angoscia della non esistenza. Non e` un caso che presso alcune culture si ritiene che vedere una persona totalmente uguale a noi e` presagio di morte. Come non pensare che l’angoscia sottesa alla fecondazione eterologa che, in nome di princı`pi, spacca maggioranze politiche, non e` altro che l’antichissimo problema del “mater semper certa, pater incertus”? Ma come non pensare a quali problemi psicologici possa avere il bambino nato da una madre che potrebbe essere sua nonna? ed in questo caso non sono fantasmi, ma problemi reali. In questa sede vogliamo soffermarci invece esclusivamente sul problema della interruzione volontaria di gravidanza. La legge 194/78 del 1978 ha reso legale l’interruzione volontaria di gravidanza entro il 3˚ mese, su richiesta della donna e purche´ sia dimostrato che il proseguimento comporterebbe un danno alla salute fisica o psichica della donna. Come si vede, la legge offre ampie possibilita` e pone al centro della scelta l’autonomia e la liberta` della donna: e` ovvio che questa legge ha suscitato numerose polemiche, tanto da dover essere riconfermata, nel 1981, da un referendum. ` ovvio che la legge cercava di evitare gli E aspetti piu` negativi di un fenomeno esistente da sempre: come il mercato nero, il rischio spesso letale collegato a interventi eseguiti da persone non qualificate, l’impossibilita` a volte di poterlo eseguire, pur in presenza di motivi estremamente validi. Ed e` evidente che i legislatori abbiano tenuto presente che l’aborto e` pur sempre un grave trauma psichico che spesso lascia tracce indelebili, o che non dovesse essere usato come una sorta di contraccezione tardiva. Comunque il legislatore si trovava di fronte a vari quesiti e non del tutto secondari. Il primo era stabilire i diritti della donna e quelli dell’embrione e quali dovessero essere prioritari: sono stati privilegiati quelli della donna e credo che bene abbia fatto il legislatore, soprattutto se si pensa che ancora oggi numerosi studiosi sostengono che l’ovulo fecondato e` gia` una

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persona, non solo in termini biologici, ma addirittura legali. Il secondo era di tener conto della liberta` del medico e di rispettare quindi il suo credo ideologico o religioso. Ed infatti tutti coloro che non sono d’accordo possono, tramite l’obiezione di coscienza, esimersi dal fare interventi abortivi. Credo che questa legge valga qualche riflessione in tema di bioetica. Sicuramente e` una legge equa, non dogmatica, che rispetta la liberta` sia della donna che del medico. Questa legge non ha favorito l’aborto, ma ne ha solo limitato gli aspetti deteriori: forse il futuro potrebbe rendere, a causa di una migliore educazione e conoscenza della sessualita`, questa legge obsoleta. Ci sembra necessario riportare alcuni dati. Il primo e` che, rispetto al 1982, nel 1997 gli aborti sono diminuiti del 40%. Inoltre di fronte a notizie allarmistiche dei mass media, con qualche “esperto” sempre pronto a fare da ‘‘palo’’, circa la possibilita` di sopravvivenza del feto dopo la 28˚ settimana di gravidanza, bisogna ricordare che tale possibilita` e` appena dell’1%. Certamente bisogna tener conto anche di questa eventualita`, per quanto rara, ma non ci sembra lecito parlare di “omicidio’’, soprattutto tenendo presente le statistiche: il 99% delle donne che si sottopongono a I.V.G. lo fanno entro le prime 12 settimane. Questi dati dovrebbero indurre a una riflessione circa quello che si puo` definire come la legge del “progressivo aggiustamento”: nel tempo, se si evitano inutili crociate e dogmatici princı`pi, il cittadino tende a utilizzare lo strumento tecnico con sempre maggior cautela e comunque sempre in misura minore. Da questo rapido excursus sembra evidente che la bioetica si trova ad affrontare, in una ricerca che deve essere interdisciplinare, quattro aree fondamentali per la riflessione sull’uomo: a) b)

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il concetto di vita umana: quale l’origine ed il significato; la qualita` della vita: quali sono i limiti al di sotto dei quali la vita non e` piu` umana, ma pura sopravvivenza biologica; i diritti della persona malata come l’autono-

d)

mia, l’autodeterminazione, la dignita`, il diritto di accesso alle cure; lo statuto dell’embrione.

Rispetto a questi quesiti fondamentali, come vedremo, non esiste un parere comune e pertanto non esiste una bioetica, ma esistono diverse bioetiche. ` inevitabile scegliere. E

5. Quale bioetica? Precedentemente abbiamo visto che nel tempo si sono susseguite etiche normative e descrittive molto diverse tra loro; e` quindi normale che possano esistere bioetiche diverse. Senza voler essere riduttivi, possiamo ritenere che le varie posizioni possono raggrupparsi in due filoni principali: la bioetica dogmatica e la bioetica laica. La bioetica dogmatica, ispirata in genere da visioni religiose della vita, si propone in modo molto chiaro e schematico: esistono alcuni princı`pi che non sono dati dall’uomo, ma che sono dati all’uomo che vi si deve sottomettere. Utilizza una logica deduttiva, e anche quando sembra permissiva nella forma, rimane dogmatica nella sostanza. L’etica laica, pur in forme diverse, si pone come alternativa, soprattutto perche´ accetta il principio del pluralismo. Quindi l’etica laica non e` antireligiosa, ma antidogmatica: pluralista vuol dire semplicemente tener conto delle diverse posizioni, senza scadere in un banale relativismo etico. Questi principi sono stati esposti in maniera molto chiara nel “Manifesto di bioetica laica” (vedi bibliografia) che condividiamo e di cui riportiamo i passi salienti. La visione laica considera il progresso e la conoscenza come un valore etico fondamentale e nella conoscenza vede la fonte principale del progresso umano. Ed il progresso umano, nel bene o nel male, e` fatto dagli uomini, ed anche la stessa natura e` un concetto culturale e non una entita` fissa ed inamovibile. Pertanto il principio che fonda le scelte e` quello dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

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«Noi pensiamo, tuttavia, che il progresso in quanto tale non sia automatico, ne´ sia garantito ed inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo nella capacita` degli uomini di giudicare volta per volta... Ogni individuo ha pari dignita` e non devono esserci autorita` superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte le questioni che riguardano la sua salute e la sua vita». Un secondo principio e` il rispetto delle convinzioni religiose: «... questo rispetto non ci fa dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per se´ prescrizioni e soluzioni... e non vi puo` essere alcuna derivazione automatica a partire dalla fede». «Un terzo principio e` quello di garantire agli individui una qualita` della vita molto piu` del principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica. Se vi e` un senso nella espressione “rispetto della vita” questo non puo` risiedere nel separare il concetto astratto di “vita” dagli individui, per morire con il minimo di sofferenza possibile... Il quarto principio e` garantire ad ogni individuo un accesso alle cure mediche che siano dello standard piu` alto possibile, relativamente alla societa` nella quale vive ed alle risorse disponibili». Crediamo che sulla base di queste affermazioni si puo` tentare di dare una risposta ai quattro quesiti fondamentali per la bioetica. a)

b)

La vita umana e` una complessita` biologica e psicologica che nasce e si sviluppa all’interno del contesto umano. Non esiste una origine trascendente e quindi il concetto di “sacralita`” della vita e` puramente astratto. La qualita` della vita e` definibile in base ai principi di autonomia, autodeterminazione e rispetto della dignita` della persona umana. Una vita puramente vegetativa, una vita solo di sofferenza e senza alcuna speranza, e` la negazione della vita umana. La qualita` della vita non e` un valore astratto, ma si definisce rispetto a se stessi e a come si era prima della malattia che, se e` sicuramente incurabile e comporta sofferenze tali da renderla inaccettabile, diventa una negazione della vita umana.

c)

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` interessante notare che coloro che parlano E di sacralita` della vita tendono a negare ogni importanza alla qualita` della vita e viceversa. La persona malata ha il diritto di scegliere, determinarsi, accettare o meno le proposte terapeutiche: in piena consapevolezza, ha diritto di decidere come morire, come ha il diritto di accesso alle cure. Sicuramente l’ovulo fecondato ha enormi potenzialita`, ma deve percorrere un iter ben preciso: come annidarsi nell’utero, poi crescere seguendo un preciso piano biologico, per poter diventare una entita` autonoma quale e` solo al momento della nascita (anche se prematura).

Considerare l’ovulo fecondato come persona e` una aberrazione, come rispettare l’embrione evitando qualsiasi manipolazione o sperimentazione e` un dovere dell’uomo. Ma anche considerare l’ovulo fecondato come “vita” e` una aporia, perche´ anche il gamete e` “vita”, ma non puo` essere definita “vita umana”. ` comunque necessario cercare di definire E quando l’embrione non puo` essere sottoposto a manipolazioni o sperimentazioni. Una soluzione che al momento sembra logica ed accettabile e` quella proposta dalla commissione Warnock, che ha indicato come limite il 14˚ giorno. Dopo questo periodo non e` possibile piu` alcuna sperimentazione, perche´ l’embrione comincia ad assumere una identita`, anche se minima. ` una posizione al momento accettabile. E Quando diciamo al momento vuol dire anche tener conto della possibilita`, sulla base di nuove conoscenze, di poter cambiare opinione.

6. Dai princı`pi al diritto ` evidente che la scelta tra diversi comportaE menti e` lasciata alla libera autodeterminazione del soggetto, a meno che non esistano precise leggi al riguardo. Le leggi possono vietare o imporre o anche proporre, con apposite modalita`, la liceita` di certi comportamenti che altrimenti costituirebbero degli illeciti. Per esempio in Italia la legge vieta l’eutana-

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sia, impone l’intervento del medico in casi di urgenza, propone la possibilita` della I.V.G. Data la complessita` della materia, spesso il legislatore tende a non intervenire su specifici problemi, rinviando la scelta a princı`pi generali, ma spesso si finisce con il creare un vuoto legislativo, piuttosto pericoloso, come per esempio in Italia e` il problema della fecondazione eterologa o gli altri sistemi di procreazione. Il rapporto fra etica e diritto non e` stato mai completamente definito ed in linea di massima, a lungo, sono rimasti due settori distinti. «... La corrente probabilmente dominante nella filosofia del diritto del ventesimo secolo, vale a dire il positivismo giuridico (Hans Kelsen) o il realismo giuridico (Alf Ross), ha fatto valere una distinzione netta tra etica e diritto riferendosi ad una lunga tradizione, secondo cui l’etica era ridotta alla preoccupazione ed alla considerazione dei rapporti interpersonali, mentre il diritto era concepito come l’aspirazione al mantenimento di un ordine sociale creato da un dominatore potente... Nella sua forma piu` democratica quest’ordine e` stabilito come l’insieme delle regole delle azioni umane, in modo che ciascuno possa divenire tanto libero quanto e` possibile, senza impedire agli altri di esercitare la medesima liberta`. Cosı` la legge diviene un sistema di protezione di tutti contro tutti» (P. Kemp). A lungo il diritto ha oscillato tra una posizione positivistica, ove la legge si limita a codificare i comportamenti esistenti ed accettati, ed una naturalista, ove la legge diventa l’espressione codificata di princı`pi “naturali” che sono evidenti ed immutabili. Ad esempio l’imperativo “non uccidere” puo` essere considerato un principio universale, anche se esistono alcune limitazioni, come ad esempio la legittima difesa. Negli ultimi decenni pero` il diritto si e` sempre piu` spostato su di una posizione che si potrebbe definire umanista: cioe` tener conto di quei valori che sono fondamentali e costitutivi di una cultura (o di una nazione), ma anche delle nuove esigenze man mano che queste emergono per mutate situazioni. Ma i problemi posti dalla bioetica tendono ad una ulteriore trasformazione. «A partire dal momento in cui l’etica si e` estesa dalla preoccupazione per tutti i viventi, dal

corpo propriamente umano alla natura tutta intesa e a partire dal momento in cui una legislazione o una pratica giuridica decidono i limiti agli interventi sulla vita degli essere viventi, da allora il diritto non e` piu` semplicemente una sovrastruttura d’ordine sociale dato, ma e` l’espressione della cura e del rispetto che si ha per la corporeita` e per la natura in genere. Possiamo definire questa nuova svolta nella razionalita` etica verso la bioetica come la svolta dalla bioetica al biodiritto. Verosimilmente il termine biodiritto (in inglese biolaw), come il termine bioetica (bioethic), e` un’invenzione americana, che si riferisce all’insieme delle decisioni giudiziarie e/o leggi che riguardano le questioni bioetiche» (P. Kemp). Giustamente l’autore sottolinea come un nuovo diritto, soprattutto nel campo della bioetica, sia nato dalla necessita` delle corti di giustizia di rispondere a quesiti concreti. E noi crediamo che questa sia la posizione piu` giusta che non e` segno di un banale relativismo, ma segnala la necessita` di un dibattito che possa poi far stabilire i limiti: «... ma tali limiti non sono sostenibili in base ad un astratto diritto naturale, ne´ su una prospettiva metafisica o sui costumi tradizionalmente invalsi nella societa`. Ed e` questa la dimensione laica, laicita` intesa non piu` come questione di metodo, ma definita in termini di contenuto: esclusione di premesse metafisiche o religiose che pretendano di valer per tutti» (U. Scarpelli). E sicuramente la discussione su casi specifici, come la tolleranza delle diverse posizioni, porta a soluzioni accettabili. U. Scarpelli nei confronti della legge sulla I.V.G. sostiene: «... ammessa una pluralita` di convinzioni morali, la tolleranza suggerisce una legislazione che consenta agli individui di agire secondo coscienza... Il principio del rispetto incondizionato per la vita, dal quale non si puo` assolutamente prescindere nella coscienza cristiana, sfocia nella intolleranza quando si impone come principio giuridico coattivo, togliendo alla coscienza laica di realizzare la propria morale» (pag. 125). E siamo d’accordo con quanto afferma G. Berlinguer che, in quel momento storico, la 194 era l’unica legge possibile, anzi necessaria.

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Ma sicuramente, pur con incertezze e ritardi, la tendenza da parte del legislatore e` quella di salvaguardare i diritti civili, e soprattutto la possibilita` di autodeterminazione, come dimostra un apposito strumento dell’ordinamento giuridico volto proprio a tutelare le diverse liberta` di scelta: l’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza e` un elemento altamente equilibrante tra rispetto delle leggi e liberta` di scelta: l’esempio piu` evidente e` la possibilita` per il medico che non accetta, per motivi religiosi o deontologici, l’aborto, tramite una dichiarazione di obiezione di coscienza, di non eseguirlo. La situazione diviene piu` complessa quando ci si trova di fronte ad una legge che invece prescrive ` possibile sottrarsi ad un comportaun obbligo. E mento, seppur ritenuto moralmente inaccettabile, quando il sottrarsi costituisce un reato? Socrate e` famoso, oltre che per la maieutica, anche perche´ preferı` subire una condanna ingiusta, piuttosto che fuggire; perche´ la fuga gli avrebbe salvato la vita, ma lo avrebbe escluso per sempre dall’essere cittadino in Atene, ove cittadino significava in primo luogo essere rispettoso delle leggi, anche se ritenute ingiuste. Il problema dell’obiezione di coscienza si puo` porre in numerose occasioni nella pratica medica. In alcuni casi la richiesta del paziente (per esempio l’eutanasia) comporterebbe un illecito, e pertanto il rifiuto del medico non pone problemi. Il problema invece puo` nascere se il paziente chiede un intervento legalmente lecito, ma che il medico, per sua scienza e coscienza, non ritiene utile o comunque deontologicamente corretto. In questi casi, si deve ritenere che il principio di autodeterminazione, se e` valido per il paziente, e` valido anche per il medico, che puo` rifiutarsi si eseguire qualcosa che ritiene deolontologicamente scorretto. «I medici ed in genere tutti i professionisti del mondo sanitario non sono venditori di cure: lo studio medico non e` un negozio, dove il cliente deve essere accontentato. Un uomo arriva e chiede la vasectomia, una donna incinta vuole abortire, una coppia desidera l’inseminazione artificiale ed il medico non dovrebbe far altro che mettere il suo sapere e la sua tecnica al loro servizio? No. Il medico rimarra` sempre moralmente responsabile dei propri atti, respon-

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sabile del bene o del male che fa. Sta a lui quindi giudicare della moralita` dei servizi che presta: valutare la domanda, considerare la natura dell’atto, calcolare i rischi fisici e psicologici, le conseguenze» (G. Durand). Il problema e` di fondamentale importanza: in questo modo si propone che l’atto medico, anche se giuridicamente lecito, non puo` essere automatico. Se il medico dovesse rilevare nella domanda del paziente o un probabile danno per lo stesso, o un comportamento dal medico ritenuto deontologicamente scorretto, deve rifiutarsi (vedi cap. consenso informato)4.

6.1. Il problema dell’informazione Riteniamo che i problemi sollevati dalle biotecnologie debbano essere sottoposti al vaglio di tutti, perche´ interessano tutti i cittadini e perche´ ci sia sulle eventuali scelte un controllo democratico. Ma per fare questo e` necessario che tali tematiche non restino nel chiuso dei laboratori di alcuni gruppi industriali: il rischio che si crei un monopolio tecnico-industriale-politico che decida cose fondamentali per i cittadini, sulla testa dei cittadini, e` reale. Come non e` accettabile che i mass-media, piu` o meno consapevolmente, continuino in questo gioco perverso: proporre notizie eclatanti in prima pagina, come fondamentali o apocalittiche, salvo non parlarne piu` e non dare alcuna notizia

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Queste osservazioni sono perfettamente condivisibili e sono state spesso vissute direttamente nei servizi pubblici, soprattutto dagli psicoterapeuti. Non e` infrequente che di fronte ad una richiesta di psicoterapia, dal momento che mi rendo conto della inconsistenza della domanda, della incapacita` da parte del paziente di poter fare un lavoro su se stesso, ho risposto con un rifiuto, motivato ed articolato ed anche con proposte alternative, ma comunque con un rifiuto. Questo comportamento mi e` stato spesso contestato da alcuni colleghi che adducono l’obbligo di dover “per forza” praticare un atto psicoterapeutico dal momento che viene richiesto, e soprattutto se questo avviene in un servizio pubblico. Continuo ad essere convinto della correttezza della mia posizione. E non solo per un principio di economia, ma soprattutto perche´ un rifiuto motivato diventa una “frustrazione con interesse” e quindi un atto terapeutico (vedi cap. La psicoterapia analitica).

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circa il seguito. Non si puo` parlare per giorni del trapianto di una mano, salvo poi non sapere piu` nulla circa l’esito e gli eventuali problemi insorti. Pertanto e` necessario che si formi una conoscenza approfondita e seria, che ci sia una alfabetizzazione sulle possibilita` e sui rischi di queste nuove frontiere. Qualora la societa` civile non fosse in grado di comprendere i problemi sui quali potrebbero essere chiamati ad esprimersi, qualora non ci sara` una corretta e continua informazione, il rischio e` che si finira` per delegare ad un monopolio di tecnici ed industriali decisioni che riguardano anche il futuro della nostra societa` . Una corretta educazione scientifica e` l’unico antidoto ad apocalittiche visioni o a semplicistiche considerazioni, che possono far comodo sia a tendenze reazionarie sia a speculatori senza scrupoli.

7. Dalla psichiatria alla bioetica Abbiamo accennato alla necessita` di una corretta informazione: ma una corretta informazione non sarebbe tale, perche´ incompleta, se a fronte di queste nuove frontiere non ci ponessimo due quesiti fondamentali. Quali sono i fantasmi, le angosce, le speranze che queste novita` suscitano e come possono incidere sulle eventuali scelte? Qual e` la vera natura umana, dal momento che alcune di queste biotecnologie minacciano di colpire proprio la natura dell’uomo ed il concetto di vita umana? Crediamo che la psichiatria, intesa come disciplina che si occupa del mondo interno dell’uomo anche se prevalentemente nel suo aspetto patologico, puo` e deve essere una interlocutrice importante in questo dibattito. Comunque proprio la conoscenza della patologia psichica induce la psichiatria a chiarire non solo i concetti di norma e di salute mentale, ma soprattutto ad elaborare uno schema di come sia e di come debba evolvere l’uomo sul piano psichico. Il presente Manuale ha fatto di questo principio il proprio filo conduttore, come si puo` evidenziare dai vari capitoli (dal “Modello psicodi-

namico dello sviluppo psichico” alla “Psicoterapia analitica” ecc.). Pertanto in questo contesto non ci soffermiamo tanto sul problema dei vissuti psichici legati a queste novita`: in parte sono state accennati in precedenza. Riteniamo piu` opportuno soffermarci a fare alcune osservazioni sulla natura umana: da sempre dominio esclusivo dei filosofi, dei teologi o di alcune psicologie che spesso sono diventate egemoni, dal momento che esprimono, seppur con altri termini, una visione molto spesso di tipo “religioso”. Quello che possiamo affermare con certezza e` che e` falso che l’uomo nasca come essere perverso e narcisista (S. Freud) o come fondamentalmente psicotico (M. Klein): tesi che rappresenta l’espressione “scientifica” (??) della concezione cattolica, o religiosa in genere, del peccato originale. Il bambino nasce con un enorme potenziale ma anche con una grande fragilita`: caratteristiche che senbrano connotare proprio le possibilita` e i limiti dell’evoluzione dell’uomo. Il bambino puo` sviluppare questo enorme potenziale in maniera sana, oppure nell’iter dei processi evolutivi e delle relazioni interumane, puo` ammalarsi sul piano psicologico: ma questa e` una possibilita` e non un destino precostituito. Se l’uomo non e` perverso o schizoide di natura, e` comprensibile che ci sara` una tendenza da parte del genere umano a preservare queste potenzialita`, ad espanderle, non gia` a distruggerle per principio. L’uomo e` portato a cercare, a conoscere, tanto che alcuni autori hanno parlato di istinto “epistemofilico” dell’uomo. A volte in questa ricerca, in questo desiderio di conoscere e di cambiare puo` aver sbagliato, puo` essere stato aggressivo o distruttivo. Ma non e` questa la sua natura, la distruzione non e` il suo telos. Se accettiamo questo principio basilare, forse evitando ingenui determinismi possiamo pensare che l’uomo tendera`, come nel passato, ad un “progressivo adattamento” alle nuove situazioni e potra` gestirle in funzione di un miglioramento complessivo dell’umanita`. La conoscenza puo` essere fonte di dolore, ma

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anche di piacere: sicuramente non puo` essere considerata come un fatto proibito per principio o ritenuto come fattore di distruzione. In questa visione e` evidente che i valori etici tenderanno a mutare: non esistono princı`pi immutabili, ne´ naturali ne´ metafisici. Da quando la natura e` diventata sempre piu` mutabile da parte dell’uomo, all’uomo tocchera` una sempre maggiore responsabilita` nelle sue scelte. «Il motto cattolico potrebbe essere ‘‘valori etici eterni nelle situazioni nuove’’; il motto laico, “a situazioni nuove forme etiche nuove’’, che e` ispirato dal timore del male che, in situazioni nuove, possono involontariamente produrre forme etiche vecchie» (U. Scarpelli).

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6 Normalita`, salute e malattia: concetti generali Nicola Lalli - Agostino Manzi Parole chiave norma ideale; norma funzionale; norma statistica; guarigione; guaritore; normalita`

La definizione di normalita` e` certamente difficile, ma non impossibile; comunque e` indispensabile, essendo il parametro di riferimento per ulteriori due importanti definizioni: la patologia e la guarigione o, se preferiamo un termine meno categorico, il miglioramento. In Psichiatria, piu` che in altri campi della Medicina, il concetto di normalita` e` sfuggente, soprattutto perche´ nella genesi e nella espressivita` della psicopatologia, giocano un ruolo non indifferente fattori culturali e sociali che sono molto vari e diversi. Tuttavia, senza cadere in un relativismo culturale esasperato che porterebbe a riconoscere e definire la patologia, solo all’interno di una specifica cultura e quindi a negare evidenti patologie solo perche´ frequenti in quella cultura, possiamo dire che la relativita` puo` valere solo per disturbi lievi; mentre, per esempio, una depressione endogena e` riconoscibile comunque ed in ogni contesto culturale. Questa distinzione tra disturbi psiconevrotici e psicotici puo` costituire un primo criterio che ci aiuta a definire la patologia e quindi anche la normalita`, nel senso che il disturbo psichiatrico grave non induce a molti dubbi. Un secondo criterio riguarda l’uso del concetto

di normalita` rispetto allo specifico a cui si riferisce. Se dobbiamo utilizzare il concetto di normalita` (o il suo inverso, la patologia) per una perizia o per una ricerca epidemiologica e` necessario utilizzare criteri piu` oggettivi o comunque standardizzati. Se invece lo utilizziamo all’interno di un progetto terapeutico, valuteremo la patologia (ed il suo inverso, la normalita`) anche sulla base della sofferenza del paziente. Comunque possiamo considerare la norma sotto una triplice angolatura. 1)

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Norma ideale, che si riferisce ad un modello convenzionale al quale l’individuo deve adattarsi. Il pericolo maggiore e` costituito dallo scambiare un dato convenzionale per un dato naturale. Norma funzionale, che si riferisce ad un valido funzionamento dell’apparato psichico: il modello che viene ritenuto come normalefunzionale puo` variare quindi a seconda delle diverse teorie sullo sviluppo psichico. Nonostante alcuni pericoli, e` quello piu` clinico e piu` utilizzabile.

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Norma statistica, che si identifica con cio` che e` piu` frequente, confondendo spesso la norma con la media. Il rischio maggiore e` costituito dal non considerare che proprio il tratto medio puo` costituire il tratto patolo` il criterio che viene utilizzato per i gico. E tests mentali, valido per una funzione quale l’intelligenza, molto meno per un giudizio sulla personalita`.

Tutte e tre le concezioni presentano vantaggi e svantaggi. Tuttavia nella valutazione clinica, pur con gli ovvi limiti, noi utilizziamo prevalentemente la norma funzionale. Ed e` raro che due clinici, che pur possono essere in disaccordo su argomenti teorici, siano in grave disaccordo nella valutazione concreta di un caso clinico. Cioe`, se non ci sono mo-

tivazioni ideologiche, pur con qualche difficolta` il concetto di norma e di patologia si evince facilmente. Ma si potra` obiettare che alcuni comportamenti ritenuti patologici nel passato sono ora ` vero, e l’esempio piu` classico considerati normali. E e` la cancellazione dell’omosessualita` come patologia, avvenuta nel DSM-III e nella sua revisione, il DSM-III-R. Ma bisogna tener presente che il DSM-III-R come anche il DSM-IV, si basa su di una norma statistica, la stessa che dovrebbe far considerare normale la carie dentaria, solo perche´ molto frequente. Una patologia molto diffusa non e`, per questo, meno patologica. * * *

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

1. Considerazioni generali «Provate a chiedere ad un uomo molto ignorante come funzioni la luce elettrica, ed egli trovera` che gli avete chiesto una cosa ridicola. Vi rispondera`: “Non avete che da girar la chiavetta”. L’elettricista pratico vi darebbe una spiegazione alquanto piu` tecnica, parlandovi di correnti, di resistenze, di conduttivita`. Ma un fisico, che fosse anche un po’ filosofo, vi confesserebbe modestamente la propria ignoranza. “I fenomeni elettrici” direbbe egli “possono essere descritti e classificati: ma quanto a dire cosa l’elettricita` sia...” e alzerebbe le braccia al cielo. Quanto meglio comprendiamo una domanda, tanto piu` e` difficile rispondervi». Aldous Huxley La salute e` una condizione di cui si ha un’esperienza quasi inconsapevole: sembra coincidere con il fluire stesso della vita. La malattia, come agente che interferisce con questo fluire, sembra svelarla come condizione perduta. Proprio per questa ragione dare una definizione di salute non risulta semplice. Ci si puo` accontentare di dire, seguendo il senso comune, che la salute e` la condizione di assenza di malattia: malattia che si disvela nel negare la salute. In campo psichico, allora, la salute mentale dovrebbe corrispondere all’assenza di sofferenza e di comportamenti anomali. Sappiamo pero` che questo non basta: ad esempio lo psicopatico, il maniacale non grave possono non lamentare alcun malessere, avere un comportamento non dissimile da quello degli altri e non per questo possono essere considerati soggetti normali: la loro anormalita` risulterebbe evidente ad un attento esame psicologico o psichiatrico. Ma introducendo il termine di anormalita` e l’idea di confronto stiamo in realta` cambiando la domanda: non piu` cos’e` la salute, ma cos’e` la normalita`. Si tratta, a questo punto, di stabilire dei parametri di riferimento e verificarne il rispetto: il criterio di fondo con il quale sceglieremo i parametri stabilira` quale normalita` stiamo cercando (vedremo piu` avanti che possiamo considerare piu` tipi di normalita` o, meglio, di norma). Ma

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definire cos’e` la normalita` non coincide con il dire cos’e` la salute, proprio perche´ la necessita` di stabilire dei parametri ci allontana dalla possibilita` di avere un approccio concettuale. I criteri di normalita` sono utili ai fini operativi della clinica: e` inevitabile avere una precisa idea di normalita` quando si prospetta un lavoro terapeutico. Ma c’e` anche un aspetto “filosofico” della questione che per sua natura e` destinato a non avere una risposta esauriente e data una volta per sempre: non per questo non si deve provare ad affrontarlo, ed e` quanto faremo piu` avanti presentando i punti di vista di alcuni filosofi che si sono interessati al problema.

2. La salute mentale come acquisizione moderna La medicina moderna orienta sempre piu` i suoi sforzi verso un’azione che non sia soltanto curativa, ma anche preventiva delle malattie. La disponibilita` di sempre piu` adeguate tecniche diagnostiche e di strumenti di prevenzione e di cura ha indirizzato l’attenzione verso la salvaguardia del singolo, affinche´ ci si possa avvicinare a quello “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” che l’OMS ha stabilito come obiettivo da perseguire per ogni individuo. Ma in campo psichiatrico, molto spesso, la cura e la difesa della salute mentale sono state interpretate come necessita` di mantenimento dell’ordine sociale: concetto, quindi, piu` legato al benessere della societa` che a quello del singolo individuo. La psichiatria spesso si e` quindi offerta come braccio secolare del potere, condizione che, se (come vedremo) da una parte sembra essere retaggio della sua stessa istituzione, dall’altra si dimostra essere, con la sua riproposizione anche in epoca moderna, in particolari condizioni di coercizione politica e sociale (come nell’ex URSS), un rischio sempre immanente alla psichiatria, soprattutto quando questa non si da` un preciso statuto teorico e scientifico. In origine il malato di mente, come il malato di colera o di peste, sembra minare la salute

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complessiva della societa` e a partire da questo se ne reclama l’allontanamento, l’internamento: la salute e` una questione che non riguarda l’individuo ma la comunita` nel suo insieme; l’individuo, come parte malata, va allontanato nella salvaguardia del benessere generale. Il folle ha, pero`, da sempre suscitato l’interesse di chi si e` occupato dell’uomo, sia in veste di medico che di filosofo. Ippocrate nel V secolo a. C. considerava la follia una malattia del cervello, contrariamente alla comune credenza che il folle non fosse altro che un indemoniato. Gia` Ippocrate, quindi, poneva le basi del dibattito che si sviluppera` nei secoli successivi sull’origine esogena od endogena della malattia mentale. Insieme a medici romani di eta` posteriori (Asclepiade, prima, e Galeno poi) inaugurava quello spirito di conoscenza e di interesse verso la sfera del mentale che, dopo la lunga eclissi che va dall’inizio del medioevo al XVIII secolo, caratterizzera` la medicina moderna. Con il diffondersi del Cristianesimo, sanita` e malattia mentale torneranno ad essere condizioni di scarso interesse medico e di competenza piu` strettamente teologica. La follia ritornera` ad essere la manifestazione di entita` malefiche che hanno preso possesso dell’individuo: la cura, volta a liberare l’individuo dal demonio, prendera` la forma delle piu` crudeli torture e delle condanne a morte, possibilmente condotte dopo la confessione salvifica, da parte degli “indemoniati”, di colpe e misfatti di cui erano ritenuti artefici. In questo lungo periodo il ruolo del folle sembra coincidere con quello del capro espiatorio: l’impotenza dell’uomo di fronte alla minaccia alla propria sopravvivenza dovuta alle continue epidemie che ciclicamente devastano l’Europa, in un contesto culturale in cui si enfatizzano idee quali quelle di colpa, peccato e punizione divina, facilita questa identificazione. Solo nel XVI secolo un medico, Johann Weyer, si batte per riconoscere alla follia lo statuto di malattia mentale, proponendo di distinguere i malati dagli indemoniati. Nel Settecento l’istituzione psichiatrica trova la sua dimensione nell’istituto manicomiale: ai medici non era demandato altro compito se non quello di preservare l’isolamento del malato

stesso. Malgrado l’esistenza di ricoveri specializzati nell’assistenza di categorie precise di emarginati, l’assegnazione all’una o all’altra di queste strutture era basata su criteri poco chiari, spesso casuali, per cui l’indigente, il mendicante, il malato mentale erano confusi in un comune destino di segregazione o di assistenza generica che aveva luogo nei dormitori, nelle case dei poveri ecc. Con la creazione dei primi istituti riservati ai malati mentali si inizia a porre il problema, ancora attuale, della distinzione delle malattie dalle situazioni di devianza sociale e, conseguentemente, della demarcazione dei limiti di imputabilita` del malato mentale. ` da notare che il poter distinguere un comE portamento di semplice devianza sociale (con le difficolta` di delimitare questo ambito) da uno conseguente alla presenza di un disturbo mentale significa dover decidere per la responsabilita` e la punibilita` dell’uno e la non responsabilita` e non imputabilita` dell’altro. In questo senso la scelta dell’internamento demandava alla volonta` del medico il prendersi cura o meno di chi veniva ritenuto malato. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento prevale l’idea che il disturbo mentale sia dovuto a una perversione o a un deficit della volonta`; anche questo concetto tende, pero`, a unificare ogni forma di devianza sociale (anche il ladro, il mendicante possono essere interpretati come individui di poca o perversa volonta`). Alle terapie mediche tradizionali (purghe, salassi, riposo coercitivo ecc.) si affiancano i trattamenti rieducativi, basati sulla restrizione della liberta` attraverso l’imposizione di compiti gravosi da eseguire secondo orari e modalita` rigidi. Lo scopo e` quello di disciplinare la volonta` degli individui per poterne modellare il comportamento; la visione di salute mentale che emerge e` quella espressa da un individuo in grado di controllare a pieno la propria volonta` per asservirla ai codici di comportamento vigenti. Le voci piu` liberali, Chiarugi e Pinel ad esempio, contestano la validita` di questo tipo di trattamenti; Pinel, in particolare, pone la sofferenza del malato al centro dell’attenzione e auspica un impegno da parte dei medici perche´ trovino il modo di restituirgli la ragione. Anche per questi autori, comunque, la salute della societa` sembra dover es-

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sere lo scopo principale da perseguire: se la paura che annichilisce la mente va bandita, Samuel Tuke asserisce che «non ci puo` essere dubbio sul fatto che il principio della paura nella mente umana, quando sia suscitata moderatamente e giudiziosamente, come avviene mediante l’applicazione di leggi giuste ed egualitarie, ha un effetto salutare sulla societa`» (Description of the Retreat, 1813). Con la seconda meta` dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si acuisce lo sforzo di andare oltre l’aspetto fenomenico della malattia mentale per tentarne una conoscenza causale. Due le linee di interpretazione: • •

quella che riconosce la malattia come conseguente ad un danno neurologico; quella che riconosce nella sofferenza psichica il risultato di deficit relazionali, di vissuti traumatici ecc.

Il primo orientamento trova la sua validazione nella scoperta dell’origine infettiva della paralisi generale, entita` clinica riconosciuta nel 1798. L’origine sifilitica di un preciso quadro di disturbo psichico ha spinto verso la ricerca di analoghe noxae capaci di spiegare le altre manifestazioni patologiche che oggi, piu` correttamente, ascriveremmo alla nosografia neurologica. Emil Kraepelin e` l’esponente di spicco di questo approccio; nel suo Trattato vi e` lo sforzo di classificare i malati di mente sulla base di sintomi organizzati per sindromi il piu` possibile omogenee; lo scopo e` quello di facilitare l’eventuale scoperta degli agenti eziologici all’origine delle ` di Kraepelin la unificazione, varie patologie. E come dementia praecox, di una serie di quadri clinici che si caratterizzavano per il precoce, progressivo e irreversibile deterioramento delle facolta` mentali. Un orientamento molto diverso, precorritore di quello psicodinamico, ha radici nell’opera di Anton Mesmer che teorizza la possibilta` di interferire sull’andamento dei disturbi mentali attraverso la relazione interindividuale: l’energia in grado di operare in questo contesto viene individuata nel “magnetismo animale”. A partire dal magnetismo e attraverso le esperienze dell’ipnosi si fa strada l’idea dell’esistenza di una dimensione inconscia della malattia mentale la quale, se op-

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portunamente indagata, puo` aprire la strada a nuove modalita` terapeutiche. Su questa traccia si muovono autori diversi: Charcot, Bernheim, Janet, Freud, Jung. La conseguenza piu` importante e` che, di pari passo alla tendenza sempre piu` interpretativa della malattia mentale, se ne propone una visione eziologica di per se´ psicologica. Ecco allora che il problema salute-malattia assume, nella sfera del mentale, un significato diverso da quello che ha nelle altre specialita` mediche, venendo a convergere elementi di natura molto diversa: biologici, sociali, esistenziali. Al di la` delle differenze e delle conseguenze terapeutiche che ne derivano, il dato da rilevare e` che finalmente l’individuo viene posto al centro dell’interesse; soprattutto sul versante psicoanalitico il problema viene affrontato in una chiave interpretativa che separa l’idea di malattia da quella di colpa (e quindi quella di terapia da quella di espiazione-reclusione). A partire da questo momento si e` andato sempre piu` affermando il concetto della salute mentale come condizione da salvaguardare e da recuperare: la malattia non come destino da accettare, ma come contingenza da superare.

3. Norma, normalita`, salute, malattia: problemi metodologici I concetti di normalita`, salute e malattia erano troppo importanti perche´ rimanessero dominio esclusivo della medicina, da una parte, e della psichiatria, dall’altra. Naturalmente molti studiosi di discipline diverse, come vedremo, si sono occupati e hanno tentato di risolvere queste problematiche con le loro specifiche metodologie: filosofica, sociologica ecc... Comunque, mentre la medicina, nell’affrontare il problema salute-malattia, ha potuto usufruire di parametri misurabili e relativamente stabili, la psichiatria si e` trovata di fronte a una serie di variabili non solo non misurabili, ma anche non sempre confrontabili tra di loro. A fronte di questo problema sono state scelte tre metodologie diverse:

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la prima estremamente riduttiva: e` il metodo clinico che equipara la normalita` psichica con quella statistica; la seconda di eccessiva apertura ad ogni disciplina (in primis la filosofia) con il risultato di frantumare e rendere ambigui i concetti di malattia e di normalita`; la terza e` quella che noi riteniamo essere la piu` valida: fermo restando che il concetto di normalita` -malattia e` finalizzato ad una terapia-prevenzione, e` evidente che questa finalita` se da una parte delimita l’oggetto del discorso, dall’altra gli conferisce un percorso preciso.

Il concetti di salute, benessere, normalita` sono spesso confusi tra di loro creando una confusione semantica. Dobbiamo quindi delimitarli in maniera piu` precisa. Il concetto di salute e` strettamente legato al concetto di funzionalita`-potenzialita`: e` possibile darne, quindi, una definizione. Il concetto di benessere e` legato ad un vissuto totalmente soggettivo, quindi non definibile in maniera oggettiva. La normalita` attiene invece ad un concetto di valore e di conseguenza esprime la conformita` o meno alla struttura culturale e sociale. Questi tre concetti rimandano a discipline diverse come la medicina (salute), la filosofia (benessere), l’antropologia culturale e la sociologia (normalita`).

3.1. L’approccio concettuale Vediamo ora come alcuni autori hanno affrontato le questioni di cui stiamo parlando; lo sforzo e` quello di arrivare a definire la salute e la malattia in termini concettuali. Giorgio Prodi affronta il problema salute/malattia in maniera ampia ponendosi, a suo avviso, nel campo dell’oggettivita`. Il campo dell’oggettivita` viene definito il “dominio naturale-culturale da indagare con i metodi dell’osservazione scientifica”; restano fuori da questa tipo di indagine gli approcci che negano la necessita`, o la possibilita`, di parametri e di riferimenti oggettivi.

Dato un dominio di oggetti ed eventi osservabili, la norma e` data dall’oggetto ideale che lo rappresenta nei suoi parametri medi; questo oggetto e` allo stesso tempo statistico e ideale in quanto non coincidera` con nessuno degli oggetti reali appartenenti al dominio, ma ne assumera` le caratteristiche medie. Questa operazione consegue alla possibilita`, aprioristica, di saper individuare correttamente il dominio e discriminare gli oggetti dell’insieme. Secondariamente e` necessario riconoscere quali sono i valori che i singoli parametri possono assumere per ogni oggetto del dominio. In quanto esistenti, tutti i valori potrebbero essere giudicati normali: la scelta del range dei valori per i singoli parametri puo` pero` essere valutata in funzione delle conseguenze o degli effetti che essi producono. Quindi e` necessario: • •

stabilire i riferimenti oggettivi per gli oggetti su cui determinare i parametri; stabilire i limiti accettabili di variabilita` dei parametri in analisi.

Nel nostro caso, per il primo punto si puo` dire che la discriminante e` l’appartenenza alla specie umana (un criterio filogenetico) ed, eventualmente, a particolari tipologie (ad es.: maschi e femmine). Per il secondo punto, i valori normali dei parametri in esame devono essere considerati quelli per i quali “le strutture e le funzioni possono essere attive nel senso della loro determinazione filogenetica, consentendo la vita”. La normalita` e` cio` che esiste, sia che lo si individui nella specie che nella singola copia: vita e` un’espressione tautologica per norma. La normalita` non e` quindi rappresentabile come una curva gaussiana in cui e` necessario decidere, con una certa arbitrarieta`, la larghezza della base (o la distanza, a destra e sinistra dal valore centrale) ma come un valore-soglia che stabilisce la possibilita` dell’esistenza. La norma e la normalita` coincidono con la determinazione filogenetica. Se un individuo e` un insieme di correlati strutturali e funzionali, la salute e` il risultato vitale di questo insieme. Ogni funzione che si

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

altera compromettendo l’esistenza e` una deviazione verso la malattia: se la malattia e` compatibile con la vita, la norma e` elusa in modo compatibile. La deviazione dalla norma puo` avvenire a tre livelli: •





filogenetico: cio` sul codice genetico che determina le caratteristiche di strutture e funzioni; ontogenetico: cioe` sulla formazione delle strutture (sviluppo embrionale e post-embrionale); fenotipico-ambientale: cioe` sulla funzionalita` complessiva delle strutture formate.

La divisione implica una compenetrazione: l’aspetto fenotipico e` comune a tutte e tre le condizioni cosı` come la noxa ambientale e` quasi sempre alla base di ogni danno. Anche la condizione di salute/malattia mentale si decide ad uno di questi livelli. Negando la contrapposizione tra struttura e funzione, l’autore riconosce che se e` vero che la prima e` il substrato necessario alla seconda, e` anche vero che la seconda e` in grado di indurre lo sviluppo della prima: e` l’attivita`, cioe` la messa in funzione delle strutture, a determinare, anche nell’arco dell’intera esistenza, la loro configurazione piu` funzionale. L’autore prende in considerazione come esempio di attivita` complessa la competenza linguistica; perche´ un individuo sia in grado di acquisirla sono necessari: •

• •

l’integrita` del codice genetico atto a codificare lo sviluppo delle strutture preposte al linguaggio; il normale sviluppo embrionale e post-embrionale delle strutture stesse; il mantenimento nel tempo della loro integrita`.

Ma tutto cio` non basta. Soltanto la interazione tra strutture integre (fattore individuale genetico) e un codice linguistico (fattore ambientale-strutturato) rende possibile l’acquisizione della competenza linguistica, che in ultima analisi e` una competenza relazionale. Il fattore ambientale-strutturato comprende non solo i codici lin-

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guistici, ma anche le modalita` di relazione e gli stimoli che sono presenti nell’ambiente. Il linguaggio e` competenza nell’uso di un codice ma anche contenuto della comunicazione, fine, motivazione, affettivita`. Se il codice e` prodotto da una specifica cultura in un tempo e in un luogo determinati, la competenza linguistica di ogni individuo si pone proprio come conseguenza di questo codice. L’assenza del codice determinerebbe l’atrofia, cioe` il non sviluppo, di questa competenza. Conseguenza di quanto detto e` la negazione di una visione unitaria della malattia in uno schema o tutto organico o tutto funzionale. Per riassumere, vediamo qual e` la definizione dello stato di salute proposto dall’autore: «La salute e` definita come uno stato ottimale corrispondente a funzioni filogeneticamente stabilite che nell’uomo comprendono anche funzioni logiche, affettive, relazionali e implicano sistemi interpersonali e strutture sociali. La condizione piena di questa efficienza filogenetica potrebbe essere chiamata “benessere”. In tale definizione non e` compreso alcun contenuto positivo, che riguardi cioe` quanto venga realizzato attraverso l’efficienza ottimale (ad esempio nel lavoro o nel gioco). Tale contenuto varia col variare delle condizioni e delle fasi della cultura, e certo non puo` essere tipizzato in modo definitivo, e comunque non dalla medicina. Se pero` esso e` costretto alla sclerosi ed e` mantenuto invariato nel tempo, puo` costituire motivo di patologia, perche´ la struttura del singolo deve adattarsi continuamente a contenuti superati. Cio` che effettivamente si realizza non deve essere indifferente o, almeno non deve essere contraddittorio con l’efficienza e lo stato di salute che permettono la realizzazione». Un altro autore, Christopher Boorse, si propone di trovare una definizione di salute che sia in grado di superare quelli che riconosce come i relativismi e i limiti delle accezioni comuni a questa parola. Individua sette condizioni che vengono comunemente utilizzate per descrivere lo stato di salute o, al contrario, di malattia e ne rileva l’inadeguatezza: a)

la salute come valore: cioe` come condizione desiderabile. Se il benessere esprime questa

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b)

c)

d)

e)

f)

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condizione, molte situazioni di assenza di benessere non rientrano nella lista delle malattie, cosı` come molte malattie sono desiderabili in alcune condizioni (ad es.: la miopia per l’esonero dal servizio militare); la malattia come cio` che comporta trattamento medico: e` una discriminante ne´ necessaria (molte malattie non si avvalgono del trattamento), ne´ sufficiente; la salute come norma statistica: per le considerazioni su questo punto si rimanda al paragrafo “Norma e normalita`”; la malattia come disagio e sofferenza: la salute, di contro, come assenza di queste condizioni. In realta`, cosı` come molte malattie anche gravi decorrono a lungo senza sintomi, molte situazioni fisiologiche comportano un certo grado di sofferenza (il parto, le mestruazioni, ecc.); malattia come disabilita`: e` una definizione che non tiene conto delle forti discrepanze presenti tra gli individui rispetto ad alcune “abilita`”, legate, ad esempio, alla prontezza di riflessi, all’equilibrio, ecc. salute come adattamento all’ambiente: presuppone una dipendenza dall’ambiente e la necessita` di essere ambiente-specifici, cioe` di non poter vivere in condizioni diverse; salute come omeostasi: nasce dall’idea di C. Bernard dell’equilibrio del “mezzo interno”. Molte funzioni non sono pero` omeostatiche (la percezione, la locomozione, la crescita) ed e` quindi anche questo un criterio non onnicomprensivo.

L’autore propone una definizione di salute come assenza di malattia. Individuata la classe di riferimento (cioe` un gruppo di eta`, di appartenenza di sesso, di una stessa specie) i cui individui sono accomunati da uno stesso disegno funzionale (cioe` attivita` necessarie alla sopravvivenza del singolo e alla sua riproduzione), la malattia viene definita come un particolare stato interno che rappresenta un indebolimento della normale abilita` funzionale, cioe` una riduzione di una o piu` abilita` funzionali al di sotto dell’efficienza tipica, o una limitazione della stessa in seguito all’azione di un agente esterno.

Secondo l’autore questo approccio e` in grado di risolvere la maggior parte dei limiti che si presentano con altre modalita` di impostazione del problema: •



risolve la discrepanza tra giudizio di malattia e salute come condizione desiderabile perche´ rimanda al disegno della specie: l’emofilia e` una malattia mentre non lo e` l’incapacita` di rigenerare il tessuto nervoso; risolve il problema della definizione dei limiti delle variabili continue: posso definire malattia sia l’ipertiroidismo che l’ipotiroidismo ma non l’incapacita` di vedere al buio (dovrei includere i gatti nella specie umana!).

L’autore propone anche una definizione in positivo della salute; tre i livelli possibili: •





il livello individuale-potenziale: e` la salute come ideale sviluppo delle potenzialita` individuali. Se utilizziamo come esempio la capacita` delle performance atletiche, possiamo dire che la salute corrisponderebbe al potenziamento della forza, della coordinazione, della resistenza, senza necessariamente raggiungere il livello dei campioni olimpionici; il livello specie-potenziale: e` sottintesa l’esistenza di una condizione assoluta di salute; per restare all’esempio delle performance atletiche, possiamo dire che gli atleti olimpionici rappresentano il limite di specie del benessere fisico/atletico; il livello illimitato: ogni miglioramento di funzioni, anche oltre i limiti della propria specie, va nella direzione di un miglioramento dello stato di salute.

In nessuno dei tre casi e` individuabile un limite di espressione dello stato di salute (la salute come utopia individuale, di specie o assoluta). Inoltre non risulta possibile individuare quale sia la direzione salutare dello sviluppo delle potenzialita`; spesso l’incremento di una funzione ne decrementa un’altra: per restare all’esempio, e` impensabile che un buon scattista sia contemporaneamente un valido lanciatore di pesi. Interessante e` l’approccio ermeneutico di Ga-

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damer, che ascrive il problema della definizione della salute a un discorso piu` ampio che riguarda la riflessione dell’uomo sulla propria condizione e sul ruolo e sui limiti della scienza in questa discussione. La salute rimanda all’idea di unita`, a una visione globale dell’uomo: in questo senso la scienza medica, che sul filone della scienza moderna ha disgregato lo scibile in una molteplicita` di specializzazioni atte allo studio e alla cura delle malattie, sembra inadeguata ad affrontare la questione della salute. La salute, quindi, sembra nascondersi: «non e` possibile misurare la salute proprio perche´ essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi, che non puo` essere superato da nessun altro tipo di controllo». Ogni tentativo di misura e ogni proposta di standardizzazione di valori atti a quantificare il benessere assumono il significato di un travisamento dell’idea stessa di salute in quanto, essendo il risultato di convenzioni, si allontanano dall’essenza stessa della natura. Si deve, allora, pensare alla salute in un’ottica diversa: la salute come condizione inconsapevole che nell’atto stesso di perderla (come avviene per l’equilibrio) testimonia la sua inscindibile presenza nella nostra condizione (naturale) di uo` il «ritmo della vita, un processo incesmini. E sante in cui l’equilibrio si ristabilisce sempre». Ma, allora, se non e` possibile misurarla, si puo` provare a descriverla cosı` come la percepiamo: ‘‘come una specie di senso di benessere e ancora di piu` quando, in presenza di tale sensazione, siamo intraprendenti, aperti alla conoscenza, dimentichi di noi e quasi non avvertiamo gli strapazzi e gli sforzi”: quindi la salute non come un semplice “sentirsi bene”, ma come un “esserci , un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita” Come abbiamo visto, il pensiero dei filosofi, pur interessante e costruttivo, non fornisce circa il problema della salute dati o parametri utilizzabili. Sicuramente il merito dei filosofi e` di aver evidenziato il fatto che, ogni qualvolta si cerca di de-

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limitare il concetto di salute, si rischia di diluirlo o di spegnerne l’intensita` di significato. I filosofi sottolineano come il concetto di salute e i metodi di quantificazione siano difficilmente integrabili. Comunque e` necessario, pur tenendo presenti i limiti sopra esposti, cercare di definire alcuni parametri che ci diano la possibilita`, se non di quantificare, per lo meno di delimitare i concetti di salute e malattia. 3.2. Parametri utilizzabili Quando ci troviamo ad affrontare un problema diagnostico in campo psicopatologico, dobbiamo utilizzare tre parametri: il comportamento, il vissuto soggettivo, il mondo interno. 3.2.1. Il comportamento

` la modalita` complessiva sia verbale che non E verbale attraverso cui ognuno di noi non solo si manifesta all’altro, ma indica qual e` il grado di accettazione-conformismo nei confronti delle regole sociali vigenti. L’analisi di un comportamento ci da` informazioni poco utili, se non fuorvianti, sulla condi` zione di normalita` o patologia di un individuo. E necessario tener conto del contesto in cui tale comportamento ha luogo. Riportiamo un episodio riferito da K. Lorenz a dimostrazione di come sia importante quanto detto. Racconta Lorenz che, dopo molti sforzi, era riuscito a farsi adottare come madre da un gruppo di anatroccoli che lo seguivano dappertutto. Un giorno egli girava carponi tra l’erba del suo giardino e, guardandosi indietro, ripeteva frequentemente «qua, qua, qua...» per indurre gli anatroccoli a seguirlo: «...ero molto compiaciuto dei piccoli che obbedienti e precisi seguivano il mio “qua, qua” quando, ad un certo momento, alzai gli occhi e vidi una fila di volti allibiti affacciati sopra la siepe del giardino: un’intera comitiva di turisti mi guardava stupefatto. L’erba alta nascondeva gli anatroccoli e quello che vedevano i turisti era qualcosa di inspiegabile, un comportamento veramente folle».

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Questo episodio testimonia in maniera divertente quali errori di valutazione si possono commettere con un’osservazione di un comportamento che non tenga conto del contesto. Piu` drammatico, ma sicuramente piu` suggestivo, e` il commento di Laing a una descrizione fatta da E. Kraepelin a proposito di una paziente: «Signori... potete vedere una servetta di ventiquattr’anni nelle cui fattezze e sul cui volto sono chiaramente visibili i segni di un grave deperimento. Nonostante cio` la paziente e` in movimento continuo, dato che va sempre avanti ed indietro di pochi passi, si fa la treccia ai capelli per poi scioglierli un minuto dopo. Se cerchiamo di arrestare il suo movimento incontriamo una resistenza inaspettatamente energica: se mi piazzo davanti a lei con le braccia per fermarla, se non riesce a spingermi da una parte, si gira all’improvviso e mi sfugge come per continuare per la sua strada. Se la si afferra saldamente, ella storce i suoi lineamenti per il solito rigidi ed inespressivi, piangendo deplorevolmente.... Notiamo che ella tiene spasmodicamente stretto tra le dita della mano sinistra un pezzo di pane sbriciolato che assolutamente non permette che le venga strappato...». Ascoltiamo il commento di Laing: «Siamo qui in presenza di un uomo e di una ragazza. Se vediamo la situazione unicamente in base al punto di vista di Kraepelin, tutto va subito a posto: lui e` sano, lei e` malata, lui e` razionale, lei e` irrazionale. Cio` comporta che si considerino le azioni della paziente come avulse dall’esperienza che ella ha della situazione. Ma se esaminiamo le azioni di Kraepelin separate dal contesto della situazione quale egli la esperimenta e descrive... lo psichiatra, nelle vesti di quello che e` ipso facto sano di mente, dimostra come il paziente non sia in contatto con lui: il fatto che egli non sia in contatto con il paziente puo` solo dimostrare che c’e` qualcosa che non va nel paziente, ma non mai che ci sia qualcosa che non va nello psichiatra...».

3.2.2. Il vissuto soggettivo

Per vissuto soggettivo ci riferiamo a quel metodo di osservazione che non tende a spiegare,

ma a comprendere l’altro nella sua diversita` e soprattutto a non oggettivarlo in una serie di sintomi e di comportamenti. In questo senso possiamo affermare che e` sicuramente la fenomenologia la disciplina che piu` si e` impegnata in questo problema e che riconosce in K. Jaspers, L. Binswanger, E. Minkowski i principali autori. Anche R.D. Laing, del quale abbiamo citato la critica a E. Kraepelin, appartiene a questo filone. In questa visione il concetto normalita`-patologia non e` basato sui dati comportamentali, ma sullo studio dei vissuti, delle esperienze e delle modalita` di esistere del paziente. «L’attribuire valore determinante ai vissuti e alle esperienze significative che sottendono i comportamenti vuol dire non limitarsi ad un semplice esame esterno del paziente, ma cercare di penetrare il suo mondo mediante quello sforzo di rivivere le esperienze del paziente, modalita` che prende il nome di “comprensione per immedesimazione” o Einfu¨hlung. Cosı` facendo si giunge ben presto ad un limite in ambito psicopatologico, ad un muro contro il quale si spunta l’arma dell’Einfu¨hlung: si tratta di quel limite che separa i vissuti comprensibili da quelli incomprensibili, tipici delle psicosi endogene» (M. Rossi Monti, pag. 136). Questa formulazione comprensibile-incomprensibile dovuta a K. Jaspers avra` enormi conseguenze sulla psicopatologia soprattutto in ordine alla genesi della patologia. Se da una parte fornisce un metodo di distinzione tra processi comprensibili (psiconevrosi, reazioni psicogene ecc.) ed incomprensibili (psicosi endogene), dall’altra, identificando l’incomprensibilita` con un processo organico, rafforzera` la concezione dell’origine biologica delle psicosi. L. Binswanger invece non sara` interessato nella sua Daseinsanalyse (antropoanalisi o analisi esistenziale) a definire le modalita` della patologia, e quindi a formulare giudizi di sanita` o di anormalita`, ma si preoccupera` di indagare e svelare il mondo, anzi i diversi mondi, del malato mentale. Ogni mondo umano e` una possibilita` di esistere e di esprimersi, ed anche la patologia men-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

tale e` un modo particolare di esprimersi ed essere al mondo. Questa posizione ovviamente rinuncia a qualsiasi giudizio di tipo clinico, limitandosi a descrivere, a volte in modo molto minuzioso, la modalita` di essere del malato mentale. Il limite di questa posizione e` la rinuncia alla terapia. Comunque non si puo` rinunciare a dare una serialita`, un ordine a questi diversi modi di esistere che possono articolarsi in un ordine decrescente di liberta`. Al poter-essere come modalita` dell’individuo normale che esprime liberamente le sue potenzialita` dell’essere al mondo e dell’essere con gli altri, si contrappongono due modalita` ove questa potenzialita` e` fortemente limitata. Dall’avere-il-permesso-di-essere a quella molto piu` limitante e coartante dell’essere-costrettoad-essere. «Detto altrimenti, possono essere ordinati a seconda: del poter-essere (posso liberamente essere sottratto al massimo dagli altrui condizionamenti); dell’aver-il-permesso-di-essere (posso essere me stesso, ma solo nel ruolo che mi e` concesso), dell’essere-costretto-ad-essere (non posso essere se non nel segno di un’altrui imposizione). (D. Cargnello, Alterita` e Alienita` , pag. 30). Sempre su questa linea, E. Minkowski giunge a ritenere che nella patologia mentale grave c’e` una differenza di natura che rivela una particolare forma di vita che si svolge secondo un «essere altrimenti». L’antropoanalisi, accanto ad una ricchezza di dati e di osservazioni sulle particolari modalita` di essere delle varie patologie, pone anche un limite che e` quello di non proporre, dopo l’accurata descrizione, una qualsiasi forma di cambiamento (terapia) di questo modo di essere. Affascinante sul piano descrittivo, rimane molto deludente su quello operativo. Molte di queste proposizioni hanno trovato poi una seducente esposizione nelle opere di J.P. Sartre. Riteniamo che gli autori citati debbano essere letti e conosciuti non solo per la ricca descrizione dei vissuti interiori di ogni singolo soggetto, ma anche per il limite preciso di non proporre alcuna terapia.

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3.2.3. Il mondo interno

Corrisponde a quello che noi comunemente ` evidefiniamo struttura o apparato psichico. E dente che parte di questo mondo psichico si esprime attraverso il comportamento e attraverso la soggettivita`, ma non totalmente. Postulare l’esistenza di un mondo interno vuol dire postulare una dimensione inconscia dell’uomo che puo` trovare espressione con diverse modalita`, come ad esempio l’attivita` onirica. ` evidente che parlare di un mondo interno, E in assoluto (in maniera isolata) e` un’aporia. Il mondo interno si evidenzia solo nell’ambito di un rapporto duale dove lo psicoterapeuta e` in grado, sulla base di una sua sensibilita` e di una specificita` acquisita, di enucleare aspetti patologici altrimenti non percepibili. In quest’ottica a noi sembra che il modello medico e` quello che puo` darci una metodologia piu` corretta in ordine all’osservazione globale del paziente. Riteniamo, pero` che il modello medico va superato ed integrato con le discipline che attengono alla soggettivita` e al mondo interno. 3.3. La follia della normalita` Molti autori, in modo solo apparentemente provocatorio, hanno proposto che sia proprio l’adattamento alle norme vigenti ad essere segno di follia e non viceversa. Cosı` facendo hanno ovviamente proposto che sia la societa` ad essere “anormale” nel suo complesso, e pertanto la patologia e` da ascriversi ai meccanismi di relazione sociale che sono di per se´ patologici e patogeni. Questa posizione ha origini antiche. Gia` G.F. Hegel aveva parlato di alienazione nel senso che essa e` presente «...ogni volta che io non mi pongo come soggetto del mio agire, come soggetto che genera e prova sentimenti, ma mi alieno nell’oggetto che produco». Successivamente L. Feuerbach aveva applicato il concetto di alienazione alla religione, constatando che l’uomo «diventa tanto piu` povero, quanto piu` si arricchisce Dio». K. Marx portera` ad una estrema chiarificazione questo concetto, attraverso l’analisi dei meccanismi di produzione della societa` borghese.

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Per Marx l’alienazione e` insita nel meccanismo produttivo per cui «meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e piu` tu hai, piu` e` espropriata la tua vita, piu` tesaurizzi la tua essenza alienata» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844). Successivamente W. Reich cerchera`, in una sintesi psicologico-sociale, di riproporre questa tematica affermando che l’individuo, proprio adattandosi completamente alle regole alienate della societa`, diventa alienato. Questa tematica, anche se piu` sfumata, sara` ripresa nella psichiatria americana da K. Horney, E. Fromm ed altri. Tematica estremamente affascinante che sposta completamente i termini del problema: dall’uomo alienato in una societa` fondamentalmente sana (e che impone determinati valori), ad una societa` strutturalmente patologica, tale che ogni adattamento diventa indice di alienazione e non di sanita`. Abbiamo ritenuto opportuno segnalare questo punto di vista che, per quanto ideologico e poco utilizzabile in clinica, segnala sicuramente un problema importante: come l’adattamento e la normalizzazione possono essere aspetti di una patologia sociale diffusa. A noi sembra che questo punto di vista possa essere integrato in una visione ove la salute mentale (e non quindi la normalita`) e` correlata con lo sviluppo e la creativita` di ogni singolo individuo che riesce pero` realisticamente a tener conto dell’ambito sociale, storico e culturale nel quale e` immerso e vive, senza negarlo o annullarlo. Quindi possono essere patologici sia una ribellione cieca che un conformismo piatto e acritico. La salute mentale non puo` essere considerata come una invariabile assoluta, ma come una modalita` dinamica di rapporto tra un soggetto normalmente evoluto che si incontra (o se necessario si scontra) con i valori, le abitudini, le regole dell’ambiente in cui vive cercando di adattare questo alle sue reali capacita`. L’originalita`, la diversita`, la non accettazione e la tendenza a cambiare sono peculiarita` della persona psichicamente sana. Gli individui sani psichicamente sono diversi tra di loro ed imprevedibili molto piu` del nevro-

tico e dello psicotico, che invece sono ripetitivi e prevedibili.

4. Norma e normalita` Il termine normalita` deriva dalla radice latina norma (che significa squadra), che assume accezioni diverse a seconda di come la qualifichiamo. Generalmente vengono proposte tre modalita` della norma: •





norma ideale: e` la norma del dover essere, cioe` indica a quale comportamento deve mirare l’individuo per manifestarsi nel suo stato di benessere; pone l’individuo in una condizione di aspirazione: misurato lo scarto tra quello che si e` e quello che si dovrebbe essere, non resta che spingersi verso un limite in realta` irraggiungibile; norma funzionale: definisce una condizione di coerenza interna all’individuo tra aspirazioni e scopi, da una parte, ed efficienza e adeguatezza nel perseguirli, dall’altra; si avvicina alle necessita` della clinica; norma statistica: identifica il normale con il ` normale cio` che e` condipiu` frequente. E viso: se il range del possibile e` descritto dalla campana di Gauss, il normale e` rappresentato dall’intervallo intorno alla media.

L’utilizzazione di uno di questi criteri per definire lo stato di benessere psichico risulta difficile: a)

b)

la norma ideale e` una norma-limite verso cui tendere, ma in realta` irraggiungibile; ne consegue che, pur potendosi verificare diversi gradi di avvicinamento, si restera` comunque in una condizione di non normalita`: paradossalmente lo stato di malattia diviene la condizione comune. L’ideale, inoltre, lungi dall’essere assoluto, risente dell’arbitrarieta` della popolazione che lo esprime: normale e` essere “secondo il desiderio degli altri”, con la possibilita` di non condividere questo desiderio e che la norma ideale divenga ideologia; la norma statistica, proponendo il normale come il piu` frequente, postula nell’“essere

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

come gli altri” il conseguimento del benessere psichico. Oltre alla evidente acriticita`, e` un criterio difficilmente sostenibile per almeno due ordini di ragioni: b1) la prima e` che nell’eventualita` di una patologia molto frequente il francamente patologico si annulla nell’idea di norma: se si utilizzasse questo criterio in campo medico, la presenza di carie nella popolazione occidentale del XX secolo o il gozzo nelle regioni alpine fino a qualche decennio fa rappresenterebbero due esempi di normalita` in chiaro contrasto con il buon senso e la fisiopatologia. Nell’ambito del comportamento si potrebbe arrivare a conclusioni parimenti paradossali; potremmo dire che nella Germania degli anni ’30 e ’40 erano indice di normalita` il sentimento antisemita e il culto della “razza ariana”. In ambito medico, proprio per queste ragioni, si tende ad abbandonare il concetto di norma statistica; ad esempio il range di pressione arteriosa da considerare nella norma non e` quello mediamente espresso dalla popolazione, ma quello per cui il rischio di malattie vascolari risulta essere basso. Si e` passati da un criterio statistico ad uno probabilistico in virtu` della proposizione di validi modelli fisiopatologici che dimostrano la correlazione tra i due eventi, iniziale e finale; un approccio del genere, in ambito psicologico, presuppone la definizione di modelli di sviluppo in cui correlare il ruolo di variabili con gli esiti finali; b2) la seconda riguarda l’impossibilita` per l’individuo di introdurre regole nuove, comportamenti e una visione del mondo diversa da quella condivisa senza porsi in un ambito di anormalita`; sappiamo pero` che la storia dell’umanita` e` segnata dall’emergenza di individui di intelligenza e capacita` fuori dalla norma che hanno imposto nuove conoscenze proprio in opposizione a quelle della loro epoca. Un tentativo di superamento del concetto di norma statistica e` la proposizione del concetto di normativita`; per normativita` si intende la capacita` dell’individuo di introdurre nuove norme: e` una “marcia verso la liberta`” (Ey, H.) che solo lo stato di malattia

c)

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puo` ostacolare: in questo senso e` la malattia a mantenere l’individuo nella norma, la malattia intesa come ridimensionamento delle potenzialita` dell’individuo stesso. la norma funzionale e` quella di piu` facile utilizzazione in ambito clinico e puo` essere intesa in due modi: il primo presuppone un giudizio sulla “naturalita`” (alcuni autori parlano infatti di norma naturale) o legittimita` delle aspirazioni dell’individuo prima ancora che sulla capacita` dell’individuo di perseguirli: e` implicito un giudizio di valore che esclude un approccio oggettivo. L’altro modo e` proponibile nella misura in cui siamo in grado di descrivere un modello di sviluppo psichico “funzionale”, ovvero adatto ad un rapporto corretto e creativo con la realta` .

Al pari della crescita somatica, anche lo sviluppo psichico va pensato come un armonico dispiegarsi nel tempo dell’individuo verso la costituzione di una precisa identita`. Lo sviluppo puo` immaginarsi come un processo continuo, indistinto, in cui i momenti trasformativi, discreti, si susseguono quasi impercettibilmente l’uno nell’altro ma anche, ed e` il modo in cui viene normalmente rappresentato dagli studiosi dell’eta` evolutiva, come un processo a tappe il cui superamento e` indispensabile per la qualita` dell’esito finale. In questa seconda ottica, se e` possibile pensare ad un’analisi in itinere della crescita psichica come verifica del superamento delle specifiche tappe evolutive in relazione all’eta` anagrafica, e` nell’individuo adulto che si potra` verificare l’esito complessivo di tale processo. Il primo problema che si pone e` quello che riguarda l’elaborazione di un modello teorico valido e universale (la cui validita`, cioe`, non sia limitata alla cultura che lo produce: cultura sia storica e geografica che psicologica). Mentre per lo sviluppo somatico e` piu` facile sia identificare dei parametri e stabilire il ruolo delle variabili che definire le caratteristiche finali dello sviluppo “normale”, per lo sviluppo psichico, anche per la difficolta` di definire il risultato ottimale, risulta piu` difficile definire gli aspetti intermedi. Una condizione intermedia di crescita e` normale o

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patologica dipendentemente dalle conseguenze funzionali: la displasia congenita dell’anca manifestera` con evidenza, nella successiva lussazione e nella conseguente zoppia, la sua anormalita`. Stabilire dei correlati specifici tra anomalie funzionali dell’apparato psichico e particolari momenti patogenici dello sviluppo presuppone la conoscenza di numerosi parametri di valutazione: i modelli piu` noti dello sviluppo psichico prendono in considerazione soprattutto gli aspetti motori e cognitivi della vita del bambino, aspetti strettamente correlati con lo sviluppo neurologico, piu` che con quello psicologico. Un altro aspetto e` quello che riguarda le variabili: possiamo distinguere variabili naturali, in realta` abbastanza stabili nel tempo, e variabili culturali/relazionali. Le seconde comprendono sostanzialmente le modalita` e i contenuti del rapporto con gli adulti significativi sia nella specificita` di quella particolare relazione, sia nella generalita` del contesto culturale in cui il nucleo stesso vive e di cui ripropone le istanze. In questo senso se lo sviluppo psichico e` il complesso risultato di un rapporto dinamico che si instaura tra l’individuo in crescita e l’esterno, in relazione ai suoi bisogni, e` innegabile che la direzione di questo sviluppo verra` data dall’adulto in funzione del concetto di crescita/educazione di cui e` portatore. ` necessario considerare il fatto che esiste un E range assoluto di variabilita` che ha il suo limite superiore nella piu` piena espressione, in un individuo ideale, dello stadio evolutivo attuale dell’uomo. All’interno di questo limite le potenzialita` di ogni singolo individuo, in virtu` di condizioni costituzionali e relazionali piu` o meno favorevoli, potranno trovare un diverso grado di attuazione o, nei casi sfavorevoli, un grado insufficiente che rappresentera` la condizione di anormalita`. Per meglio chiarire questo concetto possiamo utilizzare un esempio medico: lo sviluppo staturale. Sappiamo che l’altezza media della popolazione occidentale e` andata incrementandosi negli ultimi decenni di parecchi centimetri. Questo ci induce a pensare che il miglioramento delle condizioni ambientali, e quindi alimentari, igieniche etc., e` stato in grado di far esprimere potenzialita`

di crescita che le precedenti condizioni, complessivamente sfavorevoli, mantenevano espresse in maniera ridotta: non riconosciamo quindi nella statura mediamente piu` bassa delle generazioni precedenti un’anomalia, ma una diversita` di sviluppo di potenzialita` primarie (genetiche) rimaste invariate. Quindi fattori o variabili esterne sono in grado di modulare l’attuazione di queste possibilita`. Di fronte ad un individuo di bassa statura che si pone ai limiti della curva di Gauss per la distribuzione di frequenza dell’altezza in una determinata popolazione dovremmo chiederci se e` la conseguenza di uno sviluppo francamente patologico (ad esempio, come esito di una precoce attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi e precoce ossificazione delle cartilagini di accrescimento), se e` la conseguenza di una crescita comunque sana ma avvenuta in condizioni sfavorevoli o se l’assetto genico di partenza (es: genitori molto bassi) esprimeva una potenzialita` limitata. Possiamo provare a ragionare per analogia sul piano psicologico e definire tre possibilita` di sviluppo: •





uno sviluppo complessivamente soddisfacente in cui le potenzialita` primitive vengono portate ad un livello di attuazione qualitativamente e quantitativamente valido; uno sviluppo parzialmente inibito per delle potenzialita` che non trovano una loro piena attuazione. La possibilita` di cogliere il momento in cui la condizione sfavorevole e` iniziata comporta sia la possibilita`, a patologia conclamata, di risalire al periodo di sviluppo maggiormente inibito, sia di attuare una prevenzione cercando di modificare l’ambiente se questo si evidenzia come particolarmente patogeno. Per rimanere nell’ambito delle analogie con disturbi somatici, questa prevenzione corrisponde ad una terapia che blocchi l’asse ipotalamo-ipofisigonadi nel caso si accerti la patologica tendenza ad una ossificazione precoce delle cartilagini; la terza evenienza e` quella in cui vi e` un deficit delle potenzialita`: l’universo relazionale dell’individuo in crescita si dimostra gravemente insufficiente e favorisce l’anchi-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

losi delle potenzialita` stesse. In questo caso le possibilita` di recupero tardivo sono scarse. Per tornare all’esempio e` come se si lasciassero ossificare completamente, alla puberta`, le cartilagini di accrescimento, precludendo ogni possibilita` di crescita e di intervento terapeutico. Le psicosi rappresentano il paradigma di questo sviluppo che definiamo difettuale; resta da definire quanto l’annullamento delle potenzialita` non si correli ad un ` importante sottolineare deficit iniziale. E che non soltanto lo sviluppo psichico va favorito e non ostacolato, ma soprattutto che qualora cause traumatiche agiscano a lungo nei primi anni di vita si hanno deficit irreversibili. Emblematici gli esempi noti in letteratura (ma anche le cronache ci riferiscono spesso di questi casi) di bambini abbandonati o vissuti in condizioni di segregazione o allevati da animali selvatici, ad es.: le due bambine Amala e Kamala trovate in India, che erano state allevate da un branco di lupi, Vittorio, il bambino selvaggio dell’Areyron, catturato nella foresta di Torn nel 1799 e seguito dal dottor Itard. In questi casi si e` dimostrato che, malgrado gli sforzi terapeutici, il deficit di sviluppo rimane irrecuperabile proprio per l’atrofizzazione di quel nucleo di potenzialita` non espresse nei tempi fisiologici dello sviluppo. Per riassumere quanto detto fino a questo punto, possiamo individuare tre coppie concettuali per le tre situazioni esposte: potenzialita` espresse-benessere psichico=salute mentale; potenzialita` inibite-sviluppo conflittuale=patologia mentale; potenzialita` non attivate-sviluppo difettuale= patologia mentale grave. Per esprimere un giudizio di salute o di patologia dobbiamo tenere presente un modello di sviluppo psichico che possa essere esplicativo delle varie patologie. In un altro capitolo (vedi cap. 7) e` stata proposta una serie di modelli che spesso sono molto ` diversi o addirittura incompatibili tra di loro. E necessario pertanto proporre un modello che, te-

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nendo conto delle piu` recenti acquisizioni, sia soprattutto coerente ed esplicativo delle varie sindromi psichiatriche. Brevemente riportiamo alcuni elementi del modello complementare di sviluppo elaborato da N. Lalli nel 1991 e che verra` esposto nel capitolo successivo. Questo modello sara` il punto di riferimento per la spiegazione e la comprensione delle varie sindromi psichiatriche (vedi la voce ‘‘psicodinamica’’ delle varie patologie).

5. Per un modello complementare dello sviluppo psichico Un modello che ha l’intento di superare i limiti di quelli gia` proposti e che nel contempo prende in considerazione le acquisizioni ottenute da autori diversi, spesso messe in opposizione le une alle altre, e` quello che verra` proposto di seguito. Questo modello puo` essere definito complementare, nel senso che tiene conto sia degli aspetti pulsionali che quelli delle relazioni oggettuali, in una visione che integra le componenti esogene ed endogene all’individuo. ` necessario pero` ridefinire alcuni aspetti E delle pulsioni poiche´ cosı` come esse vengono proposte nella teoria freudiana risulta difficile valorizzare gli aspetti relazionali dello sviluppo: l’avvicinamento e il successivo allontanamento dall’oggetto risultano infatti processi automatici, condizionati esclusivamente dalla dinamica pulsione-scarica. Dobbiamo postulare l’esistenza di una dimensione istintuale-pulsionale che permette all’individuo sia l’avvicinamento all’oggetto sia il successivo allontanamento. Questa dimensione istintuale deve essere intesa come la possibilita` stessa alla relazione: deve avere caratteri di plasticita` perche´ deve permettere all’individuo di adattarsi alla enorme variabilita` dell’ambiente umano, inteso come universo delle relazioni possibili (N. Lalli, 1991). Alla nascita le valenze istintuali sono predominanti proprio perche´ il bambino non ha ancora imparato a confrontarsi con una realta` esterna complessa; d’altra parte la scarsa specificita` degli

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istinti della nostra specie favorisce processi di apprendimento molto articolati che non trovano riscontro negli altri animali. Si puo` immaginare che il bambino inizialmente si relazioni con l’altro da se´, in virtu` di due istinti: quello libidico, che permette l’attaccamento e quello di morte come sparizione dell’oggetto frustrante. Durante la vita intrauterina il feto e` in uno stato di simbiosi con la madre determinato dalla contiguita` pelle-utero; non esiste la sensazione del se´ come altro dal non se´, proprio perche´ lo sviluppo avviene in una dimensione omogenea e costante. La nascita rappresenta il primo momento di separazione e con essa compare il vissuto della propria individualita` e, allo stesso tempo, del mondo esterno. Il prendersi cura del bambino da parte della madre o di un altro adulto segna allo stesso tempo un momento di continuita` (il contatto somatico attraverso gli stimoli tattili e termici ad esso correlati) ma anche di novita`, proprio perche´ il bambino percepisce la discontinuita` di questo rapporto e la possibilita` che non sia soddisfacente. Un tale vissuto puo` quindi indurre un desiderio di sparizione a vantaggio di un recupero, nel ricordo, della dimensione precedente. Queste dinamiche rafforzano comunque la percezione del proprio se´ e offrono all’apparato psichico la possibilita` di strutturare vissuti complessi, emozioni, memoria: di essere qualcosa di piu` di un nucleo pulsionale. Si comincia a prefigurare la sensazione di un contenitore: e` l’apparato psichico che, prendendo coscienza di se´, comincia a strutturarsi per arrivare, nel tempo, alla complessita` dell’individuo adulto. Se il polo pulsionale ha queste caratteristiche di dualita`, intese come possibilita` di investimento sessuale di un oggetto e di separazione da quest’ultimo, possiamo immaginare la crescita come un continuo superamento delle modalita` relazionali gia` acquisite, nella direzione di un loro arricchimento (N. Lalli, 1991). Ogni crisi che viene superata segna un salto qualitativo (maturativo) nel processo di apprendimento delle capacita` relazionali, ogni tappa d’arresto rafforza le modalita` gia` acquisite, rappre` proprio sentando un momento di regressione. E

nei momenti di crisi che il ruolo esterno di chi si prende cura del bambino assume un’importanza fondamentale: facilitare la maturazione significa spingere il bambino verso l’autonomia, ostacolarla significa mantenerlo in uno stato inadeguato di dipendenza. Lo sviluppo ha, quindi, due caratteristiche fondamentali: •



di circolarita` in quanto gli istinti, naturalmente portati ad investire nel mondo esterno, vengono attivati dagli oggetti che ne svelano (cioe` attuano) le potenzialita`: e` il concetto di epigenesi. A loro volta gli oggetti, investiti di significato, sono in grado di modulare le forze pulsionali e condizionare lo sviluppo, sia normale che patologico; di linearita` in quanto, immaginando un ideale vettore che rappresenti la vita di un individuo, sulla direttrice dello sviluppo si puo` procedere in avanti verso la crescita o tornare indietro, in senso regressivo. Linearita` non significa continuita`: si procede comunque per crisi, intese come momenti nodali in cui condizioni oramai inadeguate (sia per quel che riguarda la modalita` dell’investimento pulsionale che l’oggetto di relazione) debbono essere superate altrimenti rappresentano una tappa d’arresto.

Riassumendo quanto e` gia` stato proposto, si puo` dire che, in linea teorica, perche´ lo sviluppo abbia luogo in maniera adeguata, e` necessario che si realizzino una serie di condizioni: 1) 2)

3)

che le potenzialita` istintuali siano presenti; che il mondo esterno, rappresentato dalle figure che si prendono cura del bambino, sappia interagire in maniera ottimale al fine di attivare queste potenzialita`; che ogni crisi, conseguentemente ad una dialettica corretta tra pulsioni e relazioni oggettuali, venga superata nella direzione della crescita.

L’individuo psicologicamente sano e` quello che, al termine di tale processo, pur strutturato in un carattere particolare ed influenzato dalla specificita` dell’ambiente nel quale ha vissuto, mani-

Normalita`, salute e malattia: concetti generali

festa una capacita` critica, un costante senso della realta` e una dimensione creativa continua. Sono quasi sempre le situazioni traumatiche a mettere in evidenza la “sanita`” della struttura psichica (risposta coerente e superamento della crisi) o la sua inadeguatezza (emergenza di sintomi nevrotici: rituali ossessivi, fobie, ritiro depressivo ecc.). Resta da stabilire quali sono i limiti di tolleranza al trauma oltre i quali anche l’individuo normale perde la sua integrita` psichica: poter stabilire questa soglia significa comprendere in quale punto di quella continuita` normalita` patologia si puo` segnare il territorio di confine tra queste due condizioni. Anche se le procedure sperimentali non possono riprodurre condizioni di trauma che siano sovrapponibili a quelle “naturali” (per ovvie ragioni, sia pratiche che etiche), e` possibile trarre qualche conclusione prendendo in considerazione la letteratura prodotta da persone, spesso da specialisti, che hanno esperito quelle che Bettelheim ha definito situazioni estreme. L’esperienza terribile dei lager nazisti ha messo in evidenza una serie di elementi di cui il piu` importante sembra essere il seguente: che nella condivisa situazione di totale deprivazione affettiva e di completo disconoscimento della stessa dimensione umana, individui diversi reagiscono in maniera diversa. Nello spettro dei vissuti psichici e dei comportamenti, due sembrano essere paradigmatici nella loro diversita` proprio per le contrapposte dinamiche che sottendono: l’adattamento e l’adeguamento. Possiamo definire con il termine adeguamento la situazione in cui l’individuo, pur non accettando le costrizioni ambientali in cui vive, ma non potendo neanche rifiutarle perche´ imposte in maniera coercitiva, ripone nel futuro la possibilita` di un cambiamento e si piega formalmente alle regole senza condividerle. Presupposti dell’adeguamento sono quindi: il senso della realta` (impossibilita` attuale di modificare l’ambiente), la speranza (come possibilita` di differire il momento trasformativo) e, soprattutto, l’esistenza di una identita` ben strutturata che l’individuo difende, mantenendo vive le istanze ideali. L’adattamento e` il risultato, invece, di un profondo lavoro di trasformazione operato dall’am-

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biente sull’individuo che finisce con l’identificarsi con le regole e con le figure autoritarie che le impongono; e` evidente che i presupposti di cui abbiamo parlato sopra, in special modo l’esistenza di una identita` ben strutturata, sono deficitari. Non e` un caso che nei campi di concentramento quelli che “reggono meglio”, per usare una espressione di Bettelheim, sono gli individui che gia` nel periodo precedente della loro vita hanno manifestato, aderendo a movimenti politici progressisti o alla Resistenza (ma anche ai gruppi scout), una forte carica ideale e un anelito a trasformare la realta`. Emblematica di un processo di adattamento totale e` la figura del Kapo`: e` la vittima che diviene aguzzino del proprio compagno di prigionia, in un processo di identificazione con l’aggressore. Al di la` di queste due particolari modalita` di risposta, l’esperienza dei campi di concentramento ha evidenziato che in eccezionali condizioni di violenza psichica e fisica quello che avviene con piu` facilita` e` l’annichilimento della personalita` dell’individuo, costretto a morire, prima che di stenti e di privazioni materiali, per l’annullamento della speranza di poter essere di nuovo riconosciuto nella propria dimensione umana. Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda al capitolo “Psicopatologia da situazioni estreme”.

6. Conclusioni In un rapido excursus abbiamo cercato di delineare i principali nodi attinenti al problema della normalita` e della patologia in generale e in particolare in psichiatria. Sembra evidente che, per quanto questi concetti possano essere complessi e difficili, e` necessario darne una definizione, soprattutto quando ci troviamo in ambito clinico ovvero in un campo ove e` necessario porre non solo una diagnosi, ma anche una terapia. Non e` un caso che tutti gli autori che hanno ritenuto possibile sfuggire a questo problema si sono ritrovati poi nell’impossibilita` di definire qualsiasi modalita` d’intervento: al massimo ci si poteva limitare ad una discussione piu` o meno

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

brillante, piu` o meno articolata sul caso clinico. ` evidente, d’altro canto, la pericolosita` del E concetto di normalita` e di come questa normalita` massificata possa essere di per se stessa segno di patologia. Per questo motivo ci e` sembrato necessario, per evitare la duplice trappola o del nichilismo terapeutico o della ideologia dominante come segno di normalita`, riproporre il concetto di salute mentale. Per salute mentale intendiamo lo sviluppo normale delle potenzialita` dell’individuo che puo` essere evidenziato dal comportamento, dal vissuto soggettivo e dall’assetto intrapsichico del soggetto. Il range della salute mentale puo` essere abbastanza ampio fino ad un limite oltre il quale si puo` evidenziare la patologia: patologia psichica che puo` essere acuta o cronica, conflittuale o difettuale. Un altro problema importante, a lungo dibattuto e non certamente risolto, e` se la patologia psichica debba essere considerata come un continuum che va dalla normalita` alla psicosi, o se invece le varie situazioni sono non solo distinguibili dalla normalita`, ma anche diverse tra di loro. Nel primo caso viene proposta una psicopatologia definita modale, nel secondo caso categoriale. Per esempio, mentre il modello psicoanalitico e` modale, quello del DSM-IV e` categoriale. Come dicevamo, e` un problema aperto: comunque riteniamo che se da una parte e` concepibile pensare che non ci sia un taglio netto tra normalita` e patologie conflittuali, non altrettanto puo` dirsi per le psicopatologie piu` gravi.

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7 Teorie dello sviluppo psichico* Nicola Lalli Parole chiave deficit; conflitto; stadi di sviluppo; senso-motorio; pre-operatorio; operatorio concreto; operatorio formale; zone erogene; stadi psicosociali; attaccamento; imprinting; narcisismo; Se´ grandioso; infant-research

Lo studente del corso di laurea in Medicina al V anno, improvvisamente, si trova a studiare una clinica — quella psichiatrica — non avendo compiuto alcuno studio propedeutico. ` comprensibile quindi la difficolta` non solo E di inserirsi nello spirito di questa disciplina, ma soprattutto di cogliere il significato di molti concetti come personalita`, sviluppo psichico, crisi ecc. Pertanto ho ritenuto necessario proporre una panoramica ampia, ma sintetica, delle principali teorie dello sviluppo psichico per dimostrare non solo come a monte della clinica ci sono studi ed

* La dott.ssa A. Marzo ha collaborato alla parte del capitolo relativa all’opera di J. Piaget.

osservazioni che rendono possibili la comprensione e la spiegazione delle varie sindromi, ma anche per evidenziare come possono esserci disaccordi su alcuni punti nodali dello sviluppo psichico. Da Piaget a S. Freud, da M. Klein alla infant research, troviamo spesso notevoli contrasti: e` utile che il lettore ne sia informato. Come sara` utile proporre successivamente un modello unico di sviluppo psicodinamico che possa render conto anche della genesi e della patologia (vedi cap. 8). * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Introduzione Costruire un modello unico e completo dello sviluppo psichico e` sempre stato il sogno di numerosi ricercatori. Conoscere con sicurezza le caratteristiche delle varie fasi di sviluppo sarebbe utile sia in campo pedagogico che clinico, perche´ permetterebbe non solo di adottare comportamenti e programmi adeguati da parte dei genitori e docenti, ma anche di distinguere precocemente normalita` e patologia. Nonostante l’impegno ed i molteplici dati raccolti, questo progetto non e` stato mai realizzato: i singoli Autori hanno descritto modelli parziali di sviluppo, privilegiando alcune componenti e tralasciandone altre. Ritengo utile proporre le teorie piu` interessanti, ognuna delle quali e` costituita da un insieme di assunti di base, di ipotesi, di verifiche, ma soprattutto da un metodo di ricerca. Per studiare lo sviluppo psichico del bambino esistono fondamentalmente due metodi. Il primo osserva direttamente il bambino sul campo, ossia in situazioni di normalita` e nell’ambiente in cui egli vive. Il secondo utilizza il cosiddetto “bambino clinico”; dalla patologia dell’adulto si risale all’organizzazione psichica del bambino ed al modo in cui essa si struttura. Prima di esporre alcuni dei principali modelli, e` importante tener presente che esistono quattro punti fondamentali, che rappresentano da sempre fonte di controversie. 1.1. Natura-Cultura Natura-cultura, dilemma secolare di pertinenza prima dei filosofi, diventato oggi tema ricorrente in varie discipline scientifiche. Qual e` l’importanza del patrimonio genetico e quindi dell’ereditarieta`, nel determinare lo sviluppo e la diversita` di un individuo? Qual e` e quant’e` invece l’importanza dell’ambiente? Certamente l’ereditarieta` e` evidente nel campo delle attitudini: tutti sanno che la famiglia Bach ha generato ottimi compositori per ben sette generazioni, fino al piu` illustre Johan Sebastian Bach. In questo caso, i fautori dell’ipotesi ambientalistica

sostengono che la continuita` dell’attitudine possa spiegarsi in termini culturali-ambientali. I Bach, fin dalla tenera eta`, sono vissuti in un ambiente musicale e gia` a 3-4 anni veniva loro insegnato l’uso di uno o piu` strumenti musicali. D’altra parte e` di frequente riscontro trovare figli di persone geniali o particolarmente dotate, che presentano uno sviluppo psichico normale o addirittura inferiore alla media, per cui la genialita` e` forse il felice connubio di numerose combinazioni. Gli Autori favorevoli alla visione sociale e culturale dello sviluppo psichico sostengono che l’ereditarieta` e` ben poca cosa e che l’uomo mai si svilupperebbe se non fosse costantemente circondato dalla cultura e dai rapporti sociali. Molti propongono come esempio paradigmatico rari casi di bambini cresciuti nella foresta e ritrovati successivamente, ai quali e` stato impossibile insegnare il linguaggio ed un comportamento adeguato, in quanto il quoziente intellettivo risultava assolutamente inferiore alla media e non modificabile nonostante i notevoli sforzi dei pedagoghi. Gli studiosi di antropologia culturale e di etnopsichiatria, dopo aver superato l’ottica europocentrica che considerava la nostra cultura come cultura-tipo e aver accettato l’originalita` e la validita` di altre culture, proprio sulla base della diversita`, ritengono che la personalita` sia totalmente influenzata dalle modalita` educative, dalle abitudini e dai valori sociali. T. Nathan ritiene che la personalita` sia una struttura specifica di origine sociale: l’emergere dell’apparato psichico, continua l’Autore, e` possibile grazie al contenitore culturale: «....pertanto la cultura e` il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano». Senza giungere a questi estremismi, l’ambiente ha certamente un’importanza patoplastica per lo sviluppo psichico. La controversia tra natura e cultura rischia, se estremizzata, di rimanere irrisolta.

1.2. Animalita`-Umanita` L’uomo giustamente si considera come la specie piu` evoluta fra gli esseri viventi. Il problema

Teorie dello sviluppo psichico

centrale, accettando ovviamente la teoria evoluzionistica, rimane se l’uomo e` un primate che ha sviluppato, sotto la pressione selettiva, capacita` quantitativamente o qualitativamente diverse. Sappiamo che l’uomo si distingue dagli altri animali per la postura eretta, per la visione (tridimensionale e cromatica), per la trasformazione del faringe in laringe che ha dato luogo alla fonazione e quindi al linguaggio, per le capacita` estremamente raffinate della mano: nell’homunculus di Penfield la mano rappresenta il 25-30% della corteccia motoria. L’uomo possiede molteplici capacita` non necessariamente legate alla sola struttura morfologica, capacita` che nessun animale possiede, come l’anticipazione del futuro, il senso della morte, la fantasia, la creativita`, l’inconscio. Tutto questo probabilmente e` dovuto allo sviluppo del S.N.C., sviluppo che anche in questo caso e` piu` qualitativo che quantitativo. La corteccia cerebrale del macaco e` solamente il 2% in meno di quella dell’uomo, ma l’uomo possiede il 25% in piu` di centri associativi. Tutto questo inevitabilmente ci induce a considerare l’uomo come un primate che staccatosi da un ceppo comune, milioni di anni fa, ha subı`to dapprima una lenta crescita e poi negli ultimi 800.000 anni improvvisamente una crescita esponenziale delle capacita` e possibilita`, legate alla sempre maggiore complessita` del S.N.C. Accanto a queste qualita`, l’uomo paga un prezzo: la follia. ` questa peculiarita` umana che rende impossiE bile utilizzare gli animali per studiare le tappe evolutive dell’uomo, le malattie mentali o sperimentare eventuali psicofarmaci e che rende totalmente aleatori tutti gli esperimenti compiuti sugli animali per comprendere la vita psichica dell’uomo.

1.3. Continuita`-Discontinuita` Una ulteriore domanda che ci poniamo e` se l’uomo si sviluppa per gradi, quindi in maniera continuativa, oppure per crisi. Lo svezzamento, la deambulazione, l’acquisizione del linguaggio, la puberta`, sono considerate

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crisi di sviluppo, ossia momenti estremamente significativi e delicati dell’eta` evolutiva. ` probabile che esista una discontinuita` evoE lutiva che presenti peculiarita` complesse e non sempre definibili. Il problema della discontinuita` si osserva, anche in eta` adulta, ma e` legato a fattori socioeconomici: l’orologio biologico, ovvero il tempo del ciclo biologico dell’uomo e l’orologio culturale, ovvero l’evoluzione psicologica e lavorativa, non sempre sono sincronizzati fra loro, e determinano spesso situazioni di malessere o di crisi. Basti pensare all’adolescenza prolungata, alla donna psicologicamente matura per avere figli, ma biologicamente in eta` avanzata, oppure alla cosiddetta crisi della “mezza eta`”.

1.4. Deficit-Differenza Questo concetto rinvia a quello piu` complesso della normalita` (vedi cap. 6). Sicuramente possiamo affermare che non esiste un percorso evolutivo universale. Ma se non esiste un tale percorso, non e` nemmeno accettabile che possano esistere tanti percorsi evolutivi diversi quanti sono gli individui. L’importante e` cercare di evidenziare se la differenza e` tale da rientrare nella variabilita` della norma o e` invece sintomo di un deficit e, come tale, segno di una malattia o di una imperfezione. * * * Molto sinteticamente ho esposto alcune delle tematiche centrali riguardanti il problema dello sviluppo psichico. Ora sorge il problema di come proseguire per proporre uno schema che sia chiaro, plausibile e didattico insieme. Si potrebbe prendere come punto di riferimento l’eta` ed in base ad essa esporre le diverse teorie, ma a causa della grande differenza tra gli Autori cio` potrebbe creare solo confusione. Ho preferito riassumere le principali teorie, cercando di coglierne poi le eventuali incongruenze. Ogni teoria privilegia un aspetto particolare dello sviluppo psichico. J. Piaget privilegia lo sviluppo delle capacita` logiche; Erikson le valenze

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

psicosociali, la psicoanalisi ortodossa l’importanza delle zone erogene e dei meccanismi difensivi; altri Autori invece le motivazioni (Maslow) o il problema dell’attaccamento (Bowlby).

2. J. Piaget

2.1. Introduzione Il pensiero di J. Piaget, nonostante le numerose critiche, continua a rimanere un punto fermo per la comprensione dello sviluppo mentale del bambino, argomento a cui l’Autore ha dedicato, da solo e poi in e´quipe, decenni di ricerca. Il pensiero del bambino presenta modalita` e processi profondamente diversi da quelli dell’adulto e si sviluppa nel tempo, seguendo tappe abbastanza costanti, per giungere alla complessita` del pensiero operatorio formale. Senza entrare nel merito specifico, ci sembra utile sottolineare quali siano i capisaldi della teoria piagetiana. Il bambino nasce con un patrimonio genetico che costituisce la base dello sviluppo sia biologico che mentale. La crescita avviene nell’incontro tra strategie innate e rapporto con la realta` : da questo incontro, sulla base delle esperienze, le strategie iniziali non solo cambiano, ma diventano sempre piu` complesse. Secondo l’Autore esiste una stretta correlazione tra sviluppo somatico e mentale, sviluppo che si basa su due processi continuamente interagenti tra loro: l’adattamento e l’organizzazione. Il bambino fin dalla nascita e` fondamentalmente un “esploratore”, un soggetto attivo di ricerca che si rapporta con l’ambiente sulla base di due processi: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione e` il processo mediante il quale le nuove esperienze e le nuove informazioni vengono assorbite e poi elaborate in modo da adattarsi alle strutture gia` esistenti. L’accomodamento e` il processo fondamentale che comporta la modificazione delle idee o delle strategie, a seguito delle nuove esperienze. Il bambino, mentre si adatta al mondo, co-

struisce i propri schemi mentali, rendendoli sempre piu` complessi. Descriveremo brevemente gli stadi fondamentali dello sviluppo, suddivisi dall’Autore in sottostadi che corrispondono all’acquisizione di ulteriori schemi operativi: 2.2. Stadio senso-motorio (0-2 anni); 2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni); 2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni); 2.5. Stadio operatorio formale (12 anni in poi). 2.2. Stadio senso-motorio Piaget paragona lo sviluppo mentale del bambino alla sua crescita organica: entrambi tendono verso un progressivo equilibrio. L’azione umana e` una continua ricerca di equilibrio: lo sviluppo psicologico e la crescita del bambino possono essere considerati come stadi di equilibrio successivi, che vanno progressivamente adattandosi alle sue continue scoperte intellettive, sociali ed affettive. Il bambino alla nascita non e` in grado di riconoscere il mondo esterno da quello interno, l’‘‘Io” bambino e` al centro della realta`, in quanto inconsapevole di se stesso e` incapace di compiere una separazione tra soggettivita` e oggettivita` della realta` esterna. Durante i primi mesi di vita, egli non concepisce ne´ percepisce le cose immerse nell’universo esterno come oggetti permanenti, non conosce lo spazio e la causalita`, non ha in altre parole la nozione di oggetto. Per il bambino la percezione esterna e` composta da immagini e suoni che appaiono e scompaiono senza una ragione obiettiva. Inizialmente le cose non esistono “lontane dal proprio campo percettivo”, non c’e` ricerca attiva degli oggetti ne´ il tentativo di ritrovarli, ma attesa passiva che il quadro visivo desiderato ritorni ad ogni suo richiamo. Fra i tre e i sei mesi il fanciullo comincia ad afferrare cio` che vede, coordina la percezione visiva con quella tattile. Egli reagisce inizialmente al movimento dell’oggetto seguendolo prima con gli occhi, poi con lo spostamento laterale della testa. Reagisce inoltre ai movimenti di caduta come

Teorie dello sviluppo psichico

«...non sapesse che egli si sposta per seguire il movimento e, non sapesse, per conseguenza, che il suo corpo e il mobile si trovano nello stesso spazio: basta infatti che l’oggetto non si trovi nell’esatta continuazione del movimento di accomodamento che il bambino rinuncia a cercarlo ... come se il movimento dell’oggetto e le impressioni cenestesiche che accompagnano i movimenti degli occhi, della testa o del busto, siano considerati dal bambino un tutt’uno». Quando perde l’oggetto, l’unico tentativo che compie nella speranza di ritrovarlo e` prolungare i movimenti gia` compiuti, quindi conosciuti, e nel ritornare al punto in cui l’oggetto e` sparito. Egli attribuisce permanenza agli oggetti fintantoche´ riesce a seguirli e a ritrovarli con movimenti semplici. Il fanciullo non concepisce il loro movimento come indipendente dalla propria attivita`, continua a cercare nel punto in cui ha visto sparire l’oggetto, convinto che resti a sua “disposizione”, dipendente dalle sue azioni. Tra i quattro e i sei mesi inizia ad esplorare il luogo in cui l’oggetto e` sparito anche se lontano dal proprio campo visivo. Ricerca con le mani il mobile che non raggiunge con lo sguardo. Non si tratta pero` di una vera ricerca in senso attivo, in quanto il bambino si limita a tendere il braccio, a riprodurre il gesto di afferrare, perche´ l’oggetto e` per lui ancora a “disposizione”. Egli non inventa altri movimenti per cercare l’oggetto sparito, ma ripete quelli conosciuti e interessanti. Quando una parte dell’oggetto e` visibile, egli lo riconosce e lo afferra, ma non compie alcuna ricerca quando l’oggetto e` interamente sparito. Il fanciullo e` ora capace, partendo da una frazione visibile, di ricostruire la totalita` dell’insieme. Egli crede dunque nella materialita` dell’oggetto anche quando esso e` visibile in parte: ma una volta sparito dal proprio campo percettivo, l’oggetto, per il bambino, smette di esistere. Dai cinque ai sette mesi, in realta`, il fanciullo e` capace di allontanare un ostacolo che nasconde l’oggetto, non nel tentativo di ritrovarlo, poiche´ l’oggetto nascosto dietro uno schermo, ma in parte visibile, e` concepito dal bambino non come coperto, ma come pronto ad apparire, e solo l’azione puo` conferirgli una realta` totale. Egli in realta` non fa altro che scartare uno ostacolo che

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si presenta al soggetto e non all’oggetto; cerca, in altre parole, di liberare la sua percezione. L’universo rimane ancora un insieme di immagini che appaiono e scompaiono, ma permangono piu` a lungo, semplicemente perche´ egli prolunga nel tempo le sue azioni. Il fanciullo osserva con crescente interesse i movimenti delle sue mani, mette in rapporto un certo suo gesto con una determinata conseguenza, scopre che la sua mano e` capace di far muovere gli oggetti sospesi. Diventa consapevole delle proprie mani, strumenti reali con le quali poter afferrare gli oggetti e giungere cosı` ad un continuo ed effettivo risultato. Il bambino scopre dunque il senso di efficacia che accompagna la propria attivita` . Con la conquista della prensione prima e della manipolazione poi, il fanciullo si rende conto che il desiderio precede l’effetto atteso. Fino a questo momento causa ed effetto erano su di uno stesso piano, l’universo esterno e quello interno erano indissociabili. Ora il bambino diventa consapevole dell’intenzione, la causa diventa dunque interna, l’effetto esterno. Il fanciullo esamina con grande attenzione le capacita` ed i movimenti delle sue mani, diventando cosciente progressivamente del loro potere sugli oggetti. Egli non si rende ancora conto che le mani appartengono al suo corpo e le considera alla stregua degli altri oggetti. Il bambino e` capace di afferrare, scuotere o tirare gli oggetti ma non stabilisce ancora una relazione tra un determinato gesto e la sua reale efficacia, inoltre non comprende i rapporti spaziali e fisici. Per il soggetto sono i suoi desideri ed i suoi sforzi efficaci nel generare un risultato interessante; «...i legami di causalita` si stabiliscono sempre in occasione di un risultato ottenuto per caso». Quando il bambino impara un gesto che risulta efficace, egli comincia ad applicarlo a tutto, come se quel medesimo gesto fosse efficace, indipendentemente da ogni contatto spaziale e fisico, di riprodurre e di continuare qualsiasi spettacolo interessante, malgrado ripetuti insuccessi. «...Ecco dunque la prova che la causalita` attribuita al gesto non e` ancora una causalita`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

fisica, fondata sui caratteri esterni dell’azione, ma una causalita` per semplice efficacia». Tra i sei e i sette mesi il bambino impara ad imitare, ed utilizza questa nuova conquista per far ripetere agli altri i gesti interessanti. Egli dunque imita un movimento esterno e per farlo deve osservare ed incorporare il gesto. Tra l’ottavo e il decimo mese comincia a cercare l’oggetto scomparso dal proprio campo percettivo, studia gli spostamenti dei corpi e inizia a coordinare l’attivita` visiva con quella tattile. Cio` non significa che abbia acquisito una corretta nozione di oggetto, in quanto continua a conferirgli una posizione assoluta. Se un oggetto viene spostato visibilmente, e poi nascosto, il bambino dopo una breve e superficiale ricerca ritorna nel luogo in cui lo ha cercato precedentemente e ritrovato. Egli ricerca l’oggetto scomparso, non si accontenta piu` di prolungare un gesto di accomodamento, ma conferisce ancora alle cose una posizione privilegiata. L’oggetto resta dunque “a disposizione” in un certo contesto relativo ad una certa azione. Il bambino non attribuisce una struttura obiettiva alle cose che lo circondano, non ha ancora acquisito coscienza delle relazioni di posizione e di spostamento. Tra i nove e gli undici mesi gli oggetti cominciano ad acquisire causalita`, anche se non vengono ` una “causaritenuti ancora indipendenti dall’io. E lita` che tende a spazializzarsi”, ossia “a esteriorizzarsi senza tuttavia distaccarsi dall’io, senza tuttavia dissociarsi ancora dall’efficacia del gesto”. Il bambino capace di afferrare, scuotere e tirare gli oggetti e` in grado ora di allontanare la mano di un’altra persona quando questa trattiene o afferra un oggetto. Tutto cio` indica che il fanciullo considera quella mano estranea al proprio corpo, capace di muoversi indipendentemente dalla sua attivita`. Egli l’allontana per impedire un’azione non voluta, agisce dunque intenzionalmente. Quella mano e` diventata per il bambino autonoma. La causalita` non e` piu` dipendente interamente dalla propria attivita`, il soggetto comincia ora ad attribuire capacita` particolari anche agli altri. Quando il bambino non riesce a riprodurre uno spettacolo interessante, si serve delle mani altrui come intermediari necessari, esercitando su di

esse una leggera pressione per farle muovere e realizzare cosı` il suo desiderio. Egli concepisce dunque le persone come esterne, ma la loro attivita` resta ancora legata ai ` una causalita` intersuoi gesti e ai suoi desideri. E media, in parte obiettiva, in parte spazializzata. Alla fine del primo anno di vita il tempo diventa progressivamente indipendente dall’Io, e` ancora un momento di transizione tra soggettivita` e obiettivita`. Per la prima volta il fanciullo ricorda gli spostamenti dell’oggetto in cui non e` intervenuto: egli ricorda dunque gli spostamenti come tali e non la propria attivita`. Tra la fine del primo anno di vita e la meta` del secondo, il bambino impara a tener conto degli spostamenti visibili successivi, non cerca piu` l’oggetto in posizioni privilegiate. Con la conquista progressiva delle relazioni spaziali, egli lo cerca nel luogo esatto in cui l’oggetto e` stato spostato. Il bambino scopre inoltre il tempo non legato alla sua attivita` ma proprio di tutti gli elementi che compongono l’universo esterno. Per la prima volta si rivela capace di ordinare nel tempo gli avvenimenti esterni percepiti direttamente. Egli e` in grado di rievocare un’immagine mentalmente. Le nozioni di un “prima” e di un “poi” non sono piu` limitate all’azione propria ma estese agli avvenimenti stessi che il bambino prevede e ricorda. Verso la fine del secondo anno di eta` diventa capace di dirigere le sue ricerche grazie alla rappresentazione degli spostamenti invisibili: egli e` ora in grado di dedurli e di percepirli. Riesce ad immaginare l’itinerario dell’oggetto anche quando esso e` invisibile. La sua permanenza non obbedisce piu` all’azione del soggetto ma a leggi indipendenti dall’io. La ricerca dell’oggetto diventa dunque cosciente. Esso «e` concepito come identico a se stesso qualunque siano i suoi spostamenti invisibili o la complessita` degli schermi che lo nascondono». La vera rappresentazione ha inizio nel momento in cui il soggetto puo` immaginare l’itinerario dell’oggetto, anche senza percepirlo. Il fanciullo e` ora capace di rievocare i ricordi non legati alla percezione diretta. Grazie alle rappresentazioni e alla memoria di rievocazione, egli e` in grado di ricostruire mentalmente un’im-

Teorie dello sviluppo psichico

magine. «Per mancanza di rappresentazioni propriamente dette, il tempo... rimaneva necessariamente legato alle percezioni attuali, ai ricordi pratici sorti dall’azione recente e alle anticipazioni dovute all’azione in corso». Ma non appena l’assimilazione mentale si e` liberata dalla percezione diretta e puo` funzionare senza appoggio esterno, «le immagini.... si prolungano da se stesse nel futuro e nel passato sotto

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forma di rappresentazioni». Il ricordo dunque non e` soltanto un ricordo pratico dettato dall’esperienza, ma il ricordo dell’attivita` propria che permette al bambino di situare nel tempo e tra gli altri elementi dell’universo esterno la sua attivita`. Data l’importanza e la complessita` dei notevoli cambiamenti durante lo stadio senso-motorio, e` utile fornire una tabella riassuntiva.

Fasi dello stadio senso-motorio Mesi

Fasi

Sviluppo della nozione di oggetto

Sviluppo della causalita`

Costruzione del tempo

Intelligenza senso-motoria

0-3

I-II

Nessuna condotta particolare relativa agli oggetti spariti.

Non stabilisce nessi di causalita`.

Capace di coordinare nel tempo i movimenti e le percezioni. Esegue atti in ordine temporale.

Esercizio dei riflessi. Integrazione tra visione, suzione, udito e fonazione.

3

III

Inizio di permanenza dell’oggetto come prolungamento dell’attivita` del bambino. Nessuna reazione alla scomparsa dell’oggetto. L’oggetto e` a ‘‘disposizione’’.

Causalita` magico-fenomenistica. Scopre che la sua mano puo` muovere gli oggetti. Scopre l’efficacia del gesto.

Il tempo comincia ad applicarsi alla successione dei fenomeni. Nozione del ‘‘prima’’ e del ‘‘poi’’ relativi alla sua attivita`. Inizia a localizzare i ricordi nel tempo.

Inizia la prensione e la coordinazione della percezione visiva con quella tattile. Non riesce sempre ad afferrare l’oggetto apparso nel campo visivo.

4

III

Ricostruisce l’oggetto visibile parzialmente

/

/

Riesce a fissare gli occhi su oggetti vicini e lontani.

5-7

III

E` capace di allontanare l’ostacolo che nasconde l’oggetto.

Impara ad imitare. L’attivita` degli altri dipende dalla ‘‘sua’’.

/

Punta un oggetto e lo afferra. Riconosce gli oggetti familiari. Passa un oggeto da una mano all’altra.

8-12

IV

Ricerca attivamente l’oggetto scomparso, senza tenere conto della successione degli spostamenti visibili. L’oggetto e` ancora a ‘‘disposizione’’. Cerca l’oggetto in una posizione privilegiata: nel luogo trovato precedentemente.

Inizio di concetto di causalita`: causalita` intermedia, in parte obiettiva, in parte spazializzata. Oggetti e persone sono in parte autonomi, in parte dipendenti dalla sua attivita`.

/

Afferra il bicchiere e beve.

12-18

V

Tiene conto degli spostamenti visibili successivi. L’oggetto visibile diventa permanente e indipendente.

Oggettivazione e spazializzazione della causalita`.

/

Emerge la capacita` inventiva di fronte a situazioni nuove.

18-24

VI

Rappresentazione degli spostamenti invisibili. La ricerca dell’oggetto diventa cosciente. Immagina l’itinerario dell’oggetto invisibile.

Causalita` rappresentativa.

Sviluppo delle rappresentazioni temporali. Memoria di rievocazione.

Prevede e progetta.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2.3. Stadio pre-operatorio (2-6 anni) Dallo schema precedente possiamo evidenziare i cambiamenti e le capacita` acquisite dal bambino alla fine del secondo anno di vita, alle quali si aggiungono, ora, la deambulazione, il riconoscimento di Se´ ed il linguaggio.

2.3.1. Il riconoscimento di Se´

A circa sei mesi il bambino riconosce le persone familiari e la loro immagine riflessa allo specchio. Questa capacita` si evidenzia sia dalla reazione di giubilo alla comparsa dell’immagine, sia dalla reazione di stupore alla sua scomparsa. Numerosi Autori hanno studiato questo fenomeno. Data la sua importanza riteniamo opportuno proporre una visione unica e completa che rappresenti la sintesi di vari Autori, quali Zazzo R., M. Lewis ecc. Riportiamo, inoltre, delle semplici sperimentazioni per evidenziare il suo evolversi. L’apparato strumentale utilizzato e` piuttosto semplice: un vetro, uno specchio ed una coppia di gemelli monozigoti. Fino a 12 mesi le reazioni del bambino di fronte allo specchio o ad un vetro dietro il quale si trova il gemello sono simili. Il bambino cerca di toccare o raggiungere sia la propria immagine che ` evidente che il fanciullo non e` quella dell’altro. E in grado di distinguere la propria immagine dalla percezione dell’altro: il che implica un non riconoscimento di se´, e soprattutto l’impossibilita` di concettualizzare lo spazio virtuale. A 12 mesi il bambino, davanti allo specchio, mostra un comportamento singolare: comincia ad osservare sia le parti del proprio corpo visibili (in genere le mani), sia l’immagine di queste nello specchio, e c’e` un primo abbozzo di riconoscimento, anche se parziale. Intorno ai 20-22 mesi questo comportamento scompare, e ne appare un altro. Il bambino guardandosi mostra una reazione di evitamento, come se percepisse qualcosa di strano: l’immagine di se´, o di un qualcuno che compie i suoi stessi movimenti. Questa reazione e` dovuta ad una elevata consapevolezza ceneste-

sica: il bambino e` perplesso di fronte ad un altro che compie esattamente i suoi movimenti. Cio` suggerisce che a questa eta` il fanciullo abbia gia` una precisa concezione del proprio corpo, mentre non ha ancora acquisito quella dello spazio virtuale, tanto e` vero che presenta il fenomeno dell’aggiramento. Ovverosia il bambino, dopo essersi guardato allo specchio, lo aggira per guardare se vi sia qualcuno dietro di esso. L’evitamento e l’aggiramento scompaiono nell’arco di uno o due mesi ed in genere all’eta` di 24 mesi il bambino raggiunge una consapevolezza di se´ tale da permettergli il riconoscimento di se stesso allo specchio: a questa eta` ricompare lo stesso giubilo che era apparso a 6 mesi di fronte all’immagine dell’altro. Questo stadio e` dimostrato da due prove: la piu` interessante e` la prova della macchia. Se al bambino viene fatta una macchia sul viso, inizialmente egli cerca di toglierla sull’immagine allo specchio1. Verso i 24 mesi, al contrario, vedendo la stessa macchia sul viso, passa la mano su di essa. Questo comportamento non indica ancora la formazione di un concetto di spazio virtuale come diverso da quello reale: se il bambino viene messo davanti allo specchio e alle sue spalle sopraggiunge un familiare, egli tende a muoversi verso l’immagine riflessa. Solo all’eta` di 30 mesi tendera` a girarsi per guardare alle sue spalle. A questa eta`, dunque, il bambino ha la piena consapevolezza di se´ e riesce a vedersi con gli occhi dell’altro. Per avere una corretta immagine di se´, il fanciullo deve acquisire una corretta concezione dello spazio e degli altri oggetti. Si deve dunque pensare che l’operazione di riconoscimento di Se´ non sorga all’improvviso, ma sia frutto di un lungo processo di elaborazione, che puo` essere sottoposto ad ulteriori rimaneggiamenti, non solo per eventuali deficit (fissazioni), ma anche per l’acquisizione di nuove capacita`. La prova piu` evidente e` l’esperimento con il video. Il bambino ripreso da una telecamera vede la sua

1 L’esperimento della macchia e` stato ideato e realizzato nel 1979 da M. Lewis e da J. Brooks-Gunn.

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immagine sul video, immagine che ha una caratteristica: e` antispeculare. All’eta` di 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video. Piu` tardi, in genere verso i quattro anni, egli mostra qualche difficolta` a riconoscersi al video. ` una regressione? Come mai? E Secondo Zazzo non si tratta di una regressione ma di una maggiore capacita` osservativa e critica. Ovverosia il bambino a 24-30 mesi si riconosce globalmente, sulla base della sua immagine corporea. Successivamente acquisisce una capacita` discriminatoria ulteriore che gli permette di capire con un certo imbarazzo che l’immagine che osserva e` sua, ma antispeculare. Questa osservazione pone un problema centrale dello sviluppo psichico. Cioe` non solo che una funzione si sviluppa per gradi, ma soprattutto che una funzione sviluppata puo` essere momentaneamente messa in crisi dal sopraggiungere di funzioni piu` elevate.

2.3.2. Lo sviluppo del linguaggio

Con l’apparire del linguaggio la vita affettiva del bambino ed il suo pensiero si modificano profondamente. Egli e` ora capace di raccontare le azioni passate e di anticipare quelle future, trasformando in tal modo le condotte concrete in pensiero. L’azione da puramente percettiva e motoria diventa immagine, immagine di rappresentazioni interiori. Hanno inizio la socializzazione dell’azione ed i rapporti di scambio e di comunicazione con altri individui. L’imitazione del periodo senso-motorio era una comunicazione non verbale tra il bambino e l’adulto. Inizialmente era imitazione dell’azione, poi imitazione dei suoni, ed infine del linguaggio. Tra i due e i sette anni il linguaggio non ha come obiettivo primario la comunicazione, in quanto e` ancora egocentrico. Non vi e` nessun tentativo da parte del bambino di assumere il ruolo di ascoltatore. Si tratta di conversazioni rudimentali, legate all’azione concreta in se stessa.

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«Fin verso ai sette anni, i bambini non sanno per nulla discutere fra loro e si limitano a lasciar cozzare le loro affermazioni contrastanti: quando cercano di darsi reciprocamente delle spiegazioni, solo con grande fatica riescono a vedere le cose dal punto di vista di colui che non conosce cio` di cui si tratta, e parlano come per se stessi; soprattutto succede che, lavorando nella stessa stanza o alla stessa tavola, ognuno parli per conto proprio, credendo di ascoltare e capire tutti gli altri; e` una sorta di “monologo collettivo”, che consiste nell’incitarsi reciprocamente all’azione piu` che a comunicarsi pensieri veri e propri». Il bambino piccolo non parla soltanto agli altri, ma parla in continuazione con se stesso, in un monologo spontaneo che diminuira` gradualmente nel tempo. Non vi e` ancora un’autentica socializzazione, «invece di uscire dalla propria visuale per coordinarla con quella degli altri, l’individuo resta ancora incosciamente centrato su se stesso». Grazie alla socializzazione dell’azione e all’uso del linguaggio, l’intelligenza senso-motoria o pratica, qual era all’inizio, diventa pensiero propriamente detto. Attraverso l’uso del linguaggio il bambino puo` ora comunicare la sua vita interiore. Compaiono i primi “perche´” ai quali l’adulto troppo spesso fa fatica a rispondere. I “perche´” dei bambini hanno un doppio significato: causa e finalita`. «La causalita` dei bambini piccoli... e` una causalita` psicologica indifferenziata, una causalita`, cioe`, in cui la forza causale individuata presenta delle connotazioni di motivazione, di intenzione o di dovere». (Flavell) «Un evento che produce un evento, una motivazione che conduce a un’azione, un’idea che da` origine a un’altra idea sono per il bambino la stessa cosa; o, piuttosto, il mondo fisico e` ancora confuso con il mondo intellettuale o psichico». Per i bambini piccoli “nella natura non esiste il caso’’, perche´ tutto e` “fatto per” gli uomini e i bambini, secondo un saggio piano prestabilito di ` quindi la “racui l’essere umano e` il centro. E gione-d’essere” delle cose che viene ricercata dal “perche´”, cioe` una ragione che sia causale e finalistica; e appunto perche´ ogni cosa ha la sua ragione il bambino che si imbatte in fenomeni

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fortuiti pone domande su di essi”. La causalita` inizialmente si confonde con il suo egocentrismo intellettuale. Se il bambino guarda la realta` attraverso i suoi occhi, la realta` non puo` che obbedire alle sue stesse motivazioni ed ai suoi stessi impulsi interni. In altre parole le leggi naturali si confondono con quelle morali. Anche il gioco diventa simbolico, di immaginazione ed imitazione. «La sua funzione consiste.... nel soddisfare l’io con una trasformazione del reale in funzione dei desideri: il bambino che gioca con la bambola riproduce la propria vita ma correggendola a suo piacimento, rivive tutti i suoi piaceri e i suoi conflitti, ma risolvendoli e soprattutto compensando e completando la realta` grazie all’immaginazione. In breve il gioco simbolico non e` un tentativo del soggetto di sottomettersi al reale, ma al contrario un’assimilazione deformante del reale all’io». Il simbolo e` compreso dal bambino in quanto l’immaginario si riferisce a ricordi di situazioni vissute, spesso intime e personali. L’acquisizione del linguaggio comunque in qualche modo contrasta la posizione egocentrica del bambino. Il relazionarsi con gli altri, l’esprimere i propri stati interni, il cominciare a pensare che anche gli altri hanno stati interni, aiutano il bambino a capire non solamente che ci sono anche gli altri, in quanto soggetti attivi, ma soprattutto che lui e` parte del mondo. Questo lungo processo termina intorno ai 6-7 anni, e comporta una sorta di rivoluzione copernicana: non piu` l’Io al centro del mondo, ma parte integrante di una complessita` qual e` il gruppo.

a) b) c) d) e) f)

l’egocentrismo; la concentrazione (una cosa alla volta); l’irreversibilita`; il ragionamento primitivo o trasduttivo; l’identita` dell’oggetto; l’inizio della capacita` di classificazione.

a) Egocentrismo ` la tendenza ad essere “incentrato sull’io”. Il E bambino guarda le cose unicamente dalla sua prospettiva non rendendosi conto che esistono molteplici punti di vista. Questo dato e` evidente soprattutto nel linguaggio o comunque nella conversazione, ove il bambino non tiene conto dell’interlocutore, come se l’altro conoscesse il suo stesso pensiero. b) Concentrazione Il bambino tende a concentrarsi su di un unico aspetto evidente di un evento, tralasciando gli altri altrettanto importanti e deformando in questo modo il suo pensiero. Egli finisce cioe` per considerare una parte come il tutto. Se il bambino vede versare la stessa quantita` di acqua da un bicchiere basso e largo ad un altro alto e sottile, egli da` per scontato che la quantita` di acqua nel secondo bicchiere e` maggiore, poiche´ ha incentrato momentaneamente l’attenzione sull’altezza raggiunta dal liquido. Solo alla fine del periodo pre-operatorio inizia la fase di decentramento: il bambino comincia a tener conto contemporaneamente dei diversi aspetti di una stessa situazione. L’io dunque non sara` piu` per il bambino l’unico punto di riferimento. c) Irreversibilita` (vedi realismo, pag. seguente).

2.3.3. Caratteristiche dello stadio pre-operatorio

Ci siamo soffermati particolarmente sul processo di acquisizione del riconoscimento di Se´ e del linguaggio, ritenendoli due funzioni fondamentali di questo stadio. Da non dimenticare che il linguaggio e` il mezzo attraverso il quale l’Autore e` riuscito ad estrapolare le caratteristiche e le capacita` acquisite nel tempo dal fanciullo. Le caratteristiche dello stadio pre-operatorio sono:

d) Ragionamento primitivo (trasduttivo) ` la modalita` di pensiero per cui due avveniE menti che avvengono per caso contemporaneamente non solo sono strettamente collegati, ma uno e` causa dell’altro. Il bambino dunque ritiene il nesso cronologico necessariamente causale. Questo tipo di ragionamento che e` all’origine del pensiero magico, secondo l’Autore, tende a scomparire intorno ai sei anni. e) Identita` dell’oggetto L’oggetto e` ora concepito dal bambino come

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identico a se stesso, quali che siano i cambiamenti ` questa una conquista imesterni da esso subiti. E portante, che coinvolge anche l’indentita` sessuale del bambino. Verso i 5-6 anni, infatti, egli sa perfettamente che indossando abiti femminili non potrebbe mai diventare una bambina. Incomincia a delinearsi la capacita` di pensare al “come se”. f) Capacita` di classificazione Il bambino verso la fine dello stadio preoperatorio (6 anni circa) e` in grado di fare raggruppamenti sulla base di somiglianze piu` o meno complesse. Manca comunque la capacita` chiamata da Piaget “inclusioni di classi”, che verra` acquisita verso i 7-8 anni. Capacita` che permettera` al fanciullo di capire che alcuni oggetti sono sottoclassi di una classe comune. Supponiamo di mostrare al bambino un numero di sfere di legno in gran parte marroni ed in piccola parte bianche, e di domandargli se ci siano piu` palline marroni o piu` palline di legno. Egli, non riuscendo a capire che la classe delle palline marroni e` inclusa in quelle di legno, risponde che le prime sono in quantita` maggiore rispetto alle seconde.

2.3.4. Operazioni mentali specifiche

Queste funzioni, soprattutto le prime quattro, sono alla base della modalita` del pensiero preoperatorio del bambino. Vediamo, ora, in maniera particolareggiata quali sono le operazioni mentali specifiche.

2.3.4.1. Il realismo

Il bambino e` cosciente del contenuto dei propri pensieri, avverte la loro esistenza e nota particolari minutissimi. Egli dunque «ha la giusta percezione dei dati della coscienza, ma e` inconsapevole della via per la quale sono stati raggiunti»; in altre parole, possiede la capacita` da Piaget definita «intuizione infantile». Egli attribuisce al contenuto dei propri pensieri una diversa localizzazione, ossia «situa nell’universo o negli altri cio` che noi situiamo in noi

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stessi, e situa in se stesso cio` che noi situiamo in altri». ` sensibile al mondo che lo circonda, ma E essendo inconsapevole dei suoi processi mentali, finisce per considerare i suoi pensieri e i suoi sentimenti, obiettivi, come se ognuno di noi provasse le sue stesse emozioni e formulasse i suoi stessi pensieri. In altre parole le sue rappresentazioni e i suoi strumenti del pensiero sono da lui percepiti come assoluti; egli si pone al centro dell’universo, ignorando “l’esistenza della propria soggettivita`”. ` solo «attraverso una serie di delusioni, nonE che´ attraverso l’esperienza della resistenza altrui, che apprendera` il carattere soggettivo dei suoi sentimenti». Il bambino parla di se´ in terza persona; egli probabilmente «non ha capito che la rappresentazione che ha di se stesso e` diversa da quella che puo` averne un altro. Per parlare di se´ non cerca di mettersi dal punto di vista altrui, ma crede di mettersi dall’unico punto di vista possibile, il punto di vista assoluto». Il bambino che parla di se´ in terza persona «ha in parte coscienza del proprio io, ma forse non il senso del proprio io». L’incapacita` del fanciullo di concepire un ruolo diverso dal suo lo porta a non sentire il bisogno di spiegare o giustificare le proprie affermazioni, i propri ragionamenti, troppo spesso accompagnati da grossolane contraddizioni. Egli non e` capace di ricostruire la sequenza del proprio ragionamento non appena sviluppato: «egli pensa, ma non puo` pensare il suo stesso pensiero». (Flavell) Pensiero ne´ logico ne´ reversibile. Un’azione mentale e` “reversibile” se nel momento in cui viene formulata puo` ripercorrere la stessa via cognitiva, per tornare al punto di partenza immutato. Il pensiero pre-operatorio e` dunque un pensiero irreversibile, lento, contraddittorio; il bambino non e` capace di mantenere inalterata la sua premessa nel corso di una sequenza di ragionamento. ` inoltre incapace di separare i diversi aspetti E del suo ragionamento, in quanto egli concentra la sua attenzione su di un unico aspetto evidente,

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trascurandone altri altrettanto importanti e deformando in questo modo il suo pensiero. Non e` in grado di collegare adeguatamente le trasformazioni successive di un evento che lo rendono logico e coerente. Il bambino piccolo afferma sempre, ma non dimostra mai. I primi concetti o pre-concetti sono dunque estremamente concreti, non astratti: il bambino piccolo concentra tutta la sua attenzione su di un aspetto saliente di un evento, traendo da esso una conclusione, che si impone alla sua percezione. Egli si limita a “giustapporre” un elemento di pensiero ad un altro, senza un rapporto causale e logico. Non e` capace di stabilire delle vere relazioni di causalita` fra elementi successivi di una catena di ragionamenti.

2.3.4.2. L’animismo

I bambini inizialmente attribuiscono “vita” sia ad oggetti animati che inanimati. L’attribuire vita ad oggetti inanimati diminuisce con l’eta`. La tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzione e` da Piaget chiamata “animismo infantile”. Fino all’eta` di 6-7 anni tutti i corpi per il bambino sono «coscienti e vivi, anche quelli immobili. La coscienza e` legata ad una attivita` qualsivoglia, sia che questa attivita` emani dagli oggetti stessi, sia che questi la subiscano dall’esterno». Il fanciullo «ignora che possano esserci azioni non accompagnate da coscienza. L’attivita` e` per lui necessariamente intenzionale e cosciente». Tra i 6-7 anni coscienza e vita sono attribuite dal bambino solamente a tutto cio` che si muove, indipendentemente dalla sua origine, sia esso provocato interamente dall’esterno o dotato di moto proprio. ` un momento di transizione in cui il fanE ciullo considera cosciente cio` che si muove, semplicemente perche´ ignora il movimento spontaneo. Il bambino confonde cio` che e` meccanico con cio` che e` biologico. Tra i 6 ed i 7 anni egli attribuisce coscienza e vita solamente ai corpi dotati di moto proprio, ma

«i fanciulli differiscono... su cio` che si debba considerare... moto proprio». Egli distingue ora, il moto ricevuto dall’esterno dal moto proprio, ma attribuisce ancora coscienza e vita agli astri, al vento ed alle nuvole. Secondo Freud l’animismo e` un fenomeno dovuto alla «proiezione di percezioni interiori all’esterno». Piaget critica questa interpretazione, sostenendo che all’origine dell’animismo vi siano due fattori: individuali o biologici e sociali. Tra i fattori sociali, assume una certa importanza il rapporto del bambino con i propri genitori, in particolare quello con la madre che intervenendo in tutti i suoi atti e in tutti i suoi affetti impedisce al fanciullo di distinguere la sua attivita` da quella degli altri. In altre parole, i genitori concorrono nel creare l’indifferenziazione tra l’io e il mondo esterno. I fattori di ordine individuale sono due: l’indissociazione e l’introiezione. Il bambino non distingue, inizialmente, gli atti intenzionali da quelli non intenzionali, il mondo psichico da quello fisico, il soggettivo dall’oggettivo e attribuisce alle cose vita, coscienza ed emozioni. L’introiezione e` la tendenza ad attribuire agli astri ed alle cose i medesimi sentimenti che si provano di fronte ad essi. «...Tutto cio` che resiste o che obbedisce all’io, e` concepito come avente un’attivita` identica a quella dell’io che comanda o che cerca di vincere una resistenza». L’introiezione e` dunque l’interpretazione del suo egocentrismo. L’educazione e gli obblighi che comporta sono per il bambino estesi alle cose. In altre parole, ogni cosa segue i suoi stessi obblighi e le sue stesse regole. I fattori che generano l’animismo danno origine anche al pensiero magico del bambino.

2.3.4.3. Il pensiero magico

Il pensiero pre-operatorio e` fondamentalmente un pensiero magico. Piaget definisce “magia” «l’uso che l’indivi-

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duo crede di poter fare dei rapporti di partecipazione» per poter «modificare la realta`». Definisce “partecipazione” «il rapporto... fra due esseri o due fenomeni... aventi una diretta influenza l’uno sull’altro, pur non esistendo fra loro ne´ contatto spaziale ne´ legame causale intellegibile». Ogni magia presuppone sempre una partecipazione. Entrambe, magia e partecipazione, sono distinte secondo Piaget dall’animismo infantile, ossia «dalla tendenza che ha il fanciullo a prestar vita e coscienza agli esseri inanimati». In altre parole, quando il bambino crede che un astro lo segua fa dell’animismo; quando crede di farlo muovere compie una magia per participazione. Piaget distingue le partecipazioni e le pratiche magiche del bambino in quattro categorie secondo il loro contenuto e il loro rapporto causale: a)

b)

c)

d)

«la magia per partecipazione dei gesti e delle cose», in cui il fanciullo grazie ad un gesto o ad una operazione mentale realizza un determinato avvenimento o ne scongiura un altro; «la magia per partecipazione del pensiero e delle cose», in cui il pensiero, una parola o uno sguardo sono per il bambino capaci di modificare la realta`. Come se gli strumenti del pensiero fossero legati alle cose stesse e capaci di agire su di loro. Anche in questo caso, come nel precedente, i gesti tendono a diventare simbolici; «la magia per partecipazione di sostanze», in cui la magia non e` piu` legata ad un gesto o ad un pensiero, ma ad un corpo o ad un luogo che il bambino utilizza per influenzare un avvenimento o agire su di un altro corpo; «la magia per partecipazione di intenzioni e magia per comando», in cui i corpi sono animati e dotati di intenzione dal bambino. Sicuramente alla base di questa credenza troviamo l’egocentrismo e il rispetto dei genitori, che spinge il bambino a credere che il mondo ubbidisca a leggi piu` morali che fisiche.

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2.3.4.3.1. Genesi e natura del pensiero magico

Il pensiero magico ha da sempre colpito l’immaginazione, ed e` stato per vari ricercatori, anche in campi diversi, fonte di interesse. Basti pensare al pensiero magico attribuito agli uomini primitivi. Frazer vede «nella magia la semplice applicazione alla causalita` esterna delle leggi di somiglianza e di contiguita` che governano le nostre associazioni di idee». L’Autore spiega la sua forma, ma non l’efficacia che il gesto magico assume per il bambino e la sua irrazionalita`. Freud, invece, ritiene che la magia sia prodotta dal desiderio, ritiene inoltre che dietro ogni pratica magica del fanciullo vi sia una affettivita` particolare. Egli considera la magia il risultato del narcisismo infantile, ossia «uno stadio dello sviluppo affettivo durante il quale il fanciullo non si interessa che alla propria persona, ai propri desideri e ai propri pensieri». Il bambino innamorato di se stesso considera, secondo Freud, i suoi pensieri e i suoi desideri capaci di influenzare magicamente gli avvenimenti e dotati di tutta l’efficacia necessaria. Secondo Piaget, Freud attribuisce al fanciullo un narcisismo adulto, come se egli fosse capace di distinguere il “proprio io dalla persona altrui”. Ma il bambino, essendo incapace di compiere questa distinzione, considera il proprio pensiero “onnipotente”, in altre parole ignora tutto cio` che e` estraneo a lui. «Il narcisismo, cioe` l’egocentrismo assoluto, produce sı` la credenza magica, ma solo per quel tanto che implica l’assenza di coscienza dell’io». Di conseguenza, quando il soggetto comanda al proprio corpo, probabilmente crede di comandare al mondo, «per uno spirito che non distingue o distingue male l’io dal mondo esterno... ogni cosa puo` agire su tutto; o, se si preferisce, la partecipazione risulta da un’indifferenziazione tra coscienza dell’azione dell’io su se stesso e coscienza dell’io sulle cose». La partecipazione e la magia del bambino dipendono sia dal suo egocentrismo assoluto, sia dall’atteggiamento che i genitori assumono nei suoi confronti, obbedendo ed esaudendo ogni suo

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` naturale, dunque, che il bisogno e desiderio. E bambino non riesca a distinguere la propria attivita` da quella dei genitori. ` chiaro che se i suoi desideri vengono esauE diti e quindi rinforzati il bambino creda di comandare un essere vivente o una cosa. Gli avvenimenti sui quali il bambino cerca di agire magicamente possono essere ostili o propizi. I riti magici del bambino sono eseguiti per «accattivarsi la benevolenza o per sventare la cattiva sorte». La “magia per partecipazione” e` legata, secondo Piaget, a due fattori: all’indifferenziazione «o alla confusione fra il proprio punto di vista e i movimenti esterni», per cui il soggetto ha l’impressione che gli astri camminino insieme a lui, e all’animismo per cui egli crede che gli astri siano vivi perche´ capaci di seguirlo. Le pratiche magiche tendono al simbolismo «perche´ ogni pensiero e` simbolico». «Cio` che lo stadio magico ...presenta di tipico e` appunto che i simboli sono ancora concepiti come partecipi delle cose .... Il fanciullo localizza nelle cose cio` che invece e` dovuto all’attivita` del suo io».

2.3.4.4. L’artificialismo

L’artificialismo infantile e` la tendenza a concepire tutti i corpi come “fatti per” l’uomo. ` un fenomeno complesso e generale, la cui E origine e` sicuramente influenzata dall’insegnamento religioso. Spesso nel bambino ricorre il concetto che Dio abitante il cielo possa in qualche modo creare gli astri. All’origine della credenza vi sono sicuramente i genitori, i quali hanno insegnato che Dio ha creato il cielo e la terra, e che ogni cosa ubbidisce alle sue leggi. Il bambino inizialmente attribuisce «spontaneamente ai genitori le perfezioni e gli attributi che piu` tardi trasferira` in Dio, se l’educazione religiosa gliene fornira` l’occasione». Attributi quali l’onniscienza e l’onnipotenza che gli adulti perderanno non appena il fanciullo scoprira` i limiti della perfezione umana. Se l’uomo e` inve-

stito, inizialmente, da attributi divini, egli puo` fabbricare ogni cosa. Quando il bambino parla di Dio, egli lo immagina uomo. Il pensiero infantile e` egocentrico «... e, come tale, intermedio fra il pensiero autistico o simbolico del sogno o della fantasticheria e il pensiero logico». Egli concepisce gli oggetti come “fatti per...”, il sole e` fatto per scaldare, la notte per dormire, tutte le cose sono “fatte per” l’uomo. Se per il bambino l’intera esistenza e` organizzata dai genitori, ed ogni cosa e` “fatta per” l’uomo, e l’uomo e` investito da poteri divini, quali l’onniscienza e l’onnipotenza, e` logico dedurre che il fanciullo concepisce le cose come “fatte da” suo padre e sua madre. Cio` spiega facilmente il passaggio da “fatto per” l’uomo a ‘‘fabbricato dall’uomo’’. L’artificialismo e l’animismo sono, almeno all’inizio, fenomeni complementari. Il bambino concepisce gli esseri come vivi e fabbricati allo stesso tempo, in altre parole ogni cosa nasce, cresce, vive grazie all’uomo che la ha costruita. Artificialismo ed animismo si uniscono a formare il pensiero infantile. Se il fanciullo assimila l’apparizione degli astri alla nascita di un essere vivente, la nascita e` per lui una specie di fabbricazione di cui non si puo` precisare il “come”, ma che consiste nel costruire qualcosa di vivo. Come concepisce il bambino la sua nascita? Sicuramente vi e` un legame stretto tra genitori e figli, ma non ancora un vero rapporto di causa ed effetto. Il bambino appartiene ai propri genitori; egli si considera preesistente alla loro stessa attivita`. ` curioso come molti bambini piccoli credano E che i morti ritornino piccoli e rinascano sottoforma di bebe`. Il bambino domanda e riceve troppo spesso dai propri genitori spiegazioni strane, racconti di api o di cicogne. Quando il bambino domanda, egli non chiede come “si fanno” i bambini, ma “da dove “ vengono”, i bambini sono dunque per lui preesistenti, ed i genitori ordinano il loro apparire. Non vi e`

Teorie dello sviluppo psichico

fabbricazione alcuna, ma semplicemente un legame diretto. Quando domandiamo loro “come” i bambini nascono, questi rispondono assimilando la nascita alla fabbricazione. I fanciulli comprendono che “la materia con cui i genitori fabbricano i loro figli viene dal loro stesso corpo”. La curiosita` relativa alla nascita sembra precedere, nella maggior parte dei casi, quella sull’origine delle cose (frequente fra i 4-7 anni) e sull’artificialismo infantile. L’interesse sul problema della nascita spinge il bambino verso l’origine dell’uomo, alla quale intorno ai 4-5 anni egli trova una soluzione artificialistica. «Una coppia di antenati (uomini) ha creato tutto, e tutto si spiega cosı`». Verso i 7-9 anni, il bambino trova nuove spiegazioni; egli fa discendere l’uomo dagli animali o ` la natura dalle piante, ossia dalla natura stessa. E ora il principio di tutto. Animismo ed artificialismo sono concetti che si sviluppano, nel bambino, parallelamente. Esiste, dunque, tra gli stadi dell’artificialismo spontaneo e quella dell’animismo, uno stretto rapporto.

2.4. Stadio operatorio concreto (6-12 anni) Lo stadio operatorio concreto e`, secondo Piaget ed altri Autori che si sono occupati dello sviluppo infantile, una delle fasi piu` importanti per la quantita` e la qualita` delle sue operazioni. L’eta` di 6 anni concide con l’inizio della scolarizzazione propriamente detta. Sicuramente tutto cio` conduce ad un profondo cambiamento nella vita sociale, intellettiva ed affettiva del bambino. Nel periodo pre-operatorio la funzione del linguaggio non aveva come obiettivo la comunicazione. In altre parole i bambini piu` piccoli parlano tra loro, ma non si ascoltano, e se si riuniscono per svolgere un lavoro insieme non si aiutano. Nel periodo operatorio concreto, al contrario, si rimane colpiti dalla concentrazione individuale e dalla reale collaborazione nello svolgere un’attivita` comune.

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Il bambino dopo i 7 anni e` in grado di collegare, coordinare e separare le sue azioni da quelle degli altri. Non vi e` piu` un tentativo di comunicazione, ma vere e proprie discussioni. Le conversazioni diventano effettive comunicazioni reciproche, con reali scambi di informazioni. Ogni partecipante sostiene il proprio punto di vista ricercando spiegazioni causali e giustificazioni logiche. Dunque il bambino spiega non solo l’azione concreta, ma il proprio pensiero. Egli e` in grado, ora, di rivederlo e di riflettere in modo critico su di esso. Scompare l’egocentrismo del linguaggio e del pensiero cognitivo. Scompaiono le condotte impulsive precedenti. L’interazione sociale con i coetani gli permette di riesaminare il suo pensiero e di confrontarlo con quello degli altri. Inizia la riflessione, che e` ancora linguaggio interiore, al contrario della discussione sociale che e` riflessione esteriore. «Compiere una introspezione.... significa, in sostanza, osservare se stessi, ponendosi pero` in un certo senso al di fuori di se stessi; significa considerare momenti successivi di un processo di pensiero a carattere piu` o meno unitario, e percio` anche rendersi conto che certe convinzioni, prima non possedute, si sono venute formando, ed altre si sono invece dimostrate erronee; che dunque certi punti di vista sono mutati e che, percio`, puo` esistere una varieta` di punti di vista». (Petter) L’analisi di una sequenza di ragionamento risulta difficile per il bambino che non ha raggiunto il livello del pensiero reversibile. Un’azione mentale che ha carattere reversibile e` da Piaget chiamata “operazione’’. Dunque pensiero reversibile e pensiero operatorio sono secondo l’Autore equivalenti. La reversibilita` rende il bambino capace di separare le connessioni di tipo causale esistenti tra due fenomeni da quelle percettivamente simili, contigue nello spazio o nel tempo, ma soprattutto di riconoscere e separare i processi causali che portano a risultati imprevedibili, ovverosia fortuiti. Grazie alla reversibilita` del pensiero egli e` in grado ora di compiere un’operazione logica. Il passaggio dall’intuizione alla logica si compie verso i sette anni, epoca in cui il bambino inizia ad elaborare concetti, classi, rela-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

zioni, compie operazioni aritmetiche, geometriche, temporali e cosı` via. Anche le esperienze del bambino non vengono piu` da lui considerate come singoli eventi separati tra loro, ma riuniti in “classi”, sempre piu` complesse. Vediamo, ora, in maniera particolareggiata alcune delle acquisizioni fondamentali.

2.4.1. La nozione d’identita`

Alla fine del periodo senso-motorio, l’oggetto, per il fanciullo e` diventato permanente, ossia e` concepito come identico a se stesso, quali che siano i suoi spostamenti. Successivamente, l’oggetto, e` concepito come identico a se stesso, quali che siano le trasformazioni superficiali subite. Infatti intorno ai 7 anni il bambino scopre un principio nuovo, chiamato da Piaget “conservazione”. Vediamo, ora, un esempio concreto. Se mostriamo ad un bambino due sfere di creta uguali e lo invitiamo a palparle e a soppesarle, egli conclude che la quantita` di sostanza in entrambe e` uguale. Se schiacciamo una delle due sfere fino a deformarla, a differenza della fase precedente, egli afferma che la quantita` di materia e` rimasta invariata nonostante la sua trasformazione. La reversibilita` del pensiero, propria del periodo operatorio, ha permesso al bambino di ricostruire l’oggetto. Dunque egli comprende che alcune proprieta` della materia, quali il numero, il peso e la quantita` restano invariate, quali che siano i cambiamenti nella forma o nella disposizione spaziale subiti. ` questa una forma piu` evoluta del concetto di E permanenza dell’oggetto.

2.4.2. La classificazione

Incomincia, in questo periodo, l’acquisizione della relazione tra classi piu` complesse e piu` ampie. Il bambino comincia a capire, per esempio,

che la classe “rosa” e` compresa in quella piu` ampia di “fiore”, e che le palline di legno, marroni o bianche, al di la` del colore, appartengono ad una classe comune, quella del “legno”. Tutto cio` e` possibile se l’oggetto e` percepito direttamente dal bambino; in altre parole, egli e` in grado di compiere una operazione logica complessa, quando l’oggetto e` visibile. Il fanciullo non e` in grado di ricostruire mentalmente un’immagine quando non e` piu` da lui direttamente percepibile. L’esperimento della E. Markmann e` paradigmatico. L’Autrice mostrando ad alcuni bambini quattro lettini e quattro seggioline, che ella chiama “mobili”, alla domanda «se vi siano piu` lettini o piu` mobili?» ottiene una risposta corretta: che vi sono piu` mobili, classe che include i lettini. Successivamente, nascondendo gli oggetti dietro uno schermo, e togliendone alcuni, ripete loro la medesima domanda. In questo caso i bambini, fino all’eta` di 11-12 anni, non riescono a rispondere correttamente fintantoche´ gli oggetti sono loro nascosti e quindi non percepibili. Questo esperimento dimostra chiaramente che lo sviluppo cognitivo e` graduale. Piaget lo divide in diverse fasi, ognuna delle quali presuppone condizioni di equilibrio successive, che vanno progressivamente adattandosi alle continue scoperte intellettuali, sociali ed affettive del bambino. Ogni stadio raggiunto presuppone una percezione dell’ambiente sempre piu` complessa. Perche´ si verifichi un cambiamento qualitativo e` necessaria, dunque, una ristrutturazione degli equilibri passati per raggiungere una stabilita` intellettuale futura. In altre parole, l’acquisizione di una nuova capacita` attraversa una serie di passaggi evolutivi, che sono a volte messi in discussione dal bambino prima di raggiungere la stabilita` intellettuale di quelli successivi. Ci sembra utile ricordare quanto abbiamo detto a proposito dell’acquisizione dell’identita` del Se´, soprattutto sul comportamento del bambino di fronte alla sua immagine proiettata su di uno schermo.

Teorie dello sviluppo psichico

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2.4.3. L’ordinamento in serie

2.4.5. Le strategie mnemoniche

Oltre l’inclusione in classi, il bambino in questo periodo acquisisce anche la capacita` di ordinare in serie, per esempio mettere in ordine oggetti dal piu` piccolo al piu` grande, dal piu` scuro al piu` chiaro. L’ordinamento in serie comporta l’acquisizione della transitivita`, ovverosia della operazione per cui se A e` maggiore di B e B e` maggiore di C, A e` maggiore di C. Ai nostri occhi puo` sembrare una operazione semplice, ma in realta` questa capacita` implica un maggior distacco dai dati osservabili e comporta un livello di astrazione maggiore. ` su queste basi che nel periodo operatorio E concreto il bambino comincia a comprendere i fondamenti della matematica ed acquisisce il concetto di numero.

Un problema importante per lo sviluppo del bambino e` sicuramente legato alla memoria, in altre parole alla modalita` con la quale il fanciullo riesce a ricordare una serie impressionante di dati che egli assorbe quotidianamente. Dalle ricerche condotte da Piaget, confermate successivamente da Flavell, emerge un fatto interessante, ovverosia i bambini fin dall’eta` di 4-5 anni ripetono mentalmente i dati che devono ricordare solamente se questa strategia viene loro suggerita. Intorno ai 6-7 anni, i fanciulli scoprono da soli questa possibilita` rendendola ancora piu` efficace, collegando i dati da memorizzare con le immagini. Tale modalita` di pensiero e` possibile solo per un numero di informazioni limitato: di fronte a situazioni piu` complesse i bambini organizzano il materiale da memorizzare in categorie e classi.

2.4.4. Giudizio morale

Piaget e` stato il primo Autore a collegare la nascita del senso morale con lo sviluppo intellettivo del bambino, distinguendone due stadi: la morale eteronoma e quella autonoma. La prima, chiamata da Piaget anche realismo morale, inizia intorno ai 5 anni, ed e` caratterizzata da un assolutismo morale (le regole sono assolute ed immutabili) e da una giustizia immanente (ad una infrazione segue sempre il giusto castigo). Inoltre, il giudizio “buono-cattivo” e` da lui considerato indipendente dalle motivazioni: cio` sembra collegabile all’incapacita` di guardare oltre i fatti contingenti. Verso i 7 anni comincia a svilupparsi una moralita` diversa, chiamata autonoma o della reciprocita`. Le regole del gioco non sono piu` immutabili, purche´ tutti siano d’accordo nel cambiarle; la convinzione che la punizione segua sempre un cattivo comportamento si attenua fortemente. Il bambino comincia a giudicare le azioni in base alle motivazioni, non solo agli effetti. L’antinomia bene-male, giusto-ingiusto, assume, ora, la caratteristica di quello che sara` il senso morale dell’adulto.

* * * Dopo aver esaminato le diverse capacita` acquisite dal bambino nel periodo operatorio concreto, approfondiremo due concetti fondamentali: il tempo e la causalita`. Entrambi si sviluppano lungo tutto l’arco di tempo che va dal periodo pre-operatorio a quello operatorio concreto. 2.4.6. La concezione del tempo

Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, inteso come “tempo fisico”, e` strettamente collegata con la nozione di movimento e di velocita`. Il tempo e` un concetto non preesistente nel bambino, ma costruito lentamente e gradualmente, legato alle operazioni logiche che si vanno formando e che lo costituiscono. Il bambino, inizialmente, confonde la successione degli eventi percepiti con le successioni e le distanze spaziali. Se un corpo mobile attraversa punti successivi, A, B, C, D, il fanciullo intuisce correttamente che il punto C e` stato raggiunto “dopo” il

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punto A, e che e` occorso “piu` tempo” per percorrere l’itinerario AC rispetto all’itinerario AB. Apparentemente il bambino sembra possedere un concetto di successione e durata temporale corretto, simile a quello dell’adulto. «... Sino a che si tratta di percorrere semplicemente le posizioni successive di un mobile nel corso di un solo evento, la successione temporale si confonde con la successione spaziale...». Molto sinteticamente, potremmo schematizzare le cose dicendo che per il bambino “piu` in fretta” e` uguale a “piu` lontano” (sorpasso) e che “piu` lontano” e` uguale a “piu` tempo”. Anche nel tempo vissuto o tempo soggettivo gli eventi del passato vengono da lui collocati in un “prima” ed in un “poi”, secondo motivazioni ` facile, personali, legate a situazioni contestuali. E infatti, che il bambino in situazioni e momenti diversi cambi la cronologia degli eventi. Il tempo vissuto e` dunque una serie di eventi che iniziano e finiscono. Nel periodo operatorio, il tempo diventa unico ed omogeneo, e solamente nello stadio successivo un concetto astratto. Il tempo e` un concetto estremamente complesso; lo stesso Autore ammette la difficolta` incontrata nello studiarlo.

2.4.7. La causalita`

Animismo, artificialismo e pratiche magiche, rappresentano la concezione infantile della causalita`, e la sua rappresentazione del mondo e del reale. Quando si domanda al fanciullo di spiegare le cause che generano il movimento delle cose e degli astri, egli risponde attribuendo ad esso una volonta` esterna ed una interna. Il suo pensiero e` animistico ed artificialistico allo stesso tempo, ma anche magico, poiche´ «...per un verso noi diamo degli ordini alle cose (il sole e la luna, le nuvole e il cielo ci obbediscono), per un altro queste cose si sottomettono ai nostri desideri perche´ esse stesse desiderano farlo». Tale concezione infantile del reale rimane a lungo nel bambino, anche quando questi spiega il

movimento della natura attraverso la natura stessa, ossia generato da un agente interno ed uno esterno, dove il primo e` volonta` degli oggetti, ed il secondo «...e` costituito dalla somma dei corpi che attirano o respingono (in senso, per cosı` dire, “morale”) l’oggetto in movimento. Cosı` il lago attira i fiumi; la notte e la pioggia attirano le nubi; il sole e le nubi si respingono reciprocamente; le rocce aiutano l’acqua a scorrere, e cosı` via. Si tratta semplicemente di un prolungamento dell’atteggiamento artificialista-animista, ma l’artificialismo e` trasferito agli oggetti esterni». Successivamente il movimento viene attribuito dal bambino a cause sempre piu` fisiche, in quanto egli ritiene che la forza esterna agisca per contatto, spingendo o tirando. Questa spiegazione e` ancora legata al pensiero animistico ed artificialistico, in quanto il concetto di forza o motore interno non e` ancora abolito, «...il corpo in movimento mantiene l’iniziativa e puo` utilizzare la forza esterna oppure sottrarsi alla sua influenza. Cosı` il sole e` trascinato dalle nuvole, ma nello stesso tempo ci segue e utilizza il vento per i suoi fini. E lo stesso accade per le nuvole». Infine, con il superamento della mentalita` animistica-artificialistica, il bambino attribuisce al movimento un concetto meccanico, fondato sull’inerzia. Ricapitolando: «Il primo stadio e` magico: noi facciamo muovere le nuvole camminando. Le nuvole ci obbediscono a distanza. L’eta` media di questo stadio e` intorno ai cinque anni. Il secondo stadio e` sia artificialistico che animistico. Le nuvole si muovono perche´ Dio o gli uomini le fanno muovere. L’eta` media di questo stadio e` intorno ai sei anni. Durante un terzo stadio, la cui eta` media e` intorno ai sette anni, il bambino suppone che le nuvole si muovano da sole, ma non dice nulla di preciso sul modo in cui si compie questo movimento. Il movimento, pero`, e` anche condizionato da cause morali e fisiche, e cio` dimostra che l’artificialismo e` stato semplicemente trasferito agli oggetti. Sono il sole, la luna, ecc., che fanno muovere le nuvole; i corpi celesti, pero`, determinano questi movimenti non nel modo in cui una causa fisica determina i suoi effetti, ma piuttosto come un uomo costringe un altro dandogli un ordine, con o senza l’intervento

Teorie dello sviluppo psichico

della forza fisica. Durante questo terzo stadio, il bambino non dice nulla di preciso sul “come” del movimento spontaneo delle nuvole, ma e` evidente che nella sua mente vi e` gia`, latente, uno schema motorio che prepara la strada alla spiegazione del quarto stadio. I bambini del quarto stadio, infatti, dicono che il vento spinge le nuvole, ma il vento, a sua volta, e` venuto fuori dalle nuvole. L’eta` media di questo stadio e` intorno agli otto anni. Quando, infine, viene raggiunto il quinto stadio (in media intorno ai nove anni) compare una spiegazione corretta». Finche´ il pensiero logico continua ad essere trasduttivo, ovverosia a collegare causalmente eventi contemporanei, l’idea di causalita` rimane ancora inficiata dal sincretismo. Solo con lo stadio successivo il bambino riuscira` a stabilire un vero concetto di causalita`.

2.5. Stadio operatorio formale (dai 12 anni in poi)

2.5.1. La logica formale

Questo stadio e` caratterizzato dalla capacita` di eseguire operazioni formali. Il bambino comincia ad utilizzare le idee nello stesso modo con cui prima utilizzava gli oggetti. Fondamentale differenza e` che le prime sono molto piu` flessibili e manipolabili e possono dar luogo a sintesi o a ipotesi completamente nuove e diverse. Il bambino piccolo e` solamente un osservatore esterno, incapace di riflettere sugli eventi. Egli pensa «concretamente, problema per problema, man mano che la realta` gliene propone, e non collega mai le proprie soluzioni a teorie generali che ne manifesterebbero i princı`pi. Cio` che, al contrario, colpisce nell’adolescente, e` il suo interesse per problemi inattuali, senza rapporto con la realta`, vissuti giorno per giorno, o che anticipano, con un’ingenuita` disarmante, situazioni future, spesso chimeriche. Cio` che stupisce soprattutto e` la sua facilita` nell’elaborare teorie astratte». L’adolescente, come il bambino, vive nel pre-

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sente, ma vive anche nel futuro. Il mondo e` per lui pieno di teorie e di progetti su se stesso e sulla vita. In altre parole, mentre il bambino «si occupa per lo piu` del presente, di cio` che e` oggetto della sua esperienza immediata, l’adolescente estende la sfera della sua attivita` concettuale all’ipotetico, al futuro, a cio` che e` lontano nello spazio». (Flavell) Egli estende dunque il suo pensiero dal reale al possibile. Il passaggio dal pensiero concreto a quello formale, chiamato anche ipotetico-deduttivo, e` un passaggio graduale. Fino a questo momento, dunque, le operazioni del pensiero si basavano esclusivamente sulla realta`, sugli oggetti tangibili e da lui direttamente percepibili, oggetti che potevano essere manipolati e sottoposti ad esperienze concrete. Ma nel momento in cui il pensiero si libera della realta` nasce l’immaginazione. In altre parole, nasce la rappresentazione degli oggetti assenti, che equivale alla rappresentazione del reale. L’ordinamento in serie e l’inclusione in classi, tipici del pensiero concreto, lasciano posto alla “logica delle proposizioni”, ossia al ragionamento per ipotesi. Il pensiero libero dalla realta` e` ora capace di costruire teorie attraverso la riflessione. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo: l’emancipazione del pensiero stesso, ossia la libera attivita` della riflessione spontanea. «Dopo gli undici o dodici anni, il pensiero formale diviene appunto possibile, e le operazioni logiche cominciano a venir trasposte dal piano della manipolazione concreta al piano delle idee pure espresse in un qualsiasi linguaggio (il linguaggio delle parole o quello dei simboli matematici ecc.), ma senza l’appoggio della percezione, dell’esperienza, o persino della convinzione ...il pensiero formale e` quindi “ipotetico-deduttivo”, cioe` in grado di trarre conclusioni da pure ipotesi e non soltanto da una osservazione concreta». Il bambino e` ora capace non solo di applicare operazioni agli oggetti, ma di riflettere su di esse. L’adolescente come il bambino piccolo e` egocentrico, poiche´ «...ogni nuovo potere della vita mentale comincia incorporandosi il mondo in un’assimilazione egocentrica, e solo in seguito

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trova l’equilibrio, componendosi con un accomodamento al reale. Abbiamo quindi un egocentrismo intellettuale dell’adolescenza, paragonabile all’egocentrismo del neonato, che assimila l’universo alla propria attivita` fisica, ed a quello della prima infanzia che assimila le cose al pensiero in fieri (gioco simbolico ecc.). Quest’ultima forma di egocentrismo si manifesta nella convinzione dell’onnipotenza della riflessione, come se il mondo si dovesse sottomettere ai sistemi e non i sistemi ` l’eta` metafisica per eccellenza: l’io e` alla realta`. E abbastanza forte per ricostruire l’universo e abbastanza grande per incorporarselo. Poi, esattamente come l’egocentrismo sensomotorio si riduce progressivamente mediante l’organizzazione degli schemi d’azione, e come l’egocentrismo del pensiero specifico della prima infanzia termina con l’equilibrio delle operazioni concrete, cosı` l’egocentrismo metafisico viene a poco a poco corretto, in una riconciliazione tra pensiero formale e realta`: l’equilibrio viene raggiunto quando la riflessione comprende che la propria funzione non e` quella di contraddire, bensı` di precedere e interpretare l’esperienza. Allora tale equilibrio supera di gran lunga quello del pensiero concreto perche´, accanto al mondo reale, ingloba le costruzioni indefinite della deduzione razionale e della vita interiore».

2.5.2. Lo sviluppo della personalita`

Accanto alla logica formale e al completamento delle costruzioni del pensiero, si definisce la personalita`. «...In genere gli psicologi distinguono fra io e personalita` o addirittura li oppongono l’uno all’altra. L’io sarebbe un dato, se non immediato, per lo meno relativamente primitivo: e` in un certo modo il centro dell’attivita` del soggetto, ed e` caratterizzato appunto dal suo egocentrismo, conscio o inconscio. La personalita` risulta, invece, dalla sottomissione o meglio dall’autosottomissione ad una qualsiasi disciplina... Si e` arrivati persino a considerare la personalita` un prodotto sociale, la persona sarebbe allora legata al ruolo (persona = la maschera sociale) che ha nella societa`. Effettivamente la personalita` implica la

cooperazione: l’autonomia della persona si oppone sia all’anomia, o assenza di regole (l’io), sia all’eteronomia, o sottomissione a coercizioni imposte dall’esterno: in questo senso la persona e` solidale ai rapporti sociali che mantiene e determina». L’elaborazione della personalita` comincia intorno agli otto anni, e si delinea intorno ai 12, ed e` influenzata dalle regole e dai valori che si vanno affermando, nonche´ dal senso morale. La personalita` nasce dunque nel momento in cui si forma “un programma di vita”, il quale presuppone la libera riflessione e il pensiero formale o ipotetico-deduttivo. L’adolescente, nella sua megalomania, si attribuisce una funzione essenziale nella salvezza del mondo, ed organizza tutta la sua vita in funzione di essa. L’adolescente «...in virtu` della sua personalita`... si pone su un piano di eguaglianza rispetto ai piu` anziani di lui, ma si sente diverso da loro per la vita nuova che lo agita. E allora, come e` suo compito, vuole superarli e sbalordirli, trasformando il mondo. Ecco perche´ i sistemi o piani di vita degli adolescenti sono colmi di sentimenti generosi, progetti altruistici o fervore mistico, e tempestosi di megalomania e egocentrismo cosciente». Egli scopre l’amore, inteso come proiezione di un ideale in un essere reale. Grazie ai progetti ed ai programmi di vita, egli si inserisce nella societa` adulta. Societa` che egli condanna e disprezza, e deve percio` riformare. I bambini piccoli socializzano attraverso il gioco collettivo ed il lavoro comune. «Le societa` di adolescenti, invece, sono soprattutto societa` di discussione: fra due amici intimi, o in piccoli cenacoli, il mondo viene ricostruito in comune, e soprattutto ci si perde in discorsi senza fine per combattere il mondo reale. A volte vi e` una reciproca critica delle rispettive soluzioni, ma l’accordo si ritrova sulla necessita` assoluta di riforme. Vengono poi le societa` piu` ampie, i movimenti giovanili, nei quali si esplicano i tentativi di riorganizzazione positiva ed i grandi entusiasmi collettivi.

Teorie dello sviluppo psichico

L’autentico adeguamento alla realta` si avra` quando da riformatore l’adolescente diventera` realizzatore. Allo stesso modo che l’esperienza riconcilia il pensiero formale con la realta` delle cose, cosı` il lavoro effettivo e continuativo, quando viene intrapreso in una situazione concreta e ben definita, guarisce da tutte le fantasticherie». Le passioni e la megalomania dell’adolescente sono reali preparazioni alla personale attivita` creativa che continuera` nella successiva opera dell’uomo.

2.6. Commento alla teoria di Piaget

Ci siamo soffermati a lungo sulla teoria di Piaget per la quantita` di ricerche e di dati che hanno permesso all’Autore di strutturare i princı`pi generali dello sviluppo cognitivo del bambino e di descrivere le modalita` e le caratteristiche del pensiero infantile. Piaget nasce biologo ed epistemologo e sottolinea questa sua specificita` collegando le fasi dello sviluppo biologico con le tappe di acquisizione della capacita` logica. Piaget ha avuto ammiratori, critici e denigratori. Da parte nostra riteniamo che molte delle sue ricerche siano valide, pero` le capacita` cognitive devono essere integrate con altri fattori come quelli emotivi e culturali per meglio delineare la complessita` dello sviluppo dell’uomo dalla nascita fino alla adolescenza. I primi stadi senso-motorio, pre-operatorio e operatorio sono stati accettati da molti Autori, al contrario dell’ultimo stadio ove la concordanza diminuisce nettamente. Durante la crescita il bambino evolve, e le variabili personali e culturali rendono lo sviluppo meno omogeneo rispetto a quanto sostenuto dall’Autore. Questa non omogeneita` costituisce in fondo la critica principale mossa agli studi di Piaget, perche´ mette in crisi quello che egli si auspicava di trovare: cioe` la costanza di sviluppo delle attivita` logiche. In effetti ulteriori ricerche condotte non hanno confermato questa ipotesi, tanto che lo stesso Piaget ha dovuto ammettere che esiste un

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de´calage orizzontale, ovverosia in ogni stadio e` presente una struttura generale, ma non tutte le possibilita` sono presenti.

3. S. Freud Dopo l’esauriente esposizione degli studi di Piaget, epistemologo e secondariamente psicologo, mi sembra utile proporre il pensiero di Freud, sia per l’importanza assunta nella cultura sia perche´ rappresenta l’antitesi di Piaget. Nell’arco di 40 anni, S. Freud costruisce una complessa, anche se spesso incoerente, teoria dello sviluppo dell’uomo. I primi anni di vita sono ricostruiti sulla base della terapia psicoanalitica condotta con pazienti adulti: in un solo caso c’e` una diretta osservazione del bambino, un nipote di Freud che di fronte all’assenza della madre reagisce con il gioco del rocchetto: con un filo di spago egli fa comparire e scomparire l’oggetto. Freud spiega questa dinamica come modalita` per controllare l’evento assenza2. La metodologia utilizzata prevalentemente da Freud di ricostruire lo sviluppo infantile dall’osservazione di patologie di adulti ha comportato una serie di ipotesi, messe in crisi da un modello di osservazione simile a quello di Piaget: la diretta osservazione del bambino. Alla nascita, il bambino ha due istinti fondamentali: quello libidico (nel quale sono compresi i cosiddetti istinti vitali che riguardano i bisogni fisiologici per la sopravvivenza) e quello aggressivo che successivamente assumera` la dizione di istinto di morte. Il bambino, secondo Freud, e` per un lungo periodo totalmente narcisista e agisce solamente per ottenere la gratificazione degli istinti vitali: e` il principio del nirvana, ovvero la tendenza al mantenimento dello stato omeostatico di piacere. L’istinto libidico tendera` successivamente ad investire particolari zone del corpo, chiamate zone erogene. A seconda delle diverse zone inte-

2 Per una critica a questa proposizione di S. Freud, vedi i capp. 4, 8, 55.

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ressate, si distinguono cinque stadi detti stadi “psicosessuali”.

3.1. Gli stadi psicosessuali

3.1.1. Stadio orale (dalla nascita ad 1 anno)

I primi contatti del bambino con il mondo avvengono tramite la bocca: pertanto la regione orale diventa il mezzo privilegiato di rapporto con la madre vissuta come oggetto che gratifica il bambino tramite l’alimentazione. Questo stadio termina con lo svezzamento: il bambino deve ora abituarsi ad un tipo diverso di alimentazione, il che vuol dire anche ad un rapporto diverso con la madre.

3.1.2. Stadio anale (da 1 a 3 anni)

Man mano che il bambino cresce comincia a spostare l’interesse alla zona anale e uretrale: inizia il controllo degli sfinteri collegato al piacere di trattenere o di emettere. Spesso in questa fase i genitori possono diventare ossessivi circa il controllo degli sfinteri, nel senso di pretendere che il figlio acquisti al piu` ` in questo stadio che presto questa capacita`. E spesso puo` sorgere un conflitto tra autonomia del bambino e tendenza dei genitori ad imporre propri tempi e bisogni.

3.1.3. Stadio fallico (dai 3 ai 5 anni)

Verso i 3-4 anni il bambino comincia a provare piacere nella manipolazione dei propri genitali: e` in questa fase che puo` iniziare la masturbazione. L’investimento sui genitali da` luogo a quello che, secondo Freud, e` il nodo centrale dello sviluppo umano: il conflitto edipico. Il bambino comincia a presentare un forte attaccamento erotico nei confronti della madre ed ovviamente considera il padre come rivale nel possesso della madre. Ma il padre e` vissuto anche come minaccioso e forte, tale comunque da poterlo castrare: in-

sorge l’ansia di castrazione. Come riuscira` a superarla? Egli tendera` ad identificarsi con il padre: interiorizzando il padre, egli ne assumera` il potere. Questo processo di identificazione e` dovuto a quello che Freud considera il tabu` piu` importante, perche´ fonda il genere umano: il tabu` dell’incesto. Lo stesso processo, ma con i ruoli scambiati, avviene per la bambina: solo che questa avra` meno angoscia, perche´ per lei la vagina rappresenta gia` una castrazione avvenuta. Ma questo costituira` poi, secondo Freud, il problema irrisolvibile della donna: l’invidia del pene. Pertanto in questo periodo il bambino avra` costituito le tre strutture fondamentali della personalita`: l’Es, l’Io ed il Super-Io. L’Es che rappresenta il serbatoio pulsionale ed e` presente fin dalla nascita, l’Io che si forma nel rapporto di mediazione tra le forze aggressive e distruttive dell’Es ed il mondo esterno, ed il Super-Io che costituisce la base del dovere e della ` ovvio che la dimensione inconscia e` moralita`. E sempre piu` strutturata ed occupa gran parte della personalita` umana. Infatti e` inconscio l’Es, il Super-Io e l’Io per la parte che riguarda i meccanismi difensivi. Questo inconscio, in gran parte dovuto alla rimozione, dominera` l’uomo, che ne e` ovviamente inconsapevole.

3.1.4. Fase di latenza (dai 5 ai 12 anni)

A questo punto il bambino e` ormai un essere completo. La fine della conflittualita` edipica lo portera` ad impegnare le proprie energie nella ricerca, nello studio, nel rapporto con i coetanei.

3.1.5. Stadio genitale

Con la puberta` si risvegliano le cariche libidiche ed aggressive che dovranno trovare una modalita` espressiva sempre piu` matura per giungere ad un’identita` sessuale tanto piu` valida, quanto meglio sono stati superati gli stadi precedenti. Se questo non avviene, l’adolescenza da crisi passeggera puo` trasformarsi in situazione di patologia piu` o meno grave.

Teorie dello sviluppo psichico

Schema sintetico dello sviluppo secondo Freud: Eta`

Stadio

Zona Erogena

Principale Problema di Sviluppo

0-1

orale

bocca

svezzamento

1-3

anale

ano

controllo sfinteri

3-5

fallico

genitali

conflitto edipico

5-12

latenza

energie sessuali latenti

sviluppo dei meccanismi difensivi

13-18

genitale

genitali

rapporto con l’altro sesso - identita` sessuale matura

* * * Esamineremo ora l’opera di M. Klein che si inserisce nel filone freudiano, con connotazioni ancora piu` pessimistiche. Ma, come vedremo, gran parte di queste teorie dello sviluppo, soprattutto riguardanti i primi anni di vita, saranno completamente messe in discussione dalle ricerche successive.

4. M. Klein L’indagine condotta da S. Freud per comprendere il significato dei sintomi nevrotici l’aveva indotta ad una serie di speculazioni sullo sviluppo psicologico del bambino, derivanti da ricordi e fantasie di adulti in terapia psicoanalitica. Era ovvio che l’interesse da parte della comunita` psicoanalitica fosse quello di studiare direttamente i bambini per verificare le ipotesi sullo sviluppo mentale. Bisognava cercare un metodo diverso da quello adoperato con gli adulti: non era possibile lavorare con le libere associazioni, poiche´ i bambini sono piu` propensi ad agire che a parlare, e pertanto la Klein ritenne che l’unica possibilita` fosse l’osservazione delle modalita` di gioco. Il gioco diventa quindi lo strumento fondamentale di ricerca per comprendere le fantasie o le angosce piu` profonde del bambino.

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Molto sinteticamente riferiamo solo quanto puo` servire a comprendere il modello di sviluppo psichico. Secondo la Klein il bambino naturalmente attraversa due fasi di sviluppo definite rispettivamente: posizione paranoide e posizione depressiva.

4.1. Posizione paranoide Si evidenzia nei primi 4-6 mesi di vita del bambino, ma puo` comunque ripresentarsi nel corso della vita dando luogo ad una specifica patologia: la paranoia e la schizofrenia. Il bambino alla nascita e` portatore di una forte carica aggressiva che supera di gran lunga quella libidica, tanto che il bambino e` costretto, a causa dell’intensa angoscia, a proiettare sull’oggetto primario questa carica distruttiva. L’oggetto primario e` il seno materno che viene scisso in oggetto buono e cattivo, vissuto che non dipende tanto dalle qualita` reali dell’oggetto quanto piuttosto dall’intensita` delle pulsioni. Comincia cosı` un gioco di introiezioni e proiezioni mediato da alcuni meccanismi difensivi fondamentali. Come l’idealizzazione, per cui il seno e` vissuto come fonte di gratificazione illimitata e immediata, la scissione, il diniego ed il controllo onnipotente che mirano a scindere l’oggetto, a negare o manipolare onnipotentemente la realta`, per evitare le gravi angosce persecutorie. Se il bambino riesce a superare questa fase carica di grande angoscia, si avvia alla seconda fase: la posizione depressiva.

4.2. Posizione depressiva Il bambino e` ormai capace (dopo i 6 mesi) di recepire la madre come oggetto unico, contemporaneamente buono e cattivo. Si determina una situazione di ambivalenza, intesa come dinamica di amore-odio. Pertanto permane una quota di sadismo, che suscita in lui una nuova angoscia: quella depressiva. Ora, non essendo piu` possibile la scissione totale, distruggere una parte dell’oggetto ritenuto cattivo vuol dire perderlo nella sua

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Pur di estrazione psicoanalitica, l’Autore centra la propria attenzione sulla interazione tra individuo ed ambiente (familiare e sociale), tanto da definire gli stadi di sviluppo stadi psicosociali, a differenza di Freud che aveva parlato di stadi psicosessuali. Scopo fondamentale dell’uomo e` la ricerca di una propria identita`, che pur variando nel tempo e` caratterizzata dall’esigenza di una coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale. Prima di passare ad esporre le caratteristiche dei vari stadi ci sembra opportuno sottolineare gli aspetti fondamentali del pensiero di Erikson che si possono riassumere in tre assunti di base.

totalita`. Pertanto il bambino dovra` innescare ulteriori meccanismi difensivi, come la maniacalita`, o ritrovare meccanismi piu` primitivi, tipici della fase precedente. Se riesce invece ad inibire l’aggressivita`, il bambino giunge al meccanismo della riparazione accettando l’unita` e la validita` dell’oggetto, che ha resistito agli attacchi delle sue fantasticherie sadiche. Questo meccanismo di difesa porta l’Io ad un processo di identificazione stabile con un oggetto divenuto gratificante, perche´ riparato. La posizione depressiva, se non completamente superata, potra` ripetersi successivamente come sintomatologia depressiva. Come risulta chiaramente, il quadro che la Klein offre del bambino nel suo normale sviluppo e` di gran lunga piu` negativo di quello offerto da Freud. Ad un bambino “perverso polimorfo” viene sostituito un bambino che e` profondamente distruttivo, malato e per giunta completamente in balı`a dei propri istinti. Infatti il superamento o meno di queste fasi non dipende tanto dall’oggetto esterno, quanto dalla potenza delle pulsioni: solo se le pulsioni di vita avranno il sopravvento su quelle di morte, il bambino potra` essere salvo da una grave disintegrazione psichica. Nonostante l’evidente assurdita` di queste proposizioni, il kleinismo ebbe largo seguito nella psicoanalisi, forse perche´ questa volta, a differenza di Freud, l’Autrice aveva osservato sul campo i bambini, e quindi non si trattava piu` solo di fantasiose ricostruzioni di ricordi, magari deformati, degli adulti circa la propria infanzia, ma di materiale clinico direttamente osservato. Questa visione della Klein, di un bambino pieno di odio e gravemente disturbato, suscitera` come vedremo una serie di reazioni, sia nel campo psicoanalitico che nel campo piu` vasto della psicologia.

5.1. Gli stadi psicosociali

5. Erik H. Erikson

5.1.1. Fiducia-Sfiducia (dalla nascita ad un anno)

Erikson e` l’unico Autore che, occupandosi dello sviluppo della personalita`, ci ha fornito un quadro completo, anche se a volte un po’ schematico, dell’intero ciclo vitale dell’uomo: dalla nascita alla vecchiaia.

Erikson chiama fiducia (trust) quella che T. Benedek chiama confidenza (confidence). Essa nasce sulla base di un rapporto affettivo, prevalentemente con la madre, caratterizzato da prevedibilita` e costanza. «...La fiducia deriva dall’espe-

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2)

3)

Nel ciclo vitale l’individuo passa attraverso una serie di tappe evolutive (stadi) che sono caratterizzate da una coppia antinomica: una conquista ed un fallimento. Questa situazione (come per es. fiducia-sfiducia) e` definita “qualita` dell’Io”. Questi stadi non sono, come per Freud, definiti da specifici momenti biologici, bensı` da particolari modalita` sociali. Ogni tappa deve portare al rinforzo della specifica qualita` positiva dell’Io: solo in questo modo il soggetto puo` accedere validamente allo stadio successivo. Le qualita` dell’Io sono esperite come vissuti (quindi accessibili all’introspezione) come modalita` comportamentali (quindi osservabili) e come strutture del mondo interno (quindi inconsce). Vediamo ora in particolare i vari stadi.

Teorie dello sviluppo psichico

rienza della prima infanzia in una misura che non sembra dipendere dal nutrimento ricevuto o dalle manifestazioni d’affetto, ma piuttosto dalla qualita` del rapporto con la madre. Cio` che consente alla madre di fondare la fiducia nei figli e` una combinazione ideale di sensibilita` per le esigenze individuali del bambino, e di fiducia in se stessa sperimentata nella forma particolare ad una determinata cultura ed appoggiata dalla stabilita` di questa». Come si vede, Erikson sottolinea l’importanza di tutto il contesto sociale nel creare fiducia. Se la madre e` la diretta trasmettitrice di questa fiducia, essa deve essere supportata dall’intero nucleo familiare e dal constesto sociale. Egli inoltre ritiene che la fiducia non nasce tanto dai consensi e dalle proibizioni ma «...i genitori debbono essere capaci di trasmettere al bambino una convinzione profonda, quasi fisica, che cio` che essi fanno ha un significato. In ultima analisi non sono le frustrazioni a rendere nevrotici i bambini, ma la mancanza in queste frustrazioni di un significato sociale» (E. Erikson, Infanzia e societa` , pag. 223). Se questa fiducia non viene attivata il bambino cade in una situazione non solo di sfiducia, ma di impossibilita` di costruire un Io valido. Un grave fallimento in questo stadio puo` essere la causa di una futura sintomatologia schizofrenica.

5.1.2. Autonomia-Vergogna e dubbio (dai 2 ai 3 anni)

Il raggiungimento della maturita` muscolare prepara l’esperienza per due modalita` contrapposte: trattenere e lasciare andare. Inoltre in questo periodo iniziano la stazione eretta e la capacita` di verbalizzare. Queste due acquisizioni fondamentali portano il bambino ad esperire l’autonomia: ma e` ovvio che questa autonomia deve essere guidata e sorretta. Il tenersi in piedi, da solo, espone il bambino non solo alla vertigine della sua capacita`, ma anche all’esperienza della caduta e quindi della vergogna. In questo momento il bambino deve essere guidato e “sorretto” in queste capacita` iniziali. Se il bambino non e` sufficientemente guidato, rivolgera` contro se stesso il bisogno di

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manipolazione: egli manipolera` il suo universo interiore. «Invece di considerare le cose come oggetti da utilizzare per le proprie esperienze, si lascera` ossessionare dalla propria tendenza alla ripetizione. Certo grazie a tale ossessione egli rientrera` in seguito in possesso dell’ambiente ed apprendera` a dominare le cose per mezzo di un controllo ostinato e minuto, non riuscendo piu` a farlo in maniera piu` ampia e piu` libera». La vergogna nasce dalle sensazioni della propria piccolezza, legata alla capacita` di stare in piedi e al trovarsi quindi esposto all’osservazione altrui. Ovviamente, se questa situazione e` vissuta in maniera da sentirsi deriso, il bambino cerchera` di sfuggire nascondendosi per cercare in questo modo di “salvare la faccia”. Comunque, osserva giustamente Erikson, se la vergogna raggiunge un livello eccessivo il bambino cerchera` di nascondere questo vissuto e sviluppera` una tendenza patologica alla bugia, con una determinazione segreta di farla franca con ogni mezzo. “Fratello della vergogna e` il dubbio”. Se la prima nasce dalla consapevolezza, stando in piedi della propria piccolezza, il secondo nasce dal fatto che c’e` una parte posteriore che il bambino non puo` vedere e che diventa per lui la zona per un attacco imprevisto ed imprevedibile. Un fallimento eccessivo in questa fase puo` portare ad un futuro sviluppo paranoicale.

5.1.3. Iniziativa-Senso di colpa (dai 4 ai 5 anni)

Lo spirito di iniziativa e` legato da una parte alla raggiunta autonomia, dall’altra alla capacita` di pianificare e conquistare il mondo. Questo periodo e` contraddistinto da azioni spesso vigorose o violente che possono essere vissute dai genitori come aggressive e quindi eccessivamente penalizzate. ` ovvio che nella sua fase di iniziativa il E bambino possa eccedere con la sua irruenza: quindi rompere gli oggetti, o fare del male al fratellino o al compagno di giochi. A volte questi atteggiamenti possono concretizzarsi con atti di sfida, che sono legati anche all’emergere della

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

` infatti piu` facile che questo differenza sessuale. E accada ai bambini che alle bambine. Il pericolo che incombe in questo stadio e` che l’esuberanza legata alle nuove capacita` locomotorie e mentali possa essere vissuta o fatta vivere come atteggiamento aggressivo e lesivo. In questo caso e` facile che possa insorgere il senso di colpa. Erikson ritiene questo stadio di estrema importanza. ` infatti il periodo in cui comincia a formarsi E anche il senso della moralita` e del dovere. «In nessun altro periodo della propria vita il bambino e` cosı` disposto ad apprendere con sveltezza ed avidita` e a crescere nel senso della condivisione dei doveri, come nel corso del periodo che stiamo esaminando. Ma e` anche la fase ove il bambino puo` inasprire il senso della moralita` fino a farlo diventare intolleranza verso gli altri, sotto forma di moralismo continuo e puntiglioso». Inoltre, se questa fase non viene risolta nel senso di aumentare ed indirizzare lo spirito d’iniziativa, «...i residui del conflitto intorno allo spirito d’iniziativa possono esprimersi patologicamente negli adulti come negazione isterica che determina la repressione del desiderio o la soppressione dell’organo che dovrebbe soddisfarlo, per mezzo della paralisi o dell’impotenza... oppure nella ma` come se la cultura avesse lattia psicosomatica. E reso l’individuo troppo severo e lo avesse spinto ad identificarsi con la sua severita` fino al punto di lasciargli come unica via d’uscita la malattia».

5.1.4. Industriosita`-Senso di inferiorita` (dai 6 ai 12 anni)

In questo periodo il bambino e` pronto a fare il suo ingresso nella vita sociale; l’evento piu` importante e` l’ingresso nella scuola. Il bambino dovra` confrontarsi con nuove realta`, entrare in competizione, misurarsi con la capacita` di apprendimento. Egli potra` ottenere l’approvazione attraverso la produttivita`, imparando a leggere, a scrivere, a partecipare alle attivita` sportive ecc. L’esigenza di una capacita` produttiva prende il sopravvento sui capricci e sulle modalita` del gioco:

la diligenza e la perseveranza diventano qualita` importanti. In questo periodo, se il bambino incontrera` eccessive difficolta` potra` sentirsi inadeguato ed inferiore. «Se egli dispera dei suoi strumenti o delle sue capacita` o del suo prestigio tra i coetanei... il bambino si sente mal dotato strumentalmente ed anatomicamente e si considera condannato alla mediocrita` ed alla inadeguatezza. Lo sviluppo di molti bambini e` sconvolto dal fatto che la vita familiare non e` riuscita a prepararli a quella scolastica o dal fatto che la vita scolastica non riesce ad appoggiare le promesse dei primi stadi». Inoltre se il bambino non gode del piacere dell’industriosita` , ed «...accetta il lavoro come unico dovere e il lavorare come il solo criterio di dignita`, egli puo` diventare lo schiavo conformista e non pensante del sistema tecnologico in cui vive e di coloro che sono in condizione di sfruttare tale sistema». Con questa modalita` di fallimento l’Autore non propone piu` una tipica patologia clinica, ma la normalita` patologica: ovvero come l’individuo possa diventare “normotico” ed adattarsi passivamente alla realta`.

5.1.5. Identita`-Dispersione (dai 13 ai 18 anni)

` il periodo della puberta` e della adolescenza. E Dai cambiamenti fisici che inducono il bambino ad accettare una identita` anche sessuale, al cambiamento dovuto alla messa in discussione di tutti gli stadi precedenti per trovare una nuova, defini` la fase d’integrazione delle vicissitiva identita`. E tudini libidiche, delle capacita` sviluppate e dei talenti innati con le possibilita` offerte dai ruoli sociali. Questo stadio e` caratterizzato dalle forti passioni, dagli “innamoramenti” che non sono un fatto puramente sessuale. «L’amore degli adolescenti e` in gran misura un tentativo di definire la propria identita` per mezzo della proiezione di una immagine ancora confusa del proprio Io su di un’altra persona, al fine di vederla cosı` riflessa e progressivamente

Teorie dello sviluppo psichico

` per questo che per tanti giovani piu` chiara. E amare vuol dire conversare». Ma se il bisogno di trovare una propria identita` diventa ricerca esasperata di modelli identificativi molteplici e spesso discordanti, l’adolescente rischia una diffusione del proprio ruolo (role diffusion) ed un deficit nella funzione della propria identita`: quanto piu` a monte ci sono gravi carenze, tanto piu` questo processo puo` degenerare in forme di psicosi o di gravi psicopatie. 5.1.6. Intimita`-Isolamento (dai 19 ai 25 anni)

Tutto cio` che si e` acquisito nelle fasi precedenti, con la tendenza alla conservazione, viene sostituito dalla tendenza a trascendere se stessi e a rischiare nel desiderio di intimita` con l’altro. Si e` alla ricerca di un oggetto amato con cui continuare a realizzarsi. Riferendosi a Freud, Erikson sostiene che in questo stadio si avvera quello che il maestro viennese riteneva costituire la perfetta normalita`, “lieben und arbeiten”, cioe` amare e lavorare. ` ovvio che, nell’elaborare questo stadio, l’inE dividuo puo` passare attraverso situazioni parziali che, se elaborate, possono portare alla capacita` di una vera intimita`. Se invece emerge la paura di perdersi, o di perdere quelle capacita` cosı` faticosamente acquisite negli stadi anteriori, il soggetto evita le esperienze e tende a chiudersi in un profondo isolamento. Come controparte della incapacita` alla intimita`, nasce l’atteggiamento di negazione violenta. Egli tende a distruggere le persone la cui esistenza sembra rappresentare un pericolo per la propria. Sorgono cosı` i pregiudizi, che poi vengono sfruttati nella politica e nella guerra. L’altro, che non puo` essere intimo, diventa inevitabilmente un nemico. Questa situazione puo` costituire la base del borderline. 5.1.7. Generativita`-Stagnazione (dai 26 ai 40 anni)

` l’eta` della maturita`. «La tendenza analitica E a drammatizzare la dipendenza dei bambini ci

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rende ciechi di fronte all’esigenza della maturita`. L’uomo maturo ha bisogno che si abbia bisogno di lui e la maturita` ha bisogno di essere guidata ed incoraggiata per cio` che e` stato prodotto e di cui bisogna prendersi cura». La generativita` quindi non riguarda solo il desiderio di mettere al mondo dei figli e di allevarli, ma di creare qualcosa di utile con il proprio lavoro, di insegnare agli altri la propria esperienza. Generativita` include quindi sia produttivita` che creativita` e costituisce un momento fondamentale sia sul piano individuale che sociale. «Quando questa forma viene a mancare, si afferma una regressione ad un bisogno ossessivo di pseudo-intimita` che e` spesso accompagnato da un senso diffuso di stagnazione e di impoverimento personale». Questa crisi si esprime con una frase tipica: “cosa ho fatto della mia vita?”

5.1.8. Integrita` dell’Io-Disperazione (dai 41 in poi)

` l’ultimo passo da compiere: accettare tutto E cio` che si e` fatto, cio` che si e` e cio` che si potrebbe essere ancora. «...Accettazione del proprio ed irripetibile ciclo vitale, come qualcosa di necessario ed insostituibile e quindi anche un nuovo e diverso modo di amare i propri genitori, essa corrisponde ad un senso di unisono con epoche lontane... Ma sebbene consapevole della relativita` di tutte le forme di vita, chi ha acquistato l’integrita` dell’Io e` pronto a difendere la dignita` del proprio stile di vita... egli sa infatti che la vita del singolo non e` che il risultato della coincidenza fortuita di un ciclo vitale individuale con un particolare momento della storia...». ` quindi questo senso di compartecipazione E totale alla propria storia, al nucleo familiare, al gruppo di appartenenza, fino al genere umano che si manifesta come integrita` dell’Io. Ma forse ` la paura la vera prova e` accettare la morte. «E della morte ad esprimere la mancanza o la perdita di questa integrita`, onde il proprio unico ciclo vitale non e` piu` accettato per se`. La disperazione si affaccia ad esprimere il sentimento che il tempo e` breve, troppo breve per ricomincare un’altra vita. Una disperazione che si nasconde

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dietro il disgusto anche quando questo prende la forma di “mille piccoli disgusti” incapaci di fare insieme un grande rimorso». Erikson ha formulato una teoria dello sviluppo umano molto affascinante e completa, anche se in alcuni punti schematica. Difetto piu` evidente e` una certa superficialita` nella descrizione di alcuni eventi psichici, per cui per esempio non si comprende bene su quali basi una madre possa infondere fiducia o sfiducia nel bambino. Ma se la teoria di Erikson viene letta come un grande affresco dell’avventura dell’uomo, con le sue capacita` e le sue cadute, allora possiamo apprezzare meglio alcune proposizioni che non solo sono ancora validissime, ma che offrono uno

spunto per ulteriori ricerche. Uno dei punti piu` importanti della teorizzazione di Erikson e` soprattutto il bisogno di ricerca d’identita` in genere ed in particolare nel periodo adolescenziale. Libri come “Il giovane Lutero” o “Gioventu` e crisi d’identita`” sono un resoconto raffinato e profondo della crisi adolescenziale. Altro merito di Erikson e` quello di aver evidenziato la forte interazione tra individuo ed ambiente e posto le basi per una psicopatologia basata sul fallimento delle varie tappe evolutive. Il senso della storia e la tensione morale ne fanno un intellettuale europeo che e` riuscito a mitigare un rigore morale con un genuino ottimismo di stampo prettamente americano.

Modello di sviluppo secondo Erikson ` — ETA ANNI

` QUALITA DELL’IO

PERSONE

FUNZIONI FONDAMENTALI

` E PROBLEMI SPECIFICI ATTIVITA

0-1 Infanzia

Fiducia Sfiducia

Madre

Ricevere Dare

Fiducia basata sull’esperienza e sulla prevedibilita` del mondo. Fiducia di poter influenzare gli eventi.

2-3 Fanciullezza

Autonomia Dubbio- vergogna

Genitori Famiglia

Trattenere Lasciare

Deambulazione, verbalizzazione, controllo sfinteri. Nasce il senso di autonomia. Se frustrato o deriso nasce la vergogna e il dubbio.

4-5 Fase del gioco

Iniziativa Senso di colpa

Famiglia Asilo Coetanei

Fare (eseguire) Fare come (gioco)

Comincia la conquista del mondo: a volte con irruenza. Se questa iniziativa viene bloccata il bambino potrebbe provare sensi di colpa.

6-12 Fase scolarita`

Industriosita` Senso di inferiorita`

Compagni di classe Amici

Fare delle cose insieme

Inizio della scolarita`, necessita` di ottenere l’approvazione da parte di estranei. Inizia ad imparare a leggere, a scrivere. Inizia la competitivita`. Se queste iniziative vengono bloccate nasce in lui il senso di inferiorita`.

13-18 Adolescenza

Identita` Confusione di ruoli

Gruppo di coetanei e persone esterne alla famiglia

Essere se stessi

Adolescenza: maturazione sessuale e problema dell’identita` sessuale. Senso dell’imitazione. Ricerca della propria identita` attraverso l’identificazione con personaggi famosi. Puo` nascere una confusione di ruoli.

19-25 Giovane adulto

Intimita` Isolamento

Partners Amicizie

Trovare se stessi in un’altra persona

Raggiunta l’identita`, il giovane desidera confrontarla con altre persone. Inizia il desiderio di intimita` affettiva. Se l’identita` non e` stata raggiunta, invece dell’intimita` si sviluppa la tendenza all’isolamento.

26-40 Eta` adulta

Generativita` Stagnazione

Lavoro Formazione di famiglia

Solidarieta` Far essere Prendersi cura

E` l’eta` matura, l’individuo ormai adulto sente la necessita` di generare, di creare, sia nel lavoro e sia nella famiglia. L’individuo che non riesce si sente vuoto e svuotato. La vita diventa una lunga attesa della vecchiaia e della morte.

> 40 Eta` matura

Integrita` dell’Io Disperazione

L’umanita` e la specie

Essere ancora Essere stato

Ormai gran parte della vita e` trascorsa. L’uomo e` quello che e` stato o quello che ha fatto. Altrimenti c’e` la disperazione ed il rimpianto.

Teorie dello sviluppo psichico

6. A. Maslow ` considerato il pioniere ed uno dei piu` rapE presentativi teorici della psicologia umanistica. Contro l’atteggiamento deterministico e riduzionistico delle teorie psicoanalitiche e comportamentali, la teoria umanistica considera lo sviluppo umano condizionato sı`, da alcuni bisogni fondamentali, ma prevalentemente indirizzato verso la propria autorealizzazione. A. Maslow studia ed osserva lungamente i meccanismi psicologici non di persone malate, bensı` di persone sane e creative. In questo modo egli si oppone al pessimismo freudiano: «la natura umana non e` affatto cattiva come si suppone che sia... e` come se Freud ci avesse descritto la meta` malata della psicologia e a noi ora spetta il compito di completarla con la meta` sana». Egli si oppone ai teorici del comportamentismo che credono di poter risalire ai comportamenti umani dallo studio degli animali di laboratorio. Egli ritiene che l’essere umano e` una specie qualitativamente diversa dagli altri esseri viventi. Su questa base egli propone una sorta di piramide delle motivazioni: alla base i bisogni primari, all’apice l’autorealizzazione. Se i bisogni fisiologici non vengono soddisfatti il soggetto dovra` dedicare tempo ed energia per esaudirli, restringendo cosı` la sua ricerca verso valori piu` elevati come l’amore, la stima, l’autorealizzazione. I bisogni vanno dal fisiologico allo psicologico: e` importante che ogni gradino sia completamente superato e risolto per poter accedere a quello successivo. Una gratificazione insufficiente o distorta blocca il normale sviluppo della personalita` ed il raggiungimento dei livelli piu` alti. L’ipotesi di Maslow sembra eccessivamente utopica e non facilmente realizzabile. C’e` alla base una mentalita` sicuramente molto piu` ottimistica di quella europea, quale poteva essere quella americana. Questo relativismo spinge a cercare di capire se sia possibile trovare un modello di sviluppo psichico il piu` vicino possibile ad una realta` umana, che pur accettando le diversita` culturali possa delineare i tratti comuni di un normale sviluppo

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psichico. Gli Autori che esamineremo successivamente si sono occupati di evidenziare le modalita` di sviluppo secondo la teoria dell’attaccamento visto come modello universale e non culturalmente determinato.

Modello di sviluppo secondo Maslow.

7. J. Bowlby - M. Ainsworth J. Bowlby e` uno psicoanalista che consapevole come molti altri ricercatori della impossibilita` di poter dimostrare le ipotesi freudiane e kleiniane, ritiene di dover ricercare un modello dello sviluppo psichico metodologicamente fondato. Pertanto egli rivolge la sua attenzione ad una nascente disciplina: l’etologia (studio del comportamento degli animali). Autori come K. Lorenz, E. Hess e von Frish avevano dimostrato che negli animali esistono specifiche sequenze di comportamento presenti in tutti gli individui della specie, e che sono schemi innati e non appresi. Nulla di rilevante, ma la novita` della ricerca e` che questi schemi istintivi innati per attivarsi hanno bisogno di uno stimolo esterno specifico che deve intervenire al momento giusto. Quindi l’istinto non e` un puro dato energetico che cerca un oggetto qualsiasi per scaricarsi (che e` la base della teoria freudiana sugli istinti), ma ha bisogno di una informazione giusta ed al momento giusto. Queste sequenze istintive

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

riguardano la ricerca del cibo, l’accoppiamento, l’attaccamento e la difesa del territorio. Uno dei fenomeni piu` interessanti, messo in evidenza soprattutto da K. Lorenz, e` l’imprinting. Se un piccolo di anatra nelle prime 16 ore di vita, anziche´ trovare la madre naturale, si trova a contatto con una persona (o un altro animale) si leghera` a questa e con questa attivera` la specifica sequenza di schemi istintivi anche se l’oggetto a cui si lega puo` essere lo sperimentatore stesso. Da questi studi Bowlby prende lo spunto per studiare le modalita` dell’attaccamento del bambino nei confronti dell’adulto. La teoria di Bowlby si fonda su due assunti di base.

ambientali che non solo attivano, ma rendono possibile lo svolgersi delle sequenze innate. Questo problema e` oggetto di studio da parte di numerosi altri AA., anche con metodiche diverse. Ricordiamo tra questi M. Ainsworth, che descrive l’attaccamento come «...un vincolo o legame affettivo che l’individuo stabilisce tra se´ ed un altro individuo particolare». Secondo l’Autrice esistono diversi livelli di attaccamento.

7.3. Sviluppo dell’attaccamento

7.3.1. Pre-attaccamento

7.1. Bisogno di legame Alla nascita il bambino e` dotato di un insieme di segnali e di risposte che obbediscono a schemi innati e che costituiscono il comportamento di attaccamento. Il bambino segnala la necessita` di aiuto o di contatto tattile attraverso il pianto, l’irrequietezza o il sorriso, che inducono una risposta da parte dell’adulto. Il bambino ha bisogno di mantenere uno stretto contatto tattile, visivo ed emotivo con l’adulto. Qualsiasi situazione che metta a rischio questo bisogno scatena una serie di richiami secondo schemi innati. Schemi innati, quindi, che si attivano automaticamente nel momento in cui il bambino avverte una situazione che minaccia il bisogno di legame.

7.2. Importanza dell’ambiente Affinche´ questi schemi istintivi vengano attivati e si sviluppino, e` necessario che ci sia una risposta da parte degli adulti. Se non c’e` risposta adeguata, lo schema di attaccamento si atrofizza o si devia, con grave danno per lo sviluppo psicologico successivo. Questi due punti essenziali comportano una nuova concezione di istinto e di correlazione fra innato ed acquisito, ossia del rapporto tra fattori endogeni ed esogeni. Risulta chiaramente l’interdipendenza tra schemi istintivi innati e risposte

Nei primi tre mesi di vita il bambino dirige i comportamenti di attaccamento in maniera indifferenziata: questi sono rivolti a promuovere l’avvicinamento ed il sostegno da parte dell’adulto, chiunque esso sia.

7.3.2. Attaccamento iniziale

Intorno ai 4 mesi il bambino comincia a inviare segnali in maniera sempre piu` discriminata diretti alla persona che si prende cura di lui.

7.3.3. Attaccamento maturo

A 6 mesi circa il bambino fa oggetto dei suoi segnali di aiuto una sola persona poiche´ e` in grado di distinguere nettamente il volto dell’A.S. da quello di qualsiasi altro. Il bambino non solo richiama l’attenzione, ma vuole anche la presenza e la vicinanza dell’adulto perche´ questi diventi per lui una “base sicura” per esplorare il mondo circostante. In questo periodo, a volte, compare l’ansia di poter perdere l’oggetto unico, ansia che si manifesta con il sintomo “paura degli estranei”.

7.3.4. Attaccamento a molte persone

Il periodo precedente termina intorno ai 9-10 mesi, quando il bambino tendera` sempre piu` a

Teorie dello sviluppo psichico

legarsi anche ad altre persone, soprattutto coetanei. Intorno ai 4-5 anni il bambino comincia a diventare sempre piu` autonomo. ` evidente che questa autonomia e` legata non E solo ad una maggiore sicurezza, ma soprattutto all’acquisizione di capacita` specifiche, come il linguaggio, la deambulazione, la logica, che rendono il mondo da esplorare sempre piu` ampio. Anche se in situazioni di emergenza possono ricomparire modalita` primitive di attaccamento. Dopo i 12 anni il bambino normale dovrebbe aver raggiunto una sufficiente autonomia. Se i comportamenti di attaccamento persistono, si deve parlare di una situazione di dipendenza, ovvero di un mancato o parziale sviluppo normale: l’Ainsworth a questo proposito descrive due tipi di attaccamento e propone un esperimento per evidenziarli: il metodo della strange situation.

7.3.5. Strange situation

` una situazione sperimentale, effettuata con E bambini di 1-2 anni. Eseguita in un laboratorio, consiste in una serie di situazioni diverse nelle quali il bambino si trova: 1) 2) 3) 4) 5)

dapprima solo con la madre; con la madre ed un estraneo; solo con l’estraneo; completamente da solo per qualche minuto; di nuovo con la madre.

Si evidenziano due situazioni: attaccamento sicuro ed insicuro.

7.3.5.1. Attaccamento sicuro

Il bambino riesce a mantenere il contatto con la madre, soprattutto dopo l’assenza. La preferisce agli estranei e la saluta al ritorno o piange se va via. Riesce a stare da solo.

7.3.5.2. Attaccamento insicuro

Si manifesta con due modalita`:

1)

2)

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Distacco-evitamento. Quando la madre ricompare, il bambino la ignora. Presenta una scarsa tendenza a cercare il contatto con le persone. Se viene preso in braccio, tende ad evitare il contatto. Tratta gli estranei quasi allo stesso modo con cui tratta la madre. Resistenza-ambivalenza. Quando la madre ricompare, il bambino si mostra iroso e rabbioso, cerca di rifiutarla, ma nel contempo vuole mantenere una vicinanza. Se viene separato dalla madre reagisce con pianto e con violenza. Il bisogno di contatto e la tendenza a manifestare la propria rabbia per essere stato abbandonato si alternano in maniera ambivalente.

Queste modalita` possono stabilizzarsi e persistere anche nel comportamento da adulto. Ci siamo soffermati un po’ piu` a lungo su questa tematica, anche se parziale come modello dello sviluppo psichico, per due motivi fondamentali. Da una parte perche´ le modalita` comportamentali sopradescritte sono le manifestazioni di sistemi motivazionali fondamentali come quello dell’attaccamento-dipendenza-separazione-autonomia che sono, come vedremo, dinamiche fondamentali per comprendere la modalita` delle relazioni oggettuali. Dall’altra perche´ i comportamenti patologici sono evidenziabili fin dai primi anni di vita e possono essere corretti. Il comportamento insicuro legato ad una carenza di empatia da parte dei genitori puo` essere modificato stimolando in loro una maggiore attivita` empatica. Il concetto di empatia, come vedremo, diventera` un tema dominante per la psicologia del Se´. In questo contesto ci occuperemo, fra i tanti, di H. Kohut.

8. H. Kohut Per Kohut il Se´ e` «...un centro di iniziative ed un contenitore di impressioni»; non e` piu` quindi, come era stato considerato dalla psicologia dell’Io, una rappresentazione o un prodotto dell’attivita` dell’Io, ma e` esso stesso un agente attivo. Il Se´ comincia ad emergere nel momento in

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cui si incontrano «...le potenzialita` innate del bambino e le aspettative dei genitori nei suoi confronti». Ma il Se´ nascente e` estremamente fragile, pertanto ha bisogno della presenza e della partecipazione degli altri perche´ possa svilupparsi. Questi altri, che per il bambino non sono ancora differenziati, ma vissuti come prolungamenti del Se´, vengono chiamati oggetti-Se´. Il bambino vive questi oggetti-Se´ come parte integrante e strutturante della propria personalita`: egli usa le attivita` psichiche dell’adulto come fossero sue. «La psiche rudimentale del bambino partecipa all’organizzazione psichica altamente sviluppata dell’oggetto-Se´; il bambino sperimenta gli stati d’animo dell’oggetto-Se´; essi vengono trasmessi al bambino attraverso il contatto ed i toni della voce, e forse anche attraverso altri nessi, ma come fossero i suoi». Gli oggetti-Se´ tramite una dimensione empatica rispondono ai bisogni del bambino: e` come se ci fosse una simmetria tale da consentire al bambino di strutturare, man mano, la propria dimensione psichica. In una prima fase il bambino ha bisogno di esprimere e vivere una situazione narcisistica, come desiderio di essere ammirato e riconosciuto. Ben diverso quindi dal narcisismo freudiano che e` piu` simile ad una dinamica autistica. Per Kohut il bambino possiede un sano narcisimo che lo porta a sentirsi grandioso ed ammirato. Se questo avviene, se cioe`, l’adulto reagisce positivamente, il bambino, man mano che costruisce il Se´, puo` parzialmente rinunciare a questa dimensione onnipotente. Successivamente il bambino tendera` a vivere uno dei genitori, o ambedue, come idealizzati e potenti: da questa fusione il bambino puo` trarre il senso della propria esistenza e validita`. Validita` che nasce dal rispecchiamento empatico: il bambino vive il genitore come forte e valido e si rispecchia in questo oggetto-Se´. Se non ci sono eccessive frustrazioni, ovvero se il genitore risponde e corrisponde a questo bisogno primordiale ed arcaico, avverra` quello che Kohut chiama “internalizzazione trasmutante”. In una lunga serie di esperienze sufficientemente positive (in questo Kohut ritiene che un sano sviluppo sia collegato ad una presenza suffi-

cientemente valida dell’adulto) si costituiscono due poli che rimarranno la base del Se´, anche se ovviamente sempre piu` maturi. Da una parte la tendenza ad una sana ambizione e sicurezza di se´, dall’altra la fiducia nell’esistenza di un oggetto-Se´ valido che successivamente diventera` fiducia nei valori o negli ideali. Questi due poli possono essere variamente sviluppati, e quindi variamente interagenti tra di loro. Se invece questi aspetti non si sviluppano, si giungera` ad una patologia narcisistica caratterizzata da un senso di imperfezione e soprattutto da una bassa autostima. Le deviazioni dei genitori dalla loro funzione di oggetti-Se´ ottimali fanno sı` che il bambino li viva come “aggressori non empatici dell’integrita` del suo Se´”. Mancanze sporadiche non creano alcun problema; mancanze periodiche addirittura possono facilitare il processo di integrazione del Se´. Per Kohut cio` che e` deleterio e determina patologia e` la cronica mancanza di empatia, dovuta alla patologia dei genitori. Quando c’e` una patologia dei genitori questa inevitabilmente si riflette sul bambino. I genitori con problematiche psicopatologiche o con narcisimo mascherato da atteggiamenti falsamente iperprotettivi sono incapaci di essere oggetti-Se´ empatici. Di fronte alla carenza dei genitori l’originaria ricerca di oggetti-Se´ non solo si blocca, ma si disgrega in impulsi sessuali ed aggressivi. Questa affermazione e` di notevole rilievo perche´, come gia` aveva affermato Fairbairn, il bambino cerca non soddisfazioni pulsionali di scarica (aggressive o sessuali), ma cerca un oggetto che risponda. Se questa corrispondenza manca, non si ha la formazione di un Se´ adeguato e questo fa emergere le pulsioni aggressive e sessuali (ovviamente premature). «Sicurezza di Se´ non distruttiva ed elementi libidici non coattivi sono intrecciati ed inclusi nella prima ricerca d’oggetto del bambino. Sia la sicurezza di Se´ che la sessualita` infantile, quando lo sviluppo procede bene, sono componenti di piu` ampie figurazioni di relazioni con oggetti-Se´ empatici. La comparsa di aggressivita` distruttiva o di pura ricerca di piacere nell’isolamento indica che gia` si e` verificato un guasto patologico» (J. Greenberg, S. Mitchell).

Teorie dello sviluppo psichico

Lo studio di Kohut si concentra sulle primitive relazioni oggettuali e sull’importanza che hanno queste per la formazione del Se´. Comunque, pur dando una importanza diversa alle relazioni interpersonali, egli conserva, come psicoanalista ortodosso, la teoria delle pulsioni. Ma a differenza di Freud ritiene esserci una energia istintuale libidica primaria, che si ramifica in due direzioni: libido narcisistica e libido oggettuale. Mentre quella narcisistica continuera`, pur nella maturazione, ad investire oggetti Se´ ed assumere nell’adulto funzioni tipo Io ideale, la libido oggettuale che si sviluppera` successivamente, se quella narcisistica ha avuto un normale sviluppo nei primi anni, tendera` ad investire oggetti “veri”, cioe` vissuti come nettamente separati e diversi dal soggetto. Come la maggior parte degli psicoanalisti Kohut, pur proponendo un modello di sviluppo completamente diverso, sente il dovere di rientrare nell’ortodossia freudiana: per questo motivo egli postula due istinti (anche se elimina quello di morte) ed in parte sembra giustificarsi affermando che la sua teoria non e` altro che una modifica di quella freudiana: si sarebbe limitato soltanto ad evidenziare una fase piu` precoce, quella narcisistica, e i conseguenti disturbi collegati ad uno sviluppo patologico del Se´ infantile. Infatti successivamente il bambino, nell’investire gli oggetti “reali”, presenterebbe le classiche fasi dello sviluppo previsto da Freud. Ma Kohut si rende ben presto conto che nella sua teorizzazione il concetto di pulsione e` una forzatura: pertanto nel 1977 e` costretto a rivedere la propria teoria. Kohut sostiene, in accordo con Fairbairn e Sullivan, che la teoria delle pulsioni di Freud deriva dalla mentalita` ottocentesca, positivista e riduzionistica, che proponeva una inevitabile separazione tra soggetto che osserva e oggetto che e` osservato. Postulato non piu` accettabile, anche alla luce della scienza e della fisica moderna, in quanto non e` possibile scindere l’osservatore dall’osservato. E pertanto la psicoanalisi puo` essere definita come disciplina del comportamento umano che si basa sulla “introspezione ed empatia”. Questa affermazione permette a Kohut da una parte di superare antinomie insolubili, dall’al-

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tra di proporre una critica piu` radicale alla teoria classica delle pulsioni. «...poiche´ tale struttura e` essenzialmente meccanicistica, si lascia sfuggire il livello piu` importante in cui opera l’esperienza umana. Nel suo ultimo articolo pubblicato postumo Kohut definisce la nozione di pulsione come un concetto biologico vago e insipido» (J. Greenberg, S. Mitchell). La teoria freudiana delle pulsioni e` riduttiva: e` come volere comprendere una grande opera pittorica attraverso l’analisi dei colori: si perde la complessita` e la globalita` del quadro. Per questo Kohut insiste di nuovo sull’importanza delle prime fasi e sul superamento della fase narcisistica. «Un Se´ indebolito e frammentato si preoccupera` in senso difensivo di mete di pura ricerca di piacere .... Il modello delle pulsioni freudiano si e` sempre occupato di “prodotti di disintegrazione” di uno sviluppo difettoso del Se´... Inizialmente il Se´ non cerca una riduzione di tensione o una espressione istintuale, ma relazioni, attaccamento, connessione con altri. Se c’e` una severa ferita al Se´ ed alle sue relazioni, queste costellazioni primarie si disgregano e subentra un deterioramento che si manifesta attraverso la ricerca del piacere o esplosioni di rabbia. Cosı` la teoria classica ha fatto delle conseguenze di una grave psicopatologia, gli elementi costruttivi della sua psicologia dello sviluppo» (J. Greenberg, S. Mitchell). Credo che questa ultima affermazione segnali una distanza profonda, direi abissale, dalla teoria freudiana. E come si puo` evidenziare la critica piu` profonda non e` tanto alla teoria delle pulsioni, quanto piuttosto aver scambiato la patologia con la normalita`. Il contributo di Kohut alla psicologia del Se´ e` sicuramente notevole, ma se ci siamo soffermati a lungo su questo Autore e` anche per evidenziare che il tentativo di una sintesi tra teoria pulsionale e teoria delle relazioni oggettuali e` un percorso difficile e pieno di trappole (teoriche). Kohut ha cercato di bilanciare ortodossia ed innovazione, ripetendo il copione di tanti altri psicoanalisti che, pur proponendo teorie completamente diverse, hanno sentito il bisogno di mantenersi fedeli a Freud. ` forse necessario portare fino in fondo una E critica a Freud per poter propore un modello

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realmente innovativo? Credo di sı`, come credo che la teoria complementare, che tiene conto sia delle pulsioni che delle relazioni oggettuali, e` al momento l’unica strada percorribile per comprendere lo sviluppo psicologico. Per questo rimando al cap. 8. ` utile proporre pero` alcune delle piu` recenti E acquisizioni sul bambino da parte degli studiosi di psicologia evolutiva, prima di passare ad esporre un modello di sviluppo integrato e completo.

9. Infant research Condensiamo in questo paragrafo i risultati degli studi degli ultimi 20 anni sullo sviluppo e sull’evoluzione del bambino nei primi mesi o anni di vita. Studi caratterizzati sia da una osservazione diretta di bambini normali, nel loro habitat o in condizioni sperimentali poco artificiose, sia dal tentativo di comprendere le tappe evolutive del bambino attraverso prove sperimentali (come la strange situation o il visual cliff). Su questa ricerca si sono aperti due fronti. Uno collegato prevalentemente al cognitivismo che si occupa di studiare le diverse funzioni, l’altro collegato con il campo analitico in senso lato che cerca di evidenziare lo sviluppo globale del bambino, piu` che le singole funzioni. Al di la` dei metodi e degli scopi, sicuramente possiamo dire che molti dei risultati sono comparabili o comunque portano a conclusioni simili. Gli studi di psicologia sperimentale, soprattutto di derivazione cognitivista, hanno portato a parlare di “bambino competente”, volendo intendere che il bambino fin dalle prime ore e` dotato di numerose e complesse capacita`. Secondo numerosi Autori, le capacita` cognitive si sviluppano rapidamente ed in varie direzioni. Fin dalle prime settimane di vita il bambino e` in grado di riconoscere la madre dall’odore. Egli inoltre distingue oggetti che presentano caratteristiche diverse ed e` attratto fortemente da tutto cio` che e` in movimento e dai contrasti di forme o di colori. Tutto questo sembra essere prevalentemente

innato, comunque e` fortemente influenzato da un ambiente ricco di stimoli. A 5-6 mesi il bambino perfeziona la vista al punto di poter riconoscere il viso dell’A.S. e distinguerlo da altri soggetti. Inoltre i bambini sono in grado di riconoscere oggetti identici, anche se in posizioni diverse: come per esempio il riconoscimento di un viso ` in questo moanche da diverse angolazioni. E mento che il bambino attiva sempre di piu` la cosiddetta percezione transmodale: ovvero riesce a collegare diversi sensi, e quindi piu` percezioni, tra di loro, in modo da avere una informazione piu` completa. Comunque la capacita` del bambino che piu` ha colpito gli psicologi e` quella di riuscire a raggruppare gli oggetti in categorie, sulla base di alcuni elementi comuni. Questa capacita`, gia` evidenziata da Piaget, inizierebbe secondo questi Autori molto piu` precocemente, gia` ad un anno, quando il bambino inizia a raggruppare oggetti sulla base del colore, o distinguere oggetti commestibili da oggetti non commestibili, capacita` spiegata con l’ipotesi della discrepanza, secondo la quale i bambini tendono a prestare maggiore attenzione a stimoli diversi da quelli abituali, sempre che questa discrepanza non sia eccessiva. Quindi confrontano gli eventi nuovi con gli schemi di eventi o oggetti gia` appresi, e tendono a modificare gli schemi, rendendoli sempre piu` complessi. Questa complessita` viene favorita dalla categorizzazione ovvero dalla capacita` di riunire gli oggetti in categorie o classi di insiemi. Inoltre sempre nel primo anno assistiamo al prodigioso sviluppo della memoria; il bambino gia` a due mesi e` capace di riconoscere un oggetto visto poco tempo prima. Con il passare dei mesi questa capacita` si estende ad oggetti visti anche molto tempo prima. Ma accanto allo studio delle capacita` cognitive, gli Autori, sempre usando il metodo sperimentale, si sono interessati anche degli aspetti emotivi. ` ovvio che data l’impossibilita` del bambino E piccolo di poter verbalizzare le proprie emozioni, le variazioni emotive vengono studiate tramite le variazioni psicofisiologiche. Cosı` a 3-4 mesi l’interruzione di una attivita` di gioco o la tachicardia segnalano una situazione di ansia legata ad eventi imprevisti, mentre la tendenza ad incrementare

Teorie dello sviluppo psichico

l’attivita` motoria o il pianto segnala una richiesta di soddisfacimento di bisogni. Invece il bambino manifesta tranquillita` attraverso il rilasciamento muscolare o la chiusura degli occhi. La gioia o il benessere che nascono da avvenimenti eccitanti (legati in genere a cambiamenti non eccessivi delle situazioni, come dire che il bambino gia` a 4 mesi non sopporta la ripetitivita` e la monotonia) sono espressi con il sorriso, la vocalizzazione o con l’incremento della motricita`. A 6-8 mesi il bambino comincia a condividere i vissuti emotivi degli adulti: tende ad allontanare un adulto iroso o arrabbiato e invia segnali di attaccamento verso adulti disponibili. Da tutte queste ricerche emergono due dati essenziali. Il primo e` che il bambino possiede ed utilizza capacita` molto selettive e specifiche gia` dai primi giorni, il che evidenzia quanto fosse errata la concezione freudiana di un bambino fondamentalmente amorfo, incapace e narcisista. Il secondo e` che osservazioni, pur diverse sia per metodologia che per teoria, tendono a confermare ampiamente i dati messi in evidenza da Piaget. Altri AA., prevalentemente di estrazione psicodinamica, invece hanno cercato di evidenziare lo sviluppo globale del bambino. Tra questi ricordiamo Stern, Emde ecc. Secondo Stern, fin dalla nascita il bambino sperimenta il senso di Se´. «...I neonati cominciano a sperimentare il senso di un Se´ emergente fin dalla nascita; essi sono predisposti ad essere coscienti dei processi di autorganizzazione. Non sperimentano mai un periodo di totale indifferenziazione tra il Se´ e l’altro. I neonati sono anche predisposti a rispondere selettivamente a eventi esterni di carattere sociale e non sperimentano mai qualcosa come una fase autistica» (Stern, pag. 27). Pertanto il Se´ e` un principio organizzatore primario che, a differenza di quanto proposto da Kohut, non ha bisogno di oggetti-Se´, perche´ emerge spontaneamente gia` al momento della nascita. Stern distingue quattro fasi di sviluppo del Se´ «... ognuna delle quali definisce un diverso campo di esperienza di Se´ e di relazione sociale».

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9.1. Se´ emergente Il Se´ emergente si forma da 0 a 2 mesi, ed e` caratterizzato dalla sensazione esprimibile come “Io sono”.

9.2. Se´ nucleare Il Se´ nucleare, tra i 2 e i 6 mesi, consolida questa sensazione di unicita` e di differenziazione dagli altri e puo` esprimersi con il vissuto “io sono io, non un altro”.

9.3. Se´ intersoggettivo Il Se´ intersoggettivo, tra i 7 e i 15 mesi, e` caratterizzato dalla sensazione che la soggettivita` e l’unicita` permangono pur nello scambio emotivoaffettivo con gli altri, e puo` essere espresso dal vissuto “io sono io, pur nel rapporto con l’altro”.

9.4. Se´ verbale Il Se´ verbale, dai 16 mesi in poi, e` caratterizzato dalla possibilita` di pensare e parlare e quindi comunicare con gli altri le proprie sensazioni, emozioni e pensieri, e puo` essere espresso dal vissuto: “Io sono capace di esprimere i miei stati d’animo e di capire quelli dell’altro”. Inizia cosı` la fase della intersoggettivita`. Due punti fondamentali della teorizzazione di Stern riguardano il Se´ nucleare e il Se´ verbale. «Durante il periodo che va dai 2 ai 6 mesi i bambini consolidano il senso di un Se´ nucleare come una entita` fisica separata, compatta, provvista di confini, con un senso di essere “agente”, dotato di affettivita` e di continuita` temporale. Le capacita` di separazione sono il risultato positivo dell’attivita` e dell’organizzazione del Se´ “che sta con un altro”, non il prodotto passivo di un fallimento della capacita` di differenziarsi dall’altro». Quindi per Stern la capacita` di separazione e` secondaria ad un sano sviluppo del Se´ che avviene quando c’e` una empatia reciproca tra adulto e bambino che «permette a questi di ricono-

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scere gli stati emotivi e riconoscersi attraverso i propri vissuti emotivi». Questo principio di condivisione sviluppa il Se´ e lo porta ad organizzarsi come entita` autonoma, autosufficiente e valida. Comunque numerosi Autori, come Emde, Klinnert, Sander ecc., che si sono occupati soprattutto dei primi mesi dello sviluppo, sottolineano l’importanza e la centralita` dell’esperienza del bambino con chi gli fornisce l’empatia e la disponibilita` , attraverso l’accudimento. Il bambino possiede precoci strutture motivazionali, biologicamente predisposte, che si sviluppano nel contesto delle relazioni di accudimento e persistono per tutta la vita. Lo sviluppo e` considerato come un processo continuo di interazione che si svolge in maniera bidirezionale: dall’ambiente verso il bambino e dal bambino verso la madre. La funzione di accudimento (empatia) si attua attraverso una condivisione di significati e di emozioni (a livello preverbale, inconscio) ed una disponibilita`. «Questa disponibilita` non deve essere totale. La madre deve essere vicina al bambino, rassicurandolo, ma deve predisporre un ambiente necessario perche´ il bambino si senta spinto verso un piu` elevato livello di sviluppo in modo sufficiente e non eccessivo. Questa regolazione assicura l’equilibrio, e` l’evitamento degli estremi ed il mantenimento dell’integrita` individuale: la regolazione funziona nel senso di rendere possibile una esplorazione ottimale in un orizzonte di sicurezza» (Emde). Questa dinamica si puo` mettere in evidenza mediante il cosiddetto “visual cliff”. Si tratta di un piano di cristallo trasparente lungo alcuni metri ed al di sotto del quale, dopo circa due metri, si presenta un avvallamento che da` al bambino la sensazione di sprofondare. Il bambino di 4-5 mesi non si rende conto del problema e attraversa tranquillamente tutto il piano. A circa 7 mesi il bambino invece percepisce (anche perche´ ha una cognizione diversa dello spazio e della profondita`) un pericolo. Quando il bambino si trova sul piano ed incontra questa situazione (il precipizio), fissa il volto della madre. Se vi coglie segni di paura cessa l’esplorazione, se invece coglie segnali di piacere o di interesse egli continua l’esplorazione, superando l’ostacolo.

Potremmo soffermarci a lungo su queste teorie, anche per evidenziarne alcuni limiti e forse anche l’eccessivo ottimismo circa le iniziali capacita` del bambino. Rimane fondamentale l’importanza del clima di una disponibilita` partecipe, per favorire l’attivita` esplorativa del bambino: attivita` fondamentale per la sua ulteriore formazione. Inoltre ci preme sottolineare che il passare del tempo ed una osservazione sempre piu` attenta e completa, hanno portato ad una visione dello sviluppo del bambino completamente diversa, anzi potremmo dire ribaltata. Dal piccolo amorfo ed autistico bambino di Freud, al piccolo psicotico della Klein, siamo giunti alla visione di un bambino che in condizioni ambientali valide non solo e` recettivo, competente, attento, ma soprattutto non e` necessariamente e primariamente distruttivo ed aggressivo. Questo non toglie che eventuali situazioni ambientali di carenza o ostilita` possano incidere negativamente sullo sviluppo e creare una patologia, piu` o meno grave, piu` o meno persistente.

10. Conclusioni Questa che puo` sembrare una trattazione prolissa circa il problema dello sviluppo psicologico e` in effetti una sintesi ridotta, ma non riduttiva. Ridotta perche´ quanto espresso in queste poche pagine e` il risultato della ricerca degli ultimi 80 anni, le cui pubblicazioni potrebbero riempire una intera biblioteca. Non riduttiva perche´, pur con inevitabili tagli (ho citato solo alcuni Autori) o volute ipertrofie (l’ampio spazio dato a Piaget, autore troppo citato ma poco conosciuto), c’e` un filo conduttore ben preciso. Da una parte e` evidente la complessita` di formulare una teoria dello sviluppo psicologico che tenga conto di tutti i fattori — biologici, psicologici, culturali — che influenzano lo sviluppo. Dall’altra e` inevitabile tentare la descrizione di un modello di sviluppo che riesca a trovare un comune denominatore in modo da essere applicabile non solo per la comprensione della normalita`, ma anche della psicopatologia.

Teorie dello sviluppo psichico

` quanto proporro` nel capitolo successivo: il E comune denominatore e` il modello psicodinamico.

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8 Modello psicodinamico dello sviluppo psichico Nicola Lalli Parole-chiave affetti; emozioni; carattere; crisi; coscienza; inconscio; stato; struttura; modalita` anaclitica; modalita` diaclitica; modello; epigenesi; temperamento; personalita`; Io; Se´

In successione abbiamo esaminato i vari quadri di riferimento della psichiatria, i modelli piu` accreditati dello sviluppo psichico e la definizione di normalita`-salute e di malattia. A questo punto mi sembra necessario proporre il modello di sviluppo psichico che usero` nel corso del Manuale, cercando di connotarne gli aspetti fondamentali e distintivi. ` mia specifica preoccupazione cercare di E mantenere il massimo della coerenza, pur accettando gli aspetti validi che provengono da teorie e modelli interpretativi diversi. Questo modello, definito complementare, e` un modello psicodinamico che permette di cogliere sia le modalita` di uno sviluppo sano e normale, sia la distorsione di questi processi evolutivi che determinano le singole patologie. Infatti all’inizio di ogni capitolo riguardante le diverse patologie, si trovera` un sottocapitolo titolato “Psicodinamica di...” che cerchera` di spiegare il come e il perche´ di queste disfunzioni. Ma cosa intendiamo per psicodinamico? Il termine dinamico e` stato introdotto prima-

riamente per distinguere i disturbi funzionali da quelli organici: in questo senso dinamico significava che il disturbo era di origine psicogena e quindi trasformabile. Successivamente si e` costituito un corpus teorico sempre piu` ampio, fino a costituire uno dei filoni piu` importanti di questa disciplina che e` la Psichiatria Dinamica. Per ulteriori approfondimenti rimando ad un libro affascinante che rimane tuttora un punto di riferimento fondamentale: ‘‘La scoperta dell’inconscio’’ di H. F. Hellenberger. Attualmente il termine dinamico definisce la concettualizzazione di un apparato psichico che non solo e` sempre in rapporto con il mondo esterno, ma e` anche dotato di specifiche energie. Energie legate ai due istinti fondamentali dell’uomo: quello libidico e quello di morte. Istinti che nel rapporto con la realta` esterna strutturano le diverse istanze psichiche come le emozioni, gli affetti, l’immagine corporea, la coscienza, ecc., costituendo cosı` quell’unita` dell’uomo che viene definita carattere. Data la complessita` del problema, ritengo utile dividere il presente capitolo in quattro parti:

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1)

Considerazioni generali. In questa parte cerchero` di proporre precise definizioni di alcuni concetti che molto spesso sono usati come fossero intercambiabili, generando cosı` solo confusione. Mi riferisco a termini come temperamento, carattere, personalita`, Io, Se´, che provengono da teorizzazioni diverse ed hanno quindi significati diversi. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali. Cerchero` di descrivere brevemente le peculiarita` di questo modello, definito appunto complementare, proponendo le istanze fondamentali dell’apparato psichico che strutturano il carattere: a) il concetto di istinto e la teoria duale; b) la dinamica della nascita; c) l’inconscio; d) le emozioni e gli affetti; e) il vissuto corporeo;

2)

3)

4)

f) la coscienza; g) il senso di identita`. Modello di sviluppo: a partire da questi elementi di base, cerchero` di esporre un modello di sviluppo che per crisi successive portera` alla costituzione di un carattere sano, accennando anche ai motivi che, inducendo una distorsione di questo processo, creano le varie psicopatologie. Stato e struttura. Dopo aver esaminato le varie vicissitudini pulsionali e relazionali che comportano la struttura dell’apparato psichico che quindi presuppone una stabilita` , dobbiamo tener presente che ogni individuo vive quotidianamente l’alternanza di tre stati della mente (utilizzo il termine mente per connotare la complementarita` funzionale del Sistema Nervoso Centrale e dell’apparato psichico) che so- no rispettivamente: Veglia - Sonno - Sogno. * * *

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

1. Considerazioni generali Da millenni l’uomo ha cercato di individuare le caratteristiche psicologiche e comportamentali dei singoli individui: la caratterizzazione di vizi o virtu` spesso e` stata collegata con una particolare fisionomia oppure con la somiglianza a diversi tipi di animali, ai quali appunto si attribuiscono vizi o virtu` degli uomini. In questa ricerca la favolistica, il teatro, la letteratura abbondano in descrizioni. Ma accanto alla descrizione si e` cercato anche di capirne le origini e le cause: ricerca che continua tuttora anche se con mezzi piu` raffinati e sofisticati. In questo lungo iter sono comparse nel tempo alcune denominazioni che continuano ad essere usate, spesso scollegate pero` dal contesto teorico all’interno del quale sono state utilizzate, creando spesso piu` confusione che chiarezza. Mi riferisco a termini come temperamento, carattere, personalita`, Io e Se´ usati a volte come sinonimi, a volte come antitesi. Pertanto mi sembra necessario, anche ai fini della successiva trattazione, fornire una precisazione, onde eliminare inutili confusioni.

a)

b) c)

d)

il picnico: soggetto con prevalenza del torace e dell’addome sugli arti e tendenza all’adiposita`; l’atletico: caratterizzato da una struttura scheletrica e muscolare molto forte; l’astenico (o leptosomico): piuttosto alto e longilineo con debole struttura muscolare e scheletrica; il displastico: un tipo misto.

L’autore prevede una serie di tipologie intermedie: ma l’aspetto piu` interessante, rimasto a lungo nella psichiatria, e` il collegamento di due temperamenti con due classiche malattie psichiatriche. Il picnico sarebbe soggetto alla psicosi maniaco-depressiva; l’astenico o leptosomico alla schizofrenia. Successivamente questi due tratti saranno descritti come due caratteristiche basilari di personalita`: l’estroversione e l’introversione. Successivamente W.H. Sheldon, psichiatra americano, descrive tre somatotipi collegati a tre temperamenti ben diversi: a)

1.1. Il temperamento Per temperamento si intende l’insieme dei tratti emotivi-affettivi e comportamentali, collegati ad una particolare costituzione somatica che e` definita somatotipo. ` la descrizione piu` antica che, se pur in E maniera piu` articolata e complessa, continua ad essere utilizzata soprattutto per collegare gli aspetti psichici con quelli somatici. Nell’antichita` venivano distinti quattro temperamenti collegati ognuno ad un eccesso di un particolare umore: come il sangue, la bile, ecc. Su questa base si distinguevano quattro temperamenti: collerico, flemmatico, sanguigno e bilioso. Ognuno di questi caratteri era visto anche come terreno favorevole per l’insorgenza di alcuni disturbi, sia somatici che psichici. Questa teoria e` stata ripresa recentemente ed ha avuto ampia diffusione, per merito di E. Kretschmer, psichiatra tedesco. Egli, in base a vari dati antropometrici, distingue quattro tipologie:

137

b)

c)

il somatotipo endomorfico (rotondo e grassottello) e` collegato alla somatotonia, caratterizzata da estroversione e dalla disinibizione nell’esprimere emozioni; il mosomorfico (con masse muscolari e scheletriche ben evidenti) alla viscerotonia, caratterizzata da grande energia e tendenza all’azione; l’ectomorfico (con corpo sottile e fragile) alla cerebrotonia, caratterizzata da inibizione sia dell’affettivita` che dell’azione.

Ovviamente questi caratteri basilari possono essere ampiamente variabili, ma comunque, mediante misure antropomorfiche, gli individui saranno sempre attribuibili alle tre categorie basilari. Inoltre l’Autore ritiene che questi tratti temperamentali sono collegabili a specifiche patologie. Ho citato solo due dei principali autori che si sono occupati del temperamento. Comunque, nonostante un temporaneo successo ed interesse, attualmente e` un termine poco utile e poco usato: e pertanto in questo constesto non sara` adottato.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1.2. Il carattere

1.3. La personalita`

Carattere, etimologicamente, vuol dire incisione: pertanto indica quei tratti psicologici e comportamentali stabili che “caratterizzano” ogni singolo individuo. Sicuramente e` S. Freud che ne indica una possibile interpretazione su base genetico-evolutiva, collegando i diversi tratti caratteriali ad una fissazione a particolari fasi evolutive. Avremo cosı` il carattere orale, anale, fallico ed infine il carattere genitale che rappresenterebbe il modello ipotetico di maturita` e di sviluppo dell’individuo. Successivamente introdurra` una distinzione tra sintomi psiconevrotici veri e propri e tratti del carattere. Nel primo caso si ha un insuccesso della rimozione con comparsa di sintomi; nel secondo invece c’e` un successo della rimozione che pero`, eccessiva, genera la nevrosi di carattere, ove mancano sintomi specifici ma si struttura una organizzazione patologica dell’intera personalita` che determina la perdita delle capacita` creative e di rapporto con la realta`. E su questa base W. Reich formula la concezione del carattere come una sorta di armatura che tende ad immobilizzare e coartare l’indivi` una difesa eccessiva, dovuta alla cultura duo. E ed alla societa` che tendono a reprimere la libera istintualita` dell’individuo. Questa accezione negativa tendera` sempre piu` a sfumare fino ad arrivare alla concezione del carattere come l’insieme dei tratti fisiologici e comportamentali dell’individuo, tratti che si sviluppano a partire dall’interazione del bambino con il mondo esterno. Pertanto possiamo parlare di un carattere normale e di un carattere che assume, a secondo degli insuccessi dei processi evolutivi, tratti sempre piu` patologici. Dal carattere nevrotico su base conflittuale, ma ancora asintomatico, al disturbo strutturale del carattere che e` legato ad alcuni deficit dell’apparato psichico. Ritornero` successivamente su questi concetti, dal momento che utilizzero` appunto il termine di carattere per indicare i tratti stabili dell’individuo siano essi normali o patologici.

Si intende per personalita`, secondo H.J. Eysenck, «...la somma totale degli schemi di condotta dell’organismo attuali e potenziali, ereditari ed acquisiti. Essa si origina e si sviluppa attraverso l’interazione funzionale dei quattro settori principali nei quali sono organizzati questi schemi di condotta: il settore cognitivo (intelligenza), conativo (carattere), affettivo (temperamento), somatico (costituzione)» (da U. Galimberti). La citazione di Eysenck non e` a caso, ma e` dovuta a due motivi ben precisi. Il primo e` una definizione largamente condivisibile, il secondo e` che il concetto di personalita`, pur usato da numerosi Autori con significati diversi, rimane un termine specifico della ricerca psicologica. Attraverso ricerche, prevalentemente su campioni di persone normali, gli psicologi clinici cercano, mediante test sempre piu` complessi e soprattutto con procedimenti di elaborazione sempre piu` sofisticati, di individuare alcuni tratti fondamentali della psiche che variamente sommandosi o interagendo possono spiegare la complessita` e la diversita` dei singoli individui. Non a caso un test di valutazione clinica molto conosciuto, come l’MMPI, e` definito test di “personalita`”. Gli studi piu` recenti, sempre sulla base di elaborazione di questionari, hanno portato alla cosiddetta teoria dei “Big Five”. Sono stati estrapolati cinque fattori normativi della personalita` che sono: Nevroticismo, Estroversione, Apertura all’esperienza, Amabilita` e Coscienziosita`. Questi fattori variamente interagendo spiegano le diversita` personali, mentre l’aumento eccessivo o la mancanza possono determinare specifiche patologie. Per questi motivi ritengo piu` utile riservare il termine personalita` agli studi di psicologia clinica che, usando strumenti di rilevazione diversi da quelli dell’indagine clinica, non sempre offrono dati comparabili o utilizzabili dalla clinica. Pertanto mi sembra piu` corretto non utilizzare questo termine: purtroppo rimane il concetto di “Disturbo di personalita`” perche´ largamente utilizzato, soprattutto da quando il DSM (nelle

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

sue varie versioni) ne ha fatto una categoria nosografica altamente specifica. Pertanto, per evitare ulteriori fraintendimenti utilizzero` il termine “Disturbo di personalita`”, ma e` evidente che esso sara` utilizzato nel presente Manuale come equivalente di disturbo del carattere strutturale (ved. cap. 22).

1.4. L’Io Nonostante l’uso generalizzato di questo pronome, e` stata sicuramente la psicoanalisi a sostantivizzarlo e renderlo una istanza fondamentale dell’apparato psichico, insieme all’Es ed al SuperIo. Comunque il significato di Io e` estremamente intricato e complicato, e lo stesso Freud lo usa spesso in accezioni diverse. Sul piano genetico, S. Freud propone in un primo tempo che l’Io si forma come differenziazione dall’Es nel rapporto con la realta` esterna: successivamente invece lo propone come precipitato di identificazioni successive. Sul piano funzionale l’Io comunque rimane l’istanza fondamentale dell’apparato psichico: nella sua parte conscia come capacita` di conoscenza e di rapporto con il mondo, mentre nella parte inconscia come sede dei meccanismi difensivi. Successivamente, soprattutto negli Stati Uniti, nascera` una specifica psicologia definita appunto Psicologia dell’Io soprattutto ad opera di H. Hartmann. Dato fondamentale e` la concettualizzazione che questa istanza non e` al servizio degli istinti, bensı` del rapporto con la realta`. L’Io, attraverso processi di maturazione, apprendimento ed adattamento, sviluppa sempre piu` la capacita` di esplorare e rapportarsi con il mondo traendone piacere; piacere che tendera` sempre piu` ad irrobustire questa funzione. Il concetto di forza dell’Io, come sinonimo di sanita` mentale, e` un elaborato della Psicologia dell’Io, come pure l’importanza delle gratificazioni esterne per la sua crescita e sviluppo. Numerosi studi successivi tenderanno sempre piu` a connotare l’Io come fonte delle motivazioni, come istanza organizzativa dell’esperienza e come

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luogo di una autopercezione continua che fonda il senso d’identita` dell’individuo. Per queste caratteristiche il concetto d’Io e quello di carattere sono in gran parte assimilabili. Pertanto nel Manuale l’uso di Io e di carattere potra` essere intercambiabile con una differenza: parlero` di Io soprattutto come il fondamento delle istanze che si evolve a partire dalla nascita per mediare il rapporto tra realta` esterna e inconscio; mentre parlero` di carattere soprattutto per definire la struttura stabile che pertanto si adatta meglio per la descrizione clinica.

1.5. Il Se´ ` un termine che assume significati diversi a E seconda delle diverse teorie che utilizzano questo termine. Complessivamente il Se´ connota sia una funzione che e` quella autoriflessiva ed autoreferenziale delle percezioni e delle esperienze, sia un nucleo centrale che rimane stabile e coeso pur nel fluire inevitabile degli eventi e delle relazioni del soggetto. Molto spesso le teorie del Se´ tendono a contrapporsi a quelle delle relazioni oggettuali, o comunque a contrapporre il Se´ alla realta` esterna. Non e` un caso che molto spesso una fondamentale operazione del bambino, quella di distinguere l’Io dal mondo esterno, viene spesso designata con la formula “distinzione del Se´ dal non Se´”. Il termine Se´ e` stato utilizzato in filosofia prima ancora di entrare nel lessico psicologico e psichiatrico. Fu W. James a introdurlo per primo nell’ambito della psicologia distinguendone tre modalita` fondamentali: Se´ materiale, Se´ sociale, Se´ spirituale, ad indicare i tre aspetti fondamentali dell’uomo: il vissuto corporeo, quello relazionale, ed il mondo dei valori e delle aspettative. Successivamente sara` la psicologia sociale ad impadronirsi di questo termine per sottolineare la matrice fondamentalmente culturale ed interpersonale della formazione dell’individuo, fino a giungere a considerare l’individuo come un precipitato, una stratificazione delle opinioni e dei

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giudizi che gli altri ci comunicano, piu` o meno esplicitamente, su di noi. Ma e` H. Kohut (vedi cap. 7) che formula una teoria del Se´ completa e coerente. Alcune di queste formulazioni, soprattutto il concetto di narcisismo, saranno utilizzate per elaborare una teoria dei disturbi di personalita`. O. Kernberg ritiene che la mancata coesione del Se´ determini quella “diffusione dell’identita`” sorta di marker psicologico del borderline. Il termine Se´, pur con varie modalita`, sara` spesso utilizzato per contrapporre ad una realizzazione vera un Falso-Se´ che sarebbe una sorta di maschera utilizzata dal borderline per gestire meglio la propria patologia proprio perche´ coperta di questa maschera (vedi cap. 22). Infine la psicologia umanistico-esistenziale utilizzera` ampiamente questo termine. Da R. May, che afferma che ogni individuo possiede un nucleo originario che cerca di affermarsi e di emergere per cui l’aspettativa maggiore dell’uomo e` l’autorealizzazione di questo Se´, fino a A.H. Maslow (vedi cap. 7) che pone la realizzazione del Se´ al vertice della piramide dello sviluppo umano. Inoltre il Se´ sara` un concetto fondamentale nella ricerca della infant research (vedi cap. 7). Comunque non sono mancate critiche anche molto radicali a questo concetto, soprattutto perche´ questo concetto esprime in maniera piu` evidente la convinzione che il soggetto o il Se´ sia una entita` unica e totalmente integrata. «L’assurdo e` che dentro di noi vive una persona che pensa per noi; questa persona noi la chiamiamo Se´». Questo concetto per Minsky serve a spiegare tutto senza spiegare alcunche´: «... come funziona la visione? Semplice: il nostro Se´ guarda attraverso i nostri occhi allo stesso modo come noi guardiamo alla finestra». Come facciamo a parlare? Anche qui tutto sembra venire da dentro: e` il nostro Se´ che ha qualcosa da comunicare ecc... Ora e` chiaro che tutte queste risposte non sono affatto risposte, bensı` parole pressoche´ vuote che assomigliano a delle risposte quel tanto che basta per non farci piu` fare domande». (M. Minsky). La critica di Minsky comunque va ben oltre il Se´ perche´ si inserisce in un dibattito aperto: se l’individuo e` una unita` coesa e sempre coerente

(come sostiene in particolar modo la teoria del Se´) o piuttosto e` composito di varie parti che spesso sono in netto contrasto o diverse tra di loro. In certi casi la polemica viene spinta fino all’etimo stesso di individuo (che vuol dire non diviso) che sarebbe un puro artifizio, perche´ l’uomo, anche il piu` normale, e` composto di numerose parti a volte molto diverse o in contrasto tra di loro. Comunque anche il termine Se´, poiche´ e` applicabile correttamente solo all’interno di specifiche teorie, non sara` utilizzato in questo contesto se non in riferimento a formulazioni specifiche della teoria del Se´. Pertanto possiamo concludere, dopo questo breve excursus, che nel Manuale saranno utilizzati solo due termini: carattere ed Io, che sono abbastanza sovrapponibili con una sola differenza: mentre l’Io verra` usato soprattutto nella descrizione delle varie fasi evolutive, quello di carattere sara` maggiormente utilizzato per connotare situazioni piuttosto stabili, siano esse sane o patologiche.

2. Modello complementare: dagli istinti alle relazioni interpersonali Il modello che esporro` si basa sui seguenti punti qualificanti. 1)

2)

3)

` un modello complementare, ovverosia poE stula la base pulsionale dello sviluppo psichico, ma propone anche la fondamentale importanza delle relazioni interpersonali. Lo sviluppo e` epigenetico ovverosia si ritiene che le pulsioni, o altre situazioni innate, siano innescate e attivate solo in presenza di ` sufficienti ed appropriati stimoli esterni. E noto che il bambino, se entro i primi tre mesi dalla nascita viene messo in acqua, nuota. Trascorso tale periodo, il bambino ‘‘dimentica’’ questa sua capacita`, e sara` costretto, faticosamente, a doverla riapprendere. Lo sviluppo avviene per crisi successive. Crisi vuol dire: separazione da una situa-

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4)

zione psichica ormai superata che se continuasse diventerebbe anacronistica e quindi patologica. Separazione possibile solo in una interazione positiva tra il soggetto e l’ambiente circostante. Si postula che lo sviluppo dell’uomo si situa tra due estremi: da quello di massima dipendenza, ad uno di sempre maggiore autonomia che lo porta a risolvere il bisogno di ‘‘dipendenza dall’oggetto’’, sviluppando nel contempo la capacita` ‘‘alla solitudine’’.

Ritengo piu` utile usare il termine complementare, piuttosto che il termine misto o bifattoriale (come fanno J.R. Greenberg e S.A. Mitchell) perche´ presenta analogie con il modello complementare, in fisica, della luce: modello che ne postula la natura corpuscolare ed ondulatoria. Complementare vuol dire quindi accettare sia la teoria degli istinti, sia quella dell’importanza delle relazioni interpersonali. Poiche´ il concetto di istinto e` quello piu` carico di ambiguita`, dovro` soffermarmi, piu` a lungo, su questo problema. 2.1. Il concetto di istinto L’uomo possiede due istinti: quello libidico e quello di morte. Perche´ due istinti, e perche´ specificamente questi? Per dare una risposta dobbiamo inserire l’uomo ed il suo sviluppo nella evoluzione generale della vita e delle sue differenziazioni. Oltre 4 miliardi di anni fa il passaggio dall’inorganico al biologico fu segnato da una svolta che potrebbe sembrare poco logica e poco economica. Il passaggio dalla simmetria della materia inorganica (prodotti recemici) alla asimmetria del biologico. La materia vivente e` asimmetrica perche´ utilizza soltanto prodotti destrogiri (come gli zuccheri) o levogiri (come gli aminoacidi): i rispettivi isomeri non solo non sono utilizzabili, ma a volte possono risultare addirittura dannosi. Questo brevissimo accenno al complesso problema dell’asimmetria e` solo per postulare che qualcosa di analogo puo` essere avvenuto nel passaggio dai primati superiori all’uomo: ovverosia dall’animalita` all’umanita`.

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Datare questo avvenimento non e` facile: sicuramente all’interno dell’era quaternaria (iniziata 2 milioni di anni fa). Ma se questo passaggio lo dobbiamo attribuire all’homo habilis (1.500.000 anni fa), o all’homo erectus (500.000 anni fa), o all’homo sapiens (200.000 anni fa), o addirittura in tempi piu` vicini, rimane campo aperto ad una ricerca interdisciplinare. Pero` possiamo ipotizzare che il passaggio dall’‘‘animalita`’’ all’‘‘umanita`’’ e` stato segnato da una svolta riduttiva: da una serie di istinti programmati e predeterminati, ad istinti con una minore specificita`, ma con una maggiore plasticita`. L’istinto libidico che tende ad unire, l’istinto di morte che tende a separare: istinti poco ‘‘specialistici’’, ma proprio per questo con maggiori potenzialita`. Questi due istinti regolano il cammino fondamentale dell’uomo: dalla dipendenza alla autonomia. Perche´ questa riduzione? Perche´, in termini evolutivi, questa riduzione permette un migliore adattamento alla complessita` . Infatti il problema dell’uomo non e` tanto l’adattamento a situazioni ambientali, che in genere cambiano in tempi lunghi. A partire dall’ultima glaciazione (12.000 anni fa), l’uomo in effetti non ha dovuto affrontare grandi cambiamenti nel mondo della natura. Ma l’uomo deve affrontare una situazione assolutamente specifica: l’adattamento all’ambiente umano. Ed e` questo che, cambiando continuamente, sottopone l’uomo ad uno sforzo che sarebbe assolutamente impensabile per qualsiasi animale. Il mondo umano, cioe` la cultura, le tradizioni, le abitudini, le regole di vita ecc. possono cambiare in maniera molto rapida e radicale. E l’uomo deve adattarsi continuamente a situazioni culturali diverse: ha bisogno pertanto di una maggiore plasticita`, che non ci sarebbe se egli fosse portatore di istinti altamente specializzati e quindi rigidi. Inoltre la dualita` istintuale si avvicina e realizza quella asimmetria che sembra costituire la specificita` del biologico. Possiamo ipotizzare che la vita psichica si sviluppi solo in una situazione duale-asimmetrica

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(istinto di vita-istinto di morte; sonno-veglia; Io-tu ecc.) e che la patologia psichica e la morte biologica possono essere lette come passaggi verso la simmetria. Nel campo psichico l’identificazione proiettiva, la simbiosi, la confusione sonno-veglia, sono espressioni di una tendenza alla simmetria ed alla omogeneita`, segni evidenti di una grave psicopatologia. Nel campo biologico la morte e` il ritorno alla natura, a quella simmetria tipica della materia inorganica (N. Lalli, 1991). 2.2. Istinto libidico. Istinto di morte L’istinto libidico spinge alla ricerca dell’oggetto e puo` esprimersi con due modalita`. Sul piano fenomenico, queste due modalita` si differenziano per l’importanza che assume l’oggetto. Esiste una modalita` che possiamo definire anaclitica (ovverosia di appoggio all’oggetto) che va dall’attaccamento, al bisogno di rinforzo per l’autostima, ecc. e che esprime quindi una dipendenza dall’oggetto. Ed una modalita` che possiamo definire diaclitica (ovverosia che non presenta una dipendenza dall’oggetto) e che si esprime come ideale dell’Io, come creativita`, fantasia, in altre parole come investimento sessuale. Per istinto di morte seguo la teorizzazione di M. Fagioli: e` l’istinto che si esplica alla nascita e che si manifesta come fantasia di sparizione contro la realta` (aspetto distruttivo) o come fantasia di sparizione verso situazioni interne (aspetto creativo). Capire in che modo interagiscono questi due istinti e` un problema fondamentale, perche´ si ` pone alla base del problema della separazione. E evidente che dobbiamo non solo chiederci cosa e` che ci spinge verso l’oggetto, ma anche cosa ne permette la separazione. La complessita` di questa domanda ha portato con facili semplificazioni a postulare il principio della scarica: la separazione e` inevitabile ed automatica ogni qualvolta la tensione viene scaricata. Anche il concetto di narcisismo presenta una uguale genesi1. Con il che si 1

Il mito di Narciso deve essere interpretato alla luce della

viene a postulare che una capacita` (la separazione) — che si deve acquisire nel tempo — gia` esiste a monte e prima ancora di una serie di relazioni interpersonali che permettono di svilupparla. Ma proporre la separazione come automatica ed inevitabile, anche dopo il soddisfacimento del desiderio, vuol dire riproporre in maniera surrettizia un modello di scarica: modello meno meccanicistico, ma pur sempre di scarica. Dobbiamo pertanto pensare che se esiste una pulsione che direziona verso l’oggetto, ci deve essere anche una pulsione che agisce in senso ` contrario: ovverosia che porti alla separazione. E nella dialettica tra queste pulsioni e le relazioni interpersonali che dobbiamo trovare la genesi dello sviluppo psichico: sia normale che patologico. Quale e` dunque il significato dell’oggetto e della relazione nello sviluppo psichico? Se l’oggetto servisse solamente a sviluppare potenzialita` che sarebbero tutte innate nel bambino, l’oggetto sarebbe abbastanza squalificato e soprattutto non si spiegherebbe la complessita`, la varieta` della vita psichica e negheremmo un fattore fondamentale come l’apprendimento. Se l’oggetto servisse invece a costruireriempire (mediante le introiezioni e le identificazioni) il bambino, vorrebbe dire ridurre quest’ultimo ad un puro contenitore, negando quindi qualsiasi possibilita` di cambiamento e di crescita reale. Dobbiamo ritenere quindi che ci sia una dinamica piu` complessa che puo` essere compresa sulla base di una ipotesi che lega la nascita, la crisi, il cambiamento ed il trauma. Necessita` fondamentale per l’uomo e` quella di mantenere l’integrita` del proprio apparato psichico, ovverosia quella coesione originaria, che e` l’Io originario. Ma questa integrita` non puo` essere stasi perenne: la crisi, il cambiamento sono inevitabili (“la stasi e` morte”, affermava G. F. Hegel). Ma se questi sono troppo traumatici il bambino pridinamica di Eco. Eco e` colei che non riesce a separarsi, come evidenzia la necessita` di attaccare e ‘‘staccare’’ le parole dell’altro (il fenomeno dell’eco). Narciso, incapace di rapportarsi con questa dinamica, si rifugia nel narcisismo, ovverosia nella indifferenza, come incapacita` di sostenere una dinamica, di intensa bramosia.

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

ma, l’adulto poi, metteranno in atto una serie di meccanismi difensivi che sono collegabili con l’istinto di morte come tendenza che cerca di allontanare, far sparire, o controllare onnipotentemente l’oggetto frustrante. Dico difensivo perche´ il bambino cerca appunto non di ritornare alla situazione precedente ma soltanto di salvaguardare l’integrita` psichica, e quindi di riequilibrare la turbata situazione attuale. Non si puo` parlare di situazione precedente perche´ il bambino si trova in una crisi, ovverosia a cavallo tra il ripristinare la situazione che e` stata turbata o accettare l’avventura verso una nuova situazione. ` chiaro quindi che la crisi puo` avere una E doppia valenza: maturativa o regressiva. Postulare l’evoluzione per crisi significa evidenziare l’importanza dell’oggetto in genere, ma soprattutto nel momento della crisi, quando un adulto valido e gratificante aiuta il bambino a rinforzare le valenze libidiche, in modo da contrastare le tendenze che lo porterebbero a non tentare l’avventura, ma a rifugiarsi nelle comodita` dell’acquisito. Ma se consideriamo che la crisi, come momento di passaggio-cambiamento, non e` solo evento psichico, ma anche biologico, (nel senso di acquisizione di nuove capacita`) ci rendiamo conto della inevitabilita` della crisi e quindi dell’importanza fondamentale della gestione della stessa. La prima crisi, per importanza e per cronologia, e` la nascita; a questa ne seguiranno altre legate direttamente alla crescita ed alla evoluzione psicofisica del bambino, che rappresenta il punto di vista epigenetico.

2.3. La nascita e lo sviluppo psichico Alla nascita e nei primi mesi di vita l’espressione istintuale trova il massimo della manifestazione: l’istinto libidico come attaccamento, l’istinto di morte come sparizione dell’oggetto frustrante. Con la nascita e con l’attivazione dell’istinto di morte, si costituisce l’Io e l’inizio della vita psichica. Chiaramente la nascita deve essere intesa come una nuova situazione che segue ad una precedente, che e` quella della vita endouterina. Questa

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fase, per il feto, e` caratterizzata da due situazioni fondamentali: a) b)

c’e` una dinamica di contatto che e` mediata prevalentemente dalla cute; il feto vive una situazione di simbiosi, ove non e` possibile distinguere un interno ed un esterno, un Io ed un non-Io. Sara` la nascita appunto che, interrompendo questa situazione, attiva la possibilita` e l’inizio di una vita psichica e di un Io.

Alla nascita l’Io e` prevalentemente somatico, ovverosia trae la sua forza a livello tattile e cenestesico, come avveniva gia` nella precedente situazione endouterina, con una differenza fondamentale. La cesura della nascita, imponendo una rottura dell’omeostasi e quindi l’inevitabile ‘‘vissuto’’ del non essere piu` in simbiosi, fa del bambino una unita` separata e divisa che deve lottare per mantenere questa nuova situazione. Nuova situazione che ha alcuni aspetti in comune con quella precedente: la culla e le braccia dell’A.S. (Adulto Significativo), segnalano queste diversita`, ma anche questa continuita` nel cambiamento. La fantasia di sparizione contro la nuova realta`: la luce, ed il recupero del ricordo della precedente esperienza endouterina, fanno sı` che si costituisca la ‘‘sensazione’’ di un contenitore. Questo contenitore rappresenta l’abbozzo dell’apparato psichico che racchiudera` i successivi vissuti. Ma questa sensazione di un contenitore interno e` estremamente fragile, pronto a lacerarsi, come spesso si irrita la pelle del bambino. Percio` questa immagine-sensazione interna deve trovare supporto e fortificarsi sulla base delle successive esperienze tattili: la pelle, che gia` nel liquido amniotico ha rappresentato il principale mezzo di comunicazione e di osmosi, anche dopo la nascita continua ad essere luogo privilegiato che focalizza le attenzioni e le cure degli adulti nei confronti del bambino. In questo modo, il fragile Io si consolida, sempreche´ ci sia una dinamica oggettuale valida, che deve passare attraverso le comunicazioni, le emozioni e gli affetti che la pelle raccoglie e trasmette al bambino. L’Io fondamentalmente somatico tende a strutturarsi come Io-pelle. Ovverosia una struttura che e` sempre piu` psichica, ma che ha ancora nel somatico la sua base.

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Se le modalita` di rapporto interpersonale sono valide, lo scambio continuo, osmotico tra l’Io e l’esterno rendono sempre piu` questo Io-pelle un Io libidico ovverosia un Io capace di investimento sessuale, ed ove la ‘‘pelle’’ si e` trasformata in una duplice qualita` psichica: la recettivita` e la resistenza. Mi e` sembrato indispensabile riproporre il problema degli istinti, perche´ e` solo sulla base di una teoria istintuale che e` possibile proporre l’esistenza, la natura e le funzioni dell’inconscio. Eliminare le pulsioni vuol dire eliminare l’inconscio o, al massimo, trasformarlo in inconscio cognitivo.

2.4. L’inconscio ` stupefacente dover constatare come ormai E da alcuni decenni la ricerca sull’inconscio da parte della psicoanalisi sia praticamente assente o banalizzata. Basti osservare che un autore — abbastanza conosciuto come A. Modell — nel suo libro ritenuto innovativo Psicoanalisi in un nuovo contesto, non parla mai di inconscio. Credo invece piu` euristico non solo ritenere che esista un inconscio, ma che questa dimensione sia fondamentale nella vita psichica dell’uomo; ma bisognera` allora cercarne una definizione corretta: vediamone alcune. L’inconscio e` una mera potenzialita`: definizione possibile, ma troppo generica. L’inconscio e` una funzione: ma allora di quale apparato? L’inconscio e` un apparato: ma come si configura questo apparato? L’incoscio e` una struttura. Ma cosa intendiamo per struttura? Una organizzazione preesperienziale o post-esperienziale? Ritengo invece che l’inconscio deve essere considerato come uno stato della mente, ovverosia come una complessita` che si manifesta e che puo` momentaneamente scomparire per dare luce al conscio. Il concetto di stato implica l’esistenza non di apparati diversi, ma di variazioni dinamiche di uno stesso substrato organico, cioe` il S.N.C. In questo modo si supera sia l’antitesi

mente-soma, sia la fantasticheria che esista una parte nascosta e misteriosa dove risiederebbe l’inconscio. Ci troveremmo cosı` molto vicini alla dinamica del rapporto veglia-sonno-sogno (vedi N. Lalli, A. Fionda, L’altra faccia della luna. Il mistero del sonno, con particolare riferimento ai cap. VI e VII, Liguori, Napoli 1994). Le modalita` di estrinsecazione dell’inconscio sono fondamentalmente due: l’inconscio come stato della mente e l’inconscio come apparato piu` o meno rigido ed immutabile. Chiarito questo quesito, potremmo anche definire meglio il concetto di inconscio come potenzialita`. Iniziamo da una osservazione molto semplice e comune. In qualsiasi situazione di rapporto il soggetto presenta una duplice articolazione: da una parte e` attivo perche´ investe l’oggetto, dall’altra e` recettivo perche´ e` investito dall’oggetto. Investimento e recettivita` indicano una dinamica complessa che implica affetti, istinti, percezioni, fantasie, ecc... Per semplificare questa complessita`, mi soffermero` a considerare una situazione piu` parziale, ma significativa: la percezione visiva. Il soggetto nel rapporto con l’oggetto ha una percezione visiva dell’oggetto. In questa ottica possiamo dire che esiste una situazione di passivita`: ovvero il soggetto non puo` non vedere l’oggetto. Passivita` tanto maggiore quanto minore e` la capacita` di recettivita`, come avviene nello psicotico che vive l’esser guardato come intrusivita` violenta alla quale puo` cercare di sottrarsi solo con un meccanismo ben conosciuto: il negativismo che avviene in presenza e per la presenza dell’oggetto. Lo psicotico non puo` impedirsi di vedere: pertanto se vuole evitare l’altro deve volgere la testa dall’altra parte e deliberatamente. Comunque ritorniamo ad una situazione di normalita`: il soggetto percepisce visivamente l’oggetto, ma ad un certo punto l’oggetto andra` via. La separazione, prima o poi, dovra` comunque avvenire, e questa separazione e` inevitabile, come lo e` la nascita. Altrimenti si creerebbe una situazione di simbiosi mortale, come sarebbe mortale la permanenza del feto nell’utero oltre un certo periodo.

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Inevitabilmente, quindi, l’oggetto materiale non c’e` piu` e pertanto cessa lo stimolo visivo. In questo momento il soggetto si trovera`, per un attimo, in uno stato particolare che possiamo definire di deprivazione: la percezione visiva non e` piu` possibile. Cosa succede in questo momento? Il soggetto, per mantenere la continuita` di relazione con l’oggetto ed una propria continuita` interna, deve inserire la non piu` presente percezione visiva nella propria struttura psichica. Cioe` dovra` formare ` ovvio che per questa dinamica una immagine. E ci riferiamo a relazioni affettivamente significative per il soggetto e non gia` a situazioni banali. Ma questa immagine puo` formarsi con modalita` diverse: dalla normalita` alla patologia. Molto schematicamente possiamo distinguere quattro modalita`. a)

b)

c)

d)

Si formera`, in maniera creativa, una immagine: certamente la percezione e` pur sempre un atto soggettivo, ma questa deve tener conto della realta` esterna. Creativa quindi vuol dire che l’immagine trae origine, oltre che dal dato materiale esterno, anche dalla situazione psichica che corrisponde a quella dell’inconscio mare calmo. L’immagine si formera` sulla base di un oggetto interno deteriorato. Questo oggetto interno e` dovuto ad una dinamica di bramosia che comporta l’introiezione dell’oggetto (che risulta intero, ma deteriorato) e successiva scissione e rimozione. Questo oggetto interno sara` successivamente proiettato all’esterno: e` la dinamica dell’inconscio rimosso (psiconevrosi). L’immagine si forma sulla base di oggetti ` la dinamica interni frammentati e parziali. E dell’inconscio frammentato (psicosi schizofreniche). L’immagine non si forma: la fantasia di sparizione contro l’oggetto esterno comporta, alla scomparsa dell’oggetto materiale, l’incapacita` di formare qualsiasi immagine e quindi mantenere un legame, per quanto al` quanto avviene nello terato, con l’altro. E schizofrenico difettuale e nel simplex (seppur con eziologia diversa).

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Se consideriamo la capacita` di rapporto con l’oggetto e la capacita` di separazione, possiamo evidenziare tre situazioni. La prima corrisponde ad una situazione di inconscio mare calmo. E in questo caso possiamo parlare realmente di inconscio come stato della mente che si manifesta al momento della separazione-deprivazione come possibilita` di formare una immagine creativa. In questo caso possiamo parlare anche di un inconscio come potenzialita` creativa. La seconda e` quella relativa all’inconscio rimosso. In questo caso possiamo ritenere l’inconscio come una struttura che determina in maniera molto rigida ed iterativa la formazione dell’immagine. La terza infine corrisponde ad una situazione di vuoto interno. Quindi da una parte ci troviamo di fronte ad un inconscio sano che continua ad avere la capacita` di formare (creare) immagini: immagini che ovviamente nel bambino devono stabilizzarsi, nell’adulto invece vanno ad arricchire il suo mondo interno. Dall’altra avremo un inconscio che, strutturato sulla base di immagini alterate introiettate, costituisce l’inconscio rimosso. Per ulteriori approfondimenti rimando ad altri lavori (N. Lalli, 1994-1998).

2.5. Emozioni ed affetti ` evidente che c’e` una stretta correlazione tra E pulsioni, emozioni, affetti e strutturazione dell’inconscio. Ma la prima domanda da porsi e` se emozioni ed affetti hanno il medesimo significato, o se invece corrispondono a ‘‘sentimenti’’ diversi; uso ‘‘sentimento’’ nel senso piu` comune: ovvero come uno dei tre processi fondamentali che fondano la vita psichica insieme agli altri due processi che sono il conoscere e il volere. Per emozione dobbiamo intendere l’aspetto piu` primitivo del sentire, caratteristica peculiare della materia organica che ad un livello superiore utilizza ben definite vie neurofisiologiche (come il circuito di Papez). L’emozione presenta una stret-

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ta correlazione e corrispondenza con il soma (dalla mimica, alle variazioni di costanti biologiche) e si esprime con due vissuti fondamentali ed antitetici: piacere-dispiacere. Per piacere non deve intendersi ne´ una assenza di dispiacere, ne´ uno stato di nirvana, ma piuttosto una situazione armonica tra soma, psiche e ambiente. Non mi sembra superfluo rammentare la radice etimologica (plak) che vuol dire sostenere, concordare. Per dispiacere dobbiamo intendere invece una situazione di disarmonia che nasce o da un bisogno insoddisfatto o dalla mancanza di un rapporto gratificante, o da una alterazione dell’omeostasi individuo-ambiente. Possiamo ipotizzare che il piacere e` piu` uniforme, mentre il dispiacere puo` avere diverse gradazioni come dolore, ansia, angoscia. Le emozioni cosı` intese fanno parte ovviamente del patrimonio biologico del bambino, ma la qualita` — negativa o positiva — e` certamente dovuta alla modalita` del rapporto interpersonale. Nei primi mesi di vita e` pensabile che la dinamica mentale sia condizionata dalle emozioni e che queste abbiano una funzione primaria nella dinamica integrativa delle percezioni. La pelle, l’udito, la vista possono integrarsi o meno in relazione alla qualita` di questo sentimento: una situazione emotiva di dispiacere puo` rendere difficoltosa o impossibile questa integrazione tra gli aspetti orali e visivi e tra questi ultimi e quelli uditivi. Anche qui rimane centrale la dinamica rapporto-separazione. Nel rapporto con l’altro, se il bambino vive una situazione soddisfacente riesce a separarsi e, al momento della separazione, a mantenere dentro di se´ il ricordo dell’oggetto, che nelle prime fasi e` prevalentemente costituito sulla base uditiva, visiva e cenestesica. Si formano cosı` delle immagini, anche se non definite; e queste immagini tendono sempre piu` ad integrarsi e a fondersi e porteranno successivamente alla verbalizzazione: cioe` il passaggio dal ricordo-immagine al simbolo verbale. Ma ad una certa fase dello sviluppo compaiono gli affetti, ‘‘sentimenti’’ piu` complessi ed articolati. Quando e come nascono gli affetti?

Forse non c’e` un momento particolare, ma un lungo percorso che porta la polarita` piaceredispiacere a legarsi ad immagini ben precise. Ed e` a questo punto che le emozioni si trasformano in affetti, la cui bipolarita` rivela l’antica origine. Infatti anche gli affetti hanno una duplice polarita` che non possiamo piu` definire piaceredispiacere, ma dinamica complessiva del rapporto con l’altro. I ‘‘sentimenti’’ che colorano continuamente la vita umana sono innumerevoli. Piacere, amore, ansia, angoscia, odio, gelosia, sofferenza, coraggio, desiderio, paura, orgoglio, attrazione: tanti nomi per indicare due situazioni fondamentali collegate agli affetti. Da una parte quelli legati all’istinto libidico: desiderio, amore, investimento libidico. Dall’altra quelli collegati all’istinto di morte: rabbia, odio. Fino a quella dinamica estrema che si esprime come annullamento, quando la rabbia o l’odio non sono ulteriormente sopportabili e gestibili. Non e` questa la sede per affrontare la complessita` e la genesi e l’importanza degli affetti nella vita dell’uomo. Sicuramente la psicoanalisi non e` stata in grado di proporre una teoria soddisfacente degli affetti. Come osserva giustamente A. Green, questa difficolta` «...e` rappresentata dai nostri preconcetti e dal modo stesso in cui sono stati posti i problemi sin dall’inizio nell’ambito della teoria freudiana» (Green A., 1978). Per Freud l’affetto e` una quantita` di energia (Affektbertrag) che accompagna gli eventi della vita psichica. Egli inoltre differenzia l’origine degli affetti dalle rappresentazioni: l’affetto e` una traccia mnestica di azioni appartenenti al passato filogenetico delle specie; e` evidente l’influenza di Darwin in questa concettualizzazione. Questo tantum puro di energia, secondo Freud, puo` diventare fattore di disorganizzazione dell’apparato psichico ed avere conseguenze dannose per il funzionamento del pensiero. L’apparato psichico secondo Freud ha in fondo questa funzione fondamentale: ottimizzare l’aspetto razionale a scapito del pericoloso aspetto affettivo. Con il passare del tempo Freud porra` sempre piu` come referente della sua teoria della affettivita` l’angoscia, anzi questa diventa l’affetto per eccellenza e pertanto necessariamente sottoposto al processo

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di Verdrangung. Al di la` di facili critiche bisogna sottolineare che questa concettualizzazione della pericolosita` degli affetti avra` una precisa corrispondenza sul piano della prassi terapeutica: e` la concezione dell’analista neutrale. Comunque questa teoria degli affetti sara` variamente interpretata e modificata dai successori di Freud, ma senza alcuna sostanziale modifica. E giustamente osserva Green: «Ci si puo` chiedere se l’assenza di una teoria degli affetti generalmente accettata non sia da imputare ai limiti propri dell’ambito analitico. E credo che la risposta e` sicuramente affermativa» (A. Green, 1978). Pertanto bisogna riprendere un discorso che a partire dagli istinti, e da una diversa teorizzazione di questi, giunge a postulare una teoria degli affetti. A questo proposito mi sembra utile citare un passo del lavoro di G. De Simone Conoscenza ed affetti. Il dire ed il fare in psicoterapia: «...A questo punto forse possiamo essere piu` precisi nel dire che caratteristica dell’uomo non e`, come specie evoluta, solo quella di sentire. Il sentire come irritabilita`, sensibilita` e` caratteristica della materia vivente, come percezione sensoriale, appartiene alla specie animale ed anche al feto umano nel suo ambiente. Forse possiamo dire che caratteristica dell’uomo e` soprattutto sentire affetti a partire da immagini. Quando si ha la comparsa dell’affetto? Forse proprio quando la pulsione si lega all’immagine. Possiamo introdurre una definizione di affetto a partire dalla pulsione nel senso che quando la pulsione si lega all’immagine diventa affetto. Certo l’immagine mantiene una direzionalita` nel rapporto con la realta` (investimento) e gli affetti mantengono un sentire in rapporto con la realta` (la carica). Alla base c’e` il concetto assolutamente originale di pulsione come investimento nel rapporto con la realta` esterna. Fatto che si ritrova nella clinica, nei fenomeni empatici, nella percezione affettiva della relazione terapeutica. Ma in questo campo non c’e` dubbio che la teorizzazione forte e radicale, con cui confrontarsi, e` quella di Massimo Fagioli, nella quale viene proposto il punto di congiunzione tra l’impostazione relazionale e quella pulsionale, dove e`

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la pulsione stessa che si dirige verso l’esterno come reazione ad uno stimolo che proviene dall’esterno inanimato. Il punto di vista relazionale accetta che il neonato possa percepire uno stimolo esterno, quindi non c’e` piu` l’autoerotismo, il narcisismo; tuttavia che dal bambino possa partire qualcosa verso il mondo esterno non viene concepito. Inoltre, se il bambino appena nato e` in grado di percepire gli affetti della madre, perche´, un attimo prima del rapporto con la madre, non puo` percepire gli stimoli esterni fisici che sono ben piu` violenti? Forse non si concepisce — suggerisce Fagioli cui e` stata posta la domanda — che il neonato possa avere una reazione psichica a partire da uno stimolo fisico, da un fatto materiale (non spirituale), che cioe` possa iniziare la sua attivita` fisica non da stimoli, affetti, psiche della madre (in cui si puo` nascondere sempre l’idea che il bambino dipende dalla psiche, cioe` da qualcosa di spirituale) ma da uno ‘‘schiaffo della natura’’. C’e` un residuo di spiritualismo? Forse a monte c’e` l’ideologia che non ci puo` essere fusione tra psichico e fisico, che la materia possa determinare la psiche. Eppure questa acquisizione dell’origine materiale della psiche e` in grado di provocare accelerazioni vertiginose nella ricerca» (G. De Simone, 1994).

2.6. Il vissuto corporeo Il corpo o soma e` fondamentale nella costruzione dell’apparato psichico per il semplice fatto che non esisterebbe un apparato psichico se non ci fosse un corpo. In questo contesto non mi soffermero` sul rapporto psiche-soma, ma su come si costituisce il nostro vissuto corporeo, cioe` su come noi vediamo noi stessi: la costituzione dello schema corporeo e` fondamentale per la costruzione dell’identita`. Per esprimere questa complessita` vorrei riportare alcuni passi significativi di filosofi e psicologi che si sono occupati di questo problema. James sostiene: «ogni qual volta due persone si incontrano ci sono in realta` sei persone pre-

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senti. Per ogni uomo ce n’e` uno per come egli stesso si crede, uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli e` realmente» (James W., 1890). Merleau-Ponty afferma: «Il corpo e` l’unico mezzo che io ho per andare al cuore delle cose» (Merleau-Ponty M., 1970). Schopenauer, ne Il mondo come volonta` e rappresentazione, cosı` si esprime: «Se gli uomini fossero teste d’angelo alate senza corpo, la filosofia non disporrebbe del punto di appoggio che le permette di oltrepassare il mondo empirico, non potrebbe lacerare il velo di Maya» (Schopenauer A., 1819). E Nietzsche infine, in Cosı` parlo` Zaratustra, afferma: «Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che si chiama Se´. Abita nel tuo corpo, e` il tuo corpo. Ai dispregiatori del corpo voglio dire una parola. Essi non devono, secondo me, imparare o insegnare ricominciando daccapo, bensı` devono dire addio al proprio corpo, e cosı` ammutolire» (Nietzsche F., 1883-1885; le citazioni sono tratte da N. Lalli, 1997). Questi brevi accenni evidenziano chiaramente come dietro il problema dello schema corporeo si nasconda il tema centrale dell’uomo. Il corpo come ambiguita` dell’essere e dell’avere, ma anche come possibilita` di conoscere, di agire, il corpo come incontro con l’altro, il corpo come sessualita` che implica l’acquisizione di una specifica identita`, ma anche come ingombro, come malato, come intralcio nel rapporto con gli altri. Il concetto di schema corporeo a lungo sara` appannaggio della neurologia e sara` utilizzato per spiegare alcune sindromi particolari come l’arto fantasma o la nosoagnosia. Schilder invece ritiene che lo schema corporeo si costituisce infatti non solo sulla base delle sensazioni (cenestesiche, tattili, ecc.), ma soprattutto mediante l’integrazione di queste sensazioni con i vissuti esistenziali ed emotivi del singolo soggetto. Ma l’elaborazione di Schilder, nonostante il successo di cui godra` a lungo, non riesce a chiarire un fatto fondamentale: come avviene il passaggio «... dalla nozione neurologica di schema corporeo, alla nozione psicologica di immagine

del corpo in cui entra in gioco tutta l’esistenza del soggetto» (Martinelli R., 1974). Successivamente sara` la fenomenologia a tentare di delucidare questa complessa formazione: fra questi citero` solamente Merleau-Ponty. Merleau-Ponty, proponendo la fondamentale ambiguita` del corpo, oscillante tra l’essere e l’avere, apre uno squarcio che supera sia la visione strettamente neurologica che quella psicologica astratta. Merleau-Ponty cerca infatti una articolazione — nella dimensione fenomenologica — tra il biologico e lo psichico. La struttura dell’essere al mondo e` la temporalita`: ed e` per una dimensione temporale che i processi fisiologici e psichici si articolano e si legano. Ed e` in questa ottica che Merleau-Ponty propone la spiegazione dell’arto fantasma: «...il braccio fantasma e` un vecchio presente che non si decide a diventare passato». Ma se questa proposizione e` certamente interessante, meno condivisibile e` la proposizione di Merleau-Ponty circa lo schema corporeo. «Lo schema corporeo, anziche´ essere il residuo della cenestesia, ne diviene la legge di costituzione ... l’unita` sensomotoria del corpo e` per cosı` dire di diritto, essa non si limita ai contenuti effettivamente e casualmente associati nel corso della nostra esperienza, ma in un certo modo li precede e rende appunto possibile la loro associazione». Questa concezione sembra richiamare strutture categoriali di tipo kantiano e, rinnegando la storicita` dell’individuo ovverosia l’importanza non tanto delle strutture, quanto piuttosto dei rapporti interpersonali ai fini dello sviluppo, sembra riproporre un modello di tipo biologico. Piu` interessanti sono i contributi delle varie scuole che sottolineano invece l’importanza delle relazioni oggettuali nella formazione del Se´ e quindi anche nella formazione dell’immagine corporea. Fisher e Cleveland sviluppano una teoria relativa all’immagine corporea che sposta il problema dall’immagine alla modalita` con la quale l’individuo percepisce i propri confini corporei. Tramite tests proiettivi (Rorschach e Inkblot test) defini-

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scono due modalita` espresse mediante un punteggio: il punteggio di barriera (indice dei confini corporei stabiliti) e il punteggio di penetrazione (indice dei confini corporei fragili). Questa visione che da` fondamentale importanza alle prime pratiche di socializzazione del bambino, pur nella schematicita` ha una sua importanza. Infatti questa concezione permette agli autori di passare dal concetto di immagine corporea al concetto di confini corporei. «Porre l’accento sui confini corporei significa valorizzare la rappresentazione simbolica di un limite che ha funzione di immagine stabilizzatrice, di envelope protettivo per la persona ... L’immagine di un limite ha funzione capitale nella economia e nella organizzazione psichica. Essa non e` dunque una funzione mentale (come lo schema corporeo dei neurologi), ma ha una funzione psicologica di stabilizzazione sia nel rapporto dell’individuo a se stesso, sia nel rapporto dell’individuo con l’altro (ricordiamo che il problema della funzione dei confini corporei e` legato a quello della differenziazione soggetto-oggetto, attraverso i primi contatti corporei con la madre, e che sono i soggetti schizofrenici quelli in cui si e` riscontrata una maggiore disintegrazione dei confini corporei stessi)» (Martinelli R., 1975). Questa teorizzazione mi sembra interessante perche´ pur partendo da una metodologia diversa, e` molto simile a quanto affermato nel mio lavoro e riportato nel paragrafo 2.3. Schonfeld, che si occupa dell’adolescenza, si interessa ovviamente anche alla trasformazione dello schema corporeo. L’autore ritiene che esso nasce da un contesto psicosociale ed assolve ad una precisa funzione nell’economia psichica e nel processo di adattamento dell’individuo all’ambiente, perdendo cosı` ogni connotazione di struttura neurologica integrativa di dati sensoriali. A parte questo dato, a me sembrano rilevanti due osservazioni dell’autore circa l’importanza dei fattori sociali nella costruzione dell’immagine corporea dell’adolescente: «Come i genitori reagiscono ai mutamenti a livello corporeo e come il ragazzo interpreta queste reazioni. Fin dall’infanzia la madre comunica al bambino le sue attitudini nei confronti del corpo di lui attraverso il

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modo di stringerlo, di nutrirlo, di toccarlo; piu` tardi la sua approvazione o disapprovazione puo` essere espressa verbalmente. Il bambino costruisce, dunque, fin dai primi mesi di vita, l’immagine del proprio corpo facendo rientrare in essa la valutazione di quelli che si prendono cura di lui». Un secondo aspetto e` che l’adolescente costruisce una immagine ideale «... confrontando il proprio corpo con quello dei pari, identificandosi con persone che egli fisicamente ammira, recuperando le indicazioni che il suo ambiente culturale da` sulla bellezza e la prestanza fisica» (Martinelli R., 1975). Da questi accenni molto sintetici, risulta chiaramente come il concetto di schema o immagine corporea si sia progressivamente evoluto attraverso una concettualizzazione che ha integrato fattori biologici, psichici e sociali. Bisogna quindi tener conto di tutta una serie complessa di parametri per cercare di delineare questo concetto cosı` complesso, ma soprattutto tener conto che esistono due vissuti diversi che man mano si strutturano e si fondono: la percezione corporea e l’immagine corporea.

2.6.1. Dalla percezione all’immagine corporea

Nell’uomo esistono due fondamentali e distinti vissuti relativi al corpo: la percezione corporea e l’immagine corporea. Vissuti che devono essere distinti sia per la diversa genesi, sia per il significato e la diversa importanza in ordine alla psicopatologia. ` ovvio che i due vissuti variamente si inteE grano fra di loro: e per questo vengono confusi o considerati come analoghi. Ma per comprendere il concetto di percezione corporea, bisogna introdurre alcuni concetti teorici di riferimento. Durante la gravidanza, il feto nel rapporto con il liquido amniotico sviluppa un investimento libidico legato appunto a questa situazione di rapporto. Alla nascita emerge la pulsione di morte come fantasia di sparizione con una dinamica ben precisa: da un lato tende a far scomparire il mondo esterno materiale, dall’altro attiva come immagine-ricordo la precedente situazione endouterina. Questa unione di carica libidica e di

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fantasia di sparizione costituisce la vitalita` e si concretizza nella possibilita` di dar luogo ad una prima immagine-ricordo, continuando successivamente a produrre immagini interne che sono sempre immagini legate a situazioni di rapporto. La vitalita` e` quindi una dinamica biologica, psichica e relazionale ad un tempo. Nei primi mesi essa e` estremamente fragile e quindi ha bisogno del supporto di valide relazioni oggettuali onde permettere la strutturazione di un apparato psichico sempre piu` valido, cioe` sempre piu` capace di affrontare nel tempo i successivi rapporti e le connesse separazioni senza fantasie di sparizione contro l’oggetto. Ovverosia acquisire la capacita` di rapportarsi — percepire — separarsi — ricordare. La percezione corporea e` la percezione del nostro corpo vivente e finito (cioe` con dei confini ben definiti) vissuto come integro e vitale. Ora, mentre la vitalita` e` legata alla carica pulsionale libidica unita alla fantasia di sparizione, la costruzione dell’Io e` legata alla possibilita` di avere validi rapporti interpersonali che possano soddisfare il desiderio del bambino. La patologia della percezione corporea si determina quando c’e` una distorta situazione relazionale che costringe il bambino ad operare un continuo meccanismo di scissione, il che comporta inevitabilmente una diminuzione o una perdita della vitalita`, e quindi l’incapacita` di mantenere la propria integrita`. Se vogliamo riferirci alla terminologia fenomenologica, potremmo dire che la situazione normale corrisponde al vissuto del «corpo che sono» (Leib), quella patologica al vissuto del «corpo che ho» (Ko¨rper). Questa percezione del corpo, positiva o negativa che sia, accompagna costantemente l’uomo nella sua vita; in alcuni momenti importanti esso puo` assumere un ruolo determinante in ordine al vissuto psichico: in modo particolare nel periodo dell’adolescenza. La percezione corporea e` quindi un vissuto che ha una genesi precoce e ben precisa. A differenza invece dell’immagine corporea che si forma piu` tardivamente (nei primi anni di vita) e che si costruisce sulla base delle esperienze percettive dei corpi altrui vissuti dal soggetto nei diversi rapporti oggettuali. Se le immagini sono la

rappresentazione mentale di percezioni, non e` concepibile che possano essere le sensazioni interne a formare l’immagine corporea. Le percezioni interne (cenestesi) non costituiscono immagine, bensı` sono le percezioni di oggetti esterni che danno luogo ad immagini e queste si basano prevalentemente sulla vista e sull’udito. Ma perche´ questo accada sono necessari diversi passaggi ed apprendimenti da parte del bambino. Infatti dapprima il bambino deve cominciare a riconoscere l’unita` delle persone che gli sono vicine, pur nei loro cambiamenti. Poi il bambino deve imparare a riconoscere le correlazioni tra immagini esterne ed espressioni mimiche dell’altro; ovverosia percepire l’intenzione dell’altro oltre la facciata. E deve collegare questa percezione con le proprie sensazioni interne affettive. ` da questa associazione-fusione che si crea E l’immagine corporea, che chiaramente e` strettamente correlata con lo sviluppo psichico complessivo del soggetto. Evidente che in questa ottica e` importante non solo come il bambino si sente e si vede, ma anche e soprattutto come gli altri lo vedono, lo apprezzano e lo giudicano. ` evidente che un precoce disturbo della perE cezione corporea inevitabilmente finisce per influenzare negativamente l’immagine del corpo: ma il fatto che i due vissuti siano interattivi non deve farli confondere. Soprattutto in quella fase che giustamente viene definita di seconda nascita — ovverosia la adolescenza — queste problematiche possono riaffiorare e prendere diverse strade. Sicuramente possiamo affermare che una distorta percezione corporea o della propria immagine corporea si manifesta sempre con un disagio psichico piu` o meno grave, piu` o meno evidente. ` quasi la regola che negli adolescenti, quanE do l’immagine corporea tende a definirsi, il disagio psichico e` molto spesso collegato al proprio corpo vissuto come non adeguato, ingombrante, pieno di difetti, comunque non corrispondente a cio` che si vorrebbe. Questo vissuto non costituisce necessariamente una patologia, ma puo` rap-

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presentare solo una crisi momentanea. E per comprendere questa crisi adolescenziale dobbiamo inserire un terzo elemento che e` l’immagine corporea idealizzata. Ovverosia, oltre la percezione corporea che e` collegata alla vitalita` e l’immagine corporea che e` collegata alla integrazione delle relazioni oggettuali (rispecchiamento empatico), esiste anche una immagine corporea interna che potremmo definire ideale o idealizzata e che e` legata fondamentalmente a valori sociali e culturali: struttura, questa, piu` labile e meno importante delle prime due. Come ben sappiamo, la crisi adolescenziale fisiologica e` spesso incentrata su di un vissuto negativo ed insoddisfacente della propria immagine corporea che ci fa comprendere che la conflittualita` avviene tra l’immagine corporea, retaggio diacronico delle relazioni oggettuali, e quella ideale, che viene acquisita tramite il gruppo di appartenenza. Nella maggior parte dei casi questa conflittualita` si estingue per la fusione delle immagini quando l’adolescente, attraverso un cammino piu` o meno lungo, finisce con l’accettare una nuova specifica identita` che e` quella sessuale, che segna il superamento dell’identificazione ed il passaggio ad una ulteriore fase evolutiva. Questa dinamica ci permette di cogliere due aspetti fondamentali della correlazione tra percezione corporea, immagine corporea e immagine idealizzata, e proporre una ipotesi di fondo. Intanto possiamo affermare che l’immagine corporea idealizzata e` quella meno importante e significativa proprio perche´ piu` tardiva e piu` legata a stereotipi sociali e culturali. Tanto che, nella crisi fisiologica puberale, l’eventuale conflittualita` con l’immagine corporea precedente viene rapidamente superata. Ma questo avviene se esiste una solida, anche se non ancora ben definita, immagine corporea ed una sana percezione corporea. Se invece una delle due, o peggio ancora ambedue, sono deboli o mal adattate, il conflitto non solo e` piu` complesso, ma puo` non risolversi affatto. Sono i casi dove l’immagine idealizzata tende a prevalere o sostituire quella di base (perche´ debole o deficitaria) e ci troviamo di fronte alla

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patologia conclamata dell’adolescente che deve disperatamente identificarsi, per imitazione, con modelli piu` o meno falsi, imitandone spesso gli aspetti piu` negativi. Molto sinteticamente possiamo ipotizzare tre livelli di patologia. Un primo livello riguarda una alterazione della percezione corporea: alterazioni piu` o meno gravi e che si riscontrano in varie psiconevrosi e nella depressione. Questa errata percezione corporea e` spesso legata a fattori conflittuali. Un secondo livello e` l’associazione con una concomitante alterazione dell’immagine corporea che nei casi piu` gravi puo` giungere fino a livelli di dispercezione delirante (l’anoressia psicogena). Un terzo livello riguarda una frammentazione, piu` che una alterazione, dell’immagine corporea fino a giungere ad un dissolvimento dei confini dell’Io: e` quanto osserviamo nelle psicosi schizofreniche.

2.7. La coscienza La coscienza sul piano fenomenologico e` stata poco studiata o per lo meno e` rimasta ferma agli studi classici di W. James e di K. Jaspers: piu` approfonditi invece gli studi sul piano neurobiologico, che pero` hanno spesso portato a sovrapporre e, quindi confondere, il concetto di coscienza con quello di vigilanza. La coscienza da una parte ha una estrema variabilita` di espressioni e di manifestazioni, dall’altra puo` essere ricondotta ad alcune funzioni fondamentali che nel mutuo interscambio e nella copresenza la costituiscono. Quindi nessuna di queste funzioni, considerata isolatamente, puo` farci comprendere la coscienza, perche´ la non presenza di tutte le funzioni necessarie rende impossibile lo stato di coscienza. La prima, in ordine di importanza e genetico, e` la vigilanza, che e` il “tono di fondo inviato dalle strutture reticolari alla neocortex”. Questo tono serve a mantenere viva l’attenzione del soggetto verso il mondo esterno. La vigilanza di una persona normale puo` andare da un massimo (stato di allarme) ad un minimo (sonnolenza), per giungere ad una situazione (sonno) ove non e` eviden-

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ziabile ma e` potenzialmente evocabile, in seguito a stimoli adeguati. Pertanto dobbiamo considerare che la vigilanza non viene mai meno totalmente, salvo casi di gravi patologie che momentaneamente (intossicazioni) o stabilmente (danni cerebrali) compromettono questa funzione, fino ad abolirla totalmente nello stato di coma. La seconda funzione e` la memoria, che fornisce i contenuti mentali dello stato di coscienza. I contenuti mentali possono essere vari, e sono evocati dall’attenzione selettiva che e` strettamente legata alla necessita` da parte del S.N.C. di selezionare, gia` a livello talamico, la enorme quantita` di sensazioni alle quali siamo soggetti. Ma a parte questa selezione che potremmo definire non consapevole, quindi a livello piu` neurofisiologico che psicologico, c’e` una attenzione selettiva che ci porta a scegliere, a mettere a fuoco certi contenuti mentali particolarmente interessanti per noi in quel momento. L’attenzione selettiva determina il campo della coscienza che, come un campo visivo, puo` essere molto ampio ma poco definito, o viceversa molto definito ma poco ampio. Infine ultima funzione fondamentale e` l’autoconsapevolezza: essa e` sempre presente, anche se non siamo sempre “consapevoli” di questa funzione. L’autoconsapevolezza e` la capacita`, mentre attiviamo e focalizziamo percezioni o contenuti di memoria, di essere consapevole che sono “io” a compiere questa operazione e sono “io” che ricevo e che elaboro i dati contenutistici della memoria o delle percezioni. Sottolineo che e` la presenza e l’interazione di queste funzioni a determinare la complessa attivita`, predominante nello stato di veglia, che definiamo coscienza. La sindrome “apallica” e` un chiaro esempio di come la mancanza di una di queste funzioni rende impossibile l’attivita` della coscienza. La sindrome “apallica” o “coma lucido” e` una sindrome derivante da estese lesioni della corteccia cerebrale. In questi casi e` conservata la vigilanza, come e` dimostrato dalla persistenza del ritmo sonno-veglia, ma anche una modesta attenzione, come si evince dalla reattivita` del soggetto a particolari stimoli, indice non di reattivita` automatica, come il volgere gli occhi alla voce di persone conosciute, ma non ci sono piu` contenuti

mentali. In questi casi si parla infatti di “vigilanza senza coscienza”. Questa complessita` della coscienza e` stata comparata ad un campo composto di memoria, sensazioni, ricordi, percezioni, stato d’animo, un campo non immobile, ma che fluisce nel tempo. ` quanto W. James definiva come “flusso di E coscienza”. Credo che a questo punto sia utile cercare di capire come ed in che modo si strutturi generalmente l’attivita` che noi definiamo “la coscienza”. Se siamo convinti che alla nascita il bambino ha gia` un Io ed una attivita` psichica, se riteniamo che e` presente una dimensione inconscia come retaggio-ricordo del precedente rapporto con il liquido amniotico, credo che sia evidente l’impossibilita` che ci sia uno stato di coscienza cosı` come e` stato descritto. ` evidente che, affinche´ questa complessa E funzione possa costituirsi, il bambino deve acquisire la capacita` di discernere le sensazioni propriocettive da quelle esterne, avere la capacita` di distinguere chiaramente tra Io e non-Io, possedere una capacita` di visione nitida, la capacita` di trasduzione delle percezioni ed una attivita` associativa funzionante. Ipoteticamente possiamo pensare che tutto questo avvenga intorno al quinto mese di vita. Mi baso, per questa ipotesi, fondamentalmente su alcuni dati sicuramente accertati: a)

b)

c)

intorno al quinto mese di vita il processo di maturazione neurologica e` abbastanza avanzato, tale da permettere un’attivita` associativa corticale sufficientemente valida; sempre intorno a questo periodo, la capacita` visiva del bambino e` molto aumentata; egli riesce ad avere una visione piu` chiara e distinta degli oggetti; in questo periodo avviene la completa strutturazione del ciclo del sonno e quindi una alternanza sonno-veglia qualitativamente uguale a quella dell’adulto, anche se quantitativamente diversa.

Infatti intorno al quinto mese il sonno REM che ha prevalso nei primi mesi tende a diminuire, mentre la fase NREM acquisisce il III e IV stadio

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che configurano lo stadio ad onde lente (SWS) che e` fondamentale non solo per il riposo, ma anche per la crescita, perche´ e` in questo stadio che si ha il maggior rilascio di ormone della crescita. A questo punto la funzione del sonno REM acquista sempre piu` la sua specificita`, dal momento che il sonno NREM assolve alle funzioni di reintegrazione. E ricordiamo inoltre che, soprattutto in questa fase, i numerosi studi sul ricambio del RNA hanno dimostrato che il consolidamento della memoria avviene proprio durante la fase REM. Quindi c’e` una progressione evolutiva sia psicologica che biologica. In questo periodo sembra che si raggiunga una definizione-distinzione ed una integrazione tra esperienze propriocettive e percezioni visive ed uditive. Il che significa che prima di questo periodo c’e` una predominanza delle esperienze propriocettive, che sono alla base di quello che ho definito Io somatico, rispetto a quelle visive ed uditive. In altri termini dobbiamo pensare che fino al quarto mese il bambino non sia in grado di distinguere nettamente le percezioni interne ed esterne e questa “non distinzione” potrebbe comportare una sovrapposizione tale da non rendere possibile la distinzione tra Io e Non-Io, cioe` tra soggetto e mondo esterno. Possiamo cioe` ipotizzare che al quinto mese, in concomitanza di una maturazione biologica e psicologica e di una strutturazione definitiva del ciclo veglia-sonno, il bambino sia in grado stabilmente di distinguere prima, e di integrare poi, le esperienze propriocettive con quelle uditive e visive. Inoltre l’integrazione tra percezioni uditive e visive (quindi l’integrazione tra suono ed immagine) costituira` la matrice del linguaggio. Questo processo di integrazione sara` poi presente per tutta la vita, per lo meno per quanto riguarda lo stato di veglia. Numerosi dati fanno ritenere che lo stato di sonno possa comportare invece una sorta di regressione ad uno stadio di pre-integrazione. Con l’addormentamento, inibite le vie sensoriali uditive e visive, ci sarebbe un prevalere di quelle propriocettive. La maggiore sensibilita` alle proprio-

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cezioni, unita alla possibilita` mnemonica di avere a disposizione immagini e suoni, puo` costituire una situazione molto simile a quella dei primi mesi di vita: una capacita` di percezione transmodale che potrebbe costituire la base e la specificita` dell’attivita` onirica.

2.8. L’identita` L’identita` e` una istanza psichica della quale generalmente non si e` consapevoli se non per un processo di attenzione selettiva, che si forma nel corso del processo evolutivo dall’integrazione tra immagine corporea, autoriconoscimento, autoconsapevolezza e senso di continuita` del proprio essere pur nel variare degli eventi. L’identita` e` strettamente collegata con la progressiva capacita` del bambino di riconoscere gli adulti, di sentirsi riconosciuto e di riconoscersi. Mi soffermero` soprattutto su questi due ultimi aspetti. Il bambino possiede strutture motivazionali, anche biologicamente predisposte, che lo portano a cercare il rapporto, il soddisfacimento e l’essere riconosciuto come entita` autonoma. La capacita` del bambino, gia` ad 8-10 giorni, di “agganciare” lo sguardo della madre e` uno degli aspetti piu` significativi di questa fondamentale esigenza di relazione da parte del neonato. Le funzioni primarie di accudimento da parte dell’adulto si attuano attraverso una condivisione ed una empatia, mediate dai canali non verbali (come la comunicazione non verbale e la dinamica inconscia) e che si manifestano come disponibilita` ad accogliere le esigenze del bambino. Questa disponibilita` non puo` essere totale: la madre deve essere vicina al bambino, rassicurarlo e predisporre un ambiente tale che lo induca ad esplorare. Emde riferisce un particolare tipo di disponibilita` emozionale della madre: come quando essa, pur svolgendo le proprie attivita`, e` attenta al richiamo del bambino. Una disponibilita` cosı` concepita assicura al bambino una esplorazione ottimale, in un orizzonte di sicurezza. Dopo la nascita il bambino, anche per la progressiva maturazione sia dell’apparato recettivo

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periferico sensoriale che di quello centrale (S.N.C.), riesce pian piano a riconoscere il volto della madre e poi dei familiari: il che avviene intorno ai 6 mesi. La capacita` di riconoscere riguarda sia la realta` materiale che l’immagine allo specchio: come si evidenzia dalla reazione di giubilo alla comparsa del viso ormai noto, o la reazione di stupore se l’immagine scompare. Perche´ il bambino possa riconoscere se stesso nell’immagine allo specchio occorreranno ben altri 18 mesi: cioe` dovra` raggiungere l’eta` dei due anni. Intorno ai 12 mesi la reazione del bambino, messo di fronte ad uno specchio, e` quella di cercare di toccare l’immagine riflessa, come se si trovasse di fronte a un altro bambino. Dopo i 12 mesi il bambino posto davanti allo specchio mostra un comportamento singolare: comincia ad osservare parti mobili del proprio corpo come le mani e subito dopo l’immagine di queste parti nello specchio: questo puo` essere considerato un primo abbozzo di riconoscimento di se stesso. Intorno ai 20-22 mesi questo comportamento scompare ed appare un fenomeno singolare. Il bambino si guarda globalmente, ma mostra una reazione di evitamento, una riluttanza a guardarsi, come se percepisse qualcosa di assolutamente nuovo: l’immagine di un qualcuno che compie esattamente gli stessi movimenti che lui compie. Questa reazione di evitamento e` dovuta ad una elevata consapevolezza cenestesica: il bambino e` perplesso di fronte ad un altro che mima esattamente i suoi movimenti. Il che fa pensare che il bambino, a questa eta`, possieda gia` una precisa concezione del suo corpo, mentre non ha ancora la concezione dello spazio virtuale, come si evidenzia dal fatto che a questa eta` e` ancora presente il fenomeno dell’aggiramento. Ovverossia il bambino, dopo essersi guardato allo specchio, va ad esplorare dietro lo specchio, per vedere se c’e` qualcuno. L’evitamento e l’aggiramento scompaiono nell’arco di 1-2 mesi, ed in genere all’eta` di 24 mesi il bambino acquisisce la capacita` di riconoscere se stesso allo specchio. La veridicita` di questa particolare capacita` a

24 mesi e` dimostrata da alcune prove: la piu` interessante e` la prova della macchia. Se al bambino viene messa una macchia di colore sul viso, prima dei 20-22 mesi egli cerca di togliersela pulendo l’immagine allo specchio. A 24 mesi, invece, il bambino, vedendo la macchia sul viso riflessa nello specchio, passa la mano sul suo viso. Questo comportamento comunque non indica la formazione del concetto di spazio virtuale; infatti se il bambino viene messo davanti allo specchio, ed alle spalle sopraggiunge un familiare, nel vedere l’immagine il bambino tende ad avvicinarsi allo specchio. All’eta` di 30 mesi invece tendera` a girarsi, per guardare alle sue spalle. Quindi a questa eta` il bambino ha una piena consapevolezza dello spazio, sia reale che virtuale, e possiamo ritenere che tenda a strutturare anche un concetto molto preciso della propria identita`. Oppure possiamo dire che l’emergenza dell’identita` gli permette di collocare l’altro da Se´ correttamente nello spazio materiale, il che implica un chiaro concetto di definizione di Io e di differenza tra Io e Non-Io. ` evidente che l’operazione del riconosciE mento di se stesso non sorge all’improvviso, ma e` frutto di un lungo processo di elaborazione: ed inoltre bisogna tener presente che questo processo puo` essere sottoposto a ulteriori rimaneggiamenti, sia per eventuali deficit, ma anche per l’acquisizione di nuove capacita`. La prova piu` evidente e` l’esperimento con il video. Il bambino viene ripreso da una telecamera e vede la sua immagine sul video. Questa immagine ha una caratteristica: e` antispeculare. All’eta` di 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video. Piu` tardi, in genere verso i 4 anni, il bambino puo` mostrare qualche difficolta` a riconoscersi al video. ` una regressione? Secondo R. Come mai? E Zazzo non si tratta di una regressione, ma questa reazione e` dovuta all’acquisizione di maggiori capacita` osservative e critiche del bambino. Ovverossia il bambino che a 24-30 mesi si riconosce globalmente, soprattutto sulla base di una sua immagine corporea, successivamente acquisisce una capacita` discriminativa ulteriore che gli fa

Modello psicodinamico dello sviluppo psichico

notare, e quindi per un po’ di tempo con un certo imbarazzo, che la sua immagine e` antispeculare. Questa osservazione pone un problema centrale dello sviluppo psichico. Cioe` non solo che una funzione si sviluppa per gradi, ma soprattutto che una funzione sviluppata puo` essere momentaneamente messa in crisi per il sopraggiungere di funzioni piu` elevate. Questa nuova acquisizione, l’identita`, puo` essere messa a dura prova se l’A.S. non riesce ad accettarla e favorirla, e puo` essere sicuramente messa in crisi se l’A.S. nega questa dimensione del bambino. Oppure l’identita` puo` continuare a svilupparsi in una fisiologica “opposizione” agli adulti: fino a giungere a compimento con la fase adolescenziale che comporta una ulteriore crescita. Pertanto possiamo dire che l’identita` nasce con la formazione della percezione e dell’immagine corporea e con il riconoscimento di se stesso, e prosegue nel tempo soprattutto come autoconsapevolezza e come continuita` di se stessi, pur nel variare degli eventi, sia psichici che somatici. Secondo E. H. Erikson lo sviluppo dell’individuo puo` essere formulato proprio in termini di una sempre maggiore crescita del senso di identita`; per altri autori, invece, non esisterebbe un senso di identita`, che pertanto sarebbe un puro costrutto artificiale. Ritengo piu` valida la prima ipotesi, e l’importanza di questa istanza risalta evidente in psicopatologia, proprio quando il senso di identita` viene messo in crisi. Pertanto ritornero` su questo argomento nel Capitolo riguardante la Psicopatologia (vedi Cap. 9).

3. Modello di sviluppo: dal carattere normale al patologico Nel corso dello sviluppo il bambino deve attraversare una serie di crisi, che rappresentano momenti in cui sono messe in discussione la struttura e la modalita` relazionale di quella specifica fase per accedere ad una situazione piu` evoluta. Queste crisi, tappe fondamentali dello sviluppo, sono innescate anche dalla progressiva ma-

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turazione biologica del bambino che sviluppa nuove potenzialita` e capacita`, rendendo anacronistiche quelle precedenti. Le tappe di sviluppo fondamentali, dopo quella della nascita, sono: a)

b)

c)

d)

e)

f)

Riconoscimento dell’oggetto come unico: ovverosia il passaggio del rapporto da un og` in questa fase getto parziale ad uno totale. E che compare l’angoscia per la perdita dell’oggetto (6-8 mesi). Svezzamento. Questa fase corrisponde non tanto ad un fatto materiale, quanto piuttosto al passaggio da una fase di totale dipendenza ad una di maggiore autonomia, favorita anche dalla maggiore capacita` espressiva verbale, legata all’acquisizione del linguaggio (8-10 mesi). Fase esplorativa: e` la capacita` di movimento, di deambulazione che permette al bambino di allontanarsi attivamente dall’oggetto, ma di poterne pero` individuare la presenza, mediante il richiamo e l’ascolto (12-18 mesi). Individuazione: il bambino comincia a distinguere nettamente l’Io dal non-Io e soprattutto comincia ad esprimersi in prima persona, usando il pronome Io, e a riconoscere l’immagine di se stesso allo specchio come propria (18-24 mesi). Conoscenza del diverso: il bambino scopre di essere fisicamente e poi psichicamente di` una crisi fondamentale per lo sviverso. E luppo dell’identita` psichica e sessuale (2-3 anni). Incontro con l’esterno: conoscenza di una nuova realta`, quella sociale e quindi accettazione di un mondo diverso da quello familiare (3-5 anni). Questi primi anni sono sicuramente importanti e fondamentali per la struttura del carattere: e` ovvio che la possibilita` di una ulteriore crescita e di un cambiamento rimane sempre aperta e possibile. Pero` dobbiamo ritenere che le strutture basilari, normali o patologiche, nell’arco di questi anni sono formate. Dai 5 anni in poi possiamo ritenere, in linea di massima, che non ci siano piu` crisi fonda-

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g)

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mentali, bensı` una fase di quiescenza che permette al bambino l’acquisizione e l’apprendimento di sempre piu` complesse strut` questa ture conoscitive e di nuove capacita`. E la fase dello sviluppo delle competenze sociali, delle capacita` relazionali, l’apprendimento di categorie logiche sempre piu` complesse, l’acquisizione dei valori e degli ideali. ` ovvio che questo processo e` tanto piu` E facilitato quanto piu` ci troviamo di fronte a una struttura di un carattere normale. Puberta` : intorno ai 12-14 anni si presenta l’ultima fondamentale crisi che e` la puberta`. La modificazione somatica piu` o meno rapida rimette in discussione le strutture psicologiche precedentemente consolidate. E alla puberta` seguira` quella delicata fase che e` l’adolescenza (vedi Cap. 41) che con l’assunzione di una identita` sessuale rappresenta anche la fine dei grandi cambiamenti psicologici e l’apertura completa verso la vita come avventura autonoma e irripetibile.

Le crisi comunque non devono essere considerate come un momento puntiforme, ma come una fase che puo` essere piu` o meno lunga: comunque e` una fase ove (come l’etimologia indica) ci deve essere una scelta tra la sicurezza della situazione attuale e l’avventura verso una situazione nuova e quindi sconosciuta. Le crisi rappresentano quindi momenti decisivi perche´ implicano una scelta sulla quale influiranno vari fattori: a)

b) c)

Situazione complessiva di sviluppo psichico: le crisi quindi non sono legate a particolari e parziali zone erogene, ma alla intera organizzazione psichica del bambino; acquisizione di nuove capacita`, collegate alla maturazione biologica del bambino; importanza e significativita` dell’A.S. sulla possibilita` o meno di affrontare le crisi. Per esempio l’insorgenza di specifiche e non risolte conflittualita` dell’A.S. possono paralizzare l’evoluzione del bambino. Come esperienza paradigmatica potrei riportare l’esperienza dell’asilo: se l’ansia del bambino di allontanarsi da un ambiente protettivo si

unisce alle angosce di abbandono da parte dell’A.S., l’insieme puo` rendere al bambino difficile o impossibile superare la crisi. Quindi la crisi, va concettualizzata come momento ove convergono le dinamiche relazionali e i precedenti stadi di sviluppo del bambino. E per i primi anni e` evidente l’importanza dell’A.S. sull’evoluzione del bambino. Infatti se la dinamica di rapporto da parte dell’A.S. e` intrisa di ostilita`, indifferenza, in una parola di non gratificazione delle esigenze e del desiderio, il bambino inevitabilmente va incontro ad una delusione che, se ripetuta nel tempo, genera un affetto di rabbia. Ma la rabbia non puo` essere vissuta troppo a lungo, perche´ penosa e pericolosa per l’equilibrio del bambino. Pertanto il bambino e` costretto ad operare una scissione ed una rimozione. Il bambino deve quindi scindere questa situazione unitaria, ma fragile, dell’Io-pelle. Si costituisce cosı` una situazione molto precisa: l’Io-pelle tende ad irrigidirsi e diventare corazza caratteriale, l’inconscio originario tende a diventare sempre meno ‘‘osmotico’’ e meno accessibile, mentre sulla base delle scissioni e rimozioni si costituisce l’inconscio rimosso. Ovverosia la scissione ha portato inevitabilmente alla rimozione dell’affetto rabbia, che si trasforma nella dinamica della bramosia: il bambino fantastica di introiettare l’oggetto frustrante, per poterlo controllare. Sottolineo ancora una volta che e` l’oggetto frustrante che comporta l’introiezione: un oggetto gratificante non ha bisogno di essere introiettato. Ma l’introiezione comporta l’angoscia del danneggiamento e della perdita dell’oggetto: si comprende, quindi, perche´ in questa situazione ogni separazione e` vissuta come abbandono-morte. Inoltre la ripetitivita` di questa dinamica con la formazione di oggetti interni, e non invece di ricordi e fantasie, comporta un incremento dell’inconscio rimosso. Ma accanto alla rabbia puo` emergere anche l’odio; anche in questo caso l’affetto, ritenuto troppo lesivo, si trasforma in una dinamica piu` complessa che e` l’invidia che si esplicita attraverso il meccanismo della negazione. Ed e` sulla

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base della negazione che saranno poi possibili le proiezioni, ovverosia il mettere sull’altro quelle identificazioni operate attraverso l’introiezione. Quindi, come si vede, le due dinamiche, bramosia e invidia, sono strettamente collegate, ed ambedue concorrono sia ad alterare il rapporto con la realta`, sia alla formazione della corazza caratteriale. In questa situazione si forma una ulteriore struttura, con funzioni bloccanti e punitive, che e` il Super-Io. La formazione del Super-Io deriva dall’introiezione di dinamiche punitive piu` che normative, provenienti dall’ambiente culturale e mediate dai genitori o da altre figure significative.2 Il Super-Io si differenzia nettamente dall’Io ideale, perche´ ha funzioni non evolutive, ma punitive e colpevolizzanti, aumentando quindi una gia` presente tendenza alla rigidita` ed al blocco. Si arriva cosı` alla formazione di un contenitore rigido, che e` la trasformazione patologica dell’Io-pelle. Contenitore che ha una duplice funzione: quella di impedire una ulteriore recettivita` e quella di contenere gli oggetti interni. Questo contenitore rigido, questa ‘‘corazza caratteriale’’ che si stabilizza nel tempo, costituisce il carattere nevrotico di cui, brevemente, riassumero` la genesi. La presenza di problematiche frustranti ed iterative vissute nella relazione con l’A.S. da parte del bambino comporta che questi, non potendo realisticamente cambiare la situazione esterna, deve attuare una modificazione autoplastica. Modificazione autoplastica che, pur comportando una perdita in termini di sviluppo, recettivita` e creativita`, permette al bambino di affrontare-sopportare comunque la situazione esterna frustrante. Questa modificazione e` legata all’insorgenza dell’angoscia attivata dalle dinamiche pulsionali negative dell’A.S. L’angoscia comporta la messa

2

Mantengo il termine Super-Io solo per una piu` facile comprensione. In effetti il Super-Io e` l’insieme delle introiezioni, e le introiezioni sono oggetti interni derivanti da situazioni relazionali frustranti. Quindi il Super-Io non e` una struttura unitaria, bensı` un insieme di oggetti.

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in atto di una serie di meccanismi difensivi: in primo luogo la rimozione che rende inconscia la situazione problematica, trasformando cosı` il problema in conflitto. Il conflitto e` pertanto l’esito della trasformazione di un problema interpersonale irrisolvibile (o comunque irrisolto) in una dinamica inconscia che ha prevalentemente carattere difensivo. La diversa configurazione delle dinamiche istintuali in gioco, unita alla peculiarita` ed alla predominanza dei meccanismi difensivi utilizzati, da` luogo a diversi tipi di carattere nevrotico, esito finale e visibile di una situazione conflittuale che rimane invece inconscia. Il concetto di carattere nevrotico, oltre a spiegare la genesi e la diversita` delle varie psiconevrosi, spiega anche la possibilita`, che evidenziamo continuamente nella clinica, di avere sintomi simili in psiconevrosi pur diverse tra loro. Proprio perche´ l’uso di meccanismi difensivi puo` essere comune a diverse attivita` difensive. ` sulla base di questa constatazione che ho E diviso le psiconevrosi in due grandi circoli: quello della bramosia e quello dell’invidia. Questa suddivisione in due grandi categorie puo` sembrare un passo indietro (si pensi alla teoria di P. Janet o ai due tipi caratteriali di E. Kretschmer). In effetti e` il tentativo di spiegare una evidenza clinica: la possibilita` di trovare sintomi comuni in psiconevrosi diverse. Inoltre e` un tentativo di evitare la parcellizzazione di queste sindromi, ridotte a un puro agglomerato di sintomi, come avviene nel DSM-IV. Ed infine elimina l’ambiguita` della cosiddetta personalita` premorbosa che e` una contraddizione logica e clinica. Infatti questo termine o indica una personalita` normale, ed allora bisogna spiegare come e perche´ si sviluppano i sintomi; oppure indica una personalita` con tratti gia` patologici, ed allora il concetto di pre-morboso e` assolutamente incongruo. Il carattere nevrotico e` di per se´ una struttura instabile perche´ rappresenta l’esito del compromesso tra pulsioni, desiderio, ansia e meccanismi difensivi. Il carattere nevrotico puo` rimanere tale per tutta la vita, costituendo cosı` uno stile di vita, oppure puo` scompensarsi per motivi diversi. Motivi intrapsichici (aumento dell’ansia, dimi-

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nuzione della validita` dei meccanismi difensivi ecc.), motivi interpersonali (situazioni esistenziali frustranti, delusioni ecc.) o anche motivi biologici (malattie organiche, fasi particolari del ciclo della vita ecc.). La rottura di questo equilibrio comporta l’assestamento della personalita` ad un livello sicuramente di minore efficienza, perche´ il soggetto dovra` mettere in atto ulteriori meccanismi difensivi che porteranno alla formazione dei sintomi specifici delle diverse psiconevrosi. Sintomi che hanno quindi una genesi precisa e un ben preciso significato nell’economia dell’individuo, rappresentando un ulteriore compromesso del paziente: siamo cosı` alla psiconevrosi sintomatica (N. Lalli, 1988-1991).

4. Stato e struttura: veglia-sonno-sogno Dobbiamo distinguere nettamente il concetto di struttura che comporta l’organizzazione e l’esistenza di un apparato specifico abilitato ad una o piu` funzioni, dal concetto di stato che indica invece la modificazione di una funzione. L’esempio piu` classico di stato e` il sonno, che come ben sappiamo non ha una struttura specifica, ma sopraggiunge per modificazione di un particolare assetto (stato) del Sistema Nervoso Centrale. I tre stati fondamentali della mente, collegati a specifiche situazioni funzionali del S.N.C., ampiamente studiati e riconosciuti, sono: la veglia, il sonno ed il sogno. I) La veglia, che comporta lo stato di coscienza, rende possibile la conoscenza, il movimento, il pensiero: in altri termini tutta la complessa attivita` di conoscenza e di esplorazione del mondo. II) Il sonno NREM, o sonno profondo, comporta la possibilita` di reintegrare le energie utilizzate durante la veglia. III) Il sonno REM comporta il sogno e quindi la possibilita` di creare nuove immagini, selezionare i dati della memoria, far emergere in maniera evidente l’inconscio.

` molto singolare che quando si descrive la E struttura psichica dell’individuo si dimentica che ognuno di noi e` sottoposto a questa alternanza quotidiana che rappresenta l’oscillazione tra la stabilita` e il cambiamento. Quindi non solo dobbiamo considerare questi tre stati della mente nella loro genesi e nel loro evolversi, ma anche nel quotidiano, ove queste oscillazioni sono responsabili non solo dello stato di benessere fisico e psichico ma anche del mantenimento e del cambiamento delle strutture psichiche. Pertanto esamineremo nell’ordine questi tre stati: veglia, sonno, sogno. (Per ulteriori approfondimenti su questo specifico problema si rimanda a N. Lalli, A. Fionda L’altra faccia della Luna. Il mistero del sonno, Napoli, 1994) Veglia, sonno profondo (o sonno NREM), sonno desincronizzato (o sonno REM) sono tre stati diversi, ma strettamente integrati, della complessa attivita` del S.N.C. e rappresentano il continuum vitale dell’uomo. Prima di descrivere le loro diversita` fenomenologiche e funzionali, debbo sottolineare che questi tre stati sembrano sottomessi ad una regola fondamentale che si potrebbe definire ‘‘della separazione e della non interferenza’’. Nella normalita`, infatti, questi stati sono nettamente separati l’uno dall’altro; il passaggio avviene in maniera graduale e codificata da particolari meccanismi neurofisiologici che tramite la loro attivazione o disattivazione impediscono qualsiasi interferenza o sovrapposizione. Nella patologia questa regola viene meno, tanto da ritenere che la sovrapposizione o l’interferenza tra questi stati possano essere considerate segno patognomonico di disfunzionamento mentale. Ne citero` due per esemplificare. Da una parte la narcolessia, la cui genesi e` legata alla netta riduzione del tempo che intercorre tra la fine dello stato di veglia e l’inizio della fase REM: arco di tempo definito ‘‘latenza REM’’ e che nell’uomo ha una durata media di 70’-80’. Questo passaggio, nella narcolessia, avviene invece d’emble´e, creando i tipici segni del disturbo: l’incoercibile sonnolenza e la caratteristica atonia muscolare.

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Dall’altra le allucinazioni del delirium tremens, che sono dovute ad una sovrapposizione della fase REM allo stato di veglia.

2)

I) Lo stato di veglia e` caratterizzato da attenzione, autoconsapevolezza e possibilita` di compiere azioni altamente finalizzate. Affinche´ si realizzino queste funzioni e` necessario che il S.N.C. si trovi nelle seguenti condizioni:

3)

a)

b)

c)

integrita` della corteccia cerebrale, metabolismo cerebrale con maggior consumo di glucosio ed attivita` elettrica cerebrale rapida e di basso voltaggio (onde alfa e beta); attivazione di tutta una serie di apparati sottocorticali, dal bulbo all’ipotalamo, che sono influenzati ed influenzano la corteccia (tono di base che determina la vigilanza); contemporanea inibizione di alcuni meccanismi deputati al sonno, in primo luogo il sistema ponto-genicolo-occipitale (PGO).

«Anatomicamente il sistema di veglia e` costituito da una rete di neuroni situati nella formazione reticolare mesencefalica. Durante la veglia questi neuroni eccitano la corteccia per mezzo di neurotrasmettitori, in particolare l’acetilcolina: essi stessi ricevono un innervamento noradrenergico che proviene in particolare dal locus coeruleus. Tutto funziona come se numerosi meccanismi di controllo impedissero al sonno di sopraggiungere durante la veglia e l’inizio del sonno. I due meccanismi di controllo piu` importanti sono posti sia in una parte del sistema di veglia (locus coeruleus), sia al livello del sistema del raphe dorsalis (che e` attivo durante la veglia, l’addormentamento e il sonno leggero)» (J. A., Hobson). II) Comunque, affinche´ avvenga il passaggio dalla veglia al sonno NREM, sono necessarie almeno due condizioni fondamentali: l’attivazione del ritmo circadiano e l’assenza di forti stimolazioni sensoriali. Le caratteristiche del S.N.C. durante il sonno NREM sono: 1)

l’attivita` elettrica corticale si modifica fino a costituire un tracciato di onde lente e di fusi;

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una marcata diminuzione del consumo di glucosio e di ossigeno della corteccia cerebrale, mentre le riserve energetiche si accumulano nella glia, sotto forma di glicogeno; l’inibizione dei centri aminergici.

Sul piano fenomenologico questo stato comporta una riduzione pressoche´ totale della vigilanza e della coscienza, riduzione del tono muscolare e della recettivita` agli stimoli esterni. Possono comparire attivita` mentali caratterizzate da un pensiero lucido astratto, in genere privo di immagini. III) Siamo cosı` arrivati all’aspetto piu` complesso, che e` il sonno desincronizzato o paradosso (o sonno REM) con le seguenti caratteristiche: 1) 2) 3)

4) 5)

L’attivita` corticale mostra un tracciato EEG molto simile a quello della veglia. L’attivita` metabolica cerebrale e` aumentata notevolmente. Una serie di parametri biologici fondamentali subiscono profonde variazioni: come l’inibizione attiva del tono muscolare e la caduta della omeotermia. Si attiva il sistema PGO. Inoltre e` fondamentale, perche´ si instauri la fase REM, la presenza di una situazione di estrema sicurezza e tranquillita`, come risulta dagli studi di M. Jouvet.

«Si vede che il sogno e` possibile solo dopo la verifica di numerosi sistemi di sicurezza: questa protezione sembra molto adeguata, perche´ il sonno si accompagna ad un aumento della soglia della veglia e ad una paralisi quasi totale. Sordo, cieco, paralizzato, l’animale diventa molto vulnerabile: non puo` sognare se non e` al sicuro». (M. Jouvet) «Questa nozione di sicurezza e` importante ed esplicita in parte le variazioni della durata del sogno in differenti specie: gli animali cacciati, che sono raramente al sicuro, dormono poco, il loro sonno e` molto leggero e la durata totale dei periodi di sonno paradosso non eccede i 15-20 minuti nelle 24 ore; invece i cacciatori (carnivori) ed il gatto domestico, quando e` perfettamente al sicuro e non deve cacciare per nutrirsi, dormono

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molto e la durata del sonno paradosso puo` superare i 200 minuti ogni 24 ore» (M. Jouvet). ` utile sottolineare questi due aspetti. Il E sonno paradosso e` protetto da una serie di passaggi, quasi a significarne l’estrema importanza, ma anche l’estrema vulnerabilita` e che una situazione di sicurezza influenza favorevolmente la durata del sonno REM. Mi sembra interessante e possibile poter collegare quest’ultima peculiarita` con la fase endouterina, che sicuramente rappresenta nell’uomo il massimo di protezione e di sicurezza rispetto a fattori traumatici esterni. Poiche´ la fase REM che e` presente stabilmente solo nei mammiferi e` collegata con la produzione onirica, dobbiamo cercare, a questo punto, di comprendere quale possa essere il significato dell’attivita` onirica sul piano evoluzionistico. Abbiamo gia` descritto quali sono i fenomeni caratteristici di questa fase: attivita` cerebrale rapida, simile a quella della veglia; completa inibizione del tono muscolare; presenza di rapidi movimenti oculari; recettivita` per gli stimoli interni nettamente aumentata rispetto alla fase NREM; incremento del metabolismo cerebrale e attivazione del sistema PGO. Ma il dato piu` singolare e` la caduta della regolazione omeostatica in genere, di quella omeotermica in particolare. ` questo uno dei dati meno comprensibili che E fa dire a M. Jouvet: «... non si capisce come il sogno possa costituire un vantaggio evolutivo, dal momento che corrisponde allo stato in cui l’animale e` piu` vulnerabile: lo stato di sogno e` in effetti il momento piu` pericoloso del ciclo a tre tempi sonno-veglia-sogno, poiche´ il cervello chiude la porta al mondo esterno, e dunque agli eventuali pericoli, per aprirsi ad un programma endogeno». Questa singolarita`, quindi inspiegabile in termini evoluzionistici, deve pero` essere compresa, altrimenti si rischia di perdere in gran parte il significato della fase REM. Ma soprattutto deve essere compreso perche´ proprio in questa fase viene meno il meccanismo di autoregolazione della temperatura corporea, che e` un meccanismo fondamentale di sopravvivenza per gli animali omeotermi che sono animali molto piu` evoluti dei

poichilotermi. Quindi potremmo dire che c’e` una regressione a fasi piu` antiche dello sviluppo. Perche´ mai gli animali omeotermi durante la fase REM si trasformano, momentaneamente, in poichilotermi? Per fornire una possibile ipotesi esplicativa bisogna tener presente una ulteriore differenza fondamentale: mentre per gli animali poichilotermi i neuroni continuano a riprodursi, negli animali omeotermi i neuroni non solo non si riproducono dalla nascita in poi, ma dai 20 anni in poi inizia una loro fisiologica distruzione. Questa specificita` anatomica sembrerebbe essere penalizzante e comportare, per gli animali omeotermi, una minore capacita` di immagazzinare memoria o comunque di modellare funzionalmente la rete neuronale in funzione dell’apprendimento. Invece, forse, e` vero proprio il contrario! Infatti noi sappiamo che le informazioni si fissano a livello sinaptico: se le cellule nervose si rinnovassero continuamente, inevitabilmente quelle nuove potrebbero trasmettere solo il patrimonio genetico, mentre l’informazione acquisita andrebbe perduta. La divisione delle cellule comporterebbe inevitabilmente la perdita dell’informazione per la strutturazione di nuovi circuiti che sarebbero sı` pronti e recettivi a nuove informazioni, ma perderebbero quelle acquisite in precedenza. Quello che invece tende a rimanere stabile e` il patrimonio genetico del neurone: cioe` il patrimonio innato3. Ed e` quanto osserviamo negli animali meno evoluti: un corredo di istinti o di schemi cognitivo-comportamentali gia` presenti alla nascita e che si ripetono immutabili nel ciclo di vita di ogni singolo individuo, nei millenni nell’ambito di ogni singola specie. Dobbiamo ritenere che la non riproduzione del neurone serva proprio, anche se e` apparentemente paradossale, a rendere possibile l’apprendimento e quindi il cambiamento. Infatti si mantiene stabile la persistenza dei ricordi di quanto e` E` evidente che se un neurone muore e se ne riproduce uno nuovo, questo avra` lo stesso patrimonio genetico del primo, ma non le informazioni. 3

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avvenuto in precedenza, il patrimonio dei vissuti che costituiscono la storia che e` la base della identita` dell’uomo. Quindi l’omeotermia si e` evoluta di pari passo con la fase REM, altro meccanismo evolutivo fondamentale. Ma l’omeotermia si e` anche parallelamente evoluta con la non riproduzione dei neu` probabile che in questa complessita` si roni. E doveva costituire una nuova modalita` che permettesse al S.N.C. di ‘‘processare’’ correttamente e continuamente le nuove informazioni. La fase REM potrebbe essere devoluta esattamente a questo compito: l’elaborazione ed il mantenimento dei ricordi o delle tracce mnestiche. Perche´ mai poi ci sia una contemporanea caduta del meccanismo omeotermico, lo vedremo successivamente. Ma seguiamo ancora M. Jouvet. «Lo studio dell’omeostasi potrebbe offrire qualche dato ulteriore: esiste in effetti, nel corso del sonno paradosso, una continuita` ontogenetica tra i movimenti del feto (di topo o di cavia) in utero, quelli del topolino o del gattino neonato nei quali il sistema di inibizione posturale non e` ancora funzionante, ed il comportamento onirico dell’adulto. I movimenti del feto sono senza dubbio l’espressione motrice della formazione di sinapsi preformate geneticamente nel corso della maturazione del S.N.C. Noi sappiamo in effetti che l’ambiente puo` modificare l’organizzazione funzionale ` cosı` che l’attivita` e anatomica del cervello. E corticale unitaria e l’organizzazione dei dendriti nella corteccia visiva possono essere modificate nei gattini mediante la occlusione prolungata delle palpebre, o che l’aspetto architettonico o enzimatico della corteccia puo` essere alterato nel topo dall’isolamento o dalla iperstimolazione sensoriale. Sembra dunque difficile capire come una programmazione genetica definitiva, stabilita al fine di una maturazione, possa essere efficace per organizzare dei futuri comportamenti innati a dispetto delle modificazioni plastiche sinaptiche indotte dall’ambiente. Inoltre la programmazione genetica definitiva di centinaia di miliardi di connessioni sinaptiche richiederebbe un numero di geni ben superiore a quelli che esiste nel genoma. Per questo motivo sembrerebbe piu` soddisfacente il concetto di una programmazione genetica ricorrente e periodica».

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Il meccanismo di questa programmazione ricorrente viene definita da Jouvet «apprendimento filogenetico endogeno». A riprova di questa sua tesi endogena, Jouvet ha evidenziato nel gatto alcuni comportamenti ottenuti mediante l’ablazione di parti del nucleus coeruleus che e` deputato ad inibire l’attivita` motoria. Durante la fase REM, il gatto puo` quindi muoversi e si evidenziano comportamenti non finalizzati e ripetitivi: sequenze di esplorazione, di avvicinamento alla preda, di pulizia del corpo etc. Che tutto questo possa servire ad una ripetizione e ad un apprendimento di schemi endogeni, cioe` innati, e` molto plausibile per gli animali. Ma temo che questo non sia applicabile all’uomo, visto che in questi i comportamenti innati, rispetto a quelli appresi, sono veramente minimi. Ancora una volta l’osservazione in laboratorio, ed esclusivamente sugli animali, comporta risultati e teorie che non sono applicabili ed estendibili all’uomo, la cui complessita` comporta schemi interpretativi diversi. Nell’uomo dobbiamo ritenere che durante la fase REM il S.N.C. si esercita con quei residui di memoria a breve termine (derivanti dalle esperienze quotidiane) e che cerca non solo di vagliarle ed approfondirle, ma anche di fare quello che Piaget definisce «il gioco interiore della mente». Provare cioe` nuove soluzioni o nuove associazioni per tentativi ed errori. Cosa resa possibile dal fatto che l’inibizione della motricita` impedisce un pericoloso quanto cieco passaggio all’atto. Il fatto che Jouvet abbia dimostrato che in fase REM l’animale e` cieco e sordo ad ogni stimolo esterno testimonia semplicemente la non recettivita` a stimoli provenienti dall’esterno. Ma e` proprio questa situazione che rende possibile e favorisce una maggiore recettivita` agli stimoli interni. Che tutto questo debba avvenire in una situazione di estrema protezione, di inibizione motoria e con un massiccio dispendio energetico e metabolico e` perfettamente logico e comprensibile e soprattutto testimonia l’estrema complessita` ed importanza della fase REM. Ma la domanda che dobbiamo porci, ed alla quale occorre dare una risposta, e` perche´ in questa fase viene meno il meccanismo omeostatico di

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cui la perdita dell’omeotermia rappresenta l’aspetto piu` eclatante. Sembrerebbe poco logico e poco comprensibile: un processo evoluto, come l’omeotermia, viene meno in una fase che abbiamo visto ha bisogno di grande sicurezza e protezione. Sembra veramente paradossale! Credo che sia proponibile una ipotesi che apra ad ulteriori approfondimenti. La caduta dei meccanismi omeostatici nella fase REM rende questa situazione aperta e non codificata, capace di massima recettivita` e liberta`, a differenza della situazione omeostatica che, come ben sappiamo, preservando l’organismo da possibili variazioni serve a mantenerne la stabilita`. Stabilita` che se e` utile sul piano fisiologico lo e` molto meno su quello dello sviluppo psichico che implica e necessita di un maggior grado di liberta`. Quindi dobbiamo ritenere che la singolarita` della fase REM sia proprio quella di essere alla base della creativita` e del cambiamento e quindi costituisca un momento fondamentale per lo sviluppo e l’evoluzione psichica dell’uomo. La veglia ed il sonno NREM, visti in chiave evoluzionistica, presentano una peculiarita` comune che li rende fondamentali per la sopravvivenza. La veglia permette un rapporto con la realta` finalizzato alla difesa, alla ricerca di cibo, di sicurezza, del partner ecc. Il sonno NREM (per lo meno per le specie piu` evolute che ne sono provviste) serve fondamentalmente per la reintegrazione delle energie consumate in questa attivita`. Ambedue gli stati sono regolati dal principio di omeostasi: cioe` la tendenza da parte dell’organismo a mantenere stabili i principali parametri biologici. Aspetto necessario e fondamentale per lo stabile mantenimento di un assetto biologico ottimale, al fine di un corretto adattamento alla realta`. La fase REM in questa ottica sembra essere uno stato regressivo, o comunque non funzionale. Ma se vogliamo dare un senso a questa ‘‘singolarita`’’ dobbiamo ritenere che proprio questo liberarsi dalle regole omeostatiche, conferisce alla fase REM una peculiarita`: quella di essere preposta non all’adattamento ed alla ripetitivita`, ma alla novita` ed alla creativita`. E perche´ questo possa accadere e` necessario,

come ha ampiamente dimostrato M. Jouvet, che ci sia uno stato di sicurezza e di tranquillita`. Alcuni AA. hanno definito i sogni come ‘‘figli di un cervello ozioso’’. Definizione sicuramente affascinante ma che forse rende meno l’idea, rispetto al considerare l’attivita` onirica come ‘‘un gioco della mente’’. Di quella mente che dopo aver messo in atto le fondamentali funzioni cognitive e razionali, necessarie alla sopravvivenza e all’adattamento, puo` permettersi il lusso di dare spazio ad una attivita` mentale che abbia sempre piu` le caratteristiche dello psichico. Ed ove per psichico ovviamente intendo prevalentemente l’attivita` inconscia.

4.1. Il sogno: funzione e significato Ed e` in questo contesto che dobbiamo inserire la possibilita` di comprendere le funzioni ed il significato del sogno. Il sogno ha caratteristiche di tipo ‘‘allucinatorio’’, nel senso che colui che sogna non e` consapevole del suo particolare stato psicologico, ma vive come vere le immagini o le parole del sogno. Il sogno e` caratterizzato da immagini molto vivide, accompagnate spesso da sensazioni uditive e di movimento: quindi nel sogno sono impegnate la sensorialita` visiva, uditiva e cenestesica, meno gli altri sensi come il gusto, l’olfatto o il tatto. Intense invece possono essere le emozioni che variano dalla gioia all’angoscia. Sul piano fenomenologico il sogno e` caratterizzato da tre processi fondamentali (J. Allan Hobson, 1987); 1) 2)

3)

L’attivita` del S.N.C. che corrisponde appunto alla fase REM. Il blocco delle afferenze sensoriali tramite una prima inibizione presinaptica dei terminali afferenti dei nervi cutanei, e da una ulteriore inibizione dei livelli piu` elevati dei circuiti sensoriali. Blocco delle afferenze motorie: questo fenomeno e` dovuto ad una inibizione post-sinaptica dei motoneuroni della via finale comune situata nel midollo spinale e nel tronco encefalico. La generazione di segnali interni che ven-

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gono vissuti, a causa della specifica situazione sensoriale, come provenienti dall’esterno. «Sulla base di questi tre processi, il cervello si prepara a processare l’informazione che proviene dal suo interno, escludere i dati provenienti dall’esterno ed a non agire in rapporto alla informazione generatasi al suo interno». Certamente questi dati sono validi; ma la neurofisiologia non puo` dirci nulla di piu` circa il ` evidente significato delle informazioni interne. E che le informazioni interne nascono dall’esperienza, dalla memoria, dai residui diurni, ma anche e soprattutto dalla organizzazione psichica complessiva del soggetto. Infatti che prevalga una struttura di inconscio rimosso o uno stato di inconscio mare calmo, la produzione onirica e` molto diversa. Sulla base delle nozioni di neurofisiologia e delle esperienze cliniche, il sogno puo` essere considerato come una particolare modalita` di pensiero, che permette al soggetto non solo di rappresentarsi la sua situazione interna, ma anche di tentare soluzioni, piu` o meno congrue, delle sue problematiche e delle sue conflittualita`. Il sogno e` un momento di riflessione ed un tentativo di soluzione di problemi o di conflitti mediante la rappresentazione drammatica, come in uno scenario teatrale, delle pulsioni, delle angosce, delle speranze e dei desideri. In una parola e` in gioco tutta la complessa e piu` profonda struttura psi` quindi il sonno che perchica del sognatore. E mette l’emergere del sogno e non viceversa come sosteneva S. Freud. Gia` da decenni, sulla base di considerazioni di clinica psicoanalitica, avevamo contestato questa affermazione di Freud, ma se fosse necessario possiamo oggi utilizzare anche un dato che ci proviene dagli studi di neurofisiologia del sonno. L’evidenziamento di una specifica funzione neurofisiologica, il CAP (Cyclic Alternative Pattern) (vedi M. G. Terzano), meccanismo che serve a stabilizzare il sonno e che e` presente solo durante la fase NREM, e` una conferma ulteriore, su base neurofisiologica, che il sogno non e` un esaudimento allucinatorio dei desideri necessario per proteggere il sonno.

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Le funzioni del sogno sono invece molteplici e non del tutto chiarite. Le piu` importanti sono: attivare i circuiti cerebrali, attivare il passaggio delle informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine ed inoltre, probabilmente, eliminare una serie di informazioni inutili o superflue. Ma sicuramente il sogno assolve anche una funzione, quella forse da piu` tempo accertata, di aprire al mondo dell’inconscio, avendo parzialmente chiuso, con il sonno, al mondo esterno. Ma prima di affrontare questo problema, credo sia necessario sottolineare un particolare aspetto del sogno. Noi sappiamo che il sogno avviene, e probabilmente occupa gran parte della fase REM, che nell’adulto corrisponde a circa il 20% del sonno totale, ovverosia circa 80-90 minuti per notte. Si ritiene inoltre che il sogno, per quanto articolato e complesso, puo` avvenire nell’arco di pochi secondi. Ora, mediamente, a parte rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte minima. Dobbiamo dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva attivita` onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo. Nel senso che probabilmente l’attivita` onirica nel suo insieme ha funzioni numerose e complesse, il sogno ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano riguardano esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche psicologiche conflittuali o comunque piu` importanti in quel momento, per quella persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano sono tentativi di visualizzare, e a volte di risolvere, conflitti, problemi o possono essere una libera produzione, un gioco della mente.

4.2. Il linguaggio del sogno Il sogno si esprime mediante un linguaggio, la cui caratteristica fondamentale e` di essere costituito prevalentemente per immagini. Il bambino conosce il mondo attraverso le sensazioni tattili, acustiche, ma soprattutto visive.

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All’inizio non c’e` il verbo, ma l’immagine, che deve essere distinta dalla pura sensazione visiva, perche´ implica una capacita` di organizzazione psichica piu` complessa. Il bambino recepisce miriadi di sensazioni visive, le seleziona e le elabora soprattutto sulla base della continuita` e della ripetitivita` dell’oggetto. Dal momento che riesce a formare le immagini, il bambino comincia a crearne di nuove ed a giocarci: il sogno puo` essere visto come continuazione di questa attivita` ludica. Il linguaggio onirico e` un linguaggio prevalentemente per immagini, e di queste conserva due proprieta` caratteristiche: la sinteticita` e l’ambiguita` . Su un piano evolutivo culturale, possiamo paragonare il sogno alla scrittura ideografica che e` piu` universale, ma meno definita di quella fonetica. L’immagine ci fornisce infatti una informazione piu` rapida e sintetica, ma in qualche modo anche meno definita e precisa. Ovverosia l’immagine, piu` della parola, puo` avere significati multipli, perche´ l’immagine rende possibili due meccanismi: la condensazione e lo spostamento. In questo modo una immagine puo` fondersi o sostituirsi ad un’altra, dando luogo al simbolo, ove appunto una immagine puo` essere al posto di un’altra con un significato completamente diverso. A differenza del segno che indirettamente rimanda alla presenza di una realta` precisa, e del segnale che e` un indice convenzionale ed esplicito. Ma la vera profonda differenza e` basata sul fatto che nel processo onirico manca il senso del tempo come categoria vettoriale: manca la “freccia del tempo” che e` invece fondamentale nel pensiero cosciente. Questa mancanza rende possibile di non tener conto del prima e del dopo, e quindi invertire, per cui il dopo puo` avvenire prima: e` la base del principio di contraddizione, l’esatto opposto di quel principio basilare della logica che e` il principio di non contraddizione. Per questo nel sogno possono accadere avvenimenti con situazioni antitetiche ed opposte che non destano, nel sognatore, alcuno stupore o alcuna incredulita`. Quindi la struttura del linguaggio onirico e` caratterizzata da spostamento, condensazione, as-

senza del principio di continuita` e contiguita` e di quello di non contraddizione. Se questa e` la struttura del linguaggio onirico, i contenuti sono immagini che possono derivare da: a) b) c)

immagini riguardanti il passato; immagini tratte da situazioni presenti (resti diurni); costituzione di immagini completamente nuove.

Le scene possono essere semplici o molto complesse ed articolate. Normalmente il soggetto vive il sogno come realta`; a volte invece ‘‘sa’’ che sta sognando. Questa evenienza puo` indicare un tentativo di superamento dell’angoscia, nel senso che se il contenuto del sogno suscita angoscia, pensare che si sta sognando e` un modo per sdrammatizzarlo. L’esperienza onirica viene successivamente, nella veglia, organizzata in un racconto del sogno che ascoltato e recepito dal terapeuta ne rende possibile l’interpretazione. Abbiamo esaminato le varie istanze psichiche di sviluppo, la cui integrazione costituisce il carattere normale-sano. Non e` altrettanto facile descrivere un modello psicopatologico cosı` univoco e lineare, perche´ la patologia psichiatrica compromette sempre piu` di una istanza psichica. Pertanto nel capitolo successivo cerchero` di sottolineare alcuni problemi teorici e metodologici attinenti alla conoscenza ed alla dinamica della osservazione. Sarebbe piu` didattico proporre per ogni funzione e istanza psichica il dato psicopatologico corrispondente. Ma questo evidenziarlo finirebbe per comportare numerose ripetizioni: pertanto rimando ai singoli capitoli dedicati alle sindromi cliniche.

5. Struttura, funzione, stato In chiusura mi sembra utile fornire qualche precisazione circa i concetti di struttura, funzione e stato, anche per meglio comprenderne la complessa interazione.

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Alla nascita il bambino e` un organismo vivo, vitale, funzionante, il cui sviluppo sul piano somatico e` determinato in gran parte da un programma genetico, anche se le influenze ambientali possono modificarlo notevolmente. Sul piano psichico lo sviluppo e` basato su due istinti fondamentali la cui fusione, alla nascita, determina la formazione dell’Io, che e` meno programmato rispetto al soma e che sara` notevolmente determinato dalle dinamiche interazionali tra gli adulti ed il bambino. A parte gli istinti, l’inconscio e l’Io primario, nell’arco di poco tempo si attivano tutte le istanze psichiche che ho descritto nei paragrafi precedenti, per giungere in breve alla costituzione di una struttura psichica che ho definito come carattere. Questo carattere puo` strutturarsi in maniera sana o patologica, a seconda dei diversi eventi della vita relazionale del bambino. La difficolta` che il clinico incontra quando cerca di formulare un modello dello sviluppo psicologico e` dovuta al fatto che in genere egli ha a che fare con persone che presentano gia` una struttura organizzata e quindi abbastanza stabile (il carattere). Coloro che studiano il bambino nelle prime fasi dello sviluppo osservano invece una grande mobilita` che e` poi alla base dei notevoli e rapidi progressi che il bambino compie in poco tempo. Quindi c’e` una certa difficolta`, che si esprime anche sul piano lessicale, a integrare queste due modalita` di osservazione. Per rendere possibile questa integrazione ho sostenuto che e` preferibile usare il termine Io, anziche´ quello di carattere, sia nella fase dello sviluppo che nello studio delle funzioni della struttura psichica, ovvero quando ci troviamo di fronte a una maggiore mobilita` del soggetto. Nella fase iniziale dello sviluppo, come abbiamo visto, si forma un Io-pelle (o Io primario) o Io libidico che diventa sempre piu` funzionale nel corso degli anni; successivamente, intorno agli 8-10 anni, si ha la formazione di un Io-ideale che rappresenta il complesso dei valori normativi e delle aspettative che il soggetto si prefigge e si attende. L’Io ideale si forma sicuramente dai valori assorbiti dall’ambiente familiare e sociale, ma

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che sono anche liberamente elaborati da ogni singola persona. Se invece il bambino si trova ad affrontare difficolta` e frustrazioni superiori alle proprie forze, tendera` a strutturare un cosiddetto Iosecondario o corazza caratteriale che rappresenta gia` una patologia, anche se non sintomatica: e` il carattere nevrotico. La struttura psichica, definita carattere, si manifesta e viene evidenziata attraverso una serie di modalita` definite funzioni. Quanto piu` la struttura si esprime nella sua globalita` tanto piu` la funzione sara` complessa. Una funzione complessa puo` definirsi una dinamica: ad esempio la dinamica relazionale esprime la complessita` di diverse funzioni. In altri casi ci troviamo di fronte a funzioni semplici: esse sono l’espressione di una singola istanza della struttura psichica o implicano particolari attivita` del S.N.C.: come ad esempio la memoria. Definire l’inconscio come stato della mente vuol dire ribadire l’esistenza di un inconscio mobile e creativo (inconscio mare calmo), in contrapposizione a quello rimosso che, come struttura, e` invece statico e ripetitivo. Alcuni di questi concetti saranno ripresi successivamente nel capitolo sulla psicopatologia; come spesso succede, la patologia puo` evidenziare meglio alcune aspetti della normalita`.

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9 Elementi di psicopatologia dinamica Nicola Lalli Parole chiave delirio; sensazione; percezione; rappresentazione; illusione; allucinazione; pensiero; percezione delirante (P.D.); coscienza; psicopatologia fenomenologica; psicopatologia dinamica; modificati stati di coscienza (M.S.C.); manierismo; autismo; depersonalizzazione; spiegare; comprendere; episte´me; doxa; certezza; verita`; realta`; introiezione; proiezione; immagine; metodo; ¨ berstieg paradigma; Erlebnis; Praecoxgefu¨hl; U

Scrivere di psicopatologia e` compito arduo e complesso, non solo perche´ ne esistono modelli diversi e quindi si finirebbe con lo scrivere una sorta di storia della psichiatria, ma soprattutto perche´, in una visione non riduttiva, la psicopatologia diventa una teoria della clinica. Il che equivarrebbe a scrivere un altro libro in aggiunta al presente che invece e` prevalentemente clinico, dal momento che descrive, ordina e spiega i diversi quadri clinici ma non si sofferma a considerare i processi e i percorsi teorici che hanno indotto a quelle conclusioni. Per fare questo bisognerebbe scrivere una “Teoria della clinica”: in attesa cerchero` di definire cosa si intende per psicopatologia dinamica. La psicopatologia dinamica e` una disciplina che si occupa non solo di comprendere e spiegare l’evento psicopatologico nella sua formazione e nel suo manifestarsi, ma anche di modificare quella psicopatologia dal momento che e` stata evidenziata. Quindi non disciplina

asettica, puramente osservativa e descrittiva, ma prassi perche´ inevitabilmente il cogliere la psicopatologia porta l’osservatore (psichiatra-psicoterapeuta) a modificarla. In parte e` quanto gia` proposto nei vari capitoli: da “Il modello dello sviluppo psichico” ai sottocapitoli di ‘‘psicodinamica’’ che precedono la descrizione dei diversi quadri clinici. Pertanto nel presente capitolo mi occupero` in maniera piu` specifica ed articolata dei problemi metodologici e teorici della psicopatologia. In primo luogo la problematica inerente l’osservazione e la comprensione del paziente (vedi anche capitolo 11 e 49) che apre inevitabilmente al problema piu` generale del processo della conoscenza. Qual e` la corrispondenza tra la realta` di cio` che viene osservato e quanto noi percepiamo? Come puo` influire l’osservatore, per quanto o in

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quanto partecipe, nella conoscenza dell’altro? E quel che percepiamo dell’altrui realta` e` una nostra costruzione o invece corrisponde ad una realta` oggettiva? La conoscenza dell’altro avviene attraverso gli stessi canali percettivi che ci permettono la conoscenza della realta` materiale, oppure c’e` qualcosa in piu` e di diverso che ci permette di cogliere la realta` umana, soprattutto nella sua espressivita` psicopatologica? Inevitabilmente queste domande si collegano strettamente ad una domanda essenziale che, seppure non esclusiva della ricerca psichiatrica, trova nella espressivita` psicopatologica una maggiore profondita` ed una possibile conferma. Qual e` lo specifico della natura umana? Se la specificita` e` l’attivita` psichica, quali sono le peculiarita` di questa: come si forma e che rapporto c’e` tra attivita` psichica e biologia? Non sara` possibile dare una risposta esaustiva a tutti i problemi e per questo ho preferito intitolare il capitolo “Elementi di psicopatologia”; pero`

e` anche vero che una risposta e` possibile, almeno per i problemi fondamentali. La complessita` delle tematiche esposte puo` comportare, pur nella comunanza di una visione globale, alcune differenze. Per questo ho diviso il capitolo in due parti. Nella prima, oltre un sintetico profilo storico, saranno trattati quesiti metodologici e teorici ed alcuni fenomeni psicopatologici di particolare rilievo. Nella seconda, sara` dato spazio ad alcuni autori che riprendono alcune tematiche fondamentali (come l’affettivita`, il delirio, le allucinazioni) alla luce di una teoria completa e complessiva dello sviluppo e del manifestarsi dello psichico, che e` quella di M. Fagioli. L’unicita` del capitolo e la divisione in due parti implicano una convergenza di vedute, ma anche alcune differenze. Credo che le differenze rappresentino stimoli per una ulteriore ricerca. ***

Elementi di psicopatologia dinamica

Parte I 1. Quale psicopatologia? di Nicola Lalli Se vogliamo definire cosa sia la psicopatologia dinamica, dobbiamo necessariamente differenziarla da metodi di osservazione che sottendono paradigmi teorici diversi. Metodi e paradigmi derivanti da particolari contesti culturali e scientifici che si sono succeduti nel tempo, ma non in progressione tale da giustificarne una esposizione storica. Anzi questa potrebbe risultare falsificante perche´ indurrebbe, surrettiziamente, a credere in una evoluzione globale della psichiatria che nei fatti non c’e`. Sicuramente la psicopatologia clinico-descrittiva, che si basa sul paradigma scientifico naturalistico, si e` sviluppata prima di quella fenomenologica, che si basa invece sulla intenzionalita` della coscienza. Ma e` pur vero che la prima e` ritornata in auge negli ultimi decenni e sembra, al momento, essere dominante. Pertanto, piu` che una descrizione storica preferisco delineare le peculiarita` e le differenze dei tre modelli fondamentali della psicopatologia: quello clinico-descrittivo, quello fenomenologicoermeneutico, quello psicodinamico. 1.1. Modello clinico-descrittivo La psicopatologia clinico-descrittiva sottende un modello naturalistico della malattia, molto simile a quello adottato, con tanto successo, in medicina. Dato fondamentale e` il concetto di sindrome: insieme di sintomi che si presentano “naturalmente e significativamente sul piano statistico” in una determinata sindrome, che si differenzia dalle altre, anche per uno o piu` sintomi peculiari, definiti “patognomonici”. Il sintomo e` pertanto il segno di un qualche disturbo che, seppure non chiaramente visibile, e` deducibile dalla presenza di questi segni-sintomi. Si costituiscono cosı` delle “unita` naturali” di malattia che presentano un particolare decorso e, quindi, una prognosi specifica.

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In questa visione il paziente e` considerato alla pari di un oggetto. Il vissuto del paziente ed il senso del sintomo perdono ogni valore, anzi possono essere di intralcio per una conoscenza oggettiva della malattia. Se un soggetto si frattura un arto (dato oggettivo) e si lamenta (dato soggettivo), per l’ortopedico che deve evidenziare il luogo e la natura del trauma, questo lamento puo` essere inutile e fastidioso. Per cui se l’ortopedico anestetizza o seda il paziente per eliminare il lamento, compie da una parte una operazione umanitaria, dall’altra facilita il suo compito di osservazione e di indagine della patologia del paziente. Situazione ben diversa se invece a lamentarsi e` un depresso. In questo caso il lamento, la disperazione costituiscono oltre al sintomo visibile anche il dato soggettivo del paziente che ci permette non solo di comprendere il suo vissuto, ma anche di evidenziarne la natura (e` un simulatore, e` un depresso, e` a rischio di suicidio, e` un nevrotico ecc.?) Se in questo caso l’osservatore volesse utilizzare lo stesso metodo dell’ortopedico, cioe` esclusivamente quello di osservare, potrebbe, per farlo meglio, sedare il lamento (in questo caso dobbiamo parlare non di ragioni umanitarie o tecniche, ma esclusivamente di un transfert scorretto dell’osservatore). Ma in questo caso l’operatore, a giusto titolo, non puo` definirsi uno psichiatra, ma solamente un ortofrenico. ` evidente che in psicopatologia occorre un E metodo di osservazione (e di prassi) che non puo` essere uguale a quello utilizzato dal medico per le malattie organiche. Proposizione possibile solo se si accetta che la vita psichica presenta modalita` espressive e di funzionamento ben diverse da quelle del soma. Se la modalita` di osservazione invece rimane esclusivamente rivolta al sintomo inteso come entita` oggettiva e separata dal contesto complessivo del paziente, e` inevitabile che il modello teorico sottostante dell’osservatore, anche se non sempre esplicitato, e` quello di una osservazione naturalistica ed il disturbo psichico viene inevitabilmente equiparato ad un disturbo somatico. Quanto sia primario il modello teorico e quanto la modalita` di osservazione e` difficile stabilirlo: comunque e`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

certo che teoria e prassi sono strettamente condizionate. Griesinger e` riconosciuto come lo psichiatra che ha portato alle estreme conseguenze questa equiparazione, affermando che le malattie psichiatriche sono malattie del cervello. Ma siccome Griesinger e` vissuto nell’800, potrebbe sembrare una posizione ormai superata. Invece rimane ancora attuale: la psichiatria biologica e la farmacopsichiatria, anche se con metodologie piu` sofisticate, ripropongono la medesima tesi di Griesinger. Con una differenza. Mentre l’austero psichiatra tedesco era estremamente coerente, gli attuali farmacopsichiatri invece, con disinvoltura ed incuranti di cadere in una evidente contraddizione, parlano anche di soggettivita`, di vissuto psichico, di significativita` del rapporto medico-paziente, di psicoterapia. Ad un osservatore mediamente attento non sfugge pero` che il cipiglio fiero e sicuro che mostrano — quando espongono il loro pensiero corroborato da disegni o diapositive con frecce, numeri, zone cerebrali, a riprova della validita` dei loro modelli psicobiologici — si spegne improvvisamente quando parlano di soggettivita` e psicoterapia per mutarsi in uno sguardo spento, attonito pervaso da un sorriso vagamente manierato. La rapidita` del cambiamento e` difficilmente spiegabile in termini di variazione di un qualche neuromediatore: molto piu` logico e comprensibile che sia collegata alla incongruita` della proposizione. A dimostrazione che l’incongruita` (dato soggettivo e psicologico) non solo e` percepibile, ma si manifesta nel somatico ed a volte anche con un effetto antiestetico. Quanto ai presupposti teorici che ne sono alla base, questi hanno una lontana ascendenza che nel positivismo trova il massimo sviluppo. Positivismo che alla fine dell’800 aveva portato all’estremo la postulazione della netta dicotomia tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura: proposizione che aveva in Bacone e Galilei gli antesignani. Per conoscere la natura era necessario isolare dal contesto il fenomeno da osservare, eliminando qualsiasi interferenza, osservatore compreso. Questo metodo, definito sperimentale ed iniziato da Galilei, fornira` ottimi risultati e sara`

vincente rispetto alla fisica aristotelica, che aveva dominato sulla base di un dogmatismo (Ipse dixit) che non ammetteva controprove. Ad esempio, Aristotele sosteneva che la velocita` di caduta di un oggetto e` direttamente proporzionale al suo peso: questa legge sembrava evidente ed inconfutabile. Infatti se si lasciano cadere da una torre una piuma ed un sasso, quest’ultimo giunge a terra molto prima della piuma. Galilei ritenne questa “evidenza” falsa e pertanto effettuo` un esperimento. Due masse di ferro rispettivamente da 1 e 100 libbre furono fatte cadere dalla torre di Pisa: fu “evidente” che queste giungevano a terra con una differenza infinitesimale di tempo. Se fosse stata vera l’affermazione di Aristotele, la massa da 1 libbra sarebbe dovuta arrivare a terra in un tempo cento volte inferiore a quella di 100 libbre. L’esperimento quindi forniva la possibilita` di superare le apparenze per giungere alle leggi vere della fisica; questa possibilita` permetteva all’uomo di trasformare la conoscenza in potenza, ovvero in controllo e sfruttamento della natura. Questa metodologia comportava pero` l’eliminazione di due fattori: il tempo e l’osservatore. Il tempo perche´ l’esperimento non doveva avere una vettorialita` cosı` da poter essere eseguito in qualsiasi momento e sempre con gli stessi risultati; una volta iniziata la procedura, l’osservatore non doveva piu` interagire. ` pur vero che gli astronomi si erano resi E conto che nell’osservazione degli astri c’era un fattore personale che poteva, rispetto ad un fenomeno stabile come il passaggio di una stella, fornire tempi diversi anche se minimi. Per questo fenomeno fu coniato il termine, che verra` ripreso qualche secolo dopo dalla psicologia, di equazione personale: l’osservatore, a causa della propria equazione personale (conseguenza della diversita` dei tempi di reazione), forniva risultati leggermente sfalsati. Ma a questo errore si poteva rimediare proprio calcolando le singole equazioni personali: come dire che se l’osservatore non era eliminabile o non era “asettico”, rappresentava un elemento di disturbo che andava successivamente corretto. Questo modello, pur con alcune modifiche, sara` adottato dalla medicina che con l’anatomia

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patologica e gli esperimenti di laboratorio riuscira` in breve tempo a costruire un corpo teorico fondamentale per la conoscenza dell’organismo umano: termine che denota tuttora il corpo umano e la cui ascendenza etimologica (organon=strumento) la dice lunga sulla concezione del corpo umano. Ma questo paradigma scientifico, se comportava una migliore conoscenza che rendeva possibile la manipolazione della natura (tecnologia), sul piano epistemologico portava sempre piu` ad approfondire la frattura tra osservatore ed oggetto osservato, quindi tra uomo e mondo. Questa problematica sara` affrontata e apparentemente risolta da I. Kant che, con la formulazione di categorie a priori della conoscenza, se riproponeva di nuovo la centralita` dell’uomo nel processo di conoscenza lasciava un residuo — inderivabile ed inconoscibile — che era il noumeno. L’idealismo accentuera` ulteriormente questa posizione della centralita` dell’uomo nel processo di conoscenza della realta`. Se Hegel risolvera` la realta` materiale in quella dello Spirito, bisogna dire che le affermazioni del grande filosofo in campo prettamente scientifico erano assolutamente risibili e totalmente false. Da questo momento il distacco fra filosofia e tecnologia diventera` sempre maggiore. Il problema di una osservazione che fornisse garanzie di veridicita` ma che tenesse conto anche dell’osservatore trovera` una soluzione, anche se parziale, con il concetto di intenzionalita` della coscienza.

1.2. Modello fenomenologico-ermeneutico Questo termine introdotto in ambito psicologico da Brentano denota la peculiarita` dei fenomeni psichici che hanno sempre un loro originario riferimento all’oggetto. Il concetto di intenzionalita` sara` ampliato da E. Husserl che lo proporra` come fondamento del rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza. «La caratteristica delle esperienze vissute (Erlebnisse), che puo` essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia orientata oggettivamente, e` l’in-

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tenzionalita`... L’intenzionalita` e` cio` che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di indicare la corrente dell’esperienza vissuta, come corrente di coscienza e come unita` di coscienza». Quindi la coscienza (intesa nel senso complessivo delle capacita` psichiche e conoscitive dell’uomo) non e` una cosa tra le altre, ma un processo in continua trasformazione, un suo “trascendersi” in altro. Ritornero` sulle riflessioni di Husserl perche´ in gran parte costituiranno la base dell’edificio teorico da cui nascera` la psicopatologia fenomenologica, dopo aver accennato ad un autore che insieme a H. Bergson, ha contribuito al salto qualitativo riguardante il problema della conoscenza e della realta` dell’uomo. Mi riferisco al padre dello storicismo G. Dilthey, che ancora prima di Husserl propone due concetti fondamentali. In primo luogo aver considerato l’Erlebnis, inteso come la complessita` del vissuto umano (l’equivalente quindi della coscienza di cui parla la filosofia da Cartesio a Hegel), come fondamento della conoscenza: «…l’Erleben e` lo spirito umano individuale, la coscienza immediata che appartiene a ogni uomo, l’insieme dei dati vissuti di cui si e` immediatamente certi senza bisogno di alcuna ulteriore mediazione. I contenuti dell’Erleben non sono realta` che esistono al di la` della coscienza (Cartesio direbbe che sono “essere oggettivo”, vol. III, p. 2) e quindi l’affermazione della loro esistenza non ha bisogno di alcuna giustificazione» (E. Severino, La Filosofia contemporanea, p. 167). Inoltre G. Dilthey propone una netta differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito, con la nota distinzione tra spiegare (Erkla¨ren) e comprendere (Verstehen). Come vedremo piu` avanti, sara` proprio il concetto di comprensione che diventera` la chiave di volta della psicopatologia fenomenologica di K. Jaspers. «Il campo della psicopatologia si estende pertanto a tutto lo psichico che possa essere colto in concetti di valore immutabile e comunicabili». Con questa affermazione, a p. 2 della sua monumentale Psicopatologia generale, K. Jaspers nel 1913 apre un capitolo nuovo che puo` conside-

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rarsi, soprattutto sul piano metodologico, come punto di riferimento fondamentale per la psicopatologia e per la psichiatria. L’affermazione, i cui i corsivi sono miei, e` senz’altro condivisibile e si puo` considerare come una sorta di proposizione metodologica basilare: tutto lo psichico puo` essere compreso e diventa oggetto di scienza, nel momento in cui e` possibile esprimerlo in concetti che sono non solo immutabili, ma anche comunicabili. E subito dopo K. Jaspers aggiunge: «…L’oggetto della psicopatologia e` l’accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le dimensioni della realta` psichica. Vogliamo esaminare non solo l’esperienza vissuta (Erleben) dell’uomo, ma anche le condizioni e le cause dalle quali essa dipende, quali relazioni ha ed i modi con cui si manifesta obiettivamente» (Psicopatologia generale, pp. 2-3). K. Jaspers si pone come spartiacque rispetto alla precedente impostazione clinico-nosografica che si fondava su un paradigma naturalistico dell’osservazione. Non dobbiamo dimenticare che gli sono contemporanei S. Freud, C.G. Jung, E. Bleuler che rappresentano anch’essi un punto di riferimento teorico importante. Eppure l’opera di K. Jaspers aggiunge qualcosa di radicalmente nuovo: una metodologia che vuole essere scientifica. Non bisogna dimenticare che l’autore era medico, oltre che filosofo. «La variazione metodologica (l’Autore si riferisce all’opera di E. Bleuler), pur avendo modificato la direzione della via che parte dal sintomo indicando la possibilita` di una comprensione piu` completa della follia, non ha la capacita` strutturale di fornire al pensiero psichiatrico gli strumenti operativi adatti per afferrare piu` compiutamente il contenuto e la sua dialettica con la forma da un lato e con il significato dall’altro. Lo strumento operativo piu` idoneo a questo superamento sara` mediato da K. Jaspers nella fenomenologia» (A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, p. 64). Comunque mi sembra opportuno soffermarmi sulla dizione di K. Jaspers che oggetto della psi-

copatologia e` «l’accadere psichico reale e cosciente». Il concetto di “reale” pone ovviamente il problema della conoscenza di questo ‘‘reale’’. Se riteniamo che l’uomo come essere psichico e` un “soggetto”, e` ovvio che egli non puo` essere conosciuto se ridotto ad “oggetto” come vorrebbe la metodologia naturalistica, metodo che e` applicabile con successo solo nel mondo delle scienze fisiche. La conoscenza e` quindi un processo intersoggettivo, che non implica pero` necessariamente un concetto di parita`-uguaglianza. In psicopatologia devono esserci necessariamente un osservatore ed un osservato; e per quanto tutto questo debba essere letto alla luce di un processo intersoggettivo, si deve pur sempre accettare l’esistenza di una diversita`. Quindi intersoggettivita` e differenza costituiscono la piattaforma di base: comunque si ripropone la domanda. Come possiamo avere la certezza che quell’accadere psichico (oggetto della psicopatologia) rivelato dal paziente o rilevato dall’osservatore, sia un evento reale? Anche l’allucinato, il delirante ha la certezza dell’esistenza dell’oggetto, delle “voci”, di una persecutorieta` permanente, ma noi sappiamo che la loro certezza non corrisponde alla verita`. Se questa domanda viene spostata sull’osservatore non cambia molto: come e` possibile essere certi che quanto rileviamo dall’osservato corrisponde a verita` realta`? Il fenomenologo ci risponderebbe che se si utilizza la categoria del comprendere, il problema non si pone. «Il comprendere e` il procedimento conoscitivo specificamente rivolto a qualsivoglia rappresentazione psichica colta nella sua singolarita` e nel suo continuo divenire vitale, e quindi nella sua finalita` o intenzionalita`» (P.F. Pieri, Dizionario Junghiano, p. 155). Quindi non ci deve tanto interessare la realta`verita` dell’oggetto, quanto piuttosto la sua finalita`: in altri termini, anziche´ chiederci «cosa e` e perche´ si verifica questo fenomeno», dobbiamo chiederci «qual e` lo scopo di quel fenomeno». Ma in questa visione, ampiamente sviluppata da C.G. Jung, e` evidente lo spostamento episte-

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mologico: da una ricerca causale-genetica ad una finalistica-teleologica. Ma ritorniamo a Jaspers ed alla psicopatologia: l’autore, come abbiamo visto, limita l’oggetto della psicopatologia all’accadere psichico “cosciente”. Possiamo oggi ritenere valida questa affermazione? Assolutamente no. Perche´ vorrebbe dire cogliere puramente gli aspetti comportamentali e recepire solo una parte della comunicazione del paziente: quella manifesta-cosciente. Infatti tutto cio` che e` latente-inconscio non verrebbe rilevato o considerato, con grave amputazione della conoscenza. Ma se i due predicati dell’oggetto della psicopatologia reale e cosciente sono messi in crisi e` evidente che, pur con i notevoli aspetti positivi, l’intera metodologia di Jaspers rischia di cadere in contraddizione e quindi essere poco utilizzabile. Con questo non si vogliono negare alcuni evidenti meriti del filone fenomenologico ermeneutico che e` andato ben oltre la tematica jaspersiana. Se mi sono soffermato su K. Jaspers e` perche´ questo autore ha avuto nel suo complesso una maggiore influenza sulla psichiatria. Non bisogna dimenticare pero` che numerosi altri autori hanno, usando in modi diversi la fenomenologia husserliana, apportato ulteriori approfondimenti nel campo dell’accadere psichico sia normale che patologico. Nel Dizionario di Psicologia di Galimberti, l’autore segnala giustamente alcune tematiche fondamentali e specifiche delle varie correnti fenomenologiche: da L. Binswanger a MerleauPonty, da Minkowski a molti AA. italiani che hanno dato un notevole contributo come D. Cargnello, E. Borgna, B. Callieri, F. Barison e lo stesso autore del Compendio di Psicologia da cui riprendo le tematiche fondamentali: «I. La relazione intenzionale individuoambiente non nel senso che l’individuo sia un’entita` che si relaziona ad un’altra entita` che e` l’ambiente, ma che il rapporto, l’essere nel mondo, e` la situazione originaria che si da` all’esperienza fenomenologica. II. La temporalita`, intesa non come passato, presente e futuro, ma come capacita` di darsi un

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passato, un presente, un futuro. Quando si destruttura questa capacita` abbiamo i fenomeni patologici della depressione che si raccoglie tutta nel passato, o sulla mania che si esprime in un presente senza passato e senza futuro. III. Il corpo, inteso non come organismo (Ko¨rper) secondo la dizione della scienza medica, ma come corpo vivente (Leib) aperto ad un mondo e intenzionato alle cose. (Alcuni elementi di questa concettualizzazione, pur in un’ottica diversa, sono stati ripresi nei capitoli 8 e 42). IV. Le cose sono rilevanti non in quanto fatti, ma in quanto esprimono un significato, per cui, anche se il pianto e il riso dal punto di vista neurologico e anatomico impegnano la stessa muscolatura, non hanno comunque lo stesso significato. V. L’uomo e` al mondo con i suoi simili (Mitdasein) che non esistono semplicemente accanto a lui, ma sono cooriginari alla stessa esperienza che il singolo fa da se´». (Vedi U. Galimberti, p. 404). Molte di queste tematiche, anche se non sempre in maniera completa, sono entrate ormai nel lessico della psichiatria, anche se spesso ne viene misconosciuta l’origine o comunque la teoria dalle quali provengono.

1.3. Modello psicodinamico La tematica della comprensione ha certamente aperto un mondo nuovo per la ricerca psicopatologica. La realta` (psichica) per Jaspers consiste sia in quella che si coglie immediatamente (come comprensione genetica) sia in quella a cui si puo` pervenire attraverso collegamenti oggettivi: ...«stabilendo un collegamento oggettivo fra i molteplici fatti, onde dedurne la regolarita` in base a esperienze ripetute, noi spieghiamo causalmente». Quindi, come e` evidente, K. Jaspers non rinuncia a spiegare che «...non esiste alcun processo reale, sia di natura fisica sia psichica, che non sia accessibile per principio alla spiegazione causale...». ` possibile quindi dare una spiegazione, ma E su quali basi? Evidentemente la comprensione

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apre allo psicologico ma fino ad un certo punto, perche´ qualsiasi fenomeno psicopatologico che non e` “reale e cosciente” rischia di diventare incomprensibile, e l’incomprensibile rimanda ad un’eventuale causa biologica. Come si vede si riintroduce, surrettiziamente, il modello naturalistico. L’incomprensibile jaspersiano non e` legato tanto ad una reale incomprensibilita` dello schizofrenico, ma alla metodologia di osservazione. Jaspers ripete lo stesso errore di S. Freud quando questi affermava, aprioristicamente, che lo psicotico non stabilisce un transfert. Fenomeno ampiamente smentito da molti psicoanalisti che, lavorando con gli psicotici, constatarono che questi stabiliscono un transfert particolare, che e` ben diverso dall’affermare che non stabiliscono alcun transfert. Credo che la proposizione di Jaspers sulla peculiarita` dell’oggetto della psicopatologia sia limitativa al punto che puo` divenire inservibile. In altri termini, oggetto di studio della psicopatologia non puo` essere esclusivamente l’evento psichico “reale e cosciente”. Un secondo punto rispetto al quale si deve essere polemici e` l’atteggiamento apragmatico della psicopatologia fenomenologica. Una volta presupposta che qualsiasi diversita` e` sempre e solo un modo di essere al mondo (verita` parziale), si finisce per proporre l’accettazione della diversita` psicopatologica che e` astensione da qualsiasi proposizione terapeutico-trasformativa. Con la comprensione viene esaltato l’aspetto idiografico del paziente, ma non si riesce ad inserire questo aspetto nella cornice nomotetica di una teoria dello sviluppo psichico. Questa non e` mancanza, ma rifiuto sistemico di una teoria generale dello sviluppo della vita psichica e costituisce il terzo fallimento della fenomenologia. Proprio in opposizione a questi deficit della psicopatologia fenomenologica, il modello dinamico propone formulazioni ben diverse. La psicopatologia dinamica accetta la comprensione, se per comprensione si intende un modello di lettura e di osservazione dei fenomeni psichici che non puo` essere assolutamente simile a quello del modello naturalistico-oggettivante.

Abbiamo gia` visto quali ne sono i limiti: l’abolizione del tempo e l’esclusione dell’osservatore. Ma se il tempo emerge e si costituisce proprio con l’essere vivente in genere con quello umano in particolare, eliminare il tempo vuol dire eliminare il vivente: quindi si rischia di capire ben poco, dopo una trasformazione di questo genere. E poi l’esclusione dell’osservatore: se la prima situazione e` improbabile, la seconda e` sicuramente impossibile. Comunque accettare il comprendere non vuol dire aver risolto il problema, perche´ bisogna definire il processo della comprensione. La comprensione si basa sull’empatia, sull’immedesimazione, sulla dinamica introiezione-proiezione? Per non disperdere il filo del discorso rimando al paragrafo «Psicopatologia e filosofia, il problema della conoscenza». Ma se diamo momentaneamente per scontato il processo della comprensione, riteniamo che sia necessario fornire anche una spiegazione dell’evento psichico. Spiegazione che e` possibile utilizzando la teoria dello sviluppo psichico, la conoscenza del presente e del passato del paziente, ma soprattutto la dinamica relazionale. ` la modalita` della relazione oggettuale del E paziente che ci fornisce e ci conferma quanto da noi osservato e quanto riferito dal paziente. Ma non basta; perche´ oltre al comprendere ed allo spiegare si attiva una terza componente fondamentale: la tendenza a trasformare, a cambiare l’altro di cui abbiamo “percepito” la psicopatologia. Questa triade costituisce un “campo tensionale”, ove l’osservatore non e` asettico spettatore, ma attore di una dinamica che lo spinge non solo a comprendere-spiegare, ma anche dopo aver compreso a porsi in una situazione di cambiamento. Nel “campo tensionale” la presenza di un osservatore-osservato e di un osservato-osservatore, pur nella diversita` delle rispettive capacita`, innesta un circuito, che non e` asettico luogo di comunicazione, verbale o preverbale, con contenuti puramente informativi. La comunicazione e` sempre promotiva ed innesca una serie di tensioni (aspettative, paure, desideri) che possono interagire in vario modo: da quelle conflittuali che rendono la situazione piu` tesa, a quelle collusive

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che tendono a smorzarla e farla cadere nella banalita`. Inoltre bisogna tener conto che c’e` un campo piu` ampio, non sempre ben definibile (la struttura istituzionale, il modo dell’invio ecc.) che gioca un ruolo non secondario. Se questa e` la specifica modalita` osservativaoperativa di una psicopatologia dinamica, dobbiamo poi tener conto che essa si fonda su una ben precisa teoria dello sviluppo psichico e della natura della psiche. Per la teoria dello sviluppo psichico rinvio al Cap. 8; mi soffermero` brevemente invece sul problema della natura della psiche. Possiamo sinteticamente affermare che fin dall’antichita` l’uomo ha oscillato tra due poli: la psiche come il prodotto piu` evoluto della animalita` (quindi con una differenza esclusivamente quantitativa) o come equivalente di anima quindi sostanza trascendente, immutabile ed incorruttibile. Una terza ipotesi, derivazione piu` evoluta della prima, propone la psiche come diversa da quella degli altri esseri viventi, ma la cui formazione si attiva nel corso dello sviluppo, in un periodo che puo` oscillare dai 3 ai 6-7 anni. Questa ipotesi viene riproposta da S. Freud che ritiene che il piccolo “perverso polimorfo” si civilizza intorno ai 3 anni con il superamento del complesso edipico e la formazione del Super-Io. Salvo essere sempre a rischio di una regressione psicopatologica, che lo potrebbe riportare ai livelli primitivi. Una ulteriore ipotesi considera infine la psiche come puro epifenomeno del biologico e quindi priva di una sua autonomia e identita`. Ma esiste anche una ulteriore proposizione. La vita psichica non solo ha peculiarita` qualitative ben precise, ma si forma anche in un momento preciso dello sviluppo di ogni singolo essere umano: la nascita. Dopo il lungo periodo di rapporto con il liquido amniotico della fase fetale, il neonato deve rinunciare a questa situazione per affrontarne una completamente nuova: quella del rapporto con una realta` non umana, ovvero con una realta` materiale.

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In questa situazione il neonato fa una fantasia di sparizione, indice dell’emergenza dell’istinto di morte e cerca di recuperare la situazione precedente. Data l’impossibilita` materiale di attuare questa operazione, egli recupera invece, sulla base di tracce mnestiche, il ricordo del precedente rapporto libidico che lo portera` successivamente a ricercare nuovamente nel mondo un’altra realta` umana. La biologia intesa come sviluppo programmato dell’uomo puo` considerarsi conclusa con la nascita. Da questo momento l’organismo umano continuera` a svilupparsi e a completarsi; ma tutto cio` che e` cambiamento dipendera` dai processi psichici. Questa impostazione ha notevoli e diverse implicazioni, come vedremo.

2. Psicopatologia e filosofia: il problema della conoscenza Da millenni l’uomo, da quello della strada all’epistemologo, dal filosofo allo psichiatra, si interroga su due quesiti fondamentali: la natura della “realta`” e la possibilita` e le modalita` della conoscenza. Problematiche strettamente connesse che hanno portato a diverse formulazioni e a numerosi tentativi di soluzione.

2.1. Il concetto di realta` Realta` o reale, come indica l’etimologia, si riferisce a qualcosa che ha sicura ed effettiva esistenza. Si riferisce quindi fondamentalmente ad una realta` materiale, visibile, che esiste indipendentemente dalla attivita` del soggetto. Questa concezione formulata da una corrente filosofica, definita appunto realismo, ha dominato la filosofia fino a qualche secolo fa, con l’unica eccezione dello scetticismo. In questa visione la realta` puo` essere conosciuta attraverso i sensi, le percezioni e l’intelletto, che trasformano questa realta` in idea della realta`. Idea, etimologicamente, vuol dire “visibile”;

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l’ideazione quindi e` l’attivita` conoscitiva del soggetto nei confronti della realta` oggettiva. «Per Hegel la filosofia greca e` solamente comprensione dell’idea… La comprensione dell’idea e` quel modo di pensare che e` consapevole solamente delle cose e dei loro significati (o categorie) ed e` dimentico a se stesso: il pensiero vede la realta`, ma non vede questo suo vedere, che tuttavia avvolge e illumina la realta`» (E. Severino, vol. II, p. 10). Ora e` vero che la filosofia greca pone una distinzione tra verita` come episte´me e opinione come doxa. Ma e` fondamentale la convinzione che c’e` una identita` immediata di verita` e certezza: precisando che la verita` appartiene all’esistenza e alla conoscibilita` di un mondo esterno, mentre la certezza e` una determinazione soggettiva. «Noi possiamo essere certi di cose vere e false: cio` vuol dire che la ‘certezza’ e` uno stato del pensare (cioe` della coscienza, della mente), mentre la ‘verita`’ e` uno stato delle cose» (E. Severino, ibidem, p. 13). Questi concetti, come vedremo, potranno servirci per comprendere meglio alcuni problemi che si pongono alla psicologia e alla psicopatologia. Come e` possibile conoscere, e quello che conosciamo e` reale o no, cioe` e` vero o invece siamo ingannati da una qualche illusione? Problemi non di secondaria importanza in psicopatologia: in fondo il delirante e` colui che e` assolutamente certo di qualcosa che noi sappiamo non essere vero. Pertanto puo` essere utile ripercorrere il lungo cammino ed il faticoso travaglio del pensiero umano circa queste problematiche. Per un lungo periodo, la filosofia ha assunto un atteggiamento prevalentemente speculativo che cambia intorno alla meta` del ’500, almeno nell’ambito della nostra cultura occidentale. Con l’inizio della scienza moderna non si tende piu` a contemplare, ma a dominare la realta`: per fare questo si dovra` rinunciare a una visione globale del Tutto, per rivolgersi alle singole parti che, una volta isolate dal contesto, possono essere meglio verificate. Il problema della episte´me, della unita` di certezza-verita` si sposta dalla comprensione del Tutto alla verifica dell’esperimento, che dara`

frutti innegabili nelle scoperte scientifiche, anche se ad un costo molto elevato. Mi sembra necessario, a questo punto, riportare le notazioni di un filosofo precedentemente citato. «Nella dinamica moderna — il cui fondatore e` Galileo Galilei (1564-1642) — il movimento dei corpi viene considerato separatamente dall’insieme degli eventi che, da vicino o da lontano, lo accompagnano … e in Galilei questa separazione che isola il fenomeno dal movimento ha insieme un carattere conoscitivo e un carattere pratico … Ma rivolgendosi alla natura cosı` isolata, la scienza moderna opera un ulteriore isolamento: prescinde da tutti gli aspetti della natura che differiscono dagli aspetti quantitativi, prescinde cioe` dalla qualita`. Ma in questo caso — a partire da Galilei — nega anche l’esistenza di cio` da cui prescinde. Cio` non significa che la scienza moderna sostenga che l’uomo non percepisce colori, suoni, sapori, odori, caldo, freddo e gli aspetti qualitativi della realta`; significa che tali aspetti, per la scienza, dipendono appunto dal nostro modo di percepire la realta` e cioe` non esistono nella realta` vera e propria, indipendentemente dal nostro apparato percettivo» (II vol., pp. 22-23). Pertanto, se la conoscenza e` conoscenza della quantita`, la matematica e` lo strumento principe per conoscere la realta`: in questo modo si evita di cadere in un relativismo assoluto. Per Galilei «l’universo e` scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche». ` quindi la matematica il metodo necessario E per giungere all’episte´me, per conoscere la realta`, per giungere a una certezza assoluta. Verita` che viene raggiunta attraverso la verifica (che significa appunto fare vero) dell’esperimento. Ma questa verita` si basa su una serie di operazioni pratiche realizzate a partire dalla condizione basilare che e` l’isolamento del fenomeno che si vuole osservare. Come ho gia` evidenziato, “questa dissezione della natura” per essere efficace deve eliminare due fattori fondamentali dell’osservazione: il tempo e l’osservatore stesso. Per un lungo periodo l’eliminazione del fattore tempo e dell’osservatore e` la regola: anche

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se togliere questi due fattori vuol dire togliere ` evidente che questa l’umano all’osservazione. E impostazione ha una profonda ripercussione non solo sulla visione della natura e le modalita` della conoscenza, ma anche sulla concezione stessa del soggetto osservante. Non e` un caso che proprio a partire dalla meta` del ’600 inizia una nuova profonda riflessione sull’uomo e sulla conoscenza. Cartesio, conosciuto esclusivamente come il fondatore della dicotomia mente-corpo, dicotomia che esisteva invece da almeno 2000 anni, e` colui che attraverso il dubbio, e quindi la possibilita` di una affermazione, ripropone il problema della verita` come qualcosa che non puo` essere ridotto alla verifica degli esperimenti. La res cogitans di Cartesio ripropone la possibilita` (anche se con l’ambiguita` coesistente della res extensa) di una ricerca della verita`. «La verita` si rivolge al tutto, anche nel senso che mette in questione tutto e confronta tutto a se stessa e pertanto giudica tutto. Anche in Cartesio il dubbio investe il tutto e proprio per questo si imbatte in cio` che e` assolutamente indubitabile. E con Cartesio si inizia a ritenere che il pensiero e` l’essenza della realta`: l’idea non e` l’id quod cognoscitur (cio` che e` conosciuto), bensı` l’id quo cognoscitur (cio` per mezzo della quale — idea — si conosce)» (E. Severino). Queste proposizioni cartesiane saranno riprese da Spinoza, che nella Sostanza cerchera` una concordanza immanente tra pensiero e realta` esterna. Anche se ambedue i filosofi non potranno rinunciare (e non solo per evitare persecuzioni) all’idea di un Dio. Forse e` solo G.B. Vico (nella Scienza nuova) a proporre in maniera decisamente laica che la mente umana puo` veramente guardare se stessa nel prodursi come fatto storico. Il verum ipsum factum vuol dire che nonostante tutti i limiti imposti dalla teologia imperante, l’uomo fa la storia e questo e` il campo di conoscenza che costituisce la nuova episte´me. Successivamente l’empirismo riproporra` con forza il problema della natura dell’intelletto e le possibilita` della conoscenza. G. Locke con il Saggio sull’intelletto umano, G. Berkeley con il Trattato dei princı`pi della co-

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noscenza umana fino a D. Hume con il Trattato sulla natura umana, pur con modalita` diverse, ripropongono un tema unico: come superare il dogmatismo teologico e riconoscere che l’uomo e` il metro della realta`, pur con limitazioni ed ambiguita`. Kant, nel riconoscimento del debito a Hume e nel proporre la possibilita` della conoscenza mediante categorie a priori, apre la strada all’idealismo. In tutti questi filosofi il problema della natura, quello della realta`, quello della conoscenza sono tematiche fondamentali, anche perche´ vanno di pari passo con il pensiero scientifico che cerca sempre piu` di dare per scontati o superati questi problemi, nella esclusiva ricerca di ulteriori approfondimenti di quel metodo sperimentale che aveva dato tanti successi nel campo della tecnologia. Con la nascita della psicologia l’osservazione si spostera` sempre piu` sulla natura e sulle peculiarita` del soggetto.

2.2. Realta` materiale – Realta` umana Realta` e` un termine talmente ampio e semanticamente inflazionato da richiedere qualche precisazione. In senso lato corrisponde a tutto cio` che esiste ed e` visibile. In senso piu` approfondito dobbiamo fare una netta distinzione tra realta` materiale e realta` umana. La realta` materiale riguarda tutto l’esistente inorganico; la realta` umana riguarda la specificita` umana ed e` quindi realta` psichica. Distinzione che non e` sovrapponibile, come spesso viene proposto, a quella di mondo internomondo esterno. Infatti, mentre il mondo interno corrisponde alla realta` psichica del soggetto, il mondo esterno corrisponde a tutto cio` che e` fuori da esso (comprendendo quindi sia la realta` materiale che la realta` psichica). ` evidente che rimane fondamentale distinE guere cio` che appartiene al mondo esterno da quanto appartiene al mondo interno. Se riteniamo che alla base della dinamica di conoscenza del mondo esterno (quindi riguar-

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dante sia la realta` materiale che quella psichica) ci sia esclusivamente il meccanismo della introiezione-proiezione, non come dinamica psicopatologica ma come normalita`, e` evidente la difficolta` o l’impossibilita` di distinguere tra fantasticherie e realta`. La non differenza, o l’uguaglianza, tra realta` interna ed esterna ha permesso a S. Freud di conferire una equiparazione tra stimoli interni e stimoli esterni. Gli stimoli interni (come fantasie) hanno la stessa “realta` ” di stimoli esterni. «…L’impressione che si riceve e` che tali avvenimenti siano sempre richiesti come qualcosa di necessario appartenente a un nucleo essenziale della nevrosi. Se fanno parte della realta`, tanto meglio; se la realta` non li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con la fantasia. Il risultato e` lo stesso, a tutt’oggi non siamo riusciti a dimostrare una diversita` di conseguenze a seconda che la parte maggiore di questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realta`» (S. Freud, vol. VIII, 1915-17, p. 526). ` un Freud maturo quello che scrive, non E quello del 1897, che continua a ritenere che l’importanza di eventi esterni realmente accaduti sia ininfluente tanto da aggiungere che se questi eventi non sono forniti dalla realta`, il paziente li elabora sulla base di “accenni”. Pertanto bisogna distinguere, a proposito di realta`, tra quella materiale e quella psichica, come e` necessario distinguere tra mondo interno e mondo esterno. Infatti, se la realta` psichica coincide con il mondo interno, non altrettanto puo` dirsi per il mondo esterno che comprende sia la realta` materiale sia quella psichica (degli altri esseri umani), realta` diverse che implicano due modalita` diverse di osservazione e di conoscenza. Infatti, quando il soggetto con la sua realta` psichica si confronta con la realta` esterna materiale, basera` la sua conoscenza su processi logicodeduttivi e su modalita` di osservazione che possono essere anche oggettivanti. Se invece il soggetto, con la sua realta` psichica, si confronta con un’altra realta` psichica esterna, dovra` attuare modalita` conoscitive e di rapporto diverse. In questa ottica, si comprende l’importanza della distinzione tra comprendere e spiegare.

Comprendere l’altro implica infatti necessariamente postulare l’esistenza di una dinamica inconscia alla base della vita psichica, che permetta a seconda della maggiore o minore sanita` dell’osservatore e quindi della sua capacita` recettiva di comprendere-capire la realta` psichica dell’altro, sia essa normale o patologica. Nella dinamica di rapporto ovviamente si osservano anche gli aspetti della realta` materiale dell’altro come l’espressione mimica, il comportamento, ecc. Queste modalita` espressive possono essere evidenziate e spiegate anche con una osservazione di tipo oggettivante, ma ben poco ci dicono circa la realta` psichica profonda di quella persona. Solo se nel rapporto oggettuale riusciamo a comprendere gli affetti, il pensiero, l’intenzionalita` dell’altro, possiamo affermare di conoscere la sua realta` psichica. Altrimenti ci fermiamo ad un livello molto superficiale di osservazione, perche´ utilizziamo quella logica tipica dell’esperimento che in questo caso puo` tener conto solo degli aspetti parziali e visibili e quindi dirci ben poco sulla realta` psichica dell’uomo. E di questo possiamo avere una evidente conferma sul piano della psicopatologia. Se un paziente presenta alterazioni della conoscenza della realta` materiale, spesso queste alterazioni (transitorie o stabili) sono legate ad alterazioni organiche del S.N.C. come ad esempio la demenza, lo stato confusionale, fino ai disturbi piu` chiaramente neurologici, come le afasie, le aure epilettiche eccetera. In questi casi l’alterazione percettiva della realta` materiale e` legata a una alterazione dei meccanismi biologici della percezione, della coscienza e della memoria. Quando un paziente in stato di confusione mentale mostra il singolare disturbo di «riconoscimento di sconosciuto o di disconoscimento di conosciuto», questo disturbo avviene perche´ il paziente ha perduto la capacita` di conoscere e discriminare i tratti fisionomici delle persone a lui vicine. Questa situazione apparentemente e` simile alla sindrome di Capgras; anche in questo caso il paziente non riconosce i familiari, ma afferma che sono degli estranei perche´, pur avendo medesime sembianze, sono delle copie e quindi degli impostori.

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In questo caso il disturbo non e` dovuto a un deficit o a una alterazione percettiva, ma a un vissuto piu` profondo di alienazione-estraneita`. Mentre il confuso non riconosce la fisionomia del familiare, che pertanto diventa uno sconosciuto, nel caso del delirio di Capgras l’altro e` diventato un estraneo. Il vissuto di estraneita` ha una dinamica e una complessita` ben diverse dal non riconoscimento per deficit percettivo-mnestico.

3. Conoscenza: dalla sensazione alla percezione L’esempio precedente, anche se molto riduttivo, ci impone la necessita` di riprendere il discorso sulla conoscenza e sulle diverse possibilita` di alterazione della stessa. In una prima parte mi soffermero` molto sinteticamente sulla conoscenza e sulle singole funzioni che partecipano a questo processo, per evidenziare che una psicopatologia che si limitasse a studiare i disturbi delle singole funzioni, sarebbe riduttiva perche´ valida solo in casi particolari.

3.1. La sensazione Caratteristica peculiare della materia vivente e` la reattivita` agli stimoli ambientali, reattivita` che nel corso dello sviluppo evolutivo si trasforma in sensibilita`, per la formazione di specifici organi (organi di senso) capaci di raccogliere stimoli minimi, come una molecola o un fotone, ma soprattutto di essere altamente selettivi. Dagli apparati periferici gli stimoli vengono inviati, attraverso specifiche vie, al S.N.C. che li decodifica. La maggior parte degli stimoli sono di origine ambientale e vengono raccolti dai cinque sensi di cui sono dotati sia gli animali che gli uomini. Esistono pero` anche stimoli interni, che provengono dal nostro corpo e che, come il dolore e la cenestesi, sono di fondamentale importanza per la conoscenza e per la costruzione dello schema corporeo e quindi dell’apparato psichico. Nei primi mesi di vita e` possibile che la stimo-

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lazione di un organo di senso possa attivare alternativamente o contemporaneamente un altro organo: si tratta di un processo definito transmodale che assume particolare importanza nel processo di costruzione dell’Io. La sensazione pertanto costituisce il gradino piu` primitivo e meno selettivo del processo di conoscenza. Un dato importante e` che gli apparati sensoriali sono attivi fin dagli ultimi mesi della vita fetale, anche se presentano una difformita` nel processo di maturazione. L’apparato che si sviluppera` piu` tardivamente e solo alla nascita e` quello della vista: ne vedremo successivamente le implicazioni.

3.2. La percezione Lo stimolo o gli stimoli, dopo essere giunti al S.N.C., vengono decodificati in particolari e specifiche aree corticali. Pertanto la percezione e` il gradino successivo (anche se molti autori identificano sensazione e percezione) della conoscenza, perche´ ci permette di essere consapevoli che lo stimolo e` dovuto ad un oggetto reale. Come avvenga il processo di percezione e` uno dei problemi piu` complessi e non sempre totalmente chiariti. Valga come esempio il fenomeno della vista. Il processo visivo inizia con l’assorbimento di onde elettromagnetiche da parte delle molecole di rodopsina contenute nei coni e nei bastoncelli della retina. Successivamente questo evento chimico viene trasformato in impulsi elettrici che tramite il nervo ottico giungono al corpo genicolato e successivamente alla corteccia visiva. L’area corticale deputata alla visione e` molto estesa e presenta una grande capacita` analitica; inoltre essa e` in relazione con altre aree corticali, in particolar modo quella temporale. Esistono anche aree estremamente limitate (a pochi neuroni) che sono specializzate e sensibili solo a stimoli altamente specifici: pertanto la visione e` possibile solo con una complessa interazione e correlazione tra queste aree.

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3.3. La rappresentazione ` il processo mediante il quale siamo in grado E di riprodurre nel nostro mondo interno un oggetto o una realta` esterna in assenza di stimolazione. ` una tappa intermedia tra la percezione e E quella successiva dell’ideazione. La rappresentazione e` legata strettamente alla capacita` di conservare i dati percettivi e quindi alla memoria. 3.4. L’ideazione L’ideazione consiste nella formazione e nella coordinazione di piu` idee in costrutti sempre piu` complessi ed articolati. L’idea indica un contenuto della mente che deriva da un processo di progressiva astrazione e categorizzazione delle varie esperienze percettive. Idea viene spesso usata come sinonimo di concetto, anche se quest’ultimo sembra indicare un livello di astrazione maggiore e pertanto posto alla base del processo successivo che e` il ragionamento. 3.5. Il ragionamento Procedimento discorsivo che, con regole sintattiche e grammaticali ben precise e sulla base di argomentazioni e per passaggi successivi, arriva a una conclusione. Rispetto alla genesi della conoscenza ed alla validita` del risultato si distinguono due fondamentali modalita`. Il ragionamento induttivo, che partendo dalla considerazione dei casi specifici e particolari, arriva a conclusioni piu` ampie e generali. Il ragionamento deduttivo che, al contrario, giunge a conclusioni specifiche e particolari partendo da una o piu` premesse generali che possono essere date o come a-priori o come frutto di altri ragionamenti. Queste due modalita` traggono la loro genesi sempre da osservazioni empiriche o comunque da dati della realta` esterna. Esiste infine un terzo tipo di ragionamento,

che puo` prescindere dai dati sensoriali e percettivi e che procede per ipotesi puramente logicoformali: e` il ragionamento tipico della matematica.

3.6. Il pensiero Rappresenta l’attivita` piu` complessa e globale dell’uomo e si identifica con l’integrazione delle funzioni e dei processi mentali piu` complessi per giungere alla formazione-creazione di un pensiero che con i contenuti piu` svariati puo` non avere piu` alcun collegamento diretto con la realta` esperienziale. Il pensiero viene comunicato e quindi reso accessibile attraverso il linguaggio. Uno dei problemi piu` complessi sul quale e` aperto tuttora un ampio confronto e` il rapporto tra pensiero e linguaggio: quanto siamo debitori, ma forse anche schiavi del linguaggio, o se invece il pensiero potrebbe articolarsi anche al di la` del linguaggio. Questo rapido excursus solo per sottolineare le tappe ed i processi che sono ritenuti implicati nella comprensione e, potremmo dire, nella conoscenza in generale. Ovvero come noi conosciamo la realta`, come ce la rappresentiamo e quanto questa rappresentazione influenza a sua volta la conoscenza. In questi ultimi decenni il problema della conoscenza si e` sempre piu` accentrato non tanto sul soggetto in generale, ma sugli organi e le funzioni che sono specificamente deputate alla conoscenza. Quindi sul S.N.C. e sul suo funzionamento: ma quando ci si interroga sul come e perche´ il S.N.C. riesca a trasformare la realta` esterna in un dato interno, ci troviamo di fronte a un paradosso. Infatti la conoscenza dell’apparato della conoscenza vuol dire utilizzare lo strumento della conoscenza per indagarlo: come se l’occhio pretendesse di vedere se stesso. Paradosso che puo` essere superato solo se accettiamo che la mente umana e` qualcosa di piu` della somma delle varie funzioni e delle varie aree associative, senza incorrere pero` nel dubbio “ossessivo” circa l’esistenza o meno di un mondo esterno e la possibilita` di conoscerlo, riaprendo una secolare quanto inutile polemica.

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A. Sokal e J. Bricmont, filosofi analitici, hanno ben sintetizzato l’inutilita` di queste posizioni. «Se qualcuno si accanisse a sostenere che l’unica cosa che esiste nell’universo e` la propria mente, o che il mondo esterno esiste, ma e` impossibile averne una qualsiasi conoscenza (anche approssimativamente) affidabile, non ci sarebbe alcun modo di convincerlo del contrario. Ma non abbiamo mai incontrato un sofista o uno scettico radicale sincero, e dubitiamo che ne esista uno. Il rifiuto pratico di queste dottrine e` obbligatorio, non solo per il fisico, il biologo, ma anche per lo storico, l’idraulico e per ogni essere umano nella sua vita quotidiana». H. Maturana e F. Varela, teorici della complessita`, continuano: «Ci scontriamo allora con grandi difficolta` e resistenze, perche´ ci sembra che l’unica alternativa alla visione del funzionamento del sistema nervoso mediante rappresentazioni e` quella della negazione della realta` circo` come camminare sul filo del rasoio. Da stante. E una parte c’e` una trappola: l’impossibilita` di comprendere il fenomeno conoscitivo se si considera un mondo di oggetti che non ci informa perche´ non c’e` un meccanismo che di fatto permetta tale ‘informazione’. Dall’altra parte un’altra trappola: il caos e l’arbitrio dell’assenza dell’oggettivita` per cui qualunque cosa appare possibile. Dobbiamo quindi imparare a camminare sulla linea mediana, sul filo stesso del rasoio. Da un lato abbiamo infatti la trappola costruita dalla supposizione che il sistema nervoso operi usando rappresentazioni del mondo… Dall’altro lato abbiamo l’altra trappola, quella della negazione dell’ambiente circostante, della supposizione che il sistema nervoso funzioni completamente nel vuoto, per cui tutto ` l’estremo dell’assoluta vale e tutto e` possibile. E solitudine conoscitiva o solipsismo (dalla tradizione filosofica classica che afferma che esiste solamente la propria interiorita`). Ed e` una trappola perche´ non ci permette di spiegare come possa esistere una adeguatezza o una commensurabilita` fra il funzionamento dell’organismo e il suo mondo. Questi due estremi o queste due trappole sono esistiti fino dai primi tentativi di comprensione del fenomeno della conoscenza, sino alle

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sue radici piu` classiche; oggi predomina l’estremo rappresentazionista; in altri tempi ha predominato la visione contraria» (L’albero della conoscenza, p. 121). E J. Mc Dowell aggiunge: «Va superato il Mito del Dato della tradizione empirista senza pero` rinunciare — come farebbero subito, e ben volentieri, molti filosofi post-moderni — all’attrito dell’esperienza, che ci permette di distinguere le nostre elaborazioni intellettuali dai sogni e dalle fantasie. La nozione di esperienza cerca di evitare gli errori opposti del platonismo (che pone la mente umana fuori della natura) e del mero naturalismo, che elimina lo spazio delle ragioni e delle giustificazioni: in realta` l’esperienza non solo causa i nostri pensieri ma li giustifica in un processo in cui mente e mondo interagiscono reciprocamente. L’esperienza e` fin dall’inizio permeata di concetti: ma da cio` non deriva una conseguenza antirealistica. La percezione incontaminata non esiste. Persino quando percepisco passivamente il colore rosso, questa mia percezione e` impregnata di concetti. Ma cio` non significa che tale percezione non ci dica come le cose stanno effettivamente, o che il mondo esterno non abbia a che fare con le nostre ragioni». Ma se epistemologi e filosofi sono concordi nel ritenere che noi conosciamo una realta` esterna che esiste di per se´, rimane il problema di capire come funziona il Sistema Nervoso Centrale, perche´ se e` evidente che non potrebbe esistere una attivita` psichica in assenza di un S.N.C. e` pur vero che questa attivita` non si riduce al puro funzionamento dello stesso. Sicuramente l’attivita` psichica nasce dalla complessa organizzazione ed integrazione delle varie aree cerebrali. Tutto questo ci porta sempre piu` a considerare, come gia` ampiamente affermato nel capitolo 8, che la psiche (che comprende anche le funzioni mentali) non ha una struttura o un topos ben preciso, ma e` uno stato della mente. Questo comporta che i processi psichici sono da ricollegarsi alla cosiddetta ipotesi “emergentista”, secondo la quale i processi complessi sono dovuti a particolari stati di aggregazione e di integrazione della materia vivente: nel caso specifico, del S.N.C.

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Il filosofo J. Searle dice che la caratteristica della “liquidita`” manca ad ogni singola molecola d’acqua, ma emerge dalla loro aggregazione. Quindi inutile continuare a proporre temi riduzionisti, o peggio ancora computazionali: bisogna accettare la complessita` di un organo, il S.N.C., che produce una qualita` diversa, frutto dell’integrazione delle singole parti. Il fatto che il S.N.C. dell’uomo e` simile per il 98% a quello di molti primati non ci dice nulla se non si tiene conto del dato per cui nell’uomo c’e` un 30% in piu` di aree associative. Ma rimane il problema di inverare quanto riusciamo a comprendere, dopo aver capito come riusciamo a cogliere la realta` del mondo esterno. Certamente e` un problema aperto, anche se non alla possibilita` di poter fare qualsiasi affermazione. Sokal e J. Bricmont: «Sono assai frequenti oggigiorno le proposte di ridefinire il concetto di ‘‘verita`’’, tradizionalmente intesa come corrispondenza tra affermazione e realta`, per significare semplicemente l’utilita` oppure l’accordo intersoggettivo. Ma queste ridefinizioni radicali non funzionano. Sarebbe certamente utile far credere alle persone che se guidano in stato di ubriachezza andranno all’inferno o moriranno di cancro, ma questo non basta per rendere vere queste affermazioni. In altre epoche la gente concordava nel dire che la Terra fosse piatta, ma sappiamo ora che sbagliavano. Ne´ utilita` ne´ accordo intersoggettivo sono equivalenti a verita`. Inoltre queste ridefinizioni non riescono neppure, come vorrebbero, a soppiantare la concezione tradizionale di verita`. Dire che qualcosa e` utile (per un determinato scopo) e` gia` un’affermazione oggettiva (dev’essere realmente utile per uno scopo dichiarato) che si basa implicitamente sulla nozione di verita` come corrispondenza. Lo stesso vale per l’accordo intersoggettivo: dire cosa pensano le (altre) persone e` un’affermazione oggettiva che descrive una parte del mondo (sociale) ‘cosı` com’e`’. Se insistiamo tanto sulla distinzione analitica tra essere vero ed essere considerato vero, e` appunto per condividere che la scienza non sia presa come verita`. Ma per mettere in discussione le opinioni prevalenti, e` essenziale tenere a mente

che anche un largo consenso puo` indurre in errore: che esistono fatti indipendenti dalle nostre affermazioni, e che e` nel confronto con i fatti (nella misura in cui possiamo accertarcene) che queste ultime devono essere valutate».

4. Conoscenza della realta`. Rapporto con la realta` Mi sono dilungato sul problema generale della conoscenza; ho cercato di proporre quali sono le modalita` del processo di conoscenza; successivamente ho proposto l’importanza di differenziare la realta` materiale dalla realta` psichica. Credo che a questo punto sia necessario porre una ulteriore distinzione tra due processi, che seppure si integrano debbono essere separati per una piu` accurata comprensione delle dinamiche connesse: conoscenza della realta`, rapporto con la realta`. Quando affermiamo che un paziente presenta un alterato rapporto con la realta`, in genere ci riferiamo allo psicotico. Ma la stessa dizione potrebbe essere applicabile ad un paziente con disturbi organici, come uno stato confusionale o una demenza: e` evidente pero` che si tratta di due alterazioni profondamente diverse. Nel primo caso l’alterazione riguarda il rapporto con la realta` umana, nel secondo caso l’alterazione coinvolge le capacita` di conoscenza della realta` materiale e secondariamente di quella umana. Pertanto possiamo affermare che mentre la conoscenza cosı` come e` stata definita si riferisce prevalentemente alla realta` materiale, il rapporto con la realta` umana implica processi diversi e piu` complessi di conoscenza. Questo non per proporre una ulteriore inutile dicotomia, ma semplicemente per sottolineare un dato fondamentale. Mentre la realta` materiale puo` essere conosciuta attraverso il procedimento induttivo-detuttivo, la realta` umana richiede una modalita` diversa che si basa sul rapporto che attiva una percezione inconscia, dopo di che e` possibile, ma solo dopo, attuare anche una conoscenza che puo` avere i caratteri del processo induttivo-deduttivo. Quindi la comprensione dell’altro e` un feno-

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meno piu` complesso di cui bisogna capire quali sono i procedimenti. Freud e numerosi altri autori sostengono che la comprensione-conoscenza dell’altro avviene attraverso il processo di introiezione-proiezione. Se cosı` fosse, come facciamo a distinguere un processo “normale” da uno patologico? Se ci limitassimo esclusivamente ad un contenuto macroscopicamente alterato (come il delirio o la paranoia) e` chiaro che sfuggirebbero alla nostra attenzione tutta una serie di “proiezioni normali” (cioe` con contenuto plausibile) per cui diventa impossibile poter definire la verita`. Non e` un caso che quando due persone non sono d’accordo sulla lettura di un loro comportamento possono accusarsi reciprocamente di “aver proiettato sull’altro” un proprio desiderio o fantasticheria: accusa reciproca che potrebbe durare all’infinito. Ma anche accettando il concetto di proiezione, bisognerebbe capire attraverso quali meccanismi essa avvenga. Tutti conoscono l’assioma freudiano della dinamica del paranoico. La proposizione, inaccettabile per un uomo, di avere un’attrazione omosessuale che si esprimerebbe con la frase: «io amo lui» viene ribaltata in quella piu` accettabile «non lo amo, anzi lo odio», e subito dopo avverrebbe la vera proiezione: «non sono io che lo odio, e` lui che mi odia». Questa dinamica sembra la trasposizione a livello metapsicologico del noto gioco delle tre carte. Gli stessi J. Laplanche e J. B. Pontalis sono perplessi non solo circa la genesi, ma anche circa l’uso di questo processo, non solo per spiegare fenomeni patologici ma anche per spiegare il normale processo di apprendimento e conoscenza. Il concetto di proiezione gode comunque di ampio consenso, visto che viene accettato anche dalla psichiatria clinica per spiegare le allucinazioni. Ma proiettare significa che una persona mette fuori di se´ una immagine o un affetto: e` possibile che questo avvenga, ed in che modo? Attraverso quali canali viene attuata (sensoriali, telepatici o altri)? Non sembra che tutto questo sia stato mai chiarito. Certamente il termine proiezione e` talmente

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usato ed entrato nell’uso comune, ma soprattutto sembra cosı` utile a spiegare tutto, che non ci si sofferma piu` a pensare se questo meccanismo esiste e se possa essere utilizzato per la comprensione di dinamiche psicologiche e soprattutto psicopatologiche. La proposizione di H. Kohut che la comprensione avvenga per “empatia e introspezione” sembra essere molto piu` accettabile, anche se non sempre molto definibile. Pertanto dobbiamo esaminare se nell’ambito della “comprensione-conoscenza” dell’altro ci siano delle dinamiche piu` specifiche e forse piu` complesse dei meccanismi della conoscenza cosı` come descritta per la realta` materiale. Ho sottolineato precedentemente che la sensazione e la percezione sono i due processi primari della conoscenza. Forse puo` essere utile rivedere se questi processi, nell’ambito della conoscenza interumana, possono presentare peculiarita` che li diversificano dalla percezione della realta` materiale.

4.1. Sensazione e percezione nella conoscenza della realta` umana A me sembra che la teoria della nascita di M. Fagioli, prevalentemente esposta in Istinto di morte e conoscenza, debba essere ripresa come filo conduttore. Sottolineo che cito questo libro non a caso, perche´ non a caso il termine “conoscenza” viene posto come tema centrale per l’uomo. Negli ultimi mesi della fase endouterina, il feto da una parte recepisce numerosi stimoli anche dall’ambiente esterno, perche´ alcuni apparati sensoriali come l’udito sono attivi e funzionanti; dall’altra vive una situazione molto singolare che gli permette di realizzare il senso di un rapporto totalmente umano. «Il bambino nell’utero, attraverso la cute, aveva la capacita` di realizzare, percependo le qualita` dell’oggetto (calma, calore) l’esistenza dell’oggetto… In una situazione di cecita` fisica il bambino puo`, dalle qualita` dell’oggetto, realizzare una esistenza-presenza dell’oggetto stesso. Il

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bambino percepisce con le sue possibilita` che dobbiamo considerare libidiche le qualita`, le caratteristiche dell’oggetto e ne realizza l’esistenza» (Istinto di morte e conoscenza, pp. 110-111). Sicuramente c’e` una innata disposizione al rapporto fin dalla fase fetale: anche se questo puo` sembrare poco dimostrabile dal momento che il feto vive l’impossibilita` di distinguere un Io da un non-Io. Questa disposizione e` su base libidica, ed e` la stessa, seppur piu` complessa, che permettera` al neonato, una volta immesso nel mondo della realta` materiale, di cercare un altro rapporto umano. Comunque da questa situazione endouterina, ove dominano la omeostasi e la protezione da stimoli nocicettivi, improvvisamente il feto subisce la prima fondamentale crisi della sua vita: la nascita. C’e` una radicale trasformazione ed in tempi anche molto brevi: non solo vengono attivate funzioni fondamentali, come la respirazione e la circolazione del sangue, ma soprattutto il neonato si trova ad essere bombardato da una quantita` enorme, eccessiva, di stimoli nuovi e soprattutto non piacevoli. Inoltre c’e` una novita` assoluta, che e` la luce, dovuta alla attivazione dell’apparato visivo. Pertanto il neonato si trova improvvisamente ad affrontare una realta` nuova, quella materiale, che e` fatta di luce, di freddo, di stimoli intensi e diversi da risultare comunque dolorosi. Non dobbiamo dimenticare che per giungere a questa esperienza egli ha dovuto vivere una esperienza non meno drammatica: l’attraversamento del canale del parto. Possiamo ipotizzare che il neonato di fronte a questa situazione traumatica, costituita dalla presenza inevitabile di una realta` materiale, nuova e aggressiva, cerchi di rifiutarla. Questo rifiuto si esplicita, secondo M. Fagioli, con una doppia articolazione. Da una parte la tendenza a ritornare allo stadio precedente, dall’altra l’annullamento di quella realta` materiale strana ed inquietante. Nell’ambito della teoria pulsionale dobbiamo ritenere che questa dinamica sia possibile per l’emergere di una specifica fantasia, quella di sparizione, espressione dell’i-

stinto di morte: ed e` questa fantasia di sparizione che rende possibile la “tendenza” a recuperare lo stato precedente. Questa proposizione potrebbe sembrare molto “teorica” ed ipotetica: in effetti ci sono delle conferme indirette che provengono sia dall’osservazione diretta del neonato nei primi giorni di vita, sia dalla clinica. Lo studio dei neonati ha dimostrato le sviluppate capacita` sensoriali e percettive, ma soprattutto la “tendenza” a cercare o ricercare situazioni piacevoli. Inoltre, su un piano piu` ampio, sappiamo benissimo che di fronte a situazioni traumatiche anche l’adulto tende a fare il “morto”, che puo` essere una modalita` piu` evidente, sul piano comportamentale, della fantasia di sparizione. Comunque, nella tendenza a tornare indietro e nella impossibilita` materiale di poterla attuare, forse possiamo evidenziare uno degli aspetti fondamentali del bambino nei confronti della realta` esterna (sia materiale che psichica). Egli nei fatti non puo` cambiare la realta` esterna e pertanto deve per forza cambiare qualcosa dentro di lui: e` l’adattamento autoplastico, ben diverso da quello alloplastico che indica la capacita` di cambiare la realta` esterna. Ed in questa impossibilita` materiale a tornare indietro il neonato, sulla base di tracce mnestiche che potrebbero essere prevalentemente tattilicenestesiche, opera un cambiamento fondamentale con la creazione di un’immagine che e` l’inconscio mare calmo. Sicuramente in tutta questa dinamica gioca un ruolo fondamentale il sistema visivo che si attiva solo alla nascita. Ma alla nascita e per un lungo periodo di tempo le capacita` visive del neonato sono molto ridotte. Questa difficolta` di poter fare immagini con stimoli provenienti dall’esterno potrebbe facilitare la creazione di un’immagine che proviene da precedenti situazioni prevalentemente tattilicenestesiche. Se ricordiamo il processo della percezione (o sensazione) transmodale e` probabile che le precedenti sensazioni tattili e cenestesiche attivate dal contatto con il liquido amniotico possono essere

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alla base di una immagine che appunto non deriva da percezioni esterne. A questo punto dobbiamo tentare una precisazione sul processo di sensazione e di percezione. Se riteniamo che tutto cio` che il feto puo` avvertire e` a livello della sensazione, e` solo alla nascita — nella distinzione Io non-Io — che puo` strutturare la capacita` della percezione. Pertanto possiamo definire la percezione come una capacita` diversa e piu` selettiva perche´ legata alla possibilita` di un rapporto oggettuale con possibilita` di formare anche una immagine. In questa ottica, come e` evidente, sensazione e percezione non possono essere considerate intercambiabili. Pertanto dobbiamo pensare che dalla nascita in poi si attivi la capacita` alla percezione che conserva della sensazione la capacita` di sentire le qualita` fisiche, ma riesce a discriminare meglio perche´ oltre quelle fisiche riesce a percepire anche quelle psichiche dell’altro. Alla nascita il bambino possiede una capacita` visiva pari a 1/20, cioe` praticamente vede molto confusamente, per raggiungere i 2/10 verso il sesto mese, e solo a due anni raggiunge la capacita` di 10/10. Nel rapporto con l’A.S., il neonato dovra` confrontare l’immagine primaria (l’inconscio mare calmo) con vissuti e situazioni varie e diverse: l’oggetto potra` corrispondere (oggetto buono) o potra` non corrispondere (oggetto cattivo) alle aspettative del bambino. Pertanto egli sara` costretto a correggere il suo investimento-vedere, la sua capacita` di percepiredistinguere. Perche´ nel rapporto potra` aumentare il suo benessere o il suo malessere. Questa correzione potrebbe costituire il nucleo iniziale della capacita` successiva di poter cambiare il proprio giudizio. Si potrebbe considerare questo il nucleo di una capacita` successiva ¨ berstieg? molto piu` complessa che e` l’U A questo punto possiamo trarre delle prime conclusioni: a)

La realta` materiale, pur avendo una importanza notevole per la sopravvivenza prima e

b)

c)

d)

e)

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per l’adattamento poi, non ha quella ricchezza e quella complessita` che presenta la realta` umana, che costituisce pertanto la fonte primaria per la crescita del bambino. Ed anche successivamente tutto cio` che riguardera` i vissuti ed il cambiamento avverra` a livello psichico e sulla base dei rapporti interumani. Fin dalla nascita il bambino cerchera` non solo un rapporto interumano, ma soprattutto un rapporto soddisfacente e potra` percepire le qualita` della realta` psichica degli altri sulla base di una conferma o disconferma del suo stato primario. Avverra` quindi un cambiamento interno e sara` questo cambiamento a segnalare le qualita` del rapporto interumano e quindi le valenze psichiche dell’altro. La percezione, sia della realta` materiale che di quella umana, diventa sempre piu` distinta: egli sara` non solo in grado di distinguere ma anche di poter operare una inversione di giudizio, qualora i dati della realta` (materiale e/o psichica) disconfermassero la sua precedente percezione. Il bambino affinera` sempre piu` la percezione della realta` psichica dell’altro, sulla base di quanto l’altro gli provoca: dalle proprie emozioni ed affetti egli percepisce la realta` emotiva ed affettiva dell’altro. Pertanto il processo della conoscenza prevede due processi diversi. Mentre la realta` materiale sara` conosciuta a partire dalla percezione fino a giungere al ragionamento, quella psichica avra` un percorso piu` complesso. Anche la conoscenza dello psichico inizia con una percezione che e` legata in parte ad una realta` visibile come il comportamento, la mimica, il linguaggio ed in parte ad una comprensione che ci proviene da quanto noi sentiamo e proviamo di fronte alla realta` psichica dell’altro. Non e` necessario postulare una dinamica di introiezione-proiezione, ma piuttosto una serie di cambiamenti. Mentre per la realta` materiale il processo della conoscenza si attua mediante la registrazione, l’accumulo (la memoria) ed il confronto dei dati, per la realta` psichica entra in

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f)

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gioco invece una dinamica di comprensionecambiamento e di elaborazione del cambiamento. ` ovvio che colui che vuole assumersi il E compito (o l’onere) di comprendere lo psichico deve possedere una sua situazione interna valida e recettiva. Ma esaminiamo cosa succede concretamente di fronte a un paziente che puo` mostrare un comportamento, un linguaggio, una mimica che possono indurci a ritenere che l’altro presenta una patologia schizofrenica. Fin qui ci siamo soffermati a un livello di osservazione che potremmo definire di tipo clinico, che ci fornisce una conoscenza che e` parziale e poco verificabile. Ma lo schizofrenico ha un suo mondo interno e quindi una dinamica di rapporto molto particolare: dinamica che determina nell’osservatore una specifica sensazione definita come Praecoxgefu¨hl, che e` una percezione e una reazione all’incontro con lo schizofrenico. Pertanto l’osservazione-conoscenza produce dei cambiamenti ed e` dall’analisi di questi cambiamenti che lo psichiatra puo` cominciare a comprendere la realta` psichica dell’altro. Solo dopo questa comprensione potra` iniziare anche a spiegare ed eventualmente approfondire la struttura psichica dell’altro: potra` usare anche il ragionamento, ma comunque e` necessario che questo avvenga dopo e non prima e non al posto del processo di comprensione, come ho chiarito prima. La realta` psichica quindi puo` essere percepita e compresa attraverso i cambiamenti che noi recepiamo: ma credo sia utile definire cosa intendo per cambiamenti.

Cambiamento non vuol dire che l’osservatore debba attivare i propri nuclei schizofrenici per comprendere o immedesimarsi nell’altro. Quando noi percepiamo qualcosa della realta` materiale, perche´ questa sia una percezione deve cambiare qualcosa dentro di noi: in questo caso, come abbiamo visto, c’e` un cambiamento che riguarda lo stato dell’apparato periferico e del S.N.C.

Quando noi percepiamo l’essere schizofrenico, perche´ sia una percezione deve cambiare nell’incontro qualcosa dentro di noi: ma questo cambiamento riguarda il nostro assetto psichico globale. Per esplicitare meglio ritorno all’esempio del Praecoxgefu¨hl: questa e` una percezione particolare, che un osservatore psichiatrico, attento e con esperienza, avverte. Percezione dovuta alla presenza di una specifica dinamica dello schizofrenico che e` tale perche´ ha eliminato qualsiasi sua situazione di umanita`. `` questa situazione che viene percepita dall’osE servatore come “estraneita`”, come “essere fatto fuori” o come impossibilita` di rapporto. Se l’osservatore e` capace di essere recettivo e` su questo suo cambiamento che puo` fondare la sicurezza che la realta` psichica dell’altro e` veramente malata. ` a partire da questo cambiamento che egli E potra` poi costruire la sua ricerca e la terapia intesa come spinta a trasformare questa realta` patologica. Sono questi i presupposti per una psicopatologia dinamica: cerchero` in seguito brevemente di descrivere alcuni dei fenomeni piu` importanti ma soprattutto quelli che sono stati meno sviluppati nel presente Manuale. A questo punto e` necessario sottolineare che il processo della conoscenza e` ampiamente condizionato da fattori emotivi ed affettivi. Deliberatamente nella parte precedente ho posto tra parentesi questa connessione allo scopo di rendere meno complesso il problema: questi fattori saranno invece ampiamente considerati nella successiva descrizione di alcuni quadri psicopatologici.

5. Dalla psicopatologia alla clinica Nei precedenti paragrafi ho sottolineato le peculiarita` della psicopatologia dinamica in relazione al problema della conoscenza e quindi a quello piu` specifico della modalita` di osservazione da parte dello psichiatra. Nel passaggio dalla psicopatologia alla clinica si evidenziano ulteriori possibilita` che fanno della psicopatologia dinamica un modello di ricerca altamente specifico. Un primo dato e` il ritenere inutile spiegare la

Elementi di psicopatologia dinamica

psicopatologia alla luce di alterazioni di singole funzioni psichiche, come avviene invece per altre psicopatologie. Un secondo dato e` la possibilita` di distinguere teoricamente concetti che sono spesso ritenuti interscambiabili: ne parlero` a proposito della scissione e della dissociazione. Un terzo e` mostrare come nella ricerca psichiatrica possano evidenziarsi imprevisti quanto imprevedibili fili conduttori, dallo stato crepuscolare all’ipnosi, dalla dissociazione alla personalita` multipla. Ed infine, ma non ultimo, la possibilita` di comprendere che se ci fermiamo al puro piano fenomenologico e` facile confondere, per superficiali similitudini, disturbi di natura organica con disturbi di natura psicologica: credo che questa imprecisione abbia fortemente alimentato l’ideologia della natura organica dei disturbi psichiatrici.

5.1. Psicopatologia della coscienza Desidero iniziare con i disturbi della coscienza anche perche´ ad un lettore disattento potrebbe sembrare che questa problematica sia stata trattata molto superficialmente, soprattutto se confrontata con i numerosi autori che hanno dedicato capitoli interi ai disturbi della coscienza. Comunque tali disturbi della coscienza, una volta unificati, debbono essere successivamente suddivisi almeno in disturbi quantitativi e qualitativi. I primi attengono ad una patologia della vigilanza e sono prevalentemente di origine organica: pertanto in questo Manuale sono stati descritti al cap. 34 ‘‘Reazioni Organiche Acute’’. I secondi che riguardano invece la patologia dell’attenzione, dei contenuti della coscienza e della memoria, quasi sempre di origine psicologica, sono stati descritti al cap. 27, “Reazioni Psicogene acute”. Quindi ho preferito tener conto dell’eziologia e non di vaghe somiglianze del quadro clinico: rimando pertanto ai due rispettivi capitoli per un approfondimento dell’argomento.

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In questa sede invece mi soffermero` su di un quadro clinico singolare: lo stato crepuscolare.

5.2. Lo stato crepuscolare Come la visione ha un campo visivo che puo` restringersi per cause patologiche, cosı` anche la coscienza ha un campo di coscienza. Per campo di coscienza si intende la normale capacita` del soggetto di spaziare da un contenuto di coscienza all’altro con estrema facilita`. Nello stato crepuscolare, invece, il campo di coscienza si restringe limitandosi ad alcuni contenuti, in genere a forte carica emotiva, mentre e` evidente lo scotoma su tutta la realta` circostante. Il paziente esclude il mondo esterno e non risponde ad alcuno stimolo. In uno stato di tipo onirico vive tematiche a forte contenuto emotivo, spesso accompagnate da manifestazioni allucinatorie prevalentemente visive. La durata dello stato crepuscolare e` piuttosto breve; alla fine dell’episodio si evidenzia come dato di estremo interesse un’amnesia piu` o meno completa dell’episodio accaduto. Le cause possono essere organiche o psichiche. Sul piano organico la causa piu` frequente e` rappresentata dall’epilessia: lo stato crepuscolare puo` manifestarsi o come equivalente di una crisi epilettica, soprattutto nell’epilessia temporale, oppure nella fase sub-confusionale che segue la fine di un’attacco di grande male. Il paziente inebetito, perplesso, disorientato nel tempo e nello spazio presenta una compulsione alla fuga: non e` infrequente che in questo vagabondaggio possa commettere atti criminosi. In altri casi invece il paziente rimane immobile o in uno stato estatico a causa di allucinazioni visive di tipo mistico (visione della madonna, di angeli ecc.) o in uno stato di grande angoscia se le allucinazioni hanno carattere terrifico (visione di diavoli, di mostri ecc.). Lo stato crepuscolare epilettico quindi sembra essere in grado di poter esprimere solo le due situazioni estremizzate del bene e del male e soprattutto non personalizzate. Ma lo stato crepuscolare puo` essere anche di

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origine psichica. Si tratta di caratteri isterici che, in seguito ad una grave delusione, presentano un quadro allucinatorio molto particolare: tendono a rivivere allucinatoriamente la presenza di una persona scomparsa o assente, dialogano con questa, mentre non rispondono ad alcuna sollecitazione esterna. A differenza dell’epilessia, nella quale e` evidente una disgregazione del campo di coscienza, nello stato crepuscolare isterico c’e` invece una forte polarizzazione su di un evento specifico e significativo della vita del paziente, anche se vissuto in modo abnorme. Un dato di estremo interesse e` il fatto che alla fine dell’episodio si instaura un’amnesia piu` o meno completa dell’episodio. Lo stato crepuscolare isterico presenta notevoli somiglianze con un particolare stato della coscienza, che e` lo stato ipnotico. Come nello stato crepuscolare, anche nello stato ipnotico il soggetto e` fortemente concentrato su se´ stesso e sui propri contenuti emotivi, oltre che sulla figura dell’ipnotizzatore; scotomizza tutta la realta` circostante, ed alla fine dello stato ipnotico presenta un’amnesia completa. Amnesia molto singolare perche´ il soggetto, dopo il risveglio, puo` mettere in atto dei comandi o dei suggerimenti ricevuti dall’ipnotizzatore durante lo stato di trance, comportamenti di cui il paziente non riesce a comprenderne le motivazioni. P. Janet, che studio` ed adopero` a fini terapeutici l’ipnosi, riteneva che questo fenomeno singolare fosse dovuto ad un restringimento del campo di coscienza dell’ipnotizzato, che si concentrava esclusivamente sulla figura dell’ipnotizzatore tanto da rischiare nel tempo, se l’ipnosi veniva ripetuta in maniera non corretta, uno stato di forte dipendenza. Per ulteriori particolari cfr. La passione sonnambulica. Scritti di P. Janet (a cura di N. Lalli), Liguori Editore, 1996. Ma in cosa consiste l’ipnosi?

5.1.2. L’ipnosi e la trance

Fromm e Nasc la definiscono cosı`: «…uno stato modificato di coscienza caratterizzato da un

aumento dell’assorbimento nell’esperienza interna mentre, parallelamente, si modifica o si riduce la percezione dell’ambiente esterno e l’interazione con esso». Per Granone «…l’ipnotismo e` la possibilita` di indurre in un soggetto un particolare stato psicofisico che permette di influire sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del soggetto stesso, per mezzo del rapporto creatosi fra questo e l’ipnotizzatore … L’ipnosi e` un modo di essere dell’organismo per l’azione di determinati stimoli dissociativi che lo fanno regredire a livelli di comportamenti parafisiologici». Vorrei sottolineare tre aspetti qualificanti dell’ipnosi: a) b)

c)

` uno stato psicofisico dovuto ad una partiE colare modificazione della coscienza. Questa modificazione e` legata ad una dinamica di dissociazione con emergenza di contenuti emotivo-affettivi che possono indurre modificazioni somatiche e viscerali. Alla fine della fase ipnotica c’e` una amnesia completa, anche se rimane il “ricordo” di eventuali ordini dati nel corso dell’ipnosi.

La maggior parte degli autori ritiene l’ipnosi (sia quella autoindotta che eteroindotta) legata ad una particolare influenzabilita` dei soggetti presente in una percentuale che si aggira intorno al 10% della popolazione. Durante lo stato ipnotico sono presenti modificazioni neurofisiologiche rilevabili all’E.E.G. Secondo Bliss, nell’ipnosi e` compromessa la capacita` di attenzione che nel normale stato di veglia e di vigilanza puo` spostarsi da un contenuto all’altro e dall’esterno all’interno e viceversa. Nell’ipnosi questa capacita` viene inibita, con conseguente concentrazione su uno o piu` vissuti spesso spiacevoli, che al risveglio tendono a dissociarsi dalla coscienza, creando cosı` uno stato di amnesia lacunare. Questi fenomeni possono essere presenti anche in situazioni diverse dall’ipnosi ma con gli stessi meccanismi e dare luogo ai cosiddetti “Modificati Stati di Coscienza”.

Elementi di psicopatologia dinamica

5.1.3. Modificati Stati di Coscienza (M.S.C.)

Si intendono per M.S.C. stati di trance conseguenti alla normale capacita` neurofisiologica del S.N.C. di attivare un meccanismo di dissociazione, in particolari situazioni mentali o per effetto di specifiche droghe. I M.S.C. possono essere autoindotti (autoipnosi) o eteroindotti (ipnosi). L’induzione puo` essere facilitata dall’uso di particolari droghe o mediante particolari tecniche, come ad esempio stimoli acustici ritmici e prolungati (ad es. il tamburo) che producono modificazioni evidenziabili all’E.E.G. (onde teta 4-7 c/s). Altre cause che possono indurre M.S.C. sono: a) l’iperventilazione; b) l’ipoglicemia; c) la deprivazione sensoriale o di sonno; d) l’ipermobilita` o l’immobilita` protratta; e) le stimolazioni intense e prolungate. Spesso, soprattutto nelle cerimonie religiose con fini di cura, i vari agenti possono essere utilizzati contemporaneamente. Lo stato di trance e` quindi un fenomeno comune e facilmente inducibile. Nota giustamente Lapassade che, essendo la trance un fenomeno fisiologico e non un mistero, ci si dovrebbe interrogare sul perche´ essa e` stata rimossa piuttosto che continuare a rimuoverla. I fenomeni prodotti dai M.S.C. sono: a) temporanea modificazione dello stato di vigilanza/attenzione; b) capacita` di attenzione focalizzata o selettiva; c) suggestionabilta`; d) variazioni della sensibilita` (anestesia); e) amnesia alla fine dell’episodio; f) stati illusionali o allucinatori; g) intensificazione di esperienze emozionali che finiscono con l’assumere significati particolari. Qual e` l’eziologia dei M.S.C.? Sul piano neurofisiologico, nonostante la mole di lavori, non si e` giunti ad una conclusione univoca. Secondo Mandell, i M.S.C., pur nella diversita` fenomenologica, sono sempre dovuti ad un unico meccanismo di base: azione inibitoria dell’amigdala, disinibizione del lobo temporale e duratura ipersincronia del setto ippocampale.

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Sul piano psicodinamico, molti AA. ritengono il fenomeno dei M.S.C. quale espressione delle capacita` fisiologiche della mente di potersi dissociare di fronte ad eventi traumatici. Concetto molto simile a quanto proposto da P. Janet con il concetto di ‘‘disaggregazione psichica’’; Bliss ritiene lo stato di trance un normale meccanismo adattativo nell’ambito dell’evoluzione umana.

5.1.4. La Personalita` Multipla

Il disturbo denominato Personalita` Multipla (P.M.) rappresenta la variante piu` frequente dei M.S.C. In questi casi il M.S.C. e` autoindotto ed il soggetto non e` consapevole dell’esistenza di un’altra personalita` a causa di una amnesia. Il concetto di P.M., molto in voga nella psichiatria di fine ’800, tende a scomparire nei primi anni del ’900, mentre permane molto forte il fascino di questa singolare condizione umana nella letteratura e nel cinema. Ricompare improvvisamente negli U.S.A. intorno al 1970 ed in poco tempo si trasforma in una sorta di epidemia; dagli anni ’80 in avanti i casi di P. M. si sono decuplicati, finendo con l’assumere un aspetto abbastanza inquietante. Tra gli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 vengono riportati nella letteratura psichiatrica diversi casi di P.M.; gli AA. sostengono che in questi casi e` stata rilevata un’elevata frequenza di abusi sessuali subı`ti dai pazienti nell’infanzia. Situazione traumatica che viene considerata causa della P.M.: infatti il bambino, di fronte a questa situazione traumatica, attiva un meccanismo di dissociazione con conseguente formazione di una seconda personalita`. Con gli anni ’80, improvvisamente, c’e` un’epidemia di P.M.: non solo cresce il numero dei casi diagnosticati, ma di pari passo cresce anche il numero delle personalita` all’interno della P.M. (da 5 a 10 personalita`). A questo punto si pone il problema di comprendere il motivo di questa escalation e in che modo i fattori culturali o sociali possono influire. Infatti e` evidente che o questa sindrome e` stata misconosciuta e sottovalutata nel passato, oppure che c’e` una tendenza ad utilizzare una categoria diagnostica per fini diversi.

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Spanos, in una prospettiva socio-cognitiva, e` molto perplesso circa la validita` di questa etichetta diagnostica. Pur riconoscendo che esiste un meccanismo di base difensivo (M.S.C.-dissociazione) ritiene che questo meccanismo puo` essere sfruttato in maniera determinante da fattori culturali e sociali. Egli ritiene che la P.M. possa veicolare il tentativo di risolvere un conflitto, oppure una modalita` di agire piu` o meno consapevolmente una opposizione, o deliberatamente (e saremmo quindi nel caso della simulazione) per difendersi da responsabilita` di tipo penale. Di quest’ultima utilizzazione sono riportati casi eclatanti: l’ultimo in ordine di tempo e` quello di un uomo che, accusato di aver violentato una donna, si e` difeso sostenendo che a violentarla non e` stata la sua vera personalita`, ma quella alternante. Il giudice ha ritenuto di dover sospendere ogni giudizio, in attesa che gli psichiatri si pronuncino. Spanos ritiene che spesso questo disturbo viene indotto, piu` o meno consapevolmente, dagli operatori psichiatrici che, con una serie di domande, possono fornire al paziente predisposto gli strumenti per ritenere di essere una personalita` multipla. Perry (1972) ha valutato che il 17% dei terapeuti che trattano la P.M. sono loro stessi pazienti o ex pazienti diagnosticati come P.M. o con disturbi dissociativi. Ma soprattutto Spanos evidenzia che c’e` una stretta correlazione tra aumento di diagnosi di P.M. e movimento evangelico cristiano. «...La storia di Michelle (dal libro Michelle ricorda, ove viene raccontata la storia di una donna con disturbi psicologici che aveva subı´to torture da rituali satanici durante l’infanzia) diviene parte della propaganda utilizzata dal movimento evangelico cristiano che assunse sempre piu` importanza in molti aspetti della vita sociale e politica americana, durante gli anni ’80. Questo movimento rinvigorı` la mitologia del satanismo. Come gia` avvenuto nel XVI e XVII secolo, questa mitologia nuovamente rafforzata sostiene l’esistenza di una cospirazione multinazionale po-

tente, ma segreta, che esegue dei crimini orrendi. ... Una parte dei terapeuti che si identificano come cristiani attivi si sono uniti al movimento P.M. negli anni ’80, e ben presto racconti come quello di Michelle cominciano a ripetersi tra gli altri soggetti affetti da P.M. Entro la meta` degli anni ’80, il 25% dei pazienti con P.M. in terapia aveva riscoperto ricordi di un abuso da rituale satanico, ed entro il 1992 la percentuale di persone che aveva riscoperto tali ricordi era pari a circa l’80%». Possiamo affermare quindi che la coscienza, per motivi vari (dalla trance a situazioni traumatiche) puo` andare incontro ad un particolare disturbo che e` la dissociazione. Esistono altre patologie e comunque i disturbi della coscienza sono importanti sul piano diagnostico, e pertanto e` necessario distinguerli dalle altre patologie. Per esempio, molto spesso lo stupor e` compreso tra i disturbi della coscienza: in realta` lo stupor, che puo` essere catatonico o depressivo, indica una situazione di completa abolizione della dimensione relazionale, e quindi nulla ha a che fare con i disturbi della coscienza. Inoltre, sempre a proposito di psicopatologia della coscienza, sembra utile sottolineare un altro concetto che spesso e` usato in psicopatologia, ma senza una chiara definizione: lucidita` della coscienza. Con questo termine si indica che non c’e` alcuna compromissione dello stato di coscienza e che pertanto gli eventuali disturbi (soprattutto allucinatori) sono dovuti ad una patologia piu` grave e diversa: come ad es. la schizofrenia. La lucidita` della coscienza e` uno dei requisiti fondamentali per porre, nei casi dubbi, la diagnosi di schizofrenia che deve essere invece messa in dubbio se si evidenzia uno screzio confusionale. I disturbi della coscienza ed i collegati fenomeni dissociativi mi inducono a delineare il controverso problema della dissociazione e della scissione, dinamiche che sono troppo spesso ritenute intercambiabili e che hanno creato confusione sul piano diagnostico e su quello della comprensione psicodinamica.

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5.2. Dissociazione. Scissione. Frammentazione Frequentemente nella letteratura psichiatrica i termini dissociazione e scissione sono ritenuti intercambiabili, creando notevole confusione anche e soprattutto dal momento che il concetto di dissociazione e` storicamente legato a quello di schizofrenia. Cerchero` di dimostrare, invece, che tali concetti esprimono dinamiche e psicopatologie diverse. Il termine dissociazione e` proposto da W. James che, traducendo in questo modo il termine di P. Janet di de´saggre´gation, ne accetta anche l’ipotesi che questo processo sia la causa dei disturbi isterici per una separazione-dissociazione di particolari nuclei ideo-affettivi dal campo di coscienza. Successivamente E. Bleuer, nel 1913, individua nella dissociazione (spaltung) la base della schizofrenia: da questo momento iniziera` una sovrapposizione terminologica. Il termine dissociazione verra` tradotto prevalentemente con splitting nella lingua anglosassone, con clivage in quella francese e con dissociazione in italiano; data l’importanza assunta da Bleuer nella definizione-spiegazione della schizofrenia, dissociazione finira` per indicare in genere il fenomeno psicopatologico tipico della schizofrenia. Nello stesso periodo S. Freud utilizza il termine scissione ma, comprendendo il rischio di una confusione terminologica, correttamente usera` due diverse dizioni. Con Bewusstseinspaltung indichera` la dissociazione della coscienza, fenomeno tipico dell’isteria. Mentre con Ichspaltung indichera` un disturbo strutturale dell’Io, presente nelle psicosi e causato da un meccanismo specifico che e` il diniego. Successivamente questa formulazione sara` ripresa dalla scuola inglese (Fairbain, Klein, ecc.) che distinguera` una scissione dell’Io e una scissione dell’oggetto, proponendo che a una scissione interna corrisponda anche e sempre una scissione esterna: l’oggetto buono e l’oggetto cattivo. Comunque nel tempo la confusione termino-

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logica tendera` ad aumentare: ne e` dimostrazione che due AA. pur molto esperti, come G. Benedetti e M. Peciccia, nell’utilizzare il concetto di dissociazione a proposito della schizofrenia, sono costretti a distinguere la dissociazione isterica dalla dissociazione schizofrenica. E non si comprende perche´ viene utilizzato lo stesso termine per due patologie molto diverse. Negli U.S.A. il concetto di dissociazione finira` per essere utilizzato quasi esclusivamente per disturbi di tipo isterico: il libro di Michelson e Ray, Handbook of dissociation (1996), ne e` una chiara dimostrazione. Si crea cosı` una nuova categoria diagnostica che e` quella dei Disturbi Disso` evidente che questi disturbi, per fenociativi. E menologia e dinamica, sono dei tipici disturbi isterici. Anche il DSM-IV si uniformera` su questa posizione, con la categoria diagnostica: Disturbi Dissociativi. La caratteristica essenziale dei Disturbi Dissociativi e` «…la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, della identita` o della percezione dell’ambiente»; essi comprendono: — — — — —

amnesia dissociativa; fuga dissociativa; disturbo dissociativo dell’identita` (equivalente della personalita` multipla); disturbo di depersonalizzazione; disturbo dissociativo N.A.S.

Pur non essendo d’accordo con una nosografia, che ancora una volta accomuna disturbi diversi, credo che sia accettabile la definizione di “dissociazione”. Ma quale e` la dinamica della dissociazione? G. Liotti afferma: «la discontinuita` della coscienza e della memoria, non causata da lesioni organiche cerebrali, da stati tossici o infettivi, o dall’uso di droghe, costituisce una difesa automatica della mente di fronte ad eventi psicologicamente traumatici… Dobbiamo a Bliss la teoria piu` articolata e documentata che riconnette la discontinuita` della coscienza e della memoria osservata nei Disturbi Dissociativi, alla fenomenologia dell’ipnosi. Secondo tale teoria, la dissociazione conseguente ad eventi traumatici e` assimilabile

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ad una sorta di trance ipnotica spontanea, automaticamente autoindotta nella vittima del trauma». Secondo l’autore questo stato di trance e` utile per «…ridurre il dolore (essendo associato ad analgesia o ridotta percezione cosciente del dolore) e per recuperare precocemente, attraverso l’amnesia degli eventi accaduti durante la trance, l’integrita` del comportamento qualora riesca a sfuggire il trauma (integrita` che sarebbe ridotta, per il perdurare della paura qualora si conservasse viva memoria del pericolo mortale corso)». Pertanto, per dissociazione deve intendersi un fenomeno psicopatologico che presenta caratteristiche tipiche dei fenomeni isterici. Invece per scissione deve intendersi un processo psicopatologico piu` grave e permanente perche´ colpisce la struttura dell’Io, che si scinde in due parti corrispondenti a due dinamiche affettive e relazionali opposte: un dato importante e` che il soggetto ne e` parzialmente consapevole. La scissione si evidenzia sul piano comportamentale e relazionale, come ambivalenza. Anche per la scissione possiamo ritenere che ci sia un’origine traumatica, ma evidentemente deve presentare caratteristiche diverse dalla dissociazione. Infatti la scissione e` dovuta a traumi psichici ripetuti nel tempo per un grave disturbo relazionale dell’A.S. con il bambino. Quest’ultimo, per difendersi dall’incomprensibilita` dell’A.S., ma per mantenere comunque un legame con la figura significativa, deve scindersi, come deve scindere anche l’oggetto. Una paziente che aveva avuto gravi problemi con la figura materna, da adulta e sulla base di alcune esperienze con il figlio di cinque anni si ricorda che da bambina era convinta di avere due madri. Questa convinzione nasceva dalla imprevedibilita` e dal sadismo della madre; nell’impossibilita` di comprenderne lo stato d’animo, la paziente presentava una reazione quasi allucinatoria: che la madre avesse due aspetti o addirittura che lei avesse due diverse madri. «A volte, quando rientrava a casa, mi sembrava che avesse un viso diverso e a volte che fosse vestita anche in maniera diversa». ` evidente che la scissione non puo` ritenersi E

un normale processo dello sviluppo psichico, ma deve essere considerata una psicopatologia che, ove presente, da` luogo ai cosiddetti ‘‘Disturbi di Personalita` ’’ (vedi Capitolo 22). Ma se la dissociazione e` tipica dell’Isteria e la scissione dei Disturbi di Personalita`, cosa c’entra la schizofrenia? Gia` nel Capitolo 31 ho chiarito che lo stesso Bleuer era convinto che il vero disturbo della schizofrenia fosse da attribuirsi non tanto alla dissociazione (spaltung), ma ad un fenomeno sottostante definito Zerspaltug, che si puo` tradurre con frammentazione. Quindi nella schizofrenia, soprattutto nei casi acuti e disorganizzati, si evidenzia una frammentazione del pensiero, epifenomeno della frammentazione dell’apparato psichico. Ma oltre la frammentazione sono presenti altri disturbi singolari e diversi che inducono a una riflessione piu` approfondita sulla natura della schizofrenia. 5.3. La natura della schizofrenia Uno dei principali dibattiti che hanno attraversato la storia della schizofrenia riguarda il quesito se il disturbo di base debba ascriversi ad un minus, cioe` a un difetto, o se al contrario debba considerarsi la presenza di un plus, di una diversita` alienata. Comunque il dibattito rimane aperto e l’ipotesi difettuale, che sembra essere predominante, non riesce a spiegare la complessita` di questa malattia. Nel riprendere questo dibattito mi sembra utile concentrare la riflessione su due singolari manifestazioni della schizofrenia: il manierismo e la perdita dell’evidenza naturale. Nel primo caso si tratta di un plus, nel secondo e` evidente che ci si riferisce a un minus. 5.3.1. Il manierismo

Da alcuni decenni il concetto di manierismo e` pressoche´ scomparso dalla clinica della schizofrenia, perche´ confuso con banali disturbi motori

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come le stereotipie, o peggio ancora confuso con i disturbi extra-piramidali dovuti all’uso dei neurolettici; questi ultimi, in effetti, con la creazione di uno stato difettuale di natura iatrogena, tendono a coprire eventuali manifestazioni manieristiche. Gia` Kahlbaum, nel definire il quadro della catatonia, aveva notato la presenza di questi gesti goffi affettati, impropri, come una caratteristica frequente. Anche Kraepelin e successivamente Bleuer avevano sottolineato l’importanza dei manierismi. Per Bleuer il manierismo si mostra in tutta la sua evidenza soprattutto nel linguaggio: lo stile manierato e` ricercato, pomposo, ridondante; espongono banalita` con espressioni altisonanti e contorte e con un tono «…come se fossero in gioco i piu` alti interessi dell’umanita`». Comunque, l’autore che piu` di ogni altro si e` soffermato sul manierismo e` certamente Binswanger che, in Tre forme di esistenza mancata, considera, accanto all’esaltazione fissata ed alla stramberia, il manierismo come una delle modalita` piu` appariscenti del fallimento esistenziale. F. Barison ritiene il manierismo non solo presente in tutte le diverse forme di schizofrenia, ma come l’essenza della malattia stessa. Secondo questo autore, le caratteristiche del manierismo sono: la parassitarieta`, l’intenzionalita` ed il finalismo espressivo, modalita` che portano lo schizofrenico a proporsi nella sua alterita`. Anche per M. Fagioli il manierismo e` la manifestazione fondamentale della schizofrenia: «…lo schizofrenico non e` soltanto un uomo chiuso al mondo, non e` soltanto un autistico, ma e` un autistico manierato; esiste un manierismo che e` qualcosa di particolare e di unico per lo schizofrenico». Nel libro La marionetta e il burattino, nel proporre una diagnostica differenziale con il simplex che rappresenta la forma piu` povera della schizofrenia, cosı` egli descrive il manierismo: «…La possibilita` di rendere inesistenti gli affetti nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla… Il suo pensiero e` la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero e di cio` che non e` materiale da cio` che e` materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della

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mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia, la fantasia di sparizione, che rende inesi` la recita stente se´ e gli altri». Ed aggiunge «… E di un uomo che non vuole andare incontro a delusioni, non vuole diventare castrato, cioe` pieno di odio e rabbia in un rapporto sadomasochistico con gli altri. Diventa e preferisce essere manierato, affettato, legnoso. Ha scelto la strada dell’opposizione e del rifiuto portando il suo modo di essere nel rapporto con gli altri ad un modo di essere pantomimico… E rifiuta anche di vivere e rivelare la sua realta` di poppante desideroso di carezze. Da questo rifiuto nasce la persona manierata, affettata, cortese, che tende sempre a tenere lontano l’altro, a distanziarlo fino a paralizzarlo nella piu` disumana espressione dell’esibizionismo della schizofrenia catatonica» (La marionetta e il burattino, pp. 98-100). Queste affermazioni sono state ulteriormente ribadite in un convegno sul “Manierismo schizofrenico” (vedi bibliografia). Da parte mia, nel riproporre il caso Ho¨lderlin, sostenevo il manierismo come un sintomo certamente importante e di cui si puo` comprendere il significato. Nel 1807, a 37 anni, il poeta vive ormai in preda a una forma di schizofrenia catatonica a Tubinga, presso il falegname Zimmer che lo ospita. Riporto due brani del mio intervento per chiarire ulteriormente il problema: L’abbigliamento e` bizzarro, trasandato, capelli incolti, unghie lunghissime che non vuole assolutamente che gli vengano tagliate e in queste condizioni suona ripetutamente, monotonamente, ossessivamente, sempre gli stessi brani su di una spinetta. Questo suono ossessivo ed iterativo ed una altrettanta iterativa verbigerazione senza senso e con voce tonante sono i primi segni della presenza del poeta, per quei tanti visitatori che, da varie parti della Germania, vengono a visitarlo. Alcuni per amore, altri per pieta`, altri per semplice curiosita`. Il successo di Iperione, e la traduzione delle tragedie di Sofocle hanno reso famoso il poeta. Aperta la porta, lo spettacolo che compare ai visitatori e` tra l’inquietante e il patetico fino a scivolare a volte in situazioni al limite del ridicolo, per la bizzarria del comportamento manierato.

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A questo punto, molto brevemente, vorrei riportare alcuni brani di persone che hanno visto Ho¨lderlin in queste condizioni. Il primo e` un ragazzo appena diciottenne che morira` trentenne a Roma; e` un poeta non molto famoso, ma e` una persona di grande umanita` che praticamente dedica due anni della sua vita a fare compagnia a Ho¨lderlin. Credo che sia la persona che piu` di ogni altro ci possa dare indicazioni sullo stato mentale di Ho¨lderlin. Cito alcuni passi essenziali del suo diario su Ho¨lderlin. «Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un’interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una magra figura che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le piu` cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso e che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare con “Sua Maesta`, Sua Santita`, Gentile Signor Padre...”. Le visite inquietano Ho¨lderlin grandemente, le riceve sempre di malavoglia. Una volta ebbi modo di ripetergli, dopo infinite volte, che il suo Iperione era stato ristampato e che Uhland e Schwab stavano curando l’edizione delle sue poesie. Come unica risposta Ho¨lderlin si produceva in un profondo inchino, accompagnato da queste parole: “Voi siete molto benevolo, signor Von Waiblinger, vi sono molto grato Vostra Santita`”. E troncava il discorso in questo modo».

Waiblinger aveva preso una casetta sulle colline della vallata del Neckar: «Salivamo lassu` ed entrando nella stanza, Ho¨lderlin si inchinava ogni volta raccomandandosi in maniera assolutamente pressante alla mia benevolenza e al mio affetto. Si produceva costantemente in vuote frasi di cortesia come se in questo modo volesse tenere a grande distanza gli altri. Se si desidera individuare un senso nel suo comportamento non puo` essere che questo».

Questo ragazzo di 19 anni riesce a cogliere acutamente questa peculiare modalita` del manierismo: tenere a distanza gli altri, allontanarli, non permettere che possano avvicinarsi troppo. Ma

Waiblinger coglie un’altra cosa che a me sembra rilevante, quando afferma: «A volte Ho¨lderlin si sedeva di fronte alla finestra aperta e magnificava il panorama con parole comprensibili. Notai anche che quando era immerso nella natura, aveva un rapporto sereno con se stesso».

Spesso persone che hanno subito gravi delusioni nei rapporti interpersonali riescono ad avere come unico referente la natura e nella contemplazione della natura in qualche modo ritrovano un minimo di calma e di tranquillita`. «In un modo o nell’altro, a meno che non si trovasse in uno stato di completa apatia, egli era perennemente occupato con se stesso, ma se un visitatore andava a trovarlo, le circostanze piu` fortuite potevano renderlo chiuso e inaccessibile. Quando e` stimolato da ricordi dolorosi, cerca con amarezza di ridurre la sua stanzetta, che per lui e` l’intero mondo, a uno spazio ancora piu` limitato. Come se cosı` si sentisse piu` sicuro, meno inquieto, e potesse sopportare meglio il dolore. Allora si mette a letto».

Da questi sintetici elementi e` evidente che la psicopatologia di Ho¨lderlin e` costituita, a parte rari momenti di lucidita`, da verbigerazioni, schizofasia, neologismi, manierismo, agitazione psicomotoria e pressoche´ totale incapacita` di ricordare gli avvenimenti del passato e del presente. Io vorrei soffermarmi brevemente su due aspetti. Il primo e` la perdita totale del Se´; egli rinnega se stesso in una serie di nomi e di comportamenti che non sono maschere, ma semplicemente tentativi di copertura di un mondo interno distrutto e frammentato; la seconda e` la totale, o pressoche´ totale, rottura dei rapporti interumani, che si esprime con il comportamento manierato. Prima di proseguire credo sia necessario soffermarsi sulla dinamica del manierismo, cioe` sulla possibilita` di comprenderne il significato. 5.3.2. Il manierismo come sintomo schizofrenico

In verita`, a parte l’accurata descrizione di Binswanger, nella letteratura psichiatrica il ma-

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nierismo e` poco considerato o comunque e` posto insieme ai tanti sintomi della catatonia. Dei vari autori ne citero` solo due: C.G. Jung nel 1907 nell’opera Psicologia della dementia praecox propone “l’affettazione” (un insieme di manierismi, leziosita` e ricerca di originalita`) come una modalita` che puo` essere presente anche nell’isteria, ove e` dovuta all’ambizione del soggetto, in genere in classi sociali inferiori, di darsi un’apparenza di superiorita`; ma che e` presente soprattutto nella dementia praecox con due modalita`: i neologismi e la scomposizione fonetica di un nome tale da renderlo incomprensibile. Egli definisce queste parole, secondo l’espressione di una paziente, “parole di potenza”. Jung sottolinea che questo atteggiamento e` fondamentalmente volto ad allontanare o comunque rendere impossibile il dialogo con l’altro, «Invece di rispondere scompongono la domanda ed eventualmente aggiungono associazioni puramente fonetiche, perche´ non vogliono rispondere alla domanda». Oltre che da questa tendenza ad allontanare l’altro, il manierismo e` generato da un qualche complesso e quindi il suo significato e` rintracciabile. Questa spiegazione del manierismo trova un’ulteriore conferma in un autore molto lontano da Jung per formazione culturale: H.S. Sullivan. Nel 1940, nel testo La moderna concezione della psichiatria, questi cosı` si esprime: «Ma ora vorrei parlare dei manierismi dell’ebefrenico. I manierismi, ebefrenici e non, nascono dalla stereotipizzazione di un gesto, o di qualche altra forma di movimento che abbia un significato interpersonale (...). I pazienti ebefrenici hanno spesso un linguaggio molto manierato: sono enfatici e parlano a volte in modo che da` inevitabilmente l’impressione di un profondo disprezzo per l’interlocutore. Nei reparti dei grandi ospedali psichiatrici si puo` qualche volta stare a sentire una “conversazione” fra due di questi pazienti disintegrati che stanno insieme perche´ si considerano reciprocamente inoffensivi. Il colloquio procede con il debito riguardo per la regola che si deve parlare uno alla volta. Vi possono essere anche intonazioni diverse, come se per esempio ci fossero domande e risposte, oppure come se un’osservazione di uno provocasse la sorpresa dell’altro.

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Ma le osservazioni dell’uno hanno soltanto una remotissima relazione, seppure l’hanno, con le osservazioni dell’altro. Ciascuno dei due parla a se stesso, solo che lo fa come una specie di doppio solitario, giocato secondo le regole del linguaggio convenzionale. Il caso e` ben diverso se si intromette qualcuno con il quale il paziente non abbia una lunga abitudine, o peggio che mostri di avere interesse per lui e ascolti quello che dice. I manierismi, che durante la “conversazione” erano poco usati, ora sono di scena. Si puo` anche avere un’esibizione di cattivo umore o di collera, e il paziente puo` andarsene tutto risentito. Altrimenti scoppiera` a ridere in modo “sciocco” di tanto in tanto, scoraggiando l’intruso con l’incoerenza e la futilita` dei suoi discorsi. Il riso sciocco, le smorfie insensate e il resto sembrano provocati da qualche pensiero osceno o di disprezzo per l’interlocutore (...) Una delle sue preoccupazioni principali sembra sia quella di conservare lo status quo per quanto forte sia la pressione esercitata dagli altri».

Questa lunga citazione di H. S. Sullivan ha il solo fine di sottolineare, come gia` aveva intuito il giovane Waiblinger, che il comportamento manierato e` finalizzato ad evitare, piu` o meno totalmente, il rapporto con l’altro. Se questa e` la motivazione del sintomo, dobbiamo cercare di comprendere il significato di quel particolare comportamento manierato. E per quanto riguarda Ho¨lderlin, credo che possiamo trovare una risposta nella sua biografia e nella storia della sua malattia. Espongo solo a grandi linee avvenimenti, vissuti e comportamenti significativi per la comprensione della genesi della sua psicopatologia. Certamente dati biografici importanti sono la morte del padre quando egli ha appena due anni, quindi un padre sconosciuto; e successivamente la morte del patrigno, a cui egli si era grandemente affezionato, avvenuta quando egli aveva appena nove anni. In una lettera giovanile il poeta fa risalire «la invincibile inclinazione alla tristezza» proprio alla morte del patrigno, anche se questo dolore gli resta «chiuso, opaco, incomprensibile». A questo vissuto di perdita, mai elaborato, J. Laplanche attribuisce la genesi della psicosi del poeta. Ma accanto alla perdita bisogna tener presente che c’e` una presenza, al femminile, che sara`

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per Ho¨lderlin una vera persecuzione. La madre e la nonna che nulla comprendono della natura del giovane, vogliono assolutamente che egli acquisisca uno status borghese, che vuol dire diventare pastore, avere una parrocchia ed infine sposarsi. Tre cose che Ho¨lderlin aborre profondamente perche´ sono sinonimo di schiavitu` e per lui invece essere poeta vuole dire essere totalmente e completamente libero. In questo conflitto, la madre avra` buon gioco sia per la giovane eta` (e` inviato alla Stift di Tubinga appena diciottenne), sia perche´, come amministratrice dei beni ereditati dal padre, lesinera` sempre i soldi al figlio, che per essere poeta dovra` esercitare un mestiere meno aborrito di quello di pastore: quello di precettore. Per circa dieci anni dovra` passare da una famiglia all’altra, nell’umile veste di precettore. Afferma giustamente S. Zweig: «A trent’anni e` ancora il povero diavolo che mangia alla mensa altrui, il maestro che fa lezione nel suo consunto abito nero e che dipende ancora dalla borsa della madre».

Sotto il frusto abito del precettore egli nasconde i suoi ideali e le sue ambizioni, ma anche una rabbia sorda, un cupo risentimento sempre ricoperti da un comportamento improntato a una grande “gentilezza”. Quella “gentilezza” che aveva profondamente colpito Schiller nel 1793 e` in effetti gia` indizio di una patologia, anche se sufficientemente compensata, caratterizzata da: estrema suscettibilita`, difficolta` a rapportarsi con gli altri, angoscia di non riuscire a preservare la propria liberta` e la propria identita`. La lotta con la madre che egli profondamente odia, ma per la quale ha sempre parole di devozione e di rispetto, e` una lotta perduta. Paradigmatica e` questa lettera inviata alla madre il 28 novembre 1798, mentre sta terminando la tragedia La morte di Empedocle: «(...) il mio ultimo tentativo di acquistare valore coi miei propri mezzi, come voi dite; se esso fallira`, cerchero` in tutta tranquillita` e modestia di rendermi utile agli uomini nella funzione piu` semplice che potro` trovare; considerero` le aspirazioni della mia giovinezza per quelle che esse

sono cosı` frequentemente, una fortuita esuberanza, un mezzo esagerato per evadere dalla sfera che mi assegnano le mie disposizioni naturali e le condizioni in cui sono cresciuto».

` una lettera piena di disperata rassegnazione E coperta da rispettoso ossequio; ma sappiamo bene che dietro questo “rispetto” per la madre e questo suo presentarsi “modesto” ci sono ben altre aspettative. Ma tra l’apparire e l’essere, sara` quest’ultimo a disintegrarsi: e` l’inizio di un suicidio psichico, altrettanto tragico, ma forse meno olimpico, di quello che attribuisce ad Empedocle nella tragedia che sta terminando di scrivere. Da questa lettera possiamo intravedere quello che anni dopo diventera` un comportamento chiaramente manierato: apparire ossequioso e modesto. Gli altri, apparentemente, hanno sempre ragione: importante e` che siano il piu` lontano possibile. La vita di Ho¨lderlin e` caratterizzata da un continuo pellegrinaggio, anche dovuto al suo carattere irritabile, sensitivo, a volte francamente ostile. Una sola volta egli credette di trovare un po’ di pace: ma sara` l’ultima disperante delusione. Nel 1796 ancora una volta riprende il cammino ed ancora una volta come precettore. Questa volta a Francoforte presso il banchiere Gontard: saranno i due anni piu` felici della sua vita. Ama, riamato, Susette (la Diotima delle liriche) moglie del banchiere: e` un amore platonico, tra due spiriti accomunati da interessi culturali e da una sensibilita` che nasce anche dal disprezzo per il mondo borghese in cui vivono. Ma a questa ultima illusione seguira` la piu` grave delle delusioni: i pettegolezzi dei servitori inducono il banchiere Gontard a metterlo bruscamente alla ` certamente l’umiliazione piu` grave ed il porta. E dolore piu` insopportabile, soprattutto per la fine del rapporto con Susette che, unico vero rapporto affettivo, aveva restituito al poeta calma e serenita`. Dal settembre 1798 al giugno 1800 vive a Homburg: in poverta` e solitudine. Gli basta poter vedere “da lontano” ogni tanto la sua amata: Poco ho vissuto. Ma spira fredda gia` la mia sera. E cheto, come le ombre,

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sono gia` qui e, senza ormai piu` canto, mi dorme in petto il cuor rabbrividito.

Poi, privo di soldi e dopo aver cercato altre sistemazioni sempre come precettore, deve tornare dalla madre: ma e` una vicinanza terribile e di nuovo dovra` mettersi in cammino. Nel gennaio 1802 egli giunge a Bordeaux, ancora una volta nel ruolo di precettore. Di questo periodo si conoscono pochi dati. Allorche´ a giugno ritorna in patria, presenta uno stato di grave agitazione psicomotoria e di confusione: la follia ormai e` evidente per tutti. Pur se in quegli anni egli produce il meglio della sua lirica, egli si trova anche nella piu` totale solitudine, come ben esprime Ricordo (18021803). Ma ora quegli uomini sono salpati per le Indie, nel promontorio arioso presso le erte vigne da cui la Dordogna scende e insieme alla Garonna sfarzosa esce fiume ampio come mare. Il mare dona e toglie il ricordo; l’amore fissa i suoi occhi fedeli. Ma il poeta fonda cio` che resta.

In pochi versi e` espresso tutto il dramma del poeta: egli e` totalmente solo, unica compagnia la poesia. Ma anche la sua onnipotenza, un Io megalomanico, che si esprime in una lotta titanica per la creazione di un nuovo linguaggio lirico. Non a caso il periodo tra il 1798 e il 1803 e` il piu` fecondo per Ho¨lderlin: La morte di Empedocle, i Poemi, le traduzioni di Pindaro e di Sofocle. Ma si esprime anche la tendenza nel desiderio di oblio totale, quasi ad un suicidio, come quello di Empedocle. «E per altri quarant’anni sulle torbide acque del tempo galleggia, senza coscienza, soltanto il suo cadavere spirituale, quel profilo deformato e spettrale che lui, ignaro di se stesso, chiama a volte “il Signor bibliotecario”, a volte “Scardanelli”». Ma ritorniamo al tema del manierismo. Certamente il comportamento di Ho¨lderlin si presenta come manierato: l’estrema ossequiosita`, i titoli altisonanti attribuiti agli ospiti, gli inchini ecc., anche se dietro questo si avverte, ed a volte

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emerge chiaramente, una profonda rabbia. Ed il comportamento manierato e` l’espressione di un conflitto profondo ed irrisolto. Egli, persona colta e sensibile, consapevole della sua genialita`, e` costretto per una intera vita a mendicare ospitalita` e cibo pur di conservare la propria autonomia, la propria individualita`: «(...) nel frusto abito del precettore, l’ultimo a tavola e` gia` vicino alla livrea dal servitore, deve imparare il gesto servile dell’uomo oppresso; ombroso, angosciato, tormentato, consapevole della forza del suo spirito, solo per soffrirne impotente, perde presto il passo libero e risonante con cui il suo ritmo procede come sulle nuvole ed anche dentro di lui si spezza l’equilibrio. Ho¨lderlin diventa diffidente e suscettibile, una parola, anche fuggevole poteva difenderlo. Sempre piu` impara a nascondere la sua faccia interiore di fronte alla brutalita` della gente che era costretto a servire». (S. Zweig).

Ma nel momento in cui cadono tutte le difese, emerge quanto fosse stato umiliante per lui essere ossequioso nei confronti di persone che non stimava affatto. E con il suo comportamento manierato, se da una parte mima una traumatica esperienza, dall’altra esprime anche una ribellione e una vendetta. Questa volta e` lui a decidere come ed a chi attribuire i titoli di “Vostra Maesta`” “Vostra Eccellenza” ecc., ed e` lui a decidere, se i visitatori diventano inopportuni, quando metterli alla porta. Lui che per tutta la vita si era sentito inopportuno, o era stato brutalmente cacciato via. Il comportamento manierato e` quindi una rappresentazione di quel conflitto fondamentale che aveva finito per distruggere la personalita` di ` una recita? Non credo che possa Ho¨lderlin. E paragonarsi ad una recita, come potrebbe essere quella di un isterico. Ho¨lderlin non c’e` piu`, al suo posto c’e` “Scardanelli” o il “Signor bibliotecario”. Questa era stata l’ultima carica ricoperta a Homburg, che gli aveva permesso di vivere adeguatamente sul piano materiale, ma che, soprattutto, lo riconosceva indirettamente, se non come poeta, per lo meno come letterato. E qui vive gli ultimi mesi, prima della totale disgregazione, che sono anche quelli che meglio ricorda; perche´ tutto il

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resto sembra essersi dissolto completamente. Egli scrivera` ancora poesie, che non hanno piu` forma, ma sono soltanto un suono: solo il ritmo continua a sopravvivere. ` evidente che la mia lettura del caso Ho¨lderE lin e` un tentativo di spiegare il manierismo e soprattutto di evidenziare come questo comportamento possa essere compreso e spiegato. Ma a fronte di questa posizione, M. Fagioli sostiene che e` inutile cercare di spiegare, e soprattutto non e` la delusione a creare questo particolare modo di essere manierati. Dice M. Fagioli: «No! Lo schizofrenico non si ammala per delusione; se si ammala per la delusione non e` schizofrenico. Lo schizofrenico e` tale per conto suo. C’e` questo assoluto modo di essere di cui e` stato detto. Pero` la tentazione di spiegare le cose e` troppo forte; e` tanto tanto forte. Certo, e` divertentissima la faccenda con l’ossessivo. L’ossessivo fa i rituali da solo, e` verissimo, anzi quando si presenta qualcuno va meglio; mentre lo schizofrenico scatta proprio quando si presenta qualcuno; quando c’e` uno stimolo. Pero` per lui e` uno stimolo generico, puo` essere qualsiasi stimolo, anche se in effetti deve essere uno stimolo umano. Come dire, un segno, un suono, uno stimolo qualsiasi di realta` umana; basta quello per farlo scattare, perche´ lui dica io non sono realta` umana… E proprio il rifiuto dell’identita` ` il ‘non ci sono’ portato al livello assoumana. E luto, con questo annullamento il rapporto interumano per cui lui recita e … non e` confusione. Lo schizofrenico non e` confuso per niente, e` lucidissimo!… Sai benissimo che lo schizofrenico e` lucidissimo, il rapporto con la realta` e` preciso, non c’e` nessun deterioramento. Perche´ e` un modo di essere che annulla la realta` e l’annulla in maniera particolare. Non l’annulla cioe` nel senso di non vedere le cose, come nello scotoma per cui non vedi la bottiglia e ce l’hai sotto il naso, cioe` questa povera sintomatologia di malattia di noi normali. No, l’annulla in quel modo particolare per cui vede benissimo, sa il significato delle cose in maniera perfetta pero`, verrebbe da dire, non ha un rapporto affettivo o, piu` che affettivo, non ha un rapporto libidico con la realta`. Come se gli mancasse questa dimensione di vitalita`».

Ed infine nel sottolineare che il manierismo non e` una mancanza (un minus), ma una dinamica pulsionale che lo ha reso non umano e che lo spinge ora ad annullare tutto cio` che puo` essere “umano”. «…E questo elemento di manierismo, questo elemento di strano rapporto con le cose, con la realta`; ai limiti con se stessi. Perche´ se sono un uomo posso parlare, posso mandare all’inferno una persona; magari se sono arrabbiato, mi alzo e me ne vado o che so io. Per loro, questo senso comune si perde completamente, ` il discorso per cui non sono piu` esseri umani. E che facevamo prima sul nome: non sono Ho¨lderlin e non perche´ non sono Ho¨lderlin, ma perche´ non sono un essere umano». Sicuramente quando ci troviamo di fronte a un soggetto con manierismo schizofrenico questa e` certamente la realta` piu` profonda. Ed e` proprio di fronte a questo “essere” dello schizofrenico che lo psichiatra attento percepisce quella particolare sensazione definita come Pra¨ecoxgefuhl. Ma credo anche che prima, in un’epoca piu` o meno lontana e forse non sempre coglibile, ci deve essere stata una delusione cosı` disastrosa da rendere il bambino, l’adolescente e forse anche il giovane, non piu` umano, quindi manierato, come estremo tentativo ed ultima difesa, come dire: se l’umano mi ha distrutto, l’unica possibilita` e` non essere piu` umano. Non si puo` non tener conto che molto spesso lo schizofrenico, prima di diventare manierato, ha vissuto stati di angoscia spesso a livelli insopportabili. L’interesse del caso Ho¨lderlin consiste proprio nel fatto che questa dinamica dell’angoscia e` ben visibile nel corso della sua adolescenza ed eta` giovanile, prima del crollo definitivo a trentasette anni. Comunque, al di la` di possibili spiegazioni, e` evidente l’importanza di comprendere l’essenza della schizofrenia che forse puo` manifestarsi in maniera tanto piu` chiara quanto meno e` coperta da fenomeni produttivi come il delirio, le allucinazioni eccetera. Forse per questo lo studio della cosiddetta schizofrenia paucisintomatica puo` attrarre l’interesse degli studiosi, per riuscire a comprendere quello che Racamier definisce l’essenza della schizofrenia: «…l’arte di essere non essendo». Fra questi di notevole interesse lo studio di

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W. Blankenburg, che ritiene la perdita dell’evidenza naturale la causa ultima e fondante della schizofrenia. Mi sembra utile riproporre, anche se brevemente, il pensiero dell’autore che ci fornisce una lettura fenomenologica di questo minus della schizofrenia.

5.3.2. La perdita dell’evidenza naturale

La monografia di W. Blankenburg, pubblicata nel 1979, ci induce ad una ulteriore riflessione sulla natura della schizofrenia, anche per la precisione e la meticolosita`, tipicamente teutonica, di un apparato teorico-metodologico, filosofico e psicopatologico che introduce e fa da supporto all’esposizione di un singolo, ma approfondito caso clinico. Caso clinico che viene ricostruito e studiato esclusivamente dai vissuti narrati dalla paziente e di cui l’autore e` attento e fedele cronista. Il libro, pieno di luci e ombre, e` comunque affascinante, come lo sono in genere le descrizioni fenomenologiche, anche se alla fine lasciano adito a perplessita` e dubbi. Per meglio evidenziare tutto questo, ma anche per rispettare l’iter del pensiero di Blankeburg, mi sembra utile sottolineare i quattro punti qualificanti di questo lavoro: la motivazione alla scelta del paziente, il concetto di disturbo fondamentale, il progetto fenomenologico ed infine la storia della paziente, Anna Ran. L’autore inizia considerando che in genere la maggior parte degli studiosi interessati alla schizofrenia si sono soffermati agli aspetti piu` eclatanti, cioe` sui sintomi produttivi e sulla produzione delirante in particolare. Ma questa scelta potrebbe, aggiunge l’autore, occultare una specificita` di questa sindrome che egli individua nella perdita della evidenza naturale: disturbo assimilabile all’autismo povero di Minkowski. Ma per una serie di commistioni tra piano clinico e fenomenologico «… il concetto di autismo e` diventato inutilizzabile dal punto di vista scientifico». La ricerca sulla schizofrenia comporta un paradosso di non facile soluzione «… la` dove i sintomi sono caratteristici, essi non sembrano essere

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originari, ma sembrano essere la conseguenza di un confronto con la malattia; d’altronde la` ove essi possono essere considerati come originari, essi si offrono in forma caratteristica». Formulazione che apre ad un problema complesso: cioe` se la schizofrenia e` da considerarsi una malattia che va a incidere su di una personalita` e pertanto i sintomi dovrebbero essere considerati tutti come secondari, o se invece si tratta di uno sviluppo abnorme di una personalita` gia` predisposta. L’autore, sorvolando su questo problema, rimane convinto che la ricerca sulla schizofrenia debba essere condotta sui casi ove si evidenzia una sintomatologia paucisintomatica. Scelta accettabile, ma che apre a un ulteriore problema: l’esistenza o meno di due diverse forme di schizofrenia. Comunque e` condivisibile che lo studio attento e meticoloso di un singolo caso puo` fornirci molto piu` dei numerosi studi statistici che spesso dietro i numeri nascondono il nulla. Fatta questa prima scelta, l’autore passa a definire un obiettivo centrale: la ricerca del “disturbo fondamentale”. «…I problemi che indirizzano la nostra ricerca sono ben piu` fondamentali. Ne va della possibilita` di mettere in luce quel che negli schizofrenici e` disturbato alla base del loro essere` in questo senso che parliamo di diuomini. E sturbo fondamentale… Bisogna sottolineare che disturbo fondamentale non significa, nel nostro contesto, alcunche´ di eziologico. A noi basta mettere in evidenza un momento antropologicostrutturale di base e analizzarlo piu` da vicino». «… Un ebefrenico che, in una data situazione, adotti un comportamento prevalentemente laterale (vorbei) manifesta la sua assenza di familiarita` con gli usi del suo mondo-ambiente (Umwelt), senza pero` esprimere necessariamente diffidenza». Questa frase denota la sottigliezza semiologica per cui il comportamento laterale viene letto non come sintomo a se´ stante, ma come un modo di esprimere qualcosa di molto piu` categoriale: l’assenza di familiarita`; inoltre sottolinea che l’assenza di familiarita` non genera necessariamente una diffidenza, che e` tipica del mondo paranoideo. Inoltre l’autore con una ulteriore sottigliezza

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semiologica distingue tra l’aver-fiducia-in e l’essere-in-familiarita`, alla cui perdita egli attribuisce la modalita` esistenziale di fondo della schizofrenia. Ma come riuscire a comprendere questa essenza? A questo proposito l’autore dice: «… A nostro avviso, la psicopatologia non puo` fare a meno di questo concetto di comprensione; esso non e` superato, ma deve essere precisato in funzione dei limiti che gli competono» (p. 83). E con un ampio riferimento a vari autori, Blankenburg passa ad esporre il terzo punto del suo discorso: il progetto fenomenologico, ovvero la modalita` di osservazione-comprensione in fenomenologia. Egli ritiene che lo stesso metodo di Jaspers si limita ad una “psicologia descrittiva” e pertanto si deve percorrere un ulteriore passo, seguendo nei limiti del possibile le indicazioni di Husserl e di Heidegger «… La fenomenologia, nel senso di Husserl, non si esaurisce mai in una semplice riproduzione dell’esperienza o del vissuto, ma si dirige sempre al tempo stesso, in maniera consapevolmente metodica, verso il logos di quel che appare come l’in-che (Worinnen) di ogni apparire» (p. 17). Appare chiaro che l’autore indichi una strada ben precisa: da una fenomenologia descrittiva si deve giungere a una fenomenologia eidetica per poter comprendere l’essenza dei fenomeni. Ma cosa significa esattamente comprendere e soprattutto in che modo si attua un processo di comprensione tale che ci porti a veder-capire la realta` psichica? «… In considerazione dell’ambiguita` del concetto di comprensione e` necessario sottolineare che lo scopo dell’esperienza fenomenologica, diversamente da quanto sosteneva Jaspers, non consiste soltanto nella rappresentazione intuitiva di quel che accade al malato. Non si tratta di entrare, per cosı` dire, nella pelle del malato per co-provare cio` che il malato prova. Il grado in cui cio` e` possibile dipende da condizioni soggettive che variano da un osservatore all’altro. Il tipo di approccio fenomenologico qui prospettato cerca invece di cogliere il modo di essere del malato, attraverso le sue autodescrizioni. L’accesso e` un accesso duplice: da una parte attraverso l’autoesplicazione del malato, dall’altra attraverso la co-

municazione ermeneutica… Lo scopo e` riuscire a cogliere nel malato la costituzione costantemente riferita al corpo, di se´ e del mondo» (pp. 31-32). Giustamente l’autore rifiuta la comprensione come un processo di immedesimazione; pertanto la comprensione si deve basare sulla rappresentazione intuitiva del terapeuta, sulle auto-esplicazioni del malato e sulla comunicazione ermeneutica. Credo che a questo punto bisogna soffermarsi a riflettere: da una parte l’autore propone la possibilita` di un’intuizione che non sarebbe comunque molto affidabile perche´ «puo` variare da un osservatore all’altro» e pertanto la vera conoscenza e` affidata alle auto-esplicazioni del malato e alla comunicazione ermeneutica. Per quanto riguarda il primo punto mi sembra di aver sottolineato a sufficienza la limitazione, soprattutto del paziente schizofrenico, all’auto-riflessione: e sicuramente l’esperienza dell’alienazione da parte del paziente non puo` essere equivalente dell’esperienza che lo psichiatra ha nel confrontarsi con l’alienazione. Deve esistere quindi quella famosa differenza che rende possibile, in una metodica precisa, il poter cogliere la psicopatologia. Rimane quindi fondamentale la capacita` dell’osservatore per comprendere-intuire il dato psicopatologico. Per quanto riguarda la comunicazione ermeneutica, l’autore non ci offre ulteriori lumi, per cui dobbiamo rifarci ad autori come H. G. Gadamer per il quale «…comprendere e` l’originario modo dell’attuarsi dell’esserci, che e` essere nel mondo. Prima di qualunque differenziazione nelle diverse direzioni dell’interesse teorico o pratico, il comprendere il modo di essere dell’esserci in quanto poter-essere e possibilita`». In questo modo si attua il cosiddetto circolo ermeneutico che propone che oggetto e soggetto sono in una reciproca appartenenza, tanto che il conosciuto e` possibile perche´ e` gia` entro l’orizzonte del conoscente e quindi la conoscenza si codetermina. Ma questo modello non sembra, nello studio-osservazione-comprensione della psicopatologia, portarci molto avanti. Quindi alla fine tutto si riduce alla pura autoesplicazione della paziente di cui, dicevo prima, l’autore e` attento cronista. Si rimane colpiti per l’accurata descrizione del

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caso clinico, per la dolorosita` anche se rara, e per l’ebefrenicita` molto frequente con cui la paziente declina il suo essere «…una che ha perduto l’evidenza naturale», per cui tutto le sembra estraneo, difficile, a volte ostile. Ma quello che piu` colpisce e` la fine di questa storia. «… In coincidenza con il cambiamento del terapeuta, imposto dalle circostanze, e con il crescente convincimento di A. che non si fosse ancora verificata alcuna modificazione fondamentale, le tendenze suicidiarie tornarono palesemente in primo piano. Agli inizi del 1968 A. mise fine ai suoi giorni, in un momento in cui non era sorvegliata e poco prima del previsto inizio di una nuova attivita` lavorativa (come era accaduto in occasione del suo primo tentativo di suicidio)». Certo la tendenza suicidiaria puo` costituire un problema di difficile gestione e quindi nulla puo` essere addebitato al terapeuta: quello che colpisce, invece, e` che l’autore getta lı` come per caso, e come un fatto banale, un evento certamente significativo. La paziente si suicida in occasione di “un cambiamento del terapeuta”: ma se l’evento e` cosı` banale, perche´ sottolinearlo? Se non e` banale, perche´ non prenderlo in considerazione? Ben ottanta anni prima, Breuer si era dovuto accorgere, a proprie spese, che il cambiamento del terapeuta aveva avuto effetti disastrosi sulla sua paziente Anna O. (strano destino di un nome!). Cito questo particolare storico, solo per evidenziare che se non c’e` un metodo ben preciso, e` difficile, forse impossibile, distinguere cio` che e` banale da cio` che e` fondamentale, e non solo dal racconto del paziente ma anche per il paziente. Certamente Blankenburg non vuole far passare questo gesto suicidiario, come aveva fatto Binswnger a proposito di Ellen West, per un “atto di liberta`”, ma sicuramente lo propone come l’unica alternativa possibile per la paziente. Giunti a questo punto, ancora una volta ci si ritrova con una strana sensazione: da una parte affascinati per la ricercatezza delle descrizioni psicopatologiche, dall’altra sbalorditi per il nichilismo terapeutico che sembra essere strutturale alla fenomenologia. Mi sembra necessario tentare di dare una lettura chiarificatrice di queste due singolari discre-

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panti sensazioni. Per quanto riguarda il fascino, credo che esso risieda nella illusione che la fenomenologia con la metodica della epoche´, possa fornirci una conoscenza pura, non inquinata da pregiudizi o da scotomi personali; una conoscenza disincantata, preriflessiva, immediata. Una conoscenza dove l’Io empirico del singolo osservatore possa sempre trascendere in un Io trascendentale. Ma e` semplicemente un’illusione o forse e` piu` esattamente una idealizzazione della conoscenza che presenta ben altri e piu` complessi problemi. Per quanto attiene al nichilismo terapeutico, esso non e` legato a un particolare autore o a una particolare corrente fenomenologica ma sembra essere strutturale alla fenomenologia che poi stranamente non rinuncia ad utilizzare l’arsenale terapeutico. La paziente Anna aveva praticato numerosi cicli di insulino-terapia e di ESK terapia e svariate forme di psicoterapia. Pertanto e` necessario dare una plausibile spiegazione di questo fenomeno, soprattutto dal momento che c’e` un ritorno della fenomenologia e numerosi psichiatri si professano seguaci e non solo cultori delle teorizzazioni fenomenologiche, anche quelle piu` avanzate. Il nichilismo terapeutico in fenomenologia e` un dato strutturale, potrei dire ontico, dal momento che e` legato strettamente alla sua origine. La fenomenologia, sul piano filosofico, nasce come reazione a una mentalita` scientifica-tecnologica che aveva trovato nel positivismo l’espressione piu` coerente ed estremizzata. Da Galilei in poi, con il metodo sperimentale il problema della verita`, della ricerca epistemica, era andato sempre piu` scomparendo, sotto la spinta di una ricerca tesa solo alla conoscenza di leggi che, fornendo la possibilita` di prevedere i fenomeni, aumentava a dismisura il potere di dominio dell’uomo. A fronte di questa disumanizzazione, la fenomenologia si e` contrapposta cercando, con Husserl in primo luogo, di riprendere la strada di una ricerca filosofica. Cosı` Husserl definisce il principio di tutti i principi: «…nessuna immaginabile teoria puo` coglierci in errore nel principio di tutti i principi, cioe` che ogni visione originalmente offerente e` una sorgente legittima di conoscenza, che tutto

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cio` che si da` originalmente nell’intuizione (per cosı` dire in carne e ossa) e` da assumere come esso si da`, ma anche soltanto nei limiti in cui si da`». In questo processo di intuizione e` necessario porre tra parentesi (epoche´) qualsiasi atteggiamento naturalistico scientifico che non e` conoscenza, ma solo pregiudizio. Infatti la fenomenologia della conoscenza e` qualcosa di radicalmente contrapposto alla scienza naturale della conoscenza, ossia alla forma storica assunta dalla psicologia. Nella fenomenologia di Husserl «… noi diventiamo osservatori completamente disinteressati del mondo». Credo che il metodo fenomenologico, utile e necessario, come momento di contrapposizione ad uno scientismo positivista e riduttivo, ha finito per trasformare un probabile strumento conoscitivo in una trappola. Per ottenere una osservazione, la piu` pura possibile, la piu` vicina all’essenza dei fenomeni, ha ritenuto che ogni atteggiamento operativo potesse inquinare la purezza dell’osservazione. L’assunzione della metodologia fenomenologia in psicopatologia, ha inevitabilmente trasferito questo assunto di base anche in psichiatria. Con tutte le conseguenze che ben conosciamo: l’inesistenza di una patologia perche´ la psicopatologia e` un modo di essere al mondo conseguenzialmente, l’assenza metodologica di qualsiasi prassi terapeutica. Sottolineo assenza metodologica perche´ poi gli stessi fenomenologi sono molto prodighi di qualsiasi forma di terapia, ma solo perche´ in assenza di un concetto di terapia, una terapia vale l’altra. In questo modo ovviamente la prassi e` scollegata dall’osservazione e per evitare il temuto inquinamento dell’osservazione si cade in una situazione che possiamo definire di scissione tra osservazione e terapia. Ma se parliamo di scissione siamo gia` nell’ambito di una psicopatologia.

5.4. Le allucinazioni Brevemente mi soffermero` su questo disturbo solo per ribadire due concetti basilari, anche se gia` ampiamente esposti.

Il primo riguarda il problema metodologico: utilita` o meno di ritenere un disturbo psicopatologico spiegabile come alterazione di una singola specifica funzione psichica. Come abbiamo visto a proposito della coscienza, il considerare l’allucinazione come disturbo della percezione porta a conclusioni errate (vedi nella parte II: allucinazioni). Il secondo riguarda l’eziologia: la necessita` di comprendere che una eziologia psicologica presenta una sintomatologia ben diversa da una eziologia organica. Infatti i disturbi di natura organica comportano o un deficit, piu` o meno grave, della funzione oppure una alterazione, ma in genere a carattere elementare. L’allucinazione visiva o uditiva, vissuta come reale, rappresenta una complessita` che non puo` essere paragonabile alla fenomenologia dei disturbi su base organica. Infatti una alterazione dei centri cerebrali deputati alla decodificazione degli stimoli visivi ed uditivi comporta un disturbo deficitario o un disturbo produttivo, ma a carattere elementare quali le agnosie e le afasie. In alcuni casi puo` essere presente, insieme ad una lesione organica, anche una componente psicologica: questi casi presentano peculiarita` che credo siano ben rappresentate dalla sindrome di C. Bonnet.

5.4.1. Definizione

Da quando Esquirol (nel 1838) definı` le allucinazioni come una percezione senza oggetto, questa definizione e` rimasta abbastanza immutata nella trattatistica psichiatrica con l’eccezione di Jaspers che, infatti, nel 1913 gia` faceva presente che le allucinazioni sono false percezioni, che non rappresentano pero` una distorsione reale, ma «balzano fuori da loro stesse come qualcosa di completamento nuovo e si verificano insieme alle percezioni reali». C. Scharfetter definisce le allucinazioni come «modalita` di esperienza vicina alla percezione sensoriale». Comunque la maggior parte degli AA. definisce le allucinazioni come:

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— esperienze percettive in assenza di uno stimolo esterno, che — si verificano spontaneamente ed involontariamente e non possono essere controllate (ad eccezione delle allucinazioni visive da allucinogeni ove la chiusura degli occhi puo` farle diminuire o scomparire), e che — sono vissute come esistenza reale dell’oggetto o di un agente e situate nello spazio esterno. e) 5.4.2. Classificazione

a) b)

c)

d)

Allucinazioni uditive (vedi parte II). Allucinazioni visive. Si presentano o come fenomeni elementari, oppure come scene complesse con figure statiche o in movimento, spesso colorate. Le allucinazioni visive sono piu` facilmente riscontrabili in stati di intossicazione, assunzione di sostanze allucinogene, disturbi neurologici (tumori centrali, epilessia, psicosindrome organica). Una delle forme piu` conosciute e` il delirium tremens, stato confusionale-allucinatorio, dovuto ad astinenza alcolica: compaiono allucinazioni di animali, piu` o meno piccoli e piu` o meno terrificanti; scene con immagini molto piccole (allucinazioni lillipuziane). Allucinazioni olfattive e gustative. Molto spesso sono legate a processi espansivi delle aree cerebrali deputate al gusto e all’olfatto, oppure dovute a disturbi epilettici: spesso un’allucinazione olfattiva o gustativa puo` rappresentare l’aura di una crisi temporale. Questi disturbi possono essere presenti in forme psicotiche, come la schizofrenia o la depressione maggiore, anche se piuttosto raramente. Nel primo caso il disturbo e` collegato ad un delirio di veneficio, nel secondo ad un delirio di morte-putrefazione di cui l’allucinazione e` solo una parte. Ma e` evidente, che in questi casi non si tratta di un disturbo della percezione ma di un disturbo complessivo del pensiero e dell’affettivita`. Allucinazioni tattili (o aptiche). Il paziente si lamenta di strane e particolari sensazioni

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cutanee: bruciori intensi, sensazioni di perforazione o di gelo. In questo caso i disturbi sono dovuti a psico-sindromi organiche. Una forma particolare, definita delirio dermatozoico e caratterizzata da sensazioni di bruciori, formicolii, punture che il paziente attribuisce a piccoli animali (vermi, scarafaggi, ` presente in genere in soggetti anecc.). E ziani con processi di atrofia cerebrale. Allucinazioni cenestesiche. Presentano un polimorfismo notevole. A volte sono descritte come sensazione di essere pietrificati, gelati, vuoti, attraversati da raggi: in questi casi si tratta di sindromi schizofreniche ove il sintomo e` una parte, spesso significativa, di un delirio di influenzamento. A volte invece il vissuto puo` essere legato ad una grave sindrome depressiva (Sindrome di Cotard).

Una forma particolare e` la dismorfofobia (vedi cap. 14), che per quanto definita una fobia puo` essere molto piu` spesso un vissuto prodromico di una crisi psicotica. Il paziente vive a livello somatico, come cambiamento angoscioso, quello che avviene a livello psichico. Per quanto riguarda l’eziologia, le allucinazioni possono essere presenti: a)

b) c)

d) e) f) g) h)

in situazioni fisiologiche: sono le allucinazioni ipnagogiche (in fase di addormentamento) o ipnopompiche (al risveglio); in particolari sindromi come la deprivazione sensoriale (vedi cap. 40); in situazioni di intossicazione ed in presenza di un quadro confusionale, come nel delirium tremens, ove la ricchezza allucinatoria ha portato a definire questo stato come allucinosi; nelle psico-sindromi organiche; nella epilessia; nella schizofrenia; nella depressione grave; raramente nella psiconevrosi ossessiva.

Le allucinazioni devono essere distinte dalle pseudoallucinazioni, che raggruppano due distinti ordini di fenomeni.

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In alcuni casi il vissuto e` meno estesico ed e` relegato allo spazio interno. Si tratta a volte di voci interne (iperendofasia) tipiche della depressione, a volte invece come eco del pensiero che puo` preludere ad un fenomeno piu` grave come il furto del pensiero, ed e` presente in genere nella sindrome schizofrenica. In altri casi invece si definiscono pseudoallucinazioni disturbi che, pur avendo le stesse caratteristiche delle allucinazioni, sono vissuti dal paziente con consapevolezza della irrealta` o della patologicita` del fenomeno. ` evidente la differenza notevole dalle alluciE nazioni, che fanno parte integrante del vissuto psicotico del paziente e sono vissute sempre come vere. Le forme di pseudoallucinazioni sono tipiche di disturbi ove c’e` l’associazione di disturbi organici (sia degli organi periferici che centrali adibiti alle percezioni) con un disagio psicologico: esempio classico e` la sindrome di C. Bonnet.

5.4.3. La sindrome di C. Bonnet

La sindrome di C. Bonnet e` dovuta a lesioni, piuttosto gravi della vista (retinopatia), associate a lesioni cerebrali (disturbi circolatori cerebrali, atrofia), unite spesso a fattori di disagio psichico come l’isolamento e la deprivazione sociale. In questi casi l’allucinazione e` sempre criticata: il paziente e` consapevole della stranezza della sua esperienza. Situazione ben diversa dalle alterazioni percettive che intervengono nel corso della psicosi, ove il disturbo e` solo una parte di una alterazione piu` globale, che porta il paziente a vivere con certezza quanto crede di vedere o quanto crede di ascoltare, perche´ l’allucinazione non riguarda la vista o l’udito, ma la struttura psichica nella sua complessita`. La sindrome di C. Bonnet e` una singolare sindrome riscontrata tipicamente in pazienti affetti da gravi forme di patologia visiva; per il suo caratteristico quadro clinico, si situa al limite fra psichiatria ed oculistica. La sindrome fu descritta per la prima volta alla fine del ’700 da Charles

Bonnet il quale, dopo averla osservata, ne soffrı` egli stesso in tarda eta`. I fenomeni che caratterizzano tale sindrome sono la presenza di allucinazioni complesse, descritte come assai vivide e realistiche e caratterizzate da intensa policromaticita` . I pazienti in genere hanno consapevolezza della natura irrealistica delle visioni e sono quindi consapevoli che quanto vedono di fronte a loro non esiste nella realta`. I pazienti inoltre riferiscono che l’insorgenza delle allucinazioni e` del tutto slegata da fatti od eventi particolari e che non e` assolutamente possibile controllare l’inizio del fenomeno, ne´ influenzare in alcun modo il contenuto dell’allucinazione. Nella maggioranza dei casi le allucinazioni rappresentano figure di grandezza naturale, colorate, solide ed in movimento; compaiono sempre nella stessa area del campo visivo, e presentano una concretezza tale da sembrare in tutto e per tutto oggetti reali, tanto che la comparsa dell’allucinazione comporta uno scotoma su quanto e` sullo sfondo. ` interessante soffermarci sul vissuto espeE rienziale dei pazienti. La maggior parte di essi riferisce di essere disturbato dalla presenza delle allucinazioni, non tanto per il contenuto, che anzi molto descrivono di per se´ piacevole, quanto piuttosto per l’invasivita` delle allucinazioni, sulle quali il soggetto non puo` operare alcun controllo. Gia` in precedenza e` stato evidenziato come un criterio diagnostico differenziale di importanza fondamentale sia costituito dal fatto che il paziente mantiene la consapevolezza che le immagini viste di fronte a se´, sebbene molto vivide ed in tutto e per tutto simili a quelle reali, sono pero` solamente un fenomeno allucinatorio. Tale consapevolezza, tuttavia, non esime i pazienti dallo sperimentare sensazioni di grave angoscia, spesso accompagnate dal pensiero opprimente di essere sul punto di impazzire. L’invasivita` del fenomeno allucinatorio si accompagna cosı` a una sensazione di fragilita` e di timore per il proprio equilibrio psicologico, che esita, nella grande maggioranza dei casi, in una richiesta di trattamento terapeutico finalizzato a far cessare le allucinazioni.

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Un altro dei fattori significativi emersi in alcuni studi condotti sulla sindrome di Charles Bonnet e` quello dell’“isolamento sociale” (Holroyd S., Rabins P.V., Finkelstein D., Lavrisha M., 1994). In molti pazienti osservati si e` evidenziato uno stato di solitudine e di isolamento sociale, che concorre ad una condizione complessiva di “deprivazione sensoriale”, ritenuta importante nella genesi della sindrome. Ma oltre alla presenza di una grave patologia oculare che comporta una perdita marcata dell’acuita` visiva, gli stessi AA. hanno evidenziato che nei soggetti selezionati era possibile riscontrare un basso punteggio al test cognitivo Telephone Interview for Cognitive Status. Pertanto gli AA. ritengono che molto spesso siano presenti gravi lesioni diffuse di tipo corticale e giungono cosı` ad un modello patogenetico di tipo “multifattoriale”. Comunque una grave patologia visiva e` il fattore sempre presente e pertanto il decremento dell’acuita` visiva deve essere considerato il fattore determinante.

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Parte II

1. Un accenno alla metodologia di Francesca Fagioli, Andrea Masini La proposizione e il discorso per il quale dovremmo considerare la realta` che dovrebbe essere causa di sintomatologia psichiatrica comprendono la necessita` di considerazioni sia di metodo sia di sostanza. Metodo e sostanza che a loro volta comprendono l’obbligo di una considerazione generale sul livello culturale e scientifico attuale che rivela la cancellazione totale di qualsiasi ricerca, teoria e ipotesi su una chiara metodologia psichiatrica. Dalla definizione del DSM-IV alle considerazioni attuali di molti degli insegnanti universitari di psichiatria diventa evidente che non si considera piu` nessuna diagnosi come tale e con cio` nessuna formazione psichiatrica tale che possa condurre a una osservazione fenomenologica di una possibile malattia. Tali considerazioni non vanno disgiunte da un fenomeno politico e culturale che e` storico, per il quale sull’onda del movimento detto ’68 si e` proceduto a seguire la teoria dell’inesistenza di una malattia mentale specifica per orientare tutte le forze, le possibilita` sociali all’assistenza di asociali che venivano considerati anormali soltanto perche´ non si adattavano alle regole sociali. L’idea di 200 anni fa, figlia dell’illuminismo, che poteva esistere un disturbo o una alterazione del funzionamento psichico della realta` umana stessa che poteva essere definito malattia e come tale affrontato con un’idea e una metodologia di cura e non soltanto di assistenza generica, e` stata completamente cancellata. Parlare per esempio di una storia che va oltre la pretesa e la rivendicazione di una clinica e di una semiologia psichiatrica, che ebbe il suo successo nella descrizione e definizione di manieri1 smo , propone l’immagine di uno psichiatra raffi-

1 Cfr. AA.VV., Il manierismo schizofrenico, in Il Sogno della Farfalla, anno 6, n., 3 1997, pp. 3-51.

natissimo dalle capacita` osservative e percettive acutissime. La diagnosi clinica di malattia mentale che 50 anni fa ancora esisteva e che chiedeva la definizione di un comportamento alterato in senso psichiatrico e non in senso sociale o legale, forse poteva essere considerata come clinica delle manifestazioni del soggetto in osservazione. 50 anni dopo noi, nel cercare la sostanza e le dinamiche che sottendono quelle manifestazioni osservate, riteniamo giusto e opportuno riproporre l’impostazione medico-clinica e inoltre ci rivolgiamo ad una realta` latente e quindi non manifesta come l’altra che poteva essere percepita direttamente dai 5 sensi dello psichiatra. Ad esempio, nella misura in cui lo psichiatra rileva un atteggiamento e un comportamento manierato, cioe` non normale, rivendica e propone una percezione di un gesto o ai limiti del suono delle parole che non sono uguali a quelle comunemente intese o percepite nei normali. Lo psichiatra deve saper distinguere il fatto psichiatrico tra le mille ed infinite variazioni degli atteggiamenti e dei comportamenti che ogni persona propone, vuoi una diversa dall’altra, vuoi nella stessa persona: cio` perche´ va considerato che tali comportamenti, atteggiamenti, espressioni, sono legati a fatti emotivi non direttamente percepibili dai 5 sensi. Lo psichiatra deve saper distinguere comportamento, atteggiamento, espressione legata al fatto emotivo dal fatto psichiatrico, ovvero da cio` che definiamo malattia. Considerare ancora, oltre questo e senza negare questo che possiamo indicare con il termine fenomenologia, realta` ancora piu` nascoste che si possono considerare interpretazioni ovvero deduzioni che opinano qualche cosa, deduzioni che pensano qualche cosa che non e` manifestazione sensibile, cause e moventi dell’espressione fenomenologica stessa, propone la evidenziazione del fatto che c’e` stato un periodo storico in cui la ricerca della realta` umana ha tentato di approfondirsi per comprendere quanto non e` direttamente percepibile dai 5 sensi, ma puo` essere dedotto non solo dalle manifestazioni evidenti sopraddette ma anche dalla composizione tra di loro di tali manifestazioni. Perche´, poi, sono le cose la-

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tenti che vengono considerate movente e causa delle manifestazioni fenomenologiche stesse. Teoria potremmo dire, nella misura in cui quanto detto si puo` configurare metodo medico per il quale i sintomi vanno a trovare le loro cause nella realta` interna del paziente che va dedotta da segni che non sono di per se´ la malattia stessa. Cosı` se usiamo le parole depressione, schizoidia, schizofrenia possiamo ancora riferirci alla definizione verbale di percezioni, di segni, espressioni di un altro essere umano che si distaccano in maniera tale dalla norma, che pur comprende una variabilita` infinita, da porci nella situazione di definizione di malattia che implica un rifiuto delle manifestazioni e del contenuto delle manifestazioni stesse perche´ non rientrano appunto nelle infinite variazioni di espressione e di essere della realta` umana che vanno considerate normali. Quando poi, oltre queste definizioni di espressione, noi proponiamo che esse siano legate ad un disturbo di qualcosa, che pur avendo il suo termine verbale che lo indica e lo definisce non e` direttamente percepibile dai 5 sensi, noi proponiamo un metodo di pensiero che va oltre il logico-razionale che si concretizza nel movimento che va dalla percezione alla definizione verbale di essa. Parlare appunto, supponiamo, di affettivita` o di anaffettivita` implica la dichiarazione che l’esistenza della malattia e` basata su un riferimento a qualcosa che non soltanto non e` percepibile direttamente dai 5 sensi ma ha avuto una definizione, dedotta da altre manifestazioni sensibili, che e` legata ad una cultura ed una storia; cosı` si puo` dire anche forse dell’indifferenza, della distrazione, del lapsus, etc. Basti pensare ad esempio che affettivita` e` legata ad un’immagine di procurare benessere fisico agli altri o, ai limiti, semplici piacevolezze, mentre noi dobbiamo considerare che il termine affettivita` puo` essere applicato ad una realta`, piu` o meno interna, che procede da una curiosita` a un interesse che porta alla comprensione della realta` umana stessa: non solo, ma dalla comprensione si passa al movimento e all’azione per cui, nella misura in cui questa realta` si giudica estranea, si procede contemporaneamente alla modifi-

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cazione di essa per portarla in quei parametri che possono rientrare nella definizione di umano. A sua volta questo discorso trascina alla teorizzazione, o meglio alla accettazione di teorie che hanno pensato a una forma di questo movimento a procedere come attivita` che trae le sue radici in una realta` biologica specificatamente umana che e` stata definita carica sessuale originaria e vitalita` 2 A questo punto possiamo giustificare quanto affermato precedentemente ovvero il fatto di dover considerare 50 anni di storia in cui si e` sviluppata una ricerca sulle dimensioni piu` latenti della realta` psichica umana. Il termine di carica sessuale originaria si trova in Freud3, pero` questa dimensione di energia, o attivita`, attivita` connessa al termine energia viene collocata alla nascita. Tale collocazione determina una crisi del pensiero che entra nella confusione piu` totale perche´, direttamente, porta al pensiero della dissociazione neonatale, smarrimento, dissipazione, in quanto questa carica non e` contenuta da nessuna forma che implichi una descrizione e con cio` una definizione che possa concettualizzare un contenimento e pertanto un elemento di conoscenza: quella che puo` essere formulata come immagine. Carica sessuale posta alla nascita, configura un nome che non ha la cosa relativa ed attinente al nome stesso. Un ulteriore sviluppo del pensiero ha collocato tale idea al suo giusto posto, ovvero nella vita endouterina, come realta` del feto nell’utero che ha la possibilita` di svilupparsi come vitalita` e poi alla nascita come immagine interiore4. Perche´ cosı` poi accade che questa immagine interiore rende la realta` latente conoscibile, affrontabile, ai limiti curabile, superando cosı` l’idea millenaria di un caos originario che puo` essere contenuto e controllato soltanto da una ragione

2

Fagioli M. (1975), Psicanalisi della nascita e castrazione umana, N.E.R Roma 1989; p. 69 e ss. 3 Freud S. (1914), Introduzione al Narcisismo, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Vol.VII. p. 445. 4 Cfr. Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza. NER Roma 1996.

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che compare qualche anno piu` tardi. La ragione trae le sue radici e fonti energetiche dall’opposto della vitalita` ovvero da quella che potremo chiamare anaffettivita`. Ragione che e` realta`, piu` o meno pulsionale, (affettiva?) che origina il suo essere dalla negazione totale da tutto cio` che e` prima del suo sorgere che viene considerato non umano. E il cosı` definito non umano va negato, possibilmente eliminato perche´ la ragione possa sorgere e funzionare. Nascita mostruosa che si realizza per la morte di cio` che la precede e, nella negazione della propria storia, trova la sua lucidita` che la rende schiava e padrona del mondo inanimato.

2. Disturbi dell’affettivita` di Annelore Homberg, Andrea Masini Le cosiddette facolta` o funzioni mentali sono le caselle in cui la psicopatologia e` solita suddividere la realta` psichica, nel tentativo di creare ordine nel mare magnum dei dati clinici. Ma questa anatomia della mente nasconde anche la speranza che, una volta fatte le caselle, si possa individuare il substrato organico per ciascuna di esse – cioe` le aree cerebrali coinvolte – e quindi cogliere la radice dei disturbi psichici in un’alterazione dei tessuti preposti a secernere facolta` come “intelligenza”, “memoria”, “percezione”, “pensiero”. Una di queste caselle porta il nome “affettivita`” e sarebbe il contenitore naturale per i cosiddetti disturbi dell’affettivita`. ` bene tener presente che il termine affettiE vita` ha due significati. In primo luogo esso indica l’insieme degli affetti e delle emozioni coscienti ` secondo quest’accevissuto da un individuo. E zione che la sindrome depressiva e la sua controparte, l’esaltazione maniacale, sono diventate i disturbi dell’affettivita` per antonomasia. A dire il vero, la sindrome depressiva non ha fatto il suo ingresso nella storia come disturbo dell’affettivita`, bensı` dell’umore (in altri paesi come mood disorder o Gemu¨tskrankheit), riferendosi cioe` all’antica idea di una discrasia umorale. In questa malattia causata dall’umore nero spiccavano, tra tanti altri sintomi, stati di “tristezza e

paura senza motivo”, vale a dire affetti non comprensibili come reazione normale agli eventi della vita. Negli ultimi 300 anni l’attenzione dei medici si e` andata gradualmente concentrando su questo vissuto emotivo, tant’e` vero che nell’Ottocento la vecchia diagnosi “melancolia” fu sostituita con quella di “depressione”. Alla sindrome depressiva e` dedicata una casella che dovrebbe contenere tutti quei quadri psicopatologici in cui prevalgono affetti alterati: non tanto affetti in qualche modo strani o inconsueti di per se´, quanto stati affettivi la cui presenza, intensita` o durata appare immotivata e incomprensibile. A cio` corrispose probabilmente l’intenzione di localizzare le regioni del cervello preposte a “produrre” il vissuto emotivo. Secondo un’ipotesi, ad esempio, le malattie cosiddette affettive deriverebbero da malfunzionamenti dei neuroni in aree cerebrali arcaiche, situate nel “cervello rettiliano” che rappresenterebbe quanto in noi rimane del mondo animale. Nel tentativo di fare una psichiatria psicodinamica, che colleghi cioe` la classica descrizione clinica con quanto sappiamo del mondo inconscio, ci troviamo paradossalmente a dover contestare la definizione della sindrome depressiva come disturbo degli affetti coscienti. Nelle forme depressive che richiedono l’intervento dello psichiatra, la realta` psichica si e` ammalata ben oltre il problema degli affetti consapevolmente vissuti, evidenziando lesioni e carenze complessive dell’immagine interna e del pensiero inconscio. Cercheremo quindi di esporre in seguito perche´ la tristezza (“l’umore depresso”) non e` sufficiente per fare la diagnosi di malattia depressiva. Per quanto riguarda poi l’eventuale nesso tra la depressione e gli affetti inconsci, esistono certamente forme depressive contrassegnate dalla presenza inconscia di affetti malati, da rabbia e odio. Ma cio` non vale per tutte le depressioni. In altri quadri la realta` psichica e` andata oltre questa castrazione psichica giungendo fino alla dissociazione, frammentazione, polverizzazione dell’immagine interna. Piu` in generale dobbiamo contestare il concetto che gli affetti facciano da ponte tra gli esseri umani e il mondo animale. Riteniamo, al contrario, che gli affetti da noi vissuti e le immagini interiori

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che inevitabilmente vi si connettono siano una caratteristica umana che ci distingue qualitativamente dagli animali. Ancora piu` fuorviante e` poi l’idea che le malattie psichiche derivino da un eccesso o dall’emergenza incontrollata degli affetti. E che, viceversa, il contenimento o addirittura l’assenza di affetti sia indice di sanita` mentale. Quanto appena detto ci porta al secondo significato della parola. Affettivita` intesa come capacita` libidica, ovvero come capacita` di rispondere affettivamente, con interesse e investimento sessuato, agli stimoli del mondo interumano. Quest’accezione, ben esposta nella pagine sulla metodologia che introducono questo capitolo, costituisce una novita` assoluta nella ricerca psichiatrica ed e` corredata da un concetto opposto che si pone con nitidezza: l’anaffettivita`. Proponiamo che i concetti psicodinamici di affettivita`/anaffettivita`, intesi come modalita` globali dell’individuo di rapportarsi ai suoi simili, possano gettare una nuova luce su molti aspetti delle malattie mentali. Tra l’altro, essi costringono a rivedere tutto il sistema d’inquadratura. ` per tale motivo che in questo capitolo discuE teremo quadri clinici che la psicopatologia classica non inserirebbe mai nella sua tradizionale casella dell’affettivita`. Tuttavia, se si considera la seconda accezione della parola – affettivita` «come attivita` che trae le sue radici da una realta` specificamente umana definita carica sessuale originaria» – sono quadri da considerarsi come disturbi dell’affettivita` a tutti gli effetti. Anzi, ne costituiscono addirittura il prototipo. Essi quadri vanno da un’improvvisa incapacita` di amare che il malato stesso segnala come problema (nella sofferenza depressiva), fino alla mancanza pressoche´ totale di affettivita` in alcune forme di disturbo della personalita`. Infine riteniamo che il concetto di anaffettivita` possa aprire la strada verso la comprensione dei disturbi schizofrenici, da sempre punto nevralgico e decisivo per l’identita` della psichiatria.

3. Aspetti psicodinamici delle depressioni di Annelore Homberg «In verita`, io non so il perche´ della mia tristezza... Come l’abbia presa, come l’ho trovata, di che

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sostanza e` fatta, da dove e` nata, devo ancora capirlo...». Nella terminologia in uso all’epoca del Mercante di Venezia (1597), Antonio, uno dei protagonisti, e` preda della melanconia. Il termine ci porta indietro nel tempo, al passaggio tra il V e IV secolo a. C., quando nella Grecia antica si inizio` a formulare il pensiero della “bile nera”. Pensiero che avrebbe influenzato l’operato medico per millenni, e per certi versi lo influenza ancora. Piu` che una realta` osservabile del corpo, quella strana sostanza nera rappresenta una metafora. All’inizio si pensava fosse il sangue andato incontro a una trasformazione patologica, ma poi essa diventa uno degli elementi costitutivi della cosiddetta tetrade umorale. Contemporaneamente, sanita` e malattia diventano una questione di equilibrio o squilibrio tra i quattro umori del corpo, e il pensiero sulla “melancolia”, cioe` sulla prevalenza della bile nera, si imposta secondo binari precisi: — Nella natura umana vi sarebbe implicita una componente tendenzialmente pericolosa, l’atra bile appunto, che va gestita mantenendone l’equilibrio con gli altri elementi dell’organismo. Quando l’equilibrio si rompe – per condizioni esterne sfavorevoli o per un’inappropriata condotta di vita – la bile nera invade il corpo provocando, oltre a diversi tipi di disturbi somatici, “tristezza e senza motivo”. — Una prevalenza costituzionale della bile nera, che non supera cioe` un certo livello quantitativo, secondo Aristotele non fa malattia ma porta al “tipo melancolico”. Con cio` viene introdotta la categoria dei temperamenti o caratteri costituzionali. — Il tipo melanconico avrebbe come caratteristica quella di creare e pensare cose nuove. Viene qui proposto un collegamento tra la presenza della bile nera e la creativita`. Secoli dopo, i “nati sotto Saturno” del Rinascimento italiano, la melancholy e lo spleen inglesi, il Weltschmerz romantico si riferiranno proprio a questo nesso, che colloca una qualita` positiva – la capacita` di creare idee e cose nuove – sotto quella spada di Damocle che condizionera` buona parte del pensiero futuro sull’artista e sul genio. Chi nasce con una prevalenza della bile nera e quindi con un talento

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creativo, rischierebbe piu` degli altri di cadere nella melancolia come malattia (1). Anche se il modello umorale delle malattie si dissolve con l’Illuminismo, tali principi continueranno a influenzare il pensiero medico. Sorprendente, ad esempio, e` l’analogia tra l’immagine della bile nera quale fonte interna di pericoli della quale non ci possiamo liberare, e la concezione dell’inconscio tracciata da Freud alla fine dell’Ottocento. E se oggi, nel secolare oscillare della nostra disciplina tra approcci piu` globali alla psiche e ristretta visione organicista, l’ideologia organicista sembra di nuovo preponderante, va detto che anch’essa ripropone l’antica idea di una discrasia, che questa volta riguarderebbe i neurotrasmettitori. In alcuni contesti di divulgazione di massa, brutalmente tale squilibrio viene detto essere di ordine genetico, non causato cioe` in alcun modo dall’esterno. Piu` cautamente, i manuali specialistici parlano di una multifattorialita`. Esattamente come 2.500 anni fa, quando si proponeva che una miscela imponderabile di fattori alimentari, climatici, costituzionali e comportamentali fosse la causa per l’impazzimento della bile nera.

3.1. Perche´ rifiutiamo l’impostazione organicista Ci e` impossibile accettare l’equazione secondo la quale la familiarita` di un disturbo sarebbe sinonimo di ereditarieta`. Se cosı` fosse, anche l’attuale malnutrizione nel terzo mondo sarebbe un disturbo ereditario. Ma nonostante la sua palese incongruita` e malgrado il fatto che le ricerche genetiche hanno sempre portato e continuano a portare a risultati addirittura opposti (2), la falsa equazione continua a venir riproposta. Condannando il depresso all’idea di essere affetto da una malattia cronica su base genetica, di cui si possono abbreviare e mitigare i singoli episodi, ma che in toto risulterebbe incurabile. E non ce la sentiamo neppure di sostenere che piove perche´ siamo usciti con l’ombrello. Vale a dire, continuo a pensare che sono depressa e per questo ho “la serotonina bassa”, e non il contrario. Un determinato vissuto interno, i nostri affetti e le realta` pulsionali si legano necessa-

riamente a continue modificazioni biochimiche del cervello, ma non e` lecito rovesciare l’affermazione e sostenere che i vissuti psichici altro non siano che la sovrastruttura di casuali cambiamenti biochimici. Tuttora mi batte forte il cuore dopo che ho incontrato un uomo. Difficilmente un uomo mi piace perche´, prima che ne sospettassi l’esistenza, per motivi del tutto ignoti l’adrenalina mi e` andata alle stelle. Se qualcuno in quell’istante mi somministra un calmante, forse il battito cardiaco diminuera`, ma continuero` a essere attratta da quell’uomo. In altre parole: anche quando si riesce a migliorare il tono dell’umore con l’aiuto degli antidepressivi, la realta` interna che sostiene la depressione, pur meno visibile, continuera` a esistere. Possiamo dire che, come tutte le droghe, gli psicofarmaci sono in grado di intervenire su alcuni aspetti quantitativi della realta` psichica, accelerandone o rallentandone lo svolgimento, diminuendo o aumentando l’intensita` percepita. Ma non cambiano qualitativamente la psiche, in particolare non cambiano la struttura e i contenuti del pensiero inconscio. Non e` quindi corretto sostenere che i farmaci abbiano una funzione riequilibrante perche´ colmerebbero ipotetiche carenze dei neurotrasmettitori cerebrali. L’intervento farmacologico consiste, al contrario, nell’indurre un’alterazione artificiale dei processi biochimici nel cervello. In altre parole, i farmaci alterano processi che come tali non sono affatto patologici, ma accompagnano adeguatamente gli affetti e le immagini inconsce che fanno la depressione. Cosı` come, ripetiamo, l’aumentato tasso di adrenalina e la tachicardia, che ne consegue, non costituiscono una malattia, bensı` sono del tutto coesi al mio vissuto di attrazione per un uomo. Da tutto cio` deduciamo che non esistono motivi logici per ritenere che il cervello del depresso presenti alterazioni funzionali o lesioni microstrutturali. Fatta eccezione per quelle depressioni che insorgono in concomitanza con una malattia organica del cervello, partiamo dall’affermazione che nella depressione l’organo cervello e` perfettamente integro. Oltre a queste considerazioni di pura e sem-

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plice logica, la nostra specificita` di essere psichiatri fornisce ulteriori motivi per rifiutare il modello organicista. La vecchia argomentazione secondo la quale la depressione grave non si legherebbe ad alcun evento particolare nella vita del depresso e` infatti sostenibile solo se lo psichiatra non si riferisce al paziente nella sua totalita`, ma ne ritaglia unicamente gli aspetti dimostrabili agli occhi degli altri. Lo psichiatra si limita a fotografare e pesare, ad appuntare sul foglio le affermazioni coscienti del paziente. Quanto nel malato non puo` essere registrato e documentato in maniera riproducibile non lo riguarderebbe, cosı` come il cardiologo non e` interessato ai sogni del cardiopatico. Sulla base della nostra storia personale e di formazione dobbiamo invece sostenere che e` proprio lı`, nel mondo delle immagini sognate e agı`te, degli affetti e dei moti pulsionali sconosciuti allo stesso malato, che si radica la realta` violentissima della depressione. Solo a patto di tentare di conoscere e di dinamizzare questa realta` detta inconscia, lo psichiatra potra` scoprire che non esistono depressioni senza causa. Tutte le depressioni – anche le piu` gravi, anche le forme che si alternano agli stati maniacali – sono “reattive”: nel senso che e` una caratteristica dell’essere umano avere reazioni agli stimoli del suo ambiente che possono essere totalmente sottratte all’osservazione cosciente. Va subito aggiunto che il nostro inconscio reagisce anche a stimoli che esulano completamente dagli elenchi dei cosiddetti “eventi stressanti della vita”. Reagiamo al contenuto piu` nascosto delle cose interumane, al senso delle immagini e dei movimenti in cui ci imbattiamo, e puo` cosı` accadere che, per il solo fatto di aver visto un altro essere umano muoversi e ridere in un certo modo, veniamo presi dal desiderio... o dalla depressione.

3.2. Abraham, Freud, Klein Ma se cosı` e`, se la causa delle depressioni sta nell’inconscio, perche´ a tutt’oggi, dopo cento anni di psicoanalisi, la depressione e` un enigma? Tra l’altro, se gli esistenti studi sull’inconscio avessero

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risolto il problema, non vi sarebbero motivi per l’attuale rifioritura del pensiero organicista. Non possiamo tentare qui una risposta esauriente, ma effettivamente sembra che le scuole analitiche classiche abbiano abdicato di fronte alla depressione, lasciando la depressione maggiore, che sarebbe di natura organica, in mano agli psicofarmacologi. Per quanto i motivi di questo ritiro siano molteplici, vale forse la pena accennare a tre autori che hanno impostato una teoria della depressione che evidentemente non e` stata in grado di portare a conoscenze valide. All’inizio del Novecento e` Karl Abraham il primo a trattare gravi pazienti maniaco-depressivi con i nuovi principi psicoanalitici. Egli evidenzia in loro affetti molto violenti, in particolare l’odio, e immagini sognate o fantasticate che si legano al tema del cannibalismo. Al divorare, intero o a pezzi, un altro essere umano. Queste osservazioni vengono per cosi dire bloccate da Sigmund Freud. Si ignora quanti pazienti depressi egli abbia trattato, ma nel 1917 Freud risponde ad Abraham con il saggio Lutto e malinconia. Per tutti gli anni a venire questo scritto condizionera` il pensiero sulla depressione, legandola a una perdita d’oggetto e alla “scelta oggettuale su base narcisistica” (al fatto di aver perso, materialmente o simbolicamente, qualcuno o qualcosa a cui si teneva perche´ conferiva validita` alla propria persona). Dei vari aspetti clinici della depressione, Freud sceglie quello delle autoaccuse. In verita` esse sarebbero accuse che il depresso rivolge all’oggetto perduto e per questo introiettato (forse sarebbe meglio dire: che il malato fantastica inconsciamente di aver introiettato e di avere quindi dentro di se´). Dal punto di vista clinico la scelta di considerare l’autoaccusa come sintomo guida di tutti vissuti malinconici, e` piu` che opinabile. E sottolineando come tutto il processo debba necessariamente partire dal vissuto di una perdita, Freud elimina l’idea che la depressione possa essere anche la reazione inconscia alla comparsa di qualcosa. In seguito Abraham s’adeguera` e individuera` nella tendenza del depresso a “introiettare” l’oggetto, la regressione ad una primordiale fase

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orale nella vita di tutti, fase in cui amare l’altro sarebbe tutt’uno con il divorarlo e quindi distruggerlo. La fissazione a questa prima fase orale sarebbe tipica per il futuro depresso e avverrebbe su base sia traumatica che costituzionale. Con cio` si aprono le porte all’antico typus melancholicus, ma anche a spiegazioni ereditarie. La sua allieva Melanie Klein riprendera` poi l’idea di una fase evolutiva percorsa da tutti, quando concettualizza la cosiddetta “posizione depressiva” che tutti vivrebbero a partire dal sesto mese di vita. Il depresso per cosı` dire tenderebbe a ricadervi perche´ un tempo non e` riuscito a superarla con successo (3).

3.3. Sprofondare nelle sabbie mobili ` importante tener presente che le depresE sioni non delineano un’entita` nosografica ben precisa, ma sottintendono un ambito vasto e sfumato. Tant’e` vero che nei manuali classici la depressione era l’unico argomento a essere discusso sia nella parte dedicata alle nevrosi, sia nei capitoli sulle psicosi. Essa e` considerata la malattia dell’umore o dell’affettivita` per eccellenza, e il cosiddetto abbassamento del tono dell’umore ne sarebbe l’elemento patognomico. Gli attuali schemi nosografici, come il DSM, propongono elenchi di sintomi osservabili su cui apporre crocette, e la diagnosi sarebbe sicura se queste superano un certo numero. Fino a poco tempo fa, la diagnosi richiedeva invece che vi fossero tre ordini di sintomi. L’abbassamento del tono dell’umore era considerato il sintomo guida, ma vi dovevano essere ugualmente un rallentamento psicomotorio che riguarda ovviamente il comportamento e il vissuto psicofisico, e l’orientamento del pensiero in senso depressivo, vale a dire un disturbo del pensiero che dalla tipica autosvalutazione del depresso giunge fino alla presenza di un delirio depressivo vero e proprio. Che cos’e` allora la depressione, un disturbo dell’umore, del vissuto somatico, del comportamento, del pensiero? ` certo e` che alla fine risulta un quadro di E sofferenza piu` o meno accentuata, che s’accompa-

gna ad un vissuto anche corporeo di pesantezza. Tristezza, sofferenza, pesantezza, distruzione sembrano quindi termini adatti a delineare il vissuto depressivo. Ma se consideriamo solo le prime tre parole, ci imbattiamo nel problema di dover stabilire quale sia un “giusto” tono dell’umore. E dovremmo saper indicare con esattezza quanta sofferenza fa parte della vita normale, e quando essa diventa indice di malattia.

3.3.1. La felicita` e` un totale inganno

Per indicare quanto sia fondamentale chiarirsi le idee su questo punto, riportiamo una recente intervista del collega M. Fagioli sul tema. «Una volta stabilito il limite della depressione come stato conclamato di malattia, per il resto ciascuno oggi si fa la diagnosi per conto proprio. Basta un abbassamento del tono dell’umore, un malumore, che scatta l’autodefinizione di depressione. Consideriamo allora questa situazione chiamata depressione, per differenziarla dal suo opposto. Cos’e` questa non-depressione: contentezza, gioia, iperattivita` oppure, addirittura, felicita`? Va subito detto che questa cosiddetta felicita` potrebbe nascondere uno stato ancora piu` patologico che e` l’euforia, l’esaltazione. Esiste poi un’altra non-depressione ancora che e` l’anaffettivita` o schizoidia. Una situazione, molto piu` grave della cosiddetta depressione, nella quale la persona non avverte alcun malessere ed evidenzia un comportamento ineccepibile, ma e` priva di qualsiasi rapporto con gli altri basato sulla ‘‘timia”, sulla dinamizzazione degli affetti. Puo` essere una realta` socialmente auspicabile, ma umanamente e` pericolosa. La non-depressione, questa cosiddetta condizione normale, che cos’e`? Anaffettivita`, oppure, in alternativa, euforia, esaltazione, fino ad arrivare agli stati ipomaniacali? Cantare dalla mattina alla sera? Sui parametri fisici del benessere oggi c’e` un certo accordo; sappiamo, ad esempio, che necessitiamo di 22 gradi ambientali. Nei riguardi della depressione vige invece un difetto di pensiero.

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Sarebbe un abbassamento del tono dell’umore e se ne parla come se fosse il livello dell’acqua. Come se si sapesse benissimo qual e` il tono dell’umore normale, e non e` vero. ` un momento Lo stesso vale per la felicita`. E di soddisfazione, prendere il sole, godersi una doccia fredda d’estate? Forse no. Si lega all’essere riusciti a realizzare qualcosa? A un rapporto d’amore riuscito o comunque alla realizzazione di una cosa bella? Forse nemmeno dopo realizzazioni massime di questo tipo c’e` la felicita`, piuttosto uno stato d’animo, difficilmente definibile, di calma, autostima, di stare bene. Tuttavia, se il benessere e` abbastanza definibile per quanto riguarda la realta` fisica, rispetto alla realta` psichica la definizione diventa nuovamente difficile. Qualche volta, ripeto, e` solo apparente perche´ esistono persone che non sono depresse e quindi sembra che stiano bene, ma sono totalmente anaffettive. Osserviamo, tra l’altro, che molti scivolano in questa anaffettivita` perche´ non sopportano la depressione. Questo e` un punto importante anche come fenomeno sociale: non si sopporta la depressione. Lo psichiatra deve saper distinguere quando un vissuto depressivo e` malattia, e allora deve intervenire. Quando si tratta invece di “altra” depressione, bisogna che vada cauto. Altrimenti avalla la cultura delle droghe, della pillola della felicita` comprata per un malumore qualsiasi. Una situazione deleteria, perche´ la dimensione patologica non sta nella cosiddetta depressione, che anzi e` fatta di insoddisfazione e di esigenze non realizzate che potrebbero spingere a una ricerca. Patologica e` l’idea immediata di assumere sostanze chimiche piuttosto che cercare il rapporto interumano e una spiegazione del malessere. Si vuole subito la felicita`, felicita` che si traduce in uno stato di intossicazione maniacale. Una ricerca fatta con altri esseri umani non dara` euforia, ma porta a uno star bene certamente maggiore. Dato che non viviamo in un paradiso terrestre, non c’e` niente di malato in molte situazioni di cosiddetta depressione, a patto che non diventino depressioni patologiche di competenza psichiatrica.» (4)

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3.3.2. Ho sognato che avevo il sangue nero

A differenza della scuola psicoanalitica fondata sul pensiero di Freud, riteniamo che l’essere umano formi il suo Io nel momento della nascita, ed e` un’identita` primordiale, una prima realta` di immagine interna che e` certamente fragile, ma ` nella continua non frammentata ne´ asociale. E dialettica con altri esseri umani che questo Io naturalmente portato al rapporto percorrera` le tappe successive del suo sviluppo, dall’allattamento allo svezzamento, fino alla crisi puberale. Quella realta` detta inconscia si e` mostrata diversa da quanto si e` sempre pensato, che fosse cioe` il regno inespugnabile di pulsioni ostili al principio di realta`. Sappiamo oggi che l’inconscio e` in continuo rapporto con la realta` circostante e costantemente reattivo alle esperienze interumane. Dopo ogni separazione da un’esperienza importante di rapporto, quest’ultima verra` trasformata in un ricordo che non e` solo raffigurazione cosciente, ma anche immagine inconscia. E come tale contribuira` alla trasformazione, precisazione oppure, al contrario, all’imbruttimento dell’Io. L’inconscio va pensato come sede di pulsioni, affetti, immagini e pensieri, espressi tramite immagini, che fanno il nostro rapporto piu` profondo e valido con la realta` umana, anche se questa originaria capacita` di rapporto e conoscenza puo` rovinarsi in seguito alle delusioni subı`te da altri esseri umani. Quest’impostazione, convalidata dalla clinica, ha importanti conseguenze quando affrontiamo il mondo onirico dei nostri pazienti. Se conosciamo l’esperienza di rapporto che il malato ha vissuto, le immagini da lui raccontate ci permetteranno di comprendere come egli ha elaborato questo rapporto. Possiamo cioe` cogliere com’e` fatta, in quel momento, la sua realta` psichica piu` profonda, quella realta` nascosta che puo` rendere le cose piu` belle ma che le puo` anche imbruttire. Che e` capace di straordinarie intuizioni, ma che in caso di malattia dell’inconscio nega o fa addirittura sparire internamente il vissuto. (5) La paziente scopre di avere il sangue nero. Raccontato all’interno della relazione terapeu-

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tica, il sogno racconta della sua reazione a uno stimolo che e` la realta` umana del medico stesso. Confrontandosi con questa realta` che avrebbe il sangue rosso, cioe` sarebbe caratterizzata da vita e calore, la paziente inconsciamente si dichiara diversa e, possiamo dire, carente. Il suo sangue e` diventato nero: lei ha fatto sparire, ”annerito”, reso inesistente in se´ questa dimensione di vitalita`, calore, movimento. L’esempio permette di proporre il pensiero che alla base di ogni vissuto depressivo si trovi una reazione a uno stimolo interumano, che sfocia nella constatazione inconscia di una carenza. ` per una carenza negli affetti, nell’immagine, E della sessualita` o del pensiero sulla realta`, che il depresso non riesce a stabilire un rapporto valido con lo stimolo nuovo; non riesce, possiamo dire, a conoscerlo per quello che e`. A questa constatazione di carenza corrisponde un vissuto psicofisico, piu` o meno grave, di abbattimento, pesantezza e sofferenza che e` tipico della depressione. Questa sofferenza si discosta dal vissuto di dolore. Il dolore fisico porta rapidamente ad individuare il punto del corpo che fa male e a toglierci le scarpe troppo strette. Il vissuto malamente indicato come sofferenza depressiva tende invece a indurre una ricerca diffusa, e` la molla per una dinamizzazione di tutte le forze alla ricerca di qualcosa che e` sentito, ma per ora non ben localizzabile. Il pensiero di una carenza alla base del vissuto depressivo – carenza che per altro non e` congenita, ma prodotta dal depresso stesso che ha annullato o grandemente negato le sue dimensioni originariamente valide – getta una nuova luce sul nesso freudiano tra depressione ed esperienza di perdita. Possiamo considerare che la perdita subita non sia di per se´ l’elemento causale, ma che faccia scoprire una carenza sottostante di identita` umana. Quanto perduto – danaro, posizione sociale, lavoro, fidanzate, mariti, prestigio, potere – funzionava da stampella e, venuto a mancare l’appoggio, la realta` dell’individuo si scopre variamente zoppicante. Per gravi difetti strutturali, ma a volte anche per il solo fatto di prestare troppo ascolto ai luoghi comuni profusi dagli altri. Non e` quindi a causa di questa o quell’altra

perdita che si cade in depressione o, peggio, ci si uccide e si uccidono altre persone. Le situazioni di perdita costringono piuttosto a scoprire le carte, e qualora queste carte dovessero rivelarsi lacere, la cura non passa attraverso la restituzione delle cose perdute, ma richiedera` il recupero e la realizzazione dell’identita` interna.

3.3.3. Depressioni fisiologiche

Possiamo servirci di questo termine paradossale per indicare una situazione interna in cui la carenza, smascherata da uno stimolo nuovo dell’ambiente interumano, e` relativa e storicamente determinata. Quest’evenienza ci porta immediatamente a introdurre un concetto che riguarda una fondamentale caratteristica della psiche umana: quella di essere in continua evoluzione e trasformazione. Mentre il nostro corpo ha raggiunto il suo massimo di completezza e funzionalita`, altrettanto non puo` essere detto della realta` psichica. La cosa e` di notevole interesse per la psichiatria, perche´ dobbiamo tener conto del fatto che, psichicamente parlando, quel che andava bene fino a ieri, oggi potrebbe non essere piu` sufficiente e quindi scatenare una sensazione di carenza. Alcune statistiche rilevano che, a differenza del passato, oggi sono in maggioranza le donne ad essere depresse. Nel valutare questo dato, come non tener conto del fatto che nel corso dell’ultimo secolo le possibilita` di realizzazione delle donne sono molte cambiate? In epoca vittoriana, ad esempio, una donna frigida non solo era esonerata dal viversi come carente, ma incarnava addirittura un ideale sociale. Oggi invece, nell’epoca dei contraccettivi, l’inconscio di molte donne considera inaccettabile un’eventuale mancanza di liberta` e desiderio, e la contraccambia con un vissuto depressivo che punta il dito su una piaga che giustamente andrebbe affrontata. Con il termine “depressione fisiologica” ribadiamo il concetto che queste condizioni sono potenzialmente evolutive, nel senso che il vissuto di sofferenza puo` indurre la persona a ribellarsi a quanto e` storicamente superato, ad andare verso una trasformazione interna che colmi la carenza.

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Se lo psichiatra etichetta come malattia questo tipo di situazione che ha in se´ la possibilita` di una ricerca, egli si mette tragicamente al servizio dell’esistente. Contribuisce a soffocare un potenziale di critica ed evoluzione che deriva da quanto di piu` prezioso gli esseri umani portano in se´.

3.3.4. L’oppressione

Come forma particolare di depressione non patologica consideriamo una situazione che si viene a creare ogni qual volta la carenza interna derivi da un passaggio non ancora avvenuto. Grazie a una generica sensibilita`, intatta e conservata, la persona avverte una dimensione di negazione o annullamento in chi la circonda, ma non e` in grado di tradurre questo suo sentire in una conoscenza verbalizzata. La situazione opprimente viene vissuta con una sofferenza anche del corpo, con un senso di pesantezza e rallentamento, ma non si riesce a formulare un pensiero su quel “tu non sei quello che sei” che l’altro propone: sulla violenza psichica subı`ta. Questo quadro, che andrebbe particolarmente considerato quando il medico visita un bambino dichiarato depresso, non e` di per se´ patologico, in quanto la mancanza di parole che diano la conoscenza, il fatto di non saper ancora “dare il nome alle cose” costituiscono una carenza relativa che l’evoluzione futura potra` sempre colmare. Tuttavia, una diagnosi violenta di depressione e malattia fatta dagli altri puo` precipitare le cose, fino al punto in cui l’individuo perde ogni fiducia nel proprio sentire, oppure annienta addirittura questa sua sensibilita` aderendo al falso giudizio degli altri. Da oscillazione del tono dell’umore, la depressione si trasforma in alterazione del pensiero inconscio. (6)

3.3.5. Malattia mortale

Vi e` pero` un punto, non facile da individuare, in cui viene meno la capacita` di reagire alla sofferenza dinamizzando un atteggiamento di ricerca. ` il punto in cui inizia la depressione come maE

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lattia. Ed e` qui che lo specialista deve intervenire in quanto il depresso da solo non puo` piu` nulla, caduto com’e` in un’inerzia che e` disperazione di non poter mai conoscere. Il malato non riesce piu` a creare alcun movimento interno. Possiamo pensare che gli affetti inconsci, soprattutto l’odio intensissimo diretto contro uno stimolo interumano, abbiano portato a una paralisi interna, che puo` esprimersi con il quadro clinico dello stupor. (7). «L’angoscia della distruzione e` il motivo del blocco stuporoso di ogni depresso che ha paura di distruggere l’oggetto dell’amore.» (8). Puo` tuttavia accadere che la violenza interna si volga verso l’esterno e diventi distruttivita` manifesta. Non scisso tra corpo e mente come lo sono altri malati mentali, il malato di depressione tramuta l’odio con cui ha reagito allo stimolo esterno in arma contro se stesso. Si distrugge esistenzialmente, con scelte autolesive di rapporto, ma anche materialmente: colpendo le proprie possibilita` economiche oppure la sua realta` fisica con l’abuso di alcool e stupefacenti. Fino all’autodistruzione completa che e` il suicidio. La realta` clinica con cui lo psichiatra si cimenta ogni giorno e` complessa, nella misura in cui si riscontrano spesso, forse prevalentemente, forme in cui elementi di depressione si mescolano ad altre dimensioni psicopatologiche. Frequentemente il quadro psicodinamico e` sporco, nel senso che vi sono elementi di una frammentazione inconscia che s’accompagnano a stati di angoscia e connettono queste “depressioni agitate” all’ambito delle psicosi dissociative. Infine sono da prendere in considerazione le situazioni in cui lo stato depressivo si alterna a fasi di euforia o eccitamento maniacale. E quell’altra situazione ancora in cui la depressione ha assunto la forma di un delirio, con convinzioni non criticabili di colpa, rovina o indebitamento che coartano la vita del malato. Per quanto sia schematico, ci sembra tuttavia possibile enucleare una condizione clinica che potremmo denominare il vero depresso. Un’immagine che rende quanto vorremmo delineare e` la figura del cavaliere nel “Settimo sigillo” di

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ingmar Bergman, impegnato in una partita a scacchi con la morte. Accade raramente che un simile depresso “puro” si rechi dallo psichiatra. Dotato di un certo spessore affettivo – al contrario della personalita` razionale o fatua – e con una struttura interna portata alla ricerca, egli tende a tenersi le cose per se´. Non chiede quindi aiuto a nessuno, nemmeno ai familiari, superbo forse del fatto che e` capace di reggere a lungo situazioni interne di sofferenza. Grazie alla sua serieta` e capacita` di dedizione puo` fare cose egregie nel suo campo d’applicazione. Meriti che tuttavia non gli sono di alcun sollievo in quel momento in cui, esposto a un elemento frustrante della realta` interumana, si trova preda di una spaventosa violenza interiore: “un corridoio colmo di coltelli conficcati nei muri con le lame rivolte verso di me”. Alla lunga, ma a volte forse anche a causa di un’improvviso corto circuito, questo tumulto di affetti violentissimi puo` far sembrare che la so` probabile che, quapravvivenza sia impossibile. E lora la morte dovesse vincere la partita, un depresso “vero” uccida solo se stesso. Risparmiera` la vita degli altri, anche se il suo gesto va letto comunque come attacco frontale agli altri, alle loro possibilita` di benessere e realizzazione.

cale indicano un ulteriore peggioramento della situazione. Nella psicoterapia della malattia maniaco-depressivo e` quindi importante raggiungere un punto a partire dal quale il paziente riesce a tenere la depressione, senza cadere nella frammentazione interna e nell’agire euforico. Tra le situazioni piu` tragiche che si possono incontrare in psichiatria, sono i casi di suicidioomicidio commesso da pazienti depressi. Tipico e` il caso della madre che uccide i propri figli e poi tenta di sopprimere se stessa. Piu` frequentemente si tratta di patologie con presenza di un delirio depressivo, per cui rimandiamo alle considerazioni sul delirio contenuto in questo manuale. Aggiungiamo solo quanto sia ingannevole l’idea, che pure si offre veloce, che il depresso abbia voluto portare con se´ le persone a cui teneva particolarmente, perche´ nel suo delirio credeva che non avessero futuro. Dobbiamo invece pensare che non vi e` alcun amore, per quanto grottescamente distorto, nel gesto della soppressione. La realta` dell’omicida-suicida va concettualizzata come una situazione di onnipotenza inconscia, che fa decidere sulla sorte degli altri come se essi fossero degli oggetti di cui si ha il possesso.

3.5. Come si cura la depressione? 3.4. Oltre la depressione Una paziente con trascorsi episodi depressivi inizia una breve fase di eccitamento maniacale con il sogno di cadere dalla bicicletta che poi si disintegra. Aveva cioe` perduto la sua dimensione di vitalita` (la bicicletta) in reazione ai segni dell’incipiente puberta` del figlio, da lei prontamente negati e annullati in quanto non accettava la prospettiva di autonomia e separazione dai genitori che ogni puberta` comporta. Cio` aveva pero` portato a una polverizzazione dell’immagine interna. Constatando il passaggio dalla grave perdita di vitalita` alla frammentazione inconscia e al successivo quadro di eccitamento, possiamo ribadire che quel tanto di affettivita`, che nel vissuto depressivo e` ancora conservato viene a mancare del tutto nel viraggio maniacale. Psicodinamicamente parlando, l’euforia e l’esaltazione mania-

Con il rapporto di psicoterapia. L’affermazione non autorizza atteggiamenti euforici ne´ ci affranca dal modo abituale di porsi in medicina. La sindrome depressiva va affrontata con la stessa impostazione con cui, ad esempio, un internista guarda ai tumori. Per la prognosi da lui enunciata conta ovviamente la tipologia del tumore, ma anche la sua estensione e diffusione nell’organismo. In analogia, e` diversa la condizione clinica di chi vive un primo crollo depressivo rispetto a chi da anni attraversa gravi fasi depressive, avendo gia` sperimentato una serie di ricoveri e interventi farmacologici. ` facile dedurre da cio` quanto sia importante E riconoscere e affrontare le malattie psichiche quando sono ancora agli esordi. Va pero` tenuto presente che la psiche umana evidenzia margini d’imprevedibilita` che il nostro corpo in genere

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non possiede. In medicina organica una prognosi infausta e` il risultato di una serie di parametri oggettivi, mentre in psichiatria non possiamo mai escludere che un paziente grave, “senza speranze”, possa trarre un inaspettato giovamento dalla terapia. In cio`, il principale elemento prognostico favorevole di cui disponiamo e` forse la constatazione di una reattivita` del paziente alla situazione di rapporto che noi gli dobbiamo comunque proporre. In secondo luogo, la priorita` accordata alla psicoterapia non va intesa come una presa di posizione ideologica contro l’uso dei farmaci. In determinati contesti puo` essere realistico prescriverli, ad esempio quando il paziente deve affrontare la vita quotidiana e il rapporto terapeutico non e` ancora sufficientemente valido per permettere cio`. Considerazioni analoghe valgono per il ricovero: in certi momenti, soprattutto quando esiste un pericolo acuto per la vita, esso va messo in atto. Quel che conta, e` un’impostazione metodologica corretta secondo la quale sono i farmaci ad essere coadiuvanti del lavoro di psicoterapia, e non viceversa. Sia gli antidepressivi che il ricovero sono misure d’urgenza e di vigilanza che hanno un senso unicamente nella misura in cui creano i presupposti per la realizzazione del rapporto terapeutico.

3.6. Un cobra velenoso Quando parliamo di psicoterapia delle depressioni, ci riferiamo a una metodologia precisa. La psicoterapia non puo` consistere in un generico atteggiamento di sostegno e empatia, che anzi nel caso del depresso risulterebbe particolarmente dannoso. Come abbiamo detto sopra, il paziente depresso alberga in se´ una notevole violenza psichica. Quando il depresso parla delle sue colpe, lo psichiatra deve quindi sapere che, per certi versi, egli ha ragione, anche se le autoaccuse, espressione di un Super-Io menzognero, non colgono o piuttosto servono a nascondere le reali carenze dell’Io. Tenendo presente che questo Io deriva dall’identita` della nascita e non da identificazioni con le figure genitoriali, possiamo cosı` dire che il depresso sente una reale mancanza

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di realizzazione, sulla quale e` necessario indagare. Tuttavia, all’inizio del lavoro il terapeuta non sa quale degli infiniti stimoli del mondo interumano possa aver scatenato la reazione depressiva. Puo` comprendere la dinamica inconscia solo qualora riesca a dinamizzare un viraggio che e` fondamentale: il paziente giunge al punto in cui il senso di carenza si scatena nei confronti della realta` umana del suo medico. ` lı` che inizia quel che potremmo chiamare il E transfert negativo, intendendo con cio` il fatto che il paziente inizia a percepire che il terapeuta non e` come lui. Non e` depresso o angosciato, e le sue interpretazioni del rapporto inconscio veicolano un contenuto di costanza, resistenza, coerenza, ` a questa diversita` del interesse reale per l’altro. E terapeuta che il depresso reagira` con ostilita`, in particolare con la dinamica della negazione che e` riassumibile come pensiero inconscio del tipo “tu non sei quello che sei”. Sostenere, affrontare, superare il transfert negativo, “quando nella stanza s’aggira un cobra”, e` il perno di ogni lavoro psicoterapeutico. Nel caso della depressione e` importante per un duplice motivo. In primo luogo, perche´ l’instaurarsi del rapporto inconscio violento permette al depresso di non rivolgere piu` l’odio contro se stesso, ma contro un altro essere umano che e` in grado di sostenerlo senza venirne distrutto. L’aspettativa inconscia del depresso grave nei confronti del rapporto interumano e` infatti caratterizzata dall’idea della distruzione. Nella misura in cui egli pensa che il rapporto con il medico lo rovinera`, e` ovviamente importante che cio` non accada. Dato che il pensiero immediatamente successivo sara` quello che egli, il depresso, distruggera` il medico, e` altrettanto fondamentale che il terapeuta sappia sostenere il rapporto senza andare incontro a lesioni e danni nell’identita`. (9) Al contempo, l’interpretazione del transfert negativo fornisce al paziente un filo metodologico che e` promessa e speranza di una conoscibilita`. Lo toglie in altre parole dalla disperazione di non poter mai conoscere. Possiamo considerare l’atteggiamento della ricerca come una sottile linea di demarcazione che separa le situazioni psichiche attigue dalla malattia mentale. Il malato incon-

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sciamente non ha piu` alcuna speranza di poter comprendere quanto gli e` accaduto, e forse per questo e` quasi sempre convinto, nell’inconscio, di ` quindi fondamentale per l’eessere incurabile. E sito della terapia che il paziente realizzi di nuovo la possibilita` di una ricerca, ricerca sulla propria realta` interna e sulla vera natura dei rapporti interumani. Quanto appena detto pone ovviamente il problema della formazione dello psichiatra. Per realizzare un’identita` terapeutica che sappia suscitare e affrontare il transfert negativo senza cadere in diverse forme di rassegnazione (tra cui la cosiddetta sindrome del burn out), pensiamo che la formazione debba andare molto oltre cio` che attualmente viene insegnato nelle scuole di specializzazione. Prima di tutto e` indispensabile che lo psichiatra faccia un lavoro personale che lo guarisca da eventuali dimensioni psicopatologiche. Inoltre deve disporre di strumenti teorici e metodologici che lo mettano veramente in grado di affrontare la violenza psichica dei pazienti, ma anche di non deluderne le speranze.

3.7. L’affettivita` Se cerchiamo quali difetti dell’Io inconscio si nascondono dietro il vissuto depressivo, possiamo incontrare una moltitudine di manchevolezze dell’essere, dell’immagine interna. Ma vorremmo chiudere con l’accenno ad un’ipotesi recente, secondo la quale tutte le carenze potrebbero condurre a un unico problema di fondo che e` l’anaffettivita` . L’impossibilita` di conoscere in cui il depresso e` caduto e` sempre anche un’incapacita` di amare. Come e` gia` stato detto nell’introduzione metodologica a questo capitolo, il concetto psicodinamico di affettivita` non ha nulla a che vedere con termini come affettuosita`, essere “buoni”, o ` con un atteggiamento vagamente assistenziale. E una realta` interna, di volere che l’altro umano sia (e, al contrario, di non accettare che egli non e` quel che potrebbe essere), che riconduciamo ad una dimensione libidica, di vitalita`, insita nella nascita umana. (10)

In questo senso possiamo riprendere il tradizionale nesso tra depressione e affettivita`, dovendo pero` specificare che nella depressione vi e` una carenza di affettivita` che il malato sente e segnala con la sua sofferenza. Quando una paziente depressa, bionda, sogna di avere le radici dei capelli neri e il resto della capigliatura ossigenato, possiamo pensare a una realta` di questo tipo. Ella comunica che alla base di cio` che ha in testa, del suo pensiero cioe`, vi e` attualmente una realta` di annullamento del “biondo naturale”. In altre parole, il suo pensiero si e` sviluppato annullando un’originaria dimensione libidica e partendo quindi da un substrato di anaffettivita`, il che rende finto il suo desiderio e interesse per gli altri. «Il suo pensiero e` una nascita mostruosa che si realizza per la morte di cio` che la precede.» Tuttavia, interpretando e frustrando le dimensioni negative che hanno portato alla perdita di questa originaria realta` affettiva, il lavoro terapeutico puo` fare sı` che l’inconscio la recuperi. Che ritrovi i propri bambini perduti. Quando parliamo della possibilita` di guarire dalla depressione, non possiamo quindi considerare la sola remissione dal singolo episodio depressivo. Solo nella misura in cui le immagini inconsce del paziente e la struttura del suo pensiero sono qualitativamente cambiate, vi e` la realistica prospettiva che non vi saranno ricadute. Solo se si e` innescata l’invisibile spirale tra capacita` di amare e possibilita` di conoscere, il paziente potra` sostenere le crisi della vita futura senza angoscia di ricadere nelle malattia.

4. Affettivita`: la psicodinamica di Andrea Masini Proporre che il “Disturbo antisociale di personalita`” e` un grave disturbo dell’affettivita`, mi rendo conto, costituisce una novita` nella classificazione dei disturbi psicopatologici. Ma ormai si sta facendo sempre piu` evidente nella ricerca psichiatrica attuale il fatto che la base di molti disturbi noti e` una patologia della sfera affettiva. La perdita dell’affettivita` nella nota dizione di anaffettivita` sembra essere schematicamente il

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tratto fondamentale di questo disturbo, che puo` strutturarsi in sindrome oppure attraversare trasversalmente molti altri disturbi come fattore prognostico negativo5; la perdita e non la alterazione di questa sembra distinguerla da altri disturbi propriamente e classicamente riferiti agli affetti come la depressione e la mania. Il disturbo antisociale di personalita` viene classificato attualmente nel DSM-IV tra i disturbi di personalita`; il manuale individua, come e` nel suo stile, una serie di disturbi del comportamento e cerca con questi di ottenere dei criteri il piu` possibile obiettivi cosı` da rendere questa diagnosi una tra le piu` affidabili e riproducibili di tutta la classificazione. Non si occupa, al contrario, della descrizione della personalita` di questi soggetti ne´ tanto meno della psicopatologia in senso classico intesa nel senso della descrizione accurata dei sintomi, ne´ infine si preoccupa di proporre un’ipotesi psicodinamica. La prima descrizione di questo disturbo e` universalmente attribuita a Pinel, che lo definı` “manie sans de´lire”. Anche il concetto di considerare il disturbo antisociale una patologia di tutta la personalita` e` piuttosto antico e condiviso; si puo` gia` intravederlo nella descrizione del cosiddetto “criminale nato” che ne fa Lombroso nel 1876, ma che verra` poi ulteriormente chiarita da Bumke nel 1936 e infine da Schneider nel 1942 con la famosa definizione di “coloro che fanno soffrire”6. Si fa riferimento cosı` al fatto che il disturbo e` molto precoce nelle sua insorgenza e inficia tutta la struttura interna dell’individuo che ne e` affetto tanto da non poter piu` distinguere, come si fa in altre patologie, quanto e` malattia e quanto al contrario e` struttura di personalita`. ` erroneo al contrario ritenere, come si fa E comunemente con altri disturbi, che il disturbo di personalita` sia in questo caso qualcosa di meno grave di una sindrome perche´ il soggetto e` arrivato comunque alla strutturazione di una perso-

5 Kernberg O., Disturbi gravi di personalita`, Boringhieri, Torino 1990; p. 57. 6 Schneider K., Psicopatologia clinica, Citta` nuova, Roma 1983; p. 49.

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nalita` ben definita mentre invece ritengo la formazione di una personalita` antisociale tra le patologie forse piu` gravi della classificazione nosografica. Il pensiero, invece, di considerare questa patologia una patologia dell’affettivita` puo` apparire del tutto nuovo pur avendo in Magnan (1893) un illustre predecessore, ma a nostro avviso serve per chiarire qualcosa che forse non e` mai stato chiarito prima. Questi soggetti hanno perduto, e precocemente, qualunque traccia di affettivita` nei confronti degli altri esseri umani pur conservando spesso un’intelligenza e una razionalita` apparentemente normale, che al contrario potrebbe e superficialmente sembrare ben sviluppata. Ed e` per questo che e` sempre stata considerata di volta in volta un disturbo minore o altrimenti misconosciuto, nella misura in cui la nostra cultura ha da sempre considerato la patologia psichiatrica nel suo complesso e genericamente una patologia della ragione intendendo con cio` la follia come perdita di ragione e la “normalita`” come acquisizione della razionalita`. Solo ipotizzando che non e` nella ragione la specificita` umana che noi possiamo tentare di comprendere e spiegare questo disturbo che altrimenti rischia di far passare questi soggetti come del tutto normali salvo poi sorprenderci se il loro comportamento arriva, e inaspettatamente, all’omicidio seriale che si legge sui quotidiani la mattina con il caffe`. Anche il termine anaffettivo, che ben si adatta a descrivere il sintomo fondamentale di questi soggetti, puo` essere considerato generico perche´ comune anche ad altre patologie, se non se ne comprende bene il senso con il quale viene qui adoperato. Si tratterebbe di una perdita totale e precoce di tutta l’affettivita` del soggetto nel suo complesso che pertanto si muoverebbe soltanto sulla base di un pensiero lucido e sul calcolo freddo di un vantaggio personale. Ma mi rendo conto della necessita` di chiarire ulteriormente. Parlare di affettivita` o anaffettivita` fa riferimento a qualcosa di intuitivamente facilmente comprensibile a tutti ma difficilmente spiegabile in un trattato di psicopatologia e ancor piu` indimostrabile sul piano dell’obiettivita` scientifica.

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Pur tuttavia non si puo` prescindere da questo diciamo concetto nel confrontarsi con la realta` interna degli esseri umani come pretende di fare la psichiatria. Se poi volessimo tentare di spiegare che cosa intendiamo con il termine affettivita` ci troveremmo immediatamente a muoverci nei frangenti burrascosi ed incerti del pensiero filosofico che mal si adatta ad un trattato scientifico. Cio` che e` evidente e` che l’affettivita` e` sempre stata considerata in opposizione all’intelletto,7 e tuttora viene descritta dai moderni trattati di psichiatria ancora cosı`,8 senza mai proporne una descrizione esaustiva ma solo una definizione per opposizione. Tutti pero` concordano nel ritenerla composta dalle emozioni e dai sentimenti nonche´ da un “fondo” che costituirebbe il cosiddetto tono, lo stato basale dell’affettivita`. Ma con cio` credo abbiamo chiarito ben poco. Se poi mi e` concessa una posizione personale, riterrei l’affettivita` una caratteristica esclusivamente umana che sottintende il movimento, l’interesse degli esseri umani verso gli altri soggetti della stessa specie con i quali stabilisce delle relazioni che comprendono delle reazioni reciproche (sentimenti, emozioni, immagini), tutto cio` che in altri termini noi potremmo chiamare realta` psichica. Tale caratteristica della specie umana sembra essere originaria e di molto precedente al suo opposto, quello che definiamo al contrario come intelletto o ragione che, come si sa, compare nella nostra storia solo dopo il primo anno di vita. E infine vorrei solo aggiungere che molta parte di quanto noi abbiamo tentato di descrivere come affettivita` e` in realta` una caratteristica non cosciente del nostro essere. Solo cosı` posso adesso sperare di aver reso piu` chiaro il perche´ la perdita di parte o di gran parte di tutto cio` possa determinare una patologia tanto grave che va sotto il nome rassicurante di “disturbo antisociale di personalita`”. Di fatto l’aspetto antisociale da tutti e sempre

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Cartesio, Trattato delle passioni dell’anima, (1649). Cfr. P. Sarteschi, C. Maggini: Manuale di Psichiatria. Ed. S.B.M., Noceto (Parma), 1989. 8

evidenziato come disturbo del comportamento (il DSM-IV li chiama i disturbi della condotta) non sembra piu` cosı` a mio avviso il tratto saliente. L’ostilita` per le norme sociali in assenza di un’ideologia precisa, gli episodi di irresponsabilita`, il rifiuto delle regole, etc. sono quanto resta di quell’affettivita` grandemente perduta. Questi comportamenti, determinati sulla base dell’odio e della rabbia, comunque testimoniano che qualcosa degli affetti e` rimasto anche se nel suo aspetto piu` distruttivo. L’asocialita`, che va distinta dall’antisocialita`, non va pensata come incapacita` di avere relazioni oggettuali, che questi soggetti hanno: ma i loro rapporti sono limitati nel tempo e improntati da una dinamica di controllo e di utilizzo della relazione al fine di ottenere vantaggi personali da questa. L’aggressivita`, possono essere brutali, freddi, spietati e crudeli, e` una costante del disturbo che puo` portare a gesti eterolesivi ma mai autolesivi, ma va intesa soprattutto come distruttivita` nel rapporto interumano che si esplica come annullamento9 dell’altro e delle qualita` dell’altro e solo secondariamente come sadismo materiale, cioe` si realizza come gestione di quell’anaffettivita` di cui parlavamo precedentemente. Puo` essere spesso impulsiva, dettata da una pulsione che mira a distruggere prima di tutto il rapporto con l’altro. Pulsione che, istintuale ed improvvisa, puo` essere inconscia oppure parzialmente cosciente cioe` dettata da un pensiero lucido precedente, che porta a quella caratteristica sempre descritta come “passaggio all’atto” che implica un’incapacita` di rappresentazione interna. ` incapace di sentimenti, tratta le persone E come tratta gli oggetti perche´ forse e` realmente incapace di distinguere gli uni dagli altri e qui mi ricollego a quanto detto sopra: in questa incapacita` si ritrova tutta la patologia di questi soggetti che hanno perduto qualcosa di fondamentale e originario della realta` umana. Fondamentale perche´ ritengo caratteristica tipicamente umana

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Il concetto di annullamento e` qui utilizzato come scoperto e proposto da Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza, NER, Roma 1996.

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quella di attribuire all’uomo un valore in se´ a prescindere da qualunque valutazione soggettiva e di fatto non c’e` diritto giuridico al mondo o costituzione che neghi in teoria a qualunque essere umano questo valore in se´; originario perche´ a mio giudizio cio` non sembra qualcosa di culturalmente acquisito sia perche´ comune a societa` diverse, sia perche´ e` difficile pensare che l’uomo sia naturalmente cosi perverso da avere una dimensione cannibalica degli istinti naturali inibiti dall’angoscia della sanzione penale. Di nuovo vorrei sottolineare che questa dimensione interna, che ho chiamato banalmente affettivita`, e` una realta` di tutti gli esseri umani che ha caratteristiche vorrei dire biologiche della specie, cioe` naturalmente ogni individuo viene al mondo con questo patrimonio che, se mai si perverte, si perverte successivamente in una patologia psichiatrica nota. Ha pochi sensi di colpa e raramente ansia: sono, queste, caratteristiche evidenziate da tutti gli Autori e facilmente deducibili nella psicopatologia di questi soggetti da quanto detto sopra; anche dopo fatti criminosi appaiono calmi e sembrano non rendersi realmente conto di quanto hanno fatto, come se fossero realmente privi di un’emotivita`. Non hanno coscienza di malattia e molto raramente si rivolgono spontaneamente ad uno psichiatra. Inseguono spesso un utile come fa il delinquente, ma diversamente da questo non sempre e` un utile materiale: piu` ampiamente, l’utile puo` essere la soddisfazione di un bisogno parziale o la realizzazione di un’idea fortemente radicata nel pensiero del soggetto. Possono presentare promiscuita` sessuale e abuso di sostanze. Possono essere presenti tutti i tipi di perversioni, comprese l’omosessualita` e la pedofilia. L’unico vero problema diagnostico di questa patologia si pone nei confronti del “disturbo schizoide” o meglio nei confronti di quello che un tempo si chiamava schizofrenia simplex di Bleuler10: e di fatto le due personalita` si avvicinano molto, tanto a volte da non essere distinguibili. Questo puo` essere sostenuto anche dal fatto che

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spesso una perdita di affettivita` di questo tipo viene raggiunta dal processo schizofrenico ed e` ipotizzabile che le due patologie abbiano un’origine comune. Quello che forse le differenzia sul piano clinico e` “il passaggio all’atto”, cioe` l’antisociale passa all’atto in virtu` della sua impulsivita` piu` spesso, o meglio in virtu` di quell’affettivita` rimasta che si esprime, come dicevamo, in odio e rabbia; al contrario lo schizoide puo` in teoria e solo in teoria annullare totalmente se stesso e gli affetti in una proposizione di non essere. Piu` intelligente dell’antisociale, non fa “errori”, non cade nella stupidita` della rabbia cieca ma riesce a condurre la sua vita fatta di niente senza mai cadere nel codice penale: La reazione ultima al rapporto sadomasochistico si realizza come annullamento di se´ e del mondo. La possibilita` di rendere inesistenti gli affetti nel rapporto interumano fa del burattino ribelle un nulla. Un robot materiale che agisce fisicamente il corpo nelle azioni fisiologiche di sopravvivenza. Anaffettivo nei riguardi di se´ ed degli altri conduce la sua esistenza occupando soltanto lo spazio necessario al suo corpo. Il suo pensiero, diventato divino e tenuto gelosamente nascosto alla percezione altrui, e` la conseguenza e il risultato della scissione del pensiero e di cio` che non e` materiale da cio` che e` materiale, il corpo. Conseguenza e risultato dell’operazione della mente che riesce a fare dell’istinto di morte una fantasia di sparizione che rende inesistente se´ e gli altri11. Vorrei tentare ora di descrivere un’ipotesi psicodinamica di questa patologia partendo dall’ipotesi freudiana, anche se ormai superata, perche´ storicamente la prima formulata. La teoria psicanalitica fin dall’inizio della teorizzazione freudiana si e` basata sul concetto che la sessualita` infantile alle sue origini sia perversa: «gli scopi sessuali dei perversi sono identici a quelli dei bambini», «la possibilita` che ogni essere

10 Bleuler E., Trattato di psichiatria, Feltrinelli, Milano 1967. 11 Fagioli M. (1974), La marionetta e il burattino, NER, Roma 1991; p. 87.

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umano ha di pervertirsi, in determinate circostanze ha le sue radici nel fatto che questi una volta e` stato bambino»12. In quest’ottica il neonato, fin quando agisce secondo il principio del piacere, non sopportandola, cerca di scaricare immediatamente la tensione che gli provoca la sensazione di fame. Sara` lo sviluppo successivo dell’Io che blocchera` la tendenza verso lo scarico delle pulsioni e successivamente del Super Io che, attraverso l’introiezione delle figure genitoriali, fara` sı` che il bambino impari a controllare gli impulsi seguendo il ` in questa dinamica che si principio di realta`. E collocherebbe, per la teoria freudiana, il soggetto antisociale: regredito alla perversione infantile, dotato di un Super Io “arcaico”, non controllerebbe le pulsioni aggressive e distruttive nei confronti dell’oggetto. Come il neonato, dopo aver superato la prima fase narcisistica della libido, l’antisociale avrebbe trovato un rapporto oggettuale ambivalente, ma questo si esplicherebbe senza alcun controllo da parte dell’Io attraverso un meccanismo di stimolo-risposta immediato, incapace di operare un contenimento, una rimozione delle istanze stesse. Questa dinamica sembra adattarsi perfettamente a quanto avevamo osservato a proposito delle modalita` di comportamento del soggetto antisociale. Egli aggredisce, distrugge deliberatamente, ruba, fa uso di sostanze, totalmente in balı`a dei suoi impulsi incontrollati. Riusciremmo cosı` a cogliere forse il perche´ di quella che abbiamo chiamato la sua impulsivita` aggressiva. Ed ancora potremmo pensare cosı` di cogliere l’antisocialita`, nella misura in cui ci viene detto che il primo rudimento delle norme sociali si baserebbe sull’introiezione delle figure genitoriali, la strutturazione del Super Io. Quello che pero` non riusciamo a capire secondo questa impostazione e` la anaffettivita` del disturbo e quella che abbiamo definito l’incapacita` di sentimento. Forse dovremmo dedurre che

12 Fenichel O., Trattato di psicanalisi, Astrolabio, Roma 1951, p. 365.

il neonato non solo e` perverso come l’antisociale, ma e` anche anaffettivo, nel senso che abbiamo attribuito a questa parola, cioe` incapace di rapporti profondi, di rapporti empatici, capace solo di rapporti di potere e controllo. Forse dovremmo dedurre che il neonato come l’antisociale conosce solo impulsi aggressivi e dinamiche distruttive per altro momentanee e drammatiche. Ma tutto cio` non ci sembra possibile. Non ci sembra possibile che il neonato sia dominato da impulsi perversi, proprio nel significato che a questi si da`: di una fissazione della libido a oggetti polimorfi che non sono in grado di fornire una soddisfazione reale. Come farebbe a crescere e sviluppare il neonato e con lui il genere umano se questo fosse dominato da impulsi perversi incapaci di fornire una soddisfazione reale e senza una carica affettiva orientata verso il rapporto interumano? Ed e` soprattutto il problema dell’affettivita` che ci sembra posto inadeguatamente nella teoria freudiana. Ci sembra pertanto necessario presupporre una carica affettiva che viene persa poi nei singoli disturbi psicopatologici, ma poi, con lo sviluppo, e non originariamente. L’incapacita` di sentimenti del disturbo antisociale deve essersi costituita durante lo sviluppo psichico del soggetto come perdita di una dimensione di affettivita`, come perdita di una fondamentale dinamica di rapporto interumano. Al di la` del concetto ormai screditato di narcisismo primario, anche la dinamica di rapporto oggettuale cosı` come postulata da Freud va rivista. Essa dinamica in gran parte e primitivamente sarebbe basata su una dinamica di introiezione. Ma perche´ questi soggetti antisociali non riescono a costituire un Super Io se i genitori, pur violenti, sono presenti ? Perche´ non riescono a introiettarli? Perche´ l’introiezione, di per se´ basata su odio e rabbia, non e` sufficiente a dare una ragione di tanta anaffettivita`. L’odio e la rabbia costituiscono comunque una dinamica "affettiva" anche se distruttiva e quindi una dinamica di rapporto. Dobbiamo, allora, ricorrere al concetto di istinto di morte e alla dinamica annullamento-

Elementi di psicopatologia dinamica

sparizione come formulata da Massimo Fagioli per cercare di comprendere qualcosa13. E tra le diverse modalita` in cui la fantasia di sparizione si esplica, piu` specificatamente, mi rifarei a quel particolare tipo che non arriva a distruggere completamente l’oggetto (come forse accade nel caso dello schizoide) determinando il vuoto, il pensiero puro, ma rende inanimati gli oggetti: ‘‘Si tratterebbe di un uso degli occhi verso l’oggetto tendente a togliere all’oggetto la vita, la vitalita`, un guardare mettendo nell’oggetto anaffettivita`...’’14. Forse, come dicevamo, l’antisociale non e` riuscito completamente a cancellare gli affetti come lo schizoide, non e` riuscito a farsi un’identita` per indifferenza assoluta, seppure a questa tenda con la sua freddezza con la sua brutalita`. Ma questi suoi affetti residui sono pericolosi, costituiscono la possibilita` e la minaccia di una distruttivita` perche´ associati, in una miscela esplosiva, con quella perdita di realta` umana che abbiamo descritto: “tratta le persone come tratta gli oggetti” e sono ancor piu` pericolosi quando, come avviene di solito, sono non riconosciuti perche´ negati da una razionalita` che tende a vedere ancora il male nell’inconscio e il bene nella ragione.

5. Allucinazione di Francesca Fagioli “...via, ombra orrenda! Via beffa illusoria!”

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Allucinazione. Termine che indica quello che con tutta sicurezza si puo` definire un sintomo, una problematica psichiatrica nettamente separata da altre possibilita` di ricerca, pensiero e discorso che riguarda caratteristiche della mente umana come percezione, illusione, amore odio… delirio. Cio` perche´ questi altri termini hanno una

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Cfr: Fagioli M (1972), Istinto di morte e conoscenza, NER, Roma 1996. 14 Op. cit., p. 155n. 15 W. Shakespeare Macbeth, atto II, scena IV, i Meridiani, Mondadori, Milano 1976, p. 955).

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gradualita` di passaggio da una realta` di rapporto normale con il mondo che permette quindi opinioni ed eventualmente definizioni diverse di una certa condizione umana che si pone in una zona non chiaramente definita, mentre il termine allucinazione che indica questo disturbo mentale separa nettamente il sano dal malato o una norma, anche se variabile, da una non norma di rapporto con la realta` all’esterno di se´. La proposizione per la quale, nel pensiero occidentale, il linguaggio, ovvero la simbolizzazione della percezione delle cose fuori di noi, si e` riferita sempre ed esclusivamente a cose esistenti ovvero percepibili con i cinque sensi, e` l’ovvio che si costruisce sulla stessa realta` della conoscenza che e` basata appunto sulla reazione degli organi di senso ad uno stimolo esterno che quindi deve esistere come cosa che agisce o viene recepita dagli organi di senso stessi. Illusione-allucinazione, le due parole appunto, linguaggio di un pensiero che si riferisce al rapporto dell’uomo con il mondo esterno, compongono un’armonia che e` soltanto apparente e che, in verita`, sintetizza due parti separate, scisse l’una dall’altra, in quanto una si riferisce ad un’alterazione del rapporto sensoriale del corpo umano con la realta` esterna di cui la parola indica un’alterazione e l’altro, invece, si riferisce ad un disturbo del pensiero che crea qualche cosa che non esiste nella realta` fuori del corpo umano ed e` quindi soltanto un prodotto che trae la sua forza dall’interno dell’uomo stesso, proponendo la ricerca di un movimento interno che si stacca, si distingue dalla percezione, in quanto manca, completamente, la dinamica di qualcosa d’esistente fuori del corpo che viene percepito dal corpo stesso. In altre parole, potremo verbalizzare che manca il movimento, sia che esso si verifichi dall’interno di un corpo all’esterno di esso o viceversa. La creazione di un pensiero per cui l’allucinato ritiene di percepire qualcosa, ovvero e` convinto che i suoi organi di senso siano stimolati, e` una deformazione del movimento stesso del rapporto dell’uomo con la realta` che, anche allorche´ ponga qualche cosa di creazione propria fuori di

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se´, nel mondo esterno, comprende la creazione di un oggetto che poi puo` essere percepito dagli altri. L’allucinato non riesce a costruire nulla fuori di se´ che possa poi essere percepito dagli altri. Tanto che, in effetti, potremmo ironizzare sulla definizione di allucinazione come falsa percezione perche´ dovremmo aggiungere che, se allucinazione e` una falsa percezione, quanto allucinato dovrebbe essere visto dai sani in maniera vera e non falsa. Questo invece, appunto, e` quello che accade con l’illusione. La discrepanza potrebbe anche essere evidenziata in una cornice di riferimento del discorso della conoscenza in cui possiamo, in effetti, pensare che, mentre nell’illusione c’e` soltanto un disturbo percettivo per cui si vedono le cose inesatte secondo certi criteri di definizione precisa delle cose fuori di noi, fatto necessario per muoversi e agire nel mondo, nel caso dell’allucinazione, invece, nella misura in cui la verbalizzazione del disturbo chiama la parola credenza e credere e non percepire, il difetto di conoscenza sta nell’elaborazione del pensiero che elabora e deduce il proprio rapporto con la realta`, non costruito o soltanto basato sui cinque sensi, ma sul rapporto che, senza nessuna percezione, propone una realta` comunemente definita di affetti nel rapporto dell’uomo col mondo. Affetti quindi che sorgono da dentro il corpo umano, anche se va ipotizzato che questi affetti traggano la loro vita da stimoli che vanno considerati sempre esterni anche se nascono e sorgono all’interno del corpo. Prima forma di conoscenza che e` l’apprendimento dell’esistente e della forma delle cose fuori dal corpo umano e conoscenza come movimento di pensiero che nella simbolizzazione linguistica, concettualizza le cose, i significati e il senso di esse e dei loro rapporti per ricavare, mediante segni che possono essere visti o uditi, qualcosa non immediatamente percepibile dai cinque sensi ma, come si suol dire, dedotta dall’uso di essi. A questo punto, forse ci possiamo permettere la licenza di formulare, fissare parole diverse per indicare l’uno e l’altra cosa, lasciando la parola conoscenza alla prima forma di essa, appunto

quella della percezione dei cinque sensi ed elaborazione di tale percezione, e usare la parola sapienza per la seconda in cui, in effetti, si dice, nella misura in cui un allucinato crede di sapere e non di conoscere, crede di sapere — come si suol dire — che un elefante e` passato per strada. La formulazione “crede di sapere”16 indica proprio questo metodo di pensiero per cui, in effetti, io posso essere convinto che una macchina ha frenato per strada dai segni delle gomme sull’asfalto e anche che ha frenato bruscamente, realizzando una realta` di conoscenza, anche se il fatto e` passato, che non deriva dalla percezione diretta della cosa. Allora possiamo dire che io non conosco in quanto non ho percepito l’auto che ha frenato bruscamente, ma so per deduzione che l’auto ha frenato bruscamente. L’alterazione quindi della mente cui l’allucinato va incontro comprende l’alterazione di questo metodo di pensiero, nella misura in cui e` noto che nell’allucinato i cinque sensi funzionano perfettamente. L’allucinato non vede una forchetta piu` lunga di quanto sia in realta` o un piatto piu` grande; l’allucinato dice, accanto a percezioni esatte delle cose che lo circondano, di percepire un’altra cosa che in verita` non esiste. Come dire che nell’allucinato possiamo assistere alla contemporaneita` di una percezione esatta delle cose del mondo, accanto ad una menzogna che sta nell’affermazione dell’esistenza di una cosa, che in verita` non esiste. Ovvero l’allucinato gestisce e riconosce di avere gli organi di senso sani e funzionanti, pero` pensa di aver, si potrebbe dire, scoperto nella realta` qualcosa che potrebbe proporre come pensiero deduttivo, come scoperta di qualche cosa di nascosto e che invece dichiara essere... reazione degli organi di senso ad uno stimolo esterno. E a questo punto fa di un pensiero deduttivo

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Avamt and quit my sight!... Hence, horrible shadow Unreal moch’ry, hence! Francesca Fagioli, in La medicina abbandonata, Atti Aula Magna, a c. di M.a Fagioli, N.E.R., Roma 1998.

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un’alterazione della percezione e della conoscenza. Come dire che quello che e` un disturbo del pensiero viene proposto come disturbo della conoscenza derivato dalla percezione e non dalla deduzione. Allora dobbiamo pensare e forse dobbiamo proporre che il disturbo sta nella elaborazione delle percezioni e non nella percezione stessa. Il difetto di trasformazione delle percezioni in pensiero verbale o immagine mentale che non riescono ad essere costruite e conseguentemente espresse mediante comportamento viene pensato ed eventualmente detto come se fossero percezioni, cioe` viene dichiarata una percezione che non esiste come se dovesse rivendicare una sensibilita` degli organi di senso che in verita` non andrebbe rivendicata perche´, abbiamo detto, gli organi di senso sono perfettamente funzionanti. Allora dobbiamo pensare che questa rivendicazione della percezione sensoriale voglia negare una assenza generica di sensibilita`, facendoci pensare che l’elaborazione della simbolizzazione e del pensiero verbale sia legata a questo concetto di sensibilita` e non al concetto di astrazione verbale propria delle percezioni dei cinque sensi nel rapporto delle cose col mondo. L’allucinato vuole dire che sa dell’esistenza di certe cose come se avesse compreso cose non immediatamente percepibili, ma le propone, invece che come pensiero verbale o concetto o ricerca o ipotesi di lavoro, come reazione e percezione degli organi di senso. Con cio`, ovviamente, dice che non ha scoperto nulla e che non riesce a sapere nulla della realta` nascosta delle cose, per intendere la quale, pertanto, occorre quest’altra realta` o concetto di sensibilita` che non e` quella dei cinque organi di senso. ` una realta` che ci propone, dicendoci di una E carenza di sensibilita` accanto ad un perfetto funzionamento dei cinque sensi, il legame del pensiero con la realta` biologica, perche´ quest’altra sensibilita` non immediatamente deducibile dal funzionamento degli organi di senso va in ogni modo pensata e considerata come realta` biologica. Contemporaneamente e dall’altro lato, noi possiamo evidenziare come l’allucinazione sia,

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per un verso, patognomonica di malattia mentale e, per l’altro verso, disturbo psichico dal momento che abbiamo detto che gli organi di senso funzionano perfettamente. Ovvero, nell’allucinazione possiamo proprio trovare gli elementi per realizzare quella ricerca che, per un verso, non e` discorso sul non materiale scisso dalla materia, ma per altro verso non e` neppure lesione d’organo, segno di alterazione dell’organismo, perche´, come abbiamo detto, e` creazione, invenzione di un oggetto, di uno stimolo, una percezione che non esiste, ovvero pur non essendo creazione di cose e` pero` attivita` di pensiero che non riesce ad essere reale, nella misura in cui non riesce a concretizzare un qualcosa che puo` essere stimolo e determinare la percezione degli organi di senso. Una attivita` di pensiero che non diventa reale nella sua espressione fa pensare di non essere reale essa stessa o, in altre parole, di non essere attivita`, di non esistere come attivita`, ovvero che l’allucinato che racconta di questa percezione che in verita` non c’e` racconta anche che non soltanto non c’e` l’oggetto che stimola i sensi, ma non c’e` nemmeno l’attivita` che inventa un oggetto inesistente. Quindi non e` pensiero, perche´ per lo meno, non e` legato alla sensibilita`, a quell’indefinito movimento interno che abbiamo chiamato sensibilita` al di fuori dei cinque sensi. Potremo arrivare a concettualizzare una malattia del pensiero che, nella misura in cui si stacca completamente dalla realta` biologica, si perde, non e` piu` pensiero e diventa inesistente come attivita` dell’organismo umano. Anche l’atteggiamento, il comportamento, il movimento e la parola, possono essere dissociati, fatto che ci dice che le caratteristiche di malattia psichiatrica indicano che la malattia psichiatrica e` tale quando il pensiero e` alterato e si perde e non quando sono alterati gli organi del corpo.

6. Elementi per una psicopatologia del delirio di Gianfranco De Simone L’origine e l’evoluzione del concetto di delirio sono state considerate, insieme all’allucinazione,

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il tema fondamentale per la formazione e lo sviluppo di una psicopatologia. Tutte le malattie mentali che sono state descritte hanno sempre incluso la possibilita` di manifestarsi con una forma di delirio. Ad eccezione dell’isteria, a cui forse anche per questo non e` stato mai riconosciuto un definitivo rango di malattia psichica. Tuttavia c’e` da considerare che se in presenza di un’allucinazione dobbiamo sempre parlare di malattia, la stessa cosa non e` possibile davanti a certe manifestazioni di tipo delirante, che possiamo collocare in un ambito psicopatologico solo dopo averne valutato anche i tanti aspetti relazionali, culturali, sociali che concorrono a formare il senso di realta` del pensiero. Storicamente il termine delirio compare nella medicina ippocratica per indicare le deviazioni dal solco (lira) tracciato dalla ragione che si manifestano durante alcune malattie somatiche per lo piu` febbrili. Quest’idea originaria di complicanza di una malattia somatica accompagnera` tutte le nosologie mediche e poi psichiatriche fino ai nostri giorni, dove essa e` ancora presente nel termine delirium inteso come disturbo organico della co` con il termine tedesco Wahn che si scienza. E cerca di mettere fine all’ambiguita` presente nella parola latina e mantenuta nella lingua italiana e francese. Ad indicare il delirio la parola Wahn compare nel linguaggio psichiatrico alla fine del Settecento, dopo aver cambiato nel tempo vari significati (desiderio, sospetto, supposizione errata, illusione) e dopo che — attraverso la radice “wahn”, intesa come “senza”, “mancante” “vuoto” — era giunta a designare con il termine Wahnsinn la follia stessa come “insensatezza”. Se, come suggerisce Heidegger, questo termine sta ad indicare un “pensare senza”, Wahn rappresenta una rottura nel linguaggio psichiatrico le cui conseguenze sono visibili nei tentativi durante l’Ottocento di abbandonare il riferimento somatico e di interpretare il “pensare senza” come “mancanza di idee razionali”. Ma questa rotta portera` ad una deriva spiritualista e alla necessita` di ammettere un delirio “naturale” dei poeti e degli artisti accanto a quello dei folli,

finendo con l’estendere il concetto di malattia a tutte le forme d’irrazionale. Per contro finira` con l’imporsi il “pensare senza” inteso come “senza cervello” basato sull’idea di processo, che sara` un concetto cardine di tutta la psichiatria del Novecento legato ad un’idea di mancanza di continuita`, di collegamenti, per lesione cerebrale che porta ad un cambiamento (Verwandlung) responsabile del delirio senza ritorno. Risulta evidente che i problemi di terminologia del delirio implicano fin dall’inizio problemi di metodo tali che e` indispensabile in via preliminare indagare le modalita` in cui nella storia e` stato pensato il fenomeno delirante. Terremo presente sullo sfondo della nostra trattazione la definizione di delirio proposta nella presentazione agli Incontri di Ricerca Psichiatrica del 1997 all’Universita` ‘‘La Sapienza’’ di Roma, «come fatto di pensiero, di rapporto con la realta` che sbaglia il nesso tra percezione, rappresentazione e significato delle cose percepite». Questo ci permettera` di collegarci storicamente ai termini basilari e alle ricerche piu` innovative sull’origine del pensiero e sui suoi sviluppi patologici, riaprendo nuovi spazi di comprensione del delirio che, come tutta la psicopatologia, necessita di una nuova e piu` approfondita elaborazione. Solo cosı` si possono rivalutare in senso dinamico, ridando ad essi valore diagnostico, quegli elementi di conoscenza clinica prodotta dalla piu` attenta psicopatologia descrittiva. Le piu` antiche annotazioni sul delirio comprendono due termini con cui sono indicati, senza ulteriori distinzioni, un delirio di pensiero (paraphrone´in) e un delirio di parole (paralere´in): il deviare del giudizio e il vaneggiare, cioe` il pensiero e le parole — il pensiero verbale diremmo oggi — vengono riconosciuti come il terreno del delirio fin dalla nascita della medicina. I due termini sono neologismi tecnici, inventati dai medici e presenti solo nelle cartelle del Corpus ippocratico, per indicare un sintomo che si contrappone alla lucidita` (katanoe´in) e che accompagna sempre una malattia con compromissione dello stato generale, febbre o squilibrio di umori. Quando i fluidi del corpo si riscaldano e si

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mescolano vorticosamente ne consegue che «il paziente delira ed e` fuori di se´». Quando si riesce a guarire la febbre e la malattia, il delirio scompare e il paziente ritorna lucido e razionale. Tuttavia alcune volte il delirio non recede ed in questo caso, si annota, «alcuni impazziscono». E quando il delirio non e` piu` segno di frenite ma diventa segno di follia non e` piu` oggetto dell’intervento del medico; esce dall’ambito della iatria. La vera follia (mania) viene avvicinata dal medico soprattutto per fare una diagnosi differenziale e una prognosi, per valutare la curabilita` della malattia del corpo legata al sintomo psichico, e stabilire alla fine se i segni «indicano malattia o mania». Questa contrapposizione nei testi piu` rigorosamente clinici, spesso trascurata dalla storiografia psichiatrica, e` ancora piu` evidente laddove in un testo la follia viene messa accanto alla morte e alla malattia, come uno status che va distinto dalla morte, dalla salute e dalla malattia ma che ancora non si riesce a distinguere. Non si puo` distinguere in quanto la ragione, essendo anima superiore, immutabile e immortale non e` considerata soggetta a malattia. Essa e` immutabile e, si pensa, solo cio` che e` soggetto a cambiamento si puo` ammalare, non cio` che non si modifica. La psiche, l’anima razionale e` un principio immutabile, un principio esterno all’uomo, che e` prima di lui e che entrando nel suo corpo lo definisce (per Platone perfino lo muove) e lo qualifica come essere pensante. Questa concezione accompagnera` tutta la storia del pensiero psichiatrico; cambieranno i riferimenti alle nozioni mediche, ma sempre sottintesa restera` la domanda: come si produce il delirio in una psiche che e` immutabile? Il delirio e` provocato dai movimenti del corpo che con le sue alterazioni esercita un condizionamento sull’anima e le sue facolta`. Se la febbre da` la possibilita` empirica di pensare un cambiamento di stato, il movimento dei fluidi (sangue, umori) giustifica i deliri senza febbre. Se cio` che e` movimento e` visto in campo psichico come disordine, fonte di errore, si comprende perche´ le passioni sono forze che squilibrano, che provocando trasmutatio ed emotio mentis portano alla malattia.

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Il disturbo di conoscenza prodotto nel delirio viene spiegato facendo ricorso alla nozione di “sensorio comune”, un concetto ben accolto da tutta la psichiatria antica, che unifica in un senso solo tutto cio` che proviene dai cinque sensi. La vita psichica e` concepita come suddivisa in tre funzioni: intelletto, memoria, immaginazione; il sensorio comune collega i sensi con le immagini percettive e i ricordi. Una tale suddivisione restera` nei trattati di medicina nel capitolo sui deliri fino al ’700 ed in essi alle funzioni psichiche viene riconosciuta la possibilita` di alterarsi solo in quanto sono legate al “sensorio comune” cioe` al corpo, ammalarsi nel senso di non integrarsi, di immagini e ricordi che non possono unirsi nel pensiero. Il pensiero razionale poggia la sua verita` sull’adeguamento alla realta`, sulla capacita` di rispecchiarla fedelmente. L’uomo pensa il vero quando guarda dentro di se´ con le sue funzioni psichiche (i sensi, la memoria, l’intelletto) e riesce ad avere le immagini mentali impresse, senza deformazioni. Su queste rappresentazioni, immagini di rispecchiamento della realta` percepita, puo` formulare una proposizione verbale che ha significato se e` vera ed e` vera se c’e` corrispondenza tra quelle rappresentazioni e la realta` esterna. Tutto cio` che oscura, rende opaca questa corrispondenza e` fonte di errore, errore di riferimento, di giudizio, disturbo di conoscenza. La freddezza del cervello, la freddezza e la secchezza del pneuma, e` cio` che favorisce la chiarezza e la lucidita` del pensiero. La ricerca della sede del nous, della gnome coincide con la ricerca dell’organo freddo per eccellenza. Cio` che riscalda come la febbre, le passioni, annebbia i pensieri e viene cercato come causa dei deliri. In questo metodo di pensiero diventa inevitabile il nesso tra il delirio e il sogno. «I sogni – dira` Galeno – sono un delirio della persona che dorme». Nelle percezioni si formano immagini che si depositano nei sensi e nel sensorio comune; nel sonno queste immagini formano i sogni. Se la funzione del sensorio e` debole, se c’e` scarsa sensibilita` ne risulta che le rappresentazioni hanno una vita autonoma distaccata e allora accade che esse non corrispondono piu` ad oggetti, «accade di pensare o di ricordare una cosa che e` un’imma-

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gine di un’altra cosa, questo accade anche a quelli che delirano». Il delirio, il sogno e le allucinazioni sono tutti fenomeni patologici che nascono da una disfunzione del sensorio comune, cioe` da un disturbo della coscienza (la parola che indica e sviluppa il concetto di sensorio comune). C’e` l’idea che la rappresentazione (phantasmata), copia della realta`, se e` autonoma dai ricordi e dal giudizio dell’intelletto, costruisce un mondo proprio simile a quello del sogno: «il delirante infatti confonde le sue immagini mentali con la realta`». La psicopatologia antica arrivera` alle soglie dell’Ottocento con molte classificazioni sui deliri e con questi stessi concetti, i quali non riescono a pensare la malattia del pensiero e di conseguenza la cura. Nel ’700 con l’acquisizione della funzione dei sensi, si finisce per mettere in risalto il ruolo dell’immaginazione (phantasia) come causa delle affezioni nervose e si cerca di utilizzare la forza dell’immaginazione per la cura. Whytt, illustre medico della scuola scozzese, maestro di Cullen, a meta` del ’700 puo` affermare con orgoglio: «Ho guarito malattie con febbre e delirio piu` con l’uso di bagni caldi ai piedi che con qualsiasi altro rimedio». Quella antica e mai superata sospensione della ricerca medica sulla mania (la follia e` malattia o non malattia?) rendeva improbabile l’incontro della iatria con la psiche. Il primo momento di questo incontro si realizza quando Pinel riprende il discorso ippocratico sulla mania facendone un cardine della sua concezione della malattia mentale. Ancora una volta tutto ruota intorno al problema del delirio. Il delirio cessa definitivamente di essere il tramite, il sintomo cardine per potersi occupare di follia; Pinel pone l’attenzione sulla “manie sans de´lire”. Il termine delirio, sia generale che parziale, quando e` presente nella mania viene opposto alla demenza e all’idiotismo. Si realizza in questo modo un nuovo ambito in cui il folle e` un malato ed e` un malato curabile e come tale puo` e deve essere osservato e indagato clinicamente dall’alienista, come tale va tenuto distinto dai diseredati, poveri, cerebropatici. Nuovo impulso ricevono la ricerca sul delirio

e l’osservazione dei deliranti che permette ad Esquirol di constatare che lesioni, distruzioni di zone del cervello, disfunzioni o eccitazioni localizzate del cervello non hanno «alcuna virtu` costruttiva e non possono quindi dare luogo a costruzioni, a quei veri e propri sistemi ideativi che sono i deliri». Mentre i disturbi cerebrali che gia` Esquirol chiama processi possono secondo lui «disordinare le immagini rappresentative ma non dar luogo a costruzioni come i deliri, che, se non corrispondono alla realta` delle cose, pure seguono i procedimenti normali del pensiero e presentano spesso un’innegabile coerenza logica». Si impianta la moderna concezione del delirio. «I deliri — scrive Esquirol — sono errori morbosi di giudizio che non si lasciano rettificare dall’esperienza ne´ dalla critica». Questo consentira` una classificazione delle idee deliranti in base al loro contenuto di pensiero erroneo (di gelosia, di grandezza, di rovina ecc.). Il fondamento concettuale continua ad essere nella teoria della conoscenza aristotelica e tomista che riceve dagli sviluppi del razionalismo e dalla teoria della coscienza solo una maggiore definizione, cosı` riassunta da Esquirol: «La percezione e` una copia della realta`; il ricordo e` una copia della copia, tirata senza la presenza del modello e percio` piu` imperfetta. Le rappresentazioni si formano per effetto della realta` che stimola i sensi e per effetto di stimoli interni, i ricordi. Tutte le rappresentazioni e i ricordi derivano da immagini percettive». Anche per Esquirol, al fondo, il pensiero muta secondariamente, e` tenuto fuori da ogni alterazione in se´; inoltre il delirio e` soprattutto un fenomeno secondario al cambiamento patologico degli affetti. Non piu` i mutamenti degli umori ma i venti delle passioni, sono questi che aumentano la credulita` e abbassano la critica spingendo all’errore di giudizio e al delirio. Il trattamento e` possibile proprio su questa base, gia` indicata da Pinel: «Il fine e` di soggiogare le passioni che, dominando il pensiero, lo mantengono nel delirio». Con Esquirol e per tutto l’Ottocento raggiunge il pieno sviluppo quella modalita` di pensare il fenomeno delirante che, come visto, inizia con gli ippocratici e si fonda sul processo conosci-

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tivo che ha segnato l’evoluzione culturale scientifica occidentale, secondo cui cio` che mette in relazione il pensiero e la cosa e` la rappresentazione mentale, l’immagine percettiva. Una svolta nel modo di pensare il delirio si avra` quando viene recepito in psichiatria il punto di vista della fenomenologia di Husserl, secondo cui cio` che mette in relazione il pensiero e la cosa e` l’intenzionalita` della coscienza. Per poter chiarire le implicazioni di questo passaggio occorre tener presente che ogni ricerca che ha per oggetto l’attivita` del pensiero deve fare i conti apertamente o in modo implicito con una teoria del significato. Tutte le teorie del significato hanno avuto come unica posta in gioco il potere della ragione di identificare l’oggetto della conoscenza e poterlo comunicare col suo linguaggio. Il significato richiede che si stabiliscano dei collegamenti tra le cose e le parole che le indicano. Questi nessi sono stati concepiti a partire dal De Interpretazione di Aristotele in termini di rappresentazioni mentali (raffigurazioni di cio` che dalla realta` proviene ai sensi). Il significato e` dato dalla corrispondenza tra le parole e queste raffigurazioni. Cosı` due parole hanno lo stesso significato quando sono legate alla stessa rappresentazione mentale e l’uguaglianza o meno delle rappresentazioni stabilisce se due parole si riferiscono o meno alle stesse cose. Questa classica teoria del significato, ripetiamolo, ha consentito di pensare il delirio come errore di giudizio, soprattutto come un errore di riferimento. All’origine di ogni delirio, verra` detto, c’e` sempre un delirio di riferimento. Questo complica il compito dello psichiatra che per fare la diagnosi di delirio deve tener conto che il riferimento e` anche stabilito socialmente e che ci sono i contesti di significato. Per Husserl il riferimento delle parole alle cose non e` diretto, non c’e` corrispondenza diretta tra significato (rappresentazione) e oggetto, proposizione e fatto, da cui far derivare la conoscenza vera. Ogni linguaggio anche scientifico non puo` evitare quel carattere indiretto del riferimento a oggetti, perche´ nel modo di riferirsi all’oggetto entra in gioco l’intenzionalita` di chi l’attua. Que-

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sto fatto non rende piu` possibile controllare semplicisticamente la veridicita` del pensiero con la mera valutazione dei nessi logici fra significati. Con l’intenzionalita` il soggetto attribuisce significati agli oggetti che possono essere descritti non soltanto nei loro aspetti logico-formali ma nel modo di vivere l’esperienza. Dopo la fenomenologia non possiamo continuare a riferirci, dice Husserl, solo ai contenuti sensoriali «senza essere in grado di giudicarli, di gioire, di amarli, desiderarli» perche´ senza questo non si puo` parlare di «vivere» ne´ di essere psichico. Con gli atti intenzionali noi attribuiamo qualita` agli oggetti, diamo significati nuovi, pur essendo invariati i contenuti sensoriali. Quello che l’indagine fenomenologica deve analizzare non e` l’oggetto, ne´ se le rappresentazioni dell’oggetto rispecchiano la realta`, ma il soggetto, i modi in cui esso ha coscienza delle cose e fa esperienza delle cose stesse, i suoi modi di conoscere. Con questo metodo l’indagine sul delirio si sposta dal contenuto e dal tema dell’idea patologica alle modalita` di pensiero attraverso cui l’idea si forma nella coscienza del soggetto. La psichiatria con la fenomenologia, a partire da Jaspers, vede l’occasione di riaffermare il primato della coscienza razionale in contrasto col riduzionismo organicista e con la psicoanalisi, e si misura nella capacita` di mettere in forma e donare senso alle operazioni deliranti della mente che erano sempre apparse prive di senso. Per il fenomenologo, l’uomo, diversamente dall’animale, e` un donatore di senso (sinngebung) e le malattie mentali sono i modi in cui l’uomo non riesce a dare senso alle cose e alla propria esistenza. La psicopatologia fenomenologica centrera` il suo interesse sulla ricerca di modelli di pensiero (percezione delirante, intuizione delirante, ecc.) capaci di donare senso alle manifestazioni deliranti. L’introduzione della problematica tra senso e significato richiede qualche precisazione. I due termini originariamente si riferiscono alla sfera linguistica e in particolare alla struttura logica delle proposizioni basate sulla descritta garanzia di corrispondenza con l’ordine naturale delle cose.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Il significato, come cio` che collega un nome a una cosa, e` sempre stato pensato costituito di due aspetti e su questo si e` impostata la logica binaria. ` solo alla fine del secolo scorso che G. Frege, E studioso di logica, nel suo tentativo di fondare la matematica come linguaggio esemplare, propone la distinzione tra significato (bedeutung) e senso (sinn) sostenendo che ad una parola noi dobbiamo collegare sempre due cose: non solo il significato, cioe` l’oggetto designato da quella parola, ma anche il senso che «denota il modo in cui l’oggetto viene dato». Questo esclude che si possa parlare solo di cio` che esiste secondo il riferimento diretto dal nome alla cosa, dal momento che posso «nominare tutto cio` che posso pensare» (Frege). Taluni amplificando questo formalismo logico arriveranno logicamente ad escludere che si possa “decidere cio` che esiste” (come dire l’impossibilita` di fare diagnosi di delirio!). Da qui si assistera` a vari tentativi di correggere questa ontologia formale con richiami al “senso di realta`” e da Russel a Wittgenstein si cerchera` di ridurre empiristicamente il senso al significato. «Se una proposizione non ha senso — taglia corto Wittgenstein — e` perche´ noi non abbiamo fatto il riferimento all’oggetto». ` nel passaggio dalla logica tradizionale alla E logica trascendentale che il termine senso acquista un valore filosofico piu` ampio di cose dei sensi e di senso direzionale (legato all’intenzionalita`). Il segno linguistico (la parola, la frase, ecc. ) acquista una direzione intenzionale; esso ‘significa’ proprio in quanto ha un senso, un tendere verso determinati contenuti. Questi contenuti intenzionali non sono necessariamente un oggetto esterno ma possono essere oggetti fantasticati, pensati o addirittura impossibili. Cio` che la parola ‘esprime’ non e` legato necessariamente all’esistenza del significato, inteso come rappresentazione percettiva di cose, ma al senso intenzionale verso un oggetto. Il senso pertanto e` immanente al vissuto, viene vissuto cosı` come si trova nell’intuizione immediata, attuata dalla coscienza secondo le sue intenzioni. Per tale metodo di conoscenza che tanta accoglienza ha avuto nella psichiatria, il senso e` cio` che rimane nella percezione dopo che essa viene sottoposta alla riduzione fenomenologica (epo-

che´), con la quale mettiamo tra parentesi il dato percettivo e sospendiamo ogni giudizio sulla realta` e oggettivita` individuali. Dopo questa sospensione, il senso della percezione ridotta e` tutto cio` che appartiene al vissuto (Erlebnis), — cio` che al vissuto – dice Husserl – non puo` essere tolto via col pensiero –. Il percepito come senso, quindi, non contiene altro che quanto effettivamente appare nell’immediatezza percettiva, ma al tempo stesso nella percezione immediata noi possiamo cogliere il senso e distinguerlo dall’oggetto ut sic. Ma, va precisato, questo partire dai fenomeni dati immediatamente in modo intuitivo e` solo un momento parziale che richiede, per raggiungere la conoscenza fenomenologica, che su questo senso si diriga la riflessione. Non la riflessione come introspezione che coglie i fatti empirici, ma quella fenomenologia che coglie le essenze, cio` che e` immutabile. Per afferrare le essenze la coscienza non puo` basarsi sulle esperienze vissute ma deve spostare lo sguardo verso se stessa, sulle proprie forme a priori, “pure forme di visione” le chiama Husserl. Per conoscere il senso originario, l’essenza del fenomeno, il fenomenologo ha bisogno di idee a priori, di ammettere delle strutture a priori di ogni esperienza che garantiscono la veridicita` delle cose. «Il giudizio fenomenologico deve adeguarsi soltanto a cio` che in tale riflessione viene afferrato» (Husserl). Le ideen husserliane, pur volendo distinguerle dalle idee platoniche o sostanzialistiche, presuppongono e mantengono la concezione dell’uomo diviso in sensibilita` e spirito, non lontana da un’impostazione dualistica cartesiana, figlia del pensiero religioso, secondo cui la garanzia di pensare cose vere puo` venire solo da qualcosa di immateriale immutabile che trascende l’uomo. In quest’ottica il senso rimane soprattutto un dato dei sensi (l’immaginatio sensibilis husserliana), un erede del sensorio e come tale indistinguibile dai significati (Husserl alla fine rinuncera` ad una vera distinzione tra i due). Conseguentemente anche l’analisi fenomenologica, per ricavare cio` che vi e` di essenziale nei fenomeni, e` costretta ad applicare nel proprio metodo una forma di astrazione ideativa che, partendo dalle precostituite forme pure di visione,

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riconosce come essenza tutto cio` che nel variare dei fenomeni resta immutato, cio` che resta invariabile e immodificato sia nelle forme oggettive che soggettive di esperienza vissuta. Questo non consentira` una psichiatria veramente dinamica. Il metodo tra l’altro manterra` anche nell’applicazione clinica il suo oscillare tra intuizione e astrazione. Intuizioni nelle categorie diagnostiche, nelle descrizioni delle forme patologiche, immobilismo nella cura dove occorre un metodo che movimenti l’inerzia del paziente, cogliendone le possibilita` di movimento e non contemplando le sue fissita`. Ma soprattutto l’idea di un immateriale immutabile traccia un limite invalicabile che impedira` l’accesso ad ogni idea di malattia del pensiero e di delirio come malattia del pensiero. Lo studio scientifico del delirio, secondo Schneider, comincia con Jaspers nel momento in cui, all’inizio del secolo, influenzato dalla fenomenologia husserliana, prende le distanze dalla definizione di delirio come errore di giudizio non criticabile. Egli individua i caratteri delle idee deliranti nella certezza soggettiva, nell’incorreggibilita` e impossibilita` di contenuto. Jaspers e` partito dalla considerazione che il delirio in ogni epoca e` stato ritenuto il fenomeno fondamentale della follia, eppure non c’e` mai stata una chiara delimitazione delle caratteristiche della sua forma di pensiero. Per lui il vero delirio e` un fenomeno primario che insorge in modo immediato, come vissuto originario, gia` formato, non derivabile da altri elementi psicologici, in cui le alterazioni della percezione hanno un’importanza solo occasionale e per nulla decisiva. All’origine di un vero delirio c’e` un processo primario che e` un processo psichico del quale possiamo indicare solo l’esistenza in quanto in se´ resta incomprensibile. Questo perche´ col metodo della ragione non si riesce a comprendere logicamente il passaggio dal modo di pensare che precede il delirio al modo di pensare patologico dopo la rottura processuale. Se lo psichiatra puo` rintracciare un continuum, un filo di comprensione nella personalita` del delirante che motivi il delirio, se egli puo` evidenziare i fattori ambientali, gli stati d’animo che comprensibilmente possono aver condotto il paziente a delirare, allora ci troviamo davanti ad uno sviluppo o ad una rea-

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zione. Questi vanno nettamente distinti dai deliri di natura processuale, in cui c’e` una rottura, uno iatus col precedente, e l’insorgenza di un nuovo che non e` rintracciabile col metodo razionale nel precedente. Quando si arriva in contatto con i fenomeni psichici primari originari e irriducibili, siamo arrivati di fronte al processo. Jaspers si distanzia dal determinismo del processo organico di Kraepelin. Costui aveva fatto dell’idea del processo cerebrale un elemento di conoscibilita` empirica nel senso che forme diverse di malattie mentali (catatonia, ebrefrenia, ecc.) erano state unificate per il loro unico decorso proprio con l’idea che all’origine ci fosse un processo cerebrale che con il suo mutamento faceva confluire tutto in un progressivo deterioramento mentale fino alla demenza. In questo caso l’idea di malattia mentale come malattia d’organo si lega all’idea che il cervello, organo immodificabile, e` sano in quanto immutabile, e che se esso cambia si ammala; il suo cambiamento e` sempre un mutamento peggiorativo che, in qualunque forma si manifesti, porta al deterioramento. Jaspers tenta di introdurre il concetto di cambiamento (Verwandlung) in un ambito psichico. ` uno dei rari tentativi di trovare argomenti all’iE dea che la psiche non puo` piu` essere considerata immodificabile, fatto che contrasta con l’idea stessa di fondare una psicopatologia. Nel processo Jaspers pensa di trovare il dinamismo e la profondita` della psiche e finisce per trovare l’incomprensibilita`. Da immutabile la psiche diventa, se si muove, incomprensibile. Col processo psichico siamo di fronte all’incomprensibile, inteso non come cio` che non e` stato ancora compreso, ma come qualcosa che non e` ritenuto comprensibile dalla ragione. L’incomprensibilita` e` legata all’impossibilita` di immedesimazione e di ricavare in noi nella riflessione («ogni comprendere e` un autocomprendersi») le esperienze interne dell’altro. Una psiche sana ancorata alle sue strutture razionali puo` comprendere una psiche che si muove seppure in modo abnorme? «No» e` la risposta di Jaspers ineccepibilmente coerente con la conoscenza delle “essenze” immutabili. Il problema, appena sfiorato dopo secoli, di

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una possibilita` di cambiamento a livello psichico viene pero` subito fatto rientrare ancorandolo al substrato organico: «Invece di processo psichico si potrebbe anche dire evento biologico totale, purche´ il termine biologico non sia inteso nel senso di determinata conoscibilita`» (Jaspers). Dal nesso tra incomprensibilita` e processo primario discende un’ulteriore riflessione sulla quale Jaspers e` stato esplicito e le cui conseguenze sono state ignorate, e cioe` l’affermazione della totale incurabilita` del processo psichico rispetto a quello organico: «l’incurabilita` e` cosı` connaturata al processo psichico come il fatto che il vecchio non puo` ridiventare giovane». Si afferma che nel processo psichico c’e` un’alterazione generale piu` che in quello organico e si finisce col dire che esso si ammala ma non e` curabile, che non c’e` e non ci sara` mai la cura del processo psichico. La possibilita` di pensare curabili i disturbi mentali come il delirio e` esclusivamente legata al fatto che esso resti nell’ambito delle malattie somatiche (l’idea ippocratica), perche´ solo se la malattia mentale e` malattia del corpo si puo` attribuire ad essa un’eventualita` di cura legata al progresso della medicina. Se si stacca la malattia psichica dalle malattie del corpo ci si stacca dal terreno della curabilita`. La follia, per secoli ai margini della iatria, con Jaspers cerca di entrare nel campo del sapere, della loghia, e risulta incomprensibile. Vedremo in seguito come con un nuovo metodo di pensiero che si contrappone ai descritti modi della ragione di affrontare la realta` psichica si possa arrivare a conclusioni opposte; e cioe` che proprio nel momento in cui si afferma che la malattia mentale e` malattia organica, scatta l’idea dell’incurabilita`. Per sostenere una tale posizione occorre formulare un pensiero specifico di malattia psichica. E per questo e` indispensabile uscire dal solco del pensiero secolare tracciato dalla logica razionale che per garantire se stessa ha dovuto sempre postulare l’immutabilita` del pensiero. ` necessario arrivare a pensare non solo l’iE dea di movimento e di cambiamento patologico del pensiero, ma anche l’idea della trasformazione del biologico in psichico. Solo l’idea di una trasformazione del pensiero consente di proporsi

una conoscenza di cio` che sta prima della coscienza, di cio` che fonda il pensiero, che e` all’origine del pensiero verbale. Cosı` da uscire dall’inevitabile dicotomia organico o spirituale, secondo cui il pensiero originario, se riguarda la percezione e` riducibile all’attivita` cerebrale, se non deriva da percezioni e` pensiero dello spirito; dicotomia che continuera` nella scissione tra pensiero cosciente e inconscio. Pertanto dietro l’incomprensibilita` del salto, dello iatus tra pensiero patologico derivabile e pensiero inderivabile schizofrenico c’e` la non conoscenza del salto dal biologico allo psichico come trasformazione. Il nuovo metodo di pensiero porta a cogliere lo stato precedente, cio` che precede il fenomeno e che dopo la trasformazione non e` piu` visibile e pertanto puo` essere dedotto solo con una attivita` di pensiero, si potrebbe dire… rischiando il delirio, ‘nominando’ quello che gli altri non vedono e non pensano. Un metodo di pensiero che risulta importante per impostare una psicopatologia fondata su un concetto di malattia psichica. Perche´ quella fondata, oltre che da Jaspers, da K. Schneider e` una psicopatologia che, come malattia, «esiste solo nella sfera somatica»; in quanto «noi chiamiamo patologico l’abnorme psichico solo quando esso e` riconducibile a processi morbosi organici». «Designare come patologiche le stranezze psichiche — conclude Schneider — non ha alcun valore di conoscenza, alcun valore metodologico». Come si vede, rimane “incompresa” e del tutto irrisolta l’antica ippocratica sospensione: malattia o mania. Quello che al momento della fondazione della medicina era un interrogativo, un’apertura di ricerca, dopo venti secoli e` una scelta metodologica, di fondare una psicopatologia “a doppio binario”. La doppia articolazione del pensiero logico, su cui ci siamo dilungati e che in Husserl diventa dicotomia senso (percepito)-idea, la troviamo nel termine stesso di percezione delirante, il modello di pensiero piu` importante che la psicopatologia con Jaspers e Gruhle ha indicato come fenomeno essenziale del vero delirio (porta di ingresso nella schizofrenia) in cui ad una qualunque percezione normale viene collegato un significato senza un motivo razionalmente comprensibile.

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Cio` che risulta incomprensibile, alla luce della logica sopradescritta, e` come sia possibile che due percezioni, una normale l’altra delirante che hanno la stessa struttura, siano diverse per il significato, che e` parte integrante della percezione stessa. Cosı`, ad esempio, due sbadigli del bambino in perfetta salute significano per la madre la certezza che egli morira` dopo due giorni. La madre delirante percepisce i singoli gesti del bambino come noi li percepiamo ma con in piu` un simultaneo nuovo significato che per noi non esiste e per lei e` un inequivocabile segno di morte. Gli psichiatri che non si rassegnavano all’incomprensibilita`, come Matussek, Conrad, Jansarik, erano costretti ad ammettere un disturbo della percezione per spiegare la P.D. degli schizofrenici. Altri invece, come Barison, indagando la produttivita` del pensiero schizofrenico, cercheranno di cogliere il senso ultimo della creazione di nuovi significati avvicinandola alla creativita` artistica. Osservando lo stesso fenomeno, nello schizofrenico, si puo` arrivare a concludere che e` un cerebropatico o un artista. Queste contrapposizioni si avvertono anche riguardo agli altri concetti psicopatologici indicati come vie di accesso al vero delirio, l’intuizione delirante e lo stato d’animo delirante (Wahnstimmung). Secondo alcuni l’intuizione delirante non essendo stato possibile distinguerla sul piano formale e semeiologico da un’intuizione normale, non ha specifico valore diagnostico di schizofrenia ma al piu` di uno sviluppo delirante paranoico. Intorno allo stato d’animo o umore delirante si e` riattivato l’antico dibattito sul ruolo primario o meno dell’affettivita` nella genesi del delirio. Dalla Wahnstimmung, uno stato d’animo di penosa indeterminatezza che si fa sempre piu` insopportabile, si esce nel momento in cui compare un’idea delirante che configura un oggetto falso, ma creduto vero, per cui le cose sono affermate con ritrovata certezza e non piu` sentite con il carattere angosciante di prima. In questa lettura che valorizza il ruolo dell’affetto, sarebbe l’umore alterato che altera la funzione percettiva della realta`; questa provocherebbe il delirio il quale a sua volta risolve lo stato d’animo iniziale. In una tale ottica non si riuscira` a spiegare quanto succede nelle Bouffe´es deliranti in cui componenti

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affettive e alterazioni percettive di tipo illusionale insorgono acutamente insieme e regrediscono di pari passo con la stessa rapidita`. Tuttavia al di la` degli abituali contrasti tra psichiatri, legati alla fragilita` del modello conoscitivo che moltiplica i punti di vista, lo studio della Wahnstimmung ha il suo interesse nel fatto di indagare le condizioni che preparano il delirio, vissuti affettivi, rappresentazioni indefinite, significati sospesi, tutto cio` che precede il pensiero verbale e che non e` ancora delirio. Il tentativo piu` rilevante di correggere dall’interno i limiti dell’analisi fenomenologica e` stato senza dubbio quello di L. Binswanger, quando egli stesso fa propria la critica ad Husserl svolta da Heidegger: «Gli atti intenzionali nel loro svolgersi producono senso; ma non ci dicono nulla del modo di essere della persona che li compie». L’intenzionalita` si fonda sulla temporalita` della presenza umana (Dasein). L’Esserci, nel dispiegare la capacita` dell’uomo di progettare l’esistenza, indica il significato delle cose. In ogni forma di alienazione mentale si tratta di cogliere l’incrinatura delle strutture — strutture esistenziali a priori — che organizzano il mondo progettato da quella esistenza alienata, diversa dal mondo comune. Il delirio e` un modo costitutivo di essere, proprio per questo non si ha un delirio ma si e` deliranti. Il pensiero verbale costruito dal delirante indica direttamente il significato che le cose hanno, perche´ il suo linguaggio indica le forme del progetto con cui si rapporta al mondo e questo lo rende comprensibile all’analisi esistenziale. Seguendo questa impostazione e arricchendola del suo personale contributo di pensiero, Binswanger indaga a tutto campo il mondo dello schizofrenico. Tuttavia, nella sua ultima opera “Wahn”, sente il bisogno di ritornare ad Husserl e cerca di affrontare il problema della struttura del pensiero. Riprende la terminologia che abbiamo incontrato all’inizio della nostra trattazione: aistesis, mneme, fantasia sono le tre funzioni dalla cui organizzazione deriva il pensiero. Nel delirio non si trova un difetto nel ricordo, scarso e` il ruolo della fantasia che e` solo impoverita; il disturbo e` concentrato sulla sensazione e quindi sconfina nell’alterazione della percezione.

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` sconcertante come in questo tentativo maturo E di indagare teoricamente il delirio come un disturbo dell’ordine strutturale del pensiero non ci sia nulla di veramente originale che risponda alle ambizioni dell’opera di distinguere il vero pensiero da quello falso. Le intuizioni, per la scelta metodologica forse, non vengono sviluppate e si rimane sul piano descrittivo. Un discorso a parte merita la psicoanalisi. Freud, ancor prima di Jaspers e in modo diverso, nel settimo capitolo de L’interpretazione dei Sogni aveva parlato di Processo primario, spiegando che e` l’inconscio e non il cervello il luogo di elezione di questo processo. Il processo primario e` limitato alle sole attivita` di spostamento e di condensazione, eppure questi due dinamismi primitivi della psiche accompagnano non solo il processo schizofrenico ma la formazione dei miti, dei sogni, dei rituali ossessivi, la fantasia dei poeti. Freud non e` interessato ai grandi temi della psicopatologia psichiatrica che vengono solo sfiorati e inglobati negli schemi di riferimento delle nevrosi. Il delirio e` la via di ritorno del rimosso, secondo lo schema psicoanalitico classico: con l’aumento di intensita` del conflitto, aumenta l’angoscia, aumentano le difese e i sintomi e in particolare aumenta la proiezione. La proiezione e` considerata un modo primitivo e normale per conoscere, attivo nell’animismo e nei miti; e` inoltre il modo di introdurre il significato nelle cose della realta`. Ma al tempo stesso e` il meccanismo patologico di formazione del sintomo paranoico in cui il delirio ha la funzione di alleggerire la colpa di impulsi sessuali inaccettabili. Cio` che sta nell’inconscio e` cio` che non puo` essere vissuto nella realta` cosciente, la malattia viene fuori quando il rimosso non riesce a restare immobilizzato nell’inconscio dalla rimozione e ritorna disordinatamente a invadere la coscienza. Il delirio viene spiegato e interpretato come un sogno, c’e` un significato latente (il frammento di fatto personale del passato) e c’e` un significato manifesto (il travestimento del fatto ad opera del delirio che come il sogno ha il funzionamento psichico del processo primario). In Costruzioni nell’analisi (1937) Freud cam-

bia l’impostazione della tecnica analitica verso un concetto di costruzione, in cui l’analista non e` solo passivo ascoltatore di cio` che viene in mente al paziente, ma propone una sua ricostruzione. Nel costruire qualcosa che non c’e`, dice Freud, l’analista fa qualcosa di analogo alla costruzione del delirante, rischia il delirio. La riflessione psicoanalitica sul delirio col tempo accentuera` l’idea di un continuum nel passaggio dal pensiero normale al patologico: sarebbe piu` esatto dire dal normalmente patologico all’eccessivamente patologico. Basti pensare al processo paranoideo che con la Klein viene indicato come un fondamentale elemento strutturale nel normale sviluppo dell’individuo o il concetto di identificazione come massimo traguardo terapeutico. Psicoanalisi e fenomenologia hanno lasciato nel corso di un secolo irrisolti i problemi della formazione del pensiero normale e patologico. La psichiatria fenomenologica andava alla ricerca di una forma nel fondo della psiche che potesse dare senso al disordine, allo strano schizofrenico. In questo c’era forse un rifiuto di considerare il profondo come il negativo, l’informe, il disordine inconscio della realta` psichica, come proponeva la psicoanalisi. Ma cercando una forma solo nella coscienza non ha trovato la malattia ma una diversita`, una variante formalmente simile al pensiero creativo. Per i grandi clinici l’idea freudiana che la psiche si ammala per il solo fatto di diventare inconscia non era accettabile. Mentre per chi lavorava in psicoterapia non era accettabile l’idea che sotto la coscienza, al fondo, si incontra non l’inconscio ma solo il substrato biologico. Sembrava inevitabile il metodo che per occuparsi di malattia psichica si dovesse sempre tenere separati inconscio e coscienza, psicoanalisti e psichiatri. Uniti dalla mancanza di coraggio per lanciare un’accusa al tradizionale metodo di pensiero e porsi il problema mai posto di pensare un’origine del pensiero. Eppure proprio gli psichiatri erano spinti a porsi questo problema. Dal momento che normalmente non si delira e poi ad un certo punto si inizia a delirare. C’e` un inizio, un’origine del pensiero delirante. Questa millenaria acquisizione

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dell’indagine medica, come visto, si e` dovuta sempre confrontare con l’immutabilita` di un pensiero razionale (teologico, filosofico, psichiatrico, psicoanalitico) per il quale non c’e` un inizio, un’origine del pensiero normale. Anche quando la psicoanalisi ha accettato l’idea di rivolgersi alle tappe dello sviluppo psichico che precedono la razionalita` dell’uomo adulto (cio` di cui si e` occupata la filosofia e la psichiatria) non ha pensato la nascita ma l’innato: la fantasia inconscia innata della Klein, la pre-concezione, conoscenza innata dell’oggetto di Bion. Per pensare il delirio bisogna trovare il modo di affrontare il problema di come pensare qualcosa che i cinque sensi non possono percepire. Bisogna cioe` portarsi sullo stesso terreno del pensatore delirante che pensa qualcosa che non trova corrispondenza con la realta` percepibile. Per intraprendere questa strada di ricerca e uscire da tutte le contraddizioni che abbiamo discusso, e` risultata fondamentale l’acquisizione di un nuovo modo di indagare i fenomeni psichici17 basato su tre concetti inediti: l’intenzionalita` non cosciente, l’elaborazione inconscia delle percezioni, l’immagine interiore. Una relazione intenzionale, si e` detto, sembra essere in atto anche se l’oggetto non esiste nella realta` esterna. Si puo` immaginare, nominare una cosa, credere in essa indipendentemente dalla sua esistenza. La scoperta nella relazione terapeutica con lo schizofrenico dell’intenzionalita` inconscia ha evidenziato la possibilita` umana di rapportarsi a livello cosciente ad una cosa e considerarla inesistente a livello inconscio. Quest’attivita` psichica, che fa capo alla diversita` della reazione biologica umana agli stimoli (pulsione), riconosce al pensiero umano una caratteristica che rompe decisamente con tutte le tradizioni precedenti.

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Il nuovo metodo di pensiero fa riferimento alle teorizzazioni di M. Fagioli esposte nei suoi libri e ad una prassi e una ricerca i cui sviluppi sono stati dibattuti in tre Convegni dell’Istituto Orientale di Napoli (’96), della “Sapienza” di Roma (’97), di Wu¨rzburg (’99) da cui sono tratte queste considerazioni finali che devono il loro stimolo piu` forte alle ipotesi sui rapporti tra linguaggio e realta` psichica esposte nelle tesi di laurea di Marcella Fagioli, relatore N. Lalli (a. a. ’92-93).

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Ritenere inesistente una cosa presente alla percezione dei sensi, o meglio viverla come inesistente, e` cio` che allontana qualitativamente sia dalla neurofisiologia sia dalla psicologia del mondo animale. La realta` umana contiene ed esprime fin dal primo momento della nascita una “ribellione ai cinque sensi”. In una sintesi estrema si potrebbe dire che le conseguenze di questa ribellione della nostra specie siano riassumibili, limitatamente al nostro tema, in tre dimensioni dell’immateriale umano: la religione, la ragione astratta, l’immagine interiore. Possiamo sostenere che alla base di un’idea religiosa, una razionale e una come immagine interiore ci sia un diverso modo di pensare cio` che non e` direttamente percepibile. L’idea stessa di immagine interiore come pensiero, proposta trent’anni fa da M. Fagioli nei suoi scritti, e` stata difficile da accettare in quanto mette insieme cose da sempre ritenute inconciliabili (le varie dicotomie nella storia del pensiero) e cioe` l’idea – considerata la parte nobile del pensiero legata al concetto, all’essere, allo spirito – e l’immagine considerata copia della realta` esterna o fantasma senza rapporti con la realta`. L’immagine interiore viene distinta dall’immagine mentale prodotta dalla coscienza che, abbiamo visto, e` sempre un’immagine che proviene dall’esterno. L’immagine interiore invece e` concettualizzata come un’immagine che non prendiamo dall’esterno ma che si crea e si forma dall’interno di noi stessi. Si forma per trasformazione dello stimolo sensoriale, per separazione da esso e ricordo. Indagando la fenomenologia della nascita umana, Fagioli riconosce una specifica capacita` di reagire agli stimoli con un’attivita` psichica (pulsione) che inizia come delirio (il mondo non esiste). Delirio che non e` un delirio come errore di pensiero che deforma la realta`, ma e` un “pensare qualcosa che non esiste”. Tuttavia insieme all’elaborazione degli stimoli dell’ambiente nuovo nel venire alla luce si attua anche l’elaborazione dell’ambiente precedente per cui si fa una memoria dell’esperienza vissuta materialmente che in un certo senso corregge il delirio in quanto e` verita` di rapporto, autenticita` di vissuto. E forse sta qui

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la matrice che poi determina quella caratteristica umana del pensiero falso e del pensiero vero che si giochera` nei rapporti interumani e nel rapporto con la realta`. Il pensiero umano iniziato come delirio (‘pensiero senza’, senza oggetto, senza vissuto, che non e` vero pensiero) viene corretto dal pensiero vero che, nel ricordo, elabora il rapporto vissuto in precedenza. Pensiero questo, che e` immagine, ricreazione fantastica di un oggetto sentito con tutto il corpo e non visto; immagine che non prendiamo dall’esterno ne´ che ci viene data a priori ma che creiamo dall’interno per trasformazione di quanto concretamente vissuto. L’immagine interna deriva da uno stimolo esterno ma, una volta formatasi per trasformazione dello stimolo, quest’ultimo non e` piu` verificabile ne´ confrontabile direttamente con la realta` percepita. Deve essere ricavato da una inferenza di pensiero. E tutto cio` diversamente dalla elaborazione cosciente della percezione e del ricordo cosciente, in cui lo stimolo non e` deformato anzi deve corrispondere e rispecchiare esattamente la cosa percepita; solo cosı` c’e` garanzia di rapporto con ` questo un aspetto rilevante da la realta` esterna. E considerare perche´ pone il problema e la novita` di un pensiero in cui i criteri di verita` non sono piu` garantiti dall’esterno, ma solo dalla realta` umana. Abbiamo visto che l’immateriale, come idea o rappresentazione, per essere definito vero dalla ragione, ha sempre richiesto una garanzia: dalla corrispondenza con la realta` esterna, da categorie a priori, dal divino. Questo vale anche per la rappresentazione mentale inconscia freudiana che nasce tutt’all’interno dell’individuo ma senza stimoli e senza alcun rapporto con la realta`, anzi e` un pericolo per la realta`, regredire al suo livello e` fonte di malattia. L’identita` e` garantita dall’identificazione, che garantisce anche di capire l’altro, la conoscenza per assimilazione. Oppure, dal narcisismo a Lacan, la garanzia e` nell’immagine allo specchio in cui si conferma l’idea antica della ragione di capire se stessa per rispecchiamento della realta` esterna. L’immagine interiore nasce per uno stimolo esterno ma la trasformazione dello stimolo impedisce che vi sia qualcosa di esterno a fare da

garante. La garanzia e` dentro di noi, in cio` che abbiamo vissuto e ricordato, che costituisce una struttura di sanita` originaria, pensata come immagine interiore. All’esterno per l’essere umano non ci sono garanzie, ci sono solo stimoli e, dopo la nascita, soprattutto gli stimoli dell’ambiente umano che possono sviluppare l’immagine interna o alterarla, spegnerla. Nella citata tesi sull’origine del linguaggio si argomenta un interessante confronto tra “la realta` che precede la visione fisica delle cose” e la “visione fisica delle cose”. Il neonato fa immagini basandosi su cio` che vive e su cio` che lo stimola nel rapporto materno in cui utilizza tutti i sensi meno la vista (che matura successivamente). Queste immagini non possono avere confronto alcuno con la realta` esterna, sono creazioni del bambino, frutto della sua attivita` psichica. Sono immagini senza percezione visiva ma che tuttavia si riferiscono a qualcosa che esiste e che e` direttamente legato al rapporto concreto, vissuto materialmente. Acquisendo questi concetti noi possiamo ammettere, nel seguire il nostro discorso, una forma iniziale di pensiero senza percezione e possiamo distinguere: un pensiero senza percezione che si riferisce a qualcosa che non esiste, che e` quel pensiero senza rapporto concreto senza memoria di cio` che si e` toccato, succhiato, vissuto; e un pensiero senza percezione che porta in se´ la memoria del vissuto, che ha elaborato l’oggetto esistente anche se non percepito “figurativamente”, che ha trasformato la percezione in qualcosa di non materiale, in pensiero muto, l’immagine interiore che non si fa percepire. Ci viene detto pertanto che l’immagine interiore che precede la visione fisica ed elabora il rapporto vissuto, puo` avere in se´ una capacita` di riferirsi al rapporto interumano. L’alterazione o la perdita dell’immagine puo` portare ad un’alterazione o perdita di quanto restava in essa del rapporto con la realta`. Quando compare la visione fisica delle cose si rende necessario un confronto tra l’immagine esterna vista e imposta dalla realta` e l’immagine ` in questo interna creata per il rapporto vissuto. E piano, possiamo dire, che avviene la famosa “a-

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daequatio”, in cui all’“adaequatio rei et intellectus” di aristotelica e tomistica memoria possiamo far precedere quella tra l’immagine esterna e l’immagine interiore. ` su questo confronto che si cimentera` poi la E sicurezza e certezza delle proprie immagini inventate e la sicurezza e certezza delle proprie percezioni. Su questo si fonda un sano rapporto con la realta`. Quella “ribellione ai cinque sensi” che fa l’identita` umana e di pensiero e` quella stessa che puo` fare la malattia del pensiero. Rivendicare la certezza del proprio pensiero senza percezioni, infatti, puo` essere delirio o pensiero creativo. L’immagine dunque, per quanto riguarda il nostro tema, ha una potenzialita`, la quale si puo` poi manifestare nel pensiero verbale, quando si va a costruire il discorso verbale e si entra cosı` nell’ambito che riguarda il delirio. Abbiamo visto come la possibilita` di formulare pensieri sulle cose e di comunicarli richieda che si stabiliscano dei nessi tra le parole e le cose, nessi concepiti come rappresentazioni mentali. A queste immagini percettive e ai nomi che le indicano e` sempre stato imposto l’assetto statico precostituito della ragione come unica garanzia per la costruzione dei significati. Una metodologia che persegue d’indagare la realta` psichica senza scissione tra pensiero inconscio e cosciente non puo` accettare l’idea che il pensiero verbale, il linguaggio parlato che si forma sull’eliminazione di cio` che non e` cosciente, sia garanzia di un corretto rapporto con la realta`. Nel formarsi del linguaggio dall’immagine il soggetto si deve ricordare dell’esperienza precedente. Se quello che precede il linguaggio viene ricordato, non viene eliminato, il linguaggio ha in se´ la capacita` di parlare di inconscio, di comprendere l’inconscio, di intenderne il senso. In questo modo e` stata concettualizzata l’esistenza di un pensiero verbale che nasce per trasformazione dell’immagine, un pensiero verbale che deriva dall’immagine ma non per negazione, ` a questo concetto annullamento della stessa. E fagioliano di trasformazione — dalla sensazione/percezione all’immagine e poi dall’immagine al pensiero verbale, senza che il precedente vada perduto, ma, invisibile, rimane nelle cose nuove — che si lega il concetto di latente. Quell’imma-

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gine latente che e` invisibile e che in ogni lavoro di psicoterapia, di interpretazione dei sogni bisognerebbe poi scoprire e verbalizzare. La distinzione (per diversa formazione) e il confronto tra immagini percettive e immagini inconsce ci obbligano inoltre a distinguere tra significati che si riferiscono alle immagini esterne e quelli legati alle immagini interiori. Si raggiunge in tal modo la possibilita` di dare un fondamento teorico alla distinzione tra senso e significato. Il significato ha la sua origine nella comparsa dell’elaborazione cosciente delle percezioni e riguarda le rappresentazioni definite, indeformate, condivise e verificabili che sono copie delle cose. Il senso trova la sua origine nell’elaborazione inconscia delle percezioni, in cui entrano in gioco il ‘sentire’ e le sensazioni (e` qui l’aggancio biologico fantasticato con il sensorio comune) vissute nel rapporto umano e trasformate in immagini indefinite, personali e non percepibili se non comunicate nel linguaggio e colte in altre manifestazioni. ` quanto viene esplicitato nel citato “InconE tro sulla Psichiatria” dell’Universita` di Wu¨rzburg nella relazione di Fagioli «…Mi serve per pensare…», in cui il senso viene legato all’immagine interiore, all’affettivita`, al movimento umano, e distinto dai significati legati alla ragione. Possiamo dire che nel corso dell’esistenza, se il significato e` ancorato alla fissita` della registrazione dei fatti, il senso e` affidato al movimento, alla forma che acquista l’immagine dopo il rapporto con l’essere umano. L’immagine esterna deve essere garantita dalla cosa per essere, perche´ l’essere e` nella cosa di cui essa e` copia ed ha bisogno del linguaggio razionale che le attribuisce il significato legandola alla cosa che rappresenta. Se il senso e` connesso all’immagine interiore e al movimento umano, esso implica l’essere e non ha bisogno del linguaggio razionale per essere. Questo ci puo` far ipotizzare che se il significato si attribuisce, in modo condiviso anche convenzionalmente e socialmente, o in modo arbitrario, il senso e` nelle cose umane, si coglie, si abolisce, si ignora, le parole servono a coglierlo ed esprimerlo, a renderlo percepibile o a distruggerlo. Forse solo l’artista geniale crea il senso.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

L’uomo, prima che un donatore di senso, e` soprattutto un portatore di senso. Pertanto dovremmo occuparci non solo di una patologia dei significati ma di una patologia del senso e questo forse puo` spingerci oltre l’idea del delirio come una patologia della coscienza dei significati, l’idea prevalente, come abbiamo descritto, in tutta la psichiatria del Novecento. Anzi, tenendo conto di quanto detto all’inizio, l’idea prevalente in tutta la storia della psichiatria. Dall’idea di delirio come frenite, come disturbo del sensorio, della coscienza (delirium), delle passioni che tolgono lucidita` e aboliscono o alterano i significati. Quell’idea che ha sempre reso difficile e spesso impossibile la diagnosi di delirio quando i significati sono mantenuti, non c’e` disordine affettivo ed e` inalterato il rapporto lucido con le cose e il linguaggio razionale; ha reso difficile e spesso impossibile cioe` la diagnosi di certe forme di schizofrenia, in cui e` il senso ad essere abolito o perduto e in cui i significati sono inalterati. Questo riapre la ricerca sulla percezione delirante con il collegamento a quanti (Jaspers, Gruhle, Barison, Fagioli), ammettendo che nel normale, nel paranoico e nello schizofrenico c’e` la struttura inalterata della percezione (e quindi non c’e` il disturbo organico), lasciavano aperta la ricerca su cio` che cambia nella intenzionalita`. Per cui si puo` dire che se l’intenzionalita` e` simile nel normale e nel paranoico, dove ha un cambiamento e` nello schizofrenico, in cui i significati sono mantenuti e c’e` una intenzionalita` diversa nel dare un senso; intenzionalita` che non e` piu` incomprensibile se la leghiamo ad una intenzionalita` inconscia in quanto quest’ultima la possiamo rintracciare nell’espressione, nel movimento umano. Lo possiamo fare se noi stessi non teniamo fuori l’inconscio che ci serve per ‘‘renderci conto’’ del senso delle manifestazioni dell’altro. In un recente libro sulla percezione delirante, Armando, confrontando la struttura delle percezioni deliranti col processo della nascita, ipotizza che «la precedente esperienza, il ‘remoto’ cui attingere significati, sembra non poter essere altro che la prima immagine, come cio` cui attingere un’autenticita` di senso ed una verifica dello stesso». Il percorso dell’autore nel cercare un’unita`

delle percezioni deliranti (normale, paranoicale, artistica, schizofrenica) e di farla corrispondere all’unita` dell’esperienza, suggerisce il problema di un passaggio graduale, dal pensiero normale a quello schizofrenico, senza dover pensare ad un anders, ad una diversita` totale. La possibilita` di affrontare questo grande tema aperto della psicopatologia e` nella ricerca sull’affettivita` e sui rapporti tra affettivita` e pensiero. Questo puo` ricevere una chiarificazione partendo dal rapporto con l’immagine, a patto di rifiutare la tradizione di tenere seperati il disturbo dell’affettivita` e quello del pensiero. Il pensiero fa l’anaffettivita`, nel senso che ci si rende anaffettivi col pensiero, proprio eliminando l’immagine e il vissuto ad essa legato. In questo modo l’anaffettivita` entra nel problema del delirio, in quanto essa e` un difetto di conoscenza; non della conoscenza razionale e dei significati perseguita attraverso il distacco dalle passioni e dagli affetti. Il modo di costruire i pensieri nel delirante, soprattutto in certi tipi di delirio, e` tutt’altro che irrazionale, anzi e` simile nello strutturarsi al modo visto in precedenza con cui la ragione costruisce il pensiero verbale. Piu` in generale si puo` dire che l’affettivita` e il suo rapporto con l’immagine hanno un’importanza basilare nelle molteplicita` delle forme con cui si presenta il delirio; dal delirio acuto con massima componente affettiva (prevalenza del disturbo dei significati?) al delirio schizofrenico con massima anaffettivita` (prevalenza di una patologia del senso?). Cio` per il ruolo che l’affettivita` e l’immagine hanno nella costruzione del pensiero verbale. Viene accettato che ci sono soggetti che hanno scarso rapporto con gli affetti e le cose umane, gli schizoidi, che riescono a fare un linguaggio cosciente fatto di pensieri lucidi che corrispondono agli oggetti della realta`, che descrivono esattamente le cose viste e udite, che mantengono i significati. Ma, ancora, perche´ si vada nel delirio schizofrenico bisogna che il linguaggio cosciente sia portato ad esprimere cose inesistenti e impossibili. Sia portato ad “inventare” pensieri di cose inesistenti e impossibili da vivere, da sentire, percepire. Forse questo delirante cerca di ritrovare il

Elementi di psicopatologia dinamica

ricordo che ha perduto o eliminato o mai fatto. Quelle memorie che i normali hanno, perche´ tutti vedono gli oggetti, le persone in base a quello che ognuno ha dentro di se´ di immagini, di affetti, di quanto ha costruito e vissuto dentro di se´, perche´ ognuno vive e ha la sua forma di rappresentazione della realta` e la esprime in mezzo agli altri. Il linguaggio che nasce per eliminazione dell’immagine interna e` quella che poi elimina l’inconscio e con esso gli affetti, i vissuti, quanto ha vissuto nel proprio corpo con il rapporto con gli altri, la memoria di cio` che ha sentito e toccato, amato e odiato. Rimane l’idea staccata dal corpo, rimane il pensiero cosciente che puo` pensare solo la realta` materiale delle cose e pensa la realta` umana senza latente, senza senso, perche´ ha perduto il proprio. Il cognitivista Kline, dopo lunga indagine, ricava che «l’80% degli schizofrenici non cadeva in un’illusione visiva di cui erano vittime il 100% dei normali» e ne trae la conclusione che «la ragione per cui gli schizofrenici sono schizofrenici e` che vedono il mondo nel modo in cui esso e`». Questo dato, che viene utilizzato per confermare l’incomprensibilita` dello schizofrenico, per noi puo` confermare la validita` di un metodo di ricerca. Ci sono veri malati di mente che non possono accettare le illusioni, che non sopportano l’irrazionale e perseguono un rapporto letteralmente esatto con la realta` delle cose, a dispetto dell’idea tuttora radicata che la follia e` irrazionalita`. Veri malati di mente, quelli definiti spesso incomprensibili, imprevedibili, indiagnosticabili, trasformano l’anaffettivita` in pensiero verbale perche´ non riescono a fare la rappresentazione, perche´ hanno perso l’immagine, perche´ manca quel sentire vivo che porta i vissuti a entrare nella formazione dell’immagine. Arrivano cosı` a quel “pensare senza” che non e` vero pensiero, senza quell’immagine interiore che ci hanno detto “serve per pensare”, e che forse a conclusione possiamo azzardare: serve anche per non delirare.

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Riferimenti bibliografici paragrafi 2 e 3 della Parte Seconda 1)

Per la storia della melanconia, cfr. i testi: Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, Il Melangolo, Genova 1981. Flashar H., Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, W. De Gruyter, Berlino 1966. Jackson S.W., Melancholia & Depression, Yale University Press, New Haven 1986. Starobinski J., La malinconia allo specchio, Garzanti, Firenze 1990.

2)

Per una critica all’ipotesi ereditaria, cfr.: Zerbin-Ru¨ din E., Genoma ed autodeterminazione: contradictio in adjecto? In “Il Sogno della Farfalla” VI, 4, 1997. Fagioli M., Homberg A., Il cervello non s’ammala mai. Due o tre domande sulla depressione. In Il Sogno della Farfalla V, 2, 1996.

3)

Per la teoria psicoanalitica “classica” sulle depressioni, cfr.: Abraham K. (1912), Note per l’indagine e il trattamento della follia maniaco-depressiva e di stati affini. In: Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1975. Abraham K. (1924), Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici. In: Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1975. Freud S. (1917), Lutto e melanconia. In: O.S.F., vol. VIII, Boringhieri, Torino. Klein M. (1935), Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In: Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Klein M. (1940), Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi. In: Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Gaylin W. (a cura di), Il significato della disperazione, Astrolabio, Roma 1977.

4)

Riassunto a stralci dell’intervista a Massimo Fagioli nella trasmissione “Depressione” condotta da C. Patrignani e A. Ferrante sull’emittente romana Telesimpaty, 27.2.1998. Videocassetta della Harvey Produzioni Multimediali, Roma 1998.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

5)

Cfr. Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane 19968. ` il vedere che l’uomo vuole. Cfr. Homberg A., E Appunti per una teoria della depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Fagioli F., Homberg A., Masini A., Limiti della conoscenza nel blocco catatonico e nello stupor depressivo. In: G. Merlin, G. Borgherini (a cura di), La sindrome di apatia schizofrenica tra concezioni fenomenologiche e mondo delle scale, CLEUP, Padova 1991. Fagioli M., Mi serve per pensare. In: Il Sogno della Farfalla VIII, 2, 1999. Cfr. sulla psicoterapia delle depressioni e sul tema del transfert negativo: Fagioli M., Una depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Anzilotti C., La relazione terapeutica negativa. In: Il Sogno della Farfalla V, 2, 1996. Il film di M. Bellocchio, Diavolo in corpo, Italia 1986.

6)

7)

8) 9)

10)

Cfr. in questo manuale Fagioli F., Masini M., Un accenno alla metodologia, p. 206. Inoltre: Fagioli M., Una depressione. In: Il Sogno della Farfalla II, 1, 1993. Fagioli M., Homberg A., Il cervello non s’ammala mai. Due o tre domande sulla depressione. In Il Sogno della Farfalla, V, 2, 1996. Masini A., Dal ‘‘fare il bene per Dio’’, al ‘‘fare il bene per gli uomini’’; l’affettivita` come obbligo storico. In: Crisi del freudismo e prospettive della scienza dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma, 2000.

Riferimenti bibliografici paragrafo 6: Aristotele, Opere, VII Laterza, 1973. Armando L. A., Percezione delirante idea della cura unita` dell’esperienza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.

AA.VV., La medicina abbandonata (a cura di M. Fagioli) Nuove Edizioni Romane, Roma 1998. AA.VV., Fantasia di sparizione formazione dell’immagine idea della cura (a cura di Armando, Fiorinastro, Masini) Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Binswanger L., Delirio, Marsilio, Venezia 1990. Esquirol E.D., Des maladies mentales, Paris 1838. Fagioli M., Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996. Fagioli M., Se avessi disegnato una donna, in Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma, 1996. Fagioli M., La parola dell’inconscio. Ipotesi che legano gli studi linguistici alla realta` psichica, Tesi di laurea in medicina e chirurgia, Universita` “La Sapienza” di Roma, 1992-93 (in corso di pubblicazione). Fagioli M., Mi serve per pensare…, in Il sogno della Farfalla, VIII, 2, 1999, pp. 6-20. Frege G., Senso e significato in logica e aritmetica, Einaudi, Torino 1965. Freud S., Opere, Boringhieri, Torino. Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima, Marsilio, Venezia 1984. Gruhle H.W., Sul delirio in Il sogno della farfalla, IV, 3, 1995. Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970. Husserl E., (1913), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965. Husserl E., (1900) Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1968. Ippocrate, Opere, Utet, Torino 1965. Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 1982. Kraepelin E., Dementia praecox, ETS, Pisa 1989. Pancheri P., Biondi M., Il delirio, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1994. Pinel P., La Mania, Marsilio, Venezia 1987. Schneider K., (1966) Psicopatologia clinica, Sansoni, Firenze 1967. Whytt R., Traite´ des maladies nerveuses, hypocondriaques et hyste´riques, P. Didot, Paris 1777. Wittgenstein L., Della certezza, Einaudi, Torino 1978.

10 Nosografia dei disturbi psichiatrici Nicola Lalli Parole chiave classificazione naturale; nomenclatura; nosologia; nosografia; sindrome; carattere; reazioni; malattia

La classificazione e` un’operazione necessaria e fondamentale per ogni disciplina, perche´ rende comprensibili dati e fenomeni che altrimenti sarebbero caotici ed incomprensibili. Non a caso la classificazione kraepeliniana, per quanto parziale perche´ fondata unicamente sul decorso, ha segnato comunque l’inizio e la nascita della Psichiatria come disciplina autonoma. L’aspirazione di ogni disciplina e` quella di poter disporre di una classificazione quanto piu` naturale e quindi piu` attinente all’essenza dei fenomeni: una sorta di tavola di Mendeleev. Ma credo che questo sia impossibile per la Psichiatria, perche´ sono implicati non solo fenomeni biologici e naturali, che possono avere una certa ripetitivita`, ma soprattutto fenomeni psichici e storici, che in genere ripetitivi non sono. Pertanto bisognera` accettare che ogni sforzo nosografico in Psichiatria mostrera` sempre uno scarto, una impossibilita` di raccogliere tutti i dati psicopatologici. Questo non vuol dire pero` rinunciare al progetto e accontentarsi di una semplice descrizione dei fenomeni, come fa il DSM-IV. Ri-

tengo che una nosografia psichiatrica debba avere invece la pretesa di ordinare i dati, secondo un criterio teorico di riferimento tale da costituire una sorta di reticolo all’interno del quale sistemare i vari fenomeni psicopatologici. Salvo apportare modificazioni, qualora la clinica ed ulteriori conoscenze lo rendessero necessario. Attualmente ritengo che la nosografia psichiatrica possa essere ordinata per categorie, caratterizzate da fenomeni specifici e patognomonici, cosı` suddivise: a) b) c) d) e) f)

reazioni; disturbi del carattere su base conflittuale; disturbi strutturali del carattere; disturbi strutturali del carattere con dipendenza da sostanze tossiche; disturbi psicotici; disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali La classificazione e` una delle prime e fondamentali operazioni che ogni disciplina deve compiere, per dare ordine ad una serie di eventi e di fenomeni che altrimenti rimarrebbero frammentari e spesso incomprensibili. La classificazione presenta inoltre una duplice utilita`: teorica e pratica. Sul piano teorico serve ad ipotizzare e quindi ricercare le eventuali cause dei sintomi sulla base di eventi analoghi; sul piano pratico serve fondamentalmente per la diagnosi, che esprime la possibilita` di conoscenza e di codificazione e quindi la possibilita` di terapia e di prognosi. Una classificazione e` tanto piu` valida quanto piu` rispecchia un ordine ed una sequenza naturale, ovverosia immanente ai fenomeni che si classificano. Ma non sempre questo e` possibile. Pertanto si hanno due tipi di classificazione: una naturale e l’altra artificiale o convenzionale. La classificazione artificiale si identifica con la nomenclatura, ovverosia l’ordinamento mediante numeri di codice. Si tratta quindi di una soluzione di comodo: attribuiamo ai vari fenomeni denominazioni o numeri diversi, con il preciso scopo di rendere piu` rapida ed economica la ricerca e la comunicazione: tra codice e fenomeno non esiste alcuna correlazione, ma il tutto si basa su di una pura convenzione. La classificazione naturale tende invece a riprodurre quell’ordine e quella serialita` che e` insita nei fenomeni stessi. L’esempio piu` conosciuto e` la tavola periodica di Mendeleev, ove gli elementi naturali sono ordinati secondo il loro peso atomico: il valore euristico di questa classificazione e` stato evidenziato dal fatto che le caselle rimaste vuote sono state successivamente riempite dalla scoperta di quegli elementi che sono facilmente degradabili e sono difficilmente reperibili allo stato naturale, ma la cui esistenza era stata prevista proprio dalla classificazione di Mendeleev. Certamente l’aspirazione di ogni classificazione sarebbe di avvicinarsi al modello naturale. Ma questo non sempre e` possibile, soprattutto nel campo umano, per la complessita` dei fenomeni che non si presentano con quella linearita` e periodicita`, come e` tipico del mondo natu-

rale. Inoltre, soprattutto quando classifichiamo delle patologie, dobbiamo tener presente non solo che queste possono essere determinate da cause diverse, ma anche che una diversa interazione tra queste cause puo` indurre fenomeni diversi. Ora dobbiamo chiederci quali sono le possibilita` e le difficolta` nel proporre una classificazione dei disturbi psichiatrici.

2. Metodologia della classificazione Il primo punto da stabilire e` che cosa tendiamo a classificare. A volte classifichiamo le malattie; a volte le variazioni del comportamento o le persone con le loro variabilita` caratteriali; a volte gli epifenomeni di variazioni biologiche. A questa complessita` che attiene allo specifico psichiatrico si aggiunge una difficolta` che attiene all’osservatore. Questa difficolta` nasce dal fatto che l’oggetto di osservazione non solo non e` immobile, ma varia anche secondo l’ottica con la quale si osserva. Cosa che puo` essere meglio evidenziata dall’esempio del bosco e dell’albero. Se noi osserviamo un bosco ad una certa distanza, vediamo un insieme di alberi che si strutturano con una gestalt ben precisa: sappiamo che e` formato di alberi, ma di questi ci sfugge la precisa connotazione. Se ci avviciniamo, ed anzi entriamo nel bosco, le cose cambiano: possiamo esaminare per bene i singoli alberi, ma perdiamo di vista il bosco. Ed il problema si ripropone quando osserviamo l’albero ad una certa distanza, o quando ci avviciniamo per studiarne le particolarita` delle foglie e dei fiori. Senza voler portare questa situazione all’infinito, e` evidente in altri termini che la nostra osservazione, e quindi anche i dati che costituiscono la classificazione, variano in misura ` della vicinanza o della lontananza dall’oggetto. E chiaro quindi che i sintomi ed il soggetto portatore dei sintomi possono mostrare aspetti diversi a seconda della nostra distanza: che questa volta dobbiamo intendere non in termini fisici, ma psichici. Vediamo sicuramente cose diverse, nello stesso paziente, se l’approccio e` esclusivamente oggettivante-nosografico, o se invece stabiliamo un rapporto psicoterapico. Questo non vuol dire

Nosografia dei disturbi psichiatrici

che e` impossibile fare una classificazione: vuol dire che bisogna tener presenti, oltre che la mutevolezza dell’oggetto, anche le modalita` di osservazione. Questo aspetto trova il suo apice nella problematica del comprendere e dello spiegare. A lungo si e` dibattuto se lo psichiatra deve comprendere o spiegare: definendo la prima come la categoria della soggettivita` e del rapporto interpersonale, e la seconda come la categoria della oggettivita` e della osservazione fredda e scientifica. Senza voler cadere in facili schematismi, credo che le due possibilita` possano essere presenti nello psichiatra e che dipendano anche dalle modalita` del rapporto e dalla patologia. In effetti queste due categorie si possono esplicitare attraverso due domande fondamentali: ‘‘chi sono io per il paziente’’ o ‘‘che cosa ha il paziente’’, che implicano non solo modalita` di rapporto diverse, ma anche situazioni cliniche diverse. (Vedi capitolo: «Rapporto medico-paziente»). Ma evidentemente se i fenomeni possono presentarsi con aspetti diversi, questo non vuol dire che quei fenomeni sono completamente diversi. L’albero visto nel contesto del bosco e quello visto da vicino, hanno, pur nella diversita`, molte piu` cose in comune di quanto a prima vista non sembrerebbe. Una conoscenza piu` completa ci deriva dall’osservare l’albero, mantenendo il bosco come immagine di sfondo, o viceversa. In campo clinico la modalita` di osservazione puo` essere condizionata da una impostazione teorica diversa e da una diversa distanza rispetto all’oggetto. Ma anche in questi casi prevale alla fine il primato del fatto sulla teoria, come si evince dal fatto che clinici pur con orientamenti diversi, di fronte ad uno stesso paziente, magari con concetti o parole diverse, esprimono lo stesso parere clinico e diagnostico. Quindi, nonostante la variabilita` del fenomeno, in parte dovuta al fenomeno stesso, in parte ad impostazioni teoriche diverse, rimane un primato del fatto, che rende possibile una classificazione dei disturbi psichiatrici, anche accettando che per il momento non tutti i disturbi psicopatologici possono essere inquadrati con sicurezza e con coerenza. Ma questo non e` un problema, perche´ a meno che non si prendano come punto di riferimento le scienze

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naturali, e` evidente che nelle scienze umane c’e` sempre uno scarto. Comunque un dato che ci conferma, nonostante le difficolta`, la possibilita` di una osservazione e quindi di una classificazione e` che l’oggetto dell’osservazione spesso tende a permanere abbastanza stabile nel tempo: le manifestazioni di una depressione descritta ben 3000 anni fa potrebbero essere direttamente trasferite in un moderno Manuale di Psichiatria. Questi pochi elementi segnalano una possibilita` di poter proporre una nosografia dei disturbi psichiatrici: ma prima di arrivare a proporre una nosografia, credo opportuno osservare cosa e` successo in Medicina. Certamente la metodologia medica non e` direttamente estrapolabile: ma l’iter metodologico puo` essere un utile punto di riferimento.

2.1. Nosografia delle malattie somatiche La classificazione, su base metodologicamente corretta, inizia intorno al 1500 per merito di Morgagni, che gia` nel titolo della sua opera enuncia il principio basilare De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis. Ovverosia la ‘‘fisionomia’’ di un morbo si delinea attraverso due parametri: la sede e la natura. Ovverosia il poter stabilire la sede anatomica del disturbo ha permesso di unificare sintomi che precedentemente erano ritenuti appartenere a sindromi totalmente diverse. Questo criterio fondamentale ha favorito lo studio delle cause (natura), ovverosia l’eziologia. Un dato sicuramente accertato, tanto da diventare una sorta di assioma, e` il seguente: se un complesso di sintomi e` spiegabile con una sola causa e` inutile cercarne altre. In altri termini, si e` visto che si puo` quasi sempre risalire ad una causa prima, per spiegare tutto il corteo sintomatologico. Sicuramente questa affermazione nasce da una visione un po’ meccanicistica dell’organismo ed in questo assioma della medicina sembra riecheggiare quanto affermava G. Galilei «...la natura non opera con l’intervento di molte cose quello che puo` operare con poche». In effetti la conoscenza piu` approfondita delle varie interazioni biologiche ed il fatto che una

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

stessa causa puo` determinare effetti diversi porta oggi a ritenere che la malattia, pur essendo determinata spesso da una sola causa, puo` richiedere per lo sviluppo e per il mantenimento una serie di concause. Comunque la possibilita` di definire la sede e la natura e` stato il metodo che ha permesso alla medicina di uscire da una fase di puro conglomerato di sintomi e costruire una nosologia ed una nosografia ben definita.

2.2. Nosologia, malattia, sindrome, nosografia A questo punto e` utile tentare una precisazione di questi concetti che spesso si usano impropriamente. Per nosologia si intende il complesso di conoscenze e di spiegazioni che riguardano un certo disturbo che, una volta definiti l’eziologia, la patogenesi ed il quadro anatomopatologico, si connota come malattia. Per nosografia si intende una classificazione razionale ` evidente che quanto piu` delle varie malattie. E noi conosciamo circa un quadro morboso (nosologia) tanto piu` possiamo attuare una nosografia corretta e completa che si avvicina ad una classificazione naturale. Ma dobbiamo distinguere la sindrome dalla malattia. Per malattia intendiamo un processo fisiopatologico caratterizzato da una eziologia nota, da una patogenesi accertata, da un quadro anatomico definito, qualunque sia il qua` evidente che il quadro sintodro sintomatico. E matico tende a mantenersi costante come l’eziologia e la patogenesi, ma nel caso che ci fossero variazioni sintomatologiche la malattia continua ad essere definita sulla base della eziopatogenesi e non della sintomatologia. Noi sappiamo che molti quadri di malattie somatiche sono cambiati: un esempio per tutti e` il tifo addominale, che attualmente presenta un quadro molto diverso da quello classico. Ma nonostante la variazione del quadro sintomatologico e` possibile fare la diagnosi, e quindi instaurare una terapia razionale, perche´ conosciamo l’eziologia e la patogenesi. Questo e` un dato importante. In effetti la sintomatologia puo` avere manifestazioni diverse, e se non conosciamo bene l’eziologia e la patogenesi potremmo credere di trovarci di fronte ad un

sintomo nuovo, od una malattia diversa. Questo puo` facilmente succedere in Psichiatria, ove la difficolta` di stabilire una precisa eziopatogenesi ha fatto sı` che variazioni sintomatologiche siano state considerate come nuove entita` patologiche o che variazioni della sintomatologia classica possano porre dubbi diagnostici non sempre facilmente risolvibili. Quindi la sicura conoscenza dell’eziologia e della patogenesi fa definire una situazione morbosa come malattia. Per sindrome, invece, intendiamo un insieme di sintomi che si ritrovano con una certa frequenza e costanza e che pertanto fanno presupporre che questo insieme di sintomi non sia casuale, ma significativo e probabilmente derivante da una specifica causa. In Psichiatria ci troviamo di fronte a sindromi piu` che a malattie, per lo meno se le intendiamo secondo il modello medico. Ne deriva che in Psichiatria non e` sempre possibile, almeno al momento attuale, definire la nosologia e quindi strutturare una nosografia altrettanto completa e precisa di come e` stato fatto in medicina. In Psichiatria infatti non possiamo utilizzare la metodologia medica della sede e della natura. Infatti, se per quest’ultima possiamo avere un numero sufficiente di conoscenze, la sede e` difficilmente definibile. Anche quando ci rifacciamo ad un modello topografico della psiche, non e` possibile evidenziare una sede. A meno che non facciamo corrispondere la sede con il SNC; ma in questo caso la Psichiatria si trasforma in Neuropsichiatria: ovverosia in un falso tentativo di risolvere il problema. Dire che le patologie psichiatriche sono patologia del SNC e` come dire praticamente nulla. A parte il fatto che, escluse specifiche malattie ove c’e` una sicura correlazione tra disturbi psichiatrici e lesioni del SNC, tutto il resto, pur essendo stato molto indagato, ha fornito risultati piuttosto modesti. Inoltre il disturbo psichico si crea e si mantiene sulla base di numerosi fattori, per cui e` difficile isolare una sola causa. ` chiaro quindi che il metodo medico, utilizE zato per la nosografia, non e` applicabile alla Psichiatria in toto; puo` essere utilizzato solo in alcune particolari malattie che sono molto specifiche e che occupano un posto preciso, ma anche marginale in Psichiatria: alcune forme di demenza

Nosografia dei disturbi psichiatrici

di cui si conosce l’eziologia, le epilessie, alcuni disturbi secondari su base organica. Questo dato puo` provocare una certa confusione se e` utilizzato rigidamente. Infatti se si utilizza il modello medico per la definizione di sindrome e di malattia, mediamente in Psichiatria dovremmo parlare di sindromi. Se invece si tiene presente un modello teorico del funzionamento psichico (per esempio il modello psicodinamico), molti disturbi psicopatologici potrebbero essere definiti, molto piu` correttamente, come malattia. Mi riferisco in particolar modo alle psiconevrosi, ove e` possibile proporre una eziologia, una patogenesi, un quadro clinico ed una evoluzione ben precisa. Non sempre questo discorso puo` farsi per altre psicopatologie, come per esempio le psicosi che pertanto piu` correttamente andrebbero definite sindromi. Questa situazione puo` portare a varie soluzioni e, come vedremo, non tutte auspicabili. La meno auspicabile e` la proposizione che in Psichiatria non e` possibile, o e` inutile, tentare una qualsiasi nosografia. Comunque credo utile riproporre brevemente alcune fasi della storia della nosografia in Psichiatria, per proporre infine un modello di classificazione.

3. Storia della nosografia psichiatrica Questo breve excursus non ha la pretesa di fare una storia della nosografia psichiatrica, ma solo di segnalare alcuni passaggi significativi. Il primo tentativo di mettere ordine nella confusa sintomatologia psicopatologica risale alla seconda meta` dell’Ottocento. Autori francesi e tedeschi tentano, sull’onda dei successi della medicina, di mutuare da questa la metodologia. Kahlbaum formula una ipotesi che postula una stretta corrispondenza tra eziologia, patologia cerebrale, sintomatologia clinica e decorso: questi parametri dovevano essere utilizzati per unificare sintomi molto diversi. Questa operazione, che non e` mai riuscita, ha comunque pesato a lungo sulla Psichiatria, rimanendo per molti come l’ideale a cui tendere. Successivamente E. Kraepelin, con spirito molto cli-

247

nico, utilizza fondamentalmente due parametri: sintomatologia clinica e decorso. Sulla base di questi due criteri egli isola due entita` ‘‘nosologiche’’: la demenza precoce e la psicosi maniacodepressiva. Oltre le notevoli differenze dei quadri clinici, il dato piu` significativo e` l’esito in demenza per la demenza precoce, e la guarigione, per lo meno dell’episodio, per la psicosi maniacodepressiva. Questa dicotomia kraepeliniana e` tuttora operante all’interno della Psichiatria. L’osservazione di Kraepelin e` stata resa possibile da tre dati: 1) 2)

3)

l’enorme numero di pazienti che egli ha potuto osservare; la possibilita` di ricovero in una situazione istituzionale che rendeva possibile fare catamnesi a lunga distanza; l’assenza di qualsiasi ausilio terapeutico che faceva sı` che il decorso della sindrome fosse ‘‘naturale’’.

Quindi possiamo dire che l’osservazione di Kraepelin, pur esatta sul piano clinico, era fortemente condizionata dalla particolare condizione di osservazione, forse l’osservazione naturalistica piu` spinta operata sul malato mentale. Questa metodologia di osservazione, e quindi anche le conseguenti osservazioni, sono messe in crisi da vari autori fra i quali bisogna menzionare soprattutto E. Bleuler. Questi, in parte sotto l’influsso della psicoanalisi, ma sopratutto pronto a cogliere i fermenti della Psichiatria emergente, propone una visione della demenza precoce completamente diversa, trasformandola cosı` in schizofrenia. Il dato differenziale piu` importante rispetto a Kraepelin e` che la schizofrenia non e` un fatto naturale, ma e` un evento psicologico spesso drammatico, frutto di una scissione interna. Questa scissione forma insieme all’autismo i sintomi primari: pertanto con Bleuler il problema si sposta dall’osservazione ‘‘naturale’’ alla psicopatologia e pertanto il problema nosografico diventa meno importante. Successivamente con la scuola psicodinamica il problema della nosografia e quindi anche della diagnosi viene ripreso: infatti una accurata se-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

meiologia e` importante anche per definire e differenziare i pazienti analizzabili da quelli non analizzabili. Agli inizi degli anni ’60, con la terapia psicofarmacologica, la nosografia psichiatrica subisce una ulteriore modificazione. La diagnosi non e` piu` una fine esercitazione semeiologica, come era diventata soprattutto sotto l’influsso della Psichiatria esistenziale, ma un fatto molto empirico. Si cerca di raggruppare i sintomi in base alla risposta agli psicofarmaci. In effetti lo psicofarmaco puo` avere una funzione di rivelatore, funzione che sarebbe utilizzabile ai fini di raggruppamenti piu` omogenei se conoscessimo con estrema esattezza i meccanismi d’azione dei vari psicofarmaci. Altrimenti si rischia di isolare, come se fossero nuove, categorie ben conosciute, solo perche´ sembrano rispondere particolarmente ad uno psicofarmaco. Credo che l’esempio piu` eclatante sia la sindrome di ‘‘attacchi di panico’’ isolata e proposta come nuova, solo perche´ risponderebbe in maniera favorevole ad una particolare BDZ. Da questo terreno, basato sulla ricerca di correlazione tra psicofarmaci e sindromi, si e` sviluppato nelle varie versioni il DMS, che dichiarandosi apertamente ateoretico e descrittivo propone un modello pragmatico che dovrebbe servire ad evidenziare e differenziare una sindrome dall’altra, solo sulla base di un certo numero di sintomi principali. E con il DSM-IV, di cui riparleremo dopo, siamo giunti ai giorni nostri. A questo punto credo opportuno proporre quali dovrebbero essere i criteri principali per una corretta nosografia psichiatrica.

4. Criteri per una nosografia psichiatrica Ma a cosa serve una classificazione, e sopratutto e` necessaria? La classificazione serve ed e` necessaria per una operazione fondamentale che e` la diagnosi, ovverosia a comprendere attraverso i sintomi ed i segni visibili il disturbo latente ed eventualmente anche la causa. La diagnosi e` una operazione logica che mette a confronto due ordini di informazioni: quelle derivanti dal quadro teorico di riferimento, che e` la teoria dello sviluppo psicologico e la psicopatologia, e quelle

derivanti dal quadro clinico, che sono i sintomi ed il decorso. I sintomi sono dei segnali e possono essere altamente specifici (patognomonici) o aspecifici ` importante riconoscere nelle varie (ubiquitari). E sindromi, i sintomi specifici o primari, perche´ sono quelli che caratterizzano fondamentalmente il quadro. Il metodo diagnostico si applica cercando una concordanza tra gli elementi clinici rilevati e l’appartenenza di questi elementi a specifici quadri sindromici e non ad altri. In questo senso una diagnosi e` sempre una diagnosi diffe` evidente quindi che a monte dell’attirenziale. E vita` diagnostica deve esserci una operazione di catalogazione che deve avere regole ben precise. Abbiamo visto che in Psichiatria esistono prevalentemente sindromi piu` che malattie, il che vuol dire che non sempre si e` in grado di poter definire l’eziologia. Per questo motivo l’aggruppamento deve seguire delle regole ancora piu` precise. Possiamo dire che gli elementi necessari perche´ si costituisca una sindrome sono i seguenti: 1) 2)

3)

i sintomi debbono essere accessibili e valutabili; i sintomi debbono presentarsi insieme, con una frequenza statisticamente significativa e devono inoltre presentare una notevole coerenza interna relativamente al decorso, all’esito ed alle risposte a specifici trattamenti; deve esistere un principio di gerarchia: ovverosia le sindromi meno gravi non debbono presentare sintomi appartenenti a livelli gerarchici superiori (cioe` piu` gravi), e viceversa.

Ma questi raggruppamenti non possono essere solo descrittivi; ci deve essere o si deve tentare anche un criterio ordinatore complessivo: il che rende necessario non fermarsi solo all’aspetto descrittivo, per quanto accurato, ma cercare di inserire questi dati in un contesto piu` ampio. Per fare questo bisogna sempre tener presente la correlazione tra la diagnosi trasversale (cioe` lo status) che si riferisce al quadro psicopatologico, e la diagnosi longitudinale che si riferisce al decorso e all’esito. Per quanto riguarda

Nosografia dei disturbi psichiatrici

l’articolazione tra le varie sindromi, si possono poi costituire tre possibilita`: 1)

2)

3)

considerare le sindromi come un continuum, per cui le variazioni sarebbero solo quantitative. L’esempio piu` classico e` la nosografia psicoanalitica che riconosce la possibilita` di presenza multipla di sintomi, pur appartenenti a categorie diverse; considerare le sindromi invece come qualitativamente diverse, il che implica un concetto di discontinuita`; si avrebbero quindi quadri specifici, senza possibilita` di passaggio da una sindrome all’altra. Esempio e` la nosografia clinico-biologica che ritiene essere il disturbo psicopatologico epifenomeno di specifiche alterazioni biologiche; considerare le sindromi su di un piano puramente statistico, limitandosi quindi ad una accurata descrizione fenomenologica, senza alcuna implicazione di ordine teorico: l’esempio piu` classico e` il DSM-IV.

Il DSM-IV inoltre si differenzia dalle altre due concezioni, perche´ propone un sistema multiassiale, che dovrebbe garantire una completezza di informazioni sul paziente. Infatti esiste la possibilita` di registrare, separatamente, informazioni sulla struttura di personalita`, sul funzionamento sociale, sulle patologie concomitanti, e sul grado di malattia o di remissione. Questo sistema multiassiale dovrebbe garantire una serie di informazioni strettamente empiriche deprivate da ogni inquinamento teorico o previsionale, che comunque dovrebbero trovare una correlazione tra di loro. Questa strategia sembra pero` non corrispondere alle attese perche´ e` molto difficile fare intersecare, omogeneamente e coerentemente, le varie informazioni che, per quanto utili, rimangono abbastanza scollegate le une dalle altre. Questi ed altri motivi fanno ritenere che un orientamento solo descrittivo e ateorico alla fine ` preferibile invece tentare una non sia pagante. E nosografia, che esplicitando le premesse teoriche di base, cerchi una sistematizzazione razionale e coerente, salvo a verificarla e metterla in discussione ove la clinica non concordi con la teoria. In questo senso la nosografia puo` diventare, oltre

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che necessario punto di riferimento, anche strumento di verifica della coerenza della teoria. La nosografia che propongo si basa su due principi fondamentali: da una parte e` improntata ad un criterio psicodinamico, il che significa che i sintomi hanno un senso e che c’e` una causa psicologica; dall’altra ritiene che ci possono essere anche alterazioni biologiche che possono condizionare o mantenere il disturbo psicopatologico. A parte questo, ritengo utile sottolineare altri punti. 1)

2)

3)

I quadri psicopatologici descritti sono costituiti non solo da un complesso di sintomi correlati in maniera statisticamente significativa, ma anche comprensibili e prevedibili sulla base di una teoria psicogenetica. Si ritiene possibile il passaggio tra sindromi affini, il che fa parte di un normale processo psicopatologico. Meno comprensibile e spiegabile e` il passaggio da una categoria nosografica all’altra. In concreto, mentre e` possibile e comprensibile che un nevrotico isterico abbia sintomi fobici o possa sviluppare una fobia, piu` difficile e` comprendere il passaggio da una nevrosi a una psicosi. In questi casi e` da ritenere che i sintomi meno gravi, manifestati in prima istanza, possono essere una copertura di disturbi piu` gravi, ma non ancora evidenti. Sul piano diagnostico vale il principio di gerarchia: ovverosia che il sintomo piu` grave e piu` duraturo e` quello che determina la diagnosi. Quindi, ferma restando la specificita` delle categorie, bisogna ritenere che passaggi da una categoria all’altra siano dovuti a cambiamenti radicali che possono essere anche transitori, come per esempio nella depressione endogena. Quindi per un giudizio globale diagnostico bisogna tener conto, oltre che di una osservazione trasversale, anche di una osservazione longitudinale. Le diverse categorie nosografiche presentano specifiche differenze che possiamo equiparare a strutture patognomoniche; per esempio, nelle psicosi sono presenti una rottura con la realta` ed una disgregazione della struttura caratteriale.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

4)

Le sindromi sono ordinate secondo un criterio ben preciso, che mostra una chiara vettorialita`: dai disturbi piu` reversibili (nevrosi) a quelli non reversibili (demenze); da quelli sicuramente su base psicologica (nevrosi) a quelli con probabile base biologica (psicosi) a quelli con sicura base biologica (disturbi psichiatrici secondari); da disturbi che presentano un valido rapporto con la realta` (nevrosi, disturbi psicosomatici) a disturbi ove il rapporto con la realta` e` alterato (psicosi) o deteriorato (demenze). In questa vettorialita` non sempre trova una sua precisa collocazione il fattore acutocronico che puo` essere presente nelle varie categorie; d’altra parte sappiamo, anche dalla Medicina, che il parametro acuto-cronico puo` essere un fattore discriminante in senso diagnostico. Cioe` su base empirica e per uso pratico, la distinzione in malattie acute o croniche ha una sua validita` operativa. Anche in Psichiatria possiamo parlare di disturbi acuti o cronici: ma questo fattore puo` appartenere a tutte le categorie nosografiche. Poiche´ il fattore acuto si unisce spesso al concetto di reazione, ho ritenuto opportuno riproporre la dizione di disturbi reattivi che hanno una duplice connotazione: brevita` e benignita` del decorso ed importanza del fattore esterno nel determinare il disturbo.

5)

pure con caratteri psicopatologici piu` complessi e gravi, molto simili alle psicosi, costituiscono le R.P.A. (Reazioni Psicogene Acute) e sono sistemate all’inizio delle psicosi. Oppure come R.O.A. (Reazioni Organiche Acute) caratterizzate da disturbi delle funzioni mentali e sistemate all’inizio dei disturbi psichiatrici su base organica. Quindi il concetto di reazione, pur con aspetti diversi, attraversa tutta la classificazione. Poi abbiamo le seguenti categorie che raggruppano piu` sindromi. B)

Psiconevrosi Patologia psicosomatica o disturbi psicosomatici

Essi sono caratterizzati da una formazione difensiva su base caratteriale che puo` esplicitarsi sia con una particolare struttura caratteriale specifica del circolo della bramosia o di quello dell’invidia, oppure con i sintomi classici delle psiconevrosi. Il rapporto con la realta` e` soddisfacente: la struttura del carattere presenta una conflittualita`. C)

Reazioni Reazioni nevrotiche acute (R.N.A.), (vedi Fenomeni ansiosi acuti) Reazioni psicogene acute (R.P.A.) Reazioni organiche acute (R.O.A.)

 

 

In questi casi e` deficitaria la struttura del carattere: e` presente una identita` parziale e diffusa, il rapporto con la realta` e` complessivamente disturbato. D)

Il concetto di reazione e` caratterizzato da due parametri: brevita` e benignita` del decorso, importanza dei fattori esterni nello scatenamento del disturbo. Le reazioni possono comparire in situazioni di stress e descritte come reazioni ansiose o R.N.A. (Reazioni Nevrotiche Acute), sono inserite nell’ambito della psiconevrosi d’ansia. Op-

Disturbi strutturali del carattere Sindrome borderline e disturbi di personalita` Perversioni o parafilie Personalita` psicopatica

Dati questi elementi, la nosografia e` cosı` concepita: A)

Disturbi del carattere su base conflittuale

Disturbi conflittuali e/o strutturali del carattere con dipendenza da sostanze tossiche Alcolismo cronico Tossicomanie 

L’alcolismo e la tossicomania possono svilupparsi a partire sia da una personalita` con disturbi

Nosografia dei disturbi psichiatrici

conflittuali, ed in questo caso in genere la prognosi e` migliore, o in soggetti con disturbi strutturali a prognosi piu` grave. In ogni caso il progredire dell’intossicazione cronica puo` comportare disturbi molto gravi come il delirium tremens o il delirio di gelosia. Quindi l’alterazione organica tende non solo a peggiorare la situazione psicopatologica iniziale ma anche a rendere il quadro clinico sempre piu` uniforme e stereotipato. E)

Disturbi Psicotici Depressione maggiore Mania Psicosi maniaco-depressiva  Paranoia Schizofrenia Parafrenia

 

Questa categoria e` caratterizzata, pur nelle notevoli variazioni, da alcuni sintomi fondamentali. C’e` una rottura con la realta`, o comunque una trasformazione della realta`: quindi e` compromessa la conoscenza ed il rapporto con la realta`. ` probabile che ci sia una base biologica come E concausa del disturbo psichiatrico. C’e` inoltre una disintegrazione, piu` o meno grave, della struttura del carattere. F)

Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche Demenze Disturbi psichiatrici in epilettici Disturbi secondari a malattie organiche

In questi casi c’e` sempre una base organica

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che determina l’insorgenza ed il mantenimento del disturbo. Questo disturbo puo` essere in alcuni ` presente casi (demenze primarie) irreversibile. E una grave alterazione del rapporto con la realta`, e spesso un deterioramento delle principali funzioni mentali. Chiaramente i quadri sindromici descritti si riferiscono a dei quadri medi: la maggiore o minore gravita`, il tipo di evoluzione e di decorso, essendo elementi collegati a numerosi fattori (ambiente familiare, possibilita` di un precoce intervento terapeutico ecc.) devono essere valutati caso per caso. La correlazione e la sequenza di questa classificazione sono improntate ad un criterio psicodinamico, tenendo conto dell’importanza, in alcune sindromi, dei possibili correlati biologici. Alcune sindromi possono non essere rigidamente inquadrabili nelle varie categorie. Una nosografia psichiatrica non e` una tavola di Mendeleev: ed e` auspicabile che sia cosı`!

Riferimenti bibliografici Arieti S., Manuale di Psichiatria, 3 voll., Boringhieri, Torino, 1969. Bleuler E., Trattato di Psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1967. DSM-III-R, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1988. Jaspers K., (1913), Psicopatologia Generale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1965. Poli E., Metodologia Medica, Rizzoli, Milano, 1965. Tacchini G., Coppola M. T., Musazzi A., ‘‘Il problema della diagnosi in psichiatria clinica’’, Psichiatria e Medicina, Anno II, n. 5, 1988.

Parte seconda La clinica

11 Il colloquio psichiatrico Nicola Lalli Parole chiave comunicazione verbale; comunicazione non-verbale; comunicazione promotiva; intenzionalita`; colloquio clinico-direttivo; colloquio psicodinamico; transfert; manipolazione; ipotesi psicodinamica; reticolo cronologico; crisi

La complessita` della relazione terapeutica si articola prevalentemente attraverso il colloquio, che in Psichiatria rappresenta lo strumento principale e piu` significativo che permette al terapeuta di accedere al mondo del paziente. Dire ‘‘colloquio’’ sembrerebbe voler privilegiare la comunicazione verbale. Invece il terapeuta deve saper cogliere e valutare anche la comunicazione non-verbale e soprattutto la eventuale discrepanza tra le due. Ma non solo: perche´ deve cogliere anche la modalita` della relazione oggettuale, ovverosia come il paziente si rapporta, nella situazione dell’‘‘hic et nunc’’, con il terapeuta durante il colloquio. Mentre il paziente parla o tace, il terapeuta, sulla base della sua recettivita` e flessibilita`, deve porsi due domande fondamentali: 1)

2)

‘‘Cosa ha il paziente’’: corrisponde al colloquio clinico-direttivo e ci fornisce una visione della struttura psicopatologica. ‘‘Cosa e` il paziente’’ e ‘‘cosa sono io per il

paziente’’: corrisponde al colloquio psicodinamico e ci fornisce una visione complessiva della sua struttura psichica anche negli aspetti positivi, della sua identita`, del rapporto con la realta`, delle modalita` del rapporto oggettuale e ci permette di valutare infine quali saranno le modalita` transferali e le possibilita` del paziente in un eventuale approccio psicoterapeutico. E cosı`, dal vasto e generico argomento del rapporto medico-paziente, entriamo con il colloquio psichiatrico, nello specifico della Psichiatria, cercando di osservare cosa fa lo psichiatra ed in che modo la sintesi dell’interesse, della recettivita`, e della teoria rende possibile la comprensione e la trasformazione di un altro, che e` il paziente psichiatrico. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Definizione In Psichiatria il colloquio rappresenta certamente lo strumento di conoscenza piu` importante, sia per l’assenza di altre metodiche che siano in grado di rivelarci le complessita` della psicologia e della psicopatologia umana, sia perche´ utilizza la dimensione del rapporto interpersonale che, come vedremo, sara` fondamentale non solo per la diagnostica ma per la stessa terapia. Il colloquio psichiatrico ha alcune analogie, ma anche profonde differenze, con il colloquio medico. In quest’ultimo, infatti, il medico utilizza le comunicazioni del paziente esclusivamente per poter accedere ad un’ipotesi diagnostica: il colloquio e` sempre direttivo e puo` anche essere limitato al minimo, se i segni e i sintomi del paziente sono evidenti. La brevita` e la direttivita` del colloquio sono anche legate al fatto che il medico successivamente dispone di una serie di strumenti e di ricerche, manuali e di laboratorio, con le quali poter confermare o meno la diagnosi. Impostata la diagnosi e la terapia, i successivi colloqui saranno indirizzati o a spiegare al paziente la natura della malattia, o cio` che dovra` fare rispetto ad una terapia, ecc., ma comunque tutto vertera` su questo specifico che e` la malattia disvelata. Per giungere alla diagnosi, il clinico utilizza tutti i dati trasmessi o direttamente osservati: quanti piu` elementi egli riuscira` ad osservare, tanto piu` egli sara` dotato di quel famoso ‘‘occhio clinico’’ che spesso lo induce a proporre una diagnosi fin dal primo sguardo. Quindi, osservazione, raccolta di dati anamnestici, formulazione di un’ipotesi diagnostica e successiva verifica di tale ipotesi costituiscono le operazioni mentali fondamentali del medico. Qualcosa di simile succede anche nella situazione psichiatrica: il medico osservera` il comportamento del paziente, ascoltera` quanto questi gli dice e cerchera`, in base a questi elementi, di proporsi mentalmente una prima ipotesi, che non e` solo diagnostica nel senso di conoscere cosa ha il paziente, ma anche e soprattutto tendente a capire cosa e`, e cosa chiede il paziente. Infatti, e` questa una prima differenza: per il paziente internistico, e` implicito che la richiesta e` il miglioramento o la guarigione, mentre ‘‘il cosa vuole’’ del paziente

psichiatrico e` sempre piu` complesso e articolato. Inoltre, lo psichiatra non avra` altri mezzi per verificare le proprie ipotesi se non il solo rapporto interpersonale ed il colloquio. Una ulteriore differenza e` costituita dalla modalita` di rapporto: lo psichiatra non e` osservatore neutrale ed oggettivo bensı` partecipe, ed a tal punto che l’osservatore puo` non solo modificare la ricezione, ma la stessa comunicazione del paziente. Quindi possiamo dire che se il metodo e` uguale, ben diverso e` l’oggetto. Per il medico, e` un dato obiettivo e parziale di natura organica piuttosto stabile: l’organo o l’apparato malato. Per lo psichiatra, un fenomeno globale, non statico ma dinamico, modificabile gia` nel momento stesso dell’osservazione, perche´ l’osservazione puo` essere gia` terapia. Dobbiamo subito dire due cose fondamentali per poter entrare nel merito dell’argomento. La prima e` che le dimensioni soggettive del terapeuta, sia per quanto riguarda la sua formazione e quindi il modello di riferimento teorico, sia per quanto riguarda la dimensione personale di disponibilita`, sono molto importanti e possono incidere in maniera notevole sull’esito del colloquio. L’affermazione dell’incomprensibilita` del malato mentale e` nata spesso da una totale indisponibilita` del terapeuta, e da un atteggiamento di tipo naturalistico, che riducendo il paziente ad un coacervo di sintomi ne rendeva totalmente incomprensibile il significato. Molto spesso poi questo vissuto d’incomprensibilita` da parte del terapeuta diventava addirittura un elemento patognomonico diagnostico. Per tanti psichiatri, e per vari decenni, la sensazione di incomprensibilita` del paziente diventava lo strumento utilizzato per la diagnosi di schizofrenia. La seconda cosa importante e` che il colloquio psichiatrico varia moltissimo, non solo a seconda del luogo e delle modalita`, ma anche e soprattutto a seconda dell’uso che se ne voglia fare. ` chiaro che un colloquio che ha la finalita` di E scoprire la pericolosita` o meno di un paziente, un colloquio che pone l’attenzione sui sintomi per proporre una terapia psicofarmacologica, ed un colloquio che cerca invece di decifrare cio` che dice un paziente ai fini di un lavoro psicoterapeutico, differiscono notevolmente tra di loro. Definita quindi l’intima correlazione tra finalita` e mo-

Il colloquio psichiatrico

dalita` del colloquio psichiatrico, cerchiamo di esaminare brevemente le principali differenze. Certamente, se prendiamo in considerazione le variabili all’interno di un colloquio, le modalita` e possibilita` di questo diventano numerose. Esso puo` variare per i luoghi (in una clinica, a casa del paziente, nello studio del terapeuta), per gli scopi (diagnostico, terapeutico, per una perizia, ecc.). Ma evidentemente una trattazione di questo genere non e` utile e pertanto, pur tenendo conto di alcuni parametri che inevitabilmente tendono a modificare la struttura di un colloquio psichiatrico, noi riteniamo che esso possa dividersi in due filoni abbastanza diversi, perche´ sottendono impostazioni e metodologie completamente diverse: il colloquio clinico direttivo ed il colloquio psicodinamico o psicoterapeutico. Ma come possiamo definire il colloquio psichiatrico? Il colloquio psichiatrico si costituisce all’interno dell’incontro di due persone di cui uno e` il terapeuta e l’altro e` il paziente. Il paziente e` una persona che comunica in maniera piu` o meno latente, spesso deformata, una serie di richieste di aiuto che riguardano in genere difficolta` inerenti alla sua vita. Queste difficolta` riflettono e sono il risultato non solo di avvenimenti attuali, ma di tutta la storia del paziente. Il terapeuta e` una persona che ha scelto questo lavoro, come vedremo, spesso per motivi sintomatici, ma che deve essere in grado di capire e recepire non solo il discorso manifesto, ma anche quello latente del ` evipaziente per sapergli dare delle risposte. E dente che questo incontro crea una serie di dinamiche che possono facilitare, ostacolare o impedire il lavoro. Il rapporto e` mediato principalmente dalla comunicazione verbale, ma bisogna tener presente anche tutta la ricchezza di informazione della comunicazione non verbale, come bisogna tener conto che il colloquio non e` a senso unico, nel senso che anche il paziente puo` recepire tutta una serie di informazioni dalla comunicazione verbale e non verbale del terapeuta: tono della voce, sguardo, movimenti vari che possono esprimere cose fondamentali, come ad esempio l’interesse o il fastidio da parte del terapeuta. Ma il fatto fondamentale rimane lo scopo di questo incontro: apparentemente possono essere

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tanti, ma in effetti lo scopo deve essere uno solo, cioe` quello di dare una risposta ed una indicazione al paziente. Risposta che si puo` esaurire nell’arco di pochi colloqui o puo` continuare per un tempo non definito. Nel primo caso la risposta sara` una indicazione, una proposta; nel secondo si instaurera` una relazione psicoterapeutica. Ma prima di entrare nello specifico, devo discutere brevemente alcune nozioni attinenti alla comunicazione che viene comunemente divisa in verbale e non-verbale.

1.1. La comunicazione: problemi teorici I problemi connessi alla comunicazione sono centrali in Psichiatria: non pochi autori ritengono che in fondo la causa della psicopatologia umana sia dovuta ad una serie di comunicazioni ‘‘distorte’’. Ma prima di affrontare, anche se brevemente, il problema della comunicazione, dobbiamo proporre alcuni concetti di base. Per comunicazione intendiamo tutte quelle modalita` che, intervenendo all’interno di due o piu` persone, servono a far conoscere lo stato interno dei partecipanti. J. Lyons afferma che il linguaggio puo` essere considerato come una specie di sintomo dello stato interno delle persone; egli afferma testualmente: «possiamo naturalmente postulare, se vogliamo, che ogni emozione e` determinata dallo stato interno, psicologico o fisiologico, del parlante, sicche´ due emissioni-replica sono dello stesso tipo se sono l’effetto (osservabile) dello stesso stato interno (non-osservabile)». Non ci occuperemo del problema delle comunicazioni di massa: ma solamente di quelle che avvengono all’interno di un contesto ove ci sia un rapporto di udire-guardare-parlare diretto. Possiamo subito proporre un paradigma estremamente importante: all’interno di un rapporto diretto tra due o piu` persone, queste persone non possono non comunicare. Cio` vuol dire che una persona puo` essere intenzionata a non mettersi in rapporto con l’altro, ma che comunque non puo` fare a meno di comunicare questa sua non-disponibilita`. Un paziente catatonico che rimane chiuso in se´ stesso, che gira lo sguardo

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dall’altra parte o chiude gli occhi all’avvicinarsi del medico, e` chiaro che rifiuta di entrare in rapporto, ma comunque non puo` impedirsi di comunicare questa sua dimensione interna che e` quella di evitare un rapporto. Inoltre possiamo dire che la comunicazione e` una informazione che tende a promuovere un comportamento nell’altro: quindi, nella comunicazione, l’informazione ha un significato promotivo. Essa quindi puo` servire a mettersi in rapporto con l’altro (nel senso di promuovere uno scambio, un rapporto), oppure puo` essere utilizzata per evitare il rapporto: in tutti e due i casi la comunicazione, piu` o meno esplicitamente, trasmette un significato ben preciso. Dove invece non c’e` piu` comunicazione e` lı` quando il linguaggio non media piu` niente scadendo nella banalita` piu` assoluta; quando la comunicazione non promuove e non richiede alcuna cosa, facendo finta di informare. Per comprendere il vero significato della comunicazione non si puo` prescindere dal contesto: perche´ il contesto puo` cambiare, molto o completamente, il significato. Ad esempio consideriamo la richiesta di aiuto di un paziente allo psichiatra, in una situazione di un ricovero o di una libera consultazione allo studio del medico: la stessa comunicazione, piu` o meno uguale sul piano formale (cioe` informativo), potrebbe avere un significato promotivo completamente diverso. Nel primo caso la richiesta potrebbe essere indicativa semplicemente del desiderio di essere dimesso, nel secondo invece di un desiderio di essere aiutato a liberarsi dai propri problemi. Pertanto nel considerare il significato della comunicazione bisogna sempre tener conto del contesto all’interno del quale essa avviene; e pertanto isolare una comunicazione dal contesto puo` significare falsarla completamente. La comunicazione avviene tra due persone (che chiameremo rispettivamente l’emittente ed il ricevente) attraverso un medium o canale di comunicazione, per mezzo di segni che possono essere verbali o non-verbali e che possono essere intenzionali o meno. Certamente uno dei media piu` importanti della comunicazione e` il linguaggio; ma non solo questo; c’e` tutta una enorme massa di segni che il ricevente e l’emittente possono inviarsi vicendevolmente attraverso il com-

portamento, la mimica, attraverso tutto quello che vien definito linguaggio non-verbale. Pertanto dobbiamo distinguere due modalita` fondamentali di comunicazioni: 1) 2)

la comunicazione verbale la comunicazione non-verbale.

Per comunicazione verbale intendiamo quella modalita`, che per molti autori e` specifica dell’uomo, di poter inviare messaggi attraverso segnali fonici codificati, che formano il linguaggio. Esso e` composto di unita` semplici (fonemi) e complesse (morfemi) che si integrano a costituire un senso, attraverso specifiche regole grammaticali e sintattiche. In questo senso, il linguaggio, pur partendo da elementi di base definiti, limitati, ha possibilita` creative praticamente illimitate. Accanto pero` alla parte strettamente verbale, bisogna prendere in considerazione (ai fini di una corretta comprensione del messaggio) anche l’aspetto prosodico e paralinguistico. Pur non essendoci concordanza di vedute, questi due parametri vengono definiti nel seguente modo. L’aspetto prosodico riguarda soprattutto l’intonazione, l’ac` evidente che una stessa cento, la spaziatura. E frase puo` avere un significato diverso se detta con tono interrogativo, affermativo o ironico: cioe` ad una struttura linguistica grammaticalmente e sintatticamente uguale, puo` corrispondere un significato a volte diametralmente opposto. Per esempio la frase ‘‘sei bravo’’, puo` essere detta in tono affermativo, oppure interrogativo, oppure in tono ironico che significa esattamente l’opposto della proposizione affermativa. Inoltre la separazione tra le parole e le frasi, che corrisponde a quello che nel linguaggio scritto e` la punteggiatura, puo` cambiare notevolmente il significato. Riportiamo l’esempio (da N. Chomsky) della seguente frase ‘‘Una vecchia porta la sbarra’’1; secondo l’accentuazione puo` corrispondere a due frasi diverse, che nel linguaggio scritto potrebbero essere trascritte nel modo seguente. ‘‘Una vecchia, porta la sbarra’’ oppure ‘‘Una vecchia porta, la sbarra’’.

1 N. Chomsky, La grammatica trasformazionale, Boringhieri, Torino, 1975.

Il colloquio psichiatrico

Nel primo caso, significherebbe che una vecchia trasporta una sbarra, nel secondo che una porta (sostantivo), malandata, sbarra qualcosa. Mi rendo conto che simili esempi sono sempre banali ed utilizzabili solo per rendersi conto dell’importanza della spaziatura o punteggiatura nella comunicazione verbale. Oltre che dei tratti prosodici bisogna anche tener conto di quelli paralinguistici: essi vengono definiti secondo alcuni autori come tutti quei gesti (espressioni facciali, movimenti oculari ecc.) che ‘‘svolgono una funzione di sostegno, nella comunicazione normale, del linguaggio parlato’’. Per comunicazione non-verbale intendiamo invece tutti quei comportamenti, gesti, mimica che pur esprimendo, piu` o meno chiaramente, delle situazioni interne dell’altro, non abbiano alcun collegamento con il linguaggio, anzi spesso sono in contrasto con quanto viene espresso in modo verbale. Ad esempio, una persona che afferma di trovarsi a suo agio e sbadiglia continuamente, o guarda di soppiatto l’orologio, e` evidente che nega attraverso un comportamento (o comunicazione non-verbale), quanto asserisce verbalmente. Questa possibilita` di mandare due messaggi diversi e` un fatto estremamente importante: non solo per comprendere ‘‘la realta` interna’’ dell’altro, ma anche come spiegazione di molti (o di tutti, secondo alcuni autori) disturbi psicopatologici. Bisogna tener presente che questa possibilita` di un messaggio contraddittorio puo` avvenire attraverso tre modalita`. La prima e` quella di comunicare un proprio bisogno come bisogno dell’altro: e` il caso tipico della madre che, stanca del figlio e desiderosa di starsene da sola, invita il figlio ad andare a dormire con una frase di questo tipo: ‘‘vai a dormire perche´ hai sonno’’. Queste comunicazioni, ripetute a lungo ed in particolari situazioni, certamente tendono a far confondere in colui che le riceve la propria dimensione interna con quella degli altri o forse, detto piu` chiaramente, riesce a confondere quelli che sono i propri bisogni con quelli che sono i bisogni delle persone che lo circondano. La seconda e` il particolare tipo di intonazione (cioe` gli aspetti prosodici e paralinguistici) che possono dare ad una comunicazione un senso

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completamente diverso da quello apparentemente espresso sul piano verbale. Ad esempio una frase affettuosa, espressa con intonazione ` dura o con un’espressione mimica di rabbia. E ampiamente dimostrato che le persone sono estremamente piu` sensibili ai messaggi inviati con la mimica o con il tono di voce anziche´ al puro significato esplicito verbale. Soprattutto i bambini sono estremamente sensibili a captare questo doppio messaggio, solo che si trovano nella situazione difficilissima di non poter esplicitare e quindi di non poter rispondere correttamente a questo doppio messaggio. La terza e` invece costituita dalla comunicazione non-verbale: comportamenti e gesti che servono a manifestare emozioni, in genere spiacevoli e represse per vari motivi, (sia culturali, sia legate a quella particolare situazione). Emozioni che sono in netto contrasto con quello che uno comunica verbalmente. In questi casi, in genere, il soggetto e` consapevole della propria ambivalenza, ma non riesce a verbalizzarla, e quindi puo` servirsi solo della comunicazione non-verbale per esternare il suo ‘‘fastidio’’. Ad esempio un paziente che verbalmente si dimostri contento e soddisfatto dell’essere venuto dallo psichiatra, ma che lasciando la porta aperta o socchiusa comunica quanto poco sia soddisfatto di questa situazione. Quindi, da quanto abbiamo detto, il linguaggio verbale (funzione tipicamente umana) puo` avere sia lo scopo di comunicare, ma anche quello di celare; le parole possono servire per aprirsi, ma anche per nascondersi. Bisogna tener conto di tutto questo per riuscire a comprendere quale e` il reale stato interno dell’altro. Ma evidentemente, quanto abbiamo detto fino ad ora e` parziale, nel senso che tiene conto solo dell’emittente o per lo meno di quello che noi consideriamo l’emittente, cioe` il paziente. In effetti non esiste comunicazione che non avvenga all’interno almeno di un emittente e di un ricevente; in questo caso il ricevente e` lo psichiatra. Il che vuol dire che il segnale, il messaggio, la comunicazione, insomma qualsiasi dato comunicato dall’emittente assume un significato ben preciso solo nel momento che viene percepito dall’altro, anche perche´ solo in questo momento il segnale diventa una comunicazione. Per

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

comprendere quali sono i motivi che possono modificare o distorcere la comprensione della comunicazione del paziente, possiamo solo accennare alla necessita` che lo psichiatra abbia superato, attraverso un suo lavoro di analisi, tutte quelle componenti pulsionali che possono provocare appunto una distorsione dell’altro. Ma la comunicazione puo` avere vari significati: quindi all’interno di questa diade (emittente-ricevente) dobbiamo prendere in considerazione il problema della comunicazione (sia verbale che nonverbale) rispetto a quello che puo` essere il fine della comunicazione stessa. Bisogna introdurre a questo punto il concetto di intenzionalita` per comprendere meglio il discorso: secondo la radice etimologica, intenzione significa tendere verso qualcosa; nel caso della comunicazione, significa tendere verso l’altro. Accanto alla comunicazione intenzionale dobbiamo proporre anche un altro tipo di comunicazione, quella non-intenzionale: anzi, se volessimo essere corretti, dovremmo parlare piu` che di comunicazione, di informazione. Cosa vuol dire? Che nel primo caso l’emittente si serve di una serie di segnali (verbali e non-verbali) per comunicare all’altro delle emozioni, dei bisogni o semplicemente per dare o ricevere ulteriori dati. Nel secondo caso l’emittente non tende a questo scopo, pero` non puo` impedire che l’altro (attraverso le parole, i comportamenti ecc. dell’emittente) riesca a trarre delle informazioni sullo stato dell’emittente stesso. Possiamo dire che nel primo caso il messaggio (o il segnale) e` inviato allo scopo di; nel secondo il messaggio o segnale e` inviato in modo che l’altro possa trarne delle indicazioni. Per esempio una persona che va dal medico e piangendo espone la sua storia, comunica un messaggio allo scopo di essere aiutato. Un paziente che invece, visitato dal medico, barcollando e farfugliando dice di sentirsi bene, comunica (suo malgrado) la sua situazione di ebbrezza alcolica: in questo caso il segnalecomportamento (barcollamento, farfugliamento ecc.) non e` inviato allo scopo di, ma fa in modo che possa essere recepito da un ricevente, che, riuscendo a darne un significato, trasforma quel segnale in sintomo.

Potremmo dire che tutta la medicina somatica e` piena di questi esempi: e potremmo anche aggiungere che il sintomo puo` essere definito come un segnale che, inviato ad insaputa del portatore (paziente), puo` essere decodificato solo dal medico. Per esempio le macchie di Koplick sono dei segnali non prodotti certamente per comunicare che il portatore e` affetto da morbillo. Il portatore in genere ignora l’esistenza di questo segnale, segnale che recepito invece dal medico gli da` la possibilita` di poter formulare la diagnosi. In questo senso potremmo dire che anche molti sintomi psichiatrici potrebbero avere la stessa origine: cioe` segnali che il paziente non invia tanto allo scopo di, ma piuttosto come dati che per lo psichiatra possono avere un significato estremamente preciso. Ma il paragone con la medicina somatica termina qui. Infatti, mentre il sintomo somatico deve essere utilizzato per proporre una diagnosi e per rendere edotto il paziente del significato di quel sintomo, in Psichiatria il discorso e` diverso. Il sintomo psichiatrico e` invece una dimensione, una dinamica che in qualche modo si e` scissa dalla personalita`, intesa in senso globale, diventando ad essa estraneo. Pertanto il sintomo psichiatrico non puo` essere utilizzato solo ai fini di una diagnosi, ma piuttosto come possibilita` per lo psichiatra di trasformarlo in una dimensione intenzionale ed esplicita in modo da far riappropriare il paziente di una sua parte che gli era diventata estranea.

2. Il colloquio clinico direttivo Esso si avvicina di piu` al modello medico. La base teorica si fonda sulla proposizione che esiste una realta` oggettiva e abbastanza stabile del paziente che si esprime attraverso una serie di sintomi, e sul presupposto che quanto riferisce il paziente corrisponde a questo tipo di realta`. Pertanto il compito e l’abilita` del terapeuta consistono, da una parte, nell’osservare il maggior numero di sintomi significativi e, dall’altra, nell’inquadrarli in uno schema sindromico. Quindi l’oggettivita` dei sintomi rimane il cardine di questa modalita` di approccio: il sintomo e` l’epifenomeno di un disturbo organico che, sep-

Il colloquio psichiatrico

pur poco o affatto visibile, esiste da qualche parte. Viene quindi negata ogni possibilita` che il sintomo possa avere un valore comunicativo o promotivo. In questa dimensione, anche le comunicazioni piu` soggettive e assolutamente non appartenenti alla realta`, come i deliri e le allucinazioni, diventano dati oggettivi e reali, perche´ epifenomeni di quella realta` sottostante che e` la malattia mentale del paziente. Cosı` il delirio, che e` tale perche´ deformazione o trasformazione della realta` e quindi come tale dovrebbe assumere il carattere della fantasia e dell’immaginazione, viene invece ritenuto come un dato di realta`, cioe` la realta` patologica del paziente. Inutile dire che le modalita` di questo colloquio possono variare: da colloqui di pochi minuti ove l’‘‘occhio clinico’’ dello psichiatra puo` fare una diagnosi e prescrivere una terapia, a colloqui molto piu` articolati e sofisticati fino ad elaboratissime cartelle cliniche ove sembra che si riesca a sapere tutta ‘‘la realta`’’ del paziente. In effetti, i vari artifici tecnici che vengono usati, o per ricerche o a volte per sensi di colpa da parte dello psichiatra, non riescono a modificare minimamente la rigidita` strutturale di tale colloquio. Esso e` caratterizzato da un momento fluttuante iniziale, tendente all’osservazione e alla raccolta dei dati anamnestici che servono per proporre una ipotesi diagnostica; ma una volta proposta la diagnosi, tutta l’attenzione viene centrata sulla scoperta di altri segni che convalidano questa ipotesi (e` il momento diagnostico propriamente detto) e poi alla esclusione di altri sintomi apparentemente simili (momento della diagnosi differenziale). La proposizione di una terapia che debba attenuare o eliminare tali sintomi struttura i colloqui successivi, che sono centrati sulla ricerca di quei segni che dovrebbero indicare la via della cosiddetta guarigione. In questa prospettiva, cioe` della verifica di una scomparsa dei sintomi, i colloqui successivi, a meno di imprevisti, sono estremamente ridotti. In effetti, se ci si trova di fronte ad un paziente che sembra essere depresso, nella modalita` di rapporto sopradescritta, il terapeuta cerchera` di ‘‘obiettivare i vari sintomi’’. Pertanto chiedera` se ha insonnia e di che tipo, se e` dimagrito, se ha disturbi somatici, poi si accertera` del tono dell’umore, vedra` se ci sono

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alterazioni ideative (per es., un delirio di colpa), poi si accertera` se ha avuto precedenti familiari o personali, se ha idee di suicidio; ma dal momento che inizia a strutturarsi l’idea che si tratti di una depressione endogena e contemporaneamente viene formulata una terapia farmacologica, praticamente il colloquio e` chiuso. Certamente si potra` chiedere come vanno le cose in famiglia, della sua infanzia, del suo lavoro, ecc.: tutto questo e` un contorno che puo` essere utile per un miglior rapporto con il paziente, ma che nulla toglie o aggiunge a questo tipo di approccio. ` vero che le situazioni possono essere varie E e diverse, ma la diversita` e` illusoria. Se e` vero, come e` vero, che si trova quello che si cerca, e se si cerca in base alla teorizzazione che la malattia psichica e` di origine organica, che questa ha dei sintomi, che il paziente esprime dei fatti obiettivi, che l’unica aspettativa del paziente e` la guarigione, che il medico e` un tecnico che ascolta ed indaga la ‘‘obiettivita`’’ del paziente, allora non c’e` che una sola strada e ben precisa: esclusivamente l’esame psichico, che diventa l’anatomia patologica del paziente.

2.1. Utilita` del colloquio clinico-direttivo Il colloquio clinico-direttivo, che e` la trasposizione in Psichiatria del modello medico, come abbiamo visto e` limitato e limitante nella maggior parte della psicopatologia. Ma ci sono alcuni casi ove invece esso non solo e` necessario, ma puo` essere l’unico possibile. Come regola generale possiamo dire che la sua utilizzazione e` direttamente proporzionale alla gravita` della sintomatologia ed alla compromissione delle funzioni psichiche e di relazione. In questi casi ci dobbiamo fermare allo stadio di chiederci cosa ha il paziente. Sono anche i casi ove si sospetta una compromissione delle funzioni psichiche, spesso su base organica, come disturbi delle percezioni, della memoria, dell’intelligenza, dello stato di coscienza. In alcuni casi il colloquio termina con la proposizione diagnostica e prognostica (vedi caso clinico n. 1); altre volte invece l’esame delle funzioni psichiche, sia esso positivo o negativo, puo` proseguire ed essere integrato in

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una visione piu` ampia, ma trapassiamo gia` in una modalita` di colloquio psicodinamico. Come ho piu` volte sottolineato (vedi a proposito del rapporto medico-paziente), queste modalita` non sono mai rigide, nel senso che puo` essere possibile trapassare da un modello ad un altro. Il colloquio, cioe` la ricerca in Psichiatria, e` in genere circolare: ovverosia si puo` e si deve ritornare non solo su notizie gia` ascoltate, ma si puo` e si deve trapassare a volte da un modello ricettivo ad un modello direttivo. Per una migliore comprensione del colloquio clinico-direttivo, propongo un caso clinico.

2.1.1. Il caso clinico (1)

Si tratta di un uomo di 35 anni di media cultura: l’appuntamento e` stato fissato dalla moglie. Il paziente (P.) si presenta in abbigliamento piuttosto trasandato e presenta una mimica inespressiva ed attonita. Entrando si guarda intorno, non sa come muoversi: viene invitato a sedersi. Il paziente si siede, ha le mani sulle ginocchia e rimane immobile: guarda verso la moglie, che e` rimasta per esplicita richiesta del paziente. Dopo alcuni minuti di attesa durante i quali il paziente, rimanendo immobile, non mostra alcun segno di ansia o di imbarazzo, il terapeuta (T.) interviene: T.: Allora come si sente? P.: Bene... e lei? (il tutto viene detto senza alcuna variazione mimica. Dopo un po’ accenna ad un sorriso). T.: Vorrei sapere quale e` il motivo per cui e` venuto, e se e` venuto volontariamente. P.: Beh... no... e` stata mia moglie; ma anche io non ho niente in contrario. Possiamo fare due chiacchiere... (Durante queste battute il paziente rimane amimico, anche il tono della voce e` piatto, monotono)... Io sono laureato ed allora... Senti (rivolto alla moglie)... puoi parlare anche tu. (Alcuni attimi di silenzio). T.: Lei e` venuto dallo psichiatra perche´ si sente che c’e` qualcosa che non va? Si sente agitato... confuso? P.: No... Macche´! Io sono laureato ed allora volevo prendere un’altra laurea. Ma sa il lavoro...

gli studi... non era una cosa facile. Scusa (rivolto alla moglie) ma perche´ non parli anche tu? T.: Io preferisco che sia lei a parlarmi, soprattutto dal momento che ha deciso di farsi visitare. P.: Certamente io posso parlare. Ma non mi sento male... forse un po’ di stanchezza. Io volevo laurearmi anche in legge. (Si noti la monotonia e la poverta` delle risposte). ` molto importante per lei prendere queT.: E sta nuova laurea? P.: Beh!... certamente io ho gia` un lavoro, quindi non e` necessario. Ma io volevo cambiare, volevo fare un altro mestiere, fare una cosa piu` piacevole. T.: Che lavoro fa attualmente? P.: Lavoro in un Ministero... Ma e` un poco che non lavoro. T.: Come mai questa idea di prendere una nuova laurea, cosı` per caso, per qualche difficolta` sul lavoro? P.: No... io pensavo che potevo fare anche un’altra cosa. Poi sono successe tante cose! T.: Cosa... il matrimonio? P.: Sı`, il matrimonio... T.: Da quanto tempo e` sposato? P.: Beh... da un poco... non e` molto... da qualche tempo... Ma non ha molta importanza. Io penso che ho studiato troppo e mi sono stancato... (A questo punto emergono due fatti importanti: da una parte la difficolta` di situare nel tempo un avvenimento significativo quale puo` essere il matrimonio, e dall’altra una tendenza alla iterativita` del discorso che rimane come ‘‘legato’’ a questo problema della laurea. Questi due comportamenti potrebbero essere legati ad una grave inibizione emotiva di tipo psicogeno: ad esempio la ripetitivita` del tema laurea potrebbe avere un significato. Ma a questo punto sorge il dubbio che ci si trovi di fronte ad un deficit ` opportuno prestazionale di natura organica. E pertanto rendere sempre piu` direttivo e clinico il colloquio per chiarire questo quesito). T.: Quindi lei si sente affaticato, stanco. Ora vorrei sapere se questo comporta anche una diminuzione della memoria. Per esempio, le sembra di ricordare meno di prima? P.: (con un sorriso stereotipato). Beh!... certo qualche volta si dimentica... per esempio io stu-

Il colloquio psichiatrico

diavo un esame e a volte il giorno dopo mi dimenticavo. T.: Questo puo` essere comprensibile; ma le e` mai successo di dimenticare qualcosa di piu` semplice. Per esempio il suo numero di telefono, oppure il nome di qualcosa o dove posteggia la macchina? P.: (sorriso stereotipato) La macchina... non ha molta importanza. Io certe volte vado a piedi. T.: Ma per esempio le e` successo di voler telefonare a casa sua e non ricordare il numero? P.: Il telefono mio, Beh!... scusa (rivolto alla moglie) Ma che tu non lo sai? Non puoi dirlo al dottore? T.: Ma per esempio lei lo ricorda in questo momento? P.: Ma e` facile... non ci vuole niente. Perche´ lei non lo ricorda il numero di telefono? Certo... (sorride in maniera sempre stereotipata, guarda la moglie, si agita sulla sedia.).... A questo punto e` abbastanza evidente che c’e` un grave deficit prestazionale che risulta dal tipico comportamento di aggirare le domande, prendere tempo, chiedere aiuto ed entrare in ansia se messo ` evidente che si di fronte a domande precise. E rende necessario un esame psichico che metta in evidenza le varie funzioni psichiche ed in particolar modo la memoria, sia di fissazione che di rievocazione, l’attenzione, l’intelligenza, le capacita` di orientamento temporo-spaziale. Infatti tutto il comportamento del paziente porta ad escludere, anche per l’assenza di qualsiasi segno di conflittualita`, una situazione di tipo psicotico e fa pensare ad un deficit di tipo organico. Segue pertanto una parte del colloquio, qui non riprodotto, che riguarda l’esame delle funzioni psichiche. Si mette in evidenza non solo un deficit marcato, ma soprattutto una pressoche´ completa assenza di coscienza del proprio disturbo. L’esame dell’orientamento temporo-spaziale, il deficit della memoria e dell’intelligenza fanno pensare ad un disturbo di tipo demenziale. L’assenza di ansia, di perplessita` e di altri sintomi specifici fanno escludere sia un grave disturbo psichico, sia l’inizio di uno stato confusionale.

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Vengono pertanto prescritti una serie di esami clinici per convalidare la diagnosi di processo demenziale in atto. Alcuni dati forniti dalla moglie confermano queste impressioni. Il paziente viene descritto come distratto, con cambiamento del carattere; comunque i dati sono poco attendibili per una tendenza della moglie a minimizzare. A questo punto il compito dello psichiatra, data la particolare sintomatologia e la irreversibilita` della stessa, sembra cessare con la diagnosi.

3. Il colloquio psicodinamico Esso sta a significare una modalita` particolare di approccio psichiatrico ed e` molto simile a quello che da vari autori e` definito anche come ‘‘colloquio non direttivo’’, ‘‘colloquio per libere associazioni’’ (H. Deutsch), ‘‘osservazione partecipe’’ (H. S. Sullivan), ecc. Possiamo subito dire che esso e` molto diverso da quello precedente, e che mentre il primo e` lo strumento di una Psichiatria nosografica-organicistica, il secondo e` lo strumento di una Psichiatria dinamica. Le capacita` del terapeuta sono quelle dell’ascolto e della partecipazione; il fine, quello di capire le aspettative e le dinamiche del paziente per dargli una risposta. Dobbiamo precisare subito che cosa si cerca in una tale prospettiva: evidentemente non la realta` dei fatti o dei sintomi, quanto piuttosto le motivazioni, i conflitti, le modalita` relazionali, in una parola la psicodinamica del paziente che si rivela non solo per quello che il paziente racconta di avvenimenti della sua storia, ma per come e per quello che propone nello specifico rapporto del colloquio. Siccome ci soffermeremo molto piu` a lungo su questa modalita`, e` necessario introdurre alcune notazioni teoriche che comunque saranno riprese ed ampliate in altri capitoli. 3.1. Problemi teorici 3.1.1. L’ipotesi psicodinamica

Fondamentalmente sostiene che il sintomo e` la risultante di un insieme di forze che agiscono all’interno della persona.

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Tali forze, spesso contrastanti, e che determinano il conflitto, sono inconsce e pertanto le motivazioni non hanno niente a che fare con le spiegazioni razionali che il paziente fornisce circa il suo comportamento. Tale situazione si e` sviluppata dalla interazione conflittuale tra il paziente e figure significative dell’infanzia e dell’adolescenza; comunque il conflitto e` interiorizzato, percio` tende a ripresentarsi, e ripetersi nella vita, nei confronti di varie figure significative. Tra queste c’e` sicuramente anche lo psichiatra e pertanto e` fondamentale, come vedremo, non solo capire cosa il paziente ci racconta circa gli avvenimenti esterni, ma, soprattutto, quanto succede nello specifico spazio dell’incontro psichiatra-paziente. 3.1.2. L’ipotesi psicogenetica

Essa si riferisce alla convinzione che le configurazioni motivazionali della persona si stabiliscono nei primi anni di vita e che tendono a rimanere abbastanza stabili: di qui la necessita` di conoscere attentamente la biografia del paziente e soprattutto capire i vissuti rispetto a certe situazioni che sono ritenute fondamentali. L’ipotesi psicogenetica postula come fatto fondamentale che la struttura psicologica della persona non e` determinata principalmente da fatti biologici o somatici, ne´ che il bambino e` una specie di tabula rasa, ma che la psiche si costituisce dalle relazioni che si stabiliscono tra il bambino e le figure significative dei primi anni. 3.1.3. Il transfert

Ogni paziente, ma possiamo dire ogni uomo, possiede oltre ad un universo di fatti, ovverosia di avvenimenti e di persone reali, anche un universo di ‘‘rappresentazione’’ che corrisponde a cio` che gli avvenimenti o persone della realta` ‘‘significano’’ per lui. Ad es., un paziente puo` parlare della figura paterna in termini di dati obiettivi: eta`, lavoro, tipo di rapporto che ha con il figlio, presenza o assenza, tipo di carattere, ecc., ma accanto a questo ha una rappresentazione del padre che si e` stratificata in base ad una serie complessa di interazioni avvenute a livello manifesto e a livello inconscio.

Pertanto il paziente puo` avere una ‘‘rappresentazione’’ del padre come figura di tiranno o di figura ambigua, o di individuo impotente ed assente. Nel rapporto con persone significative (ed un rapporto con lo psichiatra lo e`, non fosse altro che per le fantasie e le emozioni che stimola), mentre il paziente parlera` del padre, in effetti vivra` sul terapeuta le dimensioni della ‘‘rappresentazione’’ ` questa la dimensione del della figura paterna. E transfert, cioe` della ripetitivita` di emozioni e vissuti che vengono sovrapposti alla realta` concreta di quel rapporto. Quindi lo psichiatra non solo sara` investito da queste proiezioni, ma il paziente cerchera` altresı` di ‘‘manipolare’’ lo psichiatra affinche´ questi si comporti secondo le sue aspettative. Questa duplicita` di fatti e di rappresentazioni e` uno dei cardini per comprendere, ma anche per modificare ` chiaro che quanto (quindi curare), il paziente. E piu` una persona e` valida sul piano psicologico, tanto piu` riesce a tener distinti questi due mondi: questa commistione o confusione e` tanto piu` evidente quanto piu` il soggetto e` disturbato. Infatti, mentre in un colloquio normale noi ci aspettiamo di essere vissuti per quello che siamo (anche se e` molto relativo), questo e` praticamente impossibile in una situazione di disturbo psichico. Questo ci fa capire il perche´ del discorso estremamente confuso del nevrotico e soprattutto dello psicotico: spesso in questi casi il terapeuta e` investito immediatamente dalle proiezioni del paziente che puo` viverlo subito, per esempio, come personaggio onnipotente. Quanto piu` e` forte questa dimensione, tanto piu` il paziente, inoltre, tendera` a ‘‘manipolare’’ il terapeuta affinche´ questi si comporti secondo le sue aspettative. Gia` Freud aveva notato, e lo riteneva un elemento diagnostico, che quanto piu` preciso ed articolato era il discorso, tanto piu` era probabile trattarsi di un paziente organico; quanto piu` invece era confuso e disorganizzato rispetto ai tempi, agli avvenimenti, e alle persone, tanto piu` si trattava di un paziente nevrotico.

3.1.4. Dimensione manipolativa ed interpretativa

Dobbiamo brevemente soffermarci su queste due modalita` che segnano una differenza netta anche sul piano della dimensione psichiatrica. La

Il colloquio psichiatrico

dimensione manipolativa consiste nel costringere l’altro a sottomettersi o comunque a reagire secondo le proprie posizioni. La dimensione interpretativa e` invece quella di comprendere le aspettative dell’altro e spiegarle, il che comporta implicitamente la non-manipolazione. Come osserva giustamente G. Lai, nella dimensione manipolativa il medico si chiede, nei confronti del paziente, ‘‘cosa e` lui per me’’; nella dimensione interpretativa, invece, ‘‘cosa sono io per lui’’. La dimensione manipolativa del terapeuta si puo` manifestare in varie modalita`, ma comunque e` sempre pericolosa e riduttiva; la dimensione interpretativa e` quella corrispondente alla posizione del colloquio psicodinamico. Bisogna pero` tener presente che il paziente ha sempre una posizione manipolativa nei confronti del medico ed e` proprio la dimensione interpretativa che riesce a modificare questo suo atteggiamento. Per rendersi conto di alcuni degli elementi citati, daro` il resoconto di un colloquio. Si possono notare le notevoli sovrapposizioni, gli spostamenti temporali, le proiezioni che rendono molto confuso e frammentario il discorso della paziente e la necessita` da parte del terapeuta di cogliere e sottolineare gli elementi significativi. Le mie osservazioni sono riportate fra parentesi (P. = Paziente; T. = Terapeuta).

3.1.5. Il caso clinico (2)

Una signora di circa 52 anni viene accompagnata dalla figlia, per una visita. T.: Lei ha fatto telefonare da sua figlia per un ` preoccupata di non appuntamento. Come mai? E riuscire ad esprimersi, oppure non viene spontaneamente? Comunque, penso sia meglio che sua figlia attenda e cerchiamo di parlare noi due: se avra` bisogno di sua figlia potremo chiamarla in qualsiasi momento. (Il terapeuta afferma di riconoscere le difficolta` della paziente, ma ritiene che puo` farcela ad esprimersi da sola). P.: Certo, meglio cosı`... sono molto affezionata a lei. Ma vorrei isolarmi... andare in un monastero. Dottore, mi sento che barcollo... non

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so che faccio. I sintomi cosı` brutti... non penso che a farla finita. Mi pesa tutto... la casa non la posso vedere.... non riesco a dormire tutta la notte e la mattina... gli occhi gonfi, anche perche´ piango sempre e non capisco niente. Poi non ho piu` voglia di mangiare... non voglio piu` niente... Tutto mi pesa... anche la vita. Vede, i vestiti mi vanno larghi... mi sono dimagrita tanto... Perche´ bisogna vivere? Non ho piu` nessuna speranza. (La paziente porta tutta una serie di sintomi che fanno pensare ad una depressione: l’insonnia, il dimagrimento, il pianto, la mancanza di futuro. Spesso ripete il tema di voler farla finita. Si potrebbe costruire il colloquio sui sintomi, ma sarebbe inutile. A questo punto, diventa opportuno interrogare la paziente che altrimenti andrebbe avanti in una arida elencazione di sintomi). T.: Perche´ vuole farla finita? (Il terapeuta accetta ed esplicita il tema del desiderio di morire della paziente). P.: Quando non si e` piu` idonea a niente, non si e` piu` buona a niente... Avevo una salute di ferro, ma mi sento stanca... stanca... stanca.... T.: Cosa pensa di questi suoi disturbi? P.: Non lo so... Ho una confusione... gli orecchi fischiano... una confusione dentro... non glielo so dire... ma come una ribellione dentro. (La paziente introduce un tema di ribellione che sembrerebbe abbastanza estraneo rispetto a tutta la stanchezza e l’abulia lamentate). T.: Perche´ sente questa ribellione? E verso cosa o chi? P.: Ho sbagliato tutto nella vita... tutto... tutto... Gliel’ho detto, non ho un uomo giusto, che speravo, non ho avuto niente dalla vita, solo dispiaceri. (La paziente dice di aver parlato gia` del marito, il che non e` vero, in effetti per lei e` talmente evidente la causa dei suoi mali, che in fondo pensa che gli altri ne siano a conoscenza). T.: Ma si ribella a che cosa? P.: Una ribellione contro di lui. Non sono mai capita. I miei sentimenti non li ha capiti mai nessuno. I miei sentimenti sono stati sempre calpestati. Non ho mai ricevuto tutto quello che ho dato. T.: Mi sembra che questa ribellione riguarda qualche persona molto precisa.

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P.: Certo, riguarda mio marito... Durante la guerra mi morı` un fratello in un incidente ed io ebbi un forte shock. (La paziente spontaneamente introduce un elemento importante della sua biografia; come per una libera associazione identificando in qualche modo il marito ed il fratello). T.: Uno shock? Cioe`? P.: Una forte malinconia e tristezza. Avevo pianto continuo. T.: Cosı` come adesso? P.: Abbastanza simile. Ma allora ero piu` giovane. Adesso non ti aiuta nessuno. T.: Mi puo` parlare di suo fratello? P.: Morı` in un incidente d’auto ed io ebbi un forte shock. Mi e` durato un anno. Poi ebbi una figlia e cominciai a dimenticare. T.: Era molto legata a questo fratello? P.: Si, molto, e poco dopo morı` anche mio padre. Ero molto legata a lui. (Come si vede, la paziente opera un’altra identificazione tra il fratello ed il padre, tanto che e` difficile capire a questo punto se si riferisce all’uno o all’altro)... Eravamo amici. Lui si confidava piu` con me che con mia madre. Adesso sono una nullita`. (La perdita del padre e soprattutto della stima del padre fanno sentire la paziente come una nullita`). T.: Non le sembra che anche adesso lei stia vivendo una situazione di lutto? P.: Sı`, e` vero, ho un lutto dentro. C’e` tanto sole fuori e tanto buio dentro l’animo mio. Non ho piu` speranza, come che io non mi guarisco piu`. Il pensiero fisso e` che passo la vita mia cosı`. Che divento scema. (La paziente rivive in pieno il lutto passato e la depressione presente; sembra quasi che non riesca a distinguerle). T.: Da quanto tempo e` iniziato questo disturbo? P.: L’anno scorso, nel mese di novembre. T.: Cosa e` successo in quel periodo? P.: Non lo ricordo. Io penso sempre che non ho avuto quello che meritavo. Ho fatto tanto ma non ricevo niente... (Evidentemente, di fronte alla possibilita` di ricordare e narrare momenti precisi, la paziente tende a divagare in una generica lamentazione.

Pertanto si interrompe la paziente per ricondurla ad un momento preciso.) T.: Certo, ma queste sono cose che, come lei ha detto prima, succedono da sempre. Cosa e` successo di diverso invece nel novembre scorso? P.: Mia figlia non andava d’accordo con il padre. In quel periodo aveva deciso di andare via di casa. Adesso e` piu` tranquilla... (Questo e` come ammettere che la figlia, curata per disturbi di tipo depressivo, voleva andare via perche´ non stava perfettamente bene sul piano psicologico). Ha visto me cosı` e non vuole piu` andare via (e` abbastanza evidente che la paziente manipola i suoi sintomi per trattenere la figlia a casa). T.: Quindi lei ha temuto che sua figlia andasse via e questo fatto lo ha vissuto come un lutto, come una perdita definitiva di sua figlia. P.: Sı`, temevo che le succedesse qualcosa, che potesse incontrare qualcuno che le poteva fare del male. (La paziente comincia di nuovo ad uscire dalla tematica: vuole dimostrare che lei voleva la figlia a casa per timori nei riguardi della figlia). T.: A me sembra che lei temesse semplicemente di rimanere da sola. E questo la terrorizzava perche´ oltre tutto la faceva sentire male. In fondo, sua figlia ha avuto spesso bisogno di lei.... suo marito invece e` autonomo. (Il terapeuta propone molto chiaramente una dinamica della paziente: il timore di restare da sola e di sentirsi inutile). P.: Certo, anche questo, ma adesso e` piu` tranquilla e mi ha detto che mi aiutera`. T.: Lei pensava di restare da sola con suo marito, se sua figlia andava via? P.: Certo, pensavo che quest’uomo c’e` o non c’e`, e` sempre la stessa cosa. Quando uno ti dice che non ti puo` aiutare, allora la vita te la devi combattere da sola... Quanto sopra rappresenta solo una parte di un primo colloquio, pero` possono trarsi alcune conclusioni. La prima, piu` saliente, e` l’intenzione del terapeuta che cerca di capire la dinamica della paziente, e pertanto si sofferma molto brevemente sui sintomi. Essi servono solo a comprendere che c’e` una situazione depressiva: questo status viene collegato e riportato a situazioni

Il colloquio psichiatrico

` il momento della localizzazione temporecenti. E rale: ovverosia il chiedersi da quanto tempo sono presenti i disturbi. Dopo la localizzazione temporale si tenta di trovare una causa (la minacciata partenza della figlia) e poi cercare, se e` possibile, di riferirsi ad altre eventuali esperienze precedenti (la morte del fratello e del padre). A questo punto si puo` proporre un’ipotesi psicodinamica. La posizione depressiva della paziente e` comparabile ad una situazione di perdita come quella vissuta dalla paziente in occasione della morte del fratello e del padre. Ma queste perdite furono rimpiazzate dalla nascita della figlia, che aveva anche il compito, per la paziente, di aumentare la stima di se´. Pertanto la paziente non ha mai superato o, per meglio dire, non ha mai vissuto ed elaborato il lutto precedente, mentre la figlia diventa un elemento estremamente importante che le evita di problematizzarsi nei confronti della perdita e della solitudine. La depressione ha quindi anche una funzione specifica: quella di colpevolizzare la figlia e tenerla legata a se´. Questo profilo psicodinamico servira` ad impostare un lavoro psicoterapico con la paziente, ma anche a prevedere le difficolta` di un tale lavoro, tenendo conto del tipo di conflitto e soprattutto delle scarse possibilita` che la paziente ha di trovare ulteriori soluzioni sostitutive, come e` successo invece con la nascita della figlia. Passiamo ad esaminare ora le modalita` del colloquio psicodinamico.

4. Le componenti del colloquio psicodinamico ` utile dividere il colloquio psicodinamico in E due parti: la prima parte riguarda ‘‘l’osservazione’’ del paziente e coincide con la comunicazione non-verbale; la seconda, definita ‘‘le operazioni’’, riguarda la comunicazione verbale e il rapporto oggettuale. 4.1. L’osservazione Il primo elemento e` certamente l’osservazione del comportamento del paziente: esso puo`

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andare da elementi estremamente semplici quale puo` essere il quadro di un eccitamento maniacale, a segni molto piu` sottili quali per esempio lo sguardo, il modo di dare la mano, il tono della voce. Il cogliere questi elementi, ma soprattutto il dar loro un significato, dipende molto dal tipo di orientamento del terapeuta; tale importanza e` stata sottolineata (anche se a volte sopravvalutata) da molti psichiatri, che da certe modalita` del comportamento deducono dei segni diagnostici rilevanti. Certo questo e` il corrispettivo, in una situazione medica, del medico che diagnostica un coma uremico gia` entrando nella stanza del paziente e sentendo il particolare odore. Ma tutto questo e` certamente troppo poco, anche perche´ bisogna tener presente soprattutto le variazioni del comportamento del paziente durante il colloquio, principalmente e soprattutto in riferimento o a particolari temi o al modo di atteggiarsi del terapeuta. Gli elementi da valutare sono: 1) 2) 3) 4) 5)

la postura; il modo di muoversi e camminare; lo sguardo, la mimica; l’atteggiamento; le modalita` gestuali e di relazione: la voce, il dare la mano, il modo di sedersi e di guardare ecc.

Gia` queste prime osservazioni possono dare un quadro della persona che ci sta di fronte. Comunque, sono da tener presenti tutti quei sintomi che esprimono uno stato emotivo (sudorazione, tachipnea, rossori improvvisi, sospiri, ecc.) che possono essere iniziali o comparire nel corso ` abbastanza evidente che ci sono del colloquio. E situazioni ove l’osservazione puo` essere tutto; ci si riferisce a casi ove la comunicazione verbale e` minima o assente. Vediamo, come esempio, l’arresto psicomotorio e la perplessita`. Nello stato stuporoso della depressione endogena, il paziente e` immobile, rilasciato, con lo sguardo segnato da estrema sofferenza, in genere fisso, assolutamente estraneo all’ambiente. In fondo, l’immobilita` e` collegata all’idea della inutilita` del tutto, anche del muoversi. Nel catatonico invece (eccetto alcuni casi rari

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

di flessibilita` cerea) l’atteggiamento e`, direi, opposto: l’immobilita` del catatonico ha un significato di difesa contro il mondo, lo sguardo e` immobile, la mimica puo` atteggiarsi anche ad un sorriso ‘‘etrusco’’: stranamente molti schizofrenici manifestano la loro profonda indifferenza e il loro senso di superiorita` rispetto al mondo con un sorriso molto particolare che ricorda quello dell’Apollo di Veio. Anche se ‘‘distaccato’’, il catatonico segue tutto cio` che gli succede intorno, perche´ lo teme. Anche la modalita` relazionale e` diversa: il depresso accetta con aria di sopportazione di essere visitato; il catatonico, invece, impercettibilmente o visibilmente si ritrae. Nella perplessita` schizofrenica, il paziente e` smarrito, si guarda intorno, parla per conto suo e risponde a monosillabi; e` angosciato ma non chiede aiuto: sente che la realta` comincia a modificarsi e, incapace di manifestare questa situazione, cerca di capire. La presenza di allucinazioni uditive si rivela attraverso un sommesso movimento delle labbra che il paziente cerca di nascondere. Negli stadi iniziali della confusione mentale, il paziente invece chiede aiuto, lo sguardo puo` essere implorante, le cose non gli sono piu` familiari e riconoscibili: perdono di significato, piu` che assumerne di nuovi. Il contatto con il medico e` piu` facile; spesso il paziente tocca gli oggetti quasi per sincerarsi della loro materialita`. Questi pochi accenni servono a sottolineare l’importanza della osservazione che, come dicevamo, in certi casi puo` essere tutto.

4.2. Le operazioni Tuttavia, l’apporto maggiore ci viene dal colloquio, ovverosia dallo scambio verbale che gia` implica un rapporto piu` evoluto. Nel colloquio bisogna pero` non solo cogliere tutto quello che il paziente dice, ma anche quello che il paziente non dice o lascia semplicemente intravedere. Qui sottolineeremo soltanto alcuni aspetti formali, dividendo questi a loro volta in comunicazione verbale e comunicazione vocale2 (H. Sullivan), che

2

La comunicazione vocale corrisponde a quanto prece-

riguarda le particolari modalita` di intonazione della voce, che a volte possono esprimere modalita` emotive ed affettive completamente diverse dal contenuto del discorso. Giustamente Sullivan fa rimarcare l’importanza di cogliere le variazioni del tono di voce come significative di fatti emotivi sottostanti. Questo spiega anche perche´, a volte, si preferisce dare al paziente la possibilita` di non stare ‘‘faccia a faccia’’ con lo psichiatra: in questo modo, se al paziente viene data la possibilita` di non essere guardato (e lo sguardo degli altri e` spesso, per molti pazienti psichiatrici, angoscioso), la stessa cosa puo` essere utilizzata dallo psichiatra per porsi in una situazione di ascolto migliore per cogliere molti aspetti comunicativi del linguaggio. Il tono della voce, — ad es., monotono o con frequenti variazioni — la scorrevolezza — ad es. se il paziente parla in maniera continua o se invece fa continue pause — i sospiri o le frasi ripetitive, ecc., sono tutti elementi che a volte possono essere determinanti per la comprensione del paziente. Bisogna rendersi conto che questa situazione e` simmetrica, nel senso che anche per il paziente e` significativa l’intonazione di voce dello psichiatra. In ogni caso, rimane fondamentale il contenuto: ovverosia, tutto cio` che viene comunicato, spontaneamente o su richiesta dal paziente e che serve, come si vedra`, a costituire il filo conduttore della biografia e delle ipotesi sulla struttura psichica del paziente. Altro strumento e` la reazione emotiva del terapeuta: evidentemente, si presuppone che egli sia in una posizione di ascolto e di partecipazione, pertanto non e` pensabile che avvenimenti o emozioni del ` paziente non gli suscitino reazioni emotive. E evidente ancora una volta che il terapeuta vedra` quello che vuole o che e` capace di cogliere, solo che in questo caso non si tratta di una abilita` intellettiva o tecnica, bensı` di una capacita` recettiva. Il riconoscimento e l’elaborazione di queste emozioni controtransferali possono essere un elemento di estrema importanza. Tale reazione emotiva non riguarda solo avvenimenti o emozioni del paziente, ma anche e a volte soprattutto le dentemente e` stato definito come aspetto prosodico e paralinguistico (pagg. 88-89).

Il colloquio psichiatrico

proiezioni che il paziente fa sul terapeuta, proiezioni che possono suscitare reazioni di rifiuto o addirittura di aggressivita`. Per questo, si rende necessaria una conoscenza di quella che viene ` importante definita ‘‘l’equazione personale’’. E pensare che non e` possibile non solo risolvere, ma neanche capire i problemi o le emozioni degli altri se non si e` coscienti e liberi da certe personali emozioni. L’utilizzazione della reazione emotiva puo` costituire uno strumento terapeutico, anzi in psicoanalisi e` l’unico vero strumento terapeutico essendo la situazione controtransferale diretta a modulare la risposta interpretativa; la non comprensione o utilizzazione di questa dimensione di risonanza emotiva puo` spesso rendere incomprensibile o distorcere la comunicazione del paziente. Passiamo a descrivere quali sono le operazioni principali che il terapeuta compie in un colloquio psichiatrico. Esse sono: a) b) c) d) e) f)

inizio; raccolta dei dati, lo schema biografico; formulazione di ipotesi; collegamenti, interpretazioni; ipotesi psicodinamica; chiusura.

4.2.1. L’inizio

` molto importante, perche´ possono cogliersi E precocemente i segni (sia a livello psichico che comportamentale) delle paure e delle aspettative del paziente. Per es., se il paziente si presenta da solo o accompagnato, come saluta il medico, il modo di sedersi, se inizia a parlare spontaneamente o se aspetta l’avvio da parte del medico. Per il terapeuta inizia il momento del riconoscimento, ma anche come egli si propone al paziente. L’apertura del colloquio puo` essere varia. In situazioni normali si puo` iniziare chiedendo quali sono i motivi della consultazione, oppure cos’e` che non va, o come mai il paziente e` arrivato da quel medico, e se viene spontaneamente o meno. In una situazione di angoscia si puo` iniziare riconoscendo una tale situazione e proponendola: ‘‘Mi rendo conto che lei puo` essere

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preoccupato nel trovarsi di fronte ad uno sconosciuto e per di piu` a causa di motivi psicologici’’. Si puo` quindi incoraggiare il paziente ad esprimersi. In situazione di estrema ansia, puo` essere necessario rendersi conto di quale puo` essere il motivo o i motivi (magari anche perche´ riferiti dai familiari) e cercare di proporsi in maniera chiara. Ad es., per molti pazienti la visita psichiatrica puo` significare implicitamente un ricovero, oppure il timore di una diagnosi ritenuta socialmente inaccettabile. In questi casi e` opportuno esplicitare e proporre questa ansia e rassicurare il paziente. Comunque, l’inizio significa in genere cominciare a sottolineare alcuni dati del paziente. Pertanto puo` essere utile chiedere delle notizie importanti, quali ad es.: l’eta`, se e` sposato, se lavora o no, se ha avuto visite precedenti ecc. Nel momento che il paziente accetta e viene chiarita la motivazione del colloquio, si puo` condurre meglio la seconda fase.

4.2.2. La raccolta dei dati

Si articola su binari molto precisi. Da un canto, la raccolta di tutta una serie di notizie riguardanti dati obiettivi e che potremmo chia` immare genericamente lo schema biografico. E possibile enumerare o descrivere tutto quello che puo` venir fuori e che puo` essere richiesto. Tuttavia riteniamo opportuno segnalare alcuni dati fondamentali: la descrizione dell’ambiente familiare, del numero dei fratelli, l’ordine di genitura, l’ambiente socioculturale possono darci una prima visione di insieme. La descrizione dei genitori ed un eventuale giudizio sulle modalita` educative; la ricerca di altre persone che hanno convissuto o convivono con il nucleo familiare. Spesso, per es., ci si accorge solo alla fine del colloquio o per caso che con il paziente convive qualche personaggio (nonni, zii, balia, ecc.), che magari possono aver avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo psicologico del paziente. La descrizione dei primi rapporti, l’apprendimento del linguaggio, e gli eventuali disturbi, le modalita` delle prime relazioni sociali (scolarita`), ci possono dare un’idea sulle modalita` dei primi rapporti.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Con la scolarita` possono comparire a volte i primi disturbi, le prime fobie. La presenza di trasferimenti, cambio di lavoro dei genitori, eventi traumatizzanti affettivi ed economici possono dare elementi importanti per capire in che modo e a ` ben che eta` sono intervenuti tali avvenimenti. E chiaro che la scomparsa di un genitore a 6 o a 15 anni ha o puo` avere significati profondamente diversi. Il periodo della preadolescenza e dell’adolescenza va accuratamente esplorato: e` durante quel periodo che compaiono sovente dei disturbi che, seppure passeggeri, indicano una perturbazione a volte anche molto seria. Bisogna ricordare che la nevrosi dell’adulto corrisponde sempre ad una nevrosi infantile. Eventuali problemi o crisi religiose, disturbi alimentari, attaccamenti particolari ad un compagno possono darci delle indicazioni di come questa persona abbia cercato di separarsi dalla famiglia. Poi, l’atteggiamento verso il proprio corpo, verso la sessualita`, verso il/i partner, il servizio militare, i rapporti affettivi, quelli di lavoro e poi il matrimonio, il rapporto con i figli, la tendenza ad interessi extralavorativi, ecc. Tutto questo, logicamente, cercando di tener presente il disturbo o i disturbi lamentati dal paziente che deve essere un punto costante di riferimento. Cosı`, man mano che il colloquio procede, il terapeuta costruisce il reticolo cronologico, ovverosia un suo schema mentale ove gli avvenimenti della vita del paziente trovano una precisa collocazione diacronica e significativa. Dall’altro canto, e contemporaneamente alla raccolta dei dati ‘‘obiettivi’’, il terapeuta deve cogliere quali sono le aspettative e le richieste latenti del paziente; cioe` interrogarsi su che cosa sta succedendo in quella situazione specifica di rapporto e chiedersi soprattutto cosa il terapeuta rappresenti per il paziente. Quindi il terapeuta deve rivolgersi sempre meno al mondo dei fatti e guardare sempre di piu` al mondo della rappresentazione del paziente. In questo senso, se e` importante sapere che una paziente ha avuto il menarca a 12 anni, e` molto piu` utile sapere come ha vissuto quella prima fondamentale trasformazione corporea. Il dato obiettivo, scollegato dalle emozioni, e` un puro dato anatomopatologico che non serve altro che a

soddisfare l’hobby collezionistico (o voyeristico?) dello psichiatra.

4.2.3. La formulazione di ipotesi

` chiaro che le varie operazioni non avvenE gono in tempi diversi: e` solo una necessita` descrittiva e didattica proporli in questo modo. Man mano che il colloquio procede, il terapeuta deve andare formulando dentro di se´ un’ipotesi che cerchi di collegare e spiegare i vari parametri: l’ipotesi deve spiegare non solo il perche´ e il come e` avvenuto quello status (intendiamo per status la struttura psicologica attuale e per la quale in genere il paziente viene a consultazione), ma anche e soprattutto cosa il paziente si aspetta. Se il terapeuta dopo un po’ di tempo non riesce a formulare nessuna ipotesi, e` opportuno e necessario che si interroghi su che cosa sta succedendo dentro di lui. Per formulare un’ipotesi e` necessario fare riferimento ad uno schema teorico di psicologia e anche di psicopatologia. Infatti, non basta solo l’ascolto dei pazienti, sia sul piano dei fatti che delle rappresentazioni, non basta aiutarsi col cogliere le proprie situazioni emozionali: e` necessario anche uno schema che riesca a far comprendere ed inquadrare quanto avviene. Non si puo` capire un’euforia, dopo una perdita di una persona cara, se non si conoscono l’ambivalenza e la negazione come specifici processi psicopatologici.

4.2.4. I collegamenti

Per evidenziare quanto il terapeuta ipotizza, puo` essere utile o necessario tentare di fare (se gia` il paziente non lo fa spontaneamente) dei collegamenti. Per collegamenti si intendono delle proposizioni che tendono a collegare in vario modo degli avvenimenti. Essi possono avvenire in vario modo, per esempio tenendo conto della cronologia, come nel caso precedente ove l’inizio della depressione e l’annuncio da parte della figlia di voler andare via di casa sono contemporanei. Altri tipici esempi sono: l’inizio della depressione con la nascita di un figlio, episodi di deper-

Il colloquio psichiatrico

sonalizzazione con l’inizio della masturbazione, l’inizio di un episodio maniacale con un qualunque avvenimento di perdita ecc. Ma a volte, per una cronologia basata su avvenimenti, bisogna tener presenti, nei collegamenti, anche le fasi specifiche dello sviluppo del paziente: la puberta`, la menopausa, ecc. Ma non sempre e` possibile ritrovare avvenimenti collegati all’insorgenza di disturbi: in questo caso bisogna tener conto del fatto che ci puo` essere anche un periodo lungo di latenza, ed anche che certi avvenimenti sono solo nella fantasia del paziente. E questo costituisce il secondo piano dei collegamenti: cioe` le emozioni e le fantasie, vissute dal paziente nella genesi di eventuali disturbi psicologici. Per es., una donna puo` entrare in depressione: si puo` collegare questo avvenimento con la consapevolezza, da parte della paziente, che il figlio sta crescendo. Crescita che viene immediatamente collegata alla separazione e quindi ad un vissuto di perdita. Questi collegamenti possono servire mentalmente al terapeuta per arricchire la comprensione sul paziente o possono essere comunicati al paziente per aiutarlo a crearsi dei punti di riferimento. Inoltre, essi possono essere comunicati come collegamenti o con delle proposizioni piu` complesse che sono gia` delle interpretazioni. Ad es., ad un paziente che lamenti l’insorgenza di un disturbo somatico quale il vomito poco dopo il matrimonio si puo` proporre o soltanto il collegamento tra il matrimonio e tale disturbo, oppure gia` una interpretazione, cioe` che il sintomo esprime il rifiuto della situazione matrimoniale.

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gettiva del paziente, ecc.. Tutti questi elementi devono completare l’elaborazione di una risposta che in qualche modo serva a dare un senso al colloquio o ai vari colloqui. C’e` una patologia cosı` grave da prescrivere un ricovero? Il paziente puo` attendere per iniziare un lavoro psicotera` opportuno proporglielo subito? Se bisopico? E gna inviarlo ad un altro collega, come comportarsi? ecc. Le risposte possono essere diverse: ma nel momento in cui una risposta si delinea nella mente dello psichiatra, il colloquio si avvia alla chiusura.

4.2.6. La chiusura

Essa puo` avvenire in modi diversi: rimane comunque un momento molto delicato del colloquio, non solo perche´ al paziente si puo` presentare una situazione nuova e impensabile (per es. un lavoro psicoterapico), ma anche perche´ molte persone hanno difficolta` a separarsi: una modalita` tipica di questa difficolta` e` costituita dal riproporre alla fine del colloquio degli elementi di scarsa importanza. Tuttavia, a volte, la difficolta` alla chiusura puo` essere dello psichiatra: ricordo che i primi tempi, quando cominciavo a svolgere un lavoro psichiatrico privatamente, avevo (e forse giustamente) molte difficolta` nel farmi pagare. Pertanto, pur avendo concluso il colloquio, mi dilungavo in spiegazioni e delucidazioni inutili e non richieste, per cercare di rimandare il momento del pagamento.

5. Il primo colloquio 4.2.5. L’ipotesi psicodinamica

A questo punto il terapeuta deve aver gia` in mente ed in maniera precisa una ipotesi psicodinamica: questa puo` servire come guida per impostare il lavoro o comunque per proporre una risposta al paziente. L’ipotesi psicodinamica deve tener conto, nel momento in cui viene proposta, di vari altri fattori. La disponibilita` del terapeuta, la possibilita` evolutiva del paziente, le eventuali difficolta` o comunque l’indice di patogenicita` dell’ambiente familiare, l’urgenza reale e quella sog-

Necessita di un discorso un po’ particolareggiato per il fatto che il primo incontro tra uno psichiatra e un paziente ha sempre delle connotazioni e soprattutto un’importanza che troppo spesso si finisce per sottovalutare. Personalmente ritengo che nel primo colloquio si puo` capire molto piu` di quanto non succeda nei colloqui successivi e soprattutto si giocano molte delle possibilita` del rapporto. Il primo colloquio ha un’importanza a volte decisiva per il paziente: in questo senso, ho par-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

lato del primo colloquio come situazione di crisi. Crisi vuol dire etimologicamente: ‘‘scegliere’’, ‘‘giudicare’’; sul piano del linguaggio comune vuol dire qualcosa che rompe o interrompe una situazione. In questo senso, la crisi nella vita dell’uomo non solo e` inevitabile, ma anche necessaria: la crescita avviene in fondo per crisi sul piano biologico (basti pensare alle crisi della nascita, della dentizione, dello svezzamento, ecc.). Il paziente che chiede un intervento psichiatrico, magari dopo mesi o anni di ansia, ripensamenti, consigli chiesti agli amici, risposte cercate sui libri, riviste, ecc. e` in fondo una persona che piu` o meno correttamente ha deciso di mettere in ‘‘crisi’’ una sua situazione, cioe` ha deciso di ‘‘scegliere’’ una modalita` diversa di affrontare i suoi problemi o sintomi. Ma il paziente che decide di mettersi in crisi e` anche un paziente confuso, disorientato, e che quindi non puo` che delegare al terapeuta il potere decisionale sulle opportunita` o scelte di un cambiamento. La risposta del terapeuta puo` essere decisiva soprattutto perche´ egli ` evidente che ha un potere enorme in certi casi. E il terapeuta puo` utilizzare questa delega per chiarire la conflittualita` e nello stesso tempo per rimettere al paziente una scelta definitiva; nell’altro caso, il terapeuta puo` gestire direttamente tale delega, vivendola come suo diritto acquisito: a questo punto, o consapevolmente o per ignoranza, il paziente non puo` che essere manipolato. Ogni qual volta il latente non viene reso manifesto, non c’e` che una possibilita`: quella della manipolazione. Possiamo, come dicevo, considerare il primo colloquio come momento di crisi: c’e` infatti una sensazione piu` o meno oscura di dover scegliere, di dover cambiare, di dover rinunciare ad un modello di comportamento perche´ non piu` adeguato. Ma il paziente non sa farlo, spesso perche´ non sa che cosa cambiare e come cambiare ed allora finisce per delegare piu` o meno interamente al terapeuta la propria capacita` di scelta e di giudizio rispetto al proprio sviluppo. Questa delega piu` o meno totale conferisce al terapeuta un potere che puo` essere gestito in vari modi. I compiti che il terapeuta deve affrontare sono pertanto due:

1)

2)

dare un senso al colloquio esplicitando la domanda non solo sul piano del contenuto manifesto, ma soprattutto evidenziando le richieste latenti del paziente; l’esplicazione e la messa in discussione del problema della delega e del potere decisionale del terapeuta.

` abbastanza evidente che se il terapeuta, E anziche´ esplicare, utilizza piu` o meno consapevolmente la delega ed occulta la domanda del paziente, non c’e` alcuna possibilita` di fare una psicoterapia. Ne´ probabilmente sara` possibile farla dopo. La proposta o l’imposizione di un modello omeostatico che comporta come conseguenza l’adattamento, togliendo ogni significato alla crisi, non sempre esplicita nel primo colloquio, toglie ogni possibilita` di sviluppo ed inchioda il paziente al suo ‘‘essere cosı`’’ o tutt’al piu` all’‘‘essere un po’ meno disturbato’’. In molti primi incontri si giocano le possibilita` evolutive del paziente. Se si pensa che spesso i pazienti arrivano ad un primo colloquio dopo anni di attesa, di ripensamenti, di dubbi, di richieste vane, si puo` ben comprendere come basti poco per convincere il paziente (cosa di cui e` gia` sufficientemente convinto) che in fondo l’uomo non cambia e che non c’e` niente da fare. Un ascolto diretto dei sintomi, una negazione della domanda latente, una prescrizione farmacologica possono servire a chiudere per sempre il discorso del paziente e rinchiuderlo nella impossibilita` di uno sviluppo o di un cambiamento. E se ad un atteggiamento di questo genere segue la prescrizione di una psicoterapia, si aggiunge alla beffa la confusione: prescrivere cioe` qualcosa che esiste da qualche parte, che non si sa bene che cosa sia, ma che sicuramente gli fara` bene (a meno che malignamente non si aggiunga che comunque quel paziente non la potra` fare perche´ costa troppo). Quindi il primo colloquio puo` essere visto davvero come un momento di crisi: situazione che decide per una possibilita` o speranza di cambiamento, oppure per una negazione di tutto questo, avviando il paziente sulla strada della rassegnazione punteggiata di rinvii, di farmaci, di persone

Il colloquio psichiatrico

sempre pronte ad ascoltare i sintomi e completamente sorde al discorso che c’e` dietro i sintomi. Ma a questo punto puo` sorgere una obiezione o una domanda: ma questa e` utopia, non tutti i pazienti sono adatti o disponibili ad una psicoterapia intesa come cambiamento e non sempre il terapeuta e` disposto o disponibile (ammesso che ne sia capace) a fare una psicoterapia. Ma in effetti il problema non e` tanto quello di fare a tutti una psicoterapia, quanto piuttosto quello di non togliere a nessuno la possibilita` di farla, sottraendo al paziente la possibilita` di esprimersi. Bisogna allora considerare quali sono le condizioni affinche´ ogni primo colloquio possa essere un colloquio aperto allo sviluppo del discorso e quindi un colloquio psicoterapeutico. Pertanto, nel momento della richiesta di aiuto c’e` una fase iniziale che e` vera continua psicoterapia della crisi, non di una crisi in particolare, ` un momento in cui ma di una crisi in generale. E l’intervento del terapeuta serve ad esplicitare la richiesta e a dare la possibilita` di scegliere, cioe` attraverso la risposta il terapeuta decide qualcosa per il paziente. Questa decisione, che e` in fondo la risposta del terapeuta alla richiesta del paziente, deve tener conto, per essere psicoterapeutica, di una serie di fattori: 1) capacita` di ascolto e di decifrazione; 2) controtransfert; 3) possibilita` evolutive del paziente.

6. Conclusioni Risulta evidente, dalla trattazione precedente, che e` stata privilegiata nettamente la modalita` dell’osservazione partecipe all’interno del rapporto psichiatrico. Tale atteggiamento comporta che il colloquio psicodinamico e` fondato sulla creazione di un rapporto interpersonale, ove la presenza ed il vissuto dell’osservatore abbiano una importanza determinante. Dall’altra, viene chiaramente privilegiato il mondo interno, il mondo della rappresentazione del paziente, tenendolo separato, soprattutto nel momento terapeutico, dalla realta`

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materiale e sociale del paziente. Il che non vuol dire sottovalutarla o negarla, ma semplicemente che non bisogna confondere questi due momenti, perche´ il compito dello psichiatra e` quello di occuparsi della realta` psichica del paziente. L’importante e` tener separati questi due aspetti per evitare una pericolosa confusione, che viene invece contrabbandata come valido eclettismo da una Psichiatria che ha sempre oscillato e continua ad oscillare tra una improbabile posizione terapeutica ed una inutile posizione assistenziale. Resta fondamentale il fatto che qualsiasi colloquio psichiatrico, ove manchi una dimensione di interesse e di affettivita`, si trasforma, quale che ne sia l’utilizzazione, in un puro interrogatorio alla fine del quale si redige non una cartella clinica, bensı` un verbale. Penso che a conclusione di questo lungo discorso possa essere utile proporre uno schema che puo` servire come punto di riferimento per un colloquio psichiatrico (vedi Tab. 1). Lo schema riflette quelle che dovrebbero essere le modalita` e le sequenze di un colloquio. Sempre tenendo presente che nel colloquio psichiatrico e` implicita una modalita` circolare: cioe` la possibilita` di tornare ad indagare su di un dato, nel momento che l’indagine ci ha permesso di meglio delineare la complessita` del paziente con il quale stiamo intrattenendo una relazione terapeutica. Alla fine di questa complessa operazione ne discende che dobbiamo essere in grado di formulare: una ipotesi psicodinamica, una prognosi ed un progetto terapeutico. a)

b)

Ipotesi psicodinamica, intesa come valutazione complessiva del paziente non solo in ordine alla sua psicopatologia ed alla possibilita` di accettazione-rifiuto del gruppo all’interno del quale egli vive, ma anche rispetto alla sua potenzialita` complessiva, in primis la possibilita` o meno di accettare un lavoro psicoterapeutico. Prognosi, intesa come valutazione della patologia del paziente, quindi della possibilita` di un intervento e di che tipo, e l’eventuale previsione dei tempi necessari in ordine ad

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c)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

una guarigione, oppure ad un miglioramento dei sintomi. Progetto terapeutico: e` l’insieme delle operazioni da proporre al paziente. Esso puo` essere unico, come la proposizione di un intervento psicoterapico, ma a volte puo` essere necessario proporlo in varie riprese. Come ad esempio un ricovero ed una terapia

farmacologica e poi successivamente un intervento psicoterapico. Oppure un intervento psicoterapico centrato sul paziente ed una relazione psicologica di sostegno per i familiari, come puo` accadere negli adolescenti. Per un approfondimento di questo problema rimando ai capitoli sulla terapia.

Tabella 1 — SCHEMA DEL COLLOQUIO PSICHIATRICO

Momenti 1) Biografia (fase del riconoscimento 1) del paziente) 2) 3) 4) 5) 6) 2) Status (studio psicopatologico)

Operazioni e ricerche

Osservazioni e riflessioni del terapeuta

Modalita` dell’incontro Motivi del colloquio Storia del disturbo Avvenimenti salienti della vita Tappe significative dello sviluppo Ambiente familiare e sociale

Storia ed individuazione del paziente

1) Motivo della crisi 2) Cronologia della crisi 3) Principali sintomi psicopatologici

Reticolo cronologico e situazione psicopatologica

3) Comportamento (comunicazione 1) Aspetto, mimica, gestualita` Modalita` di rapporto oggettuale non verbale; relazione oggettuale) 2) Reazione al colloquio 3) Atteggiamento verso il terapeuta 4) Variazioni del comportamento rispetto a passaggi significativi del colloquio 4) Esame funzioni psichiche

1) 2) 3) 4) 5) 6)

Coscienza Memoria Percezioni Ideazione Intelligenza Affettivita`

Disturbi qualitativi e quantitativi delle funzioni psichiche

5) Profilo dinamico intrapsichico

1) Rapporto tra avvenimenti biografici e crisi 2) Meccanismi di difesa utilizzati 3) Integrazione ideo-affettiva 4) Aspetti positivi della personalita` 5) Rapporto con la realta`

Valutazione della capacita` di identita`, dei meccanismi di difesa usati e del rapporto con la realta`. Questo permette di tracciare un profilo diagnostico in ordine ai seguenti disturbi: psiconevrosi, disturbi borderline, psicosi. Ma di tracciare anche il profilo delle potenzialita` positive del paziente

6) Profilo dinamico interpersonale

1) Motivi della rottura rispetto al gruppo 2) Tolleranza del paziente rispetto al gruppo e viceversa 3) Patogenicita` del gruppo 4) Presenza di persone significative e dipendenza del paziente dalle stesse

Valutazione complessiva delle dimensioni psicologiche e psicopatologiche del paziente rispetto alla realta` sociale, familiare e culturale in cui vive.

Il colloquio psichiatrico

Riferimenti bibliografici Arieti S., (a cura di), Manuale di psichiatria, Boringhieri, Torino, 1969. Frazier S. H., Carr A. C., Introduzione alla psicopatologia, Armando, Roma, 1978. Korchin S. J., Psicologia clinica moderna, Borla, Roma, 1978. Lai, G., Le parole del primo colloquio, Boringhieri, Torino, 1976.

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Lalli N., Il primo colloquio psichiatrico, La Goliardica, Roma, 1980. Lalli N. «Il primo colloquio come crisi», in La psicoterapia nelle situazioni di crisi, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1976. Lalli N., Le psiconevrosi: fenomenologia e psicodinamica, Euroma, La Goliardica, Roma, 1988. Lyons J., Introduzione alla linguistica teorica, III Vol., Laterza, Bari, 1978. Mannoni M., Il primo colloquio con lo psicoanalista, Armando, Roma, 1974. Sullivan H. S., Il colloquio psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 1976.

12 Le psiconevrosi: concetti generali Nicola Lalli Parole chiave nevrosi sperimentali; imprinting; riflesso condizionato; modello psicodinamico; angoscia; ansia; conflitto; carattere nevrotico; ambivalenza; desiderio; oggetto interno; bramosia; invidia; sintomo; istinto di morte; libido; odio; rabbia; Adulto Significativo (A.S.)

Il cammino dell’uomo si situa, nell’arco della vita, tra due estremi che sono la dipendenza e l’autonomia. In questo cammino difficile, pieno di incognite e di pericoli, l’uomo spesso ricorre ad un complesso sistema difensivo — le psiconevrosi — per difendersi dai fallimenti totali dell’esistenza quali: l’omicidio (lo psicopatico), il suicidio (il depresso) e l’autismo (ovverosia l’annullamento della realta`, quale paradigma della psicosi schizofrenica). Ma per capire meglio le psiconevrosi dobbiamo inserirle in un contesto piu` ampio. Quello delle possibilita` o dei fallimenti dell’uomo: ovverosia la normalita` o la psicosi. Ma cosa dobbiamo intendere per normalita`? Nel momento in cui un soggetto raggiunge l’autonomia attraverso relazioni oggettuali valide, espressa dalla capacita` di investire sessualmente la realta`, ma anche di separarsene, e nel momento che l’istinto libidico riesce a contenere l’istinto di

morte, indirizzandolo solo verso situazioni interne, in una capacita` creativa di cambiamento, noi possiamo parlare di normalita`. Normalita` quindi che non va intesa in senso statistico, ma funzionale, non in senso statico, ma dinamico. Normalita` quindi implica un lavoro, uno sforzo: non e` equivalente di tranquillita`, felicita`, benessere a tutti i costi. Il passaggio dalla dipendenza all’autonomia, inoltre, non e` una linea retta, ma avviene per crisi successive. Ed ogni crisi superata segnala un ulteriore passo verso lo sviluppo e l’autonomia. Le psiconevrosi rappresentano il frutto di una difficolta`, di una incapacita`, di una impossibilita` in questo cammino verso la ‘‘normalita`’’, per l’instaurarsi di una serie di meccanismi difensivi, che portano inevitabilmente alla inibizione ed al blocco delle capacita` e delle potenzialita` dell’individuo. Ma dobbiamo vedere nelle psiconevrosi anche un tentativo di lotta e di opposizione contro

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

la possibilita` di rompere il rapporto con l’altro, con se stesso e con la realta`, ovverosia contro il rischio della psicosi. Ed al di la` di ogni descrizione fenomenologica, dobbiamo vedere la psicosi come il fallimento totale di questo cammino, fallimento che si configura proprio nel ‘‘tagliare’’ (l’etimologia di omicidio e suicidio deriva dal verbo caedo che vuol dire tagliare) il rapporto con l’altro (l’omicidio), con se stesso (il suicidio) o con la realta` intera (l’autismo).

Quindi le psiconevrosi denotano certamente un fallimento nel processo creativo di sviluppo, ma denotano anche un tentativo di difesa che si attua mediante la corazza caratteriale o carattere nevrotico, che costituisce la base della inibizione, rigidita` e ripetitivita` dello psiconevrotico. Questo carattere nevrotico si struttura secondo due modalita` di base collegate rispettivamente alla dinamica della bramosia ed alla dinamica dell’invidia. * * *

Le psiconevrosi: concetti generali

1. Definizione Per comprendere le psiconevrosi possiamo cominciare a prendere in considerazione cosa osserviamo di fronte ad uno psiconevrotico. Per esempio, un ossessivo attirera` la nostra attenzione per il cerimoniale, come il lavarsi continuamente le mani, oppure il controllare piu` volte se ha chiuso la porta di casa ecc. Un fobico ci colpira` per la scrupolosa attenzione che pone nell’evitare una qualche specifica situazione o luogo: oppure per la crisi di angoscia, ben visibile e riconoscibile da chiunque, che lo attanagliera`, se per caso viene a trovarsi nella situazione o nel luogo temuto. Un isterico ci colpira` per l’indifferenza con la quale vive ed esibisce il suo sintomo di conversione, sia esso una paresi, una cecita` o una afonia. Un ansioso ci colpira` per la sua costante tensione e precipitosita` in ogni cosa. Tutto quello che possiamo osservare e rilevare, indipendentemente da ogni comunicazione verbale del paziente, costituisce la modalita` comportamentale ed e` la prima possibilita` di approccio. Il secondo approccio riguarda la comunicazione verbale, cioe` quanto il paziente, tramite le parole, esprime del suo mondo interiore, sia ideativo che affettivo. Cosı`, il fobico lamentera` la sua angoscia che insorge incoercibile, anche di fronte a situazioni banali, come, per es., trovarsi in un luogo chiuso, oppure in una piazza. L’ansioso riferira` quella sgradevole, continua sensazione di attesa per qualcosa di spiacevole che potra` succedergli da un momento all’altro. L’ossessivo lamentera` quella fastidiosa ruminazione mentale che lo spinge continuamente a pensare a cose banali, o quella strana coazione che lo costringe a ripetere decine, a volte centinaia di volte, sempre lo stesso gesto. L’ipocondriaco proporra` la sua ansia collegata alla sicurezza di avere qualche malattia, sicuramente temibile e misteriosa, tanto che nessun medico riuscira` a diagnosticarla. Cosı`, lo psiconevrotico ci propone la sua ansia, i suoi sintomi, la sua richiesta di aiuto. Proprio per la modalita` con la quale si esprime, possiamo definire questo secondo tipo di approccio quello della comunicazione verbale. Un terzo aspetto e` costituito dalla particolare

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modalita` dello psiconevrotico nel rapportarsi con gli altri: siano essi familiari, amici, sconosciuti o il medico stesso. Cosı` noteremo la tendenza seduttiva-esibizionistica dell’isterico, la tendenza al controllo dell’ossessivo; la tendenza alla vischiosita` dell’ansioso, la tendenza manipolativa dell’ipocondriaco. Questo terzo tipo di approccio e` definito modalita` di rapporto interpersonale. Questi tre parametri: il comportamento, la comunicazione verbale, la modalita` di rapporto interpersonale ci danno una prima possibilita` di definire cosa sia uno psiconevrotico. Basandoci su questi parametri, possiamo notare che lo psiconevrotico ha complessivamente una modalita` di comportamento, di espressione del suo mondo interiore e di rapporto interpersonale che e` diversa dalla media. Diversita` che non e` costituita da fenomeni incomprensibili, ma piuttosto da un’accentuazione, da una ripetitivita` e da una rigidita` di atti o modalita` di rapporto, piuttosto frequenti e comuni. Cosı`, molti possono sentire la necessita` di controllare se hanno chiuso il gas: l’ossessivo lo fara` decine di volte. Molti possono provare una sensazione di paura nel salire in ascensore, ma il fobico si rifiutera` sistematicamente di entrarci, anche a costo di dover salire decine di piani. Molti possono nutrire qualche apprensione per la loro salute, ma l’ipocondriaco concentrera` tutta la sua attenzione sulla supposta malattia e nessun esame clinico riuscira` a convincerlo del contrario. Accennando alla diversita`, dovremmo introdurre una serie di considerazioni sulla norma, sulle sue varie eccezioni, sul ruolo della cultura ecc.. Ma in questa sede ci interessa soltanto sottolineare che l’aspetto di questa diversita` e` quantitativo; e` cioe` una accentuazione di comportamenti o ideazioni frequenti e normali, accentuazione che tende pero` ad essere stabile, rigida, ripetitiva. Possiamo tentare una prima definizione, anche se sommaria, delle psiconevrosi: ‘‘Le psiconevrosi sono caratterizzate da comportamenti, vissuti emotivo-affettivi, e modalita` di rapporto interpersonale che sono quantitativamente diversi dalla media e che tendono, una volta insorti, e rimanere piuttosto stabili e rigidi’’. Questa definizione non sembra andare molto

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

piu` in la` delle altre, nel senso che poniamo l’accento maggiormente sul rapporto normalita` psiconevrosi, piuttosto che sulla differenza dalle malattie organiche o dalle psicosi. Questa descrizione, essendo solamente fenomenologica, non puo` che essere molto generica se non e` accompagnata da una spiegazione. Passiamo quindi ad affrontare il problema non solo di definire in cosa consiste, ma soprattutto perche´ si crea questa diversita`.

2. Eziologia Ritengo che la definizione sopra riportata potrebbe essere accettata, piu` o meno, da tutti gli Autori. Ma le strade divergono, e spesso notevolmente, allorche´ si passa all’interpretazione ed alla spiegazione eziologica delle psiconevrosi. Attualmente, esistono tre filoni fondamentali: quello organicistico o biologico, quello psicologico e quello sociologico e pertanto avremo rispettivamente l’ipotesi organicistica o biogenetica, quella psicogenetica e quella sociogenetica. Prima di passare ad esporle brevemente, dobbiamo subito dire che questa classificazione, come tutte le classificazioni, e` rigida (come le psiconevrosi) mentre la realta` e` molto piu` elastica. Esponendo le varie ipotesi, cerchero` di estrapolarne le caratteristiche fondamentali. 2.1. Ipotesi biogenetica Il termine biogenetico e` piu` comprensivo e vasto di quello, comunemente usato, di ipotesi organicistica; in essa, infatti, confluiscono dottrine a volte diverse, a volte chiaramente in opposizione tra di loro. Evidentemente, c’e` un dato che le accomuna ed e` precisamente l’ipotesi che l’origine delle psiconevrosi e` insita nel soma (sia a livello di organi, sia a livello di funzioni biochimiche). Questa ipotesi si lega a posizioni peraltro superate. Infatti essa, nella sua formulazione piu` antica, attribuiva l’eziologia delle psiconevrosi a disturbi di specifiche zone del SNC ed era in linea con la visione associazionistica in psicologia e con quella localizzatrice in neurologia.

Tuttavia, nonostante la pressoche´ totale assenza di prove circa l’esistenza di dati comprovanti l’eziologia organica delle psiconevrosi, l’ipotesi biogenetica non solo non e` scomparsa, ma anzi tende a ripresentarsi, anche se travestita e modificata, con una periodicita` che e` molto interessante e che richiederebbe studi ulteriori1. L’ipotesi organicistica trovo` un tentativo di unione con quella psicologica nella teoria di P. Janet che aprı` un filone importante, tuttora presente nella Psichiatria francese. Janet, la cui opera e` stata, per tanti motivi, troppo spesso sottovalutata, partiva da una critica precisa alla concezione organicistica, cioe` ad una teoria che credeva poter trovare in uno specifico organo ed addirittura in una precisa localizzazione cerebrale, la causa della psiconevrosi. Egli faceva giustamente notare che, nelle psiconevrosi, non era colpito un organo, bensı` una funzione: pertanto, il disturbo psichico e` sempre da considerarsi un disturbo di una funzione complessa ed articolata. Egli riteneva che la causa di questo disturbo funzionale fosse da ricercarsi nel soma: nasce cosı` la concezione fisiogenetica, secondo la quale il disturbo biologico induce una caduta della tensione psichica che comporta come conseguenza sia una dissociazione delle funzioni psichiche, sia un disturbo della funzione del reale, ovverosia del rapporto con la realta`. Questo disturbo si manifesta con i sintomi delle due sole psiconevrosi che Janet riconosceva: la psicoastenia e la nevrosi isterica. La concezione fisiogenetica, pur partendo da una ipotesi biologica, finisce comunque per metterla da parte, per interessarsi fondamentalmente della dinamica e del vissuto psicologico, fino ad introdurre il concetto di inconscio, anche se in una visione diversa da quella freudiana. La concezione di P. Janet e` stata ripresa ed ampliata da H. Ey con la sua teoria organodinamica, che

1

Possiamo accennare brevemente a due motivi: il primo e` di tipo economico. Questa ipotesi, in fondo, e` piu` semplicistica e tende a ridurre la complessita` delle psiconevrosi al laboratorio. Il secondo consiste in una reazione che torna fuori ogni qual volta le promesse di liberazione e di modificazione dell’uomo, sostenute dalle ipotesi psicogenetiche e sociogenetiche, sembrano non rispondere alle aspettative.

Le psiconevrosi: concetti generali

rifacendosi alle teorie di H. Jackson introduce due meccanismi fondamentali per la comprensione della psicopatologia: la dissoluzione progressiva della coscienza e la contemporanea emergenza di meccanismi regressivi. Altro filone importante che si rifa` sempre ad una base organica e` quello della degenerazione, intesa come deficit ideativo, affettivo e volitivo che si trasmette ereditariamente: concezione presente ancora oggi, soprattutto a proposito delle psicopatie. Sempre dall’ipotesi biogenetica deriva un altro filone, estremamente ampio ed articolato, che riconduce la causa della psiconevrosi esclusivamente ad alterazioni biochimiche e/o umorali. Tuttavia, il dato essenziale dell’ipotesi biogenetica e` che i sintomi della psiconevrosi sono non solo secondari al disturbo organico, ma anche casuali, e quindi piu` o meno insignificanti e senza collegamento con la storia dell’individuo. Sono prodotti senza storia, essendo essi provenienti dalla preistoria (ereditarieta`, degenerazione). L’ipotesi psicogenetica e quella sociogenetica si diversificano da quella biogenetica proprio per questo dato fondamentale: per queste ipotesi il sintomo non solo ha un significato, ma un significato che si inserisce nella storia dell’individuo.

2.2. Ipotesi psicogenetica Essa postula l’esistenza della psiche: la psiche si situa tra la mente e l’anima. Si differenzia dalla mente intesa come puro derivato e secrezione di una entita` che e` il SNC; si differenzia dall’anima essendo questa entita` primaria, incorruttibile e slegata da ogni rapporto materiale. Il concetto di psiche nasce relativamente piu` tardi rispetto a quello di mente e di anima. Per psiche si intende una attivita` globale e complessiva dell’uomo che si estrinseca mediante le funzioni psichiche e che si forma ed evolve parallelamente allo sviluppo biologico e storico dell’uomo. Essa, quindi, tende a formarsi, e a subire anche le deformazioni piu` profonde, nei primi anni di vita del bambino: il suo adeguato sviluppo permette all’uomo di potersi rapportare correttamente con se stesso e con il mondo. A parte questa base

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comune, ci sono notevoli differenziazioni tra le varie teorie circa la struttura ed il funzionamento della psiche. Senza entrare nei dettagli, possiamo dire che le ipotesi psicogenetiche presentano tre punti in comune che sono costanti nelle diverse elaborazioni: 1)

2)

3)

la psiche si struttura nei primi anni di vita come conseguenza dei rapporti interpersonali (di qui l’importanza data ai primi anni di vita); la psiche si forma attraverso una serie di elaborazioni del soggetto nel suo rapporto con il mondo materiale e sociale; essa non e` quindi una tavoletta di cera sulla quale vanno ad incidersi gli avvenimenti. Quindi il disturbo psicologico non e` conseguenza diretta di un avvenimento esterno, ma e` dovuto all’elaborazione di quel dato avvenimento (su questo punto le ipotesi psicogenetiche si distaccano da quelle sociogenetiche che invece presuppongono un rapporto causa-effetto immediato e diretto); i sintomi psicopatologici sono significativi e direttamente collegati alla struttura psichica ed alla storia di quel soggetto.

L’importanza data ai primi anni di vita ha fatto sı` che, in base ad osservazioni ed esperimenti, molti Autori, nell’ambito delle teorie psicogenetiche, si siano avvicinati alle ipotesi etologiche. La teoria piu` significativa e` quella psicodinamica che tratteremo successivamente, costituendo il filo conduttore della spiegazione delle psiconevrosi e delle psicosi.

2.3. Ipotesi sociogenetica Il criterio fondamentale dell’ipotesi sociogenetica e` che le condizioni sociali, l’habitat, la particolare collocazione sociale, possono essere determinanti nella genesi delle psiconevrosi. Secondo questa ipotesi, l’ambiente sociale e la struttura della societa` determinano la psiconevrosi in una relazione di causa-effetto abbastanza immediata, cioe` non mediata attraverso l’interiorizzazione di eventuali situazioni conflittuali. A favore

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

di questa concettualizzazione si citano le variazioni sintomatologiche avvenute nelle varie epoche storiche e la diversita` dei sintomi nelle varie culture. In effetti, la variazione delle manifestazioni isteriche nei secoli e la presenza di quadri psicopatologici specifici di alcune culture potrebbero esserne una prova. In realta`, non sono prove decisive, nel senso che si puo` sempre presupporre che il rapporto causa-effetto non sia cosı` diretto e che l’ambiente sociale possa avere non un effetto determinante, bensı` solo patoplastico. Per fare un esempio possiamo citare il pro` blema della emigrazione, sia libera che forzata. E frequente la constatazione di manifestazioni psicopatologiche, soprattutto a livello depressivo o psicosomatico, in varie situazioni di sradicamento: da banali, come il cambiamento di casa (che soprattutto nella donna puo` far comparire una depressione), a drammatiche come quelle di interi nuclei familiari che si trovano improvvisamente trasferiti in contesti culturali, sociali e linguistici completamente diversi. I fattori che intervengono sono numerosi ed e` difficile poter trarre delle conclusioni definitive: inoltre, i vari lavori sull’argomento non sempre sono comparabili per le diverse metodiche di studio e di osservazione utilizzate. Un’obiezione possibile all’interpretazione sociogenetica di questi fenomeni e` che il campione scelto avesse gia` in precedenza situazioni latenti di tipo psiconevrotico. Nonostante l’enorme mole di lavori e di ricerche risulta, pero`, che i dati raccolti sono solo parzialmente utilizzabili a causa dei diversi criteri di scelta del campione e dei diversi metodi di rilevazione e di valutazione. Tuttavia possiamo ritenere che l’ambiente ha un effetto sicuramente patoplastico sui sintomi: ci sono sindromi palesemente influenzate da fattori culturali. Per es. nel sud dell’Asia, i pazienti di origine cinese hanno reazioni ansiose collegate alla paura di perdere sperma: secondo Tau questo sintomo sarebbe collegato a particolari tabu` culturali riguardanti la masturbazione. Field, Colomb ed altri Autori hanno evidenziato che in Africa la depressione si esprime con vissuti ipocondriaci, anziche´ con senso di colpa. Ma lo stesso fenomeno e` facilmente constatabile anche da noi, presso strati poco urbanizzati ed a basso

livello culturale, ove la depressione si esprime piu` facilmente attraverso equivalenti somatici. Spesso e` facile trovare, soprattutto fra i contadini, persone che esprimono il loro vissuto depressivo (a volte molto intenso) lamentando solamente di ‘‘avere una confusione alla testa’’. Secondo noi, quindi, l’effetto patoplastico dell’ambiente culturale e` innegabile: ma non ci permette di trarre altre conclusioni, soprattutto circa un rapporto causale tra interazione societa`-individuo e sviluppo delle psiconevrosi. Questo problema e` stato affrontato ampiamente, seppure con un taglio diverso, anche dai neo-freudiani e dalla scuola culturalista americana. Loro proposizione centrale e` studiare e comprendere se le modalita` ‘‘normali’’ di una certa societa` (soprattutto quella industrializzata occidentale) non siano invece manifestazioni ‘‘nevrotiche’’. Questo concetto era gia` stato avanzato da W. Reich soprattutto nella sua opera piu` importante L’analisi del carattere, ove vengono descritti, in termini di chiara patologia, comportamenti ritenuti normali. L’ipotesi sociogenetica ha certamente ampliato gli orizzonti della comprensione delle psiconevrosi, ma ha lasciato aperti due problemi di fondo, ai quali bisognera` rispondere: se le condizioni sociali possono generare le psiconevrosi o sono da considerarsi solo concause; e se le modalita` ed i tratti ‘‘medi’’ della societa`, piu` che essere nevrotizzanti, non siano essi propriamente gia` nevrotici.

2.3.1. Le nevrosi sperimentali

Una speranza di poter trovare un modello esplicativo della psiconevrosi, sembrava essere offerto dalle nevrosi sperimentali, attraverso le quali si cercava piu` che di trovare la causa, di scoprire le modalita` di formazione dei sintomi. Pertanto, passeremo ora a descriverle, per riprendere poi il filo del nostro discorso a proposito della definizione delle psiconevrosi. Esse furono descritte per la prima volta dalla scuola di P. Pavlov; Pavlov e collaboratori, nel corso di esperimenti sui riflessi condizionati, notarono, abbastanza per caso, che alcune partico-

Le psiconevrosi: concetti generali

lari condizioni sperimentali potevano creare nei cani uno stato di eccitamento e di rabbia che li faceva sembrare come ‘‘impazziti’’. Il primo esperimento del 1912 fu compiuto dall’Erofeeva. La sperimentatrice genero` nel cane un riflesso condizionato alimentare, associando una stimolazione elettrica, piuttosto debole, al pasto. Stabilito il riflesso condizionato (cioe` la comparsa della saliva ogni qual volta l’animale veniva stimolato elettricamente), la sperimentatrice comincio` ad innalzare l’intensita` della corrente fino ad arrivare ad una soglia che, normalmente, negli altri cani, avrebbe scatenato un riflesso di difesa. Senonche´ questo cane non solo non mostrava il riflesso di difesa, ma addirittura si volgeva dal lato della stimolazione elettrica, muovendo la lingua e scodinzolando. Questo continuava ad avvenire anche a livelli di intensita` di stimolazione tali da provocare piccole ustioni. A questo punto la sperimentatrice comincio`, in maniera iterativa ma irregolare, a stimolare il cane in punti diversi del corpo e si trovo` di fronte ad un fenomeno singolare. Il riflesso condizionato ben presto scomparve, mentre ricompariva il riflesso naturale di difesa: ma questo non significava un ritorno alla situazione precedente di normalita`, perche´ il cane manifestava tali segni di irritabilita` da non poter piu` essere utilizzato per successivi esperimenti. Un altro esperimento, molto piu` interessante, fu eseguito nel 1921 dalla Se´nger-Kresto`vnikova. La sperimentatrice utilizzo` un cerchio per stabilire un riflesso condizionato al cibo ed un’ellissi come stimolo neutro, non associato al cibo. A condizionamento stabilito, la sperimentatrice comincio` a diminuire progressivamente il diametro maggiore dell’ellissi fino a renderla sempre piu` simile ad un cerchio. A partire da un certo punto, quando evidentemente la capacita` discriminativa tra cerchio ed ellissi non era piu` possibile, il cane comincio` a presentare evidenti turbe comportamentali. Questi ed altri esperimenti condussero Pavlov ad ipotizzare, nell’ambito della sua teoria, che le nevrosi fossero dovute ad uno squilibrio tra i fenomeni di eccitamento e di inibizione dell’attivita` corticale. Risultati importanti furono ottenuti successi-

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vamente dal successore di Pavlov, Bykov, e dai suoi allievi: essi riuscirono a dimostrare che le leggi del condizionamento si possono applicare anche al sistema nervoso vegetativo. Infatti in animali sottoposti a situazioni sperimentali stressanti si creavano lesioni o disturbi funzionali a carico degli organi interni. Questi esperimenti dettero inizio allo studio della cosiddetta patologia cortico-viscerale, che successivamente ha dato luogo all’approccio psicosomatico. I lavori di Pavlov e collaboratori furono ripresi ed ampliati successivamente dalla scuola inglese ed americana e portarono alla creazione del vasto campo del behaviorismo o psicologia S-R (stimolo-risposta). Certamente, i risultati ottenuti dalle varie scuole con le nevrosi sperimentali degli animali offrono il fianco a facili critiche. Da una parte, gli esperimenti, soprattutto iniziali, erano molto grossolani, dall’altra e` molto difficile poter definire ‘‘nevrotico’’ un animale, considerando il solo parametro del comportamento; infine, e` molto dubbia la possibilita` di estrapolare da situazioni di questo genere elementi rapportabili alla complessita` della realta` umana. Giustamente, Ey fa rimarcare che «il rimprovero che si puo` muovere a molti studi cosiddetti di nevrosi sperimentale e` che essi considerano come patologica l’impossibilita` (da parte degli animali) di adattarsi alle difficolta` eccezionali che costituiscono le condizioni dell’esperimento». Cosnier fa giustamente notare che: a)

b)

le situazioni conflittuali nell’uomo si creano nei primi anni di vita, mentre per gli animali si tratta sempre di animali adulti; la situazione patogena umana e` sempre relazionale e sociale, piu` che dovuta a situazioni traumatiche.

Queste ed altre considerazioni hanno indotto gli sperimentatori a rivolgersi sempre piu` a condizioni che tenessero conto degli specifici della situazione umana: in questo modo, l’interesse si e` sempre piu` rivolto verso l’etologia. Citiamo solo gli esperimenti piu` significativi ai fini di evidenziare qualche spunto interessante. I primi esperimenti furono eseguiti da Wei-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ninger, che inizio` ad indagare sui primi mesi di vita degli animali. Isolati due campioni di topi, li separo` dalle madri dopo lo svezzamento, e li nutrı` successivamente in modo standard. Di questi, un gruppo riceveva delle stimolazioni tattili da parte dello sperimentatore per dieci minuti ogni giorno, l’altro no. I topi del primo gruppo, dopo qualche settimana, non solo si mostrarono piu` attivi e svegli ma, come fu messo in evidenza dall’autopsia, presentarono minori alterazioni e soprattutto uno sviluppo maggiore rispetto a quelli dell’altro gruppo. Classiche sono poi le ricerche di Harlow sui macachi. L’autore ha dimostrato che giovani macachi tenuti in isolamento per piu` di sei mesi mostrano — rispetto ad un gruppo di controllo — disturbi comportamentali gravi ed irreversibili. Questi ed altri esperimenti hanno portato a sottolineare l’importanza delle assenze emotive e tattili (quindi di rapporto sociale) negli animali, soprattutto nei primi mesi di vita, e che tali carenze giocano un ruolo determinante nell’insorgere di turbe comportamentali gravi ed irreversibili. L’importanza dei primi periodi di vita e` stata successivamente dimostrata da K. Lorenz che ha messo in evidenza l’imprinting, cioe` il fenomeno per cui negli animali, nelle prime ore o giorni di vita, alcuni avvenimenti possono fissarsi in modo tale da rimanere modalita` comportamentali stabili per tutto il resto della vita. Lorenz lo sperimento`, possiamo dire, a sue spese: egli prese delle uova di anatra, ed al momento della schiusa porto` via la madre e si sostituı` ad essa come unico oggetto relazionale per il pulcino. Dopo un certo numero di ore di questa situazione, l’anatroccolo non riconosceva piu` la madre biologica, ma continuava a seguire lo sperimentatore e da adulto tendeva ad eseguire il rituale di accoppiamento con l’uomo. L’imprinting e la patogenicita` delle privazioni emotivo-sensoriali nei primi mesi di vita sembrano essere due dati sicuramente acquisiti dalla osservazione comportamentale degli animali. Dati che, con le dovute cautele, possono essere estrapolati alla situazione umana. Inoltre gli etologi sembrano aver superata la

vecchia antinomia congenito-acquisito. Infatti, secondo gli etologi, gli animali (uomo compreso) hanno schemi di comportamento altamente specifici, variabili secondo le varie specie, e disposti secondo un programma genetico ben preciso. La loro comparsa e` pero` possibile solo in seguito ad una serie di stimoli specifici, che sono chiamati evocatori, (simili quindi agli organizzatori dell’embriologia), stimoli che si trovano nell’ambiente: nell’uomo gli evocatori sono tipicamente fattori sociali. In questo senso, l’ontogenesi del comportamento e` strettamente legata alla presenza o meno, in particolari momenti dello sviluppo, di certi fattori organizzativi ambientali e soprattutto sociali. Queste acquisizioni sono certamente importanti e possono proporci alcune ipotesi rispetto alle psiconevrosi. Ma come dice giustamente Cosnier, «.... studiare gli animali resta senza alcun dubbio necessario, non fosse altro che per comprendere in cosa l’uomo e` animale, sottomesso alle leggi del codice genetico e delle sue vicissitudini, ed in che cosa egli e` uomo, espressione di altri codici le cui esigenze e ripercussioni non sono meno importanti dei primi». Le nevrosi sperimentali, a partire dai primi studi, piuttosto grossolani, fino agli ultimi, possono portarci qualche lume nella ricerca della genesi delle psiconevrosi? Credo di sı`, ed esattamente possono indurre alle seguenti riflessioni. Dagli esperimenti di Pavlov si ricavano due dati interessanti. Da una parte, risulta chiaro che il riflesso condizionato rappresenta, se non una modalita` di rappresentazione e di immaginazione, sicuramente una di anticipazione di un avvenimento. Il secondo dato e` che l’ansia (per meglio dire il comportamento che ci induce a pensare che l’animale sia ansioso) emerge proprio allorquando il cane non riesce piu` ad anticipare con correttezza, oppure viene messo in una situazione ` l’esperimento che potremmo definire ambigua. E della Se`nger-Kresto`vnikova, ove il cane perde la sua capacita` discriminatoria e non riesce piu` a dare una risposta corretta. Possiamo dire che questi dati sono ritrovabili nella situazione umana: soprattutto l’ambiguita` della situazione come fattore scatenante l’ansia.

Le psiconevrosi: concetti generali

Un altro risultato importante derivato dalle nevrosi sperimentali e` la scoperta di una relazione tra situazioni stressanti e disturbi relativi alla sfera vegetativa, fino alla produzione di vere e proprie lesioni: e` la patologia cortico-viscerale. Infine, e` stata messa in evidenza l’importanza delle prime fasi di vita nel determinare la normalita` o la patologia del successivo sviluppo e soprattutto l’importanza delle cosiddette frustrazioni precoci, intese come mancanza di rapporto e di stimoli sensoriali, nel determinare gravi ed irreversibili disturbi. Questi dati sono estrapolabili alla situazione umana, nel senso che gli stessi avvenimenti possono determinare nell’uomo stati psicopatologici. Dopo questo breve excursus, possiamo tornare ad affrontare il problema di definire le psiconevrosi, ma e` abbastanza evidente che una semplice definizione non serve a niente, se non e` ` peraccompagnata da un modello esplicativo. E tanto necessario a questo punto proporre il modello che ci sembra piu` completo ed esauriente per la comprensione del problema: il modello psicodinamico. Il modello psicodinamico si rifa` al modello psicoanalitico del quale vengono pero` privilegiati l’aspetto dinamico, cioe` l’interazione delle forze pulsionali, e l’aspetto topico, cioe` il postulare l’esistenza di una parte conscia e di una parte incoscia della psiche. Gli altri aspetti del modello psicoanalitico, come quello genetico, economico, adattativo e strutturale, sono considerati, ma in maniera diversa. Per le nozioni riguardanti le basi teoriche, si rimanda al capitolo sulla psicoterapia analitica, limitandosi, in questa sede, a fornire schematicamente e brevemente alcune nozioni utili per la comprensione del modello psicodinamico stesso (vedi cap. 55).

2.4. Il modello psicodinamico Il bambino presenta fin dalla nascita due situazioni che sono specifiche dell’uomo e che lo rendono completamente diverso dal piccolo dell’animale. Da una parte, egli presenta una situazione psichica e somatica che lo rende, per un lungo periodo di tempo, completamente dipendente dal mondo degli adulti, pena la sua soprav-

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vivenza materiale. Dall’altra egli presenta due precise dimensioni istintuali (che lo accompagneranno tutta la vita) che sono rispettivamente l’istinto libidico e l’istinto di morte: l’elaborazione e le vicissitudini di questi due istinti determinano la vita psichica dell’uomo. Ma questo processo non avviene automaticamente, bensı` attraverso i rapporti interpersonali: fondamentali sono quelli inerenti ai primi anni di vita. Quindi il mondo degli adulti e` doppiamente significativo ed importante per il bambino; sul piano materiale per la sopravvivenza fisica, sul piano psichico per il normale sviluppo, intendendo per normale sviluppo la possibilita` del bambino di poter raggiungere l’autonomia ed una valida realizzazione. L’inesistenza o la conflittualita` del rapporto puo` compromettere in maniera molto grave lo sviluppo psichico del bambino. I primi rapporti umani sono fondamentali, nel senso che una valida e corretta presenza dell’adulto permette al bambino di contenere ed integrare le pulsioni di morte e sviluppare sempre di piu` quelle libidiche. Ma questo non sempre succede, perche´ comportamenti consci ed inconsci dell’adulto possono determinare nel bambino situazioni che vanno dalla confusione fino all’angoscia. Ma che cos’e` l’angoscia? L’angoscia e` una sensazione catastrofica vissuta nella previsione di una perdita. L’angoscia ha molti caratteri in comune con la paura, con due differenze fondamentali. Nell’angoscia la situazione non e` cosciente e razionale come nella paura; inoltre, la paura e` sempre collegata ad un pericolo che si deve apprendere ed imparare a riconoscere: l’angoscia non ha bisogno di apprendimento. Essa si scatena allorche´ il soggetto vive una situazione di perdita. L’angoscia quindi puo` essere collegata o alla perdita del Se´ totale, o di una parte di Se´, oppure alla perdita della stima e dell’affetto degli altri. La prima corrisponde ad un vissuto di perdita del proprio Se´ e quindi della propria integrita` psichica: molto spesso essa e` denunciata (nell’adulto) come timore di impazzire e di perdere il controllo di se stesso. La seconda e` quella collegata al timore di perdere non se stesso, ma una parte, ovverosia una capacita`, una funzionalita`: corrisponde all’an-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

goscia di castrazione. La terza e` quella di perdere l’amore e la stima degli altri ed e` vissuta come timore di non essere piu` riconosciuto. Queste angosce emergono per situazioni esterne al bambino, cioe` per dinamiche di ostilita` o di assenza psichica dell’A. S. Ma se queste dinamiche si prolungano nel tempo, si determina una situazione di delusione e quindi di rabbia nel bambino, il quale comincera` ad angosciarsi anche per la sua situazione interna di rabbia. Rabbia che se si esternasse porterebbe al danneggiamento o alla perdita dell’oggetto. Comunque sia, per situazioni esterne o per situazioni interne, l’angoscia insorge quando il bambino percepisce una possibilita` di perdita dell’A.S. La perdita reale o fantasmatica dell’oggetto e` un problema centrale e specifico dell’uomo. Infatti il bambino, alla nascita, presenta una grande potenzialita`, ma questa situazione cosı` ricca di possibilita` e` pero` anche molto precaria e fragile: egli ha bisogno, e per un lungo periodo di tempo, di rapporti interpersonali validi che permettano l’esplicarsi delle sue potenzialita`. L’impotenza del bambino deve essere intesa in una duplice accezione: da una parte come possibilita` potenziali, dall’altra come situazione di necessaria dipendenza. Se consideriamo il mondo animale, possiamo notare una differenza fondamentale. Il piccolo dell’animale possiede un patrimonio istintuale molto ampio e molto specializzato: questo da un lato gli permette di potersi rendere autonomo rapidamente, dall’altro, questo stesso patrimonio, lo condizionera` per tutto il resto della vita. Il patrimonio istintuale del bambino e` invece molto meno specifico e ‘‘specialistico’’: corrisponde a due dinamiche fondamentali. L’istinto libidico induce alla ricerca ed all’avvicinamento l’istinto di morte alla distruzione ed alla sparizione dell’oggetto. Tutto il resto deve essere appreso, e puo` essere appreso solo in una dinamica valida di rapporti interpersonali. Questa lunga fase di dipendenza, definita fetalizzazione dell’uomo, permettera` al bambino di acquisire e sviluppare tutte quelle capacita` e cognizioni che non hanno riscontro nel mondo animale; ma sara` anche questa lunga fase di dipen-

denza che, se non risolta e superata, puo` creare la maggior parte della psicopatologia. Da questi pochi cenni, risulta chiaramente l’importanza dell’A. S., per il bambino, e quindi l’inevitabile comparsa di angoscia per il timore di poter perdere questo oggetto cosı` fondamentale. ` nel rapporto quindi con l’Adulto Significativo E (che non e` necessariamente la madre) che si sviluppano prevalentemente, ma non solo, nei primi anni di vita, le dinamiche piu` significative. Se il bambino e` frustrato nelle proprie esigenze si innesca un meccanismo di rabbia e di ostilita`: il desiderio frustrato fa sı` che emergano le dinamiche istintuali legate all’istinto di morte. Quindi la frustrazione delle valenze libidiche non trasforma queste dinamiche in valenze ostili, ma la libido frustrata non riesce piu` a contenere le valenze ostili distruttive. Il desiderio frustrato suscita rabbia: la rabbia porta fantasticamente a divorare, introiettare, l’Adulto Significativo. ` evidente che c’e` un nesso preciso tra oggetto E frustrante ed introiezione: e` l’oggetto cattivo che si introietta e non solo per farlo sparire, ma anche per poterlo controllare. Se l’oggetto e` buono, cioe` risponde alle valenze libidiche del bambino, non c’e` bisogno di introiettarlo: il bambino lo riconosce, stabilisce un rapporto e se ne separa. Se una poppata (come un rapporto) e` insoddisfacente, soprattutto sul piano psichico, una volta staccatosi il bambino tende a divorare ed a introiettare il seno e a farlo diventare un oggetto interno. Se la poppata (come un rapporto) e` soddisfacente, il bambino si separa, lo ricorda e costruisce dentro di se´ l’immagine del seno. Quindi ci sono due dinamiche diverse, collegate alla modalita` del rapporto e delle separazioni. Se il rapporto e` sufficientemente gratificante il bambino si separa e ricorda. I ricordi costruiscono l’immagine dell’oggetto: oggetto che il bambino lascia al suo posto nella realta` e che quindi puo` e sa ritrovare: in questo senso non c’e` angoscia per una perdita fantasmatica. Se il rapporto e` frustrante, il bambino non riesce a separarsi, ma si stacca, e nello staccarsi tende a staccare il seno: ovverosia tende a morderlo, a introiettarlo, farlo diventare oggetto interno. E, aggiungiamo subito, oggetto interno cattivo, che lo angoscera` ulterior-

Le psiconevrosi: concetti generali

mente perche´, una volta fatto sparire, il bambino sara` angosciato per la paura di non trovarlo. Non c’e` quindi separazione ma introiezione, non c’e` costruzione ma creazione di un oggetto interno cattivo. Se le situazioni si susseguono nel tempo, si costituisce, sulla base di un rapporto che frustra il desiderio, una dinamica di rabbia-introiezione che portera` il bambino, e poi l’adulto, a stabilire una dinamica di bramosia. Ma, a volte, questa dinamica puo` andare ‘‘oltre’’. Quando la situazione esterna e` molto frustrante, invece della rabbia che costituisce, seppure in modo alterato, una possibilita` di rapporto, tende a insorgere l’odio. Ovvero quando l’A. S. viene vissuto come oggetto malefico e mortifero, si sviluppa una situazione che porta non tanto ad introiettare l’oggetto, quanto a svuotarlo, mantenerlo a distanza, controllarlo. Quanto questa dinamica sia dovuta a fattori esterni e quanto a fattori interni (ovverosia preponderanza dell’istinto di morte su quello libidico) non e` sempre facile dire. Tuttavia nella clinica spesso noi vediamo, come base della psicopatologia, un circolo chiuso nel senso che spesso ad un bambino che presenta una scarsa espressivita` libidica l’A.S. risponde con una reazione di rifiuto: il che serve solo a far peggiorare la situazione. La rabbia e l’odio creano quindi inevitabilmente il timore di perdere l’oggetto: che seppur cattivo (o vissuto come tale) e` pur sempre indispensabile al bambino. Ma il bambino non puo` accettare questa perdita: deve necessariamente adattarsi. E cosı` la rabbia diventa bramosia e l’odio diventa invidia. Sono queste le corazze caratteriali che il bambino cerca di costruirsi per difendersi. Ma spesso la corazza diventa una tomba. Possiamo affermare che intorno a queste due dinamiche fondamentali si strutturano le varie fenomenologie psiconevrotiche. Pertanto le psiconevrosi, pur nella loro variabilita`, possono collocarsi all’interno di due grandi circoli: quello della bramosia e quello dell’invidia. Quindi possiamo dire che il fatto fondamentale della psicopatologia e` l’angoscia per la perdita dell’oggetto e del Se´: angoscia che nasce dall’emergere di rabbia e/o di odio nei confronti dell’oggetto che e` sentito cattivo, ma di cui si ha

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comunque bisogno. Quindi il conflitto nasce e si alimenta tra un desiderio degradato a bisogno e l’ostilita` nei confronti dell’oggetto da cui si dipende. Il conflitto tende a mettere in atto una serie di meccanismi difensivi che diventano la corazza caratteriale: ma questa rimane pur sempre un equilibrio precario e instabile. Infatti il carattere nevrotico puo` essere compromesso da alcune particolari situazioni di vita dell’adolescente, del giovane o dell’adulto. Quando un carattere nevrotico viene a trovarsi in una situazione traumatica (o temuta tale), insorge l’ansia come segnale di pericolo. Pericolo che possa insorgere quell’angoscia traumatica, contro la quale il soggetto ha gia` messo in atto i suoi meccanismi di difesa. Di fronte all’emergere dell’ansia, il soggetto tende ad attuare ulteriori meccanismi di difesa ` fino ad arrivare alla formazione del sintomo. E abbastanza evidente che il sintomo quindi costituisce solo l’ultimo anello di una lunga catena di avvenimenti e di situazioni gia` psicopatologiche. ` evidente, anche, che il sintomo rappresenta E solo una piccola parte della psiconevrosi e che la psicopatologia, quella piu` importante, e` ben piu` a monte del sintomo. Il sintomo, che e` una situazione di compromesso, insorge quando, di fronte all’emergenza di situazioni pulsionali pericolose, il paziente sente che il suo sistema difensivo non riesce a reggere. Per capire meglio il senso del sintomo, puo` bastare un breve esempio. Una signora di 28 anni, con un carattere ossessivo e con intense cariche distruttive rimosse, viene a trovarsi, dopo la nascita di un bambino, in una situazione di maggiore isolamento affettivo, perche´ il marito, geloso del figlio, si e` allontanato emotivamente. La paziente, dopo un periodo di ansia, comincia a sviluppare un sintomo che consiste nel temere che tutto possa infettarla, per cui e` costretta a lavare tutto con una pezzetta imbevuta di alcool. La paziente, cioe`, crede di poter esprimere la sua rabbia, che proiettata all’esterno pero` infetta tutto, anche se stessa. Poi crede di poter togliere il tutto con una pezzetta di alcool: solo che e` costretta ad usarla tutto il giorno. Cosı`, il sintomo ossessivo (cerimoniale), diventa un compromesso tra una falsa possibilita` di espri-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

mere la rabbia (che e` rappresentata dallo sporco e dall’infezione) e la falsa possibilita` di controllarla attraverso il lavaggio: in questo senso e` evidente perche´ il sintomo e` un compromesso. Abbiamo visto, anche se molto brevemente, qual e` il meccanismo attraverso cui si crea la psiconevrosi: dico la psiconevrosi, perche´ poi le varie psiconevrosi differiscono solo per diversi meccanismi difensivi. Possiamo a questo punto cercare una definizione piu` completa. K. Horney dice che «una nevrosi e` un disturbo psichico provocato da paure e da difese contro le paure, nonche´ da tentativi di trovare soluzioni di compromesso per tendenze in conflitto». Laplanche e Pontalis la definiscono «affezione psicogena in cui i sintomi sono l’espressione simbolica di un conflitto psichico che trae le sue radici nella storia infantile del soggetto e costituisce un compromesso tra il desiderio e la difesa». Certamente queste definizioni sono valide, ma parziali, percio` penso che si debba aggiungere qualcosa. La psiconevrosi e` un disturbo psichico che nasce da problematiche gravi e persistenti all’interno di una relazione patologica interpersonale nei primi anni di vita. Queste problematiche, suscitando l’angoscia della perdita del Se´ e dell’A.S., vengono interiorizzate e rimosse e diventano dei conflitti che tendono a strutturarsi in specifiche modalita` caratteriali: e` il carattere nevrotico. Quando questa situazione caratteriale tende a scompensarsi per avvenimenti traumatici reali o temuti tali, emerge l’ansia che attiva ulteriori meccanismi difensivi. Si arriva cosı` al sintomo, che rappresenta una situazione di compromesso tra tendenze antitetiche.

3. Conclusioni Credo utile fare una breve ricapitolazione, rimandando per ulteriori approfondimenti, soprattutto per i concetti di bramosia ed invidia, al capitolo «La psicoterapia analitica». Il bambino alla nascita presenta una duplice struttura pulsionale: l’istinto libidico e l’istinto di morte.

L’istinto libidico ha bisogno di trovare una valida rispondenza nell’A.S. perche´ possa svilupparsi, integrarsi ed assolvere cosı` ad una funzione fondamentale: quella di contenere prima e di trasformare poi l’istinto di morte. Se la situazione libidica iniziale, il desiderio, non e` soddisfatto, ma viene frustrato e deluso, questo porta all’emergenza, sempre piu` evidente, di due manifestazioni dell’istinto di morte: la rabbia e l’odio. La rabbia e l’odio emergono dalla mancata integrazione del triangolo occhi-bocca. La bocca, privata della capacita` di vedere-distinguere, diventa fonte di un desiderio cieco che porta a divorare-introiettare l’oggetto e quindi a distruggerlo: e` la rabbia. Gli occhi senza la capacita` di prendere, cioe` di soddisfare per lo meno il desiderio cieco, tendono a devitalizzare l’oggetto per doverlo poi continuamente controllare: e` l’odio. Il bambino che ruba il giocattolo all’altro per usarlo in solitudine e` l’esempio di un atteggiamento di rabbia (e quindi di bramosia): e` il furto che esprime l’incapacita` di dividere con l’altro un oggetto che invece, usato insieme, potrebbe far emergere un atteggiamento di desiderio. Il bambino che, vedendo l’altro felice del proprio giocattolo, gli si avvicina per distruggerlo, e` l’esemplificazione dell’odio. Non c’e` la tendenza al prendere-rubare, ma questo bambino e` andato ‘‘oltre’’: distruggendo il giocattolo, ha cercato soprattutto di distruggere la gioia dell’altro, credendo cosı` di poter controllare tutto e tutti. Ma questi due affetti (rabbia e odio), non possono mantenersi a lungo allo stato puro, perche´ porterebbero immancabilmente all’angoscia di perdere l’oggetto significativo. Ma la perdita dell’oggetto significativo comporterebbe anche quella della propria immagine e della propria identificazione di base. Il bambino quindi deve mettere in atto una serie di meccanismi difensivi che gli permettano di difendersi da questa angoscia. I meccanismi difensivi sono vari e numerosi: dal fondamentale meccanismo della rimozione alla repressione, dalla negazione alla idealizzazione dalla introiezione alla proiezione ecc. La varieta` dei meccanismi difensivi spiega la varieta` della sintomatologia psiconevrotica. Alcuni meccanismi

Le psiconevrosi: concetti generali

difensivi possono trasformarsi in strutture abbastanza stabili: ci troviamo di fronte ad un precipitato conflittuale che e` il carattere nevrotico. Su di un piano psicodinamico la diversita` dei caratteri nevrotici puo` essere raggruppata intorno a due strutture fondamentali: quella della bramosia che deriva dalla rabbia e quella dell’invidia che deriva dall’odio. Quali sono le caratteristiche fondamentali? a)

b)

Nella bramosia la dinamica fondamentale si basa sul possesso e sullo sfruttamento dell’altro che viene vissuto in modo ambivalente. Il legame che si instaura e` di tipo sadomasochistico, l’angoscia fondamentale e` collegata alla perdita sia reale che fantasmatica e la perdita e` collegata alla fantasticheria della introiezione, che comporta la scomparsa dell’oggetto dalla realta` materiale e la creazione di un oggetto interno deteriorato: di qui la frequente presenza dei sensi di colpa. Il desiderio e` cieco e quindi inestin` la struttura caratteristica della deguibile. E pressione nevrotica. Nell’invidia invece la dinamica fondamentale e` quella dello svuotamento-devitalizzazione della sostanza interna dell’altro. Il legame e` basato sul controllo onnipotente; l’altro non viene nemmeno usato, ma viene semplicemente immobilizzato. L’angoscia nasce dal timore non di perdere l’oggetto, ma di perdere il controllo dell’oggetto: l’angoscia nasce dall’intuizione che l’altro puo` essere libero. Non c’e` introiezione: l’altro viene immobilizzato e mantenuto a distanza. Non c’e` desiderio, nemmeno quello cieco, non c’e` ambivalenza. Non ci sono quindi nemmeno i sensi di colpa: bensı` l’altro, vissuto come mortifero e venefico, suscita spes` la struttura caratteso ansie persecutorie. E ristica della psiconevrosi ipocondriaca. Abbiamo quindi due grandi circoli che contengono la proteiforme varieta` delle psiconevrosi. Al circolo della bramosia appartengono:

a) b)

la psiconevrosi ansiosa; la psiconevrosi fobica;

c) d) e)

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la psiconevrosi depressiva; la psiconevrosi isterica; l’obesita` psicogena. Al circolo dell’invidia invece:

a) b) c)

la psiconevrosi ipocondriaca; la psiconevrosi ossessiva; l’anoressia psicogena.

Passeremo a descrivere, nei prossimi capitoli, le varie psiconevrosi, seguendo uno schema ben preciso: 1) 2) 3) 4) 5)

6) 7)

considerazioni generali di carattere storico, culturale e clinico-nosografico; descrizione dei vari quadri sintomatologici; descrizione del carattere nevrotico specifico; spiegazione psicodinamica sia del carattere che della sintomatologia nevrotica; descrizione di un caso clinico che renda piu` esplicita la descrizione e la spiegazione della nevrosi; diagnosi differenziale; note di terapia.

Riferimenti bibliografici* Cosnier J., «Ne´vroses expe´rimentales», EMC**, Psychiatrie, 37040 Paris, 1969. Fagioli M., Istinto di morte e conoscenza, N.E.R., Roma, 1971. Fagioli M., La marionetta e il burattino, N.E.R., Roma, 1973. Freud A., I meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze, 1973. Freud S., Inibizione, sintomo e angoscia, Einaudi, Torino, 1954. Lalli N., Le psiconevrosi: fenomenologia e psicodinamica, Euroma, La Goliardica, Roma, 1988. Lalli N. «Psicoanalisi e freudismo: a proposito di M.

* Gli Autori citati che non si ritrovano in Riferimenti bibliografici sono tratti da Cosnier J., 1969. ** La sigla EMC indica la Encyclope´die Me´dico-chirurgicale, che sara` successivamente connotata con la sola sigla.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Fagioli», Psychopathologia, n. 2, Vol. VII, 1989. Lalli N., Setting e separazione, Comunicazione al Congresso di Psicoterapia Medica, Siena, 1988. Laplanche J., Pontalis J.B., Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, 1968.

Mirouze R., «Ne´vroses ‘‘actuelles’’», EMC Psychiatrie, 37330, Paris, 1967. Pavlov P., I mercoledı`, La Nuova Italia, Firenze, 1970. Reich W., Analisi del carattere, Sugar, Milano, 1973. Sullivan H.S., Studi clinici, Feltrinelli, Milano, 1965.

13 La psiconevrosi d’ansia Nicola Lalli Parole chiave ansia; angoscia; depersonalizzazione; nevrosi attuali

Le psiconevrosi appartenenti al circolo della bramosia hanno numerosi caratteri in comune e spesso possono trapassare da una forma all’altra. Tra queste la piu` proteiforme e mutevole e` certamente la psiconevrosi d’ansia, tanto da indurre molti AA. a negarne la dignita` di sindrome autonoma. Ritengo invece necessario mantenerla, per motivi di ordine pratico e teorico. L’ampio spettro di manifestazioni che vanno dallo psichico al somatico rende non sempre agevole una corretta diagnosi; inoltre i disturbi d’ansia in genere sono in prima istanza e spesso per lungo tempo di competenza di non specialisti, e pertanto frequente e` il rischio di una scorretta

condotta terapeutica che puo` portare sindromi iatrogene (vedere caso clinico). Sul piano teorico c’e` la notevole difficolta` di separare nettamente l’ansia normale da quella patologica e la non semplice correlazione tra fattori psichici e fattori biologici nello scatenamento e nel mantenimento del disturbo d’ansia. Tutto questo rende necessario descrivere e delineare la psiconevrosi d’ansia, ferma restando la possibilita` che essendo l’ansia il fulcro della psicopatologia delle psiconevrosi, possa successivamente cristallizzarsi in sintomi piu` precisi e dar luogo a configurazioni psiconevrotiche diverse. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Si ritiene, secondo fonti dell’O.M.S., che circa il 2-4% della popolazione mondiale soffra per disturbi correlabili all’ansia. L’ansia puo` essere definita come una paura senza oggetto, prendendo spunto dalla piu` celebre definizione dell’allucinazione che e` definita, appunto, come percezione senza oggetto. Ma in effetti dobbiamo dire che l’oggetto dell’ansia esiste, ma e` indefinito ed indefinibile, il che spesso aumenta l’ansia del soggetto o lo costringe a legarla ad una qualche rappresentazione o idea a contenuto pessimistico. Paragonare l’ansia alla paura e` giustificato e corretto perche´ un dato fondamentale dell’ansia e` la sua funzione anticipatoria. In questo senso vigilanza ed ansia spesso sono collegabili, e questo e` tanto piu` utile se distinguiamo l’ansia in normale e patologica. L’ansia puo` definirsi normale se la sua funzione anticipatoria serve appunto a preparare il soggetto ad un’azione piu` o meno complessa. Se invece questa funzione anticipatoria e` o troppo intensa o e` caricata di funzioni pessimistiche, allora diventa bloccante, paralizzante e quindi patologica. Quindi la differenza tra ansia normale e patologica puo` considerarsi prevalentemente di ordine quantitativo, e soprattutto funzionale. Comunque sia, l’ansia come vissuto psichico e` sempre ben riconoscibile sia dal soggetto che la subisce, sia dall’osservatore. Ma non sempre l’ansia si manifesta in questo modo: spesso puo` manifestarsi come equivalente ansioso o come semplice fenomeno neurovegetativo. Pertanto passeremo a descrivere queste tre modalita` di fenomeni: non consideriamo, in questo capitolo, tutte le modalita` di negazione dell’ansia (come la tendenza a razionalizzare, oppure la fuga nell’iperattivita`, o nella tossicodipendenza) perche´ esse costituiscono, di per se´, altre sindromi psicopatologiche. Le crisi di ansia hanno in genere un carattere acuto: una crisi ansiosa che duri a lungo tende inevitabilmente ad evolvere verso organizzazioni particolari grazie alle quali la tensione ansiosa tende a neutralizzarsi o per via psichica, attraverso le psiconevrosi, o per via somatica attraverso le malattie psicosomatiche. Ma esiste una

situazione nella quale l’ansia tende invece a manifestarsi in maniera piu` o meno acuta, come unico fenomeno: e` la psiconevrosi d’ansia, nell’ambito della quale distingueremo: i fenomeni ansiosi acuti, i fenomeni ansiosi cronici e le nevrosi attuali.

2. Sintomatologia La difficolta` di delineare la psiconevrosi d’ansia deriva soprattutto dal fatto che questa sindrome puo` presentarsi non solo con sintomi molto vari, ma presentare anche varie evoluzioni. Infatti, tutte le psiconevrosi nascono sempre da una situazione ansiosa piu` o meno prolungata; ma, come sappiamo, l’ansia rappresenta un segnale di pericolo: l’emergenza dell’angoscia. Ed e` di fronte a questo pericolo che il soggetto mette in atto una serie di meccanismi di difesa che costituiscono il sintomo. Quindi, dal momento che l’ansia rappresenta il fulcro di tutta la psicopatologia psiconevrotica, sia nella sua genesi che nella sua evoluzione, sembrerebbe superfluo definire una sindrome come psiconevrosi d’ansia. Invece, ci sono due validi motivi: uno di ordine fenomenologico e l’altro psicodinamico. Il primo e` che molte volte l’ansia (sia come vissuto psichico che somatizzata) rimane il sintomo principale e costante, pur potendo poi essa manifestarsi in modo vario e con crisi piu` o meno lunghe. Il secondo e` che dal momento in cui l’ansia non tende a mettere in movimento i meccanismi difensivi e quindi la formazione di sintomi, evidentemente deve trattarsi di una situazione caratteriale diversa dalle altre che inducono l’ansia ad incanalarsi nei sintomi vari (fobia, ossessione, ipocondria ecc.). Altro motivo valido e` che la psiconevrosi d’ansia somiglia piu` da vicino a quelle che sono le classiche nevrosi sperimentali, oppure a quelle forme psicopatologiche che si possono presentare per cause biologiche derivanti o da immissione di sostanze eccitanti (anfetamina, adrenalina) o che possono crearsi per brusche variazioni neuroumorali (ipoglicemia, crisi da feocromocitoma ecc.): cioe`, in questa psiconevrosi sono piu` evidenti le correlazioni psicobiologiche.

La psiconevrosi d’ansia

Comunque, indipendentemente dalle varie manifestazioni possiamo dire che la psiconevrosi d’ansia tende a manifestarsi con due modalita` precise: la forma acuta e la forma cronica. Le prime tendono a presentarsi come crisi che possono essere piu` o meno gravi e con manifestazioni varie (depersonalizzazione, crisi di angoscia) che tendono a durare da qualche ora a qualche giorno per poi diminuire o scomparire completamente, lasciando solo il timore che la crisi possa ripresentarsi. In genere, questa tendenza persiste, per cui anche se piu` attenuate della prima volta, le crisi possono ripresentarsi a varia distanza di tempo. Le seconde costituiscono il disturbo d’ansia generalizzato, caratterizzato da uno stato di ansia e di tensione permanente, e gli equivalenti ansiosi.

2.1. Fenomeni ansiosi acuti

2.1.1. Crisi d’angoscia

Tali crisi, precedute a volte da avvenimenti piu` o meno significativi, a volte senza alcun motivo apparente, insorgono con estrema rapidita` ed altrettanto rapidamente scompaiono, lasciando comunque un ricordo talmente penoso che il solo ricordo diventa di per se´ un disturbo continuo. A volte, pazienti che hanno avuto, anche per una sola volta, una crisi di questo tipo, continuano a temerla per anni, mettendosi spesso in una condizione di tipo fobico, evitando qualsiasi avvenimento o situazione che, a loro parere, possa essere identificato come causa della crisi. In genere, questa crisi e` accompagnata da un corteo sintomatologico somatico imponente: senso di grave costrizione toracica con mancanza d’aria, sudorazione improvvisa ed abbondante, vertigini soggettive ed oggettive, senso di freddo a tutto il corpo. Il malato e` pallido, a volte sembra pietrificato, a volte e` in preda ad una grave agitazione psicomotoria con tremori diffusi a tutto il corpo; a volte riesce ad esternare il suo stato d’animo gridando, ma spesso la voce gli muore in gola e questo aumenta il suo malessere. A questo corteo sinto-

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matologico somatico si accompagna, sul piano psichico, la sensazione e la paura di morire oppure quella di impazzire, perdere il controllo di se stesso e dei propri atti. Dopo pochi minuti o qualche ora, soprattutto se c’e` un intervento medico, la crisi tende a scomparire, lasciando comunque il timore o il terrore che possa ripresen` questa la classica crisi di angoscia. tarsi. E 2.1.2. La depersonalizzazione

A volte, pero`, questa crisi si presenta con caratteri piu` articolati e complessi che danno luogo alla cosiddetta crisi di depersonalizzazione. In effetti, la depersonalizzazione e` un disturbo che possiamo trovare all’inizio di varie sindromi, anche di tipo psicotico. Comunque e` frequente nelle psiconevrosi d’ansia e se, a volte, puo` segnalare l’evoluzione di questa sindrome verso situazioni psicopatologiche piu` gravi, altre volte rimane come crisi piu` o meno ricorrente. La crisi di depersonalizzazione e` caratterizzata, oltre che dall’ansia, soprattutto dal fatto che il paziente descrive il proprio disturbo in maniera particolare. Egli dice di provare sensazioni strane, ma sempre descritte con il come se. Questa particolare modalita` descrittiva permette di distinguere le depersonalizzazioni dagli stati che si avvicinano sempre piu`, per la certezza del vissuto, al delirio o alle allucinazioni. La depersonalizzazione puo` riguardare la propria identita`, il corpo o la realta` esterna. Avremo cosı` tre modalita` di depersonalizzazione. 1)

2)

Depersonalizzazione autopsichica: il paziente riferisce come una sensazione di estraneita` a se´ stesso, come se il vissuto non appartenesse al proprio Io. In genere, questi stati sono accompagnati da vertigini che aumentano questo vissuto di smarrimento e di estraneamento. Depersonalizzazione somatopsichica: e` una sensazione nella quale e` come se il proprio corpo, o parti di esso, non appartenessero piu` al soggetto; e` come se ci fosse una scissione, per cui il soggetto osserva il proprio corpo muoversi, camminare, ma come se non gli appartenesse.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

3)

Depersonalizzazione allopsichica: riguarda la realta` esterna: il soggetto vive il mondo, la realta` materiale o anche gli altri esseri umani, come lontani, distaccati, come se li osservasse attraverso uno spesso cristallo: per cui vede, ma non sente. Questo senso di distacco, di estraneita`, di irrealta` e` sempre vissuto con questa modalita` che dicevamo prima del come se, vale a dire che, seppur il paziente deve sottomettersi alla sua emozione, riesce a riconoscere la sua patologia e soprattutto la stranezza della sensazione stessa. Possiamo dire che egli non si lascia completamente andare a queste sensazioni, come avviene in situazioni piu` gravi.

2.2. Fenomeni ansiosi cronici

2.2.1. Equivalenti ansiosi

Corrispondono a fenomeni somatici: essi sono definiti anche disturbi funzionali (cioe` senza base organica) o somatizzazione dell’ansia. I sintomi possono riguardare qualsiasi organo o funzione: in genere, i piu` colpiti sono gli apparati cardio-vascolare, respiratorio e digestivo. Sul piano cardiaco, ci sono crisi di palpitazione o di tachicardia piu` o meno prolungate; a volte precordialgia, che e` descritta o come senso di costrizione o come dolore toracico; molto spesso ci sono crisi vasomotorie che si possono accompagnare a diminuzione della pressione arteriosa (questi soggetti sono gia` costituzionalmente ipotesi) fino ad arrivare a fenomeni di sincope. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, e` frequente una limitazione dell’escursione respiratoria che da` il caratteristico respiro superficiale e frequente dell’ansioso: questo e` vissuto dall’ansioso come sensazione di mancanza d’aria, fino ad arrivare a crisi di tipo asmatiforme; sullo stesso piano, sono da considerare anche gli attacchi di tosse improvvisi. Sul piano digestivo, c’e` tutto il corteo sintomatologico della ‘‘cattiva digestione’’: da fenomeni di tipo disfagico (‘‘come uno gnocco in gola’’) fino a disturbi di tipo nausea e vomito.

Numerosi altri disturbi possono colpire l’ansioso: frequenti crisi di sudorazione improvvisa; parestesie, soprattutto al cuoio capelluto (‘‘come se mi tirassero i capelli’’); disturbi vari di tipo cefalgico ` evidente che a questo punto ci si chiede in ecc. E cosa si distinguono questi sintomi dai sintomi di conversione dell’isterico. In effetti, come vedremo, ci sono molti punti in comune; la differenza fondamentale e` la notevole variabilita` ed intercambiabilita` del sintomo.

2.2.2. Disturbo d’ansia generalizzato

Caratterizza quello che viene definito comunemente l’‘‘ansioso’’ e che somiglia molto a quello che abbiamo definito il carattere ansioso. Sono individui la cui vita e` intessuta di insicurezza e di timori continui. Timidi, facilmente emotivi ed impressionabili, non riescono a diventare mai adulti ed autonomi. Hanno sempre bisogno di un sostegno, di un aiuto (la madre, i familiari, il medico ecc.) anche se, inevitabilmente, finiscono per nutrire verso queste persone un atteggiamento ambivalente. Incapaci di prendere decisioni, in genere proprio nei periodi piu` importanti della vita tendono ad avere momenti di crisi piu` accentuate: come alla puberta`, agli esami importanti, al matrimonio, alla nascita dei figli. In questi momenti insorgono spesso fenomeni di ansia, prevalentemente somatizzata, che possono durare per settimane o mesi, spesso colorati da note ipocondriache. Accanto a questi e` sempre presente una sintomatologia somatica caratterizzata da astenia, facile affaticamento che in genere tende a diminuire o scomparire in situazioni piacevoli. Spesso, essi finiscono con l’evitare e limitare quanto piu` possibile le situazioni o le emozioni che ritengono pericolose e finiscono quindi con il crearsi uno stile di vita piuttosto inibito e limitato, molto simile a quello del fobico.

2.3. Le nevrosi attuali Diagnosticate nel DSM-III-R come disturbo post-traumatico da stress, sono collegate all’emer-

La psiconevrosi d’ansia

genza di disturbi di tipo ansioso dopo avvenimenti traumatizzanti. Esse vengono separate dalle forme precedenti perche´ devono considerarsi non legate ad un conflitto, ma ad un evento stressante che il soggetto non riesce ad elaborare. Rientrerebbero quindi, di regola, piu` nelle reazioni che nelle forme psiconevrotiche vere e proprie. Si tratta in genere di eventi traumatici che comunque provocherebbero grave malessere nella maggior parte delle persone: come un grave attentato all’integrita` psichica o fisica; distruzione della propria casa o comunita`; sradicamenti violenti ecc. La sintomatologia consiste nel rivivere costantemente l’evento traumatico o attraverso sogni angoscianti e ripetitivi, o in un vissuto angoscioso di ripetizione dell’avvenimento in situazioni che possono avere collegamenti simbolici o semplicemente casuali con l’avvenimento traumatico. Inoltre possono comparire meccanismi difensivi che consistono in amnesia psicogena ed un sentimento di estraneita` e di distacco da tutto e da tutti, con perdita della speranza e del futuro. Sono sempre presenti segni di ansia che possono andare da fenomeni vegetativi ad insonnia, da una difficolta` di concentrazione ad una disforia persistente (vedi anche capitolo ‘‘Psicopatologia da situazioni estreme’’).

3. Il carattere ansioso Esso e` caratterizzato da tre fenomeni: l’apprensivita` , l’inibizione, l’eccitabilita` . L’apprensivita` e` una caratteristica essenziale sempre presente; essa consiste in una sorta di attesa sgradevole con previsioni pessimistiche. Questo stato d’animo costringe il soggetto a vivere in uno stato continuo di apprensione e di timore. Qualsiasi avvenimento, anche il piu` banale, puo` tingersi di questo alone di timore: il suono del telefono, l’arrivo di una lettera, un rumore improvviso, significano qualcosa di pericoloso. Ma ancora prima di questa consapevolezza c’e` la rapida istantanea risposta muscolare che balza evidente all’occhio di un qualsiasi os-

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servatore, tanto da fargli dire (o pensare) che quella persona ‘‘e` nervosa’’. ` il caratteristico rapido balzo che segue E qualsiasi stimolo accompagnato dallo sguardo dalle palpebre dilatate e dal caratteristico tremolio degli arti. Infatti, questo vissuto psichico, insieme all’eccitabilita`, contribuisce a creare una particolare situazione della muscolatura che e` sempre contratta, in tensione, e spiega facilmente quella continua fastidiosa sensazione di fatica e stanchezza che l’ansioso lamenta, spesso a cominciare dal mattino, subito dopo il risveglio. Infatti anche il sonno, come altre funzioni importanti, e` compromesso: e` un sonno leggero, un sonno che non riposa. L’eccitabilita` e` generale e si manifesta sia sul piano psichico, con irritabilita` continua, crisi di lacrime improvvise, ma soprattutto sul piano somatico ove si crea una strana mescolanza di tensione/eccitabilita` . Sono soggetti sempre tesi ‘‘come la corda di un violino’’, pronti a reagire ed a scattare ad ogni minimo stimolo, quasi automaticamente. Se si osserva un ansioso si comprende subito che si trova in uno stato di ipervigilanza: non ha mai un attimo di sosta e di rilassamento. Di qui, spesso, un’iperattivita` motoria che arriva spesso ad una vera acatisia, intesa come sensazione sgradevole alle gambe che deve muovere in continuazione. Accanto a questa situazione di eccitabilita` e di estrema reattivita` (il cosiddetto eretismo nervoso dei vecchi medici), si riscontra, quasi in maniera inconciliabile, una spiccata inibizione sul piano affettivo e nei rapporti sociali. La iperattivita` motoria e l’inibizione affettiva caratterizzano l’aspetto piu` peculiare dell’ansioso: sono individui che corrono sempre, che non stanno mai nel presente, perche´ sempre proiettati (apparentemente) nel futuro. Questa instabilita` viene comunicata all’altro che la sente, l’avverte, spesso ne e` contagiato; in questo senso, l’ansia si trasmette. Il soggetto ansioso finisce, cosı`, con l’essere molto superficiale, e diventa spesso una caricatura dell’uomo realmente affaccendato. Anche se e` probabilmente l’inibizione il sintomo centrale, intesa come blocco affettivo, piu` che emotivo

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

(l’emotivita` puo` essere invece piuttosto intensa e disordinata), che colora tutta la sintomatologia dell’ansioso, stranamente quello che l’ansioso comunica e` il non potersi fermare, il dover sempre correre da qualche parte, se non materialmente, per lo meno con il pensiero. Per cui l’ansioso in effetti non c’e` mai, non e` mai presente, pur rimanendo immobile: sempre affaticato, senza essere mai veramente stanco. Questo e` il carattere ansioso che costituisce il sottofondo di base nella psiconevrosi d’ansia. Esso puo` rimanere come tale per tutta la vita; oppure evolvere nella psiconevrosi d’ansia dove si evidenziano i sintomi specifici che abbiamo descritto.

4. La psicodinamica Per comprendere bene la struttura della psiconevrosi d’ansia, bisogna tener presente che l’ansia, come segnale dell’angoscia, tende a mettere in atto una serie di meccanismi di difesa che finiscono poi per costituirsi in sintomo. Quindi, le psiconevrosi nascono sempre da stati ansiosi, solo che tendono poi a stabilizzarsi in strutture piu` rigide, che proprio in virtu` del sintomo riescono in qualche modo, se non a sopprimere, per lo meno a destreggiarsi meglio con l’ansia. Abbiamo visto anche che un altro destino dell’ansia emergente e` quello di essere affrontata con meccanismi che tendono a negarla, quali la razionalizzazione, la farmacodipendenza ecc. Il quesito che ci si pone nella psiconevrosi d’ansia e` come mai l’ansia tende a rimanere piu` o meno fluttuante ed a non incanalarsi in sindromi o sintomi ben specifici. Questo e` vero solo apparentemente, e solo rimanendo ad uno stadio puramente descrittivoclinico, ove, come al solito, si e` costretti a rinunciare ad una visione piu` particolareggiata del malato. In effetti, quando andiamo ad esaminare piu` da vicino l’‘‘ansioso’’, troveremo dei tratti comuni con altre sindromi, per cui indipendentemente dai casi che hanno un’evoluzione precisa essi finiscono per essere molto simili soprattutto ai fobici e agli isterici. Dei fobici hanno l’aspettativa ansiosa per qualche cosa che temono e soprattutto il meccanismo della proiezione e dell’evitamento che fanno sı` che la situazione ansiogena venga

spostata su oggetti o situazioni che sono poi accuratamente evitati. Questo meccanismo di evitamento, se da una parte diminuisce il rischio della crisi d’angoscia, dall’altro puo` portare, per una serie di ripetizioni, a limitare sempre piu` le attivita` dell’individuo. Dall’altro canto, tanto piu` l’ansia tende ad imboccare la strada degli equivalenti ansiosi, tanto piu` l’individuo tende a somigliare ad un isterico, anche se a differenza di questo non raggiunge mai l’indifferenza rispetto al proprio sintomo. Ma anche essi, come l’isterico, utilizzano il sintomo come utile secondario. L’individuo affetto da psiconevrosi d’ansia, quindi, somiglia molto all’isterico e al fobico; potremmo dire che e` simile ad un fobico o ad un isterico non completamente riuscito, cioe` la differenza fondamentale e` che nella psiconevrosi d’ansia, pur essendo presenti i disturbi, essi non si configurano mai nell’espressione precisa del sintomo, ovverosia di quella formazione di compromesso che, proprio per essere tale, sembra garantire maggiormente il soggetto da ulteriori crisi di ansia. Invece e` proprio il sintomo che dimostra una capacita` difensiva maggiore e, quindi, una maggiore resistenza alla terapia. Possiamo dire che, nella psiconevrosi d’ansia, l’ansia rimane in genere ancora libera e fluttuante, anche se necessariamente deve legarsi a qualcosa (paure, sintomo vegetativo, ecc.); solo che lo fa in maniera varia, intercambiabile: l’ansioso e` come se non avesse ancora trovato una strada soddisfacente, e questo lo rende piu` accessibile alla terapia. Rimane comunque l’interrogativo di fondo: perche´ l’ansia continua a rimanere libera. Non credo che ci sia una risposta univoca: possiamo dire che l’‘‘ansioso’’ ha una dinamica molto simile a quella dell’isterico; solo che a differenza di quest’ultimo rimane sempre in una posizione di consapevolezza della propria debolezza, del proprio bisogno degli altri, non mette, cioe`, in azione quel meccanismo di pseudoautonomia che per l’isterico e` il sintomo di conversione, con il quale crede di aver trovato una soluzione al suo problema. L’ansioso e` uno che non ha trovato ancora una soluzione completamente nevrotica, e` uno

La psiconevrosi d’ansia

che ancora cerca. Questo ha due conseguenze importanti: da una parte, che l’ansioso puo` essere in una situazione transitoria destinata ad evolversi verso psiconevrosi piu` sintomatiche; dall’altra, che diventa maggiore la responsabilita` del medico sul piano terapeutico. Cioe` una falsa risposta del medico puo` favorire un’organizzazione ancora piu` difensiva, con la formazione di vere nevrosi iatrogene. Si e` gia` accennato, nel capitolo sul rapporto medico-paziente, a situazioni in cui quest’ultimo, di fronte alle non-risposte del medico, deve necessariamente organizzare come malattia la propria richiesta. Per nevrosi iatrogena intendiamo proprio quelle organizzazioni psiconevrotiche che si sono strutturate nel rapporto specifico medicopaziente, allorquando quest’ultimo si trova ad esprimere una sua conflittualita` piu` o meno inconscia attraverso dei sintomi somatici, ed il medico, anziche´ riuscire a comprendere il significato del sintomo e della domanda latente in esso implicita, si limita alla realta` materiale ed alla domanda manifesta. Il paziente si trova in una situazione impossibile da risolvere: da una parte, non ha una risposta al suo conflitto, dall’altra ha una falsa risposta, nel senso che il conflitto gli viene proposto come accadimento somatico. A questo punto, il paziente non puo` fare altro che seguire fino in fondo la strada della ricerca sul piano organico e quando alla fine si ritrova con la famosa frase ‘‘lei non ha niente’’, non ha altra possibilita` che andare dallo psichiatra e ci andra`, o spontaneamente o, piu` spesso, inviato dal medico stesso per un ulteriore accertamento specialistico. E se lo psichiatra sentenziera` che il paziente ha ‘‘un esaurimento nervoso’’, il paziente ha chiuso definitivamente. Ma credo che un’esemplificazione puo` rendere piu` chiaro il quadro.

5. Il caso clinico Donna1 di 38 anni, proveniente da un am` sempre stata biente familiare molto rigido. E

1

A questo proposito vorrei chiarire, il motivo per cui i casi clinici si riferiscono prevalentemente a donne. Non perche´ le donne abbiano disturbi piu` frequenti o piu` gravi degli uo-

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coartata affettivamente, soprattutto sul piano della sessualita` e della femminilita`, vissuta come qualcosa, se non di disgustoso, per lo meno di inutile. La paziente cresce con una situazione caratteriale piuttosto rigida e coartata, con un grande senso dell’ordine e della disciplina, piuttosto ansiosa e con un unico sintomo: ‘‘un piantarello di mezz’ora quando avevo il ciclo’’. La paziente comincia a lavorare molto presto e riesce ad ottenere dei buoni successi, anche perche´, tutta concentrata sul lavoro, non ha altri interessi. Comunque e` spesso piuttosto irritabile ed ansiosa, ma riesce a controllare questo stato, sprofondandosi nel lavoro e limitando ogni altra attivita`. Il successo nel lavoro e` favorito da un legame transferale positivo nei confronti del suo direttore. All’eta` di 34 anni, improvvisamente la situazione cambia: il direttore e` trasferito e la paziente si ritrova sola. Per una serie di motivi, ella perde il suo ruolo e la sua posizione nell’azienda e viene a trovarsi in una situazione di subordinazione che comunque apparentemente accetta bene. In questo stesso periodo decide, pero`, di sposarsi con un amico con il quale aveva intrattenuto sempre rapporti fraterni. Poco dopo ha una figlia. La paziente accetta di buon grado la nuova situazione e comincia a spostare tutto il suo interesse sulla famiglia, pur continuando a svolgere bene il suo lavoro. Qualche tempo dopo, pero`, si crea per lei la possibilita` di occupare di nuovo il precedente posto di segretaria generale. Questo le viene proposto in un momento difficile per l’azienda, proprio in virtu` delle sue capacita`. La paziente e` un po’ perplessa perche´ teme di non poter conciliare l’impegno del lavoro con quello della famiglia. Ma, a parte un aumento dell’ansia, non ci sono sintomi appariscenti. Decide cosı` di riprendere il lavoro di segretaria, ma il primo giorno, in una riunione, improvvisamente sviene. Viene accompagnata in infermeria, dove il medico le riscontra ipotensione arteriosa e la trova molto magra. Ordina, pertanto, una serie intermimini, ma solo perche´ le donne piu` facilmente tendono a chiedere aiuto, ed anche perche´ la loro psicopatologia, almeno secondo me, e` piu` chiara e spesso piu` interessante di quella maschile.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

nabile di esami e, logicamente, un periodo di riposo. Tra le varie analisi prescrive anche la reazione alla tubercolina. Una leggera positiva` di questa induce il medico ‘‘a sospettare, anche a causa della magrezza, una TBC’’ e la paziente viene invitata a iniziare una cura a base di isoniazide, in attesa dell’esame dell’espettorato. Passano venti giorni prima di avere il responso che e` negativo, ma in questi venti giorni la paziente e` terrorizzata dall’idea della malattia, teme soprattutto di infettare la figlia, si costringe a non starle vicino e la notte dorme con il lenzuolo sul viso per evitare il contagio. Dopo venti giorni, nonostante il risultato negativo dell’espettorato, la paziente e` invitata a continuare la cura antitubercolare, ‘‘per precauzione’’. Questo fatto la insospettisce e teme che il medico non le voglia rivelare la verita`, anche perche´ contemporaneamente viene sollecitata a non tornare al lavoro. Dopo tre mesi, le condizioni generali della paziente, soprattutto la magrezza e l’astenia, perdurano, per cui viene inviata per un mese in montagna. I primi giorni la paziente sta meglio, poi di nuovo compaiono gli svenimenti: di nuovo terapie a base di ricostituenti ed analettici. Al ritorno dalle vacanze, la paziente comincia a lamentare disturbi del ciclo mestruale. Uno specialista individua una cisti ovarica ‘‘che sarebbe meglio togliere’’. Dopo l’intervento la paziente sembra stare meglio e ritorna al lavoro. Ma la sua capacita` di applicazione risulta diminuita, e` sempre stanca, le sembra di non avere piu` memoria. Contemporaneamente al ritorno in ufficio ricompaiono disturbi vari: difficolta` digestive, saltuarie sensazioni di depressione, astenia marcata, dolori lombari ecc. Per ognuno di questi disturbi le viene prescritto un farmaco diverso ‘‘ma altamente specifico’’. La paziente comincia a temere di avere qualche ‘‘brutta malattia’’. Anche il fatto che il ciclo e` sempre irregolare le fa pensare che l’operazione subita non era una ‘‘semplice cisti’’. La paziente comincia a strutturare una psiconevrosi ipocondriaca: e` sempre piu` ripiegata su se stessa, si dedica con scarso interesse al lavoro e alla famiglia. Inizia un lungo iter di specialisti: uno di questi la invia dallo psichiatra. Quando questo avviene e` ormai passato circa un anno dallo ‘‘sve-

nimento’’ e siamo di fronte ad una chiara struttura ipocondriaca. La situazione e` complicata anche dal fatto che la paziente prende psicofarmaci che la rendono piu` passiva, anche se apparentemente le tolgono il senso di ansia e le diminuiscono le preoccupazioni ipocondriache. Il primo approccio e` molto cauto. Quando, dopo l’esposizione della sua lunga storia, lo psichiatra la invita a fare qualche collegamento con avvenimenti della sua vita, la paziente non riesce a comprendere: e quando questi successivamente si rifiuta di vedere tutto il ricco incartamento delle analisi specialistiche, dichiarando che non ce n’e` bisogno ‘‘anche perche´ sono state esaminate da colleghi piu` competenti in quello specifico campo’’, la paziente non sembra accettare molto bene questo comportamento. Solo dopo varie sedute, ad alcune delle quali arriva in ritardo, lo psichiatra puo` proporre alla paziente che forse lo ‘‘svenimento’’ aveva un significato ben preciso: esprimeva il suo conflitto tra il desiderio di riprendere il suo vecchio ruolo ed il timore che questo avrebbe comportato una sua assenza nei confronti della bambina. Bisogna quindi riprendere il cammino a partire dallo ‘‘svenimento’’, ma con ben un anno di ritardo. E questo e` un fatto negativo, perche´ ora le difficolta` sono maggiori, non solo per il tempo trascorso, ma anche perche´ in questo frattempo la paziente ha avuto tutte le possibilita` di rimuovere sempre piu` la sua problematica. Credo che questo sia un tipico esempio di nevrosi ansiosa complicata dall’atteggiamento medico. Certamente, si puo` dire che la paziente era predisposta, che in fondo aveva gia` un conflitto, ecc. e certamente tutto questo e` vero, ma il massimo che essa poteva fare da sola era di avviarsi verso una situazione di tipo ansioso marcato o isterico (lo svenimento); l’evoluzione ipocondriaca e` certamente frutto della ‘‘collaborazione medica’’. Questo caso clinico ci ripropone ancora una volta il problema dell’evoluzione delle sindromi psicopatologiche. Abbiamo piu` volte sottolineato che l’evoluzione e` in parte inscritta nella personalita` e nella storia del soggetto, ma che e` anche

La psiconevrosi d’ansia

frutto di tutta una serie di incontri interpersonali piu` o meno fortunati. Quello che ci interessa ora rimarcare e` che ogni qual volta ci si trova di fronte a qualsiasi sindrome psicopatologica, oltre a chiedersi che significato ha quel sintomo, bisogna anche chiedersi quale puo` esserne l’evoluzione. Questo problema, che potremmo dire banalmente della prognosi, e` molto importante di fronte ai soggetti affetti da ‘‘stati ansiosi’’ e lo vedremo a proposito della diagnosi differenziale.

6. Diagnosi differenziale Evidentemente la prima diagnosi differenziale deve riferirsi a probabili sindromi organiche. Spesso, infatti, situazioni patologiche organiche possono manifestarsi con crisi d’ansia: tra queste ricordiamo le crisi ipoglicemiche, il feocromocitoma; a volte l’infarto del miocardio, che puo` essere scambiato per una crisi di angoscia. Comunque, il pericolo maggiore e` l’inverso: cioe`, quello di scambiare un equivalente ansioso per un disturbo somatico. In linea generale, occorrerebbe attenersi alla regola che fin quando non si e` accertato con sicurezza una componente organica, non ci si deve pronunciare (vedi caso prece` comunque anche utile che la diagnosi dente). E venga comunicata con estrema chiarezza e nei tempi piu` brevi possibili. Ma i problemi piu` significativi si pongono nei confronti delle psiconevrosi e delle psicosi. Nei riguardi delle psiconevrosi, solo un accurato studio di tutta la personalita` puo` far capire se lo stato ansioso si inserisce o meno all’interno di una situazione psiconevrotica diversa. Per esempio quanto piu` si evidenziano un meccanismo di evitamento e la necessita` di un legame di appoggio, tanto piu` il disturbo ansioso si configura come fobico. Questi due elementi servono inoltre a distinguere una crisi di angoscia come manifestazione di una psiconevrosi d’ansia, da una crisi di angoscia di natura fobica, soprattutto quando manca o non si puo` evidenziare l’evento temuto dal fobico, perche´ poco evidente. Questa diagnosi differenziale ha anche, come vedremo, implicazioni terapeutiche.

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I sintomi che invece possono trarre in inganno, e che pertanto richiedono un periodo di attesa, possono essere gli episodi di depersonalizzazione. Per questi ultimi, bisogna prendere in considerazione sia la possibilita` di un’epilessia (soprattutto quella temporale) sia l’insorgenza di uno stato psicotico.

7. Note di terapia ` evidente che un corretto intervento teraE peutico e` sempre legato ad una corretta diagnosi. Data l’ubiquitarieta`, la frequenza, il polimorfismo dei disturbi di ansia, questo assunto diventa piu` evidente ed imperativo. Evidentemente la prima cosa da definire e` la causa dell’ansia: se da disturbi organici o da situazioni conflittuali. Se l’ansia e` epifenomeno di disturbi organici, e` indispensabile tener presente che l’intervento terapeutico deve essere diretto alla causa organica: l’intervento sull’ansia puo` essere possibile, ma tenendo sempre conto che e` un intervento sintomatico e di pronto soccorso. Se pensiamo allo stato di ansia che puo` accompagnare un infarto del miocardio, e` evidente che solo dopo aver fatto correttamente questa diagnosi possiamo fare un intervento psicofarmacologico valido, che altrimenti rischierebbe solo di coprire e nascondere, pericolosamente, la sottostante sintomatologia. Nello specifico psichiatrico la terapia dell’ansia si fonda su due pilastri: la psicofarmacologia e la psicoterapia. L’intervento psicofarmacologico e` giustificato ed accettabile in tre condizioni: a)

in situazioni di grave crisi di angoscia: in questi casi bisogna pero` distinguere se si tratta di crisi acuta ansiosa o del cosiddetto attacco di panico che e` una manifestazione di carattere fobico. Nel primo caso puo` essere opportuna la somministrazione per via orale o parenterale di BDZ a rapido assorbimento ed a emivita lunga. Nel secondo caso le BDZ non sono molto efficaci ad eccezione dell’alprazolam (1-3 mg pro die); mentre ri-

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b)

c)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

sultano piu` efficaci gli IMAO o i farmaci antidepressivi triciclici (imipramina 75-100 mg., amitriptilina 15-40 mg. pro die); nelle situazioni ove l’ansia si manifesta con insonnia tenace. In questi casi, per brevi periodi, e` utile l’uso di ipnoinduttori (tipo Brotizolam 0,25-0,50 mg pro die); nelle situazioni ove il paziente chiede una terapia sintomatica, perche´ non vuole o non puo` affrontare la sottostante situazione conflittuale.

In questi casi l’intervento con BDZ deve sempre essere limitato nel tempo (da uno a tre mesi massimo) e sempre sostenuto comunque da una relazione psicologica di sostegno. In questi casi puo` essere consigliabile anche l’intervento con tecniche psicologiche di apprendimento quali ad esempio il T.A. o il bio-feedback, che possono dare risultati positivi, anche se transitori. In tutti gli altri casi la terapia di elezione rimane la psicoterapia ad orientamento analitico,

perche´ l’unica in grado di poter rimuovere le cause conflittuali dell’ansia.

Riferimenti bibliografici AA.VV., DSM-III-R. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1987. Gendrot J. A., Racamier P. C., «Ne´vroses d’angoisse», EMC Psychiatrie, 37330, Paris, 1955. Hoch P.H., Zubin J., L’angoisse, Grune et Stratton, New York, 1950. Laughlin H. P., Le nevrosi nella pratica clinica, Giunti, Firenze, 1967. Lalli N., Le psiconevrosi: fenomenologia e psicodinamica, Euroma, La Goliardica, Roma, 1988. Obermdorff C. P., «Le role de l’angoisse dans la de´personnalisation», International Journal of PsychoAnalysis, 31, 1950. Portnoy I., «Gli stati d’angoscia», in Arieti S., Manuale di Psichiatria I, Boringhieri, Torino, 1969. Rycroft C., Dizionario critico della psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1970.

14 La psiconevrosi fobica Nicola Lalli Parole chiave fobia da situazione; fobia d’impulso; fobie infantili; equivalenti fobici; evitamento; reazione controfobica

Nella psiconevrosi fobica, piu` che nelle altre, e` necessario distinguere tra sintomo e struttura nevrotica. Il sintomo infatti puo` essere presente dalla patologia mentale piu` grave fino a situazioni ai limiti della norma. Pertanto bisognera` definire qual e` la struttura di base della fobia: che si basa

sul tipo di impulso, sulla modalita` difensiva e sulla distanza tra l’oggetto fobico e l’Io. Elementi che permettono quindi di definire qual e` la psicodinamica della fobia. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Fobia, come numerose altre denominazioni psichiatriche, deriva dal greco (phe´bomai) e con il tempo ha assunto il significato di timore-paura. In effetti la radice greca indica qualcosa di piu` e forse l’etimologia si avvicina maggiormente all’evento psichico definito fobia. Infatti phe´bomai vuol dire ‘‘fuggo atterrito, mi spavento’’ e questo indica lo stato d’animo rispetto all’emergenza di un qualche avvenimento inaspettato, spesso di origine divina: in genere la comparsa del dio Febo (quindi della luce). Ma con il tempo ha assunto il significato semplicemente di timorepaura. Siccome il timore e` l’esperienza piu` comune per l’uomo, questo spiega perche´ la specificita` della psicopatologia fobica si e` sviluppata molto tardivamente rispetto ad altre patologie. Infatti nella prima meta` dell’Ottocento le fobie, insieme alle ossessioni, facevano parte di un quadro piu` vasto che era quello della ‘‘monomania’’ (Esquirol) o di ‘‘mania senza delirio’’ (Pinel). Ma ben presto si comincio` a notare l’importanza e soprattutto la differenza del fattore emotivo e/o intellettuale nelle fobie e nelle ossessioni; pertanto si comincio` a delineare una tendenza ad isolare un quadro clinico piu` preciso. Agli inizi si cominciarono ad isolare varie forme di fobia a seconda del sintomo dominante. Dapprima fu descritta l’agorafobia, poi la claustrofobia e l’ereutofobia. Poi improvvisamente ci fu un pullulare di sintomi sempre piu` strani, ai quali venivano dati nomi altrettanto strani. Divento` una specie di gioco, ove il saccheggio delle radici greche divenne frenetico. Giustamente S. Freud, criticando un lavoro di Stanley Hall, che enumerava ben 132 diverse fobie, affermava che «sembrerebbe l’enumerazione delle dieci piaghe d’Egitto, se non fosse che il loro numero e` di gran lunga superiore». Il primo serio tentativo di cominciare a dare un ordine a questo frantumarsi della nozione di fobia nasce ponendosi il problema di quanto il disturbo sia di natura affettiva o intellettiva. Si comincia cosı` a delineare un primo approccio piu` scientifico che portera` necessariamente ad una separazione tra fobie (di origine affettiva) ed ossessioni (di origine intellettiva). Nel 1902 Pitres e Regis propongono una prima classificazione. Suc-

cessivamente il Regis nel 1923, pur sostenendo che «esse sono tanto molteplici e svariate, quanto lo sono gli oggetti esistenti», propone una classificazione che puo` essere, sul piano fenomenologico, ancora accettabile. 1)

2) 3)

4)

5)

Fobie degli oggetti e degli atti. Le prime riguardano tutta una serie di oggetti con i quali il paziente convive e che sono fonte di timore-angoscia. Questa fobia puo` svilupparsi nei riguardi dei coltelli, degli spilli, del vetro, dello sporco e dei microbi. Le fobie degli atti, denominate anche ‘‘d’impulso’’, sono molto penose. Possono riguardare la paura di uccidere, di commettere atti scandalosi, di gettarsi nel vuoto o farsi del male. Fobie dei luoghi: di quelli chiusi, di quelli aperti, dei precipizi, dell’altezza. Fobie degli elementi: del fuoco, delle correnti d’aria, dei fulmini, dei temporali, della notte, del buio. Delle malattie o anomale conformazioni del corpo. Dalla nosofobia alla dismorfofobia (paura di avere una anomalia del corpo) fino ad una paura molto singolare quale l’ereutofobia. Fobie per gli esseri viventi. Esse vanno dalle zoofobie (e qui ogni animale dal piu` piccolo al piu` grande puo` essere fonte di paura), alle antropofobie che riguardano paura verso il sesso femminile o maschile e la paura nei confronti della folla.

Questo tentativo del Regis e` senz’altro, almeno storicamente, valido. Ma come si vede, diventa un’arida elencazione di nomi e situazioni senza alcun tentativo di darne una spiegazione. P. Janet, con il concetto di psicoastenia, tenta di trovare una spiegazione. La mancanza di energia psichica e del sentimento del reale porta ad una dissociazione delle funzioni, per cui puo` aumentare o l’attivita` intellettiva (che porta alla ruminazione mentale e quindi all’ossessione) o quella emotiva (che porta allo sviluppo di angosce sistematizzate, concernenti un oggetto o una situazione e quindi alle fobie). P. Janet dice che la fobia sta alla psicoastenia come la paralisi all’isteria.

La psiconevrosi fobica

Ma il primo vero tentativo di dare una spiegazione alle fobie anziche´ accontentarsi di elencarle e` di S. Freud. Dapprima egli nel 1895 separa le fobie dalle ossessioni e successivamente, nel 1905, con il caso del piccolo Hans, propone una spiegazione psicodinamica della fobia. Successivi studi, psicoanalitici e non, cercheranno di dare una forma ed una definizione ad una patologia ubiquitaria e sfuggente, perche´, come dicevo, essa e` spesso presente in varie sintomatologie, ma puo` essere presente anche in alcune fasi normali dello sviluppo (fobie infantili) ed infine perche´ il timore e l’ansia sono abbastanza costitutivi nell’uomo e quindi facilmente riscontrabili. Quindi e` necessario cercare di descrivere non tanto le differenze, quanto piuttosto i punti unificanti sul piano della sintomatologia, soprattutto per cercare una possibile spiegazione della sintomatologia stessa1.

2. Sintomatologia Numerose sono state, e continuano ad essere, le classificazioni delle fobie. Preferisco seguire uno schema che le raggruppa sulla base di un sistema fenomenologico e psicodinamico insieme. Infatti distinguero` le fobie in tre grandi gruppi: a) b) c)

fobie da situazioni, da animali o da oggetti; fobie d’impulso; fobie riguardanti il proprio corpo.

Questa distinzione mi sembra importante, non solo perche´ le raggruppa in base a criteri di analogia, ma anche perche´ tiene conto di meccanismi psicodinamici; soprattutto quello proposto da E. Glover, ovvero la distanza dell’oggetto fobico dall’Io. Nel senso che nella prima categoria la fobia riguarda lo spazio esterno al paziente: che puo` andare da luoghi molto lontani e quindi evitabili, a spazi invece vicini e quotidiani per il paziente, il che rende piu` improbabile il meccanismo di evitamento. Nelle fobie d’impulso e in quelle riguardanti il proprio corpo l’oggetto fo-

1

Gli AA. del paragrafo 1 sono tratti da Lalli N,. 1988.

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bico invece appartiene allo spazio somatico (ereutofobia — dismorfofobia) o proprio all’interno del soggetto (fobie di poter impazzire, di poter fare del male ecc.).

2.1. Fobie da situazioni, da animali o da oggetti Prendiamo in considerazione solo alcune forme e le piu` frequenti. ` caratterizzata da una crisi di L’agorafobia. E angoscia che prende il paziente allorche´ si trova in spazi ampi e senza possibilita` di riparo o di appoggio. L’esempio classico e` la piazza, ma anche altre situazioni possono provocare delle crisi: una strada, un balcone, un ponte, un salone ampio. Non e` molto significativo il luogo, quanto piuttosto l’essere e il sentirsi soli ed abbandonati senza alcun punto di riferimento. La crisi, spesso preceduta da piccoli disturbi gia` insorti in situazioni del genere, scoppia all’improvviso. Il paziente ha una classica crisi di angoscia con tutto il corteo sintomatologico somatico: sudorazione profusa, tachicardia, tremori, timore di morte, mancanza d’aria, vertigini, fino a sensazione di morte. La crisi puo` durare da qualche minuto a qualche ora: ed il paziente e` talmente terrorizzato dall’idea di poter riavere una crisi simile che subito dopo mette in atto quello che e` il piu` classico dei meccanismi difensivi del fobico: l’evitamento. Oppure, nella migliore delle ipotesi, il paziente puo` ritentare, solo se accompagnato. Quindi, comunque egli oscillera` tra l’evitamento o la dipendenza da una persona, o a volte da un oggetto rassicurante (a volte puo` essere un cane, un bastone ecc.). Questi due meccanismi permettono all’agorafobico di poter mantenere un discreto equilibrio, ma in genere egli tende, in una escalation di misure protettive, a restringere sempre piu` il suo spazio esterno, fino a ridurlo spesso ad un perimetro ben preciso, che non puo` essere oltrepassato. Entro questo perimetro e` quasi sempre compresa o la propria abitazione o un ospedale, o comunque un luogo che sia rassicurante. A volte l’uso dell’auto puo` dare al paziente una possibilita` di movimento maggiore, ma che difficilmente esce dai confini della citta` dove abita.

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Lo spazio del fobico sembra colorarsi di toni magici e sacrali: si crea un perimetro che non e` possibile oltrepassare, perche´ al di la` c’e` la minaccia e il pericolo. La claustrofobia. Sembra rappresentare l’opposto dell’agorafobia. Il paziente vive nell’angoscia di potersi trovare in un luogo chiuso, da cui non poter uscire. Il massimo di questa angoscia si esprime con il timore di poter essere sepolto vivo. Il paziente ha bisogno di poter uscire in qualsiasi momento: non tollera che siano chiuse le finestre e soprattutto le porte della stanza dove si trova. In genere questo disturbo non e` mai cosı` acuto, nel senso che questa tendenza claustrofobica si manifesta dapprima con piccoli segni e tende poi sempre piu` ad evidenziarsi ed aggravarsi, sia per la frequenza che per il numero delle situazioni scatenanti. Anche in questo caso il paziente ricorre al meccanismo di evitamento o ad avere un oggetto rassicurante vicino a se´: comunque e` fondamentale non rimanere isolato, intrappolato. Il paziente descrive il vissuto di sentirsi come in un tunnel buio, in un vicolo cieco, in cui non puo` andare avanti, ne´ tornare indietro. A meta` strada tra l’agorafobia e la claustrofobia si pone la fobia per i mezzi di trasporto, che interessa i soggetti che hanno paura sia di allontanarsi da oggetti rassicuranti, sia di potersi trovare in ambienti chiusi. La classica fobia dell’areo non e` infatti la paura che l’areo possa precipitare, bensı` la paura che, una volta chiusi dentro, il paziente venga colto da una crisi di angoscia claustrofobica. Ed in questo caso si evidenzia chiaramente il motivo fondamentale: la paura di essere in balia degli altri, l’angoscia di non poter disporre di se´ stesso. Fobie per gli animali. Possono essere varie ed hanno due caratteristiche che denotano anche una maggiore o minore capacita` di movimento del paziente. In genere la fobia per animali grandi o comunque rari (leoni, serpenti, ecc.) esprime un meccanismo di evitamento piu` valido. Nel senso che l’incontro con questi animali e` piu` raro e piu` evitabile, ed al paziente rimane una buona capacita` di movimento. In genere, invece, la paura per animali piccoli indica una maggiore gravita` del sintomo. Questo per il semplice motivo che animali piccoli (come

blatte, vespe, ragni, ecc.), sono piu` facilmente rinvenibili nello spazio domestico e quindi piu` facile e` l’emergenza dell’angoscia. La paura per i microbi e` ormai al limite con la fobia per lo sporco e per quella di infettarsi, disturbo che e` gia` da ascriversi al capitolo riguardante le fobie per il proprio corpo.

2.2. Fobie d’impulso Rappresentano manifestazioni estremamente importanti, sia per la complessita` e gravita` della sintomatologia, sia perche´ dimostrano un meccanismo psicodinamico piu` chiaro ed evidente, sia perche´ sono i disturbi che piu` facilmente insorgono come equivalenti depressivi, sia perche´ riguardano una dinamica che si avvicina molto a quella della psiconevrosi ossessiva. Ci sono due forme paradigmatiche. La prima e` la fobia del vuoto: il paziente trovandosi in un luogo alto (una finestra, un ponte, una cima di montagna) sente improvvisamente il desiderio di potersi buttare giu`. In questo caso quindi cio` che angoscia non e` un timore generico, quanto il timore di poter avere un desiderio riconosciuto come distruttivo e pericoloso. La seconda si presenta con manifestazioni diverse: come quella di poter avere un comportamento sconveniente (bestemmiare, denudarsi in luogo pubblico) e condannabile; l’altra e` quella di poter mettere in atto comportamenti gravemente lesivi nei confronti dei familiari e conoscenti. Questa sintomatologia e` frequente in puerpere nei confronti dei loro figli, soprattutto nei primi mesi di vita. Il che e` collegato sicuramente con una forte ambivalenza, il cui polo negativo e` legato alla mancanza di liberta` ed al peso per gli impegni nell’accudimento del bambino. Anche in questo caso il fobico cerchera` di mettere in atto quelle che sono le classiche difese: l’evitamento o la presenza di un alter-ego rassicurante. Ma in questa forma che esplicita, piu` che in ogni altra, l’evidenza del conflitto tra angoscia e desiderio viene fuori anche un altro meccanismo difensivo: la reazione controfobica. Essa non e`, come vedremo, esclusiva di questa fobia. Si manifesta come tendenza a mimare il passaggio all’atto con chiari segni di tipo ossessivo, cioe` fare e

La psiconevrosi fobica

disfare. Infatti spesso il paziente tende ad eseguire un breve cerimoniale (come per esempio far finta di stringere il collo del bambino) per tamponare temporaneamente l’emergenza dell’impulso e quindi dell’angoscia.

2.3. Fobie per il proprio corpo In questo caso l’oggetto fobico e` molto vicino all’Io e quindi le possibilita` di evitamento sono minori. In questi casi possiamo notare delle forme di passaggio dalla fobia all’ipocondria fino ` evidente che ancora alla psiconevrosi ossessiva. E una volta il sintomo, isolato dal contesto generale della personalita`, ha poco senso; un sintomo fobico e` ubiquitario ed e` rinvenibile in tutta la patologia psichica. Le forme piu` interessanti e frequenti sono l’ereutofobia e la nosofobia. L’ereutofobia. Consiste nel timore di poter ` evidente che, a differenza di arrossire in volto. E altre sintomatologie fobiche, essa ha bisogno di un pubblico o per lo meno dell’Altro perche´ ` una fobia che in genere inpossa scatenarsi. E sorge nella puberta`, e a volte con il passare del tempo puo` diminuire o essere meglio controllata. A volte invece tende ad aumentare al punto tale che il paziente e` bloccato in tutti i rapporti sociali. La paura di arrossire e` sempre collegata al timore di essere scoperto in qualcosa di vergognoso: non ci si puo` difendere dallo sguardo indagatore dell’altro. Spesso essa e` scatenata dalla vergogna per comportamenti ritenuti disdicevoli (come la masturbazione, il dire menzogne ecc.) e soprattutto dal timore di poter essere traditi e scoperti dal rossore come segno di autoaccusa. A volte questa sintomatologia puo` assumere un colorito di tipo paranoicale. Molto simile alla ereutofobia e` la dismorfofobia. Ovverosia il timore di avere segni somatici sgradevoli: come la conformazione del viso, del naso o di altre parti del corpo. Questo sintomo e` spesso pero` un segno prodromico di disturbi piu` gravi, di tipo psicotico. La nosofobia. Consiste nel timore irrazionale di poter prendere una malattia: a volte si complica con la fobia dello sporco o dei microbi,

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ovverosia delle possibilita` di infettarsi. Anche in questo caso possiamo essere al limite della psiconevrosi fobica: approfondendo l’esame psicopatologico possiamo riscontrare che queste sintomatologie appartengono infatti a quadri ipocondriaci o ossessivi. Comunque il dato distintivo rimane che la fobia e` collegata alla paura di prendere una malattia, non gia` all’angoscia di averla (perche´ in questo caso saremmo sul terreno di una struttura ipocondriaca). Da questi brevi cenni emergono i seguenti dati significativi. La psiconevrosi fobica e` caratterizzata da: angoscia per un desiderio pericoloso, tendenza a restringere il proprio spazio attraverso il meccanismo di evitamento, difficolta` nel rapporto con gli altri, dipendenza da un oggetto rassicurante. Questo sul piano psicodinamico. Se osserviamo la fenomenologia, su di un piano nosografico vediamo che la psiconevrosi fobica si situa tra quella ansiosa e quella isterica. In comune con la prima ha l’emergenza di crisi acute e un vissuto riguardante i grandi temi dell’uomo: la morte, la malattia, la solitudine. Della seconda ha la possibilita` di mettere in atto meccanismi difensivi contro l’angoscia come l’evitamento, che somiglia alla conversione; ed inoltre la tendenza alla formazione reattiva come la reazione controfobica, che sta alla fobia come la personalita` isterica sta all’isteria. Ma credo che sia opportuno accennare ad un’altra possibilita` di classificazione. Essa si basa sulle varie eta` di insorgenza, e seguendo E. Glover possiamo riconoscere: a)

le fobie infantili: alcuni AA. (J. Mallet, A. Spitz) ritengono che esistano specifiche e fisiologiche fobie nei primi mesi di vita. Come la fobia dell’estraneo (8o mese) o la fobia del buio (20o mese circa). In realta`, un bambino con normale sviluppo psichico non ha fobie. In questo senso ha ragione S. Freud quando afferma: «io sono sicuro che qualunque nevrosi sopravvenga in un adulto, essa si impianta sulla base di una nevrosi infantile... Scopriamo che di regola la nevrosi e` direttamente collegata ad una angoscia infantile di cui in effetti e` la continuazione».

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b)

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Quindi non dobbiamo tanto parlare di fobia fisiologica, quanto piuttosto del fatto che spesso (il che non vuol dire normalmente) il bambino puo` presentare delle fobie che sono abbastanza transitorie. Frequenti le fobie per grandi o piccoli animali, fobia per il buio, fino alla fobia per la scuola che e` l’espressione di una difficolta` a socializzare e a staccarsi dall’ambito familiare. Quest’ultima puo` essere spesso la prima, a volte unica, manifestazione fobica infantile, che poi assumera` caratteri diversi nell’adulto. Comunque in linea di massima possiamo dire che le fobie infantili tendono a scomparire. A volte tendono a riapparire, molto piu` tardi, in eta` di adolescenziale o in eta` adulta; le fobie dell’eta` senile: esse possono comparire improvvisamente in persone abbastanza anziane e senza precedenti anamnestici di tipo nevrotico. In questo caso, molto facilmente si tratta di fobie di impulso che rappresentano degli equivalenti depressivi. Cioe` al posto di una depressione (a volte endogena, a volte reattiva) compaiono, accanto a sintomi larvati di depressione, manifestazioni di tipo fobico. Questo dato puo` essere importante su un piano diagnostico e prognostico. Mentre il contenuto della fobia puo` essere utile per evidenziare la struttura psicologica del paziente e soprattutto le tematiche nascoste.

3. Il carattere fobico Nella descrizione del carattere fobico possiamo tener presente che esso si situa a meta` strada tra quello ansioso e quello isterico. Ha aspetti comuni all’uno e all’altro, ma ha anche delle peculiarita` che hanno fatto sı` che S. Freud, anche se con motivi diversi, ha separato questa sintomatologia delle ossessioni e ne ha fatta una sindrome a parte: l’isteria d’angoscia. Per vari motivi fenomenologici e psicodinamici credo che nonostante tutto sia utile, ancora oggi, mantenere la vecchia distinzione tra fobico e ossessivo e mantenere alla fobia, nella sua strutturazione psicopatologica ben precisa, lo statuto

di una organizzazione nevrotica distinta e singolare. Possiamo dire che il carattere fobico ha in comune con quello ansioso una netta prevalenza degli aspetti emotivi su quelli intellettivi. Sono soggetti facilmente emozionabili, con una labilita` che a volte puo` avere riscontri semeiologici obbiettivi anche a carico dello SNC. Inoltre, come l’ansioso, il fobico ha in comune la riflessione e la sofferenza sui grandi temi dell’uomo. Se indaghiamo a fondo dietro i sintomi dell’ansioso e del fobico, facilmente troviamo il tema della malattia, della morte, della solitudine. Certo queste tematiche non sono appannaggio esclusivo del fobico e dell’ansioso, ma certamente sono piu` evidenti, meno rimosse rispetto ad altre strutture caratteriali. Quindi il carattere fobico e` spesso caratterizzato da una tendenza all’emotivita` ed all’introspezione. Ma forse il dato piu` caratteristico e` la scarsa tendenza (o per meglio dire la paura) ad esplorare. Questa tendenza, che e` caratteristica nel bambino quanto piu` e` sicuro della presenza dell’A.S. e quanto meno e` stato frustrato, e` molto ridotta nel carattere fobico. Il fobico ha paura dello spazio aperto che lo porterebbe ad esplorare, ma anche di allontanarsi dall’oggetto rassicurante. Ed e` questa dinamica che, una volta diventata sintomo, si esplicitera` come agorafobia. Ma il fobico, proprio perche´ poco autonomo, ha un grande bisogno di dipendenza, che lo porta ad un vissuto fortemente ambivalente nei confronti dell’oggetto. La paura dello spazio lo porta a restringersi in un perimetro che puo` diventare soffocante. Di qui l’altro sintomo-chiave della fobia: la claustrofobia. Quindi il carattere fobico sembra oscillare tra una improbabile autonomia ed una soffocante dipendenza. La paura del nuovo, dello sconosciuto, oltre ad alimentare un grande bisogno di sicurezza, si esplicita anche attraverso la difficolta` a socializzare. La fobia della scuola puo` essere un primo sintomo infantile, che puo` proseguire nell’adolescenza con l’ereutofobia. Ma nel carattere fobico si evidenziano alcuni tratti che spesso sono sottovalutati. Un aspetto e` una certa tendenza esplicita a manifestare aggressivita`, che spesso e` una reazione alle difficolta` e alla tendenza alla chiusura. E non e` raro trovare

La psiconevrosi fobica

un carattere fobico in persone che, dopo aver isolato un loro campo specifico, riescono all’interno di questo ad esprimere una notevole dose di rabbia ed ostilita`. Sembra strano, ma nel carattere fobico sono presenti spesso segni di aggressivita` anche abba` questa aggressivita` che, una stanza evidenti. E volta diventata sintomo, da` luogo alla fobia di impulso: ovverosia, l’aggressivita`, ulteriormente degradata a pura ostilita`, fa temere al fobico una eventuale esplosione. L’angoscia nasce dal timore di non poter contenere l’ostilita`. E sempre a partire dalle fobie d’impulso possiamo notare un altro tratto significativo del carattere fobico: il desiderio, ridotto a puro desiderio cieco, viene temuto perche´ non controllabile. Si ha paura per esempio di avere il desiderio di defenestrarsi. Il desiderio si colora di minaccia e di pericolo. Il desiderio del volo (ovverosia della liberta`, del rompere i legami) viene sentito come pericolo mortale. Il volo, la liberta`, coinciderebbero con la morte. Di qui la tendenza difensiva del fobico a bloccarsi (meccanismo dell’evitamento), al restringimento dello spazio, al bisogno continuo di un oggetto rassicurante. Ma se tutto questo gia` segnala una ulteriore messa in atto di meccanismi difensivi, e quindi del costituirsi di una struttura nevrotica, dobbiamo tener presente che il carattere fobico tende alla vertigine, alla trasgressione, alla messa in atto del desiderio cieco. E questo lo possiamo vedere piu` chiaramente, a patologia gia` conclamata, in alcune manifestazioni fobiche ove il timore e` quello di essere trasgressivi (imprecare in chiesa, spogliarsi in luoghi pubblici), fino alla costituzione di un meccanismo molto singolare di cui parleremo tra poco, che e` la reazione controfobica. Ovverosia la trasposizione (o per meglio dire) la deformazione di una paura, cioe` di un impedimento, in una situazione continua di messa in atto. L’esempio piu` banale e` quello del soggetto che, avendo la fobia del vuoto, diventa paracadutista.

4. La psicodinamica La fobia si situa tra la psiconevrosi ansiosa e quella isterica, avendo dell’una e dell’altra alcuni

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punti in comune. L’oggetto o la situazione fobica suscita angoscia o disgusto, ma a volte anche desiderio. E questo succede nella fobia d’impulso, dove la paura e il desiderio emergono insieme. Nel fobico c’e` la tendenza alla vertigine, alla trasgressione, ma anche la paura della ritorsione e della minaccia: nella fobia d’impulso il desiderio si vela di minaccia e di pericolo. Si desidera il volo, la liberta`; ma si sa che il volo e` un suicidio. Di qui il blocco, il restringimento dello spazio, il bisogno di un oggetto rassicurante. Per la diversita` e per l’ubiquitarieta` del sintomo fobico e` evidente che ci deve essere una dinamica basilare, che cercheremo di descrivere seguendo R.D. Fairbairn (1970). Il problema del fobico e` collegato alla tendenza al separarsi dall’oggetto e la paura di perderlo, oscilla tra il desiderio di rimanere in una situazione infantile e il timore della reinfetazione. Il grande conflitto dello stadio di transizione puo` essere ora formulato come un conflitto tra la spinta progressiva ad abbandonare l’atteggiamento infantile d’identificazione con l’oggetto ed una spinta regressiva di conservare quell’atteggiamento. Durante questo periodo, di conseguenza, il comportamento dell’individuo e` caratterizzato sia da sforzi disperati, da parte sua, per separarsi dall’oggetto, sia da sforzi disperati per ottenere la riunione con l’oggetto: tentativo disperato per ‘‘scappare dalla prigione’’, e tentativi disperati di ‘‘tornare a casa’’. L’angoscia che accompagna la separazione si manifesta come una paura della solitudine, l’angoscia che accompagna l’identificazione si manifesta con una paura di essere rinchiuso, imprigionato, inghiottito (confinato, chiuso in una stanza e limitato). Queste angosce sono essenzialmente angosce fobiche. Si puo` quindi dedurre che e` nel conflitto tra l’impulso progressivo alla separazione dall’oggetto e l’allettamento regressivo dell’identificazione con l’oggetto che abbiamo la spiegazione dello stato fobico.

E questo e` molto vero. Comunque un dato importante e paradigmatico della fobia e` la tendenza a spostare (meccanismo difensivo dello spostamento) la parte negativa del conflitto. Sull’oggetto esterno si sposta la propria rabbia ed ostilita`, anche se l’oggetto esterno rappresenta parte dell’oggetto libidico. In questo senso strana-

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mente, per quanto possa essere marcata la defusione degli istinti, l’oggetto fobico, proprio nell’essere attentamente evitato, evidenzia la pericolosita`, ma al tempo stesso l’attrazione ed il desiderio. Una ragazza si sente frustrata dal ragazzo verso il quale nutre un profondo affetto: c’e` un periodo di incomprensione e di vissuto di abbandono. Una sera, incontrandosi dopo un periodo di separazione, improvvisamente la ragazza comincia ad essere spaventata da una farfalla che le si avvicina, esprimendo una intensa paura di tipo ` evidente che la farfalla e` l’espressione fobico. E della rabbia nei confronti del partner, spostata sulla farfalla che in quel momento simboleggiava il timore che il ragazzo volasse via e l’abbando` in genere l’aggressivita`-ostilita` che viene nasse. E spostata su un oggetto o situazione esterna. E possiamo dire che quanto maggiore e` la distanza tra l’Io e l’oggetto, tanto piu` e` riuscita la difesa che evita l’ansia. In questo, il fobico presenta somiglianze con l’isterico che utilizza simbolicamente il proprio spazio corporeo con un meccanismo di conversione. Nel fobico possiamo dire che questo meccanismo inizia in maniera analoga, solo che l’oggetto e` spostato nello spazio esterno e quindi sufficientemente allontanato. E questo spostamento permette l’utilizzazione di un altro meccanismo tipico delle fobie, che e` l’evitamento. Quanto piu` l’oggetto appartiene allo spazio domestico o al corpo del paziente, tanto meno la difesa e` efficace e tanto piu` questo segnala il passaggio verso forme di tipo ossessivo. Ma un altro punto caratteristico della fobia e` la tendenza reattiva: e` la reazione controfobica. Anziche´ temere si affronta continuamente la situazione o l’oggetto temuto: ma il tutto e` gestito in modo compulsivo. Oltre questo, il fobico ha un altro sistema per cercare di tamponare l’angoscia: e` quello di avere un oggetto rassicurante. Puo` essere un oggetto materiale o una persona: comunque spesso l’importanza attribuita all’oggetto e` sproporzionata. Colpisce per esempio il fatto che alcuni fobici, che presentano agorafobia o nosofobia, possano essere rassicurati dalla presenza di un bambino anche molto piccolo, che evidentemente non puo` essere di alcun aiuto, nel caso che il paziente sia preso dall’angoscia.

5. Casi clinici

5.1. Giovane di 30 anni, con cultura universitaria, presenta da alcuni mesi una sindrome consistente in attacchi di angoscia quando si trova in luoghi chiusi: questo soprattutto sul posto di lavoro, dal quale ha dovuto allontanarsi da qualche settimana. Viene accompagnato dal suocero che rappresenta una sorta di alter ego. Riferisce di soffrire da vari anni di attacchi di angoscia che lo prendono a volte in luoghi chiusi, a volte in mezzo alla folla, oppure in spazi ampi e non delimitati. Gira avendo degli ansiolitici in tasca: non li usa, ma lo tranquillizzano. Dopo aver invitato il suocero ad uscire per poter parlare da solo con il paziente, questi viene colto da una crisi di angoscia di tipo claustrofobico. Vuole uscire, vuole andare via. Con calma, ma con fermezza lo invito a restare, facendogli presente che si e` angosciato a causa dell’allontanamento del suocero, ma che proprio questa crisi puo` essere utile per capire meglio la sua sintomatologia. Il paziente e` terzogenito dopo due sorelle piu` grandi di sette e dieci anni. Poi e` nato un fratello morto a tre anni. La madre viene descritta come una donna dolce, comprensiva, affettuosa. Il padre come una persona autoritaria, rigida e abbastanza assente. Il paziente riferisce una infanzia vissuta in modo solitario: non riusciva a legare con gli amici, mentre sentiva le sorelle coalizzate contro di lui. Per cui la madre era l’A.S. in tutti i sensi. Un ricordo importante all’eta` di 8 anni. Da qualche tempo il paziente vedeva la madre triste e piangente; frequenti litigi fra i genitori: durante una discussione il paziente apprende che il padre ha una relazione. Il paziente prova una rabbia intensa, omicida: «mi venne il sangue agli occhi», e a pugni chiusi si scaglia contro il padre. Ma di colpo si sente come paralizzato in tutto il corpo: e` invaso da uno strano, intenso senso di vergogna e di confusione. L’immagine persistente di se´ adolescente e` quella di un ragazzo che dietro le sbarre del bal-

La psiconevrosi fobica

cone guarda gli amici giocare: e lui non puo` andarci perche´ il padre lo avrebbe sgridato. Un altro episodio importante avviene intorno ai 20 anni. Si era fidanzato da qualche mese, e con la sua ragazza si reca dal dentista per l’estrazione di un molare: ad un certo punto, dopo l’anestesia, il paziente perde i sensi. Si ritrova steso sul lettino medico, mentre il marito della dentista, chiamato in aiuto, lo prende a schiaffi. Anche allora il paziente prova un acuto senso di vergogna e di confusione, con in piu` una rabbia molto forte. Poco dopo compare una sintomatologia di tipo fobico: paura di affrontare gli esami. Deve spesso ricorrere a vari artifici per poterli sostenere, mentre durante il periodo di vacanza si sente in perfetta forma. In quel periodo comincia ad andare a caccia, a giocare a scacchi in maniera quasi compulsiva. Poco dopo la nascita di un figlio, compaiono una serie di fobie che lo portano a farsi visitare da uno specialista che gli consiglia degli ansiolitici. Con questo oggetto rassicurante (che utilizza raramente) riesce ad andare avanti fino a qualche mese fa quando, dopo una lite con il direttore, ` comincia a provare una intensa claustrofobia. E evidente in questo caso la presenza di una ostilita` fortemente repressa nei confronti di una figura paterna, contro la quale ha cercato di reagire, sentendosi pero` bloccato e paralizzato. Questa dinamica si ripetera`, anche se con persone diverse, nella vita del paziente e costituira` sempre per lui un motivo traumatico che scatenera` la comparsa di chiari sintomi fobici. Al di fuori delle crisi, il paziente mantiene una situazione di carattere fobico, nel quale prevale una scarsa tendenza all’esplorazione ed alla autonomia. Una forte dipendenza da una figura rassicurante (prima la madre, poi il suocero) una forte ostilita` repressa. Questi caratteri hanno trovato una parziale formazione reattiva nell’andare a caccia (affrontare lo spazio aperto, ma armato) e nel gioco degli scacchi che diventa una possibilita`, ritualizzata, di esprimere la sua ostilita`-competitivita`. Nel procedere della psicoterapia, si assiste ad una serie di cambiamenti. I sintomi fobici scompaiono rapidamente e senza particolare intervento da parte del terapeuta, (il che dimostra come la scomparsa dei sintomi possa essere le-

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gata a fatti molto aspecifici). Per un lungo periodo di tempo il paziente, pur essendo molto scrupoloso ed attento, evita qualsiasi coinvolgimento affettivo e tende a mantenere una certa ‘‘distanza’’ dal terapeuta. Ritiene utile fare la psicoterapia, comprendere le sue dinamiche, ma potrebbe anche farne a meno. Ad un certo punto il paziente salta, senza preavviso, due sedute. Al ritorno porta un sogno: «Un uccello molto grande, forse un rapace. Sparo molti colpi, ma i proiettili non hanno efficacia. L’uccello diventa sempre piu` grande fino a schiacciarmi». La sua ostilita` repressa e` proiettata sul terapeuta: il paziente tenta di uccidere il terapeuta, uccello che lo soffoca, ma i suoi colpi sono ` quello che ha vissuto e cercato di inefficaci. E mettere in atto con l’assenza: compiere una trasgressione, aggredire il terapeuta, temendo pero` la reazione ostile dello stesso. Questa interpretazione suscita per la prima volta una reazione emotiva nel paziente. Possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una situazione emotivacorrettiva che lo mette a contatto con la sua ostilita`, con la possibilita` di esprimerla (anche se simbolicamente), e soprattutto con il fatto di non trovarsi necessariamente di fronte ad una reazione ostile da parte dell’altro.

5.2. Donna di 23 anni viene per problemi collegati ad una frigidita` molto accentuata. Ma rapidamente emergono una serie di fobie. Ereutofobia che le impedisce di stare insieme con gli altri. Fobia del buio: a letto si copre fin sopra gli occhi. Figlia unica, si e` sentita sempre al centro del mondo. Racconta un episodio avvenuto all’eta` di 10 anni: uscita con la madre, ad un certo punto si era separata e, per sbaglio, aveva preso sottobraccio un’altra donna. Quando se ne accorge, prova una intensa angoscia di aver perduto la madre e un senso di vergogna. Descrive i genitori come una coppia simbiotica: in tutti questi anni non si sono mai separati. Lei vive intense angosce collegate alla separazione: per cui deve essere accompagnata sempre ovunque dal marito. Dopo qualche mese la paziente riesce a superare la fobia di

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essere abbandonata, quindi di perdersi e riesce a venire da sola. Man mano che le fobie tendono ad attenuarsi, compare il problema dell’assenza del desiderio sessuale e del desiderio in genere, nei confronti dell’altro. A questo punto la paziente, che ha parlato con molta franchezza delle sue problematiche sessuali che rappresentano una vera fobia (angoscia per la penetrazione vissuta come pericolosa), accenna con molta difficolta` ad un problema. Dice che spesso sente, con angoscia, un impulso di abbracciare e baciare qualche ragazzo, soprattutto quando si trova in un locale pubblico. Da come viene descritto, questo sintomo ha tutti i segni di una fobia d’impulso. La paziente ha paura di desiderare qualcosa. E poco dopo la paziente riferisce un sogno molto significativo. «Mi trovo a casa. Fuori ci sono dei cani grandi e molto minacciosi: sono terrorizzata. Corro a chiudere tutte le finestre. Ad un certo punto mi accorgo che un cane e` entrato. Si e` messo vicino al letto e dorme, poi salta sul letto e diventa un cucciolo con una zampa ferita». Questo sogno e` legato ad un periodo di separazione ` evidente che di fronte alla situazione in terapia. E di essere lasciata fuori (cioe` sentirsi sola e abbandonata) lei diventa rabbiosa e furiosa: e la sua rabbia e` proiettata sui cani. Ma una volta che raggiunge l’oggetto e la possibilita` del desiderio (entrare in casa) la sua rabbia si acquieta, ma perde anche ogni interesse o desiderio: le basta il possesso dell’oggetto. Questo sogno esplicita chiaramente la dinamica della fobia di impulso: un desiderio misto ad intensa rabbia, ma allorquando questa si acquieta, il desiderio stesso scompare. La presenza dell’oggetto acquieta la rabbia, ma non suscita desiderio: il cane si addormenta. Recupera un minimo di desiderio allorche´ diventa cucciolo, ma ferito; espressione di una situazione di dipendenza infantile non risolta che la porta ad un vissuto di castrazione nel rapporto con l’adulto e soprattutto nella sessualita`.

6. Diagnosi differenziale Come dicevo, bisogna distinguere il sintomo fobico dalla struttura nevrotica fobica. Il primo e`

molto frequente in sindromi diverse: dalle piu` lievi alle piu` gravi. Sintomi fobici possono essere presenti nella psiconevrosi d’ansia, ma in genere sono sintomi labili: non hanno la fissita` e stabilita` che si riscontra nella nevrosi fobica. Il sintomo fobico come timore di una malattia puo` comparire anche nella ipocondria e nella psiconevrosi ossessiva. Mentre l’ipocondriaco ha la certezza di avere una malattia e l’ossessivo teme di poterla avere, invece il fobico teme di poterla prendere. Quindi nel fobico il sintomo non presenta l’attualita` e la certezza, ma e` spostato nel futuro e spesso e` usato quale razionalizzazione verso una paura piu` profonda che e` quella dell’intimita` e dei rapporti sociali. Ma nei confronti con la nevrosi ossessiva ci sono altri due momenti importanti differenziali: il fobico presenta meccanismi di evitamento e bisogno della presenza di un alter ego o di un oggetto rassicurante. Alcuni sintomi fobici, soprattutto la dismorfofobia, possono essere segni premonitori di un processo schizofrenico: il mutamento e la disgregazione psichica sono vissuti a livello somatico, come angoscia di un cambiamento pauroso, soprattutto del proprio viso. Una diagnosi differenziale importante e` da porre con gli equivalenti fobici dei depressi. A volte in soggetti anziani puo` comparire improvvisamente una sintomatologia fobica con il carattere di una fobia di impulso, senza precedenti anamnestici: in genere e` presente una velata sintomatologia depressiva. L’eta` avanzata, l’assenza di precedenti episodi di fobia, la presenza invece di precedenti fasi depressive aiutano a porre una corretta diagnosi.

7. Note di terapia Se si tratta di una psiconevrosi fobica, l’unica terapia e` la psicoterapia. Infatti l’uso degli psicofarmaci e` piuttosto pericoloso, perche´ il paziente tende a stabilire un legame di dipendenza ed a vivere il farmaco come oggetto rassicurante che a volte puo` non essere utilizzato, come e` evidente nel primo caso clinico. Il fatto che l’uso dello psicofarmaco non diventi un abuso non e` meno pericoloso: il paziente ten-

La psiconevrosi fobica

de infatti a chiudersi ancora di piu` nel suo mondo fobico, con lo psicofarmaco utilizzato come talismano. Discutibile e` l’uso di psicofarmaci nei casi di attacco di panico: se infatti il paziente comprende l’importanza di affrontare le sue problematiche ed accetta un lavoro di psicoterapia, in genere le crisi di angoscia tendono a scomparire (vedi caso clinico 5.1). Per quanto riguarda le modalita` psicoterapeutiche, e` da ritenere elettiva quella ad orientamento psicoanalitico. Comunque una indicazione puo` essere la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Se si tratta invece di equivalenti depressivi, puo` essere consigliabile una terapia con psicofarmaci: possono essere utilizzati sia gli IMAO che i triciclici. La scelta dipendera` da vari fattori, non ultimo la presenza di disturbi organici che possono condizionare l’uso degli psicofarmaci.

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15 La psiconevrosi depressiva (o distimia) Nicola Lalli Parole chiave melanconia; autostima; lutto; relazione narcisistica; distanziamento; suicidio; idealizzazione; astenia

La psiconevrosi depressiva o depressione nevrotica o distimia e` una sindrome molto frequente e polisintomatica che si situa tra la fobia, l’isteria e l’obesita` psicogena. In comune con la fobia ha il meccanismo difensivo del distanziamento, che e` molto simile a quello dell’evitamento. Dell’isteria rappresenta la piu` frequente, almeno negli ultimi decenni, manifestazione di conversione psichica. Con l’obesita` psicogena ha in comune la dipendenza e l’ambivalenza verso un oggetto rite-

nuto fondamentale perche´ fonte di autostima e di rassicurazione. In questo senso la psiconevrosi depressiva e` un esempio paradigmatico di come la psicopatologia, pur esprimendosi con diverse modalita` fenomeniche, ha dinamiche di base comuni. Continuita` che ritengo essere presente non solo tra le varie psiconevrosi, ma anche tra quella depressiva e la depressione endogena: essendo quest’ultima espressione di una variazione quantitativa e non qualitativa. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali La depressione — insieme all’ansia — rappresenta la manifestazione psicopatologica piu` frequente e piu` ubiquitaria. Le prime descrizioni di quadri depressivi si ritrovano nei papiri egizi, databili intorno al 3500 a.C., successivamente descrizioni — ancora attuali — le ritroviamo in autori greci e latini. Questo perche´ la depressione e` collegata strettamente ad esperienze umane molto frequenti: come quella della perdita, dell’abbandono, della solitudine. Se la descrizione della depressione e` antichissima, non altrettanto si puo` dire circa i tentativi di spiegazione. I primi piu` seri tentativi risalgono a K. Abraham e a S. Freud, che pongono in evidenza non solo l’importanza dell’oggetto per il depresso, ma soprattutto la dinamica ambivalente — cioe` la presenza di odio e amore contemporaneamente — nei confronti dell’oggetto stesso. K. Abraham afferma che nel depresso c’e` una predisposizione all’oralita`, conseguenza di una delusione infantile a livello orale che si puo` riattivare nella vita dell’adulto, per vissuti traumatici o di abbandono. S. Freud sottolinea la relazione tra lutto e melanconia (equivalente della depressione endogena) perche´ entrambi scatenati dalla perdita di un oggetto amato. Il lutto implica un ritiro delle cariche libidiche, precedentemente investite sull’oggetto ed una elaborazione della perdita che porta ad un superamento del lutto con la possibilita` di poter reinvestire le cariche libidiche su nuovi oggetti. Nella melanconia, invece, tutto questo non succede. Perche´ c’e` un legame fortemente ambivalente che fa sı` che il soggetto si senta colpevole della perdita dell’oggetto: non e` possibile quindi una elaborazione, e le capacita` libidiche del depresso tendono ad impoverirsi. Nel lutto e` il mondo che e` diventato vuoto e povero; nella malinconia e` invece l’Io stesso. Questa spiegazione verra` ampliata ed integrata successivamente da O. Fenichel e da S. Rado, che introducono l’importante concetto di autostima. Secondo questi autori, sono predisposti alla depressione quei soggetti che hanno intenso biso-

gno di essere approvati ed elogiati, avendo una autostima molto bassa che deve essere continuamente sostenuta e rinforzata da un oggetto o da una situazione esterna. Quindi non e` la perdita dell’oggetto amato, che provoca la depressione, ma la perdita di un oggetto investito e vissuto come fonte della propria autostima: in questo senso la perdita dell’oggetto corrisponde alla perdita della propria autostima. In questi soggetti — predisposti alla depressione — la relazione oggettuale ha funzioni essenzialmente narcisistiche; il depresso non ama l’oggetto in quanto tale, ma solo nella misura in cui tale oggetto e` fonte di autostima. Il che porta facilmente ad idealizzare l’oggetto: cioe` gli vengono attribuite doti di bonta`, di infallibilita`, di superiorita` che spesso non corrispondono alla realta` dell’oggetto. Nel caso in cui l’oggetto, che puo` essere una persona, un ideale, una entita` sociale, una ideologia, e della cui forza il soggetto aveva bisogno di sentirsi partecipe, scompaia oppure fallisca, per il soggetto e` come perdere la parte migliore di se´, e si trova cosı` esposto alle forze distruttive della propria rabbia ed ostilita`, che non sono piu` contenute ed arginate dalle valenze libidiche. Questi concetti fondamentali derivati dagli studi psicoanalitici rappresentano ancora oggi il modello piu` valido per la spiegazione della depressione. Comunque, tenendo presente che c’e` probabilmente una continuita` tra depressione nevrotica ed endogena, bisogna tener conto anche di eventuali lesioni biochimiche. Senza entrare nel merito (e rimando per questo a N. Lalli, 1989) ritengo che ci sia una struttura di fondo che e` il carattere depressivo che puo` dar luogo a due sintomatologie: quella nevrotica, quando il carattere si scompensa per fattori traumatici psicologici, e quella endogena, quando insorgono disturbi biochimici, derivanti da una alterazione dei neurotrasmettitori.

2. Sintomatologia Nella depressione nevrotica si intrecciano variamente due ordini di disturbi: quelli piu` stretta-

La psiconevrosi depressiva

mente psichici e quelli invece a prevalente estrinsecazione somatica. Spesso questi ultimi precedono l’instaurarsi della sintomatologia depressiva e possono essere scambiati per somatizzazioni ansiose. Ma ben presto sopraggiungono la tristezza, il pessimismo, l’irritabilita` che definiscono chiaramente il quadro depressivo. I disturbi somatici possono interessare tutti gli organi od apparati e si manifestano come disfunzione e come senso generale di malessere. Molto spesso vi e` una diffusa sensazione di astenia. Molto frequenti i disturbi a carico dell’apparato digerente con presenza di nausea, stipsi, quasi sempre disturbi dispeptici, pesantezza gastrica, dolori diffusi di tipo colitico. Sempre presenti sono i disturbi dell’appetito: con diminuzione fino ai quadri di tipo anoressico, alternati a volte con crisi bulimiche. Compromesso e` l’apparato respiratorio: sensazione di fame d’aria, affanno, tosse stizzosa. Molto frequenti i disturbi a carico della libido, che tende a diminuire, e soprattutto i disturbi a carico del sonno. Compare ben presto una insonnia che puo` essere di tipo ansioso: ovverosia con difficolta` all’addormentamento. A volte e` presente invece insonnia con risveglio precoce. Frequenti disturbi mestruali: spesso amenorrea che puo` protrarsi anche per alcuni mesi. Nell’uomo disturbi della minzione: come stranguria e/o pollachiuria. Ma rapidamente compare il quadro depressivo, caratterizzato da facile irritabilita` , diminuzione dell’interesse e del piacere di vivere, da una spiccata tendenza al pessimismo che vela tutto di catastrofico. Soprattutto i disturbi somatici sono vissuti come segno di una qualche malattia grave e forse incurabile. Questi disturbi in genere insorgono a distanza piu` o meno breve da avvenimenti che hanno, per il paziente, significato di perdita, sconfitta, fallimento. A volte sono avvenimenti reali, anche se non molto significativi: come difficolta` finanziarie, di lavoro o preoccupazioni familiari, oppure situazioni di traumi fisici, o malattie o semplicemente situazioni fisiologiche che pero` vengono vissute come segno di vecchiaia e di decadenza fisica:

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come la menopausa. A volte le situazioni sono vissute dal paziente in chiave di perdita: come per esempio la crescita dei figli, un trasloco, oppure il matrimonio di una persona significativa. Comunque sia, reali o fantasmatici, sono avvenimenti vissuti dal paziente come perdita, come fallimento, come solitudine. Sono avvenimenti che risvegliano, in una misura abnorme, le ansie collegate ai temi piu` drammatici per l’uomo: come la malattia, la vecchiaia, la morte, la solitudine. Il paziente e` sempre molto preso dai suoi problemi, che tende ad esternare continuamente a quanti lo circondano: con tono lamentoso, spesso accusatorio, nei confronti di quanti egli ritiene causa (diretta o indiretta) delle sue disgrazie. Il tono querulomane e rivendicativo differenzia nettamente questa depressione da quella endogena. Inoltre essi sono soggetti facilmente suggestionabili, per cui riescono a superare — anche se momentaneamente — il loro stato d’animo se si trovano in una situazione piacevole o interessante. Salvo poi a ricadere nei loro malesseri. Tutti i loro discorsi ruotano sugli affanni, le tristezze, i malesseri, la solitudine e cercano di coinvolgere, quanto piu` e` possibile, l’ascoltatore. Tentano a volte di superare questo loro malessere cercando aiuto e sostegno in sostanze sostitutive (alcool, cibo, droghe, ecc.) verso le quali stabiliscono rapidamente una dipendenza. Questo meccanismo, che chiamiamo distanziamento, e` molto simile a quello fobico dell’evitamento: mediante tale dinamica il paziente cerca di non sentire, quindi di allontanare il vissuto psichico depressivo. Frequenti sono gli atteggiamenti autolesionistici, che spesso hanno la funzione di richiamare l’attenzione dei familiari: un gesto tipico e frequente e` certamente il suicidio. Il suicidio del depresso nevrotico e` spesso un tentativo di suicidio che non significa sempre suicidio puramente dimostrativo. Questo e` un dato importante, nel senso che non va sottovalutato il rischio che corrono questi pazienti. O per l’uso improprio dei mezzi (spesso psicofarmaci) o per calcoli sbagliati circa la possibilita` di essere aiutati. Ma soprattutto perche´ a volte il suicidio e` abbastanza determinato poiche´ sottende una fantasticheria di addormentamento-morterinascita. In questi casi, il gesto comporta maggiori

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

rischi e qualche volta riesce ad essere letale. La sintomatologia della depressione nevrotica, costituita fondamentalmente dai sintomi sopradescritti, puo` essere varia soprattutto sul piano quantitativo. Cosı` passiamo da casi ove questi sintomi sono appena accennati e si confondono con situazioni di tipo ansioso, a quadri dove si puo` arrivare ad un grado di tristezza, pessimismo e rallentamento psicomotorio che sono molto simili a quelli della depressione endogena. Personalmente ritengo che tra la depressione nevrotica e quella endogena ci sia una continuita`: solo che in quella endogena sono sicuramente presenti lesioni, o temporanee disfunzioni biochimiche, che spiegano la maggiore gravita` della sintomatologia.

3. Il carattere depressivo Dobbiamo partire da due considerazioni fondamentali. La prima e` considerare che la depressione, al di la` della multiformita` dei quadri clinici, presenta una specifica ed unitaria dinamica, per cui pur riconoscendo varieta` sintomatologiche dobbiamo individuarne la struttura di base. La seconda considerazione sovverte radicalmente quelle che sono le attuali concettualizzazioni psichiatriche. Infatti la Psichiatria considera come patologia solo la crisi depressiva (sia essa quella nevrotica o psicotica), confondendo quindi la remissione con la guarigione. Noi partiamo dalla constatazione che invece esistono due situazioni. Una latente che si estrinseca con modalita` gia` patologiche e che si puo` definire il carattere depressivo, ed una manifesta, che coincide con le crisi depressive, crisi che insorgono quando i meccanismi di compenso del carattere depressivo vengono meno. Il carattere depressivo si ritrova nell’individuo che, a causa di situazioni interumane precedenti, ha raggiunto una scarsa capacita` di autosufficienza e di autostima e pertanto ha bisogno di persone o situazioni per mantenere ad un livello ` evidente che non critico la propria autostima. E viene a crearsi una situazione di dipendenza molto precisa e stretta: l’integrita` del fragile Io del carattere depressivo dipende dall’altro. Questa situazione tende a nascondere una ve-

rita` che il depresso non ama rivelarsi, ne´ ama che gli sia rivelata: la sua fragilita` e dipendenza. Ma questa sua dipendenza gli fa emergere ostilita` e rabbia inconscia nei confronti dell’oggetto. Di qui nasce una caratteristica fondamentale: la profonda ambivalenza del depresso rispetto all’oggetto di cui ha bisogno. «Nec tecum, nec sine te vivere possum». L’amore-odio diventa una delle caratteristiche fondamentali del carattere depressivo; ma e` chiaro che i sentimenti ostili debbono essere repressi, pena la perdita dell’oggetto di cui si ha bisogno. Se infatti il depresso non reprimesse la propria rabbia, tenderebbe a distruggere proprio quell’oggetto che gli garantisce in qualche modo la sopravvivenza psichica. Quindi e` chiaro che il carattere depressivo, al di la` delle sue affermazioni, e` incapace di amare proprio nella misura in cui non e` libero ed ha bisogno dell’altro non tanto come rapporto, ma come legame e presenza fisica. Per evitare che i sentimenti ostili emergano e quindi distruggano l’oggetto, il carattere depressivo deve spesso idealizzare l’oggetto. L’altro diventa buono, perfetto, quasi irraggiungibile: ma questo rende impossibile utilizzare il rapporto con l’altro. Questo rappresenta gia` una spirale pericolosa: infatti, quanto piu` forti sono i sentimenti di ostilita`, tanto piu` l’oggetto viene idealizzato e tanto piu` esso diventa distante e persecutorio. Si instaura una dinamica sado-masochistica e la tendenza del carattere depressivo diventa sempre piu` quella del controllo. Egli deve controllare tutto, altrimenti e` sopraffatto dall’angoscia che l’altro (di cui ha bisogno) possa andar via. Questa situazione chiaramente patologica puo` mantenersi in un equilibrio instabile ed evidenziarsi attraverso manifestazioni in genere ritenute mediamente ‘‘normali’’. La prima e piu` importante e` la sensazione di non poter uscire fuori da questa dinamica: il soggetto vive una situazione di immobilita` e di paralisi. Sensazione molto sgradevole e dalla quale si tenta di uscire mediante il distanziamento dal problema come l’iperattivita` o il rifugiarsi nell’alcool o negli psicofarmaci. Oppure puo` manifestarsi una sensazione di astenia, di stanchezza che e` la testimonianza di un conflitto che implica un notevole dispendio di energia.

La psiconevrosi depressiva

Una situazione tipica e` la cosiddetta nevrosi della domenica. Il giorno festivo, anziche´ come momento di liberta`, viene vissuto con angoscia per la sensazione di vuoto e l’incapacita` di fare altro che non sia la routine: si instaura un profondo senso di vuoto. Ed e` questa sensazione di vuoto un’altra caratteristica fondamentale del carattere depressivo. Vuoto che il paziente tende a colmare con una specifica dinamica, che e` quella della bramosia, cioe` con la tendenza ad introiettare, mettere dentro di se´ l’altro che pertanto non viene vissuto come possibilita` di scambio e di rapporto, ma esclusivamente come situazione materiale che comporta quindi la negazione totale delle possibilita` interne dell’altro. Questa introie-zione-bramosia si puo` esplicitare attraverso crisi bulimiche.

4. La psicodinamica Questa, molto sommariamente, e` la situazione del carattere depressivo. Cos’e` che fa precipitare questa situazione verso una crisi? Ogni qual volta questo equilibrio instabile viene turbato, o per una diminuzione delle capacita` libidiche (ad esempio nelle malattie, nella menopausa, nel pensionamento ecc.), oppure per un aumento delle cariche ostili (ad esempio in situazioni di frustrazione — reali o apparenti —, per perdite affettive, per problemi lavorativi ecc.), comunque sia, la situazione precipita: il carattere depressivo si sente sempre piu` solo, diminuisce la propria autostima, mentre aumentano le valenze ostili. Siamo agli esordi della crisi depressiva, che tuttavia per vari motivi puo` essere gestita con tre modalita` diverse. 1)

La prima e` il cercare di riottenere con la debolezza quello che non si e` potuto otte` la depressione nevronere con la forza. E tica. Si tenta di recuperare il rapporto (o le modalita` precedenti del rapporto se questo e` cambiato) con il lamento, il proporre la propria infelicita`, i propri disturbi, ma soprattutto il rimprovero velato che tende a creare ` il rimprovero, nell’altro dei sensi di colpa. E piu` o meno esplicito, di quanto egli si sia sacrificato: «ho speso una vita per te... nes-

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suno e` riconoscente... gli uomini sono ingrati», sono i lamenti piu` comuni. ` la dimensione della madre che ha vissuto E (non avendo altre possibilita`) in funzione dei figli e si deprime allorquando essi, cresciuti, cercano di trovarsi nuove situazioni o rapporti; dell’uomo che, vissuto esclusivamente del lavoro, si deprime al momento del pensionamento; della donna che, vissuta solo in funzione della propria esteriorita`, si vede finita con la menopausa; del partner che, avendo stabilito un legame con l’altro sul bisogno e la dipendenza, intuisce con terrore che l’altro potrebbe andar via. Queste dinamiche tendono facilmente a coinvolgere l’altro (anche perche´ l’altro e` stato scelto in base a precise caratteristiche) ed e` per questo che le situazioni sopra descritte tendono spesso a sfociare — piu` che in un’unica crisi — in una situazione cronica che costituisce la specifica dinamica del rapporto sado-masochistico. La seconda modalita` si avvicina a questa, ma se ne differenzia per un maggior ripiegamento sul proprio corpo per una tendenza ipocondriaca. Non si chiede piu` molto all’altro, ma ci si espone con i propri disturbi: e` ‘‘il proprio essere ridotto cosı`’’ che viene ` un tentativo di richiamo, e` un mostrato. E lamento corporeo. La terza modalita` e` diversa, perche´ si crea uno specifico meccanismo psicotico. L’aumento delle cariche distruttive ed il terrore della perdita dell’altro fanno sı` che il soggetto tenda sempre piu` a vivere come realta` la fantasticheria dell’introiezione dell’altro. L’altro, essendo stato divorato, scompare; quindi il carattere depressivo vive non solo i sensi di colpa per la propria distruttivita`, ma anche una identificazione allucinatoria con l’oggetto distrutto. Egli e` diventato come l’oggetto aggredito e distrutto: di qui i deliri di rovina o ipocondriaci che spesso accompagnano l’altro delirio, quello di colpa, che invece e` sempre presente. Se la situazione peggiora si puo` giungere al suicidio o al sui` la depressione endogena o cidio-omicidio. E psicotica.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

5. Il caso clinico Uomo di 30 anni. Circa un anno prima aveva presentato vari disturbi quali gastrite, dimagramento, cefalea, per cui era stato visitato e curato da vari internisti senza apprezzabili risultati: da circa 4 mesi era insorto un quadro di tipo depressivo. Il paziente appare piuttosto abulico, rallentato, esprime il timore di essere affetto da qualche malattia grave: forse tbc, forse un tumore. Si sente bloccato, senza via d’uscita. Durante il colloquio spesso si interrompe e gli occhi gli si velano di lacrime: segno di una profonda tristezza e disperazione, anche se contenuta. Insiste molto sui propri disturbi somatici, che descrive con molti dettagli: l’insonnia, la perdita della libido, ma soprattutto il dimagramento. Con molta difficolta` si riesce a spostare l’attenzione del paziente da queste tematiche, per cercare di conoscere meglio la sua storia. Sul piano familiare, parla della madre come di una persona abbastanza attenta e premurosa per quanto attiene alla gestione della casa ed ai bisogni materiali dei figli, ma piuttosto fredda ed assente sul piano affettivo. Manifesta invece una grande ammirazione per il padre: e` sempre stato per lui un modello di vita per le capacita` dimostrate nella vita e nel lavoro, unico difetto, un eccesso di severita`. Da due anni il padre soffre di disturbi cardiaci; per questo il paziente, che aveva una attivita` autonoma, ha cominciato ad aiutare il padre nell’attivita` commerciale. Si e` sposato molto giovane con una donna che viene descritta come psichicamente fragile, molto dipendente e molto gelosa nei suoi confronti. Spesso lo ha fatto pedinare; se torna a casa tardi, sono scenate di gelosia e lunghi interrogatori. Lui sostiene che ha sopportato questa situazione per amore dell’unica figlia, che ora ha dieci anni. Ma si intuisce abbastanza chiaramente che la gelosia della moglie e` vissuta in chiave narcisistica, come in chiave narcisistica e` da spiegarsi l’intensa attivita` sportiva, l’enorme importanza che da` al suo aspetto fisico. Riferisce, con molto ritardo e con molta superficialita`, che c’e` anche una sorella, molto piu` piccola di lui: viene descritta come molto competitiva, quasi maschile. Anche lei da qualche anno e` entrata nel negozio ` evidente una estrema conflittualita` del padre. E

con la sorella, che pero` viene negata e gestita attraverso una squalificazione della stessa. Avrebbe voluto continuare a svolgere la sua attivita`, ma vari motivi (non ultimo la possibilita` di maggiori guadagni) lo hanno indotto a lavorare con il padre: questo fatto, sostiene il paziente, e` fonte di contrasti. Dai pochi cenni emerge una struttura di carattere depressivo. Da una parte la necessita` di un oggetto (il padre) da cui egli dipende e che gli serve come rinforzo per la sua autostima, ma verso il quale mostra anche una certa ambivalenza. Dall’altra la moglie che, con la sua gelosia e la sua dipendenza, e` un tipico oggetto narcisistico: ed e` verso costei che il paziente mostra piu` chiaramente una dinamica di ambivalenza. L’altra situazione e` l’enorme importanza data all’aspetto fisico. Queste tre situazioni hanno mantenuto in equilibrio, anche se precario, il paziente. Ed infatti questo equilibrio comincia ad entrare in crisi due anni prima, con la malattia del padre, e successivamente si aggrava per la presenza della sorella vissuta come competitiva, e quindi pericolosa, nei confronti della stima del padre. Il paziente aveva reagito inconsciamente a questa situazione con la comparsa di disturbi somatici che testimoniano la presenza di un conflitto. Nello stesso periodo il paziente aveva acquistato un cucciolo di pastore tedesco, che aveva la funzione di oggetto sostitutivo rispetto ai timori di una perdita suscitata sia dalla malattia del padre sia dall’arrivo della sorella. Ma questo cucciolo era diventato ben presto causa di frequenti litigi con la moglie, che lo riteneva ingombrante e sporco. Cinque mesi prima del colloquio, il paziente si era deciso a dare via il cucciolo: poco dopo, era comparso un chiaro quadro depressivo. ` evidente che questo fatto abbastanza baE nale era stato vissuto drammaticamente dal paziente: cioe` come situazione di sconfitta, di perdita e di abbandono. Questo aveva fatto emergere una intensa rabbia ed ostilita` nei confronti soprattutto della moglie e della sorella come oggetti che avevano in qualche modo ferito il suo narcisismo. Il tutto era collegato all’angoscia di una possibile perdita del padre vissuto da lui come oggetto-fonte della propria autostima. Da questo momento c’e` un crollo depressivo. I mec-

La psiconevrosi depressiva

canismi difensivi non sono piu` in grado di arginare la sua profonda angoscia di perdita dell’oggetto fonte di autostima (il padre), mentre le valenze ostili nei confronti della moglie e della sorella, non piu` contenute, emergono. L’aver dato via il cane e` la testimonianza della sua sconfitta: egli non combatte piu`. Si arrende: la sua resa si esprime attraverso la depressione.

6. Diagnosi differenziale Normalmente il quadro della depressione nevrotica e` abbastanza tipico; i dubbi possono insorgere rispetto ad un eventuale processo psicotico, soprattutto in eta` adolescenziale, mentre in eta` avanzata ci si deve porre il problema se il quadro depressivo non sia la copertura di psicosindromi organiche: in primo luogo processi demenziali. La diagnosi differenziale con le altre psiconevrosi non pone problemi. A volte possono sorgere dubbi di fronte a crisi di bulimia che possono far parte dell’obesita` reattiva, oppure di una depressione nevrotica. In quest’ultimo caso comunque c’e` un corteo sintomatologico piu` vario e complesso. A volte puo` essere necessario porre attenzione a discriminare la depressione nevrotica, soprattutto quando si esprime con somatizzazioni, da reali processi organici. Con la depressione endogena in genere non ci sono difficolta`. Nella depressione nevrotica c’e` tendenza alla lamentela, e` difficile che ci sia rallentamento psicomotorio (in genere prevale l’ansia). L’insonnia e` di tipo ‘‘difficolta` di addormentamento’’; i sensi di colpa, per lo meno a livello conscio, sono assenti e sostituiti invece da una tendenza ad incolpare gli altri. Soprattutto nei casi ove predominano irritabilita` ed astenia e` da porsi il problema di una diagnosi differenziale con la sindrome di encefalomielite mialgica (EM).

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7. Note di terapia L’indicazione principale rimane la psicoterapia ad orientamento analitico. Il trattamento psicofarmacologico e` di tipo sintomatico e molto spesso induce una dipendenza ed un legame sado-masochistico con il terapeuta. Il trattamento psicofarmacologico puo` essere utile solo per controllare, per qualche settimana, l’insonnia.

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16 La psiconevrosi isterica Nicola Lalli Parole chiave suggestionabilita`; conversione; reazione isterica; astasia-abasia; stato crepuscolare; personalita` isterica; inibizione; rimozione

L’isteria rappresenta una delle sindromi psichiatriche piu` poliedriche e complesse anche perche´ spesso utilizzata per veicolare pregiudizi, piu` che per definire una particolare dinamica umana. Si rende quindi necessario definire con esattezza quali sono i quadri dal punto di vista fenomenologico. In una prospettiva psicodinamica ci si muove dall’ipotesi che il carattere isterico costituisca il

substrato dal quale emergono sia la personalita` isterica, come formazione reattiva, sia le sindromi di conversione in seguito ad eventi traumatici. L’esposizione di un caso clinico serve a puntualizzare i momenti salienti della genesi del carattere isterico e della formazione del sintomo. Si cerca poi di differenziare i quadri isterici da altri apparentemente simili. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali L’isteria rappresenta la piu` antica ed anche la piu` conosciuta delle sindromi di interesse psichiatrico: questo fatto ha contribuito pero` a far usare questo termine troppo spesso in maniera estensiva ed imprecisa. L’aggettivo isterico viene frequentemente attribuito a persone che nulla hanno a che fare con l’isteria, denotando, in questo caso, solamente un giudizio di valore. Pertanto nel descrivere il quadro dell’isteria si corre il rischio o di darne una connotazione troppo ampia ed imprecisa, oppure, per reazione, si tende a restringere sempre piu` questo quadro fino a proporne la soppressione: Rouquier1 affermava che ‘‘l’isteria e` definitivamente morta’’. Al solito quest’ultima affermazione rischia di buttare via il bambino insieme all’acqua del bagno. Ma, a parte questo, ritengo che al momento attuale l’eliminazione di questo quadro determinerebbe solo un’eccessiva frammentazione dell’isteria, a discapito sia della possibilita` di comprensione che della chiarezza di esposizione. Ritengo pertanto piu` opportuno, fatto presente il rischio di una eccessiva estensione di questo termine, proporre quali siano le caratteristiche fondamentali del quadro isterico, in modo da poterlo delineare chiaramente, tenendo presente che ogni qual volta si tende a fissare una situazione dinamica, quale e` quella psichica e quella isterica in particolare, c’e` sempre il rischio di dover essere approssimativi. Ma perche´ mai l’isteria, piu` di altre sindromi psichiatriche (in questo e` paragonabile solo alla schizofrenia), ha avuto ed ha tuttora questa caratteristica potremmo dire a fisarmonica, cioe` o di coprire gran parte della patologia psichiatrica, oppure di essere messa in discussione come validita` definitoria e sindromica? Da una parte, perche´ l’isteria e` stata la prima sindrome psichiatrica ad essere evidenziata e descritta, ed ha finito con il costituirsi, non solo attraverso la cultura medica, ma anche attraverso le conoscenze popolari, facendo sı` che su questo concetto si stratificassero idee e concezioni asso-

1 In Rapport de Psychiatrie (1965) che sara` denotato con (R.d.P.).

lutamente sbagliate; poi perche´, piu` o meno consapevolmente, l’isteria e` sempre stata messa in relazione con la sessualita`. Quando Ippocrate descrisse l’isteria (che riuscı` a distinguere chiaramente dall’epilessia) fece sua una teoria, ancora piu` antica, che attribuiva questo disturbo all’utero che a causa della mancanza di rapporti sessuali tendeva a migrare nel corpo, creando disturbi vari. Questa formulazione, con qualche piccolo ritocco, e` rimasta fondamentalmente immodificata per secoli, tanto che l’isteria e` stata attribuita al solo sesso femminile fin verso il 1700, quando Lepois, prima, e Sydenham (R.d.P., 1965) successivamente, descrissero dei casi di isteria maschile suscitando non poco scalpore e resistenze. Evidentemente, questo collegamento con la sessualita` ha comportato delle variazioni a seconda delle diverse concezioni culturali e sociali della sessualita` stessa: non c’e` da meravigliarsi, quindi, se ancora qualche secolo fa manifestazioni che oggi sarebbero definite isteriche venivano attribuite a fornicazioni con il diavolo. Comunque, la definizione di isterico ha continuato a mantenere nel tempo, e soprattutto nell’uso quotidiano, una connotazione ambigua, spesso dispregiativa, sempre comunque un termine attraverso cui si veicola un pregiudizio. Ma questo uso estensivo e scorretto del termine isteria si ritrova spesso anche all’interno del linguaggio medico usuale, ove questo termine spesso viene usato al posto di valori, emozioni o errate concettualizzazioni del medico. Spesso il termine isteria e` usato come sostituto di simulazione: purtroppo questo atteggiamento ha illustri predecessori, come la teoria pitiatica di Babinski. Ma, come vedremo, tra isteria e simulazione non c’e` alcun rapporto, ne´ sul piano comportamentale ne´ tanto meno su quello psicodinamico. A volte, il termine isteria viene usato come diagnosi di ripiego quando, di fronte a sintomi di tipo organico, non si riesce a trovare nulla di organico: e` evidente che in questo caso si utilizza il termine isterico anziche´ quello piu` preciso di psicogeno. Ma anche in Psichiatria a volte si usa la diagnosi di isteria come dimensione controtransferenziale: molto spesso pazienti che sono petulanti, fastidiosi, vengono definiti isterici. A volte si ripiega su diagnosi di isteria quando un

La psiconevrosi isterica

quadro psicopatologico che sembrava all’inizio grave e drammatico tende a risolversi bene e magari in maniera rapida. Quindi, di fronte al rischio di usare questo termine in maniera troppo estensiva, credo che sia opportuno delimitare e connotare con la massima precisione quali siano le caratteristiche strutturali e fenomenologiche dell’isteria, sempre tenendo presente che la psicopatologia (come la psicologia) non e` un fatto statico; le sindromi isteriche possono sfumare e cambiare in quadri diversi, e tratti isterici possono essere presenti in altri quadri psichiatrici. Prima di passare alla discussione dei quadri e` opportuno comunque affrontare ancora due problemi che sono tuttora ampiamente discussi e dibattuti: la variazione dei quadri sintomatologici e l’aumento o la diminuzione delle sindromi isteriche nel tempo. Secondo alcuni autori, in questi ultimi decenni ci sarebbe stata una diminuzione netta e progressiva delle manifestazioni isteriche a favore di manifestazioni psicosomatiche o di sindromi piu` caratteriali che sintomatiche. Per la maggior parte degli autori, invece, quelle che tendono a diminuire sono le manifestazioni isteriche piu` grossolane (le crisi di tipo convulsivo o le paralisi) a favore di manifestazioni isteriche piu` monosintomatiche. Tale variazione e` collegata a fenomeni sociali e culturali, nel senso che la scelta del sintomo sembra adattarsi a quella che puo` essere l’accettazione di tale sintomo da parte del gruppo sociale e culturale di cui l’individuo fa parte. A riprova di cio` si puo` osservare che le manifestazioni piu` eclatanti dell’isteria tendono ancora a conservarsi in strati culturali non urbanizzati, mentre in questi ultimi tendono a prevalere le manifestazioni a carattere depressivo. Per quanto riguarda la variazione dell’incidenza, non tutti gli Autori sono d’accordo: da un esame di varie statistiche risulta che l’incidenza e` circa dello 0,5% nella popolazione totale. Per quanto riguarda, invece, il rapporto uomo-donna esso rimane significativo: in media si ha un rapporto di 1 uomo ogni 3 donne. Questo non significa certamente che l’isteria e` appannaggio quasi esclusivo della donna: bisogna tener presente che comunque, per le psiconevrosi, il rapporto uomo-donna e` in media di 1 a 2.

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2. Sintomatologia Tabella 1 — SINTOMATOLOGIA DELLA PSICONEVROSI ISTERICA

1) Reazioni isteriche 2) Isteria di conversione — conversione somatica — conversione psichica — sindromi algiche 3) Sindromi rare 4) Personalita` isterica

2.1. Reazioni isteriche Per reazioni isteriche intendiamo un comportamento complesso, ma abbastanza stereotipato, che interessa l’apparato motorio e che puo` andare da un’intensa agitazione psicomotoria ad atteggiamenti di arresto motorio simili a stati di catalessia. Sono situazioni di tipo accessuale e quindi in genere transitorie. Queste crisi possono avvenire in situazioni drammatiche, e non necessariamente insorgono in caratteri isterici, potendo riscontrarsi in persone piu` o meno normali, in casi di gravi situazioni emotive. Per es., una grave calamita` naturale (terremoto, tempesta in mare), un grave incidente automobilistico, possono generare una reazione isterica. Essa comunque tende piu` o meno rapidamente a scomparire: in questo modo, le reazioni isteriche tendono ad identificarsi con le cosiddette reazioni primitive secondo Kretschmer (1923). Come dicevo, la reazione isterica e` prevalentemente motoria (sia per accentuazione, che per inibizione) e soprattutto in genere tende a regredire. In questo senso, anche se il paragone puo` essere grossolano, possiamo dire che c’e` una certa analogia con l’epilessia: ogni persona, in seguito a stimoli adeguati, puo` avere una crisi epilettica, senza per questo essere un epilettico; si puo` quindi pensare all’esistenza di una soglia (piu` o meno elevata a seconda degli individui), al di la` della quale un avvenimento potrebbe scatenare una crisi isterica. Certamente,

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

si potra` sempre dire che si tratta di persone molto emotive o labili, ma non necessariamente si tratta di un carattere isterico. ` invece proprio la presenza di un carattere E isterico che spiega la successiva organizzazione di tipo nevrotico. Per es., un individuo dopo un incidente d’auto, anche senza aver riportato gravi danni fisici, puo` presentare una reazione isterica che spesso e` collegata ad un timore o sensazione di morte. In genere, passato un po’ di tempo, di fronte alla constatazione della non gravita` reale dei fatti, il disturbo si esaurisce e non lascia conseguenze. Nel carattere isterico, invece, si puo` arrivare ad un’organizzazione di tipo isterico: dolori vari, sensazione deficitaria di vario tipo senza alcun riscontro organico, senso di vertigine, ecc. che configurano la cosiddetta nevrosi posttraumatica. In questi casi, chiaramente, e` sempre necessario capire se non c’e` un tentativo di simulazione; ma in genere quanto piu` questa sintomatologia tende a prolungarsi, tanto piu` si puo` pensare di trovarsi di fronte ad una strutturazione nevrotica. Essa e` caratterizzata soprattutto da sintomi deficitari (della deambulazione, della memoria, delle capacita` uditive, ecc.): in questi casi il deficit non e` tanto legato a particolari significati simbolici, quanto piuttosto ad una generica situazione di invalidita` e di malessere. In questi casi, certamente, l’utile secondario tende a prevalere e dare una coloritura speciale a questi quadri che rischiano di essere scambiati spesso per simulazioni. Comunque, le reazioni isteriche sono manifestazioni in genere dirette, a corto-circuito, senza elaborazione psicologica. Le manifestazioni sono spettacolari: crisi espressivo-emotive, tremori, a volte fughe tipo panico, a volte movimenti tipo crisi di grande male: rimane fondamentale la relativa brevita` della crisi.

2.2. Isteria di conversione Sotto questa voce sono raccolti i quadri piu` ` abcomuni e anche piu` conosciuti dell’isteria. E bastanza inutile descrivere le varie manifestazioni, non tanto perche´ sarebbero effettivamente numerose quanto perche´ la frammentazione dei

vari disturbi rischia di far perdere di vista quello che e` il carattere unitario di questa sindrome. Il rischio infatti e` quello di incorrere nell’errore di J. J. Purtell (R.d.P., 1965), un autore che avendo esaminato con pazienza certosina (o con gusto ossessivo?) tutti i sintomi presentati da 53 pazienti isterici e` arrivato a descriverne ben 1153, ovvero` quindi di gran lunga preferisia 22 per malato. E bile sottolineare e privilegiare quei sintomi che tendono ad essere i piu` significativi ed espressivi. ` opportuno tener distinti tre sottogruppi per E motivi che riguardano, come vedremo, soprattutto l’evoluzione. Pertanto distingueremo: a) b) c)

conversione somatica; conversione psichica; sindromi algiche.

2.2.1. Conversione somatica

Un sintomo importante, anche se non sempre riconosciuto, e` l’astenia: non solo una sensazione spiacevole di malessere generale (frequente un po’ in tutte le nevrosi), ma proprio una specifica sensazione fisica che rende molto spesso questi soggetti piu` o meno inabili a qualsiasi sforzo fisico, ` la sintomatologia descritta in anche minimo. E maniera molto precisa da P. Janet (1894) a proposito di Marceline. Elle pre´sentait une fatigue de vivre, d’agir journellement, de prendre sans cesse les quelques re´solutions ne´cessite´es par les petits e´ve´nements quotidiens. Elle s’e´puisait peu a` peu, simplement par l’e´coulement du temps, et ne pouvait gue`re rester un long intervalle sans retomber malade. Son chef lui reprochait sa lenteur, sa fatigue perpe´tuelle. Cette fatigue aboutissait parfois a` un e´tat d’aboulie, d’aprosexie. Mais cette fatigue pouvait disparaıˆtre aussi rapidement qu’elle e´tait venue et sous des influences tre`s diverses et minimes, portant bien par la` le cachet d’hyste´rie.

Sul piano motorio i sintomi piu` frequenti sono in genere le paralisi, che possono essere di tutti i tipi, da monoplegie, a emiplegie, fino a quadriplegie. Il fatto caratteristico e` che queste paralisi, oltre a non presentare i sintomi o segni semiologici delle paralisi organiche, hanno anche

La psiconevrosi isterica

spesso una tendenza a variazioni; inoltre, queste manifestazioni paralitiche scompaiono completamente durante il sonno o sotto narcosi. Spesso possono essere accompagnate da turbe della sensibilita`, a volte da contratture che presentano sempre tratti singolari, che ne permettono una facile differenziazione da quelle su base organica. Accanto alle paralisi, che spesso sono a carattere flaccido, possiamo osservare fenomeni di tipo spastico o contratture che possono interessare le mani, le dita e molto spesso il collo (torcicollo isterico). Si possono anche avere movimenti tipo tremore o tipo coreico: in questi casi, a volte, la diagnosi differenziale puo` presentare delle difficolta`. Comunque il disturbo motorio piu` classico (ed anche piu` appariscente e piu` frequente) e` l’astasia-abasia. Essa consiste in una paralisi che compare solamente quando il paziente poggia i piedi a terra o inizia la deambulazione: piu` che di una paralisi, in effetti, si tratta di una incoordinazione motoria. Il paziente piega le gambe, tende ad incrociare i piedi, lamenta a volte dolori: se lo si spinge a camminare, puo` comparire un irrigidimento degli arti inferiori. In posizione di riposo, adagiato sul letto, scompare ogni segno della pur imponente sintomatologia. Manifestazioni molto frequenti nel passato, fino a costituire quasi il simbolo dell’isteria, sono le crisi di tipo epilettico. Esse attualmente non corrispondono piu` ai quadri classici di Charcot (ma bisogna dire che molte manifestazioni erano apprese ed indotte nei pazienti di Charcot), ma sono caratterizzate da caduta a terra, grossolani movimenti, urla, digrignamento di denti. Esse sono facilmente distinguibili dalle crisi epilettiche per l’estrema teatralita`, per il fatto che il paziente non si fa alcun male, per la lunghezza della crisi, per l’assenza di perdita di coscienza, per la conservazione della reazione pupillare alla luce. A volte, possono esserci invece cadute a terra con apparente perdita di coscienza: le cosiddette crisi sincopali. Il paziente cade a terra e rimane immobile, a volte si nota solamente un leggero tremolio delle palpebre: quando queste crisi sono di breve durata puo` sorgere un dubbio diagnostico con le crisi epilettiche acinetiche. A diffe-

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renza di queste, le crisi durano in genere da 10 minuti fino anche ad 1 ora; i pazienti rimangono coscienti tanto da poter riferire, poi, di aver sentito le voci ed i rumori, anche se in lontananza, come ovattati. A volte si hanno invece delle crisi di tipo catalettico: il paziente puo` rimanere per ore intere in uno stato di immobilita` assoluta. In questi casi si puo` porre il problema di una diagnosi differenziale rispetto ad uno stato di coma. Evidentemente, solo l’assenza dei segni tipici dei vari tipi di coma, ma anche un’indagine anamnestica sia sui precedenti caratteriali sia sulla presenza di eventuali avvenimenti traumatici sul piano psichico, possono dirimere il quesito. Molti di questi stati catalettici possono essere stati scambiati per morti reali e forse hanno alimentato la leggenda delle persone sepolte vive. Si noti, per inciso, che seppure fatti di questo genere possano essere veramente accaduti, il nascere di tale leggenda corrisponde certamente a fantasie molto precise di tipo fobico da parte di ampi strati di popolazione. I disturbi della sensibilita` possono essere vari: in genere, si tratta di anestesie con particolari disposizioni segmentali che non corrispondono a nessun rapporto con l’innervazione: quella piu` classica e` la cosiddetta anestesia a guanto. Cioe` e` interessata tutta la mano fino al polso. Frequenti i disturbi riguardanti i sensi, soprattutto la vista e l’udito: la cecita` isterica non e` rara, e comunque non presenta gravi difficolta` sul piano diagnostico. Non infrequente l’afonia; i pazienti perdono improvvisamente la voce per periodi piu` o meno lunghi e comunicano con i gesti. Rara, anche se piu` volte descritta, la falsa gravidanza: le pazienti cominciano a presentare aumento del volume dell’addome, accompagnato molto spesso da amenorrea. Infine vanno considerati altri fenomeni frequenti, che tuttavia abbastanza spesso finiscono con l’assumere connotazioni particolari; sono i disturbi alimentari di tipo anoressico e tutta la complessita` dei disturbi della sfera sessuale. Si puo` andare dall’impotenza all’eiaculazione precoce, nell’uomo, e dalla frigidita` a sindromi dolorose vaginali che impediscono qualsiasi rapporto sessuale, nella donna.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2.2.2. Conversione psichica

` una dizione imprecisa perche´ la converE sione esprime il salto nel somatico. Piu` propriamente dovremmo dire sintomi ad espressione psichica. Comunque e` opportuno mantenere la dizione di conversione psichica perche´ piu` usuale. Un sintomo frequente, anche se spesso misconosciuto o confuso con altri disturbi, e` una sorta di inibizione intellettuale che rende gravosa per questi pazienti l’applicazione allo studio. Non solo fanno molta fatica, ma tendono anche con estrema facilita` a dimenticare: tanto da rendere impossibile a volte il proseguimento degli studi. Molto piu` appariscenti sono comunque le amnesie: esse possono essere selettive per particolari avvenimenti e periodi della vita ritenuti spiacevoli dal paziente. A volte invece si possono avere sindromi molto piu` globali per cui il paziente non ricorda piu` nulla di se´ e della sua vita. Queste amnesie possono essere a volte accompagnate da comportamenti di tipo fuga (fughe isteriche). I pazienti si allontanano di casa e vagano anche per giorni, il comportamento e` adeguato, ma alla fine non ricordano nulla di se´, ne´ di quanto e` successo. Altre volte questi disturbi della memoria si possono accompagnare a situazioni piu` complesse, tipo quella delle amnesie periodiche delle personalita` alternanti. Un sintomo ad espressione psichica molto frequente e` la depressione: ci puo` essere una sola crisi, oppure le crisi possono ripetersi nel tempo. La causa scatenante e` in genere il decesso o l’abbandono di una persona significativa. Ma oltre a questi avvenimenti sono da considerare come equivalenti umiliazioni o violenze psichiche da parte di una persona che sia significativa per l’isterico. Quando questo avviene, insorgono vari sintomi che si incentrano sulla perdita: il paziente si sente astenico fisicamente e psichicamente, perde interesse, tende a rifugiarsi nel sonno. I disturbi somatici, tipici della depressione, non sono presenti: a volte al posto dell’anoressia e dell’insonnia possono comparire bulimia e tendenza alla sonnolenza. Frequente, invece, un ricco corteo di sintomi ad espressione somatica che spesso fanno confondere questi pazienti con

degli ipocondriaci: la presenza di algie varie, febbricole strane, astenie protratte, riducono spesso questi pazienti a casi clinici piuttosto gravi. Non sono mai presenti i sensi di colpa, mentre e` costante la tendenza a colpevolizzare l’ambiente. Questi quadri depressivi, pur essendo influenzabili dall’ambiente o da situazioni esterne in genere, tendono a volte a prolungarsi per periodi di anni. C’e` un rischio abbastanza elevato di suicidio; anche se spesso il suicidio suona piu` come un gesto dimostrativo, non va sottovalutato che essi possano morire sia per aver usato mezzi impropri, sia per un reale desiderio di morire. Questo rischio e` tanto piu` elevato quanto minori sono le possibilita` evolutive del paziente (soprattutto, ad es., per il fattore eta`). Quindi e` erroneo considerare il suicidio dell’isterico come solo e sempre dimostrativo. Nella depressione isterica e` invece da prendere in considerazione il rischio di una reale determinazione a morire, che e` spesso determinata da una duplice dinamica. A volte, come desiderio di colpire l’altro facendogli insorgere sensi di colpa; questa dinamica e` sostenuta da una intensa rabbia da parte dell’isterico, rabbia che a volte e` talmente intensa da indurlo a farsi del male fisico (per es., il taglio delle vene), trasformando cosı` una pulsione sadica in una masochistica, ed utilizzando il proprio corpo come se fosse quello del nemico. A volte, invece, c’e` una dinamica di fuga: e` il desiderio di dormire come possibilita` di poter annullare tutto. In questo caso, il tentativo di suicidio viene fatto mediante l’assunzione di psicofarmaci, in genere sonniferi, spesso in dosi massicce: e` in questi casi che il paziente puo` morire per aver mal determinato o l’effetto dei farmaci o la propria reattivita` . Quanto piu` predomina la dinamica della fuga e dell’annullamento, tanto meno il suicidio e` dimostrativo. Infine, sono da ricordare gli stati crepuscolari. Lo stato crepuscolare isterico e` caratterizzato da un restringimento del campo di coscienza: il paziente e` tutto concentrato su di un particolare tema o avvenimento che tende a rivivere in maniera quasi allucinatoria. Il paziente puo`, ad es., parlare o vivere tutta una complessa situazione drammatica, come se fosse realmente in presenza della persona che in genere e` stata la causa di un qualche trauma psichico. Il paziente

La psiconevrosi isterica

pur essendo cosciente (non ci sono disturbi quantitativi dello stato di coscienza) tende a scotomizzare ed estraniarsi da tutta la realta` circostante. La diagnosi differenziale con gli stati crepuscolari epilettici viene emessa in base al fatto che la tematica e` strettamente personalizzata, a differenza dei grandi temi mistici o diabolici dell’epilettico. In ogni caso, lo stato crepuscolare rappresenta certamente un’alterazione grave della personalita`, per una minore capacita` di usare meccanismi difensivi e per una maggiore possibilita` di confondere il mondo esterno con il mondo interno. Pertanto, non e` raro che gli stati crepuscolari isterici possono esitare in organizzazioni deliranti e in sindromi psicotiche di tipo schizofrenico. Follin, Chazaud e Pilon (1961) cosı` le descrivono: Jamais constitutifs d’une ne´o-re´alite´ ou d’une ne´o-mondanite´ fantasmatique (paranoı¨de). Ils sont the´matise´s, voire ‘‘focalise´s’’ (a` pre´valence mystico-sexuelle) sans pour autant comporter de bouleversement de la totalite´ des rapports du sujet et de l’objet du type des grands the`mes de re´fe´rences anonymes plus caracte´ristiques des de´lires aigus marquant la voie d’entre´e dans la schizophre´nie. Ils e´voluent a` un niveau de coscience peu alte´re´e, bien qu’elle soit toujours sur la mode particulie`re de la ‘‘distraction’’ qui renvoie moins a` un ‘‘accident’’ de l’organisation des fonctions psychiques qu’a` ‘‘l’enlisement’’ d’une existence, encore qu’elle fonde les troubles de l’attention, de l’orientation ou de la temporalite´.

2.2.3. Sindromi algiche

La necessita` di tener distinte le sindromi algiche deriva dal fatto che il dolore e` qualcosa che ha a che fare sia con il somatico che con lo psichico, ma soprattutto perche´ queste sindromi, come vedremo, hanno un destino tutto particolare. I dolori possono interessare tutti gli organi o apparati: essi si manifestano sempre come intensi, vengono descritti molto sommariamente, ed in genere sono a tendenza cronica o recidivante. Le sindromi piu` frequenti sono la cefalea, le rachialgie, le artralgie. Comunque, i disturbi piu` importanti sono soprattutto a carico dell’addome. Molto frequente-

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mente, la drammaticita` con la quale viene descritto il dolore, pur in assenza di reali sintomi obbiettivi, induce il chirurgo ad interventi di urgenza o a laparatomie esplorative. Sono i pazienti che hanno un curriculum medico e chirurgico molto pesante, anche per la reale difficolta` di poter discernere il significato e l’importanza del sintomo doloroso riferito. Come dicevo, questa differenziazione in seno alle sindromi di conversione ha un senso ed un significato rispetto all’evoluzione. La conversione somatica puo` avere un’evoluzione piu` o meno positiva ed in tempi vari: ma il fatto importante e` che normalmente i pazienti con sindrome di conversione somatica non hanno mai evoluzioni peggiorative; il sintomo puo` scomparire, puo` cronicizzarsi, puo` cambiare, ma fondamentalmente la situazione non ha sensibili peggioramenti. In questo senso, si puo` ritenere il sintomo di conversione somatica come una difesa ben precisa e ben salda. Non altrettanto avviene per le conversioni di tipo psichico: molto frequentemente, soprattutto gli stati di tipo crepuscolare, unici o ripetuti, possono evolvere verso situazioni di tipo psicotico. In effetti, lo stato crepuscolare rappresenta gia` una situazione di maggiore confusione tra realta` esterna e interna e quindi una tendenza implicita a costruire una neorealta` che senza strutturarsi come delirio, puo` averne comunque parecchie caratteristiche. Possiamo anche dire che la capacita` difensiva, come capacita` di rimozione, in queste persone e` certamente minore rispetto a quella dell’isteria di conversione. Pertanto in questi casi, piuttosto che parlare di psicosi isteriche, e` piu` opportuno tener presente la possibilita` evolutiva psicotica degli stati crepuscolari isterici, tenendo presente la caratteristica gia` descritta di presentare un quadro tematizzato e personalizzato. Le sindromi algiche hanno invece una evoluzione potremmo dire abbastanza grave; sono pazienti che facilmente vanno incontro ad interventi medici piu` o meno cruenti, fino ad arrivare ad interventi chirurgici inutili. Molto spesso, si tratta di pazienti polioperati ove, a parte il pericoloso connubio tra il masochismo del paziente e (a dir poco) la scarsa capacita` del medico, emerge comunque una dimensione autoaggressiva e autodi-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

struttiva, che testimonia una struttura di personalita` molto spesso ai confini della psicosi. 2.3. Sindromi rare Dobbiamo accennare qui a due sintomatologie che, seppur di difficile inquadramento, vengono comunque ritenute dalla maggior parte degli AA. come facenti parte dell’isteria: a) b)

sindrome di Ganser; personalita` alternanti.

La sindrome di Ganser e` molto rara, nonostante che numerosi sono i lavori dedicati a questo argomento. Essa consiste in una reazione demenziale che insorge prevalentemente negli uomini con un livello intellettivo e culturale generalmente basso, messi in carcere o che si trovano ad affrontare situazioni penose ed insopportabili. Potremmo dire che il paziente fa il pazzo: ha manifestazioni molto eclatanti che lo fanno somigliare ad un demente. C’e` a volte un certo disorientamento temporo-spaziale, ma il dato piu` caratteristico sono le risposte di traverso, che consistono in risposte che indicano che il soggetto ha compreso la domanda perche´, per quanto assurda, la risposta e` molto vicina a quella corretta. Per es., il soggetto dice che ‘‘la neve e` nera’’, ‘‘due piu` due fanno tre’’, ‘‘ci sono nove dita nella mano’’, o ‘‘il cane ha tre gambe’’ ecc. C’e` senz’altro una reazione psichica di tipo primitivo, ma, come fa giustamente notare S. Arieti (1969), si tratta di una sorta di gioco tra il paziente (che molto spesso, come dicevamo, e` in carcere) ed il medico: questi pone domande quasi idiote nella loro banalita` e l’altro riesce a dare risposte ancora piu` idiote. Si tratta, in ogni modo, di reazioni di breve durata che tendono a scomparire, con una ripresa normale delle capacita` intellettive: rimane, tuttavia, il sospetto di una possibile simulazione. Il caso piu` classico di personalita` alternante (per lo meno come modello letterario) e` il Dr. Jekill e Mister Hyde di Stevenson. In tutta la letteratura mondiale, comunque, ne sono stati descritti rari casi e si tratta percio` di una sindrome interessante piu` per la curiosita` che

puo` suscitare e per le eventuali speculazioni teoriche, anziche´ su un piano pratico. Si tratta di persone che possono presentare due o piu` personalita` indipendenti tra di loro: si potrebbe dire personalita` che coabitano, senza conoscersi. Il caso piu` conosciuto e` quello descritto da Morton Prince (R.d.P., 1965) di una donna divisa in ben tre personalita`: una moralista e masochista, una ambiziosa ed aggressiva ed un’altra di carattere perverso. Nondimeno, queste personalita` erano relativamente indipendenti: dopo sei anni di lavoro con l’ipnoterapia, l’Autore riuscı` ad integrare questi tre frammenti di personalita`.

2.4. La personalita` isterica Molti caratteri isterici rimangono tali per tutta la vita: essi presentano varie difficolta` e le piu` evidenti riguardano la sfera della sessualita`. A volte possono avere disturbi evidenti come impotenza o frigidita`; in genere c’e` sempre un deficit della libido, ma, seppur con limitazioni, queste persone possono trascorrere la loro vita senza avere sintomi chiari ed evidenti, ritenendo ‘‘normale’’ o comunque medio il loro comportamento sessuale. A volte, invece, puo` succedere che questi caratteri tendono a trasformarsi durante l’infanzia e l’adolescenza in formazioni reattive caratteriali, ovverosia c’e` un cambiamento di segno delle caratteristiche sopradescritte. I motivi sono vari e non sempre chiari, comunque si costituisce una sindrome che e` chiaramente patologica (anche se questi sintomi sono egosintonici e quindi non vissuti come anormalita` o comunque con sofferenza), che viene comunemente definita personalita` isterica. Anche se impreciso, conserviamo questo termine, sia perche` molto utilizzato e conosciuto, sia perche` il termine personalita` richiama abbastanza da vicino quello della personalita` psicopatica: ed in effetti questi soggetti hanno molti tratti in comune con la personalita` psicopatica. Preferiamo comunque descriverla qui proprio partendo da questa ipotesi di una comune base con altri quadri isterici. Molto brevemente possiamo dire che in questi soggetti le caratteristiche fondamentali del carattere isterico come l’inibi-

La psiconevrosi isterica

zione, la passivita` e i disturbi della sessualita` cambiano di segno. L’inibizione diventa esibizionismo, fino ad arrivare a dimensioni chiaramente istrioniche. Lo scambio del proprio mondo fantastico con la realta` fa sı` che queste persone tendano ad avere dimensioni mitomani piu` o meno accentuate. Dotate di una apparente sicurezza, tendono spesso a trasformarsi in piu` o meno abili manipolatori degli altri, mentre la fondamentale assenza di affettivita`, accompagnata ad una capacita` di esternare e drammatizzare le emozioni, spesso le rende simpatiche (ma per poco) e capaci di conquistare il pubblico. Le difficolta` sessuali di tipo inibitorio si trasformano in atteggiamenti continuamente seduttivi e manipolatori, fino a dar luogo a quadri che per l’uomo somigliano al ‘‘Don Giovanni’’ e per la donna al tipo ‘‘Messalina’’. Pur in questa tendenza varia e caleidoscopica e sotto questa apparente mobilita`, non e` difficile ritrovare le stesse caratteristiche, o meglio, le stesse conflittualita` del carattere isterico, con in piu` una maggiore dimensione di superficialita`. Di queste personalita` e` stato detto che non e` la persona che porta la maschera, ma e` la maschera che porta la persona. La personalita` isterica raramente e` un paziente, poiche´ proprio l’egosintonicita` di questi comportamenti, che sono dei reali sintomi caratteriali, difficilmente lo portano a rendersi conto della propria patologia. Spesso preferisce rivolgersi a personaggi che sono sul suo stesso piano (maghi, guaritori); spesso ha a che fare con la giustizia per comportamenti dissociali, soprattutto legati alla sua tendenza alla mitomania; a volte riesce ad utilizzare le sue capacita` istrioniche dandosi alla recitazione, anche se con risultati modesti.

3. Il carattere isterico La maggior parte degli Autori e` d’accordo circa l’esistenza di una personalita` anormale nei soggetti affetti da manifestazioni isteriche, anormalita` chiaramente preesistente all’insorgenza del sintomo. Per es., Chodoff e Lyons (R.d.P., 1965) ritengono che tra i pazienti isterici da loro studiati

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nessuno presentasse una personalita` normale. Stephens e Kamp (R.d.P. 1965) ritengono che, su un campione di 100 isterici studiati nel tempo, nessuno potesse essere considerato normale. Secondo Lyungberg (1957) invece, su 263 isterici, solo la meta` poteva essere considerata anormale prima del sintomo. P.B. Schneider e collaboratori (R.d.P., 1965) hanno trovato su 78 isterici ben 64 individui che presentavano tratti di personalita` anormali. Senza dare eccessivo significato alle statistiche, si puo` comunque dire che la maggior parte degli Autori e` d’accordo sulla preesistenza di tratti anormali nel carattere nel futuro isterico. Ma detto questo non possiamo dire di piu`, perche´ l’apparente accordo degli Autori cessa quando si tratta di descrivere quali siano i tratti caratteriali patognomonici o per lo meno significativi del carattere isterico. Per carattere si intende un insieme di patterns comportamentali abbastanza fissi e stabili che tendono a connotare una persona, nel senso che quella persona tendera` mediamente a reagire agli avvenimenti secondo modalita` che le sono caratteristiche: gli aspetti caratteriali possono essere formati sia dallo sviluppo di dimensioni personali valide, come pure essere ‘‘precipitati di conflitti’’ (O. Fenichel, 1951): in questo caso, comunque, rimane la caratteristica di essere egosintonici. Quali sono i tratti salienti del carattere isterico? Uno dei tratti piu` caratteristici, ed anche tra quelli descritti per primi, e` certamente la suggestionabilita`, cioe` la tendenza ad assumere comportamenti o stati emotivi di un’altra persona, fino ad arrivare a situazioni di estrema dipendenza e passivita`. Non e` un caso che l’ipnosi e` stata introdotta per lo studio e per la cura dei disturbi isterici proprio per questa caratteristica di utilizzare la suggestionabilita`. La suggestionabilita` e` collegata direttamente alla passivita` e alla dipendenza, e sono queste tre caratteristiche che danno quell’impronta di immaturita` che quasi tutti gli Autori considerano essere un tratto patognomonico (per quanto piuttosto vago ed ambiguo) del carattere dell’isterico. Altra caratteristica importante e` una certa inibizione globale, sia sul piano istintuale che affettivo, che conferisce spesso un aspetto di stupidita`. Molti studi

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sono stati fatti sul Q.I. dell’isterico: i dati (come tutti i dati statistici) sono discordanti, a volte impossibili da correlare; pare, in ogni caso, che piu` che di una diminuzione del Q.I. si debba parlare di persone che, proprio a causa della loro inibizione affettiva, manifestano una certa apparenza di stupidita`. Questa inibizione si rileva in maniera ancora piu` manifesta sul piano della sessualita`, per cui il carattere isterico presenta sempre difficolta` o veri disturbi della sessualita`. C’e` una tendenza spiccata a rifugiarsi in un mondo di fantasticheria che viene sentito come piu` accettabile della realta`, ma questa tendenza e` piuttosto pericolosa e fa sı` che il carattere isterico tenda a scambiare spesso per realta` la propria immaginazione e quindi piu` facilmente e` soggetto a subire delle frustrazioni. Questo mondo di fantasticheria serve spesso come compensazione e rivela un’altra caratteristica dell’isterico: quella di avere una profonda sensazione di impotenza ed incapacita`. Anche se non lo ammettono, gli isterici sentono che a loro manca sempre qualcosa, e questa sensazione li rende facilmente succubi di tutta una serie di messaggi pubblicitari che promettono sempre qualcosa in piu` (piu` alti, piu` muscoli, piu` potenza sessuale, piu` fascino). Oppure puo` far sviluppare in loro delle tendenze tossicofiliche, cioe` la tendenza a ‘‘prendere qualcosa’’ (in genere farmaci o anche alcool) che li renda piu` forti e meno inibiti. La stessa dinamica, anche se piu` complessa, si manifesta nella scelta del partner: esso deve essere valorizzante (la donna bella, l’uomo importante), ma gia` la scelta dell’oggetto idealizzato fa trasparire la tendenza profonda alla negazione ed al disprezzo, proprio perche´ l’oggetto idealizzato rimane tale finche´ rimane distante ed intoccabile. Il carattere isterico, inoltre, ha scarsa capacita` di verbalizzare il proprio mondo interno: questo in parte e` correlato con la tendenza a privilegiare, in varie occasioni, il linguaggio mimico o del corpo. Un’altra caratteristica e` una certa superficialita` delle manifestazioni emotive e soprattutto affettive: essa dipende da una reale difficolta` di stabilire rapporti profondi e di scambio con l’altro, mentre permane il bisogno di un pubblico al quale esibirsi. In questo senso, si puo` comprendere il vecchio aforisma che dice che

si puo` immaginare uno schizofrenico su di un’isola deserta, ma non certo un isterico. Tutte queste caratteristiche possono essere ricondotte a due strutture fondamentali: l’inibizione pulsionale ed una estrema dipendenzapassivita` dagli altri, entrambe effetto diretto di una forte tendenza alla rimozione. Questa inibizione puo` a volte condurre, sul piano sessuale ed intellettivo, a delle parziali formazioni reattive, nel senso che il blocco intellettivo si trasforma nel cosiddetto complesso di intelligenza (il soggetto tendera` a mostrarsi colto ed intelligente, ma in realta` al massimo si tratta di una banale erudizione del tipo ‘‘Lascia o raddoppia’’) e l’inibizione sessuale in una tendenza a colorare in senso seduttivo i rapporti. Qual e` la genesi del carattere isterico? Esso si forma nei primi anni di vita in una complessa interazione dinamica del bambino con i personaggi piu` significativi di quel periodo (in genere i genitori e i familiari piu` importanti). Questa dinamica si articola su due piani. Su di un piano piu` superficiale, da parte degli adulti c’e` una situazione di non accettazione della spontaneita` e dell’autonomia del bambino, che viene castrato e sottomesso ad una serie di regole piu` o meno restrittive, inducendo il bambino ad una necessaria identificazione con uno dei genitori. In questo senso si spiega il ruolo culturale ed il tipo di educazione come fattore importante nel determinare l’isteria: si e` sempre ritenuto che l’austera (per lo meno apparente) morale ottocentesca tendesse ad aumentare i casi di nevrosi isterica. In maniera piu` precisa, potremmo dire che una tendenza alla repressione delle attivita` istintuali del bambino fa sı` che questi diventi piuttosto inibito, dipendente e passivo e che possa solo identificarsi. L’identificazione, e quindi il carattere fittizio della sua dinamica interpersonale, creano un’altra caratteristica che e` quella della oralita` del carattere isterico. Questi ha bisogno sempre di qualcuno, anche se poi puo` scambiare facilmente una persona per un’altra o un oggetto con un altro; questa caratteristica dipende proprio dalla mancanza di profondita` nello stabilire i rapporti. Su di un piano piu` profondo, il bambino reagisce alla dinamica dei genitori, prevalentemente

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di quello di sesso opposto. Genitore che, per una serie di problematiche personali, tende ad avere gravi difficolta` rispetto alla propria identita` soprattutto sessuale e pertanto, nei confronti del figlio di sesso opposto, si comporta in maniera seduttiva. Seduttivita` che, sotto la facciata di interesse, e` invece espressione di odio e di disprezzo, non tanto per il figlio come persona, quanto per il figlio come entita` sessuata. Il bambino tende normalmente ad identificarsi con il genitore seduttivo di sesso opposto, anche perche´ viene spesso respinto dal genitore dello stesso sesso, avendo questi, magari, problemi di conflittualita` maggiori nei riguardi del figlio. Pertanto il massimo dello sviluppo e` quello dell’identificazione, con una dinamica interna fortemente ambivalente verso questa identificazione, per la presenza di forti sentimenti ostili (in genere molto rimossi) che spiegano, attraverso la creazione di vissuti di colpa, la tendenza masochistica che spesso l’isterico presenta. Il bambino non puo` quindi superare il complesso edipico, non riesce mai a realizzare una sua identita`, ed e` una maschera di quelli che dovrebbero essere i rapporti umani. Questa dinamica interpersonale finisce per creare il carattere isterico. Questo, come dicevo, puo` rimanere tale per tutta la vita. In alcuni casi, in genere per situazioni piuttosto complesse e spesso traumatiche, si puo` avere una formazione reattiva: il paziente tende a negare queste caratteristiche e trasformarle in tratti di segno opposto. Quando parlo di formazione reattiva (che poi da` luogo alla personalita` isterica) mi riferisco ad una situazione piuttosto globale e massiccia. Infatti, anche nel carattere isterico, si possono a volte avere formazioni reattive, ma limitate ad un solo aspetto. Il piu` frequente e` la trasformazione dell’inibizione sessuale in seduttivita`. Potremmo dire che la seduttivita` e` gia` un sintomo, o ha il significato del sintomo. Cioe` nella seduttivita` viene fuori pienamente e chiaramente la dimensione ostile-aggressiva nei confronti dell’altro sesso, mentre rimane, anche se mascherata, l’inibizione sessuale. Il carattere isterico rappresenta comunque una situazione che e` pur sempre instabile: se da una parte la massiccia rimozione istintuale sembra aver messo il soggetto al riparo da pericoli, in

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effetti il carattere isterico ha un bisogno compulsivo dell’altro e quindi dipende sempre dall’altro. Quindi possono crearsi situazioni che possono essere (o possono essere vissute) come traumatiche. Un avvenimento frustrante mette in pericolo l’equilibrio pulsionale del soggetto. Non certamente quello libidico, che e` sempre piuttosto limitato, essendo ridotti i rapporti al bisogno dell’altro come pura presenza e possesso (e che pertanto si tende a controllare e manipolare perche´ non se ne vada), ma quello attinente alle pulsioni ostili. Di fronte all’emergenza di pulsioni ostili, il paziente e` angosciato e tende a creare un sintomo di conversione: la tensione istintuale sta andando oltre la capacita` difensiva. Di fronte al pericolo di una realizzazione, il paziente crea il sintomo. Evidentemente il sintomo ha un valore simbolico preciso e serve a tamponare l’angoscia del paziente facendogli vivere una situazione rassicurante, nella misura in cui, attraverso il sintomo, il paziente sente in qualche modo di avere sotto controllo il proprio conflitto. Questo e` l’utile primario del sintomo isterico. ` evidente che poi il sintomo puo` essere utilizzato E in qualche modo per controllare e manipolare l’ambiente: questo costituisce l’utile secondario. Cio` non sempre accade perche´, ad es., l’ambiente puo` reagire aggressivamente e sadicamente al sintomo di conversione: senza peraltro far desistere il paziente dal sintomo, soprattutto quando l’utile primario e` molto forte. Quando H.S. Sullivan, a proposito della genesi del sintomo isterico, la descrive come un’idea folgorante e brillante che viene al paziente per risolvere un certo problema e che immediatamente viene rimossa, onde metterla in pratica senza esserne piu` coscienti, credo che si riferisca esclusivamente a questa dimensione interpersonale dell’utile secondario, che e` importante, ma non e` pero` tutto. Per fare un esempio esplicativo possiamo supporre che un soggetto, di fronte ad una situazione frustrante, senta il pericolo dell’emergenza di cariche ostili. Il timore che queste possano emergere e tramutarsi in atto puo` ad esempio procurargli una paralisi della mano che lo rassicura circa l’impossibilita` da parte sua di poter mettere

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

in atto le fantasie ostili. Ma la paralisi dell’arto ha anche un altro significato: rappresenta un gesto autopunitivo e la connessa espiazione. Vengono risolti cosı` molti problemi: in tal senso si capisce la persistenza del sintomo a causa del significato difensivo che costituisce l’utile primario. Successivamente, il sintomo paretico puo` essere utilizzato per controllare, manipolare l’altro, per suscitargli sensi di colpa e, in questo senso, il paziente riesce ad irretire gli altri. Questo e` l’utile secondario. La dinamica delle pulsioni ostili e` certamente molto importante ma e` spesso sottovalutata nell’isteria, perche´ a volte si evidenziano solo i sensi di colpa e l’atteggiamento masochistico come conseguenza delle fantasticherie ostili. Basti pensare agli isterici polioperati per capire quanta ostilita` e rabbia si sia mutata in autoaggressivita`: questa autoaggressivita`, solitamente, viene in seguito esibita per suscitare i sensi di colpa nell’altro. Tale dinamica somiglia molto a quella del depresso: anche questi, attraverso una serie di sintomi e di vissuti depressivi (per esempio il delirio di colpa o di rovina), da una parte soddisfa la propria dimensione masochistica, dall’altra tende a centrifugare questo suo dolore sugli altri, spesso suscitando sensi di colpa e di impotenza.

4. La psicodinamica Abbiamo descritto il carattere isterico e la molteplicita` dei quadri sintomatologici dell’isteria. Ma e` possibile trovare una spiegazione per questa multiforme e proteiforme sindrome? Certamente le teorie non mancano: anzi possiamo dire che ce ne sono fin troppe; in genere l’isteria ha rappresentato una specie di cavallo di battaglia per affrontare e confrontare proposizioni teoriche ed eziologiche diverse. Dalla teoria della migrazione uterina a quella degli umori, fino alle teorie piu` recenti, o di tipo organicistico (spesso intesa piu` come generica predisposizione che vera lesione organica) o di tipo psicodinamico. Cerchiamo ora di proporre uno schema che in maniera sufficientemente unitaria possa fornire una spiegazione dei vari fenomeni dell’isteria. L’isteria di conversione nasce quasi sempre sul ter-

reno di un carattere isterico, in seguito ad una situazione traumatica, in genere di tipo frustrante. Questo trauma psichico (vero o immaginario che sia) tende a mettere in pericolo l’equilibrio instabile del carattere isterico. Questi reagisce con la creazione di un sintomo che ha uno specifico significato e valore simbolico e che si riferisce alla specifica conflittualita` di quel paziente. A volte si puo` avere (in eta` infantile o adolescenziale) la trasformazione del carattere isterico in una formazione reattiva, che continuiamo a denominare personalita` isterica. Visualizzando l’evoluzione abbiamo: Carattere isterico → carattere isterico Carattere isterico → formazione reattiva = personalita` isterica Carattere isterico + trauma psichico = isteria di conversione La relativa chiarezza dello schema non implica una semplicita` nella spiegazione. A volte, il carattere isterico puo` sviluppare quelli che sono considerati piu` classicamente i sintomi isterici, cioe` i sintomi di conversione. Per conversione si intende una capacita` di trasferire sul piano somatico un determinato conflitto che trova nella drammatizzazione corporea un relativo e parziale esaudimento; infatti il sintomo diventa un compromesso tra la possibilita` di emergenza di una certa pulsione (in genere ostile) ed il timore che questo avvenga. E. Glover (1953) dice: il fenomeno della conversione percio` sta a meta` strada fra l’inibizione e l’azione intenzionale ed ` essenzialmente un’azione di comappropriata. E promesso.

Il conflitto viene spostato sul corpo ed in questo modo viene in gran parte distanziato: questo permette all’isterico di poter manifestare quella famosa ‘‘bella indifferenza’’ che indica prevalentemente un’assenza di ansia e di preoccupazione nei riguardi del proprio disturbo. In questo senso, si vede che il meccanismo isterico somiglia abbastanza a quello fobico: lo spostamento e la

La psiconevrosi isterica

simbolizzazione fanno sı` che il soggetto riesca (anche se a costo di notevoli inibizioni e rinunce) a dominare l’angoscia. Anche il fobico sposta su di un oggetto simbolico il proprio conflitto e lo allontana da se´. Fin quando non si incontra con la situazione fobica, non ha l’angoscia anche se paga, per questo distanziare l’angoscia, una serie di limitazioni. Nell’isterico, questo meccanismo e` ancora piu` riuscito che nel fobico. Egli non ha bisogno di allontanarsi dal proprio conflitto: lo porta con se´ e lo esibisce. In questo senso, e` giusto affermare che la conversione isterica rappresenta l’operazione piu` riuscita per contenere il conflitto. Ma come si arriva al meccanismo di conversione, e poi proprio a quel particolare tipo di sintomo? La scelta del sintomo e` legata sia alla storia personale del paziente, sia ad un’eventuale compiacenza somatica (nel senso che un particolare organo puo` essere privilegiato, perche´ magari gia` malato), ma comunque la scelta avviene sempre in base ad una precisa motivazione inconscia e quindi ha sempre un significato simbolico preciso: questo e` rintracciabile non solo nei casi di conversione unica, ma anche quando ci puo` essere una certa intercambiabilita` dei sintomi. Rimane comunque aperta la questione del perche´ si crea questo meccanismo. Il meccanismo di conversione interviene allorquando un carattere isterico si trova di fronte ad una situazione traumatica: la situazione traumatica vissuta come frustrante genera quindi rabbia e l’emergenza di tutti quei sentimenti ostili e distruttivi che fino ad allora erano stati ampiamente rimossi. Di fronte a questa emergenza sorge l’angoscia che le pulsioni distruttive possano realizzarsi: pertanto il paziente ha bisogno di qualcosa che lo tranquillizzi e lo rassicuri. Questo avviene attraverso la formazione del sintomo. Se un paziente desidera e teme di aggredire l’altro manualmente o verbalmente, puo`, attraverso una paresi della mano o una afonia, mettersi al sicuro. Ma quando parliamo di situazione o avvenimento traumatico bisogna sempre rapportarlo alla storia ed alla specifica situazione dinamica di quella persona. Il trauma psichico a volte puo` essere una situazione evidente ed anche comprensibile, a volte puo` essere un avvenimento insigni-

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ficante (chiaramente per gli altri) o addirittura puo` essere dovuto al timore di un possibile trauma, senza alcun elemento di realta`. Per es., la morte di una persona cara e` certamente un trauma psichico, che normalmente si supera attraverso una situazione di lutto. Il matrimonio di un fratello certamente non e` un trauma psichico: ma per un carattere isterico, legato da notevole dipendenza a questa figura, il matrimonio (con l’allontanamento e la sensazione di sentirsi abbandonato) puo` essere vissuto come una morte, cioe` come un trauma psichico molto intenso, con in piu` la difficolta` e l’impossibilita` di poterlo elaborare. In altre situazioni, il trauma puo` essere semplicemente il fidanzamento o addirittura la crescita di una persona significativa, nel senso che il futuro isterico puo` collegare la crescita con una futura separazione che lo angoscia. Bisogna pertanto tener presente che il concetto di trauma psichico deve essere valutato in un’accezione molto lata, ed in questo senso possiamo dire che c’e` sempre un trauma psichico, che genera nel carattere isterico un sintomo di conversione.

5. Il caso clinico Questa descrizione deriva dall’analisi di una donna con un disturbo di tipo isterico. Molto probabilmente, le cose descritte qui sembreranno diverse e nuove da quanto abbiamo detto sopra. Le due dimensioni non sono in opposizione: sono due visioni diverse, nel senso che la prima e` piu` macroscopica e superficiale, questa e` molto piu` ` il problema microscopica ed approfondita. E della foresta e dell’albero: se ci si ferma a descrivere l’albero puo` essere difficile riconoscere una foresta. Bisogna tener presente ambedue le visioni. Si tratta di una giovane donna che presenta un sintomo, chiaramente di natura isterica, insorto all’eta` di circa 26 anni. La paziente lamenta delle crisi che definisce di confusione, che le rendono difficili i rapporti con gli altri e tendono sempre piu` a deprimerla, anche perche´ il rendimento sul lavoro va progressivamente diminuendo tanto da temere un licenziamento. Le

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crisi di confusione sono abbastanza frequenti e consistono in un’incapacita` di capire quanto le succede intorno, sente le persone lontane, le parole non sono piu` comprensibili, tutto tende a sfumare in un’atmosfera di nebbia. Queste crisi possono essere piu` o meno lunghe; comunque quanto piu` lei si sforza di concentrarsi, tanto piu` il disturbo puo` comparire ed aumentare. Accanto a questo sintomo centrale gravitano alcuni disturbi dei quali uno dei piu` importanti e` una sensazione di depressione e di sfiducia in se stessa. Questo sintomo era insorto circa un anno prima, in coincidenza con l’inizio di una causa di separazione dal marito e soprattutto con la partenza reale del marito che si era recato in una citta` lontana per iniziare a lavorare. Questo avvenimento, pur essendo stato provocato, come vedremo, dalla paziente, era stato vissuto da lei come traumatico anche se ella, poi, razionalizzava e giustificava il tutto. La paziente si era sposata molto giovane con un ragazzo che conosceva gia` da alcuni anni: erano andati a vivere da soli e avevano vissuto un rapporto tranquillo e apparentemente soddisfacente per un lungo periodo. Questo me´nage era comunque particolare e rivelava, anche se non in maniera evidente, una serie di conflittualita` che, tuttavia, avevano trovato un apparente equilibrio. La paziente, che aveva avuto una certa difficolta` negli studi, aveva deciso abbastanza presto di smettere, ed aveva iniziato un lavoro che sentiva soddisfacente, ma che soprattutto le dava una autonomia economica: pertanto la paziente aveva aiutato il marito a laurearsi, dandogli la possibilita` di poter studiare senza lavorare. Era la paziente che gestiva completamente la situazione ed in qualche modo ella cercava di stabilire un rapporto molto chiaramente di predominio: la paziente aveva trasferito sul marito tutta una serie di sue illusioni frustrate nel campo dello studio, e pur nutrendo una segreta invidia per il marito che poteva conseguire una laurea, ella in fondo riusciva a controllarla e dominarla attraverso questa dinamica di bisogno-dipendenza da parte del marito. Molti episodi facevano capire, anche se retrospettivamente, come la paziente agisse secondo un ruolo di tipo paterno-assistenziale nei confronti del marito: in fondo lei viveva e gestiva

la situazione come l’uomo di casa (vedremo poi perche´ la paziente aveva bisogno di questo ruolo). Un anno prima della laurea del marito, la paziente, solitamente tranquilla e complessivamente soddisfatta, comincia a sentirsi inquieta, sente che la vita e` piuttosto vuota, ha bisogno di uscire e di vedere piu` gente, comincia a sentire i problemi del femminismo: sente che deve diventare piu` autonoma e libera. Inizia una relazione con un amico comune, relazione che va avanti per un certo periodo di tempo che sara` poi descritto dalla paziente come il momento piu` felice della sua vita: in effetti rispetto al quadro molto idilliaco, ma fondamentalmente inibito, del rapporto con il marito, la paziente vive un momento per lo meno piu` movimentato. Inoltre, in questo me´nage a tre ella crea una situazione particolare: da una parte, riesce a mettere d’accordo la liberta` e l’autonomia con la sicurezza (cose che in genere non vanno d’accordo nel senso che l’autonomia e la liberta` non possono accordarsi con una situazione di sicurezza e di comodo); dall’altra, la paziente tende a ricreare una situazione a tre come nella sua famiglia: una famiglia dalla quale non era mai riuscita a distaccarsi emotivamente, nonostante ella si fosse allontanata precocemente da casa e avesse conseguito presto una sua autonomia sul piano economico. Mentre con il marito essa aveva giocato il ruolo del padre, nel rapporto a tre ritrova una situazione piu` antica: l’amante che come il padre la fa divertire, la porta a cena fuori, il marito che come la madre sta a casa ad attendere, e lei come una piccola grande bambina che ormai si sente cresciuta senza essersi mai separata, libera senza mai essersi resa autonoma. Ma a questo punto bisogna chiedersi quale significato aveva per la paziente l’inizio di questa relazione. Poteva essere un reale atto di autonomia e di emancipazione, poteva rappresentare la possibilita` di avere nuovi rapporti, cioe`, in altri termini, il nuovo rapporto poteva significare un momento di sviluppo e di crescita. Ma, in realta`, esso nasce non come reale desiderio, ma come bisogno per tamponare le angosce di abbandono nate in coincidenza con la laurea del marito. Infatti, il marito che si laurea viene vissuto come possibilita` di essere abbandonata, o, piu`

La psiconevrosi isterica

precisamente, la paziente prova angoscia perche´ sente la fine di questo rapporto di dipendenza e quindi la fine della sua possibilita` di controllo. Questo e` il primo evento traumatico; non solo la paziente non riesce ad elaborarlo, ma lo nega e trova cosı` un apparente rimedio: ‘‘improvvisamente’’ ella si sente cambiata e disponibile ad un nuovo rapporto che non soppianti il primo, ma che si collochi parallelamente ad esso. Nonostante le apparenze, pero`, la situazione diventa sempre piu` precaria per la paziente: da una parte la situazione dipende sempre piu` dagli altri, dall’altra ella deve comunque affrontare il momento della separazione (per lo meno simbolica) dal marito-figlio che avviene inesorabilmente con la laurea di questi. Inoltre, anche per un comportamento piu` o meno inconscio della paziente, la situazione a tre diventa impossibile; ed ella ben presto si trova di fronte alla necessita` di una scelta. Quando la paziente si trova di fronte all’aut-aut del marito e quindi alla necessita` di dover scegliere, vive per la seconda volta l’evento traumatico. Solo che questa volta non ha alcun meccanismo per poterlo compensare: ed e` in questo momento che cominciano ad insorgere i primi disturbi. La paziente comincia a controllare ossessivamente tutti i suoi pensieri, come un tentativo magico di annullare tutto quanto e` successo, ma quando si rende conto che non riesce ad ottenere nulla, entra in ‘‘confusione’’. Qual e` il significato di questo sintomo? Da una parte, esso esprime una reale angoscia collegata al problema della separazione dal marito che fino ad allora aveva avuto un ruolo molto importante nella sua dinamica psicologica: la ‘‘confusione’’ esprime una situazione di angoscia, di confusione vera, cioe` di non sapere cosa fare. Questo e` il nucleo piu` profondo; su di un piano piu` superficiale, la «confusione» e` utilizzata dalla paziente per non sentirsi responsabile di quanto e` accaduto, ponendosi nel ruolo di chi non sa cosa fare e quindi cerca una protezione e un aiuto. Ma per comprendere piu` a fondo il sintomo, bisogna fare un passo indietro per descrivere la situazione psicologica della paziente prima del sintomo, cioe` quando tutto sembrava tranquillo e normale. La paziente aveva (ed ha logicamente

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anche ora che e` venuto fuori il sintomo) un carattere isterico. Il primo dato era costituito dal problema riguardante la propria identita` sessuale: la paziente accettava molto malvolentieri la propria sessualita`. A questo problema aveva sopperito creandosi un falso ruolo maschile che aveva bisogno, come tutti i ruoli, di una spalla (rappresentata dal marito che la paziente viveva come qualcosa a meta` tra un figlio ed una moglie). Molto inibita sul piano funzionale dell’aggressivita` (che al limite poteva esplodere in alcune occasioni, alle quali seguivano sempre intensi sensi di colpa), anche sul piano intellettivo (l’apprendimento e lo studio) aveva avuto delle difficolta` e, pur avendo un’intelligenza piu` che normale, aveva dovuto rinunciare a proseguire gli studi. Anche a questo la paziente aveva ovviato, trovandosi un partner che invece si laureava. Altro elemento importante era la suggestionabilita` che si manifestava nella tendenza ad essere succube dell’ambiente e soprattutto del giudizio degli altri. Questi pochi dati credo siano sufficienti, anche perche´ e` piu` interessante chiedersi come mai si e` costituito questo carattere isterico. Certamente, esso e` nato ed e` collegato alla storia ed agli avvenimenti della paziente e soprattutto ai rapporti con i suoi genitori. Il padre, fondamentalmente autoritario, aveva sempre nutrito un profondo disprezzo per le donne, non a caso aveva scelto una moglie che era un personaggio molto scialbo, e alla quale aveva sempre rimproverato questa sua dimensione, costringendola a mettersi completamente in disparte. Nei confronti della figlia egli aveva nutrito un sentimento molto complesso: da una parte, egli vedeva nella figlia un mezzo di affermazione e di ostentazione e cercava pertanto di farla a sua immagine e somiglianza; dall’altra, egli rifiutava la figlia proprio perche´ era una donna. Questo conflitto si esprimeva attraverso un atteggiamento fondamentalmente seduttivo da parte del padre; tale atteggiamento aveva determinato una risposta ambivalente nella figlia: da un lato, un’accettazione (che comunque le aveva creato sensi di colpa nei confronti della madre); dall’altro, un rifiuto delle dimensioni piu` profonde del padre, quelle che esprimevano un

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rifiuto della figlia come donna ed una dissimulata rabbia per non aver avuto l’erede maschio. Questa situazione conflittuale era stata apparentemente risolta dal momento che la paziente aveva finito con l’identificarsi con il padre, anche perche´ non aveva mai trovato una corrispondenza affettiva con la madre. Quindi l’unica possibilita` era stata l’identificazione con il padre, assumendone il ruolo e le modalita` comportamentali; ed era questo ruolo che lei aveva riprodotto nei confronti del marito. La fine del rapporto con questi aveva tolto alla paziente ogni possibilita`, anche di una falsa realizzazione, ed aveva determinato cosı` la crisi e l’inizio dei disturbi. Questi pochi accenni danno un’idea del percorso, dell’iter medio di una persona che trasforma una problematicita` nata nel rapporto con i genitori, in tratti di carattere. La situazione psicologica tende poi a mantenere una sua stabilita` attraverso un rapporto (quello con il marito) che comunque presenta i segni abbastanza evidenti di una conflittualita`: il sintomo compare allorche´ questo equilibrio precario viene messo in crisi e la paziente non riesce a trovare ulteriori adattamenti. A questo punto il sintomo potra` tendere a stabilizzarsi oppure a scomparire: l’evoluzione e` legata non solo alla dinamica intrapsichica della paziente, ma anche a tutta una serie di rapporti interpersonali. Certamente l’incontro ed il lavoro con uno psicoterapeuta puo` essere determinante. In questo senso, bisogna tener presente che la comparsa di un sintomo, pur avendo delle radici antiche, puo` variare a seconda di una serie di rapporti e di incontri che potranno incidere sulle possibilita` del paziente sia in senso evolutivo che in senso involutivo.

5.1. L’isterico ed il medico Credo utile aggiungere alcune considerazioni circa il complesso rapporto tra il medico e il paziente isterico: rapporto che certamente non si puo` dire dei migliori, anche se il problema si estende alle psiconevrosi in genere. Spesso il medico, e per vari motivi, tende a

classificare i pazienti in due categorie: quelli che hanno qualcosa e quelli che non hanno niente. Questa comoda, ma falsa dicotomia, puo` far sı` che egli si senta molto frustrato per non aver saputo diagnosticare o curare una siringomielia, ma non prova nessun imbarazzo nel non aver saputo riconoscere o aiutare un isterico. Come mai? Forse perche´ non considera che una sindrome isterica puo` essere altrettanto paralizzante di una reale paralisi, con in piu` tutti gli effetti negativi sull’ambito familiare? Certamente queste cose le conosce; ma le nevrosi in genere (e l’isteria in particolare) possono stimolargli la sensazione di non saper cosa fare, come muoversi; oppure la nevrosi tocca alcuni suoi punti personali o professionali che egli preferisce non vedere. Cosı`, anziche´ accettare — e far accettare al paziente —, la realta` del disturbo nevrotico ed anche la complessita` di un’eventuale cura, il medico molto spesso preferisce celare e celarsi dietro l’alibi razionale che in fondo l’isterico fa parte di quel gruppo che non ha niente, avendo in questo, come complice, la resistenza dell’isterico ad affrontare la propria conflittualita`. Questa situazione di non chiarezza fa sı` che si creino situazioni di aggressivita` (e non sempre velata) reciproca, ed alla fine e` difficile distinguere chi sia vincitore e chi perdente. Il medico spesso intuisce il significato del sintomo isterico, ma anziche´ esplicitarlo puo` avere due comportamenti: uno di netto rifiuto e l’altro di ambigua accettazione. Il rifiuto aperto si manifesta attraverso la formulazione: il paziente isterico non presenta niente di organico quindi non ha niente, o peggio ancora e` un simulatore. Abbiamo gia` detto della differenza di queste due situazioni, ma non ci stancheremo di sottolinearla, anche perche´, troppo spesso, sono i medici ad avvalorare l’equivalenza isteria = simulazione. Quindi, se non ha niente o se e` un simulatore, l’isterico non e` comunque affare di sua competenza: il paziente viene mandato via. Ma il rifiuto, per quanto possa creare confusione nel paziente, e` sempre meno pericoloso dell’accettazione ambigua. Questa avviene attraverso una dinamica per cui il medico deve a tutti i costi continuare a

La psiconevrosi isterica

sentirsi attore e regista e pertanto finisce con l’accettare, anziche´ mettere in crisi, la domanda del paziente. In questo modo, l’accettazione acritica del sintomo isterico puo` portare per esempio ad una serie di ricerche cliniche inutili o ad un intervento chirurgico assolutamente inutile sul piano medico e assolutamente pericoloso sul piano psicologico. Molte asportazioni di appendici (per citare il caso piu` frequente) avvengono esattamente con questo meccanismo. (Poi, di fronte ad una appendice perfetta e normale, il medico puo` sempre giustificarsi dicendo che in fondo ‘‘l’appendice non serve a nulla’’ oppure ‘‘si sarebbe potuta infiammare’’). A volte il medico si avventura con il paziente in un viaggio che apparentemente egli ben conosce, ma che invece si rivela sempre piu` arduo e pericoloso: molto spesso, finisce per dover demandare ad un altro collega (in genere specialista) il proseguimento del viaggio. E questi viaggi non sono esenti da incidenti. Donna di 48 anni, casalinga. Sposata, un solo ` sempre figlio di cui sono prossime le nozze. E stata ‘‘nervosa’’. Da molti anni presenta dolore epigastrico e disturbi dispeptici; l’esame radiografico dell’apparato digerente ha messo in evidenza una piccola ulcera duodenale. Da circa un anno sono comparse vertigini e bruciori agli occhi, con ammiccamento. La paziente consulta un oculista: ‘‘congiuntivite’’, forse infezione. Terapia: gocce, un collirio di cui la paziente non ricorda il nome. Il medico curante interpellato e` molto evasivo sulla funzione di tali gocce; nasce nella paziente la convinzione di avere una grave malattia che le viene tenuta nascosta. Dopo quindici giorni torna dallo specialista: i disturbi sono invariati, ma le viene detto che e` guarita. Consulta allora un altro oculista, il quale prescrive altre gocce ‘‘diverse dalle prime’’, per otto giorni. Nessun risultato. La paziente ricorre allora ad un terzo oculista, che gode maggior prestigio dei precedenti. Questi avanza l’ipotesi di un disturbo generale extraoculare e consiglia il ricovero in ospedale. Tutti gli ‘‘accertamenti’’ risultano negativi; viene riscontrata pero` un’artrosi cervicale. Dopo venti giorni la paziente e` dimessa, con diagnosi di ‘‘spasmo’’ e rinviata al medico generico.

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Quest’ultimo prescrive cure varie per l’artrosi. La paziente torna dall’oculista, l’ultimo che aveva consultato; viene sottoposta ad intervento di alcoolizzazione bilaterale del trigemino. La sintomatologia comunque persiste, anzi compaiono astenia, insonnia. Dietro consiglio di un’amica, la paziente si rivolge allo psichiatra. Questo caso costituisce un ottimo esempio di quanto Balint (1963) ha chiamato collusione dell’anonimita`. Pone inoltre in evidenza l’incapacita` del medico di considerare il paziente nella sua globalita`, di tenerne in considerazione i vissuti, di ascoltare. Posta in una prospettiva diversa, la paziente riferisce infatti che vertigini e disturbi oculari sono iniziati nello stesso periodo in cui il figlio ha cominciato a parlare di matrimonio. Da notare che il bruciore agli occhi, con tics, si e` particolarmente accentuato quando la paziente ha dovuto cambiar casa: quasi un non voler vedere gli avvenimenti a intensa carica affettiva.

6. Diagnosi differenziale Un primo fondamentale criterio per la diagnosi differenziale, soprattutto per le forme di conversione somatica, e` un corretto esame clinico e neurologico che permetta di escludere la presenza di un disturbo organico. Sarebbe troppo lungo ed inutile descrivere tutte le possibili diagnosi differenziali: basti solo ricordare che gran parte della semeiotica neurologica e` nata proprio dalla necessita` di trovare segni patognomonici specifici del disturbo organico. Charcot e Babinsky hanno dato contributi tuttora validi, sia per la semeiologia dell’isteria che per quella delle affezioni neurologiche. Evidentemente questo e` utile, ma non sufficiente: cioe` non si puo` limitare la diagnosi di isteria ad una diagnosi per esclusione. Evidentemente, per evitare questo, e` necessario rifarsi al quadro psicopatologico proprio dell’isteria, ed alle caratteristiche psicologiche (il carattere isterico); si puo` fare cosı` non solo la diagnosi, ma anche dare un significato al sintomo. Mentre sul piano della diagnosi differenziale con le malattie somatiche il discorso e` relativa-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

mente semplice, piu` complesso puo` essere il problema nell’ambito di altri quadri o sindromi psichiatriche. Fermo restando che i quadri psichiatrici non sono fissi, cosı` come vengono descritti per ovvie necessita` didattiche, che una sindrome puo` sfumare o trasformarsi in una diversa (per lo meno sempre rimanendo sul piano nosografico) e che infine questi cambiamenti sono collegati all’iter del paziente e soprattutto alle possibilita` o meno di poter instaurare una corretta terapia. Sul piano delle psiconevrosi il problema puo` porsi soprattutto quando viene interessato il vissuto corporeo come nell’ipocondria, nei disturbi psicosomatici e nei sintomi vegetativi della nevrosi di ansia. L’ipocondriaco, in genere, non tende a presentare un disturbo, quanto piu` spesso la preoccupazione, che spesso si tramuta in una certezza, non facilmente modificabile, di essere affetto da una malattia: l’ideazione dell’ipocondriaco verte tutta su questo star male, sull’incurabilita`. Inoltre, a differenza dell’isterico, che in genere e` piuttosto suggestionabile, l’ipocondriaco e` invece molto rigido, ha poca fiducia nel medico, e ha sempre un atteggiamento di sospettosita`, di cupezza e di ansia. L’individuo affetto da disturbi psicosomatici ha in comune con l’isterico l’atteggiamento di relativa indifferenza verso il proprio disturbo. Per il resto, soprattutto la struttura caratteriale e` diversa: lo psicosomatico e` piuttosto iperattivo e soprattutto ha una scarsa capacita` di introversione e di fantasticare: e` la cosiddetta mentalita` operativa dello psicosomatico che lo rende estremamente piatto e molto povero sul piano psicologico. Una certa difficolta` di diagnosi possono presentare alcuni casi ove, a causa di un insieme di disturbi psicosomatici e di sintomi di conversione, il paziente tende a diventare praticamente un grande invalido che trascorre gran parte della sua vita tra ospedali ed allettamenti. In questi casi e` molto piu` facile che si tratti di quadri di tipo psicotico o borderline: la loro malattia esprime la totale incapacita` di proporsi e realizzarsi e forse la malattia somatica diventa un meccanismo di difesa rispetto all’emergenza di situazioni piu` profonde e piu` gravi. La nevrosi di ansia con disturbi vegetativi si distingue per l’estremo polimorfismo dei sintomi,

per l’estrema facilita` a scomparire (salvo a ripresentarsi), per una notevole quota di ansia, collegata non tanto alla paura di avere una malattia (quindi al presente), ma quanto piuttosto di poterla avere (quindi il timore e` proiettato nel futuro). Sul piano delle psicosi c’e` una reale possibilita` di evoluzione in senso schizofrenico: per molti Autori ci sarebbe addirittura un rapporto stretto tra queste due sindromi, tanto da creare una categoria nosografica come la psicosi isterica. Credo che la creazione di nuovi quadri tenda a confondere le idee e le spiegazioni, come e` successo nel passato, per la sindrome di istero-epilessia. Piuttosto che parlare di psicosi isterica e` opportuno tener presente che alcuni quadri isterici possono non evolvere ma piuttosto nascondere dei quadri ancora piu` gravi. I quadri che piu` facilmente tendono verso questa evoluzione non sono quelli di conversione somatica, ove questo meccanismo anzi sembra essere una difesa contro evoluzioni di tipo psicotico, quanto i quadri a conversione psichica ed in particolare gli stati crepuscolari. Bisogna anche qui ricordare i cosiddetti polioperati, cioe` pazienti che a causa di sospette sindromi algiche tendono a sottoporsi a numerosi interventi chirurgici, quasi in una sorta di automutilazione progressiva. Questi casi, piu` che evolvere, in genere sottendono situazioni gra- vi di tipo psicotico. Con la depressione non ci sono difficolta`: abbiamo descritto il quadro della depressione isterica che presenta tratti molto diversi da quelli della melanconia. Un discorso a parte merita invece il discorso sulla simulazione, che troppo spesso si e` finito per accomunare all’isteria. Da quanto abbiamo esposto, mi sembra che non dovrebbero esserci problemi a tener distinti questi due comportamenti. Il simulatore e` cosciente di quello che fa, lo fa con uno scopo ben preciso e normalmente imita dei quadri clinici che ha avuto modo di vedere o, eventualmente, di leggere. Il seguente esempio puo` essere paradigmatico. Un uomo era stato coinvolto in un incidente automobilistico riportandone un leggero stato di shock con contusione cranica. Dopo qualche tempo, avendo fatto praticare un EEG che metteva in evidenza modiche anomalie bioelettriche in sede fronto-frontale dx, il paziente comincio` a presentare delle crisi jacksoniane alla mano destra, abbastanza verosi-

La psiconevrosi isterica

mili. Quando gli feci notare che il quadro EEG non s’accordava con la sua manifestazione alla mano destra, il paziente, che chiaramente aveva pensato di poter trarre un vantaggio dall’incidente, comincio` qualche giorno dopo a presentare delle crisi jacksoniane alla mano sinistra. Evidentemente nella simulazione c’e` un piano ben preciso e cosciente che nulla ha a che fare con la dimensione inconscia che e` la dimensione invece dell’isterico quando presenta sintomi di conversione. Bisognera` anche accennare qui al rapporto tra isteria ed altri quadri clinici: cioe` la possibilita` di manifestazioni di tipo isterico nella fase iniziale di alcune malattie come la paralisi progressiva, alcuni tumori cerebrali, porfirie, alcuni quadri di sequele psichiche dell’encefalite letargica, all’inizio di processi demenziali su base atrofica, nella sindrome tetaniforme, nell’epilessia. Queste associazioni hanno spesso creato teorie piuttosto confuse e confusionarie soprattutto rispetto all’ipotesi di una genesi organica (su base mesodiencefalica) dell’isteria. In effetti, bisogna tener presente che manifestazioni di tipo isterico possono essere presenti in ogni manifestazione piu` o meno patologica. In questo senso e` effettivamente supponibile che alcune modalita` isteriche siano modalita` reattive piuttosto arcaiche e primitive e che fanno parte del patrimonio di ogni uomo. Ma la presenza di un sintomo non crea una sindrome e in questi casi e` sempre necessario ricercare le caratteristiche psicopatologiche dell’isteria. Anche per evitare un rischio, che e` tuttora frequente, di usare l’aggettivo isterico come sinonimo di psicogeno oppure come sinonimo di disturbo riducibile per suggestione. Per es., un attacco epilettico (vero) puo` essere scatenato o precipitato da una situazione emotiva; alcuni fenomeni extrapiramidali sono certamente eliminabili attraverso la suggestione, ma questo non e` certamente sufficiente per fare una diagnosi di isteria.

7. Note di terapia Credo che in poche psiconevrosi ci sia una indicazione cosı` precisa ed in qualche modo obbligatoria.

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Infatti, sia in caso di carattere isterico che nelle varie manifestazioni dell’isteria di conversione, l’indicazione fondamentale rimane la psicoterapia analitica. Piuttosto complessa invece puo` essere la possibilita` di un intervento per la personalita` isterica, soprattutto perche´ in questi casi e` difficile che ci sia una domanda di terapia.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

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17 L’obesita` psicogena* Nicola Lalli Parole chiave obesita`; set point; introiezione; bulimia; depressione reattiva

L’obesita` psicogena e` da ascriversi alle psiconevrosi, perche´ l’aumento di peso, pur essendone l’elemento evidente e fondamentale, e` sempre l’ultimo anello di una catena conflittuale e complessa. Per questo stesso motivo l’anoressia mentale — che sembra rappresentare l’altra faccia della medaglia — verra` considerata a parte e non e` inserita nell’ambigua dizione di ‘‘disturbi dell’ali-

* La dottoressa P. Marazziti ha collaborato ai paragrafi 1 e 7.

mentazione’’. Perche´ i disturbi dell’alimentazione e le conseguenze visibili (obesita`, magrezza) sono fenomeni di strutture psicopatologiche piu` complesse e diverse. L’obesita` psicogena e` una sindrome isolata e studiata relativamente da poco tempo. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali

1.1. Definizione Per obesita` si intende un aumento patologico dei depositi adiposi, ovvero una deviazione dalle condizioni di peso ideale tale da aumentare la morbilita` e ridurre la spettanza di vita di un individuo. Piu` difficile e` definire il sovrappeso. In questo senso le nostre nozioni di peso ottimale risentono sicuramente di pregiudizi culturali e sociali che non consentono una definizione univoca estensibile ad ogni societa` ed a qualsiasi periodo storico. In altri termini e` doveroso chiedersi se chi viene oggi ritenuto leggermente obeso non verrebbe al contrario reputato perfetto in altri paesi o epoche. Poiche´ comunque un criterio teorico di riferimento e` necessario, sono state messe a punto varie metodiche per stabilire la normalita` ponderale o meno di un individuo. Il peso ideale, derivato dalle tavole attuariali che mettono in rapporto peso e spettanza di vita di una popolazione, e` uno dei criteri piu` usati. Per calcolare il proprio peso sono state ideate alcune formule tra le quali una delle piu` semplici e` quella di Broca, in base alla quale all’altezza espressa in centimetri va sottratto un coefficiente di 104 per le donne e 100 per gli uomini. In base a tale criterio un soggetto viene definito obeso quando supera il suo peso ideale del 30%. Al di sotto si parla di sovrappeso. L’indice di Massa Corporea (IMC) che mette in rapporto il peso in chilogrammi e l’altezza in metri al quadrato e` invece indipendente da valori di riferimento assunti come normali e permette di classificare gli individui in 4 sottotipi: Normopeso con I.M.C. = 20−24,9 Obeso grado 1 con I.M.C. = 25−29,9 Obeso grado 2 con I.M.C. = 30−34,9 Obeso grado 3 con I.M.C. = 35−39,9 Grande obesita` con I.M.C. = 40 ed oltre. Secondo tale indice, normoponderali sono i soggetti con un IMC compreso tra 20/32.

Infine, per ovviare a fattori strutturali somatici incidenti sul peso globale, la quantita` di grasso di deposito puo` essere calcolata attraverso la misurazione delle pliche adipose sottocutanee in alcune zone convenzionali: tricipitale, sottoscapolare e addominale e con maggiore precisione attraverso l’analisi della impedenza bio-elettrica che consente di stabilire la misura dell’acqua corporea totale e della massa magra, incidenti notevolmente sul peso sia in condizioni di ritenzione idrica che di masse muscolari imponenti come negli atleti. Se questi sono i metodi di valutazione obiettiva, non bisogna pero` trascurare il vissuto del soggetto rispetto al proprio peso corporeo. Ci sono persone, sicuramente obese, che pero` non si sentono tali e persone normali che invece si sentono grasse. Percio` nella obesita` dobbiamo tenere conto di un doppio registro, quello obiettivo e quello soggettivo, non sempre combacianti. Anche se non e` una costante, nell’obeso ci puo` essere una alterazione dell’immagine corporea consistente in orrore e disagio per il proprio corpo vissuto come grottesco, sensazione che gli altri ne abbiano repulsione, invidia per le persone magre, correlazione di ogni avvenimento con il proprio peso. A tale proposito risulta particolarmente importante il periodo adolescenziale al termine del quale si puo` ritenere acquisita la propria identita`. L’immagine di se´ che viene interiorizzata e` globale e duratura ed essa e` strettamente dipendente dall’entourage significativo: genitori e coetanei. L’adolescente, soggetto a continue trasformazioni, impara a vedersi e ad apprezzarsi attraverso lo specchio degli altri e di conseguenza, se l’immagine rispecchiata e` negativa, il corpo puo` essere la sede di un disagio affettivo, difficile da eliminare anche dopo anni dal dimagrimento.

1.2. Fisiopatologia L’obesita` e` una sindrome complessa nel cui determinismo giocano numerosi fattori di tipo congenito e acquisito.

L’obesita` psicogena

1.2.1. Fattori congeniti

1)

2)

Set-Point. Il mantenimento del peso corporeo nell’adulto e` qualcosa di relativamente stabile soprattutto se comparato alle continue fluttuazioni alimentari. Da cio` e` scaturita l’ipotesi di una regolazione centrale (diencefalo, nucleo laterale) del peso: un set-point che stabilisce il peso ideale di ognuno. Una elevazione del set-point conduce alla obesita`. Tale peso ‘‘centrale’’ viene difeso con opportuni adattamenti da ogni tentativo di modifica: una dimostrazione di cio` sono le variazioni metaboliche messe in atto nel corso di esperimenti di sovralimentazione o sottoalimentazione, che consentono di mantenere il peso costante. Tale ipotesi rende ragione della difficolta` di dimagrire degli obesi ed anche della rapidita` con cui essi ritornano al peso di partenza. Alterazioni genetiche. Se entrambi i genitori sono obesi il rischio di malattia per il figlio e` dell’80%; scende al 40% con un solo membro obeso ed al 10% con entrambi i genitori normopeso. Esiste una correlazione significativa di peso fra gemelli monocoriali; il BMI di ragazzi adottati sembra mantenere una correlazione con i genitori di origine (soprattutto la madre) anziche´ con quelli acquisiti. Tutti questi dati non possono non far sospettare che all’origine della obesita` ci siano anche alterazioni genetiche. Di certo i soggetti obesi presentano una alterata termogenesi indotta dal freddo; un ridotto effetto termico indotto dagli alimenti; una minore attivita` del tessuto adiposo bruno, ricco in mitocondri e stimolato per via catecolaminergica.

1.2.2. Fattori acquisiti

1)

Eccesso di cibo. Senza una eccessiva introduzione di cibo, anche in presenza di una congenita predisposizione, non ci sarebbe obesita`. Cosı`, anche se molti obesi lamentano di

2)

3)

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mangiare poco, e` certo che per diventarlo hanno mangiato molto; in altre parole, per mantenersi grassi bastano anche poche calorie in piu`, per diventarlo ne occorrono molte in piu`. Le ricerche effettuate sulle modalita` di approccio con il cibo nei bambini e negli adulti concordemente a cio` hanno dato risultati differenti. I bambini obesi mangiano di piu` e piu` velocemente dei loro coetanei, mentre negli adulti si sono riscontrate solo variazioni insignificanti. Una differenza e` stata riscontrata solo rispetto al cibo preferito: gli obesi riescono ad ingurgitare quantita` esagerate di un cibo molto gradito rispetto ai soggetti normopeso. Di fronte a certi cibi vige la legge del tutto o nulla, una sorta di binge eating syndrome molto selettiva e piu` larvata. I veri eccessi compulsivi di cibo spesso seguiti da vomito sono reperibili solo in un ristretto numero di soggetti con disordini depressivi. Diverso e` comunque il significato attribuito al cibo dalle persone magre e da quelle obese. Per queste ultime esso assume connotazioni affettivo-emotive, di amore, forza, salute, sicurezza che spiegano l’attaccamento dell’obeso al cibo. Diminuito dispendio energetico. L’obesita` determina difficolta` di movimento e inattivita,` e quest’ultima incrementa l’obesita`. Anche i bambini obesi mostrano una ridotta attivita` motoria, come gia` aveva rilevato la Bruch (1977), in confronto alla loro vivace attivita` intellettiva. In piu` a parita` di peso i figli di genitori obesi hanno un dispendio energetico ridotto ed avrebbero bisogno di una attivita` fisica superiore ai soggetti normali. In piu`, l’attivita` incrementa il metabolismo basale, mentre l’inattivita` lo deprime. Alterazioni neuro-endocrine. Il sistema endocrino e le sue connessioni con la corteccia mediante la neuroipofisi e l’ipotalamo rappresentano il tramite fra le cause psicologiche e l’effetto obesita`. Puo` trattarsi di un difetto di ormoni lipolitici come nell’ipopituitarismo, ipotiroidismo, ipogenitalismo, o, al contrario, di un eccesso degli ormoni che favoriscono la liposintesi, come l’insulina.

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Regolata dal sistema endocrino e` anche la sede dei depositi adiposi prevalenti nella meta` inferiore del corpo nella donna e nella parte superiore nell’uomo. Quest’ultima localizzazione si correla significativamente con l’incidenza di alterazioni cardiocircolatorie. Infine nel diencefalo sono situati i centri della fame e della sazieta` (nuclei ventrolaterali e ventro-mediali) che regolano in parte il comportamento alimentare.

1.3. Incidenze culturali Le influenze culturali possono incidere a livelli diversi. Un primo fattore e` la diversa importanza data al cibo e al significato relazionale. Il secondo e` collegato a concetti estetici e culturali: ci sono culture dove l’obesita` costituisce una sorta di riconoscimento di forza ed assume una connotazione di potere. Nella nostra cultura, soprattutto negli ultimi anni, prevale come fattore esteticamente valido l’essere magri e snelli. Un terzo fattore e` correlato a problemi economici; e` piu` frequente l’obesita` nelle classi meno abbienti, perche´ hanno la tendenza ad una dieta piu` ricca di farinacei e lipidi, e minori possibilita` di svolgere attivita` sportive. Pertanto l’obesita` deve essere considerata anche all’interno di un contesto socio-culturale preciso.

2. Classificazione dell’obesita` Ci sono numerose classificazioni: escludendo quelle su base organica, ci interesseremo qui di ` evidente che in quequelle su base psicogena. E sto caso e` importante sottolineare gli aspetti soggettivi dell’obeso: pertanto, al di la` dei dati oggettivi che sono facilmente valutabili, faremo la seguente distinzione: 1)

obeso egosintonico

1)

obeso egodistonico:

1)

obeso schizoide.

a - reattivo b - evolutivo 

2.1. Obeso egosintonico Sono persone che per una serie di eventi personali, familiari, culturali e molto spesso ereditari hanno sviluppato una tendenza all’obesita`, che pero` vivono senza problemi. Si accettano, come sono stati accettate dai genitori. L’obesita` non viene vissuta come un limite, ma come una caratteristica somatica, alla quale con il tempo tengono sempre di piu`. Sono persone in genere estroverse, brillanti, che raggiungono posizioni sociali anche molto importanti. Hanno un buon senso della realta` e non hanno problemi di immagine corporea. Si prendono cura del proprio corpo e dell’abbigliamento. Vivono con molta soddisfazione i piaceri della tavola, spesso sono ottimi cuochi: sembra che ci sia un rapporto molto piacevole e sintonico con il cibo. A volte durante l’adolescenza hanno tentato, quando l’obesita` poteva costituire un problema nei rapporti sociali, di dimagrire, ma le difficolta`, il malumore, la irritabilita` scatenati dalle restrizioni alimentari li hanno convinti ben presto a desistere. Se comunque debbono affrontare una dieta per motivi medici, l’affrontano bene ed in genere riescono ad ottenere e a mantenere il dimagrimento. Quindi possiamo dire che non sono persone conflittuate: se la poniamo tra le obesita` psicogene e` semplicemente per indicare che all’origine dell’obesita` non c’e` una causa organica, ma semplicemente una tendenza di fondo, una scelta, che nasce sicuramente dalla introiezione di modelli culturali, ma soprattutto da situazioni familiari ove il cibo e` stato proposto come oggetto piacevole, non conflittuato, e non colpevolizzante.

2.2. Obeso egodistonico Sono soggetti che vivono la loro obesita` in maniera conflittuata, e l’obesita` e` determinata da problematiche psicologiche piuttosto gravi. Questo gruppo e` divisibile in due sottotipi: l’obesita` reattiva e l’obesita` evolutiva. ` una forma di depressione L’obesita` reattiva. E larvata. Essa insorge frequentemente dopo situazioni di perdita, di abbandono, di fallimento sentimentale. Questo vissuto stimola un bisogno

L’obesita` psicogena

compulsivo a mangiare che puo` portare, in breve tempo, ad una situazione di obesita`. I soggetti sono consapevoli dei loro eccessi e vorrebbero fare qualcosa, ma non ci riescono. Sono presi da vere compulsioni a mangiare: spesso questo accade piu` frequentemente di sera o di notte, quando si sentono piu` soli ed abbandonati. Gli AA. anglosassoni parlano di ‘‘mangiatori notturni’’ (night eating syndrome). Con l’aumento del peso, tendono a diventare piu` abulici e sedentari: il che innesca un circolo vizioso. Essi tendono ad utilizzare il cibo come una sorta di sedativo, anche se momentaneo. Infatti, dopo aver mangiato abbondantemente, presi da sensi di colpa, sono di nuovo assediati dall’angoscia. L’obesita` evolutiva. Questa obesita` inizia spesso nei primi anni di vita (come semplice sovrappeso), ma si manifesta soprattutto nell’eta` adolescenziale, quando i cambiamenti somatici mettono in discussione tutta la struttura della personalita`. Per cui questi soggetti, che hanno vissuto gia` una situazione di insufficienti gratificazioni psichiche e per converso un eccesso di gratificazioni materiali, cominciano, di fronte alle difficolta` dell’inserimento sociale, a investire di nuovo il cibo di significati vari. Sono soggetti introversi, con difficolta` nei rapporti con gli altri, con facile tendenza alle frustrazioni, che si sentono poco accettati e poco piacevoli sul piano fisico. Cosı` spesso finiscono per rifugiarsi nel cibo, come unica alternativa e come fase regressiva. Quello che dovrebbe essere lo sviluppo psichico, quindi sostenuto da una ‘‘fame’’ di stimoli sociali e culturali, viene vissuto invece come sviluppo somatico e quindi come bisogno di cibo. Presentano fasi compulsive di assunzione di alimenti, ma generalmente tendono stabilmente a mangiare molto di piu` e molto piu` spesso della norma. Per molti AA. esiste un obese eating style che sarebbe la causa dell’obesita`: cioe` scelta eccessiva di cibi, pasti frequenti, masticazione rapida. Ma tutti questi sono particolari di scarsa importanza: rimane fondamentale il valore sostitutivo e compensatorio del cibo. Ma soprattutto, come vedremo, e` il valore magico (G. Dreyfus e R. Held, 1958) che assume per l’obeso l’aumento ponderale: esso viene vissuto come situazione di onnipotenza, di forza, ma anche come possibilita` di celare la pro-

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pria fragilita`, immaturita` e bassa soglia alle frustrazioni. Bassa soglia che e` peggiorata dai problemi fisici e soprattutto da un certo stile ‘‘impacciato’’ dell’obeso, ma anche dalle sue fantasticherie di onnipotenza. Queste conflittualita` che portano all’obesita` peggiorano cosı` proprio a causa di questa, che alla fine viene vissuta come l’unica causa delle loro incapacita`. A questo punto il dimagrimento finisce per essere investito di significati eccessivi e magici; una volta dimagriti, sperano di affermarsi, di avere successo: ma, piu` o meno inconsciamente, sanno che e` una loro fantasticheria. Ed infatti non e` infrequente che queste persone, iniziata una cura dimagrante, la interrompano ad un certo punto e senza apparenti motivi, spesso riacquistando il peso di partenza. In effetti lo scacco e` abbastanza voluto; perche´ sanno che una volta raggiunto il peso ideale dovrebbero dimostrare tutte quelle capacita` che da obesi, invece, possono continuare a negare e a ` una dinamica spostare in un ipotetico futuro. E simile al tossicofilico: anche egli pensa che potra` decidere di smettere la sua dipendenza, quando e come vorra`. Tutti questi problemi portano gli obesi ad isolarsi rinchiudendosi in se stessi e sviluppando una timidezza eccessiva. Come compenso invece, sviluppano doti intellettuali spesso al di sopra della media. In altri casi, invece, l’obesita` genera una tendenza ad occupare piu` spazio, ad essere invadenti, spesso intrusivi.

2.3. Obeso schizoide ` l’obeso che cela, dietro l’obesita`, un nucleo E schizoide. Questi pazienti hanno una scarsa autonomia, una identita` molto labile, una difficolta` a stabilire un confine tra il se´ e il non se´, per cui hanno spesso la sensazione di poter essere guidati e governati da forze esterne. L’isolamento e` maggiore: la soglia alle frustrazioni e` estremamente bassa. Per cui essi tendono ad evitare qualsiasi contatto con gli altri, escluso il cerchio familiare, entro il quale si rinchiudono. A volte tentano una cura dimagrante, ma si fermano perche´ spesso sono spaventati dalle reazioni di rabbia e di malessere da cui sono presi. Vivono un senso di inadeguatezza molto forte, sono convinti di non

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

essere idonei ai compiti, anche i piu` semplici. C’e` una notevole abulia che e` aggravata da una fuga in un mondo interno di fantasticherie. Sono soggetti che spesso tendono a decompensarsi e cosı` evidenziare i sottostanti processi psicopatologici, come succede, a volte, dopo cure dimagranti. A volte, invece, essi tendono a costruirsi una specie di nicchia, dove poter vivere il meno male possibile.

3. Il carattere dell’obeso Gli obesi hanno molte cose in comune con il carattere depressivo, ma, a differenza di esso, la loro depressione si presenta maggiormente a livello comportamentale piuttosto che psichico. In questo senso, il cibo assolve la funzione di un oggetto sostitutivo, che apparentemente dovrebbe renderli autonomi, rispetto ai rapporti interpersonali. In effetti, come e` tipico di tutte le situazioni di questo genere, la delusione del cibo, vissuto come sostituto d’oggetto, li spinge a ricor` evidente che essi prerervi sempre piu` spesso. E sentano una dinamica di bramosia molto intensa che puo` spostarsi, quando non si fissa sul cibo, anche su situazioni o altre sostanze: costituendo una tendenza tossicofilica di base. L’aspetto piu` evidente del carattere dell’obeso (o tendenzialmente tale) e` la modalita` relazionale che tende a costituirsi come una forte dipendenza da un oggetto esterno che dovrebbe essere fonte di sicurezza e di aumento della autostima e della forza. Altra peculiarita` e` la loro difficolta` a riconoscere e differenziare gli stimoli interni: essi hanno grande difficolta` a distinguere tra fame e voracita` . La fame e` una sensazione che parte dallo stato di deplezione dello stomaco e che tende quindi a calmarsi con il mangiare. La voracita` e` invece collegata alla bocca, ad un bisogno di masticare, ingurgitare, che non e` invece facilmente e rapidamente estinguibile. Tanto che, spesso, la voracita` viene bloccata solo quando si arriva ad uno sgradevole senso di pienezza-gonfiore dello stomaco. Essi hanno inoltre una marcata difficolta` ad esprimere una opposizione, a dire di no. Questo soprattutto perche´ non tollerano minimamente che il loro comportamento possa suscitare ostilita`

o risentimento negli altri. In questo senso tendono ad ‘‘ingoiare’’ tutto, anche le cose sgradevoli; l’unico modo poi per rifarsi e in qualche modo affermarsi, e` quello di essere ‘‘ingombranti’’: e` il loro essere nel mondo. Essi non accettano minimamente il rifiuto dell’altro, che e` vissuto come una minaccia mortale alla propria integrita`. E spesso il mangiare serve loro per compensare questo senso di morte: il cibo come fonte di vita e di forza. Ma un dato patognomonico, rimane la tendenza alla intrusivita` ed alla invadenza che sono state massicciamente represse a causa dell’angoscia collegata al timore di essere scacciati e rifiutati. Essi vivono il timore di essere rifiutati come una frustrazione gravissima ed insopportabile. Per questo, sintomaticamente, essi hanno trasformato la loro intrusivita` in un aumento della massa corporea, che li porta ad invadere uno spazio maggiore, ma senza correre il rischio di poter essere rifiutati. L’occupare spazio e` una caratteristica specifica dell’obeso e rappresenta la esplicitazione somatica di una intrusivita` psichica.

4. La psicodinamica Un primo punto importante e` distinguere tra fame e voracita`: nell’obeso infatti e` in gioco la voracita`. K. Abraham parla di ‘‘drogati del cibo’’ e fa notare il significato regressivo del comportamento del mangiare di notte: e` infatti un tentativo di prolungare le abitudini infantili. Inoltre bisogna distinguere tra voracita` ed obesita`: anche se sono strettamente correlate, hanno dinamiche diverse. Infatti la voracita` e` una difesa rispetto alla perdita dell’oggetto, mentre l’obesita` e` una difesa contro la debolezza dell’Io, un tentativo di ‘‘ingrandirlo’’. Per dimostrare la differenza, si pensi a quei soggetti che mangiano per voracita` ma che poi vomitano (bulimia) rimanendo magri: essi testimoniano il bisogno compulsivo di cibo, ma hanno una struttura dell’Io piu` valida, per cui non diventano obesi. Un’altra riprova e` il falso obeso; pur mangiando poco, ha sempre il timore di essere sovrappeso, scontento del suo Io, teme sempre il giudizio degli Altri.

L’obesita` psicogena

L’obesita` rappresenta il frutto di una tipica modalita` relazionale. Gli obesi hanno bisogno di un oggetto rassicurante che identificano con il cibo: ed il cibo rimanda alla situazione fondamentale della relazione madre-bambino. E possiamo osservare che ove sono stati accuditi i bisogni materiali del bambino a scapito delle sue esigenze psichiche, si crea un meccanismo piu` massiccio di introiezione. Perche´, come ho piu` volte sostenuto, l’introiezione avviene maggiormente quando c’e` un oggetto insoddisfacente, deludente. Pertanto il soggetto, attraverso l’introiezione, tende a mantenere il possesso dell’oggetto, ma si tratta di un oggetto deteriorato; in questo senso si crea un circolo vizioso, che si presenta come una dinamica di tipo tossicofilico che non ha possibilita` di essere soddisfatta. Nella formazione di questa dinamica, importante e` l’ambiente familiare; spesso si tratta di contesti familiari nei quali i figli sono utilizzati come oggetti per compensare le insoddisfazioni e le frustrazioni sociali dei genitori. L’iperalimentazione e` un tentativo incongruo di dare qualcosa in piu`, ma anche, inconsciamente, di rendere dipendente e non autonomo il figlio. Questo spiega poi la scarsa possibilita` che questi soggetti hanno nell’affrontare la vita sociale.

4.1. La famiglia dell’obeso Secondo H. Bruck (1977), la famiglia dell’obeso e` contraddistinta da un padre scialbo e debole, spesso sottomesso alla figura materna, e che viene additato dalla madre come esempio da non imitare. La madre e` aggressiva e prepotente, svolge un ruolo determinante nell’educazione dei figli; non riuscendo ad elargire sicurezza ed affetto, compensa con una iperalimentazione. Ella non riesce a riconoscere i bisogni del figlio, e questo fa sı` che il figlio non riesca a riconoscere i suoi stimoli interni. La madre vive nel timore dell’allontanamento del figlio e quindi gli impedisce qualsiasi attivita` (fisica, sociale, ecc.) che ` convinta che i possa renderlo piu` autonomo. E suoi desideri rispecchino quelli del figlio; spesso alterna momenti di dedizione a momenti di rifiuto del figlio. Questi due aspetti contraddittori

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tendono a confondere il figlio che non riesce a delineare una sua identita`. Il bambino, crescendo in un ambiente cosı` insicuro e ricco di messaggi incoerenti, trova difficolta` a discernere cio` che e` essenziale per lui; quindi e` costretto a sottovalutare o coprire le proprie esigenze e, conseguentemente, la sua individualita`. Secondo S. Minuchin (1976) ci sono vari tipi di transazioni familiari, che complessivamente hanno in comune la seguente modalita`: presenza di legami fragili che scoraggiano lo sviluppo dell’individuo e la sua autonomia. Questi gruppi hanno difficolta` ad affrontare problemi concernenti le crisi e i cambiamenti. L’eccessivo stare insieme e la stretta unione portano ad una mancanza di privacy e quindi ad una scarsa percezione di se´ e degli altri. In questo clima, soprattutto crisi familiari o personali innescano la bulimia. Inoltre esiste un clima di pseudoarmonia che e` l’espressione di una eccessiva protezione e di una incapacita` di risolvere i conflitti. Il tutto si manifesta con una mancanza di aggressivita`, con una estrema passivita`, scarsa stima di se´, forte paura di essere respinti dagli altri associata ad un grande bisogno di essere aiutati ed essere riconosciuti dagli altri. Questa descrizione e` molto valida e facilmente riscontrabile. Ma credo che sia necessario approfondire il problema per dare una visione psicodinamica che sia piu` esplicativa. Ritengo che sia essenziale tener separate due situazioni psicopatologiche che spesso sono invece ritenute simili e sovrapponibili: mi riferisco alla voracita` ed alla obesita`. Esse presuppongono due dinamiche diverse, anche se spesso la voracita` e` la causa dell’obesita`. Ma basta tener presente due situazioni molto frequenti per capire meglio la situazione. Mi riferisco, da una parte, a quei soggetti che, affetti da crisi di voracita`, subito dopo stimolano il vomito. Sono persone non obese (anzi molte volte al limite di una magrezza quasi anoressica), che presentano solo la dinamica del cibo usato come droga, ma non arrivano all’obesita` anzi ci tengono a conservare un peso ed una figura fisica vicini a quelli del loro ideale schema corporeo. Dall’altra ci sono i falsi obesi (definibili ‘‘i forzati della bilancia’’): soggetti che pur avendo un peso

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

normale sono terrorizzati dal timore di ingrassare, mangiano poco e controllano continuamente il loro peso che costituisce una situazione quasi fobica per il proprio corpo, nel timore che il loro schema corporeo possa alterarsi. Certamente ci troviamo di fronte ad una conflittualita` collegata al cibo e allo schema corporeo, pero` si vede chiaramente che la voracita` e l’obesita` vanno considerate come dinamiche diverse tra di loro. Infatti le crisi di voracita` sono sempre collegate ad un vissuto di perdita dell’oggetto ed a un tenta` evidente inoltre una tentivo di recuperarlo. E denza regressiva, piu` manifesta secondo K. Abraham nei ‘‘mangiatori notturni’’ che, palesemente, in questo modo tentano di riproporre un prolungamento delle situazioni infantili. Questa dinamica consiste: ...nella coazione a mangiare, che consiste nella implicita negazione della perdita dell’oggetto, mediante l’atto di incorporare ripetutamente e continuamente l’alimento che lo rappresenta. In questo modo, l’obeso nega di aver perduto o distrutto l’oggetto, e cerca di mantenere un contatto diretto con i suoi sostituti, gli alimenti, per poter credere nella loro esistenza... Ma questo testimonia anche l’esistenza in loro di una dedizione simile nei confronti di alcune persone, dalle quali essi arrivano a dipendere in modo tale da attaccarsi (adictos) a queste persone. Sia gli alimenti sia le persone cui tali soggetti si attaccano raggruppano qualita` che rappresentano le caratteristiche dell’oggetto primitivo1.

Quindi e` evidente che nelle crisi di voracita` c’e` una tendenza depressiva di fondo, che spiega anche i sensi di colpa che questi pazienti hanno nei confronti del loro eccessivo mangiare. Spesso essi hanno dei ‘‘rimorsi’’ rispetto all’aver mangiato molto: questo significa, da una parte, la consapevolezza di aver distrutto l’oggetto, simbolicamente rappresentato dal cibo, ma anche la voglia di continuare a mordere (‘‘rimordere’’), pur non avendo piu` la capacita` di ingerire cibo, che esprime sia l’insaziabilita` di questi soggetti, sia l’inutilita` del meccanismo difensivo della voracita`. L’equivalenza oggetto desiderato-cibo porta

1

L. Grinberg, 1983.

inevitabilmente ad una delusione continua che innesca perversamente la dinamica dell’insaziabilita`, ovvero l’impossibilita` di essere soddisfatti: e` una sorta di condanna, simile all’inutile lavoro di Sisifo. Una voracita`, protratta a lungo, porta secondariamente ad una obesita` che e` definita reattiva. Anche nella obesita` evolutiva c’e` una dinamica di voracita`, ma ci sono situazioni piu` complesse ed articolate che spiegano la maggiore difficolta` alla terapia. Cominciamo con il descrivere le tipiche modalita` relazionali della famiglia del` una coppia con una elevata l’obeso evolutivo. E conflittualita` basata su modalita` diverse di vivere e giudicare gli avvenimenti, dai tratti caratteriali e stili di vita difficilmente compatibili. Spesso la moglie accusa il marito (e tutta la famiglia di lui) di essere avido, avaro, mentre lei e` prodiga e disponibile. Oppure uno dei due ha l’animo del poeta e del sognatore, mentre l’altro e` un calcolatore freddo e razionale. Queste diversita`, anziche´ essere discusse ed elaborate, vengono esasperate fino al limite di una rottura, che pero` non avviene mai. In queste famiglie esistono due linee, quella materna e quella paterna, che vengono utilizzate per affermare la superiorita` di un partner sull’altro; ed in questa situazione i parenti intervengono, contribuendo solo ad aggravare ulteriormente le tensioni. Il dato caratteristico e` la presenza di un conflitto permanente che si svolge all’interno di posizioni inconciliabili, quindi senza alcuna possibilita` di soluzione. Strettamente collegata a questa dinamica e` l’impossibilita`, in queste coppie, alla separazione: esse tendono a mantenere la conflittualita`, ed allargarla sempre piu`, coinvolgendo i figli, ma non riescono mai a separarsi. In queste coppie la separazione e` praticamente impossibile sia in termini concreti, sia in termini propositivi. Anzi ogni qualvolta si creano situazioni che potrebbero dar luogo (anche simbolicamente) a separazioni, i conflitti aumentano; cosa che succede spesso quando i figli raggiungono l’adolescenza. Il timore di una possibile separazione innesca meccanismi di falsa coesione o addirittura atteggiamenti coercitivi tendenti a limitare le gia` scarse possibilita` di autonomia del figlio. Un’altra modalita` tipica e` quella di gestire i

L’obesita` psicogena

conflitti, non in termini di accomodamento e di insight ma solo con il passaggio all’azione: tutti i conflitti sono agiti continuamente con la tendenza di fondo alla supremazia di uno sull’altro. Infine, come tentativo di falsa risoluzione dei problemi, c’e` il cibo: sembra che tutto cio` che e` emotivo possa essere ridotto e risolto in termini orali. Perche´ proprio il cibo? Evidentemente sia per le valenze simboliche attinenti al cibo, sia perche´ e` la modalita` relazionale sostitutiva socialmente piu` accettabile. In questa modalita` relazionale e` chiaro che, per la sua specifica funzione alimentare, la madre puo` assumere un ruolo determinante. Non e` affatto vero, invece, che il padre e` una figura scialba e secondaria: questa impressione deriva dalla descrizione che ne viene fatta nelle terapie familiari. Se invece si affronta il problema dell’obeso, in una psicoterapia individuale, emerge chiaramente che il padre ha una valenza positiva ed affettiva molto importante e che spesso il conflitto nel figlio e` determinato da un suo profondo attaccamento alla figura paterna, attaccamento che viene contrastato continuamente e subdolamente dalla madre. Quindi il cibo viene vissuto come una sorta di panacea per tutti i problemi e per tutti i conflitti: ma siccome esso e` deludente (per lo meno rispetto alle fantasticherie investite sul cibo) la tendenza a somministrarlo aumenta. Posto di fronte ad una situazione di questo genere, il bambino sviluppa ansia, rabbia ed un senso di frustrazione continua, che i genitori cercano di sedare con il cibo. Inevitabilmente il bambino non riesce piu` a distinguere i suoi reali bisogni, i suoi stimoli endogeni, perche´ questi vengono negati e sopraffatti dai genitori che impongono i loro bisogni al figlio che non riesce cosı` a sviluppare una situazione di autonomia e di identita`. Da quanto sopra si capisce facilmente la difficolta` o l’incapacita` del bambino, che diventera` obeso, a saper distinguere due stimoli fondamentalmente diversi: la fame e la voracita`. La fame e` una sensazione fisiologica, vissuta al livello dello stomaco, che si innesca allorquando lo stomaco e` vuoto o per riduzione della glicemia. La fame si calma allorche´ la situazione si equilibra attraverso l’ingestione di cibo. La voracita` e` invece uno stimolo orale, che

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porta a masticare, mandare giu` e che non si calma facilmente perche´ e` collegata a stimoli psichici come l’ansia e la rabbia. Essa si calma apparentemente solo quando il soggetto comincia ad avvertire un senso sgradevole di gonfiore gastrico. ` evidente che la voracita` genera poi l’obeE sita`. Il bambino, all’interno di una dinamica relazionale come quella descritta sopra, avra` solo due possibilita`. La prima e` quella di ‘‘ingoiare’’ tutto. Posto di fronte ad una coppia in perenne conflitto, che non si separa mai, sia perche´ vive drammaticamente le separazioni, sia perche´ non e` in grado di poter proporre una situazione che possa comportare un risentimento da parte dell’altro, e` costretto ad una identificazione, non con un genitore, ma con l’intera coppia. Questa dinamica puo` forse spiegare il significato della ‘‘espansione’’ fisica dell’obeso. Egli deve introiettare due genitori: perche´ lui non puo` deluderli, non puo` separarli, identificandosi con l’uno o con l’altro. In questo caso, assistiamo al fatto che una conflittualita`-ostilita` anziche´ favorire (come sembrerebbe ovvio) una separazione, tende invece a rinsaldare il legame, non solo tra i due partners della coppia, ma tra questa e il figlio. Ed e` questa mancanza di autonomia e di liberta`, questa mancanza di identita`, una caratteristica peculiare dell’obeso, insieme alla tendenza a non poter esprimere minimamente una possibilita` di aggressivita`, di opposizione. Non sanno dire di no, non sanno rifiutare le situazioni: ‘‘ingoiano’’, nel timore che ogni rifiuto sia altamente ostile o pericoloso, forse distruttivo, come hanno appreso dalla dinamica del rapporto genitoriale, gestita all’insegna del disprezzo, della non sopportazione, ma anche della impossibilita` di separarsi. Ma un’altra possibilita` e` quella di mentire. Cioe` la tendenza a crearsi una situazione fantastica, diversa, che si cerca di contrapporre di quella reale frustrante. La tendenza a mentire, che spesso si accompagna alla obesita`, a volte rappresenta invece un meccanismo difensivo tale da poter evitare l’obesita` o per lo meno un’obesita` eccessiva. Ma in fondo le due situazioni non sono diverse. Nel senso che, sia in un caso che nell’altro, la tendenza fondamentale e` quella di crearsi un falso Se´ nel quale nascondere

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

un Io debole, dipendente, insicuro. L’evoluzione di questa situazione puo` essere verso una obesita` piu` o meno stabile, con tentativi, ogni tanto, di sottoporsi ad una dieta che, al di la` della riuscita, non e` sufficiente a risolvere la conflittuata psicologia del paziente. L’obeso spesso, quando decide di dimagrire, connota il dimagrimento di forti fantasticherie magiche, come il diventare bello, l’essere ammirato, il riuscire nella vita; ma quando si avvicina a traguardi accettabili di peso torna rapidamente indietro, per timore di doversi confrontare con la realta` e dover dimostrare capacita` che sa di non avere. E cosı` l’obesita` continua ad essere mantenuta, come falso senso di sicurezza e di forza. A volte essa viene utilizzata per avere un ‘‘maggiore spazio nel mondo’’, in maniera piuttosto ostile ed intrusiva. L’obeso diventa invadente, irritante, ostile, ma dietro questa ulteriore maschera non riesce a superare il senso di vuoto e di fragilita` che si nasconde dietro la massa corporea. E spesso questo vuoto esistenziale viene riempito di sogni e di fantasticherie che tendono sempre piu` ad allontanare il paziente dalla realta`.

5. Il caso clinico Ragazzo di circa 20 anni. Ha praticato fin dall’eta` di 15 anni varie cure dimagranti che hanno avuto tutte un iter ben preciso. Iniziata la dieta, il paziente cominciava a diminuire regolarmente fino ad arrivare ad un peso-forma quasi ideale: a questo punto, e senza motivi apparenti, ricominciava a mangiare in maniera compulsiva fino a riacquistare in poco tempo il peso perduto. Fin dai primi colloqui emerge una dinamica molto precisa. Il paziente fantasticava che non appena avesse raggiunto il peso prefissato sarebbe diventato bello, affascinante, e tutti i problemi sarebbero scomparsi. Egli avrebbe potuto fare un ingresso ‘‘trionfale’’ in societa`, sbalordendo tutti gli amici e conoscenti che si sarebbero dovuti ricredere circa le sue capacita` e qualita`. Senonche´, man mano che si avvicinava al peso

ideale, sentiva che tutti i suoi sogni potevano non realizzarsi e le sue aspettative sul futuro venire meno. A questo punto, per motivi banali, riprendeva a mangiare compulsivamente. Sono molto evidenti in questa situazione sia la funzione difensiva dell’obesita`, vissuta come la causa di tutte le sue difficolta`, sia il valore magico attribuito al dimagrimento. Chiarita questa prima dinamica, emergono sempre piu` chiaramente le cause scatenanti: come primogenito aveva sempre vissuto il ruolo del preferito fino all’eta` di otto anni, quando la nascita di una sorella incrino` questo suo privilegio. Da quel momento, comincio` a vivere una situazione di rifiuto da parte dei genitori, e soprattutto da parte del padre che rappresentava per lui un personaggio valido e forte. Ma il dato piu` evidente e` la conflittualita` familiare. Tra i genitori c’e` sempre stata una lotta sorda, per rancori legati anche alle rispettive famiglie tanto che il ramo paterno e quello materno sono arrivati, da anni, a non scambiarsi piu` nemmeno il saluto. Pur vivendo una situazione di grave conflittualita`, la famiglia mostra, almeno all’esterno, una sorta di pseudoarmonia. In seguito, il rapporto preferenziale con il padre si incrina per la nascita della sorella (che rappresenta un momento di ulteriore crisi nella coppia genitoriale): il padre e` meno presente a casa, mentre il paziente teme di perdere anche la madre, sempre piu` occupata ad accudire la sorella piu` piccola. ` da questo momento che il paziente comincia E ad avvertire un bisogno compulsivo di mangiare, aumentando rapidamente di circa 20 Kg. I vari, ripetuti insuccessi ottenuti con le diete lo spingono a chiedere un aiuto sul piano psicologico. Si tratta di una obesita` di tipo evolutivo con una tipica situazione familiare: egli ha cercato di mantenere unita una coppia genitoriale, profondamente divisa ed ostile, con un massiccio meccanismo di introiezione che si e` manifestato sul piano del comportamento con un atteggiamento vorace, sfociato ben presto nell’obesita`. L’obesita`, poi, ha costituito un ulteriore problema, diventando l’unico e falso obiettivo per la risoluzione delle sue problematiche.

L’obesita` psicogena

6. Diagnosi differenziale ` evidente che in primis la diagnosi differenE ziale si impone con tutte quelle malattie che riconoscono una eziologia organica. Ma questo non basta perche´ e` necessario fare una corretta diagnosi tra l’obesita` egosintonica, quella egodistonica (nella varieta` reattiva ed evolutiva) e quella schizoide. Questa distinzione e` rilevante sul piano terapeutico. Infatti, mentre le prime due forme reagiscono bene ad una dieta, all’interno di un corretto e valido rapporto medico-paziente, quella evolutiva presenta maggiori difficolta` e spesso e` necessario un intervento di tipo psicoterapeutico, proprio per modificare delle dinamiche che altrimenti (come nel caso descritto) portano ad un fallimento ripetitivo del regime dietetico. Importante e` inoltre capire se l’obesita` e` solo una copertura di un disturbo psicotico: questo soprattutto per l’ovvio pericolo unito ad una eventuale cura dimagrante. Infatti nell’obeso schizoide, messo a ‘‘nudo’’ dalla dieta, si possono manifestare reazioni psicotiche anche abbastanza gravi, poiche´, tolta la corazza dell’obesita`, puo` emergere un Io cosı` fragile e frammentato tale da non reggere l’urto con la realta`.

7. Terapia Il capitolo riguardante la terapia dell’obesita` e` molto piu` esteso degli altri, per due motivi. Il primo riguarda il fatto che l’obeso, pur avendo una struttura caratteriale nevrotica, raramente o mai chiede un intervento psicoterapico. Il secondo e` che l’obeso invece, nella sua richiesta d’aiuto, vuole una relazione terapeutica particolare che puo` ascriversi al gruppo delle relazioni psicologiche di sostegno. 7.1. Considerazioni generali L’obesita` e` un sintomo che puo` essere presente in molte malattie, di conseguenza non si puo` parlare di un solo tipo di trattamento poiche´ fondamentale puo` essere solo quello eziologico. ` inutile infatti trattare con le diete un Cushing o E un ipotiroidismo.

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Di fatto pero` la maggior parte delle obesita` non riconosce una causa specifica se non un eccesso di cibo rispetto al consumo, e di conseguenza il cardine della terapia non puo` che essere una dieta adeguata, somministrata da un medico adeguato. Piu` che in altre malattie, il rapporto che si instaura tra medico e paziente e`, nella obesita`, il momento determinante per la riuscita. Per comprendere cio` basta una riflessione: gli obesi (quasi tutti) sanno benissimo cosa fa ingrassare e di conseguenza come dimagrire; cio` malgrado, hanno bisogno di ricorrere al medico per riu` chiaro che non e` di nozioni sulle calorie scirvi. E che hanno bisogno, o comunque queste da sole non bastano. In due casi la sola prescrizione dietetica, indipendentemente dal rapporto interpersonale, puo` funzionare: 1)

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il paziente e` al suo primo tentativo di ridurre il peso, ignora realmente alcune regole in tema alimentare, e` fortemente motivato da qualche avvenimento importante nella sua vita; il paziente e` recidivo ma ha un motivo in piu`, una malattia intercorrente che gli crea timori per la sua validita` o per la vita (cardiopatia, dislipidemia, grave artrosi) ed essa funge da stimolo per la riuscita della terapia.

In tutti gli altri casi il rispetto della prescrizione durera` lo spazio di un mattino. Non bisogna dimenticare infatti che l’obeso e` una persona che non e` riuscita in quella che sembrerebbe una funzione automatica, l’autoregolazione alimentare. Da qui l’inutilita` di appelli moralistici e banali all’autocontrollo e alla forza di volonta`, e la necessita` di capire, sostenere, cercando di modificare la dinamica di base. Di fronte ad un paziente che chiede di dimagrire e` necessario porsi due domande: — perche´ e` ingrassato? — perche´ vuole dimagrire? La prima domanda e` necessaria per inquadrare il soggetto clinicamente all’interno della famiglia, delle abitudini di vita, e per compren-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dere il suo rapporto con il cibo. Mangiare non e` un comportamento neutro; benche´ all’inizio la sensazione della fame, originata da stimoli neuroumorali, dia origine ad una risposta istintiva, questa subisce un immediato condizionamento poiche´ assieme al latte il bambino riceve dalla madre nutrice calore, odore, carezze, sguardi: il cibo, quindi, oltre a soddisfare la fame biologica e` fonte di godimento. Piu` tardi, in uno sviluppo normale, la fame di stimoli trovera` altri modi di soddisfarsi, ed il cibo saziera` solo la fame biologica pur mantenendo vaghe valenze affettive. Per molti obesi non e` cosı`; il cibo mantiene significati di forza, potere, amore, salute che non vanno sottovalutati per capire empaticamente i problemi connessi alle diete. In seguito si dovra` comprendere come l’obesita` viene utilizzata dal paziente sia a livello personale che familiare, poiche´ cio` influenzera` i risultati della terapia. Perche` vuole dimagrire: questa e` una domanda a cui e` difficile che il paziente risponda sinceramente. Tranne gli adolescenti, che abbastanza apertamente esplicitano le loro motivazioni estetiche, i loro sogni, i loro modelli, gli adulti e maggiormente gli uomini motivano la loro richiesta di perdere peso con la tutela della salute. Questa e` abitualmente una copertura che puo` anche essere accettata temporaneamente, non dimenticando pero` che spesso il dimagrimento viene investito di fantasticherie onnipotenti proprio da coloro che sembrano viverlo con maggiore indifferenza. Sovente la modifica somatica e` un tentativo di modifica interna, un tentativo di mettere ordine o semplicemente di dare una risposta alle pressioni sociali. A volte infatti l’obeso non ha un serio interesse a dimagrire, ma l’ambiente lo impone ed egli, per non sentirsi troppo colpevole, deve tentare. Altri vengono invece piu` o meno apertamente obbligati a mettersi a dieta da partners sadici e manipolativi che poi impediscono all’obeso di arrivare al traguardo, aumentandone la disistima e l’obesita`. Infine un’attenzione particolare va posta nel riconoscere i soggetti con una personalita` schizoide di fondo che sperano di guarire con il

dimagrimento; essi ritengono l’obesita` causa di tutti i loro mali mentre il cibo e le conseguenze di esso sono in realta` la loro ancora di salvezza, ed una dieta drastica puo` scatenare disturbi ben piu` gravi. Stabilito che il paziente puo` e deve perdere peso, vediamo ora quali sono i mezzi.

7.2. La relazione terapeutica L’obeso puo` impiegare anni per accumulare i suoi chili, ma quando decide di perderli e` preso dall’ansia: vuole sapere qual e` il suo peso ideale e vuole arrivarci in fretta. Ambedue le richieste vanno bloccate o comunque chiarite. Il ‘‘peso ideale’’, di per se´ gia` un falso problema, rappresenta per questi soggetti una meta, quasi sempre irraggiungibile, la cui distanza comporta una sfiducia nelle proprie possibilita` e talvolta una rinuncia. Non va dimenticato che le persone obese non hanno un buon rapporto con il proprio corpo: spesso non ne conoscono i limiti, ne´ le possibilita`; inoltre sono costretti a vivere in un mondo di magri o almeno dove soltanto magro e` uguale a bello, rischiando di crearsi modelli inimitabili, cui il peso ideale e` timbro di garanzia. Compito preciso del terapeuta e` percio` quello di aiutarli a migliorare se stessi nel range delle loro possibilita`, ponendo traguardi raggiungibili e spostandoli ove ce ne sia la necessita`. Ognuno ha la sua costituzione ed il medico deve aiutare il paziente a trovare il suo giusto peso e ad apprezzarsi. I mezzi per approdare a cio`, come analizzeremo qui di seguito, sono essenzialmente due: quello tecnico (dieta, farmaci ecc.) e quello psicologico (sostegno, terapia psicologica ecc.). La struttura di personalita` dell’obeso si puo` riassumere in alcune particolarita` : bassa autostima, bisogno di un oggetto esterno rassicurante, scarsa tolleranza alle frustrazioni, ansia, tendenza alla dipendenza; ne consegue che o si riesce a modificarne la struttura di personalita` o e` necessario, viste tali caratteristiche, supportare l’obeso nel corso del suo lavoro. In pratica il medico si sostituisce al cibo quale oggetto rassicurante, sostiene il paziente di fronte

L’obesita` psicogena

a temporanei fallimenti nella dieta, rafforza positivamente l’immagine di se´, riconoscendo i suoi sforzi ed i suoi successi. Si crea in fondo un preciso rapporto di dipendenza obeso-medico anziche´ obeso-cibo, e la capacita` di seguire la dieta e` connessa spesso alle paure del giudizio del terapeuta o al timore di dispiacergli (‘‘Stavo per mangiare ma mi e` venuto in mente lei’’). Una sorta di transfert positivo che consente al paziente di resistere meglio alle sollecitazioni ambientali da cui sembra dipendere per i suoi bisogni alimentari. Il problema, come in ogni rapporto di dipendenza, e` il momento della separazione che puo` significare ritorno al cibo ed al grasso perduto. Quindi l’interruzione del rapporto, se mai c’e`, deve essere molto graduale e molto elastica, mantenendo un contatto con il paziente anche per tempi molto lunghi. L’obesita`, soprattutto quella psicogena, e` una malattia cronica e puo` necessitare di un trattamento altrettanto cronico. Per facilitare il controllo del peso a lungo termine possono essere usate tecniche atte a modificare il comportamento alimentare e favorire soprattutto l’autocontrollo. Tali tecniche mirano a rendere l’obeso capace di riconoscere le circostanze e le situazioni emotive determinanti il bisogno di mangiare, di interrompere il legame tra gli stimoli ambientali e il mangiare, rendendolo capace di controllare autonomamente la quantita` di cibo da introdurre. La dieta in questo contesto assume piu` che altro il significato di un legame preciso tra paziente e terapeuta, una sorta di rinforzo per questi soggetti fragili e labili, piu` sensibili degli altri agli stimoli esterni. Essa deve essere personale perche´ cio` significa interesse per lui, e perche´ sia adeguata ai suoi ritmi biologici; inoltre deve essere precisa e dettagliata per non lasciare spazio ad errori piu` o ` evidente che le diete premeno consapevoli. E stampate e somministrate al paziente possono avere la stessa efficacia di un oroscopo. Il rispetto della dieta puo` essere facilitato mediante l’abitudine a trascrivere un diario giornaliero ove il paziente appunta tutto cio` che mangia.

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7.3. I farmaci La terapia farmacologica della obesita` non deve essere confusa con la magia. L’obeso vive nella perenne speranza del ritrovato che gli permettera` di mangiare come, quanto e quando vuole, e su questa attesa si innestano proposte pseudofarmacologiche che vanno dalle pozioni ai pediluvi, dalle creme alle capsule. Il paziente non ha alcun desiderio di sapere cosa gli viene somministrato: non vuole capire ma credere e anche se ha gia` sperimentato fallimenti in questo senso li annulla, si rende cieco e parte alla ricerca di miracoli sempre nuovi. L’uso del farmaco in questo contesto e` quanto di piu` antiterapeutico possa esistere perche´ mantiene l’obeso nel suo mondo magico, fuori dalla realta` e dalla possibilita` di crescita. Al contrario la terapia farmacologica nelle obesita` puo` trovare una precisa indicazione soltanto quando il paziente e` gia` impegnato nel dimagrimento, per agevolarne il lavoro. Essa si propone tre obiettivi di fondo: ridurre l’apporto alimentare, aumentare il dispendio energetico, diminuire l’assorbimento intestinale. Mentre si rimanda ai trattati sulla obesita` per quanto concerne i farmaci del secondo e terzo gruppo, esamineremo piu` in dettaglio i farmaci anoressanti. Si tratta di un gruppo di farmaci agenti sui nuclei centrali della fame e della sazieta` che sono da sempre oggetto di aspre discussioni. I detrattori muovono accuse di inutilita` e pericolosita`, i fautori trovano in essi un mezzo per diminuire la sofferenza dei pazienti e stimolare la compliance alla dieta. A tale proposito va rilevato che l’accusa piu` comune mossa agli anoressanti, e cioe` il loro abuso, non riguarda in genere gli obesi, ma altre categorie di soggetti, per cui non c’e` motivo di non usarli nelle circostanze in oggetto. Il criterio fondamentale per la selezione dei pazienti e` la sufficiente motivazione; anche se appare un controsenso, l’anoressante risulta scarsamente utile per motivare un paziente mentre puo` essere di grande aiuto per stimolare un obeso sufficientemente impegnato, ma in momentanea difficolta`.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

I farmaci ad azione anoressante centrale hanno struttura analoga alle amfetamine; la prima correlazione peso-amfetamine risale al 1937, quando Davidoff e Reifenstein nel corso della terapia della narcolessia con amfetamine si accorsero che i pazienti avevano anche perso peso. Da allora ad oggi i preparati ad azione centrale con effetto anorettico si sono moltiplicati e perfezionati per eliminare gli effetti euforizzanti fonte di abuso. Gli anorettici attualmente in uso possono dividersi in due gruppi a seconda del neurotrasmettitore utilizzato: stimolanti catecolaminergici e serotoninergici. Al primo gruppo appartengono i farmaci ad effetto stimolante sul SNC cosiddetti amfetaminosimili, che agiscono sulla norepinefrina e/o sulla dopamina; hanno uno spiccato effetto anoressante che compare dopo circa un’ora dalla ingestione e dura dalle 6 alle 12 ore, in media 8 ore. L’azione di tali farmaci si esplica sulla sensazione soggettiva della fame con la conseguenza di un allungamento del periodo di latenza prima che il soggetto cominci a mangiare e con una parallela riduzione della quantita` di cibo ingerita. Gli effetti indesiderati derivano dalla stimolazione periferica simpatica e sono piu` facili a verificarsi in condizioni di stress; inoltre nei soggetti predisposti tali farmaci possono peggiorare l’insonnia ed aggravare l’ansia. Le sostanze piu` in uso di questo gruppo sono rappresentate da: dietilpropione

dose

25-75 mg

die

fentermina

’’

15-30 mg

‘‘

fendimetrazina

’’

35-70 mg

‘‘

Al secondo gruppo appartengono invece le sostanze che aumentano la concentrazione di serotonina a livello cerebrale attraverso un blocco del re-uptake o un’attivazione dei recettori. Il meccanismo sul quale la serotonina esplica la sua azione nell’ambito del comportamento alimentare sembra piu` quello della sazieta` che quello della fame poiche´ non c’e` un allungamento

del tempo di latenza prima di mangiare, ma c’e` invece una minore introduzione di cibo. Per contro, il blocco dei recettori per la serotonina determina sovralimentazione. Ancora, poiche´ diete ricche di carboidrati accelerano la sintesi di serotonina attraverso un incremento del triptofano, e cio` non accade con diete iperproteiche, potrebbe anche essere che i livelli differenti di serotonina incidano sulle diverse scelte alimentari. In altre parole, bassi livelli nel SNC di serotonina possono aumentare il fabbisogno (e quindi la fame) di carboidrati. Wurtmann (1983) definisce questi soggetti glucido-dipendenti (carbohydrate cravers): l’aumentata ingestione di carboidrati condizionerebbe l’obesita`. Le sostanze piu` in uso in questo gruppo sono rappresentate da: Fluoxetina Sibutramina

dose ’’

40-80 mg die 10-20 mg

’’

La prima e` una sostanza antidepressiva inibente il re-uptake della serotonina che si e` dimostrata particolarmente efficace nei disturbi compulsivi alimentari (bulimia). Puo` essere usata in monodose al mattino oppure suddivisa in due-tre somministrazioni giornaliere. La Sibutramina inibisce il riassorbimento di norepinefrina e serotonina producendo diminuzione dell’appetito. I piu` comuni effetti collaterali sono rappresentati da insonnia, costipazione, mal di testa e secchezza delle fauci; e` indicata nei soggetti con un I.M.C. ≥ 30 oppure nei soggetti in sovrappeso con patologie associate come il diabete. Infine un discorso a parte merita una nuova sostanza testata in doppio cieco negli USA per un anno e che agisce con un meccanismo d’azione del tutto nuovo: Orlistat

dose 180-360 mg die

` un inibitore selettivo della lipasi gastroE intestinale ed agisce impedendo l’idrolisi dei trigliceridi e riducendo di conseguenza l’assorbi-

L’obesita` psicogena

mento dei monogliceridi e degli acidi grassi liberi. La sua azione non e` sistemica ma selettiva sulla lipasi pancreatica, della quale contrasta l’azione digestiva dei grassi con la conseguenza che, assunto prima dei pasti, determina l’escrezione di circa il 30% dei grassi alimentari praticamente indigerita; non sembra invece interferire sui livelli delle vitamine liposolubili ne´ sull’assorbimento di eventuali altri farmaci assunti (contraccettivi, anti-ipertensivi, anti-epilettici). Gli effetti collaterali sono tutti a carico del tubo gastro-enterico e vanno dal meteorismo alla transitoria incontinenza fecale (nei casi piu` gravi) per la presenza di grassi indigeriti.

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18 La psiconevrosi ossessiva Nicola Lalli Parole chiave meticolosita` organica; reazione catastrofica; ruminazione mentale; follia del dubbio; cerimoniale; verbalizzazione; pensiero magico; fare-disfare; razionalizzazione; isolamento

La psiconevrosi ossessiva, definita anche psiconevrosi ossessivo-compulsiva, rappresenta certamente una delle manifestazioni piu` singolari della psicopatologia. Si manifesta con una serie di idee che si impongono alla coscienza del paziente con caratteri di incoercibilita`, e dalle quali egli cerca di difendersi ricorrendo a rituali che finiscono per complicare la sintomatologia. Il vissuto piu` spiacevole e` il riconoscere questi pensieri (o cerimoniali), pur intrusivi ed irrazionali, come appartenenti al Se´.

La psiconevrosi ossessiva ha molti punti in comune con l’ipocondria: l’ipocondriaco si rapporta sadicamente con il proprio corpo, come l’ossessivo lo fa con il proprio apparato mentale. E come l’ipocondriaco, l’ossessivo tenta un continuo controllo su tutto cio` che lo circonda. Cosı`, cio` che dovrebbe essere fonte di piacere, il corpo e la mente, diventa purtroppo fonte di angoscia e di malessere. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali I sintomi piu` frequenti della psiconevrosi ossessiva sono conosciuti e descritti da lungo tempo. Pero` e` solo con P. Janet prima, che nel 1903 pubblica Les obsessions et la psychaste´nie, e con S. Freud dopo, che pubblichera` i lavori L’uomo dei topi (1909), La predisposizione alla nevrosi ossessiva (1913), La Metapsicologia (1915), Introduzione alla psicoanalisi (1917), che vengono forniti una precisa descrizione e, soprattutto, un tentativo di spiegazione. P. Janet distingue le psiconevrosi in due grandi gruppi: l’isteria e la psicoastenia; e ne fornisce una spiegazione dinamica. S. Freud ha il merito di aver isolato e definito molto chiaramente non solo la sintomatologia, ma anche la psicodinamica della psiconevrosi ossessiva. Ed in effetti molte concettualizzazioni della psicoanalisi freudiana sono derivate proprio dallo studio di questa psiconevrosi. La definizione di questa psiconevrosi data da S. Freud e` la seguente: «La nevrosi ossessiva si manifesta in questi modi: gli ammalati sono assorbiti da pensieri per i quali in effetti non hanno interesse, avvertono in se´ impulsi che appaiono strani, e sono indotti ad azioni il cui compimento non procura loro alcuna soddisfazione, ma la cui omissione riesce loro assolutamente impossibile. I pensieri (ossessioni) possono essere in se´ privi di senso, oppure soltanto indifferenti per il malato; spesso sono completamente sciocchi, e in tutti i casi sono il risultato di una intensa attivita` mentale, che prostra l’ammalato ed alla quale egli si abbandona molto malvolentieri, contro la sua volonta`; egli deve rimuginare e lambiccarsi il cervello, come se fossero le cose piu` importanti della ` questa certamente una pazza malatsua vita... E tia: credo che la piu` sbrigliata fantasia psichiatrica non sarebbe riuscita a costruire qualcosa di simile: se non si potesse averla sott’occhio tutti i giorni, nessuno si risolverebbe a crederci». Ed e` vero quanto afferma S. Freud a proposito di una ‘‘pazza malattia’’ che puo` esprimersi con modalita` molto varie, che vanno dalla semplice ruminazione mentale alla follia del dubbio, fino a complicati e complessi cerimoniali che possono occupare l’intera giornata del paziente. Numerosi sono stati i tentativi di spiegazione.

Comunque ritengo che, salvo qualche intuizione valida ma indiretta come quella di K. Goldstein, in genere e` il modello psicoanalitico, anche nelle sue varianti, che offre una possibilita` maggiore di comprensione. K. Goldstein (1952) ha studiato con molta attenzione le sequele dei traumatizzati cranici, evidenziando due situazioni molto significative. La prima e` la reazione catastrofica: soggetti che, messi di fronte a compiti che non riescono piu` a risolvere a causa del deficit intellettivo e mnemonico, sono presi da intense crisi di angoscia. La seconda e` la meticolosita` organica, ovverosia la tendenza alla vischiosita` ed alla notazione di minimi particolari, perdendo di vista l’essenziale. Questa meticolosita` organica e` da considerarsi un meccanismo di difesa perche´ consente di controllare, in parte, l’ambiente, nonostante il deficit mnesico: questo disturbo (che ritroviamo spesso nelle psicosindromi organiche o negli epilettici) e` certamente molto simile alla tendenza esasperata dell’ossessivo per l’ordine e per i particolari spesso insignificanti. La somiglianza, beninteso, non e` da vedere sul piano eziologico, ma solo sul piano difensivo: pur avendo origini diverse, questi due disturbi hanno in comune lo stesso meccanismo difensivo. A questo punto e` utile ricordare ancora una volta la distinzione tra sintomo e sindrome: un sintomo puo` essere presente in varie manifestazioni psico` solo l’insieme non casuale di piu` patologiche. E sintomi e la complessiva struttura della personalita` che danno luogo ad una sindrome specifica. Cosı` per la psiconevrosi ossessiva, che si costituisce solo con la presenza di piu` sintomi patognomonici. Nel paragrafo seguente passo a descrivere la fenomenologia per cercare poi di comprendere i dinamismi che ne sono alla base.

2. Sintomatologia Data la complessita`, la poliedricita` e la non sempre univoca interpretazione dei fenomeni ossessivi, penso che sia utile darne una definizione. Secondo A. Green (1965) essa puo` definirsi nel seguente modo: «Lo stato ossessivo e` uno stato mentale nel corso del quale la volonta` del sog-

La psiconevrosi ossessiva

getto, pur essendo la ragione e la coscienza intatte, e` invasa da una idea o da un gruppo di idee, una rappresentazione o un gruppo di rappresentazioni. Queste manifestazioni sono accompagnate oppure no da affetti e da incitamenti all’azione che hanno, quando sono presenti, un carattere sgradevole e creano un clima di tensione. Comunque l’Io che subisce queste manifestazioni rifiuta di aderirvi, le sente estranee a lui e le ritiene irrazionali. Egli si sente impotente contro la coercizione che sopprime la disponibilita` del pensiero e prova dell’angoscia che puo` arrivare fino a stati di depersonalizzazione. La lotta contro questi fenomeni che assalgono senza tregua l’Io viene intrapresa mediante sistemi difensivi sempre piu` elaborati, che hanno lo scopo di combattere le manifestazioni ossessive. Puo` succedere che, a volte, queste manifestazioni tendano ad attenuarsi, salvo riapparire ben presto con tendenze cicliche. In alcuni casi piu` gravi, le idee ossessive non si lasciano dominare ed hanno la tendenza sia a divenire piu` intense, sia ad aumentare di numero: e le difese si complicano al massimo. Qualche volta puo` succedere che queste difese facciano sparire l’angoscia e le stesse manifestazioni iniziali, ma al prezzo dello spostamento sui meccanismi difensivi dei caratteri primari dell’ossessione: cioe` l’incoercibilita`, la ripetizione infinita, la tendenza alla compulsione, perdita della liberta` e blocco progressivo del pensiero da parte delle manifestazioni difensive sostitutive». Credo che questa definizione estremamente ampia e completa dia una panoramica di quello che e`, e che puo` diventare, una psiconevrosi ossessiva. Cerchero` ora di riassumerne brevemente i tratti piu` salienti. Nella psiconevrosi ossessiva sono presenti idee, immagini, parole, impulsi che vengono vissuti con caratteri di iterativita` ed incoercibilita`, delle quali il paziente riconosce l’irrazionalita` e dalle quali tenta di difendersi, attraverso lo psichismo di difesa. Il paziente riconosce come propri i suoi contenuti mentali: forse proprio questo costituisce il vissuto piu` angoscioso e drammatico che lo differenzia nettamente dalla sindrome di influenzamento dello schizofrenico. E. Bleuler dice giustamente che il nevrotico ossessivo combatte contro le proprie ossessioni, mentre il delirante combatte per le proprie idee.

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Quindi nell’ossessivo noi osserviamo la coercizione dell’Io: di qui il termine che deriva da obsidere, che significa assediare. Uno dei sintomi piu` frequenti della psiconevrosi ossessiva e` la ruminazione mentale. Questo fenomeno puo` essere presente anche in persone normali, in particolari situazioni di stanchezza o a volte prima dell’addormentamento; e` caratterizzato dalla persistenza e dall’ostinato riecheggiare di contenuti mentali, come un pensiero, una parola, una strofa. Nella psiconevrosi, invece, la ruminazione mentale e` un dato costante e ripetitivo, da cui il paziente non riesce a liberarsi in nessun modo. La ruminazione mentale rappresenta un disturbo fondamentale del pensiero, sia per quanto riguarda la liberta`, sia per quanto riguarda la funzionalita` del pensiero in ordine a programmare determinate azioni. Infatti ogni qual volta questi soggetti debbono compiere un’azione, a volte anche poco importante, sono assaliti da una ruminazione mentale che, unita alla follia del dubbio, li paralizza completamente. La follia del dubbio (folie du doute) e` costituita da un continuo quanto inutile interrogarsi su questioni attinenti l’azione, che pertanto viene vanificata. Abbiamo visto come un aspetto importante e significativo della psiconevrosi ossessiva sia la ruminazione mentale, le cui tematiche possono essere varie, da questioni di ordine metafisico a piccoli problemi, accompagnate sempre dal dubbio e dall’insicurezza che rendono queste domande inutili ed iterative. Nei paragrafi successivi descrivero` i quadri ossessivi piu` comuni.

2.1. Sintomatologie prevalentemente basate sulla ruminazione mentale Esse consistono in un continuo ripensamento su piccoli atti quotidiani o su tematiche metafisiche. Questa tendenza spesso assume l’aspetto di una continua ripetizione di parole, motivi musicali, spesso pensieri a carattere blasfemo, oppure la tendenza a calcoli sempre piu` complicati ed elaborati, come l’ossessione del contare (ad es. le macchine posteggiate, oppure leggere o sommare

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cifre in calcoli sempre piu` complicati). Queste manifestazioni, che sono gia` sintomo di una psiconevrosi ossessiva, possono essere celate dal paziente, che cerca vari sotterfugi per non farsi scoprire.

2.2. I cerimoniali Indicano gia` una compromissione maggiore dell’Io, perche´ il paziente non riesce ad esaurire la sua patologia nel pensiero, ma ha bisogno di ‘‘fare’’ qualcosa che possa rassicurarlo. I cerimoniali possono essere legati ad azioni, ma anche a non fare cose; a volte i due aspetti si sommano. L’esempio piu` evidente e` l’ossessione per lo sporco che porta, come cerimoniale, a lavarsi continuamente, e dall’altra a non toccare certi oggetti perche´ ritenuti contaminati e quindi pericolosi. Il cerimoniale, se da una parte rappresenta il tentativo di difendersi dai dubbi e dalla ruminazione mentale, dall’altra segna il fallimento delle difese usuali e quindi un peggioramento. Anche perche´ spesso il cerimoniale tende a diventare sempre piu` complesso, fino ad invadere l’intera vita del paziente. La caratteristica fondamentale del cerimoniale ossessivo e` costituita dalla dinamica fare-disfare. Dapprima si compie un’azione che per il paziente ha un particolare significato simbolico, ma subito dopo bisogna compiere un’azione uguale e contraria, che annulla la precedente. Questi sono i sintomi piu` frequenti e costitutivi della psiconevrosi ossessiva conclamata. Essi si sviluppano sulla base di un carattere ossessivo che ora passero` a descrivere.

3. Il carattere ossessivo I tratti del carattere ossessivo sono abbastanza facilmente individuabili. Una prima caratteristica e` quella dell’ordine: c’e` un bisogno compulsivo che si esplica attraverso un atteggiamento di attenzione alle cose minute, perdendo spesso di vista l’essenziale, ed una metodicita` esasperata. Quando non sono esagerati, questi tratti possono avere connotazioni positive, perche´ si esprimono

attraverso una modalita` di scrupolosita`, di precisione, di puntualita`. Comunque, alla base di questa tendenza a mettere e tenere in ordine tutto c’e` il problema fondamentale dell’ossessivo: quello di essere spaventato da tutto cio` che e` nuovo, non previsto, perche´ vissuto come fonte di ansia e di angoscia. Sono pazienti che non possono lasciarsi spazi aperti e tempi morti perche´, da queste ‘‘fessure’’, potrebbero emergere situazioni pericolose. Come esempio, cito il caso di un paziente che aveva fatto costruire tutto il mobilio di casa su misura, perche´ non tollerava che ci potessero essere degli spazi aperti tra il mobilio e il muro: sosteneva che ogni fessura l’angosciava perche´ gli procurava il senso del finito e della morte. Ed in effetti questo problema si collega con l’altro: non lasciare tempi morti. Tutto deve essere programmato: nulla puo` essere lasciato all’imprevisto. Il bisogno di far collimare i vari appuntamenti giunge fino a perdere gran parte del tempo in questa attivita`. Un esempio e` quello dello studente universitario che doveva ogni mattina, prima di iniziare a studiare, farsi un programma metodico e preciso delle ore di studio, delle pagine da studiare ecc. fino a trascorrere parte della giornata in questa attivita` preparatoria. In questo senso si esplicita un altro tratto dell’ossessivo: la tendenza al controllo. Controllo che viene esteso a tutto il mondo circostante. Tutti debbono avere abitudini, tempi uguali a quelli dell’ossessivo. In questo senso egli finisce spesso per essere una specie di tiranno per quanti gli vivono accanto. Tutto questo comporta un’altra tendenza del carattere ossessivo: ovverosia la vischiosita` che, unita alla tendenza a non lasciare spazi aperti, puo` manifestarsi con una tipica logorrea, che non lascia possibilita` di intervento alcuno al malcapitato interlocutore.

4. La psicodinamica Come abbiamo visto, due sono gli aspetti fondamentali della psiconevrosi ossessiva: la ruminazione mentale e l’aspetto difasico del cerimoniale, cioe` il fare-disfare continuo. ` basandomi su questi due aspetti che cerE

La psiconevrosi ossessiva

chero` di esporre una possibile spiegazione di questa ‘‘pazza malattia’’. La ruminazione mentale evidenzia un dato importante: cioe` il fallimento di una operazione psichica fondamentale che e` quella del pensare e verbalizzare, intesi come modalita` creative del ` quindi impossibile sorapporto interpersonale. E stenere cio` che afferma S. Freud (1913), cioe` che nella psiconevrosi ossessiva c’e` una erotizzazione del pensiero. La modalita` iterativa che non porta a nulla, tanto meno all’azione, segnala il fallimento e non certo una forma di piacere. In questo senso possiamo notare che nell’ossessivo e nell’ipocondriaco c’e` un dato comune: il fallimento del pensiero e del vissuto corporeo come possibile fonte di piacere e soddisfazione. L’ossessivo tratta sadicamente il proprio apparato mentale, come l’ipocondriaco tratta sadicamente il proprio corpo. Ma da cosa deriva questo fallimento di una corretta attivita` del pensiero e della verbalizzazione? Il pensiero e la verbalizzazione sono certamente capacita` innate nell’uomo, ma per svilupparsi hanno bisogno di un lungo periodo di ‘‘apprendistato’’ che passa attraverso la complessa dinamica delle pulsioni e delle relazioni oggettuali. Nel rapporto con l’altro, il bambino, se vive una situazione soddisfacente, riesce a separarsi, ed al momento della separazione mantiene dentro di se´ il ricordo dell’oggetto. Nelle prime fasi il ricordo e` fondamentalmente legato all’attivita` della vista, e quindi e` una immagine. Queste immagini tendono sempre piu` a stabilizzarsi ed integrarsi tra di loro, e si arriva cosı` alla costruzione interna degli oggetti. In una fase ancora successiva c’e` la verbalizzazione, ovverosia il passaggio dal ricordo-immagine al simbolo verbale. Non c’e` piu` bisogno dell’oggetto reale e nemmeno dell’immagine, ma si crea il simbolo, ovverosia una fase piu` complessa di rappresentazione del mondo: la verbalizzazione, cioe` il dare il nome agli oggetti, e` il segno tangibile di questo avvenuto passaggio. Nello sviluppo normale, quindi, esiste nell’uomo una tendenza evolutiva che va dal meno integrato al piu` integrato: la formazione dell’im-

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magine, la conseguente costruzione interna dell’oggetto e la successiva verbalizzazione avvengono per successive integrazioni. Ma perche´ questo complesso meccanismo possa realizzarsi e` necessario che il bambino viva una situazione, se non gratificante, perlomeno non eccessivamente ostile. In quest’ultimo caso infatti l’istinto libidico non riesce a contenere l’istinto di morte che tende a disgregare, spezzettare le immagini e quindi a creare una situazione di confusione. Il mondo interno del bambino si frantuma, ed il mondo esterno si popola di intenzionalita` persecutorie e di oggetti frammentati. Ed e` quanto succede nel futuro ossessivo, dove piu` che un trauma c’e` spesso una serie di traumi che rende difficile o comunque alterata la normale evoluzione. Ma qual e` il tipo di trauma e quando avviene? Ritengo che avvenga in un periodo abbastanza evoluto dello sviluppo del bambino e precisamente nel periodo che va dall’attivita` deambulatoria, e quindi esplorativa, a quella del controllo degli sfinteri. Questo periodo deve considerarsi centrale per lo sviluppo della autonomia: il bambino puo` sentirsi padrone del mondo e del proprio corpo o puo` invece sentirsi in balı´a degli altri. Ho gia` proposto che il carattere fobico si forma nella fase dell’attivita` esplorativa del bambino, nel momento in cui questa attivita` viene penalizzata, per angosce dell’A.S. che non aiuta il bambino a superare le sue paure o addirittura le potenzia con un atteggiamento eccessivamente iperprotettivo. Per il futuro ossessivo si tratta invece di una situazione diversa e ben piu` grave. Infatti, dal momento in cui il bambino si propone sempre piu` come soggetto, come entita` autonoma, questo puo` far scattare nell’A.S. una serie di reazioni violente e castranti. Il problema del controllo degli sfinteri va interpretato nel senso che e` in genere l’A.S. a farlo diventare un problema. Normalmente un bambino, nel corso del suo sviluppo fisico e psichico, raggiunge una maturazione che gli permetterebbe, anche senza eccessive indicazioni, di ottenere il controllo degli sfinteri. Ma l’A.S. che non tollera questa possibilita` e questa autonomia del bambino comincia a formulare, ed

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in maniera sadica, una serie di imposizioni, divieti, minacce che angosciano il bambino e disturbano la sua normale evoluzione, stimolando cosı` una reazione di odio. Il che ci porta a considerare che l’emergenza dell’odio e` successiva a quella della rabbia. L’odio, infatti, emerge da situazioni vissute come gravemente lesive, nelle quali la frustrazione peggiore e` l’impedimento ad una crescita psichica. L’odio si sviluppa come reazione ad una situazione che e` lesiva per lo sviluppo, per l’autonomia e per l’autostima del bambino: e si manifesta come tendenza non ad incorporare, ma a distruggere l’oggetto sadico. ` frequente trovare nel racconto degli ossesE sivi (ma questo succede dopo un certo periodo di lavoro psicoterapeutico che permette l’allentamento delle difese) esperienze gravemente traumatiche. H. Sullivan esprime un parere molto preciso: I racconti del nevrotico ossessivo sul suo passato giungono a poco a poco a riferire degli episodi di brutalita` che sono stati sofferti dal paziente ad opera di una persona significativa: di solito uno dei genitori. Se questi racconti di brutalita` contengono qualche tenue mascheramento della brutalita` da parte di chi la esercitava, allora credo che si possa sempre ritenere il racconto abbastanza vicino al vero. In altre parole, questi pazienti sono stati sottoposti moltissime volte alla crudelta` del genitore, ma questi nascondeva sempre la brutalita` della situazione dietro una piccola maschera. Nei primi tempi che lavoravo con gli ossessivi mi pareva poco probabile che tutte le atrocita` che sentivo fossero state veramente inflitte ai pazienti, ma poi, sentendo tanto spesso lo stesso tipo di storia, a poco a poco cominciai a vederci chiaro. Questi pazienti sanno benissimo che i loro genitori non erano felici, e che almeno uno di essi era nei loro confronti di una selvaggia crudelta`. Ma c’era sempre un equivoco, perche´ tutto avveniva sempre sotto l’apparenza della normalita`, della dolcezza e dell’allegria. Il bambino non riusciva mai a capire se la mamma, per esempio, fosse davvero tanto cattiva con lui, o se invece fosse tenera e dolce ma fosse la sua perversita` di bambino a farla apparire crudele. La terapia, qui, consiste nell’arrivare a capire come tutta la dolcezza e l’allegria non fossero che apparenza: l’indagine terapeutica aiuta a distinguere la maschera dal motivo. Questa comprensione e` spesso accompagnata da un amaro senti` mento di dolore che puo` essere di tipi diversi... E

l’emancipazione finale da un oggetto di desiderio perduto, che, dalla fanciullezza in poi, era invece fonte di veleno1.

Quindi il trauma psichico esiste, basta saperlo cercare: perche´ a differenza degli isterici, che tendono ad esagerare e comunque ad esibire pregresse situazioni frustranti, l’ossessivo tende a rimuovere questa esperienza, e se non ci riesce tende a dubitare di tutto. Come vedremo, questa e` la probabile spiegazione di un’altra caratteristica dell’ossessivo: la follia del dubbio. Quindi cosa succede nell’ossessivo? Una situazione traumatica e frustrante interrompe le possibilita` integrative del bambino: emerge una situazione di odio che porta alla disgregazionesvuotamento o alla rottura del rapporto oggettuale. L’odio tende a disgregare il rapporto oggettuale significativo, ma lo stesso avviene a livello intrapsichico: la possibilita` di passare, dopo un rapporto oggettuale soddisfacente, attraverso la separazione, all’immagine e poi al simbolo, tende a disgregarsi. Quello che noi in genere osserviamo non e` tanto il processo nella sua esplosione, quanto piuttosto gli esiti, ovverosia la struttura caratteriale dell’ossessivo. Egli deve cosı` sempre piu` isolare le emozioni (che sono molto violente), dal pensiero e dalla verbalizzazione: il che rende il pensiero sempre piu` astratto e la verbalizzazione sempre piu` difensiva e non comunicativa. Emerge anche un altro tratto fondamentale: l’incapacita` di pensare ad un possibile esaudimento del desiderio nell’ambito dei rapporti interpersonali. Di qui quella astrazione e freddezza caratteristiche dell’ossessivo, che sembra privo di emozioni perche´ le deve tenere accuratamente isolate e separate altrimenti emergerebbero come odio. E questo odio si puo` manifestare solo attraverso una successiva modifica- zione, che e` l’invidia: ovverosia la tendenza a svuotare, distruggendo l’oggetto a livello fantastico. Ma per completare il quadro dinamico dobbiamo descrivere un altro fenomeno fondamentale: la tendenza dell’ossessivo a regredire e man- tenere caratteristiche del pensiero magico. Il pensiero

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Sullivan H., 1965.

La psiconevrosi ossessiva

magico si sviluppa da un vissuto di non separatezza tra l’Io e l’ambiente: ci si sente tutt’uno con il mondo circostante, il che porta ad una dinamica di onnipotenza, perche´ si pensa che la realta` possa essere gestita e modificata a proprio piacimento. Questa particolare modalita` di pensiero, spesso per motivi culturali e sociali, puo` rimanere tale presso alcune popolazioni (animismo): nel bambino rappresenta in genere una fase normale di sviluppo, che viene superata a favore di un pensiero piu` realistico, basato sulla differenziazione tra l’Io e l’esterno e soprattutto sulla consapevolezza che non basta il pensiero per modificare la realta`. Il pensiero si sviluppa all’interno di una sintesi tra emozioni e simboli verbali e porta, ` evidente che quanto ove necessario, all’azione. E piu` il bambino acquisisce questa modalita` di essere, tanto piu` diventa autonomo. Bisogna tener presente che quando si parla di ambiente-mondorealta`, per il bambino esso significa fondamentalmente l’ambiente familiare: e` quindi ancora una volta la particolare modalita` relazionale che porta ad uno sviluppo normale o patologico. Per l’ossessivo e` proprio l’ambiente familiare che e` insicuro o che a volte, invece, cambia improvvisamente e diventa sadico, ostile, frustrante. Proprio questa insicurezza porta il bambino a mantenere gli aspetti del pensiero magico. Percio`, quanto piu` l’ambiente e` fonte di ansia e di insicurezza, tanto piu` il bambino e` costretto a mantenere questa modalita` di controllo onnipotente sulla realta`. Ma questo controllo avviene attraverso due modalita` che corrispondono in fondo ai due tipi di magia: quella bianca e quella nera. La magia bianca consiste nel pensare di poter ottenere con il proprio pensiero effetti benevoli: cioe`, in termini piu` precisi, e` la possibilita` di poter realizzare sempre il proprio desiderio. E questo rimane a tratti anche nell’adulto che, se mantiene un corretto rapporto con la realta`, si configura come ‘‘sogno ad occhi aperti’’: e` il pensare di potere con la sola forza del pensiero ottenere che la persona amata e lontana torni; far accorrere una persona in un momento di bisogno; superare un ostacolo. Ma esiste anche la magia nera: ovverosia la tendenza ad ottenere effetti malevoli, ossia la morte, la distruzione dell’altro. Ed e` quello che

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rimane nell’ossessivo: quello che non ha potuto ottenere con il desiderio, cerca di ottenerlo con l’ostilita`. Cio` che non si puo` avere, si deve di` evidente che questa carica di ostilita` struggere. E ingenera facilmente sensi di colpa. Per questo si dice che il soggetto ossessivo oscilla tra il delitto ed il castigo. E Rasko`l’nikov, il protagonista di Delitto e castigo di F. Dostojevskij, sembra rappresentare proprio il prototipo della ruminazione mentale, anche se in questo caso, a differenza dell’ossessivo, il delitto era stato commesso effettivamente. Nell’ossessivo invece il delitto e` solamente fantasticato, come nel caso che segue. Un ragazzo di sedici anni presentava una singolare anomalia. Ogni sera, prima di coricarsi, togliendosi le scarpe, le poneva con la punta rivolta verso la camera dei genitori. Poi, coricatosi, era costretto ad alzarsi e rimetterle in posizione opposta. Questo cerimoniale poteva durare anche qualche ora. Dopo un lungo lavoro di psicoterapia emerse il significato del cerimoniale: la punta delle scarpe rappresentava un oggetto acuminato ed il rivolgerlo verso la camera dei genitori era l’espressione della fantasticheria onnipotente di poterli uccidere, poiche´ il paziente aveva provato per loro un intenso odio, che ormai era stato rimosso e sostituito dal sintomo. Il rigirarle aveva invece il significato opposto: ovverosia una fantasticheria onnipotente di cancellare, altrettanto magicamente, quel gesto ostile che il paziente aveva eseguito e che egli temeva si fosse realizzato. In questo senso possiamo dire che il fare-disfare, che e` tipico del pensiero ma soprattutto del cerimoniale dell’ossessivo, corrisponde a due fasi precise. Il fare corrisponde ad una magia nera (pensiero onnipotente ostile), mentre il disfare consiste nell’annullamento dell’esito vissuto come realizzato. Molto spesso si sono utilizzati studi antropologici sui rituali magici per spiegare meglio la psiconevrosi ossessiva: credo che cio` sia utile, ma tenendo presenti alcune differenze fondamentali, come nel caso degli aborigeni dell’Australia centrale, tra i quali esiste una particolare modalita` di magia definita sing. Ogni aborigeno puo` utilizzare le sue forze per produrre effetti ‘‘benevoli’’, puo` cantare la propria lancia per renderla efficace, la donna voluta

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per farla fisicamente venire ad un appuntamento, il parente lontano per farlo accorrere alla tribu`, o, al contrario, come mezzo per produrre malattie e morte al nemico. Esempio paradigmatico di un estrema operazione di sing e` quella del sing + bone pointing (puntamento dell’osso). Un adulto del gruppo muore per un incidente o per malattia. La morte di un adulto iniziato non e` mai casuale, qualcuno deve averla intenzionalmente provocata. I vecchi si riuniscono, si consultano, indagano e finalmente si arriva alla conclusione che e` stato Mr. X della tribu` vicina. Il parente piu` prossimo del morto provvedera` a ristabilire l’equita` uccidendo il colpevole, e cio` avverra` attraverso la piu` potente delle operazioni che un uomo puo` esercitare: il sing accompagnato dal bone pointing... Il nostro attore si rechera` nelle vicinanze della vittima designata. Non e` necessario che questa sia effettivamente visibile, poiche´ e` sufficiente indirizzare il frammento di osso, lo strumento del pointing, nella direzione dove si trova il colpevole. Indi e` strettamente necessario seguire scrupolosamente le procedure e la cautela inerente una operazione cosı` potente. L’osso e` generalmente unito ad una stringa di capelli intrecciati che puo` essere legata al pene in erezione del puntatore: la stringa puo` continuare ad essere attaccata al pene di un compagno, per ottenere cosı` la massima forza di azione. Si ottengono in tal modo dei livelli di forza cosı` alti che gli stessi operatori devono stare a loro volta attenti a non essere colpiti. La punta dell’osso non deve mai incrociare od essere indirizzata verso membri consanguinei, ma dovra` sempre essere rivolta verso terra sino al momento in cui lentamente l’osso viene mirato verso l’obbiettivo per esplicare la sua azione. Se l’operazione e` condotta con perizia gli operatori possono ritornare tranquillamente al campo. In due o tre giorni il colpevole perdera` le forze e presto o tardi morira`2.

Come ho detto precedentemente, credo che questo comportamento dell’aborigeno abbia molte cose in comune con il cerimoniale delle scarpe dell’ossessivo, ma anche delle differenze. ` bene sottolinearle, non solo per capire meglio E la struttura dell’ossessivo ma ancora una volta per ribadire che l’esame di un comportamento senza evidenziarne le dinamiche psichiche di

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Bartocci G., 1987.

fondo non ci dice molto, o meglio ci puo` dire tutto e il suo contrario. L’aborigeno compie un rito socialmente accettato (anzi e` costretto a farlo dal gruppo) e che per lui ha un significato molto preciso. L’ossessivo compie un rito che non solo non e` accettato, ma soprattutto che per lui non ha alcun significato, perche´ il senso del sintomo gli e` nascosto: e questo e` uno dei motivi per cui e` costretto a ripeterlo iterativamente. L’aborigeno compie una magia nera contro un estraneo, un nemico, un colpevole, quindi e` legittimato a farlo: l’ossessivo compie la magia nera contro una persona conosciuta, anzi che e` o che e` stata molto significativa per lui. Per cui non solo non si sente legittimato a farlo, ma preso dall’angoscia e dai sensi di colpa e` costretto a disfare la magia nera, cosa che l’aborigeno non farebbe mai. Pertanto l’aspetto comune tra l’aborigeno e l’ossessivo e` la credenza magica che una certa intenzione, un certo pensiero, possano realmente avere effetto. Mentre possiamo dire che la differenza fondamentale consiste nel fatto che nell’ossessivo il cerimoniale e` collegato ad un conflitto, per l’aborigeno e` una scelta culturale di gruppo. Comunque risulta chiara l’importanza del pensiero magico nell’ossessivo, che, come ho spiegato, e` un tentativo di difesa da un mondo vissuto come insicuro ed instabile. L’ossessivo ha vissuto nel suo passato, e continua a vivere, una insicurezza profonda: insicurezza collegata anche al timore di sue possibili esplosioni di odio nei confronti degli A.S. Egli teme che cio` possa ripetersi, e per questo deve tenere sotto controllo se stesso, le sue emozioni e l’ambiente. In questo senso ho riferito gli studi di K. Goldstein (1952) sui traumatizzati cranici e sulla loro meticolosita`. L’ossessivo non ha un deficit mnemonico o intellettivo: tutt’altro. Pero` vive una situazione analoga di incapacita` e di timore rispetto all’ambiente, che pertanto deve controllare. Lo fa ricorrendo appunto a quell’ordine, quella meticolosita` che gli da` l’illusione che tutto sia sotto controllo. E se si cambia ‘‘l’ordine’’ dell’ossessivo, questi puo` avere, momentaneamente, delle ‘‘esplosioni’’ di angoscia e di ostilita`. Ma come controlla la realta` circostante, egli deve controllare anche se stesso: e lo ottiene con il meccanismo difensivo tipico della psiconevrosi

La psiconevrosi ossessiva

ossessiva: l’isolamento. Ovvero l’assoluta separazione tra il pensiero e le emozioni, separazione che e` qualcosa di piu` della semplice ambivalenza. Infatti l’ossessivo, come l’ipocondriaco e l’anoressica, e` andato ‘‘oltre’’ la dinamica dell’ambivalenza, nel senso che mentre in questa c’e` un rapporto con l’oggetto, nell’ossessivo c’e` una rottura che lo porta solo al controllo onnipotente. Controllo sulle sue emozioni che vengono distaccate completamente dal resto dell’attivita` psichica, e controllo sull’altro. La tipica modalita` relazionale dell’ossessivo e` quella del controllo che puo` essere piu` o meno manifesto. Dal carattere ossessivo che impone il suo ‘‘ordine’’ a tutti, fino al cerimoniale che per l’iterativita`, la complessita` e la lunghezza finisce inevitabilmente per coinvolgere tutto il nucleo familiare e non solo quello. La donna (vedi ‘‘Il caso clinico’’ che segue) che doveva mettere in ordine tutti gli oggetti impone una rigida restrizione al marito ed alla figlia, che praticamente sono ridotti quasi all’immobilita`. Infine un ultimo dato: qual e` il significato del dubbio per l’ossessivo? Possiamo dire che mentre l’odio, la ruminazione mentale, il fare-disfare, il controllo onnipotente e la razionalizzazione fanno parte della struttura dell’ossessivo, il dubbio puo` considerarsi come una situazione difensiva conscia, tendente a non scoprire la verita`. Ovverosia l’ossessivo, a livello piu` o meno conscio, sa della sua ostilita`, della sua carica distruttiva, ma cerca di non saperlo fino in fondo. In questo senso il dubbio esprime, attraverso il tipico modo di dire ‘‘ma forse... puo` darsi...’’, la modalita` difensiva del linguaggio. Molto spesso la risposta dell’ossessivo ad una interpretazione (e quanto piu` questa ha colto nel segno) e` spesso ‘‘certo puo` darsi, pero` potrebbe anche significare un’altra cosa’’, e spesso l’altra cosa e` esattamente il contrario. Il personaggio di Amleto di W. Shakespeare e` emblematico: il dubbio di Amleto e` chiaramente difensivo rispetto alla verita` che egli conosce ma che, se dovesse accettarla fino in fondo, lo porterebbe ad un’azione necessariamente omicida. E questo e` importante perche´ nella terapia dell’ossessivo e` proprio il dubbio, di fondo, costante, che deve essere messo subito in discussione. Perche´ in que-

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sto modo l’ossessivo puo` arrivare pian piano ad accettare certe sue verita`: passo inevitabile per superarle.

5. Il caso clinico Si tratta di una ragazza di 27 anni, sposata da circa sette, con una figlia. I disturbi piu` eclatanti si sono manifestati circa tre anni fa: un anno dopo la nascita della figlia. In un primo tempo sono comparse delle fobie per lo sporco, che la portavano a temere continuamente infezioni per la figlia e la spingevano a lavaggi ripetuti del poppatoio o di altri oggetti che avevano a che fare con la figlia. Poco dopo compare un cerimoniale che in breve occupa tutto il tempo della paziente. Ogni qualvolta ella vede un oggetto che ritiene non essere in ordine, lo deve spostare. L’essere in ordine non corrisponde ad alcun concetto funzionale o ragionevole: ma piuttosto e` la sensazione sgradevole che le provocano gli oggetti. Questa sensazione, qualora non fosse bloccata con il cerimoniale, la porterebbe ad uno stato prima di ansia poi di aggressivita` sia con la figlia che con il marito. Pertanto ella deve compiere il seguente cerimoniale: visto un oggetto in ‘‘disordine’’ lo mette in ordine (cioe` cambia la posizione per es. del portacenere sul tavolo), poi esce dalla stanza. Rientra e lo guarda: deve spostarlo di nuovo e riesce. Il tutto si compie in una azione ripetuta per tre volte. Se qualche volta teme di aver sbagliato il conto, deve ricominciare da capo. Questo cerimoniale le occupa gran parte del tempo: il marito non puo` muovere alcun oggetto, altrimenti sarebbe il disordine e quindi stimolerebbe compulsivamente il cerimoniale. I dati salienti della storia della paziente riguardano un’esistenza piuttosto povera di avvenimenti. Figlia unica, vissuta con dei genitori definiti come molto rigidi ed ossessivi. Per motivi di spazio ha dormito a lungo nella stanza con i genitori. Si fidanza a 17 anni e si sposa poco dopo con un ragazzo verso il quale non prova alcun affetto, solo per andare via di casa. In psicoterapia, per un anno non si riesce a far emergere nessun dato di rilievo se non una aperta ostilita` nei confronti del marito, ed una, piu` celata, nei confronti della figlia. Per questo

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

periodo di tempo l’analisi e` centrata quasi esclusivamente sui cerimoniali: la paziente non sogna e non porta altro materiale significativo. Piano piano emergono dati biografici importanti. Il primo e` il vissuto con i genitori: riaffiorano ricordi di lei bambina che non poteva muoversi perche´ era continuamente richiamata e sgridata. Questo un po’ per lo spazio molto limitato della casa, ma soprattutto perche´ la madre, che faceva la portiera, non voleva che la figlia potesse dare fastidio ai condomini (ma e` evidente che questa e` una razionalizzazione sia della madre che della paziente stessa). Si accorge che lei ora, sta facendo lo stesso con la propria figlia: e` questa la prima ‘‘verita`’’ abbastanza sconvolgente che la paziente apprende su di se´. Poi emerge un ricordo importante. In terza elementare fu bocciata per ben tre volte: frequentava una scuola privata. Ricorda questo fatto con grande emozione ed ostilita` nei confronti della maestra e dei genitori che continuavano a rimproverarla e a giudicarla mentalmente insufficiente. Furono anni decisivi: la paziente si sentiva sempre piu` alla deriva, confusa, non sapeva cosa fare. Oltre ad essere giudicata una debole mentale, la paziente perse le amiche piu` care: quindi si ritrovo` sola e ad essere la piu` grande in una classe dove gli ultimi arrivati avevano due o tre anni meno di lei. E questo era spesso un motivo di presa in giro. Fa un sogno: «Sono a casa con i genitori. Ho forse otto o nove anni: la bombola del gas esplode». Si sveglia molto angosciata. Mentre le propongo un’altra ‘‘verita`’’, cioe` l’enorme odio accumulato in quegli anni, la paziente pian piano comincia a ricordare, ma soprattutto a rivivere, numerose situazioni frustranti e sadiche da parte dei genitori e dell’ambiente scolastico. I cerimoniali tendono a diminuire di numero e soprattutto di significato: a volte non li esegue per qualche giorno e poi li ripete quasi temesse di dimenticarseli. A questo punto sembra possibile collegare il significato dei cerimoniali con la triplice bocciatura, con l’intensa angoscia di non farcela e con i suoi disperati quanto vani tentativi di rimettere ordine nella sua situazione interna. La nascita della figlia, ma soprattutto i suoi primi passi (ovvero la tendenza all’autonomia), avevano fatto riesplodere dei conflitti fino ad allora repressi, che si erano manife-

stati solo come carattere ossessivo: cioe` i comportamenti di una persona precisa, ordinata, attenta ai minimi particolari tanto da dare l’idea di una certa stupidita` e di una passivita` totale. Ma dal momento che la figlia con i primi passi non puo` essere piu` vissuta dalla madre come una sua appendice, i conflitti della paziente collegati ai fallimenti passati e all’odio represso emergono e si configurano nel vistoso sintomo del cerimoniale, che riesce a bloccare se stessa e tutta la sua famiglia per intere giornate, costituendo quello che ho definito il controllo onnipotente dell’ossessivo.

6. Diagnosi differenziale Come al solito dobbiamo tener presente la distinzione piu` volte sottolineata tra sintomo e sindrome. Sintomi ossessivi quali la ruminazione mentale, la follia del dubbio o i cerimoniali possono comparire in vari quadri psicopatologici. A parte gli equivalenti fobici (che molti AA. definiscono invece ossessivi) che compaiono nella depressione endogena (vedi al proposito «La psiconevrosi fobica», cap. 14) due sono le sindromi ove puo` porsi un problema di diagnosi differenziale. Da una parte la schizofrenia, soprattutto nei quadri iniziali, ove la ruminazione mentale (il cosiddetto mentisme degli AA. francesi) puo` a volte creare qualche difficolta` diagnostica soprattuto se non sono presenti gli altri disturbi tipici del pensiero e dell’affettivita` della schizofrenia. La comparsa dei cerimoniali, invece, e` facilmente distinguibile perche´ manca lo psichismo di difesa, lo schizofrenico sente di dover eseguire dei comportamenti e dei cerimoniali sotto la spinta di forze esterne. Piu` complessi sono invece i rapporti con alcune sindromi organiche, sia sul piano diagnostico ma soprattutto sul piano interpretativo. Diciamo subito che la differenza fondamentale e` che nelle psicosindromi organiche in genere i sintomi ossessivi sono ‘‘a crisi’’ e non cosı` permanenti come nella psiconevrosi. Possono esserci sintomi ossessivi nella encefalite letargica, in alcune fasi iniziali della demenza ed a volte in certe crisi temporali dell’epilessia. Secondo alcuni AA. questi sintomi sarebbero collegati ad un abnorme

La psiconevrosi ossessiva

stato di vigilanza. La tendenza alla meticolosita`, al particolare, come meccanismo difensivo e` presente frequentemente in sindromi organiche, come in soggetti con pregressi traumi cranici. Comunque, in questi casi manca non solo il carattere ossessivo che precede sempre l’insorgere della psiconevrosi ossessiva, ma anche la componente pulsionale (l’odio) e soprattutto la modalita` relazionale del controllo onnipotente sull’ambiente.

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complesso, difficile, faticoso, segnato da continue oscillazioni con miglioramenti e ricadute. Quindi, come in tutte le forme psicopatologiche, ma in questo caso in maniera ancora piu` evidente, si impone la necessita` di un intervento che sia il piu` precoce possibile.

Riferimenti bibliografici 7. Note di terapia A parte i casi, d’altronde piuttosto rari, di sindromi ossessive su base organica e che quindi richiedono una specifica terapia, in genere l’indicazione terapeutica nella psiconevrosi ossessiva puo` essere sia farmacologica che psicoterapica. La terapia psicofarmacologica e` costituita dall’associazione di un antidepressivo (in genere un triciclico) e di una benzodiazepina oppure di un neurolettico sedativo (perfenazina). Questa terapia puo` dare transitori miglioramenti, ma va protratta per molti mesi, pena la rapida ricaduta. La psicoterapia analitica e` invece indicata soprattutto nei casi ove la manifestazione psicopatologica e` il carattere ossessivo; risulta molto meno efficace quando c’e` gia` una sintomatologia evidente, e soprattutto la presenza di cerimoniali. In questi casi puo` essere presa in considerazione la possibilita` di una psicoterapia cognitivo-comportamentale. In ogni modo, possiamo dire che il trattamento della psiconevrosi ossessiva e` molto

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19 La psiconevrosi ipocondriaca Nicola Lalli Parole chiave cenestopatia; somatizzazione; ipocondria verso gli altri; vissuto corporeo; controllo; schizofrenia cenestesica

L’ipocondria e` una situazione psicopatologica complessa ed ambigua, come ambiguo e` il vissuto corporeo, sospeso tra la categoria dell’essere e dell’avere. Nell’ipocondria e` colpita la fondamentale esperienza umana del vivere il proprio corpo: esperienza che quindi nulla ha a che fare con l’organico. Prendendo le mosse da questa fondamentale esperienza dell’avere un corpo malato, si cerca di spiegare la complessita` di questa sindrome

che spesso finisce con l’assumere connotazioni di tipo psicotico. L’ipocondriaco sospeso tra una modalita` nevrotica ed una psicotica, con la certezza della sua malattia, con la sua tipica dinamica di controllo, finisce per rappresentare una sfida continua al medico. Perche´ con un linguaggio medico, spesso accurato ed articolato, copre una realta` psicopatologica che nulla ha a che fare con la malattia organica. * * *

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1. Considerazioni generali Il termine ipocondria e`, con quello di isteria, uno dei piu` antichi e con questa condivide anche la derivazione del nome da una radice anatomica, l’ipocondrio, ovverosia la parte dell’addome che si trova al di sotto (ipo) della gabbia toracica (chondrion). Il termine ipocondria e` nato quindi allo stesso modo di altri termini medico-psicologici dell’antichita`, che attribuivano a specifici organi la causa dei disturbi, derivando cosı` la denominazione dalla supposta eziologia, come l’isteria (da utero) e la melanconia (da bile nera). Per secoli, il termine ipocondria e` servito a descrivere, piu` che un quadro clinico, un comportamento umano caratterizzato dalla lamentela e dalla eccessiva preoccupazione per la propria salute, tanto da arrivare a confonderlo con il cosiddetto malato immaginario: fin verso l’800 l’ipocondria rappresentava l’equivalente maschile dell’isteria. Poi, quando si comincio` a riconoscere l’esistenza di quadri isterici anche negli uomini, il termine ipocondria fu trascurato e cadde in disuso, anche perche´ fu rapidamente sopraffatto dall’emergente termine di nevrastenia, o esaurimento nervoso, introdotto dall’americano G.M. Beard nell’anno 1869. A sua volta, la successiva scarsa utilizzazione di questo concetto ha riproposto quello di ipocondria. Il termine ipocondria puo` essere usato ad una condizione e, precisamente, a condizione di distinguere tra sintomo ipocondriaco e sindrome ipocondriaca. Quando parliamo di sintomo ipocondriaco ci riferiamo ad un’ideazione patologica riguardante il vivere il proprio corpo (o una sua funzione) come malato: in questo senso, e` chiaro che l’idea ipocondriaca e` e puo` essere presente in qualsiasi altra sindrome psichiatrica, non essendo percio` di per se´ connotativa ed esclusiva dell’ipocondria. Noi, infatti, possiamo trovare un’idea ipocondriaca nel fobico, nell’isterico, nell’ossessivo, e molto spesso in varie manifestazioni psicotiche. In questi casi, l’idea, il timore, la preoccupazione o la certezza di avere un qualche malessere emergono all’interno di una situazione psicopatologica complessa ed articolata ed e` solo quest’ultima ad avere importanza ai fini della comprensione della personalita` e dei problemi del paziente. Cosı`, ad es., un

fobico potra` esprimere un’idea di malattia, ma essa e` spostata nel futuro: il fobico ha spesso piu` timore di poter prendere che di avere una malattia (per esempio il sifilofobo); il che e` molto diverso dal soggetto che e` sicuro di avere la sifilide ad onta di tutti gli accertamenti e di tutte le rassicurazioni, come e` tipico invece dell’ipocondriaco. Anche l’utilizzazione del sintomo e` diversa: il fobico attraverso questo timore puo` riuscire a spiegarsi e giustificare le sue impossibilita` di avere rapporti sessuali (perche´ temuti come fonte di possibile contagio); l’ipocondriaco con l’idea di avere la sifilide esprimera` una sua situazione psicopatologica molto piu` grave: ovverosia l’esistenza di una malattia occulta ed invisibile, non riconoscibile nemmeno dal medico, ma che lentamente lo distrugge dall’interno. Bisogna quindi evitare di usare la connotazione di ipocondria ogni qual volta ci troviamo di fronte ad una situazione per cui il paziente lamenta o chiede aiuto per una sua supposta malattia o malessere fisico. Se confondiamo, o assimiliamo, l’ipocondria con il concetto di paura di essere malati, allora questo timore finisce per ricoprire la mag` notevole gior parte della psicopatologia umana. E la frequenza con la quale il disturbo psicopatologico viene vissuto e/o comunicato come sintomo organico o come timore di una malattia. Certamente si potrebbe scrivere un grande capitolo sulle varie modalita` con le quali l’uomo si rapporta o utilizza l’idea del proprio corpo malato: ma sarebbe fatica inutile. Alla fine saremmo costretti, comunque, a ripetere una serie di suddivisioni gia` note.

2. Sintomatologia Come gia` dicevo in un altro lavoro (LalliSassanelli, 1968), il termine ipocondria, per quanto universalmente riconosciuto e accettato, presenta una certa ambiguita` semantica ed una conseguente difficolta` di delimitazione, perche´ e` spesso usato in maniera troppo estensiva ed indifferentemente nel significato di sintomo e di sindrome. ` necessario quindi chiarire, specificare e uniE

La psiconevrosi ipocondriaca

ficare questa particolare sintomatologia cosı` ubiquitaria che fa giustamente dire a H. Ey (1950): il complesso ipocondriaco e` universale, sempre presente e doloroso per l’umanita` intera... complesso corporale che pesa sulla vita psichica attirandola senza tregua verso l’angoscia dell’esistenza incarnata, continuamente minacciata dalla malattia e dalla morte.

Ma cosa significa esattamente ipocondria? Secondo H. Ey ‘‘l’ipocondria e` un’idea peggiorativa dello stato di integrita` o di salute del corpo’’. Pertanto i termini caratteristici di questo disturbo sarebbero l’ideazione patologica di malattia ed il riferimento al corpo vissuto come non integro. Ma questo non e` sufficiente, perche´ bisogna specificare che questi due parametri sono inseriti all’interno di una struttura psicopatologica specifica nella quale non solo il corpo viene vissuto come malato, ma c’e` la certezza o perlomeno un angoscioso timore della realta` di questa idea. Nell’ipocondriaco il corpo vissuto come non integro o danneggiato e` al centro dell’attenzione e costituisce anche il cerchio (potremmo dire la prigione) entro il quale egli si muove. Il corpo e soprattutto la parte interna, quella non visibile, e` un mistero che attanaglia l’ipocondriaco: mistero che sembra rischiarato solo dalla sicurezza della malattia e della morte. Il corpo diventa qualcosa di oscuro e pesante che il paziente e` costretto a trascinarsi dietro e di cui non puo` liberarsi. Il corpo, quella sua parte materiale che gli permette di muoversi, vedere, rapportarsi con gli altri, diventa invece, per una sconosciuta malattia, un ostacolo che gli impedisce tutto, se non quel parziale rapporto con gli altri reso possibile solo dalle sue lamentele. La vita psicologica sembra non esistere, come anche una eventuale conflittualita`: tutto e` sommerso dalla pesantezza del corpo malato. Anche quando l’ipocondriaco riferisce sensazioni o timori (come la paura di impazzire, la sensazione di confusione mentale, ecc.) che sembrano riguardare piu` la salute mentale che quella fisica, in effetti, anche in questi casi, la sintomatologia non viene vissuta come disturbo psichico, ma solamente come danneggiamento o malattia del cervello, cioe` di una parte del corpo.

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Questa sintomatologia e` totalmente psicopatologica pur essendo centrata sul corpo: possiamo dire che nell’ipocondriaco viene portata al massimo la negazione della propria conflittualita` e della vita psicologica in genere. Tanto e` vero che se all’ipocondriaco per caso viene scoperto un reale disturbo somatico, egli, anche se momentaneamente, puo` star meglio. Non solo le sue apprensioni si sono rivelate reali (e l’uomo, in genere, obiettivamente preferisce una verita` spiacevole ad una insicurezza), ma soprattutto sta meglio perche´ ora gli viene confermato un suo non confessato desiderio ‘‘che lui starebbe bene, farebbe qualsiasi cosa, come gli altri, se non fosse a causa di quella strana malattia’’. Questo processo massiccio (e percio` tanto piu` pesante ed inquietante) di negazione dell’origine conflittuale della sua ideazione di malattia e` un dato molto importante, perche´ ci fara` capire molti aspetti della dinamica sia intrapsichica che interpersonale dell’ipocondriaco. Ma prima di passare a descrivere la sintomatologia dell’ipocondriaco, puo` essere utile soffermarci brevemente su di un disturbo, la cenestopatia, che pur non essendo specifica di questa psiconevrosi ne puo` rappresentare a volte l’inizio, o a volte esserne il supporto. Per cenestesi si intende una complessa sensazione che si esplicita come quel particolare colorito piacevole che si ha del proprio vissuto corporeo. Essa si forma da numerose sensazioni propriocettive che continuamente arrivano da tutto il corpo ai centri nervosi superiori. In genere queste sensazioni sono subliminali: in alcuni soggetti, invece, queste sensazioni diventano non solo avvertibili, ma disturbanti per l’intensita` e la persistenza e vengono denominate cenestopatie o somatizzazioni. Esse sono descritte come malessere vago e generale, oppure come dolori, gonfiore, trafitture, punture, bruciori, stiramenti ecc, e si compendiano in una spiacevole sensazione non solo di avere un corpo, ma di avere un corpo che sta male. Tutto questo puo` portare il soggetto a ripiegarsi su se stesso, e a concentrare l’attenzione sul proprio corpo e sulle sue funzioni piu` o meno alterate. La preoccupazione di ‘‘non sentirsi bene’’ isola il soggetto rispetto all’ambiente, lo de-

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motiva, ne impoverisce sia i rapporti sia la comunicazione. Comunicazione che in questi soggetti finisce per vertere esclusivamente su problemi di salute e di malattia. Le cenestopatie, come forma minore di ipocondria, potrebbero rappresentare il ponte, la congiunzione, tra il somatico e lo psichico. Infatti se da una parte possiamo considerare l’isolamento e l’impoverimento del cenestopatico come conseguenza di un conflitto nevrotico, dall’altra potremmo considerare l’alterazione della cenestesi come conseguenza di una alterazione di quello schermo antistimolo che ha ben precisi correlati neurofisiologici (vedi capitolo 1). Ma in effetti e` una ipotesi che regge poco: l’ipocondriaco, pur facendo parlare il corpo, non ha nulla di organico, il vissuto corporeo viene utilizzato solo per esprimere una conflittualita` piu` o meno drammatica. Ma se fosse necessaria una ulteriore dimostrazione, basterebbe considerare una sindrome molto singolare, denominata ipocondria verso gli altri, e descritta da R. Hutchinson. Questo autore la divide in tre gruppi: quella dei genitori verso i figli, quella dei figli verso i genitori e quella rivolta verso una intera comunita`. Paradigma del primo tipo e` l’atteggiamento di certe madri che, dominate dall’idea che il proprio figlio, specie se unico o in tenera eta`, possa essere affetto da disturbi o da malattie della gamma piu` varia, ricorrono a continue consulenze mediche ed a precauzioni eccessive. Spesso esse finiscono con lo strutturare un chiaro quadro ipocondriaco, che anziche´ essere vissuto riguardo al proprio corpo viene spostato su quello del figlio. Questo fatto, di osservazione piuttosto frequente, che rappresenta come una sorta di sintomo mediato offerto al medico, e` chiaramente dovuto ad una situazione conflittuale della madre nei riguardi di quel figlio, che viene vissuto come una parte di se´ malata. Lo studio delle modalita` di rapporto fa trasparire molto chiaramente come sotto questa apparente premura si nasconda una tendenza al controllo ed un attentato continuo all’autonomia del figlio. Spesso queste madri (ma spesso anche padri) presentano una chiara struttura ipocondriaca senza manifestare sintomi diretti; possiamo dire che si sono salvate da una loro ipocondria, spostandola sul figlio.

Queste considerazioni, molto sintetiche, credo siano sufficienti a dimostrare che il quadro ipocondriaco esprime precise conflittualita` sia intrapsichiche che interpersonali e che pertanto non c’e` nessuna necessita` di sospettare cause somatiche, andando pericolosamente alla ricerca di cose inesistenti. Questo non vuol dire che bisogna considerare il corpo e la psiche come due entita` ` proprio la scissione e la separate: tutt’altro. E separazione soma/psiche che crea una serie di difficolta` per cui bisogna affidare la ricomposizione ad una necessaria relazione in termini causalistici e naturalistici: soma e psiche vanno considerati come due aspetti di un’unita` che e` l’uomo. Ma bisogna tener distinte le specificita` e le diversita`. Pertanto, una cosa e` il corpo ed un’altra il vissuto corporeo: il primo riguarda la medicina, il secondo la Psichiatria. Una mano e` un insieme di muscoli, tendini, nervi, cute, vasi sanguigni ecc., e si muove e funziona in base a ben precise leggi fisico-chimiche: la sua funzionalita` o la sua patologia somatica dipendono direttamente da tutti questi fattori e da altri, che seppur situati piu` lontano, hanno comunque un rapporto preciso di causa-effetto con la funzionalita` della mano. Ma una mano e` anche un vissuto, e` anche un simbolo: la mano che colpisce, che uccide, la mano che crea, che scrive: questo vissuto e` collegato al mondo fantasmatico del soggetto, cioe` al suo mondo psichico. E la funzionalita` o meno della mano puo` dipendere anche da questo mondo psichico: la paresi isterica di una mano e` dovuta proprio ad un’alterazione del vissuto simbolico della mano. Ma il corpo presenta certamente una sua specifica ambiguita`, oscillante come e` tra le categorie dell’essere e dell’avere. Io sono il mio corpo, ma ho anche un corpo: dipende da che punto di osservazione mi situo. Io ho la mia mano, la vedo che si muove: ma io sono anche la mia mano che si muove e che vedo. E se chiudo gli occhi mentre tutto il mondo circostante scompare, la mano continua ad essere lı`, la sento e la muovo, e se non la sento la posso sempre immaginare. Per il bambino, il corpo e` il primo oggetto che puo` controllare e muovere a suo piacimento: e` una possibilita`, ma anche un limite quando si accorge che ove arriva la sua vista (a volte i suoi

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desideri) non puo` giungere il suo corpo. Quindi e` evidente la centralita` dell’esperienza corporea, che dobbiamo ritenere momento fondamentale nella costituzione della psiche di ogni individuo. Normalmente, questa complessa esperienza viene elaborata ed integrata in un’identita` psichica, ove il problema dell’essere e dell’avere si ricompone in un’unita`. Ed infatti quando una persona ‘‘normale’’ si ammala sul piano somatico (a parte le ovvie, normali reazioni) riesce in fondo, prima o poi, ad integrare questa parte di corpo malato all’interno della sua esperienza complessiva. La parte malata, in fondo, viene vissuta come una parte di se´, le eventuali limitazioni funzionali vengono integrate e ci si adatta. Questo e` proprio quello che non riesce ad avvenire nell’ipocondriaco: egli e` alle prese con il corpo, che rimane fondamentalmente un’esperienza incompleta ed ambigua e che non riesce assolutamente ad integrare e che pertanto deve vivere come qualcosa di estraneo. Questo corpo che ha, che quasi non gli appartiene, ma che proprio per questo ha possibilita` di ‘‘ammalarsi’’, senza alcuna possibilita` di poter integrare questa ‘‘malattia’’ nel contesto della sua personalita`. L’ipocondriaco continua a trascinarsi questa sua ‘‘malattia’’ come una specie di palla al piede, senza nessuna speranza di liberazione. Ed e` cosı` che si presenta al medico. Il paziente lamenta un dolore, un disturbo, una disfunzione, ma quello che piu` lo preoccupa e` il significato di questo malessere: egli ha la tormentosa sicurezza, da una parte, di avere un disturbo grave, e, dall’altra, il timore che nessuno sia in grado di poterlo scoprire. In genere, egli ha gia` consultato numerosi medici e molto spesso porta con se´ molteplici esami e ricerche, ma in fondo egli non si fida del medico: ed e` proprio questo uno dei motivi del costante pellegrinaggio. Tutto il colloquio si centra sul suo disturbo: egli riesce a descriverlo con numerosi particolari e con esattezza e non e` raro che egli abbia una certa infari` molto difficile innatura di nozioni mediche. E durlo a parlare di situazioni che non abbiano a che fare con il suo malessere; anche se ci si riesce, subito dopo ritorna a parlare della sua sintomatologia. La sintomatologia puo` essere varia: molto frequentemente e` interessato l’apparato digerente

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o in genere l’addome, con altrettanta frequenza l’apparato cardiocircolatorio ed il cuore in particolare. Il paziente si autosserva continuamente, si controlla meticolosamente, con una tendenza nettamente ossessiva; e` capace di tener presente e di esporre numerosi particolari, spesso insignificanti, del proprio malessere. Quello che gli sfugge e` sempre l’essenziale: spesso le cose piu` importanti, come l’inizio, le eventuali variazioni della sintomatologia, l’eventuale rapporto con fattori emotivamente importanti; e nemmeno e` facile farglieli ricordare, ne´ tanto meno fare dei collegamenti tra il suo disturbo ed eventuali conflitti, anche quando si tratta di situazioni chiare ed evidenti. Il paziente non nega l’eventualita` di avere problemi, ma nega che questi abbiano a che fare con il disturbo per il quale si e` recato dal medico. Ogni tentativo in questo senso viene negato o ridicolizzato, o viene visto come un segno di insufficiente preparazione o ciarlataneria da parte del medico; anche se questi pazienti non disdegnano affatto poi di recarsi dal mago o dal guaritore. Il massimo che possono accettare e` una spiegazione in termini fisiologici del loro disturbo, questo puo` tranquillizzarli ma solo momentaneamente. Infatti, in genere, essi sono abbastanza restii ad ogni forma di suggestione, come ad ogni considerazione dettata dal buon senso. Per esempio, il paziente che lamenta una tachicardia e nutre il timore di poter avere una malattia che lo portera` all’infarto, ha gia` contattato numerosi cardiologi e arriva dal medico portando con se´, come prova, numerosi ECG tutti negativi. Quando si fa notare che, in fondo, proprio quella serie di numerosi esami negativi dovrebbe confermargli la non esistenza del disturbo, l’ipocondriaco subito aggiunge e ribatte che «pero` un suo conoscente giovane, in buona salute e con un ECG negativo, e` morto improvvisamente». Il che, non solo puo` essere vero, ma e` ampiamente probabile. Questa impossibilita` di poter escludere con assoluta certezza la presenza di un disturbo organico, e` in genere l’arma razionale che l’ipocondriaco utilizza nei riguardi del medico, che spesso si trova in difficolta`, e non sapendo cosa fare, puo` cadere nel gioco del paziente. Rifare un ECG (o peggio un esame ancora piu` sofisticato) ed avere la soddisfazione momentanea di calmare l’ansia del pa-

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ziente; oppure prescrivergli un farmaco, per quel particolare disturbo, che deve essere assolutamente nuovo, senza controindicazioni ecc. ed a volte riuscira` a sedare apparentemente il paziente. Ma, ben presto, il paziente ritornera` perche´ o l’efficacia del farmaco tende a diminuire, oppure perche´ improvvisamente si e` presentato un sintomo collaterale che gli impedisce di portare avanti la cura; oppure perche´ non ha potuto praticare la cura a causa di una controindicazione di quel farmaco rispetto ad un altro disturbo che egli teme di avere (in genere gli ipocondriaci sono attenti lettori dei foglietti illustrativi dei farmaci). Quindi, comunque vada, anche nel migliore dei casi va male, perche´ anche se l’effetto e` stato positivo, questo tende a diminuire in breve tempo; ed a questo punto il medico non puo` far altro che giocare al rialzo, sia sul piano degli esami di laboratorio che dei farmaci. Il rapporto medico-paziente diventa sempre piu` pericoloso: spesso esso si interrompe o perche´ il medico esasperato non vuole vederlo piu`, o molto piu` spesso perche´ il paziente non va piu` dal medico. Ma e` gia` alla ricerca di un altro medico, al quale presentera` qualche ricetta e qualche delusione in piu`. D’altronde, anche una proposizione in chiave esclusivamente psicologica del disturbo tende ad allontanare il paziente: egli, in fondo, teme di poter o dover scoprire delle cose che intuisce essere la causa dei suoi disturbi, ma che non vuole vedere. Per questo, il rapporto con l’ipocondriaco e` sempre molto difficile e va giocato in parte cercando di rendere cosciente il paziente, in parte avallando certe sue difese. Quanto descritto e` un comportamento di una sintomatologia media; a volte la sintomatologia invece e` piu` sfumata, a volte piu` massiva, tanto da arrivare ad una situazione di tipo delirante. Il paziente e` tutto concentrato nel suo disturbo ed a niente gli servono gli esami obiettivi o le ricerche negative, diventa impenetrabile ad ogni critica: la sua ideazione assume sempre piu` una connotazione di tipo delirante. Sul piano del decorso, possiamo avere dei quadri che tendono a stabilizzarsi e cronicizzarsi e dei quadri piu` acuti che possono tendere, piu` o meno periodicamente, a ripresentarsi. Comunque, sotto un’apparente va-

rieta` dei sintomi, di gravita`, di decorso, rimane una caratteristica ben precisa. La sensazione (quasi la sicurezza) dell’esistenza di un malessere oscuro e minaccioso, e l’impossibilita` di incidere su questa sicurezza: qualsiasi prova si infrange contro il muro di questa granitica certezza. Anche perche´, in medicina, non esiste una sicurezza assoluta: ed e` proprio questo margine che offre all’ipocondriaco un varco, per trasformare il dubbio in certezza. «Quello che i medici non riescono a scoprire oggi si potra` evidenziare domani», dice o pensa l’ipocondriaco. Potremmo dire che l’ipocondriaco non riesce ad accettare minimamente quel rischio e quell’insicurezza che e` costitutiva dell’esistenza umana e di quella somatica in particolare. Egli non tollera il dubbio, vuole la certezza e molto spesso preferisce la certezza di una malattia all’insicurezza di un benessere, che proprio perche´ benessere puo` essere insidiato dalla malattia. L’idea o il comportamento ipocondriaco lo possiamo trovare in varie situazioni psicopatologiche. A volte, lo riscontriamo come struttura di carattere che puo` rimanere tale per tutta la vita. A volte come struttura nevrotica piu` o meno cronicizzata che costituisce la sindrome ipocondriaca sopradescritta. A volte invece si possono avere emergenze di angosce ipocondriache piuttosto transitorie e collegate in genere a momenti particolari della vita (come la puberta` o il periodo presenile): in questi momenti e` da ritenere che si utilizzi questo meccanismo, come emergenza fobica piu` che ipocondriaca. A volte invece il sintomo ipocondriaco puo` comparire in tutta una serie di disturbi prepsicotici o psicotici, come vedremo in seguito.

3. Il carattere ipocondriaco Evidentemente, l’ipocondria non si forma dal nulla, ma si sviluppa in una personalita` che presenta una particolare conflittualita` e struttura caratteriale. Questo carattere ipocondriaco e` costituito da alcuni tratti significativi che ora descriveremo. Un primo aspetto importante e` la meticolosa autosservazione delle proprie funzioni somatiche,

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che spesso finiscono per concentrare gran parte dell’attenzione del soggetto. Questa autosservazione, che ha spesso caratteri di coazione, finisce per tramutarsi in un controllo continuo delle proprie funzioni cardiache, intestinali ecc. Il corpo viene vissuto come qualcosa di negativo, di pericoloso che bisogna continuamente controllare: il corpo e` un altro da se´, con il quale si e` pero` costretti a convivere («sono come un vivo legato ad un morto», diceva un ipocondriaco). C’e` come una sorta di scissione tra l’Io e il corpo, tra soma e psiche. A volte, questa tendenza puo` tramutarsi in una sorta di stile di vita che tende a stabilizzarsi, assumendo connotazioni di tipo ossessivo. Sono soggetti che finiscono per crearsi una specie di loro mondo ove vivono con tutta una serie di precauzioni e di abitudini di tipo igienico, fermi in questo rigoroso, quasi sadico controllo della funzionalita` del proprio corpo. Questi caratteri, se non sono assurdamente esagerati, finiscono comunque per essere compresi e giustificati all’interno di una dimensione che e` abbastanza accettata dal nostro mondo culturale. La nostra societa` tende infatti a privilegiare questo aspetto del controllo (piu` o meno sadico) del corpo: il peso, il dimagrire, il controllo delle funzioni intestinali ecc. Certe persone che passano la maggior parte del tempo a curare l’aspetto esteriore o che danno all’aspetto estetico il massimo dell’importanza, sono caratteri ipocondriaci: in questi, l’aspetto estetico non e` usato in maniera seduttiva, ma come modalita` difensiva. Questo e` l’aspetto fondamentale che differenzia l’ipocondriaco dall’isterico. Inoltre nell’isterico sono colpite parti o funzioni del corpo visibili, che quindi sono utilizzate come modalita` di comunicazione, anche se simbolica. Nell’ipocondriaco invece l’organo o la funzione malata sono nascosti, invisibili: non vengono utilizzati come comunicazioni, ma come mezzo per allontanare e controllare l’altro. In genere, accanto a questa tendenza all’autosservazione ed al controllo del proprio corpo (che di solito viene poi reso obbligatorio codice di comportamento per tutto il gruppo familiare), compaiono altri tratti del carattere ipocondriaco. Un tratto importante e` la diffidenza e l’ostilita` nei confronti degli altri, tratti che nascono da un’unica base: quella di una sfiducia di fondo, nei

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confronti degli altri. L’ipocondriaco non ha la rabbia, come l’isterico, ma una precisa ostilita` intesa come tendenza al rifiuto e alla negazione dell’altro: il corpo, vissuto come scisso dal proprio Io, viene utilizzato non come mezzo di comunicazione, ma come una difesa dall’altro, come una barriera che eviti il contatto con l’altro. In questo senso, l’uso del corpo da parte dell’ipocondriaco e` nettamente diverso da quello dell’isterico. L’isterico utilizza il proprio disturbo per mettersi in contatto, per aprire un rapporto anche se inibito e mediato dal corpo; l’ipocondriaco utilizza il disturbo per tener distante l’altro, anzi per giustificare a se stesso perche´ non e` interessato al rapporto con l’altro. I caratteri sopradescritti spesso evidenziano un’altra tendenza molto frequente, quella del fare tutto da soli: l’ipocondriaco in genere e` molto orgoglioso, tende a risolvere fondamentalmente i problemi da solo. Per questo, l’ipocondriaco chiede solo apparentemente aiuto. Il tutto da` al carattere ipocondriaco l’aspetto di un’estrema freddezza e chiusura che, unita ad una certa sospettosita`, avvicinano il carattere dell’ipocondriaco a quello del paranoico. Il carattere ipocondriaco puo` rimanere piu` o meno stazionario per tutta la vita, anche se in genere esso va quasi sempre incontro, in certi particolari momenti della vita, ad un intensificarsi di certe angosce, che possono, per periodi piu` o meno brevi, emergere come vere angosce ipocondriache. I momenti della vita piu` importanti sono in genere fasi di riassestamento o di transizione, come la puberta` o la menopausa. Bisogna considerare che in questi momenti, oltre le inevitabili reazioni sul piano psicologico, c’e` anche un reale coinvolgimento somatico, nel senso di un cambiamento di alcuni aspetti somatici.

4. La psicodinamica A volte, invece, il carattere ipocondriaco tende a trasformarsi in una struttura di tipo psiconevrotico evidente, con l’emergenza di chiari sintomi ipocondriaci: questa sintomatologia puo` insorgere rispetto a situazioni conflittuali e traumatiche. Ma spesso anche per un’evoluzione piu` o

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meno lenta: cioe`, un po’ alla volta, le caratteristiche dell’ipocondriaco tendono a mutarsi in una situazione sintomatica chiara. In genere, le situazioni traumatiche sono costituite da eventi che rendono consapevole il paziente dell’impossibilita` di poter controllare e prevedere tutto: cosı`, un infortunio, una malattia (sia personale, sia piu` spesso di qualche persona significativa) scuotono questa apparente sistematicita` e sicurezza del mondo dell’ipocondriaco. L’emergenza del caso, dell’imprevedibile, lo sconvolge ed egli comincia ad aver paura della malattia, trasformando una possibilita` in certezza. In questi casi, l’episodio ha le caratteristiche dell’ipocondria, pero` il disturbo puo` essere piu` o meno transitorio, salvo magari ripresentarsi ad un nuovo avvenimento traumatico. Ma bisogna chiedersi come si arriva alla costituzione del carattere ipocondriaco che chiaramente rappresenta una situazione psicopatologica, anche se non conclamata. La causa fondamentale e` la situazione di abbandono o, in genere, di rifiuto che il bambino ha vissuto negli anni piu` importanti della sua formazione. Spesso, c’e` una situazione di disinteresse o di abbandono reale da parte di persone importanti, in genere la madre: a volte ci puo` essere invece un abbandono involontario, a causa della scomparsa di questa per morte. Questa situazione di carenza affettiva genera nel bambino un progressivo ripiegamento su se stesso, sul proprio corpo. Questi comportamenti sono stati frequentemente osservati da A. Freud in bambini rimasti orfani: questi tendevano ad un ripiegamento sul proprio corpo e soprattutto ad una maggiore attenzione o cura per le proprie funzioni somatiche. Il corpo diventa come una parte di se´ scissa, con la quale il bambino, in mancanza di altri rapporti significativi, cerca di stabilire un rapporto. Questa sorta di dissociazione spiega un tratto caratteristico dell’ipocondriaco che e` quello della mancanza di unita` tra psiche e soma ed il vivere il ` chiaro corpo come qualche cosa di distaccato. E che in una situazione di questo genere viene meno qualsiasi possibilita` di fiducia e quindi di rapporto con gli altri: il soggetto tendera` ad es-

sere sospettoso ed ostile, preferira` affrontare tutto da solo. Questi aspetti carenziali e deficitari presenti nel carattere ipocondriaco non debbono non far vedere la presenza di impulsi ostili ed aggressivi sui quali per primo ha attirato l’attenzione O. Fenichel. Questo autore infatti pone particolare enfasi sulle pulsioni ostili: «... tra gli impulsi che si sono ritirati dall’oggetto per diventare rappresentazioni d’organo nell’ipocondria, gli impulsi ostili e sadici sembrano avere un ruolo pronunciato. L’originario atteggiamento ostile nei confronti dell’oggetto e` volto contro l’Io e l’ipocondria puo` servire come una soddisfazione del senso di colpa». Osservando questi malati ipocondriaci non e` difficile notare come l’ansia e soprattutto l’ostilita` sono continuamente sviate dal mondo esterno e dirette contro il corpo del paziente, sono per cosı` ` evidente dire concretizzate in forma somatica. E anche che queste parti del corpo possono stare simbolicamente al posto di persone verso le quali il paziente ha sempre avuto un rapporto di ostilita`. Questo aspetto, che avvicina in parte l’ipocondriaco al depresso, tende piu` facilmente a presentarsi laddove, anziche´ esserci stata una situazione carenziale sul piano affettivo, c’e` stata una situazione apparentemente opposta. Si tratta di casi di bambini che invece sono stati ipercontrollati ed ai quali e` stata richiesta, in genere, una situazione di prestazioni al di sopra delle loro reali capacita`. In questo caso il rifiuto emotivo ed affettivo da parte dei genitori, anziche´ essere chiaro, e` stato veicolato da questa iperprotettivita` svolta nei riguardi di supposti bisogni somatici del bambino, al quale non e` comunque sfuggito il significato profondo di rifiuto. Questi bambini hanno una possibilita` molto limitata di sviluppo psichico: essi si fermano a tappe precedenti la situazione edipica. Questa situazione, da adulti, comportera` un equilibrio piuttosto instabile che si manifestera` sia con la tendenza al ripiegamento su se stessi, sia e soprattutto con una reale incapacita` di rapporto con gli altri. L’ipocondriaco tendera`, cosı`, ad evitare non questo o quel tipo di rapporto interpersonale, ma qualunque rapporto che possa minimamente coinvolgerlo emotivamente e personalmente. In questo senso, si puo` notare una falsa socialita` dell’ipocondriaco che

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tratta gli altri come oggetti che gli appartengono, senza tener conto dei loro sentimenti, in una assenza di autenticita` e di simpatia. Per questo motivo, spesso, l’ipocondriaco, che sfugge ogni reale rapporto duale, tende a rivolgere i propri interessi a situazioni collettive. Non e` raro trovare questo carattere tra persone che hanno ruoli e funzioni, anche importanti, nell’ambito di gruppi o comunita`: ma e` evidente che questa e` una situazione di fuga e di difesa. Quando l’ipocondriaco tende poi a stabilire un rapporto duale, non riesce a stabilirlo se non con le stesse modalita` con le quali lui e` stato trattato, e con le quali tratta il suo corpo. Cioe` una tendenza ad un rigido, spesso sadico, controllo dell’altro, che diventa una parte di se´ e che egli puo` trattare a suo piacimento: di qui una dinamica che e` sempre di tipo sadomasochistico. Questa stessa dinamica tende a presentarsi anche all’interno del rapporto medico-paziente, se il medico non e` in grado di saperlo gestire correttamente.L’ipocondriaco e` un individuo piuttosto fragile: e` come se l’esperienza ipocondriaca avvolgesse in un guscio un nucleo psicotico, frenando una ulteriore disintegrazione. In questo senso l’ipocondria puo` rappresentare una difesa, ma anche un passaggio verso forme psicotiche: e` quanto succede in certe forme iniziali schizofreniche.

5. I casi clinici 5.1. Donna di 40 anni, sposata da circa 5 anni e con un unico figlio. La sintomatologia si era manifestata circa all’eta` di 38 anni e consisteva nel timore di avere qualche malattia imprecisata. Comincio` a consultare un medico: ma le richieste di rassicurazione aumentavano sempre di piu`, fino ad arrivare a telefonate notturne e visite improvvise in ambulatorio. L’impossibilita` di poter gestire questa situazione spinse il medico a consigliare il consulto con uno psichiatra; questi prescrisse trattamento psicofarmacologico e successivamente terapia di ESK, con risultati pressoche´ nulli. Circa un anno

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dopo, la paziente presentava una sintomatologia molto precisa: si tastava frequentemente il corpo, fino a quando non sentiva qualcosa che le sembrava un nodulo. A questo punto entrava in ansia perche´ era sicura di avere un tumore: doveva precipitarsi dal medico per essere tranquillizzata. Ma la rassicurazione durava molto poco, per cui la paziente ritornava, telefonava, diventava petulante fino a suscitare un giusto risentimento del medico: si finiva quindi per rompere questo rapporto e la paziente doveva (o voleva) scegliersi un nuovo medico. Al primo colloquio, dal racconto della paziente emerse un dato abbastanza preciso e significativo: quanto piu` il medico asseriva che il ‘‘bozzo’’ non esisteva, tanto piu` la paziente insisteva fino a diventare realmente fastidiosa e petulante. Se il medico si limitava a riconoscere che c’era un piccolo nodulo, ma che questo non significava affatto avere un tumore, la paziente si tranquillizzava, e questo effetto sedativo poteva durare anche alcuni giorni. Perche´ questo? Evidentemente per vari motivi: il primo e` che la paziente in genere trovava realmente un piccolo nodulo (in genere una linfoghiandola), che portava poi a palpare al medico. Quando il medico negava l’esistenza del nodulo, la paziente si sentiva ingannata, viveva una situazione di assoluta sfiducia, che le generava rabbia ed aggressivita`. Ma a parte questo c’era un motivo molto piu` profondo: cioe` la vera richiesta della paziente non era quella che le fosse negato quel dato patologico, ed essere solamente rassicurata; in effetti la paziente chiedeva al medico di confermarle la presenza di un qualcosa di anormale (il nodulo), ma di confermarle anche che quel nodulo non significava nulla di pericoloso e che poteva essere controllato. Chiaramente il tumore simbolicamente esprimeva un intenso odio che la paziente temeva sia che potesse esplodere, sia che finisse per ‘‘corromperla’’ internamente. Questa sintomatologia era insorta due anni prima, in seguito ad una situazione di frustrazione. La paziente aveva vissuto con la madre una dinamica di tipo ‘‘controllo sadico’’: questo aveva influito nel determinare un carattere ipocondriaco. Nonostante tutto, la paziente si era abbastanza realizzata come insegnante, ed era

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riuscita in parte a separarsi dalla madre; poi aveva creduto di trovare nel matrimonio una ulteriore realizzazione. Senonche´ poco dopo dovette accorgersi che il marito non era molto diverso dalla madre, e che in piu` la nascita del figlio l’aveva messa in condizione (a causa del fatto che lavorava) di dover di nuovo dipendere dalla madre. Questa situazione, che la paziente sentiva come regressiva, aveva scatenato una serie di impulsi ostili che ella non riusciva ad esplicitare ne´ ad incanalare in una corretta realizzazione. Non potendo volgere questa ostilita` contro il marito o la madre, ella finiva in parte per proiettarla sul medico, in parte le rimaneva all’interno, per cui la paziente avvertiva non solo il timore dell’esplosione (il bozzo) ma anche la sensazione che questa ostilita` la guastasse dentro (il tumore). Un’elaborazione di queste tematiche fece sı` che la paziente riuscisse a riconquistare la sua precedente autonomia, separandosi dal marito ed accettando di riaffrontare la vita da sola, aiutata in questo da un valido interesse per il suo lavoro. In questo caso possiamo dire che si tratta di una sindrome ipocondriaca molto chiara ed evidente sia nella dinamica sia nel decorso.

5.2. Ragazza di 22 anni. I disturbi erano insorti all’eta` di 20 anni, subito dopo il conseguimento della licenza liceale. I primi sintomi, consistenti in disturbi fisici piuttosto intensi, si scatenavano sempre al momento del pranzo, che era anche l’unico momento in cui si riuniva tutta la famiglia. Successivamente la sintomatologia comincio` a presentarsi anche in altre situazioni e consisteva sempre in sensazioni di malessere che le fecero iniziare un lungo giro presso vari medici, generici e specialisti, alla ricerca di un misterioso male. Intanto mentre la situazione di malessere, accompagnata dalla sicurezza di qualche grave malattia, si faceva sempre piu` evidente, comparvero altri sintomi: una inibizione progressiva sul piano degli studi ed una inibizione, non meno evidente, sul piano della sessualita`. Verso i 22 anni, la paziente

decise di andare via di casa. Ando` a vivere in una comune ed inizio` una intensa attivita` politica: tutto questo miglioro` i suoi disturbi, ma molto temporaneamente, anche perche´ la paziente prendeva sempre piu` consapevolezza della sua difficolta` nei rapporti interpersonali quando questi, da un generico rapporto di tipo impegno sociale, assumevano un carattere di maggiore intimita`. Inoltre la sua difficolta` nei confronti degli uomini si accentuava sempre piu`, fino a vivere sensazioni, nei confronti di costoro, di sospettosita` e di ostilita`. A questo punto la paziente sentı` il bisogno di una psicoterapia; da un lavoro psicoterapeutico durato a lungo emerse che la paziente aveva vissuto una situazione di rifiuto molto preciso e chiaro da parte del padre; ed una di rifiuto profondo da parte della madre che lo aveva invece coperto, attraverso una sorveglianza ed iperprotettivita` continue, quasi ossessive. All’eta` di 4 anni, la nascita di una sorella accentuo` maggiormente questa situazione: la paziente sviluppo` una crescente ostilita` e gelosia nei confronti di quella con l’unico risultato di provare poi sensi di colpa. Questo finı` per costituire una dinamica abbastanza tipica: da una parte la paziente tendeva sempre piu` a ripiegarsi sul proprio corpo che diventava il suo interlocutore privilegiato, ma sul corpo scaricava anche tutti gli impulsi ostili che nutriva nei confronti dei familiari. Questo le faceva vivere una serie di dolori vari e di malesseri che avevano anche la funzione di esplicitare il suo masochismo collegato ai sensi di colpa. Questa situazione si comincio` a manifestare nel periodo puberale con disturbi mestruali, e successivamente insorse un’angoscia spiccata per gli esami (sintomi abbastanza frequenti nei futuri ipocondriaci). La sintomatologia eclatante insorse solo verso i 20 anni con il conseguimento della licenza liceale. In questo caso la sintomatologia si era manifestata maggiormente sotto l’aspetto caratteriale, pur essendo presenti sintomi ipocondriaci precisi. Tuttavia bisogna tener conto che la paziente ha iniziato precocemente una psicoterapia, che ha inciso sulla evoluzione: e` possibile che, senza alcun aiuto, la sintomatologia sarebbe evoluta verso una maggiore cristallizzazione ed organizzazione nevrotica.

La psiconevrosi ipocondriaca

5.3. Ragazzo di 18 anni. I primi disturbi consistono in una molesta sensazione di malessere e soprattutto un fastidioso bruciore uretrale. Fattosi visitare, nonostante tutte le analisi negative e le rassicurazioni dei medici, il paziente finı` per polarizzare sempre piu` la propria attenzione sul pene da lui vissuto come affetto da qualche strana e terribile malattia. Dall’iniziale disturbo uretrale, il paziente comincio` ad estendere a tutto il corpo il timore di essere affetto da qualche malattia molto grave. Il paziente, figlio unico ed orfano di padre, viveva solo con la madre, una donna estremamente distruttiva e possessiva che aveva ostacolato ogni minimo tentativo di autonomia del figlio. Era chiaro che il disturbo ipocondriaco manifestava simbolicamente la castrazione che egli viveva nel rapporto con la madre. Il tentativo di iniziare un rapporto terapeutico fallı` per abbandono della terapia da parte del paziente: questi, sotto le pressioni della madre che si preoccupava di una possibile autonomia del figlio, si fece ricoverare in clinica. Qualche anno dopo, rividi per caso il paziente che mostrava una chiara evoluzione di tipo schizofrenico. Il sintomo era pressoche´ scomparso: come a significare che tale sintomo aveva avuto a suo tempo un significato comunicativo e di richiesta di aiuto, e che attualmente il paziente non aveva piu` nulla da comunicare, avendo rotto completamente i rapporti con gli altri. In questo caso il sintomo ipocondriaco era solo l’inizio di una situazione piu` grave che si era sviluppata in senso schizofrenico.

6. Diagnosi differenziale L’esperienza del corpo, come dicevamo, e` centrale proprio perche´ serve a costituire e fa ` evidente che parte dello sviluppo psicologico. E essa, vissuta in maniera patologica, puo` ritrovarsi in qualsiasi contesto psicopatologico come sintomo ipocondriaco. Quindi, dopo aver descritto la sindrome ipocondriaca, passiamo a descrivere il sintomo ipocondriaco. Prima di far questo, dobbiamo pero` fare una

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precisazione e cioe` che molto spesso i pazienti, con conflitti piu` o meno chiari ed espliciti, possono presentarsi al medico e proporre come modalita` d’approccio un disturbo somatico che, per non avere alcuna base organica, viene spesso definito ipocondriaco. Bisogna tener presente che vari motivi culturali e psicologici possono dare al paziente come unica possibilita` comunicativa quella del sintomo somatico: da una parte essi hanno difficolta` a verbalizzare le loro conflittualita`, dall’altra vivono come stereotipo sociale il fatto (molto spesso avallato e rinforzato dai medici) che al medico puo` essere portato solo un disturbo somatico. In questi casi la capacita` di ascolto e di decifrazione del medico fa sı` che egli possa scoprire dietro l’apparente sintomo somatico una situazione esistenziale spesso difficile e frustrante, un problema di rapporto, una difficolta` familiare. In questi casi spesso non c’e` una conflittualita` nascosta che bisogna andare a cercare nell’infanzia o nell’inconscio: c’e` semplicemente una difficolta` che il paziente intuisce ma che non riesce a verbalizzare. In questi casi una capacita` di ascolto puo` dare al medico la chiave per comprendere le difficolta` del paziente: ed in questi casi spesso e` sufficiente una spiegazione, una chiarificazione, a volte un’indicazione per aiutare a cambiare il paziente in modo che possa trarne un giovamento. Una sordita` da parte del medico, invece, o un intestardirsi a cercare o prendere per buono cio` che e` semplicemente una modalita` d’approccio del paziente, rischia sempre di creare una frustrazione, a volte di creare una reale situazione di nevrosi iatrogena. Molti di questi casi non sono di pertinenza psichiatrica anche se spesso, con il tempo, finiscono per diventarlo. Questi pazienti hanno una caratteristica precisa: si presentano lamentando qualche disturbo, ma appena il medico tende a spostare la sua attenzione sulle modalita` di vita del paziente, su come questi vive i rapporti familiari o di lavoro, ecco che il paziente dimentica il suo sintomo ed inizia ad esporre la sua situazione esistenziale. Spesso emergono situazioni di disadattamento familiare, frustrazioni sul lavoro, incomprensione da parte del partner, madri che di fronte ai figli che crescono sentono di aver terminato il loro ciclo biologico e psicologico, uomini

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

che al momento del pensionamento sentono di non avere piu` uno scopo nella vita. Alcuni di questi vissuti possono rivelarsi come reali situazioni psiconevrotiche, ma spesso sono reazioni passeggere ad avvenimenti. Si tratta di persone che sono sempre state cosı`, che non hanno nessuna intenzione di cambiare (e spesso nessuna possibilita`) e che vivono una situazione frustrante con un generico senso di malessere, che non riescono ad esprimere, se non attraverso un malessere fisico. Accanto a questi casi ci sono situazioni pero` molto precise di vere psiconevrosi: dobbiamo ora distinguere come viene vissuta in queste psiconevrosi l’idea del corpo malato. Una categoria molto variegata e` quella della nevrosi d’ansia. Questi pazienti lamentano quella che e` stata definita la reazione d’allarme, che secondo Bini e Bazzi consisterebbe in un ‘‘sentimento prevalente, spiacevole, di sfiducia e di timore, per lo piu` con significato di dubbio, indirizzato alle proprie capacita` ed alla propria salute in maniera piu` o meno specifica, spesso giustificata da sensazioni anormali riferite al corpo o alla psiche (psichestesia d’allarme)’’. Pertanto l’ansioso, sempre in atteggiamento di tensione pessimistica, sente che qualche disturbo o sensazione particolare potrebbe avere un significato di possibile malattia. Ma, in genere, l’ansioso tende non solo a variare il proprio disturbo, ma soprattutto e` molto sensibile all’intervento del medico che viene vissuto come rassicurante. Inoltre il timore di malattia e` spostato nel futuro: e` in qualche modo una delle tante previsioni pessimistiche sul futuro da parte dell’ansioso. L’effetto benefico della rassicurazione da parte del medico chiaramente incide per quella specifica situazione, mentre non cambia la situazione ansiosa di fondo. Ben diverso e` il vissuto di malattia nell’isterico; egli non ha paura di una malattia, egli (soprattutto nella conversione somatica) ha una malattia che e` ben presente e che egli ostenta ed esibisce. Il corpo malato viene utilizzato dall’isterico per liberarsi dall’ansia, mediante una proiezione drammatizzata del suo conflitto. Quindi l’isterico non e` preoccupato, egli e` gia` malato, ed in genere non si preoccupa nemmeno dell’origine del suo disturbo: caso mai dovra` essere il medico a capirne la causa.

Il fobico vive proiettando nel futuro il suo timore ipocondriaco: egli ha timore di prendere, piu` che di avere una malattia, ed in genere riuscira` ad evitarla con il meccanismo classico del fobico che e` quello del distanziamento e dell’evitamento. Il soggetto che ha paura di ammalarsi di sifilide (sifilofobia) evitera` rapporti sessuali o situazioni che secondo lui potrebbero essere pericolose. Ed in questo senso egli si avvicina in parte all’ansioso ed all’isterico (vedi nozioni generali sulle nevrosi). Nell’ossessivo, invece, questa possibilita` non c’e`; in genere, il pericolo e` troppo vicino perche´ possa distanziarsene. Il soggetto che ha paura di potersi infettare a causa di microbi che sono dappertutto, ha come unica, relativa possibilita` di controllo il cerimoniale. Deve lavarsi continuamente le mani, non puo` toccare niente, ma evidentemente il pericolo e` sempre minaccioso ed incombente. Oppure il timore della malattia tende a diventare angosciosamente presente ed attuale, quando il paziente, succube del proprio pensiero magico, ritiene che la sola idea possa attualizzare il proprio timore. In questi casi l’idea della malattia e` molto vicina all’Io; il paziente e` spesso convinto di avere una malattia e ne e` molto angosciato. In questi casi la sintomatologia e` molto vicina a quella tipica dell’ipocondria. E questa affinita` non e` priva di interesse. Infatti abbiamo visto che rispetto al corpo malato la proiezione nel futuro e/o l’assenza di ansia tendono ad avvicinare l’isteria, la psiconevrosi d’ansia e la fobia; mentre la presenza di angoscia e la sicurezza della malattia tendono ad avvicinare l’ossessivo all’ipocondriaco. Potremmo anche dire che quanto piu` l’idea di malattia da possibilita`, dubbio, timore si trasforma in realta`, e quanto piu` da situazioni lontane si avvicina al corpo fino ad invaderlo e corromperlo, tanto piu` la situazione psicopatologica e` grave. E questo e` quanto succede regolarmente, anche se con modalita` diverse, allorche´ il sintomo ipocondriaco compare nelle psicosi. Nelle psicosi depressive esso compare in genere come delirio ipocondriaco, ovverosia come sicurezza di malattia o addirittura come disfacimento del proprio corpo. Questo vissuto rag-

La psiconevrosi ipocondriaca

giunge il massimo nella sindrome di Cotard (che sebbene rara e` molto interessante). Essa si presenta in genere in pazienti in eta` involutiva. Su di un fondo di depressione e anoressia compare un quadro delirante. Il paziente e` ‘‘sicuro’’ che gli mancano parti intere dell’organismo, o che questo e` putrefatto; il cibo deglutito esce fuori, senza poter attraversare l’intestino che non esiste piu`. A volte il paziente nega di esistere, e questa situazione raggiunge l’apice quando il paziente arriva a negare anche la possibilita` della sua morte: per cui sara` condannato al supplizio dell’eternita`. Molto piu` frequentemente, nella depressione, il delirio ipocondriaco si accompagna a sintomi fisici (come il dimagrimento) che fanno sospettare un reale disturbo organico, e tendono quindi ad indirizzare il medico verso ricerche inutili e dannose perche´ convincono sempre piu` il depresso circa l’esistenza e la gravita` del suo disturbo, inducendolo spesso al suicidio. Molto frequente, e spesso piu` complicata, e` invece l’idea di malattia nella schizofrenia. Questo tema e` in genere frequente nelle fasi iniziali della schizofrenia e soprattutto in alcune forme che, pur avendo un decorso lento, hanno invece una prognosi sfavorevole. Alcuni autori hanno creduto di poter isolare una forma particolare di ‘‘schizofrenia cenestesica’’ che sarebbe caratterizzata da un inizio banalmente ipocondriaco incentrato sul timore di una malattia, sostenuto da varie cenestopatie (che spesso sono allucinazioni cenestesiche) e da un progressivo impoverimento della personalita`. Tuttavia, nella schizofrenia il sintomo ipocondriaco assume la connotazione di un vissuto delirante spesso incongruo e si accomuna spesso ad altri deliri, soprattutto a quello di persecuzione: persecuzione e malattia d’altronde sembrano essere i due temi che la psicopatologia schizofrenica riesce ad esprimere piu` facilmente. Anzi da questo punto di vista, il Beley fa notare giustamente che l’idea di persecuzione vale psicogeneticamente quanto l’idea di malattia, espressioni entrambe di un delirio di nocumento dell’IO. Altre volte lo schizofrenico usa il corpo come punto di riferimento attribuendo a questo le modificazioni che avverte a livello della sfera psichica: egli esprime metaforicamente il disturbo.

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Ma a parte questi casi conclamati di psicosi, spesso dobbiamo constatare che il nucleo ipocondriaco somiglia, in qualche caso, ad un nucleo delirante. Non a caso Bumke ed E. Bleuler (cit. in Cardona, 1950) hanno visto nell’ipocondria una sorta di ‘‘schizofrenia arrestata’’. S. Freud aveva postulato un rapporto molto preciso tra ipocondria e paranoia. Ey (1950) la definisce in questo modo: l’ipocondria e` una esperienza delirante che passa per il mio corpo e l’attraversa ed investe tutte le percezioni, per cui io sento il mio corpo integrato alla mia esistenza in condizioni peggiorative: e` un delirio corporale. Tale e` l’essenza fenomenologica dell’ipocondria che le conferisce una realta` che non e` quella dell’affezione organica, ne´ di quella neurologica, ma quella di una struttura psicopatologica dell’esistenza.

E sempre in questa direzione molti Autori avevano diviso l’ipocondria in minor (psiconevrotica) e maior (psicotica). Tenendo presenti le varie possibilita` evolutive e` preferibile parlare di ipocondria e di sintomi ipocondriaci. In effetti l’ipocondria puo` avere due destini diversi. Da una parte puo` diventare sempre piu` una difesa e restringere le possibilita` del paziente in una sorta di armatura caratteriale rigida ed impenetrabile. Dall’altra, in seguito a vari avvenimenti, puo` esserci una rottura di questo equilibrio; le scarse possibilita` di investimento libidico della realta` vengono bloccate completamente ed il corpo finisce con l’assumere la funzione di un unico oggetto per l’Io. Le incessanti preoccupazioni ipocondriache rappresentano un ultimo tentativo di difesa contro le paure di una definitiva perdita di controllo. L’autosservazione fornisce ancora un punto o centro di condensazione che tenta di prevenire l’esperienza di disintegrazione e di dissolvimento: che e` quanto accade nella fase di inizio ‘‘ipocondriaco’’ della schizofrenia. Quindi, possiamo dire che l’esperienza psicopatologica dell’ipocondria e` come una sorta di Giano bifronte che da una parte guarda verso le psiconevrosi e dall’altra verso le psicosi. Tutto quello che abbiamo detto deve servire a capire il problema

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dell’evoluzione: bisogna sempre chiedersi quale puo` essere la futura evoluzione di quell’ipocondriaco. Non dimenticando che l’evoluzione e` certamente un fatto intrapsichico, nel senso che dipende dalle maggiori o minori capacita` difensive del paziente, ma e` anche dovuta ai rapporti interpersonali: e tra questi, decisivi sono quelli con il terapeuta. In questo senso, il rapporto terapeutico puo` non solo impedire evoluzioni in senso peggiorativo, ma dare la possibilita` al paziente di risolvere anche le dimensioni caratteriali.

7. Note di terapia Una corretta terapia deriva da un attento ascolto del paziente e quindi da una corretta diagnosi che deve riguardare non solo l’aspetto strettamente clinico, ma anche una valutazione globale delle possibili evoluzioni della sindrome. Ho sottolineato precedentemente l’ubiquitarieta` del sintomo ipocondriaco e quindi la necessita` di porre una ipotesi psicodinamica che tenga presente tutta la complessa realta` intrapsichica ed interpersonale del paziente. Possiamo prendere in considerazione una terapia psicofarmacologica quando ci troviamo di fronte ad emergenze ipocondriache su base depressiva, o quando il ripiegamento su se stessi segnala una evoluzione autistica o francamente ` comunque sempre necessaria una schizofrenica. E terapia psicologica: nel primo caso puo` essere una psicoterapia di sostegno, nel secondo invece una terapia relazionale che coinvolga l’intero nucleo familiare. Una terapia relazionale puo` essere indicata anche nei casi di cosiddetta ipocondria verso gli altri: infatti questa sindrome e` quasi sempre espressione di una intensa conflittualita` familiare. Nei casi di psiconevrosi ipocondriaca, l’indicazione prevalente e` la terapia analitica che deve essere pero` gestita con cautela e con estrema perizia. Infatti in questi casi si oscilla sempre tra il rischio di una reazione controtransferale che puo` portare il terapeuta o a sottovalutare la gravita` e spesso l’ostinata resistenza del paziente a qualsiasi cambiamento, oppure a fidarsi molto per i primi effimeri successi. Assolutamente falli-

mentare e` in questi casi una terapia psicofarmacologica: infatti successi repentini saranno seguiti da altrettanto repentine cadute, il che puo` condurre, in un gioco di prescrizioni psicofarmacologiche sempre diverse, ad un rapporto medicopaziente di tipo gravemente sado-masochistico.

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La psiconevrosi ipocondriaca

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20 L’anoressia psicogena Nicola Lalli Parole chiave cachessia; amenorrea; narcisismo; crisi di originalita` adolescenziale; identificazione; ostilita`; logorrea

L’anoressia psicogena o mentale, costituita dall’associazione di disturbi fisici e psichici, e` caratterizzata da un rifiuto sistematico del cibo che provoca un marcato dimagrimento che puo` giungere fino a quadri di cachessia. Colpisce prevalentemente il sesso femminile ed inizia in eta` puberale: pur avendo evoluzioni diverse, rappresenta certamente una patologia ormai al confine della psicosi. E questo, non soltanto per la gravita` della sintomatologia che puo` portare queste giovani pazienti a quadri di inedia tali da giungere all’exitus, ma anche per il particolare tipo di disturbo che ha molto in

comune con i quadri deliranti. Infatti possiamo dire che nella anoressia mentale lo schema corporeo e` alterato al punto tale da far ritenere non esistere piu`, in queste pazienti, un corretto esame della realta`. Il problema centrale dell’anoressia quindi non e` tanto un disturbo alimentare, quanto piuttosto un disturbo complesso che riguarda la visione del proprio corpo e l’utilizzazione perversa che l’anoressica fa del proprio corpo emaciato, esibito come apparente autonomia ma che invece viene usato come controllo dell’ambiente circostante. * * *

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1. Considerazioni generali Il quadro dell’anoressia mentale, come disturbo psichiatrico, e` stato isolato gia` qualche secolo fa con le descrizioni di R. Morton (1689), W. Gull (1868) ed infine di C. Huchard (1883)1 che per primo conia appunto il termine di anoressia mentale. Ben definita sul piano fenomenologico, praticamente fino a qualche decennio fa, la storia di questa sindrome e` stata caratterizzata dalle dispute sulla patogenesi: se organica o psichica. Questo soprattutto dopo la descrizione da parte di Simmonds (1914)1 della cachessia di origine ipofisaria e poi di H. S. Sheean2 della insufficienza ipofisaria. Comunque tutte le varie ipotesi organicistiche hanno portato alla conclusione che possono esistere quadri clinici di grave insufficienza ipofisaria con eziologia ben precisa e con caratteristiche semeiologiche facilmente differenziabili dall’anoressia psicogena. Dall’altro canto, mai un trattamento endocrino ha portato a miglioramenti del quadro clinico, anzi giustamente J. Decourt1 ha affermato: «... Mentre gli psichiatri continuano a guarire le anoressiche con i metodi psichiatrici classici, gli endocrinologi le lasciano evolvere fino alla morte». Ormai da alcuni decenni non si discute piu` sull’importanza etiopatogenetica dei fattori psichici, ma piuttosto sul come e sul perche´. Oltre il modello psicoanalitico, sia classico che nelle sue variazioni, ci sono attualmente altri modelli come quello relazionale e quello cognitivo. E diciamo anche che spesso la difficolta` nel trattamento di questi pazienti ha portato a modifiche di modelli teorici e psicoterapeutici. L’esempio piu` evidente e` rappresentato in Italia da M. Palazzoli Selvini che, partita da un modello e da una prassi psicoanalitica, e` approdata ad una teoria e terapia di tipo relazionale. In effetti, forse piu` che in altre psiconevrosi, l’incidenza della famiglia sulla genesi e sul mantenimento della patologia e` certamente notevole: e quindi, soprattutto nei casi piu` gravi, se si vuole evitare il ricovero in clinica della paziente e il conseguente isolamento dall’ambiente familiare,

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Da Laboucarie´ J., Barres P., 1970. Da Laboucarie´ J., Barres P., 1970.

bisogna inevitabilmente coinvolgere tutta la famiglia nella terapia. Questa sindrome e` caratterizzata da un progressivo rifiuto per il cibo e da una serie di meccanismi per evitare di metabolizzare il cibo eventualmente assunto (come il vomito provocato, l’abuso di lassativi ecc.); un dimagrimento progressivo che puo` arrivare, nei casi piu` gravi, fino alla perdita del 50% del peso normale, ed un’amenorrea precoce e resistente ad ogni forma di terapia. Il quadro classico e` appannaggio del sesso femminile in eta` puberale: molto rara invece nei ragazzi. Ci sono comunque dei disturbi di natura anoressica che possono colpire i bambini nei primi mesi di vita, le donne in eta` matura e le persone anziane. Descrivero` prima il quadro tipico dell’anoressia mentale, passando poi ai quadri delle sindromi anoressiche.

2. Sintomatologia I sintomi iniziali dell’anoressia sono spesso misconosciuti o sottovalutati perche´ si comincia a dare loro importanza, sia da parte dei familiari che del medico, solo quando i sintomi del dimagramento diventano appariscenti; ma in questo caso siamo gia` in pieno periodo di stato patologico. Invece, se si pone piu` attenzione, si notano tratti caratteristici e comportamenti anomali, abbastanza significativi, molto prima della comparsa del dimagrimento. In genere queste ragazze, fino a quel momento abbastanza normali, anzi a volte piuttosto floride tanto da iniziare una cura dimagrante, cominciano a presentare disturbi gastrici, rifiuto piu` o meno immotivato del cibo, spesso vomito spontaneo (ma sovente procurato) e soprattutto una stipsi ostinata e non facilmente spiegabile. Ad un colloquio attento, gia` in questo stadio compaiono timori, o a volte angosce ingiustificate, di poter ingrassare. Ma soprattutto colpisce l’assoluta e irrazionale convinzione di essere grasse (pur con un peso gia` al di sotto della media) e l’improrogabile necessita` di dimagrire ulteriormente: in questo periodo in genere compare anche l’amenorrea. Per lo piu` e` solo quando si evidenzia un calo ponderale visibile, che i familiari cominciano a preoccuparsi: ma siamo gia` in

L’anoressia psicogena

piena patologia. La paziente mostra una difficolta` progressiva a mangiare, tocca solo qualche boccone e in genere preferisce alimenti liquidi o che abbiano un minimo potere calorico: frutta, insalata, rifiutando tutti i cibi ad elevato potere calorico e soprattutto i carboidrati. A volte non siede affatto a tavola, a volte partecipa al pasto familiare ma con un comportamento che somiglia molto ad un cerimoniale. Questo atteggiamento coinvolge tutti i familiari e spesso l’eccesso di insistenza nel spingerla a mangiare stimola una ulteriore resistenza nella paziente, creando cosı` un circolo vizioso che spesso porta l’anoressica non a diventare consapevole dei propri disturbi, ma solamente a stigmatizzare il comportamento ossessivo dei familiari che viene vissuto come unica fonte dei suoi malesseri. Se i familiari non insistessero tanto e non si preoccupassero — afferma l’anoressica — lei personalmente non avrebbe problemi, negando cosı` anche l’evidenza che l’esibizione del suo corpo emaciato costringe i familiari ad accorgersi e preoccuparsi di lei. Il dimagramento e` ormai chiaramente visibile e viene mantenuto con vari mezzi: dal rifiuto del cibo al vomito procurato, all’uso eccessivo di lassativi. Alcune volte le anoressiche possono avere crisi di tipo bulimico, a cui spesso seguono vomito procurato ed intensi sensi di colpa. Siccome in genere l’aspetto fisico e` quello che piu` colpisce e porta spesso alla diagnosi di anoressia mentale, lo esaminiamo per primo. Il dimagramento e` notevole e puo` andare da una diminuzione di dieci-quindici chilogrammi, fino alla perdita del 50% del peso normale. Sono presenti modesti segni di disidratazione. Ma quello che colpisce e` l’estrema differenza tra il quadro somatico e quello psichico: le pazienti pur notevolmente emaciate sono vivaci, attive, spesso svolgono attivita` sportive (per diminuire ulteriormente il peso) e mantengono un atteggiamento sempre vigile e vivace. L’amenorrea e` la regola: tuttavia e` importante tener presente che, a differenza delle sindromi ipopituitarie, non c’e` atrofia della ghiandola mammaria e persistono i peli alle ascelle e al pube. A parte una ovvia diminuzione del metabolismo basale, mediamente non ci sono marcate alterazioni di tipo biologico o endocrino. C’e` una riduzione delle gonadostimoline ipofisa-

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rie, come pure e` ridotta l’eliminazione degli 11-ossisteroidi e dei 17-chetosteroidi; a volte una leggera diminuzione dell’attivita` tiroidea. Tuttavia questi dati sono tutti secondari alla diminuzione dell’apporto calorico. Il comportamento e` molto tipico: il primo dato evidente e` la negazione assoluta della malattia, pur in presenza di dati obiettivi evidenti. Il comportamento alimentare e` ritualizzato, e spesso le anoressiche impongono agli altri il cibo che negano a se stesse. Non e` infrequente che le pazienti preparino il cibo per i familiari e a volte si interessino di arte culinaria. Nonostante questo aspetto emaciato, evanescente, c’e` una tendenza all’iperattivita` motoria ed una notevole applicazione nel campo intellettuale in genere e negli studi in particolare. I segni patognomonici della anoressia mentale sono: 1) 2) 3) 4)

una visione delirante della propria immagine corporea; una alterazione nella percezione degli stimoli della fame; una totale mancanza di consapevolezza di malattia; un’apparente mancanza di ansia. Dico apparente perche´ invece c’e` un’angoscia molto profonda, che emerge solo allorche´ queste pazienti, con il ricovero, sono costrette a mangiare. Il mangiare diventa angoscioso, perche´ vissuto come perdita di quella fittizia identita` che si sono date mediante il loro dimagramento, che rappresenta il tentativo di negare la loro crescita e soprattutto il loro sviluppo sessuale.

Accanto a questo quadro cosı` tipico e peculiare possono esserci varie sindromi anoressiche. 2.1. Anoressia dell’infante L’anoressia dell’infante spesso compare nel secondo semestre in concomitanza con lo svezzamento, soprattutto quando questo e` traumatico ed avviene all’interno di un gia` alterato rapporto madre-bambino. Altre volte invece l’anoressia insorge in un periodo piu` precoce (secondo-terzo mese) e si inserisce nel quadro di una disarmonia

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

evolutiva. Ci sono altri disturbi, soprattutto nell’area dell’apprendimento, ed il contatto con il bambino e` difficile. Spesso egli vive in simbiosi con una madre molto disturbata ed assente: non e` infrequente in questi casi il mericismo, una sorta di ruminazione continua, segno di una netta tendenza autistica.

2.2. Anoressia reattiva o isterica L’anoressia reattiva o isterica insorge in donne in eta` matura, come crisi collegata a lutti, ` , in effetti, separazioni, fallimenti sentimentali. E un sintomo di conversione che colpisce la funzione orale: tendenza alla riduzione o al rifiuto del cibo come espressione di rabbia e di rifiuto del mondo intero. In questi casi non c’e` un coinvolgimento delirante del proprio schema corporeo, le pazienti sono consapevoli e si preoccupano del loro dimagramento, ma l’utilizzano per esibirlo, come e` tipico del sintomo di conversione.

2.3. Anoressia delle persone anziane Se non ci sono problemi di tipo organico, l’anoressia spesso e` sintomo di una depressione anche grave: e` quindi da considerarsi come una espressione somatica della depressione. Anche in questo caso la difficolta` o il disgusto per il cibo porta secondariamente ad un dimagramento che e` fonte di preoccupazione per il paziente. Possiamo dire che nelle due ultime forme e` colpita la funzione orale e il sintomo si esprime attraverso il rifiuto del cibo: il dimagramento non e` parte essenziale della psicopatologia, a differenza dell’anoressia psicogena ove il dimagramento e` il fine e lo scopo principale della paziente.

3. Il carattere dell’anoressica I tratti piu` salienti del carattere dell’anoressica sono simili a quelli dell’ossessivo. Si tratta di persone piuttosto fredde, astratte, asettiche nei loro rapporti, con tendenza all’isolamento delle loro emozioni. Hanno bisogno di mostrare, anzi

esibire, la loro autonomia e le loro capacita` intellettive che in genere riescono ad evidenziare mediante buoni risultati scolastici. Mostrano una tendenza compulsiva al parlare che si manifesta con una modalita` di tipo logorroico. Notevoli difficolta` nei rapporti di amicizia e all’interno del nucleo familiare dove tendono a primeggiare ed esercitare una tendenza manipolativa che diventa ancora piu` evidente con la comparsa della sintomatologia somatica. Si nota spesso una certa tendenza ascetica che e` il risultato di una massiccia rimozione di tutto cio` che riguarda il corpo e la sessualita`. La loro invidia si evidenzia con un atteggiamento ipercritico nei confronti di tutti. Normalmente questa situazione caratteriale — che, ripeto, e` molto simile a quella dell’ossessivo e dell’ipocondriaco — entra in crisi, non per avvenimenti specifici ma alla puberta`, quando le evidenti variazioni somatiche suscitano in queste pazienti una crisi di rigetto verso questa loro crescita, vissuta come identificazione con la figura materna. Figura materna verso la quale hanno sempre ‘‘nutrito’’, piu` che una ambivalenza, una grande ostilita` che spesso e` nata reattivamente ad atteggiamenti freddi, distaccati, a volte francamente sadici della madre. Una ragazza anoressica, dopo alcuni anni di psicoterapia, recupero` un ricordo risalente forse al secondo anno di vita. Era terrorizzata dalla lavatrice: dal rumore e soprattutto dal grande buco che si apriva. Ricordo` che lei era angosciata temendo che la madre potesse chiuderla nella lavatrice e metterla in funzione: lei si sarebbe dissolta. Questo ricordo era emerso ed era collegabile ad una serie di altri episodi sicuramente avvenuti in epoche succesive. Come il tentativo (raccontato spesso dalla madre) di voler abortire quando era incinta di lei, la preferenza per il figlio maschio del quale decantava la bellezza e le capacita`, in un micidiale confronto con la paziente, che veniva accusata di essere brutta e goffa. Un’altra ragazza, abbandonata dalla madre quando aveva due anni, ricordava con estrema lucidita` e dolore un episodio accaduto quando aveva tre anni. La madre era andata a trovarla e le aveva portato dei dolci: lei li mangio` avidamente e poi li vomito`, era sicura che fossero avvelenati.

L’anoressia psicogena

Certamente il rapporto con la madre e` sempre gravemente disturbato. Il padre invece e` in genere una figura amata ed idealizzata, che diventa inevitabilmente deludente proprio in coincidenza con la puberta`.

4. La psicodinamica Per comprendere meglio la dinamica dell’anoressia dobbiamo tener presenti tre aspetti molto importanti. Il primo e` che il comportamento alimentare si integra e matura man mano, nella dialettica tra i bisogni del bambino e le risposte emotivo-affettive del A.S. che in questo caso e` in genere la madre. Questa maturazione ha bisogno quindi di risposte emotive ed affettive adeguate, perche´ possa avvenire. Il secondo e` che all’inizio della puberta` compare spesso una crisi di originalita` adolescenziale che testimonia il conflitto tra i bisogni ancora infantili di dipendenza e l’emergente esigenza di una autonomia che pero` spaventa. In questa crisi si evidenzia la tendenza del giovane alla ribellione, al rifiuto di qualsiasi situazione che possa essere vissuta come identificazione, per cercare di strutturare una propria identita` per contrasto. Il terzo e` che il digiuno e` uno dei modi attraverso il quale, in maniera matura, puo` manifestarsi la tendenza all’opposizione ed alla lotta: e` quanto avviene ad esempio nello sciopero della fame proclamato in nome di ideali politici o come ribellione estrema a situazioni vissute come lesive. Ora nell’anoressia osserviamo che i tre fattori prima descritti sono conflittuali e quindi votati allo scacco. Nella anoressia avviene, infatti, che il bisogno istintuale, e soprattutto l’attivita` dell’alimentarsi, strettamente connessa alle modalita` comportamentali dell’A.S., non sono stati integrati e trasformati proprio per la assenza, o piu` spesso per la violenza, della figura materna. E quando nella puberta`, nel periodo di trasformazione somatica, avverte con angoscia che il diventare donna la porterebbe ad identificarsi con la madre, l’anoressica cerca con ogni mezzo di ribellarsi a questa situazione. Ma, trattandosi di un conflitto e non di una libera scelta, la ribellione e`

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portata inevitabilmente al fallimento. Spesso tenta meccanismi difensivi tipo l’ascetismo o l’intellettualizzazione: quando questi falliscono, insorge l’anoressia. Il rifiuto del cibo, ovverosia rendere il corpo evanescente, significa negare ogni possibilita` di somiglianza ed identificazione con la madre. Ma proprio in questo modo, quella che dovrebbe essere una opposizione ed una tendenza alla autonomia esprime il piu` completo fallimento: cioe` si puo` vivere solo morendo. E in effetti molto spesso l’anoressia puo` essere considerata come una forma lenta di suicidio. J. Laboucarie´ e P. Barres si esprimono in ` in funzione dei conflitti specifici questo modo: «E della puberta` e della adolescenza che l’anoressia prende tutto il suo reale significato: l’anoressica traduce un rifiuto ed una incapacita` di assumere le trasformazioni corporee di questa eta`, e di integrarle in una nuova identita`, che rendono la figlia somigliante alla madre. Cosı`, ed e` il punto capitale, il conflitto centrale dell’anoressia si situa a livello di corpo tutto intero e non a livello delle funzioni alimentari». Ed in effetti la maggior parte delle osservazioni concordano nel ritenere centrali i seguenti punti: 1)

2)

3)

l’anoressica esprime una incapacita` di assumere il ruolo sessuale e di integrare le trasformazioni della puberta`; il conflitto centrale si situa a livello dell’immagine corporea e non a livello delle funzioni alimentari; l’immagine corporea subisce una distorsione che e` molto simile ad una visione delirante.

Ma come si arriva a tutto questo? Certamente e` fondamentale il ruolo della figura materna, nel senso che l’anoressica, attraverso il rifiuto del cibo, cerca di difendersi non solo da propri impulsi ostili, ma soprattutto da oggetti ostili e frustranti: e questo vale sia per l’anoressia del lattante che per il quadro classico. J. Boutonnier dice: «Mangiare e` sempre in qualche modo, accettare e rinnovare questo legame che noi abbiamo stabilito precedentemente con il mondo attraverso la madre come intermediaria che ci unisce ad esso, nello stesso tempo che e`

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fonte di vita». In ragione di questa equivalenza simbolica della madre con il nutrimento, il rifiuto del cibo e` una forma di rifiuto della madre stessa, per affermare la propria indipendenza nei suoi confronti. Ma questo rappresenta il fallimento del tentativo: infatti se da una parte il rifiuto del cibo e` vissuto come segno di autonomia, dall’altra le anoressiche devono manipolare e controllare l’ambiente familiare attraverso l’esibizione di un corpo emaciato che e` fonte di angoscia e di preoccupazione continua per i genitori (angoscia aggravata da inconsci sensi di colpa). Se ci sono altri figli, questi sono in qualche modo isolati, mentre l’anoressica finisce per acquisire la posizione di figlia unica che richiama tutte le attenzioni, ma anche e soprattutto le preoccupazioni dei genitori: mantenendo cosı` un legame ancora piu` stretto e soprattutto mantenendo una dina` molto fremica gravemente sadomasochistica. E quente trovare nelle anoressiche un’intensa ostilita` nei confronti della figura materna, vissuta come persona fredda, distaccata, spesso minacciosa. Questa situazione non e` necessariamente legata solo alla fase del nutrimento materiale, ma va ben oltre, essendo legata al rapporto complessivo con la madre nei primi anni di vita. Ma la ` evicrisi scoppia al momento della puberta`. E dente quindi l’importanza — anche se spesso sottovalutata — della figura paterna che e` investita libidicamente, anche se in maniera distorta. La figura paterna e` scissa in una parte idealizzata che e` investita libidicamente, ed in una parte piu` reale che e` vissuta invece come deludente. E rispetto a questa figura idealizzata c’e` una tendenza alla seduzione che, passando pero` attraverso un corpo desessualizzato, rende meno acuto il conflitto. Spesso si possono evidenziare nelle anoressiche fantasie incestuose, anche se molto rimosse; tali, pero`, che spesso portano l’anoressica ad agire compulsivamente e masochisticamente la propria sessualita`. Cosı`, quando alla puberta` l’anoressica deve prendere atto di essere una donna, diventa difficile accettare questo cambiamento e soprattutto lo sviluppo di una propria identita` sessuale. Quel corpo che la renderebbe simile alla madre diventa l’oggetto verso cui (per un processo di scissione) l’anoressica puo` esercitare ora quella ostilita` che

un tempo ha ricevuto. E rivoltandosi verso il proprio corpo, privandolo del nutrimento e quindi cercando di sottometterlo, ella si rivolta contro se stessa, ma soprattutto contro la madre identificata nel proprio corpo scisso. Quindi da una parte c’e` un Io ipertrofico e megalomanico, cioe` un Io che pretende di vivere senza bisogno di nessuno, dall’altra un corpo contro il quale puo` manifestare il proprio odio, come se non fosse il ` evidente il fallimento di questo tentativo, suo. E non solo e non tanto perche´ in questo modo l’anoressica mantiene persistentemente la dipendenza dalla madre, ma soprattutto perche´ spesso questa ribellione porta al suicidio. Quindi un dato molto importante sul piano dinamico e` la scissione tra l’Io e il corpo, che permette di mantenere una visione delirante del proprio corpo ed un atteggiamento megalomanico del proprio Io. In questo senso e` vero che l’anoressia si avvicina alle psicosi: M. Palazzoli Selvini parla di una forma monosintomatica di psicosi. Nella valutazione complessiva del quadro clinico, tuttavia, bisogna tener conto della capacita` di organizzare o meno una valida attivita` difensiva. In genere le ragazze che riescono a sviluppare una soddisfacente attivita` intellettuale riescono anche a mantenere un equilibrio piu` stabile. Evidentemente riescono a fare una identificazione con attivita` ritenute piu` ‘‘maschili’’ e quindi, in qualche modo, si sottraggono al conflitto della loro identificazione al femminile. Non e` infrequente in questi casi che si stabiliscano dei meccanismi simili alla psiconevrosi ossessiva, soprattutto il meccanismo dell’isolamento, per cui riescono a tamponare le emozioni e gli affetti, scindendo completamente quest’attivita` da quella del pensiero. Questo spiega l’atteggiamento logorroico delle anoressiche: le parole sono oggetti che, svuotati di ogni contenuto affettivo, vengono letteralmente vomitati. Altro fatto importante e` anche la possibilita` di raggiungere una loro autonomia: se riescono ad uscire dall’ambiente familiare (per motivi di lavoro, per un matrimonio) in genere la situazione tende a stabilizzarsi e puo` mantenersi tale per anni. In altri casi, invece, una maggiore fragilita` dell’Io, l’incapacita` di erigere difese e soprattutto un ambiente familiare gravemente patogeno conducono la paziente ad un progressivo peggioramento che puo` portare,

L’anoressia psicogena

in alcuni casi, fino alla morte per inedia. In questi casi predomina la disperazione nel senso che non c’e` alcuna speranza, c’e` quindi il fallimento completo di ogni benche´ minimo progetto di autonomia. Pertanto, per avere una valutazione corretta del caso clinico dobbiamo esaminare la dinamica dei rapporti. In alcuni casi la paziente tende a mantenere un legame, seppur ambivalente: e` l’anoressia isterica. In altri invece l’odio e` talmente forte che il legame tende a rompersi, pero` si mantiene un contatto con la realta` attraverso il controllo. La necessita` del controllo e` dovuta alla propria ostilita`, ma anche al vissuto che tutta la realta` e` ostile: controllare vuol dire quindi poter dominare l’ostilita` del mondo ed impedire una rottura completa del rapporto che porterebbe ad una massiccia disintegrazione del proprio Io. In altri casi invece l’odio porta ad una situazione di annullamento della realta` e quindi alla perdita di ogni rapporto, ma anche alla perdita del proprio Io: sono i casi piu` gravi.

5. I casi clinici Descrivero` due casi: il primo e` una sindrome anoressica di tipo isterico-depressiva; il secondo e` una anoressia psicogena tipica.

5.1. Donna di 28 anni. Da circa un anno presenta una diminuzione progressiva dell’appetito tanto da dimagrire di circa 15 kg. A volte — soprattutto di notte — ha delle crisi di bulimia. La sintomatologia e` collegata strettamente ad alcuni avvenimenti significativi che emergono nel corso di una psicoterapia. A diciotto anni il fratello maggiore muore di leucemia: la paziente ha dei profondi sensi di colpa per essersi interessata poco al fratello e soprattutto perche´ al momento del decesso non era presente. Da allora ha presentato un modesto stato ansioso, con crisi depressive di breve durata. A ventidue anni comincia a lavorare e intreccia una relazione sentimentale, molto conflittuale, con il datore di lavoro, verso il quale vive una forte ambivalenza. Da una parte lo stima per le sue capacita` lavora-

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tive, dall’altra e` molto delusa dai suoi comportamenti. Circa un anno fa questo rapporto entra in crisi: contemporaneamente il figlio del fratello morto, che ha dieci anni ed a cui lei si era molto legata, va a vivere con la madre in un’altra citta`. Quindi rapidamente entrano in crisi il rapporto affettivo, il lavoro a cui lei tiene molto e l’oggetto (il nipote) che in qualche modo l’aiutava a contenere i sensi di colpa. Comincia a sentirsi depressa, avvilita, inizia a mangiare poco e rapidamente si instaura una sintomatologia costituita da anoressia, dimagramento, amenorrea. Dopo circa un anno di psicoterapia la risoluzione del rapporto conflittuale con il datore di lavoro, l’aver trovato un altro lavoro e soprattutto una maggiore capacita` di autostima, conseguente alla risoluzione dei sensi di colpa, portano alla scomparsa dei sintomi. In questo caso, chiaramente, l’anoressia insorge reattivamente ad una frustrazione affettiva: il non mangiare e` un sintomo di conversione e l’anoressia rappresenta simbolicamente il rapporto con un oggetto frustrante da cui ci si vuole separare. In questo senso il non mangiare rappresenta un tentativo di distaccarsi dall’oggetto stesso, a differenza del bulimico che invece tende sempre piu` ad introiettare l’oggetto frustrante. Come abbiamo visto, pero`, ogni tanto la paziente presentava delle crisi bulimiche che segnalavano l’incapacita` della paziente di distaccarsi dall’oggetto frustrante. Il dimagrire e` un effetto secondario che non gratifica la paziente, ma che anzi la preoccupa.

5.2. Ragazza di 19 anni. Pur presentando tutti i segni di una anoressia psicogena (dimagramento, vomito procurato, logorrea, iperattivita` motoria) chiede una psicoterapia perche´ da vari mesi ha problemi di insonnia che la angosciano molto: di notte, da sola, si sente inesistente, prova una angosciosa sensazione di essere ‘‘nulla’’. Ha dormito per qualche giorno presso una amica, ed e` stata meglio: ma afferma che non puo` diventare ‘‘amica-dipendente’’. Dai primi colloqui emerge una storia abbastanza tipica. Secondogenita di tre sorelle, ha vissuto due esperienze molto significative. A circa un anno, mentre la madre era incinta

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dell’ultima figlia, lei vive per circa 1 anno da sola con la madre che si era separata dal marito. Ricorda questo periodo come un periodo piacevole: si sentiva protetta e coccolata. Dopo la nascita della sorella, i genitori si separano definitivamente, e lei, con la sorella maggiore, va a vivere con il padre, che non potendosi occupare delle figlie le affida ad una sorella nubile ed alla nonna. La paziente vive per alcuni anni con una zia tirannica ed ossessiva che le impediva qualsiasi liberta` e movimento, e con la nonna paralitica. A nove anni circa il padre riprende con se´ le figlie: ma questo e` un ulteriore avvenimento traumatico, avendo la paziente investito sul padre grandi speranze. Senonche´ il padre — per motivi di lavoro — e` molto assente e lontano. La paziente continua a vivere una situazione di solitudine e di tristezza enorme. A tredici anni, in coincidenza con l’epoca dello sviluppo, compaiono i primi sintomi. Progressiva difficolta` nel mangiare che arriva ben presto ad uno stato di cachessia. La paziente inoltre cade in uno stato di immobilita`, quasi di tipo catatonico, trascorre intere giornate immobile, in una poltrona. Viene ricoverata in una clinica e sottoposta ad un trattamento psichiatrico. Alla dimissione, pur perdurando gravi disturbi somatici, c’e` un miglioramento delle condizioni psichiche. Si sviluppa una forte reattivita` verso l’ambiente: comincia a studiare con impegno e riesce in breve a conseguire significativi successi scolastici. Rimane l’atteggiamento anoressico di fondo: teme continuamente di ingrassare, se mangia un po’ di piu`, si provoca il vomito. Si dedica completamente agli studi, successivamente ad attivita` culturali e sociali in maniera totale: non ha legami affettivi o amicizie. Nel corso della psicoterapia il tema centrale rimane il rapporto gravemente frustrante con la madre, che vede e sente raramente, e la profonda delusione vissuta nei confronti del padre. Anche il ricordo della zia paralizzante e della nonna paralitica l’angoscia a distanza di vari anni. Emergono chiaramente il vissuto di odio e di ostilita` verso le figure femminili e la conflittualita` insorta nel momento in cui lo sviluppo puberale l’ha portata a dover accettare o comunque a non poter piu` negare la sua femminilita`. Di qui la prima grave crisi, parzialmente superata con un atteggiamento

reattivo di tipo ‘‘maschile’’ che le ha permesso, mediante i successi intellettuali e scolastici, di contenere meglio la sua nevrosi. Si nota una completa scissione tra la razionalita` e l’emotivita`: parla vomitando le parole, quasi per non dare spazio alla possibile insorgenza di emozioni. Per circa due anni il lavoro di psicoterapia e` soprattutto centrato sui vissuti di abbandono e di solitudine che sono collegati non solo agli avvenimenti subiti ma anche ad una sua modalita` di reazione: cioe` di aver completamente annullato quell’anno di vita trascorso con la madre e vissuto da lei come momento positivo. Le interpreto che per lei la vita cominciava a 3 anni con il rapporto frustrante con la zia e la nonna. L’annullamento di quel primo rapporto e successivamente la reazione di odio che si era sviluppata nei confronti di questi sostituti materni l’avevano portata ad una situazione di vuoto e di solitudine. Le propongo che, avendo annullato il primitivo rapporto con la madre, si era alleata necessariamente con la zia paralizzante e la nonna paralitica con le quali aveva stabilito una situazione di identificazione. Quindi non aveva alcuna possibilita`: il presente era l’esistente, oltre cui non c’era che il vuoto. Di qui la crisi, precipitata dal suo sviluppo corporeo, che rendeva inevitabile l’identificazione con i personaggi femminili paralizzanti della sua infanzia: identificazione contro la quale aveva tentato di reagire con l’immobilita` e il rifiuto totale del cibo. Dopo il ricovero era insorta una formazione reattiva consistente in una attivita` di tipo ipomaniacale, modalita` resa possibile dalla scissione e dalla negazione delle emozioni che erano di vuoto e di solitudine. Ma di notte, quando il meccanismo ipomaniacale non ha la possibilita` di estrinsecarsi, lei si sente vuota e sola, come se il buio della notte le riproponesse il buio che lei aveva fatto intorno a se´: percio` si sente paralizzata, annullata e teme che qualsiasi rapporto diventi una dipendenza. Sulla base di questo lavoro interpretativo la paziente comincia a mostrare dei cambiamenti: parla meno, e` piu` attenta alle sue emozioni, comincia ad emergere, per la prima volta, un vissuto di transfert. Un sogno: ‘‘Sto in una stanza con una amica con cui lavoro: questa amica e` su di una scala. Provo un intenso odio, vorrei distruggerla, poi questa amica discende e penso che e` possibile parlarle’’. Questa

L’anoressia psicogena

prima manifestazione di odio transferale segnala che la paziente riesce a vivere ed esprimere i propri affetti. Infatti dapprima l’analista e` vissuto come figura idealizzata (e` l’amica sulle scale) ma distante ed odiata; poi la possibilita` di recuperare la figura dell’analista vissuta come piu` vicina, il che vuol dire per lei la possibilita` di poter parlare, cioe` usare le parole non piu` come vuote espressioni ma come espressione degli affetti. Sul piano del comportamento si notano cambiamenti: la preoccupazione rispetto al mangiare e all’ingrassare e` diminuita: se qualche volta le sembra di aver mangiato troppo, cerca di contenersi il giorno successivo. Anche la logorrea e` nettamente diminuita di pari passo con una maggiore integrazione tra le emozioni e il pensiero.

6. Diagnosi differenziale Rispetto ad un quadro di natura organica la diagnosi in genere e` semplice, sia per l’assenza di variazioni patologiche dei parametri biologici ed endocrini, sia soprattutto per la caratteristica vivacita` e mobilita` che e` invece assente nei quadri organici. Inoltre in questi ultimi mancano gli elementi psicopatologici tipici dell’anoressia: quali per esempio un rifiuto ostinato per il cibo collegato all’irrazionale timore di poter ingrassare, la visione estremamente deformata del proprio schema corporeo ecc. Piu` significativa invece la diagnosi rispetto ad alcuni quadri di tipo anoressico: questo soprattutto rispetto alla terapia, ed anche alla prognosi. Deve essere distinta pertanto una anoressia, espressione di un quadro depressivo: essa in genere insorge in eta` media ed avanzata, il paziente puo` avere avuto precedenti episodi francamente depressivi, l’anoressia e` la conseguenza di un alterato tono dell’umore, ed il dimagramento e` fonte di notevole preoccupazione per il paziente. Oppure l’anoressia di tipo isterico: essa in genere e` collegata e reattiva ad avvenimenti traumatici (tipo perdita oggettuale o delusione affettiva), insorge in eta` adulta o comunque molto dopo la puberta`, la struttura caratteriale e` di tipo isterico, in genere il dimagramento non e` mai eccessivo. Il sintomo anoressico e` una tipica conversione che

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simbolizza il rifiuto per un oggetto vissuto come cibo, che ora si e` trasformato in oggetto cattivo. Molto importante e` porre una diagnosi soprattutto in quelle forme di anoressia psicogena ad evoluzione infausta. In genere una insorgenza precoce, un dimagramento molto rapido, una tendenza a provocare il vomito che implica sia il rifiuto totale di qualsiasi cibo sia il fatto che esso viene vissuto praticamente come un veleno, l’essere figlia unica ed infine la patogenicita` dell’ambiente familiare. Patogenicita` che si manifesta con la negazione di qualsiasi problematica della paziente e con l’evidenziare il solo sintomo anoressico, che si cerca quindi ostinatamente di reprimere. Tutti questi elementi devono far temere un’evoluzione infausta.

7. Note di terapia L’anoressia psicogena rappresenta certamente una delle sindromi piu` difficili da trattare, e per vari motivi: la gravita` della sintomatologia, la concomitante patologia organica, la quasi completa assenza di consapevolezza della malattia rendono queste pazienti abbastanza inaccessibili a qualsiasi tipo di intervento. Non e` infrequente che alcune pazienti presentino una evoluzione verso l’exitus che non puo` essere arrestata: sembra esserci una tale determinazione in questo progetto di rinuncia al cibo, che qualsiasi intervento terapeutico finisce per essere inutile o per essere vissuto come violento. In questi casi l’unica possibilita` e` quella di fare un programma articolato in piu` tempi. In un primo periodo, che puo` essere anche lungo, l’indicazione fondamentale rimane una psicoterapia relazionale. In questa fase puo` essere necessaria una consulenza, o comunque un appoggio sul piano internistico. In un secondo momento, superata la fase piu` grave e raggiunta una situazione di maggiore individuazione, si puo` passare ad una terapia individuale di tipo analitico. Questa terapia e` invece indicata ed elettiva sia nei casi di sindrome anoressica su base isterica, sia quando l’anoressica presenta un quadro non molto grave, che si evidenzia soprattutto attraverso una sua maggiore capacita` di autonomia.

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Riferimenti bibliografici Bruch H., Patologia del comportamento alimentare, Feltrinelli, Milano, 1977. Laboucarie` J., Barres P., «Les anorexies mentales»,

Encyclope´die Medico-Chirurgicale de Psychiatrie 37350, Paris, 1970. Kestemberg E., Kestemberg J., Decobert J., La fame e il corpo, Astrolabio, Roma, 1974. Palazzoli Selvini M., L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano, 1963.

21 La patologia psicosomatica (o disturbi psicosomatici) Nicola Lalli Parole chiave evento psicosomatico; dualismo; fantasia inconscia; conversione; modello psicoanalitico; alexitimia; modello psicobiologico

Il problema della psicosomatica poteva essere affrontato in maniera piu` semplice, descrivendo i vari quadri dei disturbi attualmente ritenuti appartenenti alla psicosomatica: come l’ulcera duodenale, l’ipertensione arteriosa, l’asma allergica, alcune dermatosi, eccetera. Ho preferito invece proporre una problematica piu` ampia per sottolineare la necessita`, per meglio comprendere e definire questo “misterioso salto dallo psichico al somatico”, di tener presente non solo che la patologia psicosomatica si situa al confine tra disturbi conflittuali e disturbi strutturali, ma anche la complessita` del rapporto tra soma e psiche.

Non e` pertanto strano che la psicosomatica rappresenti un punto di incontro o di scontro tra teorie molto diverse: alcune privilegiando esclusivamente l’aspetto psicologico, altre quello biologico. Mi sembra utile per una migliore comprensione del problema proporre ambedue i modelli (modello psicoanalitico e modello psicologico), ma mi sembra necessario proporre anche un modello che, coerentemente con l’impostazione del Manuale, ritrovi alla base del disturbo psicosomatico, una particolare situazione conflittuale costituita dal carattere alexitimico. * * *

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1. Considerazioni generali Non si puo` rinunciare all’uso del termine psicosomatica, per quanto semanticamente inflazionato e quindi ambiguo, perche´ racchiude in una parola la complessita` della malattia e riconduce ad unita` il “misterioso salto dalla mente al corpo”. Cio` detto, bisogna pero` tener presente che il termine e` usato a livelli semantici molto diversi: viene utilizzato per esprimere una medicina totale (che sarebbe meglio chiamare “comprehensive medicine”); oppure la certezza o il sospetto che il sintomo sia di origine psichica (e sarebbe meglio usare il termine psicogeno); oppure per indicare un disturbo dove si ritiene fondamentale la componente emotiva e conflittuale; oppure per indicare processi fisiopatologici senza una chiara, evidenziabile base organica; infine, a volte, viene usato semplicemente per esprimere una particolare modalita` di rapporto ed operativa del medico. ` evidente che un ventaglio cosı` ampio e E disomogeneo di significati rischia di restare inesorabilmente nel vago e soprattutto di introdurre — all’interno di un unico supposto concetto — teorie e livelli di osservazione completamente diversi. Quindi non e` necessario eliminare il termine, ma certamente chiarirlo: questo capitolo non pretende di essere esaustivo, ma si pone semplicemente come riflessione metodologica ed operativa. In questo senso, e tanto per iniziare, partiro` da un livello di osservazione molto semplice, ma basilare, cioe` quello fenomenologico, introducendo il concetto di “evento psicosomatico” che e` in parte accostabile a quello di “accadimento simultaneo psicosomatico” di A. Mitscherlich. Si puo` parlare di evento psicosomatico ogni qual volta ci troviamo di fronte ad un sintomo (ed anche questo e` un livello di osservazione limitato), sia esso acuto o cronico, ove la spiegazione fisiopatologica non e` sufficiente, ove la “causa organica” e` necessaria, ma non sufficiente, per spiegare l’evento stesso. Ma anche nel caso in cui noi intuiamo che quel disturbo rimanda ad un altro livello che non puo` essere solo organico. Quindi dobbiamo necessariamente tener presente sia il modello della spiegazione (tipico delle

scienze naturali) sia il modello della comprensione (tipico della psicologia). Il concetto di psicosomatica e` sempre esistito; in questo senso il modello ippocratico e` da duemila anni il modello psicosomatico per eccellenza. Ma e` altrettanto vero che il termine specifico viene sempre piu` utilizzato da quando, fallito il tentativo, sotto l’influsso del romanticismo, di creare una medicina unitaria, si tendeva sempre piu` ad una netta dicotomizzazione tra psichico e somatico. E non e` un caso che nel 1818 J.C. Heinroth, esponente della medicina ad orientamento psicologico, coniava il termine di psicosomatico, e che a questi, nel l822, rispondeva K.V. Jacobi, esponente della medicina organicistica, che proponeva il termine di somato-psichico. ` evidente che questo bisogno di unire psiche E e soma nasceva proprio dalla tendenza opposta: quella della scissione. Si tendeva a riunire cio` che nei fatti si era gia` separato: e una volta posta la dicotomia si cercava vanamente di riunire, finendo solo con il privilegiare uno dei termini della scissione. Creando cosı` un monismo biologico o psicologico. E non e` un caso che, per un lungo periodo di tempo, i due termini siano sempre stati scritti separati da un trattino (psico-somatico). Il tratto d’unione e` un segno dialettico (J.P. Valabrega): si unisce cio` che si e` separato. D’altronde uguale destino e` toccato, per lungo tempo, ad un altro termine carico di significati emotivi: psico-analisi. Quasi a significare la necessita` di scindere, ma anche la necessita` di riunire. In questi ultimi tempi la tendenza al tratto d’unione e` pressoche´ scomparsa. Al di la` di ogni considerazione linguistica o ortografica, e` evidente che si pone sempre piu` la tendenza a riunificare seriamente le due componenti. Ma il tratto d’unione indirettamente ci pone di fronte ad un problema centrale: quello del dualismo. Prima di affrontare questo problema debbo fare una precisazione. Il dualismo, cioe` l’opposizione, e` tra soma e psiche: siccome non ci sono problemi nel connotare il soma, dobbiamo connotare la psiche, che va distinta dal mentale. Quando parliamo di mentale, ci riferiamo ad una concezione che postula un Organo Nervoso Centrale

La patologia psicosomatica

che e` capace di produrre delle manifestazioni integrative superiori, che sono appunto le funzioni mentali, ovverosia la memoria, l’intelligenza, le emozioni ecc., ma il tutto e` riferito ad una impersonale produzione del SNC. Quando parliamo di psiche, intendiamo la presenza di un soggetto, di una storia, di una struttura dell’esistenza, di fantasie inconsce e soprattutto il fatto che il comportamento umano ha un senso, oltre che una finalita`. Tra soma e mente, quindi, non esiste una vera dicotomia; problematico e` solo capire come il SNC possa produrre simili funzioni. La vera dicotomia e` tra soma e psiche: molto spesso i termini psiche e mente sono considerati equivalenti e di qui nascono molte confusioni o atteggiamenti riduttivi. Una volta ridotta la psiche a mente (ovverosia eliminato il concetto di psiche), diventa abbastanza semplice spiegare le connessioni mentecorpo. Il problema e` che esiste anche una psiche, che, ripeto, si costituisce considerando l’individuo come soggetto e come senso. Quindi — in questi termini — il dualismo tra psiche e soma esiste, ed e` quanto cerchero` di proporre.

2. Il dualismo psiche-soma Il dualismo — come fatto ontologico — nasce con Platone, anche se apparentemente il filosofo cerca di proporre l’unita` corpo-mente (soprattutto nel dialogo Carmide). Ma e` solo una apparenza. In effetti i filosofi precedenti (presocratici o presofisti) erano andati alla ricerca dell’unita`. La loro ricerca era la ricerca della “fisis”, ovverosia trovare un principio unico che spiegasse il divenire. Ma e` proprio Platone, che ponendo il mondo delle idee (iperuranio) da una parte e la materia informe (caos) dall’altra, pone la scissione: scissione che sara` malamente ricucita con la creazione della figura del demiurgo. Figura terza, necessaria per spiegare come possano essere in comunicazione due enti cosı` diversi. Quindi Platone non ha posto il problema della scissione mente-corpo, ma ha posto un problema fondamentale: quello della scissione come fatto ontologico. Il fatto singolare non e` tanto —

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come vedremo — porre un errore come verita`, ma che esso e` stato seguito per secoli. Descartes da una parte, Leibniz dall’altra, in modo diverso hanno perpetuato questa dicotomia che poteva essere sanata solo dalla presenza di un Dio. Il pensiero di Spinoza che cercava, con la teoria dell’identita`, di superare il problema, ebbe poca fortuna. Ma se il dualismo e la scissione hanno avuto una vita cosı` lunga, bisogna capire quale e` stata la motivazione di base. La tesi piu` accettabile e` che l’errore e` stato quello di aver ipostatizzato e quindi reso ontologico cio` che invece e` soltanto un processo metodologico della “conoscenza”. ` possibile — e per alcuni autori e` probabile E o sicuro — che esista un dualismo categoriale o strutturale del pensiero. In altre parole, il pensiero, quali che siano gli oggetti cui questo si applica, non potrebbe, per una legge d’immanenza strutturale, sceglierli e descriverli che in riferimento ad un sistema binario, vale a dire in termini di coppia di contrasti (J.P. Valabrega, 1962). Ma questo e` molto simile a quanto afferma V. von Weizsa¨ker (1962) a proposito della porta girevole: cioe` che, nell’atto biologico, percezioni e movimenti sono sempre legati indissolubilmente, e tuttavia i due aspetti stanno in una reciproca segretezza, secondo il principio della porta girevole. Io posso vivere solo un aspetto dell’atto biologico: posso vedere volare un uccello, ma non posso seguire contemporaneamente il movimento dei miei occhi; o, come afferma T. von Uexku¨ll, «siamo noi ad introdurre il contrario nella natura». Posto in maniera corretta, il problema e`, ancora oggi, che i nostri livelli logici ed epistemologici ci inducono a scindere e separare, per capire. Quindi la scissione tra soma e psiche, che e` stata necessaria per meglio capire il funzionamento dell’uno e dell’altro, continua ad essere presente ed operante. Oggi pero` il progetto di una comprensione unitaria — cioe` psicosomatica — dell’uomo sano e malato e` un progetto sempre piu` vicino, ma da attuare. Quindi e` necessario trovare modelli di pensiero piu` complessi ed articolati, o comunque

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diversi, che ci permettano di superare questa scissione che, ripeto, e` logica e non ontologica. Per molto tempo ha prevalso l’ottica del somatico e si sono cercate spiegazioni in termini di causalita` lineare: l’anatomia patologica e` stata la disciplina fondamentale nella spiegazione della patologia umana. Poi, forse anche per reazione, ha prevalso lo psichico, ma molto spesso lo psichico, completamente scisso dalla corporeita`, e` diventato anima. Evidentemente l’ipertrofia o l’annullamento di uno dei termini del dilemma non risolve il problema. Serve solo a ridurre a monismo il dualismo. Oggi dobbiamo porci il problema che esiste una realta` psicosomatica e che questa puo` esprimersi con modalita` diverse. ` evidente che mentre nella normalita` si espriE me l’unita` psichico-somatica, la scissione invece si evidenzia nell’evento patologico, appunto in quell’evento psicosomatico dove noi ci accorgiamo di una lacerazione e di una rottura di questa profonda unita`. Ma come e perche´ avviene questa rottura? La possibilita` interpretativa e` duplice e corrisponde a due modelli esplicativi: quello psicoanalitico e quello psicobiologico. Prima di proporre questi due modelli, e` necessario introdurre il concetto di conversione (tipicamente psicoanalitico) per vedere come e quanto esso possa essere ancora utilizzato.

3. La conversione: un problema aperto Il termine introdotto da S. Freud serve a spiegare quel ‘‘salto dallo psichico nell’innervazione somatica’’ ed ha un significato prevalentemente economico: ovverosia e` un surplus di energia libidica che si trasforma e si converte nel somatico. Ma questa concezione economica e` strettamente legata al significato simbolico: la trasformazione non avviene a caso, ma ha un preciso significato, di un linguaggio dimenticato, anzi piu` precisamente e` il linguaggio che, entrato nell’uso comune, sfugge spesso alla nostra attenzione. Prendendo alla lettera l’espressione linguistica, avvertendo come un fatto reale la fitta al cuore e «lo schiaffo in faccia» nel caso di una frase offensiva, l’isterica non compie un abuso spiritoso, ma semplicemente riattiva impressioni alle quali l’e-

spressione linguistica deve la propria giustificazione (S. Freud). Ed il significato nascosto del sintomo e` legato ad un organo, ad una funzione corporea, che per vari motivi sono stati investiti di significati particolari. Il problema e` perche´ un conflitto sceglie questa strada anziche´ scegliere un sintomo nevrotico (per esempio una fobia); S. Freud parla di “compiacenza somatica”, concetto piuttosto vago, a meno che non si intenda come espressione di una funzione corporea che e` stata investita di un particolare significato. In questo senso questa parte del corpo o questa funzione potrebbe assumere in seguito un particolare significato simbolico. Molti analisti, successivamente, hanno ritenuto possibile estendere il concetto di ` stato cosı` conversione anche ad altre patologie. E introdotto il concetto di conversione psicosomatica (J.P. Valabrega 1966). Credo che questo concetto debba essere rivalutato e piu` attentamente studiato, perche´ esso esprime la possibilita` che una fantasia inconscia possa convertirsi in un sintomo psicosomatico. «Il sintomo psicosomatico e` la barriera del corpo o della funzione corporale. Bisogna dunque rompere questa barriera, essa stessa costituita da elementi fantasmatici poco visibili al primo sguardo clinico e che mantengono prigionieri questi fantasmi ... Il fantasma e` preso all’interno del sintomo. Dietro la barriera dei sintomi psicosomatici si nascondono i fantasmi… questi fantasmi concernono il corpo, le sue funzioni, ed essi utilizzano dei materiali significativi molto primari ed elementari: il corpo come contenente e i suoi contenuti… Il gioco degli investimenti concernenti questi fantasmi corporali costituisce una parte essenziale del trattamento dei disturbi psicosomatici». In questa rivalutazione del meccanismo di conversione, anche come possibilita` di comprendere i disturbi psicosomatici, Ch. Brisset e` arrivato a proporre una teoria della progressiva regressione degli affetti rimossi e dei relativi sintomi, proponendo quattro stadi. 1) 2) 3) 4)

isteria manifesta (I stadio); somatizzazione istero-ansiosa (II stadio); organizzazione istero-psicosomatica (III stadio); somatizzazione completa (IV stadio).

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Dunque, la proposizione di un continuum che va dall’espressione piu` psichica a quella piu` somatica. Il concetto di conversione e` pertanto ancora utilizzabile dalla psicosomatica; forse deve essere ulteriormente approfondito. Passeremo ora ad esaminare i due modelli esplicativi fondamentali: quello psicoanalitico e quello psicobiologico.

4. Il modello psicoanalitico La teoria psicoanalitica non offre un modello univoco del disturbo psicosomatico bensı` una serie di modelli a volte anche molto diversi tra di loro, e pertanto sara` utile, dopo una breve panoramica, cercare di estrapolare i dati piu` significativi. S. Freud, affermando che le pulsioni “rappresentano un concetto limite tra mentale e somatico e sono il risultante psichico degli stimoli che derivano dall’interno del corpo e raggiungono la mente, una misura della richiesta di lavoro imposta al mentale come conseguenza della sua connessione con il corporeo”, pone la base di una possibile teoria psicosomatica. Ma era molto scettico sulla possibilita` di poter avere gli strumenti di decodificazione, tanto che divise nettamente le nevrosi da transfert dalle nevrosi attuali e ripetutamente sconsiglio` gli analisti dall’avventurarsi nel campo delle facili, ma pericolose estrapolazioni nel somatico. Dall’altro canto G. Groddek interpretava tutte le malattie organiche come conflitti inconsci e come linguaggio dell’Es. F. Alexander tenta un primo modello psicosomatico: introduce il concetto di nevrosi vegetativa che distingue nettamente dalla conversione. «Una nevrosi vegetativa non vuol dire che vi e` stato un tentativo di esprimere una emozione, ma e` piuttosto la reazione psicologica degli organi vegetativi a stati emozionali costanti o periodicamente ricorrenti». Egli, oltre ad uno schema generale basato sulla inibizione degli impulsi aggressivi, o sull’inibizione delle aspirazioni alla ricerca di dipendenza e di aiuto, cerca di proporre conflitti specifici e quindi profili specifici di personalita`, che pur in una eziologia multifattoriale sarebbero

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alla base delle diverse malattie psicosomatiche. Egli separa tuttavia nettamente questo meccanismo dal processo di conversione isterica. Per molti autori, invece (J.P. Valabrega., F. Deutsch), e` possibile utilizzare il concetto di conversione non solo nell’isteria, ma anche nei disturbi psicosomatici. Molti autori, soprattutto della scuola argentina, in primo luogo L. A. Chiozza, ritengono che alla base di ogni disturbo psicosomatico ci sia una specifica fantasia inconscia. Le idee o le fantasie inconsce sono “chiavi di innervazione degli affetti”. Nell’inconscio esiste una idea o fantasia, che come chiave di innervazione affettiva costituisce una disposizione potenziale: il sintomo somatico costituisce lo sviluppo di tale idea inconscia. Il paziente manifesta questo sintomo, ma gli da` un significato diverso: e` lo psicoanalista che interpreta e quindi da` un senso al sintomo. Ma quali sono i dati piu` salienti della psicoanalisi? Direi che estrapolando da vari AA. e ponendo un ordine molto personale, posso affermare quanto segue: 1)

2)

3)

che il bambino portatore di una situazione pulsionale, nella dialettica delle relazioni oggettuali, ha la possibilita` di uno sviluppo piu` o meno armonioso o il rischio di un fallimento del rapporto e quindi dello sviluppo psichico; soprattutto il fallimento di una relazione personale significativa fissa il bambino a vari livelli che costituiscono fantasie inconsce specifiche, collegate a vari organi o funzioni corporee. Perche´ l’IO psichico e` primariamente un IO corporeo. Ed e` proprio una valida possibilita` evolutiva che permette il processo di desomatizzazione, ovvero utilizzare sempre meno i vissuti corporei a vantaggio dei vissuti psichici; se un individuo si trova in una situazione traumatica, c’e` una regressione, costituita non solo dal riattivarsi di specifiche fantasie inconsce, ma anche dalla possibilita` di conversione nel somatico. Il sintomo che si sviluppa non e` casuale, ma e`

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sempre collegabile a precise fantasie inconsce, quindi e` sempre caricato di un senso, senso che indica una specifica dinamica inconscia collegata al fallimento di un rapporto interpersonale significativo, soprattutto nei primi anni di vita. E questo credo sia il contributo fondamentale della psicanalisi, non solo in ordine alla spiegazione ma anche in ordine alla possibilita` di verificare, soprattutto nei primi stadi di sviluppo, quali siano le tappe e le relative crisi. Ma bisogna tener presente, inoltre, che il sintomo non solo ha un senso perche´ espressione di una fantasia inconscia, ma anche perche´ esso va inserito e capito all’interno dell’intero ciclo vitale del paziente. In questo senso ogni patologia dovrebbe essere vista sempre come una patobiografia1. Cosı` questo modello non e` solo un modello di comprensione, ma anche e soprattutto un modello operativo, terapeutico (o per meglio dire la comprensione e la prassi si unificano): l’interpretazione e` la restituzione del senso al paziente. E la riacquisizione del senso e` certamente terapeutica. La proposizione che il sintomo ha sempre un senso puo` essere considerata come l’apporto piu` significativo della psicoanalisi alla psicosomatica.

5. Il modello psicobiologico Esistono vari modelli, ma credo che quello elaborato da P. Pancheri sia il piu` articolato e completo. Secondo l’A. ognuno di noi e` sottoposto ad una serie di stimoli. «La fonte principale di stimoli capaci di indurre una reazione emozionale

1

Significativo quanto descrive S. Ferenczi nel suo Diario Clinico il 2 ottobre 1932: «Nel mio caso e` sopraggiunta una crisi ematica. Nel momento che io ho capito che non soltanto non potevo contare sulla protezione di una ‘‘potenza superiore’’, ma al contrario sarei stato calpestato da questa potenza indifferente, non appena fossi andato per la mia strada e non per la sua»... «Una certa forza della mia organizzazione psicologica sembra sussistere, cosicche´ invece di ammalarmi psichicamente posso distruggermi o essere distrutto solo nelle profondita` organiche»... Al di la` di ogni spiegazione causale, per Ferenczi la sua anemia perniciosa era certamente significativa rispetto al suo “pernicioso” rapporto con S. Freud (S. Ferenczi, Diario Clinico, R. Cortina, Milano, 1989).

viene dall’ambiente psicosociale e dalla rete relazionale dell’individuo ma sopratutto da quegli eventi che inducono un cambiamento nel corso della vita dell’individuo e richiedono uno sforzo di adattamento». Esiste un filtro che seleziona, valuta ed interpreta gli stimoli, ed e` costituito dalle strutture cognitive. «Il sistema cognitivo e` parzialmente condizionato da fattori genetici, ma ampiamente plasmato dalle esperienze precedenti, dalle modalita` emozionali con cui queste esperienze sono state vissute, e dal tono emozionale attuale». Dopo che uno stimolo e` stato valutato viene innescata una reazione emozionale. Questa reazione «si manifesta attraverso l’attuazione di due programmi: un programma comportarmentale ed un programma biologico». «Vari fattori possono produrre una modificazione nello stile di risposta emozionale e possono predisporre il terreno biologico a particolari gruppi di malattie». La reazione emozionale a sua volta innesca la reazione da stress; una variazione di questa puo` indurre diverse specifiche malattie. Per esempio, riferisce l’A., nel cancro si ha una tendenza alla negazione e rimozione emozionale di eventi luttuosi o traumatici. Questa ridotta reazione emozionale comporta una ridotta reazione da stress che, a sua volta, inibisce i sistemi immunitari. Quindi si propone un modello a genesi multifattoriale con una patogenesi ben precisa e nella quale i fattori emozionali occupano un posto di primo piano.

6. Due casi clinici Uomo di 65 anni. Nel giro di pochi mesi subisce due avvenimenti traumatici significativi: va in pensione e, dopo qualche mese, una casa di campagna, nella quale aveva investito tutti i suoi averi (ma forse soprattutto i suoi affetti e le sue speranze) crolla. Il paziente reagisce “dignitosamente” alle disgrazie: i familiari stessi ne sono colpiti e sottolineano molto la sua “serenita`”. Qualche mese dopo compaiono disturbi vaghi, un malessere generale ed una forma di tipo depressivo. Mi viene inviato appunto come depresso: ma la presenza di un marcato rallentamento psicomo-

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torio non accompagnato da sentimenti di tristezza mi induce ad esaminarlo neurologicamente. Si mette in evidenza una papilla da stasi, segno di una ipertensione endocranica. Successivi esami dimostrano la presenza di un tumore polmonare con metastasi cerebrali. Ho avuto modo di vedere questo paziente in un solo lungo colloquio, in cui ho potuto raccogliere scarsi elementi sulla sua biografia. Tuttavia, se dovessi dare una “spiegazione” anche su base empatica della probabile origine del tumore, sarei tentato di utilizzare lo schema psico-biologico. Ci sono due situazioni di perdita che il paziente, almeno apparentemente, vive senza una grande reazione emozionale; questa scarsa reazione emozionale avrebbe potuto indurre una carente o assente reazione da stress con conseguente caduta o non attivazione dei meccanismi difensivi immunitari. Una ragazza di 22 anni chiede una terapia analitica per una psiconevrosi ipocondriaca molto marcata con numerosi problemi (impossibilita` di sostenere gli esami, assenza di rapporti affettivi ecc.). Dopo due anni circa, c’e` una netta regressione dei sintomi e, in coincidenza di una situazione quasi ottimale, cominciano a manifestarsi delle crisi di invidia nei confronti dell’analista, crisi agite spesso con assenze o ritardi. Ripetutamente viene interpretata questa dinamica di attacco contro il setting come esplicitazione di una sua invidia contro il terapeuta che l’aveva “guarita” dai suoi disturbi piu` evidenti. Dopo numerose interpretazioni, che vengono vanificate da assenze ripetute, le propongo di interrompere l’analisi perche´ il suo comportamento e` tale da rendere inutile ogni interpreazione: per cui l’unica che puo` avere effetto e` una interpretazione “agita”. Le propongo anche la possibilita` di riprendere l’analisi tra qualche tempo. Dopo un anno ritorna e vuole riprendere l’analisi. In prima seduta mi comunica che alcuni mesi dopo la sospensione aveva avvertito disturbi di tipo ginecologico (nel passato erano stati molto frequenti ed era stata visitata ripetutamente). Qualche mese dopo, persistendo i disturbi e per la comparsa di metrorragia, si fa visitare: viene diagnosticata una fibromatosi diffusa e si consiglia l’intervento chi-

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rurgico. Subito dopo il risveglio dall’anestesia, si sente molto leggera ed allegra, e decide che vuole riprendere l’analisi. Anche in questo caso si sarebbe tentati di applicare lo schema psicobiologico, ma ci sono molti fattori, nuovi e diversi, che mal sarebbero compresi nell’ambito di questo modello. La paziente presentava un grave problema di odio nei confronti della madre e della sorella nata quattro anni dopo di lei. Questa ostilita` era stata agita (tentativo di cavare gli occhi alla sorella che dormiva nella culla); poi era scomparsa. Alla puberta` iniziarono dei disturbi ipocondriaci gravi. Gia` durante la prima parte dell’analisi era emersa qualche dinamica di odio nei confronti della madre e specialmente nei confronti dell’utero della madre, utero che aveva procreato l’aborrita sorella. Questa invidia era riemersa nel corso dell’analisi e si era riattualizzata come affetto primario di odio proprio nel momento in cui doveva riconoscere le capacita` “creative” del terapeuta, rispetto alla scomparsa dei sintomi e al presente benessere. Con la sospensione dell’analisi sembra che la situazione affettiva di odio non solo si converta in sintomo somatico, ma soprattutto vada a scegliere come organo bersaglio proprio un organo che era carico di significato per la paziente. Non mi sento di affermare che la frustrazione-separazione abbia potuto incidere sull’insorgenza del sintomo: certamente c’e` un rapporto cronologico molto stretto. Con la frustrazione dovuta alla separazione, dobbiamo pensare che la capacita` di utilizzare la comunicazione psichica sia diminuita. C’e` stata quindi una tendenza a risomatizzare, che ha portato evidentemente alla esplicitazione del conflitto per via somatica. Ma in questo caso, perche´ il sintomo psicosomatico si esplicitasse e` stata necessaria anche una riattivazione di una pregressa situazione traumatica rimossa. Vale a dire, c’e` stata dapprima una situazione dove l’invidia ha ripreso la connotazione dell’affetto primario (l’odio) e si e` riversata sul terapeuta. Successivamente si e` riversata sul corpo della paziente, ma soprattutto si e` riversata su di un organo specifico e ben preciso per la storia della paziente.

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7. L’alexitimia Un insieme di tratti sintomatologici che coinvolge la sfera affettiva e cognitiva e` stato osservato molto frequentemente nei pazienti psicosomatici. Fra le definizioni che ne sono state date citiamo quella di pense´e ope´ratoire (De M’Uzan M., Marty P., 1963), e alexitimia (Sifneos P., Nemiah J.C., 1970). Tale sintomatologia e` stata rilevata anche nei soggetti che fanno uso di droghe, nelle personalita` antisociali, nei soggetti che hanno subito gravi traumi, nelle malattie somatiche non psicosomatiche, nelle perversioni sessuali. La descrizione che De M’Uzan e Marty fanno di questi soggetti mette l’accento su un apparente paradosso: essi sono particolarmente ben adattati a livello del comportamento, non mostrano organizzazione di personalita` nevrotica ne´ psicotica, e l’unico segno di deviazione rispetto alla norma e` il sintomo psicosomatico. La caratteristica di maggior rilievo per gli autori e` l’assenza di quella che essi definiscono “liberta` fantasmatica”. Tutta la valenza affettiva ed emozionale della assai scarsa capacita` di elaborazione mentale e` impegnata sul piano somatico. La carenza di attivita` simbolica si manifesta sia a livello cosciente, con una verbalizzazione sclerotizzata, che a livello onirico, e si associa ad una evidente poverta` delle relazioni interpersonali. Secondo gli autori, la realta` inconscia fatta di pulsioni e affetti, che dovrebbe trovare espressione nella capacita` rappresentativa simbolica cosciente e onirica, e` come esclusa e assente. Il “pensiero operazionale” sarebbe quindi il risultato di una funzione mentale ridotta al contingente rapporto con la realta` in termini strettamente pragmatici, angusti e fossilizzati: «L’Es, dunque, che non e` piu` ripreso al livello mentale allo scopo di trovarvi un’espressione, ma che cio` nonostante resta dinamico e sensibile a tutti gli stimoli, rimane congelato in forme somatiche piu` o meno distorte, nelle quali l’integrazione delle funzioni perturbate si trova compromessa» (Marty P., David C., De M’Uzan M., 1971). Si tratterebbe quindi di una strutturazione di personalita` gravemente deficitaria nella forma-

zione dell’Io, nella quale i meccanismi della scissione e della identificazione proiettiva sono prevalenti rispetto ai meccanismi di difesa piu` evoluti, presenti nelle nevrosi. L’intervento di tipo psicoanalitico, sebbene essenziale per l’indagine clinica, e`, per Marty, meno adatto a livello terapeutico, dovendosi limitare l’intento ad una psicoterapia piu` centrata sulla relazione che sul transfert. Nel 1970 Sifneos e Nemiah formulano il termine di alexitimia. Considerano con tale definizione la presenza, nei pazienti affetti da disturbi psicosomatici, di una deficienza nel processo cognitivo delle emozioni. Comprendono in cio` una poverta` di fantasia, una incapacita` di usare il linguaggio per esprimere le emozioni e di differenziare le emozioni dalle sensazioni corporee. Osservano inoltre una tendenza ad agire impulsivamente, ad avere una mancanza di simbolizzazione onirica e ad assumere posture rigide. Le relazioni interpersonali di questi soggetti sono povere e di scarsa naturalezza. Il difetto e` principalmente nell’individuazione dell’emozione, nel suo manifestarsi e nella non consapevolezza cosciente e verbalizzabile di tale emozione. Essa rimane avvertita nel suo aspetto fisiologico e somatico, esistendo per il paziente ad un livello di generica tensione. C’e`, in questi pazienti, una carenza di differenziazione tra le diverse emozioni nella loro qualita` e nella possibilita` di riferirle agli eventi vissuti per i quali possono aver esperito una reazione emotivoaffettiva. Non sanno quindi riflettere su di se´ e verbalizzare i propri stati d’animo. Non riescono a comprendere la modificazione somatica relativa al vissuto emotivo e, quando essa e` presente, viene considerata come malattia organica. Vivono stoicamente la propria condizione di malattia organica e sono fisicamente rigidi nel movimento e nella gestualita` mantenendosi quasi privi di espressione facciale. Di fronte a una estrema poverta` affettiva nelle relazioni interpersonali, presentano episodi di violente espressioni emotive brevi e per loro inspiegabili. Tali espressioni possono essere di estrema tristezza o di violenta rabbia, ma non vengono da essi avvertite nella loro qualita` affet-

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tiva, ne´ il loro volto esprime adeguatamente tali affetti. In seguito ad ulteriori elaborazioni il concetto di alexitimia e` stato ridefinito secondo due modalita`: —



alexitimia primaria, associata a deficit neurobiologici, neuroanatomici o neurofisiologici. Si ritiene che, sebbene i due sistemi limbico e corticale funzionino bene indipendentemente, essi non interagiscono fra loro e sembrano essere non connessi. In pazienti che hanno subito emisferectomia o commissurotomia compaiono caratteristiche alexiti` stato miche che prima non erano presenti. E inoltre ipotizzato in seguito ad uno studio di Heiberg sull’alexitimia che le predisposizioni genetiche giochino nei gemelli un importante ruolo eziologico. alexitimia secondaria o pseudoalexitimia nella quale non esisterebbero difetti neurobiologici e in cui l’ipotesi eziologica puo` comprendere arresti nello sviluppo, traumi dovuti a situazioni ambientali nell’infanzia o piu` tardi nella vita del soggetto, situazioni socio-culturali e fattori psicodinamici.

In uno scritto pubblicato nel 1977, Nemiah si propone di discutere gli aspetti teorici dell’alexitimia inserendo questo concetto nei vari modelli che si occupano di disturbi psicosomatici. Per fare cio` propone come punto di partenza il seguente presupposto: «...consideriamo per un momento i processi interni che normalmente si verificano in risposta a un evento esterno che provoca un affetto. Ci sono almeno due modalita` di reazione messe in moto: percezione cognitiva e affettiva. C’e`, da un lato, una percezione cosciente e una valutazione cognitiva degli elementi dell’evento esterno, dall’altro le componenti somatiche dell’affetto (si intende emozione) sono attivate. Infine una sottostante elaborazione psichica consistente in diversi elementi: un raffinamento e una delineazione dell’emozione grezza in varieta` di sfumature qualitativamente differenti che hanno il potenziale per l’esperienza cosciente di sentimenti come rabbia, paura, gioia, tristezza; un collegamento dei sentimenti con parole descrittive di

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essi; la produzione di fantasie che esprimono i sentimenti, che allo stesso tempo determinano l’immaginario delle fantasie, e l’attivazione della rete di memorie e associazioni correlate ai sentimenti. Nel normale corso tutti questi eventi, o la maggior parte di questi elementi, appariranno nella consapevolezza cosciente e saranno espressi in maniera appropriata» (Nemiah J.C., 1971). Successivamente l’autore passa ad ipotizzare le anomalie che si possono verificare nei vari passaggi considerati: 1) all’interno dei vari elementi della elaborazione psichica che portano alla consapevolezza cosciente dei sentimenti, alla loro espressione verbale, e alla loro componente di fantasia, memoria e associazioni correlate; 2) all’interno del percorso che va dalla componente somatica dell’emozione alla sua elaborazione psichica, cosicche´ le componenti somatiche dell’emozione, attivate dallo stimolo esterno, non arriverebbero ad essere normali espressioni di affetti, ma si scaricherebbero a livello somatico in modo patologico; 3) infine, difese o deficit psichici o discontinuita` fisiche nelle strutture neuronali e nei percorsi che formano il substrato anatomico dei processi psicologici causerebbero la disgregazione del normale processo. Considerando i due versanti della ricerca nel senso psicologico e nel senso neuroanatomico, egli individua, come formulazioni teoriche idonee a contribuire alla comprensione di tutti gli aspetti impliciti nell’alexitimia e nel disturbo psicosomatico, tre teorizzazioni sinteticamente esposte: a)

b)

c)

Il diniego, inteso come difesa estrema contro gli affetti e le fantasie applicata globalmente alla totalita` del fenomeno affettivo, che porta il paziente ad essere particolarmente privo di emozioni e fantasia. Il modello del deficit, nel senso teorizzato da Marty e De M’Uzan: grave deficit dell’Io, che porta ad una incapacita` di elaborazione psichica della componente istintuale, mancata simbolizzazione, conseguente scarica sul soma della energia istintuale ed assenza di espressione psichica degli affetti. Il modello strutturale: considera la possibile esistenza di un difetto organico nel substrato neuroanatomico dei centri preposti alla atti-

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vazione e alla elaborazione delle emozioni (sistema limbico e connessioni limbico-corticali). In un lavoro pubblicato nel 1994, Sifneos sostiene l’opportunita` di puntare l’attenzione sui meccanismi neurobiologici che regolano gli affetti e i conflitti emozionali studiati sinora, secondo l’autore, prevalentemente dal punto di vista psicologico. Partendo dagli esperimenti sugli animali, che hanno dimostrato come le “emozioni” possono essere indotte attraverso la stimolazione dell’amigdala posta nel sistema limbico, l’autore afferma che si puo` definire “l’emozione come uno stato neurobiologico’’. ` ovvio che, secondo la prospettiva neuroa«E natomica, il cervello umano e` diverso da quello degli animali poiche´ in esso e` avvenuto lo sviluppo di numerosi altri tessuti cerebrali, con piu` avanzate capacita`, e della neocorteccia capace di pensiero. La funzione neocorticale in termini di “cognizione” puo` essere quindi considerata come aggiunta alla piu` primitiva “emozione limbica” nella forma di immagini, fantasie e pensieri che possono essere espressi linguisticamente. Questa interazione tra “emozione limbica” e l’aggiunta cognizione e` chiamata “sentimento”. In altre parole il “sentimento” e` un’esperienza puramente umana ed e` espressa attraverso l’attivita` degli emisferi destro e sinistro in forma di linguaggio. A questo punto noi possiamo concepire “l’affetto’’ come avente due componenti: la neurobiologica emozione e il neuropsicologico sentimento (Sifneos P., 1994). L’autore prosegue affermando che, sebbene le connessioni neuroanatomiche tra le aree limbica e corticale non siano ancora ben conosciute, si puo` osservare che l’amigdala e` in connessione con l’ippocampo (sede della memoria) e con la corteccia attraverso i circuiti cortico-talamici, ed affermare che in questo modo “l’emozione limbica” puo` essere trasformata in “sentimento”, il quale, a sua volta, puo` essere espresso nel linguaggio piuttosto che come azione riflessa come avviene negli animali. L’autore conclude il suo discorso affermando: «La domanda che potrebbe sorgere a questo punto e`: cosa succede se per qualsiasi ragione c’e`

un’interruzione nella capacita` di convertire la sequenza di simboli non verbali e organizzazioni grammaticali che costituiscono il linguaggio, definita da Demasio come afasia? Sulla base di quanto e` stato gia` detto, dall’incapacita` di collegare all’emozione limbica un’attivita` cognitiva in forma di immagini, fantasie e pensieri risultera` una “afasia di sentimento” per cui il linguaggio non puo` essere usato per esprimere un sentimento assente» (Sifneos P., 1994). Secondo una impostazione diversa, quella psicoanalitica, Mc Dougall (1982), affermando che gli interessi nella scienza vengono orientati dalle scelte scientifiche del singolo ricercatore e dalle circostanze professionali con le quali egli si trova in rapporto ogni giorno, dichiara che le ricerche neurobiologiche sul sistema limbico stimolano in lui una riflessione sulla causalita` psichica e sulla causalita` neurobiologica e sui loro punti di contatto; su come una realta` biologica diventa realta` psichica. Cio` trova particolare pertinenza nella difficile problematica presentata dal paziente psicosomatico. Mc Dougall parte dalla ricerca sul significato inconscio delle perversioni sessuali affermando che tale sintomatologia e` la forma piu` alexitimica delle espressioni libidiche e che i pazienti affetti da perversione sessuale hanno anche disturbi psicosomatici. Egli afferma che le due sindromi sono attribuibili agli stessi meccanismi arcaici nella relazione precoce tra madre e bambino, nella quale la madre inconsciamente tenta di controllare il se´ corporeo e la vitalita` affettiva del bambino considerandoli come una estensione narcisistica di se stessa. Cio` diventa fonte di grave patologia per il bambino e lo puo` predisporre a problemi psicosessuali e a vulnerabilita` in senso psicosomatico. Un altro gruppo di pazienti descritti da Mc Dougall sono quelli che egli chiama “anti-analizzandi in analisi”. Tali pazienti non sembrano avere in apparenza grandi problemi psichici, sono ben adattati alla realta`, ma conducono una vita da “robot”. Non si occupano della loro realta` psichica e hanno con gli altri rapporti molto superficiali. Di fronte a loro, l’analista si sente come impotente ad aiutarli. L’autore li definisce “normopatici”. La situazione in analisi puo` procedere a lungo senza che vi sia un vero cambiamento.

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L’analista vive una particolare sensazione di paralisi delle sue capacita` terapeutiche, noia, senso di colpa perche´ non riesce ne´ a farli sentire piu` vivi, ne´ a indurli a smettere l’analisi. L’atteggiamento di questi pazienti e` di voler mantenere l’analisi come se vi fossero assuefatti e come se fosse una fonte di vita esterna a loro. Inoltre molti di questi pazienti, sebbene soffochino i propri affetti, tendono frequentemente a provocare forti reazioni emotive negli altri intorno a loro, compreso l’analista. Risalendo alle loro esperienze infantili precoci, si scoprono relazioni traumatiche che spiegano l’attuale modalita` di funzionamento psichico: alexitimico e psicosomatico. Spesso essi rappresentano i genitori come idealizzati, ma sostanzialmente estranei alla realta` psichica dei figli: interessati ai loro dolori fisici, ma negano l’esistenza del dolore psichico e del piacere affettivo. Tale modalita` di rapporto ma-dre-bambino nella primissima infanzia non permette al bambino di esperire il proprio corpo e le sue funzioni come integrate ai vissuti affettivi e lo abitua, a livello inconscio, a considerarli come estranei da se´ o appartenenti alla madre. Sarebbe questa completa scissione fra psiche e soma alla base della psicosomatosi. Non si tratta quindi ne´ di diniego, ne´ di repressione; le percezioni affettive vengono private del loro senso, eliminate e non soltanto ripudiate. L’ipotesi di Sifneos di un’origine neurobiologica o di una fragilita` ereditaria puo`, secondo Mc Dougall, essere un’ipotesi nel senso che esse possono influenzare la scelta del sintomo di fronte a un trauma psichico precoce dovuto alla situazione inconscia dei genitori. Secondo l’autore, nell’esperienza analitica con pazienti alexitimici si constata la radicata impostazione personale di uno sviluppo modellato in tal senso. Solo alcuni pazienti osano affrontare un profondo lavoro terapeutico che modifica questo assetto interno. Si assiste ad una lotta contro la possibilita` di vivere il dolore e il piacere, legati agli affetti in senso psichico. Il respingere da parte del paziente ogni stimolo esterno che provochi risonanze affettive, nel corso dell’analisi, corrisponde spesso a una irruzione di effetti patologici sul soma. Anche a livello onirico si ha una

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estrema poverta` dove invece nei nevrotici e nei normali gli impulsi, prima repressi, si ritrovano nella produzione onirica. Secondo Mc Dougall, le paure inconsce in questi pazienti sono piu` assimilabili alla psicosi che alla nevrosi per una prevalenza del timore di perdere il senso di identita`, dei limiti del proprio se´ corporeo e del controllo dei propri atti. Questo sembrerebbe in contrasto con l’ottimale livello di adattamento alla realta` che non si osserva negli psicotici, ma si puo` dire che: “nella psicosi il pensiero funziona in modo ingannevole, mentre nella psicosomatosi e` il corpo che funziona in modo ingannevole” (Mc Dougall J., 1982). Dove lo schizofrenico, nella distruzione del senso della realta`, crea una nuova realta` per lui piu` tollerabile, lo psicosomatico svuota la realta` esterna e le relazioni interpersonali del contenuto affettivo che dovrebbe essere parte integrante del suo pensiero. Il rapporto con questi pazienti e` particolarmente permeato del vissuto, da parte del terapeuta, di un senso di frustrazione, noia e paralisi interna, per le quali si trova nel rischio di divenire egli stesso alexitimico. La spiegazione di cio` puo` essere fornita dai concetti psicoanalitici della scissione e dell’identificazione proiettiva. Il modo di relazionarsi del paziente lo porta inconsciamente ad escludere, anche nell’altro, i contenuti affettivi inducendolo a produrre a sua volta una modalita` di mantenere a distanza. Tale modalita` puo` essere simile al ritiro messo in atto dallo schizoide. Tale assetto interno si e` sviluppato nella primissima infanzia. Essendo tale struttura di personalita` molto vicina alla psicosi, secondo Mc Dougall, e` necessario procedere con molta cautela nell’analisi di questi pazienti; la perdita di queste rigide difese puo` provocare una destrutturazione della personalita` con gravi conseguenze, sia in senso psichico che fisico. Alcuni autori hanno condotto l’esame clinico dei pazienti psicosomatici mediante test che analizzano la capacita` di verbalizzazione, l’attivita` fantasmatica e la simbolizzazione onirica confrontandole con quelle di pazienti nevrotici. L’analisi del contenuto verbale di questi pazienti durante l’intervista psichiatrica (Overbeck

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G. 1977, Taylor G.J. 1984, 1985, Von Rad M. 1977, 1982) e` stata effettuata mediante: —





il Giessen test per l’analisi delle pause di silenzio e della durata del discorso del paziente e dell’intervistatore; il Gottschalk test per l’analisi del contenuto affettivo del discorso in termini di angoscia e di aggressivita`; l’Affect Vocabulaire Score (AVS), con risposte a 5 tavole di TAT per valutare il numero totale delle parole e il numero delle parole che esprimono affetti.

Tale analisi e` stata confrontata con quella di pazienti nevrotici evidenziando nei pazienti psicosomatici la tendenza a usare maggiormente pronomi impersonali, verbi ausiliari, periodi brevi, pause di silenzio. L’andamento dell’intervista vede la necessita` di maggiori interventi da parte del terapeuta e minore emergenza di contenuti di carattere affettivo e esprimenti vissuti di angoscia. Il deficit della funzione simbolica e` stato evidenziato con il test di Rorschach (Safar M.E. 1978, Stephanos S. 1975) e mediante l’AT9 (Demers-Desrosiers L.A. 1983, 1985; Cohen K. 1983, 1985). Il secondo e` basato su 9 stimoli simbolici: la caduta, il mostro divorante, la spada, il rifugio, qualcosa di ciclico (che gira, che si riproduce o che progredisce), il personaggio, l’acqua, l’animale, il fuoco. A livello onirico, oltre la constatata poverta` della produzione onirica, l’indagine effettuata da Levitan (Levitan H.L. 1978, 1980, 1981, 1982) sui sogni ricorrenti nei pazienti psicosomatici, ha rilevato sogni contenenti atti di estrema crudelta` agita o subita dal soggetto, sogni di incesto, sogni con affetti proiettati su un personaggio senza la consapevolezza di tale proiezione. Il filo conduttore comune a tutte le ricerche finora esposte sulla sindrome alexitimica sembra fornirci una ipotesi eziopatogenetica riassumibile in un deficit della strutturazione della personalita`. Tale modalita` deficitaria e` interpretata, a seconda dell’orientamento dei diversi ricercatori, come fondamentale carenza nello sviluppo delle fasi precoci della vita, piu` vicino al modo psicotico

che a quello nevrotico, dovuta alla relazione con le figure di accudimento (Marty P., Mc Dougall J., Freyberger H.), oppure a deficit strutturale in senso neurofisiologico come ipotizzato da Sifneos e Nemiah. Ritengo che l’alexitimia sia stata eccessivamente enfatizzata ed ampliata finendo con incorporare numerose, forse troppe patologie. Mi sembra piu` realistico che tutto il quadro sopra descritto possa ridursi ad alcuni tratti caratteriali che possiamo definire il carattere alexitimico, e che questo carattere sia la base della patologia psicosomatica.

8. Dal carattere alexitimico al disturbo psicosomatico Il carattere alexitimico deve essere considerato come la situazione patologica di base che predispone all’insorgenza dei disturbi psicosomatici. Il carattere alexitimico e` fondamentalmente caratterizzato da un deficit di affettivita` e di fantasia e da una conseguente incapacita` di esprimere i propri stati interni, pur possedendo una buona capacita` comunicativa in altri settori, come normale e` l’adattamento alla realta` ed alla vita in genere. Questo insieme di caratteristiche, riconosciuto da vari AA. come patognomonico dei disturbi psicosomatici, corrisponde al concetto di “pensiero operativo” della scuola francese. L’incapacita` espressiva dei propri stati mentali comporta che la comunicazione riguardante persone od eventi affettivamente coinvolgenti, pur dettagliata e quasi fotografica, manca di qualsiasi nota di risonanza empatica. Questa particolare modalita` comunicativa deve essere vista come epifenomeno di una situazione piu` complessa. L’alexitimico presenta un grave deficit di affettivita`, che si manifesta come difficolta` di formare immagini e di avere fantasia. Al contrario egli vive le emozioni a volte anche in maniera intensa, ma queste emozioni, non avendo possibilita` di essere mentalizzate, trovano nel soma la principale via espressiva. Questo spiega non solo l’insorgenza del di-

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sturbo psicosomatico, sia esso acuto o cronico, ma soprattutto l’intensa polarizzazione del soggetto sui propri disturbi fisici che rappresentano l’unica possibilita` di esprimere il proprio malessere o disagio psichico. La genesi del conflitto dell’alexitimico sembra strutturarsi nei primi mesi di vita per la difficolta` di superamento di due fasi precoci e fondamentali dello sviluppo psichico: la fase del riconoscimento dell’altro e quella dello svezzamento. Non superamento che comporta inevitabilmente una notevole difficolta` di essere consapevoli della propria realta` psichica come di quella degli altri. L’incapacita` di formare immagini comporta una prevalenza delle emozioni, e le emozioni sono “sentimenti” privi di una valida rappresentazione mentale. Il sentito, il vissuto non e` messo a fuoco, non e` riconosciuto, ma rimane vago e nebuloso. Quando l’alexitimico vive una situazione di rapporto con l’altro riesce a percepirne le dimensioni, soprattutto quelle ostili o negative, ma non riesce a mettere a fuoco ne´ la dimensione dell’altro, ne´ la propria reazione che rimane pertanto solo come coloritura spiacevole ed irritante. L’alexitimico e` in un conflitto perenne tra il bisogno di una falsa autonomia e la negazione di una reale dipendenza, tra bisogno di autoaffermazione e bisogno di essere riconosciuto dall’altro. Conflitto che si manifesta con una apparente incoerenza dell’alexitimico: pur incapace di vivere e riconoscere gli stati affettivi, puo` essere molto efficiente ed operativo sul piano della realta` materiale, o anche della realta` interpersonale purche´ non ne sia implicato. Il problema centrale dell’alexitimico e` la difficolta` o l’impossibilita` di passare dalle emozioni alle immagini e dalle immagini agli affetti. Queste difficolta` si ripercuotono ovviamente anche sul processo di percezione e di formazione ` sara` proprio la specidell’immagine corporea. E fica alterazione dell’immagine corporea a determinare poi la comparsa dello specifico disturbo psicosomatico. Nell’alexitimico la costituzione dell’immagine corporea presenta delle lacune che determineranno la specificita` dell’organo bersaglio. Non e` un caso che spesso nell’anamnesi del paziente con

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disturbi psicosomatici interi periodi di vita siano pressoche´ cancellati a configurare quasi una sorta di memoria lacunare. Il carattere alexitimico e` molto sensibile a situazioni interpersonali frustranti o deludenti, anzi e` addirittura ipersensibile, solo che il proprio vissuto rimane ad un livello totalmente emotivo e pertanto si manifesta prevalentemente come disturbo di tipo organico. Quando si sommano negativamente fattori personali ed esterni, l’equilibrio instabile dell’alexitimico puo` rompersi ed arrivare, dapprima attraverso una serie di disturbi funzionali piu` o meno momentanei, ad una vera e propria lesione organica. In questo senso c’e` una differenza tra il carattere nevrotico e l’alexitimico: il primo puo` arrivare ad uno scompenso anche per dinamiche prevalentemente intrapsichiche. Il carattere alexitimico no: egli si scompensa solo quando e` sottoposto ad una reale situazione interpersonale che viene percepita come ripetutamente frustrante e deludente. Potremmo porre un paragone con l’allergia: questa compare solo quando il soggetto allergico viene a contatto con l’agente specifico, con il quale deve rimanere a contatto per un tempo prolungato, o comunque in maniera iterativa. Lo stesso avviene al carattere alexitimico: quando la situazione esterna diventa insostenibile, esso si scompensa, e lo scompenso genera il disturbo psicosomatico. A differenza dello psiconevrotico, che puo` giungere al sintomo anche quando la situazione frustrante puo` non essere piu` presente, l’alexitimico si scompensa solo per una situazione frustrante che e` presente ed iterativa. Mi sembra interessante riproporre quanto afferma Mc Dougall: «... in contrasto con i nevrotici, che sono capaci di elaborare e poi di contendere con le risposte affettive al conflitto generato dai loro conflitti, i pazienti alexitimici-psicosomatici vanno a provocare lacune nella rappresentazione di se stessi ed eliminano ampie aree del loro corpo dalla rappresentazione psichica di se stessi. Questi pazienti attuano una totale distruzione della rappresentazione mentale di proprie parti e di parti della rappresentazione obiettiva. L’esito e` un’esi-

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stenza da robot, con quello che appare essere un superadattamento alla realta` dopo che il mondo dell’immaginazione e dei sentimenti e` stato eliminato» (Mc Dougall J., 1982). L’incapacita` di formare immagini, provare affetti, avere fantasia, unita ad una alterazione della propria immagine corporea, sembra costituire la struttura patognomonica del soggetto predisposto ai disturbi psicosomatici. Questo stato deficitario ed in particolare l’incapacita` di avere affetti comporta che i vissuti del paziente trovino come unica possibilita` espressiva il campo delle emozioni, che possono essere anche molto intense. Quanto descritto corrisponde alla struttura del carattere alexitimico. Perche´ si manifesti un disturbo psicosomatico e` necessario che il soggetto subisca, in maniera prolungata, una situazione frustrante o deludente. Questa formulazione sembra coincidere con la teoria dello stress. In effetti e` molto diversa! In questa tesi viene proposta l’esistenza di una particolare struttura di carattere che renda vulnerabile il soggetto, per cui l’evento diventa “traumatico” in relazione ad uno specifico conflitto: bisogno di autoaffermazione e necessita` di essere riconosciuto (in termini di psicologia intersoggettiva) o desiderio di autonomia e bisogno di dipendenza (in termini di teoria complementare). Ritengo che il successo della teoria dello stress sia legato, oltre che alla semplicita`, anche al fatto che essa evidenzia questa particolarita` dei disturbi psicosomatici: la necessaria presenza di una situazione, in genere legata a dinamiche interpersonali, che deve essere presente ed iterativa e alla quale il soggetto non puo` sottrarsi ne´ fisicamente ne´ con il meccanismo dell’evitamento, che e` tipico della fobia. Quindi il disturbo psicosomatico puo` considerarsi sicuramente come una reazione ad una situazione realmente esistente, vissuta dal soggetto come frustrante e che non puo` evitare. A questo punto rimane da chiarire un ultimo quesito. Esiste un organo bersaglio, e in caso affermativo qual e` la dinamica? Coloro che ritengono che il disturbo psicosomatico sia legato ad una specificita` d’organo hanno introdotto varie spiegazioni: l’eccessivo inve-

stimento pulsionale (S. Freud), un processo di risomatizzazione (E. Gaddini e altri), una rappresentazione simbolica dell’organo, oppure un reale deficit organico, un locus minoris resistantiae. Credo che la situazione sia piu` complessa e ` che tutte queste spiegazioni siano riduttive. E evidente intanto che a monte ci deve essere una particolare struttura caratteriale, quella alexitimica, della quale abbiamo visto le caratteristiche. La costituzione dell’immagine corporea a causa di questi disturbi tende a configurarsi in maniera alterata. Ed a questo punto si aprono due strade che possono costituire il tema di una successiva ricerca. Da una parte si puo` ritenere che la specificita` del disturbo psicosomatico sia legata prevalentemente al fallimento di una delle due fasi di sviluppo. Ad esempio possiamo ritenere che i disturbi psicosomatici della pelle siano legati ad una fase molto precoce, quella dei primi mesi, quando il rapporto tattile ha una enorme importanza come via di comunicazione affettiva e rassicurante per il bambino. Mentre, ad esempio, un disturbo quale l’ipertensione puo` essere legato invece ad una fase successiva: quella della individuazione. Ma accanto a questa ipotesi credo che possa coesisterne un’altra. Cioe` che l’organo o la funzione possa avere assunto nell’ambito personale o familiare un particolare valore: questo “investimento” di valore puo` rendere un organo o una funzione piu` esposta ad eventuali disturbi psicosomatici. Sarebbe come una sorta di locus minoris resistantiae ma non in termini somatici. L’esempio dei pazienti affetti da Corioretinopatia Sierosa Centrale sembra essere indicativo di questa seconda ipotesi. (vedi ‘‘Lo spazio della mente’’) Comunque sia, risulta evidente che e` possibile capire il significato del sintomo psicosomatico solo inserendolo all’interno della storia complessiva del paziente. Solo allora il sintomo non sara` piu` un segno, ma si costituira` come senso. Senso che una volta compreso puo` rendere piu` agevole il rapporto con il paziente psicosomatico. Per ulteriori approfondimenti rimando a N. Lalli, Lo spazio della mente. Saggi di psicosomatica, Liguori Editore, Napoli, 1997.

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22 La sindrome borderline e i disturbi di personalita` Nicola Lalli Parole chiave borderline; impulsivita`; narcisismo; disturbo d’identita`; maschera; normotico; idealizzazione; scissione; identificazione proiettiva; sentimento di vuoto; personalita` psicopatica; personalita` paranoide; personalita` narcisistica; personalita` istrionica; carattere schizoide; acting-out; nomotetico; idiografico; big-five; approccio dimensionale; delirio di rapporto sensitivo

La sindrome borderline ed i connessi disturbi di personalita` coprono una gamma ampia, a volte eterogenea, di patologia psichica. ` necessario sottolineare che uso il termine E disturbo di personalita` perche´ ormai entrato nel lessico psichiatrico e per ora non facilmente sostituibile; nella nosografia del presente Manuale, piu` correttamente e coerentemente, si dovrebbero definire come “disturbi strutturali del carattere”, insieme alle perversioni sessuali. Il termine borderline, notevolmente inflazionato, indica quel campo magmatico e nebuloso di una psicopatologia al limite tra psiconevrosi e psicosi: delle prime conservando il corretto esame della realta`, delle seconde l’utilizzazione di alcuni meccanismi difensivi arcaici come, ad esempio, l’identificazione proiettiva. In questo capitolo propongo invece una di-

versa visione del problema. Ritengo che la diagnosi di borderline rappresenti una diagnosi controtransferale: quando il terapeuta ritiene proponibile per un paziente una psicoterapia, ma teme una possibile rottura psicotica nel corso del trattamento, esprime con questa diagnosi la propria perplessita` ed il timore. Cio` premesso, ritengo che esistano tratti caratteristici della sindrome borderline. O. Kernberg ne delinea, per primo, l’aspetto psicodinamico caratterizzato da: diffusione di identita`, uso di meccanismi difensivi molto primitivi (negazione, scissione, onnipotenza, identificazione proiettiva), esame di realta` conservato. J. Gunderson invece ne da` una connotazione piu` descrittiva: basso rendimento lavorativo, impulsivita`, tentativi di suicidio dimostrativi, livello di adattamento superficiale, disturbo nei rapporti

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interpersonali con prevalenza di rabbia e depressione. I dati piu` significativi, sul piano psicodinamico, sono i seguenti. Il borderline mostra una netta prevalenza di impulsi ostili che rendono difficile una integrazione con le valenze positive e creano una frattura nella personalita`. Frattura che non e` orizzontale, basata sul meccanismo della rimozione, bensı` verticale basata sul meccanismo della scissione (splitting). Questa struttura di personalita` manifesta una maschera agita a livello sociale e una dimensione psichica disturbata che si esplicita invece nei rapporti interpersonali ed affettivi. Questi ed altri tratti psicopatologici possono raggrupparsi variamente: la preponderanza di uno

o piu` di questi tratti da` luogo a quelle entita` cliniche che definiamo appunto “disturbi di personalita`”. Il DSM-IV ne distingue ben dieci sottotipi: troppi per essere di una qualche validita` diagnostica. Ritengo piu` probabile che si possano distinguere nell’ambito della sindrome borderline cinque sottotipi: la personalita` psicopatica, il carattere schizoide, e la personalita` isterica (o istrionica), che per motivi psicodinamici sono descritti a parte perche´ assimilabili ad altre categorie diagnostiche, ed inoltre la personalita` narcisistica e quella paranoide, che saranno invece descritte in questo capitolo. * * *

La sindrome borderline e i disturbi di personalita`

1. Considerazioni generali Nel capitolo 7 ho gia` chiarito che l’uso del termine personalita` andrebbe riservato a quelle specifiche teorie di psicologia generale o clinica che cercano di stabilire il complesso rapporto tra approccio nomotetico e idiografico. La distinzione, molto felice, risale a W. Windelband che nel 1894 propose due modalita` di studio dell’uomo: quella nomotetica, che tende a stabilire i parametri generali e validi per tutti gli individui, e quella idiografica, che si occupa della definizione dei tratti specifici del singolo individuo nella sua singolarita`. Questa situazione si ripropone ogni qual volta cerchiamo di individuare i tratti personologici generali per confrontarli con quelli individuali o viceversa. Lo psichiatra e lo psicoterapeuta ovviamente hanno sempre a che fare con casi singoli e storie singole, che devono essere inseriti nel piu` ampio contesto delle varie categorie nosografiche. La psicologia generale ha invece maggiore interesse per la ricerca di quei tratti di personalita` che sono ritrovabili significativamente insieme, perlomeno sul piano statistico, tanto da connotare vari tipi di personalita`: come l’introverso, lo schizoide, l’ottimista, l’evitante ecc. Il concetto di personalita` si riferisce a questo specifico campo di ricerca o a quello della psicologia clinica, che ricerca invece cluster di personalita` con connotazioni anomale. Per questo sarebbe meglio utilizzare in clinica psichiatrica non il termine disturbo di personalita` , ma piuttosto quello di disturbo strutturale del carattere. Comunque l’uso del termine e` cosı` frequente che, fatta questa precisazione e per evitare ulteriori confusioni, usero` in questo capitolo la denominazione “disturbi di personalita`” caratterizzati da «modalita` profondamente radicate, inflessibili e maladattive di rapportarsi a, e percepire, sia l’ambiente che se stessi» (DSM-IV). Il problema dei disturbi di personalita` riapre in maniera particolare un quesito fondamentale, ma irrisolto, della ricerca psicopatologica: la differente valutazione tra approccio categoriale e approccio dimensionale. Mentre la clinica psichia-

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trica tende a vedere i disturbi psicopatologici come categorie a se´ stanti, e quindi entita` diverse non solo quantitativamente ma anche qualitativamente, l’approccio dimensionale ritiene che ci sia un continuum tra normalita` e patologia come anche all’interno delle varie sindromi. L’approccio dimensionale, che ha una ascendenza psicoanalitica, e` stato ampiamente condiviso dalla ricerca psicologica che ha cercato, sulla base di campioni molto ampi studiati con metodi di valutazione statistica, di evidenziare quali siano i tratti fondamentali del funzionamento psichico normale (inteso soprattutto nel senso di norma statistica). Il rischio di questo modello e` quello di proporre o un atteggiamento troppo riduttivo o una ridondanza eccessiva. Del primo approccio fa parte, fra le tante, una teoria che ha suscitato un certo interesse, anche in ambito clinico, e che viene definita dei Big-five. Questa teoria ritiene che alla base delle dimensioni personologiche esistano cinque tratti fondamentali: nevroticismo, introversione-estroversione, chiusura-apertura all’esperienza, antagonismo-accettazione, coscienziosita`. La combinazione dei tratti da` luogo alle diverse personalita`; l’estremizzazione invece ai disturbi di personalita`. Come e` evidente, questa teoria, oltre che essere riduttiva, e` anche solo descrittiva; perche´ nulla ci dice circa la genesi di questi tratti e pertanto si rischia sempre di ricorrere ad una generica spiegazione come la costituzione o il temperamento. In contrapposizione a questo riduttivismo c’e` una tendenza alla inflazione di tratti, motivazioni, comportamenti, fino ad arrivare a teorie che descrivono anche 50-60 tratti, cercando poi di proporne le infinite combinazioni. Cosı` si parla di egocentrismo, reattivita` affettiva, impulsivita`, dipendenza dalla gratificazione, evitamento, dominanza, passivita`, ecc. Di questo passo e` evidente che si ritorna ad una sorta di tipologia descrittiva prescientifica, che e` molto meglio rappresentata (e qualche volta spiegata) dagli scrittori: romanzieri o drammaturghi. Per questi motivi ritengo molto piu` utile, so-

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prattutto sul piano clinico, seguire quanto proposto nel Capitolo 7, ove si descrive non solo la struttura del carattere normale (inteso nel senso di sano) ma anche la psicodinamica delle varie patologie, partendo dalle istanze psichiche di base. Abbiamo cosı` esaminato in precedenza i disturbi conflittuali del carattere (psiconevrosi); ora esamineremo i disturbi strutturali del carattere, che comprendono la sindrome borderline e i disturbi di personalita`, la personalita` psicopatica, le perversioni. Seguono poi i disturbi strutturali del carattere con dipendenza da sostanze tossiche come l’alcoolismo e le tossicomanie. Per ulteriori approfondimenti sulla classificazione rimando al Capitolo “La nosografia psichiatrica”. Mi sembra necessario cercare, a questo punto, di delucidare il concetto di disturbo strutturale del carattere. Per disturbo strutturale deve intendersi la sedimentazione di eventi di natura traumatica durante la fase evolutiva che hanno comportato una abnorme strutturazione di una o piu` istanze psichiche (vedi cap. 8) che si evidenzia non solo per l’uso di meccanismi difensivi molto primitivi, ma anche per una maggiore difficolta` di stabilire un rapporto terapeutico. Questi soggetti tendono a vivere negativamente con sospetto e/o timore il rapporto con gli altri, con la sensazione di fondo che “gli altri” sono inaffidabili. Accanto a questo stile di comportamento c’e` una dimensione inconscia molto deteriorata, una difficolta` di gestire le emozioni ed una affettivita` piu` o meno carente. Pertanto in questa ottica la psicopatologia evidenzia un disturbo evolutivo che attraversa gradi diversi e diversa gravita`. A questo punto posso ritornare al problema specifico. In questo capitolo espongo dapprima la sindrome borderline, che sul piano descrittivo e` proposta come il contenitore di vari disturbi di personalita` e sul piano relazionale come una diagnosi controtransferale. Vale a dire che il terapeuta pone questa specifica diagnosi ogni qual volta si trova di fronte ad un paziente che e` al limite non tanto della psicosi, perche´ questa dizione non ha alcun senso, ma che piuttosto preveda la possibi-

lita` di una rottura psicotica nel corso di un eventuale trattamento psicoterapeutico. Pertanto capacita` del terapeuta sara` quella di individuare dietro la maschera del borderline la specificita` delle varie sindromi psicopatologiche. Come la personalita` psicopatica, che descrivero` a parte per la peculiarita` e l’importanza di questa sindrome (vedi cap. 23); la personalita` istericaistrionica e il carattere schizoide che per motivi psicopatologici e psicodinamici sono inseriti all’interno delle categorie nosografiche assimilabili, come l’isteria (vedi cap. 16), e i disturbi schizofrenosimili (vedi cap. 30) ai quali rimando. In questa sede pertanto mi soffermero` a descrivere la “personalita` paranoide” e la “personalita` narcisistica”.

2. La sindrome borderline Il disturbo borderline, che raccoglie un universo patologico “ai limiti” tra psiconevrosi e psicosi, e` un concetto indefinibile ed instabile, che presenta quindi le stesse caratteristiche attribuite al borderline. A riprova di questa affermazione esistono altri dati non insignificanti. Questo termine e` nato in ambito psicoanalitico quando si inizio` a trattare patologie piu` gravi delle classiche psiconevrosi; si e` poi esteso solo successivamente alla psichiatria. Inoltre e` termine poco usato in una psichiatria oggettivante (come quella medico-legale o quella psicofarmacologica). E non ultimo e` un termine mai entrato nel linguaggio comune, a differenza di tanti altri termini come schizoide, paranoico, narcisista ecc. Tutto questo ci fa ritenere che il termine “borderline” sia piuttosto sfuggente, e che il suo impiego utile in una fase iniziale potrebbe essere considerato come diagnosi controtransferale, come indice di una indecisione del terapeuta. Esso continua comunque ad essere usato ormai da oltre 50 anni, e un numero crescente di convegni ne testimonia l’attualita` e l’importanza: cio` significa che, pur con qualche ambiguita`, e` un termine che deve assolvere a scopi funzionali anche se probabilmente diversi. Sicuramente il piu` evidente e` quello di aver

La sindrome borderline e i disturbi di personalita`

unificato una serie di etichette diagnostiche come “carattere impulsivo” di Reich, “schizofrenia atipica” o “schizoaffettiva” di Kasanin, “personalita` come Se´” di Deutsch, “psicosi latente” di Federn, “schizofrenia pseudonevrotica” di Hoch e Polatin, “carattere psicotico” di Frosch, e “personalita` abbandonica” della scuola francese. Un secondo elemento importante e` che il concetto di borderline implica un necessario approfondimento della distinzione non solo fra nevrosi e psicosi, ma anche fra psicopatologia e normalita`. Ed infine la terapia del borderline permette di evidenziare alcune dinamiche psicopatologiche nel loro rivelarsi ed evolversi, dinamiche che nelle psicosi sono invece gia` strutturate e congelate. Nonostante, o forse proprio per tutti questi motivi, il concetto di borderline rimane abbastanza indefinito. Pertanto vorrei cominciare a descrivere solo alcune linee di tendenza ampiamente condivise, per cercare di definire meglio questa entita`. Il primo autore che ha approfondito questa tematica e` stato Grinker, che in una serie di studi giunse ad identificare il borderline come entita` autonoma con le seguenti caratteristiche basate principalmente su dati comportamentali: ipersensibilita` alle critiche, paura o inadeguatezza nei confronti dell’intimita` , disturbi della identita` , bassa autostima con tendenza alla depressione, sospettosita`, presenza di rabbia e di emozioni molto intense. L’analisi fattoriale suggerı` la possibilita` di prevedere quattro sottotipi: al limite della psicosi, con identita` diffusa, con comportamento psicopatico ed infine come struttura narcisistica. Successivamente Kernberg, attuando una sintesi tra psicologia dell’Io e teoria delle relazioni oggettuali, giunse a definire il borderline come «una modalita` di funzionamento essenzialmente intrapsichica, specifica e stabile nel tempo, caratterizzata da: a) diffusione di identita`; b) esame di realta` conservato; c) meccanismi difensivi molto primitivi e patologici: come scissione, negazione, identificazione proiettiva». Questi tre punti servono non solo per deli-

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neare il borderline, ma anche per differenziare questi dal nevrotico e dallo psicotico. Successivamente Gunderson e coll., continuando il lavoro di Grinker, sono giunti ad una ulteriore definizione e delimitazione del borderline, mettendo a punto un questionario che sottolinea i seguenti comportamenti: basso rendimento lavorativo, impulsivita`, gesti suicidari di tipo manipolativo, buon livello di socializzazione anche se superficiale, tendenza alla depressione e difficolta` ad instaurare rapporti di intimita`. Come fanno notare acutamente L. Bellodi, M. Battaglia, P. Migone, i dati di Kernberg e di Gunderson sono poi confluiti nel DSM-III-R che cosı` definisce il borderline: a) b) c) d) e) f) g)

h)

rapporti interpersonali instabili e intensi (derivato da Gunderson); impulsivita` (derivato sia da Kernberg che da Gunderson); instabilita` dell’umore (derivato da Gunderson); rabbia intensa e inappropriata (derivato da Gunderson); comportamenti fisicamente autolesivi (derivato da Gunderson); disturbo di identita` (derivato da Kernberg); cronici sentimenti di vuoto e di noia (descritti da Kernberg in molti dei suoi scritti sui borderline, anche se non esplicitati fra i suoi criteri diagnostici); difficolta` a tollerare la solitudine (derivato da Gunderson).

Tra gli autori italiani che si sono occupati di questo disturbo mi sembra rilevante il contributo di B. Callieri. Egli pone una triade fondamentale costituita da: a) b) c)

la verita` del borderline e` una verita` “nomade”; la sua fenomenica e` la “fenomenologia esistenziale dell’unico”; il suo “discorso” e` un discorso precognitivo, in cui visione e desiderio si impostano e si combinano in modo disarmonico.

Quest’ultimo punto viene successivamente ampliato dalle seguenti notazioni.

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Nel borderline c’e` un arresto psicolinguistico che porta ad una “preclusione di visioni alternative” e comporta due aspetti. Una opacita` e approssimazione del linguaggio e la caratteristica del discorso del borderline che si svolge sul “ben altro”, ovverosia la tendenza a spostare continuamente il centro del problema. Questa modalita` espressiva e` secondo me un punto importante e qualificante. Perche´ se da una parte rivela una caratteristica psicodinamica fondamentale del borderline (la tendenza a sfuggire l’intimita` del rapporto), dall’altra apre al problema della possibile presenza di un disturbo del pensiero, aspetto non evidenziato dalla maggior parte degli autori. Ad eccezione di Searles che invece lo sottolinea e descrive, il pensiero del borderline non e` frammentato, ma rigido nel contenuto e tangenziale nella forma; inoltre ha difficolta` a collegare eventi significativi, e` spesso concentrato su un singolo problema di tipo emotivo che non “inceppa” il pensiero ma lo rende spesso poco fluido e ripetitivo, a volte invischiante. Questo disturbo del pensiero e` collegabile strettamente a due dinamiche fondamentali del borderline: la scissione come meccanismo difensivo basilare e la presenza di intense emozioni che, non riuscendo ad integrarsi nella struttura complessiva del soggetto, rimangono elementi vaganti e poco controllabili. Credo che a questo punto possediamo un quadro descrittivo del borderline abbastanza preciso e delineato. Si tratta di soggetti con problemi di identita`, con difficolta` ad instaurare rapporti intimi, con paure abbandoniche, con tendenza agli actingout, con oscillazioni dell’umore, crisi di rabbia violente ed immotivate, ed infine con spiccata suscettibilita` e diffidenza. Caratteristica, quest’ultima, strettamente collegata con un altro tratto caratteriale mai descritto, a quanto mi risulta, e che invece a me sembra fondamentale. Il borderline presenta, anche se in maniera non sempre palese, il vissuto di una grave ingiustizia subita che, unito ad un senso esasperato ed idealizzato della giustizia, lo porta a vivere i comportamenti degli altri come ingiusti, lesivi, a volte ` necessario sottolifrancamente persecutori. E

neare che tutti questi tratti “patologici” si evidenziano in situazioni di emergenza emotiva o in situazioni ove siano in gioco dinamiche affettive. Altrimenti il borderline superficialmente puo` apparire come una persona sufficientemente normale. Per meglio esplicitare come e quanto questo vissuto possa essere determinante mi riferiro` non a casi clinici, ma a due esempi tratti dalla letteratura. Il primo e` un lungo racconto di von Kleist ambientato nel sedicesimo secolo, dal titolo Michele Kohlhaas. Il personaggio che vive in Sassonia e` cosı` descritto dall’autore: «Quest’uomo non comune sarebbe potuto passare fino ai trent’anni per il modello del buon cittadino». Allevatore di cavalli, sposato con figli, vive un’esistenza tranquilla e serena. Un giorno, come gli era accaduto di fare in passato, egli conduce i suoi cavalli a Dresda per la fiera e, mentre attraversa le terre del barone Venceslao di Tronka, viene fermato. Gli uomini del barone gli dicono che le leggi sono cambiate: se vuole proseguire ha bisogno di un lasciapassare e deve inoltre pagare un pedaggio. Kohlhaas fa presente che e` in buona fede e che nulla sa di queste nuove regole: chiede pertanto che per questa volta gli sia lasciata liberta` di passaggio. Il barone non e` d’accordo e con ostentazione pretende che vengano lasciati in ostaggio due splenditi cavalli: Kohlhaas acconsente e li affida ad un suo garzone per accudirli. Qualche settimana dopo, di ritorno a casa, apprendera` che il garzone e` stato malmenato e cacciato via, ma soprattutto che i due splendidi cavalli sono stati usati dagli uomini del barone per trasportare la biada nei campi. L’ira di Kohlhaas aumenta ulteriormente quando sapra` dal Tribunale di Dresda, a cui ha inviato una petizione, che non esiste alcuna disposizione in merito ad un lasciapassare. Egli pertanto si rende conto che si tratta di un arbitrio del barone. Da questo momento Kohlhaas pretendera` giustizia. Chiede che la situazione sia ripristinata, che l’offesa venga cancellata. Ed in che modo? Il barone a proprie spese dovra` far di nuovo ingrassare i suoi due cavalli per restituirglieli quindi nelle condizioni iniziali.

La sindrome borderline e i disturbi di personalita`

Questa richiesta e` molto indicativa: Kohlhaas non vuole risarcimenti, pretende che l’offesa sia riparata e l’ingiustizia cancellata. Il che fa ritenere che l’offesa e` vissuta come gravemente lesiva, tanto da mettere a rischio la sua stessa identita`. Trascorso pero` un anno, quando si rendera` conto che non potra` ottenere giustizia perche´ il barone non solo non ha provveduto a quanto richiesto, ma ha perseverato nel comportamento, Kohlhaas vendera` tutti i suoi averi, armera` una ventina di persone ed assaltera` il castello, distruggendolo. Il barone riesce pero` a fuggire e pertanto Kohlhaas non potra` sentirsi soddisfatto ed e` costretto a proseguire nella sua vendetta inseguendolo per tutta la Germania che sara` messa a ferro e fuoco. Cosa vuole Kohlhaas? E qui si mostra l’intuito geniale dell’artista: Kohlhaas pretende che il barone riconosca i suoi torti e che soprattutto faccia di nuovo ingrassare i due cavalli. Non pretende altro, e non accetta nemmeno atti di giustizia sostitutivi per riparare il torto subito: l’ingiustizia deve essere cancellata, solo cosı` l’offesa subı`ta cessera` di essere vissuta come distruttiva. In questo Kohlhaas sembra attuare la teoria hegeliana della giustizia: la giustizia e` la negazione di una negazione (il diritto). L’ingiustizia ha turbato l’ordine del mondo ed ha creato il caos: e` evidente che il caos e` il riflesso di quanto succede dentro Kohlhaas, ma egli lo proietta fuori e chiede che il cosmos venga reintegrato. Altrimenti permane il caos, che diventera` certezza quando egli si rendera` conto dell’impossibilita` di ottenere giustizia. E per ottenere giustizia c’e` una sola via: eliminare il torto attraverso il ristabilimento dell’ordine, annullando l’ingiustizia. Non esiste altra possibilita` : non c’e` il perdono, la comprensione o comunque la riparazione attraverso altre modalita` come la punizione del colpevole o la ricompensa dei danni subiti. Questa dinamica e` di estremo interesse. Se da una parte mostra la bassa soglia alla frustrazione, che rende l’ingiustizia fortemente lesiva per la personalita` del soggetto che l’ha subita, dall’altra indica anche una grave rigidita`: non c’e` altra possibilita` per riparare il torto, non soldi o restituzione di altri cavalli. Quello di cui Kohlhaas ha

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bisogno e` che l’ingiustizia venga abolita mediante un comportamento opposto a quello ritenuto offensivo. Se un vissuto di questo genere e` legato ad episodi del lontano passato (infanzia) e` evidente l’impossibilita` di riparare l’offesa subita, e quindi, il persistere inestinguibile del bisogno di “giustizia”. Sempre per rimanere nel campo letterario vorrei brevemente riferire quanto J. J. Rousseau dice a proposito di un episodio di ingiustizia patita. Egli viveva, orfano di madre, all’eta` di circa otto anni, presso i fratelli Lambercier che avevano una specie di collegio. I rapporti con la signorina Lambercier erano caratterizzati da un affetto morboso che gia` evidenziava l’aspetto masochistico del Rousseau. Un giorno la domestica aveva messo ad asciugare i pettini della signorina Lambercier sul frontone del camino della stanza dove il giovane Rousseau stava studiando. Quando la proprietaria ritorno` a riprenderli ne trovo` uno con tutta la fila di denti spezzati. Di chi la colpa? Nessuno era entrato nella stanza: l’evidenza condannava Rousseau che, accusato, si difese disperatamente. Subı` la pena, ma non accetto` di confessare qualcosa che non aveva commesso. «Non si riuscı` a strapparmi la confessione che si esigeva. Avrei preferito la morte, e vi ero deciso... Alla fine uscii da quella prova crudele a pezzi, ma trionfante. Sono passati cinquant’anni da quella avventura... e dichiaro, in cospetto del cielo, che ero innocente, che non avevo spezzato ne´ toccato il pettine. Immagini il lettore un carattere timido ed educato che non concepisce neppure l’ingiustizia e che, per la prima volta, ne subisce una cosı` terribile e precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di piu`: che capovolgimento di idee! Quale sovvertimento nel suo cuore e nel suo cervello, in tutto il suo piccolo essere intelligente e morale... Ebbe termine cosı` la serenita` della mia vita infantile».

` evidente che in questo Fin qui Rousseau. E caso troviamo la descrizione di un preciso episodio, mentre in genere nella clinica ci troviamo di fronte non solo ad episodi poco dettagliati e precisi, ma soprattutto ad una serie di ingiustizie, piu` che ad una singola. Il ricordo autobiografico di Rousseau, a diffe-

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renza del racconto di von Kleist, sottolinea un aspetto importante: il trauma dell’ingiustizia e` legato non solo al fatto che e` inatteso, ma soprattutto che proviene da persone delle quali ci si fida ed alle quali si e` fortemente ed emotivamente legati. Fatta questa precisazione, vorrei evitare una facile obiezione: che il vissuto dell’ingiustizia non e` patognomonico del borderline, ma attraversa gran parte della psicopatologia e anzi puo` essere il crinale che divide il mondo della persecuzione da quello della colpa. Sono d’accordo ed infatti non e` importante evidenziare l’ingiustizia subita, ma esaminare quali sono le modalita` difensive utilizzate dal soggetto borderline. Se facciamo riferimento a Rousseau possiamo dire che nella vita di questo autore (sia dai racconti dei conoscenti, che dalle sue Confessioni) si evidenziano alcune caratteristiche tipiche del borderline. Un dato molto evidente e` la scissione tra la sfera razionale e quella affettiva: e` noto a tutti che uno dei piu` noti pedagoghi, l’autore del famoso Emilio, e` lo stesso che abbandonera` in orfanotrofio i suoi cinque figli. Non meno palese e` la sua suscettibilita` ed ipersensibilita` alla critica che lo portera`, negli ultimi anni della sua vita, a sviluppare un vero delirio persecutorio. ` dipendente e distruttivo nei rapporti interE personali: basti ricordare con quale indifferenza la tratta quando ritrova povera e sola Madame de Warens, quella stessa persona che l’aveva accolto ed accudito e che egli usava chiamare “mamma”. Senza dubbio possiamo ritrovare in Rousseau altri caratteri tipici del borderline: rabbia intensa ed inappropriata, instabilita` dell’umore, relativa conservazione del rapporto con la realta` (salvo negli ultimi anni). Possiamo definire Rousseau un borderline? Sı` e no! Sicuramente per le caratteristiche psicopatologiche e caratteriali; no con certezza perche´ non ha mai chiesto un aiuto e quindi e` impossibile esaminare la dinamica relazionale che ci fornisce un criterio diagnostico sicuro. E con questo ritorniamo al borderline: nell’analisi di questi pazienti ritroviamo spesso il vissuto di una grave ingiustizia subita nell’infanzia. Non sempre c’e` il ricordo di un episodio ben

preciso. Spesso questo vissuto emerge indirettamente: come tendenza a sentirsi traditi, come tendenza alla sospettosita` che, unita ad una spiccata aggressivita` nei rapporti interpersonali, testimonia l’inconscia necessita` di punire l’altro. Ma il dato piu` importante e` come il borderline elabora questo trauma di base: ed e` proprio la modalita` elaborativa che connota il borderline rispetto ad altre psicopatologie. Questa elaborazione avviene con tre dinamiche basilari: a) la scissione, b) la maschera, c) la tendenza a far impazzire l’altro. La prima e` una dinamica intrapsichica ed e` legata al trauma; la terza e` una dinamica relazionale, espressione della tendenza a vendicarsi del torto subito; la seconda rappresenta una sorta di cerniera tra le due. 2.1. La scissione La scissione e` una dinamica profondamente diversa dalla rimozione: l’affetto rabbia non e` rimosso, ma coperto e gestito. Non c’e` trasformazione della rabbia in bramosia, ma l’affetto e` cosciente anche se non puo` essere sempre agito continuamente, pena la perdita dell’oggetto: questo spiega come la rabbia puo` esplodere per situazioni contestuali, oppure piu` frequentemente deve essere repressa. 2.2. La maschera La gestione delle dinamiche interne spiega la presenza della maschera. Maschera che genera la piu` immediata delle sensazioni nei confronti del borderline: quella della inautenticita`. La maschera rappresenta la modalita` comportamentale che copre la parte scissa del Se´, parte scissa che contiene gli aspetti ostili e distruttivi. Inoltre la maschera spiega un altro aspetto del borderline: quello di avere, almeno sul piano sociale, un corretto esame della realta` e spesso una corretta gestione della stessa, il che non vuol dire avere un sano rapporto con la realta`, soprattutto nell’ambito di relazioni affettivamente significative.

La sindrome borderline e i disturbi di personalita`

Un problema importante e` comprendere quando e come si forma la maschera. Ad un certo momento del suo sviluppo il bambino comincia a rendersi conto non solo dell’esistenza del mondo interiore dell’altro, cioe` che l’altro ha affetti, emozioni come le sue, ma anche che questo mondo dell’altro puo` influenzare il proprio. A questo punto e` fondamentale che il bambino riesca a sentire che c’e` corrispondenza tra quanto egli riesce a percepire del mondo interno dell’altro e quanto questi manifesta visibilmente attraverso la mimica, il comportamento, il linguaggio. Soltanto una corrispondenza puo` fornire al bambino un’ulteriore fiducia non solo della sua capacita` di intuire-percepire, ma anche dell’altro, che e` cosı` come si mostra. Ma se sperimenta una indecifrabilita` dell’altro, o peggio ancora una incongruenza tra gli stati interni e le espressioni esterne, il bambino si sentira` disorientato, confuso. Non puo` capire se e perche´ l’altro nasconda una realta` interna che egli comunque avverte e percepisce al di la` del comportamento e della mimica. Inoltre egli non puo` piu` nemmeno fare affidamento sulle proprie sensazioni. Puo` sentire che l’altro e` ostile, eppure lo sguardo e` sorridente; che l’altro e` assente, eppure materialmente vicino. A questo punto non puo` discernere se i propri sentimenti, spesso intrisi di ostilita` proprio per l’ambiguita` dell’altro, siano esatti o meno. Deve dar retta a quello che vede oppure a quello che sente? In questo dilemma il bambino puo` pensare all’altro come portatore di una maschera: una sorta di mimica stereotipata per nacondere il mondo interno. Di fronte a questa situazione, soprattutto se ripetuta nel tempo, il bambino tende a difendersi con una modalita` imitativa («anche io posso avere una maschera»), oppure puo` attuare una formazione difensiva primaria ed autonoma («non posso far capire cosa sento. Quindi debbo assumere una maschera»). Comunque con due meccanismi diversi arriva a strutturare una sua maschera per nascondere i suoi stati affettivi che spesso, proprio a causa di questa dinamica, sono intrisi di ostilita`.

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2.3. La tendenza a far impazzire l’altro Ben presto compare una nuova dinamica: la tendenza a far impazzire l’altro. Questa dinamica assolve due funzioni: da una parte vendicarsi per i torti subiti precedentemente, dall’altra liberarsi di proprie dimensioni negative. Le modalita` di far impazzire l’altro sono numerose, ma ne vorrei sottolineare due in particolare. a)

b)

La prima e` evidenziare e criticare aspetti negativi dell’altro: cosa che al borderline riesce facilmente perche´ intuisce, attraverso se stesso, le dimensioni negative piu` o meno rimosse e di cui l’altro e` poco consapevole. Evidenziare questi aspetti serve soprattutto a poter continuamente criticare: si mostra cosı` un aspetto fondamentale del borderline, quello di essere ipercritico in maniera impietosa. La seconda e` la tendenza a negare l’identita` dell’altro: cioe` a non vedere, o a trasformare nel contrario, quelle che possono essere caratteristiche positive o comunque importanti dell’altro. Fin quando riesce a gestire la scissione, la maschera e l’attacco all’altro, il borderline si comporta come un “normotico”, ovverosia come un individuo complessivamente ben adattato alla vita sociale, anche se profondamente disturbato sul piano affettivo.

Per normotico si deve intendere quella persona che da chi la conosce superficialmente viene definita persona normale ed a volte anche simpatica; di parere diverso sono invece le persone che intrattengono con lei rapporti significativi ed emotivamente importanti. Solo quando non riesce piu` a gestire queste dinamiche, il borderline tende a chiedere aiuto: richiesta di aiuto che puo` avere i caratteri dell’urgenza e della drammaticita`, perche´ egli intuisce il rischio di una rottura molto grave. A volte invece il borderline puo` esprimere una richiesta di aiuto attraverso razionalizzazioni (fare una psicoterapia per conoscersi meglio o per salvare una relazione che sta frantumandosi ecc.). Ma il terapeuta attento intuisce che dietro questo

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domande piu` o meno neutrali c’e` ben altro: attraverso l’incrinatura della maschera, deve decidere cosa e` il borderline. Egli puo` evidenziare lo sguardo cinico dello psicopatico, quello onnipotente del maniacale, quello annichilito del depresso, quello anaffettivo dello schizoide, o quello sardonico del paranoico. Se questa intuizione rimane vaga ed indistinta lo psicoterapeuta si angoscia perche´ teme di ritrovarsi improvvisamente, una volta frantumatisi completamente la maschera ed i meccanismi difensivi, di fronte ad una struttura psicopatologica ben piu` grave. Per questo ritengo che la diagnosi di borderline sia fondamentalmente una diagnosi controtransferale: il terapeuta di fronte al rischio di una rottura psicopatologica preferisce mantenersi sul ` un paziente borderline!» generico, sul vago. «E Come dire: stiamo a vedere, potrebbe rivelarsi un nevrotico o anche uno psicotico. ` evidente che questa diagnosi puo` essere E utile nei primi incontri, ma dovra` ben presto trasformarsi in una piu` precisa. E, quanto piu` esatta sara` la diagnosi, tanto piu` efficace sara` la terapia. Perche´ la capacita` diagnostica esprime la possibilita` del terapeuta di andare oltre la maschera, per affrontare quel nucleo psicopatologico che la maschera tende a nascondere.

2.4. La personalita` paranoide Il soggetto affetto da personalita` paranoide comincia a manifestare i propri sintomi in genere in eta` adulta soprattutto perche´ le due aree nelle quali maggiormente si evidenziano sono quella matrimoniale e quella lavorativa. ` frequente che questi pazienti sono costretti E a farsi visitare, ravvisando in questo ovviamente una ulteriore ingiustizia o dal coniuge stanco di sentirsi rimproverare infedelta` inesistenti, o dal datore di lavoro stanco delle proteste del paziente che di fronte a eventi minimi e insignificanti, costantemente vissuti come ingiustizia o sfruttamento, presenta un atteggiamento di protesta continuo. I tratti piu` significativi della personalita` paranoide consistono in una particolare modalita` di

rapporto con la realta`. Sospettosi e guardinghi, temono sempre di essere umiliati o danneggiati dagli altri e spesso vivono comportamenti innocui come offese gravissime che non dimenticano. Una volta che il soggetto si e` convinto di aver subı´to un qualche torto, presenta un pensiero ideativo e senza alcuna flessibilita`: anche se non sempre passa ad un comportamento reattivo. Comunque non sempre la personalita` paranoide si mette in evidenza: spesso il soggetto e` riservato e guardingo e, portando all’estremo l’evitamento dei rapporti, puo` a volte sembrare molto vicino allo schizoide. E con lo schizoide egli condivide il meccanismo fondamentale della scissione, che lo porta a dividere nettamente gli aspetti buoni da quelli cattivi (che sono sempre preponderanti); ma oltre la scissione egli presenta anche il tipico meccanismo della proiezione, che lo porta a spostare sugli altri le sue valenze ostili e distruttive. Proprio nella personalita` paranoide possiamo osservare a volte in maniera ipertrofica quella necessita` di giustizia assoluta che puo` essere spinta agli estremi nell’atteggiamento querulomane. Non e` raro intravedere dietro questa facciata una dinamica di onnipotenza e di grandiosita`. In particolari situazioni stressanti o traumatiche il paziente puo` manifestare quello che e` stato definito da E. Kretschmer «delirio di rapporto sensitivo». In questi casi il paziente vive con molta intensita` un atteggiamento ostile da parte dell’ambiente, fino a sentirsi spiato e sorvegliato. La personalita` paranoide tende in genere a stabilizzarsi nel tempo: a volte invece puo` assumere un cronico atteggiamento querulomane; altre volte il peggioramento e` legato al progressivo isolamento sociale che ovviamente tende ad aumentare le valenze paranoidi. Un caso particolare che non puo` essere ascritto ad una personalita` paranoide e` il cosiddetto “delirio dei sordi”: si tratta di soggetti che a causa di una forte diminuzione o perdita dell’udito tendono a diventare fortemente sospettosi e temono che gli altri possano parlare male di loro. In questi casi il disturbo e` collegato al deficit udi` questo un dato significativo: infatti questa tivo. E problematica non avviene mai in coloro che pre-

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sentano una notevole o totale riduzione della vista. Il che sembra dimostrare che l’udito ha un significato molto piu` importante della vista per quel che riguarda il controllo dell’ambiente e fa ritenere che le allucinazioni uditive, tipiche della schizofrenia, possono essere il segno di una completa perdita di controllo rispetto all’ambiente con il vissuto conseguente di essere esposti ed indifesi.

2.5. La personalita` narcisistica Il concetto di narcisismo e` difficilmente delimitabile perche´ si riferisce a due situazioni molto diverse che, proprio per questo, devono essere distinte in “sano narcisismo” e “narcisismo patologico”. Il sano narcisismo si riferisce fondamentalmente a una buona autostima, ed e` ovvio che ognuno debba avere una certa quantita` di autostima e di amor proprio. Se ci riferiamo a questa situazione, al massimo dovremmo considerare come patologica solo una eccessiva autostima e glorificazione di se stessi, in mancanza di un supporto reale. Questa patologia puo` essere presente a volte in alcuni isterici che hanno il complesso dell’intelligenza (vedi psiconevrosi isterica) o in certi soggetti con un Q.I. molto basso, che invece cercano di ostentare capacita` e prestazioni assolutamente inattendibili. Ma questi casi non rientrano nell’ambito del disturbo narcisistico di personalita`. Comunque, prima di affrontare questa patologia e` necessario proporre alcune riflessioni. Il concetto di narcisismo, come pulsione fondamentale e sana dell’individuo, e` stato proposto da H. Kohut e poi variamente ripreso da altri autori. Per questo Autore il narcisismo assume una importante valenza strutturante il Se´; il bambino infatti cerca due fondamentali tipi di relazione che esprimono bisogni narcistici basilari. In un primo momento il bambino ha bisogno di esibire le sue capacita` e ha bisogno di essere ammirato; se questo avviene, se cioe` i genitori hanno una partecipazione empatica, il bambino vive un sano senso di grandiosita` e di onnipo-

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tenza. Successivamente invece ha bisogno di formarsi una immagine grandiosa ed idealizzata di uno dei genitori, con il quale finira` con l’identificarsi. Questa polarita` potra` dar luogo a due formazioni di un Se´ sano e coeso: nel primo caso la personalita` tendera` ad assumere un atteggiamento sicuro ed ambizioso, nel secondo tendera` invece ad esprimere coerenza e fedelta` a valori o ideali. In linea di massima, pur con qualche differenza i due aspetti tenderanno ad equilibrarsi. Se invece nessuno di questi due aspetti (che potremo definire di sano narcisismo) si sviluppano, si arrivera` secondo Kohut ad una psicopatologia narcisistica che e` caratterizzata proprio da un inadeguato sviluppo del Se´ e soprattutto da una bassa autostima. Quindi per Kohut il narcisismo patologico deriva proprio dalla mancanza dello sviluppo del sano narcisismo, inteso come autostima: e` importante tener presente questa teorizzazione di Kohut, per comprendere meglio il concetto di narcisismo. Un secondo problema riguarda il rapporto tra narcisismo e cultura: molti AA. ritengono che la nostra cultura tende ad avvalorare aspetti narcisistici deteriori. Come la bellezza fisica, il benessere, l’ostentazione della ricchezza ecc. Dato questo ambiente culturale e` problematico determinare ove inizia un vero disturbo narcisistico ed ove invece prevalgono fattori culturali. Infine G. O. Gabard fa notare giustamente che il «narcisismo deve essere giudicato in maniera diversa in relazione alla diversa fase del ciclo vitale: comportamenti accettabili in un adolescente, potrebbero essere chiaramente attribuibili ad un narcisismo patologico, in individui adulti o anziani». Comunque al di la` di tutte queste limitazioni, il disturbo di personalita` narcisistica e` ben evidenziabile, soprattutto se esaminiamo la modalita` relazionale. Il narcisista (come patologia) e` incapace di amare e di mostrare interesse per gli altri: gli altri servono solamente a gratificare i propri bisogni. Gli altri non sono portatori di esigenze personali, ma oggetti da usare ed abbandonare secondo i bisogni del narcisista che e` incurante delle emozioni e degli affetti degli altri.

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Secondo il DSM-IV i tratti distintivi del disturbo narcisistico sono i seguenti: tende allo sfruttamento dell’altro, ritiene che tutto gli sia dovuto, richiede costante attenzione ed ammirazione, reagisce alle critiche con grande rabbia, ha un senso grandioso di importanza, ma soprattutto manca di empatia ed e` pervaso da sentimenti di invidia. Credo che questi due ultimi tratti definiscono bene le caratteristiche del narcisista. Comunque sulla personalita` narcisistica c’e` una vasta letteratura spesso contrastante, che si puo` raggruppare intorno ai due principali autori che se ne sono occupati: H. Kohut e O. F. Kernberg. Il primo tende a valutare il disturbo narcisistico come un Se´ arcaico bloccato nella propria evoluzione, facilmente suscettibile alle offese; pertanto la loro aggressivita` deve essere considerata secondaria ad eventuali ferite narcisistiche. Quindi sul piano terapeutico egli propone la necessita` di accettare l’atteggiamento idealizzante del paziente come momento necessario per la riuscita della psicoterapia. O. F. Kernberg invece sottolinea una maggiore patologicita` della personalita` narcisistica. Ritiene che questi soggetti abbiano una modalita` di funzionamento psichico molto vicino alla psicosi, con difese primitive come l’identificazione proiettiva, con una carica distruttiva ed invidiosa molto forte e con una tendenza ad idealizzare l’altro (soprattutto il terapeuta) come difesa con` tro l’emergenza della rabbia e del disprezzo. E evidente che per Kernberg la patologia narcisista e` di gran lunga piu` grave, come piu` difficile e` il rapporto terapeutico. Sul piano terapeutico, comunque, il narcisista pone problemi particolari soprattutto per il particolare tipo di controtransfert (vedi paragrafo sulla terapia).

3. Casi clinici Rimando per le sindromi descritte a tre letture. Per la sindrome bordeline al racconto di H. von Kleist Michele Kohlhaas; per la personalita` para-

noide alle Confessioni di J.J. Rousseau e infine per le personalita` narcisistica a Adolphe di B. Constant.

4. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale e` gia` stata posta per la personalita` psicopatica, per quella istericaistrionica e per il carattere schizoide; pertanto mi rimane da considerare le due patologie sopra descritte. Per il disturbo di personalita` paranoide, la principale diagnosi differenziale riguarda una schizofrenia piu` o meno latente. Ovviamente la diagnosi avverra` tenendo conto della presenza o meno di sintomi patognomonici della schizofrenia, come l’influenza del pensiero, un chiaro vissuto persecutorio ecc. Un elemento importante puo` essere l’inizio e l’evoluzione. Mentre nella schizofrenia c’e` un inizio acuto a cui puo` residuare un vissuto paranoideo, nel disturbo di personalita` si tratta di uno sviluppo lento, spesso con una buona capacita` di adattamento. Per quanto riguarda il disturbo narcisistico, ritorno al problema gia` esposto: e` difficile poter confondere questa patologia con altre, a meno che non si voglia arrivare alla sottigliezza di distinguerla dalla sindrome borderline. In effetti l’unica diagnosi differenziale deve limitarsi a evidenziare quanta pervasivita` hanno i sintomi del paziente e quanto questi incidono sulla sua vita di relazione e sociale. Quindi il dubbio puo` permanere per alcuni casi ove un sano “narcisismo” e` eccessivo e soprattutto non corrispondente alle reali capacita` dell’individuo.

5. La terapia La terapia dei disturbi di personalita` e` molto complessa e difficile, soprattutto perche´ spesso, come nelle perversioni, i sintomi sono egosintonici e pertanto il soggetto non sente l’esigenza di mettersi in discussione o iniziare una terapia. Molte volte sono costretti a farlo perche´ spinti dal partner o dal datore di lavoro o dai familiari che invece patiscono il comportamento del

La sindrome borderline e i disturbi di personalita`

paziente che e` aggressivo, a volte violento, sempre totalmente indifferente alle esigenze degli altri. Comunque, a seconda dei casi possono essere indicate varie forme di intervento. Per la personalita` psicopatica puo` essere possibile un intervento combinato psicofarmacologico e psicoterapeutico: in genere e` piu` indicata la terapia di gruppo anche perche´ spesso si tratta di pazienti istituzionalizzati a causa del loro comportamento deviante. La personalita` paranoide raramente accetta una terapia, perche´ facilmente viene inserita nel vissuto di persecuzione, mentre il narcisista vive la terapia come una ulteriore ferita narcisistica. A volte puo` essere ipotizzabile una terapia di coppia, soprattutto quando la richiesta viene dal partner non malato, o una terapia sistemicofamiliare quando il disturbo si esplicita, soprattutto in eta` adolescenziale o giovanile, all’interno della famiglia. Il paziente che arriva a chiedere una psicoterapia in genere lo fa quando ormai tutti i tentativi ed i mezzi difensivi sono risultati inutili: pertanto i pazienti chiedono aiuto quasi sempre in situazioni di crisi cosa che a volte puo` farli scambiare momentaneamente, a causa della loro disperazione, per pazienti affetti da depressione. Se iniziano una psicoterapia, questi pazienti attivano facilmente una situazione controtransferale piuttosto complessa e non sempre facile da gestire. Un primo problema puo` riguardare la gestione dell’aggressivita` sia auto che eterolesiva, che spesso esplode in maniera inaspettata e, non raramente, dopo un apparente miglioramento. Un secondo problema e` costituito dal transfert di tipo idealizzante che puo` gratificare un terapeuta poco attento ed esperto. Soprattutto perche´ questa dinamica tende a coprire le valenze rabbiose ed aggressive. Un particolare problema controtransferale che si sviluppa con i pazienti affetti da disturbi narcisistici e` la noia, che insorge non solo perche´ il paziente tende a ripetere le stesse cose ad un terapeuta che avverte chiaramente che il paziente lo usa come un oggetto o al massimo come cassa di risonanza. Il paziente gode del proprio parlare che pero` sembra rivolto ad un uditorio lontano,

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piu` che al terapeuta. Ma la noia non e` legata a questi motivi perche´ fondamentalmente deriva da una dinamica di identificazione proiettiva che deve essere colta ed interpretata precocemente. Il paziente nel passato ha spesso vissuto un forte senso di esclusione e di privazione e proietta questo vissuto sul terapeuta che, se accoglie questa dinamica, puo` rispondere con quell’atteggiamento di noia che tende a far sentire il paziente ancora una volta escluso. Quindi, in linea di massima, pur con le ovvie difficolta`, la psicoterapia analitica rimane la terapia di elezione. A volte puo` essere utile anche una terapia farmacologica: utilizzata come terapia integrata. Sono consigliabili neurolettici, incisivi a dosaggi medi; mentre sono sconsigliabili sia gli antidepressivi, che potrebbero aumentare le valenze aggressive, sia i sedativi che possono dare facilmente una dipendenza psicologica.

Riferimenti bibliografici Bellodi L., Battaglia M., Migone P., Disturbo borderline, in Trattato Italiano di Psichiatria, ed. Masson, Milano, 1994. Callieri B., Il disturbo della personalita` borderline e quello narcisistico. Prospettive diagnostiche e terapeutiche, in Il Processo Terapeutico in Psicoterapia,, a cura di N. Lalli, G. Cavaggioni, P. Fiori Nastro, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 1994. Clarking J. F., Lenzenweger M.F. (1996), I disturbi di personalita`. Le cinque principali teorie, R. Cortina Editore, Milano, 1997. Constant B. (1816), Adolphe, Garzanti, Milano 1979. Gabbard G.O. (1990): Psichiatria psicodinamica, R. Cortina Editore, Milano, 1992. Lalli N., La sindrome borderline, Atti del Congresso Internazionale Europeo sulla sindrome borderline. Roma, 1994; in Borderline, Edizioni Universitarie Romane, 1999. Lalli N., L’isola dei Feaci. Percorsi psicoanalitici nella storia della psichiatria, nella clinica, nella letteratura, Nuove Edizioni Romane, 1998. Kleist (von) H. (1826), Opere, Sansoni, Firenze 1959. Kohut H. (1985), Potere, coraggio e narcisismo, Psicologia e Scienze Umane, Astrolabio, Roma, 1986.

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Searles H. F. (1986), Il paziente borderline, Boringhieri, Torino, 1968. Rousseau J.J. (1782), Le confessioni, Einaudi, Torino,

1955. Rousseau J.J. (1780), Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Rizzoli, Milano 1979.

23 La personalita` psicopatica Nicola Lalli Parole chiave sociopatia; criminale; disturbi caratteriali dell’adolescenza; carenze affettive precoci

Termine meno utilizzato che nel passato perche´ o sostituito da quello di sociopatia o diluito in varie sindromi attinenti ai disturbi del comportamento. Ritengo opportuno mantenere questa dizione in opposizione a sociopatia per accentuare che il problema e` psicologico e solo secondariamente sociale; in opposizione alle varie sindromi per sottolineare l’omogeneita` psicodinamica e psicogenetica. La personalita` psicopatica si sviluppa o a causa di deprivazioni affettive precoci o per situazioni gravemente sadiche e lesive vissute sempre in eta` precoce: queste esperienze vissute nei primi anni di vita danno luogo, quasi in una dinamica di imprinting, non a situazioni conflittuali, ma a difettose e non sempre modificabili strutturazioni

dell’Io. Pertanto lo psicopatico non riuscira` ad eseguire quelle che sono le fondamentali operazioni dell’Io: contenere le valenze ostili-distruttive, apprendere dall’esperienza, programmare il futuro. Stranamente lo psicopatico sembra rappresentare, quasi drammatico esperimento, quello che molti filosofi e psicoanalisti (o sedicenti tali) hanno postulato. Che se il bambino avesse la forza dell’adulto, sarebbe naturalmente un criminale. La clinica dimostra ampiamente come lo psicopatico non e` un prodotto ‘‘naturale’’, bensı` il risultato di dinamiche interpersonali di assenza o di violenza. Lo psicopatico quindi agisce da adulto cio` che ha subı`to da bambino. * * *

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1. Considerazioni generali Anche la Psichiatria puo` essere soggetta, per svariati motivi sociali e culturali, ad una sorta di moda. Moda che puo` incidere o sulle manifestazioni cliniche come e` accaduto all’isteria, che ha assunto sempre piu` i caratteri della depressione al posto dei sintomi di conversione. Oppure incidere sulla denominazione e sull’interesse, come e` accaduto per la personalita` psicopatica, che dopo essere stata sostituita con denominazioni diverse come sociopatia, caratteropatia, nevrosi di carattere ed infine disturbi antisociali di personalita`, sembra essere quasi dimenticata. Ma se cambiano le denominazioni, ed a volte anche le manifestazioni comportamentali esteriori, i nuclei psicopatologici restano. In questo senso, sicuramente molti soggetti diagnosticati attualmente come ‘‘tossicomani’’ presentano una struttura psicopatologica esattamente sovrapponibile a quella della personalita` psicopatica. Per questo, pur essendo un termine attualmente poco usato, preferisco conservarlo perche´ evoca piu` facilmente quel comportamento freddamente distruttivo che e` tipico dello psicopatico, come quello descritto da F. Dostoevskij, a proposito di Fe¨dor Karamazov: «...un tipo strano nel quale tuttavia era piuttosto frequente imbattersi, un tipo abietto e vizioso e al tempo stesso insensibile». Per meglio comprendere la storia del concetto di personalita` psicopatica dobbiamo rifarci alla nascita della Psichiatria ed ai problemi che essa ha dovuto affrontare per darsi un’identita`. Il primo problema fu definire cio` che era di competenza della Psichiatria e cio` che non lo era. Per descrivere il malato mentale, bisognava distinguerlo dal delinquente, dal mendicante, dal vizioso, dall’oppositore politico. Questa operazione era abbastanza riuscita con l’opera teorica, ma soprattutto politica, di Pinel (1745-1826); ma a volte i conti non tornavano, soprattutto quando ci si trovava di fronte ad individui che, seppur non affetti da alcuna malattia mentale, certamente non potevano essere definiti normali. E fu proprio Pinel che dovette affrontare questo problema, quando si trovo` di fronte ad un paziente che «infuriato con una donna che aveva usato un linguaggio offensivo con lui, la precipito` in un pozzo». Con

queste parole Pinel inizio` a descrivere un caso insolito che gli aveva creato molte difficolta`. Il suo paziente, figlio di una madre debole ed ‘‘indulgente’’, proveniva da una nobile e potente famiglia. Da bambino aveva ricevuto tutto quello che aveva desiderato: da adulto aveva ereditato una fertile proprieta`. Benche´ grandemente privilegiato, il paziente non riusciva mai a soddisfare i suoi desideri. Gli ostacoli sollevavano in lui una furia terribile: se un cane gli attraversava la strada lo prendeva a calci fino ad ammazzarlo; quando il cavallo dava uno strattone alle redini lo frustava senza pieta`. La mania del paziente era peggiorata, finche´ in un attacco di esasperazione precipito` una contadina in un pozzo1.

Pinel, che lo prese in cura al Biceˆtre, si trovo` di fronte ad un caso difficile, soprattutto perche´ il paziente, che mostrava un comportamento anormale, possedeva una capacita` di ragionamento lucida e coerente: pertanto Pinel fu costretto a definire questa strana entita` come ‘‘mania senza delirio’’. In quel momento, la Psichiatria stava utilizzando i disturbi del pensiero (sia sul piano formale che del contenuto) per definire la malattia mentale, per cui delirio e malattia mentale finivano per identificarsi. Ammettere che un soggetto aveva una mania, che era sinonimo di malattia mentale, senza alcun delirio, era certamente una contraddizione di cui Pinel si rendeva conto ma che non poteva evitare. Cosı`, man mano che la Psichiatria cercava di definirsi e connotarsi, non solo attraverso la descrizione ma anche attraverso la ricerca delle cause della malattia mentale, il problema diventava ancora piu` evidente. E, mentre da una parte, soprattutto la Psichiatria tedesca e quella italiana si orientavano sempre piu` verso un’eziologia neurologica o genericamente organicistica della malattia mentale, la follia morale diventava il pomo della discordia, proprio per questa sua intrinseca contraddizione tra l’assenza di lesioni neurologiche e il manifesto quadro psicopatologico. Questa Psichiatria cerchera` di risolvere (ma solo apparentemente) il problema, introducendo il concetto di tara eredi-

1

Da W. e J. McCord, 1970.

La personalita` psicopatica

taria e costituzione. Con Cesare Lombroso questa teoria raggiunge il massimo della concettualizzazione. Il criminale e` un soggetto che presenta una situazione atavica che e` effetto di una regressione del processo evolutivo dell’uomo; regressione che puo` essere dimostrata mediante delle precise stimmate. Di qui, tutta una serie di ricerche antropometriche e di segni particolari (come la fossetta occipitale) quale riprova della degenerazione. Queste stimmate erano, poi, molto simili a quelle che erano servite, qualche secolo prima, all’Inquisizione nel processo contro le streghe, per dimostrare inconfutabilmente la presenza del demonio. Sia chiaro che non voglio con questo sottovalutare molti altri aspetti positivi delle ipotesi del Lombroso, soprattutto quello di porre l’attenzione sulla persona del criminale piuttosto che sul vago concetto di reato: in questo senso, in fondo, il Lombroso e` stato molto piu` progressista per il Diritto che per la Psichiatria. Anche la Psichiatria francese si orientava sul concetto di degenerazione (Morel e Magnan) fino ad arrivare al concetto, piu` strutturale e meno organicistico, del de´se´quilibre´ supe´rieur, soggetto con intelligenza normale ma con deficit dell’affettivita` e della volonta`. In Inghilterra, con uno spirito empirico tipicamente anglosassone, Prichard (1935) si limitera` ad una descrizione della cosiddetta moral insanity. Egli definiva questa entita` nel seguente modo. Esiste un gran numero di persone che soffrono di una certa forma di squilibrio mentale e presso le quali i princı`pi di morale e di azione della coscienza sono fortemente pervertiti e depravati: il potere di dominarsi e` perduto o fortemente indebolito e l’individuo si trova incapace non di parlare o ragionare su di un soggetto qualsiasi, ma di condurre se stesso con decenza e correttezza in questo affare che e` la vita.

Questa descrizione, dal punto di vista fenomenologico, e` calzante e potrebbe essere utilizzata anche al presente: pero` essa nulla ci dice sulla causa di questo comportamento. K. Schneider, successivamente, riprendendo i concetti di costituzione e di disarmonia psichica, estrapolera` dalla categoria delle personalita` ab-

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normi, quelle «che soffrono o che fanno soffrire la societa`»: categoria che comprende quindi sia i nevrotici che gli psicopatici. Il gruppo delle personalita` abnormi viene colto e distinto dagli altri, con il criterio scientifico-statistico della variazione statistica dei tratti di personalita`. Per le personalita` psicopatiche, questo criterio non si riferisce ad una norma statistica, ma ad una norma ideale «che e` sempre presente al nostro spirito», ad una norma funzionale, intesa come funzionalita` ed armonia delle varie parti della personalita`. Apparentemente il discorso di Schneider sembra portare dei vantaggi: disancorare il concetto di psicopatia da ogni concezione di valore e quindi da ogni criterio soggettivo e quindi relativo, ed ancorarlo al concetto di norma, proponendo quindi nell’accezione piu` vasta il problema della definizione dello psicopatico rispetto ad un certo modello ideale di funzionamento della personalita`. In effetti, la teoria di Schneider rappresenta solo parzialmente un passo avanti, perche´ tende a riproporre l’unitarieta` tra nevrosi e psicopatie che, come vedremo, sono invece — sia sul piano dinamico sia su un piano fenomenico — molto diverse, in quanto il nevrotico si sente diverso e soffre, lo psicopatico vuole essere diverso e fa soffrire. Inoltre, la tipologia di Schneider, come tutte le tipologie descrittive, finisce per essere asistematica e, non poggiando su nessuna concezione psicologica precisa, tende a creare solamente una serie di tipi umani. Successivamente si e` cercato di dare una connotazione piu` oggettiva tenendo conto soprattutto del comportamento: nasce cosı` il concetto di sociopatia. Una gran parte della trattatistica psichiatrica, soprattutto americana, tende sempre piu` a privilegiare l’aspetto comportamentale, che poi corrisponde alla seconda parte della definizione di Schneider. Cioe`, lo psicopatico viene identificato con il sociopatico, nella misura in cui fa soffrire la societa`. Non e` un caso che nella classificazione adottata nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) la personalita` psicopatica viene completamente eliminata ed e` sostituita dalla generica dizione di disturbi della personalita` . Una suddivisione di questi comprende la personalita` sociopatica, a sua volta divisa in:

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a) b) c) d)

alcolismo; deviazioni sessuali; reazione antisociale; reazione dissociale.

Questa classificazione e` del ’52, ma da allora si e` assistito, come era prevedibile, ad un proliferare di ulteriori divisioni e sottodivisioni, tutte a scapito di una comprensione del fenomeno. In effetti, il concetto di sociopatia, simile a quello di Prichard, si limita piu` alla descrizione che a cercare le motivazioni di tale comportamento. Della classificazione sopra descritta le ultime due categorie si riferiscono specificamente alla personalita` psicopatica che, in questo caso, si identifica tout court con il comportamento asociale. Il termine reazione, in questo caso, e` inteso non come reazione ad un avvenimento in via psicogenetica, ma come lo sviluppo di una personalita` nel corso di particolari interrelazioni personali.

porti con altre persone o gruppi. Tale personalita` e` dominata da un forte senso di insicurezza che viene vissuto come disprezzo per gli altri.

Questa concettualizzazione del sociopatico sposta l’accento sull’aspetto comportamentale, facendo coincidere quello che lo psicopatico fa con quello che e`. Evidentemente, questa descrizione puo` essere utile piu` a fini statistici che a fini curativi ed esplicativi, anche se ha come vantaggio di sottolineare la differenza tra il vero sociopatico, che agisce in un certo modo per motivi conflittuali, ed il criminale che invece e` ben integrato a livello di gruppo e di cultura e che agisce con scopi e fini ben precisi che divergono da quelli socialmente accettati. Questo concetto di sociopatia, pur con notevoli variazioni, tendera` a permanere e in qualche modo finira` con il sostituire quello di personalita` psicopatica. Ma a questo punto puo` essere utile descrivere quali sono i tratti fondamentali.

Nel DSM la reazione antisociale e` definita in questo modo:

2. Il quadro clinico il termine si riferisce ad individui cronicamente antisociali che si trovano sempre nei guai, non approfittano dell’esperienza e non mantengono vera lealta` a nessuna persona, gruppo o codice. Sono frequentemente insensibili ed edonisti, dimostrano grande immaturita` emotiva con mancanza di senso di responsabilita`, mancanza di capacita` di giudizio ed ottima capacita` di razionalizzare il loro comportamento fino a farlo apparire ragionevole e giustificato.

Molto brevemente passiamo ad elencare i tratti fondamentali della personalita` e del comportamento dello psicopatico. 1)

La reazione dissociale invece: riguarda quegli individui che non si curano dei codici sociali usuali e spesso vengono in conflitto con essi: questo e` il risultato di una vita completamente vissuta in ambienti moralmente anormali. Essi sono capaci di una forte lealta`. Questi individui non mostrano deviazioni definitive della personalita` fuorche´ quelle che derivano dall’adesione al codice dei valori del proprio gruppo.

2)

Kolb (1979) parla a proposito dei sociopatici di: individui cronicamente antisociali senza la capacita` di formare significativi attaccamenti o rap-

3)

Preponderanza nella struttura dell’essere psichico di alcune dimensioni istintuali distruttive alle quali il paziente aderisce in maniera piu` o meno completa. Tale atteggiamento puo` essere a volte causa ed a volte effetto di una deficitaria struttura dell’Io, istanza che regola tramite il principio della realta` l’interazione tra il soggetto ed il mondo. Ne consegue, pertanto, un comportamento spesso di tipo antisociale, a causa della non accettazione della norma collettiva, con conseguente incapacita` a programmarsi secondo valori socialmente accettabili. Deficitaria o anomala strutturazione del Super-Io, che comporta una labilita` o una mancanza totale del senso di colpa: e` questa una delle caratteristiche fondamentali che spiega gran parte del comportamento psicopatico. Mancanza di conflitti emotivi e pertanto as-

La personalita` psicopatica

4)

5)

6) 7)

8)

senza di ansia, che rappresenta l’epifenomeno clinico del conflitto. Mancanza di identificazione con modelli validi e pertanto incapacita` di assumere dei comportamenti costruttivi; lo psicopatico e` una facciata dietro cui si nasconde un profondo vuoto esistenziale. Tono dell’umore prevalentemente ipertimico: ipertimia che puo` essere vista come un meccanismo ipomaniacale di difesa. In altri individui, pero`, e` frequente un certo atteggiamento oscillante del tono dell’umore, con possibilita` di fasi a carattere disforico. Intelligenza nei limiti della norma; a volte superiore alla norma. Distruttivita` sempre presente e spesso spiccata: indice di una incapacita` di modulare la vita istintiva. Coscienza di malattia assente: lo psicopatico vive in genere la propria abnormita` senza accorgersene.

Se i dati sopraesposti configurano la struttura della personalita` psicopatica, tale struttura si manifesta sul piano comportamentale con le seguenti caratteristiche: 1) 2)

3)

Vivere momento per momento, senza una vera dimensione temporale. Strumentalizzazione degli altri, conseguenza dell’incapacita` di stabilire un vero rapporto interpersonale. Deriva dall’annullamento dell’altro come essere psichico che pertanto, ridotto a pura realta` materiale, puo` essere tranquillamente eliminato come si elimina un oggetto che da` fastidio o intralcia la strada. I rapporti interpersonali sono molto labili e disturbati: ogni legame e` improntato all’inganno, alla strumentalizzazione, ed il partner in genere o soccombe o si ritrae. Puo` perdurare solo il legame con una personalita` simile: la compensazione reciproca comporta un adattamento minimo. Rifiuto dell’autorita` sia parentale che sociale con tendenza ad atteggiamenti disgregatori. Queste sono le caratteristiche piu` importanti

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che ci permettono di distinguere la personalita` psicopatica da qualsiasi altra organizzazione psicopatologica per numerosi caratteri individuabili nella struttura dell’Io e del Super-Io, nella mancata identificazione con oggetti validi, nella loro inautenticita` esistenziale, nel comportamento distruttivo, nella mancanza di una vera sintonia nei rapporti interpersonali, nonostante l’apparente facilita` di tali rapporti. Tuttavia alcune differenze potrebbero far estrapolare due gruppi: uno che presenta un minimo di conflittualita`, l’altro invece con assenza completa. La divisione nei due sottogruppi nulla toglie all’omogeneita`: e` comunque interessante farla, sia perche´ probabilmente ci sono due meccanismi patogenetici leggermente diversi, sia perche´ le possibilita` terapeutiche non sono esattamente sovrapponibili. Nel primo sottogruppo c’e` una maggiore possibilita` di elaborazione nevrotica: le carenze precoci avvengono in genere in una eta` (2-3 anni) in cui c’e` gia` una certa organizzazione della personalita`, in cui esse sono meno significative, in cui l’ambiente familiare e` turbato per rapporti nevrotici fra i genitori. Nel secondo sottogruppo vi sono carenze affettive precocissime con l’impossibilita` di strutturare i primi rapporti oggettuali e pertanto di gettare le basi per la creazione delle future difese; l’ambiente familiare e` molto turbato o per assenza emotiva o per disturbi comportamentali molto gravi dei genitori. La personalita` psicopatica, intesa come struttura e con i caratteri sopradescritti, e` facilmente differenziabile dalle nevrosi per vari aspetti: i piu` importanti sono la strutturazione del Super-Io, la frequenza dell’acting-out e la coscienza del disturbo. A differenza dello psicopatico, nel nevrotico c’e` un Super-Io rigido e inflessibile, e l’acting-out e` molto raro; c’e` inoltre coscienza della propria abnormita`. In tema di diagnosi differenziale, dobbiamo accennare brevemente a tre strutture di personalita` che spesso sono confuse con la personalita` psicopatica: il criminale, il rivoluzionario, i disturbi caratteriali nell’adolescente.

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2.1. Il criminale Il criminale e` un individuo con una struttura di personalita` abbastanza normale ed integrata, vissuto pero` in un ambiente criminogeno. Pertanto, c’e` stata un’identificazione completa e normale, ma solo con valori non accettabili dalla collettivita`. Questi individui sono da identificarsi con la reazione dissociale degli americani: individui ben strutturati, leali nell’ambito del loro gruppo, ma che perseguono fini a scopi diversi da quelli della maggior parte2.

La loro anormalita` pertanto si manifesta soltanto quando questi individui, commettendo azioni criminose (che per loro sono normali e non dovute quindi a conflitti interiori), si scontrano con la societa`. Questo gruppo pone chiaramente sul terreno la fallacia del considerare l’abnormita` dell’individuo sul metro della norma collettiva: questi individui, abnormi per la societa`, sono normali su di un piano strettamente psicologico.

2.2. Il rivoluzionario Una difficolta` maggiore puo` sorgere nei confronti di colui che non accetta le leggi e le regole usuali, non perche´ sia incapace di rispettarle ma semplicemente perche´ non le ritiene giuste o le sente come anacronistiche e superate: e` il rivoluzionario, cioe` colui che tende a cambiare le cose. Per comprendere meglio questo discorso bisogna tener presenti due problemi. Il primo e` che una persona va vista e giudicata secondo tre parametri: il comportamento, il mondo intrapsichico e le modalita` dei rapporti interpersonali. Solo cosı` si puo` avere un quadro completo; fermarsi solo al comportamento puo` generare confusione, per cui si finirebbe per identificare il rivoluzionario e lo psicopatico se ci attenessimo al solo dato comportamentale comune che e` l’opposizione alle norme ` quindi necessario esaminare e alle leggi vigenti. E la dimensione intrapsichica, che invece e` comple-

2

Kolb L. C., 1979.

tamente diversa: creativa nel rivoluzionario, distruttiva nello psicopatico. L’altro problema e` che ogni gruppo tende a creare regole che, se da una parte tendono a far coesistere il gruppo, dall’altra finiscono per creare una sorta d’armatura che blocca ogni possibilita` evolutiva del gruppo stesso: e` il conformismo. Ora, il rivoluzionario tende proprio a rompere questo conformismo in nome di nuove regole; lo psicopatico, come spesso il ribelle, non crea nuovi valori, ma tenta solamente di distruggere quelli esistenti, finendo spesso per creare un conformismo ‘‘all’incontrario’’, non meno rigido di quello che vorrebbe distruggere. La distinzione tra il rivoluzionario e lo psicopatico va fatta quindi sia rispetto alla struttura globale di personalita`, sia rispetto ai fini del loro ` chiaro che esiste una funzione comportamento. E primaria dell’opposizione (che non coincide affatto con quella della ribellione), che e` una dimensione creativa dell’uomo: essa non puo` essere confusa con la dimensione ripetitiva e distruttiva dello psicopatico. Quindi nel proporre la differenza bisogna tener conto che lo psicopatico ha una struttura di personalita` che, al di la` di ogni ideologia e cul` una patologia in assoluto, tura, e` patologica. E non relativa a questa o quella cultura, a questa o quell’epoca storica: e` la patologia della distruttivita` fine a se stessa, della ripetitivita`, dell’incapacita` di relazioni interpersonali di scambio, dell’incapacita` di prendere contatto con la realta` per modificarla.

2.3. Disturbi caratteriali dell’adolescente Sono disturbi del comportamento che insorgono in quella difficile fase di transizione che e` l’adolescenza. Accanto a situazioni di asocialita` c’e` sempre, comunque, una maggiore plasticita` e quindi una maggiore possibilita` di cambiamento. In questi casi, e` importante tener conto di due fattori. A volte il comportamento dell’adolescente rappresenta un tentativo di ribellione che, seppur incongruo, non va sottovalutato: esso si estrinseca in genere nei confronti del nucleo familiare che, magari proprio nella fase adolescen-

La personalita` psicopatica

ziale, cioe` di crescita e di separazione, tende a mostrare, in maniera ancora piu` aperta, certe valenze negative. Altre volte si tratta invece di reazioni, in genere non molto gravi, ove il disturbo comportamentale compare come tentativo e possibilita` di formarsi, attraverso il distacco, anche se violento, dalle norme del gruppo e della famiglia, una propria identita`. Ancora una volta e` solo l’esame globale della personalita`, ma anche della situazione in cui vive quel soggetto, che puo` dare una visione chiara del problema e quindi anche un’indicazione per quello che sara` lo sviluppo futuro di quell’adolescente. Il problema dei disturbi comportamentali degli adolescenti e` un problema che investe sempre piu` la societa` in genere, e quella occidentale in particolare. Dal momento in cui l’adolescente e` piu` libero, anche se spesso questa liberta` e` solo l’effetto dell’indifferenza e della non responsabilita` degli adulti, egli finisce ben presto per trovarsi solo, in un momento delicato della sua formazione, in una societa` dove i modelli che sembrano essere piu` accettati ed accettabili sono quelli del consumismo e della distruttivita`, che in fondo finiscono per essere due dimensioni so` chiaro che il problema non e` solo vrapponibili. E psichiatrico, come non e` solo terapeutico: nel senso che proprio in questi casi il problema della prevenzione diventa determinante. Ed e` anche in questi casi che la capacita` realmente trasformativa della Psichiatria viene messa alla prova.

3. Eziologia La psicopatia o follia morale (come era anche denominata qualche decennio fa) ha sempre costituito un punto nodale per la Psichiatria, soprattutto quando si e` cercato non solo di descrivere, ` facile intuire ma anche di spiegare i fenomeni. E come la Psichiatria fosse interessata a trovare un’eziologia della psicopatia, dato lo stretto legame tra questa sindrome e il comportamento criminoso: capirne le cause voleva dire risolvere un problema di patologia non solo individuale, ma anche sociale. Ci sono state varie interpretazioni, che ora passeremo brevemente ad elencare.

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3.1. Teoria ereditaria ` stata la prima spiegazione in ordine cronoE logico. La teoria ereditaria, sia essa fondata sull’ipotesi genetica o semplicemente sull’ipotesi ereditaria-costituzionale, e` chiaramente in contrasto con quella psicogenetica e tende a riemergere o allorche´ le aspettative terapeutiche delle ipotesi psicodinamiche sono andate deluse o quando c’e` un riassestamento della societa`, su basi piu` autoritarie e reazionarie. Infatti, le numerose ricerche eseguite (Kall3 man; Rosonoff; Cleckly ecc.) non hanno portato prove a favore di questa ipotesi, anche perche´ e` sempre molto difficile poter isolare i fattori ambientali da quelli ereditari, nel senso che il bambino, futuro psicopatico, normalmente vive in un ambiente (familiare e sociale) che e` sempre molto disturbato. Lo studio sui gemelli avrebbe potuto dare qualche elemento piu` sicuro: i numerosi studi sono pero` difficilmente correlabili tra di loro. L’opera di Kallman e della Royal MedicalPsychological Association ha sperimentalmente dimostrato che la psicopatia non segue nel modo piu` rigoroso le linee della parentela di sangue: «i figli di psicopatici hanno una incidenza piu` alta di sviluppo della malattia che non i fratelli degli psicopatici. Gli ascendenti degli psicopatici risultano avere la stessa incidenza di ‘tara’ ereditaria degli ascendenti delle persone normali». Anche le ultime ricerche sulla presenza di alterazioni cromosomiche in soggetti dediti a comportamenti dissociali vanno considerate con molta cautela.

3.2. Ipotesi neurologica Essa e` emersa sia dalla constatazione clinica che le lesioni cerebrali possono indurre cambiamenti della personalita`, sia per la presenza di turbe caratteriali in soggetti affetti da encefalite. Inoltre l’avvento dell’EEG ha portato una mole immensa, quanto inutile, di lavori tendenti a di-

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Da Mc Cord J., 1970.

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mostrare una supposta labilita` o immaturita` bioelettrica dello psicopatico. Tuttavia, se e` vero che le lesioni soprattutto dei lobi prefrontali o delle regioni ipotalamiche possono indurre disturbi comportamentali evidenti e spesso irreversibili, e` pur vero che questi disturbi sono molto diversi e nulla hanno a che fare con quelli della psicopatia. Situazioni piu` interessanti furono invece osservate nei soggetti sofferenti di encefalite. Soprattutto, dopo la grande epidemia del 1918, si notarono notevoli e stabili cambiamenti del carattere in persone che erano state affette da tale disturbo: la stessa sintomatologia si ritrovava negli adolescenti che da bambini erano stati affetti da encefalite. In conclusione, possiamo dire che se e` vero che le lesioni encefalitiche o comunque di alcune zone particolari (tipo lobi prefrontali o zone ipotalamiche) possono indurre stabili modificazioni del carattere e del comportamento, che diventa asociale, aggressivo, impulsivo, nulla ci autorizza a sostenere che la psicopatia sia causata da processi analoghi, anche se meno appariscenti. 3.3. Ipotesi psicogenetica Man mano che lo psicopatico anziche´ essere studiato veniva in qualche modo curato, ci si accorgeva che alla base di tali comportamenti c’erano cause o motivazioni psicologiche. Gli studi piu` interessanti a questo proposito sono quelli riguardanti le carenze affettive precoci. Numerosi studi hanno messo in evidenza che una carenza affettiva precoce puo` indurre delle gravi alterazioni del comportamento e del carattere. Spesso la storia degli psicopatici e` costellata da assenza di genitori, oppure da rifiuti, aggressivita` e violenze. Numerose ricerche (L. Wolberg; L. Bender; A. Freud; J. Bowlby; P.C. Racamier ed altri autori)4 hanno sistematicamente trovato nell’infanzia di psicopatici gravi situazioni di deprivazione affettiva, infanzie trascorse in istituzioni, spesso violenza ed aggressivita`, in poche parole sempre un rifiuto che veniva espresso non solo psicologi-

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Da Racamier P. C., 1954.

camente, ma anche materialmente. In questo senso molti autori sono concordi nel ritenere che lo psicopatico da adulto agisca contro gli altri quel rifiuto che ha ricevuto da bambino. Chiaramente, bisogna intendersi sul concetto di privazione affettiva: essa non significa naturalmente una totale assenza di rapporti interumani. Anzi in genere situazioni di deprivazione totale e massiccia portano a disturbi molti piu` gravi. Tipica e` la sindrome da ospedalismo, descritta da Bowlby e riguardante bambini ricoverati in ospedale e abbandonati dalle madri: a seconda della lunghezza dell’assenza e delle possibilita` o meno del bambino di ritrovare un sostituto materno, si creavano sintomi di grave arresto psicomotorio fino a situazioni in cui i bambini si lasciavano letteralmente morire. Dall’altra parte, varie situazioni di assenze parentali pressoche´ totali, come quei rari casi di bambini sopravvissuti dopo essere stati abbandonati in zone impervie, e probabilmente allevati da animali, hanno mostrato segni di grave ritardo psicologico e mentale. Alcune di queste creature non sono potute mai diventare ‘‘umane’’: il loro isolamento totale non aveva permesso nemmeno la formazione di quell’abbozzo di socializzazione, la cui distorsione comporta la psicopatia. Pertanto, ritornando al nostro discorso, dobbiamo dire che in genere le dinamiche familiari del bambino, futuro psicopatico, sono estremamente disturbate: c’e` certamente un clima di violenza che in genere e` aperta e manifesta, cosı` come si riscontra continuamente un’assenza emotiva e spesso anche materiale di entrambi i genitori. Quindi possiamo dire che sicuramente la psicopatia e` una risultante di specifiche e particolari dinamiche interpersonali vissute dal bambino: dinamiche dove il massiccio rifiuto affettivo, manifesto piu` che latente, ha una grande importanza. Due riprove a favore di questa tesi vengono da 5 studiosi di antropologia. Nel 1953, Whiting e Child studiarono varie culture, mettendo in evidenza il rapporto tra cultura e sensi di colpa. Essi mostra-

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Da Karpman B., 1951.

La personalita` psicopatica

rono che le culture che puniscono attraverso il ritiro dell’affetto piu` che con mezzi corporali creano nei bambini maggiori sensi di colpa. Da questo dato si puo` arguire che c’e` un rapporto tra sensi di colpa e scambio affettivo: e che nello psicopatico proprio la carenza cronica di affettivita` finisce con il rendere impossibile l’interiorizzazione delle norme sociali e i conseguenti sensi di colpa. Sappiamo che l’assenza di sensi di colpa, anche in casi di comportamenti gravi e lesivi, e` una delle caratteristiche principali dello psicopatico. Gli studiosi del comportamento degli Aloresi hanno notato come i bambini vengono allevati in un clima di scarsa affettivita` e di rifiuto precoce. Due settimane dopo la nascita la madre torna a lavorare e il bambino viene affidato a chi capita. Ma a parte questo, i genitori stuzzicano continuamente i bambini, li mettono in ridicolo, li ingannano continuamente. Questo clima di rifiuto e di violenza fa sı` che gli Aloresi da adulti diventino individui rabbiosi, fondamentalmente pavidi, senza sensi di colpa, bugiardi, senza valide relazioni personali: hanno cioe` molti tratti in comune con quella che definiamo personalita` psicopatica. Ma qual e` lo specifico meccanismo attraverso cui si crea la personalita` psicopatica? Freud, con la proposizione del bambino come ‘‘perverso polimorfo’’, postula che l’uomo nasce perverso e psicopatico e che sara` poi l’educazione, attraverso la rimozione, a renderlo, da adulto, ‘‘civile’’: evidentemente e` solo tramite l’identificazione e la rimozione che la natura congenitamente perversa del bambino riesce a ridursi alla ragione. Non e` un caso che gli epigoni di Freud (o perlomeno del pensiero freudiano) si esprimano in questo modo: siamo tutti psicopatici nati... siamo nati senza rimozione (H. Lipton)

oppure: il neonato e` privo di inibizioni. Esprime la rabbia con piena liberta`. Nessun controllo interiore modera la sua impulsivita`. Certo il neonato non ha sensi di colpa. Secondo questi tratti, almeno, ogni uomo e` nato psicopatico6.

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McCord W., 1970.

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Il collegamento tra carenze affettive precoci e psicopatia sembrerebbe dar ragione a questa impostazione: l’uomo non educato, che non ha famiglia, o in assenza di modelli identificatori, non diventa, bensı` rimane psicopatico anche da adulto. Ma la situazione e` invece molto diversa. Infatti, se fosse vera questa impostazione, dovremmo avere un rapporto diretto tra assenza di rapporti umani (che hanno secondo Freud come unica funzione quella di far rimuovere le pulsioni) e grado di psicopatia. Invece si e` visto che quanto piu` e` marcata l’assenza di rapporti, tanto piu` c’e` assenza di ‘‘umanita`’’, nel senso che la sindrome che ne consegue e` costituita da un tale ritardo emotivo, intellettuale e fisico che questi bambini somigliano molto piu` a dei gravi cerebropatici, piuttosto che a degli psicopatici. Bisogna quindi presupporre che un’assenza piu` o meno massiccia di rapporti interumani genera una altrettanta massiccia assenza di dimensioni umane. Bisogna anche presupporre che non ci sia uno stato psicopatico originale, che sarebbe rimosso dall’educazione e dalla civilizzazione, ma che la psicopatia si crei e si formi all’interno di certe specifiche dinamiche umane. Quindi il problema non e` tanto e solo l’assenza di rapporti interpersonali, quanto piuttosto la qualita`, l’intensita` e la durata di queste assenze. Abbiamo visto che la caratteristica dell’infanzia dello psicopatico e` segnata da una situazione di rifiuto. Ora, il rifiuto puo` avvenire secondo due modalita`: una e` la dimensione sadica, violenta, ma che comunque rimane pur sempre un rapporto, quello sadomasochistico per l’appunto; l’altra e` il rifiuto per annullamento delle dimensioni psichiche, ovverosia per una mancanza di riconoscimento dei bisogni, delle esigenze, in una parola del bambino come persona. ` evidente che un bambino che non e` stato E riconosciuto ed accettato, che e` stato continuamente negato ed offeso, non riuscira` a sviluppare nessuna attitudine all’empatia ed al riconoscimento degli altri come persone. A parte il fatto che un tale comportamento degli A.S. stimola nel bambino una carica di odio che non ha alcuna possibilita` di essere elaborata. In questa situazione, possiamo dire che il

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

bambino presenta scarse possibilita` di identificazione o perlomeno puo` identificarsi solo con la dimensione minima di rapporto, che e` quella sadica e violenta nei suoi confronti. Di fronte all’assenza materiale e psichica dell’adulto (e in questi casi si tratta spesso non di un solo genitore, ma di ambedue) non puo` nemmeno identificarsi. All’interno di questa dinamica possiamo dire che il bambino ha molta difficolta` anche a fare quel primo passo verso l’identita`, che e` appunto l’identificazione. Per questo, lo psicopatico oscilla tra una dimensione di distruttivita` sadica ed il nulla. Di qui si comprende l’altra incapacita` dello psicopatico ad apprendere ed utilizzare le esperienze, causa della indefinita coazione a ripetere che lo rende simile ad un automa. Ma soprattutto si comprende il sistematico annullamento che lo psicopatico fa della realta` psichica dell’altro che viene ridotto a puro dato materiale, oggetto che viene preso, se soddisfa un bisogno, o viene distrutto, se intralcia minimamente il cammino dello psicopatico. La dinamica dello psicopatico oscilla, quindi, tra la dimensione sadica, che in fondo rappresenta sempre un minimo di rapporto, e quella dell’annullamento della realta` psichica dell’altro7.

4. Terapia La terapia della personalita` psicopatica e` estremamente difficile, tanto da essere sembrata per un lungo periodo di tempo impossibile. Un motivo importante e` costituito dal fatto che lo psicopatico non ha consapevolezza di malattia ne´

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Queste due dinamiche vengono descritte molto bene nel romanzo A sangue freddo di T. Capote. Perry e` il personaggio che vive una sua conflittualita` , e` quello che, pur avendo avuto una famiglia piu` disorganizzata materialmente, e` piu` strutturato come una nevrosi di carattere. Quando uccide lo fa perche´ crede di rivedere in una sconosciuta famiglia l’antitesi di quella che e` stata la sua, ed ammazza con odio e risentimento: e` il sadomasochista. Dick e` invece quello che pur avendo avuto una famiglia apparentemente piu` ‘‘unita e normale’’ e` invece il vero sociopatico, cioe` quello che ammazza perche´, non possedendo alcuna dimensione psichica, non la vede e non la riconosce negli altri. Egli uccide per non avere fastidi. E` il cinico, indifferente, per il quale uccidere o andare a prendere un caffe` sono due situazioni perfettamente uguali.

esperisce malessere o ansia e quindi non chiede aiuto: e se l’aiuto nonostante tutto gli viene proposto, egli piu` o meno apertamente lo rifiuta. Molti hanno attribuito le difficolta` di ottenere dei cambiamenti nello psicopatico al fatto che ci si trova di fronte ad una struttura congenita e per` inutile qui sottolineare tanto non modificabile. E ancora una volta che in psichiatria congenito e somatico vengono sempre utilizzati come sinonimi di intrasformabile. Ed e` proprio questo connubio che ha fatto sı` che il concetto di non modificabilita` dello psicopatico e l’ipotesi della sua genesi ereditaria si dessero vicendevolmente la mano per rafforzarsi reciprocamente. In questo stesso errore e` caduto Karpman, pur essendosi dedicato per anni alla psicoterapia degli psicopatici: alla fine della terapia e a seconda degli esiti, egli li divideva in sintomatici (guaribili o guariti) ` ed essenziali (cioe` non guaribili o non guariti). E chiaro che lo psicopatico essenziale corrisponde al criminale (o allo psicopatico nato), cioe` a quello che porta con se´ la sua struttura patologica fin dal concepimento. In effetti, gli studi sulle frustrazioni precoci hanno chiarito che l’esito caratteriale del fallimento delle prime situazioni interpersonali infantili puo` essere permanente e non reversibile con la psicoterapia, pur essendo, ovviamente, un dato acquisito: l’acquisito, cioe`, non si identifica sempre con il reversibile. Tuttavia, bisogna distinguere in questo campo cio` che e` difficile da cio` che e` invece impossibile. Per lungo tempo non si e` nemmeno tentata una terapia dello psicopatico, ritenendo il carcere o il riformatorio gli unici strumenti se non di correzione perlomeno di prevenzione: si sa bene, invece, che queste sono situazioni antiterapeutiche per eccellenza. Intorno agli anni ’20-’30 sono iniziati per opera di pionieri i primi tentativi di terapia. Uno dei primi fu quello operato da Aichorn, un ex maestro, che tento` di applicare ai giovani disadattati sistemi pedagogici. In seguito ci furono ulteriori esperienze soprattutto negli Stati Uniti, e da queste risultano dei dati sicuri. Il primo e` che una terapia individuale quasi sempre fallisce e che invece e` necessario attuare delle terapie di gruppo, di solito in situazioni istituzionali: vale a dire e` necessario creare un ambiente che sia total-

La personalita` psicopatica

mente terapeutico ed accogliente. Il secondo e` che il lavoro risulta estremamente complesso, perche´ e` necessario affrontare non solo i vari problemi e conflitti del paziente, ma bisogna ristrutturarne l’intera personalita`. In questo senso, possiamo dire che la psicoterapia dello psicopatico offre le stesse difficolta` di quella praticata a gravi psicotici, con in piu` l’inconveniente dell’aggressivita` e del rifiuto massiccio ed esplicito dello psicopatico. Tenendo conto di queste difficolta`, si e` tentati, e da piu` parti, di intervenire in maniera preventiva, cioe` di iniziare delle terapie a livello infantile e soprattutto adolescenziale. Pioniere in questo campo e` stato Redl con la sua Pioneer House, e la scuola Ortogenetica di Bettelheim. Ambedue le esperienze, e molte di quelle successive, si basano sul concetto cardine che tutto l’ambiente deve essere terapeutico ed inoltre che bisogna aspettare un lungo periodo di tempo, perche´, pur agendo violenze e rifiuti, il caratteriale finisca con lo stabilire un minimo di ‘‘relazione affettuosa’’: a questo punto il bambino avverte la necessita` di cambiare la sua personalita`, almeno in parte, sull’immagine della persona o delle persone che sono cosı` importanti per lui. Egli si identifica con loro, come noi diciamo, e questa identificazione spesso e` il punto di partenza per un’organizzazione della loro personalita`8.

` una strada lunga, non sempre facile, ma che E mostra come sotto questa armatura di violenza e di indifferenza si nascondano la paura, il bisogno d’affetto e la distruttivita`, sentimenti cosı` strettamente amalgamati e diversi che spesso gli stessi soggetti ne sono terrorizzati quando ne cominciano a prendere coscienza. Indipendentemente da qualsiasi considerazione pratica, sul piano umano e scientifico questa e` e rimane l’unica strada da seguire. Strada che non e` certamente quella della bonta` o del missionario, bensı` una strada che tenga conto della realta` psichica del paziente, indipendentemente da quelle che sono le manifestazioni esteriori comportamentali. Qualsiasi altro approccio, invece, non fa che aggiungere violenza alla gia` 8

Bettelheim B., 1970.

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minacciosa distruttivita` dello psicopatico: certe terapie del comportamento non sono meno pericolose e violente della stessa psicopatia. Non mi sembra corretto e di buon gusto mettere sotto la voce terapia certi interventi neurochirurgici, da quelli piu` grossolani (tipo lobotomia) a quelli piu` sofisticati (come interventi stereotassici) che vengono proposti ed eseguiti per il cosiddetto ‘‘controllo dell’aggressivita`’’.

Riferimenti bibliografici Bettelheim B., Love is not Enough, Free Press, Glencoe, 1950. Capote T., A sangue freddo, Garzanti, Milano, 1966. Cleckey H., The Mask of Sanity, Mosby, St. Louis, 1955. Gozzetti G., Tommasi G., «Validita` della concezione di personalita` psicopatica», Psichiatria generale e dell’eta` evolutiva, 16, 1964. Jenkins R. L., «The Psychopathic or Antisocial Personality», The Journal of Mental and Nervous Disease, 131, n. 4, 318, 1960. Karpaman B., «Psychosis with Psychopathic Personality: an Untenable Diagnosis», The Psychiatric Quarterly, 25, 618, 1951. Karpman B., «The Myth of the Psychopathic Personality», American Journal of Psychiatry, 104, 523, 1948. Lalli N., «La personalita` psicopatica», Rivista di Psichiatria, III bis, 831-851, 1968. McCord W., McCord J., Lo psicopatico. Saggio sulla mente criminale, Astrolabio, Roma, 1970. Nacht S., «Causes et me´canismes des de´formations ne´vrotiques du Moi», Revue Franc¸aise de Psychanalyse, 2, 244, 1967. Prichard J. C., Treatise on Insanity, Sherwood G. and Piper, London, 1835. Racamier P. C., «Etude des frustrations pre´coces, effets cliniques», Revue Franc¸aise de Psychanalyse, 576, 1954. Sauguet H., «Ne´vroses de caracte´re. Caracte`res ne´vrotiques», Encyclope´die Medico-Chirurgicale de Psychiatrie, 1964. Schneider K., Psicopatologia clinica, Sansoni, Firenze, 1954.

24 Le perversioni sessuali o parafilie Nicola Lalli Parole chiave perversione; sado masochismo; voyerismo; pedofilia; esibizionismo; desiderio; erotismo; diniego; disumanizzazione

Il concetto di perversione sessuale e` abbastanza complesso, perche´ ci troviamo di fronte ad un disturbo globale della personalita` che non sempre riguarda specificamente il comportamento sessuale. Inoltre, se cerchiamo di definire quale sia il comportamento sessuale “normale”, rischiamo di incorrere o in una rigidita` astratta, oppure in un relativismo tale ove sarebbe difficile discernere il normale dal patologico. Inoltre ben sappiamo che fattori culturali e

sociali possono notevolmente influenzare il concetto di normalita` sessuale. Pertanto ritengo utile proporre, dopo un breve excursus storico, una possibile spiegazione della sessualita` e della sua complessita` per evidenziare quali possono essere gli aspetti patognomonici della perversione e quindi arrivare a descriverne i diversi quadri clinici. * * *

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1. Excursus storico Per un lungo periodo di tempo la perversione e` stata considerata alla luce della morale dominante, soprattutto religiosa, anche se spesso a questo giudizio sfuggirono persone che avevano un ruolo di potere. L’incesto, considerato da sempre una perversione o comunque un delitto, era ritenuto legittimo e addirittura necessario, per esempio, per i faraoni o per gli imperatori maya. Gli imperatori ed i patrizi romani spesso avevano comportamenti gravemente perversi che erano ritenuti perfettamente legittimi all’interno di quella cultura. I primi studi psichiatrici hanno dovuto quindi opporsi ad una definizione della perversione sulla base della morale vigente, considerata la possibilita` di vistose eccezioni; d’altra parte, comportamenti ritenuti dagli occidentali come perversi erano perfettamente normali in altre culture. Tra i tanti citiamo il seguente: nell’Inghilterra vittoriana, se un uomo rimasto vedovo sposava la sorella della moglie defunta, questa unione era considerata alla stregua di un incesto. Modalita` che invece nelle culture contadine e` la regola: e non solo per motivi economici, ma anche per dare una continuita` di cure materne ai figli se questi sono in giovane eta`. Uno dei primi psichiatri ad interessarsi a questo fenomeno patologico fu Pinel, che rimase molto meravigliato dalla evidente mancanza, in soggetti pur con gravi comportamenti perversi, di disturbi dell’intelligenza o del pensiero. Tanto da essere costretto, poiche´ in quei tempi la patologia psichiatrica coincideva quasi sempre con il delirio, a coniare il termine di “mania senza delirio”. Questa spiegazione sommaria aprı` una serie di problemi, non ultimo di tipo medico-legale in ordine alla responsabilita` di coloro che agivano comportamenti perversi quando questi potevano comportare lesioni gravi o la morte. Infatti questi soggetti se erano malati mentali non erano ritenuti colpevoli. Si inizio` cosı` a parlare di follia morale o impulsiva (Esquirol) o di “moral insanity” (Pritchard) o di follia lucida (Tre´lat). Comunque tutte queste denominazioni si ri-

fanno ad una causa unica: l’alterazione del senso morale. Successivamente si cerco` di trovare un substrato piu` oggettivo per questi disturbi, poiche´ il concetto di morale era un ritorno a spiegazioni filosofiche o teologiche e non quindi scientifiche. Dupre´ e Magnan ritennero che questi disturbi fossero dovuti ad una degenerazione costituzionale: si trattava di individui che fin dalla nascita presentavano una alterazione degenerativa della sfera istintuale che era la causa dei comportamenti abnormi. Se queste teorie ebbero il merito di liberare il campo da ipotesi “morali”, ebbero per converso l’effetto di negare completamente gli eventuali aspetti psicologici. Inoltre, essendo il disturbo considerato esclusivamente di natura somatica, era impedito qualsiasi tentativo di terapia. Pertanto alcuni clinici ritennero piu` utile cercare di descrivere minuziosamente il quadro clinico, individuando le diverse forme di perversione. I due autori che maggiormente contribuirono a questo approccio furono sicuramente KraftEbing e Havelock Ellis, che descrissero numerose forme di perversione sottolineando come, in alcune di esse, le manifestazioni sessuali potevano essere poco evidenti. Sul piano storico bisogna ricordare soprattutto il tedesco Kraft-Ebing che conio` i due termini di sadismo e di masochismo avendo riscontrato che queste perversioni erano state ampiamente descritte, in forma romanzata, da de Sade e da Sacher-Masoch: autori che scrissero le loro opere tra la fine del ’700 il primo, e l’inizio del ’900 il secondo. A questo punto si inserisce S. Freud, che nel 1905 pubblica Tre saggi sulla teoria della sessualita` che divenne una specie di Bibbia per gli studiosi che cercheranno di applicare le spiegazioni psicoanalitiche in modo iterativo e spesso acritico. Mentre la storia psicoanalitica praticamente domina il campo, timidi tentativi di spiegazioni diverse vengono fatte dalla psichiatria fenomenologica. L. Binswanger, M. Boss, E. von Gebsattel, si oppongono alla visione freudiana; la perversione

Le perversioni sessuali o parafilie

e` un “modo alterato dell’amore”, una incapacita` di stabilire legami affettivi, una restrizione del campo vitale anche a causa di una forte carica di ostilita`. Negli Stati Uniti prevale, intorno agli anni ’40, la tesi culturalista che vede nelle perversioni una perturbazione dell’adattamento alla vita ed alle regole sociali; oppure i sintomi si ritengono derivanti da un errato apprendimento. Successivamente le perversioni saranno oggetto di indagini statistiche, come ad esempio lo studio di Kinsey. Non possiamo tralasciare di sottolineare che anche i sociologi e gli antropologi si sono occupati di questi disturbi: i primi sottolineando le disfunzioni sociali, i secondi le diverse modalita` di comportamento sessuale, presso tribu` piu` o meno primitive. A questo punto mi sembra utile proporre uno schema psicodinamico che possa dar ragione di questi disturbi in un’ottica piu` ampia, cercando soprattutto di spiegare la sessualita` come un aspetto fondamentale delle relazioni umane.

2. Psicodinamica delle perversioni 2.1. Considerazioni generali In ‘‘Le 120 giornate di Sodoma’’, al Duca che medita sulle difficolta` di comprendere gli uomini, ` proprio vero! L’uomo e` l’amico cosı` risponde: «E un enigma, per questo e` piu` semplice fotterlo che capirlo». Cito questo brano di de Sade sia perche´ evidenzia una delle dinamiche fondamentali della perversione (usare ed umiliare l’altro), sia perche´ segnala che la maggior parte delle descrizioni su questo problema provengono dal mondo letterario. Non che manchi una letteratura scientifica; anzi dal 1905, data di pubblicazione dei Tre saggi sulla teoria sessuale di S. Freud, essa e` aumentata con modalita` esponenziale, anche se con una monotona ripetitivita`, sintomo della difficolta` di comprendere la complessita` delle perversioni: dalla genesi alla psicodinamica, dalla nosografia

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(categoriale, dimensionale, strutturale) alla terapia. Evidentemente ci sono motivi che rendono difficile lo studio e l’approccio dell’universo ‘‘perversione’’. Il primo motivo e` che la maggior parte della letteratura di derivazione psicoanalitica propone iterativamente come chiave di lettura due tematiche: l’angoscia di castrazione e l’invidia del pene. Ma come mai questa preponderanza psicoanalitica e questa “perversa” monotonia? Quando Freud postula l’esistenza di una sessualita` infantile, ha un’intuizione geniale che scade e diventa un falso quando aggiunge che questa sessualita` e` naturalmente polimorfa e perversa. Una volta accettata la concezione freudiana nella sua totalita`, la spiegazione delle perversioni diventa ovvia, direi quasi banale, ma totalmente falsa. Se la normalita` dello sviluppo psichico consiste nel lungo iter che conduce l’uomo dalla primitiva perversita` alla sottomissione della genitalita`, e` ovvio che qualsiasi intralcio in questa progressione diventa punto di fissazione che riemerge, una volta adulti, come comportamento perverso. Angoscia di castrazione-invidia del pene: due chiavi che hanno chiuso la possibilita` di una comprensione, creando l’illusione di una semplicistica spiegazione. Il problema e` quindi alla radice: perche´, se e` vero che la sessualita` e` polimorfa – anzi questa e` la caratteristica della sessualita` umana – aggiungere che e` naturalmente perversa e` falso e confusivo: l’assunzione del paradigma freudiano inficia la maggior parte della letteratura sull’argomento. Inoltre il comportamento sessuale e` notevolmente influenzato da fattori culturali: pertanto il rischio di un “giudizio” di tipo morale rimane sempre presente. Un comportamento giudicato perverso in una cultura, infatti, puo` essere pienamente regolare in un’altra. Inoltre la fantasticheria con contenuti perversi deve essere distinta dal comportamento perverso: e` evidente che il passaggio all’atto presenta dinamiche e motivazioni diverse. Ed infine bisogna ricordare che pazienti con comportamenti perversi raramente si sottopongono a trattamenti psicoterapici; il che rende piu`

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ardua la comprensione del problema la cui descrizione spesso ci deriva molto piu` dalla letteratura (teatro greco, de Sade, van Masoch ecc.), dalla cinematografia o da altre manifestazioni culturali che dalla pratica psicoterapeutica. Perversioni sessuali: sembra un termine ormai desueto, superato, perche´ sostituito da quello piu` neutrale di parafilia. Ritengo utile mantenerlo perche´ il comportamento del cosiddetto parafilico mostra chiaramente che una serie di dinamiche umane fondamentali sono invece profondamente pervertite, anche se non sempre ne e` evidente l’aspetto sessuale. Questa e` la mia prima scelta di campo. La seconda sara` quella di definire chiaramente la cornice teorica di riferimento adoperata nel descrivere la dinamica delle perversioni. Precisazione ineludibile: infatti negli ultimi due decenni la letteratura sulle perversioni si e` enormemente ampliata, soprattutto per merito di alcune psicoterapeute che, utilizzando le proposizioni piu` valide del femminismo, hanno proposto formulazioni nuove ed originali che sono state inserite pero` nel contesto di teorie psicologiche le piu` diverse, senza tener conto della necessaria coerenza tra osservazione e spiegazione. In questo modo la psicoanalisi classica e` stata coniugata con la psicologia dell’Io o con quella delle relazioni oggettuali o del Se´, come se tali formulazioni fossero intercambiabili. Il mio riferimento teorico e` la teoria complementare che tiene in pari conto l’aspetto pulsionale e quello delle relazioni oggettuali e ritiene che lo sviluppo psicologico avviene per crisi ed e` sottoposto al principio dell’epigenesi: in questa teoria, la sessualita` occupa un posto centrale nell’ambito dello sviluppo psichico. Per sessualita` deve intendersi il rapporto d’investimento libidico (quindi fisico e psichico) tra due entita` diverse sul piano sia fisico che psichico: la diversita` per eccellenza e` quella uomo-donna. Ricordo, a chi questa formulazione possa ritenere riduttiva, che la distinzione maschio-femmina e` basilare, primaria e distintiva. Quando si e` in attesa di un bambino, la prima domanda che ci si pone e`: sara` un maschio o una femmina? Suc-

cessivamente si pensera` all’eventuale aspetto fisico, al nome da dargli ecc. Questa e` la mia seconda presa di posizione. Pertanto, anche se sinteticamente, dovro` accennare alla dinamica della sessualita` normale: e` solo rispetto a questa che possiamo connotare le perversioni.

2.2. La sessualita` Fin dalla nascita il bambino possiede una dimensione libidica che lo porta alla ricerca di un oggetto in grado di soddisfare i suoi bisogni fondamentali. Per bisogno intendo una tensione interna che spinge alla ricerca di calore, di contatto, di cibo, di sicurezza, cioe` di tutte quelle caratteristiche omeostatiche del mondo endouterino che egli ha perduto con la nascita. I bisogni nascono quindi dalla vitalita` e dalla spinta alla sopravvivenza, hanno cioe` una genesi biologica che ne determina due caratteristiche fondamentali: non possono essere mediati e non possono essere eccessivamente dilazionati. Il bisogno quindi deve essere soddisfatto ed il soddisfacimento comporta un vissuto di piacere che, come vedremo poi, e` una delle costituenti basilari della sessualita`. Ma il soddisfacimento del bisogno ed il conseguente piacere sono possibili solo all’interno di una relazione interumana valida e soddisfacente, e non possono prescindere da questa. ` la necessita` per l’uomo della relazione inteE rumana a trasformare il bisogno in desiderio. Superato il concetto di un neonato narcisista ed esclusivamente portato alla scarica pulsionale, da oltre un cinquantennio numerosi autori hanno sottolineato non solo l’importanza, ma anche le capacita` del neonato. Wallon, negli anni quaranta, afferma: «Il neonato necessita di assistenza ad ogni ` un essere del quale tutte le reazioni istante. E hanno bisogno di essere completate, compensate, interpretate. Incapace di fare alcunche´ da solo, e` manipolato da altri ed e` nei movimenti degli altri che prenderanno forma i suoi primi atteggiamenti (...). Egli e` essenzialmente sociale. E lo e` non in

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seguito a contingenze esterne, bensı` per un’intima necessita`. Lo e` geneticamente». Negli stessi anni Fairbairn contesta la visione freudiana della tendenza dell’istinto libidico alla scarica ed afferma che invece scopo dell’istinto libidico e` la ricerca dell’oggetto. Nell’ultimo decennio l’infant research ha dimostrato sempre piu` come il neonato gia` dai primi giorni ricerca attivamente un rapporto interumano. Affermazioni certamente significative, ma parziali. Non basta, infatti, un rapporto interumano perche´ il neonato sviluppi le proprie potenzialita`: e` necessario che il rapporto sia soddisfacente. Ma per chiarire il concetto di rapporto soddisfacente dobbiamo fare prima alcune considerazioni. L’istinto libidico e` la spinta a stabilire un rapporto-conoscenza con cio` che e` fuori di noi: in questo senso e` comprensibile che sessualita` e conoscenza sono state spesso identificate. Ma, prima del fuori di noi, c’e` la dinamica intrauterina che non puo` essere negata. Mi sembra opportuno riproporre alcune formulazioni di M. Fagioli, che sottolinea l’importanza dello stadio intrauterino in relazione allo sviluppo istintuale. Il primo “oggetto esterno” e con il quale l’uomo si pone “in rapporto” e` il liquido amnio` pero` evidente la differenza tra il feto e il tico. E neonato, perche´ nel primo la dimensione del “rapporto” deve essere vista alla luce della impossibilita` di distinguere tra psichico e fisico. ` pensabile una situazione nella quale l’es«E sere e l’essere in rapporto sono costituiti in un’unica realta` di rapporto fisico». In altri termini, l’essere dell’uomo inizia gia` nel periodo fetale; caratteristica del feto e` la “vitalita`” che, a differenza della vita, implica una non separazione tra “soggetto” ed “oggetto” e soprattutto la non esistenza di una vita psichica. Questa si costituisce con la nascita, quando, nella separazione dall’utero materno, il neonato deve accettare l’esistenza di una realta` materiale. Si attiva cosı` l’istinto di morte proprio per la presenza di una realta` nuova, che e` quella materiale. Questo cambiamento legato all’evento nascita

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rende il bambino vivo e capace di creare una realta` non materiale, psichica. La fantasia di sparizione verso la realta` materiale vissuta come frustrante porta alla formazione dell’inconscio mare calmo, ricordo della precedente situazione, ormai perduta, ma appunto per questo recuperabile a livello psichico. Con la nascita, quindi, nel bambino si costituisce l’Io che lo rende capace, per la duplice presenza dell’istinto libidico e di morte, di rapportarsi con “la realta` al di fuori di lui” intesa come realta` sia materiale che non materiale, o psichica. Questo breve accenno alla complessita` della nascita serve a comprendere quanto postulato prima come problema centrale per lo sviluppo: la necessita` di un rapporto interumano “soddisfacente”. Il bambino, essendo in grado di capire la differenza tra materiale e psichico, cerca non solo un rapporto fisico-materiale (calore, contatto, cibo ecc.), ma anche una presenza psichica. Questa formulazione esclude qualsiasi possibilita` di considerare il neonato, anche per un solo momento, una macchina o un organismo vivente puramente biologico che ha bisogno solo di realta` materiali per soddisfare i propri bisogni. L’impotenza del bambino, situazione incontestabile, va letta esclusivamente come una potenza in via di attivazione: non come mancanza di capacita`. Proporre la nascita psichica ad un anno o a un mese non cambia nulla: di fatto rimane la negazione delle capacita` “in-potenza” del neonato. Questi cerca un oggetto esterno che sia soddisfacente sul piano materiale e psichico: cerca quindi un soddisfacimento dei propri bisogni, ma presenta anche la capacita` di attesa dell’oggetto soddisfacente. Si costituiscono cosı` due dinamiche fondamentali: il piacere ed il desiderio; si puo` pensare che ben presto, nel gioco degli sguardi reciproci e della reciproca soddisfazione, si costituisca anche la trama della seduzione e dell’erotismo. Si puo` quindi ritenere che il bambino al seno instauri una dinamica relazionale che ha certamente molti punti in comune con il rapporto sessuale; proprio questo collegamento ci permette di evidenziare una peculiarita` della sessualita`,

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cioe` che «...l’intrinseca essenza dell’istinto sessuale non e` univoca». L’istinto sessuale ricerca e si volge sia ad una realta` materiale (il corpo, il latte ecc.), sia ad una realta` non materiale (l’interesse, l’investimento sessuale dell’altro). Il bambino al seno e` in un duplice rapporto: fisico e psichico. Ha bisogno del calore del contatto, ma anche della presenza affettiva dell’altro. La madre che lo sostiene e lo nutre deve essere anche una madre che lo investe libidicamente in un reciproco investimento sessuale: ed in questa reciprocita` troviamo le basi del rapporto sessuale. Il piacere, il desiderio, la seduzione, l’erotismo: la fase dell’attesa e quella dell’esaudimento. S. Freud ha sostenuto che il rilassamento che il bambino mostra alla fine di una poppata e` simile al rilassamento dell’adulto dopo un rapporto sessuale. Ma a questa formulazione, completamente accettabile, manca la sostanziale affermazione di “soddisfacente”. E il soddisfacente e` possibile solo dal momento che c’e` una duplicita` di investimento (madre e bambino) ed una duplicita` di rapporto (materiale e psichico). Solo con questa modalita` il bambino, dopo essersi distaccato dal seno, riesce a separarsi dall’oggetto mantenendo dentro di se´, proprio nel momento dell’assenza del seno, la sensazione del rapporto soddisfacente che diventa ricordo, ed il ricordo contribuisce a stabilizzare una continuita` interna che e` la base dell’identita`. Il bambino puo` ricordare il seno come fonte di un’esperienza soddisfacente (che ha quindi procurato piacere) e creare un seno-ricordo dentro di se´, lasciando che il seno reale continui a persistere nella realta` esterna. La separazione dopo un rapporto soddisfacente implica che la realta` materiale, fonte di soddisfacimento, rimanga all’esterno ed inalterata, mentre il bambino crea dentro di se´ il ricordo che e` trasformazione di una realta` materiale – da cui ci si e` separati – in una realta` psichica. Ma se il rapporto e` insoddisfacente? Se la madre, pur presente ed attenta sul piano mate-

riale, e` psichicamente assente o distratta, cosa succede? La frustrazione del desiderio fa emergere la rabbia e la rabbia porta non a staccarsi – separarsi dal seno, ma a staccare – portar via il seno: ovvero ad introiettarlo. Con una duplice conseguenza. Da una parte il bambino fantastica di aver attaccato-distrutto il seno (che diventa un buco nero); dall’altra il seno viene introiettato e trasformato in oggetto interno deteriorato e persecutorio. Una situazione ripetitiva di frustrazioni comporta sia l’angoscia di non ritrovare piu` l’oggetto esterno, sia la tendenza a creare, al posto del ricordo, un oggetto interno.

2.3. Desiderio – Erotismo – Seduzione Proporre il rapporto del neonato al seno come matrice o prototipo della sessualita` e` certamente giusto, ma comunque riduttivo, anche perche´ questa modalita` di rapporto cambia e si arricchisce nel tempo. Dal primitivo piacere che si basa esclusivamente sul soddisfacimento del bisogno, si passa man mano ad un gioco di sguardi e mutui riconoscimenti che possono essere considerati come inizio della seduzione e dell’erotismo. Sicuramente il bambino al seno, ed in questo il parallelismo con la sessualita` e` valido, e` costretto a misurarsi e rapportarsi con l’oggetto sia sul piano materiale che psichico. Ma mentre il neonato ha bisogno dell’altro sia sul piano materiale che psichico, l’adulto certamente non dovrebbe aver piu` bisogno dell’oggetto materiale, e dovrebbe essere invece alla ricerca di un oggetto psichico che gli permetta anche un rapporto materiale. La sessualita` dell’uomo non e` legata ad un’emergenza interna, perche´ non e` legata ne´ all’estro ne´ alla riproduzione. La sessualita` umana, proprio perche´ si e` liberata da ogni condizionamento biologico, dovrebbe comportare sempre la ricerca di un oggetto esterno diverso che stimoli il soggetto a rapportarsi. Se consideriamo la sessualita` come ricerca attiva di un oggetto diverso, e` evidente che non possiamo concettualizzarla come spinta endo-

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gena, come pulsione interna che, nella scarica, genera piacere: perche´ questa e` la dinamica del bisogno. Pertanto dobbiamo concettualizzare la sessualita` come attrazione, come “tensione verso”. Non spinta endogena, ma ricerca attiva. Ma l’attrazione e` valida solo dal momento che il soggetto e` in grado di recepire la duplice realta` – psichica e materiale – dell’altro: se non c’e` questa capacita`, se la ricerca e` legata solo all’aspetto esteriore (materiale) non puo` esserci desiderio, e quella che viene definita “attrazione fisica” rimane esclusivamente la dinamica del bisogno. Il desiderio, derivando dal mondo interno (psichico) del soggetto e rivolgendosi al mondo interno di un altro che e` altrettanto soggetto e non puro contenitore, si affranca dal biologico per accedere al mondo relazionale e percio` si differenzia dal bisogno: il desiderio, infatti, non finisce mai, non ha la tendenza ad esaurirsi, perche´ non ha come fine la scarica, come accade invece per il bisogno. Postulare il desiderio come dinamica relazionale non vuol dire ridurlo ad un dato “spirituale” disincarnato ed asettico. La genesi originaria, il rapporto madre bambino, che e` anche un rapporto biologico, e la dinamica pulsionale che sottende desiderio e sessualita`, non annullano ma trasformano la base biologica del bisogno e del piacere in una dinamica relazionale e quindi intersoggettiva. Il desiderio quindi si struttura non per il normale soddisfacimento del bisogno, ma sulla base di un rapporto soddisfacente che si ripete e permette, al bambino prima ed all’adulto poi, di potersi separare senza rabbia e senza annullamenti, con il ricordo della situazione vissuta. ` ovvio che se non ci fosse la separazione, si E costituirebbe un legame simbiotico che, non lasciando spazio alla fantasia ed alla creativita`, diventerebbe mortale. La separazione, necessaria ed inevitabile dopo un rapporto soddisfacente, e` stata spesso confusa con la mancanza (Lacan) o l’assenza (Freud), pertanto il desiderio e` stato ritenuto non esaudibile: al massimo poteva essere allucinato (Freud) o restare sempre una mancanza (Lacan).

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Dobbiamo inoltre tener presente che con la crescita e l’evoluzione, il bambino si distacca sempre piu` dall’aver bisogno dell’altro sul piano materiale; pertanto il desiderio diventa sempre piu` “vedente”, cioe` desiderio della “sostanza interna dell’altro”, ovvero delle qualita` e delle dimensioni psichiche valide. Questo non toglie che il desiderio, originatosi da un bisogno primario – quello dell’accudimento – pur nella evoluzione di quel bisogno, ne mantiene le tracce che rimangono una sorta di suo punto debole. Esso rivela sempre l’incompletezza esistenziale dell’essere umano che ha “naturalmente” bisogno dell’altro per esistere e per costituirsi. Il desiderio contrassegna questa specificita` umana: l’importanza dell’altro, la necessita` che ci sia comunque un altro con il quale rapportarsi. Se questa situazione, invece di essere accettata, viene vissuta come “ferita narcisistica”, si puo` giungere a concettualizzare un narcisismo primario come situazione ontologica dell’uomo, o un narcisismo secondario difensivo che spaccia il “non aver bisogno degli altri” come autonomia mentre invece e` solamente annullamento dell’altro. In questa ottica il desiderio sessuale mantiene sicuramente una sua specificita` e, diciamo pure, un maggior grado di rischio. Infatti il desiderio, dal momento che si connota come sessuale, si rivolge contemporaneamente sia all’aspetto fisico che a quello psichico dell’altro e inoltre coinvolge contemporaneamente le dimensioni psichica e somatica del soggetto desiderante, dimensioni che possiamo definire come erotismo e seduzione. L’erotismo e` la complessa costellazione psichica della sessualita`: e` il desiderio sessuale a livello dell’immaginario. La seduzione e` l’espressione comportamentale che deriva dall’erotismo, ma si attiva nella realta` di un rapporto: e` il gioco, l’attesa, il rinvio, la sfida, con cui si segnalano la propria presenza ed il proprio desiderio cercando di attivare nell’altro una dinamica equivalente. Erotismo e seduzione costituiscono un ponte, a volte fragile e sottile, tra due diversita` che si cercano per strutturare una relazione d’intimita` . Il desiderio sessuale quindi si attiva ed ha

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bisogno di fantasia e della presenza dell’altro. La sessualita` umana ha un percorso estremamente complesso: nata originariamente dal bisogno e dalla dipendenza dell’altro, si tramuta sempre piu` in desiderio di rapporto con l’altro e poi tramite l’erotismo e la seduzione, come immaginario e gioco relazionale, giunge al rapporto sessuale. Per giungere alla sessualita` e` necessaria non solo una completa maturazione biologica e psicologica, ma anche il conseguimento di una identita` personale e sessuale. La sessualita` puo` infatti sempre riattivare due bisogni fondamentali: quello fisico (come il poppante al seno) e quello di essere riconosciuto dall’altro, che possono riemergere se non si e` raggiunta una piena maturita` ed identita` sessuale, ma che, una volta riemersi, suscitano angosce molto profonde. Quella di una totale dipendenzafusione con l’altro o quella di non essere riconosciuti, che equivale al vissuto di sentirsi annullati. Il percorso che conduce ad una sessualita` matura e` sicuramente complesso; non e` infrequente che in questo percorso alcune tappe non superate portino alla strutturazione di disturbi vari che vanno dall’inversione alla perversione, dalla caduta del desiderio ad una sessualita` coatta.

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f) 2.4. Sessualita` e sviluppo psichico A partire dal bambino al seno e` evidente che lo sviluppo psichico e` caratterizzato da un sempre minor bisogno degli aspetti materiali rispetto a quelli psichici. Vorrei sintetizzare e sottolineare i punti nodali dello sviluppo psichico e sessuale, perche´ proprio questi saranno pervertiti nelle perversioni. a)

Umanizzazione. Uso questo termine non solo per sottolineare che non basta essere nato da ventre di donna per essere umano; ma anche per contrapporlo al processo inverso, fondamentale per le perversioni, che e` la disumanizzazione. Intendo con umanizzazione la capacita` sempre crescente che ha il bambino non solo di avvertire i propri affetti e le proprie emozioni, ma di intuire che

anche l’altro e` portatore di affetti ed emozioni. Pur nell’inevitabile non uniformita` (a volte imprevedibilita`) degli affetti, l’uomo rimane tale fin quando mantiene questa capacita` di avere e percepire affetti. L’originaria passivita`-dipendenza man mano si trasforma nel gioco del rapporto in compartecipazione: ovvero il bambino sente, pur nell’ovvia diversita` con l’adulto, di avere un Io; non e` quindi oggetto rispetto ad un soggetto, ma riesce a percepire una propria autonomia (frutto delle separazioni) che costituira` la base dell’identita`. Il desiderio, sempre piu` differenziandosi dal bisogno, comporta la possibilita` di differire il raggiungimento del piacere. Il riconoscimento reciproco, che non solo rende consapevoli dell’investimento libidico dell’altro, ma anche soggetti capaci di attivare l’interesse e suscitare nell’altro il desi` questa la dinamica dell’intersoggettiderio. E vita`. La fantasia, che si arricchisce sempre piu` nelle dinamiche continue di rapporto-separazione, comporta una creativita` e una ricchezza di immagini che possono dare luogo a modalita` relazionali sempre nuove e diverse. Il rapporto con l’altro proprio nella mutevolezza, a volte nella imprevedibilita`, si costituisce sempre piu` come rapporto vero e reale.

Il raggiungimento di queste tappe di sviluppo struttura i quattro pilastri della sessualita`: il desiderio, l’erotismo, la seduzione, il piacere. Queste basi della dinamica della sessualita` sono quindi presenti da sempre, mentre per giungere alla dinamica del rapporto sessuale e` necessario che il soggetto raggiunga la piena maturita` biologica e psichica, in altri termini che abbia superato l’ultima fondamentale crisi dello sviluppo, la puberta`, che lo portera` a conseguire una piena e totale identita`, anche sessuale. Uno schema di questo tipo puo` sembrare semplicistico ed idilliaco: perche´ la sessualita` genera tanto timore e perche´ spesso devia verso forme piu` o meno gravi di patologia? Prima di rispondere, devo aggiungere che

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questi quattro pilastri poggiano su di una piattaforma che e` la trasgressione. Non quella banale e coatta che crede di sovvertire l’ordine costituito con performance strane o con modalita` provocatorie: ma la vera sessualita` e` costitutivamente trasgressiva. Sia perche´ si e` dovuta porre “contro natura” dal momento che si e` liberata completamente dall’estro e dal dovere della procreazione, sia perche´ e` legata all’erotismo e l’erotismo, come fantasia e creativita`, implica sempre un continuo superamento: ed il superamento e la novita` possono essere vissuti come trasgressione, se la ripetitivita` e` la norma.

che, non risolti o fortemente traumatizzati, tendono a costituire la patologia delle perversioni, patologia molto grave e da molti Autori considerata come difesa contro il timore di un crollo psicotico. a)

2.5. Psicodinamica della perversione La distinzione tra fantasia, desiderio e dinamica relazionale ci permette di evidenziare tre patologie spesso considerate come modalita` normali della sessualita`. La pornografia, che rappresenta un deficit piu` o meno totale della fantasia e del desiderio, cioe` dell’erotismo; la masturbazione, che, nell’evitare il gioco relazionale, di fatto elimina l’altro riempiendo il vuoto di fantasticherie masturbatorie; infine la prostituzione. Non la prostituta, ma il cliente: chi e` questo sconosciuto che, soprattutto quando diventa cliente abituale, mostra tutta intera la propria patologia del bisogno di essere oggetto di desiderio? C’e` una mancanza originaria di autostima e di identita` sessuale che spinge il cliente a fantasticare che una sconosciuta, che per la specifica attivita` sessuale viene identificata con la Donna, possa provare desiderio nei suoi confronti. Come si evidenzia dalla frequente fantasticheria da parte del cliente di far innamorare la prostituta. Spesso l’aspetto cosciente del disprezzo e` una formazione reattiva per nascondere questa fantasticheria. E, con questa apparente deviazione del percorso, giungiamo alle perversioni sessuali. Le perversioni non sono il negativo, come osservava Freud, delle psiconevrosi bensı` il negativo della normalita`. A questo punto, molto specularmente elenchero` brevemente i punti nodali dello sviluppo

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` una strategia difensiva Disumanizzazione. E estrema che il bambino attua quando si trova, solo e passivo, a confrontarsi con due situazioni di rapporto: una madre ostile e spesso seduttiva (Giocasta) o una madre fredda ed impenetrabile, una bambola meccanica (Ottavia). Il bambino vive una spaventosa passivita` nei confronti di una madre recepita come ostile, violenta e soprattutto imprevedibile: e di fronte a questa esperienza traumatica attua una strategia che comporta la negazione o il diniego delle dimensioni umane. Secondo Arnold Cooper, il bambino attuerebbe tre specifiche fantasticherie. Lei non esiste, e` solo un essere meccanico. Lei non puo` farmi del male, perche´ sono io un essere meccanico e quindi non provo dolore. Io non sono totalmente passivo, ma anzi trionfo su questa situazione: lei sta eseguendo i miei ordini e quindi ne provo piacere. Questa dinamica rispecchia uno stato estremo di vuoto e questo vuoto si riempie di odio e di oggetti interni sadici e persecutori. Stoller, Khan, Cooper ritengono che, in effetti, quello che noi vediamo in ogni perversione e` l’interposizione di caratteristiche non umane all’interno di una relazione che dovrebbe essere invece di affettivita` e intimita`: puo` essere l’oggetto feticistico, una routine rigida non soggetta ad influenze emotive, il ridurre l’altro ad oggetto e soprattutto l’ostilita` piu` totale, anche se spesso camuffata. E per questo che Stoller definisce la perversione come l’erotizzazione dell’odio. Quella che ho definito come modalita` di compartecipazione (pur nella diversita`), diventa invece oggettivazione dell’altro. C’e` un attivo ed un passivo, non due soggetti. In effetti il sadico mette in atto il copione che gli viene fornito dal masochista:

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pertanto e` impossibile definire chi e` il soggetto e chi l’oggetto, perche´ sono ambedue oggetti di un copione prestabilito e fisso. Il desiderio non emerge; rimangono esclusivamente la dinamica del bisogno con l’incapacita` di differire: infatti la compulsivita` e` un tratto fondamentale di molte perversioni (esibizionismo, voyerismo, ecc.). La mancanza di un riconoscimento primario comporta o l’eliminazione dell’altro o un copione ripetitivo ove il riconoscimento viene imposto e forzato. La mancanza di fantasia (cioe` di erotismo), comporta la ripetitivita`, mentre la seduzione diventa sempre inganno. Il piacere non e` raggiungimento-compimento di un iter di ricerca, ma e` esclusivamente legato alla diminuzione o alla momentanea scomparsa dell’angoscia. Viene a cadere qualsiasi dimensione di rapporto vero e reale che e` sostituito sempre da un tratto specifico della perversione: la teatralita`.

Le perversioni possono essere lette come pezzi di copioni fissi e rigidi che vengono recitati, ma lasciano comunque trasparire una realta` piu` latente che la messa in scena tenderebbe a coprire. Infatti l’apparente modalita` sessuale serve a coprire le tendenze distruttive. La ricerca dell’altro avviene non per incontrarlo, ma per eliminarlo. Queste dinamiche variamente interagenti possono esplicitarsi a livello di una dinamica duale (sado-masochismo, pedofilia) o di una dinamica masturbatoria (esibizionismo, voyerismo, feticismo, travestitismo). Qualunque sia la modalita` agita, quello che rimane fondamentale e` che, nella perversione, la sessualita` rappresenta la copertura per umiliare– eliminare l’altro o per renderlo feticcio.

2.6. Conclusioni In questo lavoro mi sono limitato a sottolineare gli aspetti salienti che strutturano la perversione: si tratta di una descrizione in parte feno-

menologica e in parte psicodinamica. Inoltre, volutamente non sono entrato nella specificita`, delle varie forme della perversione, soprattutto perche´ sono interessato in questa sede ad evidenziare le cause che hanno comportato l’incomprensione del fenomeno. L’impossibilita` di comprendere questo fenomeno e` legata alla apparente spiegazione datane dalla psicoanalisi. S. Freud, affermando che le psiconevrosi rappresentano il negativo delle perversioni, ritenne che il meccanismo fondamentale delle perversioni fosse il diniego (Verleugnung); un meccanismo, quindi, profondamente diverso, potremmo dire quasi opposto, a quello tipico delle psiconevrosi che e` la rimozione (Verdra¨ngung). Il termine, che potrebbe essere tradotto anche come “rinnegamento”, e` utilizzato da Freud per indicare il rifiuto di accettare una percezione traumatica. Secondo Freud il prototipo di questo diniego, quindi perfettamente normale e fisiologico, e` presente nella bambina che, non accettando la mancanza del pene, crede che questo sia molto piccolo e poi crescera`. In questo modo, secondo S. Freud, «...cerca di appianare la contraddizione fra l’osservazione e la convinzione preconcetta, col pensiero che esso e` ancora piccolo e poi crescera`, giungendo a poco a poco alla conclusione – affettivamente importante – che se non altro il pene prima c’era e poi e` stato asportato (...). La bambina rifiuta di accettare il dato di fatto della propria evirazione, si ostina nella convinzione di possedere un pene, ed e` costretta in seguito a comportarsi come se fosse un maschio».

Ma qualcosa di analogo succede al bambino alla vista della bambina che “non possiede il pene”. Di fronte a questa esperienza, traumatica perche´ gli attiva l’angoscia di poter essere castrato, il bambino si appoggia ad un “feticcio”, ovvero ad un oggetto sostitutivo del pene mancante, oggetto che lo ha particolarmente colpito «prima dell’esperienza traumatica e verso cui esprime tenerezza ed ostilita`: indizio di una scissione dell’Io». Quindi mentre nella bambina il diniego comporterebbe una vera e propria allucinazione, que-

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sto non accade nel bambino perche´, mediante il feticcio, riuscirebbe ad alterare non la rappresentazione della realta`, ma solo il senso di quello che vede. Quindi il diniego della diversita` sessuale sarebbe un processo normale e fisiologico o comunque inevitabile e necessario: ma, se questo diniego e` fisiologico nell’infanzia, aggiunge Freud, ovviamente e` estremamente patologico nell’eta` adulta, perche´ il diniego e` il meccanismo di base della psicosi. Successivamente M. Klein sosterra` che invece il diniego avviene in un’epoca molto precoce. «Cio` vuol dire che prima di ogni altra cosa il diniego riguarda la propria realta` psichica: solo dopo di cio` l’Io puo` procedere a denegare qualita`, piu` o meno rilevanti, di realta`». Quindi quel meccanismo psicotico, che per Freud e` applicabile solo in presenza di una traumatica visione della differenza sessuale (e che nel maschietto e` parzialmente recuperato con il feticcio), per la Klein e` costitutivo dello sviluppo psichico. Risulta pertanto evidente che se Freud con la sua teorizzazione finiva con l’asserire, ma non apertamente, che la donna era piu` psicotica dell’uomo, per la Klein invece c’e` una parita` assoluta: sono tutti e due, e fin dai primi mesi, gravemente psicotici. Il diniego e` quindi un meccanismo difensivo estremamente pericoloso, perche´ comporta un non riconoscimento della realta` o del senso della realta`: non a caso Freud lo pone come base delle psicosi. Inoltre va tenuto presente che il diniego comporta necessariamente una scissione (Spaltung) e, per essere piu` precisi, una scissione dell’Io (Ichspaltung) che pertanto sarebbe costitutiva del normale sviluppo psichico. Questa concezione verra` ripresa, piu` o meno ampliata, dagli autori successivi, ma l’impronta rimane sostanzialmente invariata. ` comprensibile che, con questa teorizzaE zione, la perversione sia facilmente spiegabile: naturalmente presente nel bambino, questi, se non si sottomette al primato della genitalita` e a quello dell’identificazione con i valori morali (Super-Io), rimane naturalmente perverso. Risulta molto chiaro, al di la` di considerazioni

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sulla proponibilita` di una tale concettualizzazione, che la perversione viene letta ancora alla luce di valori morali: in altri termini il perverso e` un soggetto con scarso controllo morale. Il che ci fa pensare che non siano stati compiuti grandi passi dalla teorizzazione precedente che spiegava la perversione come amoralita` e degenerazione. Ma per sottolineare ulteriormente come l’impianto di Freud sia sostanzialmente immodificato in autori anche piu` recenti, mi sembra paradigmatica la teoria di D. Meltzer. Questi ritiene, ed e` condivisibile, che le perversioni agite siano gravi patologie molto vicine alla psicosi, anzi un tentativo di difesa, tramite l’agito, dall’angoscia di una rottura psicotica. Per dare una spiegazione piu` esauriente, Meltzer si rifa` al caso Schreber. Egli sostiene che il sistema delirante di Schreber nasce in parte dal meccanismo di diniego della realta`, dall’altra da un tentativo, tramite il sistema delirante, di autoterapia. Schreber, con il suo sistema megalomanico, dopo aver “rinnegato” la realta` “vuole creare all’inferno un mondo migliore del paradiso”. Meltzer paragona l’iter del perverso a quello del delirio di Schreber: dopo aver rinnegato la realta`, il perverso tenderebbe a creare uno scenario (la sua perversione agita) che sarebbe, secondo lui, migliore della realta` e della sessualita` normale. «Egli e` tranquillamente arrogante e superiore e la sua vita nel mondo sociale tende a mantenere un’aria di apparente normalita` ed adattamento, che gli permette di lasciarsi andare alla sua perversione, senza interferenze».

Questa e` per Meltzer la chiave esplicativa di un particolare atteggiamento del perverso: l’arroganza, che gli permette di evitare sia l’ansia del nevrotico che l’angoscia dello psicotico; In rapida sintesi ho riproposto le dinamiche fondanti la perversione, secondo la psicoanalisi: diniego, angoscia di castrazione, invidia del pene. Ma questa apparente semplicita` comporta la totale incomprensibilita` di un fenomeno complesso quale e` la perversione. La psicodinamica delle perversioni non e` facilmente riducibile a schemi fissi, anche perche´

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forse non tutte le perversioni hanno una uguale psicodinamica. La distinzione posta tra avere fantasticherie perverse e agire queste fantasticherie sicuramente e` collegata non solo ad una capacita` di maggiore o minore controllo, ma forse anche ad una costellazione psicopatologica piu` complessa. Se le fantasticherie possono rimandare ad una struttura bordeline, l’agito invece rimanda ad una struttura di personalita` sicuramente piu` grave e piu` disturbata. ` molto probabile che il perverso che agisce E ha molti punti in comune con il tossicomane, e che l’agire possa avere la stessa funzione dell’assunzione della droga: il tentativo di limitare una crisi di angoscia destrutturante. Inoltre anche la distinzione tra le fantasticherie agite da soli, che rimandano ad una dinamica masturbatoria, e quelle invece agite all’interno di un rapporto, che sicuramente rappresentano una patologia piu` grave, deve corrispondere ad una dinamica diversa. Cio` non toglie che alcuni tratti ed alcune dinamiche fondamentali possono essere evidenziati con sicurezza: ed e` quello che ho cercato di proporre sulla scorta degli studi piu` recenti. E dai lavori piu` recenti risulta evidente che la genesi delle perversioni e` ascrivibile a dinamiche interpersonali molto precoci, caratterizzate dalla interazione con una madre o seduttiva-manipolativa che usa il figlio come feticcio, o indifferente che copre queste dimensioni ostili-distruttive con atteggiamenti pseudo-seduttivi.

3. La clinica Cerchero` di descrivere gli aspetti fondamentali delle principali perversioni, sottolineando che anche se il comportamento piu` evidentemente disturbato riguarda la sessualita`, si tratta sempre di un disturbo psicopatologico che investe la globalita` dell’individuo. 3.1. Esibizionismo L’esibizionismo e` una parafilia prevalentemente maschile, caratterizzata da impulsi e com-

portamenti che, accompagnati da intensi stimoli sessuali, comportano l’esposizione degli organi genitali ad un estraneo. Il desiderio di esibirsi puo` a volte essere vissuto come inaccettabile, ma imporsi nonostante i tentativi intrapresi per respingerlo. L’atto esibizionistico puo` essere accompagnato da pratiche onanistiche. Rari i tentativi di una ulteriore attivita` o pratica sessuale con la vittima. Il piacere di mostrarsi e` legato al desiderio di intimorire l’altro, oppure alla fantasticheria, sessualmente eccitante, di provocare nella vittima il medesimo stimolo sessuale. La comparsa del comportamento esibizionistico avviene intorno ai 18 anni. Per Stoller l’esibizionista e` un individuo che si e` sempe sentito umiliato dalle donne, e che si vendica di questa umiliazione scioccando delle sconosciute con il suo comportamento. Pertanto, piu` che una angoscia di castrazione, per Stoller questi individui hanno una profonda insicurezza della loro identita` sessuale. Comunque l’atto esibizionistico e` vissuto come un’aggressione, come dimostrano la frequenza dei sensi di colpa e l’inconscia tendenza ad essere puniti: infatti l’esibizionista ritorna spesso sul “luogo del delitto” il che lo rende, a volte, facilmente identificabile. Ho detto che l’esibizionismo e` piu` frequente nell’uomo: la verita` e` che nella donna l’esibizionismo e` piu` coperto e soprattutto culturalmente accettato.

3.2. Feticismo Il feticismo e` una parafilia caratterizzata da fantasticherie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti ed eccitanti sessualmente, provocati da oggetti inanimati (feticci), quali: reggiseni, calze, mutande, stivali o qualsiasi altro accessorio, femminile o maschile. Spesso il soggetto raggiunge il piacere sessuale attraverso pratiche onanistiche, mentre indossa, si strofina ed odora il feticcio. Puo`, inoltre, chiedere al partner di utilizzarlo durante gli incontri sessuali.

Le perversioni sessuali o parafilie

Il feticismo esordisce durante l’adolescenza, ma una volta instauratosi puo` essere cronico. Il feticista, una volta in possesso del feticcio, non ha bisogno di avere una relazione con l’altro, in quanto l’oggetto inanimato non ha desideri, interessi, non cambia, ma resta a disposizione e soprattutto non e` imprevedibile. Questo tipo di ‘‘rapporto’’ prevede un legame in cui solo uno degli interessati puo` avere desideri, aspirazioni ed interessi, l’altro puo` solamente trovarsi in armonia con i suoi sentimenti. Non e` necessaria una verifica costante della realta`, ma soprattutto non occorre conquistare l’altro. Ovviamente ogni singolo oggetto preso come feticcio ha un valore simbolico per il paziente: come puo` evidenziarsi soprattutto nei casi ove questi pazienti si sottopongono ad una psicoterapia. Per Kohut il feticismo e` legato ad una grave angoscia riguardo alla perdita del senso di Se´: e l’oggetto feticcio potrebbe avere un effetto rassicurante. Ancora una volta la maggior parte degli Autori continua a considerare questa perversione come appannaggio del sesso maschile. Invece il feticismo e` molto frequente nella donna, solo che e` mascherato ed avviene con modalita` che sono socialmente e culturalmente accettate. Non bisogna dimenticare che la forma piu` grave di feticismo nelle donne e` quella di considerare il figlio come un feticcio, che, seppur vivente, viene vissuto con le stesse modalita` di qualsiasi rapporto feticistico: il bambino come equivalente di una bambola.

3.3. Pedofilia Anche se questo comportamento anomalo sembra essere emerso in questi ultimi anni, in verita` la pedofilia e` una delle perversioni piu` antiche e piu` frequenti rimasta spesso celata o perche´ consumata nel segreto di famiglie collusive a volte francamente psicotiche, o perche´ i ricatti e le minacce anche gravi fatti al bambino lo hanno da sempre costretto a tacere. La manifestazione essenziale e` costituita da fantasticherie e/o comportamenti sessuali attivi

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con bambini molto piccoli (2-3 anni) o al massimo in eta` prepuberale: la scelta puo` essere specifica sia per eta` che per sesso, o invece aspecifica. I pedofili presentano un’ampia gamma di comportamenti nei confronti delle vittime. Dal guardarli e fotografarli (ma in questo caso sembra trattarsi di una forma particolare di vojerismo) a comportamenti anche molto gravi e lesivi, ove per lesivita` ci riferiamo al piano somatico, perche´ comunque il trauma sul piano psicologico e` sempre presente. Alcuni pedofili si limitano a spogliare i bambini per poi esibirsi e masturbarsi, oppure pretendono una fellatio, per giungere fino ad atti di penetrazione (anale o vaginale). A volte questi comportamenti possono, spesso anche per timore di essere scoperti, portare all’uccisione della vittima. Molto spesso i pedofili, una volta scoperti ed identificati, cercano di razionalizzare questo loro comportamento asserendo che il loro e` un “gesto di amore” o addirittura “educativo”, quando non affermano che e` stato il bambino (o la bambina) a provocarli. Alcuni pedofili riescono a costruirsi una rudimentale filosofia ove, mescolando usanze e costumi di altre culture (compresa l’antica Grecia ed i Romani antichi) con proposizioni pedagogiche, cercano di dimostrare non solo la liceita` del loro comportamento, ma addirittura la superiorita`. Altri invece vivono queste loro tendenze, che non mettono in atto o che limitano ad atteggiamenti di tipo vojeristico, con profondi sensi di colpa. Pertanto e` necessario distinguere perlomeno due varianti della pedofilia: distinzione importante non solo sul piano preventivo, ma anche su quello prognostico; sono i secondi infatti che a volte chiedono una terapia. Le motivazioni del comportamento pedofilo sono numerose e complesse. In genere essi presentano un disturbo grave della propria identita` sessuale ed una carenza della propria autostima. In questo senso l’attivita` sessuale con bambini puo` gratificarli e puntellare la loro fragile struttura caratteriale. Non e` un caso che molto spesso i pedofili scelgono professioni ove non solo e`

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possibile incontrare e frequentare bambini, ma ove soprattutto il loro ruolo puo` attivare nel bambino una risposta idealizzante che e` sfruttata dal pedofilo per mantenere in equilibrio una propria identita` fragile o spesso francamente psicotica. Un’altra motivazione importante puo` essere una grave angoscia per l’invecchiamento e la morte, che il pedofilo cerca inutilmente di esorcizzare con la fantasticheria di impossessarsi della vitalita` e della giovinezza della vittima. Infine non bisogna dimenticare che spesso un pedofilo e` stato anche lui, da bambino, vittima di abusi sessuali. Per cui il “bambino abusato”, una volta adulto, puo`, cercare di vivere un senso di rivincita e di trionfo sul proprio passato traumatico. Comunque la pedofilia presenta una caratteristica peculiare rispetto alle altre perversioni: l’aspetto compulsivo e` sostituito invece da un progetto lucido che viene perseguito a volte con fredda determinazione. Come il conquistare o sposare una donna sola, che ha bambini piccoli che diventeranno le future vittime: oppure adottare o importare bambini da paesi estremamente poveri, ove i genitori spesso tendono a “vendere” i loro figli. Il problema “pedofilia”, in qualche modo, puo` diventare ancora piu` grave quando viene commesso all’interno della propria famiglia, per cui alla pedofilia si unisce l’incesto. Sono situazioni non infrequenti, che sicuramente si svolgono all’interno di famiglie gravemente disturbate sul piano psicopatologico: in questi casi il comportamento incestuoso e` condiviso e conosciuto dall’altro partner. A volte invece e` determinato da una intensa ostilita` nei confronti del partner, ed il comportamento violento sul bambino e` uno spostamento dell’aggressivita` nei confronti del partner. In questi casi il genitore perverso puo` presentarsi ai figli come una vittima dell’incomprensione o della ostilita` del partner e indirettamente chiedere aiuto al bambino che dovrebbe sostituirsi al partner frustrante. Comunque non va dimenticato che spesso, soprattutto in situazioni di separazioni coniugali

traumatiche, l’accusa di comportamenti perversi puo` essere utilizzata come arma d’accusa e di ricatto verso il coniuge. In questi casi occorre una attenta valutazione dei fatti e delle strutture caratteriali dei genitori per evitare che un genitore possa essere accusato ingiustamente di pedofilia, ma che risulta essere una tragica vendetta. Dico tragica, perche´ coinvolge non solo il genitore costretto a difendersi ma anche il bambino, che spesso e` trascinato in una serie estenuante di esami ed interrogatori che possono alterare gravemente la sua struttura caratteriale. Anche per la pedofilia vale il discorso fatto per altre perversioni: si ritiene in genere che il pedofilo sia di sesso maschile. Sicuramente questo e` vero soprattutto nei casi ove la perversione si unisce al sadismo; ma si dimentica troppo spesso come alcune madri utilizzino una seduttivita` cosı` marcata nei confronti dei loro figli maschi, da rientrare nell’ambito dell’incesto e della pedofilia.

3.4. Voyerismo Il voyerismo e` una perversione nella quale l’eccitazione sessuale e` raggiunta osservando persone, estranee e ignare, impegnate in attivita` sessuali. Solitamente l’atto perverso non e` accompagnato da attivita` sessuale con la vittima. L’orgasmo viene raggiunto con la masturbazione. L’esordio e` intorno ai 15 anni. Il decorso tende ad essere cronico. Secondo O. Fenichel, ci sarebbe un vissuto traumatico rispetto alla scena primaria: il soggetto tenderebbe a padroneggiare quella situazione traumatica, diventando da oggetto passivo un soggetto attivo. Non bisogna sottovalutare che l’aspetto principale del voyerismo e` un controllo onnipotente su di una situazione sessuale: controllo che viene gestito attraverso l’anonimato. Il voyerista spesso vive il guardare, senza essere visto, come una azione violenta ed onnipotente, e probabilmente questo gli procura una eccitazione che lo porta spesso a masturbarsi.

Le perversioni sessuali o parafilie

3.5. Sado-Masochismo La relazione sado-masochista basata sul controllo e la sottomissione e` molto frequente, ma non sempre esita in un chiaro comportamento patologico. Quando questo succede, anche se le modalita` possono sembrare molto varie e diverse, in effetti ci si accorge che c’e` la ripetizione statica di un copione ove non sempre e` facile distinguere il violentatore dal violentato. Infatti, ricalcando la nota dinamica del servo e del padrone, descritta da F.G. Hegel, nel sado-masochismo si evidenzia lo stretto legame simmetrico ed il bisogno reciproco l’uno dell’altro. E quando, apparentemente, il sadico sembra essere la figura dominante, non si deve dimenticare che molto spesso il copione e` stato invece proposto, a volte imposto, dal masochista. Complessivamente possiamo affermare che il sado-masochismo e` una dinamica ove un apparente piacere sessuale e` raggiunto attraverso una reale sofferenza, mediata dalla violenza. In questo senso possiamo ritenere che spesso la dinamica sado-masochista e` presente in numerose psicopatologie senza configurarsi come una forma conclamata di perversione. Parliamo di perversione solo quando i comportamenti sadomasochistici tendono ad essere ripetitivi e soprattutto sono quasi esclusivamente l’unica modalita` di vivere la sessualita`. Pertanto e` necessario definire quali sono i comportamenti specifici della perversione. Gli atti masochistici comportano l’essere legati, fustigati o percossi, ma e` fondamentale che tutto questo sia vissuto in una situazione di umiliazione. Non e` infrequente la fustigazione, l’essere costretti a comportarsi come bambini, camminare a quattro zampe ecc. Quasi sempre il tutto si esaurisce con una eccitazione a cui puo` seguire la masturbazione: molto piu` raramente un rapporto sessuale. Poiche´ il masochista non sempre trova un partner disposto a fare da sadico, spesso, soprattutto se e` di sesso maschile, si rivolge a delle prostitute che sono dotate di un ricco armamentario sado-masochista ed ovviamente eseguono di

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buon grado queste prestazioni, anche perche´ il cliente, da buon masochista, e` disposto a pagare cifre esose. Antitetico e speculare e` il comportamento del sadico, che spesso ha invece fantasticherie gravemente lesive e distruttive verso il partner. Non e` infrequente che in questi rapporti si arrivi ad una forma definita “ipossifilia” che consiste in una deprivazione di ossigeno piu` o meno prolungata, ottenuta con un laccio intorno al collo, con un sacchetto di plastica, con una finta impiccagione: in alcuni casi, anche se non deliberatamente, ma per calcoli errati o per sopravvenute complicazioni, il soggetto puo` morire soffocato. La spiegazione di questa perversione e` piuttosto complessa. Sicuramente questo comportamento puo` essere utilizzato per combattere una forte angoscia mediante una azione che anticipi, quasi per gioco, e renda possibile controllare un evento vissuto come pericoloso e fortemente lesivo. «Nello stesso modo che alcuni sadici torturano gli altri per negare l’idea di poter essere loro stessi torturati, i masochisti si torturano (o organizzano il modo di farsi torturare con piani e regole dettati da loro stessi) per escludere la possibilita` di essere torturati in maniera e in grado inaspettati» (O. Fenichel). Ma questa trasformazione di passivo in attivo e` solo una parte della complessita`. Sicuramente il sado-masochista, come in tutte le perversioni, presenta una grave carenza dell’Io e forti tendenze ostili-distruttive, e pertanto e` costretto a giocare una sorta di recita per evitare una relazione che comporti un minimo di partecipazione. Alcuni AA. ritengono che spesso il sadomasochismo e` una difesa ed un tentativo di riparazione nei confronti di una grave perdita o mancanza affettiva. «Da questo punto di vista il rapporto sadomasochistico viene visto come una sorta di lutto negato, un ripetuto tentativo di rifiutare la perdita o di riparare ad essa nella fantasia, che non conduce ad alcuna soluzione perche´, in qualche parte della psiche, la perdita continua ad essere ripudiata» (S. Bach). In effetti questo lutto non elaborato e` spesso la copertura di una situazione piu` traumatica: un

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costante rifiuto da parte dell’A.S. subı`to da bambini induce questi soggetti a pensare che non ci sia nessuno da amare e nessuno da cui essere amati. Pertanto l’unica possibilita` resta quella di mettere in scena questi fantasmi ostili-persecutori, senza che sia possibile, nella iterativita` compulsiva, alcuna elaborazione. Un paziente perverso, a proposito della madre, affermava: «Era sempre assente in mia presenza». Ma proprio questa indifferenza dell’adulto rende impossibile al bambino operare una separazione, e se questa avviene e` vissuta con una rabbia tale da suscitare intensi sensi di colpa. «Sono esattamente tali dolorosi distacchi cio` che il sadomasochista non e` in grado di tollerare, poiche´ percepisce la sua rabbia come una separazione insopportabilmente distruttiva dell’oggetto. Il dolore provocato dalla sofferenza subita e` una difesa contro il piu` grande dolore della perdita... Il sadico capovolge la situazione e, in preda ad una sorta di attacco d’ira, gioca a distruggere l’oggetto per raggiungere il piacere, ma in realta` il gioco e` falso, poiche´ nella complicita` delle perversioni e` raro che l’oggetto venga distrutto, mentre il piacere della gratificazione ottenuta mediante la scarica pulsionale sopraffa` solo momentaneamente il dolore della separazione... Il sadico, dunque, nega i bisogni del suo oggetto sopravalutando l’importanza della propria scarica pulsionale, mentre il masochista nega i propri bisogni pulsionali enfatizzando, oltre misura, l’importanza dei propri attaccamenti oggettuali» (S. Bach). Comunque, continua l’Autore, «...cosı`, proprio come un terrorista politico esiliato dal suo paese natale, il sadomasochista impiega i suoi giorni nella fantasia di riguadagnare un paradiso perduto che, di fatto, non e` mai esistito, rifiutando al tempo stesso il compromesso, forse praticabile, di vivere nel mondo reale».

3.6. Travestitismo Il travestitismo e` una parafilia caratterizzata dal desiderio di indossare abiti del sesso opposto. Di solito il maschio affetto da questa parafilia

fa collezione di indumenti femminili con i quali, di tanto in tanto, si traveste. Cosı` travestito, di solito si masturba, immaginando di essere sia il maschio soggetto che la femmina oggetto della sua fantasia sessuale. In altri casi l’anomalia del comportamento puo` manifestarsi con la tendenza ad indossare abiti o biancheria intima femminile sotto i propri abiti maschili. A volte invece si arriva al travestitismo permanente che spesso e` l’indizio di una omosessualita` che si rende esplicita anche nell’atteggiamento. ` una patologia sicuramente predominante E negli uomini: pertanto alcuni autori ritengono che la causa risiede nello specifico bisogno che ha il bambino maschio di identificarsi con la madre per evitare un’angoscia di abbandono, soprattutto nei confronti di una madre assente e anaffettiva. La consapevolezza, da parte del bambino, della diversita` sessuale tra lui e la madre lo porterebbe a camuffare questa differenza perche´ ritenuta causa della non accettazione. ` evidente che questa problematica puo` esE sere meno evidente ed importante per la bambina.

4. Diagnosi differenziale In genere, se il comportamento perverso e` ripetitivo, non e` difficile porre una diagnosi. Bisogna tener presente che quasi sempre la diagnosi viene richiesta per motivi legati ad un esame peritale piu` che per una ricerca d’aiuto da parte del parafilico. Ed e` quindi piuttosto difficile che il periziando sia sincero e disposto a parlare dei propri comportamenti devianti. Nei casi ove il comportamento e` troppo disinibito o avviene senza alcuna precauzione e` da pensare ad una diagnosi differenziale con un ritardo mentale o con un processo di tipo schizofrenico. Dopo i 50 anni, se non ci sono precedenti anamnestici, un dubbio diagnostico deve essere posto nei confronti di un processo organico (tumore cerebrale o demenza). Comunque, piu` che porre una specifica dia-

Le perversioni sessuali o parafilie

gnosi e` importante definire quanto ed in che modo il comportamento parafilico incida sull’esistenza dell’individuo. Infatti, a volte comportamenti perversi possono emergere in situazioni particolarmente stressanti. In altri invece le fantasticherie e soprattutto il passaggio all’atto possono essere piu` o meno continuativi tali che la vita del paziente ruota intorno alla perversione. Anche se in genere le perversioni sono spesso egosintoniche, a volte la compulsivita` puo` generare angoscia, soprattutto a causa del timore di eventuali denunce. Un problema importante e`, per alcune di queste patologie, discernere se non sono invece forme camuffate di omosessualita`. Questo vale soprattutto per il travestitismo: in alcuni casi di travestitismo, infatti, ci troviamo di fronte a uomini con forti tendenze omosessuali nei quali il travestitismo ha il solo scopo di attrarre un partner maschile. In altri casi invece ci possiamo trovare di fronte a casi di travestitismo vero: soggetti che, pur avendo caratteristiche psicologiche di un sesso, presentano una identita` di genere opposto. Sono persone che presentano spesso un alto livello di sofferenza e che cercano disperatamente un intervento chirurgico che trasformi i loro caratteri sessuali primari e secondari in caratteri del sesso opposto al quale emotivamente si sentono di appartenere: in genere sono casi abbastanza rari.

5. La terapia I soggetti affetti da perversioni molto difficilmente scelgono una terapia, a volte per vergogna ma molto piu` spesso perche´ sono sintomi egosintonici. Questi soggetti arrivano in terapia in genere per motivi giudiziari: sorpresi e condannati possono sperare in una riduzione della pena se accettano di sottoporsi ad una terapia. Ma e` evidente che non c’e` una alleanza terapeutica, e la collaborazione e` puramente finalizzata allo scopo di alleviare la pena. Pertanto il paziente che chiede una terapia e` piuttosto raro: e` questo uno dei motivi per cui la psicodinamica delle perversioni e` stata a lungo

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poco conosciuta e solitamente spiegata con l’angoscia di castrazione, che certamente puo` essere presente, ma solo in particolari patologie. Comunque, se possibile, la psicoterapia psicoanalitica puo` essere una specifica indicazione, tenendo presente le specifiche difficolta` di gestire un tale rapporto. Alcune perversioni, ed in particolare modo la pedofilia, possono suscitare un controstransfert negativo: e` importante tenerlo presente nell’eventualita` di una psicoterapia. Secondo H. Kohut le attivita` e le fantasticherie perverse rappresentano un’area della personalita` scissa e tendente all’acting-out. Pertanto compito del terapeuta e` quello di tentare di integrare questa area con tutto il resto della personalita`, in modo che la problematica possa essere affrontata come un disturbo complessivo della personalita`. Questa affermazione di Kohut e` ancora piu` valida dal momento che i soggetti tendono a sottovalutare i loro comportamenti perche´, essendo prevalentemente egosintonici, sono vissuti come normali e pertanto tendono a non parlarne. In questi casi si deve cercare di collegare il comportamento anormale con eventuali situazioni frustranti vissute dal paziente, cercando di evidenziare il significato difensivo del sintomo. A volte il soggetto puo` chiedere una terapia a causa di una crisi coniugale dovuta a comportamenti perversi. In questi casi una psicoterapia della coppia puo` sortire buoni risultati se il partner ‘‘sintomatico’’ ha interesse a mantenere la relazione. Invece a volte si puo` evidenziare che il comportamento deviante e` l’epifenomeno di un disaccordo coniugale profondo, ma inespresso: in questi casi il terapeuta puo` aiutare l’altro partner non solo ad essere meno colpevolizzante, ma a fornire invece un aiuto emotivo. Quando ci si trova di fronte a casi di perversione gestiti nell’ambito familiare e cioe` prevalentemente casi di pedofilia e di incesto, una terapia sistemica familiare puo` essere utile soprattutto per evidenziare la collusione dell’altro partner nel mantenere il comportamento incestuoso. In genere si tratta di donne cresciute troppo in fretta ed investite precocemente di ruoli genitoriali che finiscono con lo sposare uomini dipendenti e bi-

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sognosi. Quando nascono dei figli, la madre tende a trascurare il marito che a sua volta cerca in uno dei figli, generalmente la figlia piu` grande, la sostituzione del partner assente, creando cosı` al di la` dell’incesto una seconda generazione di figli con ruoli genitoriali. Infine in molti casi, soprattutto nei reparti ospedalieri ove questi soggetti sono ricoverati per motivi legali, e` utilizzata la terapia di gruppo. Secondo gli AA. che si sono occupati di questa metodica, la difficolta` maggiore consiste nel fatto che i pazienti tendono ad eludere le loro problematiche e presentarsi come “pazienti perfetti” al solo scopo di ottenere una riduzione della pena e del ricovero. Pertanto e` necessario che il terapeuta evidenzi questo comportamento e costringa il paziente a farsi carico dei suoi sintomi, all’interno del gruppo. Nell’ambito delle perversioni, e` probabile che esista un mondo molto piu` ampio e sommerso costituito da persone consapevoli del loro comportamento, ma che provano vergogna e sensi di colpa tali da non riuscire a superare il ritegno di chiedere un aiuto, pur presentando un notevole livello di malessere.

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25 Le tossicodipendenze Gabriele Cavaggioni - Marco Conte - Romana Panieri Parole chiave abitudine; assuefazione; astinenza; comunita`; craving; dipendenza fisica; dipendenza psichica; tolleranza; tossicodipendente

La tossicomania rappresenta un problema drammatico sul piano sociale, complesso e difficile sul piano terapeutico. La dipendenza da sostanze tossiche non e` certamente un fatto nuovo o recente: comunque almeno tre dati differenziano la tossicomania da altre patologie, come per esempio l’alcolismo. La tossicita` delle sostanze (come l’eroina) che inducono rapidamente fenomeni di dipendenza; la fascia sociale colpita, che e` costituita da giovani o giovanissimi; l’alto rischio per le malattie infettive (oltre l’AIDS, non e` da sottovalutare l’epatite virale di tipo B e C). Le cause di questo fenomeno sono molte e sono state ampiamente discusse e pubblicizzate.

Credo pero` che non sia stata valutata sufficientemente l’analogia con una certa mentalita` della cultura occidentale, che il tossicomane esprime in maniera esasperata e drammatica e che si fonda sull’onnipotenza e sulla negazione. L’occidentale mediamente vive l’illusione onnipotente che puo` distruggere, inquinare, consumare oltre il necessario, senza alcuna conseguenza, negando quindi l’irreversibilita` di molti degradi ambientali. Come il tossicomane che onnipotentemente e` convinto di dominare la droga e di poter smettere quando vorra`, negando l’irreversibilita` della sua tendenza e il rischio di una malattia mortale. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Definizione Il termine “droga”, pur largamente usato nel linguaggio corrente, ha in effetti una pluralita` di significati che, se non definiti, rischiano di creare fraintendimenti. Questo termine definisce infatti un vasto gruppo di sostanze eterogenee che comprendono i medicamenti come le spezie. Tuttavia, il significato predominante e` quello che fa riferimento all’utilizzo di sostanze capaci di alterare le funzioni psichiche, inducendo dipendenza fisica o psichica. In modo piu` specifico, nell’accezione corrente si fa riferimento a sostanze di origine naturale o sintetica, usate spesso in quantitativi abnormi, a scopi non terapeutici. Da questa precisazione scaturisce una prima differenziazione tra sostanze che hanno anche impiego terapeutico (come ad esempio la morfina nel trattamento di pazienti terminali) e quelle invece che ne sono sprovviste, tra droghe “lecite” liberamente in commercio (come ad esempio l’alcool), e droghe “illecite” regolamentate o vietate dalla legge; fermo restando, naturalmente, che anche le prime possono trasformarsi nelle seconde se e quando vengono utilizzate per scopi e a dosaggi diversi da quelli clinicamente funzionali. Pertanto, ci sembra piu` appropriato il termine “sostanze psicoattive o psicotrope”, con il quale intendiamo riferirci a tutte quelle sostanze che, introdotte dall’esterno nell’organismo, inducono delle modificazioni sul funzionamento delle strutture biochimiche del Sistema Nervoso, e distinguere tra uso e abuso della sostanza stessa, intendendo per abuso un uso quantitativamente e qualitativamente scorretto. Va tenuto comunque presente che la maggior parte di tali sostanze non tende a riattivare, quando necessario, i processi fisiologici, ma si sostituisce ad essi, determinando una complessa serie di peculiari meccanismi. In primis, l’uso di una sostanza psicoattiva induce uno stato di abitudine, cioe` uno stato psico-biologico derivante dal consumo ripetuto della sostanza, che provoca adattamento nell’organismo. Inoltre, l’uso protratto determina tolleranza o assuefazione: ovvero, dopo un periodo piu` o me-

no lungo, nell’organismo che tende a non rispondere piu` alla sostanza si realizza un decremento d’effetto a fronte di una posologia costante. La sostanziale differenza dall’abitudine sta nel fatto che, nella tolleranza, il consumatore tende ad aumentare progressivamente le dosi per ottenere un effetto costante, causando il fenomeno della dipendenza. La dipendenza fisica e` legata alle modificazioni farmaco-metaboliche indotte nell’organismo a causa dell’esposizione piu` o meno protratta alla sostanza. Questa si determina quando la sostanza si innesta nel metabolismo e nella dinamica biologica dell’individuo cosı` da costituire un elemento indispensabile al suo funzionamento, tanto che la sua scomparsa dall’organismo determina sintomi e segni di squilibrio, di sofferenza e di alterazione funzionale (sindrome di astinenza). La dipendenza psicologica riguarda invece un’esigenza sentita sul piano psichico, come bisogno compulsivo piu` o meno incoercibile di esperire gli effetti piacevoli legati all’assunzione. Al proposito, l’OMS (1973) ha formulato le seguenti definizioni: —



Dipendenza psichica: situazione nella quale una droga produce una sensazione di benessere e una spinta incontrollabile a consumarla in maniera periodica o continua, al fine di ottenere piacere o di impedire sensazioni spiacevoli. Dipendenza fisica: abitudine o assuefazione a una droga, che si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti allorche´ l’autosomministrazione e` interrotta. Questi disturbi, chiamati “sindrome di astinenza” o “di privazione”, costituiscono un insieme specifico di sintomi psichici e fisici che variano a seconda di ciascun tipo di droga.

Sin qui, tuttavia, abbiamo fatto riferimento solo alle caratteristiche delle sostanze psicotrope, mentre cio` che e` di pertinenza psichiatrica non e` tanto l’oggetto, quanto chi ne fa uso. Pertanto, per quanto riguarda il rapporto tra la sostanza psicoattiva ed il suo fruitore, possiamo distinguere, comportamentalmente, due tipologie fondamentali la cui differenziazione principale si

Le tossicodipendenze

basa su due parametri interrelati: il tipo di dipendenza instaurata ed il tipo di inserimento sociale entrambi connessi con le peculiarita` della sostanza. Le due modalita` sono: — —

la non-dipendenza: che riguarda i consumatori; la dipendenza: che riguarda i tossicodipendenti e i tossicomani (Cancrini, 1973).

I consumatori sono individui che assumono la sostanza saltuariamente o in situazioni particolari; oppure in modo ripetuto, ma a dosaggi innocui e mantenendo la possibilita` di interrompere l’assunzione senza conseguenze. Questa modalita` d’uso non modifica in modo sostanziale l’inserimento sociale dei soggetti consumatori, che, quindi, tendenzialmente non modificano le proprie relazioni e gli interessi sociali precedenti. Il rimanere nello stato di consumatore dipende da circostanze legate all’individuo ma anche dalle caratteristiche della droga usata, cioe` legate all’intrinseca capacita` di questa di indurre dipendenza. I tossicodipendenti, invece, sono quegli individui nei quali la dipendenza si e` instaurata a causa del protrarsi dell’uso: in altre parole, in questi soggetti si e` creato un bisogno che induce a continuare l’assunzione della sostanza. In tali individui si e` cioe´ instaurato uno stato di dipendenza che puo` assumere le caratteristiche di una sudditanza esclusivamente psicologica ma anche, a seconda del tipo di droga impiegato, una dipendenza fisica. Cio` nonostante sono ancora attive delle resistenze da parte di questi individui che, non ancora del tutto schiavi della sostanza, riescono a mantenere interessi e legami sociali, conservando, sebbene con difficolta`, i ruoli socioculturali di appartenenza nel rispetto di obblighi lavorativi e familiari. Naturalmente la possibilita` di mantenere un comportamento socialmente integrato e` strettamente legata al tipo di sostanza impiegata: se il costo si mantiene contenuto e la dipendenza fisicamente indotta e` lieve, l’assunzione della sostanza tendera` a mantenersi in canoni socialmente compatibili.

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I tossicomani sono infine quei soggetti nei quali l’assunzione della droga e` divenuta a tal punto imperativa da essere l’unica ragione di vita, nonche´ il nucleo fondamentale di ogni attivita` cosicche´ qualsiasi iniziativa di vita intrapresa e` indirizzata ad essa. In costoro si assiste alla perdita di tutti i legami e di tutti gli interessi sociali precedenti e all’instaurarsi di uno stile di vita in totale antitesi con i ruoli sociali del passato. Tali situazioni sono quasi sempre caratterizzate da condotte di vita marginali che non di rado sfociano in comportamenti delinquenziali. La dipendenza instaurata dalla sostanza e` a tal punto tenace che l’individuo vive pressato dal coattivo bisogno della droga, senza poterne piu` controllare l’uso. L’assunzione della sostanza assume un ruolo centrale nella vita del soggetto, cosı` da accettare anche la squalificazione sociale e la condotta di vita marginale e tormentosa che essa implica. Essendo pertanto la condizione di tossicomania strettamente correlata alla capacita` della sostanza di dar luogo a forte dipendenza, in generale tali quadri si realizzano quasi esclusivamente con l’uso di eroina e di crack. Prendendo spunto dalle classificazioni sopra riportate, possiamo fare alcune considerazioni generali. Se pure, come abbiamo visto, le tre diverse tipologie sono fortemente correlate alle capacita` intrinseche della sostanza di indurre il fenomeno della dipendenza, non meno importante e` l’altro parametro, quello relativo alla capacita` di mantenere rapporti con la realta` sociale circostante. Il mantenimento di rapporti ed interessi sociali adeguati estrinseca di fatto la capacita` propria di un individuo di avere un contatto con la realta` piu` o meno adeguato. Cosı` le diverse tipologie di assunzione di sostanze psicoattive sopra considerate sembrano essere caratterizzate da una progressiva riduzione o perdita di rapporto con la realta`. Tuttavia, mentre la perdita del rapporto con la realta` esterna e` conseguenza dell’assunzione della sostanza, possiamo ipotizzare che in tutte e tre le tipologie possa esserci, prima del contatto vero e proprio con la sostanza, un particolare assetto interno all’individuo che, in assenza dell’incontro con la droga, potrebbe esitare, in modo contingente, in atteggiamenti o manifesta-

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zioni di altro tipo, ovvero in quadri psicopatologici nevrotici e/o psicotici. Se invece la struttura di personalita` di base entra in crisi e non trova nei contesti ambientali di riferimento (famiglia, scuola, lavoro, relazioni affettive, ecc.) un’occasione di risposta valida, e` possibile che in presenza di fattori socioculturali favorenti (come ad esempio la disponibilita` di droga nell’ambiente di vita, la precarieta` delle relazioni oggettuali) tale situazione possa indurre l’individuo ad una sorta di “acting out” che lo conduca al consumo della sostanza; atto che sposta l’asse psicopatologico massificando ed uniformando i diversi caratteri premorbosi in un unico, ampio quadro patologico che si caratterizza per la presenza di un agente tossico. Dunque il fenomeno del consumo di sostanze psicotrope e` multideterminato ed i fattori individuali (le caratteristiche di personalita` del soggetto prima dell’esposizione alla sostanza), sociali (le caratteristiche sociali e culturali dell’ambiente in cui vive il soggetto) e legati alla sostanza stessa (la diversa incisivita` sul piano dell’induzione della dipendenza, le diverse modalita` di assunzione, la quantita` del dosaggio) sono strettamente compenetrati e interconnessi. In conclusione, e` difficile ipotizzare a priori delle caratteristiche specifiche di questi soggetti, mentre la possibilita` di far emergere fattori comuni si verifica solo dopo il contatto con le sostanze, che in qualche modo rendono omologhi i soggetti, minimizzando le differenze strutturali individuali iniziali.

2. Cenni storici L’utilizzo di sostanze allo scopo di alterare le condizioni fisiche e psichiche dell’individuo ha origini – come e` noto – molto antiche. Basta pensare ad esempio che l’oppio, droga delle culture medio-orientali e mediterranee, era conosciuto gia` nella civilta` assiro-babilonese e che nella cultura greca l’uso dell’oppio compare gia` nei poemi omerici ove numerose sono le descrizioni di unguenti analgesici a base di papavero; in Erodoto, che cita l’oppio come “il farmaco nepente” e racconta l’uso di semi e di foglie di questa pianta

nell’ambito delle cerimonie funerarie delle popolazioni sciite, dell’Asia Minore; in Ippocrate, che utilizza il papavero nella cura di diverse malattie. La civilta` romana invece lo conobbe dopo la conquista della Grecia: Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis descrive la metodica dell’estrazione dell’oppio dalle capsule mature di papavero, e lo distingue dal meconico, ottenuto invece dalle foglie e dalle capsule sottoposte a bollitura; Virgilio, nelle Georgiche, accenna alle azioni farmacologiche della pianta; a Galeno si deve la diffusione in terapia della “teriaca”, preparazione farmacologica che conteneva anche dosi elevate di oppio. Dall’uso farmacologico, anche se lentamente, il papavero, nelle diverse preparazioni, comincio` ad essere usato per le sue virtu` stupefacenti. Nel Medioevo gli stupefacenti ebbero parte importante nelle pratiche di stregoneria: le droghe venivano utilizzate per indurre uno stupor piu` o meno profondo, che assecondava visioni e deliri. D’altra parte, se in Europa l’oppio era usato in medicina e nel campo della magia e della stregoneria, nei Paesi Arabi il suo uso era gia` assai diffuso; infatti, nella farmacopea araba fu introdotto da Avicenna e da Albucasi nell’anno 1000. In Cina, invece, l’introduzione dell’oppio si fa risalire all’anno 2800 a. C., anche se inizio` a diffondersi nella popolazione intorno al 1100. La vera e propria ascesa, tuttavia, inizio` nel XVII secolo, quando si diffuse la pratica di fumare l’oppio: questo ebbe una tale diffusione che, intorno alla fine del XVIII secolo, la Compagnia delle Indie incremento` la produzione del papavero in India per esportarlo in Cina, innescando quel meccanismo che degenero` nello scatenarsi della “guerra dell’oppio” e che si concluse con l’apertura di tutti i mercati cinesi alle potenze occidentali segnando la fine dell’indipendenza politica ed economica della Cina. Nel corso dei vari secoli le sostanze psicotrope sono state impiegate nei modi piu` diversi. Sostanzialmente, al di la` dell’uso farmacologico, che riguarda in larga parte gia` dai tempi d’Ippocrate l’impiego di sostanze per lo piu` oppioidi in prepa-

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razioni anestetiche e analgesiche, riteniamo di poter individuare schematicamente tre diverse modalita` di utilizzo, che altresı` fanno riferimento a tre distinte aree storico-culturali, ma che sottendono tutte la medesima duplice dinamica, ovvero l’arbitraria attribuzione alla sostanza di capacita` improprie e la contemporanea tendenza a negare gli effetti devastanti di questa. Ci riferiamo ad un uso “magico-religioso”, un uso “artistico-creativo” e un uso “contestativo delle regole sociali”. Molto antico e` l’uso di tali sostanze per ricercare un effetto “misticizzante” (in particolar modo le sostanze oppioidi nel mondo orientale; le foglie di coca nelle civilta` Inca; lo psilocybe allucinoide nella civilta` Azteca e Maya). Diffuso, invece, soprattutto a partire da epoche piu` recenti, l’uso delle droghe associato alla “creativita` artistica”. In Europa, durante il XIX secolo, poeti e romanzieri come Coleridge e Rimbaud, scrittori come Maupassant e Apollinaire e pittori come Delacroix, cercavano di trovare nelle droghe stimoli ` rimasto artificiosi alla loro attivita` creativa. E celebre, a Parigi, il “club dei mangiatori d’oppio”, dove si riunivano De Quincey, Gautier e Baudelaire. Sempre in questo ambito, possiamo mettere in evidenza l’impiego di alcune sostanze come la cocaina, diffusa massimamente negli ultimi decenni di questo secolo, sotto la spinta dell’ideologia illusoria di “potenziare e massimizzare” l’efficienza lavorativa. In ultimo non va dimenticato il largo utilizzo di droghe leggere associato ad una cultura “di contestazione e di opposizione al sistema”. Intorno agli anni ’60, prima in America e in seguito in Europa, inizio` a diffondersi tra i giovani che rifiutavano i valori e i modi di vita della “societa` tradizionale” l’uso di sostanze psicotrope derivate della canapa indiana, come hashish e marjiuana, e allucinogeni. Anche sociologi e psicologi, osservando che l’atteggiamento di tali giovani nei confronti della droga sembrava diverso da quello del tossicomane, proposero l’idea di una “cultura della droga” incappando nell’errore di intendere questa come ricerca di nuovi aspetti della realta`, di se

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stessi e dei rapporti con gli altri, che si esprimevano in atteggiamenti che rompevano e si scontravano con le norme comunemente accettate. Come si evince da questi brevi cenni, negli utilizzi sopra citati l’impiego della droga e` sempre inserito fortemente in una contesto “culturale”. Questo, tuttavia, quantunque sovente utilizzato a scopo difensivo, non minimizza la condizione di tossicomania che, comunque, si fonda su ragioni individuali che, ai limiti, hanno trovato e trovano in questi spazi giustificazioni collusorie tanto facili quanto pericolose e che costituisce una falsa soluzione “personale” alla crisi dell’originale assetto psicopatologico dell’individuo.

3. Dati epidemiologici Ci sono volute quasi trecento pagine perche´ la Presidenza del Consiglio dei Ministri stilasse nel 1997 la relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. Trecento pagine di dati da cui si evince un fenomeno devastante che attraversa il Paese in ogni luogo, in ogni forma, a qualsiasi eta`. Al di la` della reale possibilita`, non riteniamo particolarmente utile riportare tutti i dati in questa sede, vista anche la costante modificazione di questi, mentre crediamo sia piu` funzionale proporre sui dati piu` significativi alcune considerazioni, cosı` da indicare un metodo di lettura ed eventualmente uno spunto per una ricerca. Nel 1997 si sono evidenziate specifiche linee di tendenza del fenomeno, le piu` significative delle quali possono essere riassunte nei seguenti punti. •

Aumenta il consumo di stupefacenti sintetici ad azione euforizzante e stimolante che vengono reperiti e assunti direttamente nei luoghi in cui si trascorre il vivere quotidiano. Si potrebbe pertanto ipotizzare, sia per l’effetto di dette sostanze, sia per la modalita` di ricerca ed assunzione, che vi e` una tendenza a “normalizzare” il comportamento tossico. Ovvero a far sı` che venga considerato un fenomeno “comune” e, come tale, genericamente piu` accettabile e tollerabile.

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La classica dipendenza da eroina tende a stabilizzarsi su un trend gradualmente e lentamente regressivo, con un progressivo invecchiamento dell’utenza (25-30 anni): la quota di tossicodipendenti di eta` inferiore ai 25 anni si e` ridotta di 12 punti percentuali dal 1991 al 1997, mentre nello stesso periodo e` aumentata di 18 punti la quota degli ultratrentenni. Tuttavia la complessiva flessione favorevole di questi valori e` annullata dall’incremento del consumo delle “nuove droghe”. Cio` sta a significare che il processo di sensibilizzazione dell’utenza, quantunque lungo e faticoso, permette risultati; ma questo, tendendo ad incentrarsi di piu` sulla sostanza specifica che sulla complessita` del fenomeno, rischia di trasformarsi in un mero vademecum, quantunque prezioso, atto, fin dove possibile, soltanto all’evitamento del rischio. La sostanza d’abuso primario maggiormente utilizzata e` l’eroina (86.7%), seguita dai cannabinoidi (6.7%) e dalla cocaina (2.3%). Va pero` tenuto presente che questi dati vengono rilevati su pazienti trattati presso le strutture socio-riabilitative alle quali si rivolgono in prevalenza tossicodipendenti abituali, peraltro in percentuale decisamente ridotta rispetto alla stima del numero complessivo dei soggetti, il cui tempo di latenza tra l’inizio dell’uso di eroina e la richiesta di trattamento e` mediamente di circa 5 anni. Se invece si prendono in considerazione le sostanze stupefacenti maggiormente usate, nell’ordine il rapporto hashish-eroina (seconda sostanza percentualmente piu` usata) e` di 8:1. Questo dato, apparentemente ovvio, denuncia in maniera evidente che l’uso di hashish non e` considerato una patologia ne´ dall’assuntore ne´ da chi dovrebbe occuparsi di cura. Le sostanze di uso secondario utilizzate come alternativa abituale alla primaria, dopo i cannabinoidi usati nel 40.4%, sono le benzodiazepine, assunte nel 15.9% dei casi. Il dato fa riflettere su quanto incisivi possano essere farmaci di larghissima utilizzazione, al di la` del loro valore farmacocinetico.







Costantemente in flessione e` la tendenza alla morbilita`. Tuttavia e` da segnalare che il rischio di contrarre infezioni, massimamente quella da HIV, e` certamente maggiore nei primi due anni dopo l’inizio dell’assunzione che nella storia successiva. Per contro, il rischio di overdose aumenta con l’aumentare ` dell’“anzianita`” della tossicodipendenza. E possibile ipotizzare che al di la` delle motivazioni legate a fattori culturali (scarsa conoscenza e sottovalutazione dei rischi, errori e/o letali alterazioni nella composizione della sostanza da iniettare) e/o biologici (debilitazione, diminuzione delle difese immunitarie, squilibri metabolici), questi dati possono essere sottoposti ad una lettura psicopatologica. L’aumento di incidenza, nei primi due anni, di gravi patologie correlate puo` essere interpretato come indice al contempo della gravita` della crisi (manifesta o latente che sia) che sempre prelude all’inizio della condotta tossicomanica e, dal punto di vista psicodinamico, come rappresentazione di quella caratteristica fantasticheria di controllo onnipotente presente in molti tossici. Per converso, e` ipotizzabile interpretare l’aumento delle overdosi in soggetti con lunga storia di dipendenza, come tendenza suicidaria (suicidio mascherato) correlata a quel sentimento di hopelessness1 che, neppure troppo tardivamente, sovente insorge nel tossicodipendente. Posto che la tossicodipendenza e` patologia strettamente correlata a comportamenti illegali, tanto che, per legge, gli organi competenti permettono al soggetto fermato la scelta tra una detenzione ed un programma riabilitativo, e` interessante dare un ultimo sguardo alle tipologie di trattamento. Sempre in riferimento al 1997, il 62.3% dei soggetti trattati ha usufruito di cure farmacologiche sostanzialmente a base di metadone, mentre il 37.7% ha avuto un trattamento psico-sociale e/o riabilitativo. La netta di-



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Perdita della speranza.

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screpanza tra i due dati e la naturale indicazione farmacologica fanno pensare che la principale finalita` del trattamento miri a togliere i sintomi al paziente onde evitare che questi spingano il soggetto ai comportamenti illeciti suddetti. Questa idea trova conferma anche nel fatto che, nei soggetti sottoposti a trattamento, il 51.6% usufruisce di interventi di servizio sociale, il 35.4% di sostegno psicologico e solo il restante 13% viene trattato in psicoterapia. Ora, al di la` del possibile approfondimento dei singoli dati, appare chiara un’impostazione culturale secondo la quale l’intervento, ovvero l’intervento clinico sul tossicodipendente, giacche´ questi e` una persona malata, in verita` non tenda alla cura di questa ma cerchi di metterla in condizione tale da non nuocere o, al piu`, attraverso un suo reinserimento, da non essere un peso sociale. Questi pochi argomenti non sono e non vogliono essere esaustivi di tutta la documentazione sull’oggetto di osservazione, ma rappresentano uno spaccato di una realta` che sembra muoversi dalla pregiudiziale ipotesi dell’incurabilita` del paziente tossicodipendente. Riteniamo che, al di sopra dell’evidente complessita` del fenomeno, sia proprio quest’idea, al meglio assistenziale, che favorisce il perpetuarsi della patologia. Per converso, forse non e` un caso che siano proprio le comunita` — ovvero quelle situazioni che, pur nella loro parzialita`, tentano di dare al soggetto risposte complessive e polivalenti — ad ottenere i migliori risultati.

4. Ipotesi eziopatogenetiche Nel corso degli anni molti autori, di differente estrazione hanno proposto ipotesi teoriche nel tentativo di definire le basi psicopatologiche che favoriscono e sostengono l’uso di sostanze psicoattive. La letteratura inerente a queste problematiche ha percorso essenzialmente due strade, che teniamo distinte per poterle meglio visualizzare ma che spesso si sono incrociate. Nel primo caso si e` focalizzata l’attenzione sui

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fattori di comorbilita` psichiatrica, mentre nel secondo caso sono stati proposti modelli di interpretazione psicologica. Al di la` dei rari lavori ad orientamento biologico e/o genetico, concordi tutti nell’ipotizzare come, causa della condotta tossicomanica uno strutturale basso tasso di endorfine rilevato, ci sembra opportuno ricordare brevemente le ipotesi di lettura del fenomeno della tossicodipendenza che si fondano sul concetto di omeostasi, evidenziate da B. Silvestrini. L’autore ritiene che la tossicodipendenza possa essere studiata e compresa tenendo presente il concetto di omeostasi. L’assuntore di droga raggiunge uno stato di equilibrio nuovo, diverso da quello precedente, che per essere mantenuto richiede la continua presenza della droga. Se cio` non e` possibile, subentra il fenomeno dell’astinenza, particolarmente spiacevole nel caso di oppiacei e sedativi, a causa del verificarsi di iperalgesia, cioe` di una maggiore sensibilita` al dolore, di eccitazione e stimolazione adrenergica. Le droghe, tuttavia, diversamente da altre sostanze, non solo sono in grado di diminuire le sensazioni di dolore fisico e mentale, ma «...possiedono una rappresentazione mentale che ne consente il riconoscimento a livello cosciente. Per tornare al suo stato iniziale, l’organismo deve iperattivarli. Questo controadattamento funzionale non viene avvertito finche´ e` bilanciato dagli effetti opposti della droga, ma determina, se quest’ultima viene a mancare, un’intollerabile sensibilita` al dolore e ad altri fenomeni psichici e fisici fortemente spiacevoli. Ecco perche´ solo il tossicodipendente in astinenza collega i suoi disturbi alla mancanza della droga e avverte un bisogno lucido e assillante di procurarsela per evitare i disturbi causati dalla sua mancanza» (B. Silvestrini, 1998). In riferimento all’impostazione piu` specificatamente clinico-psichiatrica, e` stata osservata e riferita una significativa concomitanza tra depressione e disturbo di personalita` nell’insorgenza di ` tuttauna dipendenza da sostanze psicoattive. E via d’obbligo segnalare che la letteratura, offrendo come ipotetico substrato del fenomeno l’intera nosografia psichiatrica, denuncia una difficolta` di ricerca che, forse, ci pare essere piu` ` vero difficolta` di metodologia che di risultati. E infatti che nello studio della psicopatologia del

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tossicodipendente (e non della tossicodipendenza!) e` possibile rilevare sempre un carattere premorboso le cui caratteristiche psicodinamiche sono, nei diversi casi, sovrapponibili a quelle di diversi soggetti che, nel tempo, hanno sviluppato quadri francamente e variamente nevrotici o psicotici. Tuttavia ci e` dato osservare che non sono queste caratteristiche premorbose ad avere di per se´ inclinazione verso lo sviluppo di una tossicodipendenza; altre sono invece le condizioni (culturali, relazionali, sociali, ecc.) che facilitano l’incontro di questo soggetto, ovvero un soggetto che ha caratteristiche premorbose, quantunque queste non necessariamente, anzi spesso non espresse in classici quadri clinicamente strutturati, con le sostanze tossiche determinanti dipendenza. L’incontro del soggetto “portatore” di un qualsiasi carattere premorboso con la sostanza tossica omogenizza e massifica tutte le precondizioni determinando il costituirsi di una nuova psicopatologia, la tossicodipendenza, che ha caratteristiche definite e sue proprie. Nell’ambito dell’approccio psicologico, invece, i modelli d’interpretazione che piu` direttamente degli altri si sono occupati del fenomeno fanno capo all’ottica psicodinamica e a quella sistemico-relazionale. Un primo tentativo di comprensione psicodinamica utilizzo` gli studi di Freud sulle fasi di sviluppo al fine di rintracciare una regressione allo stadio orale. Con il tempo pero` una revisione critica di questa ipotesi ne rivelo` la fragilita` dell’impianto teorico e vennero intraprese altre vie. ` soprattutto negli anni ’80 che la ricerca E trova un filone importante nella definizione dei meccanismi difensivi e adattattivi (Gabbard). La difficolta` di affrontare l’esistenza potrebbe sottendere ad una carente o mancata capacita` di identificazione con le figure parentali e costituire, in tal modo, il retroterra psicodinamico degli abusatori. Altri punti importanti descritti sono stati una incapacita` di gestire le proprie emozioni e i propri impulsi sulla base di una disistima personale. Lo studio della psicodinamica degli abusi di queste sostanze ha introdotto cosı` un altro interessante concetto: l’automedicazione. La sostanza psicoattiva si costituirebbe in tal senso come un

farmaco autoprescritto e autosomministrato che tampona formalmente le carenze strutturali degli individui e rinforza, anche con l’“effetto piacere”, la chiusura di un anello di comportamenti di difficile soluzione. Riteniamo tuttavia lecito prendere spunto da queste osservazioni per sottolineare come, talvolta, un’osservazione apparentemente corretta possa nascondere grossolani salti logici. Una sostanza puo` determinare variazioni quantitative, nel caso di neurotrasmettitori, le quali, a loro volta, hanno effetti neurofisiologici specifici. L’attribuzione a questi di un sentimento, per esempio il piacere, e` una successiva decodificazione qualitativa, che nulla ha a che vedere con l’attivita` della sostanza stessa: il rush adrenalinico che accompagna l’orgasmo e` biologicamente simile a quello che si verifica nello spavento improvviso ma, al di la` delle perversioni, riteniamo difficile che quest’ultimo possa essere descritto come piacevole. Ad ogni modo molti autori hanno posto una particolare attenzione sulle diverse sostanze, cercandone una correlazione con i diversi substrati psichiatrici. Cosı` le sostanze con effetti eccitanti sul S.N.C., come la cocaina, avrebbero un effetto di bilanciamento su alcuni aspetti del vissuto depressivo, mentre i narcotici prevarrebbero come scelta di sedazione nei vissuti aggressivi. In questo panorama di proposte ci sembra doveroso offrire quelle ipotesi di ‘‘lettura’’ del fenomeno che nascono dalla nostra osservazione e riflessione. La prima si avvale fondamentalmente della concettualizzazione di due dinamiche ben precise di funzionamento patologico degli esseri umani che trovano successivamente espressione comportamentale nell’uso di sostanze psicoattive sostenute da un evento di tipo patoplastico connesso ad accadimenti di tipo sociale e culturale. Procedendo con ordine ci sembra dapprima essenziale una riproposizione della suddivisione, forse generica, ma senz’altro esplicativa e didatticamente valida delle sostanze psicoattive in due grandi famiglie: i narcotici (sedativi) e gli eccitanti del S.N.C. Consideriamo pertanto nel primo gruppo l’oppio e i suoi derivati, il metadone, le benzodiazepine, i derivati della canapa indiana eccetera.

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Nel secondo gruppo inseriamo invece la cocaina, le amfetamine, la caffeina, la teina, la nicotina e, in un sottogruppo comunque assimilabile, le molte sostanze psicodislettiche quali la psilocibina, i derivati della segale cornuta, le sostanze di sintesi come LSD e l’ecstasy (da considerarsi sostanza atipica in quanto chimicamente simile ad una amfetamina ma, come effetti, piu` raffrontabile alle sostanze psicodislettiche). Ora, mentre nel gruppo dei narcotici l’effetto primario ed essenziale che riscontriamo e` legato ad una piu` o meno intensa sedazione dell’individuo tramite una sorta di schermatura-ovattamento dei meccanismi di connessione intersinaptica, nel secondo gruppo all’opposto abbiamo, pur con le dovute differenze tra le tante sostanze, un effetto eccitatorio neurotrasmettitoriale. La distinzione e` fondamentale per comprendere, nell’uso e nell’abuso, il legame che l’individuo ha con la realta` materiale e con il rapporto interumano: poiche´ nel primo caso si perde la relazione mentre nel secondo la si mantiene alterandola significativamente. Torniamo ora a quelle che riteniamo siano le due espressioni fondamentali di alterato funzionamento degli esseri umani. La prima e` quella dell’annullamento, ovverosia della tendenza a fare una fantasia di sparizione verso l’oggetto. La seconda e` quella di una dinamica di introiezionenegazione dell’altro. L’osservazione di una realta` emozionale e relazionale di questo tipo di pazienti ci propone che la suddivisione di questi meccanismi non e` certamente tagliata con il bisturi in modo perfetto, e dunque le dinamiche coesistono con maggiore prevalenza dell’una o dell’altra nelle differenti situazioni. Peraltro, ci troviamo spesso di fronte a soggetti definiti poli-tossicodipendenti. L’annullamento della realta` di rapporto tramite fantasie di sparizione verso l’oggetto potrebbe essere favorita dall’uso, piu` o meno intenso e relativo anche alla potenza del composto, di sostanze narcotiche, le quali allontanano e spengono la dimensione di rapporto interumano vissuto come insostenibile. D’altro canto le sostanze eccitanti avrebbero, utilizzando il meccanismo negazione-introiezione, la capacita` di alterare la realta` oggettuale esterna

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pur mantenendo un legame comunque patologico. La distinzione e` netta tra le due ipotesi: mentre la prima e` senz’altro piu` grave in quanto assimilabile nel comportamento psicopatologico ad una situazione di tipo autistico o anoressico grave, la seconda invece si esprimerebbe in maniera piu` simile ad un disturbo nevrotico o bulimico. Il mantenimento, anche se alterato, o la perdita di relazione oggettuale ci sembrano la chiave di lettura con la quale aprire una nuova possibilita` di leggere-diagnosticare e poi intervenire psicoterapeuticamente sulle tossicodipendenze. Una seconda ipotesi prende origine invece da un’osservazione piu` fenomenologica. Dati che abbiamo precedentemente sottolineato sono la relativa precocita` dell’inizio di assunzione e la presenza di un carattere premorboso: denuncia comunque di un’identita` fragile, conflittuata, poco ` immaginabile che questi due elestrutturata. E menti, combinati tra loro, pongano il soggetto, durante un significativo momento di sviluppo ed in concomitanza di situazioni particolarmente impegnative sul piano psichico, emotivo ed affettivo, in uno stato di forte e pressante angoscia, tale da suscitare quella ‘paura di impazzire’ tipica di ogni situazione a rischio. Posto che l’assunzione di droga e` un atto, almeno in prima istanza, volontario, e che peraltro l’immagine droga sovente suscita reazioni fobiche, proponiamo il contatto con la sostanza come una sorta di comportamento controfobico. Di base ci sarebbe cioe` uno spostamento dalla paura di impazzire alla scelta di assunzione della sostanza stupefacente, con la fantasticheria onnipotente di controllo su essa. Fantasticare di poter controllare la sostanza stupefacente significherebbe fantasticare di poter controllare la paura di impazzire, con il conseguente superamento dell’angoscia. Altre sono invece le considerazioni su cui si struttura l’ipotesi sistemica. Le tossicomanie, in questo ambito, sono considerate “patologie di secondo livello”, intendendo con cio` quei disturbi che originano da difficolta` nella fase di separazione o svincolo dalla famiglia di origine, che tuttavia si sviluppano poi indipendentemente da esse. La tossico-

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mania si inserisce nella dinamica di risposte cristallizzate all’interno dei sistemi interpersonali di appartenenza, spostando cosı` al livello della droga i diversi tipi di conflitto individuale e interpersonale. Sono state individuate 4 categorie di tossicomanie (Cancrini, 1991): 1) 2) 3) 4)

tossicomanie tossicomanie tossicomanie tossicomanie

traumatiche; di area nevrotica; di transizione; sociopatiche.

1. Tossicomanie traumatiche Questo primo gruppo riunisce situazioni eterogenee, nelle quali tuttavia l’elemento comune e` la presenza di un evento fortemente traumatico per l’individuo. Comprende soggetti che, di fronte all’incapacita` di elaborare un trauma, trovano una via di fuga nella tossicodipendenza. Il loro equilibrio psicologico viene messo in crisi proprio nel momento dello svincolo, nel quale le precedenti relazioni non forniscono piu` un sostegno adeguato e al contempo i nuovi legami sono ancora troppo precari per fornire un solido punto di riferimento di fronte ad un evento doloroso. La possibilita` di elaborare tale esperienza traumatica all’interno di un rapporto interpersonale profondo e significativo diventa l’elemento fondamentale legato all’evoluzione della patologia. Gli elementi che caratterizzano tale quadro sono: —



lo sviluppo della tossicodipendenza: e` caratterizzato da una brusca rottura delle consuete abitudini di vita; le caratteristiche dell’abitudine: la droga puo` essere assunta in modo provocatorio e teatrale o, al contrario, di nascosto; tuttavia il tentativo rintracciabile sembra essere piu` quello di ricercare uno stordimento che le “gratificazioni” dalla droga.

In tali tossicomani – nonostante l’apparente quadro di drammaticita` – ci sono buone possibilita` terapeutiche. In genere ben rispondono alla

terapia e, se la droga non ha causato danni permanenti, il recupero e` pressoche´ totale. 2. Tossicomanie di area nevrotica La situazione e` piu` complessa, perche´ attiene a tutta la dinamica familiare. Da un punto di vista familiare e sistemico essa implica: a) b) c) d) e)

f)

un genitore (in genere quello di sesso opposto) fortemente coinvolto; l’altro genitore in un ruolo marginale; la presenza della struttura definita “triangolo perverso”; la debolezza dei confini tra i diversi sottosistemi generazionali; la presenza di una polarita`, che generalmente si esprime nell’opposizione tra la figura del figlio “cattivo” (il tossicomane) rispetto ad un altro figlio “buono”; la presenza di dinamiche familiari caratterizzate da comunicazioni contraddittorie e da conflitti violenti che insorgono rapidamente.

Da un punto di vista psicopatologico, nel carattere premorboso che caratterizza tali individui prevale la tendenza alla conversione dell’ansia sul corpo. In queste tossicomanie il consumo della sostanza e` connotato dall’assenza di elementi relativi al “piacere” indotto dall’uso della droga e da un atteggiamento provocatorio e di sfida nei confronti delle persone ritenute responsabili (genitori o terapeuti). 3. Tossicomanie di transizione Questo gruppo di tossicomanie prevede che l’assuntore di sostanza psicoattiva nasconda dimensioni di tipo nevrotico o addirittura psicotico in un equilibrio precario. L’incontro con l’eroina di questa personalita` psicopatologica puo` alterare quella precarieta`, dando il via a un corredo sintomatologico che va dall’ipomania a episodi depressivi e pone sulla sostanza il focus della crisi. Clinicamente si osserva: 1)

inizialmente ipomania, in quanto l’effetto

Le tossicodipendenze

2)

3)

4)

5)

6)

farmacologico tende a svincolare il paziente dai propri meccanismi difensivi vissuti come opprimenti; in seguito si puo` osservare uno stato piu` marcatamente depressivo, con atti di tipo compulsivo e autolesivo che comportano, di ritorno, un uso ‘‘stordente’’ della sostanza; non sempre a questo livello e` possibile fare dei nessi tra il vissuto personale e il percorso tossicomanico del paziente; la sospensione dell’uso della sostanza per motivi non dipendenti dalla volonta` del paziente (ad esempio carcerazione), puo` indurre tentativi di suicidio; persiste, in questa fase, l’attaccamento alla famiglia di origine, sia per motivi affettivi che economici; possibili riprese dell’uso della sostanza o sostituzioni di essa con altre sostanze o farmaci.

La comunicazione nell’ambito familiare evidenzia il ricorso a un notevole grado di mistificazione, che coinvolge l’intero sistema sia al suo interno sia nelle relazioni con l’ambiente circostante. La difficolta` nell’affrontare terapeuticamente queste situazioni e` connessa al fatto che la sostanza puo` essere usata di nuovo per ‘‘contenere’’ i conflitti che emergono dall’elaborazione delle dinamiche familiari. 4. Tossicomanie sociopatiche Queste tossicomanie si inscrivono in un ben definito contesto di emarginazione sociale e culturale. Si tratta di ambienti con forte connotazione sottoculturale, dove le regole del gruppo familiare o di appartenenza sono spesso autodettate e altrettanto spesso in stridente contrasto con le leggi e le consuetudini sociali. L’ingresso nella tossicodipendenza si conforma facilmente a questo stile di vita dove sono diffusi i comportamenti antisociali. Il vissuto tossicomanico viene sentito come ‘‘destino’’ e viene deprivato di ogni possibilita` di esprimere emozioni. Alto il rischio di decessi per overdose, patologie correlate e cause violente.

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5. Classificazione delle sostanze stupefacenti

5.1. Oppiacei (oppio, morfina, eroina, metadone) Gli oppiacei hanno una affinta` per i siti recettoriali delle endorfine. L’uso cronico di questa classe di sostanze induce una down-regulation della produzione degli oppioidi endogeni e un deficit funzionale di questi. Le endorfine sono neurotrasmettitori prodotti dal Sistema Nervoso Centrale, la cui funzione principale e` legata alla regolazione delle percezioni dolorifiche. Gli oppiacei hanno la stessa sede recettoriale delle endorfine e alcuni di questi hanno una maggiore facilita` recettoriale con i siti stessi (recettori µ); pertanto negli assuntori i derivati dell’oppio tendono a sostituirsi alle endorfine, determinando una forte riduzione della produzione di queste, attraverso un meccanismo di feedback negativo. Le piu` comuni modalita` di assunzione della sostanza sono quella intramuscolare e quella endovenosa. Assunti per la prima volta, gli oppiacei possono indurre effetti spiacevoli come disforia, nausea e vomito. Dall’esame obiettivo si evidenziano: miosi, deficit dell’attenzione e della memoria, sonnolenza, eloquio indistinto, labilita` dell’umore, prurito, difficolta alla minzione. Si osservano, inoltre, depressione generalizzata del SNC, riduzione della risposta ipotalamica, costrizione pupillare, diminuzione della libido, ipoattivita`, riduzione del coordinamento muscolare, alterazioni a carico del sistema respiratorio, gastrointestinale e genitourinario, mentre i sintomi soggettivi sono: euforia e disforia ansiosa, apatia, riduzione dell’attenzione e della memoria, sonnolenza e rallentamento psicomotorio. Lo stile di vita degli utilizzatori di oppiacei e l’alto rischio di contrarre infezioni attraverso la somministrazione per via endovenosa, rendono questi soggetti particolarmente esposti a svariate malattie tra cui malattie infettive (AIDS) ed epatiti; dall’esame obiettivo si possono rilevare iperpigmentazione presso le vene e tracce di iniezioni

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piu` o meno recenti, miosi, prurito, nausea, stipsi e bradicardia. La tolleranza e la dipendenza si sviluppano rapidamente, costringendo in tal modo gli utilizzatori a modificare dosi e modalita` di reperimento. Esiste tolleranza crociata tra tutti gli oppiacei. L’alcol e molti sedativi-ipnotici, se mescolati agli oppiacei, ne aumentano gli effetti. La tolleranza scompare con l’astinenza. Sebbene i fenomeni che si sviluppano in seguito ad astinenza siano estremamente spiacevoli, raramente mettono in pericolo la vita del paziente. La gravita` dei sintomi dipende dalla dose assunta, dagli intervalli tra le varie dosi, dalla durata della storia della malattia, dallo stato di salute e dalla personalita` del soggetto. I sintomi dell’astinenza includono: craving2, nausea e vomito, diarrea, crampi allo stomaco, febbre, piloerezione, sudorazione, rinorrea, dilatazione delle pupille, tachicardia, crampi alle gambe e alla schiena, insonnia. L’insorgenza e il picco della sintomatologia sono differenti a seconda della durata d’azione dell’oppiaceo: i farmaci con una durata d’azione piu` breve tendono a provocare sindromi d’astinenza piu` intense, mentre le sostanze eliminate lentamente provocano sindromi d’astinenza che si protraggono piu` a lungo, ma meno intense. Nei casi di intossicazione acuta i segni neurologici e le manifestazioni comportamentali dipendono dalla storia d’uso della sostanza, dal tipo di oppiaceo e dalla modalita` di assunzione. I sintomi insorgono pochi secondi dopo l’assunzione se per via endovenosa, o dopo alcuni minuti se sono utilizzate altre modalita` d’assunzione. Le alterazioni dell’umore hanno variazioni anche brusche: i soggetti passano dallo sperimentare un’euforia iniziale piu` o meno prolungata ad uno stato di apatia e disforia. L’overdose si manifesta con coma o depressione respiratoria. I pazienti in overdose presentano pupille a spillo o dilatate (nei casi gravi di anossia) ed edema polmonare con indice respiratorio depresso o normale. Le situazioni di emergenza

2

Bisogno compulsivo.

medica legate a crisi di intossicazione acuta sono numerose. Tuttavia e` necessario porre attenzione al fatto che non in tutti i casi la crisi e` dovuta a un eccessivo dosaggio della sostanza assunta (sintomi da overdose): alcune volte infatti l’intossicazione e` legata alla presenza in eccesso di sostanze da taglio pericolose, quando non mortali. La cromatografia su strato sottile rileva i metaboliti degli oppiacei nelle urine anche dopo 36 ore. Tracce di eroina, come di altre sostanze, sono rilevabili anche dopo molto tempo attraverso l’analisi del capello, quantunque questo tipo di ricerca sia molto complesso e necessiti di laboratori specificamente attrezzati. Il trattamento farmacologico e` orientato da un lato all’intervento delle emergenze mediche (overdose e astinenza) e dall’altro alla prevenzione di possibili ricadute, con terapie di mantenimento a base di metadone, naltrexone e buprenorfina. Nel caso di paziente in overdose, accanto ad una azione volta a sostenere le funzioni vitali puo` essere necessaria la somministrazione di un farmaco antagonista (naloxone). La detossificazione, invece, puo` essere portata avanti con diverse modalita`, tuttavia e` molto diffuso l’utilizzo a tal fine del metadone. Il metadone e` un agonista sintetico dei recettori degli oppiacei; nei soggetti tolleranti riduce il craving e induce il blocco o tolleranza crociata agli effetti degli oppiacei somministrati per via esogena. Il metadone, inoltre, e` in grado di eliminare i sintomi d’astinenza per 24-32 ore. Il programma di detossificazione con metadone e` regolato dalla Legge ed e` prescritto nei Servizi per le Tossicodipendenze (SERT). I trattamenti a base di metadone si differenziano in relazione al grado di dipendenza indotto dalla sostanza. In linea generale si osserva il seguente iter: si comincia con una terapia di sostituzione con metadone, seguita da un periodo di mantenimento (al quale si affianca un programma di riabilitazione psicosociale), per finire con una graduale detossificazione dal metadone stesso, attraverso uno scaleggio giornaliero, allo scopo di arginare i sintomi dell’astinenza agli oppiacei. La disintossicazione puo` essere portata avanti anche con una terapia che utilizzi farmaci sintomatici, volti a ridurre in modo mirato i sintomi dell’astinenza. La cloni-

Le tossicodipendenze

dina, ad esempio, puo` essere utilizzata nel caso di pazienti dipendenti da oppiacei o in terapia di mantenimento con il metadone. Un’altra possibilita` di intervento e` costituita da un programma di trattamento con naltrexone, un antagonista puro degli oppiacei che determina un blocco dei siti recettoriali degli oppioidi e attenua o blocca completamente gli effetti soggettivi della sostanza. Il blocco recettoriale indotto dal farmaco puo` tuttavia essere contrastato: e` di estrema importanza utilizzare tale trattamento solo in pazienti fortemente motivati, completamente detossificati e con una accertata capacita` di controllo dell’uso degli oppioidi; in caso contrario, infatti, il naltrexone puo` far scatenare una sinto` bene, inoltre, informare matologia astinenziale. E il paziente in trattamento con il naltrexone sui rischi di overdose che si corrono con la sospensione del farmaco, piu` che con il superamento del blocco recettoriale. Grande impulso all’uso di naltrexone potrebbe derivare dalla messa a punto di farmaci che diminuiscano il craving per l’eroina agendo per vie diverse da quella dei recettori degli oppioidi. Il craving e la sua ricomparsa anche dopo mesi di trattamento costituiscono infatti la principale causa di abbandono del trattamento naltrexonico. Inoltre e` importante sottolineare che il naltrexone agisce annullando l’effetto degli oppioidi e mantenendo dunque il soggetto in una condizione fisiologica di astinenza, senza tuttavia esercitare alcuna influenza sulla dimensione soggettiva e motivazionale dell’individuo; in tal senso, perche´ il trattamento sia realmente efficace, deve necessariamente essere associato ad un programma piu` ampio che prevede un lavoro psicoterapeutico e di sostegno sociale.

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capacita` di membrana cellulare nel flusso neurotrasmettitoriale. Le modalita` di assunzione possono essere varie, tuttavia la piu` frequente e` l’assunzione per via inalatoria o per via orale. Gli effetti soggettivi dipendono dalla quantita` usata e dalla personalita` del soggetto. I sintomi psicologici comprendono euforia o disforia, ansia, sospettosita`, ilarita` inappropriata, distorsioni nella percezione temporale, alterazioni nella capacita` di giudizio, sindrome amotivazionale, rallentamento psicomotorio, deficit della memoria e dell’attenzione, possibili dispercezioni visive o acustiche. Sono presenti, inoltre, i seguenti segni obiettivi: vasodilatazione, irritazione congiuntivale, mancanza di coordinamento e di equilibrio, tempi di reazioni ridotti, aumento della frequenza cardiaca. Le caratteristiche che connotano l’individuo che abusa di cannabinoidi sono sostanzialmente la passivita` e l’apatia, accompagnati da scarsa iniziativa e bassa produttivita`. Non e` raro riscontrare lievi alterazioni della memoria a breve termine, distorsioni sensoriali e alterazioni nei tempi di reazione e nei riflessi. L’intossicazione acuta da cannabinoidi non e` rischiosa per la vita, ed e` caratterizzata prevalentemente da sintomi gravi dissociativi come linguaggio incoerente, allucinazioni e dispercezioni, agitazione psicomotoria. Poiche´ l’abuso di cannabinoidi e` legato non tanto ad uno stato di dipendenza fisica, quanto piuttosto a una soggezione psicologica, il trattamento si fonda principalmente su iniziative terapeutiche a carattere psicologico e psico-sociale.

5.3. Sedativi-ipnotici (benzodiazepine) 5.2. Cannabinoidi (marijuana, hashish) Il principio attivo contenuto nelle diverse sostanze e` il tetraidrocannabinolo (THC). ` stato ipotizzato che il THC agisca con mecE canismo di tipo agonistico dopaminergico sulla corteccia media prefrontale. Un’altra ipotesi sostiene la capacita` del THC di inibire reversibilmente la produzione di adenosin-monofosfato ciclico (cAMP), con risultato finale di ridurre la

Queste sostanze sono utilizzate a scopo terapeutico e sotto prescrizione medica, per il loro effetto ansiolitico, ipnotico, miorilassante e anticonvulsivante. Possono essere utilizzate inoltre per aumentare l’intensita` o la durata degli effetti intossicanti di altre sostanze, o per ridurre gli effetti disforici indotti da stimolanti. Tuttavia possono provocare uno stato di dipendenza sia psicologica che fisica, spingendo ad un consumo smodato e ad un abuso.

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La modalita` di assunzione piu` comune e` per via orale, ma alcuni possono essere prescritti in forma di sospensione liquida o iniettabile. Gli effetti soggettivi variano considerevolmente in relazione alla dose, all’ambiente e ai tratti di personalita` dei consumatori. In generale hanno un’azione di depressione del sistema nervoso centrale, respiratorio e cardiovascolare. I diversi composti differiscono in potenza ed effetti, e la loro capacita` depressiva e` dose-dipendente. Esercitano la loro azione sui recettori gabaergici. La tolleranza si sviluppa dopo un prolungato uso quotidiano. L’effetto e` notevolmente potenziato se queste sostante sono assunte in associazione ad alcool o ad altri sedativi-ipnotici: dosi non letali, combinate all’alcool, possono causare una depressione respiratoria dagli esiti fatali. Lo stato di intossicazione acuta si manifesta con sintomi come labilita` dell’umore, difficolta` nell’articolazione del linguaggio, incoordinazione motoria, andatura instabile, deficit nelle funzioni cognitive e nella capacita` critica. L’induzione di uno stato di dipendenza psicologica e/o fisica e` molto difficile da valutare, poiche´ spesso i pazienti hanno difficolta` ad indicare la quantita` di farmaci che stanno assumendo; talvolta si possono indurre gravi sintomi di astinenza anche dopo un periodo d’uso quotidiano di dosi terapeutiche, massimamente dopo l’interruzione. ` importante non confondere la sintomatoloE gia astinenziale con la ricomparsa dei disturbi iniziali (ansia, insonnia), per i quali il farmaco era stato prescritto. I sintomi causati dall’astinenza sono: nausea, tachicardia, ipertensione, ipertermia, sudorazione, convulsioni, ipotensione ortostatica, tremori, insonnia e ansia. La sindrome puo` essere complicata dalla presenza di dispercezioni visive, olfattive, acustiche, allucinazioni, craving, deficit della memoria a breve e a lungo termine, deliri e agitazione psicomotoria. Nel caso di paziente in overdose e` indispensabile il controllo e il monitoraggio delle funzioni vitali. Il trattamento di detossificazione va impostato con l’obiettivo principale di fronteggiare le

crisi di astinenza: e` indispensabile sottrarre lentamente l’individuo al farmaco, monitorando attentamente i segni e i sintomi per assicurare una lenta e graduale astinenza.

5.4. Amfetamine Sono sostanze stimolanti che comprendono una varieta` di forme e possono avere diverse modalita` di assunzione, anche se generalmente prevale la via orale. Le amfetamine sono utilizzate a scopo terapeutico nel trattamento di narcolessia, ipercinesie, obesita` o per potenziare l’azione di narcotici usati come analgesici. Le loro proprieta` euforizzanti tuttavia stimolano l’utilizzo non terapeutico e l’abuso. Gli stimolanti esercitano la loro azione principalmente sul sistema nervoso centrale, sull’apparato respiratorio e su quello cardiovascolare; agiscono sul release di dopamina e norepinefrina e bloccano il reuptake dei neurotrasmettitori. Gli effetti euforizzanti di queste sostanze sono il risultato della loro azione sulle catecolamine centrali e in particolare su dopamina e norepinefrina. Accanto a questi, si presentano irrequietezza, inappetenza, alterazioni a carico del sistema respiratorio, cardiocircolatorio e gastrointestinale, talvolta aumento della performance fisica, cognitiva e sessuale. Gli effetti soggettivi, invece, dipendono dalla dose, dall’ambiente, dalla modalita` di assunzione e dalla personalita` del soggetto. L’uso prolungato di queste sostanze comporta uno squilibrio cronico neurotrasmettitoriale che puo` indurre anche reazioni psicotiche. Di prassi si presentano disorganizzazione del pensiero e disturbi dell’umore; in alcuni casi ideazione paranoidea, allucinazioni, delirio, convulsioni, coma e morte. In caso di intossicazione acuta, il paziente presenta sintomi di agitazione psicomotoria, logorrea, ipervigilanza, pupille dilatate e ridotta risposta pupillare, sudorazione e brividi, nausea e vomito. In caso di astinenza il paziente puo` mostrare depressione fisica e psichica, disturbi del sonno, irritabilita`, ansieta`, affaticamento, idee e spunti paranoidei, letargia e ideazione suicida.

Le tossicodipendenze

L’overdose e` invece caratterizzata da iperriflessia, agitazione psicomotoria, disforia, tremori, ideazione paranoidea, palpitazioni, convulsioni, collasso cardiocircolatorio, coma e morte. Gli effetti delle amfetamine possono essere bloccati dai dopamino-antagonisti (pimozide). Gli stati di intossicazione acuta, in cui la somministrazione e` avvenuta per via orale, vanno trattati con gastrolusi. Se il paziente e` severamente agitato, puo` essere necessaria la prescrizione di un sedativo (diazepam); se sono presenti disturbi allucinatori gravi, va invece considerato l’utilizzo di un neurolettico (clorpromazina).

5.5. Cocaina La cocaina e` molto diffusa come sostanza di abuso per le sue proprieta` stimolanti ed euforizzanti. Ha modalita` di assunzione diversificate, ovvero via orale, intramuscolo o sottocutaneo; sotto forma di sale solubile in acqua puo` essere iniettata e sniffata; quando e` chimicamente trasformata a cocaina base (“free base” o “crack”), puo` essere fumata. Quest’ultima modalita` di assunzione, utilizzando l’ampia area polmonare per l’assorbimento, consente un effetto notevolmente potenziato e induce una rapida dipendenza. La cocaina e` liposolubile e attraversa rapidamente la barriera ematoencefalica, gli effetti gratificanti sono mediati prevalentemente dall’attivazione delle vie dopaminergiche, mesolimbiche e mesocorticali, agendo sul meccanismo di blocco del re-uptake. Il prolungato blocco del re-uptake dei neurotrasmettitori indotto da un uso abituale di cocaina causa una riduzione di produzione di neurotrasmettitori e la deplezione nell’uso cronico. I cambiamenti neurofisiologici nei sistemi noradrenergici e dopaminergici sono responsabili dei sintomi di dipendenza e di astinenza. Gli effetti della cocaina sono relativamente brevi, la durata dell’euforia e` di circa trenta minuti, anche se la sostanza rimane ancora nel sangue. Si distinguono sintomi psicologici e comportamentali. L’aumento delle energie e della vigilanza possono sfociare in irritabilita`, aggressivita` e alterazioni delle capacita` di giudizio. La sintomatologia

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si manifesta in modo piu` intenso nei soggetti che la fumano o la assumono per via e.v. L’uso di questa sostanza comporta una stimolazione cardiovascolare acuta caratterizzata da un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. In tal senso, percio`, l’uso cronico puo` causare danni cardiovascolari permanenti quali aritmie cardiache, grave ipertensione transitoria, infarto del miocardio, ictus e convulsioni. Il soggetto abusatore puo` riportare nel colloquio clinico episodi precedenti di attacchi di panico, insonnia, alterazioni del comportamento sessuale, euforia, comportamento maniforme e disforia. Si osservano, inoltre, alcune patologie correlate a carico del sistema olfattivo e gustativo, riniti e sinusiti, ipervigilanza e cefalea. Nei casi di intossicazione acuta, i pazienti che hanno assunto grandi quantita` di cocaina possono sviluppare una reazione tossica caratterizzata da ansia, iperattivita`, panico, irritabilita`, ideazione paranoidea o ipertermia, tachiaritmie, ipertensione, sudorazione, pupille dilatate e reattive, iperattivita` dei riflessi tendinei, bocca secca e convulsioni. Nei casi di overdose l’iniziale stimolazione del S.N.C. e` rapidamente seguita da paralisi muscolare, depressione respiratoria, coma e morte. La sindrome di astinenza insorge entro 1-4 ore dal “crash” iniziale, e si caratterizza con una grave disforia accompagnata da sonnolenza e iperfagia. Il craving per la cocaina e` intenso e accompagnato da sintomi somatici quali intorpidimento della gola, diaforesi, tachicardia e disturbi addominali. Astenia e disforia possono persistere da sei a diciotto settimane dopo la sospensione della sostanza. Crisi di craving possono riemergere per mesi o anni. In alcuni casi possono insorgere ideazioni suicide. Nei casi di intossicazione acuta e overdose un primo presidio e` il controllo delle funzioni vitali; in alcuni casi uno stato di estrema agitazione nel paziente puo` richiedere un trattamento di sedazione. In tal senso la clorpromazina sembra efficace anche nella prevenzione di ipertermia e nella riduzione dell’ipertensione. Nei soggetti colpiti da convulsioni puo` essere necessario l’impiego del diazepam. Nella sindrome da astinenza i pazienti pos-

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sono giovarsi di un trattamento farmacologico con farmaci come la desipramina, la fluoxetina e la carbamazepina.

5.6. Psicoticomimetici A questa famiglia appartengono la psilocibina, l’LSD e la mescalina che sono assunti oralmente, mentre il peyote e la fenciclidina possono essere anche fumati. Chimicamente le sostanze capaci di indurre questi effetti sono strutturalmente correlate alla 5-idrossitriptamina e alla catecolamina, anche se il meccanismo non e` del tutto noto. Gli effetti soggettivi sono variabili e dipendono dalla dose, dall’ambiente, dalla modalita` di assunzione e dalla personalita` di base dell’assuntore. La caratteristica principale e` la capacita` di indurre stati in cui le percezioni sono alterate (percezioni che non sono normalmente sperimentate fuori dal sonno REM). Una reazione tossica comune a tutti gli allucinogeni e` il “viaggio” o “trip”, come viene comunemente chiamato il periodo in cui il soggetto sperimenta l’effetto della sostanza. Di solito l’effetto dura dalle 4 alle 12 ore, ma puo` prolungarsi per giorni o mesi poiche´ queste sostanze sono liposolubili e rimangono nei tessuti adiposi a lungo. Persone che hanno sperimentato “un viaggio” possono avere dei “flash-back” nei quali alcune percezioni verificatesi durante l’assunzione della sostanza possono riproporsi in un secondo momento, anche in assenza di nuova assunzione. I sintomi che accompagnano l’uso di tali sostanze sono: vertigini, debolezza, sonnolenza, nausea, cinestesie, ansia accompagnata da risate o pianto, dispercezioni visive, ondate ricorrenti di fenomeni percettivi, cambiamenti di umore e ipervigilanza. Si osservano, inoltre, ipertensione, ipertermia, riflessi iperattivi, sudorazione, tremori e nausea. In soggetti con intossicazione acuta si riscontrano panico, euforia, ideazione paranoidea, pianto e risate compulsive, possibile chiusura comportamentale, ipervigilanza, ansia intensa e debolezza.

Nei casi di overdose si verificano ipertermia grave, comportamenti autodistruttivi e coma. L’intossicazione acuta prevede un trattamento mirato alla riduzione degli stimoli ambientali, al sostentamento delle funzioni vitali, al monitoraggio del paziente per possibili atti di violenza e alla sedazione (diazepam).

5.7. MDMA (ecstasy) L’ecstasy costituisce la molecola piu` nota di una classe di farmaci, gli ‘‘entactogeni’’ o ‘‘empatogeni’’, il cui nome scientifico e` metilenediossimetamfetamina (MDMA). Da un punto di vista strutturale l’ecstasy e` una fenilisoprana correlata sia all’amfetamina che alla mescalina. A tale classe appartengono anche pasticche contenenti varianti della molecola, come la metilenediossiamfetamina (MDA o Love drug), la metilenediossietamfetamina (MDEA o Eve) e altre sostanze (MBDB, MDE). La modalita` di assunzione e` sempre per via orale. Gli effetti della sostanza insorgono 30 minuti dopo l’assunzione e durano mediamente dalle 4 alle 6 ore. L’effetto comunemente riferito dagli assuntori e` la facilitazione delle relazioni con gli altri. Le persone che hanno assunto ecstasy riferiscono di sentirsi maggiormente libere di esprimersi e di muoversi in maniera fluida, con l’idea apparente e illusoria di vivere senza le usuali restrizioni. Di fatto, tuttavia, questa maggiore “liberta`” non corrisponde a una contestuale facilitazione delle relazioni interpersonali che, al piu`, restano superficiali, ne´ tanto meno diminuiscono la soglia dell’inibizione sessuale. Quando l’effetto dell’MDMA viene sperimentato durante un ‘rave’ (ovvero un raduno che dura anche piu` di 48 ore, caratterizzato dalla costante perfusione di musica fortemente ritmata), la combinazione della sostanza con la musica e il ballo circondati da altre persone produce uno stato euforico simile alla trance. L’MDMA determina effetti psicoattivi come eccitazione, tachicardia, aumento di pressione arteriosa, anoressia, aumento della vigilanza, elevazione del tono del-

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l’umore, tensione dei muscoli mandibolari e mascellari (trisma), bruxismo, sensazione di secchezza delle fauci. Si possono evidenziare inoltre altri effetti di natura specificatamente piu` neuropsichiatrica quali aumento delle percezioni sensoriali, dispercezioni uditive e visive sia elementari che complesse, deficit cognitivi, andatura barcollante, abbattimento dei confini tra il se´ e il mondo esterno, alterata percezione del tempo, diminuzione dell’aggressivita` e dell’impulsivita`, aumento della fiducia in se stessi, diminuzione del senso di pericolo. Gli effetti lasciano il posto a sintomi di ‘‘hang-over’’ quali fatica, stanchezza, insonnia. Alcuni soggetti ripetono l’esperienza dell’assunzione di MDMA anche a distanza di poche ore dalla prima ingestione, nel tentativo di ottenere nuovi effetti gratificanti. In linea generale, le evidenze di induzione di dipendenza e tolleranza da parte dell’ecstasy sono limitate, soprattutto perche´ dopo ripetute somministrazioni gli effetti desiderati svaniscono lasciando il posto a quelli indesiderati. ` nota la tendenza a mettere in relazione E l’ingestione di ecstasy con un aumento del numero di incidenti stradali che coinvolgono giovani: non e` chiaro se cio` sia dovuto agli effetti di tipo allucinatorio, a quelli di deficit cognitivo (mancanza di concentrazione e attenzione) o ancora ad uno squilibrio del turnover centrale della serotonina che regola gli impulsi auto- ed eterodistruttivi. L’uso di ecstasy, altresı`, puo` indurre gravi ` possibile il verificarsi manifestazioni somatiche. E di ipertermia (che raggiuge anche i 43˚C), accentuata anche da condotte che spesso accompagnano l’assunzione — come ballare senza sosta per lunghi periodi o la temperatura elevata del locale, senza che l’individuo avverta il bisogno di assumere liquidi — che nei casi piu` gravi puo` condurre anche al decesso. Inoltre si sono riscontrate gravi forme di tachicardia (fino a 180 battiti al minuto), aritmia, asistolia, ipertensione, acidosi metabolica, ‘‘stroke’’ cerebrale, convulsioni, coma, vomito, diarrea, trombocitopenia, coagulazione intravascolare disseminata, insufficienza renale acuta. In alcuni pazienti e` stata riscontrata l’insorgenza di

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epatotossicita` dovuta probabilmente alla presenza di contaminanti nelle preparazioni. In sintesi, dunque, la tossicita` acuta cardiovascolare e neurologica, l’insufficienza renale acuta, l’ipertermia e la coagulazione intravascolare disseminata possono tutte essere causa di decesso. Il rischio di overdose con esito letale e` possibile con un’assunzione di oltre 15-20 capsule di MDMA in una sola serata. Il rischio e` ovviamente aumentato in caso di contemporanea assunzione di altre sostanze. Gli effetti psicopatologici conseguenti all’assunzione di MDMA (disturbi interpretativi e dispercezioni) scompaiono entro 48 ore, mentre sono possibili evenienze di flashback a distanza di mesi. Sono stati descritti effetti permanenti come attacchi di panico, episodi psicotici acuti e psicosi croniche di tipo paranoideo, episodi di depressione maggiore (con ideazione suicida), aumento dell’aggressivita` e dell’impulsivita`, aumentato craving nei confronti di carboidrati e di cioccolata in particolare, deficit cognitivi, inversioni del ritmo sonno-veglia, perdita di peso. L’insorgenza e la permanenza di questi disturbi vanno messe in relazione all’attivazione dopaminergica e/o al danno funzionale serotoninerigico. Nel caso di complicanze mediche e` evidente la necessita` di un intervento dei dipartimenti di ` consigliato l’uso pronto soccorso ed emergenza. E del dantrolene come miorilassante e sconsigliato quello della cloropromazina perche´ abbassa la soglia convulsiva. Negli animali da laboratorio si e` osservata una azione di prevenzione della neurotossicita` entro 3-6 ore dall’ingestione di MDMA con l’uso di fluoxetina. In pazienti con sintomi psichiatrici persistenti si e` osservata l’utilita` della somministrazione di neurolettici (aloperidolo; perfenazina) in caso di presenza di elementi di ordine psicotico. Si e` rivelata inoltre di grande utilita` la somministrazione di fluoxetina ad elevati dosaggi (60-80 mg al giorno). L’interruzione della somministrazione esita pero` nella regolare ripresentazione dei sintomi, soprattutto quelli di tipo depressivo e di deficit cognitivo.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

OPPIACEI Effetti comportamentali:

euforia, sonnolenza, anoressia, diminuzione della libido.

Effetti fisici:

miosi, prurito, nausea, bradicardia, stipsi, segni di punture su braccia e gambe.

Intossicazione per uso cronico:

deficit dell’attenzione e della memoria, ipoattivita`, sonnolenza, linguaggio confuso, anoressia.

Astinenza:

craving per la sostanza, nausea e vomito, dolori muscolari, midriasi, piloerezione, sudorazione, diarrea, febbre, insonnia.

Overdose:

coma o depressione respiratoria.

Trattamento:

trattamento farmacologico a base di naloxone; detossificazione con metadone; trattamento socio-riabilitativo; sostegno psicologico; psicoterapia.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

CANNABINOIDI Effetti comportamentali:

euforia e disforia, ansia, ilarita` inappropriata, distorsioni della percezione temporale, rallentamento psicomotorio.

Effetti fisici:

vasodilatazione, irritazione congiuntivale, mancanza di coordinamento e di equilibrio, aumento della frequenza cardiaca.

Intossicazione per uso cronico:

alterazioni dell’umore, sintomi dissociativi, linguaggio incoerente, agitazione psicomotoria, dispercezioni.

Astinenza:

non verificabile.

Overdose:

non verificabile.

Trattamento:

sostegno psicologico; psicoterapia; trattamento socio-riabilitativo.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

SEDATIVO-IPNOTICI Effetti comportamentali:

sonnolenza, deficit dell’attenzione e della memoria, confusione.

Effetti fisici:

sudorazione, atassia, ipotensione, miosi, delirium.

Intossicazione per uso cronico:

linguaggio confuso, incordinazione e instabilita` nella deambulazione, deficit dell’attenzione e della memoria.

Astinenza:

nausea-vomito, ansia e irritabilita`, tremore, aumento della sensibilita` alla luce e ai suoni, iperattivita`, marcata insonnia.

Overdose:

coma o depressione respiratoria.

Trattamento:

detossificazione con farmaci sintomatici.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

Le tossicodipendenze

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AMFETAMINE Effetti comportamentali:

eccitazione, euforia, agitazione psicomotoria, iperattivita`, irritabilita`, logorrea, aggressivita`, tendenze paranoidee, impotenza, allucinazioni.

Effetti fisici:

midriasi, tremore, secchezza delle fauci, tachicardia, ipertensione, perdita di peso, aritmie, febbre, convulsioni.

Intossicazione per uso cronico:

iperattivita`, aggressivita`, tachicardia, midriasi, brividi, sudorazione, nausea-vomito, aritmia, ideazione paranoida, aumento della pressione arteriosa, anoressia, allucinazioni, tremore, secchezza delle fauci, febbre, convulsioni, impotenza.

Astinenza:

craving, disforia, affaticamento, agitazione psicomotoria, disturbi del sonno.

Overdose:

iperiflessia, agitazione psicomotoria, disforia, tremori, ideazione paranoidea, palpitazioni, collasso cardiocircolatorio, coma.

Trattamento:

trattamento farmacologico con sedativi o neurolettici.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

COCAINA Effetti comportamentali:

eccitazione, euforia, agitazione psicomotoria, iperattivita`, irritabilita`, logorrea, aggressivita`, tendenze paranoidi, impotenza, allucinazioni.

Effetti fisici:

midriasi, tremore, secchezza delle fauci, tachicardia, ipertensione, perdita di peso, aritmie, febbre, convulsioni, perforazione del setto nasale.

Intossicazione per uso cronico:

iperattivita`, aggressivita`, tachicardia, midriasi, brividi, sudorazione, nausea-vomito, aritmia, ideazione paranoide, aumento della pressione arteriosa, anoressia, allucinazioni, tremore, secchezza delle fauci, febbre, convulsioni, impotenza.

Astinenza:

craving, disforia, affaticamento, agitazione psicomotoria, disturbi del sonno.

Overdose:

paralisi muscolare, depressione respiratoria, coma.

Trattamento:

trattamento farmacologico con sedativi.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

PSICOTICO-MIMETICHE e MDMA Effetti comportamentali:

allucinazioni visive, ideazione paranoidea, falso senso di realizzazione e forza, tendenze suicide e omicide, depersonalizzazione e derealizzazione.

Effetti fisici:

midriasi, atassia, tachicardia, ipertensione.

Intossicazione per uso cronico:

ansia, depressione, idee di riferimento, ideazione paranoida, alterazioni della percezione, midriasi, tachicardia e palpitazioni, reazioni di panico (in caso di “bad trip”) e paura di impazzire.

Astinenza:

non verificabile.

Overdose:

ipertermia grave, comportamenti autodistruttivi, coma.

Trattamento:

isolamento dagli stimoli ambientali; trattamento Farmacologico con sedativi o neurolettici.

Test di laboratorio:

analisi del sangue e delle urine con kit specifici.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

6. Elementi di terapia La terapia del tossicodipendente, per la sua complessita`, richiede molteplici livelli di intervento e diversi gradi di approccio. Prescindendo dagli interventi sintomatici sulle crisi (intossicazione, astinenza, overdose) che vengono mediati dall’attivita` farmacocinetica dei composti antagonisti somministrati, la risposta agli sforzi terapeutici, anche quando correttamente impostati, potrebbe tardare o mancare del tutto generando cosı` disillusione negli operatori e, con questa, la convinzione dell’incurabilita` di questi pazienti con tutta la pesante ricaduta teorica e sociale che ne consegue. Altresı` puo` accadere di imbattersi nella situazione opposta: l’idea di poter curare tutti derivata da una sorta di onnipotenza terapeutica che sembra non considerare le condizioni psichiche degli individui e il loro momento storico e sociale. ` dunque prioritario valutare molto attentaE mente ogni paziente, ascoltandone la storia personale e clinica e soprattutto verificandone le risorse psichiche reali. Per cominciare, dobbiamo separare un ambito medico-organico, che si occupa delle condizioni fisiche del paziente, da un ambito medicopsichiatrico. Questo non per riproporre l’ennesima scissione somato-psichica, ma per poter operare su un terreno scevro da competenze organiche. I criteri per affrontare queste ultime sono stati esposti nei paragrafi precedenti; ora vogliamo soltanto sottolineare che, nella gran parte dei casi, la disintossicazione e la restitutio ad integrum sono compito iniziale di ogni terapia che aspiri al successo e che, tranne che non coesistano patologie infettive correlate a tutt’oggi non risolvibili, ma controllabili (AIDS, epatiti croniche), questa e` nonostante tutto la parte piu` agevole dell’intero progetto. Nella nostra personale esperienza abbiamo visto pazienti, eroinomani anche da oltre venti anni, superare crisi di astinenza fisica in pochi giorni tramite l’ausilio di farmaci adeguatamente somministrati, non riuscendo pero` successivamente ad affrontare la dipendenza psichica. Riteniamo invece che l’approccio psicotera-

peutico al tema delle dipendenze da sostanze psicoattive debba essere suddiviso in due momenti fondamentali: una psicoterapia con intenti trasformativi (o espressivi secondo Gabbard) e una serie di interventi di sostegno psichico (o supportivi). La psicoterapia che definiamo trasformativa puo` essere svolta sia individualmente sia in gruppo, tenendo tuttavia presente che un approccio per essere realmente trasformativo deve prima cogliere il senso e poi modificare le realta` psicodinamiche sottostanti. D’altra parte l’incontro con le storie di questi pazienti ci ha insegnato che solo un progetto multimodale puo` ragionevolmente dare dei frutti. Sia la psicoterapia individuale che quella di gruppo, pur con le dovute differenze, hanno come caratteristica comune il ruolo della figura psicoterapeutica. La centralita` del terapeuta e` fondamentale per indurre il paziente a confrontarsi nel rapporto stesso con le sue dinamiche piu` profonde, ovvero con gli affetti perduti o trasformati in un vissuto di aggressivita`, nonche´ con i due fondamentali meccanismi di difesa, l’annullamento e la negazione del rapporto oggettuale. Abbiamo gia` affermato che questi due meccanismi spesso coesistono con prevalenze differenti e sono rafforzati, e talora resi scarsamente modificabili, dall’uso di specifiche sostanze. In particolare le sostanze eccitanti hanno un effetto rinforzanti sulla negazioni alterando il rapporto con la realta` umana, realta` che viene piu` facilmente annullata con l’apporto di sostanze sedative sul Sistema Nervoso. Siamo convinti che la dipendenza da sostanze psicoattive e` un evento che si instaura su un terreno psicopatologico predisposto da esperienze accumulate nel corso dell’esistenza e l’incontro con le droghe ne determina l’aspetto sintomatologico. Sicche´ la psicoterapia dei pazienti che fanno uso di queste sostanze e` in gran parte sovrapponibile a quella di altri pazienti, pur con alcune peculiarita`. Come in ogni psicoterapia, l’intento e` di condurre il paziente a un confronto-scontro con la realta` umana di rapporto del terapeuta che costantemente deve riconoscere e resistere agli an-

Le tossicodipendenze

nullamenti e alle negazioni che emergono durante i colloqui. La grande difficolta` che fa di queste terapie un lavoro particolare e` che questi meccanismi di difesa sono fortemente sostenuti e rafforzati dall’effetto delle sostanze psicoattive e spesso un lavoro puo` richiedere un lungo periodo di tempo durante il quale si susseguono miglioramenti, ma anche passi indietro con ricadute nell’uso. Possono comunque presentarsi situazioni cliniche cosı` strutturate da poter essere difficilmente accessibili a una terapia trasformativa per un sorta di costruzione sclerotizzata dei comportamenti. Nelle terapie di gruppo, in ultimo, un significativo peso specifico ha l’instaurarsi di legami transferali con gli altri partecipanti alla seduta, non necessariamente portatori della stessa patologia. L’analisi di questi legami e` la specificita` di lavoro che differenzia questo tipo di intervento da quello che si struttura nei gruppi di auto-aiuto. Gli interventi di sostegno sono invece espressione di esperienze molteplici, talora molto lontane tra di loro per teoria e prassi. Tra tutte, le piu` collaudate rimangono i gruppi di auto-aiuto e le esperienze delle comunita` di recupero. I gruppi di auto-aiuto (Narcotici Anonimi) sono modellati sulle esperienze piu` che decennali degli Alcolisti Anonimi. Li riteniamo supportivi in quanto funzionano sulla base di un immagazzinamento passivo di esperienze apprese da altri soggetti con problematiche simili, ma in diversi momenti evolutivi. Il progetto e` funzionante e valido come mero contenitore di un malessere profondo che viene “controllato” ma non risolto, e non e` casuale infatti, come per gli alcolisti, che molti autori definiscono questi pazienti come assuntori astinenti, dunque non guariti. Anche questo approccio puo` considerarsi un’utile fase di un progetto di piu` ampio respiro, che purtroppo in alcuni casi restera` un’esperienza isolata per motivi intrinseci ai soggetti quali le limitate risorse, o estrinseci per inadeguatezza del programma di cura. Le comunita` di recupero invece, hanno assunto negli ultimi anni un ruolo sempre piu` centrale in questo campo e anche una notevole visibilita`, amplificata peraltro da molti media con

475

intenti forse non sempre eticamente rivolti alla tutela delle persone ospitate. Le metodologie di lavoro delle comunita` sono comprese in un ampio ventaglio di sistemi teorici che vanno da esperienze di tipo piu` spirituale in alcuni casi sorrette da spinte religiose ispirate alla cristianita`, oppure derivate da esperienze di religioni e filosofie orientali. Le condizioni di cronicita` determinate da lunghi anni di dipendenza e da infuttuosi tentativi di cura sono le situazioni che meglio si prestano al trattamento in comunita`. Il contemporaneo agire su diverse aree intrapsichiche, interpsichiche e comportamentali, fornisce un contenimento integrato. Elementi cardine della permanenza in comunita` sono: 1) 2)

3)

4)

riaggregazione del vissuto degli individui; recupero del proprio tempo tramite l’inserimento in una struttura con orari ben determinati; esistenza di un luogo come quello comunitario, dove il soggetto non viene giudicato continuamente per il suo passato ma si confronta sul suo fare presente; presenza costante di operatori che fungono da raccordo fra le emozioni e le storie spesso frammentate dei tossicodipendenti; (Zanusso, Giannantonio, 1996).

Il successo, a nostro avviso decisamente parziale, delle comunita` e` spesso sostenuto dalla permanenza degli individui nella comunita`. Questo luogo, fortemente investito psichicamente e protetto da influenze esterne, puo` sostituire la dipendenza dalle sostanze con una sorta di dipendenza dal contesto. Sostituire una dipendenza con un’altra meno pericolosa e` certamente piu` auspicabile per il paziente e piu` accettabile per il consesso sociale, ma non puo` essere definito cura in quanto non tende neanche teoricamente alla separazione e all’autonomia. Ribadiamo pertanto la notevole importanza di queste esperienze supportive, sottolineando che non devono pero` diventare punto di approdo, ma restare una fase di passaggio o meglio di integrazione del progetto terapeutico. Una breve riflessione a parte merita invece la

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

terapia familiare. Questa e` un intervento che si attiva fondamentalmente in un contesto di disgregazione dei rapporti parentali, tanto piu` quanto e` minore l’eta` dei pazienti e maggiore la loro gravita` clinica. Sarebbe molto difficile infatti pensare di affrontare le tematiche psicopatologiche di un giovane paziente se non si tenesse d’occhio contemporaneamente l’importanza di “rimodellare” l’assetto cognitivo e i comportamenti di una famiglia che sovente ha costruito le proprie relazioni esprimendo la patologia manifesta in uno dei suoi elementi, probabilmente il piu` fragile. ` spesso visibile in questi casi che quando il E soggetto in questione migliora la sua condizione psichica, uno o piu` elementi del contesto familiare entrano in crisi a causa del cambiamento del soggetto, vissuto come perturbante della rigidita` del sistema stesso, vanificando o tentando di vanificare piu` o meno consciamente il lavoro terapeutico che impone un nuovo assetto relazionale familiare. In relazione a questo approccio, alcuni autori ritengono necessaria la copresenza dell’intero gruppo familiare compreso il paziente tossicodipendente; altri invece, a nostro avviso piu` convincentemente, ritengono che questa modalita` sia funzionale solo in un primo momento, atto a facilitare quel minimo di capacita` di svincolo necessario al paziente principale per permettergli un successivo lavoro individuale. Riteniamo pertanto che questo approccio vada riservato, quando e` possibile, all’intero gruppo familiare separato dal paziente principale, che dovrebbe, se ce ne sono le condizioni, elaborare le sue dinamiche in un contesto riservato soltanto a lui. Si verrebbe cosı` a creare una situazione in cui da una parte il paziente tossicodipendente verrebbe ad usufruire di una realta` terapeutica dalle maggiori potenzialita` trasformative, e dall’altra il contesto familiare sarebbe aiutato sia a rivisitare quelle dinamiche relazionali concausa della crisi del soggetto e, comunque, al contempo generatrici e rappresentazione di un disagio allargato, sia ad elaborare il carico che, diversamente, la patologia psichica e la cura di essa impongono loro quale mondo circostante a essa.

7. Un caso clinico L. ha 17 anni, e vive in una piccola citta` di provincia. Frequenta il liceo scientifico con un buon rendimento scolastico. ` il primo di tre fratelli; circa due anni fa il E fratello minore e` morto a seguito della rottura di un aneurisma cerebrale. La vicenda ha completamente alterato l’equilibrio delle dinamiche familiari. La madre, di 45 anni, casalinga, ha smesso di lavorare dopo il matrimonio. Il padre ha 48 anni, e lavora in proprio in una piccola ditta di ripazioni meccaniche. Il fratello, deceduto a 15 anni, frequentava il liceo. La sorella minore ha 13 anni, e sta frequentando l’ultimo anno delle scuole medie inferiori. Dopo il lutto, la madre sembra essersi chiusa nel ricordo del figlio scomparso, riducendo le attenzioni al resto della famiglia. Il padre ha un carattere schivo, con una decisa difficolta` a manifestare le proprie emozioni. Si e` sempre posto in modo periferico rispetto al nucleo familiare, trascorrendo gran parte del giorno nell’ambiente lavorativo, modalita` che non e` cambiata a seguito della scomparsa del secondogenito. L. mostra una grande lucidita` rispetto alle proprie vicende familiari. Sembra aver superato l’evento, anche se dai colloqui appare evidente una mancata elaborazione del lutto. Ne parla raramente e senza mostrare un autentico coinvolgimento emotivo. D’altra parte anche nei legami con i pari ha sempre avuto un atteggiamento ambivalente: i suoi rapporti difficilmente riuscivano a superare un livello superficiale di conoscenza per trasformarsi in una relazione di condivisione profonda. La stessa situazione si e` verificata anche nelle prime esperienze con l’altro sesso, caratterizzate da brevi storie senza coinvolgimento. Arriva alla nostra osservazione presentando i seguenti sintomi: disturbi del sonno, crisi d’ansia, apatia e aggressivita`. Durante i primi incontri, si apre con grande difficolta`; parla di cose prive di importanza e racconta i fatti senza il correlato vissuto soggettivo.

Le tossicodipendenze

Appare evidente la necessita` di lasciargli il sufficiente tempo per poter instaurare un rapporto di fiducia con il terapeuta. Dopo alcuni altri colloqui racconta di frequentare spesso dei locali notturni dove assume MDMA. Racconta di aver preso la prima pasticca dopo aver visto l’effetto su altri suoi coetanei. La sensazione immediata che riferisce e` di essere riuscito finalmente a stabilire un contatto apparentemente profondo con le persone che frequenta. Questa sensazione associata a euforia ed energia lo ha spinto a ripetere l’esperienza prima saltuariamente, poi sempre piu` frequentemente. Le ripetute assunzioni hanno comportato un aumento dei tempi di recupero e l’insorgenza dei sintomi sopraelencati. Durante uno dei successivi colloqui, racconta con grande angoscia di avere avuto delle dispercezioni visive dopo l’assunzione della sostanza: alterazioni delle forme e dei colori degli oggetti, dismorfie dei volti. Abbiamo impostato inizialmente un trattamento psicofarmacologico sintomatico, a base di benzodiazepine, al fine di ridurre l’insonnia e la notevole quota di ansia. Il lavoro psicoterapeutico e` stato impostato sull’elaborazione delle dinamiche di rapporto di L. e sulla evidenziazione dei suoi meccanismi di difesa. La somministrazione dei farmaci e il lavoro psicoterapeutico sono stati svolti da operatori diversi. La psicoterapia a orientamento analitico ha avuto una cadenza bisettimanale per i primi tre mesi, in seguito ridotta a un incontro settimanale. Non e` stato necessario svolgere un lavoro preliminare di detossificazione, poiche´ L. ha interrotto spontaneamente l’uso di MDMA. Il trattamento e` tuttora in corso, tuttavia e` possibile fare alcune considerazioni. In primo luogo si e` evidenziata una capacita` introspettiva che ha dato al paziente la possibilita` di entrare in contatto con le proprie emozioni profonde, riducendo le difese, tramite un continuo confronto con il terapeuta. Tutto cio` incide positivamente sui rapporti con i familiari e con i pari.

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Le assenze agli appuntamenti sono pressoche´ cessate e il paziente sembra iniziare ad aver maggiore consapevolezza dei propri conflitti interiori.

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26 L’alcolismo Alessandro Dionisi Parole chiave alcolismo, alcolomania; tolleranza; dipendenza; intolleranza; astinenza; compulsione; onnipotenza orale; bramosia; oggetto ideale; spostamento; introiezione; proiezione; negazione; coazione; intossicazione

L’Italia e` al secondo posto, dopo la Francia, per produzione e consumo di alcolici; il consumo pro capite e` di 124 litri di alcolici per anno. Tutto questo comporta 20.000 morti l’anno, 1.000.000 di bevitori con sintomi gravi (cirrosi); 3.000.000 di bevitori a rischio grave; 90.000 incidenti d’auto dovuti ad alcool, con una grave incidenza soprattutto nei giovani. Questi dati, che si commentano da soli, evidenziano la gravita` di un fenomeno che viene volutamente sottovalutato dai politici, ma anche dai clinici, a favore di altri quadri clinici non meno drammatici, ma certamente con una minore incidenza sociale. L’alcolismo, soprattutto in Italia, viene vissuto e viene proposto come destino: troppi interessi impediscono una mobilitazione massiccia contro una piaga sociale tra le piu` gravi. Viene inoltre sottovalutato il facile passaggio dal bere come attivita` piacevole al bere come attivita` compulsiva e quindi patologica. Eppure i sintomi sono ben chiari ed evidenti. Il cominciare a bere nelle prime

ore del mattino, la compulsivita`, la comparsa di vuoti di memoria (da amnesie che riguardano gli avvenimenti accaduti durante la fase di ebbrezza alcolica ad amnesie anterograde), la presenza di disturbi neurologici, sono gia` segni di una situazione che non puo` essere piu` affrontata con la buona volonta`, ma che richiede un preciso programma terapeutico. ` vero che la cronaca e` piena di alcolisti E redenti e questo spesso costituisce un alibi per l’alcolista che redento non e`. Ma poi potremmo concludere con le parole dell’ateo Diagora di Samotracia che, a quanti volevano dimostrare l’esistenza degli de`i dalle numerose offerte votive nel tempio da parte dei sopravvissuti alle tempeste, disse: «...le offerte sarebbero molto piu` numerose, se anche tutti quelli che in mare sono affogati avessero avuto l’opportunita` di fare offerte». * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Definizione Pare che la piu` antica bevanda alcolica che l’uomo abbia prodotto sia la birra. La sua origine si fa risalire alla civilta` Assiro-Babilonese, unitamente alla cerealicoltura. La birra e` una bevanda che prese piede in Europa con facilita` e godette di una forte popolarita`. Essa e` stata solo in parte soppiantata dalla produzione di vino, l’importanza del quale, presso le antiche popolazioni del Vecchio Mondo, fu tale che si fece addirittura risalire la sua origine a fenomeni divini. Nel mondo Greco-Romano la coltivazione della vite ebbe un notevole sviluppo e la sua espansione seguı` praticamente quella dell’Impero. Nel Medioevo la produzione di vino si diffuse invece soprattutto ad opera dei monaci cattolici. In secoli piu` recenti, il colonialismo europeo contribuı` ad una ulteriore espansione della vite e del vino. La produzione e diffusione dei distillati e` invece piu` tardiva. Il distillato in senso moderno, il liquore, vale a dire una sapiente miscela di zuccheri, aromi ed alcool, sara` ottenuta solo con tecniche che si sono affinate a partire dall’alchimia, le cui prime tracce vanno cercate nella cultura araba. La diffusione di superalcolici inizia a produrre veri danni sociali, nel mondo occidentale, solo a partire dalla fine del XVIII secolo e soprattutto nei grandi agglomerati urbani, man mano che procede l’industrializzazione. Allo stato attuale l’uso di alcolici nel mondo e` ridotto soltanto nei Paesi di stretta osservanza islamica, mentre l’uso eccessivo rappresenta un problema sociale soprattutto nei Paesi industrializzati, dove il passaggio dall’uso tradizionale, alimentare, all’abuso che si configura come alcolismo e` di estrema facilita`, passando spesso inosservato. L’O.M.S. fornisce una definizione di alcolismo secondo la quale devono essere considerati alcolisti quei bevitori in eccesso la cui dipendenza dall’alcool abbia raggiunto un tale grado da produrre evidenti disturbi mentali che intralciano la loro salute psico-fisica, le relazioni interpersonali e la loro funzionalita` economico-sociale. Nella definizione di alcolismo devono essere considerati centrali i fenomeni di tolleranza e dipendenza. La tolleranza, con assuefazione, e` il fenomeno in conseguenza del quale il corpo si abitua a certe

sostanze psicotrope definibili come «droghe», per cui con l’andar del tempo e` necessario assumerne una quantita` sempre maggiore per produrre gli ` noto a tutti il effetti che si avevano all’inizio. E processo attraverso il quale le piccole quantita` di alcolici terminano ad un certo punto di avere l’effetto desiderato, che si ripristina con dosi via via crescenti. La maggior parte dei cosiddetti «grandi bevitori» ha acquisito tale tolleranza all’alcool, anche se questa puo` essere variabile per ognuno di essi: le cellule nervose, ad esempio, si abituano a funzionare in presenza di concentrazioni di alcool piu` alte di quanto potessero tollerarne in precedenza. L’assuefazione, peraltro, e` limitata nel caso dell’alcool rispetto ad altre «droghe», in quanto la induzione enzimatica dell’alcooldeidrogenasi e` abbastanza modesta: la presenza dell’alcool nell’organismo non richiama che piccoli incrementi enzimatici, da utilizzare nel metabolismo etilico, da parte delle cellule epatiche; pertanto, se aumentano solo per una piccola parte gli enzimi deputati all’assorbimento della sostanza, non ci puo` essere una vera assuefazione. Caratteristico dell’alcolismo, rispetto ad altre condotte tossicomaniche, e` il fenomeno di «intolleranza» dell’etilista cronico: la tolleranza diminuisce progressivamente con l’evolvere dell’intossicazione, in quanto questa produce danni epatici cosı` ingenti da sconvolgere il patrimonio enzimatico del soggetto; l’alcool non puo` essere piu` metabolizzato, si diventa intolleranti ad esso. La dipendenza e` la incapacita` di fare a meno dell’alcool. Il soggetto che ad esso e` dedito soffre solitamente di sintomi di astinenza allorche´ sospende l’assunzione. Tale sindrome di astinenza si protrae per un periodo di tempo minore rispetto a quella prodotta da sostanze stupefacenti. La dipendenza puo` essere di 2 tipi: psicologica e fisica. Cio` deriva da una azione ansiolitica, di natura farmacodinamica, che e` possibile anche in virtu` di una magica attesa del suo effetto, in quanto l’alcool simboleggia una sorta di «oggetto» ideale, sul quale sono fantasticamente trasferite una serie di aspettative, gia` frustrate in altri ambiti della propria esistenza. A causa della dipendenza fisica, gli alcolici divengono necessari al funzionamento dell’organismo pur producendo paradossalmente un gra-

L’alcolismo

duale deterioramento della salute dell’individuo. La cosiddetta sindrome di astinenza, effetto dell’improvvisa sospensione di alcolici nell’etilista cronico, e` caratterizzata prevalentemente da: tremori, nausea, vomito, allucinazioni (soprattutto visive), crisi epilettiformi, delirio; tali sintomi regrediscono se si riprende l’ingestione di alcolici. Nello stato di astinenza esiste una ipereccitabilita` della membrana cellulare neuronale che deriva da un adattamento cronico alla depressione dell’etanolo nella generazione degli impulsi. Pare che l’ipereccitabilita` dipenda, nell’alcolista, da deficit secondario dello ione magnesio che interviene nel controllo di attivita` che regolano il funzionamento della pompa Na+/K+ ATPasi-dipendente. I quadri clinici, espressione di uno stato di ipereccitabilita`, annoverano tra i sintomi neuromuscolari: parestesie, crampi, fascicolazioni, mioclonie, mialgie, contratture; tra i sintomi psichici: ansia, instabilita`, depressione dell’umore; tra i sintomi vegetativi: astenia mattutina, palpitazioni, vertigini, iperidrosi, gastralgie, precordialgie, fenomeni raynaudiani. Anche questi quadri sintomatici possono essere quindi presenti nella sindrome da astinenza che aggrava la ipereccitabilita` neuromuscolare dell’alcolista, non compensata dall’azione sedativa dell’alcool.

2. Cenni di epidemiologia I dati internazionali relativi ai consumi di alcolici si caratterizzano per la loro frammentarieta` e per la non comparabilita` reciproca, a causa della particolarita` di studi non sempre comprendenti popolazioni di territori geografici definiti ed omogenei e a causa della varieta` dei metodi utilizzati nella raccolta dei dati. Nel nostro Paese, le fonti ufficiali dei Ministeri dell’Agricoltura e della Sanita` forniscono ` certo comunque che dati molto diversi tra loro. E nei Paesi occidentali si assiste, nell’ultimo decennio, ad una diffusa diminuzione dei consumi, che segue un periodo precedente durante il quale si era invece osservato un loro aumento, particolarmente nei 2 decenni precedenti agli ultimi due (anni ’60 e ’70). Non sono ancora chiare le cause di tale inversione di tendenza. Da alcuni studi

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tuttavia emergerebbe una sorta di ciclicita` ricorrente legata prevalentemente a variazioni socioeconomiche e culturali dell’ambiente macrosociale, mentre il contesto microsociale influenzerebbe maggiormente l’andamento dell’abuso del singolo bevitore (famiglia, ambiente di lavoro, gruppo di riferimento del soggetto ecc.). Per programmare le ricerche in campo alcologico, l’O.M.S. raccomanda la sorveglianza di parametri quali: 1) 2) 3)

la disponibilita` di bevande alcoliche; i ricoveri negli Istituti di Cura pubblici e privati, per psicosi alcoliche ed alcolismo; i decessi per psicosi alcolica, alcolismo e cirrosi epatica.

Tabella 1 — CONSUMI ANNUI DI ALCOLICI IN LITRI PRO-CAPITE IN ITALIA (FONTE: ISTAT)

Vino

Birra

Liquori

1978

97.2

4.8

1.2

1979

93.6

4.8

1.2

1980

90.0

4.8

1.2

1981

88.8

4.8

1.2

1982

82.8

4.8

1.2

1983

81.6

4.8

1.2

1984

79.2

6.0

1.2

1985

73.2

12.0

2.4

1986

68.4

13.2

2.4

1987

63.6

12.0

2.4

1988

62.4

12.0

2.4

Da questi parametri si deduce che negli anni ’70 e ’80 si e` assistito, nel nostro Paese, ad un incremento del consumo soprattutto al Nord e per agglomerati urbani con popolazione maggiore di 50.000 abitanti. Tale incremento relativo riguarda in particolare l’abuso alcolico giovanile nelle grandi citta` e nelle fasce di sottoproletariato, riferibile maggiormente ai superalcolici. All’interno di tale andamento va inoltre segnalato un uso giovanile contemporaneo di «fumo», al-

482

Manuale di psichiatria e psicoterapia

cool ed altre droghe, con fenomeni di potenziamento reciproco degli effetti tossici. Da notare infine, che questi ultimi divengono ancora maggiori con frequenti introduzioni sul mercato di vini sempre piu` adulterati con sostanze di varia natura, le piu` dannose delle quali risultano essere i composti azotati. Si assiste comunque negli ultimi anni ad un generale decremento dei consumi, soprattutto riguardo al vino. Tabella 2 — MORTI PER MALATTIE CRONICHE DEL FEGATO E CIRROSI, IN ITALIA (FONTE: ISTAT)

Maschi

Femmine

Totale

1984

12.701

6.056

18.757

1985

12.425

6.067

18.492

1986

11.867

5.869

17.736

1987

10.425

5.722

16.596

Tabella 3 — MORTI PER PSICOSI ALCOLICA, IN ITALIA (FONTE: ISTAT)

Maschi

Femmine

Totale

1984

48

4

52

1985

42

6

48

1986

38

5

43

1987

24

4

28

Da altre fonti pare esistano attualmente nel nostro Paese circa un milione di alcolisti conclamati, alcune migliaia di persone a rischio di alcolismo e sembrerebbero essere avvenuti nel 1988 circa 18.000 decessi diretti imputabili all’alcool, per motivi vari (malattie, incidenti ecc.). Dal 1987 al 1994 (ultimi dati disponibili) c’e` stata una diminuzione del consumo di alcolici, delle morti per malattie croniche del fegato (cirrosi) e di morti per psicosi alcolica, pari a circa l’1% annuo. Per cio` che riguarda le cause dell’alcolismo, puo` essere utile evidenziare brevemente l’importanza determinante, nella sociogenesi dell’abuso, delle pressioni dei gruppi «primari» (coppia, famiglia, club ecc.), sulla personalita` del singolo bevitore, in particolare sul suo bisogno di dipen-

denza, nonche´ sulle dinamiche di relazione che a questo conseguono. Possiamo pensare alla necessita` di comunicazione e alla richiesta ambivalente di aiuto tramite una condotta sintomatica; ai rapporti tra il ruolo dell’alcolista in seno alla famiglia e quello assunto nel gruppo dei bevitori; alla ricerca della sicurezza di un ruolo apparentemente non coercitivo; al senso di affermazione di se´ e di appartenenza entro un contesto gruppale ecc. Tenere presenti le dinamiche di relazione risulta indispensabile per valutare la vastita` del problema e per poter mettere in atto in maniera incisiva gli interventi terapeutici e preventivi. Il valore mitico dell’alcool ed il suo uso simbolico hanno prodotto dei pregiudizi nella tradizione popolare, ancora presenti, circa le sue proprieta` e virtu` (ansiolitica, tonica, euforizzante, disinibente ecc.). Pertanto le sollecitazioni culturali cui l’individuo e` sottoposto da parte dei piccoli gruppi sociali che lo circondano sono sempre numerose e costanti, visti anche gli ampi interessi economici che le condizionano. Tali pressioni pesano sull’individuo come una sorta di soggezione sociale cui egli sottosta` per il timore di poter essere oggetto di fenomeni di espulsione da parte ` intuitivo come questo confordei gruppi stessi. E mismo comportamentale alcolofilo sia senz’altro maggiormente incisivo in quelle categorie di lavori che per le loro caratteristiche predispongono ad un consumo eccessivo (lavori pesanti, professioni soggette a frequenti spostamenti ecc.). Ma ad una alcolomania, cioe` ad una condotta patologica, e` sottesa una organizzazione psiconevrotica di cui la condotta e` sintomo. Il concorso di fattori socio-culturali puo` essere talvolta necessario, ma non sufficiente per produrre un’entita` sindromica. Negli studi eziologici si puo` avere l’impressione che un gruppo di fattori causali rinvii continuamente all’altro, tale e` l’intima commistione che si determina a certi livelli di evoluzione del processo morboso. Non si deve tuttavia sottovalutare il ruolo centrale del terreno psicopatologico individuale, le valenze psiconevrotiche della struttura premorbosa (prealcolica), senza le quali non si esprimono alterazioni del comportamento e del vissuto. Di cio` si parlera` piu` estesamente in seguito.

L’alcolismo

483

Figura 1 — Curva alcolemica nell’assorbimento dell’alcool.

3. Metabolismo ed effetti dell’alcool sull’organismo Per comprendere gli effetti dell’alcool dobbiamo considerare brevemente cosa accade nell’organismo dopo che lo si e` ingerito. A differenza di molti cibi esso non ha bisogno di subire trasformazioni durante i processi digestivi, visto che una buona parte (20%) viene direttamente assorbita nello stomaco e puo` essere rilevata in un test ematico gia` dopo qualche minuto dall’ingestione. La quota non assorbita a livello gastrico passa nell’intestino, dove viene assimilata in modo altrettanto rapido per diffusione semplice. Il tasso e la velocita` di assorbimento sono influenzati: dalla quantita` assunta, dalla modalita` di ingestione, dalla gradazione alcolica della bevanda e dalla presenza o meno di cibo nello stomaco. Bevendo a digiuno, infatti, la curva alcolemica sale rapidamente in una o due ore per tornare con molta lentezza ai livelli iniziali. Per quanto riguarda la quantita` di alcool ingerito nelle 24 ore, sono validi nell’adulto, ai fini di una completa ossidazione metabolica, i limiti di 0,8 gr. di alcool per kg. di peso corporeo: cio` equivale, per un vino di 12o, a circa mezzo litro al giorno nel caso di individui di media corporatura con corredo enzimatico medio. C’e` da dire che una maggiore gradazione alcolica influenza un piu` rapido assorbimento e che gli alimenti, particolarmente se contengono grassi, sono

in grado di ritardare l’assorbimento delle bevande alcoliche. Pare che la sola sostanza capace di aumentare l’ossidazione dell’alcool nell’organismo del 15-30% sia il fruttosio, il quale pertanto fa passare la «sbornia» piu` rapidamente. Nei capillari a contatto con gli alveoli polmonari, oltre alla CO2 vengono espulse altre sostanze volatili e fra queste l’alcool. Tale scambio viene utilizzato per determinare l’alcolemia con il respiro-analizzatore. La maggior parte (oltre il 90%) dell’alcool ingerito e` eliminato mediante ossidazione, il resto attraverso le urine e una quota minima tramite il respiro e la traspirazione cutanea: 2.100 cc di area alveolare contengono lo stesso quantitativo di alcool presente in 1 cc di sangue. Le fasi fisiologiche della curva alcolemica sono: 1) 2) 3)

4)

fase di assorbimento, con rapido incremento dell’alcolemia; fase di «plateau»; fase di diffusione con assorbimento intestinale ridotto al minimo e tendenza all’equilibrio tra alcool ematico e tessutale; fase di eliminazione ove inizia un netto e progressivo decremento dell’alcolemia.

L’alcool etilico viene ossidato ad H2O e CO2 attraverso trasformazioni metaboliche che avvengono soprattutto nel fegato. Tre sono le principali

484

Manuale di psichiatria e psicoterapia

vie di tale processo, ma la piu` importante di esse, dal punto di vista quantitativo, e` quella in cui l’ossidazione determina la formazione di acetaldeide per mezzo dell’enzima alcool-deidrogenasi (ADH). Se tutte le reazioni descritte avvengono in eccesso, inducono delle gravi alterazioni sul metabolismo epatico in rapporto con l’abnorme produzione di acetato e con l’aumento del rapporto NADH/NAD+, che sta a significare un aumento delle reazioni di riduzione, cioe` di cessione di idrogeno, a questi coenzimi, i quali pertanto, non essendo riossidati, non permettono un metabolismo cellulare ottimale. In ultima analisi, questo eccesso di NADH non favorisce l’attivazione di altri enzimi chiave nelle reazioni cellulari. Si provoca percio` uno sconvolgimento del metabolismo glucidico, lipidico e aminico (catecolamine, indolamine), con conseguenti: a)

b)

c)

ipoglicemia per blocco della gluconeogenesi (formazione endogena di glucidi a partire da altri substrati); aumento della sintesi degli acidi grassi e loro accumulo all’interno del parenchima epatico (steatosi); formazione di alcoli e glicoli invece che di acidi (VMA, 5HIA), nonche´ creazione di prodotti tossici di condensazione tra acedaldeide e amine biogene, sicuramente responsabili di alcuni effetti dannosi sul sistema nervoso.

Non vanno inoltre dimenticati un aumento di acido lattico nel sangue (da cui acidosi), la formazione di corpi chetonici, per incompleto metabolismo lipidico, con incremento della chetonemia la quale puo` aggravare l’acidosi, ed infine una interferenza con l’attivazione delle vitamine da parte delle cellule epatiche. Sono dunque molteplici gli effetti acuti e cronici che l’alcool e` in grado di produrre, ed una loro trattazione esauriente esulerebbe dai limiti ` doveroso tuttavia fornire del presente lavoro. E un cenno sugli effetti neurologico-vegetativi e psicologici dell’alcool. Riguardo ai primi e riferendoci alla «teoria dell’emozione» di Lindsley, possiamo affermare che in presenza di stimoli emozionali c’e` un incre-

Figura 2 — Metabolismo dell’etanolo: le tre vie metaboliche.

mento nell’attivita` totale del sistema nervoso, per il tramite della Formazione Reticolare. Questa struttura bulbo-ponto-mesencefalica e` , come noto, costituita da catene di brevi neuroni connessi sinapticamente a formare una complessa rete. Dal punto di vista funzionale, essa puo` essere suddivisa in due porzioni: 1) 2)

una porzione ascendente (FRA), interessata nel mantenimento del ritmo sonno-veglia; una porzione discendente, che interviene nella regolazione del tono muscolare.

Questa formazione e` fondamentale per il controllo delle secrezioni interne, per i riflessi condizionati, per l’apprendimento e l’attenzione, mediante la regolazione dei messaggi sensoriali. Pertanto ogni stimolo che, attraverso le vie di senso, pervenga alla formazione reticolare provoca un innalzamento del grado di vigilanza e parallelamente un effetto di tipo adrenergico. Le risposte determinate dall’aumento del tono simpatico hanno la caratteristica di continuare anche quando lo stimolo abbia perduto il suo effetto cosciente, sia esso piacevole, nocivo o indifferente. L’alcool esplica un’azione di filtro e freno nei confronti del cumulo di impulsi che ad ogni istante arrivano al sistema reticolare. Se assunto in piccole dosi (1cc/Kg. di peso corporeo) esso rende piu` rapidi i tempi di reazione, ma se ingerito in dosi lievemente maggiori (2cc/Kg. di peso corporeo) si hanno una diminuzione della ricetti-

L’alcolismo

vita` di stimolo da parte della sostanza reticolare ed un allungamento dei tempi di reazione, per diminuzione della capacita` di fissare l’attenzione su un compito determinato. Gia` a queste dosi, la corteccia non riesce piu` a sopperire a tale deficienza con un atto volontario. Quindi esiste un effetto bifasico sui tempi di reazione: essi vengono prima abbreviati e poi decisamente rallentati e peggiorati, essendo cio` direttamente proporzionale alla dose di alcool ingerita ed alla complessita` delle prestazioni eseguite. L’azione dell’alcool sul sistema nervoso centrale e` comunque sempre, qualunque sia la dose, di tipo depressogeno. Per quanto riguarda gli effetti psicologici e comportamentali indotti dall’alcool, si puo` affermare che dosi moderate di esso determinano piu` spesso un comportamento di tipo estroverso ed a volte, invece, un effetto introversivo, secondo la disposizione psichica prevalente del momento. Nel primo caso ne deriva facilmente una ilarita` ingiustificata, tendenza allo scherzo, alla logorrea, al turpiloquio. Nel secondo caso invece si assiste ad una tristezza spesso immotivata, con difficolta` nella formulazione dei discorsi e rallentamento ideativo, tendenza al pianto, visione catastrofica e fatalistica dell’esistenza, vittimismo talora esagerato e plateale. L’individuo pertanto perde, in entrambi i casi, il controllo sulla correttezza del proprio comportamento, la sua riservatezza, la sua dignita`. Si diviene distraibili con estrema facilita`, mentre i processi di associazione registrano una certa superficialita`, insieme ad una riduzione della discriminazione sensoriale. Il deterioramento dei freni inibitori favorisce, in un primo momento, un insolito comportamento disinvolto che, insieme al rilassamento della critica, dell’autocontrollo e dell’attenzione per i dettagli, induce a fraternizzare senza discriminazione. Si assiste ad una disinibizione che sottolinea, il piu` delle volte in modo deteriore, alcuni dei lati peggiori del carattere. Gli alcolisti cronici, come casi estremi, manifestano infatti degli stati regressivi, una tendenza ad isolarsi ed una maggiore evidenza dei loro conflitti psichici. In tal senso l’alcool agisce come gratificante, fornendo facili soluzioni di problemi che riguardano bisogni passivi di tipo infantile. Tutto cio`, unito al senso di be-

485

nessere da vasodilatazione periferica ed alla diminuzione della soglia percettiva degli stimoli dolorosi, alla deficienza della critica venuta meno, trasmette all’individuo una sensazione di superiorita`, di avventata fiducia nelle proprie capacita`, per diminuzione di valutazione del rischio personale, ed un facile ottimismo rispetto alle proprie azioni ed alla soluzione dei problemi. Vengono esaltate sensazioni di onnipotenza, soprattutto per chi assume alcool cronicamente, poiche´ in tal caso il bisogno di onnipotenza costituisce una caratteristica latente della struttura caratteriale. La fusione con l’alcool permette, in definitiva, di sentirsi illusoriamente liberi dal bisogno, perche´ introduce in un universo interiore ove tutto e` permesso e possibile.

4. Quadri clinici L’ingestione di alcolici assunti come «droghe» rappresenta un sintomo di organizzazione psiconevrotica della personalita`. In tal senso l’individuo e` mosso da una motivazione patologica che lo spinge ad una condotta particolare, quella alcolomanica appunto. Bisogna naturalmente distinguere nosograficamente quest’ultima, esplorabile prevalentemente con lo studio della motivazione individuale al bere, dai suoi effetti, vale a dire le conseguenze tossiche dell’alcool sull’organismo (intossicazioni acute e sindromi da impregnazione cronica con psicosi alcoliche).

4.1. Intossicazione alcolica acuta Coincide, in soggetti «normali», con l’ubriachezza, la quale presenta alcuni stadi clinici. Nelle prime manifestazioni si osservano: eccitamento intellettuale e motorio, euforia, ottimismo, diminuzione dell’autocontrollo e della vigilanza, abnorme loquacita`, discorsi che presentano deficit di logica e di critica, irritabilita`, aggressivita`. Sembra quasi di essere di fronte ad una condotta di tipo ipomaniacale. Successivamente i discorsi tendono ad una maggiore incoerenza, piu` evidenti si fanno i disturbi motori e quelli dell’umore, compare una ipoestesia sensoriale. In uno stadio fi-

486

Manuale di psichiatria e psicoterapia

nale compare il vomito, il respiro si fa stertoroso, l’alito assume un odore aromatico di tipo acetonico, i riflessi sono fortemente indeboliti, vi puo` essere incontinenza sfinteriale. Generalmente si osserva un sonno di tipo comatoso prima del ritorno alla norma. Questa non si ripristina se la dose di alcool ingerito e` stata eccessiva o quando preesistevano deficit organici. Accanto a questo quadro di ubriachezza «normale», esistono delle ubriachezze cosiddette patologiche o «complicate», classificabili in tre tipi fondamentali: 1) 2)

3)

forme eccito-motorie, con raptus impulsivi, tremori; forma allucinatoria, con il soggetto immerso in scene drammatiche, con possibilita` di reazioni impulsive; forma delirante, ove predomina la confabulazione e possono essere presenti talvolta dei vissuti di trasformazione della personalita`.

Queste ubriachezze terminano abitualmente con un coma, che puo` essere reversibile e dal quale puo` facilmente seguire amnesia di cio` che e` accaduto.

4.2. Sindromi da impregnazione cronica alcolica

b)

` costante uno stato confuso-onirico piu` o E meno profondo. Possiamo distinguere nosograficamente: a) b)

sindromi psicotiche (acute, subacute e croniche); encefalopatie.

4.2.1. Sindromi psicotiche

Tali disturbi sono provocati dall’effetto tossico dell’alcool sull’organismo e si manifestano sempre sulla base di una intossicazione cronica, ove la personalita` rivela squilibri precedentemente compensati sul piano fenomenologico. a)

Delirium tremens: si tratta della sindrome

c)

psicotica piu` acuta e piu` grave, che e` caratterizzata da tremori e stato confusionale. Puo` manifestarsi o per un ulteriore eccesso nell’assunzione di alcool o per una brusca interruzione dello stesso, o ancora per stress e per traumi. Tra i prodromi, il piu` frequente e` l’insonnia. Il paziente e` molto agitato, presenta notevole sudorazione, la temperatura e` elevata ed e` preda di uno stato confusoonirico. Sono presenti tachicardia, polipnea, frequente disartria e atonia. Il soggetto e` totalmente disorientato nel tempo e nello spazio, vivendo con intensa angoscia la sua produzione delirante ed allucinatoria. Vi sono frammenti di vissuti deliranti, non sistematizzati, a sfondo prevalentemente persecutorio e terrificante. Nell’ambito delle allucinazioni prevalgono quelle visive e fra queste sono piu` frequenti le microzoopsie, con soggetti repellenti (ragni, scarafaggi, pipistrelli, topi ecc.). Sul piano organico il paziente si disidrata rapidamente e cio` aggrava lo stato di confusione. Esiste il pericolo di un collasso cardiocircolatorio improvviso, di crisi convulsive gravi e di emorragie esofagee (marcata riduzione della protrombina circolante), di spiccata diminuzione della potassiemia. Stati subacuti di «allucinosi alcoolica» (Wernicke): prevale l’attivita` allucinatoria di tipo uditivo («voci») a contenuto ostile, con destrutturazione poco marcata della coscienza, senza obnubilamento, ne´ disturbi mnesici. Sono inizialmente allucinazioni che sopraggiungono, in seguito ad un eccesso alcolico, al calar della notte e sono difficili da distinguere dalle illusioni (rumori insoliti, mormorı`o, ronzii). Evoluzione favorevole in alcuni giorni con scomparsa dell’esperienza allucinatoria. ` possibile un passaggio alla cronicita`. E Deliri alcolici cronici, dove e` possibile osservare: deliri di interpretazione (prevalentemente di gelosia); deliri allucinatori, ove il soggetto e` poco ansioso e poco coinvolto, sul piano del vissuto, dall’attivita` allucinatoria, che percepisce quasi come parassita. Evoluzione in deterioramento mentale, fino alla demenza; deliri paranoidei, nell’ambito di una vera sindrome di tipo dissociativo.

L’alcolismo

487

` DI BEVANDA ALCOLICA (A DIGIUNO) Tabella 4 — TASSO DI ALCOLEMIA IN RAPPORTO ALLA QUANTITA o

Vino a 10 Alcolemia mg/100 ml

quant. gr.

conten. alcool gr.

o

Whisky a 45 quant. gr.

conten. alcool gr.

o

quant. gr.

Aperitivo a 20

conten. alcool gr.

quant. gr.

conten. alcool gr.

comportamento individuale in rapporto alla alcolemia

10

70

7

15

6.75

150

7.50

35

7

Normalita`

20

150

15

30

13.50

300

15

70

14

Sensazione di caldo, cordialita` , digestione difficile, allungamento della risposta agli stimoli visivi.

40

250

25

50

20.50

500

25

100

20

Diminuzione della profondita` del campo visivo. Abilita` di guida alle basse velocita`.

50

300

30

60

27

600

30

125

25

Perdita delle inibizioni, euforia, aggressivita`, impulsivita`, disturbi del campo visivo e della percezione della luce.

80

350

35

80

36

750

37.5

170

35

Deterioramento delle reazioni motorie e perdita della capacita` di precisione.

100

600

60

120

54

1250

63

300

60

Movimenti incerti, barcollamenti, comportamento scurrile, perdita dell’abilita` di adattamento alla oscurita`. Prime alterazioni del senso stereoscopico.

120

750

75

150

61

1500

75

400

80

Debolezza dei muscoli oculari, disturbi dell’accomodazione e della convergenza, perdita dell’equilibrio.

150

900

90

200

90

2000

100

500

100

Ubriachezza evidente. Perdita del coordinamento muscolare, reazioni lente, frequente diplopia (visione sdoppiata degli oggetti)

200

1250

125

300

135

3000

150

750

150

Irritabilita` , depressione, nausea, perdita del controllo degli sfinteri.

300

2000

200

500

225

4000

200

1000

200

Stupore.

400-500

3000

300

700

315

6000

300

1500

300

Coma.

600-700

4000

400

900

405

8000

400

2000

400

Paralisi dei centri respiratori e morte.

4.2.2. Encefalopatie

In tutte le loro espressioni cliniche le encefalopatie sono dovute a carenze di vitamine del complesso B in conseguenza dell’abuso alcolico. Si osservano lesioni periferiche o centrali del sistema nervoso. Classicamente si descrivono varie sindromi anatomo-cliniche, di cui le maggiori sono le seguenti: a)

o

Birra a 5

Psicosi polinevritica di Korsakov: colpisce bevitori inveterati, fisicamente e moralmente deteriorati. Caratteristici i disturbi della me-

b)

moria, in particolare di fissazione, con confabulazioni. Esistono lesioni dei corpi mamillari e polinevrite periferica con sintomi di varia entita`, dalle parestesie alla abolizione dei riflessi tendinei, atrofie muscolari, andatura steppante ecc. Non e` raro un passaggio alla cronicita` che puo` interessare sia la sola polinevrite sia i soli disturbi mentali, con un andamento demenziale progressivo. Encefalopatia di Wernicke: ha un inizio progressivo con disturbi digestivi, ansia, irritabilita`, insonnia, indifferenza ed inattivita`, cefa-

488

c)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

lea, vertigo. Nel periodo di stato, il quadro clinico e` dominato da torpore e sonnolenza interrotti da fasi di agitazione, delirio, allucinazioni. Caratteristica, ma incostante, e` la paralisi dei globi oculari, fotofobia, nistagmo ed altri disturbi oculari, eventualmente associati a rigidita` di tipo meningitico. L’encefalopatia, non trattata, evolve in alcuni giorni o talvolta in qualche mese verso il coma, la cachessia e l’exitus. Le lesioni anatomiche di questa sindrome interessano prevalentemente i centri periventricolari di regolazione neuro-vegetativa. Encefalopatia alcolica porto-cava: si verifica in etilisti affetti da cirrosi ed e` caratterizzata da disturbi della coscienza, dell’umore (apatia, irritabilita` o spensieratezza puerile), associati al cosiddetto «flapping tremor» (una sorta di battito d’ali delle dita, con movimenti alternati di flessione ed estensione) e ad ipotonia muscolare. Il coma e` generalmente reversibile.

4.2.3. Demenze alcoliche

Dopo un periodo di intossicazione cronica, l’alcolista si avvia verso uno stato di deterioramento intellettuale ed affettivo progressivo, entro un quadro demenziale prevalentemente etico, senza idee deliranti di grandezza, ove si osserva un decadimento morale e sociale sempre piu` profondo. Si puo` assistere alla pseudo-paralisi progressiva alcolica. Si pensa che le forme demenziali dipendano da lesioni varie che interessano sia la corteccia ed i nuclei grigi centrali (sclerosi ed emorragie), sia diffuse sclerosi della nevroglia, sia emorragie meningee intra-aracnoidee che ` possibile, con trattacomprimono l’encefalo. E mento farmacologico, una reversibilita` parziale dei sintomi.

4.2.4. Alcolismo ed epilessia

L’alcool abbassa la soglia di convulsibilita`, pertanto chiunque presenti problemi di tipo epi-

lettico, bevendo puo` andare piu` facilmente incontro a crisi. Esiste tuttavia una epilessia alcolica propriamente detta ove non si riscontrano tracciati di tipo comiziale, per cui una terapia specifica antiepilettica in questo caso e` inutile.

5. Concetti psicodinamici generali sull’abuso etilico Si possono sinteticamente delineare tre tipi fondamentali di strutture caratteriali che influenzano la motivazione all’abuso alcolico: strutture nevrotico-ansiose, caratteropatie e strutture depressive. Nel primo caso la motivazione principale e` l’ansia, nel secondo caso l’abuso assume le caratteristiche di una protesta solitaria e silenziosa verso gli altri, nel terzo caso la condotta alcolomanica sembra legata ad una spinta autodistruttiva, una sorta di lento suicidio. Nonostante che in letteratura si sia ampiamente abusato di concetti psicodinamici che focalizzano l’attenzione sulla storia remota di colui che sara` il futuro alcolista, nel tentativo di mettere in luce la presenza di eventuali traumi infantili e conseguenti conflitti di base caratteristici e specifici in ogni singolo caso, pur tuttavia rimangono costanti degli elementi generali e comuni, per cui sembrerebbero presenti in ogni processo di alcolizzazione, anche se con intensita` variabile da un caso all’altro, alcuni tratti caratteriali classicamente definiti come «caratteristiche orali», in genere attribuibili alla carenza di un equilibrato rapporto affettivo con le prime figure significative. Questi tratti vanno intesi nel senso di una soddisfazione pulsionale derivante dal piacere di succhiare, ingerire ed incorporare. L’alcool rappresenta, in chi ne abusa, un cibo psicologico, che nell’atto dell’ingestione riafferma e rafforza la carente sicurezza di se stessi e l’autostima. Tale impasse nell’oralita` spiega come l’alcolista, analogamente al lattante, tenda a superare repentinamente tutto cio` che in lui provoca delle tensioni psichiche intollerabili, tramite un appagamento immediato del bisogno, senza aspettare e differire, non finalizzando le sue azioni ma agendo per impulso. Si assiste cosı` nell’adulto ad una sorta di caricatura comportamentale del neonato: le azio-

L’alcolismo

ni «per impulso» del lattante verso il suo nutrimento fisiologico diventano azioni «per compulsione» dell’alcolista verso la bottiglia. In tal modo egli cerca di difendersi dall’ansia e dalla frustrazione che non sa tollerare. La sua vita oscilla cosı` tra una continua ricerca di sicurezza, di consenso e di amore, da una parte, e un’altrettanto continua delusione, dall’altra. Da qui un conflitto insanabile che pone come unica esigenza il bisogno della sostanza da cui si e` passivamente soggiogati. Le tendenze ciclotimiche e depressive rispondenti ad una estrema fragilita` dell’Io esigono la sostanza tossica per rinforzare i meccanismi maniacali col cui uso si sfugge alla depressione ed al rischio di suicidio. La compulsione bramosa, di possesso e controllo, tende a prendere rapporto con il mondo esterno tramite una introiezione psichica, una interiorizzazione realizzata simbolicamente attraverso l’incorporazione. Tutto cio` che di frustrante investe l’individuo viene distrutto attraverso l’alcool, il quale assurge a simbolo di oggetto onnipotente, rinforzando delle caratteristiche narcisistiche gia` presenti, anch’esse legate all’oralita`. Nell’alcolista, l’incapacita` di sopportare il dolore ed il ricorso a qualcosa di «magico» che permetta di tollerare le situazioni spiacevoli senza affrontarle direttamente, cioe` risolverle, producono un forte senso di colpa che indebolisce ancora di piu` l’Io. Nello stato euforico l’individuo raggiunge, al di fuori di un rapporto psichicamente concreto col reale, l’appagamento dei bisogni e dei sogni di un universo interiore narcisistico, arcaico ed onnipotente, confondendosi con il suo «ideale dell’Io», tanto che il «Super-io» si indebolisce progressivamente, lasciando il posto ad una pulsione narcisistica primordiale. Questo isolamento fantastico trova un corrispettivo riflesso nella emarginazione sociale ed affettiva che l’alcolista raggiunge come meta ultima del suo curriculum patologico. Uno pseudo-orgasmo alimentare, vissuto regressivamente da chi beve, sostituisce i consueti meccanismi di investimento oggettuale delle energie libidiche verso l’altro ed ancor piu` verso il partner potenziale. In questo modo il mondo

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esterno perde valore sul piano relazionale ed i vari problemi che deriverebbero da un rapporto sano con tutto cio` che non e` solamente il Se´ vengono neutralizzati nell’assunzione dell’alcool. Premesso che per «oggetto» si debba intendere tutto cio` che e` altro da se stessi, cioe` situazioni, persone, oggetti ecc., si puo` considerare l’alcolismo, alla stregua delle nevrosi e psicosi, come un tentativo di sottrarsi al contatto con la sofferenza e con le conflittualita`, con la differenza che nelle nevrosi i conflitti pulsionali e nelle psicosi i conflitti con la realta` non vengono controllati. L’alcool rappresenta invece, attraverso la soddisfazione che concede in chi ne abusa, «l’oggetto ideale» il cui assorbimento e` sinonimo di scomparsa della tensione interna prodotta da tutto cio` che e` vissuto come abbandono da parte dell’altro, come situazione di perdita dell’amore, o piu` genericamente dell’oggetto significativo e in tutte quelle circostanze in cui si manifesta l’impossibilita` del controllo onnipotente su di esso. Per eludere la frustrazione l’etilista cerca di ridurre sempre piu` la presenza dei suoi momenti di lucidita`, orientandosi verso l’ebbrezza continuativa. Si giunge ad una situazione coattiva per cui il bere viene inevitabilmente vissuto come una necessita` compulsiva che da un lato alleggerisce la tensione psichica e dall’altro soccorre il senso di colpa: una spirale per cui l’alcool finisce per assumere, agli occhi di chi beve, le caratteristiche di causa ed effetto di se stesso. Con questa formazione reattiva compulsiva si realizza un meccanismo di difesa che riesce a tenere a bada l’ansia solo nel momento dell’ingestione alcolica (introiezione oggettuale) e nell’ebbrezza (espansione della onnipotenza narcisistica). In tal modo con l’ebbrezza l’individuo porta alla coscienza le sue fantasie rimosse, permettendosi l’accesso a discorsi ed azioni che da sobrio non gli sono possibili. Si possono spiegare cosı` alcuni casi di ebbrezza con piccolissime dosi di alcool, determinati non da azioni idiosincrasiche ma psicogene, o ebbrezze ricavate dall’ingestione di sostanze non alcoliche (dipsomania). Come si e` visto, le personalita` premorbose degli alcolisti, essendo disturbate nel proprio sviluppo pulsionale, conducono spesso ad aspetti di tipo psicotico e psicopatico con notevoli cariche

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di distruttivita` sociale o a quadri nevrotici con forte componente ansiosa, ipocondriaca, depressiva, isterica. Le situazioni psicopatologiche che forniscono una spinta a bere possono essere viste come un tentativo difensivo di fronte a stati di disagio psichico osservabili in alcune fasi iniziali di una ulteriore possibile psicosi, la cui drammaticita` viene cosı` in parte evitata. Tuttavia gli eventi psicopatologici che piu` frequentemente contribuiscono all’alcolismo sarebbero di tipo nevrotico. Anche alla base dell’alcolismo reattivo vi e` infatti un conflitto per l’esistenza del soggetto, che impone difese, consistenti nella produzione di un derivato della idea primitiva che si vuole negare e che non si riesce ad affrontare. Il bere, in questo senso, trova spiegazione nel meccanismo difensivo di «spostamento»: il sostituto dell’oggetto, o il tramite verso di esso, cioe` l’alcool, da un lato presenta, per associazione, delle connessioni con un’idea respinta, dall’altro, allontanando quest’ultima, sfugge alla repressione superegoica. Il fenomeno, mediato dalla coazione a bere, esprime l’angoscia originaria scaricandola nella coazione stessa. C’e` da notare pero` che la generica coazione nevrotica e` vissuta come estranea all’Io, mentre la coazione alcolica e` strettamente dipendente da esso e ne rappresenta il supporto indispensabile, la condizione di sopravvivenza: cio` determina un’ulteriore giustificazione interna alla necessita` della compulsione, la quale non e` sentita come estranea all’Io ma viene assorbita nella struttura caratteriale. L’irresistibilita` nell’assunzione di alcolici deriva, in questo senso, da una necessita` pulsionale che si combina con una esigenza difensiva conseguenziale, per cui la coazione e` vissuta come una soddisfazione delle stesse esigenze pulsionali. L’«oggetto ossessivo» si trasforma, nell’alcool, in una caratteristica interiore, in quanto si e` tentato di distruggerne l’estraneita` facendo proprio l’oggetto attraverso l’ingestione, con conseguente illusione di controllo sia sulla realta` che sulla «persecuzione» ossessiva. ` evidente in ogni caso l’esigenza di ovviare, E col bere, alle tremende sensazioni di solitudine affettiva cui va incontro il debole mosaico dell’Io dell’alcolista, fino alla reazione autodistruttiva di abbandono. Quest’ultima non e` attuata per an-

nientare il suo essere fisico bensı` per dimostrarne la presenza. L’alcolista impone l’immagine del proprio corpo e del proprio Se´ agli altri, comunicando con essi tramite questa proiezione narcisistica. L’egocentrismo, tuttavia, deve essere visto come unico ed estremo tentativo, anche se debole ed incoerente, per nutrire un Io che non sa rapportarsi alla realta` in termini di confronto o di pura aggressione compensata (come avviene nelle nevrosi tipiche), ma tenta di comunicare soprattutto con relazioni passive. La inutilita` del mondo oggettivo, reso superfluo dalla condotta alcolomanica, facilita sovente una psicotica rottura finale con la realta`. ` comunque importante capire se una perE sona si da` all’alcool per dispiaceri esterni oppure interni (nuclei depressivi), per poi abbandonare tale condotta quando cessa di essere utile per lei, o al contrario se la sua intera psicosessualita` e la sua autostima sono regolate dal bisogno di fuggire in ubriachezze euforiche: infatti il bevitore conviviale ha una prognosi migliore del bevitore solitario. Nell’ambito del fenomeno «alcolismo» esiste infatti una condotta che potremmo definire «alcolofila», la quale pur orientando il soggetto verso assunzioni superiori alla media e` compatibile con un inserimento sociale soddisfacente e non sottende strutture psicopatologiche particolarmente disturbate: si tratta del fenomeno dei «piccoli bevitori», bevitori sociali, che sembra siano numericamente maggiori di quanto si pensi comunemente. Possono essere stimati all’incirca intorno al 5-10% della popolazione globale. L’alcolofilia comunque determina danni organici non trascurabili, anche se subdoli poiche´ molto diluiti nel tempo.

6. Interventi terapeutici Poiche´ la condizione psicologica del bevitore puo` rispondere ad una organizzazione caratteriale nevrotica secondaria o piu` francamente primitiva e psicotica, la prima cosa da fare, necessaria e propedeutica alla terapia, sara` una accurata diagnosi della struttura che accompagna il sintomo dominante (l’abuso etilico), insieme alla consape-

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mette di distinguerli da quelli subacuti e` la sindrome vegetativa (agitazione, ipotermia, sudorazione ecc.), che risente favorevolmente di terapia sedativa. Al riguardo l’associazione tra cloropromazina (50 mg. i.m. o e.v., fino a 300/24h) e benzodiazepine sembra essere tra le piu` efficaci.

volezza, da parte del terapeuta, che la ricaduta rappresenta una evoluzione usuale in questa cura che va gestita per parecchi anni. Il lungo trattamento esige costanza da parte del malato e dei terapeuti, ed e` bene non attendersi risultati decisivi sul piano del miglioramento da un paziente che presenta difficolta` di collaborazione. Gli interventi terapeutici richiedono lo sforzo e la stretta cooperazione di operatori di diverse discipline, in collaborazione e senza eccessive egemonie. Anche se la terapia dell’alcolismo non e` schematica come puo` esserlo talvolta quella di altre malattie, si possono sottolineare delle fasi nel trattamento, integrantisi una nell’altra, in cui vanno gestiti interventi farmacologici e non farmacologici.

Va evidenziato, per inciso, come in situazioni depressive ove sia presente la contemporanea assunzione di alcolici, gli antidepressivi maggiori della classe dei triciclici riscuotano un notevole successo, non esente pero` da rischi di interazione. A tale riguardo sembra invece che la Fluoxetina, agente fondamentalmente sull’uptake della serotonina, abbia dimostrato un elevato grado di tollerabilita` nell’etilista, unitamente ad un effetto terapeutico soddisfacente.

6.1. Disintossicazione

6.2. Astinenza, divezzamento e sostegno

Poiche´, piu` frequentemente, l’alcolista chiede aiuto in seguito ad episodi acuti o a riacutizzazioni, e` evidente che in tal caso si impone il ricovero ospedaliero, ove e` importante sorvegliare il bilancio biologico dell’organismo, con particolare attenzione a: perdita idrica, diuresi, elettroliti, magnesemia, avitaminosi (complesso B), azotemia, ammoniemia, proteinemia totale e frazionata, riserva alcalina, funzionalita` epatica e surrenalica. Si e` soliti usare farmaci dotati di attivita` protettiva nei confronti delle lesioni indotte dall’intossicazione etanolica. A titolo di esempio, per le lesioni epatiche tra i farmaci piu` attivi sembra esservi il complesso UDPG-GSH-vit. B12 (uridindifosfoglucosio-glutatione ridotto-vit. B12). In caso di coma epatico, sensibili miglioramenti dell’E.E.G. e del quadro neuropsichico sono stati ottenuti con farmaci agenti sull’equilibrio catecolaminico (levodopa), per antagonizzare l’azione dei cosiddetti «falsi trasmettitori», fino ad un ritorno stabile e duraturo della coscienza e scomparsa dei segni extrapiramidali. I falsi trasmettitori sono sostanze appartenenti soprattutto al gruppo GABA, quali omologhi dell’αmetil-dopa, la cui presenza in eccesso deriva probabilmente dalla iperammoniemia, per danno epatico. Cio` che caratterizza gli episodi acuti e per-

Puo` essere utile un trattamento con Disulfiram (farmaco che provoca disgusto ed intolleranza fisica all’alcool), a dosi ripetute fino alla creazione di un riflesso condizionato che impedisce di bere, ma questo da solo rimane insufficiente. Si rende sempre necessario stabilire una relazione terapeutica positiva, con cooperazione attiva del malato. Cio` vale soprattutto nei casi di alcolomania secondaria in cui ci puo` essere speranza di riorganizzare la personalita` in modo stabile, attraverso l’astinenza. Questa sara` un risultato acquisito e duraturo se si aiuta il paziente a sostenere il suo Io attraverso una presa di coscienza delle tensioni emotive che cercava di eludere o di combattere con l’alcool. Sebbene siano da evitare sia atteggiamenti proibizionistici e repressivi (che molto spesso rinforzano il sintomo), sia atteggiamenti permissivi, possono essere utilizzate con successo le manifestazioni di intolleranza sociale verso l’alcolista, mantenendo un atteggiamento direttivo, «prescrittivo» e di alleanza ` intuitivo come in molti casi queste col malato. E prime fasi terapeutiche — disintossicazione, astinenza e sostegno — possano sovrapporsi; e` altresı` evidente come un atteggiamento psicoterapico di fondo, impostato appunto sul sostegno, debba accompagnare ogni intervento.

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6.3. Psicoterapia e riabilitazione Scopo della psicoterapia, nell’ambito di un progetto riabilitativo, e` quello di permettere all’alcolista, in un primo momento, di riconoscere la sua condotta alcolomanica, che generalmente non gli appare evidente, accettando la sua incapacita` di sopportare l’alcool. Egli deve essere aiutato a separarsi dall’illusione di onnipotenza prodotta dall’alcool, orientandosi verso le sue ritrovate o residue capacita` e possibilita` reali, promuovendo una maturazione affettiva attraverso la quale riorganizzare la sua vita. Per quanto riguarda una psicoterapia individuale, e` utile una preliminare distinzione tra la compensazione attiva e quella passiva che conducono all’alcool. In effetti la psicoterapia individuale e` realizzabile con estrema difficolta` nei casi gravi di alcolismo cronico, a causa del prepotente decadimento psico-fisico cui il malato va incontro, per cui puo` avere solo dei modesti effetti positivi di superficie. Il piu` delle volte la psicoterapia va estesa all’ambito familiare, ove questo esista, le cui dinamiche di relazione sono sempre fortemente disturbate. Va evitata soprattutto la ricostruzione di un’alleanza di coppia o di gruppo contro il nuovo arrivato (terapeuta), il quale tende a compromettere, per il solo fatto di coinvolgersi, l’«equilibrio» precedente, anche se patologico. Soprattutto chi si trova in relazione piu` stretta col malato abbandona con difficolta` i benefı`ci secondari ricavati dal comportamento di lui. Un intervento psicoterapico sulla famiglia dell’alcolista ha la possibilita` di riuscire se ci si sforza di non definire a tutti i costi, nell’ambito delle relazioni intrafamiliari, il «malato» sul quale condensare tutti gli sforzi. Si dovra` invece agire sull’insieme del nucleo cercando di evitare il ritorno di conflitti comunicativi nella situazione terapeutica. Va quindi offerto un reale modello alternativo di relazione, per una elaborazione collettiva del disagio. ` evidente il valore limitato di un operatore E unico, i suoi risultati parziali, la frequente impotenza operativa cui puo` andare incontro. Nell’ambito del reinserimento globale dell’alcolista e` necessaria l’opera combinata di piu` operatori di discipline afferenti, con l’intervento indispensabile di assistenti sociali, personale paramedico

ecc., per eliminare tensioni coniugali, familiari, professionali, anche presso i compagni e i datori di lavoro, ove cio` possa avere un senso. Alcune psicoterapie di gruppo sembrerebbero piu` efficaci degli approcci individuali, per quanto riguarda una funzione di risocializzazione parziale all’interno del gruppo stesso, ove l’alcool perde tutta la sua carica di oggetto «risolutivo» dei bisogni e delle ansie di chi e` portato ad abusarne da solo. A questo proposito si sono rivelate particolarmente efficaci sul piano dei risultati pratici le associazioni di ex bevitori o Alcolisti Anonimi 1 (A.A.) dove l’anonimato dei membri e` un punto di partenza irrinunciabile. Questi gruppi sono autogestiti e si configurano come un punto di incontro in cui si trova una risposta nel confronto con gli stessi problemi degli altri, cercando di evitare le ricadute ed i ricoveri, in quanto ognuna delle prime e` spesso, nell’alcolista cronico, un appuntamento con i secondi; cercando di non tornare al fatidico «primo bicchiere», che trascina poi con se´ tutti i successivi. Pur raggiungendo la socializzazione di un bisogno, il bere, e quindi il suo controllo, senza ricorrere a misure formalmente repressive, A.A. non permette la definitiva soluzione delle cause dell’abuso, restando un intervento centrato sul sintomo. A chi fosse sufficientemente motivato si puo` consigliare, dopo aver raggiunto una sobrieta` soddisfacentemente stabile con l’aiuto di A.A., di iniziare una psicoterapia individuale.

7. Dinamiche psichiche in gruppi di ex-alcolisti Le riunioni di gruppo di A.A. si basano su parziali dinamiche di tipo psicoterapeutico, quali la esortazione dell’Io ad affermarsi tramite un transfert superegoico e di conseguenza a smettere di bere, fino ad una sorta di autoipnosi (io devo smettere di bere), nonche´ l’identificazione nei cosiddetti «padrini» (coloro che sono sobri da

1 Per A.A. si intende sia l’associazione A.A., e quindi e` al singolare, sia gli Alcolisti Anonimi.

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molto tempo), i quali forniscono un modello cui aderire. Secondo le convinzioni di A.A., l’alcolismo e` una malattia incurabile ad andamento progressivo, caratterizzata dalla ossessione del bere ed il cui decorso puo` essere solo arrestato, ma non risolto, essendo impossibile una guarigione completa: «un alcolista non riuscira` mai a tornare a bere in modo normale». Esistono secondo A.A. due componenti riguardo alla compulsione dell’alcolista: una psichica e l’altra fisica. Queste non si riferiscono a cio` cui si e` accennato quando si e` parlato dei fenomeni di dipendenza, ma assistiamo ad una loro mistificazione soprattutto per la componente psichica. L’A.A. da` alla dipendenza psichica un significato di «preoccupazione» nel senso di essere ansiosi, angosciati, poiche´ si teme di non riuscire a smettere di bere, negando le cause reali dei conflitti che producono ansia. Si da` inoltre alla dipendenza fisica il significato di «esigenza», nel senso che questa scatterebbe come compulsione solo quando esiste alcool nell’organismo, poiche´ l’alcolista non avrebbe motivazioni psichiche particolari per assumere alcolici. Sarebbe dunque l’incontro anche casuale con l’alcool a produrre tutti i problemi. L’A.A. e` convinta che agli alcolisti certe bevande facciano piu` male, per motivi genetici, che alle persone «normali», condizionandoli fino alla coazione: ancora una volta il nemico e` fuori (alcool) e non dentro l’individuo (conflitto). Si noti come la situazione paradossale in cui cade l’A.A. nei confronti dei concetti di compulsione e di dipendenza sia strettamente necessaria per il particolare tipo di dinamica di gruppo, che non si avvale della conduzione da parte di un terapeuta professionista e pertanto accusa delle difficolta` nell’approfondimento delle tematiche interpretative. La spiegazione che l’A.A. fornisce della compulsione e delle spinte causali sulla personalita` premorbosa del singolo puo` essere interpretata dinamicamente come resistenza ad una introspezione completa e come negazione dei conflitti di fondo che, se emergessero, metterebbero in grave difficolta` il lavoro di recupero del gruppo. In base a questi presupposti e` abbastanza facile per l’A.A., e per certi versi necessario, operare una connessione tra «esigenza» fisica e

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aspetti genetici. Sulla scorta di ricerche fatte da vari Autori, e mai sufficientemente dimostrate, viene sostenuta una elevata percentuale di tipo genetico sulla percentuale costituita da fattori ambientali. Cio` conduce facilmente ad affermare: «noi nasciamo alcolisti». Secondo tali convinzioni l’alcolista sarebbe maggiormente sensibile agli effetti dannosi delle bevande alcoliche, rispetto agli altri individui. I possibili quanto frequenti ed inevitabili problemi psicologici che si trovano a monte dell’abuso vengono iterativamente spiegati come conseguenza degli aspetti dannosi dell’alcool sulla psiche, e l’etilismo e` considerato una malattia «primaria», a partenza genetica. L’esperienza del gruppo A.A. insegna che non bisogna assolutamente sottovalutare il sintomo «ingestione», il quale va prontamente combattuto in quanto ha come peculiare caratteristica la restrizione della coscienza, sia dal punto di vista organico (che il gruppo considera come alterazioni neurologiche), sia dal punto di vista psichico (che il gruppo considera come coazione a bere e come dipendenza). L’importanza del gruppo e` anteposta a quella dei problemi familiari, in quanto l’alcolista nel suo bisogno di sobrieta` non puo` permettersi di non pensare in primo luogo a se stesso («io mi voglio bene»). L’importanza di eventuali conflitti intrafamiliari confluisce soprattutto nelle discussioni cosiddette «aperte», alle quali puo` partecipare chiunque. In esse finiscono per prevalere, tuttavia, ` comgli interessi egocentrici dell’ex-bevitore. E prensibile la necessita` di tali limitazioni dinamiche dell’A.A., ivi compreso il sostegno psicologico rappresentato dal credersi geneticamente alcolista e quindi accomunato da una caratteristica che rinforza l’equilibrio e la coesione del gruppo. Nella caratterialita` alcolica, quale puo` osservarsi in uno di questi gruppi, soprattutto nei soggetti non ancora recuperati, emerge in larga misura, rispetto ad altre caratteristiche, un individualismo provocatorio: all’alcolista serve soprattutto di riscattarsi dalla bevanda che ha finito per costituire il suo oggetto persecutorio. In tal senso, l’individualismo nel gruppo e` reattivo, oltre naturalmente a costituirsi come ipertrofia del narcisimo di base. Una riconversione di onnipotenza narcisistica, al di fuori dell’incorporazione dell’oggetto

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alcool, avviene nel gruppo su di un altro piano, nella fusione con la figura madre dell’A.A., poiche´ da essa l’alcolista riceve il nutrimento «spirituale» che sostituisce l’alcool. Ammettere l’esistenza di un «potere superiore» non puo` che riconvertirne alcuni tratti del carattere. L’alcolista puo` riuscire, grazie ai «dodici passi» (regole metodologiche imposte dal gruppo), a modificare temporaneamente parte della sua struttura interiore, lasciando aperta la speranza di altri eventuali cambiamenti. Quando cio` accade, senza risentimenti e resistenze, egli cessera` di sentirsi «tipicamente» alcolista. Il mantenimento di questa situazione e` condizione necessaria per il perdurare della sobrieta` anche per tutta la vita, fatta eccezione per alcune possibili ricadute. Una sorta di «risveglio spirituale» o religioso puo` essere considerato come un atto necessario per riporre la fede-fiducia nella propria onnipotenza. Quando l’individuo rinuncia ai propri impulsi aggressivi rivolti verso se stesso e verso l’esterno, puo` provare sentimenti positivi come l’amore e l’amicizia: e` l’antitesi dell’ansia, dell’irritabilita` e dell’aggressivita` che hanno caratterizzato il periodo precedente. Questa nuova condizione emotiva fa sı` che l’alcolista non si senta piu` spinto a bere in termini coattivi. L’effetto e lo scopo principale dell’A.A. e` di sviluppare una «spiritualita`» che possa neutralizzare l’egocentrismo che caratterizza inizialmente l’alcolista. Senza l’apporto spirituale il cambia` significativo il fatto che mento non e` durevole. E questo cambiamento avviene senza la presenza di uno psicoterapeuta ed e` riconducibile ad una dinamica di identificazione introiettiva. L’alcolista sente l’esigenza di uscire dai vecchi vissuti di frustrazione, «realizzandosi» all’interno di una gratificazione che, nella spiritualita` diviene tanto piu` vasta in quanto confluisce in una possibilita` sublimativa che e` poi il piu` profondo bisogno latente nella caratterialita` alcolica. Tuttavia, con tali caratteristiche sublimative, all’interno della terapia essenzialmente suggestiva di A.A., l’individuo sperimenta una esperienza adattiva che gli permette di convivere con i propri problemi. Si tratta, quindi, di una psicoterapia emotiva che potremmo definire istintiva, «primitiva», nel senso che cerca di far leva sulle aspirazioni pre-

conflittuali. Essa non arriva alla comprensione e risoluzione del conflitto, ma cerca di scavalcarlo, tentando una ridefinizione superegoica. Il conflitto di base della personalita` alcolica viene «sanato» potenziando l’ideale dell’Io attraverso una condensazione in esso della potenza. Cio` si realizza per mezzo dell’introiezione della simbologia divina (l’Io divinizzato o divinita` incarnata, di cui parlano alcuni membri di A.A.), sostituto delle figure significative dell’infanzia. Pertanto l’introiezione sostitutiva soddisfa, da una parte, il bisogno di onnipotenza conflittuale (anche io sono Dio), dall’altra la necessita` di coscienza morale (Dio e` dentro di me), di norma interiore, di legge costituita, di condotta di vita. L’interiorizzazione di quest’ultimo elemento soddisfa anche il senso di colpa derivante dall’essere stato alcolista e dal temere di poterlo ancora essere. Nell’A.A. si esorcizza infatti cio` di cui una volta inconsciamente si godeva, continuandone a parlare: e` la ripetizione che annulla simbolicamente il valore oggettivo di cio` che si vuole eludere. Ci si sostiene tentando di salvare coloro che ancora godono inconsciamente di cio` di cui non si puo` e non si vuole piu` godere. Estremamente significative sono le seguenti frasi dette da un alcolista durante una riunione in cui si commentava uno dei dodici passi: «Dio e` tutto, lo si trova dappertutto» (quindi anche dentro di noi); «Dio e` il gruppo»; «Il gruppo e` tutto». Le quattro proposizioni costituiscono una conseguenzialita` logica circolare, intesa anche come luogo psichico. Esse vogliono realizzare la possibilita` di darsi una identita` difensiva; infatti in questa circolarita` logica non e` possibile inserirci nient’altro. La interscambiabilita` dei contenuti delle quattro proposizioni rinforza inoltre la circolarita` psichica difensiva. I contenuti Dio, Gruppo, tutto, dappertutto, sono una sorta di temi archetipici che hanno validita` assoluta essendo svincolati da rapporti di qualunque tipo; infatti, c’e` indipendenza dell’archetipo dal luogo in cui esso si realizza (Dio si trova dappertutto). O si accettano i quattro termini onnipresenti, o se ne e` fuori. Il Dio di A.A. si trova al di fuori di ogni connotazione confessionale: esso non ha una veste religiosa precisa, e` una entita` totalizzante,

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Figura 3

anonima e indiscutibile, e cio` le conferisce il suo enorme potere di accoglimento. La «religione» di A.A. e` la riscoperta di una entita` divina inconscia, al di fuori della storia e delle azioni degli uomini, alla quale demandare tutto cio` che la storia, intesa anche come storia individuale, puo` deludere e frustrare. Se si accetta la sua astoricita`, questo Dio non e` piu` discutibile e la sua indiscutibilita` lo rende indistruttibile. Ci si trova di fronte ad una sorta di rito orale, o meglio verbale, che rinvia ad una divinita` dalle caratteristiche arcaiche, pretotemiche. In fondo, in A.A. si realizza la sostituzione della oralita` alcolica (rito alcolico) col rito della verbalizzazione (oralita` della verbalizzazione). In altre parole, la tipica regressione dell’alcolista verso una dimensione orale e` parzialmente superata con un ritorno ai contenuti inconsci delle origini, che caratterizzano una forma di misticismo sostitutivo. Ma una religiosita` siffatta non da` spazio a fenomeni di culto collettivo in forma di esperienze liturgiche tradizionali. L’alcolista ha bisogno di dar forma ad una entita` oggettiva che si carichi e racchiuda in se´ i contenuti della religiosita`: nasce il gruppo totemizzato. Un padretotem, un padre divinizzato cui riferire i piu` alti contenuti dell’Io e che si rapporta anche con un sistema codificato di leggi e di norme da seguire, rinforzando cosı` la propria struttura totemica: i «passi», le «tradizioni» ecc. Alla figura di «madre buona» di A.A., alla quale faceva riferimento l’alcolista all’inizio dei suoi approcci con il gruppo si affianca una immagine paterna piu` forte, superiore, che presuppone necessariamente delle

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conquiste evolutive individuali. Le deboli istanze psichiche che non avevano trovato compimento nel rapporto con le figure parentali della storia personale trovano cosı` una collocazione soddisfacente, anche se non definitiva: esiste sempre infatti la possibilita` di ricadute. Con questa «rinascita spirituale» l’individuo si sente finalmente libero di cominciare una vita ` significativo al riguardo che ogni alcolinuova. E sta ricordi la data del primo giorno di sobrieta` e quella dell’ultima bevuta. Altrettanto significativa e` la celebrazione, per ogni alcolista, dell’anniversario del giorno in cui ha smesso di bere. In questa circostanza e` il padrino a donare la candelina del festeggiamento, simbolo del consenso e della trasmissione della forza racchiusa nell’essere sobri, simbolo dell’identificazione e del «potere psichico» che deriva dal saper dominare la compulsione alcolica: e` la palingenesi superegoica. Ma i conflitti di fondo non sono risolti, l’Io debole e poco tollerante alle frustrazioni puo` ancora cedere alle contrarieta` ed agli insuccessi della vita di ogni giorno, la ricaduta e` sempre in agguato. Benche´ poco frequente, la ricaduta puo` essere anche dovuta ad un sottile desiderio dell’alcolista di mettere alla prova se stesso di fronte alla sua dipendenza, nell’illusione non di essere costretto a rinunciare all’alcool perche´ non sa dominarlo, ma di riuscire ad opporsi ad esso in modo tale da gestire un rifiuto della compulsione, utilizzando la sua volonta` ed autonomia rispetto ad essa. L’alcolista, integrando parzialmente la funzione superegoica, dopo lungo tempo di sobrieta` puo` identificarvisi completamente, raggiungendo una illusione di onnipotenza («mi trovo su di una nuvola rosa»), per poi rimanere deluso quando si verifica un qualunque grosso contatto frustrante con la realta`. Invece di ricorrere all’alcool, come accadeva un tempo, corre allora al gruppo, ma rimane fortemente rimossa ed irrisolta un’angoscia latente, a causa della dipendenza interna dall’oggetto; questo perche´ l’alcolista ha sempre bisogno di appoggio, di un oggetto, in questo caso il gruppo, che lo sollevi dall’ansia, dall’angoscia e dalla depressione. La dialettica: rinascita → spiritualita` → rica-

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duta → rinascita → ecc., e` un meccanismo che puo` andare all’infinito, secondo un modello comportamentale che realizza il continuo, sottile bisogno di gratificazione dell’alcolista. La pseudoliberazione che egli scorge in ogni rinascita costituisce un bisogno rinforzato anche dalla convinzione di essere nato geneticamente alcolista. In A.A. infatti l’alcolista e` un malato «programmato a non guarire». In definitiva cio` lo solleva in parte dal peso della sua angoscia, perche´ rivendica la sua malattia «primaria», a titolo di sfida per un’impossibile vittoria dopo tante sconfitte.

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27 Le reazioni psicogene acute Goffredo Bartocci Parole chiave reazione; apparizione; sparizione; reazioni psicogene acute (RPA); psicosi allucinatorie acute (PAA); bouffe´es deliranti

Sono disturbi di non facile collocazione nosografica, tanto che molti AA. ne negano l’esistenza disperdendone la sintomatologia sotto varie dizioni. Le RPA sono caratterizzate da tre fatti fondamentali: la presenza di un evento traumatico scatenante, lo stato oniroide come fondamentale manifestazione psicopatologica e la brevita` e la benignita` del decorso. L’evento traumatico non e` tale in assoluto (come per esempio un terremoto, un bombardamento), ma ha sempre un significato particolarmente conflittuale per il paziente: questo permette di distinguere le RPA dalle reazioni da stress o Reazioni Nevrotiche Acute. Lo stato oniroide e` una crisi disorganizzativa

dell’Io e non una totale dissoluzione del campo di coscienza come avviene nei disturbi confusionali su base organica. La brevita` e la benignita` del decorso le distinguono dalle Psicosi Allucinatorie Acute (PAA), alle quali residuano trasformazioni psicopatologiche della personalita`. Quindi le RPA si pongono al crocevia tra disturbi nevrotici, psicotici ed organici, senza appartenere specificatamente a nessuna di queste patologie: motivo che rende questa patologia luogo privilegiato di osservazione, e ne giustifica anche il mantenimento della unitarieta` nosografica. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Molti trattati di Psichiatria non contemplano il diritto alla autonomia nosografica di un interessante corteo di fenomeni psicopatologici che, nonostante la loro difficile collocazione all’interno degli attuali schemi nosografici, si prestano ugualmente ad essere riuniti in un quadro sindromico di riferimento. Tale quadro risulta particolarmente utile per mettere a fuoco i contorni ed il senso dei processi mentali1 che costituiscono la matrice dei sintomi psichici afferenti al capitolo delle Reazioni Psicogene Acute (RPA). Al fine di tracciare i contorni e presentare l’ambito psicopatologico che puo` essere proprio alla dizione di RPA, e` opportuno iniziare con una definizione dei termini che gia` cadenzano e delimitano le caratteristiche dell’area in oggetto. Il termine reazione rimanda direttamente ad un accadere esterno che suscita la risposta reattiva individuale. La condizione etiologica fondamentale e` pertanto la presenza di un avvenimento che rivesta caratteristiche tali da costituirsi come causa obiettivabile dell’esordio ed eventualmente della prosecuzione della sintomatologia. L’evento, causa della reazione abnorme, e` necessariamente pericoloso e carico di significati minacciosi sul piano emotivo che fanno assumere all’evento stesso il rango di elemento patogeno. Quest’ultimo si puo` presentare facilmente obiettivabile nel momento in cui, sul piano della realta` materiale, minaccia apertamente l’integrita` ` piu` problematico forpsicofisica della persona. E mulare la diagnosi quando l’insorgere dei sintomi non e` facilmente collegabile con eventi macrosco-

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Utilizziamo il termine mentale come distinto da quello di psichico (Lalli N., 1989): «Quando parliamo di mentale, ci riferiamo ad una concezione che postula un organo nervoso centrale che e` capace di produrre delle manifestazioni integrative superiori, che sono appunto le funzioni mentali: ovverosia la memoria, l’intelligenza, le emozioni ecc., ma il tutto e` riferito ad una impersonale produzione del SNC. Quando parliamo di psiche, intendiamo la presenza di un soggetto, di una storia, di una struttura di sviluppo, l’esistenza di fantasie inconsce e soprattutto il fatto che il comportamento umano ha un senso oltre che una finalita`».

picamente considerati come possibilita` di causa scatenante. ` evidente a questo punto che le circostanze E ambientali che circondano la figura del paziente e le stesse modalita` di presentazione dell’evento sono estremamente variabili. Diventa allora impossibile quantificare con correttezza le caratteristiche di virulenza dei fattori di causa se non attraverso una indicazione omnicomprensiva quale quella proposta dal DSM-III-R: «L’individuo ha vissuto un evento che e` al di fuori dell’esperienza umana consueta». Non e` solo il fattore pericolosita`, dunque, quanto anche l’elemento di novita` che fa assumere all’evento il valore di causa. Questo punto e` fondamentale. Il concetto di reazione, cardine di questa sindrome, si apre cosı` alla considerazione dei significati che assume l’evento da parte di chi lo percepisce. Ci riferiamo al «fondo (Untergrund) della reazione all’avvenimento, questo fondale sotterraneo, non ‘‘vissuto’’, non motivante ma agente in maniera puramente causale» (Schneider). Questo fondale sotterraneo, che gestisce l’apparizione dell’evento, per quanto di difficile investigazione, non e` certamente «un problema filosofico, che trascende l’esperienza», ma si rifa` necessariamente ad una storia del tutto materiale che comprende meccanismi di difesa biologicamente e culturalmente condizionati che, sempre, sono il ponte dialettico fra l’esperire psichico individuale ed i fatti del mondo esterno. Biologia e cultura si scontrano per mostrare patologiche alleanze o, al contrario, per trovare possibilita` di trasformazione delle regole imposte dalla natura. Riportiamo per esteso le riflessioni dell’Ey in quanto appaiono utili per riportare sul terreno delle scienze mediche proprio quel fondo che lo Schneider lascia nel limbo della trascendenza filosofica. La nozione di «reazione» o di «stato reattivo» e` frequentemente impiegata in Patologia Generale: si parla di reazione febbrile o immunitaria volendo indicare con cio` che l’organismo dispone di meccanismi di difesa, per cosı` dire specifici, preparati a rispondere ad uno stress. In Psichiatria, il termine ha il medesimo senso quando si parla, ad

Le reazioni psicogene acute

esempio con Bonhoeffer, di «die exogen Reaktiostypen». Ma nella vita di relazione e nella sua patologia, in cui l’ambiente e` ancor piu` determinante, c’e` la tendenza a dimenticare che la reazione suppone lo sviluppo interiore autonomo ed a mettere sul conto esclusivo dell’agente stressante (fattore ambientale) la totalita` eziopatogenetica delle «psicosi reattive»... Il caso delle Reazioni Nevrotiche Acute illustra la necessita` e i limiti del concetto di malattia mentale reattiva; poiche´ se il ruolo dell’avvenimento e` determinante, esso mette in gioco una disposizione o predisposizione interna, di modo che l’azione scatenante dell’ambiente e le tendenze emotive virtuali (predisposizione) sono complementari nel determinismo della «reazione psicopatologica». Cioe`, la nozione di reazione rimanda piu` puntualmente a quella di soglia che a quella di una patogenesi puramente «esogena» o «psicogena»2.

In altre parole, nel fenomeno reattivo e` impossibile prescindere dalla interazione di piu` fattori, quelli cosiddetti «costituzionali», quelli «traumatici» provenienti dall’esterno, e quelli inerenti la loro elaborazione e cioe` «il conflitto psichico interno» di chi vive l’avvenimento. Quello che a noi interessa in modo particolare e` la nozione di soglia e del conflitto psichico interno che consegue alla penetrazione dell’evento oltre il diaframma che separa il mondo esterno da quello interno. Nel momento in cui si consideri che le modalita` percettive, la soglia, sono condizionate non solo dalla conformazione del SNC ma anche dalla influenza culturale, nel suo insieme di regole imposte «con il latte» come le piu` ovvie e scontate, allora si rende ragionevolmente attuabile l’ipotesi di una emancipazione dalla tendenza biologica al mantenimento della situazione precedente, del gia` conosciuto. Tale caratteristica del biologico diventa patologica solo quando la cultura a questa si assoggetta, riproponendo a livello psichico la connivente regola dell’iterazione dell’identico, ovvero la fobica opposizione alla apparizione del nuovo. La definizione del termine psicogeno, per

2

Ey H., 1978.

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quanto appaia ovvia, necessita di alcune delucidazioni. Con l’espressione ‘‘disturbi psicogeni’’ tendiamo a definire con Bleuler «quei disturbi che, a quanto oggi si presume, sono in prevalenza da intendersi come reazioni psichiche a vissuti psichici». Con cio` vogliamo sottolineare da una parte che con il termine psicogeno escludiamo l’accezione fuorviante di una genesi «dall’interno della psiche» indipendente da fatti ed esperienze di rapporto con l’ambiente esterno, e dall’altra la precisa corrispondenza psichica con uno psichico esterno che minaccia l’integrita` psichica, tanto quanto la minacciano gli eventi pericolosi o catastrofici sul piano materiale. Un’ulteriore precisazione va operata nel distinguere le sintomatologie inerenti le RPA da quelle delle reazioni mentali conseguenti a noxe patogene di natura tossinfettiva. Le reazioni psicogene si collocano «all’opposto di un disturbo somato-organico» (Schneider) e definiscono un’area psicopatologica del tutto distinta da quei disturbi psichici a chiara eziologia organica quali «le reazioni esogene acute» di Bonhoeffer, che si sovrappongono alle RPA esclusivamente per la convivenza di alcuni aspetti sintomatologici quali lo stato confusivo e il delirio oniroide. Questi ultimi sintomi sono testimonianza di una tendenza univoca di risposta mentale a qualsivoglia forma di noxa patogena esterna. Credo che un termine che possa definitivamente disembricare la sovrapposizione fra reazione psico-organica e reazione psicogena possa essere quello di Reazione psicogena alla Apparizione, intendendo una modalita` di risposta mentale alla novita` dell’evento. A livello psichico l’evento pericoloso non e` solo quello che minaccia la vita o l’identita`, eventualita` quest’ultima che a livello inconscio e` del tutto simile alla possibilita` di perdere la vita, ma diventa qualunque situazione nuova vissuta come troppo stimolante. Praticamente ogni situazione che, costituendosi come avvenimento chiave, assume significati catastrofici per quel particolare retroterra individuale. Sia che l’evento minaccioso sia oggettivamente carico di pericoli o pericoloso solo per

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

quella persona, accade che, una volta superata la soglia di tolleranza, scatta la risposta reattiva che nel caso delle RPA e` del tutto «cieca», non fusa con l’Io vedente, una reazione arcaica tendente unicamente ad allontanare, escludere l’elemento irritante. Le reazioni di fronte al nuovo, inoltre, non si esibiscono all’esterno vestite esclusivamente delle forme espressive facilmente obiettivabili sul piano psicopatologico, come nelle RPA propriamente dette, ma modellandosi intorno al personaggio, al ruolo della persona che e` stata investita dall’evento, possono assumere forme che, per quanto bizzarre, rimangono compatibili con quell’assetto culturale incidendo poi nei fatti della storia collettiva e non solo in quella individuale (Lalli, 1990). Il termine acuto, infine, e` fondamentale ed utile per restringere il campo di indagine a quei fenomeni che si instaurano improvvisamente, costituendo una soluzione di continuita` da uno stato precedente di benessere. Vengono cosı` esclusi dalla presente trattazione gli sviluppi psichici abnormi, che porterebbero praticamente ad affrontare un vastissimo campo patologico. Come vedremo in dettaglio piu` avanti, tra le manifestazioni psicopatologiche che possono dirsi caratteristiche delle RPA dominano i disturbi del livello di coscienza. Il sintomo della confusione, sia che questa si presenti nella forma inibita, piu` frequente, che in quella agitata, si costituisce come il primum movens del corteo patologico. La confusione si manifesta come reazione a qualsivoglia agente stressante, sia questo generico che specifico come nelle Nevrosi Traumatiche di Guerra: le «Schreckneurosen» degli autori tedeschi. Lo sviluppo della reazione da stress generico si puo` distinguere in quattro fasi (Freedman e Kaplan, 1967): 1) 2) 3) 4)

una «anticipatoria», o fase della minaccia; la fase dell’impatto traumatico; una fase intermedia o di rimbalzo; una fase post-traumatica (ripresa malamente dal DSM-III-R come parte per il tutto). Dopo una prima fase di stupore e attonita

meraviglia si instaurano i sintomi specifici delle RPA: ottundimento del sensorio, restringimento del campo di coscienza, obliterazione delle funzioni della memoria, disorganizzazione del corso del pensiero, sospensione della vigilanza affettiva. Il comportamento diventa automatizzato, a volte ripetitivo, in forme di azione meccanica precedentemente interiorizzate. Nel caso delle Nevrosi di Guerra la sintomatologia, parallelamente alla portata dell’evento traumatico, e` esacerbata presentandosi anche sotto forma di conversione somatica quali paralisi e cecita`. Si evidenziano anche sintomi a valenza opposta quali: stupore catatonico, reazione di fuga tipo Amok, irritabilita`, anoressia, estrema sensibilita` ai rumori, panico, «startle reaction». Al disturbo di coscienza puo` seguire una amnesia lacunare o, al contrario, ricordi ed incubi angoscianti dell’evento. Nella nostra cultura non sono frequenti fenomeni ipercompensativi quali quelli di tipo allucinatorio o il delirio onirico, obiettivabili in altre culture.

2. Eventi traumatici e cortei psicopatologici La presentazione florida dei sintomi reattivi all’avvenimento esibita da altri ceppi etnici induce a non restringere il campo dei fenomeni psicopatologici che possono afferire al capitolo delle RPA, alle forme reattive da trauma da guerra precedentemente descritte. Il concetto generico di evento influenzante ad alto potere patogeno permette di non rimanere legati a quelle reazioni conseguenti a macroscopici avvenimenti catastrofici (quali lo scoppio della bomba, terremoti, assalti fisici) per accostarci al capitolo delle Reazioni Nevrotiche Acute (RNA) ed affacciarci all’area inerente quello delle Psicosi Allucinatorie Acute (PAA). La dizione RPA puo` essere momentaneamente utile allo scopo di disattivare la suddivisione dei fenomeni reattivi nelle rispettive categorie di forme nevrotiche e forme psicotiche, per mettere a fuoco esclusivamente il tipo di reazione all’avvenimento, svincolando la descri-

Le reazioni psicogene acute

zione di tali disturbi dalla tendenza mostrata dalla nostra cultura ad incanalare lungo i due versanti sopra citati modalita` di espressione psicopatologica che invece in altre culture possono mantenere una autonomia riconosciuta dallo stesso contesto sociale. Mi riferisco ad alcuni cortei sintomatologici, obiettivati presso popolazioni africane e descritti in molte altre culture non tecnicizzate, che non hanno trovato facile collocazione nella nostra nosografia. Questi pazienti hanno mostrato quadri sintomatologici acuti caratterizzati da «uno stato crepuscolare o confusionale» (Carothers, 1953), per lo piu` di breve durata, tendente ad una guarigione spontanea, accompagnato da una produzione di contenuti ideativi che ben possono attenersi alla dizione di delirio oniroide. Per quanto riguarda i disturbi di coscienza, questi oscillano da uno stato confusivo psicogeno (distinto cioe` dal grosso ottundimento di tutte le facolta` mentali tipico degli stati confusivi organici) accompagnato da eclatanti manifestazioni sul piano comportamentale, a stati crepuscolari caratterizzati dal restringimento selettivo, lo «scotoma» del campo di coscienza, e da uno stato sognante che sembra avvicinarsi ai «dream states» dell’epilessia temporale. L’elemento piu` caratteristico degli stati confusivi-oniroidi (Mayer-Gross, 1959; Bini e Bazzi, 1954) consiste in una presenza contemporanea, all’interno di un campo di coscienza ristretto, crepuscolare, subconfusivo, di una vivace produzione delirante fantastica e di alterazioni psicosensoriali, con una capacita` relativa di esperire elementi di realta` provenienti dal mondo esterno ed interno. Il paziente, cioe`, accanto alla ricca presenza di elementi allucinatori, costrutti fantastici dei piu` vari, riesce a mantenere una sorta di parziale integrita` di talune funzioni dell’Io, cosa che di fatto permette una comprensibilita` generica del suo accadere psichico, tale che e` possibile escludere un processo di frammentazione di tipo schizofrenico, colto con angoscia anche dalla comunita`. Il paziente continua ad appartenere al suo contesto sociale nonostante la sua adesione alle

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produzioni fantastiche, ipnoidi, che lo portano ad agire, vivere nella mimica e negli atti il terrore o la fascinazione delle esperienze allucinatorie. Questi stati possono essere paragonabili a quelli prodotti dalle droghe psichedeliche. La frequenza e la floridita` delle sindromi oniroidi riscontrabili presso queste etnie contrasta con la tendenza espressiva del disagio mentale nelle culture occidentali. Queste ultime sembrano infatti spingere al contenimento delle manifestazioni immediate, verso sintomatologie di tipo piu` astratto o intellettualizzato. Non a caso le sindromi oniroidi sono per lo piu` descritte nei capitoli dedicati alla patologia secondaria a noxe tossi-infettive, anche se viene accettato lo shock emozionale come fattore di causa per tale sintomatologia. ` in questo preciso spazio che ci e` concesso di E collocare le forme di onirismo terrificante (Aubin, Collomb), ansieta` frenetica (Wittkover), confusione agitata (Carothers), stato confusionale pseudo-psicotico (Lambo), stati confusionali acuti (Smartt) con cui vengono etichettate in Psichiatria Transculturale le forme espressive non altrimenti classificabili, che vengono qui inserite tra le RPA. Il denominatore comune tra le RPA e le RNA e` rappresentato dalla crisi acuta d’angoscia ‘una tempesta cui partecipa tutto l’organismo’, una reazione univoca di fronte al pericolo. Quando a questa e` concessa la possibilita` di essere «vissuta» od elaborata in qualche modo, e` verosimile una conformazione sintomatologica che ha il tempo di modellarsi lungo linee e denominatori indicati anche dalla cultura, afferendo al capitolo delle RPA. Quando, al contrario, la crisi d’angoscia e` «cieca» ed invasiva, tale da far perdere il momento di un minimo vissuto elaborativo dell’avvenimento, la reazione e` immediata ed utilizza meccanismi di difesa arcaici e radicali che valgano ad una sorta di lotta anarchica per la conservazione. Ci riferiamo al ‘‘meccanismo epitimico-isterico’’ (Bini e Bazzi, 1954) analogo a quello delle ‘‘reazioni elementari’’ con significato arcaico di difesa e protezione, le c. d. ‘‘reazioni all’emozione shock’’ negli animali e le reazioni da spavento

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dell’uomo, al ‘‘riflesso dell’atteggiamento di morte (Totstellreflex)’’ identificato in etologia come difesa al pericolo e al concetto kretschmeriano di ‘‘reazione primitiva’’. Il sintomo confusivo, predominante nelle RPA, sembra essere uno dei mezzi utilizzati dalle specie superiori per arrestare, congelare, la minaccia all’esistenza. Nella nebbia del disturbo di coscienza si ferma il fluire del tempo e si argina, si arresta la crisi di presenza, relegata in uno spazio ed in un tempo senza limiti, senza necessita` di agire. La descrizione di questi soggetti, perfettamente adeguata a quella presentata dai pazienti capitati alla mia osservazione in Sud Africa (Bartocci, 1975, 1976), e` magistralmente riportata dall’Ey (1978): «.....paralizzati dalla paura, fissi, inerti. Le percezioni sono pressoche´ abolite, il contatto sociale e` interrotto, l’atteggiamento e` quello della siderazione. L’espressione mimica e` quella dell’ebetudine. Questi stati assomigliano alla fascinazione ed all’ipnosi. I discorsi sono permeati da un onirismo generalmente terrificante, spesso accompagnati da manifestazioni somatiche multiple». Questo paziente e` posseduto dalla esperienza fascinante della «minaccia che si impone», quella della morte, il terrore di essere assassinato, di essere rapito dai fantasmi. L’ente influenzante, quello che ha il potere di portare via la vita, non appartiene solo al mondo degli oggetti ma anche al mondo invisibile dei fantasmi, delle intenzioni maligne che popolano l’inframondo (Bartocci, 1990). La risposta reattiva, inoltre, non sempre si ferma alla confusione e alla paralisi della motricita`, ma procede coinvolgendo insieme allo psichico tutto il somatico, sino a poter determinare fenomeni estremi quali la morte psicogena acuta. L’accostamento delle RPA alle Psicosi Allucinatorie Acute o alle Bouffe´es deliranti, sebbene piu` difficoltoso, e` egualmente proponibile. Le psicosi acute da isolamento, le reazioni paranoidee da transculturazione, gli stati paranoidei dei sordastri, le reazioni psicotiche per interruzione spontanea di gravidanza con ritenzione del feto, offrono un fattore di causa evidente che dispone all’inglobamento di queste nel capitolo

delle reazioni psicotiche di tipo reattivo all’evento. Manca pero` la modalita` di reazione immediata, l’apparizione acuta dei disturbi; quella cioe` che darebbe ‘corpo’ alla reazione e conseguenzialmente permetterci di riproporli all’interno delle RPA. D’altra parte l’elemento di irruzione dell’Einfall, (idee che vengono alla mente) o l’immediatezza della Wahneinfall, potrebbero permettere, considerando l’emergenza acuta dei sintomi, l’utilizzazione della dizione reattiva. Ma, mancando l’evento scatenante obiettivabile, manca un fattore essenziale per la corretta definizione delle RPA. ` interessante notare, comunque, che una sinE drome che possa unire la distanza fra le RPA e le PAA puo` essere rintracciata grazie ai quadri offerti dalle cosiddette psicosi isteriche. Nonostante che il termine sia caduto in disuso, e` opportuno recuperarlo per sottolineare le notevoli somiglianze espressive tra quanto abbiamo descritto e la presentazione sintomatologica offerta da questi pazienti: Le manifestazioni consistono in illusioni, allucinazioni, depersonalizzazione, restringimento del campo di coscienza, grossolani disturbi del comportamento. I disturbi del pensiero modici e transitori sono caratterizzati da distorsioni della realta` e tendenza a sovrapporre un mondo fittizio al mondo reale. L’affettivita` e` alterata nel senso di una grossolana instabilita`. La durata si aggira da poche ore a qualche giorno e la sintomatologia recede completamente o con la persuasione o con il ripristino della situazione precedente. Come si vede, il quadro e` molto vicino alle cosiddette psicosi dei tre giorni, alle reazioni schizofreniche ed agli stati crepuscolari isterici3.

` possibile, a questo punto, proporre come E elemento di confronto e di indagine clinica, e come situazione di sfondo comune che precede l’irruzione di molte delle manifestazioni psicopatologiche in oggetto, l’evenienza della perdita dell’Io. Nelle RPA l’Io viene offeso dall’evento ed e`

3

Lalli N. e Pancheri P., 1969.

Le reazioni psicogene acute

prossimo alla dissoluzione. Nelle PAA si e` gia` perso, non si sa come. Le raffigurazioni folkloriche della fascinatura, o affascino, sembrano essere i tentativi culturali a livello popolare di dare una forma comprensibile alla perdita dell’Io. Le sindromi di possessione, l’estasi, il misticismo sono forme mondane che rappresentano l’area culturalizzata dell’‘‘essere agito da’’. «Essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacita` di decisione e di scelta»4. Raffigurazioni popolari che vanno riprese e tradotte dalle scienze mediche che sappiano distinguere le reazioni dell’uomo che di fronte al pericolo si immobilizza per non perdere l’Io e quelle di altre forme patologiche di chi, oramai scisso, frantumato, lo schizofrenico ebefrenico, e` immobile perche´ ritiene di non avere piu` un Io da difendere. Le «vampate deliranti» delle psicosi acute sono ben differenti dal gelo dei deliri schizofrenici.

3. La perdita come evento traumatico L’evento nuovo avente potere traumatico non e` necessariamente un ‘piu`’ che interviene e minaccia. L’‘assenza’, la sparizione di una presenza, sono fatti cui l’organismo e` costretto a cimentarsi. Le situazioni di perdita connesse alla morte della persona cara e le dinamiche di lutto ad essa inerenti sono, a questo proposito, paradigmatiche. L’elemento dinamico patologico nelle reazioni al lutto e` evidentemente l’interruzione del legame. In questo caso il trauma e` diretto al legame di rapporto in quanto non esiste minaccia specifica di morte, se non quella – sottolineata da De Martino – di morire con colui che muore, di essere trascinati nel nulla che ormai possiede il morente. La descrizione di Zisook e de Vaul (1987) delle tappe caratteristiche del processo di rea-

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De Martino E., 1977.

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zione al lutto rispettano la cadenza di quelle obiettivate per le RPA: 1) 2)

3)

un periodo iniziale di shock, caratterizzato da incredulita` o negazione dell’accaduto; un periodo intermedio di intensa sofferenza accompagnato da disturbi somatici, emotivi e regressione sociale; un periodo di crisi risolutiva.

I disturbi ‘da perdita’ sono descritti come: forme di distacco sociale, regressione, apatia, euforia isterica e reazioni di tipo psicotico. Pollack sottolinea la possibilita` di una tendenza a sviluppare una psicosi allucinatoria che restauri fantasmaticamente l’oggetto d’amore perduto. Tutti gli autori sono concordi nell’affermare che tanto piu` il rapporto precedente la perdita reale era patologico, tanto piu` probabile e` l’instaurarsi di disturbi nella elaborazione del lutto. Un significato particolare assumono le RPA in situazioni di guerra. Garb opera una interessante distinzione fra le catastrofi naturali ed il potere patogeno degli eventi traumatici di guerra: «I traumi provenienti dall’uomo hanno dei significati differenti da quelli causati dai disturbi naturali che sono esperiti come eventi fortuiti determinati dal caso». Le vittime di traumi inferti da una volontarieta` umana risentono maggiormente il trauma che si carica di intenzionalita` rinforzando l’aspetto materialmente lesivo dell’evento. Ancora una volta siamo costretti ad affrontare il concetto di trauma non solo come un evento fisico neutro, lo scoppio della bomba, ma come un avvenimento significante a livello interumano. (Vedi anche il capitolo ‘‘Psicopatologia da situazioni estreme’’).

4. I casi clinici Booi fu portato dalla polizia all’ospedale psichiatrico di Citta` del Capo. Il giorno precedente, improvvisamente, all’alba era uscito dalla sua piccola abitazione, dove viveva insieme ad altri membri della sua ristretta comunita`, in evidente stato di agitazione.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Aveva fracassato ogni cosa durante la sua corsa farneticante, e solo con la forza fu portato in ospedale. Il giorno dopo si presentava immobile sulla sedia; l’espressione assente si interrompeva solo per improvvise espressioni di terrore negli occhi che facevano pensare ad allucinazioni visive. Nessuna domanda riusciva a filtrare e per ore, nonostante gli sforzi dell’interprete appartenente alla sua stessa etnia, non si pote´ ottenere una risposta. Una sola volta, mostrando una parziale possibilita` di rapporto con il mondo esterno, il paziente indico` e poggio` la mano sulla testa ad indicare con estremo e disperato sconforto che lı` era il male. Ai colloqui successivi il paziente si mostro` ristabilito. Dopo le difficolta` iniziali di approccio, Booi, nonostante non si ricordasse del nostro precedente incontro, fu in grado di fornire ricche notizie anamnestiche che riuscirono a far ricostruire le cause innescanti la sintomatologia. Con l’approssimarsi delle scadenze rituali per sacrificare l’agnello agli antenati, Booi aveva chiesto il permesso di rientrare alla sua terra di origine, dove la cerimonia poteva essere condotta nel migliore dei modi. I datori di lavoro avevano negato il permesso per cause contingenti, ponendo il paziente in una grave situazione conflittuale: gli antenati si sarebbero certo adirati per tale mancanza, e grande e` il potere degli antenati. Quella notte, approssimandosi la data stabilita, si sveglio` in preda ad un attacco di asma, di cui sapeva di soffrire. Questa volta le difficolta` respiratorie assunsero il preciso significato di un tentativo di strangolamento da parte di enti maligni inviati dagli antenati offesi, a cui e` praticamente impossibile sfuggire. L’evento e` sul piano fisico: l’asma. L’interpretazione dell’evento e` univoca e non lascia spazio ad elaborazioni: la morte e` vicina. La reazione confusiva, agitata, scatta immediatamente. La signora E. fu sollecitata a venire all’appuntamento dal figlio, sociologo, con cui si era strutturato un momentaneo progetto di ricerca. A detta di questi, la madre non si era piu` ripresa da un intervento cardiaco per sostituzione della mi-

trale avvenuto l’anno precedente. La madre ‘non era piu` la stessa’, passava il tempo inoperosa, in silenzio, in netto contrasto con la sua precedente personalita`, descritta come particolarmente attiva. Al colloquio individuale la p., che si presento` la settimana successiva «solo perche´ ero amico del figlio», appariva distaccata, la mimica piatta, l’eloquio senza emozioni accompagnato da un atteggiamento monotono, senza speranze. Confermava che non si sentiva piu` di lavorare in casa. La terapia con triciclici somministrata da un collega neurologo non aveva modificato la situazione, ma ella continuava ad assumerla. La paziente stessa indico` l’intervento chirurgico come data, piu` che causa, del suo stato che definiva depressivo, a cui si riferiva con il termine «una brutta esperienza, potevo morire». Durante i successivi colloqui orientativi, la signora E. racconto` spontaneamente che la notte precedente l’intervento chirurgico, mentre era sola nella sua stanza in ospedale, ascolto` delle nenie religiose, una specie di rosario che proveniva da un’altra stanza dove sapeva che era deceduta una paziente. Lei si lascio` andare a tali nenie, bellissime; la paura dell’intervento lentamente scomparve per far posto ad uno stato d’animo paradisiaco. La morte non la spaventava piu`, al pensiero che anche per lei ci poteva essere un aldila`. La paziente aveva raccontato l’episodio con uno stato d’animo estatico, quasi forzando il colloquio verso una atmosfera densa di incenso. Espressi le mie perplessita` riguardo i connotati di positivita` dell’episodio appena raccontato. Seppure si era rasserenata, questo era avvenuto in quanto «si era fatta essa stessa morta», come la paziente dell’altra stanza. L’intervento chirurgico non era piu` dinanzi a lei, ma dietro di lei, passato. Era riuscita a neutralizzare la minaccia che l’aspettava l’indomani. Attualmente non poteva usufruire del buon esito dell’intervento chirurgico perche´ doveva recuperare l’altro intervento: quello che aveva attuato su se´ stessa: morire un po’, per non morire del tutto. La signora E. non si presento` al successivo appuntamento. Mi fece telefonare dal figlio il quale comunico` la decisione della madre, condi-

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visa dai famigliari, di interrompere la terapia, anche farmacologica, in quanto si era improvvisamente ripresa.

Psichiatria Transculturale una forma psicopatologica reattiva ...senza evento causale: il «susto senza susto».

I due casi sono stati riportati in questa sede in quanto dimostrativi della complessa interazione fra fattori causali e condizioni personali ed ambientali, necessarie per determinarne il rango patogeno. Nel primo caso, nonostante la sintomatologia fosse pertinente alla diagnosi di RPA, il fattore di causa che poteva confermare tale diagnosi e` rimasto nascosto sino alla risoluzione del quadro, che ha permesso solo secondariamente una precisa obiettivazione delle condizioni premorbose. Nel secondo paziente, che piu` si accosta ad essere definito come «reazione post-traumatica da stress», l’elemento causale reattivo, l’operazione chirurgica, si proponeva spontaneamente anche se la sintomatologia si presentava sotto forma depressiva. A volte e` il decorso dei disturbi, caratterizzato da repentino miglioramento, che permette una diagnosi retrospettiva di reazione all’avvenimento.

Dal 1935 al 1957, Sal y Rosas osservo` 176 casi di susto (la parola spagnola per spavento) a Huara´z (Peru´) e province limitrofe. Sal y Rosas sottolinea come il susto non sia mera superstizione, ma sia invece una condizione medica passibile di essere affrontata in modo scientifico ed antropologico.... La malattia del susto puo` avere origine in due modi: o per uno spavento causato ad esempio dal tuono, dalla vista di un grosso animale, da un serpente ecc., o a causa di influssi malefici non accompagnati da spavento (quest’ultimo caso viene chiamato «susto senza susto»)5.

5. Il contenuto dell’evento traumatico L’accostamento dell’avvenimento scatenante la reazione psicologica ad un ente influenzante invisibile o semplicemente non materiale, che possa rimanere momentaneamente nascosto, permette di affrontare il confronto con quelle sintomatologie caratterizzate dalla incomprensibilita` della apparizione di disturbi mentali senza causa alcuna. ` questa una strada estremamente tortuosa E che ci conduce verso la nozione di ‘‘delirio primario’’ della scuola tedesca o, peggio, verso quelle dizioni che propongono l’«irruzione meccanica di idee ex nihilo», che ci sentiamo decisamente di rifiutare. Credo che sia possibile utilizzare il concetto di reazione anche per le presentazioni psicopatologiche cosiddette ‘‘incomprensibili’’ in quanto non si trova il nesso con l’evento causale. Mi sia permesso di prendere a prestito dalla

` interessante notare che, mancando il riferiE mento offerto da uno spavento obiettivabile che a´ncori l’emergere del disturbo mentale a fatti comprensibili sul piano mondano, ecco che, pur mantenendo caparbiamente la radice esplicativa accanto alla sua negazione (il susto senza susto), l’impossibilita` di evidenziare il fattore di causa innesca l’intrusione di forme di pensiero magico atte a ricondurre in qualche modo alla possibilita` di descrivere in termini culturali ragionevoli, quanto stava sfuggendo alla comprensione. La necessita` di trovare le cause della malattia non e` solo un metodo scientifico ma anche una esigenza popolare; una esigenza spasmodica volta a condurre nel gia` conosciuto l’apparizione dell’evento nuovo. L’apparizione sul teatro del vivere mondano dell’invisibile, del fantasma, rapidamente tinge e popola il mondo di influssi malefici che sostituiscono patologicamente quell’altra presenza non materiale che al contrario e` il nucleo dell’operare psichico umano: la fantasia. Il danno connesso alla perdita della fantasia porta ad una «metamorfosi delirante» che trasforma il rapporto dialettico con l’esterno in pseudo-rapporto fra una negazione, la perdita dell’inconscio, e il mondo esterno anch’esso costretto a diventare piatto, privo di presenze umane.

5

Ellenberger H. F., 1970.

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La potenza dell’evento e l’incapacita` di trovarne i significati che possano fissare la fluttuabilita` delle emozioni che vagano si traducono nella perdita totale di rapporto con la concretezza del mondo. L’axis mundi e` sparito, il palo degli Aranda e` spezzato in terra; non e` piu` possibile scorgere un orizzonte esplicativo, un semplice punto di appoggio per arginare la labilita` della presenza. Ed allora e` opportuno che la scienza, magari appoggiandosi anche a quella di altre etnie, scopra che la malattia del susto e` terrena, anche senza il susto. La spiegazione dei processi psichici incomprensibili o per la loro etiologia o per l’espressione caotica ed irrelata del paziente che non e` in grado di comunicare le sue esperienze e` certamente possibile, non solo ‘‘riportandole alle loro condizioni organiche, ma anche, al tempo stesso, comprendendole psicologicamente come una proiezione dell’inconscio’’6. Ma l’inconscio non e` solo quello che proietta.

6. Una immagine della reazione all’apparizione Abbiamo sottolineato come la reazione alla presentazione dell’avvenimento terrifico, maligno, coinvolga tutto l’apparato mentale, innescando circuiti somatici ed attivita` comportamentali riflesse ed arcaiche. Nel Giudizio Universale di Michelangelo un solitario personaggio, isolato rispetto al clamore dei corpi straziati degli altri, immobile, paralizzato, apparentemente insensibile alla presa ed alla lacerazione del corpo, esprime l’orrore e la difesa di fronte all’orrore: si copre un occhio, uno solo, determinando la visione monoculare, piatta, quella che cancella la tridimensionalita`. Attraverso il gesto che determina la visione monoculare ha escluso la profondita` dell’avvenimento, del contenuto dell’avvenimento. Al tempo stesso il gesto permette la possibilita` di mantenere il rapporto visivo con l’esterno:

6

Ey H., 1978.

l’altro occhio e` fisso, osserva attentamente quella che potrebbe essere una allucinazione. Quest’uomo guadagna un momento in piu`, prima di essere esso stesso portato via, sopraffatto dai demoni e dagli angeli. ` questo uno stratagemma che tiene l’avveniE mento lontano, quel tanto da evitare l’insorgere, l’impatto con l’evento impossibile. Si evita momentaneamente l’insorgere del crollo della presenza e l’insorgere della Reazione Psicogena Acuta. Questa infatti, attraverso la sospensione del livello di coscienza, con la perdita relativa del legame con l’esterno, potrebbe determinare il sollievo del distacco che promette di non essere posseduti dall’avvenimento, ma comporterebbe al tempo stesso l’incapacita` di relazione con l’esterno che, una volta lontano, allontanato (o-o-o) non puo` piu` essere utilizzato per ricostruire la propria presenza nel mondo. Mantenere quell’unico occhio aperto sul mondo e` mantenere la speranza di un contatto che permetta alla realta` umana esterna di intervenire per dimostrare che esiste ancora la possibilita` di instaurare un contatto vitale, che e` possibile correre il rischio di tornare a vedere, percepire, vivere le emozioni di rapporto. La speranza del bambino che la madre riappaia nonostante la dimostrazione di assenza (Bartocci, 1989). L’attesa umana che permette di non cadere nella difesa mortale dell’indifferenza. In fondo, anche la stessa RPA e` una paradossale richiesta di aiuto, l’emorragia manifesta che chiama l’altro all’intervento. Una patologia questa che pur presume la presenza di un esterno umano che accolga e risponda alla manifestazione rozza dei sintomi eclatanti. Le RPA sono sempre meno frequenti nelle societa` occidentali. La nostra cultura, che ha saputo affrontare il non essere delle psicosi, che ha scoperto la subdola processualita` delle malattie mentali che uccidono senza perdita manifesta di sangue, non accetta piu` lo scandalo della rozza presentazione delle RPA. Condanna l’espressione conclamata del primitivo preferendo il freddo processo distruttivo della schizofrenia simplex. Ma questa e` un’altra storia, compete ad altri

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tipi di reazione. Alla possibilita` di chiudere entrambi gli occhi nella astuta convinzione che attraverso l’uso della sparizione, attraverso l’annullamento della realta` esterna, si possa evitare il confronto con quanto di essa si manifesti (Fagioli, 1972).

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guenti al riapparire alla soglia di coscienza di contenuti traumatici vissuti secondariamente con angoscia.

Riferimenti bibliografici 7. Note di terapia L’esordio acuto ed imponente della sintomatologia richiede un intervento terapeutico a carattere d’urgenza. L’obiettivo primario e` quello di interrompere lo stato conclamato psicopatologico che, pur avendo caratteri di segno positivo per il significato attivo dei sintomi, per il profondo coinvolgimento somatico puo` determinare patologie secondarie di tipo psicorganico. La sedazione puo` essere intrapresa per via endovenosa, per infusione lenta se le condizioni ambientali lo permettono, attraverso tranquillanti minori (benzodiazepine) od anche neurolettici nel caso non si verificasse la normalizzazione del quadro acuto. Gli antidepressivi sono controindicati, anche nel caso di presentazioni fortemente inibite, in quanto il rallentamento psicomotorio e` da intendere su base ansiogena e non depressiva. Una psicoterapia di appoggio e` consigliata anche nelle fasi iniziali di malattia, allo scopo di fornire una presenza tranquillizzante rivolta ad offrire elementi di supporto empatico. Si eviti il tentativo di dinamizzare i contenuti profondi o insistere sugli episodi circostanti l’evento scatenante. Solo in un secondo tempo, dopo una separazione terapeutica, si puo` profilare la possibilita` di una psicoterapia a lungo termine, solo se richiesta spontaneamente dal paziente che non si sente guarito. I sintomi negativi che possono seguire la risoluzione della fase acuta consistono in sensazioni di distacco e di estraneita`, diminuzione anche soggettiva della propria affettivita` (da distinguere da abbassamento del tono dell’umore), ruminazione irrelata tangenziale all’episodio scatenante, sensazioni di depersonalizzazione spesso conse-

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28 Le psicosi affettive: la depressione Nicola Lalli Parole chiave disturbi affettivi; rallentamento psicomotorio; depressione endogena monopolare; psicosi maniaco-depressiva; depressione involutiva; autostima; delirio di colpa; depressione mascherata; depressione secondaria; latenza REM; genetica della depressione; noradrenalina; serotonina; monoaminossidasi; sindrome di Cotard; reserpina; umore

I seguenti due capitoli descrivono il quadro delle psicosi affettive. Per molto tempo questi disturbi sono stati definiti come patologie del tono dell’umore, definizione piu` vaga ed imprecisa. L’affettivita` e` l’insieme delle emozioni e dei sentimenti: tutto quello che i filosofi chiamavano le ragioni del cuore, in contrapposizione all’intelletto ed alla razionalita`. Per psicosi affettive intendiamo quindi disturbi, in eccesso o in difetto, dell’affettivita`: non certamente la mancanza (l’indifferenza) essendo quest’ultima tipica della schizofrenia. Depressione e mania sono i due estremi patologici entro cui oscilla l’affettivita`: come tristezza e gioia sono i due estremi «normali» dell’affettivita`. Per lungo tempo depressione e mania sono

state strettamente correlate nella unita` nosografica della psicosi maniaco-depressiva. In effetti criteri genetici, clinici, semeiologici e neurochimici ci inducono a separare queste due entita`: da una parte la depressione maggiore, dall’altra la mania, che siccome si alterna a fasi depressive puo` essere definita anche come psicosi maniaco-depressiva. La depressione, al contrario della mania, e` oggetto di studio approfondito non solo per l’elevata incidenza (circa il 5% della popolazione), ma anche perche´ rappresenta un modello di estrema importanza per valutare e studiare le interazioni tra somatico e psichico. * * *

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1. Considerazioni generali La depressione e` sicuramente la sindrome psichiatrica da piu` tempo conosciuta, come risulta da papiri egiziani risalenti a circa 5000 anni fa. 2000 anni fa, Plutarco cosı` descriveva un depresso: Sta seduto all’aperto, avvolto in tela di sacco o di cenci sudici. Ogni tanto si rotola nudo nel fango, confessando questa o quella colpa... per essere andato per una strada o per un’altra che l’Essere Divino non ha approvato.1

Circa un secolo fa, cosı` L. Tolstoj descriveva la sua depressione: La verita` e` questa: la vita non ha alcun significato per me. Ogni giorno della mia esistenza, ogni fase della mia vita, mi portava vicino al bordo di un precipizio, da dove io vedevo bene dinanzi a me la rovina finale. Fermarsi, tornare indietro, era in egual misura impossibile: ne´ potevo chiudere gli occhi in modo da non vedere la sofferenza, l’unica cosa che mi aspettasse, la morte di tutto quello che era in me fino all’annullamento totale. Cosı` io che ero un uomo sano e felice, fui portato a pensare che non avrei mai potuto vivere e che una forza irresistibile mi stava trascinando verso la tomba.

La depressione si presenta, nei suoi sintomi, stabile ed immutata nel tempo e nello spazio: non ci sono infatti variazioni significative della sintomatologia legate a fattori culturali, sociali o economici. L’incidenza di disturbi depressivi, clinicamente significativi, e` di circa il 5% della popolazione totale: di questi l’1,5% appartiene alla psicosi maniaco-depressiva. Si calcola che attualmente, nel mondo, circa 100 milioni di persone soffrano per una qualche forma di depressione. La depressione, con il nome di melanconia, per lungo tempo e` stata appannaggio di poeti,

1 La citazione di Plutarco e quella di Tolstoj che segue sono tratte da Snyder S. H., 1989.

` solo con E. Kraeperomanzieri, drammaturghi. E lin che la depressione trova un suo statuto scientifico e viene riconosciuta quale entita` nosologica con il nome di psicosi maniaco-depressiva. Successivamente essa sara` denominata distimia (Tanzi e Lugaro); timopatia (Bumke); ciclotimia (Schneider); psicosi cicloide (Kleist). Attualmente e` inserita nell’ampio capitolo dei disturbi affettivi che comprendono: la depressione nevrotica o distimica, la depressione endogena monopolare, la psicosi maniaco-depressiva o bipolare, la depressione involutiva. Tutte queste denominazioni tendono comunque a rispecchiare la classica impostazione kraepeliniana: ovverosia che la depressione e` parte integrante di una sindrome unica ove depressione ed eccitamento maniacale rappresentano le facce di una medesima medaglia. Come vedremo, questa impostazione e` molto discutibile: dati genetici, clinici e farmacologici ci portano, piu` correttamente, a ritenere che la depressione, pur nelle sue varianti, sia una sindrome a se´ stante e differenziabile dalla psicosi maniacodepressiva. Ma e` opportuno iniziare con una sintetica descrizione della depressione che ci permettera`, successivamente, di porci numerosi quesiti. Quesiti importanti, perche´ la depressione, proprio per essere un quadro clinico molto definito e stabile, puo` essere considerata come modello ideale di studio soprattutto delle interazioni tra fattori psichici e somatici. La depressione e` uno stato psicopatologico caratterizzato da un disturbo dell’affettivita` che inibisce le normali risposte emotive, ed ostacolando il contatto dell’individuo con la realta` ne limita la capacita` di adattamento al mondo esterno. L’individuo appare triste, scoraggiato; caratteristici sono l’apatia ed un senso d’incapacita` di fare anche le cose piu` semplici e di superare gli ostacoli, anche i piu` banali. Il pensiero e` rallentato, bloccato in una ideazione monotona e triste. Anche il linguaggio riflette questo stato: il soggetto si esprime lentamente ed a fatica. Non riesce a vedere nulla di positivo, preso com’e` a disprezzarsi ed a rimproverarsi per passati misfatti. L’autosvalutazione e la colpa, strutture fonda-

Le psicosi affettive: la depressione

mentali del vissuto depressivo, possono arrivare a strutturarsi nei deliri di colpa, rovina, indegnita`. Anche l’inutilita` e` un tema centrale: la vita gli sembra inutile, cosı` come egli stesso si sente inca` convinto che niente e nessuno pace ed inutile. E possa cambiare in meglio la sua situazione. A causa di questi sentimenti e` in continua angoscia, specialmente al mattino, perche´ rifiuta la giornata e si sente schiacciare dalle responsabilita` e dai doveri che l’attendono ed ai quali non e` capace di ` disperato ed ha la dolorosa sensarispondere. E zione di essere solo; si esprime prevalentemente attraverso la mimica, la gestualita`, attraverso la sofferenza impressa nel corpo, cioe` attraverso una comunicazione non verbale. Gli stati depressivi si accompagnano sempre a disturbi somatici quali l’astenia, l’insonnia, la ripugnanza per il cibo, la perdita di peso, la stitichezza e il disinteresse sessuale. Nel quadro di questa definizione clinica si osservano delle importanti variazioni. Lo stato di depressione puo` essere intenso o puo` essere anche solo latente. Si presenta in diverse forme, che vanno da lievi disturbi che lasciano l’individuo in rapporti relativamente buoni con il mondo fino a forme gravi di depressione nelle quali il soggetto sembra aver perso ogni capacita` di entrare in rapporto con la realta`. Le operazioni mentali risultano a volte alterate, rallentate, offuscate; altre volte rimangono pressoche´ intatte. A volte lo stato di depressione e` caratterizzato principalmente dalla tristezza e dal senso di colpa, altre volte da disturbi somatici quali: insonnia, anoressia, perdita di libido. Questo e` il quadro clinico della depressione cosı` come e` stato descritto da E. Kraepelin fino ai piu` recenti autori. Accanto a questo quadro unitario esistono pero` tante e tali variazioni che spesso fanno dubitare — o perlomeno ci fanno porre l’interrogativo — che la depressione sia veramente uno stato unitario o non piuttosto una manifestazione clinica con diverse eziologie. Questa domanda e` fondamentale e merita una risposta, la piu` articolata e documentata possibile. Per fare questo comincero` a porre due problemi centrali: la nosografia e la eziopatologia della depressione.

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2. Nosografia della depressione E. Kraepelin, inserendo la depressione endogena nel circolo della psicosi maniaco-depressiva, dava a quest’ultima la dignita` nosologica, mentre la depressione e la mania isolate costituivano praticamente delle varianti. Su questa linea si porra` la maggior parte della trattatistica psichiatrica, ad eccezione di alcuni, come Kleist prima e Leonhard successivamente, che sosterranno invece l’autonomia nosografica della depressione monopolare rispetto a quella bipolare. D. Cargnello (1959) giustamente fa notare che «...numerosi sono i distimici che di fase in fase esprimono la malattia solo e soltanto in senso depressivo-monopolare; e per di piu`, cio` che maggiormente mi preme sottolineare, con una costanza di struttura ed anche di contenuto davvero impressionante». Ed e` quello che la clinica ci suggerisce, con minime eccezioni, continuamente. Una corretta nosografia delle depressioni deve tener conto dei seguenti fattori: 1)

2)

3)

clinici: ovverosia l’insieme ripetitivo dei sintomi che costituiscono la sindrome, il decorso e l’evoluzione; genetici: ovverosia lo studio della familiarita` e l’importanza dei fattori genetici nei confronti dell’eta`, tipo di patologia e sesso; psicofarmacologici: ovverosia la possibilita` di poter distinguere forme diverse secondo la diversa rispondenza agli psicofarmaci. In questo senso si potrebbe realizzare l’aspettativa di Delay di utilizzare gli psicofarmaci come «analizzatori» delle sindromi psichiatriche.

Rispetto a questi fattori possiamo evidenziare con sicurezza quanto segue: 1)

la depressione endogena unipolare e la depressione nevrotica (o distimica) possono presentarsi in episodi unici o ciclici, che non comportano mai il deterioramento della personalita`. La psicosi maniaco-depressiva e la depressione involutiva invece presentano una evoluzione progressiva con deterioramento (vedi paragrafo 9);

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2)

la depressione endogena monopolare presenta una familiarita` molto variabile; la psicosi maniaco-depressiva e la depressione involutiva presentano un quadro genetico molto preciso (vedere ipotesi genetica); La depressione endogena si giova dei farmaci triciclici o degli IMAO. La psicosi maniacodepressiva, invece, in fase maniacale beneficia del litio e di neurolettici; in fase depressiva e` dimostrato ampiamente che gli antidepressivi, pur funzionando sulla crisi, hanno invece effetti deleteri sulla evoluzione complessiva, perche´ possono innescare cicli rapidi di eccitamento e depressione.

3)

Sulla base di questi primi accenni, che saranno successivamente ampliati, ritengo che la nosografia dei disturbi affettivi piu` razionale, al momento, sia la seguente: a) b) c)

depressione nevrotica o distimie; depressione endogena o maggiore, monopolare (sia con unico episodio, sia ciclica); depressione secondaria.

Questi quadri che, come vedremo, presentano molti punti in comune tanto da poter ritrovare un comune meccanismo interpretativo, si differenziano invece dalle seguenti entita`: a) b)

depressione involutiva; psicosi maniaco-depressiva o psicosi bipolare.

Passero` pertanto a descrivere i vari quadri sintomatologici.

3. Sintomatologia 3.1. Depressione nevrotica o distimia (vedi cap. 15) 3.2. Depressione endogena o maggiore, monopolare ` certamente la forma piu` comune e piu` E importante. Puo` presentarsi come singolo episodio in tutta la vita; oppure puo` ripresentarsi cicli-

camente. L’eta` di insorgenza e` in genere dopo il 3o decennio. Sembra privilegiare il sesso femminile: ma questo dato non e` molto sicuro o perlomeno non come lo e` per la psicosi maniacodepressiva, perche´ nella depressione endogena c’e` una certa incidenza patoplastica dei fattori culturali e sociali. Alcuni Autori ritengono che la maggior incidenza nel sesso femminile sia dovuta al fatto che la donna piu` facilmente accetta di riconoscere e curare la sua depressione. Mentre nell’uomo, per motivi culturali, prevalgono i meccanismi di negazione del disturbo, l’occultamento, oppure il ricorso a sistemi di tamponamento quali l’alcool, le droghe, gli ansiolitici. L’esordio puo` essere lento, a volte invece improvviso «ad interruttore di corrente», con comparsa di malessere, tristezza profonda, apatia: questi pazienti presentano spesso una risoluzione altrettanto netta. Quando gli episodi sono molto ricorrenti, il depresso spesso ne riconosce l’inizio da qualche sintomo molto specifico. Una paziente prevedeva l’arrivo della crisi depressiva dal fatto che, qualche giorno prima, avvertiva una strana sensazione «come se nella testa ci fosse un treno». Una volta instaurata, la depressione presenta un quadro molto tipico. Per comodita` espositiva, ma anche per meglio segnalare alcuni punti in comune con la depressione secondaria, dividero` i sintomi in psichici e somatici.

3.2.1. I sintomi psichici

La forma classica di depressione grave e` caratterizzata da un senso diffuso di melanconia e da rallentamento psicomotorio. Il paziente ha un aspetto infelice e triste, sembra piu` vecchio della sua eta`, la fronte e` corrugata e il suo viso rivela un umore depresso. In alcuni e` possibile notare il segno di Veraguth: la piega della palpebra superiore ai margini del suo terzo mediale e` rivolta all’insu` e un poco all’indietro. Per quanto riguarda il contenuto e il tipo di pensiero esso e` costituito da idee tristi, tetre e morbose; e` dunque un pensiero centrato sul dolore. Molte volte le idee di colpa, peccato e autoaccusa si strutturano in veri e propri deliri. Accanto

Le psicosi affettive: la depressione

a questo particolare contenuto del pensiero, vi e` anche un rallentamento dei processi del pensiero, forse nel tentativo di ridurre la sofferenza. Il depresso non riesce a concentrarsi, a prestare attenzione a cio` che legge, il suo eloquio e` molto lento e, nei gravi stati di stupore, non riesce a parlare affatto. Anche la sua attivita` e` rallentata. Vi e` un desiderio di distruggersi per porre fine alle proprie sofferenze; i pensieri di suicidio sono molto frequenti tra i pazienti, ma il tentativo di suicidio e` compiuto solo nel 10-15% dei casi (S. Arieti). Spesso e` inaspettato perche´ si verifica in genere quando il paziente sembra che stia migliorando. Fenomeno non infrequente e` quello di giovani madri, affette da depressione psicotica, che progettano non solo di uccidere se stesse, ma anche i loro bambini che esse probabilmente considerano delle proprie appendici. Osserviamo inoltre una serie di sintomi che si basano su di una sofferenza psichica che si manifesta come incapacita` di provare emozioni ed affetti: e` la sensazione della perdita dei sentimenti che si differenzia quindi nettamente dalla indifferenza dello schizofrenico. Il depresso non riesce a vedere e guardare, ma solo a sentire emozioni, e soprattutto quella, sgradevolissima, di percepire dolorosamente questa perdita2. Il rallentamento psicomotorio si evidenzia non solo nel movimento, nell’eloquio e nel pensiero, ma anche nella mimica e nell’aspetto trasandato e sciatto. La riduzione dell’autostima giunge fino a livelli tali che il paziente si sente indegno di tutto o addirittura colpevole del solo fatto di esistere. Il vissuto temporale e` completamente alterato: il paziente non riesce a prospettarsi il futuro come possibilita` di una fine della propria sofferenza. Egli vive in un tempo immobile, senza futuro e con un passato pieno di colpa e di rovina. I sensi di colpa attanagliano il depresso ed arrivano a deliri di colpa che, insieme a quelli di rovina economica ed ipocondriaci, costituiscono le tematiche deliranti piu` comuni del depresso.

Accanto a questi disturbi che riguardano la sfera psichica sono presenti i disturbi che riguardano la sfera somatica.

3.2.2. I sintomi somatici

Le forme piu` elementari dei bisogni, quali il sonno, la fame e la sessualita`, sono sempre alterati. Il soggetto depresso rifiuta il cibo e puo` arrivare a situazioni di dimagrimento tali e talmente rapide, da far sospettare la presenza di una qualche grave malattia somatica. Accanto alla anoressia e` sempre presente una stipsi ostinata e spesso irriducibile. L’astenia e` un sintomo fondamentale che blocca qualsiasi tentativo di movimento del depresso. La sessualita` scompare pressoche´ completamente. Ma forse il disturbo piu` grave rimane ` la tipica insonnia del depresso che si l’insonnia. E addormenta molto rapidamente, perche´ probabilmente scatta il meccanismo del non voler pensare, per poi svegliarsi nel cuore della notte, magari per un incubo, solo ed in preda ai pensieri piu` angosciosi. Il ciclo del sonno manifesta varie alterazioni, ma la piu` tipica e` la netta diminuzione della latenza REM3. Se questo e` il quadro medio della depressione, essa puo` esprimersi con alcune varianti fondamentali: a)

b)

c) 2 In effetti non si tratta di una perdita, parola che usa il depresso, ma di una polarizzazione intensa intorno alla sofferenza, per cui i depressi hanno «perduto» in realta` tutte le altre emozioni piacevoli.

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3

la depressione inibita: il rallentamento psicomotorio domina il quadro fino ad arrivare ad un arresto psicomotorio (melanconia stuporosa). Frequente nel passato, e` attualmente piuttosto rara, perche´ in genere c’e` sempre un qualche intervento farmacologico che impedisce questa evoluzione; la depressione ansiosa: invece del rallentamento psicomotorio, e` presente ansia che puo` portare ad uno stato di agitazione psicomotoria; la depressione mascherata: caratterizzata dalla presenza dei sintomi somatici, mentre i

Vedi capitolo 37, «Il sonno: normalita` e patologia».

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

disturbi psichici sono poco evidenti. Secondo Braceland i sintomi piu` frequenti di questa forma di depressione sono: l’apatia, l’insonnia, l’astenia, l’anoressia, la perdita della libido, la stipsi ostinata ed una dispepsia marcata. Per alcuni aspetti, simile alla depressione mascherata e` la forma denominata depressione secondaria.

3.3. Depressione secondaria Intendo per depressione secondaria non quella legata a forme psichiatriche come la schizofrenia e la demenza, ove sarebbe piu` corretto parlare di stato depressivo in schizofrenia o in demenza, ma un quadro depressivo collegato a disturbi neurologici, endocrini, internistici o iatrogeni che presentano una sintomatologia molto chiara. Questa precisazione e` importante non solo sul piano terapeutico, perche´ in questo caso la terapia deve essere eziologica, ma anche sul piano clinico: questa forma si differenzia dalla depressione mascherata perche´ in genere c’e` stata o ci sara` una classica manifestazione depressiva endogena. Ma vediamo il seguente caso clinico (tratto da Rodin G., Voshart K.). Uomo di 55 anni, sposato, con precedenti anamnestici di alterazioni ipertiroidee, viene ricoverato in ospedale con dolore toracico, dispnea e disturbi del ritmo cardiaco. Due anni prima era stato affetto da malattia di Graves ed era stato trattato con iodio radioattivo. Durante l’anno precedente il ricovero riferı` che la sua voce era diventata rauca. In ospedale il personale di corsia trovo` che era letargico, inattivo e frequentemente piangente. Quando interrogato appariva apatico, con rallentamento psicomotorio e riferiva sentimenti depressivi. Nego` anoressia e perdita di peso, ma descrisse un disturbo del sonno con frequenti incubi. Gli esami di laboratorio confermarono la diagnosi di «ipotiroidismo» e fu fatta diagnosi psichiatrica di «sindrome affettiva organica». Fu curato con basse dosi di tiroxina.

Nel caso clinico appena riferito si tratta di una alterazione del tono dell’umore su base organica, regredita completamente non in seguito a

terapia antidepressiva bensı` ad una terapia eziologica del disturbo organico. Sappiamo che esistono altre affezioni organiche che danno luogo ad alterazioni di tipo affettivo e che le stesse sono pure indotte dall’assunzione di alcuni farmaci: paradigmatico per tutti, la reserpina. Denominiamo questi quadri clinici «depressione secondaria». Ma quanto e` legittimo parlare di «depressione secondaria»? La letteratura sull’argomento e` piuttosto vaga e contraddittoria. Cerchero` pertanto di definirla con la convinzione desunta dalla revisione dei lavori sull’argomento che esista una entita` nosologica ben precisa, che puo` essere differenziata sia dalla depressione endogena, sia dalla reazione depressiva di adattamento a malattie organiche. Quest’ultima sindrome puo` comparire come reazione ad una malattia organica (vedi anche il capitolo 49 «Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica»). H. Kohut (1980) considera la disforia associata a varie malattie fisiche come manifestazione di un alterato senso di Se´ prodotto dalla malattia. Schneider considera le reazioni successive a malattie fisiche, soprattutto se gravi, come volte ad un duplice fine: «la lotta contro l’angoscia scatenata dalla minaccia costituita dalla malattia e l’instaurarsi di una nuova modalita` di relazione della persona malata con il mondo e con se stesso». Numerosi studi sono stati fatti allo scopo di verificare la presenza di depressione in pazienti affetti da malattie fisiche. Dai risultati ottenuti utilizzando tests quali il Beck Depression Inventory (DBI) e l’Hamilton Rating Scale for Depression (HAM-D), si evince che un terzo dei pazienti riferisce lievi o moderati sintomi di depressione e circa un quarto puo` avere una sindrome depressiva. La gravita` della malattia organica e` il fattore piu` strettamente associato con la frequenza dei sintomi depressivi. Si tratta per lo piu` di un quadro clinico di tipo disforico caratterizzato da fluttuazioni del tono dell’umore con notevole componente ansiosa e irritabilita`. L’evoluzione e` o verso la guarigione per risoluzione della malattia o di adattamento al disagio provocato, e in ogni caso risente dell’andamento della malattia di base.

Le psicosi affettive: la depressione

In questi casi quindi il disturbo depressivo non e` legato alla malattia in senso eziologico, bensı` rappresenta il vissuto del paziente al cambiamento della propria immagine, oppure a disabilita` funzionali e invalidanti di vario grado. Nella depressione secondaria invece abbiamo le seguenti caratteristiche: 1)

2)

a differenza della depressione endogena, l’anamnesi e` negativa per precedenti disturbi dell’umore nel soggetto o nella famiglia; a differenza delle reazioni depressive a malattie organiche, la depressione secondaria e` legata in senso eziologico e non psicologico alla malattia somatica di base.

Inoltre sappiamo che nell’uomo la somministrazione di alcuni farmaci quali reserpina, propanolo, alfa-metildopa, guanetidina, etc. puo` dare luogo a tre tipi di risposte. Alcuni pazienti denunciano solo una lieve sedazione; altri aggiungono, ad una sedazione piu` marcata, astenia con facile faticabilita`, rallentamento e calo del tono dell’umore: hanno cioe` una depressione secondaria; un terzo gruppo di pazienti sviluppa una vera depressione endogena. Da studi su pazienti trattati con alfa metildopa o con reserpina, risulta che quadri di quest’ultimo tipo si sviluppano soltanto in persone con precedenti anamnestici di depressione e necessitano di terapia antidepressiva, mentre lo sviluppo di depressione secondaria sarebbe legato ad una maggiore sensibilita` biochimica all’azione del farmaco, e di fatto cede alla sospensione del medesimo. Clinicamente la depressione secondaria e` legata a malattie endocrine, neurologiche o a processi demenziali. Abbiamo riportato un caso di depressione secondaria ad una alterazione endocrina che e` spesso causa di depressione secondaria: l’ipotiroidismo. Ne risulta un quadro caratterizzato da: tono dell’umore depresso con difficolta` di compiere gli atti usuali, rallentamento psicomotorio, insonnia e un danno delle funzioni cognitive con perdita della memoria recente, difficolta` dell’attenzione, della concentrazione e del pensiero astratto. Con una terapia eziologica, l’abbassamento del tono dell’umore come il rallentamento psicomotorio

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scompaiono, mentre le funzioni cognitive rimangono compromesse nei pazienti nei quali l’ipotiroidismo e` di piu` vecchia data. Samuel Cohen descrive invece ventinove pazienti con Sindrome di Cushing di cui ventuno con iperplasia bilaterale e otto con tumore (quattro con adenoma, quattro con carcinoma). Di questi ventinove pazienti, quattro non ebbero sintomi psichiatrici, sette avevano una lieve depressione, tredici una moderata depressione, cinque una depressione grave. Il disturbo depressivo e` collegato specificamente al tipo di lesione: e` presente nei casi di iperplasia, mai nei casi di tumore. Anche al carcinoma della testa del pancreas si associa frequentemente un notevole abbassamento del tono dell’umore. Restano ora da considerare, per completare questa sommaria rassegna delle malattie organiche che piu` frequentemente danno luogo a depressione secondaria, le malattie neurologiche. Nel morbo di Parkinson e nella corea di Huntington, labilita` del tono dell’umore e rallentamento psicomotorio si presentano spesso prima del pieno sviluppo della malattia e sono associati ad alterazioni cognitive (demenza sottocorticale). La depressione nel morbo di Parkinson e` stata considerata per molto tempo come reazione alla ` stato dimodisabilita` propria della malattia. E strato invece come disabilita` e depressione decorrano in modo pressoche´ parallelo e la depressione non sia migliorata da una riduzione della disabilita`. Nelle demenze di tipo degenerativo la sintomatologia depressiva puo` essere differenziata dalla depressione primaria sulla base di indagini anamnestiche che escludono precedenti episodi depressivi, dalla presenza di alterazioni della sfera cognitiva e dalla assenza di tematiche di autoaccusa. Queste tre malattie sono accomunate dal fatto di essere dovute a lesioni dirette di siti che partecipano alla sintesi ed al metabolismo delle monoamine. Secondo Fibiger la deplezione di dopamina nella corteccia prefrontale sarebbe il terreno biochimico per la depressione secondaria di questi pazienti. Lo stesso meccanismo e` stato invocato per le depressioni secondarie a lesioni ischemiche del lobo frontale sinistro.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Infatti lesioni del lobo frontale interrompono un maggior numero di vie catecolaminergiche di quanto non facciano lesioni posteriori. Inoltre e` sperimentalmente dimostrato che lesioni ischemiche negli animali determinano una deplezione di catecolamine cerebrali. Da questo lungo excursus emerge chiaramente che esistono numerose malattie, endocrine e neurologiche, che determinano uno stato depressivo. Questo stato depressivo, che definiamo secondario, e` caratterizzato da: astenia, rallentamento psicomotorio, disturbi del sonno, abbassamento del tono dell’umore, faticabilita` nell’eseguire anche mansioni elementari, anoressia ed alterazioni di tipo cognitivo. Sono assenti i sintomi psichici della depressione endogena: evidente quindi che ad un disturbo di tipo biochimico (diminuzione delle amine biogene) corrisponde un quadro dove sono presenti solo i sintomi somatici della depressione. Mi sono soffermato a lungo sulla depressione secondaria, perche´ questi dati saranno fondamentali per proporre una ipotesi unitaria della depressione o perlomeno dei tre quadri sopra descritti, cosa che faremo subito dopo aver esaminato l’eziopatogenesi4.

4. Eziopatogenesi Nella spiegazione dell’eziologia della depressione tre sono i filoni fondamentali: quello genetico, quello biochimico e quello psicologico.

ogni malattia, ma in quelle psichiatriche in particolare, numerosi fattori sociali, individuali, biologici possono condizionare la penetranza genetica e rendere quindi la sindrome piu` o meno evidente. Molti studi sono falsati appunto dalla pretesa di una corrispondenza diretta ed univoca, senza tener conto di quanti altri fattori possono essere concause, altrettanto importanti, nella manifestazione patologica. Perche´ una sindrome possa definirsi su base genetica, e` necessario che siano presenti e confermati perlomeno i seguenti dati: 1)

2)

familiarita`: ovverosia che nei consanguinei del probando la sindrome compaia in percentuale elevata e statisticamente significativa rispetto alla media generale. Se si tiene conto che la media dei disturbi depressivi e` del 5% e` evidente che nella famiglia del probando debbono comparire casi di depressione perlomeno doppi; concordanza molto elevata in gemelli MZ. Questo dato assume un significato particolare quando i gemelli MZ sono allevati, fin da piccoli, in situazioni ambientali diverse: perche´ e` evidente che in questo caso i fattori ambientali, come possibile fattore causale, sono da escludersi. Oppure concordanza in soggetti che, nati da genitori affetti dalla sindrome, sono stati allevati precocemente in situazioni ambientali diverse.

Rispetto a questi due parametri possiamo dire che i dati significativi diversificano per la depressione endogena e per la psicosi maniaco-depressiva.

4.1. I fattori genetici Rappresentano una importante linea di ricerca: e` sicuro infatti che i fattori genetici giocano un ruolo non secondario nella depressione endogena e nella psicosi maniaco-depressiva. Bisogna pero` estrapolare, dalle numerose e spesso contraddittorie ricerche, quei dati sicuramente accertati, tenendo sempre presente che in

4 La letteratura riportata in questo paragrafo e` tratta da Lalli N., Bonomo D., 1988.

Nella psicosi maniaco-depressiva l’incidenza, che nella media e` dell’1,5, sale al 15-35% nelle famiglie ove c’e` un soggetto affetto da tale disturbo. Nei gemelli MZ, Mendlewicz (1974) ha osservato una concordanza che oscilla tra il 50% ed il 95%. Price, studiando 12 coppie di gemelli MZ, allevati fin da piccoli in situazioni ambientali diverse e dei quali uno si era ammalato di psicosi maniaco-depressiva, ha riscontrato una concordanza in ben 8 coppie. Il che farebbe pensare che la sindrome si esprime geneticamente ed e` scarsamente condizionata da fattori ambientali.

Le psicosi affettive: la depressione

Inoltre molte ricerche hanno messo in evidenza la possibilita` di poter anche evidenziare il cromosoma portatore dell’anomalia. Uno studio pubblicato nel 1987 e` stato condotto su di un gruppo altamente omogeneo, gli Amish, comunita` abitante in Pennsylvania, geneticamente omogenea perche´ discendente da un ceppo europeo, emigrato negli Usa nel XVIII secolo. In questo gruppo si e` riscontrata una elevata incidenza di psicosi maniaco-depressiva e si e` evidenziato un linkage nel cromosoma 115. Molti altri autori invece ritengono che la trasmissione avvenga attraverso un gene localizzato nel cromosoma X. Questo dato sarebbe confortato da alcuni elementi. L’alta concordanza tra psicosi maniaco-depressiva e la cecita` ai colori (che e` trasmessa dal cromosoma X); la significativa prevalenza nel sesso femminile con una percentuale del 59% ed il fatto che, mentre e` frequente la trasmissione madre-figlio, non sono mai state osservate trasmissioni padre-figlio. Diversa e` la situazione per la depressione endogena monopolare, ove esiste una familiarita` meno frequente che si puo` esprimere con modalita` diverse, tanto che alcuni Autori l’hanno suddivisa in due gruppi (Zimmermann et al.): 1)

2)

il D.S.D. (Depressive Spectrum Disease): gruppo piu` affine, per sintomatologia, alla distimia e che si associa, a livello familiare, frequentemente con disturbi della personalita`, soprattutto alcolismo. il F.P.D.D. (Familial Pure Depressive Disease): gruppo piu` puro e piu` simile alla depressione endogena che si esprime con una familiarita` elevata, ma minore rispetto a quello della psicosi maniaco-depressiva.

Dai dati sopra descritti sembra emergere che sicuramente, sul piano genetico, c’e` una differenza tra depressione endogena e psicosi maniacodepressiva.

5

Questo studio, come quello successivo, e` basato sulla possibile associazione (linkage) tra un gene sicuramente conosciuto, e quello probabile della psicosi affettiva.

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Un ulteriore dato, pero` meno sicuro, e` l’eta` di insorgenza: entro i 25 anni per la psicosi maniacodepressiva, nel 3o decennio per la depressione endogena. Questi dati vanno letti, pero`, nell’ottica della incidenza di altri fattori, che possono essere mediati anche dalla identificazione o comunque da dinamiche psicologiche. Infatti si e` visto che la familiarita` nella depressione endogena aumenta se il probando ha avuto il primo episodio precocemente, e soprattutto se c’e` una ciclicita` del disturbo. Ora questo fenomeno puo` essere visto come causa, ma anche come effetto. Nel senso che possiamo pensare che, in questi casi, ci sia una penetranza genetica maggiore; ma possiamo anche pensare che l’insorgenza precoce e ripetitiva di episodi depressivi possa essere molto piu` patogena per i familiari e particolarmente per i figli. Quest’ultima considerazione deve servire a tener presente che sicuramente il fattore genetico esiste, ma che esso puo` esprimersi con modalita` diverse in relazione ad altre concause. Infine possiamo dire che mentre nella psicosi maniaco-depressiva sembra esserci una trasmissibilita` della malattia piu` netta, per la depressione endogena sembra trattarsi piu` di una vulnerabilita` depressiva.

4.2. I fattori biochimici La scoperta dei farmaci antidepressivi e` stata in parte casuale. L’iproniazide, che e` stato il primo farmaco antidepressivo, era usato come antitubercolare, quando alcuni psichiatri, in particolare N. Kline, notarono che aveva anche un effetto eccitante ed euforizzante: effetto collegato al blocco dell’enzima monoaminossidasi che degrada le amine biogene. Pertanto questo farmaco, denominato IMAO (ovverosia inibitore delle monoaminossidasi), diventa il capostipite degli antidepressivi. Successivamente fu messo a punto un modello animale, molto importante per la validazione degli antidepressivi, basato sulla somministrazione di reserpina. Questo farmaco infatti, somministrato ai ratti, induce un rallentamento

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

psicomotorio che puo` essere paragonabile a quello che osserviamo nell’uomo in caso di depressione endogena. Pertanto si potevano sperimentare negli animali vari farmaci ed individuare come antidepressivi quelli che riducevano o abolivano la sindrome indotta da reserpina. Si era chiarito inoltre il meccanismo d’azione della reserpina che provoca il rallentamento motorio perche´ induce farmacologicamente lo svuotamento nel SNC delle amine (noradrenalina e serotonina) che sono fisiologicamente degradate da un enzima che e` la monoaminoossidasi. Seguirono ben presto altri farmaci della stessa classe. Successivamente fu evidenziato l’effetto antidepressivo di una molecola completamente diversa, l’imipramina, che diventera` il capostipite di una nuova classe: i triciclici. La scoperta fu dovuta alla costanza di R. 6 Kuhn , che sull’onda del successo della cloropromazina nella schizofrenia mise a punto nuove molecole derivate da questo farmaco. La cloropromazina e` costituita da tre anelli benzenici (di qui la denominazione di triciclici) dei quali quello centrale ha un atomo di S e da una catena laterale aminica: l’imipramina fu ottenuta sostituendo l’atomo di S e mantenendo il resto. Kuhn provo` a lungo questo farmaco negli schizofrenici (perche´ si prevedeva che, come derivato della cloropromazina, dovesse avere un analogo spettro terapeutico), ma senza successo ed a volte con l’aggravamento della sintomatologia. Pertanto, vista l’inutilita`, comincio` a provarlo nei depressi: la costanza che dimostro` nel continuare gli esperimenti (non sapeva infatti che i triciclici hanno un tempo di latenza) fu premiata. Dopo una-due settimane si notarono notevoli miglioramenti nei depressi trattati con imipramina. Era nata cosı` la famiglia dei triciclici, a cui seguirono i tetraciclici e numerosi derivati. Ma se l’effetto clinico era evidente ed incontestabile, meno chiaro era il meccanismo d’azione. Infatti non solo questo farmaco non agiva, come si era presupposto, sulla monoaminossidasi; ma non aumentava nemmeno i livelli dei neuro-

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Da Snyder S. H., 1989.

trasmettitori nel cervello. Ulteriori ricerche portarono alle seguenti conclusioni. Il livello di amine biogene nello spazio intersinaptico viene regolato da due meccanismi: uno e` l’inattivazione mediante l’enzima monoaminossidasi, l’altro e` una pompa (re-uptake) che riassorbe le molecole di amine nel neurone presinaptico (vedi disegno 1). La scoperta di questa pompa di ricaptazione spiegava molti aspetti dei triciclici, ma non certamente un altro dato molto significativo. Cioe` che tra l’inizio della somministrazione e la comparsa dei primi effetti clinici intercorre un periodo di tempo di 7-15 giorni, detto tempo di latenza. Questo dato trovo` la spiegazione nella constatazione che l’uso prolungato dei triciclici tende a diminuire il numero dei recettori postsinaptici. Quindi bisogna pensare che il meccanismo dei triciclici e dei derivati si basa su due meccanismi: 1) 2)

aumento delle amine nello spazio intersinaptico per diminuzione o blocco del re-uptake; diminuzione del numero di recettori per le amine.

` quindi necessario formulare la seguente E ipotesi. L’azione antidepressiva dei farmaci compare allorquando tutti i siti recettoriali per le amine possono essere legati. Questo spiega una duplice necessita`: l’aumento delle amine nello spazio intersinaptico (o per diminuzione del reuptake o per inibizione della MAO) e la contem` quindi da poranea diminuzione dei recettori. E presupporre che nel SNC ci sia una complessa dinamica che comporta la necessita` che tutti i siti recettoriali per le amine siano occupati per il mantenimento di un tono dell’umore stabile, nella complessa interazione di stimoli endogeni ` inoltre da ritenere che l’alterazione ed esogeni. E di questo complesso meccanismo possa avvenire con modalita` diverse, e quindi dar luogo a diverse forme cliniche della depressione (N. Lalli, 1989). Dico diverse perche´ e` evidente che noradrenalina e serotonina, pur accomunate nella eziopatogenesi della depressione, non hanno effetti uguali. M. Asherg ha evidenziato che i pazienti che presentano una netta diminuzione della seroto-

Le psicosi affettive: la depressione

nina (evidenziabile dai livelli molto bassi di 5HIA, acido 5-idrossindolacetico, metabolita della serotonina) presentano anche clinicamente un quadro caratterizzato da intenso rallentamento psicomotorio, apatia e tendenza al suicidio. La noradrenalina ha vari siti recettoriali (α 1, α 2, e β) che hanno funzioni diverse; quindi bisogna pensare che tutti questi fattori giocano un ruolo importante di interazione nelle varie mani` ipotesi accettabile festazioni della depressione. E che la forma inibita sia prevalentemente correlata alla serotonina, quella ansiosa invece alla noradrenalina. Bisogna infine tener presente che gli antidepressivi funzionano solo in soggetti depressi, mentre nelle persone con normale tono dell’umore possono indurre solamente disforia o sedazione. Inoltre e` da considerare che la maggior parte delle terminazioni dei neuroni contenenti noradrenalina e serotonina si riscontra nel sistema limbico. Se si tiene presente l’importanza del sistema limbico nella vita affettiva, e` evidente che questo

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deve essere considerato il ponte che unisce i fattori psicologici con quelli biologici e viceversa.

4.3. Le ipotesi psicologiche: relazionali e cognitive Accenno brevemente alle ipotesi relazionali e cognitive. M.B. Cohen (Cohen et al., 1954) nello studio sulla depressione prende in considerazione la psicologia della famiglia e i rapporti interpersonali. Questi studi sottolineano un contesto familiare assai rigido, socialmente isolato, che tende a valorizzare il bambino solo nella misura in cui conserva o accresce lo «status» della famiglia per riscattare la presunta inferiorita` familiare. Tutto cio` porta il bambino alla competizione e all’invidia verso gli altri, e all’intolleranza verso gli insuccessi. Il bambino, diventando cosı` strumento per migliorare la posizione sociale, ha in seno alla famiglia una posizione privilegiata per la sua capacita` di ottenere prestigio, ma viene continuamente svalutato come persona.

Figura 1. Rilascio della serotonina e meccanismo del re-uptake.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Egli si sente costantemente minacciato dalla perdita di amore familiare se esprime un comportamento normale e spontaneo. Inoltre cresce come un manipolatore, perche´ considera i rapporti umani come mezzi per raggiungere le proprie mete, poiche´ non riesce a vedere un’altra persona indipendentemente dai propri bisogni. La depressione diventa cosı` un tentativo per riconquistare l’altro, necessario per soddisfare i bisogni interiori. Con la sua teoria cognitiva Beck (1970) considera le distorsioni cognitive quali pessimismo esagerato e autorimproveri non realistici, come la causa primaria della malattia. Le specifiche distorsioni della depressione che Beck ha chiamato «triade cognitiva» sono: 1) 2) 3)

aspettative negative nei confronti dell’ambiente; un’opinione negativa di se´; aspettative negative per il futuro.

Queste caratteristiche distorsioni si discostano da cio` che la maggior parte degli individui considera un modo realistico di pensare o di interpretare la realta`. Secondo Seligman (Seligman e Maier, 1967) la depressione si puo` spiegare con il modello dell’impotenza appresa: cioe` il depresso non e` stato capace di impadronirsi di tecniche adattive per affrontare situazioni dolorose, mentre ha appreso un atteggiamento d’impotenza. Pertanto secondo gli AA. il depresso ha una storia caratterizzata dall’incapacita` di controllare le ricompense dell’ambiente e si deprime perche´ si sente impotente di fronte alle risposte ambientali e si ritiene incapace di modificare questo stato di cose. 4.4. L’ipotesi psicodinamica K. Abraham per primo sottolinea la somiglianza tra depressione e lutto, ma ne evidenzia anche le differenze. In ambedue c’e` la perdita dolorosa dell’oggetto, ma nella malinconia ci sono una rabbia ed una ostilita` inconscia che mancano nel lutto. Egli afferma che il depresso e` tale a causa di ferite orali, subite nei primi anni di vita. Questo spiega perche´ la perdita dell’oggetto

amato induce la depressione solo in soggetti predisposti a causa di ferite narcisistiche che li rendono dipendenti e con una autostima deficitaria. Concetti, questi, che saranno ripresi ed ampliati successivamente da A. Rado. S. Freud riprende e sviluppa il parallelo tra lutto e malinconia. Nel lutto che segue ad una perdita reale c’e` il ritiro delle cariche libidiche ed una elaborazione che portera` al superamento della perdita; nella malinconia la perdita e` fantasmatica, perche´ legata ad un processo di introiezione dell’oggetto vissuto come cattivo e deludente. Nel lutto e` il mondo a diventare povero e vuoto, nel melanconico e` l’Io del soggetto ad essere impoverito e vuoto. S. Rado sostiene che sono predisposte alla depressione quelle persone che presentano un intenso bisogno di essere approvate ed amate per poter mantenere un sufficiente livello di autostima. Il depresso e` stato un bambino narcisista e dipendente che, una volta adulto, non riesce a mantenere una adeguata autostima sulla base dei suoi successi e del suo giudizio, ma si sente sicuro solo se amato, lodato, incoraggiato. O. Fenichel (1973) accentua questo aspetto, affermando che la depressione e` un mezzo per evitare la totale perdita dell’autostima. Non e` infatti la perdita dell’oggetto amato a provocare la depressione, ma questa si verifica solo se l’oggetto e` il simbolo della nostra autostima e quindi la perdita rappresenta fondamentalmente una perdita dell’autostima. E. Bibring, rifacendosi alla psicologia dell’Io, spiega la depressione come espressione di uno stato di impotenza dell’Io. S. Nacht (1973) sostiene in maniera molto esplicita che alla base della depressione c’e` una particolare struttura caratteriale: il carattere depressivo. Per il carattere depressivo, l’oggetto ha funzioni essenzialmente narcisistiche. Il depressivo non ama l’oggetto in se stesso e per le sue intrinseche qualita`, ma per gli aspetti idealizzati. Nel caso in cui l’oggetto (che puo` essere una persona, un ideale, una ideologia, ecc., e della cui forza il paziente aveva bisogno di sentirsi partecipe) scompare: per il depressivo e` come perdere la parte migliore di se stesso e si trova cosı` esposto alla merce´ della sua ostilita`.

Le psicosi affettive: la depressione

Questi pochi accenni riguardano solamente quegli autori che io ritengo abbiano apportato contributi significativi e clinicamente dimostrabili al problema della depressione e cioe`: le valenze ostili presenti nel depresso, la struttura del carattere depressivo, l’importanza dell’autostima nella genesi della depressione. Dopo aver esaminato le varie ipotesi sulla depressione, credo che sia possibile proporre un modello unitario che tenga conto degli aspetti sia psicologici che biologici di questa sindrome.

5. Modello unitario della depressione: dallo psichico al biologico Credo che questo modello ci aiuti a meglio comprendere la complessita` della depressione ed a scorgere, al di la` delle variazioni sintomatologiche, una unita` di base. Precedentemente ho cercato di dimostrare l’esistenza di due sintomatologie depressive distinte: quella primaria (o endogena o maggiore) e quella secondaria. La depressione secondaria e` caratterizzata da rallentamento psicomotorio, astenia, tristezza e dalla triade somatica: disturbi del sonno, dell’appetito e della libido. La depressione primaria, oltre i segni sopra descritti, mostra in primo piano una triade particolare: la caduta dell’autostima fino al delirio di autoaccusa, i sensi di colpa, la disperazione con impossibilita` a progettarsi nel futuro. Questi ultimi sintomi patognomonici della depressione primaria debbono considerarsi quale elaborazione del carattere depressivo in presenza di un «disturbo» di natura biologica che possiamo ravvisare in una alterazione dei neurotrasmettitori. Quindi mentre i sintomi della depressione secondaria sono l’epifenomeno di un disturbo biologico, quelli della depressione primaria debbono considerarsi invece come l’elaborazione psichica del carattere depressivo ad una situazione anche di ordine biologico. (N. Lalli, 1988b) L’esempio piu` tipico sembra essere rappresentato dalle possibilita` di alcune sostanze farmacologiche, in primo luogo la reserpina, di poter indurre una depressione con i caratteri a volte di

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quella secondaria, a volte di quella primaria. Il che vuol dire che, probabilmente, una medesima lesione biochimica puo` dar luogo a due sintomatologie diverse. ` evidente che quanto sopra e` affermabile E partendo da un assunto di base: cioe` che esiste una relazione tra un substrato somatico (prevalentemente neuroormonale) e la struttura pulsionale, e che ambedue siano strettamente collegati alla modalita` delle relazioni oggettuali. Riassumendo, la depressione primaria si differenzia da quella secondaria per due motivi fondamentali: a)

b)

sul piano fenomenologico per la comparsa di un corteo sintomatologico molto preciso: caduta dell’autostima, sensi di colpa, autoaccusa, disperazione; oltre tutti i sintomi caratteristici della depressione secondaria; sul piano psicodinamico, per la presenza di una personalita` premorbosa che e` il carattere depressivo.

A questo punto e` necessario descrivere la fenomenologia e la dinamica del carattere depressivo. Ritengo che nello sviluppo psichico, che si attua nella dialettica tra pulsioni e relazioni oggettuali, si tende a strutturare l’Io che deve essere differenziato in un Io secondario (effetto della rimozione e dei meccanismi difensivi), un Io libidico ed un Io ideale. L’Io ideale si struttura sulla base delle situazioni gratificanti che il bambino riceve soprattutto in ordine alla sua esigenza fondamentale di crescita-autonomia. ` evidente che c’e` un rapporto preciso tra E quantita` di frustrazioni sadiche ricevute e sviluppate dell’Io, nel senso che quanto maggiori saranno queste, tanto maggiore sara` l’inconscio rimosso e tanto piu` rigida la struttura dell’Io secondario (corazza caratteriale). Se le frustrazioni saranno prevalentemente a carico di un non riconoscimento della realta` psichica del bambino, sara` soprattutto l’Io ideale ad essere meno strutturato e piu` fragile. E questa struttura e` fondamentale, soprattutto in funzione delle capacita` di autostima, autonomia e capacita` di progettualita`. H. Kohut dice che siamo spinti dalle pulsioni e siamo attratti dagli ideali. Questa carenza dell’Io ideale sul piano

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dinamico e` attribuita a fattori diversi. Dalla dialettica tra le pulsioni e le relazioni d’oggetto si formano due strutture: 1)

2)

un Io libidico che rappresenta l’evoluzione della carica libidica originaria che si sviluppa nell’ambito dei rapporti interpersonali validi, ed un Io ideale che e` portatore degli ideali, delle tendenze, dei progetti dell’individuo; un Io secondario collegato ai meccanismi difensivi (soprattutto alla introiezione ed alla rimozione), che definiamo anche corazza caratteriale.

Il carattere depressivo presenta come struttura di base una intensa bramosia, un Io libidico fragile, ed un Io secondario molto rigido. Sul piano dinamico mostra i seguenti tratti: a) b)

c) d)

scarsa autostima; bisogno di un oggetto o di una situazione idealizzata, alla quale crede di dare amore ma da cui in verita` dipende per mantenere ad un livello accettabile la propria autostima; ambivalenza marcata verso questo oggetto; angoscia per la possibile perdita dell’oggetto idealizzato, che vuol dire timore della perdita della propria autostima.

` evidente che queste dinamiche sono totalE mente inconsce per il paziente. Senza poter entrare nel merito del problema, sembra evidente pero` quanto affermato da D. Fairbairn (1970), secondo il quale non e` possibile distinguere e separare le strutture psichiche, dall’energia ad esse legate. La libido serve a fornire energia all’Io ideale, ma anche a far sı` che l’Io secondario riesca a contenere le valenze distruttive legate agli oggetti interni che sono sempre oggetti cattivi. Perche´ gli oggetti interni nascono dalla dinamica: delusione-rabbia-bramosia-introiezione. Questa struttura del carattere depressivo puo` rimanere tale per tutta la vita, attraverso una serie di compensi piu` o meno validi. Quando c’e` una diminuzione di libido, siccome essa agisce sia come carica per l’Io ideale, sia come contenimento per l’Io secondario, cosa succede? Ma ancora prima, perche´ c’e` una diminuzione di libido? Essa puo` diminuire in quei casi ove c’e` un disturbo dei fattori biologici che condizionano il

tono dell’umore (espressione che attiene al piano fenomenologico) o un disturbo della libido (che attiene al piano psicodinamico). Per capire meglio cosa succede, possiamo tener presente la dinamica della gelosia. Si conosce bene il rapporto tra gelosia e depressione. Bisogna tener presente che la gelosia, ovverosia il timore-rabbia che l’altro vada via, e` legato sempre ad una diminuzione delle capacita` libidiche del soggetto geloso. Il geloso e` tale perche´, avendo una minore carica libidica, non riesce a mantenere il rapporto con l’altro e si angoscia (diventando spesso rabbioso) nel timore che l’altro si allontani fino a sparire. Se teniamo presente questa dinamica possiamo capire meglio cosa succede al carattere depressivo, allorche´ le valenze libidiche tendono a diminuire. L’oggetto idealizzato (che serve a mantenere un sufficiente livello di autostima) viene fantasticamente vissuto come tendente ad allontanarsi, a sparire. Questo comporta immediatamente la caduta dell’autostima: il soggetto si sente insignificante, privo di valore, praticamente annullato dall’altro. A questo punto egli cerca di mettere in atto, come meccanismo difensivo, l’introiezione, ovverosia il tentativo di recuperare e controllare l’oggetto idealizzato. Ma l’oggetto introiettato assume inevitabilmente le stesse connotazioni e caratteristiche dell’Io secondario che sta introiettando: ovverosia un oggetto privo di cariche libidiche e quindi svalutato, quindi deludente. A questo punto succede quello che H. Ey definisce la catastrofe psichica: ovverosia il crollo psicotico. Quindi non c’e` ritiro della libido (come avviene invece nel lutto) ma c’e` una diminuzionescomparsa della libido. In questo senso ha ragione S. Freud quando sostiene che nel lutto e` il mondo ad essere vuoto, nella melanconia e` vuoto l’Io del soggetto. Ma siccome la libido e` l’energia che sostiene l’Io libidico, questo tende ad un impoverimento che comporta la caduta dell’autostima, della speranza, del tendere in avanti, del progettarsi. Ma siccome la libido serve anche come energia che rende possibile all’Io secondario di contenere le cariche distruttive dell’inconscio rimosso, ci sara` un ritorno degli oggetti interni rimossi che

Le psicosi affettive: la depressione

sono — come dicevo — sempre cattivi. Quindi non si tratta di un Super Io sadico che maltratta l’Io del depresso, ma solo di un ritorno di quegli oggetti che sono stati introiettati e rimossi a causa di una specifica dinamica pulsionale del paziente. A questo punto il paziente si sentira` colpevole di aver distrutto l’oggetto idealizzato, mentre non potra` che rivivere nel passato, riempito dal ritorno degli oggetti rimossi. Cosa vediamo sul piano fenomenologico? Piu` o meno quello che sostiene J. Bowlby (1973) a proposito della depressione anaclitica: perditadisperazione-distacco. Quest’ultimo interviene quando scatta il meccanismo della introiezione che comporta la scomparsa definitiva dell’oggetto stesso. Infatti una volta che l’oggetto e` introiettato, inevitabilmente assume le connotazioni negative dell’Io del soggetto; e` evidente quindi che non solo l’introiezione non serve, ma peggiora la situazione, perche´ il paziente puo` provare solo disperazione e sensi di colpa, sentendosi lui (fantasticamente) colpevole della scomparsa dell’oggetto. Ma contemporaneamente c’e` una caduta pressoche´ totale dell’Io libidico: scompare pertanto la possibilita` della progettazione nel futuro, il corso del tempo si ferma ed e` invaso dagli oggetti introiettati che ora - non piu` bloccati dalla presenza della libido - tendono a tornare fuori dall’inconscio rimosso. A questo punto, il mondo del depresso si popola di oggetti (e non di ricordi), che sono inevitabilmente persecutori.

6. Diagnosi differenziale Data la frequenza delle forme depressive e` spesso necessario, dopo aver posto una diagnosi di stato sulla base dei sintomi patognomici, porre una diagnosi differenziale. Diagnosi differenziale che e` fondamentale per una prognosi corretta. Scambiare l’inizio di una demenza con uno stato depressivo puo` falsare completamente la prognosi. La depressione inibita, soprattutto quando il rallentamento psicomotorio e` intenso, puo` porre la necessita` di differenziarla da due sindromi:

1)

2)

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lo stupore confusionale. Si evidenziano sempre dei segni di stato tossico, piuttosto gravi ed evidenti: e` presente il disorientamento temporo-spaziale; la catatonia. Il primo dato significativo e` la mimica: mentre il depresso presenta un viso triste, con uno sguardo perduto nel vuoto, il catatonico ha uno sguardo vigile ed una mimica fige´e. Inoltre possono comparire i segni del negativismo, dell’ecoprassia, dell’ecolalia o i manierismi. Elemento altamente differenziale e` il fatto che il catatonico puo` interrompere il suo stato con sblocchi repentini, cosa che non succede mai nel depresso.

La depressione puo` inoltre essere presente negli stadi iniziali della schizofrenia, soprattutto in giovane eta`, ponendo un delicato e complesso problema diagnostico. Comunque nello schizofrenico manca un vero dolore morale: invece del sentimento penoso della perdita dei sentimenti, lo schizofrenico e` in genere indifferente. Possono evidenziarsi discordanze ideo-affettive oppure manierismi. Quando la depressione si presenta nel corso di una sindrome schizofrenica conclamata, spesso come conseguenza di una terapia neurolettica, questa non pone problemi diagnostici, bensı` solo terapeutici. Altra patologia da differenziare e` quella demenziale, sia la demenza tipo Alzheimer che quella multinfartuale. Soprattutto in quest’ultima possono comparire dei veri stati depressivi, reattivi alla consapevolezza che hanno questi pazienti del loro decadimento. Inoltre sono da tener presenti tutte quelle possibilita` di depressione secondaria a malattie organiche (vedere depressione secondaria). In questi casi solo un accurato esame clinico, unito ad una attenta anamnesi, possono aiutare a dirimere il problema. Un ampio campo aperto al problema della diagnosi differenziale sono le diverse forme di depressione. La depressione involutiva viene individuata sulla base di un primo episodio che insorge in tarda eta`, in genere tra i 50-60 anni, senza precedenti anamnestici personali, spesso in seguito a disturbi organici. Ma e` soprattutto il quadro clinico dominato dall’intensa agitazione, da un piu`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

o meno grave deterioramento, e l’evoluzione in genere progressiva, che possono chiarire il quadro. Piu` difficile, a volte, puo` essere porre con sicurezza una diagnosi differenziale tra una forma distimica ed una endogena, soprattutto quando quest’ultima non presenta i classici segni del rallentamento psicomotorio o una chiara ideazione di colpa. In effetti c’e` un’area a cavallo tra la distimia e la depressione endogena, che non sempre e` facile valutare. Molti AA. preferiscono definire queste forme come depressione lieve o depressione endoreattiva, solo che il nome di per se´ non chiarisce molto le idee. Credo inutile aumentare il numero delle forme e quindi delle diagnosi, mentre molto piu` proficuo e` cercare di stabilire alcuni parametri significativi, per una piu` precisa definizione. Queste forme hanno in comune con la distimia i seguenti tratti: a)

b) c)

spesso seguono ad un avvenimento traumatico fisico o psichico, pero` mentre nella depressione nevrotica c’e` una relazione molto precisa tra avvenimento e vissuto (vedere caso clinico a pag. 318), in questi casi la reazione sembra essere piu` aspecifica. Gli avvenimenti possono essere: un intervento chirurgico, una perdita, a volte una difficolta` economica; i disturbi dell’affettivita` sono presenti, ma in maniera non molto accentuata; e` presente piu` facilmente ansia, piuttosto che rallentamento psicomotorio.

Con la depressione endogena, invece, hanno in comune i seguenti tratti: a) b) c) d)

e) f)

una certa familiarita`, anche se non molto netta, ma certamente presente; i segni di astenia, di abulia, di apatia; comparsa o esacerbazione di sintomi fobici; sintomi somatici (anoressia, diminuzione della libido, insonnia) anche se non in maniera accentuata; crisi di pianto e di malumore depressivo; variazione dell’umore con miglioramento verso sera.

Quando molti dei dati sopra riportati sono presenti in un singolo paziente, effettivamente la diagnosi differenziale puo` emergere solo da una accurata anamnesi che cerca di evidenziare la dinamica complessiva del paziente. Brevemente cito un caso. Donna di 42 anni con familiarita` positiva nella linea materna per episodi di depressione endogena: la nonna, la madre, una zia. Anche un fratello soffre di «depressione». All’eta` di 30 anni, senza alcun motivo, presenta uno stato di esacerbazione di tratti fobici, per cui non riesce piu` ad uscire da sola, ha paura delle malattie. Il tutto dura vari mesi con risoluzione completa. Sei anni fa subisce una isterectomia totale: non sembra avere conseguenze significative. Un anno fa le viene diagnosticata una cisti ovarica. Da allora comincia a sentirsi triste, e` preoccupata per la salute, ricompaiono sintomi di tipo fobico, ha paura di stare sola. In questo anno dimagrisce qualche chilogrammo, inoltre compare insonnia con risveglio precoce, anche se poi si riaddormenta all’alba. Forte ansia, pianto immotivato, aumento dell’apatia e comparsa di una tristezza di fondo. Riferisce una oscillazione dell’umore con miglioramento verso sera. In questo caso la presenza di familiarita` per la depressione, la presenza di tratti fobici ed ansiosi che si esacerbano tanto da costituire quasi una sorta di equivalenti depressivi, l’oscillazione dell’umore e soprattutto uno stato di apatia e di tristezza che non e` collegabile alla storia della paziente, fanno propendere per una diagnosi di depressione endogena lieve. La risoluzione completa, dopo qualche mese, con una terapia antidepressiva, anche se non e` una conferma inoppugnabile, e` senz’altro una ulteriore conferma della diagnosi di depressione endogena. Se si tiene conto della difficolta` di porre una diagnosi sicura e della presenza di disturbi biologici nella depressione endogena, si puo` ben capire lo sforzo di tanti autori per cercare di trovare dei markers biologici in grado di fornirci una conferma mediante dati di laboratorio. Sono stati segnalati due markers: il test al desametazone (nella depressione endogena manca l’inibizione di escrezione di cortisolo) e le variazioni di tassi ormonali quali il

Le psicosi affettive: la depressione

cortisolo o la prolattina. Ma tutti questi dati non sono stati sempre e comunque confermati. Forse il dato piu` certo, perche´ piu` uniforme, e` il tempo di latenza REM che nel depresso e` molto piu` breve che nel normale.

7. Il caso clinico Paziente di 45 anni. Il padre ha avuto un unico episodio depressivo dopo il pensionamento. Il paziente ha presentato un episodio all’eta` di 25 anni e durato circa sei mesi. Da quanto ricorda e racconta, sembra trattarsi di un episodio depressivo endogeno. Da allora e` sempre stato bene: sposato, con figli, ha conseguito una brillante carriera. Agli inizi dell’anno il paziente comincia ad avvertire ansia e soprattutto difficolta` di concentrarsi nel lavoro. La corrispondenza si accumula sulla scrivania, deve prendere continuamente appunti, perche´ facilmente dimentica gli impegni. Un medico gli diagnostica «stress da lavoro» e lo invita a riposarsi. Il paziente parte per le vacanze: ma la situazione peggiora. Il vedere la gente sciare e divertirsi aumenta il suo malessere: comincia a sentirsi diverso e di peso per tutti. Al ritorno il paziente avverte una «confusione alla testa». Si sente in colpa perche´ «continuo a prendere lo stipendio senza lavorare». Ritorna dal medico che gli consiglia un «ricostituente» ed un ulteriore periodo di riposo per malattia. La mattina, mentre il paziente si reca in ufficio per consegnare il certificato medico, ha un grave incidente d’auto, da cui esce miracolosamente illeso. Il paziente e` visitato qualche giorno dopo. Si presenta triste e dimesso, parla lentamente ed a fatica. Si lamenta per la sua incapacita` di applicarsi al lavoro: si sente in colpa e si vergogna per il suo stato. Teme soprattuto per i figli che vedendolo in quello stato «soffrono per colpa mia». Sono presenti disturbi somatici quali anoressia, stipsi, perdita della libido, insonnia con risveglio precoce. L’ideazione e` polarizzata su tematiche depressive e di colpa. L’incidente d’auto, avvenuto in maniera non molto chiara, potrebbe essere stato un tentativo inconscio di suicidio. Una terapia antidepressiva a base di triciclici comincia a sortire i primi effetti dopo tre setti-

525

mane. Successivamente si notano sempre piu` evidenti i segni di miglioramento, ma il paziente continua a sostenere di stare sempre male. Dopo circa quattro mesi dall’inizio della terapia, il paziente riferisce che una mattina alzandosi ha riprovato quella gioia di vivere che gli sembrava ormai perduta per sempre. Durante la crisi depressiva il paziente viene seguito con una relazione psicologica di sostegno che trapassa, alla fine della crisi, in una psicoterapia ad orientamento analitico. Riportero` gli elementi piu` significativi della storia di questo paziente che permetteranno di porre alcune domande e fornire qualche risposta, e che spero chiariranno meglio e piu` concretamente quanto esposto in precedenza. Il soggetto ha presentato nel corso della sua vita, ed a distanza di ben 20 anni, due crisi depressive. Di queste, la prima probabilmente endogena (e` stata riferita e non direttamente osservata) si e` risolta nell’arco di circa 8 mesi, con una terapia psicofarmacologica unita ad una relazione psicologica di sostegno. La seconda, per la quantita` e la qualita` dei sintomi, per la modalita` di evoluzione e per un criterio diagnostico ex adiuvantibus (al paziente sono stati somministrati 150 mg. di clomipramina pro die per vari mesi) puo` essere sicuramente ascritta ad una depressione endogena. Dalla storia, dalla struttura intrapsichica e dalle modalita` di relazione oggettuale, emerge che il paziente presenta una chiara struttura di carattere depressivo. Un livello di autostima piuttosto basso compensato da un intenso quanto gratificante impegno lavorativo, una relazione ambivalente con un personaggio idealizzato (prima il padre, poi il suo diretto superiore sul lavoro), sono i tratti salienti ed evidenti. Il primo episodio depressivo puo` essere collegabile, almeno cronologicamente, con l’inizio dell’attivita` lavorativa, vissuta dal paziente come abbandono-perdita della figura rassicurante del padre. Il secondo e` collegabile con un avvenimento simile: infatti, pochi mesi prima della crisi depressiva, il suo direttore era andato in pensione. Avvenimento vissuto dal paziente con ansia, per il timore di sentirsi solo e scoperto rispetto alle responsabilita` del lavoro. Poi insorge e rapidamente

526

Manuale di psichiatria e psicoterapia

si stabilizza una depressione endogena caratterizzata dai sintomi somatici (anoressia, insonnia, perdita di libido) e da quelli psichici (perdita dell’autostima, vissuto di inutilita` e di colpa che si strutturano in tematiche deliranti, un probabile tentativo di suicidio anche se a livello inconscio ecc.). Sulla base di questi dati potremmo porre una ipotesi eziologica: il vissuto di abbandono-perdita e` stato la causa della depressione. Ma credo che questa risulterebbe una spiegazione parziale e semplicistica, perche´ mal s’accorderebbe con altri dati, non meno significativi. Il paziente ha presentato tra le due crisi un periodo di ben 20 anni durante il quale non si sono manifestati disturbi psicopatologici, pur avendo affrontato altre situazioni di perdita: la morte della madre, quella del suocero al quale era legato affettivamente anche perche´ l’aveva introdotto ed aiutato nel mondo del lavoro, difficolta` economiche abbastanza serie, difficolta` sul lavoro. La sintomatologia, cosı` come si e` espressa durante la crisi, non sembra mostrare alcuna correlazione tra i sintomi, il vissuto del paziente e l’avvenimento ritenuto scatenante. Inoltre la guarigione ragionevolmente sembra essere collegabile alla terapia psicofarmacologica. Il paziente ha assunto un dosaggio medio di 150 mg. (per via orale e parenterale) di clomipramina senza alcun effetto collaterale degno di nota. Bisogna tener presente che dosaggi anche di soli 25 mg., in un soggetto normale, provocano effetti collaterali evidenti e disturbanti. Inoltre possiamo ipotizzare una familiarita` di tipo depressivo: infatti il padre ha sofferto di un episodio depressivo: anche se questo dato puo` essere letto sia da un vertice biologico (ereditarieta`) che da un vertice psicologico (identificazione). L’insieme degli elementi sopra descritti ci porterebbe ad affermare che la causa della depressione debba cercarsi piuttosto in un eventuale disturbo «biologico» (probabilmente un deficit o una non utilizzazione dei neurotrasmettitori). Ma anche questa sarebbe una spiegazione parziale e riduttiva, perche´ lascerebbe molte domande senza alcuna risposta. Perche´ il disturbo depressivo e` avvenuto proprio adesso ed a distanza di 20 anni da uno analogo? La presenza di un evidente carattere

depressivo e gli avvenimenti della vita del paziente non hanno avuto alcuna importanza e significativita` in ordine all’insorgenza del disturbo? Perche´ invece in altri casi (come nella depressione secondaria) ove abbiamo sicuramente una deplezione di neurotrasmettitori, si hanno della depressione solo i sintomi somatici (rallentamento psicomotorio, inibizione, insonnia, anoressia ecc.) e non quelli psichici (caduta dell’autostima, senso di inutilita`, sensi di colpa, futuro senza speranza ecc.)? Se evidenziamo tutti gli elementi di questo caso clinico, dobbiamo dire che una spiegazione ` piu` solo psicologica o solo biologica e` parziale. E probabile ritenere che nella depressione endogena ci sia una interazione tra questi due fattori, o che comunque chiamiamo «depressione endogena» una sindrome cosı` costituita. L’avvenimento «pensionamento del direttore» puo` aver generato nel paziente una crisi di angoscia di abbandono, che probabilmente e` andata a collegarsi con una sua predisposizione biologica alla depressione. Depressione che potrebbe essere stata innescata da un’ansia non contenibile e dall’insonnia. L’insonnia potrebbe aver innescato e condizionato una alterazione dei ritmi biologici e successivamente dei meccanismi neurotrasmettitoriali. Che l’insonnia rappresenti un ponte, in certi soggetti, tra vissuti di angoscia ed alterazione dei ritmi e` suffragato dalla possibilita` di poter migliorare o guarire la «crisi depressiva» con la soppressione del sonno REM. Inoltre bisogna tener presente che una terapia prolungata con i triciclici diminuisce il numero dei recettori postsinaptici. Ho formulato che e` necessario «...che tutti i siti recettoriali per le amine siano occupati per il mantenimento di un tono dell’umore stabile». Ma tono dell’umore, livello efficiente di neurotrasmettitori e livello libidico possono essere considerate tre modalita` diverse — rispettivamente clinica, biologica e psicodinamica — di un unico fenomeno. Quindi gli psicofarmaci avrebbero corretto un alterato equilibrio: questo potrebbe spiegare perche´ la terapia psicofarmacologica ha agito, e con quali modalita`. Anche l’uscita dalla crisi («improvvisamente una mattina il paziente dice di essere guarito»)

Le psicosi affettive: la depressione

sembra piu` indicativa per un disturbo biologico che psicologico. O, se vogliamo mantenerci ad un livello minimo di affermazioni, potremmo dire che esistono forme depressive che sono caratterizzate dalle peculiarita` sopra descritte e che noi, con il nome di depressione endogena o maggiore, possiamo distinguere da altre forme depressive. Per maggiore chiarezza si puo` rileggere, a confronto, il caso clinico descritto a proposito della psiconevrosi depressiva. In ogni caso, sulla base delle considerazioni precedenti, e` possibile affermare che in questo paziente la crisi depressiva era «annunciata», ma non inevitabile. Un lavoro psicoterapeutico attivato prima della crisi avrebbe potuto modificare una delle basi della crisi depressiva, cioe` il carattere depressivo, ed avrebbe potuto quindi prevenire ed indirettamente «curare» la crisi stessa. Il che significa che in psicopatologia alcune sindromi piu` di altre mostrano chiaramente come lo psichico ed il biologico, pur avendo registri e piani diversi, possono intersecarsi e potenziarsi a vicenda.

8. La terapia La terapia puo` essere impostata solo sulla ` evidente che base di una corretta diagnosi. E nelle depressioni secondarie, individuata la causa, bisogna attuare una terapia eziologica, mentre inutili sono i trattamenti antidepressivi. Nella depressione involutiva molto spesso bisogna ricorrere ad una terapia psicofarmacologica prevalentemente a base di ansiolitici; a volte e` necessario ricorrere a dosi blande di neurolettici. Inutili e spesso dannosi sono i triciclici, soprattutto quelli con effetti di blocco sui recettori muscarinici, perche´ aggravano il deficit mnesico e cognitivo. Mi soffermero` quindi maggiormente sulla terapia della depressione endogena, ove va distinto l’episodio acuto dalla situazione di fondo che e` il carattere depressivo. Nella fase di crisi, soprattutto se questa presenta i caratteri di una certa gravita` (vedi caso clinico), va proposta una razionale terapia psicofarmacologica che deve essere

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accompagnata da una terapia psicologica di sostegno. In questi casi e` inutile e pericoloso approfondire le dinamiche del paziente; e` necessario solamente porsi come punto di riferimento e di ascolto partecipe, rispetto alle varie tappe della crisi. Momenti che possono essere piu` drammatici nella prime settimane di terapia, quando il rischio del suicidio e` piu` frequente. Successivamente, una volta superata la crisi, si puo` prospettare la possibilita` di un lavoro psicoterapico. La terapia farmacologica della depressione si basa su di un ampio spettro, con possibilita` di scelta. Possibilita` che deve basarsi sulla conoscenza non solo delle caratteristiche del farmaco, ma anche della possibile comparsa degli effetti collaterali. Una classificazione dei farmaci antidepressivi ancora valida e` quella di Kielholz, che divide i farmaci in: a) b) c)

disinibenti (IMAO, fluvoxamina); ansiolitici (amitriptilina, mianserina); antidepressivi (imipramina, clomipramina).

L’aspirazione di ogni farmacologo, e forse di molti clinici, e` quella di poter individuare una classificazione ove a forme specifiche di depressione corrispondano altrettanti specifici farmaci. Ma credo che questo sia, piu` che una illusione, un riduttivismo semplicistico, nel senso che la complessita` clinica non si lascia incasellare facilmente. D’altra parte bisogna tener presente che la tipologia e l’evoluzione di un quadro clinico depressivo sono condizionate da fattori personali, sociali, interpersonali oltre che biologici. La biochimica del SNC non e` una costante indipendente da fattori psicologici e/o ambientali. Sottolineare i fattori biochimici non vuol dire ritenere che ci sia una relazione cosı` univoca con la sintomatologia depressiva: la clinica e` il campo di applicazione della capacita` del terapeuta di saper cogliere e valutare questi vari aspetti e le loro reciproche interazioni. Ritengo che le tab. 1 e 2 possano fornire gli elementi basilari per una corretta e razionale terapia psicofarmacologica, proponendo sia i meccanismi d’azione a livello dei neurotrasmettitori, sia la comparsa degli effetti collaterali.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia Tabella 1 — MECCANISMO D’AZIONE DEGLI ANTIDEPRESSIVI NORADRENALINA BLOCCO RE-UPTAKE

BLOCCO RECETTORI α1

TRICICLICI

IMIPRAMINA (Tofranil) 75-200 Mgr.

DOPAMINA

BLOCCO RECETTORI

BLOCCO RE-UPTAKE

ACETILCOLINA BLOCCO RECETTORI MUSCARINICI

ISTAMINA BLOCCO RECETTORI

5-HT1 5-HT2

β

+

+

++

+

+++

+

o

o

AMITRIPTILINA (Laroxyl) 25-75 Mgr.

o

+++

CLOMIPRAMINA (Anafranil) 50-150 Mgr.

o

++

LOFREPRAMINA (Timelit) 140-210 Mgr.

+++

+

o

o

MIANSERINA (Lantanon) 30-90 Mgr.

o

FLUVOXAMINA (Maveral) 100-200 Mgr.

+

BLOCCO RECETTORI

H1

H2

6

++

+

+

o

6

+

o

o

++

+

6

+++

++

++

+

++

o

6

++

+

o

o

+

o

o

o

o

o

o

o

+++

o

+++

+++

o

o

o

+++

6

o

++

++

o

o

o

o

+++

o

o

6

o

o

MINAPRINA (Cantor) 150-300 Mgr.

o

o

o

o

o

o

+

++

o

TRAZODONE (Trittico) 150-600 Mgr.

o

+++

6

+

o

+

6

o

o

DERIVATI AMINEPTINA TRICICLICI (Survector) 100-200 Mgr.

ALTRI

α2

BLOCCO RE-UPTAKE

++

DESIPRAMINA (Nortimil) 75-200 Mgr.

TETRACICLICI

SEROTONINA

o

o

o

o = nullo; 6 = dubbio; + = lieve; ++ = moderato; +++ = intenso

*

Tabella 2 — EFFETTI TERAPEUTICI E COLLATERALI Neurotrasmettitore Effetto terapeutico

Effetti collaterali

*

Adrenalina

Serotonina

Attenuazione della depressione

Azione sbloccante

Attivazione psicomotoria

Ipotensione Diminuzione dell’appetito

Visione offuscata Agitazione Turbe mnesiche Peggioramento dei Secchezza fauci sintomi della Stipsi schizofrenia Ritenzione urine Tachicardia

Tremori Tachicardia Ipotensione Vertigini

Dopamina

Acetilcolina

?

Istamina

Sedazione Potenziamento farmaci deprimenti il S.N.C. Sonnolenza Ipotensione Aumento ponderale

La tabella va letta nel senso che gli antidepressivi che agiscono su di uno specifico neurotrasmettitore presentano specifici effetti terapeutici e contemporaneamente specifici effetti collaterali.

Le psicosi affettive: la depressione

Osservando7 lo schema possiamo individuare non solo la specifica attivita` terapeutica delle varie molecole, ma anche evidenziare l’insorgenza di quegli effetti collaterali spesso molto pericolosi e che comunque riducono la compliance del paziente. Un primo dato importante e` tener conto degli eventuali effetti cardiotossici: i tetraciclici e gli antidepressivi «altri» sono meglio tollerati dei triciclici; i farmaci IMAO, che sono indicati soprattutto nelle forme minori di depressione e nella distimia, possono provocare, soprattutto se associati a cibi ricchi di tiramina (formaggi fermentati, vino rosso ecc.), crisi ipertensive molto pericolose. I triciclici con effetti anticolinergici hanno precise controindicazioni nel glaucoma e nella ritenzione urinaria. I farmaci disinibenti possono aumentare l’ansia e l’insonnia. Bisogna tener presente l’assoluta incompatibilita` tra farmaci IMAO e gli altri farmaci antidepressivi: per cui in un eventuale passaggio da una terapia all’altra occorre un wash-out di circa duetre settimane. Inoltre sia gli IMAO che i triciclici sono epilettogeni: pertanto bisogna valutare attentamente non solo precedenti di tipo epilettico, ma tener presente che a dosaggi elevati il rischio di crisi epilettiche e` possibile anche in soggetti normali. Altro inconveniente non di secondaria importanza, sia per i cardiopatici che per le persone anziane, e` l’ipotensione ortostatica. Inoltre i triciclici, soprattutto quelli che agiscono bloccando i recettori α 2 adrenergici, influenzano negativamente le funzioni sessuali. Per tutti questi motivi, si sono fatte ricerche per trovare nuove molecole che, pur avendo specifiche attivita` antidepressive, presentassero minori effetti collaterali. In questi ultimi tempi la fluoxetina e la fluvoxamina sembrano corrispondere a queste prospettive: ambedue agiscono esclusiva-

7 Non si conosce il meccanismo terapeutico del blocco dell’acetilcolina. Una delle possibili spiegazioni dell’effetto terapeutico potrebbe essere l’inibizione delle cellule REM-on, che sono cellule colinergiche che attivano la fase REM. Il blocco della fase REM ha sicuramente effetti terapeutici sulla depressione.

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mente sul re-uptake della serotonina. La fluvoxamina sembra non avere effetti collaterali degni di nota ed inoltre possiede una ampia maneggevolezza dei dosaggi che possono andare da 100 a 200 mgr. pro die. Inoltre la rapidita` di eliminazione (48 ore circa) rende possibile il passaggio ad altri antidepressivi, in caso di risposta non favorevole.

9. La depressione involutiva Molti AA, non riconoscono questa forma, che pertanto non trova univoca sistemazione nosografica. Tuttavia e` una realta` clinica che puo` essere distinta dalle altre forme di depressione sulla base di criteri clinici (sintomi ed evoluzione) e genetici. Essa e` stata osservata soprattutto da Henderson e Gillespie che l’hanno evidenziata e seguita in 307 pazienti seguendone attentamente il quadro clinico, l’evoluzione e l’albero genealogico. I dati piu` significativi sono i seguenti. L’eta` di insorgenza e` molto tardiva, mediamente alla fine del 5o decennio. C’e` una netta predominanza del sesso femminile ed in genere c’e` una familiarita` abbastanza specifica. La personalita` e` di tipo introverso-schizoide. Nel quadro clinico domina spesso l’ansia che puo` arrivare a stadi di agitazione psicomotoria. I sintomi depressivi sono prevalentemente di tipo ideativo: idee ipocondriache, a volte di rovina. Raramente compaiono idee di negazione che possono arrivare ad una particolare esasperazione come nella sindrome di Cotard. Il paziente nega di avere parti del corpo, e` convinto di essere immortale: egli e` condannato a vivere in eterno la sua sofferenza. L’evoluzione e` spesso progressiva e si delinea un deterioramento mentale piu` o meno grave. Accanto a questo quadro che ha connotazioni di tipo «psico-sindrome organica» c’e` anche un altro quadro dove dominano elementi di tipo isterico ed ipocondriaco: la vita di questi pazienti e` centrata sui supposti disturbi somatici. L’enorme mole di lavori sulla depressione rende questo capitolo sempre piu` a rischio nel senso che nuove scoperte o mettono in discussione acquisizioni che sembravano sicure, oppure rendono superate certe descrizioni.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Pertanto aggiungo due osservazioni interessanti, per quanto necessitino di ulteriori elaborazioni. La prima riguarda l’esistenza di una depressione cosiddetta stagionale, caratterizzata da depressione, mancanza di energia, aumento di peso e sonnolenza nel periodo autunno-inverno, e da eutimia o leggera ipertimia nel periodo primavera-estate. Questa sindrome di comune osservazione e molto frequente in paesi nordici (Scandinavia, Alaska ecc.) non e` di facile sistemizzazione nosografica. Comunque il dato piu` rilevante rimane la risposta ad una particolare terapia: la fototerapia. Se questi pazienti sono esposti ad una luce artificiale non inferiore a 2000-2500 lux per almeno due ore al giorno, mostrano un netto mi` probabile che la fototerapia agisca glioramento. E inibendo la produzione di melatonina. Un secondo dato molto importante, soprattutto per le implicazioni teoriche oltre che cliniche, e` il miglioramento della depressione ottenuta attraverso una deprivazione di sonno REM. Questo dato sembra contrastare una vasta documentazione che ha rilevato ampiamente gli effetti negativi della deprivazione del sonno REM (vedere capitolo sul sonno). Ma a parte questo noi sappiamo che molti farmaci con azione antidepressiva (tra questi particolarmente la clomipramina) sicuramente hanno anche una azione inibente il sonno REM. Per il momento non e` semplice spiegare questo dato. Il sogno va letto come un tentativo di risolvere problematiche o conflitti (vedi capitolo 55 «Psicoterapia analitica»): in questo senso ha una funzione fondamentale e si capisce anche come la inibizione della fase REM possa avere effetti psicopatologici. Nel depresso endogeno e` ipotizzabile che il sogno non solo non sia utile, ma dannoso dato l’orientamento nettamente pes` frequente che il depresso simistico del paziente. E che si risveglia precocemente lamenta di avere avuto degli incubi. In questo caso l’eliminazione o la riduzione del sonno REM, stranamente rispetto agli altri casi, potrebbe avere un effetto positivo, perche´ la soppressione del sogno, e

quindi degli incubi, potrebbe eliminare un ulteriore vissuto drammatico e pessimistico.

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Le psicosi affettive: la depressione

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29 Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva Nicola Lalli Parole chiave fuga delle idee; logorrea; onnipotenza; megalomania; espansivita` patologica; stati misti; ipomania; negazione; regressione; rappresentazione; fenomenologia; psicosi schizo-affettive; sali di litio; disforia

1. Considerazioni generali La psicosi maniaco-depressiva e` «...la sola forma di psicosi i cui aspetti principali possono essere inequivocabilmente riconosciuti in tutti i tempi». (Jelliffe). Areteo di Cappadocia, vissuto nel I sec. d. C., ha descritto questa sindrome con molta precisione e acutezza, rilevando per primo non solo il rapporto tra depressione e mania, ma anche la possibilita` della guarigione spontanea di queste crisi. Bisognera` attendere vari secoli perche´ questo quadro clinico sia di nuovo preso in considerazione, cosa che avverra` intorno al 1850 per merito di due psichiatri francesi: Falret e Baillarger. E. Kraepelin, nella 6a edizione (1899) del suo Trattato di Psichiatria, conia il termine di follia maniaco-depressiva.

L’impostazione kraepeliniana, essenzialmente clinica, sara` largamente seguita dalla trattatistica psichiatrica, salvo le poche eccezioni di quegli autori che hanno sottolineato la diversita` tra depressione endogena monopolare e psicosi maniaco-depressiva. La psicosi maniaco-depressiva ha un’incidenza calcolata intorno all’1,5% della popolazione totale; predilige il sesso femminile ed ha sicuramente una base ereditaria. L’eta` di insorgenza e` mediamente precoce, intorno al 2o decennio. Non sono infrequenti pero` episodi di eccitamento maniacale che insorgono nel 6o decennio di vita, tanto da far coniare il termine di mania involutiva, in analogia con la depressione involutiva. Un dato che colpisce, e che non puo` essere casuale, e` l’esiguita` dei lavori sulla mania, soprat-

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tutto se consideriamo l’enorme mole di studi sulla depressione e sulla schizofrenia. Sul piano clinico le uniche descrizioni valide ed accurate sono quelle dei fenomenologi; sul piano psicodinamico ci si limita a sottolineare l’equivalenza con la depressione alla quale si rimanda; sul piano biologico non sappiamo praticamente nulla: anche lo stesso meccanismo terapeutico del litio e` praticamente sconosciuto. Complessita` della sindrome, scarso interesse o motivi controtransferali? Non credo che questa esiguita` dei lavori sia da imputare alla complessita`: perche´ la schizofrenia e` certamente piu` complessa e polimorfa. Come non credo che possa imputarsi ad uno scarso interesse clinico, tenendo conto dell’incidenza, della gravita` della sintomatologia e della prognosi non sempre fausta. Rimane la terza ipotesi, a cui si puo` dare una ragionevole spiegazione. Il maniaco propone tre aspetti fondamentali e paradigmatici: l’onnipotenza assoluta che rende l’altro inesistente, la negazione del flusso temporale che viene trasformato in eterno presente, e la continua dimensione ‘festiva’. Stranamente questi tre aspetti connotano spesso la figura del dio di molte religioni: onnipotente, che vive in un eterno presente, praticamente ozioso. Certamente il maniaco non raggiunge questa perfezione, per il semplice motivo che per mantenere questi tre aspetti deve assoggettarsi ad una sfrenata iperattivita`: ma pur nel fallimento, egli agisce direttamente questa dinamica regressiva del ‘divino’. Non e` improbabile quindi che il maniaco susciti una reazione controtransferale negativa, che si evidenzia anche con la esiguita` di studi sulla mania.

2. Sintomatologia L’eccitamento maniacale, analogamente alla depressione, di cui sembra presentarsi come l’altra faccia della medaglia, coinvolge tutte le funzioni mentali: dall’affettivita` all’ideazione, dall’attenzione alla memoria ecc. Il dato che piu` colpisce l’osservatore e` l’estrema iperattivita` del paziente: sempre indaffa-

rato, sempre pronto a progettare ed eseguire nuove imprese. Iperattivita` che non nasce da una situazione di angoscia, ma anzi da un estremo senso di benessere. Molti pazienti riferiscono che non sono mai stati cosı` bene come durante l’episodio maniacale, ed una volta terminato l’episodio ripensano a questa sensazione con nostalgia. L’atteggiamento del maniaco oscilla tra un comportamento ludico-scherzoso che spesso si manifesta con la tendenza ‘a fare il pazzo’, ed uno disforico, ostile, a volte francamente persecutorio, soprattutto quando il primo aspetto e` ostacolato dall’ambiente. Questi due poli, l’espansivita` e la disforia, a volte compaiono fin dall’inizio della crisi, a volte possono presentare oscillazioni a seconda dell’atteggiamento dell’ambiente. Il caso clinico descritto sembra chiaramente dimostrare come la mania megalomanica del paziente si e` trasformata in agitazione psicomotoria ed ostilita`, quando trovandosi immobilizzato in ospedale non ha piu` potuto esplicitare la sua onnipotenza. L’episodio puo` iniziare in maniera brusca ed inaspettata, oppure lentamente: quest’ultima evenienza e` piu` frequente nei soggetti che hanno una personalita` ipomaniacale, che comincia lentamente ad accentuarsi fino a manifestare chiari sintomi di un quadro maniacale. Il paziente mostra una accelerazione di tutti i processi psichici. A volte, soprattutto nelle fasi iniziali o nel contenimento psicofarmacologico, da` l’impressione di un motore imballato: una macchina sotto pressione, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Il dato psicopatologico fondamentale, dal quale sono derivabili tutti gli altri sintomi, e` l’esaltazione del tono dell’umore e l’espansivita` euforica, per cui il paziente si mostra iperattivo ed esuberante. Compie attivita` frenetiche senza mai fermarsi, spesso finalizzate in senso megalomanico; a volte invece l’attivita` e` frenetica, ma disordinata ed incoerente. C’e` una accelerazione dell’ideazione che puo` giungere ad una vera fuga delle idee. Il paziente passa da un argomento all’altro, spesso sulla base di associazioni superficiali e vaghe, o sulla base di semplici assonanze. L’ideazione e` centrata su temi di autoesaltazione e megalomanici: racconta di se´ cose grandiose. Egli e` molto ricco e nobile, ha cono-

Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva

scenze importantissime, e si vanta dei suoi successi in campo amoroso. Qualsiasi tentativo, da parte dell’interlocutore, di chiedere delucidazioni o perlomeno dati piu` concreti e` evitato dal paziente, che rapidamente passa a parlare di altri argomenti. Il linguaggio e` chiaramente disturbato e rivela il difetto dell’ideazione: il paziente parla velocemente, salta da un argomento all’altro, spesso crea giochi di parole. ` impossibile fargli mantenere l’attenzione su E qualsiasi argomento: e` come se il tempo gli sfuggisse via, o come se non ne avesse mai a sufficienza. L’attenzione del maniaco e` molto labile: tutto lo colpisce, ma niente lo ferma. L’attenzione volontaria e` praticamente impossibile: questo deficit incide sulla memoria a breve termine, per cui spesso il paziente, terminato l’episodio, non conserva molti ricordi, ma solo la piacevole sensazione di quel benessere. La memoria di rievocazione e` esaltata: possono esserci fenomeni di ipermnesie, ma l’attivita` confabulatoria e l’atteggiamento mitomane facilmente fanno credere per vere situazioni inventate di sana pianta. Sul piano somatico colpisce soprattutto l’estrema iperattivita` del paziente che non manifesta mai stanchezza: gli bastano poche ore di sonno per iniziare di nuovo la sua frenetica attivita`. E se il paziente non puo` fare nulla di interessante, comincia a spostare i mobili di casa ripetutamente, o puo` eseguire ripetutamente le stesse azioni. C’e` una netta diminuzione dell’appetito che puo` portare ad un dimagrimento. L’insonnia e` marcata, ma il paziente non sembra affatto risentirne. Se questo e` il quadro psicopatologico, si puo` ben immaginare quale sia il comportamento del paziente, tutto proteso in questa forma di megalomania e privo di freni inibitori: fa spese di gran lunga superiori alle sue reali possibilita`, telefona di notte a persone conosciute casualmente, importuna spesso sconosciuti scambiandoli per amici. Non e` infrequente che questo comportamento possa portare ad atti lesivi o comunque pericolosi. Questo e` il quadro tipico di una crisi maniacale: ma questo quadro puo` variare per intensita` e per evoluzione. Per intensita` possiamo

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avere forme ove l’eccitamento e` intenso ed afinalistico ed il paziente, disforico ed aggressivo, puo` arrivare ad una forma di mania confusa. O, per converso, forme lievi e non sempre distinguibili dal carattere ipomaniacale: l’ipomania. In questo caso i soggetti sono iperattivi, estroversi, piuttosto logorroici: la disforia compare ogni qualvolta sono ostacolati dall’ambiente. Per quanto riguarda l’evoluzione, l’eccitamento puo` assumere un carattere di tipo delirante con contenuti persecutori, sulla base della onnipotenza e della megalomania: il paziente sente di non essere capito ed accettato e comincia a vivere gli altri come ostili e persecutori. Non e` infrequente che, pur cessando lo stato acuto maniacale, questa situazione possa cronicizzarsi. Per cui questi pazienti mantengono un delirio di onnipotenza e di autoesaltazione che si intreccia strettamente con tematiche persecutorie. Non sempre e` facile capire quanto sia l’atteggiamento onnipotente che, non trovando riscontro nell’ambiente, si trasforma in vissuto persecutorio, o quanto il vissuto persecutorio ha bisogno di una difesa maniacale. A parte questa evoluzione, in genere l’episodio maniacale, come quello depressivo, nel giro di qualche mese al massimo tende ad estinguersi. L’episodio puo` rimanere unico, cosa poco frequente, o puo` ripresentarsi con ulteriori episodi maniacali, oppure alternato ad episodi depressivi. In questo caso possono comparire gli stati misti. Per stato misto deve intendersi una situazione ove sintomi della depressione sono presenti insieme con i sintomi della mania, creando a volte quadri grotteschi. Per esempio una tematica di colpa e rovina puo` essere vissuta con un tono timico esaltato; oppure una tematica di onnipotenza puo` comparire su di uno sfondo depressivo. Questi quadri sono spesso fasi di passaggio da una fase all’altra. In genere la gravita` del quadro depressivo e di quello maniacale sono direttamente proporzionali.

3. Carattere ipomaniacale, carattere bipolare La struttura di personalita` del soggetto che andra` incontro a disturbi maniacali e` meno stu-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

diata e delineata degli altri caratteri. Da una parte e` descritto il carattere ipomaniacale, caratterizzato da iperattivita`, estroversione, tendenza a socializzare facilmente, anche se superficialmente. La dinamica fondamentale e` costituita dalla tendenza a negare qualsiasi aspetto problematico e conflittuale: l’azione sembra sostituire ogni forma di riflessione e di autocoscienza. Tuttavia questa iperattivita` e` in genere finalizzata e spesso utilmente applicata. Diverso e` invece il bipolare, che costituisce la base della psicosi maniaco-depressiva, mentre il primo sembra costituire la base dell’ipomania e della mania pura. Il bipolare infatti diventa iperattivo solo dopo che ha distrutto tutto: riesce a trovare uno stimolo ed un incentivo a fare solo partendo da una situazione negativa o di pericolo che, quando non si crea per situazioni esterne, viene piu` o meno deliberatamente provocata. Sembra essere incapace di reggere una qualsiasi situazione positiva, mentre si trova a suo agio solo in situazioni piu` o meno complicate e difficili.

4. Eziopatogenesi 4.1. Fenomenologia ed analisi strutturale della mania Pur non potendosi ascrivere a stretto rigore alla eziopatogenesi, le descrizioni fenomenologiche e strutturalistiche apportano dati interessanti riguardo al vissuto ed al rapporto con la realta` del maniaco. E. Minkowski (1933) cosı` definı` il maniaco: «.....egli non ha piu` il presente, e` lo zimbello dell’‘ora’ sempre variabile ed incapace di trasformare l’‘ora’ in un presente». Questa incapacita` del maniaco riguarda pero` tutte le funzioni psichiche tanto da far dire a Leulier (1955): «....che il maniaco non costruisce nulla, pertanto piu` che di ipereccitazione si dovrebbe parlare di uno stato di bassa tensione». Il disturbo dell’attenzione e` centrale; tutte le operazioni che richiedono osservazione, riflessione, resistenza nei confronti della realta` sono molto labili tanto da rendere molto superficiale la percezione del reale.

Manca alla vita psichica la sua vera dimensione: la profondita`, di qui la superficialita`. Tutti i processi scorrono in superficie. Il pensiero evapora e sfugge senza penetrare. E questo rilasciamento dell’efficienza psichica, dovuto alla superficialita` del pensiero, determina, per la messa in atto della spinta affettiva mal integrata ed indisciplinata, un vertiginoso turbinio di contenuti di coscienza1.

L’amnesia riguardante il periodo della crisi testimonia questa superficialita` del vissuto, tanto da far pensare ad una alterazione di tipo oniroide dello stato di coscienza: ...la struttura globale del campo di coscienza e` quella di una impossibilita` di fermarsi... il disturbo fondamentale della mania e` un bisogno: bisogno frenetico ed irrefrenabile di godere, vale a dire di non fermarsi davanti a niente, di non fermarsi per niente al mondo. Questo bisogno e` talmente imperioso da sottomettere la struttura della coscienza ad una legge di una particolare disorganizzazione del proprio vivere2.

Pertanto la mania viene definita (H. Ey, 1950) come il livello piu` elevato della dissoluzione della coscienza e quindi forma profondamente regressiva. Binswanger (1971), rifacendosi ad Husserl e Heidegger, cerca di delineare quali sono i momenti difettosi del Dasein maniacale. Egli, nel sottolineare l’importanza della ‘‘coscienza interna del tempo’’ per la costituzione non solo dell’Io, ma anche di un mondo comune e conoscibile, riscontra nel maniaco una incapacita` fondamentale di riconoscere e vivere nel flusso del tempo. Questo deficit temporale comporta una mancata storificazione e quindi una negazione della realta` e della differenza con gli altri che sono ‘cosificati’. L’esempio paradigmatico e` il caso di Olga Blum, che ...trovata dal medico in una fase maniacale di media gravita`, mentre leggeva il Primo Faust, l’ammalata spiega di essere molto felice che Goethe sia vissuto prima di lei, altrimenti le sarebbe

1 2

Leulier H., 1955. Leulier H., 1955.

Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva

toccato di scrivere tutto cio`.... Una dichiarazione come quella della nostra malata ci appare comprensibile solo se ci rendiamo conto che il suo livello costitutivo si e` abbassato, o se si preferisce, si e` ridotto ad un livello di funzionamento cosale (dinglich) alla stregua di una macchina. Soltanto cosı` vengono meno quelle che si possono ritenere le piu` grandi differenze di livello, umane, artistiche ecc... Tuttavia possiamo comprendere cio` che riuniamo sotto quel titolo, relativamente alla mania, solo partendo dal difetto costitutivo, cioe` dallo sciogliersi dei vari legami costitutivi, perche´ questo sciogliersi e` cio` che rende libero il maniaco nella sua spensieratezza, nella sua mancanza di riguardi, nella sua iperattivita`, nell’irritabilita` come pure nel vedere tutto rosa, nella serenita`, nell’esaltazione e superficialita` del suo umore non offuscato ne´ oppresso da alcuna problematica... Il disturbo nella costruzione dell’oggettivita` temporale nella mania si manifesta dunque in due modi, nella mancanza di continuita` nella logica del pensiero e nella difettosa continuita` dell’appresentazione, cioe` nella mancanza di appresentazioni biograficamente ancorate, continue o, come dice Husserl, abituali3.

Gli aspetti esteriori di potenza e di megalomania nascono in effetti da impotenza e bisogno. Questo dato, cioe` la mania come forma altamente regressiva, piu` della stessa depressione, sara`, come vedremo, ribadito anche dagli studi psicodinamici. 4.2. Ipotesi psicodinamica La mania, anche in campo psicodinamico, e` stata molto meno studiata rispetto alla depressione. K. Abraham (1919) parla di ‘‘fame divorante’’ di sensazioni e di relazioni, nel tentativo di prendere tutto. S. Freud parla di ‘‘festivita`’’ e di ‘‘orgia cannibalica’’ per evidenziare, a differenza della fase anoressica del depresso, la prevalenza degli istinti sadici orali. H. Deutsch (1933) vede nella mania un processo massiccio di negazione della realta` ed in particolare delle proprie valenze depressive. Que-

3

Binswanger L., 1971.

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sta tematica sara` ripresa da M. Klein che considerera` la mania come una fase ‘‘normale’’ dello sviluppo del bambino; la mania insorge in una fase precocissima dello sviluppo e serve, tramite la negazione, a difendersi dagli oggetti interni persecutori. Questa tematica sara` ripresa anche da B. Lewin (1950) che considera la mania come una difesa, mediante la negazione, dalla depressione. Egli avvicina la mania al sonno: in questo scompare l’Io, nella mania e` il Super Io a svanire. Autori successivi hanno cercato di approfondire la dinamica interpersonale del maniaco. S. Arieti (1969) ritiene che il futuro maniaco nasce all’interno di una famiglia numerosa ed ha con la madre, nel primo anno di vita, un ottimo rapporto: e` amato, vezzeggiato, iperprotetto. Ma quasi sempre nel secondo anno di vita c’e` un brusco cambiamento: o per la nascita di un fratello o piu` spesso per una inversione di atteggiamento della madre, che a questo punto chiede e si aspetta molto da lui. Egli potra` continuare ad essere amato, solo se corrispondera` alle aspettative (in genere eccessive) dei genitori. Il brusco cambiamento ed il doversi dare da fare per mantenere l’affetto sembrano costituire le basi dei due aspetti fondamentali del maniaco: il rapido passaggio dalla normalita` alla mania e l’iperattivita` come modalita` per conservare l’affetto ed il rispetto degli altri. Ipotesi interessante, ma che francamente sembra essere una ricostruzione troppo retrospettiva del bambino che sviluppera` una psicosi maniacale. Il dato fondamentale che deriva dagli studi psicodinamici rimane la concezione della mania come processo di negazione delle proprie problematiche, negazione gestita mediante l’iperattivita`. Ed e` quanto possiamo constatare nel carattere ipomaniacale, cioe` soggetti che debbono essere continuamente affaccendati. Per analogia possiamo pensare che la frenetica iperattivita` del maniaco, la fuga delle idee, il suo bisogno di non fermarsi mai, possono essere interpretati come tentativo di affrancarsi dall’oggetto. Egli tende a ‘‘superare’’ le ferite narcisistiche, non come il depresso che esibendo il suo dolore cerca ancora un aiuto o perlomeno un’attenzione da parte dell’ambiente, ma con una dinamica di massiccia negazione dei suoi bisogni. Egli non ha bisogno di nessuno, e` onnipotente e

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megalomanico. Ma per ottenere questo deve ricorrere ad un meccanismo di difesa molto regressivo: la negazione della realta` e della propria dimensione psichica.

d)

4.3. Ipotesi biologiche Come gia` accennavo, anche sul piano biologico le conoscenze dei meccanismi della mania sono poco conosciuti. Si ritiene che ci sia una compromissione dell’ipotalamo, o comunque una alterazione in eccesso delle amine. Ma anche in questo caso la mania viene letta in contrapposizione alla depressione. Anche gli autori piu` orientati in senso psicodinamico sono pero` convinti della eziologia biologica della mania. L. Bellak (1952) propone una «teoria di fattori multipli psicosomatici della psicosi maniaco-depressiva» sostenendo che ci sono sicuramente fattori endocrini, biochimici, genetici e neurofisiologici. E. Kretschmer (1937) ha ritenuto la psicosi maniaco-depressiva legata ad una particolare costituzione somatica: quella picnica.

5. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale di una crisi di eccitamento maniacale non presenta grandi difficolta`. In ogni caso bisogna distinguerla da: a)

b)

c)

stati di eccitamento da sostanze psicoattive (alcool, cocaina ecc.): in questi casi l’agitazione psicomotoria, secondaria ad allucinazioni prevalentemente visive, e` di breve durata; possono comparire stati di alterazione della coscienza di tipo confuso-onirico; morı`a da tumori in sede prefrontale: puo` essere difficile porre una diagnosi, soprattutto agli inizi. In genere in questi casi compaiono disturbi comportamentali piu` evidenti e gravi e manca in genere una esaltazione affettiva. Prevale invece l’atteggiamento scherzoso, fatuo e soprattutto la tendenza a giochi di parole; paralisi progressiva: a parte i dati di labora-

e)

torio positivi per una infezione luetica, sono evidenti i segni di un deterioramento mentale piu` o meno grave; confusione mentale: l’agitazione psicomotoria e` afinalistica, ci sono allucinazioni e sono presenti i segni organici di una tossinfezione. Il disorientamento temporospaziale domina il quadro clinico; eccitamento maniforme: puo` comparire nelle forme ebefrenocatatoniche: in questi casi l’eccitamento e` afinalistico, si nota una notevole incongruita` e discordanza ideo-affettiva. Tuttavia esistono forme ove e` difficile porre una diagnosi differenziale per la contemporanea presenza di segni appartenenti alla mania ed alla schizofrenia. Alcuni autori parlano di sindromi schizoaffettive, riconoscendo a queste forme una dignita` nosografica.

Infine vorrei accennare ad un dato differenziale, che puo` essere interessante sul piano speculativo piu` che clinico: la differenza tra la depressione monopolare e la depressione che compare nelle sindromi maniaco-depressive. A volte le differenze, soprattutto se prevale il rallentamento psicomotorio, non sono molto evidenziabili. Altre volte invece possiamo notare due differenze fondamentali: 1)

2)

la depressione, nella psicosi maniaco-depressiva, puo` assumere piu` facilmente una connotazione paranoidea; quando sono presenti i sensi di colpa, nella psicosi maniaco-depressiva, essi sono dovuti principalmente a vergogna o paura per il comportamento avuto durante la fase maniacale. Una paziente in fase di eccitamento maniacale comincio`, in piena notte, a telefonare a tutti: amici o anche semplici conoscenti. Nella successiva fase depressiva si lamentava e si sentiva in colpa per quanto aveva fatto: ma questi sensi di colpa in effetti erano autorimproveri motivati perche´, con le sue telefonate, la paziente aveva fatto conoscere a tutti il suo stato di malattia, cosa che, dato il lavoro che svolgeva, poteva sicuramente danneggiarla.

Le psicosi affettive: la mania e la psicosi maniaco-depressiva

6. Il caso clinico Uomo di 37 anni, di professione ingegnere. Nell’anamnesi familiare un cugino ed una zia, ambedue della linea materna, soffrono di disturbi psichiatrici di tipo bipolare. Il paziente presenta una personalita` caratterizzata da oscillazioni dell’umore, comunque non molto intense. A periodi di ipomania che lo portano a lavorare moltissimo e dormire poco seguono fasi depressive caratterizzate da astenia, abulia e soprattutto ricorso all’alcool. I prodromi dell’episodio maniacale sono piuttosto subdoli e si possono far risalire al mese di aprile, quando, conosciuta casualmente una ragazza americana, decide di sposarla. Cosa che avviene dopo circa un mese, appena completate le pratiche necessarie. Parte per il viaggio di nozze e praticamente in due settimane fa il giro del mondo, trascinandosi dietro la moglie sempre piu` esausta. Tornato, mentre trascura il lavoro, invita ogni sera amici e conoscenti a feste sempre piu` costose. Dopo circa un mese, la moglie decide di tornare negli USA a ‘‘riposarsi’’. Questa partenza probabilmente angoscia il paziente ma, come e` tipico del maniacale, egli riesce a negare qualsiasi emozione aumentando il suo ritmo frenetico di vita. Agli inizi di luglio compra una barca, firmando cambiali per decine di milioni, poi salpa con una comitiva di amici. Annuncia che andranno nelle isole Egee a trascorrere le vacanze. Sottoponendosi a turni massacranti (praticamente egli dorme due-tre ore al giorno) giungono dalla Liguria in Calabria. Qui il comportamento del paziente diventa sempre piu` chiaramente patologico anche per gli inesperti quanto incauti compagni. Il paziente sostiene che non puo` attraversare lo stretto di Messina, perche´ lui e` Ulisse; e Scilla e Cariddi gli sarebbero fatali. Pertanto annuncia che bisognera` doppiare la Sicilia. Il giorno successivo annuncia che trovandosi ormai in viaggio, vuole andare negli USA a ritrovare la moglie. Gli amici lo invitano a fermarsi in Sicilia perlomeno per fare i necessari rifornimenti. Scesi a terra, gli amici contattano un medico chiedendo aiuto; al paziente poi dicono che hanno trovato un loro amico che li ha invitati nella sua villa. Il paziente si presenta all’appunta-

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mento elegantemente vestito (aveva imbarcato circa 10 scatole enormi, contenenti vestiti costosissimi). Un po’ per il contrasto tra l’eleganza del paziente e l’abbigliamento molto sommario degli amici, un po’ per l’abilita` del paziente, che evidentemente conserva ancora un buon controllo della situazione, il medico non ritiene trovare gli estremi per tentare una terapia, ne´ tanto meno un ricovero. Il paziente, tuttavia, accortosi del raggiro, sdegnato risale sulla barca e, lasciando a terra gli amici, tenta di ripartire. In parte la difficolta` della manovra, in parte la stanchezza fanno sı` che egli vada a scontrarsi con un’altra barca. Il paziente viene soccorso e trasportato in ospedale perche´ ha riportato la frattura di una gamba. Qui rapidamente la mania si trasforma in un grave stato di agitazione psicomotoria con disforia, per cui il paziente deve essere ricoverato in ambiente specialistico. In questo caso possiamo vedere come l’eccitamento maniacale si sia manifestata per un certo periodo di tempo con le caratteristiche dell’onnipotenza e dell’iperattivita` e con una buona conservazione dell’autocontrollo: probabilmente tutto questo e` stato facilitato dal fatto che il paziente ha potuto liberamente manifestare la sua maniacalita`. Ma una volta ricoverato in ospedale, quando egli si e` sentito bloccato, la mania si e` trasformata in un grave eccitamento disforico.

7. Note di terapia Dal 1949, periodo in cui casualmente fu scoperta l’efficacia dei sali di litio nella mania, questo minerale ha avuto sempre piu` una funzione di primo piano nella terapia e nella prevenzione della psicosi maniaco-depressiva. Somministrato per via orale sotto forma di sali (solfato o carbonato) al dosaggio di 600-1200 mgr. pro die, questo farmaco riesce a dominare il quadro acuto in tempi relativamente brevi. La terapia va protratta pero` per molti anni, con un continuo controllo della litiemia che deve mantenersi entro i 0,6-1,2 mcg. I sali di litio presentano una certa tossicita` per il rene; inoltre, entrando in competizione con lo iodio, possono generare forme di ipotiroidismo.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Un effetto poco denunciato, ma sicuramente presente, e` una riduzione notevole, su tempi lunghi, delle capacita` mnesiche. Il meccanismo di azione del litio sembra essere collegato alla competizione con lo ione Na+. Negli ultimi anni si e` tentato di utilizzare anche i calcioantagonisti e la carbamazepina. Chiaramente durante le fasi acute e` necessario somministrare neurolettici sedativi a dosaggi spesso elevati. Le possibilita` di un intervento psicoterapico, una volta terminata la crisi maniacale, e` da prendere in considerazione, anche se questi pazienti sono meno disponibili dei depressi monopolari. F. Fromm-Reichmann (1959) che ha utilizzato la psicoterapia analitica nella psicosi maniacodepressiva, ritiene che le difficolta` siano maggiori rispetto alla schizofrenia perche´ «...il paziente maniaco non cerca l’aiuto terapeutico».

Riferimenti bibliografici Abraham K., Opere complete (1919), vol. I, Boringhieri, Torino, 1975. Arieti S. (a cura di), Manuale di Psichiatria. La psicosi maniaco-depressiva, vol. I, Feltrinelli, Milano, 1969.

Bellak L., Manic-Depressive Psychosis and Allied Conditions, Grune e Stratton, New York, 1952. Binswanger L., Melanconia e mania (1960), Feltrinelli, Milano, 1971. Binswanger L., «Uber Ideenflucht», Schweizer Archiv fur Neurologie und Psychiatrie, Vol. 26-30, 19311932. Deutsch H., «Zur Psychologie der manisch-depressiven Zusta¨nde, insbesondere der chronischen Hypomanie», Intern. Ztschr. Psychoan, Vol. XIX, 1933. Ey H., Etudes psychiatriques, Tome II, Aspects seme´iologiques, Descle´e de Brower, Paris, 1950. Fromm-Reichmann F., Psicoanalisi e psicoterapia, (1959), Feltrinelli, Milano, 1971. Glue P. W., «Selective Effect of Lithium on Cognitive Performance», in Man. Psychopharmacology, 91, 1987. Husserl E., Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano, 1970. Kretschmer E., «Heredity and Condition in Aetiology of Psychic Disorders», British Medical Journal, II, 1937. Lewin B., The Psychoanalysis of Elation, W. W. Norton e Co, New York, 1950. Leulier H., Manie, E. M. C. Psychiatrie, 32700, 1955. Minkowsky E., Le temps ve´cu. Collection de l’Evolution psychiatrique, Paris, 1933. Swann A. C., «Lithium Carbonate Treatment of Mania: Cerebrospinal Fluid and Urinary Monoamine Metabolites and Treatment Outcome», Archives of General Psychiatry, 44, 1987.

30 Disturbi schizofrenosimili Nicola Lalli Parole chiave carattere schizoide; disturbi schizoaffettivi; folie a` deux; manierismo; isolamento; scissione; frammentazione dell’Io

Con la dizione «disturbi schizofrenosimili» si compendiano alcune sindromi che, pur presentando tratti comuni con la schizofrenia, da questa si differenziano per clinica, evoluzione, diversita` di risposta alle terapie e diversa predisposizione ereditaria. Le sindromi sono raggruppate, quindi, non tanto per una loro intrinseca uguaglianza, quanto per una loro diversita` dalla schizofrenia e sono: il carattere schizoide (definito anche disturbo schizotipico di personalita`), le psicosi schizoaffettive ed una particolare forma di psicosi indotta, definita «folie a` deux». Quest’ultima rappresenta una mia scelta, che potrebbe non essere condivisa da molti autori ma che comunque ha una indicazione ben precisa: evidenziare la «trasmissibilita`» per via interpersonale dei sintomi. Invece i disturbi «schizofreniformi» come definiti dal DSM-III-R, ovverosia episodi acuti di schizofrenia che presentano una fase attiva di ma-

lattia inferiore ai 6 mesi, non sono inclusi in questo capitolo, ma in quello sulla schizofrenia. Perche´ questo dato cronologico (sei mesi) non e` ne´ indicativo, ne´ attendibile: un disturbo acuto schizofrenico, sempre che ne abbia tutte le caratteristiche cliniche, deve essere considerato come tale. La durata della fase attiva e l’evoluzione rimangono elementi importanti, ma non determinanti, ai fini della diagnosi. Se non fosse cosı` finiremmo con il negare, indirettamente, la possibilita` di quadri acuti di schizofrenia e soprattutto una loro possibile evoluzione in guarigione. Il che sicuramente non ci aiuterebbe a dirimere e chiarire i tanti problemi ancora aperti sulla schizofrenia. Questo capitolo, per motivi di coerenza nosografica, precede quello della schizofrenia, ma e` con esso chiaramente correlato ed integrato. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali

2. Il carattere schizoide

Lo «spettro della schizofrenia» rimane molto ampio e finora i tentativi di suddividerlo in varie entita` nosograficamente autonome sono risultati poco soddisfacenti. La suddivisione piu` valida rimane ancora quella di distinguere la schizofrenia cosiddetta nucleare dai quadri clinici definiti disturbi schizofrenosimili esposti nel presente capitolo. Con questa dizione si connotano quei quadri sindromici che, pur avendo molte somiglianze sul piano clinico con la schizofrenia, si differenziano da questa per il decorso, l’evoluzione, la non univoca rispondenza a medesimi criteri terapeutici e per una diversa trasmissione ereditaria, e sono: il carattere schizoide, i disturbi schizoaffettivi e la folie a` deux. Non considero invece, in questo raggruppamento, i disturbi acuti schizofrenici, anche se la durata e` inferiore a sei mesi, termine cronologico che per il DSM-III-R e` lo spartiacque che separa la schizofrenia da altri quadri clinici. Penso che sia piu` valido diagnosticare un disturbo acuto come schizofrenico, se ne ha le caratteristiche cliniche, anche se la durata e` inferiore ai sei mesi. I quadri acuti invece, che hanno solo alcuni sintomi secondari di tipo schizofrenico, ma non ne hanno la struttura, ragionevolmente debbono ascriversi alle Reazioni Psicogene (vedi cap. 27). Queste forme, che gli AA. francesi definiscono bouffee´s deliranti, sono caratterizzate non solo per una evoluzione favorevole ma soprattutto perche´ c’e` un avvenimento scatenante, che si ritrova piu` o meno evidente nella tematica delirante e per uno stato di coscienza di tipo onirico. Quindi, ricapitolando, possiamo affermare che ci sono quadri acuti che presentano alcuni dei sintomi secondari della schizofrenia e che vanno ascritti alle Reazioni Psicogene Acute. Altri quadri acuti, invece, presentano i sintomi primari della schizofrenia e debbono essere ascritti a questa categoria nosografica, anche se la durata e` inferiore ai sei mesi. Ed infine quadri clinici che presentano alcuni aspetti clinici anche significativi della schizofrenia, ma da questa si differenziano per decorso, evoluzione, base genetica, ed infine rispondenza a terapie diverse: sono i disturbi schizofrenosimili.

Definito dal DSM-III-R come disturbo schizotipico di personalita` , e` una sindrome considerata per lungo tempo come uno stadio prodromico della schizofrenia, o come schizofrenia attenuata. In effetti, numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato che la evoluzione verso la schizofrenia e` piuttosto l’eccezione che la regola, rappresentando appena il 10-20% dei soggetti con diagnosi di carattere schizoide. Lo studio psicodinamico dimostra delle differenze abbastanza sostanziali rispetto alla schizofrenia. Comunque, come di consueto, puo` essere utile tracciare dapprima una descrizione fenomenologica, per passare poi ad individuarne la psicodinamica. In ambito fenomenologico la principale difficolta` e` costituita dalle numerose descrizioni che rischiano di far includere, nel carattere schizoide, tutti quei tratti caratteriali che non rientrano in altre tipologie caratteriali. Schematicamente possiamo dire che i tratti salienti e fondamentali del carattere schizoide sono i seguenti: a)

b)

c)

Eccessiva ansia sociale che si manifesta come timore o terrore di incontrare gente, soprattutto se numerosa e sconosciuta. Quanto piu` si evidenzia un meccanismo di evitamento, tanto piu` si tratta di sintomo fobico e non schizoide. In effetti la differenza e` precisa: il fobico vorrebbe, ma e` inibito; lo schizoide evita gli altri perche´ lo infastidiscono e gli creano angoscia. L’ansia sociale e` accompagnata spesso da una certa coloritura persecutoria. A differenza dello psiconevrotico, essi si sentono esposti allo sguardo, piu` che al giudizio degli altri. Preoccupati che gli altri possano leggere nei loro pensieri o percepire i loro sentimenti, vivono una continua sensazione di essere esposti ed indifesi. Conseguenza di questi due tratti e` la mancanza di flessibilita` e di recettivita`: attitudini che permettono di cogliere globalmente la situazione e quindi di sapersi adeguare. Il carattere schizoide tende a soffermarsi sul particolare, che unito alla tendenza all’auto-

Disturbi schizofrenosimili

d)

e)

riferimento comporta un rapporto parziale, inadeguato e privo di contatto con la realta`. Il carattere schizoide tende all’isolamento che spesso e` pero` solo un processo difensivo rispetto a bisogni simbiotici. Questo isolamento si esprime con un atteggiamento freddo, ed anaffettivo, anche se sono possibili esplosioni emotive tanto repentine quanto inadeguate. La modalita` relazionale dello schizoide e` spesso improntata, se e` costretto a contattare gli altri, ad un certo manierismo oppure ad un atteggiamento sarcastico ed ipercritico. L’ipercritica e` espressione di una ostilita` di fondo e di una negazione della realta` dell’altro. Sul piano personale lo schizoide lamenta spesso un senso di vuoto, di mancanza di piacere, di noia continua, non superabili. Questa sensazione di vuoto e di noia spesso si accompagna ad un razionalismo morboso che lo porta a spaccare il capello in quattro, soprattutto su problemi assolutamente secondari e poco importanti. Tutto questo si rileva infine con una incapacita` di agire e muoversi che, in alcuni casi, puo` configurarsi come un vero apragmatismo. Lo schizoide guarda la vita dal buco della serratura: nel senso che e` separato dalla realta`, che vede in modo estremamente parziale e settoriale.

Questa descrizione e` piuttosto ampia e rischia di essere talmente generica da poter essere applicata a chiunque e quindi a nessuno in particolare. ` necessario quindi delineare la psicodinamica E del carattere schizoide, che ci permette di capire quali sono i tratti costitutivi e fondamentali.

2.1. La psicodinamica del carattere schizoide Sicuramente il concetto di scissione e` strettamente collegato, storicamente e dinamicamente, alla schizofrenia ed al carattere schizoide: dobbiamo pertanto soffermarci per capire meglio questo concetto. Per molti psicoanalisti la scissione non solo e`

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un meccanismo ubiquitario ed onnipresente (Fairbairn) ma e` addirittura costitutivo della psiche umana (M. Klein): concezione che ci sembra francamente eccessiva. La scissione e` un meccanismo difensivo che l’Io utilizza per distanziare emozioni e pensieri e che attua principalmente attraverso la scissione ideo-emotiva. La tendenza a distanziare dall’Io contenuti emotivi spiacevoli e/o conflittuali e` una modalita` molto frequente. Bisogna pertanto differenziare nettamente la scissione da altri meccanismi difensivi: fondamentalmente dalla rimozione e dalla conversione. Nella rimozione il materiale psichico assume la qualita` inconscia, mentre nella scissione c’e` una presenza alla coscienza dei contenuti conflittuali, anche se c’e` l’incapacita` di unire le due rappresentazioni. Nella conversione, soprattutto in quella somatica, la scissione si irrigidisce in un sintomo fisico visibile che in qualche modo tutela il soggetto da ulteriori decompensazioni psichiche e parzialmente soddisfa, con l’utile primario e secondario, i bisogni del paziente. Invece la scissione deve considerarsi un meccanismo difensivo messo in atto quando la fragilita` dell’Io e la reattivita` alle frustrazioni e` eccessiva. La scissione permette di vedere senza sentire, e piu` precisamente indica una scissione dell’integrazione occhi-bocca (vedi integrazione dell’Io nel capitolo 55, «La psicoterapia analitica»). Vedere senza sentire vuol dire scindere queste due capacita`: ma e` evidente che questa scissione rende aleatoria e parziale la conoscenza della realta`, quando questa non viene addirittura modificata. Ed e` quanto accade nello schizoide, tenendo presente due fatti fondamentali. Il primo e` che quanto piu` materiale psichico e` scisso, tanto piu` l’Io si impoverisce e perde in capacita` libidiche. Il secondo e` che questo meccanismo difensivo in genere regge bene anche se a costo di una notevole rigidita` e limitazione. Quella che noi vediamo nella schizofrenia acuta, e che impropriamente e` definita scissione, e` in realta` una frammentazione dell’Io. E questa frammentazione interviene proprio quando il meccanismo di scissione non e` piu` utilizzabile. Sul piano letterario, una delle esemplifica-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

zioni piu` precise e piu` minuziose della scissione e` quanto descritto da F. Dostoevskij ne Il Sosia. La scissione torna ad operare nella schizofrenia nella fase di miglioramento o di guarigione. Il paziente che critica il proprio delirio e ne prende le distanze sta proprio recuperando questo meccanismo di scissione. Anche Bleuler aveva accennato, per quanto indirettamente, a questa possibilita`. Non a caso egli parla di spaltung (scissione) ma anche di Zerspaltung che e` l’equivalente appunto della frammentazione dell’Io, e Bleuler ritiene che la schizofrenia sia dovuta alle conseguenze di ambedue i meccanismi. Quindi quando noi osserviamo nello schizofrenico una capacita` di scissione dobbiamo considerarla come una possibilita` di evitare la frammentazione. Molte rotture psicotiche, nel corso di una psicoterapia, sono legate alla non conoscenza esatta di questa dinamica. Per cui interpretare prematuramente il meccanismo di scissione che in certi momenti e` vitale per lo schizofrenico, perche´ lo protegge dalla frantumazione e quindi gli fa mantenere comunque un rapporto con la realta`, puo` portare il paziente ad una rottura psicotica. La scissione chiaramente e` una dinamica intrapsichica, ma che ha inevitabili conseguenze sui rapporti oggettuali. Anzi si puo` dire che noi possiamo arguire dalle modalita` dei rapporti oggettuali l’esistenza di una scissione dell’Io. La scissione, che porta a dividere l’oggetto relazionale in buono e cattivo, prelude anche alla tendenza a trasformare le persone reali in categorie astratte. Ma da cosa deriva questa dinamica? Dobbiamo ritenere che la causa sia fondamentalmente nella modalita` relazionale del bambino con l’A. S. Secondo Fairbairn, la madre del futuro carattere schizoide e` possessiva ed indifferente ad un ` una madre indifferente e negante pertempo. E che´ tratta il bambino come un oggetto; e` possessiva perche´, avendo ridotto ad oggetto il bambino, questi e` sua proprieta` esclusiva e personale. Il bambino e` la sua «creatura» nel senso piu` etimologico, ovverosia l’oggetto da lei creato, come mezzo e tentativo incongruo di realizzare materialmente una creativita` a cui aspira, ma che non possiede. Il figlio concretizza quindi la fantasticheria

onnipotente di aver «creato» qualcosa, e questo spiega la tipica modalita` relazionale che oscilla tra il viverlo come oggetto onnipotente e la negazione del bambino come persona. Questa relazione fortemente ambivalente determina nel bambino una situazione di scissione, che lo portera` successivamente ad un atteggiamento che oscillera` tra una latente onnipotenza ed un manifesto rifiuto del mondo: aspetto quest’ultimo piu` visibile e quindi piu` facilmente riconoscibile. L’onnipotenza del carattere schizoide nasce fondamentalmente da una «capacita`» di vivere gli altri come oggetti e che pertanto lo rende «libero» dalla affettivita`. Questa forma di «onnipotenza», ovverosia la «liberta` dai sentimenti», e` tipica dello schizoide e si complica ulteriormente quando l’onnipotenza nasce invece da un conflitto profondo e non risolto circa la propria capacita` creativa. Questa dinamica e` molto piu` simile alla onnipotenza che ritroviamo nella schizofrenia, ed e` sempre un tratto prognostico negativo. Questi soggetti se presentano, come puo` succedere, particolari attitudini che in genere sono isolate ed ipertrofiche, vivono ancor piu` in maniera conflittuale questa dinamica. O non riescono a produrre o, se invece producono, o non riescono a separarsi dall’oggetto vissuto come onnipotente, o per separarsene debbono svalutarlo. Non e` raro che questa particolare conflittualita` possa portare ad una grave rottura psicopatologica del loro precario equilibrio. La possibilita` che il carattere schizoide possa rappresentare una via d’entrata nella schizofre` piu` facile trovare, nia, in effetti, e` molto bassa. E invece, che i genitori di pazienti schizofrenici presentino un carattere schizoide.

3. Le psicosi schizoaffettive Introdotte nel 1933 da Kasanin, le psicosi schizoaffettive rappresentano senza dubbio il campo piu` controverso tra quelli al confine con la schizofrenia. Sul piano clinico la diagnosi puo` essere posta ogni qual volta sono presenti contemporaneamente sintomi appartenenti sia alla schizofrenia che alle psicosi affettive. Cosı` possiamo avere idee deliranti di tipo

Disturbi schizofrenosimili

persecutorio, neologismi, ed una patologia allucinatoria a tipo voci interne che insorgono sulla base di un disturbo dell’umore, francamente depressivo. Oppure un disturbo euforico che presenta una grave incongruita` del tono dell’umore. In altri termini possiamo dire che ci troviamo di fronte alla confluenza di sintomi della schizofrenia e sintomi delle psicosi affettive. Purtroppo gli elementi semeiologici e clinici non sono ben differenziabili, per cui spesso la diagnosi di psicosi schizoaffettiva viene posta o sulla base di una situazione controtrasferenziale o e` retrospettiva, nel senso che una evoluzione favorevole di un quadro di tipo schizofrenico tende a far proporre una diagnosi di psicosi schizoaffettiva. ` soprattutto nei casi di grave eccitamento, E quando possono comparire anche sintomi di tipo schizofrenico, che piu` spesso si pone il dubbio diagnostico, che a volte viene risolto con un criterio ex adiuvantibus. Ovverosia la diagnosi sara` posta sulla base della risposta del paziente ad una specifica terapia. Poiche´ i neurolettici, sedativi ed incisivi, sono indicati sia per la schizofrenia che per l’eccitamento maniacale, come terapia specifica rimangono i sali di litio. Quindi in conclusione, se i sali di litio somministrati hanno effetto positivo, si e` portati a porre una diagnosi di psicosi schizoaffettiva. Dicevo che questa sindrome, se fosse bene e sicuramente delineata, sarebbe di estremo interesse, perche´ ci permetterebbe di fare numerose osservazioni sul rapporto genetico tra disturbi affettivi e schizofrenia, possibilita` di passaggio da una forma all’altra ed in caso affermativo se questo passaggio e` un dato qualitativo o quantitativo. Comunque finora i dati sicuramente utilizzabili sono due. Il primo e` che la psicosi schizoaffettiva e` piu` frequentemente correlabile a sindromi ove domina l’eccitamento. Il secondo e` che mentre da genitori con disturbi affettivi possono nascere figli che potranno sviluppare una sindrome schizofrenica, non succede quasi mai il contrario. La possibilita` di schizofrenia in figli nati da genitori con disturbi affettivi, e non il contrario, tende a sottolineare l’importanza determinante dei fattori interpersonali nella genesi delle psicosi. Infatti la precocita`, la gravita` e spesso la cronicita` del disturbo

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schizofrenico possono far pensare che un genitore affetto da questo disturbo possa condizionare a tal punto lo sviluppo psicologico del figlio che questi potra` manifestare, una volta adulto, un disturbo affettivo, sia depressivo che maniacale. Mentre la minore gravita` e soprattutto la fasicita` (quindi la non cronicita`) del disturbo affettivo puo` incidere sui figli, condizionandoli solo come eventuale disturbo dell’affettivita`. Ma non e` solo questo dato a dimostrare l’importanza e forse la determinanza delle dinamiche interpersonali nello sviluppo delle psicosi. La folie a` deux e` una sindrome che ancora piu` chiaramente dimostra questo assunto; anche se c’e` un particolare che pero`, come vedremo, non e` facilmente e completamente spiegabile solo in questa chiave.

4. La folie a` deux Inserisco questa sindrome nel presente capitolo sia perche´ la sintomatologia e` di tipo schizofrenico, sia perche´ essa insorge in genere nel rapporto con un partner affetto da schizofrenia paranoidea. Viene descritta per la prima volta nel 1877 da Lase´gue e Falret1 che introducono appunto il termine di «folie a` deux», anche se sono state utilizzate altre denominazioni come: follia comunicata, ` importante tener presente follia indotta ecc. E che questa sindrome non ha nulla a che fare con le cosiddette psicosi collettive, che riconoscono una psicodinamica diversa. Nella folie a` deux, due persone strettamente legate tra di loro presentano un delirio di tipo persecutorio molto simile, in cui uno dei due risulta chiaramente influenzare l’altro. Avviene qualche volta che malati di mente, specie paranoidei o paranoici, non solo riescono a far credere nelle loro idee deliranti persone con le quali vivono a stretto contatto, ma le influenzano al punto tale che, in certi casi, queste vanno automaticamente oltre, nella costruzione nel delirio. (E. Bleuler)

1

Da Cameron N., 1969.

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In genere si evidenzia che una delle due e` una personalita` con un disturbo paranoideo, mentre l’altra e` in genere una personalita` debole, sottomessa e dipendente. Gralnik2, che ha studiato a lungo questo fenomeno, ha evidenziato un fatto fondamentale: c’e` sempre una situazione di simbiosi fra due partner di cui uno e` dominante e l’altro succube e dipendente. Studiando ben 103 coppie affette da folie a` deux, l’A. riferisce che di queste ben 40 si erano sviluppate tra due sorelle, a confronto di solo 11 casi tra fratelli; e ben 24 casi fra madre e figlia, a confronto di soli 2 casi tra padre e figlio. ` evidente quindi che il sesso femminile e` E largamente piu` coinvolto in questa sindrome: l’A. lo spiega in termini sociali e culturali. Quindi un legame simbiotico molto forte, nel caso che uno dei due presenti una sintomatologia paranoidea, puo` indurre nell’altro una identificazione tale da fare assumere anche la tematica delirante, e questo dato andrebbe certamente a favore di una esclusiva psicogenesi dei disturbi psicotici. Ma, come dicevo, c’e` un particolare che mal si accorda con questa unica spiegazione. Se il soggetto con la psicosi indotta viene allontanato dal partner, in genere la sintomatologia tende a scomparire. Cosa che invece non succede al soggetto che, affetto da una schizofrenia paranoidea, ha indotto il delirio. Questo dato ci dovrebbe indurre a due constatazioni: la prima e` che ci puo` essere una tematica delirante simile o uguale, che pero` evidentemente ha cause diverse o comunque si e` strutturata in personalita` diverse. La seconda e` che la cronicita` del disturbo e` legata ad ulteriori fattori come precocita` dell’insorgenza, predisposizione genetica, alterazioni strutturali dell’SNC ecc.

5. Note di terapia Rimando, per un approfondimento del complesso problema della terapia, al capitolo successivo. In questa sede posso solo sottolineare quanto segue. Nel carattere schizoide, soprattutto se c’e` una richiesta del soggetto che in genere la esplicita quando si accorge di una possibile crisi, la terapia di elezione e` la psicoterapia analitica. Nelle psicosi schizoaffettive, il problema si pone soprattutto sul piano della depressione. Infatti se questo disturbo e` predominante puo` essere utile tentare una terapia psicofarmacologica a base di antidepressivi. Se il disturbo depressivo e` una copertura di un sottostante disturbo schizofrenico, l’uso dei triciclici puo` peggiorare la situazione. Sul versante maniacale l’uso dei sali di litio, insieme ai neuroelettici, puo` essere una manovra precauzionale. Per la folie a` deux, in genere l’allontanamento puo` indurre una notevole remissione del quadro clinico, nel soggetto indotto. Nel soggetto invece con una schizofrenia paranoidea o con una paranoia, il problema e` piu` complesso ed articolato (vedi terapia della schizofrenia).

Riferimenti bibliografici Bleuler E., Trattato di Psichiatria (dalla 10a edizione), Feltrinelli, Milano, 1967. Cameron N., «Stati paranoidi e paranoia», in Arieti S. (a cura di), Manuale di Psichiatria, vol. I, Boringhieri, Torino, 1969. Per ulteriori voci, vedere la bibliografia del capitolo «La schizofrenia».

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Da Cameron N., 1969.

31 La schizofrenia Nicola Lalli Parole chiave autismo; ambivalenza; dissociazione; intoppo del pensiero; furto del pensiero; schizofrenia positiva; schizofrenia negativa; ipotesi dopaminergica; frammentazione dell’Io; annullamento; Emotivita` Espressa (E.E.)

Uno dei problemi della schizofrenia e` decifrare se trattasi di un’unica malattia con manifestazioni diverse, oppure se esistono diverse «schizofrenie». Questo problema, ancora oggi non risolto, ` Kraepelin che nel 1896, nella ha origini antiche. E a 5 edizione del suo Trattato, unifica sulla base della sintomatologia, e soprattutto del decorso e dell’esito, numerosi quadri a cui conferisce il nome di dementia praecox. Bleuler nel 1911, con il suo magistrale studio, modifica oltre che il nome anche la concezione del disturbo, e parlera` non di schizofrenia, ma di schizofrenie (Groupe der Schizopgrenien). Nel 1919, lo stesso Kraepelin, nella 8a edizione del suo Trattato, si esprime in questo modo: «...che la dementia praecox rappresenti nella accezione qui definita una malattia unitaria, certamente non puo` essere detto con sicurezza a tutt’oggi... Tuttavia e` possibile che i suoi confini siano stabiliti in maniera restrittiva in un certo numero di direzioni, ed al contrario in maniera troppo allargata in molte altre». Nel 1933 Kasanin, introducendo il concetto di psicosi schizoaffettive amplia, ulteriormente, il

gruppo delle schizofrenie. Successivamente il termine di schizofrenia rischia veramente di essere usato in maniera «troppo allargata», tanto da rendere difficile un confronto tra diagnosi che, seppur uguali nel nome, sottintendono realta` psicopatologiche molto diverse. Si giunge cosı` necessariamente a suddividere questo gruppo in due entita`: la schizofrenia propriamente detta, e le sindromi schizofrenosimili. Situazione inevitabile, perche´ fin quando non si conoscono esattamente l’eziologia ed i meccanismi biologici e psicopatologici non possiamo dare nessuna definizione esaustiva e definitiva di una malattia mentale, restando la clinica unico punto di riferimento. E la clinica ci dimostra che esistono due gruppi che, pur presentando somiglianze sul piano clinico, si diversificano per evoluzione, per genetica e per risposta alla terapia. Ma questa suddivisione non esaurisce il problema. Infatti all’interno della schizofrenia possiamo distinguere ulteriormente due entita`: la cosiddetta schizofrenia positiva o tipo 1, e quella negativa o tipo 2. Corrispon-

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dendo la prima ai quadri paranoidei ed ebefrenocatatonici, la seconda alla schizofrenia simplex ed a quella difettuale. Ma accanto a questa problematica di natura nosografica, la schizofrenia pone anche quella di distinguere quanto questo disturbo sia un destino e quanto una malattia: in altri termini quanto e` da attribuire ad alterate dinamiche interpersonali e quanto ad eventuali disturbi biologici. In effetti nella schizofrenia e` presente, piu` che in altre patologie, una patogenesi circolare: ove una causa genera un effetto che a sua volta puo` diventare causa. Instaurando cosı`, se il processo e` duraturo, un circolo vizioso che puo` essere il motivo stabilizzante il disturbo. Disturbo che, una volta manifestatosi in maniera evidente, puo` non essere sempre correggibile, il che non vuol dire che necessariamente e` un disturbo congenito. Tutte queste difficolta` possono indurre a due reazioni: o una ipersemplificazione per cui si crede di trovare una causa che spiegherebbe tutto, o una rinuncia a

spiegare, limitandosi ad una banale esposizione del quadro clinico. Ho preferito scegliere una terza strada, che tenendo conto della complessita` cercasse anche di dare un senso ai tanti dati acquisiti sulla schizofrenia. I dati sono come le perle, che hanno bisogno di un filo che le tenga unite per formare una collana. In questo caso, il filo e` un iter metodologico che si sforza di integrare i dati, numerosi ma anche discordanti, perche´ spesso raccolti da vertici di osservazione diversi. Comunque, per mantenere una progressione coerente e razionale del Manuale sono state descritte prima le sindromi schizofrenosimili e poi la schizofrenia: sul piano pratico puo` essere opportuno invertire l’ordine di lettura. Non solo perche´ cronologicamente e storicamente la schizofrenia e` stata studiata prima, ma anche perche´ il capitolo e` piu` ampio ed esaustivo e contiene notizie che, per ovvi motivi, non sono ripetute nel capitolo sulle sindromi schizofrenosimili. * * *

La schizofrenia

1. Considerazioni generali Sicuramente la schizofrenia puo` essere considerata una malattia mitica, poiche´ rappresenta la malattia mentale per eccellenza, quella che evoca maggiormente lo spettro della perdita delle facolta` psichiche piu` importanti, quali l’affettivita` ed il rapporto con la realta`. Questo disturbo e` stato osservato in tutto il mondo, presso culture e societa` completamente diverse tra di loro: fenomeno che indirettamente ha fatto pensare ad un disturbo condizionato piu` biologicamente che culturalmente. L’incidenza oscilla dallo 0,5% all’1% della popolazione se si considerano tutte le persone che hanno avuto un qualche disturbo di tipo schizofrenico che puo` aver richiesto il ricovero o l’intervento dello specialista. Rispetto ad una frequenza certamente non molto elevata, troviamo che invece la popolazione manicomiale era costituita per il 50% da schizofrenici: testimonianza della gravita` e della tendenza alla cronicizzazione. Certamente in questi ultimi decenni la situazione e` cambiata, ma gli schizofrenici continuano a rappresentare una percentuale sempre molto elevata di pazienti psichiatrici ricoverati o comunque bisognosi di terapie intensive e continuative. Ma accanto a pazienti che presentano sintomi gravi ed eclatanti della malattia, esistono numerosi soggetti che presentano solo alcuni sintomi schizofrenici e che riescono a convivere con il loro disturbo anche per tutta la vita. Questi quadri clinici a volte sono da ascriversi al gruppo delle sindromi schizofrenosimili, a volte rappresentano quadri tipici di schizofrenia, solo che si esprimono in maniera attenuata: si parla di schizofrenia latente. Data la gravita` e la peculiarita` della sindrome, la schizofrenia da sempre ha costituito uno dei problemi centrali della Psichiatria. Rifare la storia degli studi sulla schizofrenia, con le diverse impostazioni teoriche e terapeutiche, sarebbe pressoche´ rifare la storia della Psichiatria. Pertanto qui mi soffermero` solo su alcune tappe fondamentali, che ci aiuteranno a capire meglio gli orientamenti attuali. E. Kraepelin nel 1896, nella V edizione del suo Trattato, proponeva di unificare, con il nome

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di dementia praecox, una serie di quadri clinici diversi, fino ad allora considerati a se´ stanti. Unificazione avvenuta sulla base della seguente osservazione clinica: questi quadri insorgevano precocemente (eta` media 20 anni) e presentavano un progressivo, irreversibile deterioramento delle facolta` mentali. Quindi si distinguevano sia dalle forme demenziali organiche, che insorgevano molto piu` tardivamente (eta` media 50-60 anni), sia da quelle forme che, dopo un quadro acuto ed anche grave, evolvevano verso la guarigione: quadro clinico che confluira` nella psicosi maniacodepressiva. La concettualizzazione di Kraepelin era stata resa possibile dalla prolungata osservazione di pazienti ricoverati, ai quali sostanzialmente non era praticata nessuna terapia. Possiamo dire che la lettura kraepeliniana e` una lettura naturalistica di quello che poteva essere considerato il decorso «naturale» della malattia. Pur oberata da numerose limitazioni, questa ipotesi risvegliava un nuovo interesse di ricerche e di osservazione: la maggior parte degli studi successivi sara` praticamente centrata su questa metodologia clinico-nosografica. Nel 1911 E. Bleuler pubblica la sua fondamentale monografia Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie. Bleuler sposta completamente l’ottica di osservazione, e giunge a risultati diversi: dimostrazione, ancora una volta, dell’importanza del metodo di osservazione in psicopatologia. L’ottica di Bleuler e` la risultante di varie forze: da una parte un suo intuito personale, dall’altra la conoscenza della psicoanalisi e la collaborazione con Jung che lavorava, come aiuto, nell’Ospedale Burgholzli di Zurigo, di cui Bleuler era direttore. Per Bleuler non e` tanto importante l’insorgenza o il decorso, ma il quadro clinico e soprattutto la comprensione dei sintomi, in riferimento ad avvenimenti significativi della vita del paziente. Lo studio di Bleuler e` un approccio di indagine partecipe: ovverosia cercare di comprendere la diversita` schizofrenica sia dalla storia della persona, sia delineando un quadro di riferimento teorico che permetta di coglierne l’essenza. I concetti di dissociazione, di ambivalenza, di autismo,

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fanno ormai parte del patrimonio culturale della Psichiatria. K. Jaspers con il Trattato di Psicopatologia Generale (1913, 1a edizione) che ha avuto una notevole influenza sulla Psichiatria, pur con geniali intuizioni rappresenta una battuta d’arresto. Jaspers pone una distinzione fondamentale tra comprensibilita` ed incomprensibilita` dei sintomi. Nel senso che i sintomi che sono comprensibili e quindi anche derivabili dal contesto biografico del paziente, sono di origine psicogena. Ma ci sono anche sintomi che non sono comprensibili e derivabili e che pertanto non sono di origine psicogena, ma di natura processuale. Per processo, Jaspers intende uno sconosciuto meccanismo biologico, che altera il senso e la continuita` dello sviluppo del soggetto e si manifesta appunto come schizofrenia. Questa proposizione risulta troppo parziale, perche´ non tiene conto dell’importanza del rapporto e quindi dell’influenza che l’osservatore ha e puo` avere su quanto osserva. Nel 1954 K. Schneider, con un libro di poco piu` di 120 pagine, Psicopatologia clinica, descrive in maniera incisiva alcuni sintomi, cosiddetti sintomi di primo ordine, che egli ritiene patognomici della schizofrenia. L’influenza di Schneider sulla Psichiatria europea e statunitense e` notevole. Ma il successo ha una spiegazione. In quel periodo l’eccessivo ampliamento dei confini della schizofrenia (dovuto soprattutto all’influenza della psicoanalisi) rendeva difficile o addirittura non piu` utilizzabile quel termine. La proposta di Schneider, quindi, ha la funzione di riportare il discorso su di un piano piu` clinico, e non e` un caso che alcuni sintomi proposti da Schneider saranno ripresi dal DSM-III-R. Questo e` il filone definito clinico-nosografico: metodo che cerca di definire, sulla base dell’osservazione clinica, un insieme coerente di sintomi patognomici che permettano una corretta classificazione ed una possibile diagnosi di schizofrenia. Ma parallelamente, e quasi contemporaneamente al filone clinico-nosografico, due altri filoni si sviluppano ed avranno alterne fortune. Uno e` quello psicoanalitico. S. Freud che si occupa poco di questo argomento, e` costretto a farlo quando C.G. Jung, con il quale si manifestavano le prime

polemiche, sostiene che la teoria libidica non puo` spiegare la schizofrenia. Freud in tutta fretta scrive un articolo sul narcisismo e compie una analisi sul testo delle memorie del Presidente Schreber. Ma senza una diretta e soprattutto continuativa esperienza con questi pazienti, (anche se qualche paziente che Freud considerava nevrotico sembrerebbe, come minimo, al limite di una psicosi schizofrenica), la sua elaborazione risulta poco chiara e soprattutto poco utilizzabile. Inoltre la teorizzazione del transfert narcisistico dello psicotico (ovverosia l’incapacita` di stabilire un transfert) e` su di un piano operativo molto simile alla concezione jaspersiana di processo. Gli analisti che invece si occupano seriamente di questo problema sono in primo luogo Federn ed in parte Ferenczi. Ma sara` solo con l’esodo di molti analisti negli USA che la psicoanalisi dara` il maggiore contributo alla comprensione ed alla terapia degli schizofrenici. I motivi sono numerosi, ma certamente e` da tener presente il particolare clima culturale psichiatrico americano, dove domina la personalita` di A. Mayer. Questi, con spirito molto pragmatico, sostiene che la schizofrenia e` dovuta al sommarsi di esperienze negative e di reazioni sbagliate, e pertanto nella terapia bisogna prendere in considerazione l’intera storia del paziente e soprattutto i rapporti con l’ambiente in genere e con quello familiare in particolare. Questa proposizione diventa la base teorica del gruppo di psicoanalisti che lavorano al Chestnut Lodge Sanitarium, punta avanzata del trattamento psicoanalitico degli schizofrenici. Enorme anche l’influenza di H. S. Sullivan, che con la sua teorizzazione sottolinea fondamentalmente l’importanza dei rapporti interpersonali. Comunque, nonostante la capacita` clinica ed il grande impegno, bisogna riconoscere che i risultati terapeutici degli psicoanalisti sono piuttosto modesti (Searles). Ma questo impegno dara` luogo ad una serie di osservazioni di notevole interesse, che porteranno a modifiche sia teoriche sia del setting analitico. Intanto, intorno agli anni ’50 molti AA., anche sulla base di nuove acquisizioni teoriche (soprattutto la Teoria dei Sistemi) cominciano ad interessarsi sempre piu` alla patologia della famiglia dello schizofrenico, anziche´ dello schizofrenico preso nella sua unicita` (vedi

La schizofrenia

infra, «Modello relazionale o sistemico», § 6.4.2). Accanto a queste due correnti, che pur nella loro diversita` sono unificate da un orientamento psicologico, bisogna considerarne una terza: quella biologica. Anche questa nasce intorno alla fine dell’Ottocento, soprattutto sull’onda dei successi che stava ottenendo la medicina. Ma per molti decenni questa ricerca resta infruttuosa, perche´ i ricercatori sono convinti di poter trovare un agente infettivo (lo schizococco), o comunque lesioni anatomo-patologiche simili a quelle trovate nella paralisi progressiva. Solo in questi ultimi 30 anni la ricerca ha cominciato a dare dei frutti, dal momento che l’attenzione si e` spostata sulla possibile esistenza di lesioni o disturbi biochimici. La scoperta e l’uso degli psicofarmaci non solo sembrano confermare la ipotesi biologica, ma hanno reso piu` comprensibili le correlazioni tra schizofrenia ed alcuni neurotrasmettitori, come la dopamina. Queste, molto in sintesi, alcune delle grandi traiettorie dello studio della schizofrenia: ma anche se i dati accumulati sono sempre piu` numerosi, non possiamo affermare che il problema sia risolto. Oggi potremmo sintetizzare questo enorme sforzo di comprensione e di decodificazione di questa malattia, riproponendoci un annoso quesito. La schizofrenia e` un destino o una malattia? Ovverosia, quanto e` determinato dalla storia familiare e personale del soggetto, e quanto invece da una noxa biologica che si evidenzia con questi singolari disturbi psicopatologici? Il quesito non e` certamente risolto. Pero` se ci riferiamo e ci basiamo sulla clinica, spesso la sensazione e` che i due termini non siano cosı` antitetici. A volte si ha l’impressione che la malattia o la supposta noxa biologica possano diventare un destino; a volte un destino sembra gelificarsi in una situazione di fissita` e di rigidita` che sembra rimandare ad una causa organica. Ma fino a quando non saremo in grado di definire una eziologia sicura, questa domanda non avra` una risposta definitiva. La clinica, intesa come osservazione partecipe, e` l’unica strada che ci permette di evidenziare, distinguere e descrivere la struttura schizofrenica. Pertanto passero` ad esaminare qual e` la sintomatologia della schizofrenia.

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2. Sintomatologia Data la complessita` e la varieta` dei sintomi psicopatologici, puo` essere utile nella descrizione clinica seguire due proposizioni fondamentali: prima (2.1-2.2) quella di E. Bleuler, successivamente (2.3-2.4) quella di K. Schneider, che propongono modelli descrittivi che sono ancora validi. Bleuler individua nello schizofrenico sintomi fondamentali e sintomi accessori. I sintomi fondamentali sono sempre presenti, anche se non sempre in maniera evidente, e pertanto costituiscono sintomi patognomici.

2.1. I sintomi fondamentali

2.1.1. La dissociazione

Rilasciamento dei nessi associativi e separazione di un gruppo di processi mentali dal resto dell’apparato psichico, con esito di un funzionamento autonomo e distaccato delle varie parti psichiche e mancanza di continuita` e d’identita` del soggetto. Bleuler la distingue in intellettiva, che riguarda soprattutto il funzionamento del pensiero, ed ideo-affettiva, che riguarda la correlazione dell’affettivita` con il pensiero. In quest’ultimo caso avviene che il paziente possa esprimere un pensiero completamente scollegato dallo stato emotivo. Il paziente che ride di cuore, mentre racconta il proprio delirio secondo il quale viene tagliato in milioni di pezzi, puo` essere un esempio paradigmatico. Questo concetto sara` ripreso soprattutto dalla scuola francese, che dara` molta importanza a questa dissociazione ideo-affettiva, definita «discordanza» (Chaslin). Comunque per Bleuler il concetto di dissociazione si riferisce fondamentalmente al pensiero ed ai nessi associativi. Ne risulta pertanto un pensiero bizzarro, illogico, a volte caotico, caratterizzato da numerosi disordini formali. Quali la tangenzialita` del pensiero, cioe` la tendenza ad associare per assonanza, o per nessi superficiali; i neologismi, ovverosia la formazione di nuove parole che hanno un significato particolare ed unico

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solo per chi le formula; la verbigerazione o catafasie, ovverosia la ripetizione stereotipa di una parola. Ed inoltre due altri disturbi fondamentali: il pensiero forzato e l’intoppo del pensiero. Nel pensiero forzato «... gli schizofrenici sentono un incalzare di pensieri: sono costretti a pensare». Questa forma si distingue dal pensiero ossessivo perche´, afferma Bleuler, «... nell’ossessivo l’incalzare si riferisce al contenuto, nello schizofrenico invece al processo ideativo». L’intoppo del pensiero e` cosı` descritto da Bleuler: «Il pensiero si ferma spesso a meta` di un concetto; oppure, nel tentativo di passare ad un’altra idea, puo` bloccarsi del tutto... Insorgono nuove idee che ne´ il paziente ne´ l’osservatore sanno collegare al corso del pensiero precedente... Il pensiero inceppato dello schizofrenico si distingue nettamente dal pensiero inceppato del melanconico: in quest’ultimo il corso delle idee nel suo complesso e` faticoso e lento per l’influsso dell’affettivita`: gli inceppamenti dello schizofrenico invece interrompono d’un tratto il corso delle idee, fluido, talvolta brioso». L’intoppo spesso e` dovuto o perlomeno e` concomitante con un altro fenomeno che e` il furto del pensiero, che per Bleuler non ha tanto il significato di un disturbo primario quanto piuttosto quello di una razionalizzazionespiegazione, dell’intoppo stesso. Per Bleuler i disturbi formali del pensiero, sono tra i segni piu` importanti della schizofrenia e sono espressione non tanto della scissione (Spaltung), quanto piuttosto di un disturbo piu` profondo (Zerspaltung), che utilizzando un concetto psicoanalitico potremmo definire come spezzettamento o frammentazione dell’Io. Infatti il pensiero di Bleuler sembra molto chiaro al proposito: «... La Spaltung e` la condizione preliminare della maggior parte delle manifestazioni piu` complicate della malattia; essa imprime il suo particolare sigillo a tutta la sintomatologia. Ma dentro questa Spaltung sistematica, in determinati complessi ideativi, abbiamo trovato un allentamento primario del tessuto associativo che puo` portare ad una frammentazione irregolare (Zerspaltung) di strutture resistenti, come quelle dei concetti concreti. Il nome di schizofrenia si riferisce ad en-

trambi i tipi di scissione, i cui effetti in realta` si fondono» (Bleuler, pag. 270).

2.1.2. Incongruita` affettiva

Gli aspetti piu` evidenti sono l’indifferenza, l’appiattimento e l’ottundimento affettivo, e soprattutto l’incapacita` di modulare l’affettivita` con il pensiero e con le circostanze. Quest’ultima evenienza rappresenta piu` specificatamente la dissociazione ideo-emotiva, che rende il soggetto incongruo e bizzarro. ` spesso uno dei segni piu` precoci, ed e` quello E che colpisce e disorienta maggiormente i familiari dello schizofrenico, che non riescono a capire, ma avvertono un drammatico cambiamento nel carattere del paziente.

2.1.3. Ambivalenza

Concetto coniato da Bleuer, ma diventato rapidamente di uso frequente e sempre piu` ampio, tanto da dover essere ridefinito; per l’A. e` uno dei sintomi fondamentali della schizofrenia. In effetti, come vedremo, l’ambivalenza come e` concettualizzata da Bleuer e` un disturbo molto grave della personalita`. Egli ne distingue tre modalita`: l’ambivalenza affettiva, l’ambivalenza intellettiva, e l’ambivalenza della volonta` . In quella affettiva il paziente presenta due stati d’animo contraddittori e inconciliabili. Una paziente dichiara di essere molto grata e di voler molto bene all’infermiera, ma contemporaneamente le chiede come puo` ucciderla. In quella intellettiva compaiono due pensieri che, messi insieme, diventano assurdi. Un paziente che si lamentava di non aver piu` il viso, subito dopo chiedeva un rasoio per farsi la barba. In quella volitiva, il paziente vuole una cosa, ma contemporaneamente e` pronto a rifiutarla. Un sintomo che a lungo e` stato considerato specifico e patognomico e` la tendenza dello schizofrenico, quando gli si porge la mano per salutarlo, a fare un primo movimento che sembra di ricambio e di accettazione, per poi ritirarla immediatamente.

La schizofrenia

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2.1.4. Autismo

2.2.4. Sintomi catatonici

Consiste in un progressivo ritiro in se stesso, in una vita sempre piu` autocentrica, mentre i rapporti con la realta` e con l’ambiente tendono a chiudersi. Il pensiero non ha piu` un significato comunicativo, ma spiccatamente autistico, cioe` centrato esclusivamente sulle produzioni interne che provengono da fantasticherie, allucinazioni, spesso deliri. L’autismo associato al dereismo costituisce la base del delirio. Questi sono per Bleuler i sintomi fondamentali, che un po’ semplicisticamente sono stati definiti le quattro A di Bleuler: autismo, ambivalenza, associazioni disturbate, affettivita` incongrua. Accanto a questi sintomi fondamentali, Bleuler ne considera altri definiti accessori, nel senso che possono mancare e che comunque non costituiscono «l’essenza» della schizofrenia.

Negativismo: fare il contrario di quanto si chiede al paziente. Ecolalia: ripetizione di parole degli altri. Ecoprassia: ripetizione dei movimenti degli altri. Stereotipia: il ripetere continuativo ed insensato di gesti o azioni. Impulsivita`: azioni attuate improvvisamente e senza alcun nesso logico con la situazione o con la personalita` del paziente.

2.2.5. Benommenheit

Parola che con qualche forzatura puo` essere ` una sitradotta con perplessita` o stordimento. E tuazione di rallentamento, di incapacita` di comprendere, che da` allo schizofrenico un’aria attonita e che si manifesta come incapacita` di affrontare o di capire situazioni anche relativamente semplici. Per comodita` didattica, riassumo quanto detto nella tabella che segue.

2.2. Sintomi accessori

2.2.1. Allucinazioni

Le allucinazioni piu` comuni sono quelle uditive. Sono voci spesso a contenuto persecutorio, o che invece possono dare ordini o possono semplicemente commentare tutto cio` che il paziente fa. Presenti anche allucinazioni somatiche, tipo trasformazione corporea.

2.2.2. Deliri

Possono essere di varia natura (dal mistico al persecutorio) e possono manifestarsi in maniera sufficientemente organizzata, molto piu` spesso in maniera incongrua.

2.2.3. Idee di riferimento

Convinzione che molti gesti o parole degli altri possono essere diretti, ed in genere in maniera malevola, al paziente.

Sintomi fondamentali

Sintomi accessori

— — — —

Dissociazione Incongruita` affettiva Ambivalenza Autismo

— — — — —

Allucinazioni Deliri Idee di riferimento Sintomi catatonici Benommenheit (perplessita`)

Sulla base dei sintomi fondamentali ed in parte di quelli accessori e` possibile porre la diagnosi di schizofrenia: questi disturbi sono patognomici se compaiono in uno stato lucido di coscienza. Una alterazione, piu` o meno grave, dello stato di coscienza deve invece far essere prudenti circa la diagnosi di schizofrenia. La concezione bleuleriana ha segnato una svolta nella comprensione della schizofrenia: molte descrizioni e molti sintomi saranno successivamente ripresi e modificati da numerosi AA., senza comunque che l’impianto teorico di base sia stato modificato. Possiamo dire che attualmente molte descrizioni della schizofrenia, direttamente o indirettamente, ancora si rifanno a Bleuler.

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Nel 1950 K. Schneider propone invece una descrizione dei sintomi della schizofrenia abbastanza diversa. L’Autore divide i sintomi, come gia` aveva fatto Bleuler, in due categorie che egli definisce di primo ordine e secondo ordine e che indicano la maggiore o minore incidenza ed importanza.

2.3. Sintomi di primo ordine

2.3.1. Allucinazioni uditive specifiche

Le allucinazioni uditive specifiche si suddividono in: eco del pensiero, voci sotto forma di discorsi e con le quali spesso il paziente dialoga, voci che sottolineano le azioni del soggetto. L’eco del pensiero consiste in una riproduzione sonora dei propri pensieri che il paziente percepisce allucinatoriamente proiettati all’esterno. Pertanto il paziente avverte come discorso esteriorizzato e sonorizzato ogni suo pensiero: a volte queste voci preannunciano anche le azioni future del paziente. Le voci dialoganti sono indizio di una tale chiusura del paziente al mondo, che egli puo` comunicare solo con voci allucinatorie. Le voci che sottolineano le azioni, a volte hanno un tono accusatorio e denigratorio; piu` raramente un tono di assenso.

2.3.2. Furto del pensiero, o influenzamento del pensiero

I pazienti hanno la certezza che i loro pensieri sono stati rubati o comunque sono influenzati e quindi conosciuti e noti a tutti. Ambedue i sintomi caratterizzano un fatto fondamentale: la perdita della liberta` e della identita` del paziente, il suo essere praticamente alla merce´ di tutti.

2.3.3. Esperienza di influenzamento somatico

Il paziente avverte di essere guidato e telecomandato, oppure che strani processi avvengono nel suo corpo sotto l’influenza di apparecchiature

o di forze misteriose. Spesso questa sensazione, piu` attenuata, e` riferita come senso di costrizione del pensiero e della volonta`. 2.3.4. Percezione delirante

Percezione fondamentalmente corretta di un oggetto o di una situazione, ma alla quale viene dato un significato particolare, autocentrico ed inaccessibile alla critica: e` spesso la base della ` evidente che in questo strutturazione delirante. E caso non e` compromessa la facolta` della sensazione o della percezione, bensı` quella del giudizio e del significato. 2.4. Sintomi di secondo ordine 2.4.1. Disturbi allucinatori di altro genere

Sono le allucinazioni al di fuori di quelle uditive. 2.4.2. Intuizione delirante

Idea o convinzione che nasce come una sorta di illuminazione alla coscienza del paziente e che diventa certezza inaccessibile alla critica. Anche l’intuizione delirante e` spesso la base di una costruzione delirante. 2.4.3. Impoverimento affettivo

L’impoverimento affettivo e` la perdita della capacita` sia di provare che di esternare affetti nei confronti degli altri. 2.4.4. Perplessita` intesa come sensazione di confusione

Per comodita` didattica propongo un quadro sinottico riassuntivo. Per Bleuler i sintomi fondamentali costituiscono non solo sintomi patognomici, ma anche espressione diretta della causa (che e` organica, anche se sconosciuta) della schizofrenia.

La schizofrenia

Uguale significato hanno per Schneider i sintomi di primo ordine. Ma a parte questa somiglianza, si nota una differenza importante. Mentre Bleuler sottolinea fondamentalmente il disturbo del pensiero e quindi delle attivita` psichiche intese come produttrici della capacita` di associare e pensare, Schneider invece sottolinea come maggiormente importante la sensazione che avverte il paziente di aver perduto la propria intimita` ed identita`. Questa diffusione della identita`, questa incapacita` dello schizofrenico di difendersi, questo sentirsi esposto, e` molto diversa dalla visione bleuleriana di uno schizofrenico arroccato nell’isolamento del suo autismo. —

Sintomi di primo ordine

— — — —

Sintomi di secondo ordine

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Allucinazioni uditive: eco del pensiero, voci dialoganti, voci che sottolineano le azioni del paziente. Furto del pensiero. Influenzamento del pensiero. Influenzamento somatico. Percezione delirante. Allucinazioni varie, escluse quelle uditive. Intuizione delirante. Impoverimento affettivo. Perplessita`.

Sia ben chiaro che Schneider non da` nessuna connotazione psicologica e non fa alcuna lettura psicodinamica dei sintomi. Eppure una lettura non preconcetta dei sintomi di primo ordine porta ad evidenziare una visione piu` moderna della schizofrenia: non a caso la concettualizzazione di Schneider incontrera` molti favori, non solo presso la Psichiatria europea, ma anche presso quella statunitense. Se la sintomatologia ha la fondamentale funzione di permettere una corretta diagnosi, ritengo che i sintomi descritti possano dare un quadro abbastanza preciso della schizofrenia. Comunque per definire una sindrome e` utile, accanto ai sintomi specifici, tener conto anche dell’esordio, dello status e dell’evoluzione. E questo vale ancora di piu` per la schizofrenia perche´, come vedremo, le modalita` di inizio e l’evolu-

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zione possono essere determinanti nel definire uno specifico quadro di schizofrenia. Esamineremo successivamente la fase prodromica, l’inizio, il decorso, e lo stato residuale. Ma per fare questo debbo premettere che e` necessario, rispetto a questi parametri, suddividere il quadro dei disturbi schizofrenici in due gruppi fondamentali: quello ad inizio acuto e quello ad inizio lento. Vedremo che questa suddivisione ha un significato molto importante, non solo sul piano prognostico, ma anche sul piano psicopatologico. Questi due gruppi coincidono, o sono comunque correlabili, con due gruppi estrapolati indipendentemente dai criteri di evoluzione e che sono: la schizofrenia positiva e la schizofrenia negativa (vedere dopo).

3. Esordio, status, evoluzione

3.1. Schizofrenia ad evoluzione acuta Spesso il paziente schizofrenico giunge alla osservazione del medico con i sintomi conclamati ` pertanto neceso addirittura in fase residuale. E sario andare a ritrovare nell’anamnesi quei sintomi che sono specifici della fase prodromica o della fase acuta propriamente detta. Nella schizofrenia ad evoluzione acuta dobbiamo infatti distinguere: una fase prodromica, una fase acuta d’insorgenza, uno status ed una evoluzione.

3.1.1. Fase prodromica

Questa fase puo` essere caratterizzata da una modificazione complessiva della personalita`, consistente in un progressivo isolamento sociale, menomazione di funzioni fino ad allora svolte con buon impegno, trascuratezza nell’abbigliamento e nel comportamento, marcata perdita di iniziativa e di interessi. Possono comparire anche esperienze illusionali o dispercettive, accompagnate in genere da un vissuto prevalentemente sgradevole. L’affettivita` tende ad appiattirsi, ma a differenza del depresso questa sensazione non e` percepita dal paziente come sentimento della perdita

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dei sentimenti, ma piuttosto viene in genere rilevata dai familiari o dai conoscenti. Questi disturbi fondamentalmente vengono sottovalutati o comunque genericamente diagnosticati come stato di stress e di stanchezza. Se questi disturbi si instaurano su di un carattere schizoide, puo` essere in realta` difficile evidenziare questa fase prodromica. Ma in effetti, come vedremo, il carattere schizoide non presenta una incidenza molto elevata di evoluzione schizofrenica. Inoltre bisogna tener presente che spesso la fase prodromica puo` insorgere in eta` puberale o comunque entro i 15-20 anni, quando ancora non si e` formata una struttura di personalita` ben definita, e pertanto questi cambiamenti vengono scambiati per transitorie crisi di crescita. Questa fase prodromica puo` durare da alcuni a molti mesi. Lunghezza che e` collegata a numerosi fattori: gravita` della sintomatologia, forza dell’Io, situazione ambientale piu` o meno favorevole, eventuali terapie ecc. Ma in media dopo un periodo che puo` variare da pochi mesi ad un anno compare la fase acuta.

3.1.2. Fase acuta

La fase acuta rende abbastanza inequivocabile la diagnosi: in genere compaiono i sintomi definiti fondamentali da Bleuler, o di primo ordine da Schneider. Il paziente abbastanza improvvisamente comincia ad avvertire una sensazione angosciosa di cambiamento psichico e somatico e compare uno stato di perplessita`. Il soggetto vive in un mondo con il quale non ha rapporti comunicativi, un mondo che perde i suoi usuali signifi` lo smarrimento schizofrenico, quello che cati. E E. Minkowski ha definito il Kako`n, ovverosia uno stato acutissimo di angoscia che disgrega il gia` fragile Io del paziente e lo mette alla merce´ di forze strane e sconosciute, comunque a carattere persecutorio. Spesso in questa fase avviene quella che e` stata definita la rivoluzione tolemaica dello schizofrenico. Ovverosia il paziente si sente al centro del mondo, mentre perde completamente ` in questo ogni capacita` difensiva e di intimita`. E periodo che i sintomi di primo ordine di Schneider acquistano tutta la loro forza predittiva. In

genere questa fase, in tempi non lunghi, tende a trasformarsi in quella successiva di status, che e` caratterizzata soprattutto dalla tendenza a strutturare deliri. Deliri che esprimono chiaramente il tentativo di ricostruzione del mondo psichico caduto in frantumi, tentativo di razionalizzare e dare un significato a sensazioni allucinatorie o comunque a sensazioni strane che sono intollerabili per il paziente. Con la strutturazione delirante, piu` o meno congrua, piu` o meno sistematizzata, entriamo nella fase di status.

3.1.3. Status della malattia

Il decorso successivo puo` articolarsi in maniera piu` o meno specifica ed a seconda del prevalere dei sintomi possiamo distinguere alcuni sottotipi della schizofrenia. La trattatistica psichiatrica classica ha evidenziato quattro sottotipi fondamentali: la schizofrenia tipo simplex, tipo ebefrenico, tipo catatonico, tipo paranoide. Quella piu` recente tende invece ad operare una distinzione meno netta della sintomatologia schizofrenica distinguendone tre sottotipi. Tipo catatonico: prevalgono i disturbi del tipo catatonico come negativismo, ma soprattutto stati di eccitamento o di impulsivita`. Tipo disorganizzato: prevalgono i disturbi del pensiero, il comportamento e` afinalistico e bizzarro. L’affettivita` e` gravemente appiattita e inadeguata, i segni della discordanza ideo-emotiva sono massicci (corrisponde quindi alla ebefrenia). Tipo paranoide: prevalgono i fenomeni allucinatori che si integrano piu` o meno rapidamente nel sistema delirante. I deliri piu` comuni sono quelli di influenzamento, di persecuzione, di rovina, di trasformazione corporea. Non infrequenti pero` deliri incongrui di grandezza o di onnipotenza.

3.1.4. Evoluzione

Anche l’evoluzione e` molto varia, perche´ determinata da fattori personali, ambientali, familiari e soprattutto dalla precocita` e dalla continuita` dell’intervento terapeutico. Anche se in

La schizofrenia

genere lo schizofrenico finisce per accettare abbastanza facilmente una terapia, molto spesso e` discontinuo e quindi l’intervento terapeutico puo` diventare poco incisivo. L’evoluzione puo` esitare in una risoluzione ` assolutamente falso quanto totale dell’episodio. E si sosteneva fino a poco tempo fa, che la schizofrenia guarita non e` una schizofrenia. Concezione che evidentemente accettava in pieno, piu` o meno consapevolmente, la concezione kraepeliana. Certamente questa evoluzione non riguarda una percentuale molto elevata, ma esiste; e possiamo dire che c’e` in genere una relazione direttamente proporzionale tra acuzie del disturbo e possibilita` di una guarigione. Una possibilita` piu` frequente e` invece, dopo un periodo piu` o meno lungo di fase acuta, lo stabilizzarsi in uno stato definito difettuale. Ovverosia, i sintomi piu` eclatanti tendono ad attenuarsi, mentre si evidenzia sempre piu` uno stato di ottundimento affettivo ed intellettivo ed un progressivo deterioramento della personalita` che si adatta a livelli sempre piu` bassi di prestazioni. In genere questi soggetti, se riescono a trovare una nicchia ecologica ove non subiscono eccessive pressioni emotive o prestazionali, possono vivere abbastanza discretamente. Una terza possibilita` e` invece un andamento a pousse´es: ovverosia ci sono nel tempo frequenti ricadute che portano inevitabilmente ad un deterioramento progressivo della personalita`.

3.2. Schizofrenia ad evoluzione lenta Un decorso certamente meno frequente e` quello ad evoluzione lenta, caratterizzato da un progressivo peggioramento di alcuni tratti, che all’inizio sembrano essere solo al limite della norma. Si tratta di soggetti che per un certo periodo possono essere definiti introversi, ma che con il passare del tempo evidenziano sempre piu` una tendenza di tipo autistico. Compaiono soprattutto disturbi del comportamento, caratterizzato da ritiro e disinteresse per tutto quello che li circonda: spesso questi pazienti trascorrono molte ore del giorno a letto, immersi in fantasticherie. Rifiutano progressivamente i rapporti con gli altri

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e finiscono con l’interrompere anche quei pochi legami che li tenevano ancora uniti al mondo esterno. In genere convivono con i genitori fino alla morte di questi, ed a questo punto possono insorgere disturbi acuti momentanei, che richiedono un ricovero o una presa in carica del paziente. Notevoli sono la poverta` ideativa ed il linguaggio, che finisce con il diventare monotono e stereotipato. Ma quello che colpisce di piu` e` l’emotivita` e l’affettivita`: questi pazienti mostrano una perdita completa dell’affettivita`, ed una indifferenza che colpisce l’osservatore, che l’avverte come un muro tra se´ ed il paziente o ancora piu` esattamente come una spessa lastra di cristallo. Il paziente da` la netta sensazione che vede la realta` circostante, ma non riesce a sentirla. Spesso pero`, quando si e` riusciti a stabilire un contatto con questi pazienti, ci si accorge che essi vivono la stessa sensazione che riescono a procurare all’osservatore. Riferiscono di non sentire alcun piacere e di sentirsi separati dal mondo come da una spessa lastra di cristallo che impedisce loro qualsiasi comunicazione e qualsiasi rapporto. Se l’affettivita` e` cosı` piatta, non altrettanto si puo` dire dell’emotivita`. Soprattutto se disturbati nelle loro fantasticherie o nel loro mondo autistico possono mostrare, anche se per breve tempo, intensi segni di paura o di aggressivita`. In questi soggetti in genere mancano quasi sempre i sintomi cosiddetti accessori (Bleuler) o di secondo ordine (Schneider) quali allucinazioni, deliri o sintomi catatonici. L’evoluzione di questi casi e` piuttosto grave, nel senso che c’e` un progressivo deterioramento ed impoverimento della personalita`. Questo decorso della schizofrenia corrisponde chiaramente a quella forma che molti AA. definiscono schizofrenia simplex.

4. Quadri clinici della schizofrenia Riassumero` brevemente i quadri clinici della schizofrenia, sottolineando che spesso un quadro puo` trapassare nell’altro e che in effetti la distinzione fondamentale rimane tra una forma caratterizzata da progressivo impoverimento senza sintomi produttivi, ed una caratterizzata dalla

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

presenza di sintomi produttivi con una discreta conservazione della personalita`. Questi due quadri corrispondono a quanto hanno descritto N. C. Andreasen (1983-1984) e T. J. Crow (1986) a proposito di schizofrenia positiva o tipo 1, e schizofrenia negativa o tipo 2. Il tipo 1 e` caratterizzato da sintomi produttivi (deliri, allucinazioni), da esordio acuto e da un decorso caratterizzato da pousse´es alternate a periodi di remissione, ove il paziente riesce a recuperare un buon riadattamento prestazionale e sociale. Inoltre questi pazienti rispondono bene alle terapie neurolettiche. Questo tipo 1 corrisponde in gran parte alle forme che sono definite come paranoidi, e ad alcune delle forme cosiddette disorganizzate. Il tipo 2 e` caratterizzato invece dai seguenti sintomi: poverta` del pensiero e dell’eloquio, appiattimento affettivo, apatia ed incapacita` di legami affettivi o sociali. In genere i sintomi produttivi mancano: in questi pazienti, che rispondono poco ai neurolettici, spesso sono evidenziabili lesioni di tipo neurologico (soprattutto allargamento ventricolare alla TAC)*. Questo tipo comprende fondamentalmente la schizofrenia simplex e quella difettuale. Comunque non tutti gli AA. sono d’accordo su questa classificazione. Pertanto riassumo brevemente anche quella tradizionale. a)

b)

Schizofrenia simplex. Caratterizzata da mancanza di interesse nei rapporti umani, progressivo isolamento, complessivo impoverimento della personalita` , apatia, abulia. Questi pazienti si mostrano indifferenti emotivamente ed affettivamente. Rari o appena accennati i sintomi produttivi, quali allucinazioni o deliri. Schizofrenia disorganizzata (o ebefrenia). Il comportamento e` inadeguato e bizzarro. Questi pazienti tentano di stabilire un minimo di rapporto, ma in genere si mostrano goffi, impacciati e spesso con una profonda

* Per quanto attiene alla patogenesi della dilatazione ventricolare, alcuni AA. ritengono sia dovuta a massicci e prolungati dosaggi psicofarmacologici (ved. cap. 61).

c)

d)

e)

discordanza ideo-affettiva. Se sono presenti deliri questi sono frammentari, a volte a contenuto onnipotente e autogratificante. Molto spesso il loro comportamento e` improntato a fatuita`: hanno scoppi di risate e smorfie che sembrano completamente scollegati con il contesto. Schizofrenia catatonica. Nettamente in diminuzione dopo l’era psicofarmacologica. A volte possono presentarsi sintomi come il negativismo, oppure una forte inibizione che puo` giungere a forme di stupore catatonico. Piu` frequenti le forme caratterizzate da intensa agitazione afinalistica, che porta questi pazienti a girare continuamente, senza scopo, fino ad arrivare a gravi forme di tossicosi endogena. Non infrequenti i sintomi specificatamente catatonici: come stereopatie, manierismi, ecolalia, ecoprassia. Le forme sopradescritte insorgono in genere nell’eta` compresa tra i 15 ed i 25 anni. Schizofrenia paranoide. Questa forma ha spesso inizio tardivo (25-35 anni) ed e` caratterizzata da allucinazioni e sistemi deliranti a contenuto vario. In genere i piu` frequenti sono di tipo persecutorio o ipocondriaco, meno frequenti quelli di grandezza. La forma paranoide puo` avere remissioni piu` o meno significative. ` lo stato che residua Schizofrenia difettuale. E alle forme acute che evolvono verso un deterioramento. Sono molto simili alle forme simplex con la differenza che rimangono allucinazioni o deliri che pero` non hanno piu` alcun contenuto emotivo. Il paziente li ripete stereotipamente, ma senza alcuna partecipazione.

5. La prognosi In poche malattie la prognosi e` cosı` importante come nella schizofrenia: ma purtroppo non e` un’operazione facile e non sempre e` prevedibile correttamente. Estrapolando dalle numerosissime ricerche si puo` dire che mediamente l’evoluzione della schizofrenia e` cosı` articolata.

La schizofrenia

Circa un 20% esita in guarigione piu` o meno completa. Un 30% invece va incontro ad un progressivo e spesso rapido deterioramento della personalita`. Il restante 50% va incontro ad adattamenti, piu` o meno validi, a secondo delle condizioni ambientali, sociali, familiari. Secondo molti AA. l’introduzione degli psicofarmaci, se ha contribuito notevolmente a ridurre l’intensita` dei sintomi e la frequenza delle ricadute, non sembra aver inciso profondamente sulla evoluzione sopradescritta che sembra essere rimasta abbastanza simile a quella precedente l’era farmacologica. Comunque si puo` affermare che sono segni di prognosi buona: l’inizio acuto, la presenza di sintomi produttivi, cioe` in altri termini sintomi di quella che viene definita la schizofrenia positiva. Il miglioramento o la guarigione devono avvenire entro i due anni dall’inizio della sintomatologia. Se questo non accade, la possibilita` di una cronicizzazione aumenta considerevolmente con il passare del tempo; dopo cinque anni di malattia, le possibilita` di miglioramento o guarigione sono praticamente nulle. Sono segni di prognosi negativa: l’inizio subdolo e la presenza di sintomi deficitari (autismo, poverta` affettiva ecc.), in altri termini i sintomi della cosiddetta schizofrenia negativa. Un importante elemento prognostico e predittivo di possibili ricadute e` la cosiddetta Emotivita` Espressa (E.E.), che in termini operativi rappresenta l’equivalente di quello che il buon senso prima, gli studi di psichiatria transculturale dopo, hanno da tempo dimostrato. Cioe` l’importanza delle modalita` da parte dell’ambiente familiare di accettare il paziente schizofrenico. Infatti nelle culture ove c’e` una rete di solidarieta` familiare piu` estesa l’incidenza di ricadute degli schizofrenici e` notevolmente minore rispetto alle societa` industrializzate. In queste ultime, gli studi pioneristici di Brown (1972), avevano gia` dimostrato che l’assetto emotivo della famiglia era determinante per il numero e la gravita` delle ricadute. L’Emotivita` Espressa (E.E.) si valuta mediante una intervista semistrutturata e standardizzata, che evidenzia le tensioni e le modalita` reattive dei familiari allo schizofrenico. Numerosi studi hanno confermato che c’e` una proporziona-

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lita` diretta tra elevato indice di E.E. e frequenza delle ricadute. L’intervista semistrutturata tende ad evidenziare, attraverso scale di valutazione, i seguenti comportamenti dei familiari: 1) 2) 3)

atteggiamento ipercritico (criticism); ostilita` (hostility); ipercoinvolgimento emotivo (emotional overinvolment).

L’atteggiamento ipercritico viene evidenziato dal numero di proposizioni critiche dell’intervistato nei confronti del paziente, valutando oltre il contenuto anche le modalita` mimiche e prosodiche della comunicazione. L’ostilita` viene evidenziata invece o come negazione della malattia o come rifiuto della persona. L’ipercoinvolgimento emotivo corrisponde a comportamenti fortemente emotivizzati, autosacrificio eccessivo, atteggiamento iperprotettivo, scarsa tendenza a riconoscere i confini dell’Io e l’identita` del paziente. Se un familiare raggiunge un punteggio elevato, viene considerato come un parente con elevata E.E., e quindi tendenzialmente portato a facilitare le ricadute del paziente. Chiaramente questa scala di valutazione non e` puramente diagnostica, ma serve soprattutto a proporre interventi, piu` o meno mirati, anche sulla famiglia. Insieme ai patterns sopradescritti, vengono valutati anche altri due comportamenti, che sono invece rispetto ai primi inversamente proporzionali e positivi: 1) 2)

calore emotivo (warmth); osservazioni positive (positive remarks).

` evidente che questi due comportamenti faE cilitano l’inserimento dello schizofrenico. L’E.E. esprime la valutazione non tanto della patologia o della «cattiveria» familiare, quanto piuttosto la modalita` espressiva di reazione dei familiari al paziente con disturbo schizofrenico.

6. Eziopatogenesi Le ipotesi eziologiche della schizofrenia si possono ricondurre fondamentalmente a quattro

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

fattori: genetici, biochimici, neurologici, psicologici.

6.1. Fattori genetici ` clinicamente ed epidemiologicamente acE certato, e da lungo tempo, che in alcuni gruppi familiari l’incidenza della schizofrenia e` piu` elevata che nella media. Inoltre l’elevata concordanza nei gemelli MZ, la presenza di disturbi schizofrenici presso popolazioni e culture diverse, il tasso di incidenza abbastanza costante, sono tutti elementi a favore di una base genetica della schizofrenia. I numerosi studi sulla genetica della schizofrenia hanno portato ad alcuni dati significativi e sicuri, sui quali tutti i ricercatori concordano. Il modello piu` semplice di indagine consiste nell’esaminare l’incidenza dei disturbi schizofrenici nei familiari di un soggetto, a cui e` stato riscontrato una psicosi schizofrenica. Le cifre che esprimono il rischio di morbilita` sono le seguenti: il 7,15% per i fratelli, il 7,6% per i figli, un po’ meno il 5,10% per i genitori. Come si vede, le cifre riguardanti i fratelli ed i figli non differiscono; per questi ultimi pero`, se ambedue i genitori sono schizofrenici il rischio sale dal 40% (Slater), fino al 68% (Kallman). In genetica umana il fenomeno dei gemelli costituisce una situazione di estremo interesse: inevitabile quindi che lo studio della genetica della schizofrenia si sia soffermato particolarmente sulla osservazione dei gemelli. Nei gemelli DZ la concordanza non si discosta sostanzialmente dalla cifra di morbilita` riguardante i fratelli, soprattutto per gemelli di sesso diverso. Sale invece al 17-18%, se sono dello stesso sesso. Kallman fornisce i seguenti dati: nei gemelli DZ: 11% se di sesso diverso, 17% se invece sono dello stesso sesso. Questa differenza, non totalmente trascurabile, fa pensare che nel caso che abbiano lo stesso sesso ci siano anche fattori di identificazione reciproca. La percentuale di morbilita` nei gemelli MZ invece si eleva nettamente con cifre che oscillano, a seconda dei vari autori, da un minimo del 67% ad un massimo dell’86%.

Il fatto che nei gemelli MZ la concordanza, pur molto elevata, non raggiunge mai il 100% dimostra che la base genetica della schizofrenia ha bisogno per esprimersi di concause, o fattori facilitanti, di natura ambientale, sociale, psicologica. Lo studio dei gemelli MZ e` sicuramente di estremo interesse, ma va impostato con molta cautela. Sono descritti numerosi casi in cui la coincidenza riguarda non solo l’eta` e le modalita` di insorgenza, ma anche la sintomatologia e l’evoluzione: certamente tutto questo puo` essere letto come sicuro indizio della base genetica della schizofrenia. Ma non bisogna dimenticare che i gemelli MZ presentano una psicologia, ed a volte una psicopatologia, particolare, collegata proprio a questa somiglianza cosı` completa, spesso accentuata dai genitori con l’imposizione di un identico abbigliamento. Sappiamo che tra i gemelli MZ si stabiliscono un legame ed un attaccamento reciproco molto forti. Numerosi studi hanno evidenziato che i gemelli MZ spesso attivano una comunicazione particolare che serve ad escludere sia la madre, nei primi anni di vita, sia gli altri negli anni succes` inoltre di frequente riscontro che i gemelli sivi. E MZ sono spesso inseparabili e formano una coppia inscindibile con dei ruoli fissi: uno dei due assume una funzione di «rappresentante esterno», ovverosia di quello che prende le iniziative per tutti e due nei rapporti con il mondo esterno. Tutto questo sta a dimostrare una tendenza alla simbiosi, una chiusura al mondo esterno, un isolamento sociale ed emotivo, spesso una mancanza di identita` e di confini dell’Io: tutti fattori che ritroviamo in una singolare manifestazione psicopatologica che e` la folie a` deux o psicosi indotta (D. Jackson). Nella folie a` deux, infatti, c’e` un forte legame simbiotico, un isolamento, una diffusione dell’identita` , fenomeni molto simili a quanto accade nelle coppie gemellari MZ. Questo ci deve far pensare che probabilmente l’elevata concordanza per la schizofrenia, nei gemelli MZ, non e` solo espressione di un comune genotipo, ma e` collegabile anche a fenomeni psicologici come la simbiosi, l’incapacita` di definire i confini dell’Io, una mancanza di identita`, che sono rite-

La schizofrenia

nuti essere la causa della schizofrenia (vedi modello psicodinamico). Pertanto la concordanza di schizofrenia nei gemelli MZ puo` essere meno significativa, sul piano genetico, di quanto sembrerebbe a prima vista. A dimostrazione della tendenza alla simbiosi nei gemelli MZ e dell’importanza di questa dinamica nella genesi della schizofrenia, puo` essere utile riportare una statistica molto significativa. Secondo Kallman la concordanza di schizofrenia tra gemelli MZ, che non si sono mai separati, e` del 91%, concordanza che scende invece al 77% quando c’e` stata una separazione perlomeno negli ultimi 5 anni prima dell’insorgenza dell’episodio schizofrenico. Sembra esserci quindi una proporzionalita` diretta tra incapacita` di distaccarsi e tendenza ad ammalarsi di schizofrenia. Di estremo interesse, per dirimere il quesito su quanto attiene alla genetica e quanto all’ambiente, sono i casi di gemelli MZ separati poco dopo la nascita e quindi vissuti in ambienti diversi, quando uno di questi sviluppa un disturbo schizofrenico. In effetti casi di gemelli MZ, separati alla nascita e che poi hanno sviluppato una sindrome schizofrenica, sono rarissimi (Slater, Kallman). In questi casi e` stata evidenziata una concordanza elevata, ma i pochi casi certamente non sono utilizzabili per conclusioni generali valide. Altro campo di studio, di estremo interesse, e` quello dell’adozione. Dai numerosi studi risulta, nel caso di bambini adottati e diventati successivamente schizofrenici, che i genitori biologici presentano un tasso di incidenza molto piu` elevato rispetto ai genitori adottivi. Comunque, nonostante l’enorme quantita` di osservazioni accumulate, lo studio della genetica della schizofrenia offre alcuni problemi di non facile soluzione. Un problema fondamentale riguarda la diversa valutazione clinica delle sindromi schizofreniche, che si riflette inevitabilmente sull’incidenza di morbilita`. Infatti, a seconda che vengano considerati solo i casi clinici conclamati o invece anche le sindromi marginali, e` evidente che le percentuali cambiano ed anche notevolmente. Il valutare anche sindromi schizo-

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frenosimili o marginali e` una scelta valida, perche´ possiamo pensare che queste forme siano manifestazioni meno evidenti di uno stesso genotipo. Altro problema che non e` stato chiarito e` quale sia il meccanismo di trasmissione genetica. Ovverosia cosa e` che si eredita: un disturbo biochimico, una alterazione neurofisiologica o soltanto una generica predisposizione? Sulla base di queste considerazioni, negli ultimi anni, gli studi della genetica della schizofrenia si stanno orientando in maniera un po’ diversa rispetto agli studi classici. Si cerca di evidenziare, sulla base della psicopatologia, uno «spettro della schizofrenia», ovverosia l’insieme di quei disturbi che presentano caratteristiche comuni, riportabili ad una comune base genetica. Un primo risultato sembra l’aver evidenziato una concordanza familiare maggiore quando si tratta di schizofrenia con sintomi negativi, rispetto alla schizofrenia con sintomi positivi. Nonostante i dati acquisiti, gli studi sulla genetica sono completamente aperti, anche sulla base di nuove osservazioni e sulla base di sempre piu` sofisticate metodiche di ricerca. Un caso recentemente pubblicato di schizofrenia familiare con trisomia del cromosoma 5 ha attirato l’attenzione su questo cromosoma. L’aumento significativo negli schizofrenici del fattore C3 del complemento ha spostato l’attenzione sul cromosoma 19, dove si trova il gene codificante questa specifica proteina. La possibilita` di ottenere mediante specifici enzimi, le endonucleasi, lo spezzettamento delle molecole di DNA (frammenti di restrizione) rende possibile lo studio delle sequenze geniche e delle loro alterazioni, che insieme alla possibilita` di utilizzare markers genetici aprono sicuramente nuove strade, anche se tutte da percorrere. Attualmente la maggior parte degli AA. ritiene che la schizofrenia sia ad eziopatogenesi multifattoriale, e che il meccanismo genetico e` probabilmente legato a singoli geni che determinano una suscettibilita` o vulnerabilita` ad ammalarsi di schizofrenia. Questa vulnerabilita` potrebbe esprimersi con una possibile alterazione dei sistemi neurotrasmettitoriali, in primo luogo quello della dopamina.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

6.2. Fattori biochimici Anche l’ipotesi che una alterazione biochimica possa esser causa della schizofrenia e` molto antica. Ma solo negli ultimi decenni questa ipotesi ha trovato una conferma ed una spiegazione plausibile, soprattutto con l’osservazione degli effetti dei neurolettici. Si era notato infatti che i neurolettici, se da una parte riducevano l’intensita` e la durata dei sintomi schizofrenici, dall’altra inducevano costantemente dei disturbi di tipo parkinsoniano. Tremori, rigidita` extrapiramidale, crisi neurodislettiche, indicavano che l’azione dei farmaci era collegata con il sistema dopaminergico, il cui alterato funzionamento determina appunto il morbo di Parkinson. Ulteriori ricerche hanno portato alla ipotesi dopaminergica della schizofrenia: essa, insieme a quella serotoninergica, costituisce le due ipotesi piu` accreditate. Comunque, sia ben chiaro che nessun Autore che ha studiato seriamente questo problema sostiene che il difetto a carico di questo o di quel sistema neurotrasmettitoriale possa essere l’unica causa della schizofrenia.

6.2.1. Ipotesi dopaminergica

Il sistema dopaminergico e` ampiamente esteso nel SNC ed in parte nel midollo spinale. Il tentativo di studio in vivo del metabolismo della dopamina, mediante la misurazione nel liquor cerebrospinale del suo metabolita, l’acido omovanillico (HVA), non ha dato risultati soddisfacenti. Pertanto la maggior parte delle ricerche e` stata attuata indirettamente, attraverso lo studio del meccanismo d’azione dei neurolettici. L’ipotesi dopaminergica ritiene che i sintomi della schizofrenia siano il risultato di una iperattivita` del sistema dopaminergico e che gli antipsicotici, in grado di legarsi ai recettori dopaminergici, sviluppano la loro azione terapeutica mediante questo blocco recettoriale. Si conoscono attualmente cinque tipi di recettori per la dopamina: D1, D2, D3, D4, D5. Essi sono situati nei nuclei della base, nella corteccia prefrontale, nel sistema limbico. Di questi recettori non si conoscono com-

pletamente e perfettamente le varie funzioni che possono variare a seconda della sede specifica del SNC di cui fanno parte. Comunque la maggior parte dei neurolettici agisce inibendo o i recettori D1 (come i tioxanteni), oppure quelli D2 (come sulpiride e pimozide) o piu` spesso ambedue. La varieta` e la quantita` del blocco recettoriale determinano le specifiche azioni dei vari neurolettici.

6.2.2. Ipotesi serotoninergica

Il fatto che composti allucinogeni, quali l’LSD, interagiscano con i recettori serotoninergici ha fatto ritenere che questi ultimi potessero essere coinvolti nella produzione dei sintomi schizofrenici. Il sistema serotoninergico nel SNC e` prevalentemente localizzato nei nuclei ponto-mesencefalici da dove invia fibre alla corteccia, all’ippocampo, all’amigdala, all’ipotalamo, al locus coeruleus. I neuroni 5-HT sono di tipo reticolare e le sinapsi sono prevalentemente dendro-dendritiche: morfologia che indica una funzione prevalentemente modulatoria. E vedremo che e` proprio questa specifica funzione che puo` spiegare l’eventuale influenza del sistema serotoninergico. Si conoscono tre tipi fondamentali di recettori che sono 5-HT1, 5-HT2 e 5-HT3. I dati riguardanti la schizofrenia sono i seguenti. Numerosi studi hanno dimostrato, in un campione di schizofrenici, una correlazione tra atrofia cerebrale e ridotti livelli liquorali di 5-HIAA (acido 5-idrosiindolacetico, metabolita della serotonina). Questo dato fa ritenere che ci possa essere una eventuale correlazione tra schizofrenia e deficit di serotonina soprattutto nella cosiddetta schizofrenia negativa. Quindi, anche se in modo un po’ schematico, si puo` ritenere che mentre la schizofrenia positiva o tipo 1 e` collegata prevalentemente ad iperattivita` del sistema dopaminergico, quella negativa o tipo 2 e` collegata prevalentemente ad alterazioni del sistema serotoninergico. Comunque la serotonina, tra le tante funzioni, ha anche quella del controllo inibitorio dei neuroni mesolimbici dopaminergici, ed e` pro-

La schizofrenia

babile che attraverso una alterazione del sistema serotoninergico si alteri anche quello dopaminergico. Questa ipotesi trova una conferma pratica nel fatto che, in animali di laboratorio, antagonisti dei recettori 5-HT3 mostrano una possibile azione antipsicotica. Infatti il recettore 5-HT3 e` particolarmente presente in aree dopaminergiche, quali la substantia nigra e i fasci mesolimbici, dove svolge una funzione sul rilascio di dopamina. Accanto a queste due ipotesi, c’e` anche l’ipotesi che disturbi del metabolismo degli aminoacidi possono indurre la formazione di sostanze di tipo oppioide, come eventuale causa dei disturbi schizofrenici. Comunque «i diversi tipi di alterazioni biologiche nella schizofrenia sono presenti solo in una percentuale di pazienti e non in tutti gli schizofrenici in generale, a riprova della sostanziale eterogeneita` biologica della malattia stessa» (Racagni G., Smeraldi E., 1990).

6.3. Fattori neurologici Da lungo tempo l’esame pneumoencefalografico (PEG) aveva evidenziato negli schizofrenici, soprattutto se cronici e con un disturbo iniziato precocemente, una atrofia cerebrale diffusa. L’introduzione della TAC, esame meno traumatico ed invasivo del PEG, ha permesso lo studio non solo di un campione piu` ampio, ma ha anche fornito dati piu` specifici ed esaurienti. In una percentuale che secondo i vari AA. oscilla dal 20 al 50%, sono state messi in evidenza: allargamento della scissura intraemisferica, atrofia cerebrale prevalentemente frontale, aumento del volume ventricolare soprattutto a carico del ventricolo laterale. Questi dati vanno, come tutti i dati biologici sulla schizofrenia, considerati con estrema cautela in ordine alla significativita` eziologica, soprattutto perche´ l’atrofia cerebrale puo` essere determinata da numerose cause: come le intossicazioni, i disturbi della nutrizione, le malattie virali, i disturbi neurologici ecc. Dati piu` significativi sembrano invece derivare dalla PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) che ha evidenziato negli schi-

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zofrenici un diminuito metabolismo del glucosio nelle regioni frontali. Questa ipofunzionalita` frontale sembra cosı` essere un dato che trova molteplici conferme. Comunque bisogna tener presente che un rallentato metabolismo cerebrale del glucosio, in particolare della zona prefrontale, e` stato riscontrato anche in soggetti che presentano sindrome da deficit di attenzione con iperattivita`. (A. Zametkin, 1990). A riprova della presenza, ma anche di una sostanziale aspecificita` dei reperti biologici nella schizofrenia. Altro dato significativo e` la neurofisiologia di una particolare zona frontale, la cosiddetta Corteccia Pre-Frontale Dorso Laterale (DLPFC). Negli animali, studi sperimentali hanno dimostrato che questa zona svolge un ruolo di fondamentale importanza nei processi cognitivi e comportamentali. «Inoltre la DLPFC nell’uomo e` l’ultima zona cerebrale ad essere mielinizzata ed il suo processo di mielinizzazione puo` durare anche tutta la vita» (Rutigliano G., Vadruccio F., 1989). ` quindi probabile che svariate noxae potrebE bero ritardare o comunque incidere negativamente sul processo di mielinizzazione, costituendo cosı` una probabile eziologia della schizofrenia. Credo che si possa concordare, per quanto riguarda le ipotesi biologiche sulla schizofrenia, con quanto affermano Rutigliano e Vadruccio: «Tutti questi dati costituiscono dei punti fermi nell’attuale conoscenza della biologia del disturbo schizofrenico, che possiamo cosı` riassumere: 1)

2)

3)

Il disturbo schizofrenico si baserebbe su una alterazione del sistema dopaminergico in toto, non potendosi ancora stabilire se sia primaria la patologia dei nuclei della base e secondaria quella della corteccia frontale ad essa correlata anatomicamente, o viceversa. L’allargamento dei ventricoli, dovuto ad una perdita di sostanza dei nuclei sottostanti, non e` in relazione alla cronicita` della malattia, ma all’eta` di insorgenza della stessa (dati convalidati da studi post mortem) (Weinberger D. R., 1987). Sintomi come: allucinazioni, deliri e distorsioni percettive si accompagnano ad alterazioni anatomo-funzionali della corteccia

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4)

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temporale, dell’amigdala e dell’ippocampo. Comportamenti quali: appiattimento affettivo, ritiro sociale, perdita dell’iniziativa, del giudizio e delle capacita` introspettive si ritrovano in soggetti con lesioni del lobo frontale ed in particolar modo della corteccia pre-frontale dorso laterale (DLPFC). Questa riceve afferenze dal mesencefalo e dal lobo limbico ed a queste strutture e` legata da un controllo a feed-back. L’aumento dei recettori DAergici nel sistema meso-limbico degli schizofrenici sarebbe una risposta omeostatica, ma insufficiente, ad una precocissima alterazione dei recettori della DLPFC ed alla conseguente inibizione del feed-back negativo. Il numero dei recettori DAergici limbici risulta molto aumentato in pazienti con i sintomi psicotici piu` floridi (schizofrenia tipo 1 di Crow) e la capacita` dei farmaci antipsicotici di controllare i «sintomi positivi» (potenza clinica) e` direttamente correlata con il binding in vitro dei recettori striatali.»

Forse in maniera ancora piu` sintetica, possiamo affermare che gli studi biologici della schizofrenia hanno evidenziato due forme di schizofrenia che si correlano con la schizofrenia positiva o Tipo 1 e quella negativa o Tipo 2. Tutto questo puo` indurci a proporre una ipotesi non sul perche´ (eziologia), ma sul come (patogenesi) dei disturbi schizofrenici. Mentre i disturbi acuti della schizofrenia sono da collegarsi ad alterazioni biochimiche, piu` o meno transitorie, la sindrome cronica e` da collegarsi ad alterazioni morfologiche (atrofia ventricolare, lesione del DLPFC ecc.) primarie o determinate da cause intercorrenti. Credo sia interessante, a questo punto, trovare eventuali correlazioni tra i fattori biologici e quelli psicologici. Pertanto passero` ad esaminare il modello psicodinamico della schizofrenia. 6.4. Fattori psicologici Numerose ricerche hanno evidenziato l’importanza dei fattori psicologici che sono altrettanto, se non piu`, importanti dei fattori biologici.

Tra le numerose ipotesi circa la psicogenesi della schizofrenia, i due modelli esplicativi piu` importanti sono quello psicodinamico e quello sistemico relazionale.

6.4.1. Il modello psicodinamico

I contributi forniti dalla psicoanalisi alla spiegazione ed alla comprensione della schizofrenia sono numerosi, ma anche abbastanza discordanti tra di loro. Discordanza derivante da impostazioni teoriche sostanzialmente diverse: i contributi di S. Freud o di M. Klein sono diametralmente opposti a quelli forniti da P. Federn o da R. Fairbairn. Inutile quindi fare un’antologia di proposizioni cosı` diverse, operazione che creerebbe solo confusione. Una teoria psicodinamica della schizofrenia deve tener conto del modello di sviluppo e di funzionamento dell’apparato psichico e spiegare il disturbo sulla base di questo modello. Per quanto riguarda le prime tappe di sviluppo dell’apparato psichico e` evidente che accettare un Io originario (vedi capitolo «La psicoterapia analitica») vuol dire, inevitabilmente, non poter accettare ne´ l’impostazione freudiana che postula l’assenza di un Io alla nascita, ne´ quella kleiniana che ammette un Io originario, ma «naturalmente» malato e fissato nella fase schizoparanoidea. Il che non toglie che possono essere accettabili alcune loro singole formulazioni: la formulazione che il delirio e` un tentativo riscostruttivo da parte dello schizofrenico o la dinamica della identificazione proiettiva sono proposizioni certamente valide. Lo studio della schizofrenia, con le sue peculiari manifestazioni, ci permette attraverso la patologia di poter meglio comprendere ed evidenziare le modalita` di formazione dell’Io. Rimandando per maggiori approfondimenti al capitolo «La psicoterapia analitica», qui mi soffermero` brevemente a considerare solo alcuni aspetti dello sviluppo e delle funzioni dell’Io. Si ritiene che alla nascita ci sia un Io originario, lo sviluppo del quale sara` successivamente condizionato dalla progressiva maturazione neu-

La schizofrenia

robiologica del SNC, dall’evoluzione delle pulsioni e dalle modalita` dei rapporti interpersonali la cui validita` e stabilita` sono estremamente significative. L’Io originario e` fondamentalmente un Io somatico che diventa sempre piu` un Io libidico capace di distinguere tra il Se´ e il non Se´, capace di recettivita` e di investimento sessuale come dinamica di rapporto-conoscenza della realta`. Se la conflittualita`, nell’ambito delle relazioni interpersonali, e` eccessiva emergono meccanismi difensivi che portano alla costituzione della cosiddetta corazza caratteriale, tipica della psiconevrosi. Se invece c’e` una situazione gravemente frustrante o di massiccia carenza affettiva precoce da parte degli A. S., si costituisce una deficitaria strutturazione dell’Io che si manifesta con quella particolare patologia che si evidenzia nella personalita` psicopatica e nella sindrome borderline. Nella schizofrenia invece le funzioni dell’Io sono ancora piu` gravemente alterate, nel senso di una mancanza di organizzazione e di confini dell’Io che si manifestano come incapacita` sia di distinguere tra il Se´ e il non Se´, sia di una corretta conoscenza e di un valido rapporto con la realta`. C’e`, ovviamente, una relazione diretta tra autodefinizione-autodeterminazione dell’Io e rapporto con la realta`. Quanto meno l’Io e` definito, tanto piu` e` difficile distinguere tra Se´ e realta`, e tanto piu` la conoscenza di quest’ultima viene inquinata dalle proiezioni. P. Federn ritiene che esista una funzione fondamentale dell’Io, definita sentimento dell’Io che rende possibile la distinzione tra il soggetto ed il mondo esterno, ma anche tra l’Io come attivita` psichica e le sensazioni somatiche. In questo senso l’Io e` al tempo stesso soggetto ed oggetto: la psiche ed il corpo sono percepiti come due entita`, due funzioni diverse, ma al tempo stesso unite, nella misura in cui il corpo e` vissuto come il limite tra l’Io psichico ed il mondo. ... il sentimento dell’Io e` il senso, costantemente presente, della propria persona; e` la percezione che l’Io stesso ha di Se´... Questa esperienza di se´ e` un’entita` che permane, benche´ mai in modo identico, e che non e` un’astrazione, ma una realta`... Noi possediamo, in altre parole, una conoscenza ed un senso costante della continuita` e della persistenza del nostro Io... in quanto sen-

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tiamo che i nostri processi interni hanno una origine che persiste in noi e che il nostro corpo e la nostra psiche appartengono permanentemente al nostro Io (P. Federn).

Il sentimento dell’Io porta alla graduale formazione del confine dell’Io. Quindi il confine dell’Io puo` considerarsi come una sorta di organo sensorio che tende a fornire la consapevolezza di tutto cio` che succede fuori dall’Io. ... il confine dell’Io non designa altro che l’esistenza di una percezione dell’estensione del sentimento dell’Io. I confini mutano continuamente... Ma una persona sente dove il suo Io finisce, specie quando ha appena subito un mutamento (P. Federn).

Questi concetti di sentimento dell’Io e confine dell’Io sono stati da Federn evidenziati soprattutto nel lavoro con pazienti schizofrenici, nei quali appunto queste due funzioni sono deficitarie. Dato confermato, nell’ambito psicopatologico, da Kanner che ha rilevato una mancanza di discriminazione dell’Io nei bambini autistici. Ma la percezione del sentimento dell’Io e dei confini dell’Io puo` essere evidenziata anche in situazioni normali, come nello stato ipnagogico, che secondo Federn puo` indurre vissuti, anche se molto brevi, simili a quelli della schizofrenia. ... La modificazione ipnagogica che si presenta sulla soglia del sonno consiste in una dissoluzione dell’Io. Questo fenomeno da` a chiunque l’opportunita` di convincersi dell’esistenza del suo investimento dell’Io, e dei suoi confini dell’Io, purche´ sia disposto a rinunciare al piacere di addormentarsi normalmente (P. Federn).

Puo` essere utile ricordare che Schreber, all’inizio della sua malattia, «tra veglia e sonno» sente di essersi trasformato in donna, sensazione che segna l’inizio della sua trasformazione patologica. Inoltre una volta, mentre ero ancora a letto, di mattina (non so piu` se mezzo addormentato o gia` sveglio), ebbi una sensazione che mi fece un effetto assai singolare, quando ci ripensai dopo in completo stato di veglia. Era la rappresentazione che dovesse essere dav-

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vero bello essere una donna che soggiace alla copula (P.D. Schreber).

Questa difficolta` a separare nettamente il mondo del sogno da quello della veglia e` certamente una caratteristica del disturbo schizofrenico. Comunque e` interessante sottolineare che questo affievolimento del senso di identita` e` presente anche nei casi di lesione cerebrale, come ha ` dimostrato, con le sue ricerche, K. Goldstein. E evidente quindi che la perdita o l’affievolimento dell’identita` dell’Io possono essere determinati da varie cause ma certamente, una volta presenti, possono spiegare molti sintomi della schizofrenia. T. Freeman, J. Cameron, A. Mc Ghie, sostengono ` questo fattore, denominato del ‘sentimento che «E dell’Io’ ossia la capacita` di differenziare il Se´ dal mondo circostante, che riteniamo sia compromesso nella schizofrenia cronica, talche´ il paziente e` portato a vivere le sensazioni interne ed esterne come un continuum. Noi riteniamo che, assegnato a questo disturbo fondamentale il suo giusto valore, tutte le altre manifestazioni schizofreniche possono essere considerate delle elaborazioni che ne derivano necessariamente». La perdita del sentimento dell’Io e del confine dell’Io spiega, abbastanza comprensibilmente, il come di molti sintomi schizofrenici, e soprattutto quelli della fase acuta. La situazione di perplessita` e di smarrimento, il furto del pensiero, l’eco del pensiero, le allucinazioni uditive, le esperienze di trasformazione somatica. Insomma i sintomi di primo ordine, secondo Schneider, sembrano trovare una comprensibile spiegazione in questa caduta del confine dell’Io che lascia il soggetto alla merce´ delle proprie sensazioni ormai completamente scisse dall’Io e quindi vissute come «estranee». La sensazione di influenzamento e di cambiamento somatico potrebbe essere interpretata come il tentativo, da parte del paziente, di esprimere somaticamente questa esperienza di dissoluzione totalmente psichica, che e` l’incapacita` di mantenere i confini dell’Io. Possiamo qui ricordare che V. Tausk, nel lavoro del 1919 «La macchina influenzante», proponeva esattamente una dinamica del genere. Secondo Tausk, il bambino nella primissima infanzia, scopre il proprio corpo

e lo considera non come una parte di Se´, ma come appartenente al mondo degli oggetti, il che genera l’impressione che le sensazioni corporee provengano dal di fuori del Se´. Normalmente, nelle fasi di sviluppo successivo, questa situazione viene superata: nella schizofrenia invece, a causa della regressione, questo meccanismo si riattualizza. Il corpo viene proiettato all’esterno e le sensazioni somatiche vengono vissute come imposte da una macchina influenzante. Ma se la deflessione e la perdita del sentimento dell’Io possono spiegare il come di molti sintomi schizofrenici, nulla ci dicono circa il perche´. Secondo Federn, nella schizofrenia ci sarebbe un disinvestimento dell’Io. ... Quando un organo interno perde i suoi investimenti dell’Io, l’autopercezione del proprio corpo viene a modificarsi. Questo e` quasi sempre un primo sintomo di schizofrenia grave... Quando tutta la carica dell’Io e` disinvestita dalle parti del corpo, il paziente lamenta o semplicemente descrive le piu` strane deformazioni dell’autopercezione del corpo (P. Federn).

Per altri Autori, invece, il problema non e` tanto un disinvestimento, quanto piuttosto la preponderanza ed il non contenimento delle pulsioni distruttive. Rosenfeld, che si e` occupato particolarmente degli stati di tipo confusionale negli schizofrenici, ritiene che la crisi e` dovuta al timore che le pulsioni distruttive possano annientare quelle libidiche, con un conseguente annientamento del Se´. La nozione di caduta e del sentimento dell’Io e dei confini dell’Io, pur molto importante nella spiegazione dei fenomeni schizofrenici, e` piuttosto riduttiva se non viene inserita all’interno della dinamica delle pulsioni e delle relazioni oggettuali. Dobbiamo ritenere che la modalita` di relazione dello schizofrenico oscilla tra due poli: la simbiosi o la totale rottura del rapporto. Modalita` relazionale che e` condizionata dalla deficitaria struttura dell’Io come capacita` di avere e di mantenere una propria identita`. Questa situazione, che e` chiaramente instabile, puo` rompersi dando luogo alla fase acuta

La schizofrenia

della schizofrenia. Anche se non sempre e` possibile individuare una causa precisa, possiamo dire che sicuramente la rottura e` determinata da una forte angoscia. Ritengo che si possa concludere che uno schizofrenico, quali che siano le cause della sua malattia, e` una vittima dell’angoscia. Ma di una angoscia diversa da quella che determina le difese nevrotiche, una angoscia che rende intollerabile qualsiasi relazione con gli altri (P.C. Racamier).

Questa angoscia, spesso scatenata dal timore di perdere la relazione simbiotica, determina un vissuto per cui l’Io dello schizofrenico si disintegra e il soggetto perde completamente il senti` in questo momento mento ed il confine dell’Io. E che compaiono i sintomi acuti: lo smarrimento, le allucinazioni uditive, il furto del pensiero ecc., chiare manifestazioni di un soggetto che si sente completamente in balı`a degli eventi e degli altri. La disgregazione dell’Io, che riguarda la fase conclamata della psicosi schizofrenica, ha inevitabili conseguenze. Le pulsioni, che sono regolate dall’Io, si trovano ad essere completamente defuse e non piu` controllabili in alcun modo. Questa patologia si estrinseca con la bizzarria, l’ambivalenza o con gli impulsi catatonici. C’e` inoltre inevitabilmente un ritorno massiccio di tutto cio` che in precedenza era stato rimosso: materiale che, non piu` riconosciuto come appartenente al paziente, popolera` il mondo di fantasmi persecutori. C’e` una totale caduta della capacita` di rimozione, quella rimozione che, seppur penalizza il nevrotico, e` sempre un meccanismo difensivo: una sorta di autoamputazione che permette, attraverso la struttura caratteriale, di mantenere il rapporto con la realta`. La caduta della capacita` di rimozione nello schizofrenico comporta una rottura della barriera tra Se´ e mondo esterno che aumenta ulteriormente il senso di diffusione e di perdita della propria identita`. Tutto questo determina la classica fase acuta, che puo` essere piu` o meno lunga, ma alla fine della quale il soggetto tende a ripristinare dei meccanismi difensivi, mediante due possibili soluzioni. Una e` la completa rottura con la realta`, sulla base di un annullamento totale che si evidenzia con il sintomo car-

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dinale della schizofrenia: l’indifferenza. Il paziente, piu` o meno consciamente, rinuncia definitivamente ad ogni rapporto con il mondo. L’esempio piu` conosciuto di questa «soluzione» e` quella di Ho¨lderlin: ove il manierismo e l’affettazione rendono piu` visibile e drammatico il ritiro ed il totale isolamento del paziente. L’altra e` invece il tentativo di recuperare la precedente situazione di legame simbiotico: il delirio ne rappresenta la piu` tipica manifestazione. L’esempio paradigmatico di questo secondo caso (sempre per rimanere nel campo di esempi clinici ` in questi casi che illustri) e` il caso Schreber. E troviamo, in maniera estremamente eclatante, il meccanismo della identificazione proiettiva: dinamica che rivela chiaramente il non superamento dal legame simbiotico, proprio attraverso il tentativo, anche se con modalita` diverse, di ricostituirlo. Puo` sembrare singolare ed assurdo questo tentativo di recuperare nel delirio un legame che in genere, nella realta`, e` stato frustrante e deludente e che esprime la piu` tipica modalita` del 1 delirio schizofrenico: quello di persecuzione . Ma evidentemente, come afferma D. Fairbairn, «...e` preferibile un mondo popolato da demoni, che un mondo deserto e vuoto». Abbiamo cosı` due modalita` di uscita dalla crisi acuta di schizofrenia: quella di rottura-annullamento, e quella di un tentativo di recuperare il legame simbiotico. Queste due modalita` corrispondono a due forme cliniche: la prima alla schizofrenia simplex ed alla difettuale, la seconda alla paranoidea ed alla ebefreno-catatonica. Queste due modalita` debbono indurci a qualche riflessione. La prima e` che sicuramente, all’interno della sindrome schizofrenica, esistono due entita` cliniche la cui esistenza e` confermata da numerose osservazioni, e pertanto esse non possono essere messe in dubbio. Sul piano clinico corrispondono alle due forme descritte da Crow come schizofrenia negativa

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Basta rileggere le Memorie di Schreber, per vedere come questi, nel delirio, cerca di recuperare il rapporto con un padre che si era comportato in modo gravemente sadico.

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e positiva, ma anche a quanto, da un vertice di osservazione fenomenologico, e` stato descritto da Minkowski come autismo povero ed autismo ricco. Inoltre c’e` una concordanza anche con dati genetici (vedi prima) e con dati neurofisiologici. Sappiamo infatti che una discreta percentuale, ma non tutti, di schizofrenici difettuali mostrano tipiche alterazioni (quali l’atrofia cerebrale, e particolarmente quella frontale). La seconda considerazione e` che bisogna chiederci se la somiglianza tra difettuale e simplex e` reale o e` solo apparente. Rispetto ad una dinamica basilare di distacco totale, per annullamento della realta` che si attua in maniera continuativa e non solo di fronte ad emergenze particolari, ritengo che la somiglianza sia reale. Ma rimane una differenza importante: mentre il simplex sembra aver «scelto» questa modalita` fin dall’inizio, il difettuale ci arriva come per esaurimento. Cioe` il difettuale, dopo i tentativi ed i fallimenti nel recuperare, seppur nel delirio, una forma di legame, e` come se «rinunciasse» e si lasciasse andare ad una situazione simile al simplex. Ma c’e` una ulteriore differenza: i reperti di sofferenza o di danno biologico del S.N.C. sono stati riscontrati nel difettuale e non nel simplex. Questo dato, sottovalutato da tutti gli AA., e` invece un dato importante perche´ ci permette di approfondire non solo l’aspetto psicodinamico della schizofrenia, ma soprattutto ci apre uno spiraglio di comprensione circa la correlazione tra dati biologici e psicodinamici. ` evidente che la situazione pulsionale del E difettuale e del simplex e` diversa da quella del paranoideo. Nel senso che in quest’ultimo dobbiamo ritenere che esiste ancora una dimensione libidica, per quanto intrisa e bloccata dall’istinto di morte, che lo induce a tentare una parvenza di legame. Nel difettuale e nel simplex si evidenzia invece una predominanza assoluta della tendenza all’annullamento, che si manifesta fenomenicamente come totale distacco ed indifferenza. Quindi si possono avere quadri clinici sovrapponibili (simplex e difettuale), pur con processi

evolutivi diversi, e con diversi quadri di sofferenza del S.N.C. Difficile quindi trovare una plausibile correlazione tra disturbi biologici evidenziabili e manifestazioni cliniche, a causa di una sostanziale disomogeneita` dei dati, disomogeneita` che puo` indurci ad alcune riflessioni: a)

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c)

nella schizofrenia le alterazioni biologiche di tipo neurologico sono possibili, ma non necessarie. La presenza di lesioni organiche comporta una precocita` di insorgenza e spesso evoluzione verso quadri difettuali. Il rapporto eventuale tra lesioni biologiche e disturbi psicopatologici va letto nell’ottica di una patogenesi circolare.

Il che vuol dire che eventuali lesioni biologiche, piu` che determinare eziologicamente la psicodinamica schizofrenica, potrebbero dar luogo ad un grave disturbo relazionale molto precoce o molto prolungato nel tempo. Pertanto dobbiamo ritenere che un’eventuale lesione biologica potrebbe determinare comportamenti anormali del bambino tanto da stimolare, successivamente e reattivamente, un comporta` evidente, mento di rifiuto da parte dell’A. S. E quindi, che in ogni patologia e nella schizofrenia in particolare bisogna considerare l’eziopatogenesi come un processo circolare e non semplicisticamente lineare. Prima di passare oltre, debbo fermarmi un momento per sottolineare un aspetto molto singolare della schizofrenia, non sempre presente, ma comunque possibile. Mi riferisco alle fantasticherie megalomaniche e di onnipotenza, che in questo contesto troverebbero scarsa possibilita` di essere spiegate. Freud, a proposito del caso Schreber, proprio per spiegare queste singolarita`, era dovuto ricorrere alla concezione del narcisimo e dell’autoinvestimento libidico. Sicuramente l’onnipotenza e` indice di un deficitario o assente rapporto con la realta`. Infatti i deliri di onnipotenza (anche se con scarsa partecipazione emotiva) sono frequenti nella paralisi progressiva: il che vuol dire che un deficit presta-

La schizofrenia

zionale puo` comportare non solo un deficitario rapporto con la realta`, ma anche fantasticherie ` da presupporre che nel bambino ci onnipotenti. E sia una fase di onnipotenza reattiva alla sua impotenza, fase che tende a scomparire man mano che si delinea la differenza tra l’Io e gli altri, e quindi emerge anche il senso della realta`. Se questa delimitazione dell’Io (intesa come sentimento dell’Io) viene a cadere, e` comprensibile che il senso di onnipotenza possa riemergere: senso di onnipotenza che va considerato come conseguenza di un deficit dell’Io nel rapporto con la realta`. Abbiamo visto che l’incapacita` di mantenere la propria identita` ed il confine dell’Io puo` essere considerata la base, da un punto di vista psicodinamico, della schizofrenia. E questa psicopatologia si esprime con una specifica modalita` relazionale dello schizofrenico: o la simbiosi o la rottura del rapporto. Dobbiamo chiederci, a questo punto, da cosa e come si origina questa tipica modalita` relazionale. Le osservazioni cliniche e, soprattutto in questi ultimi decenni, la prassi relazionale-sistemica hanno evidenziato sempre piu` l’importanza della famiglia se non nel determinare, almeno nel mantenere il disturbo schizofrenico. ` quindi in questa direzione che dobbiamo E rivolgere la nostra attenzione. Un dato sicuro e` che raramente la famiglia dello schizofrenico e` una famiglia gravemente e manifestamente disturbata. ` abbastanza raro trovare gravi situazioni di E carenze affettive, o famiglie inesistenti, come e` tipico invece della famiglia della personalita` psicopatica. Invece, nell’ambito della famiglia dello schizofrenico, troviamo piu` frequentemente dinamiche o di marcata indifferenza (spesso manifestazione del carattere schizoide di uno o ambedue i genitori), oppure di stretta simbiosi: non infrequente una alternanza di queste due dinamiche. In linea di massima, l’A. S. stabilisce con il futuro schizofrenico una relazione basata o sulla indifferenza o sulla simbiosi, e sicuramente queste dinamiche relazionali sono importanti e forse determinanti. Ma se riteniamo che una particolare dinamica

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di rapporto sia la sola, unica causa della schizofrenia, difficilmente e` poi spiegabile il come ed il perche´, in quella stessa famiglia, altri figli possono essere abbastanza normali o completamente normali. Questa affermazione e` contestata da molti psichiatri, che sostengono che un attento esame dei membri familiari mostra che sono tutti al limite della patologia. Lo psichiatra che visita un soggetto affetto da schizofrenia tende a vedere numerose «stranezze» negli altri componenti della famiglia. Spesso pero` puo` trattarsi di una diagnosi autoindotta proprio dalla presenza, nel nucleo familiare, di un componente affetto da schizofrenia. Per dare una base meno soggettiva a questa sensazione, bisognerebbe fare una operazione inversa. In una sorta di doppio cieco, far esaminare da vari psichiatri soggetti, con parenti prossimi, sicuramente affetti da schizofrenia e far preventivare quali possibilita` hanno questi soggetti, sulla base dell’esame psicopatologico, di poter avere un congiunto affetto da schizofrenia. In questo modo avremmo dati meno soggettivi, e sicuramente molte «stranezze» che sono evidenziate dopo la diagnosi di schizofrenia al congiunto non sarebbero probabilmente piu` cosı` evidenti e palesi nei familiari. Inoltre non e` da sottovalutare il fatto che la convivenza, voluta o no, con una persona affetta da schizofrenia inevitabilmente comporta reazioni e modificazioni psicopatologiche nei vari familiari. Questo dato, cioe` la reazione allo schizofrenico, e` troppo spesso sottovalutato e non solo sul piano teorico, ma anche e soprattutto sul piano pratico. Non e` improbabile che la persona piu` vicina allo schizofrenico finisca con l’adottare strategie difensive, che possono essere simili alle modalita` comportamentali dello schizofrenico. Credo che il libro di C. Samona` Fratelli esprima chiaramente questa situazione di interdipendenza tra il paziente e chi gli vive vicino. ... Non le daro` un nome. La malattia rappresenta, nel nostro peregrinare, l’incognita permanente: una specie di oggetto invisibile prima ancora che una forza ostile.

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Ogni giorno ne constatiamo gli effetti, ne studiamo e fronteggiamo l’ubiquita` e la destrezza. Benche´ i disturbi di mio fratello riguardino soprattutto l’attivita` del pensiero, e solo di riflesso il suo corpo, la loro azione si rivela sempre materialmente. Ed e` in via di continua espansione. Non siamo mai certi di poter dire: questa cosa deriva dalla malattia, quest’altra invece ne e` immune; giacche´ la malattia, impalpabile e lenta, percorre di soppiatto ogni luogo senza lasciar prevedere dove, esattamente, ne´ in quale momento, soprendera` i nostri passi imbrogliandoli o modificandone il corso. Da quando, unico tra i miei familiari, ho accettato di assistere mio fratello e di abitare con lui nella grande casa, non ha mai rinunciato all’idea di combattere con ogni mezzo questa calamita`. La seguo da vicino come se avesse una forma, la spio, ne annoto con cura i sintomi e li metto in relazione fra loro. Ho un tale accanimento nel darle la caccia, perseguirla e snodarla, che a volte puo` sembrare anche che io la corteggi. Ma bisogna calcolare gli effetti di una convivenza coatta». «... Mentre mi adopero a strappare mio fratello allo stato in cui si trova, sento che egli compie su di me un’azione in qualche modo uguale e inversa alla mia: braccato da me, mi segue a sua volta incessantemente, visitato, mi sorprende e mi costringe a ribadirne le mosse. La nostra storia e` tutta in queste violazioni di territorio che si susseguono da una parte all’altra a confondere i nomi e i volti dei rispettivi invasori. (C. Samona`, Fratelli, pagg. 8-11)

La possibilita`, o meno, di potersi allontanare da un paziente schizofrenico non e` sempre e solamente funzione della capacita` psicologica di separarsi. Numerosi fattori possono rendere inevitabile una convivenza: obbligo di convivenza che diventa una trappola mortale, perche´ fonte di ulteriore patologia. Sul piano di un modello esplicativo, e` piu` euristico ritenere che un comportamento «particolare» del bambino possa determinare una reazione specifica nell’A. S. Per comportamento «particolare» dobbiamo intendere situazioni di ritiro autistico, di scarsa rispondenza o comportamenti bizzarri (che potrebbero essere determinati geneticamente o comunque attraverso alterazioni neurofisiologiche). Certamente non e` facile spiegare da cosa nasca questo comportamento «particolare» che tra l’altro sembra contrastare la pro-

posizione di una fondamentale sanita` , alla nascita, del bambino. Questa affermazione in effetti vuole solo proporre che non e` obbligatorio postulare una necessaria patologia alla nascita per spiegare la psicopatologia. Anche se non abbiamo dati sicuri possiamo pensare che a volte il bambino possa nascere con una situazione «particolare», che determina un suo comportamento anomalo. Questo comportamento anomalo puo` generare nell’A.S. due reazioni: o un completo rifiuto (indifferenza) o una estrema oblativita` (simbiosi): situazioni che possono ambedue contribuire ad alterare il successivo sviluppo dell’Io che ha difficolta` nel primo caso a strutturarsi, nel secondo invece a delineare i propri confini e la propria identita`. Ho cercato di descrivere, anche se sinteticamente, un quadro psicodinamico possibile e probabile del disturbo schizofrenico. La complessita` della malattia rende difficile, forse impossibile, tentare un unico modello di spiegazione, proprio perche´ c’e` una varieta` sindromica che mal si concorda con una ipotesi eziologica unitaria. Comunque cerchero` di proporre uno schema che tenga conto delle ricerche e dei dati clinici piu` recenti ed attendibili. 1)

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` da presupporre che il bambino che divenE tera` uno schizofrenico, o che avra` un episodio schizofrenico, a volte puo` nascere con una generica predisposizione o vulnerabilita`. I dati genetici e neurofisiologici sembrano confermare questa possibilita` che si evidenzia come una debole tendenza al rapporto: non e` infrequente nell’anamnesi degli schizofrenici trovare una difficolta` o un rifiuto di attaccarsi al seno. Questa situazione puo` determinare reattivamente nell’A.S., una modalita` relazionale che puo` oscillare dal rifiuto ad una totale oblativita`, oppure ad una alternanza di queste modalita`. Un dato accertato e` che le famiglie degli schizofrenici non sono famiglie inesistenti o che mostrano gravi e manifeste patologie. Questa modalita` di rapporto puo` determinare una alterazione nello sviluppo dell’Io

La schizofrenia

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del futuro schizofrenico, caratterizzato fondamentalmente da fragilita` e difficolta` di avere sia un valido sentimento dell’Io, sia una valida sensazione dei confini dell’Io. In situazioni di crisi, tipica e` la fase della puberta`: quando il soggetto deve affrontare una situazione nuova o comunque difficile, questo fragile equilibrio puo` essere frantumato dall’emergere di un’angoscia estremamente violenta. Si determina una «frattura esistenziale», una rottura psicotica che si evidenzia nella fase acuta con perplessita`, smarrimento, allucinazioni uditive, furto del pensiero ecc.; tutti segni che mostrano la rottura della fragile barriera tra l’Io dello schizofrenico ed il mondo. La rottura di questa barriera fa sı` che il mondo si popoli degli oggetti interni proiettati che successivamente invaderanno, come persecutori ed estranei, l’apparato psichico, senza difese, dello schizofrenico. Ma il crollo dell’Io comporta ulteriori conseguenze psicopatologiche: soprattutto defusione degli istinti e totale incapacita` di poter controllare le pulsioni distruttive. Questa situazione di rottura puo` durare piu` o meno a lungo, ma in genere prima o poi evolve: o verso una strutturazione paranoidea, espressione del tentativo di ricostruire quella realta` che e` andata in frantumi, o verso una situazione di totale distacco ed indifferenza, espressione di una dinamica di annullamento e di rinuncia al rapporto con il mondo. Nel primo caso ci troveremo di fronte ad un paziente che cerca, anche se in maniera bizzarra, di ritrovare un contatto: sono questi i pazienti che in un lavoro psicoterapico stabiliscono un tipico transfert psicotico caratterizzato dalla tendenza a massicce proiezioni ed alla costituzione di un legame simbiotico. Nel secondo caso, invece, di fronte ad una situazione di totale rinuncia e di distacco dal mondo e dagli altri: sono questi i pazienti che presentano una estrema difficolta`, a volte una impossibilita`, di stabilire un qualsiasi tipo di transfert. E la «stranezza», la «singolarita`» dello schizofrenico e` proprio in queste «singolari» o

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«strane» modalita` relazionali. O un distacco completo e totale, frutto dell’annullamento della realta` che li pone al di la` del mondo e li fa assumere quell’aria di «alienita`». O il singolare tentativo di ricostituire un legame simbiotico, attraverso un gioco di fantasmi, di oggetti persecutori, di proiezioni, frutto della negazione della realta`. Ovverosia: o Ho¨lderlin o Schreber. In conclusione, quindi, dobbiamo tener presenti due dati fondamentali: 1)

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in psicopatologia non esiste una eziopatogenesi lineare (come e` tipico dei disturbi organici) ma bensı` circolare, ovverosia l’effetto puo` diventare a sua volta causa. In questo senso e` ipotizzabile che un rifiuto, piu` o meno inconscio, gia` dal periodo della gravidanza potrebbe essere una causa che si evidenzia successivamente nel bambino come comportamento «anomalo». Ma questo comportamento potrebbe avere una sua causa anche in «quella generica vulnerabilita`» della schizofrenia. Comunque sia, questo comportamento puo` stimolare una reazione inadeguata dell’A. S. tale da peggiorare ulteriormente la situazione di rapporto del bambino, e quindi il suo sviluppo psicologico. la Psichiatria e` dominata da una aporia che e` il considerare collegati l’acquisito con il reversibile, ed il congenito con l’irreversibile. Sappiamo benissimo che situazioni interpersonali avvenute nei primi anni di vita (e quindi acquisite) possono essere successivamente irreversibili, il che non vuol dire che sono congenite.

6.4.2. Il modello relazionale o sistemico* (Luigi Onnis)

Il modello relazionale, o sistemico, della schizofrenia prende le mosse da una serie di ricerche

* L’Autore della sezione 6.4.2 «Il modello relazionale» e` Luigi Onnis, che ringrazio per questo contributo esemplare per chiarezza, concisione e completezza.

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compiute intorno alla meta` di questo secolo, sulle caratteristiche interattive e comunicative delle famiglie dei pazienti schizofrenici. Questa genesi storica, come pure il fatto che l’utilizzazione terapeutica piu` frequente e` il lavoro con il nucleo familiare, hanno frequentemente indotto ad una semplicistica omologazione dell’approccio sistemico alla schizofrenia con la terapia familiare della stessa. Uno degli obiettivi di questo scritto e` quello di sgombrare il campo da questo equivoco. Prendero` in considerazione, dapprima, i presupposti teorici del modello e ne discutero`, successivamente, le applicazioni cliniche e in particolare l’influenza che l’utilizzazione di tale approccio puo` esercitare sia sugli atteggiamenti del terapeuta, che sull’evoluzione stessa della malattia. Ma il discorso ruotera` intorno ad una esigenza generale di chiarificazione. Lavorare con la famiglia degli schizofrenici non significa, infatti, proporre una nuova ipotesi etiologica della schizofrenia, cioe` che la famiglia sia «causa» della schizofrenia del paziente. Significa, al contrario, utilizzare un nuovo paradigma concettuale (nel senso di Kuhn, 1962), il paradigma sistemico, che segna il passaggio da un modello di causalita` lineare ad uno di causalita` circolare, da una valutazione che propone il comportamento umano solo come attributo dell’individuo ad una che lo considera, invece, anche «funzione di un contesto», cioe` gli riconosce significato soprattutto all’interno della rete di relazioni e quindi della situazione ambientale in cui appare. L’uso di un approccio sistemico alla schizofrenia rappresenta, dunque, un vero e proprio cambiamento epistemologico. Ecco perche´ sarebbe piu` corretto parlare di psicoterapia «sistemica», anche se il nucleo familiare e` quello su cui piu` frequentemente e` centrato l’intervento terapeutico.

6.4.2.1. I presupposti teorici

Naturalmente questa trasformazione concettuale cosı` profonda non avvenne all’improvviso, ma fu preparata da una lunga serie di studi sulle

famiglie dei pazienti schizofrenici, che si articolo` prevalentemente tra gli anni ’50 e ’60. Ma furono soprattutto tre i gruppi di ricerca che maggiormente contribuirono a formulare le ipotesi che gradualmente determinarono un cambiamento delle idee: il gruppo di Lidz, quello di Wynne, quello di Bateson. Prendero` sinteticamente in esame le ipotesi elaborate da questi ricercatori: A) Lidz, Cornelison, Fleck e Terry (1957) formularono una ipotesi secondo la quale l’influenza della famiglia sulla comparsa della schizofrenia avviene in base a un processo che essi definiscono «trasmissione della irrazionalita` » («transmission of irrationality»). Partendo dalla valutazione che le funzioni della famiglia sono essenziali per lo sviluppo della personalita`, essi constatarono che i pazienti schizofrenici sono, quasi sempre, nati e cresciuti in famiglie disturbate. Essi notarono la presenza nei genitori di comportamenti inadeguati all’eta` e ai ruoli sessuali, e la tendenza dei coniugi, che essi definirono «deviazione coniugale», a condividere e ad accettare una visione distorta della propria relazione, del matrimonio, della vita familiare. «Si determina cosı` — scrivono Lidz e Coll. (1957) — un considerevole mascheramento delle potenziali fonti di conflitto, il che da` vita a un’atmosfera in cui cio` che viene detto e ammesso differisce da cio` che e` realmente sentito e fatto». In tal modo il bambino apprende in famiglia (ed in cio` consiste la «transmission of irrationality») una visione del mondo, dei genitori e della famiglia stessa culturalmente atipica e deformata. L’ipotesi di Lidz sulla schizofrenia e`, dunque, sostanzialmente una rielaborazione della teoria secondo cui genitori nevrotici e narcisisti sacrificano i figli al fine di mantenere il proprio precario adattamento. Sotto questo profilo, l’impostazione concettuale di Lidz appare ancora molto vicina alle idee sulla «madre schizofrenogena» di Frieda-Reichmann (1948); propone cioe`, ancora, una visione delle influenze familiari in termini strettamente eziologici, secondo cui la famiglia, e piu` specificamente i genitori, sono la «causa» della schizofrenia del paziente.

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B) La seconda ipotesi e` quella elaborata da Wynne, Ryckoff, Day e Hirsch (1958) che descrissero nelle famiglie con paziente schizofrenico una particolare organizzazione delle relazioni interpersonali che essi chiamarono «pseudomutuality», indicando con tale termine «il predominio dell’adattamento dell’uno all’altro, a spese della differenziazione della identita` delle persone implicate nel rapporto». Si presume che tutti in famiglia debbano condividere le stesse aspettative e, per mantenere questa illusione, ogni opinione autonoma e` impedita e ogni divergenza negata, perche´ sentita come minaccia insopportabile. In queste condizioni puo` accadere che la persona entri in ansia, fino al panico e alla rottura psicotica, proprio nel momento (di solito l’adolescenza) in cui sta cominciando a tentare di assumere una propria individualita`. Mentre in questo primo lavoro di Wynne l’accento e` posto sui comportamenti legati ai ruoli e sulla struttura dei ruoli familiari, in lavori successivi scritti in collaborazione con Margareth Singer, l’attenzione e` maggiormente focalizzata sugli stili comunicativi. «La nostra ipotesi — scrivono Wynne e Singer (1965) — e` che gli stili di attenzione, percezione, pensiero, comunicazione e relazione utilizzati nelle transazioni familiari orientino con ogni probabilita` lo sviluppo cognitivo dei figli in certe direzioni, sia fungendo da modelli di identificazione, sia stimolando comportamenti complementari. Ne deriva che una volta che il figlio e` cresciuto in un determinato tipo di famiglia, il suo modo di comportarsi e di sperimentare la realta` si adattera` perfettamente a quella specifica famiglia che, da un punto di vista transazionale, lo ha prodotto e che egli ha contribuito a produrre». L’ipotesi di Wynne, specialmente in questa ultima formulazione e come emerge dalla frase appena citata, si discosta da quella di Lidz, tutta centrata ancora su concetti di causalita` lineare e cioe` di «causa-effetto»; Wynne, piuttosto che considerare la schizofrenia come «effetto» di certi stili interattivi e comunicativi familiari, tenta, invece, di mostrare come essa si «conformi» piuttosto a particolari modelli di comunicazione di cui sia la famiglia che il paziente schizofrenico cominciano ad essere visti come «compartecipi».

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C) La terza ipotesi teorica fu quella che si rivelo` piu` fertile di sviluppi nel determinare un compiuto rinnovamento concettuale: e` l’ipotesi del «double-bind», formulata da Bateson, Jackson, Haley e Weakland, nel saggio del 1956 intitolato «Toward a theory of schizophrenia». Gli Autori identificarono nelle famiglie con paziente schizofrenico particolari modalita` comunicative che hanno le caratteristiche della comunicazione paradossale e che essi chiamarono «double-bind» (doppio legame). Sotto il profilo formale, come e` noto, la struttura del «double-bind» puo` essere riassunta in tre componenti principali: —





due o piu` persone sono coinvolte in una relazione particolarmente intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e psicologica per una di esse; in tale contesto viene mandata una comunicazione che, a due livelli diversi, contiene due messaggi, tali che si escludono a vicenda, per cui la comunicazione, che e` frequentemente una «ingiunzione», acquista i caratteri della ingiunzione paradossale; infine si impedisce a chi riceve la comunicazione di uscire fuori dallo schema stabilito da quest’ultima, sia evitando di rispondere, cioe` abbandonando il campo, sia «metacomunicando», cioe` evidenziando l’incongruita` contenuta nella comunicazione. Infatti, poiche´ si tratta di una ingiunzione, non ci si puo` sottrarre all’obbligo di risposta, ma la risposta stessa, essendo l’ingiunzione paradossale, non potra` che avere caratteri di paradossalita`, acquistando spesso la fisionomia del comportamento sintomatico ed esponendo al rischio della designazione di follia. D’altra parte la possibilita` residua, quella di metacomunicare, e` anch’essa esposta a probabili definizioni di cattiveria o ancora di «follia». La tragicita` di chi si trova in una situazione di «double bind» e`, appunto, che egli fallisce, cioe` puo` essere punito, qualsiasi cosa faccia.

Bateson e Coll. sono assolutamente espliciti nell’affermare (precisando tale concetto nei lavori successivi: vedi, per es., Weakland, 1960) che

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il «double-bind» e` una modalita` comunicativa a cui partecipano tutti i membri della famiglia: si tratta cioe` di un modello organizzato di interazione che caratterizza l’intero sistema familiare. Esso non corrisponde, dunque, a un «trauma» isolato, ma a una esperienza comunicativa ridondante e ripetuta nel tempo, capace, proprio per questo, di provocare disturbi nella visione della realta`; tanto che, come affermano gli Autori, «quando il soggetto ha ormai appreso a percepire il suo universo secondo un modello di «doublebind», non e` necessario che intervengano tutte le componenti di quest’ultimo, perche´ una sola di esse sara` sufficiente a provocare una reazione di confusione e di panico; e il modello delle ingiunzioni contraddittorie puo` allora essere assunto anche da voci allucinatorie» (Bateson e Coll., 1956). Ma l’aspetto importante della teoria di Bateson e Coll., come essi vanno progressivamente definendola nei loro lavori, e` l’impossibilita` di stabilire un rigido rapporto causale tra genitori «persecutori» e figlio «vittima». Jackson (1965) sottolinea che «non esiste alcuna risposta possibile ad un «double-bind» se non un messaggio altrettanto e ancor piu` paradossale». Ma se un «double-bind» produce un comportamento paradossale, allora sara` proprio questo comportamento a «legare-doppio», a sua volta, il «doppio-legatore», cosı` che si crea un circolo vizioso che tende, inesorabilmente, ad autoperpetuarsi. In un modello cosı` configurato non e` piu` lecito, dunque, affermare che sono i genitori che causano la schizofrenia imponendo double-binds. Piuttosto tutti i partecipanti presentano certi comportamenti perche´ all’interno di un modello interattivo di double-bind non esiste altra scelta. Ma allora, in questo senso non e` il paziente designato («the identified patient») ad essere schizofrenico, ma la rete di relazioni o il sistema comunicativo cui egli partecipa. Con l’ipotesi del double-bind di Bateson e Coll., dunque, il rovesciamento epistemologico, di cui ho cercato di ricostruire le tappe, e` compiuto.

Dalla schizofrenia come «misteriosa malattia della mente individuale» si passa alla schizofrenia come «modello specifico di comunicazione»; da un modello medico-deterministico si passa a un modello familiare-relazionale; da una epistemologia eziologica o causalistica si giunge ad una epistemologia circolare o sistemica.

6.4.2.2. L’influenza del modello terapeutico adottato sulla definizione e l’evoluzione della malattia

La scelta dell’uno o dell’altro di questi due modelli ha ripercussioni dirette sul rapporto terapeutico, in particolare sotto due aspetti: la «comprensibilita`» della malattia e le implicazioni dell’intervento del terapeuta (vedi Onnis, 1984). Vediamo innanzitutto l’influenza che assume il punto di vista dell’operatore psichiatrico agli effetti della definizione e della comprensione della schizofrenia. Se l’operatore adotta il punto di vista di chi ritiene che la persona che soffre e` schizofrenica per sue caratteristiche intrinseche, allora, qualunque sia la natura del danno che li provoca, i sintomi del paziente sono soltanto manifestazioni di malattia, che appaiono «incomprensibili», in primo luogo perche´ non e` necessario comprenderli in quanto trovano in se stessi la loro giustificazione: «presenta questi sintomi perche´ e` schizofrenico». Ma se l’operatore adotta il punto di vista di chi ritiene che la persona che soffre agisce in modo definito tradizionalmente schizofrenico perche´ partecipa ad una situazione complessiva di disagio (che, se si vuole, possiamo per convenzione continuare a chiamare «schizofrenia»), allora i sintomi del paziente acquistano la dignita` di comportamenti, che recuperano comprensibilita` non appena sia possibile osservarli nel contesto in cui compaiono, cioe` restituirli, in senso sincronico e diacronico, alla loro storia. Ma allora l’incomprensibilita` o la comprensibilita` dei sintomi schizofrenici non sono proprieta` intrinseche alla malattia, ma sono pure proiezioni dell’ottica in cui si colloca l’operatore, che lo mette in condizione di essere, o no, capace di comprendere, di raccogliere, o no, informazioni

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sufficienti sulla situazione in cui il comportamento sintomatico appare. Ma il punto di vista dell’operatore diventa decisivo non solo sulla definizione della malattia, ma, soprattutto, sulla sua evoluzione in base alle caratteristiche dell’intervento. Infatti, l’operatore che interviene sulla sofferenza del paziente, orientato da un modello medico di schizofrenia, nel momento stesso in cui formula una diagnosi di «malattia», cancella i dubbi eventualmente ancora presenti nei familiari e nell’ambiente circostante sulla possibilita` di capire cio` che sta accadendo al paziente designato; si accentua in quest’ultimo l’incertezza sulla sua capacita` di comprendere, egli stesso, la sua esperienza di disagio; si conforma, inconsapevolmente, proprio alle regole di un sistema interattivo in cui, come si e` visto, tutte le comunicazioni procedono sotto il segno della invalidazione e della disconferma. Il risultato di un intervento di questo tipo e` inevitabilmente un rinforzo della designazione del paziente, che e` avviato verso una «carriera di malattia», per usare una espressione di Goffman, cio` che aumenta i rischi che venga imboccato un itinerario, spesso irreversibile, di istituzionalizzazione, o, comunque, di cronicita`. L’esito puo` essere profondamente diverso quando, invece, l’operatore non intervenga sulla «malattia» di un singolo, ma su una situazione interattiva di disagio, allargando le possibilita` del comprendere e restituendo a tutti, a cominciare dal paziente, il senso di una sofferenza di cui tutti sono partecipi; lavorando verso una «ristoricizzazione» della crisi schizofrenica, che puo` travalicare i confini, laddove sia possibile e utile, del sistema familiare o del gruppo microsociale su cui l’operatore inizialmente e` chiamato ad intervenire. Il risultato di un intervento di questo tipo, in cui l’operatore non si conforma alle regole del sistema ma si propone come agente effettivo di cambiamento, e` spesso un emergere di potenzialita` di maturazione e di crescita che gli episodi psicotici acuti frequentemente nascondono (vedi tra gli altri Jackson & Watzlawick, 1963). La stessa evoluzione della schizofrenia, cosı` come la sua definizione, non e`, dunque, tanto l’effetto di proprieta` intrinseche della malattia, quanto, piuttosto, ancora una volta, il risultato di

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una interazione, quella con l’operatore. Se si accetta un punto di vista sistemico, cio` e` perfettamente chiaro anche sotto un profilo concettuale, perche´ nel momento in cui l’operatore interviene, il sistema di cui deve valutarsi l’evoluzione non e` piu` solo il sistema su cui l’intervento e` attuato, ma un nuovo e piu` complesso sistema che ora include anche l’operatore e il suo intervento2. Ma anche al di fuori di un campo di lavoro in senso strettamente sistemico, sono oggi numerose le ricerche che confermano l’influenza delle modalita` d’intervento terapeutico sul decorso e gli sviluppi di una situazione, specie se acuta, di sofferenza (Hollingshead & Redlich, 1958; C. N. R. 1984; Onnis, 1988). «Il destino della crisi schizofrenica non e` , dunque, intrinsecamente e naturalmente dato, con l’operatore psichiatrico, con i tecnici che lo gestiscono, con le istituzioni che ne ufficializzano e ne codificano gli atti, con le ideologie che esse esprimono» (Cancrini & Onnis, 1979). E quindi, ancora, con i modelli cui si riferiscono.

6.4.2.3. Conclusioni

Se, piu` di mezzo secolo fa, gia` Bleuler (1911) parlava del «gruppo delle schizofrenie» per indicare l’eterogeneita` della genesi e delle manifestazioni cliniche, cosı` oggi, rovesciando la prospettiva, appare lecito sostenere che esistano tante schizofrenie quanti sono i modelli interpretativi e di intervento di cui si fa uso. Tra questi il modello sistemico sembra avere una sua utilita` e dare un contributo importante alla comprensione del fenomeno «schizofrenia», soprattutto se mantiene i suoi caratteri di nuova prospettiva epistemologica

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Gia` J. Haley (1981) aveva lucidamente notato come i diversi modelli interpretativi della schizofrenia utilizzati dal terapeuta influenzino profondamente l’intervento e l’esito del processo terapeutico. Queste considerazioni si legano perfettamente a un dibattito epistemologico, oggi molto vivo nel campo sistemico, sull’«inclusione dell’osservatore nel proprio campo di osservazione» e sull’«auto-referenzialita`» dei sistemi (H. Von Foester 1981, Maturana e Varela, 1980) e, quindi, nel fatto che il terapeuta sia co-partecipe della «costruzione» della realta` terapeutica, che diventa, a tutti gli effetti, una «costruzione a due» (L. Onnis 1989).

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che integra e collega circolarmente le molteplici componenti in gioco e non decade, come talora succede, a mera «tecnica» di intervento che sostituisce la patologia delle famiglie alla patologia degli individui (vedi Onnis, 1981). Il modello sistemico non vuole, ne´ puo`, pretendere, pero`, di dare a un problema cosı` complesso come la schizofrenia risposte esaustive o soluzioni definitive. Cio`, del resto, tradirebbe una epistemologia in cui tutto, a cominciare dalle teorie, e` dinamico, contestuale e storicizzabile. E puo`, quindi, essere, nel tempo, criticato e superato.

7. Diagnosi differenziale «Nei casi pronunciati, la diagnosi di schizofrenia e` facile; nei casi poco avanzati, e` molto difficile. I sintomi devono raggiungere un certo livello per consentire la diagnosi. Ma proprio nei casi lievi l’intensita` delle manifestazioni di base varia moltissimo dal ‘‘non sano’’ al ‘‘non malato’’. Le anomalie di carattere, l’indifferenza, la mancanza di energia, l’intolleranza, l’ostinazione, la capricciosita`, le bizzarrie, le lamentele ipocondriache, non sono necessariamente sintomi di una malattia mentale, ma sono spesso gli unici sintomi evidenti di una schizofrenia. Nessuna altra malattia ha una soglia di discriminazione cosı` alta. I casi di schizofrenia latente sono un fatto quotidiano» (E. Bleuler, 1911). Con queste parole, Bleuler inizia la parte V della sua monografia «Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie» dedicato appunto alla diagnosi. E credo che a distanza di ormai 90 anni queste affermazioni siano completamente condivisibili, soprattutto l’ultima affermazione. Nessun disturbo psichico e` cosı` poco evidente quando non presenta sintomi eclatanti, ma anche nessun altro disturbo psichico e` cosı` tanto avvertibile da un osservatore attento, sulla base di una generica sensazione di fastidio collegata all’indifferenza, alla stranezza, alla diversita` assoluta della schizofrenia. Le difficolta` di riconoscere e di rapportarsi con pazienti del genere sono ancora sottolineate da Bleuler. «Quando la malattia si arresta agli stadi precoci e` facile che sia profani che psichiatri la misconoscano. Si

passa la vita a litigare con casalinghe schizofreniche, si prendono provvedimenti disparati contro ‘‘figli degeneri’’, famiglie angosciate dilapidano intere fortune; malati con dolori allucinatori vengono ricoverati con diagnosi di rene mobile, si abbandona il paziente alla polizia e alla giustizia, cioe` alle istanze meno adatte per un trattamento psicologico, oppure si prendono sul serio questi malati e si lascia che fondino associazioni contro un cancro della societa` scoperto da loro o da qualche altro; si fanno insomma, tante cose che sarebbe meglio non fare» (E. Bleuler, 1911). Se queste sono le cose da non fare, bisogna allora considerare quali sono le cose da fare. Certamente alcuni criteri fondamentali permettono, perlomeno, di porre un sospetto generico di psicosi schizofrenica. Un primo fattore e` la lucidita`; quanto piu` i sintomi di discordanza affettiva, di blocco del pensiero, di perplessita`, di indifferenza, compaiono in uno stato di perfetta lucidita`, tanto piu` sono da riferirsi ad un disturbo schizofrenico. Anche la scissione sistematica della personalita`, con la coesistenza di vari frammenti, senza perdita dell’orientamento rispetto all’ambiente e` un segno estremamente significativo. «... Le idee improvvise, soprattutto se sono insensate e contraddicono il resto della personalita`, sono un segno abbastanza sicuro della schizofrenia; la modalita` schizofrenica dell’attenzione e` inconfondibile: malgrado l’assoluta mancanza di interessi, la registrazione passiva degli eventi funziona in modo impeccabile. Ho visto simili comportamenti solo nella schizofrenia». (E. Bleuler, 1911). Sul piano anamnestico, un dato importante e` il cambiamento del carattere, improvviso quanto ingiustificato rispetto alla situazione ambientale e psicologica. Altro segno molto particolare e caratteristico e` la comparsa di un riso immotivato ed anaffettivo. Ma forse un dato fondamentale rimane l’indifferenza. «L’indifferenza stabile nei confronti degli interessi vitali e` schizofrenica, anche se su temi meno significativi hanno una coloritura affettiva normale». (E. Bleuler, 1911). Molti AA. (Jaspers, Schneider, Mayer-Gross ecc.) considerano l’impossibilita` di provare empa-

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tia e l’impossibilita` di stabilire un rapporto o un contatto con lo schizofrenico come un segno patognomico o fondamentale. «Tale sintomo e`, ovviamente, soggettivo, ma tuttavia e` bene non trascurarlo, come e` anche bene prendere in considerazione altre espressioni fisionomiche, quando si incontra per la prima volta uno schizofrenico. La prima impressione ha la sua importanza, e difficilmente la si riprova in un successivo incontro con il malato; essa e` piu` spesso giusta che errata, anche se poi svanisce, e viene considerata errata quando l’attenzione e` rivolta alla analisi delle idee e delle spiegazioni che fornisce il paziente». (Mayer-Gross W., 1949). Questa riflessione, molto giusta, sottolinea due rischi, sempre presenti nel rapporto con il malato mentale in genere, con lo schizofrenico in particolare. O un atteggiamento troppo distaccato, che porta ad intuire questa mancanza di empatia ed a trasformare questa sensazione in una certezza diagnostica: o un atteggiamento troppo preso dallo «spiegare» e dal «comprendere» i sintomi, che porta a sottovalutare la globalita` della persona e quindi l’entita` del disturbo. La schizofrenia e` uno dei casi tipici ove il colloquio psichiatrico deve oscillare tra un atteggiamento clinico oggettivante ed uno partecipativo (vedi il colloquio psichiatrico). Questa «sensazione» di una mancanza di empatia, o comunque di stranezza, va attentamente valutata soprattutto in eta` adolescenziale. ...Nell’adolescenza i normali processi di sviluppo tendono a generare un atteggiamento di ribellione e di polemica verso i genitori e gli educatori, la maturazione sessuale genera spesso timidezza, perplessita`, leggera depressione, ansieta`, preoccupazioni ipocondriache nei riguardi del proprio corpo e vergogna per la masturbazione. Sono anche abbastanza normali le meditazioni degli adolescenti sul significato della vita, della religione, dell’amore. Solo se queste riflessioni si prolungano per molto tempo o se portano ad una rottura con la realta`, esse non costituiranno piu` una fase transitoria, ma saranno da imputarsi alla schizofrenia... I segni precoci aspecifici che possono allarmare i parenti comprendono i sogni ad occhi aperti, il

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carattere chiuso e violento, gli atteggiamenti indisciplinati, l’abitudine alla critica per la critica, la mancanza di energia, il disinteresse per il lavoro e per il gioco (Gillies, da Mayer-Gross).

Comunque, quando mancano segni evidenti come le allucinazioni, i deliri, una profonda alterazione del rapporto con la realta`, la diagnosi si basa fondamentalmente su disturbi del pensiero e dell’affettivita`. I disturbi del pensiero, sulla cui importanza Bleuler ha richiamato insistentemente l’attenzione, si manifestano quali effetti della dissociazione di base: intoppi, scuciture del pensiero, deragliamento delle associazioni ecc. Questi sono gli aspetti del disfunzionamento del pensiero considerato sulla base di una psicologia associazionistica. AA. successivi hanno centrato invece l’attenzione sulla modalita` globale del pensiero schizofrenico. Arieti ritiene che «nella schizofrenia il soggetto abbandona il regno dell’astratto e si ritira nel concreto». «Specialmente all’inizio delle psicosi, lo schizofrenico non solo perde l’astratto, ma trasforma l’astratto in concreto». (Arieti, 1955) Per altri AA., invece, si avrebbe un processo esattamente contrario: lo schizofrenico tende a trattare gli altri non come persone, ma come se fossero categorie. Questo fenomeno sarebbe alla base del delirio, ove reali avvenimenti (nucleo storico del delirio), collegati quindi a persone reali, vengono attribuiti a categorie intere (come i massoni, i comunisti, abitanti di altri pianeti, ecc.). Sempre secondo Arieti, inoltre, lo schizofrenico regredirebbe ad un livello di pensiero paleologico. Il pensiero paleologico e` cosı` caratterizzato da Von Domarus: «Mentre la persona normale accetta l’identita` solo sulla base di soggetti identici, il pensiero paleologico accetta l’identita` basata su identici predicati». (Arieti, 1955) L’esempio classico e` il seguente «Tutti gli uomini sono mortali; Socrate e` un uomo, quindi Socrate e` mortale». Questo e` un ragionamento ove l’identita` e` accettata solo sulla base di soggetti identici. Mentre uno schizofrenico puo` formulare questo pensiero «Il Presidente degli Stati Uniti e` americano: XY e` americano, quindi XY e`

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il Presidente degli Stati Uniti»; ove e` il predicato (essere americano) che porta ad una identificazione fra persone completamente diverse. Come si vede, il principio di Von Domarus porterebbe a ritenere che lo schizofrenico tende non a concretizzare ma ad astrarre, arrivando a conclusioni completamente irreali. A volte questi elementi possono essere appena percepibili, ma sono sicuramente indizio di un disturbo di tipo schizofrenico. Accanto ai disturbi del pensiero, fondamentali sono anche i disturbi dell’affettivita`, caratterizzati da discordanza affettiva e da indifferenza, che spesso determinano nell’osservatore quella particolare sensazione che viene definita di praecoxgefu¨hl (W. Winkler, 1971). Se questi elementi servono a porre una ipotesi generica di psicosi schizofrenica e` evidente che e` necessario porre, subito dopo, una diagnosi specifica e quindi differenziale rispetto a numerosi disturbi psichiatrici. Una diagnosi differenziale importante va posta, soprattutto nei soggetti giovani, con la depressione. Compito non sempre facile perche´ l’inibizione psicomotoria puo` essere scambiata con l’apatiaabulia, il distacco dalla realta` con l’autismo, la perdita del futuro con l’indifferenza. Credo che in questi casi l’elemento dirimente e` la coloritura affettiva. Nel depresso c’e` sempre un dolore, una tristezza, «un sentimento di perdita dei sentimenti», che e` molto raro riscontrare nello schizofrenico. Quando invece ci troviamo di fronte ad una melanconia involutiva, la diagnosi differenziale con una forma paranoidea puo` essere abbastanza difficile. Il catatonico si differenzia dal depresso inibito per l’attenzione e la vigilanza con cui segue tutto cio` che succede intorno a lui, a differenza del depresso che e` immmerso nel suo dolore. Non sempre facile e` la diagnosi differenziale con la mania, soprattutto quando si arriva a stati stuporosi e quando c’e` una componente confusionale che puo` rendere il quadro clinico piu` bizzarro. In genere l’elemento decisivo e` lo studio dello stato affettivo e della concordanza di questo, pur nell’eccesso, con il resto del comportamento del paziente. In situazioni organiche, prima fra tutte l’epilessia, la diagnosi differenziale basata sui soli sin-

tomi e` difficile. In questi casi, come anche in quelli da intossicazione da sostanze psicotrope, la presenza di un disturbo confusionale, piu` o meno grave, deve far propendere la diagnosi per un disturbo organico: o comunque la diagnosi di schizofrenia va posta solo dopo il ritorno ad una situazione lucida di coscienza. Altra diagnosi differenziale deve essere posta con le personalita` psicopatiche, che sono estremamente insensibili ed indifferenti, tratti che possono essere presenti anche nei casi di schizofrenia latente. Complessa invece la diagnosi differenziale con gli stati onirici dell’isteria. Non e` infrequente che questi stati possano non essere riconosciuti subito come processi schizofrenici (Lalli-Pancheri, 1968). Sul piano diagnostico bisogna tener presente che mentre il sintomo di conversione somatica in genere «protegge» il soggetto da ulteriori decompensazioni, i sintomi di conversione psichica invece, e in primo luogo gli stati onirici, possono rappresentare vie di entrata nella schizofrenia. L’unico dato significativo, sul piano della diagnosi differenziale, e` la compromissione dello stato di coscienza: quanto e` maggiore, tanto meno e` da pensare ad una forma schizofrenica. Infine un problema molto importante, sia sul piano diagnostico ma piu` spesso anche sul piano peritale, e` legato alla possibilita` di dissimulare la propria schizofrenia. Bleuler ne ha descritti vari casi. Forse il caso piu` eclatante e` stato quello di Rudolf Hess che «...mediante questo lunatico stratagemma, riuscı` ad impedire ad un consesso di esperti di vari paesi di giungere ad una facile diagnosi». (J. R. Rees, da Mayer-Gross). Comunque una diagnosi differenziale, in alcuni casi, puo` essere posta solo dopo un lungo periodo di attenta osservazione.

8. Il caso clinico Si tratta di una paziente con una storia abbastanza tipica. Un esordio subdolo, degli episodi acuti e un progressivo deterioramento della personalita`. Giovane donna di trent’anni: gia` visitata precedentemente in occasione del secondo episodio

La schizofrenia

di cui riporto le notizie piu` importanti. La paziente aveva avuto un primo episodio psicotico a diciott’anni, insorto dopo una permanenza di circa due mesi all’estero, ove si era recata per apprendere l’inglese. Al ritorno si era evidenziato un quadro di progressiva chiusura, fino ad un grave stato di inibizione psicomotoria che aveva reso necessario il ricovero ed un trattamento di ESK. Dimessa, la paziente ‘non si era sentita piu` se stessa’. Chiusa, con scarsi rapporti interpersonali, senza entusiasmo, anche se molto diligente sul lavoro, sembrava aver trovato un adattamento di tipo difettuale. A 28 anni conosce un ragazzo inglese che vive in Italia; lo frequenta per un poco, poi decide di voler andare a vivere con lui. Decisione che suscita notevoli reazioni negative da parte della madre, che le preannuncia che questo rapporto andra` a finire male perche´ il ragazzo e`, secondo lei, uno schizofrenico. A fronte di questo atteggiamento di palese ostilita`, la madre, con un comportamento tipicamente ambivalente, allestisce un piccolo appartamento dove la coppia andra` a vivere. Il giorno in cui la paziente tramuta in atto la sua decisione sembra trascorrere abbastanza normalmente. La paziente non vuole dare nessuna esteriorita` a questo avvenimento (essa rifiuta di sposarsi e di fare cerimonie), e pertanto, nonostante le enormi tensioni che si erano accumulate, quest’avvenimento viene vissuto dalla paziente e da tutta la famiglia come un fatto normale: un giorno uguale a tutti gli altri. Durante la notte, pero`, la paziente, parlando con il suo ragazzo, tenta di esternare le preoccupazioni ed i timori per le eventuali possibili reazioni della madre. Il ragazzo nega tutto, dice che tutto andra` bene, e la invita a dormire. Ma la paziente non riesce a dormire, ed e` sempre piu` angosciata, soprattutto dallo sguardo di lui: «e` uno sguardo come quello di mia madre». Si alza, ed in vestaglia scappa, diretta a casa dei genitori, che fortunosamente riesce a raggiungere. Qui viene accolta dalla madre che, nonostante la stranezza dell’avvenimento e dell’abbigliamento, non fa nessun commento, non chiede nulla, ma la invita a riposarsi. La paziente si mette vicino alla

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madre, ma poco dopo comincia ad agitarsi e a gridare. Niente riesce a calmarla: un medico chiamato ordina il ricovero. Nel corso di alcuni colloqui avvenuti durante il ricovero, si mette in evidenza quanto segue. La paziente e` vissuta in una famiglia con un padre tanto inesistente quanto buono, ed una madre che ha trascorso la sua vita a litigare sistematicamente con tutti (fino a rimanere socialmente isolata), ed ha quindi ripiegato, come sua unica ragione di vita, sulla famiglia. Il comportamento della madre e` tipico: da una parte una oblativita` materiale fino al sacrificio, dall’altra la tendenza a sottomettere tutti. La figlia non esiste: anche quando la paziente e` gia` grande, tutto passa per le mani della madre. Le telefonate, la corrispondenza, i rari rapporti affettivi; e` la madre che sceglie i vestiti per la figlia che li indossa anche quando non le piacciono. Se qualche volta sua figlia protesta, la madre le dice che puo` andarlo a cambiare; pero`, sistematicamente dimentica il nome e la via del negozio. Di fronte a questa situazione, la paziente a diciotto anni tenta di andare via di casa: ma e` troppo fragile, la permanenza in un paese straniero non facilita certo la sua autonomia. Rimane sempre chiusa in casa, mangia moltissimo. Ritorna a casa obesa e con una situazione di totale sconfitta e fallimento: si chiude sempre piu` in se stessa. Questo quadro, progressivamente, si trasforma in un blocco di tipo catatonico, per cui viene ricoverata. Successivamente, anche a causa della terapia ESK che le lascia una marcata amnesia, la paziente si sente distrutta: trova un lavoro che riesce a svolgere in maniera automatica. Dopo qualche anno la paziente pratica un intervento chirurgico di riduzione del seno: nonostante questo tendera` ulteriormente a ridurlo e renderlo sempre meno visibile, con una stretta fasciatura. ` uno dei tanti tentativi incongrui: cercare di E nascondere la propria femminilita`, per negare l’identificazione ed il legame con la madre, che rimane in fondo il suo problema centrale. A 28 anni, come ho accennato prima, ritenta per la seconda volta di trovare un minimo di autonomia, andando a convivere con un ragazzo che aveva conosciuto occasionalmente e che, straniero, era anche lui completamente isolato. Ma la paziente

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

si trova da una parte di fronte alle sue paure, e dall’altra di fronte ad una persona non solo assente, ma che le ripropone la stessa dimensione, «lo stesso sguardo» della madre. Anche lui infatti tende ad annullare ogni problematica della paziente, come la madre che, provvedendo a tutti i suoi bisogni materiali, le negava ogni dimensione psichica. Due anni dopo questo secondo episodio, che regredira` con terapia neurolettica nell’arco di circa 2 mesi, una mattina improvvisamente la paziente arriva accompagnata da due familiari. Quando mi vede, non mostrando di riconoscermi, ` molto angosciata: si entra e chiude la porta. E mette con le spalle al muro, di fronte a me, guarda verso l’alto, bisbiglia qualcosa come se rispondesse a delle allucinazioni uditive. Non parlo, la osservo semplicemente, cercando di capire e sentire cosa possa provare la paziente. Strisciando lungo il muro, si dirige alla finestra, si affaccia, ritorna indietro e di nuovo si rimette di fronte a me, con le spalle al muro: timore di avere le spalle scoperte, e necessita` di controllare tutto. Dopo circa mezz’ora, e senza che apparentemente succeda niente di particolare, avverto che la tensione tende a diminuire. Mi mostra tre dita della mano destra: «tre, sono tre... lo vede sono tre». «Forse, dico io, «si sente divisa in tre parti: lei, sua madre, Robert». La paziente mi guarda con attenzione poi prosegue: «Tutte incinte, ma io no, io no... sono sterile». Una lunga pausa, poi rivolta a me: «Lei e` un ostetrico?... Sı`, forse e` un ostetrico». (Dopo un lungo silenzio iniziale, la paziente ha cominciato a parlare di se´, e poi subito dopo, senza apparentemente riconoscermi, si rivolge a me direttamente. In questa domanda/affermazione la paziente propone una chiara indicazione: evidentemente debbo aiutarla a tirar fuori qualcosa). La paziente ` tutto morto! E ` tutto more` molto angosciata: «E to!». Alcuni minuti di silenzio, poi: «Dov’e` Robert, anzi Roberto, lo hanno ammazzato!» Si precipita fuori dalla stanza, si dirige verso i familiari poi ritorna, chiude la porta e dice: «Volevo vedere se ` la prima comunicazione c’era mio fratello» (E che la paziente fa sulla realta` circostante). «Forse vuol sincerarsi con i suoi occhi che le persone che

non vede non sono scomparse o morte, ma che esistono», dico io. «Sı` ma tutto e` finito, il mondo e` morto!» Poi, sempre molto angosciata, la paziente, parlando in maniera simbolica e frammentaria, esprime una serie di fantasticherie. Tutto il mondo e` finito, lei e Roberto stanno nel paradiso terrestre. «...come Adamo ed Eva, pero` siamo ` evidente soli. Parliamo una lingua diversa». (E che l’angoscia fondamentale e` che tutto e` finito: lei e il suo ragazzo, rimasti soli e completamente isolati, sono costretti a parlare una lingua diversa). Ella accenna poi al fatto che oggi e` il suo compleanno. (Evidentemente le angosce persecutorie e di fine del mondo sono estremamente violente: c’e` una confusione tra la sua nascita e la sua fine, vissuta come fine del mondo.) I familiari, successivamente, mi informano che quella ` evidente mattina la paziente doveva sposarsi. E che si tratta di una rottura psicotica acuta: tenendo conto della situazione della paziente e di quella familiare, ritengo opportuno un ricovero in clinica. Dai colloqui successivi, emergono molto lentamente ulteriori dati. La paziente racconta che, dopo un periodo di convivenza, aveva deciso di sposarsi e voleva far coincidere il matrimonio con il suo compleanno. Aveva preparato tutti i documenti, aveva avvisato i familiari e pochi intimi, ad esclusione della madre perche´ la paziente temeva che avrebbe potuto crearle delle complicazioni. «Era capace di farmi una scenata, o prendere a schiaffi il mio ragazzo». All’approssimarsi del giorno del matrimonio, comincia a sentirsi angosciata. La mattina telefona alla madre che le domanda come mai non e` andata in ufficio: la paziente risponde una cosa banale e riattacca. Ma la domanda della madre le suscita il dubbio che ella sa tutto: comincia a sentirsi in colpa per non averle comunicato la sua decisione. La paziente angosciata si chiude in camera sua; il ragazzo, anche lui molto teso, comincia a chiederle che cosa ha e, di fronte al mutismo di lei, comincia ad urlare. Rispetto a questo comportamento, la paziente sente Robert come cattivo e pericoloso, non e` il Roberto gentile e buono (la paziente utilizza per questa scissione un doppio nome ove Robert sta per lo straniero cattivo e Roberto per un personaggio piu` intimo e conosciuto). Le ritorna in mente la previsione della madre: «Ro-

La schizofrenia

bert e` uno schizofrenico e tu ti fai plagiare». L’angoscia aumenta sempre piu`, telefona al padre, ma non lo riconosce, si fa passare la madre e le dice che sta male. La madre arriva, la paziente le racconta tutto. La madre dice di non preoccuparsi, la mette a letto e le comincia a cantare la ninna-nanna. La paziente sembra apparentemente calma, poi si alza di scatto e scappa via. Ancora una volta la paziente si pone il problema di una sua possibile autonomia e polarizza tutte le sue possibilita` sul matrimonio. Anzi il matrimonio nello stesso giorno del compleanno doveva rappresentare per lei come una possibilita` di nascita, di essere una persona nuova. Ma per fare questo deve escludere la madre: teme che ella ancora una volta possa impedirle qualsiasi progetto di autonomia. Ma non riesce a farcela: il meccanismo della scissione con il quale ella aveva trovato un precario equilibrio non le e` piu` possibile. Quando si accorge che Robert/Roberto puo` essere anche lui come la madre, crolla: e la nascita e la morte coincidono per lei. Se non puo` avere aiuto da Robert e dal padre, e` costretta ancora a rifugiarsi dalla madre. La chiama, le confessa il suo progetto di matrimonio che evidentemente vive con molti sensi di colpa e quindi si dichiara sconfitta. La madre non sembra cercare nulla di meglio: non le chiede niente circa le sue emozioni e gli ` pronta a rifare da madre per la avvenimenti. E figlia, ridiventata neonata: la mette a letto, le canta la ninna-nanna. A questo punto la paziente sente che sta per addormentarsi, il che vuol dire la sua totale e completa morte psichica. Reagisce, «impazzisce», ed in questo modo tenta di uscire dalla spirale. Ma uscire da questa spirale vuol dire ridursi in una situazione di grave regressione. Ed e` in questa condizione, ovverosia in uno stato di smarrimento schizofrenico, che la paziente, il giorno dopo, mi si presenta. Seguira` un lungo ricovero, con una terapia psicofarmacologica ed una psicoterapia, che saranno proseguite anche dopo la dimissione. Ma le condizioni di fondo non tenderanno a modificarsi: scomparsa la fase acuta di smarrimento e di delirio disorganizzato, si evidenziera` sempre piu` un appiattimento affettivo e soprattutto una stereoti-

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pia del comportamento. Questo caso clinico puo` essere abbastanza paradigmatico di evoluzione negativa di una sindrome schizofrenica. C’e`, come spesso accade, una crisi iniziale; da questa crisi residua uno stato difettuale moderato, come puo` arguirsi dai dati anamnestici raccolti. Seguono un lungo periodo di adattamento e poi due crisi a breve distanza. La prima apparentemente benigna; la seconda invece lunga e grave e dalla quale la paziente non riesce, nonostante le terapie, ad uscire, se non con una fase difettuale marcata. Alla fine di questo caso clinico, credo che siano necessarie due considerazioni. La prima e` che la comprensibilita`, o perlomeno lo sforzo di comprendere le comunicazioni distorte e deliranti della paziente, nulla tolgono alla gravita` della sintomatologia. Comprendere un delirio e` importante perche´ permette di mantenere un contatto con il paziente, ma nulla toglie alla gravita` ed alla regressivita` di questa modalita` espressiva. La seconda riguarda il rapporto dello schizofrenico con la famiglia. Certamente ad una osservazione, anche superficiale, balza agli occhi il comportamento tipico di questa famiglia. Un padre buono, ma fondamentalmente assente; una madre che riesce ad isolarsi da tutti ed a stringere un legame simbiotico ed ambivalente con la paziente. Ma questi dati non possono far dimenticare che altri due fratelli (un maschio ed una femmina), godono di un buon equilibrio psicologico e sono andati via di casa abbastanza presto. ` evidente che il fallimento della paziente E nella sua prima uscita di casa (a 18 anni), non puo` imputarsi fatalmente e solamente all’ambiente familiare. C’e` un dato di fatto che troppo spesso viene sottovalutato, ed e` l’interazione tra una «certa» ` evidente che un madre ed un «certo» figlio. E bambino autistico e difficile non solo puo` non stimolare un comportamento adattivo dei genitori, ma puo` stimolare una ambivalenza di fondo, che si manifesta appunto come oblativita` o come rifiuto o spesso come alternanza di comportamento che tende a perpetuare ed aggravare la patologia iniziale.

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9. Note di terapia Poche terapie psichiatriche credo siano cosı` complesse come quella della schizofrenia: il che non giustifica una impostazione terapeutica che mediamente e` abbastanza scorretta, quando non addirittura irrazionale. Mi riferisco non tanto ai ricoveri d’urgenza in centri privati, ove spesso si inizia una terapia ancora prima di aver avuto il tempo di porre una corretta diagnosi, ma piuttosto ai tanti casi ove sono somministrate sfilze di neurolettici che sortiscono l’unico scopo di eliminare gli effetti terapeutici per potenziare quelli collaterali e negativi. Alla scarsa considerazione nell’utilizzare ed articolare interventi diversi, e non rimanere «fissati» ad un’unica modalita` terapeutica, qualunque essa sia. Alla scarsa preoccupazione di saggiare la reattivita` individuale del paziente al neurolettico, cercando di trovare quello piu` utile e di valutare correttamente i tempi necessari della terapia e non approfittare dello psicofarmaco per dimenticarsi del paziente. Alla facilita` con la quale vengono somministrati neurolettici depot a pazienti che presentano crisi ricorrenti, senza avvisare o mettere al corrente il paziente o i familiari, con il rischio che in occasione di una nuova crisi il sanitario ignaro puo` somministrare altri neurolettici che si cumulano, con effetti spesso altamente negativi. L’attenzione che ogni medico pone nel valutare gli effetti positivi e negativi, prima di proporre una terapia, non sembra essere presente quando si prescrive una terapia ad un paziente schizofrenico. Come non sempre si valuta che il neurolettico incide su numerosi parametri biologici che andrebbero pertanto periodicamente controllati. Credo che prima di prescrivere una qualsiasi terapia, in una sindrome schizofrenica, andrebbero tenuti presenti alcuni parametri fondamentali. a)

Nessuna terapia puo` avere senso, se prima non e` stata posta una diagnosi attendibile ed una valutazione globale della situazione psicologica, psicopatologica, familiare ed ambientale del paziente. Non solo perche´ la diagnosi e la prognosi possono variare col

b)

c)

tempo, anche in funzione della terapia, e quindi bisogna sapere con precisione da quali basi si e` partiti. Ma anche perche´ una diagnosi e` corretta solo se tiene conto dei numerosi fattori ambientali, sociali e familiari, e non del solo quadro psicopatologico. (A questo proposito vedi il capitolo «Il colloquio psichiatrico»). Nella eventualita` di una terapia psicofarmacologica, il neurolettico deve essere scelto non solo sulla base della sua specifica azione terapeutica, ma anche sulla base degli eventuali effetti negativi collaterali. Perche´ una terapia psicofarmacologica, soprattutto se non integrata da altri interventi, puo` durare anni. I disturbi sul sistema extrapiramidale, su quello endocrino, sull’apparato cardiocircolatorio, per non parlare di una sindrome neurolettica maligna o di una discinesia tardiva, sono eventi possibili e direttamente proporzionali alla lunghezza del trattamento. Infine bisogna tener presente che la terapia della schizofrenia deve sempre essere una terapia integrata. Solo in casi eccezionali puo` essere utile o necessario ricorrere ad un’unica modalita` di intervento. ` necessario quindi che lo psichiatra conosca E esattamente tutte le varie possibilita` di intervento, anche se tendera` poi a privilegiarne una in particolare. Ma solo la conoscenza di tutte le varie possibilita` di intervento potra` permettere la programmazione e la messa in atto di una strategia terapeutica integrata che spesso richiede l’intervento di una e´quipe psichiatrica.

Ferma restando la necessita` di una terapia integrata, che descrivero` alla fine, per comodita` espositiva passero` ora a descrivere prima la terapia psicofarmacologica poi quelle psicoterapeutiche, ed infine quelle modalita` che piu` precisamente dobbiamo definire come assistenziali e riabilitative.

9.1. La terapia psicofarmacologica Nella scelta bisogna tener presente che il profilo farmacologico del neurolettico varia rispetto

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a quattro specifiche attivita`: quella antipsicotica, quella extrapiramidale, quella endocrina e l’azione sul sistema nervoso vegetativo. Queste azioni sono collegate alla specifica struttura della molecola, e variazioni anche minime possono ridurre, aumentare o completamente abolire una o piu` funzioni di quel neurolettico. Per esempio i neurolettici triciclici variano a seconda che l’anello centrale abbia 6 o 7 atomi; ma variano anche rispetto alle diverse angolazioni dei due anelli laterali rispetto a quello centrale. La lunghezza della catena laterale incide sulla potenza terapeutica: per esempio le fenotiazine, con catena laterale a tre atomi di C, sembrano avere il massimo di potenza terapeutica. La diversa struttura portera` ad interazioni diverse con i siti recettoriali, determinando cosı` specifiche azioni. Per esempio, gli effetti sedativi della cloropromazina sono dovuti al fatto che questa molecola agisce come antagonista sui recettori adrenergici. Queste notazioni servono solo a sottolineare quanto sia importante la conoscenza della farmacologia del neurolettico, per capirne l’azione terapeutica e conoscere la presenza di eventuali effetti collaterali o di controindicazioni. Comunque, molto sinteticamente, possiamo dire che i neurolettici agiscono prevalentemente sui diversi sistemi dopaminergici. E precisamente, l’attivita` antipsicotica coinvolge il sistema mesolimbico e mesocorticale; l’attivita` extrapiramidale coinvolge il sistema nigro-striatale; l’attivita` endocrina coinvolge il sistema tuberoinfondibolare. Questa diversita` di siti di azione spiega perche´ le azioni di una stessa molecola possono essere dissociate tra di loro; il che permette di utilizzare altri farmaci che possono bloccare gli effetti collaterali senza incidere sull’azione antipsicotica. ` pratica comune usare farmaci anticolinerE gici per ridurre gli effetti extrapiramidali, senza, con questo, diminuire gli effetti antipsicotici. L’attivita` sul sistema nervoso vegetativo e` da collegare invece all’azione del neurolettico su recettori diversi da quelli dopaminergici, come i recettori istaminergici, adrenergici o colinergici. Gli effetti, soprattutto a carico dell’apparato cardiocircolatorio, possono cumularsi con gli effetti negativi sulle funzioni endocrine e sul sistema extrapiramidale; effetti negativi che alla lunga

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possono indirettamente ridurre l’efficacia terapeu` tica o comunque la compliance del paziente. E evidente quindi che nella scelta del neurolettico bisogna tener conto del profilo farmacologico complessivo. Se sul piano farmacologico si possono avere numerose classi di neurolettici (vedi «Le terapie biologiche»), sul piano clinico rimane ancora accettabile una fondamentale distinzione in neurolettici sedativi, incisivi ed intermedi. L’azione sedativa e` caratteristica della fenotiazine con catena laterale alifatica e piperidinica: l’azione sedativa e` caratterizzata da un tempo breve di latenza, ma da una altrettanto rapida tolleranza. L’azione incisiva e` caratteristica delle fenotiazine a catena laterale piperazinica e soprattutto dei butirrofenoni: l’azione incisiva coincide con quella piu` strettamente antipsicotica ed e` caratterizzata da un tempo di latenza lungo (tre-quattro settimane), ma praticamente dall’assenza, o quasi, di fenomeni di tolleranza. In realta` non esistono farmaci specifici per sintomi specifici, ma mediamente i neurolettici incisivi posseggono un effetto antipsicotico che puo` essere maggiore o minore a seconda del dosaggio. Schematicamente possiamo dire che nella terapia psicofarmacologica della schizofrenia si possono distinguere due situazioni: la fase acuta e la fase di mantenimento. Nella fase acuta puo` essere utile somministrare insieme neurolettici sedativi ed incisivi fino ad arrivare ad una diminuzione significativa dei sintomi piu` produttivi. Alcuni AA. tendono a somministrare dosi massicce iniziali, arrivando alla cosiddetta neurolettizzazione rapida: pratica non priva di inconvenienti e che non sembra dare maggiore successo. ` preferibile invece aumentare progressivaE mente il dosaggio dei neurolettici, arrivando ad un dosaggio medio, variabile da paziente a paziente. Data l’emivita lunga dei neurolettici, bisogna tener presenti eventuali effetti di accumulo. Nella fase di mantenimento, il definire correttamente il neurolettico piu` indicato, ed il dosaggio piu` appropriato, richiede una grande abilita`. In linea di massima, eccetto casi ove residua una agitazione psicomotoria, in genere nella fase di mantenimento si ricorre quasi esclusivamente a neurolettici incisivi. Comunque la fase piu` deli-

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cata e` la messa a punta del dosaggio; bisogna trovare infatti il dosaggio minimo utile, in modo da impedire l’insorgenza di fenomeni extrapiramidali, il che a sua volta evita la somministrazione di anticolinergici che possono determinare ` o aggravare la sindrome di discinesia tardiva. E utile inoltre arrivare ad una unica somministrazione giornaliera, cosa resa possibile dalla lunga emivita del neurolettico, con possibilita` di tentare, durante l’arco della terapia, piccole variazioni del dosaggio. La esterificazione di numerosi neurolettici con acidi grassi ha portato alla preparazione di farmaci long-acting e di farmaci depot, che possono presentare qualche utilita` perche´ rendono il paziente meno dipendente dallo psicofarmaco e spesso rendono possibile la terapia a pazienti che male accettano una regolare, quotidiana somministrazione del farmaco. Comunque un dato essenziale rimane il fatto che la sola terapia psicofarmacologica, per quanto corretta ed utile, non risolve la situazione del paziente. Lo psicofarmaco, soprattutto nella fase di mantenimento, dovrebbe essere usato fondamentalmente come ausilio di altri interventi, in primo luogo quelli psicologici. Non dimenticando che bisogna conoscere esattamente l’azione farmacodinamica del neurolettico per poter capire esattamente e differenziare gli effetti dovuti al rapporto interpersonale che il farmaco come oggetto transizionale, inevitabilmente veicola, da quelli strettamente farmacologici. 9.2. Le terapie psicologiche Se per terapia intendiamo una prassi che, basandosi su una teoria, cerca di agire sulle cause eziologiche del disturbo, dobbiamo dire che vi sono due modalita` che possiamo definire psicoterapeutiche: quella relazionale o sistemica, e quella analitica. (Vedi capitolo «La psicoterapia: considerazioni generali»). 9.2.1. La psicoterapia relazionale o sistemica

Questa modalita` di intervento e` nata proprio dallo studio della psicosi schizofrenica e dal ten-

tativo di modificare la situazione non del singolo paziente, ma del gruppo familiare in toto, ritenuto complessivamente malato. Rimando pertanto direttamente al capitolo sulla Psicoterapia relazionale o sistemica. Un discorso diverso vale invece per la Psicoterapia analitica, che subisce modificazioni, nel momento che viene applicata a pazienti affetti da disturbi schizofrenici.

9.2.2. La psicoterapia analitica

Dal momento in cui si decide di proporre una terapia analitica ad un paziente con disturbi schizofrenici, bisogna valutare attentamente tre fattori. Il paziente con la sua complessiva struttura psicologica e psicopatologica, e la sua capacita` o meno di affrontare un lavoro che presuppone una capacita` di riflessione e di insight. Il nucleo familiare, o perlomeno le persone che sono piu` direttamente ed emotivamente coinvolte con il paziente. A queste persone va proposto un aiuto psicoterapeutico, piu` o meno profondo, individuale o di gruppo, da parte di un terapeuta diverso da quello che segue il paziente. Questa metodica chiaramente nulla ha a che fare con la terapia familiare, ma si basa sul dato clinico che spesso interazioni familiari negative possono ostacolare la cura del paziente, o che invece il miglioramento del paziente puo` scompensare altri membri del gruppo familiare. Infine il terapeuta, che deve fare un attento esame del suo controtransfert, per valutare correttamente l’impegno che si accinge ad affrontare. Sinteticamente possiamo affermare che il terapeuta deve valutare e tener presente i seguenti punti: a)

b)

continuita` e presenza terapeutica, ancora piu` nette e precise di quanto avvenga nella terapia delle psiconevrosi. enorme quantita` di angoscia che il paziente psicotico ha accumulato negli anni, e possibilita`, nel corso del trattamento, di rotture psicotiche. In questi casi, valutando attenta-

La schizofrenia

c)

d)

e)

f)

g)

mente il contesto, bisogna essere disponibili per eventuali emergenze, e quindi, perlomeno nei primi tempi, adattare il setting ai bisogni del paziente, non viceversa. necessita` di lavorare prevalentemente sul piano del rapporto con la realta`: rapporto con la realta` che costituisce uno dei punti piu` vulnerabili del paziente. massiccia tendenza dello schizofrenico a stabilire una situazione di simbiosi e quindi a tollerare male le separazioni. Separazioni che pertanto richiedono una elaborazione attenta e continuativa. tendenza da parte dello schizofrenico ad utilizzare massicciamente la identificazione proiettiva, diretta conseguenza dei suoi labili confini dell’Io. L’identificazione proiettiva puo` portare, se non ben compresa ed elaborata, ad una controidentificazione proiettiva da parte del terapeuta che rischia cosı` di essere agito dal paziente, perdendo la sua capacita` di capire e di interpretare. capacita` che ha lo psicotico di cogliere aspetti conflittuali del terapeuta, ed evidenziarli in modo ostile; lo psicoterapeuta, se si sente scoperto ed esposto, puo` tendere a rifugiarsi nel ruolo, perdendo, anche in questo caso, la sua capacita` di capire e di interpretare. tendenza dello schizofrenico a mettere alla prova il terapeuta attraverso quella modalita` che H. Searles ha definito «Tentativo di fare impazzire l’altro partecipante al rapporto».

Questi sintetici accenni, solo per esemplificare la complessita` e la difficolta` della psicoterapia analitica nella schizofrenia, che unita alla lunghezza del trattamento, devono indurre ad una meditata ed oculata scelta dei pazienti. Comunque rimando per ulteriori approfondimenti, e soprattutto per quanto riguarda i problemi controtransferali, ai lavori di H. Searles.

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considerazione altre modalita` di intervento che possiamo definire genericamente come tecniche psicologiche di sostegno. In questa dizione vanno comprese tutte quelle modalita` che utilizzano, spesso accanto ad una terapia psicofarmacologica, il rapporto interpersonale come sostegno. Queste modalita`, soprattutto se articolate e finalizzate, sono tanto piu` utili e necessarie, quanto piu` ci troviamo di fronte a quadri di psicosi cronica con una forte componente difettuale, cioe` quando prevalgono i sintomi negativi o quando vi sono seri problemi di handicap e di disabilita` comportamentale e sociale. Le tecniche di riabilitazione traggono origine dalla teoria dell’apprendimento e dalla psichiatria sociale. La prima fornisce le basi operative, fondate appunto su tecniche di apprendimento e di condizionamento. La seconda, invece, una formulazione teorica, nel senso che privilegiare le modalita` e i comportamenti sociali sulle dinamiche psicologiche fa considerare il soggetto come prodotto dell’esperienza e delle interazioni sociali. Si puo` definire quindi la riabilitazione psichiatrica come un processo il cui obiettivo e` accrescere la capacita` del soggetto di funzionare con successo e soddisfazione nell’ambiente prescelto (abitativo, lavorativo o di apprendimento), richiedendo la minore quantita` di intervento da parte del personale specializzato, cioe` di sviluppare il piu` alto grado di autonomia relativa possibile. Gli assi principali dell’intervento riabilitativo sono quindi due: il primo asse e` rappresentato dalla scelta dell’ambito entro il quale intervenire, cioe` dove collocare il programma riabilitativo; il secondo asse e` costituito dalla selezione dell’abilita` fondamentale perche´ il paziente possa funzionare il piu` autonomamante possibile, cioe` che cosa insegnargli. (Provenza M., Ronchi P., da Racagni, G. Smeraldi E., 1990).

Secondo W.A. Antony, un processo di riabilitazione deve articolarsi in tre fasi.

9.3. Tecniche psicologiche di sostegno. Tecniche di riabilitazione

1) 2) 3)

fase diagnostica; fase della pianificazione; fase dell’intervento.

Accanto, ed oltre alla terapia psicofarmacologica e a quelle psicologiche, bisogna prendere in

La fase diagnostica si differenzia da quella clinica perche´ tende ad evidenziare non il gruppo

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diagnostico di appartenenza, ma esclusivamente le capacita` residue del paziente rispetto alla concreta situazione ambientale. Mediante una serie di colloqui guidati, si evidenziano le capacita` operative e comportamentali del paziente rispetto a degli obiettivi ben precisi. Contemporaneamente si evidenziano le possibilita` di aiuto, sia da parte della famiglia che di eventuali servizi assistenziali o sociali. Si passa successivamente alla fase della pianificazione, ove vengono definiti gli obiettivi concreti e gli interventi necessari, cercando di coordinarli e razionalizzarli. Nella successiva fase di intervento, si polarizza l’attenzione sullo sviluppo delle abilita` del paziente e sul massimo di collaborazione ambientale. L’eventuale terapia psicofarmacologica deve essere chiaramente adattata a questo tipo di programma. Complessivamente possiamo dire che la definizione di obiettivi concreti e soprattutto la loro esatta delimitazione, insieme ad un supporto ambientale e quindi anche psicologico, spesso sortiscono buoni effetti riabilitativi. Secondo alcuni AA., questa modalita` operativa comporta miglioramenti significativi e duraturi, piu` evidenti e maggiori rispetto ad altre modalita` di intervento. In effetti non bisogna sottovalutare il fenomeno, osservato da sempre, che il successo inizialmente e` spesso collegato ad una piu` intensa ed interessata partecipazione, sia da parte degli operatori che dei pazienti, ogni qualvolta si prospetta una diversa e nuova modalita` di intervento, per un disturbo, quello schizofrenico, che comporta notevoli difficolta`. Poi, con il passare del tempo, c’e` una sorta d’inflazione, per cui il «valore» della terapia tende a svalutarsi, ma forse tende anche ad esprimere piu` realisticamente la sua validita`. Credo che si possa affermare con sicurezza che le diverse modalita` di intervento (terapeutico, assistenziale, riabilitativo) vanno tutte considerate e proposte, dopo un’attenta analisi del paziente e dell’ambiente familiare e sociale in cui vive. Solo in questo modo le diverse modalita` di terapia della schizofrenia possono concretizzarsi validamente in una terapia dello schizofrenico.

9.4. La terapia integrata Piu` volte ho sottolineato la necessita` di stabilire una strategia terapeutica sulla base dei bisogni, delle capacita` e delle possibili risposte del paziente: questa strategia e` definita terapia integrata, e corrisponde a quella che alcuni AA. definiscono «need-specific treatment». La terapia integrata si ispira ad una filosofia che puo` essere sintetizzata in tre punti. 1)

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La schizofrenia e` considerata un disturbo a causalita` multifattoriale, e pertanto debbono essere presi in considerazione tutti i fattori principali e secondari, come anche tutte le situazioni che possono rinforzare o mantenere la patologia. La terapia e` integrata non solo sul piano trasversale, ma anche su quello longitudinale: ovverosia la possibilita` di cambiare metodiche d’intervento, secondo l’evoluzione ed i bisogni emergenti del paziente. Le attivita` terapeutiche, sia psicofarmacologiche che psicologiche (nella varieta` individuale, familiare, di gruppo ecc.), sono scelte sulla base delle esigenze complessive del paziente e della situazione contestuale. In questo senso una terapia integrata e` quindi una terapia personalizzata. In genere, soprattutto agli esordi o nelle ricadute, la terapia e` gestita da una e´quipe psichiatrica, testimonianza della complessita` della malattia, delle necessita` di conoscenza operative molto specifiche, ma anche funzionale ad uno specifico problema che e` la gestione del transfert dello schizofrenico. Le modalita` transferali dello schizofrenico, come abbiamo visto, oscillano tra un rifiuto e la massiccia tendenza alla simbiosi. Ma bisogna tener presente che lo schizofrenico, soprattutto agli inizi del disturbo, puo` stabilire un transfert collaterale e precisamente sulla istituzione. Ovverosia la costituzione di un legame non con una specifica persona, ma piuttosto con un gruppo di persone che lavorano in quella istituzione. Una e´quipe quindi corrisponde e soddisfa meglio una dinamica del genere e rende piu` facile gestire, soprattutto nelle fasi iniziali, il carico transferale del paziente.

La schizofrenia

Senza sottovalutare che la presenza di piu` persone costituisce un punto di riferimento costante per il paziente, evitandogli, soprattutto in situazioni di ricadute o comunque di emergenza, la frustrazione di non trovare il «suo» medico. Questa modalita` e` tanto piu` valida quanto piu` ci si trova nelle fasi iniziali del disturbo, o quando la cronicizzazione e la difettualita` comportano una scarsa capacita` integrativa del paziente. Negli altri casi, invece, man mano che il paziente evolve, e` possibile il passaggio a situazioni terapeutiche piu` personalizzate. ` evidente che uno dei concetti informatori E della terapia integrata e` la valutazione dei cambiamenti ed il conseguente cambiamento delle metodiche terapeutiche. Per avere un quadro piu` chiaro, possiamo considerare l’iter rispetto a tre situazioni fondamentali: a) b) c)

stadio iniziale; stadio intermedio; stadio difettuale.

9.4.1. Stadio iniziale

Nello stadio iniziale, che puo` essere acuto o ad evoluzione subdola, ma che in genere corrisponde alla fase della richiesta di intervento, si attuano varie modalita` d’intervento. In primo luogo e` necessario un esame accurato psicopatologico, ma anche della situazione familiare ed ambientale (vedi capitolo: «Il colloquio psichiatrico»). Successivamente il progetto terapeutico puo` articolarsi in varie modalita`: 1) 2) 3)

Terapia psicofarmacologica. Terapia familiare di tipo sistemico. Relazione psicologica di sostegno per il paziente ed una terapia centrata sulla famiglia, come possibilita` di aiutarla a comprendere le proprie dinamiche per affrontare meglio la situazione con il paziente.

4)

587

Inserimento del paziente in attivita` gruppali varie.

9.4.2. Stadio intermedio

Man mano che la situazione si stabilizza, si possono evidenziare nuove esigenze che comportano: 1) 2) 3) 4)

Terapia individuale per il paziente. Eventuale, collaterale inserimento in attivita` gruppali. Variazione della terapia psicofarmacologica. Eventuale sostegno psicologico alla famiglia, soprattutto nei casi ove c’e` una elevata E.E. che indica una conflittualita` e quindi la possibilita` di ricadute del paziente.

Nel tempo, la terapia psicofarmacologica e quella centrata sulla famiglia possono essere interrotte, rimanendo unicamente quella di una psicoterapia individuale.

9.4.3. Stadio difettuale

Se l’evoluzione e` invece verso una cronicizzazione o verso una fase difettuale (che puo` evidenziarsi nonostante l’impegno terapeutico) e` evidente che le possibilita` sono diverse e sono principalmente: 1) 2) 3)

Terapia psicofarmacologica. Attivita` riabilitativa. Inserimento in Comunita` Terapeutica o in Gruppi protetti di attivita`.

Molte cose, quindi, si sono modificate a partire non solo dalla pratica puramente custodialistica, ma anche da quella, pur importante, esclusivamente psicofarmacologica. Se in una sintesi molto rapida volessimo condensare quanto e` ritenuto oggi importante ai fini di una corretta ed integrata terapia della schizofrenia, potremmo sottolineare i seguenti parametri: a)

Le attivita` terapeutiche debbono essere progettate in maniera specifica, sulla base di

588

b)

c)

d)

e)

f)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

una attenta valutazione del paziente, della famiglia, del contesto ambientale. Le varie modalita` d’intervento debbono integrarsi anche diacronicamente seguendo lo sviluppo (positivo o negativo che sia) di tutto il quadro. Il trattamento psicoterapico, soprattutto nella fase iniziale, deve essere centrato sulla possibilita` di fare capire cosa e` accaduto o cosa sta accadendo, e questo non solo al paziente, ma anche ai familiari, perlomeno quelli piu` direttamente coinvolti. Bisogna favorire lo sviluppo delle risorse e degli aspetti validi del nucleo familiare, coinvolgendolo e non gia` colpevolizzandolo. Accettare le difficolta`, e gli insuccessi, inerenti alla terapia della schizofrenia, utilizzando le varie metodiche secondo i bisogni o le esigenze del paziente e del contesto. Non privilegiare in assoluto e per l’intero arco del trattamento un solo intervento, confondendo spesso l’intervento che si conosce meglio o soltanto, con quello piu` utile per il paziente.

Quindi, come si vede, l’approccio terapeutico allo schizofrenico si configura come una situazione complessa che richiede una conoscenza sempre piu` approfondita della psicodinamica, della psicopatologia, della psicofarmacologia, della psicobiologia, della psicoterapia: ovverosia di tutte quelle branche che trovano la loro logica confluenza, teorica ed operativa, nella Clinica Psichiatrica. Con buona pace di quanti, fortunatamente sempre meno, considerano la malattia mentale (e la schizofrenia come sua rappresentazione piu` grave) o inesistente, e quindi incurabile; o opera d’arte che nella sua unicita`-alienita` puo` indurre solo ad una contemplazione masturbatoria. (Per una piu` ampia trattazione della terapia integrata delle psicosi vedi il cap. 61).

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32 La paranoia Ernesto Bollea Parole chiave delirio; delirio interpretativo; sospettosita`; diffidenza

La paranoia ha rappresentato, fino a qualche decennio fa, un punto nodale della Psichiatria: capire la dinamica di un delirio lucido e sistematizzato significava penetrare nella parte piu` profonda della psicopatologia. Ultimamente l’interesse e` molto diminuito: segno che anche nella Psichiatria esistono le mode. Attualmente si tende a definire la paranoia come un delirio strutturato e sistematizzato che, a differenza della schizofrenia paranoidea, non comporta deterioramento della personalita` e che presenta inoltre una stretta correlazione tra contenuto del delirio e comportamento. Accanto a questo disturbo, di chiara natura psicotica, e` da considerare anche il cosiddetto disturbo paranoide di personalita` che e` caratterizzato dai seguenti tratti (DSM-III-R): «Tendenza pervasiva ed immotivata... ad interpretare le azioni delle persone come deliberatamente umilianti e minacciose... Il soggetto si aspetta, e senza motivi sufficienti, di essere sfruttato, dubita della lealta` di amici e collaboratori, scorge significati umilianti in semplici rimproveri, porta lungamente rancore e si sente facilmente offeso».

Questi tratti di personalita` possono costituire la base di un possibile successivo sviluppo in senso piu` strettamente paranoicale, con la comparsa di un delirio, a vario contenuto. Sul piano psicodinamico quello che piu` colpisce e` la certezza assoluta, che nella sua rigidita` tradisce la debolezza da cui nasce. La paranoia deve essere vista come un meccanismo estremo di difesa contro la dissoluzione dei confini dell’Io. All’irrigidimento dell’Io somatico e dell’Iopelle, che costituisce la corazza caratteriale, tipica delle psiconevrosi, si contrappone la paranoia come irrigidimento di un Io piu` astratto che riesce, attraverso la certezza assoluta del presapere, ad annullare la concretezza e l’incertezza del sapere. In questo senso, la «paranoia» come modalita` difensiva e` certamente piu` frequente ed attiva della sua patologia conclamata, descritta in questo capitolo, che deve essere vista invece come la punta emergente di un iceberg. Iceberg che affonda le sue basi nel magma nero della negazione piu` assoluta della conoscenza come processo di rapporto reale. Il presapere del paranoico, che crede cosı` di porsi al di sopra di tutti, e` solo uno scanno traballante che non riesce a nascondere la negazione del

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sapere come lavoro e ricerca. «L’Io so» con assoluta sicurezza del paranoico e` la maschera che a stento nasconde l’angoscia del non vedere e del non sapere, e che non tollera che gli altri possano vedere e sapere. La sospettosita` del paranoico esprime il timore di essere scoperto; la ostilita` esprime la tendenza ad eliminare chiun-

que si permetta di andare a vedere. Il DSM-IV ha eliminato il concetto di paranoia; comunque, come per altri argomenti, ritengo questa modificazione poco utile sul piano euristico. * * *

La paranoia

1. Definizione e cenni storici Kraepelin (1913) definı` la paranoia un’entita` clinica, autonoma, caratterizzata da un delirio permanente, coerente, sistematizzato e incrollabile, prodotto da cause endogene, che si sviluppa in modo insidioso ed evolve lentamente con conservazione delle altre funzioni mentali. Nei decenni successivi si accesero dibattiti e si svilupparono ricerche su vari quesiti lasciati aperti dalla definizione kraepeliana. Fondamentalmente la discussione si concentro` su tre punti: 1) 2)

3)

ritenere la paranoia un’entita` clinica a se´ stante come nella definizione di Kraepelin; considerarla una sindrome schizofrenica, una sua forma attenuata che non giunge al deterioramento della personalita` (Gruhle) per un Io piu` integro (Benedetti) o ricollegarla alla circolarita` endogena maniaco-depressiva o a una psicosi organica (alcoolismo, traumi cranici ecc.); farla derivare dallo sviluppo di una personalita` abnorme intesa secondo un continuum che va dal normale al patologico (Bleuler, Kretschmer).

Il DSM-III (1980) separa nettamente i disturbi paranoidi dai disturbi schizofrenici e della paranoia e da` la seguente definizione, che risulta assai simile a quella di Kraepelin: «la caratteristica principale e` lo sviluppo insidioso di un disturbo paranoide, con un sistema delirante permanente ed irriducibile, accompagnato da conservazione della chiarezza e della coerenza del pensiero. Frequentemente il soggetto si considera dotato di facolta` uniche e superiori». La paranoia, che era stata dettagliatamente descritta dalla medicina greco-romana, che ne aveva anche dato interpretazioni etiopatogenetiche fondate sui concetti di medicina umorale, atomistica ecc., col tempo divenne sinonimo di follia. Fu Boissier de Sauvages (1768) a rintrodurla nel campo psichiatrico per indicare le turbe deliranti del melanconico, seguito da Esquirol (1838) che uso` il termine di monomania e poi da Heinroth nel 1842 e da Kahlba¨um nel 1863. Gli psichiatri dell’epoca descrissero, soprattutto, l’evoluzione dei deliri sistematizzati della

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paranoia individuandone i contenuti: persecuzione (Lase`gue, 1852), ipocondria (Morel, 1868), grandezza (Foville, 1871). Intanto il delirio paranoico cominciava ad essere delimitato meglio e si riteneva che si fondasse su alcuni fenomeni psichici elementari: allucinazioni, illusioni, passioni e derivasse da una costituzione particolare caratterizzata da ipervalutazione di se´, rigidita`, intransigenza, scarsa adattabilita`, sospettosita` e suscettibilita` verso il prossimo da cui conseguirebbero gli errori di giudizio e lo sviluppo del delirio (Callieri, 1983). Magnan nel 1892 descrisse, approfonditamente, i deliri cronici sistematizzati e Seglas nel 1895 diede una definizione della paranoia o follia sistematica pressoche´ simile a quella che, pochi anni piu` tardi, avrebbe data Kraepelin. Nel 1909 Se´rieux e Capgras descrissero la forma piu` tipica di delirio, il delirio di interpretazione o folie raisonnante. La paranoia si inseriva cosı`, per l’alterazione del giudizio e dell’intendimento, al polo opposto della distimia di Kahlba¨um, dove dominava l’alterazione delle emozioni e dei sentimenti (Lewis, 1970). Kraepelin separo`, nettamente, la paranoia con delirio ben sistematizzato, che accosto` alle psiconevrosi, dalle paranoie con delirio mal sistematizzato, che fece rientrare nella demenza precoce con il nome di demenze paranoidi. Bleuler (1911) inserı`, invece, nella schizofrenia, che prese il posto della demenza precoce, quasi tutte le psicosi croniche, tra cui la paranoia, ritenendo che essa si differenzi, solo quantitativamente, dalla schizofrenia paranoide perche´ deriva da forme meno gravi di schizofrenia. La scuola francese si opporra` a questo restringimento nosografico, e con Claude ed Ey separera` i deliri cronici dalla demenza precoce e li distinguera` in tre grandi sottogruppi: paranoidi, parafrenici, paranoici. Il DSM-III infine, distinguendo le sindromi paranoidi dalla schizofrenia ed introducendo il concetto di personalita` paranoide, si muove su questa stessa linea separatista1.

1 Le voci bibliografiche di questo paragrafo sono tratte da Callieri B., 1983 e da Lewis A., 1970.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2. Psicogenesi I deliri paranoici insorgono in particolari personalita` predisposte o come sintomi di una psicosi endogena o come sviluppo della personalita` paranoicale. In quest’ultimo caso non e` facile stabilire una soluzione di continuo tra carattere paranoico e corrispettivo delirio. I tratti caratterologici del paranoico si fondano su due serie di caratteristiche contrastanti. Da un lato essi hanno un’esagerata autostima, un orgoglio smisurato (si parla di ipertrofia dell’Io), sono individui rigidi, caparbi ed inadattabili; dall’altro lato sono insicuri e diffidenti verso gli altri e la loro sospettosita` si accompagna a reazioni emotive esasperate anche di fronte ad esperienze banali. Sono soggetti fanatici, con un abnorme sentimento di certezza delle loro opinioni che non lascia alcuno spazio al dubbio e li porta a formulare giudizi erronei. A seconda che siano stenici e combattivi oppure deboli e remissivi lottano per le loro convinzioni o assumono comportamenti bizzarri. La ricerca psicoanalitica, nel corso di questo secolo, ha fornito conoscenze sempre piu` approfondite della genesi del delirio paranoico. Gli apporti di Freud sulla proiezione come modalita` di difesa principale dalle pulsioni omosessuali nel paranoico (1911) ed il suo studio sul narcisismo (1914) (stadio dello sviluppo in cui e` regredito il paranoico), e della Klein, con la concettualizzazione della posizione schizo-paranoide, come la modalita` piu` precoce del bambino di relazionarsi con il mondo esterno (1946), sono fondamentali per la comprensione della formazione del delirio e determinanti per lo sviluppo delle ricerche successive sulla schizofrenia. Il delirio costituisce un’organizzazione difensiva dovuta all’intervento di una serie di meccanismi di difesa, principalmente la proiezione, scissione e negazione, predisposti dall’Io del soggetto per proteggersi da angosce psicotiche destrutturanti. La fissazione allo stadio pregenitale narcisistico (Freud, 1914) ovvero ad una patologica posizione schizo-paranoide (Klein, 1946) determina la sintomatologia delirante. Il paranoico regredisce a questi stadi dello sviluppo infantile, che egli ha mal superato e nei quali massima e` l’onnipo-

tenza, a causa di eventi o situazioni che sono frustranti o comunque eccessivamente impegnativi per il suo apparato psichico. La differenza tra delirio paranoico, parafrenico e paranoideo e`, secondo questa ottica, solo quantitativa. Prevalgono nella sindrome paranoica della schizofrenia ansie di disintegrazione piu` intense e primitive, legate ad una distruttivita` od istinto di morte congenitamente piu` forte, che portano all’impiego da parte dell’Io psicotico di meccanismi di scissione e proiezione di parti del Se´ piu` frammentate e parziali per cui la costruzione del delirio, da parte del fragile Io dello schizofrenico, e` meno strutturata e piu` instabile.

3. Psicopatologia La paranoia si caratterizza per un delirio cronico, lucido, intuitivo ed interpretativo, che ha una struttura ben sistematizzata ed un intenso coinvolgimento affettivo. Le interpretazioni ed intuizioni deliranti si sviluppano, spesso, quasi all’improvviso ed assai rapidamente trascinano il malato in un sistema di valutazione incontrovertibile, schematico, chiuso ad altre prospettive. Il delirio diventa la fondamentale ragione di vita e il tema delirante polarizza completamente l’ideazione e l’affettivita` e guida l’attivita` del soggetto che attribuisce anche ad eventi passati, di cui conserva sempre buona memoria, un senso che non avevano mai avuto che coincide con le convinzioni deliranti attuali. Non sono mai presenti allucinazione ne´ alterazioni della coscienza. Inizia, in genere, tardivamente nell’eta` media. Il delirio del paranoico con il trascorrere del tempo, sotto la spinta della forte partecipazione affettiva, va sempre piu` ampliandosi seguendo una struttura rigida e pseudologica. Le reazioni del soggetto al proprio delirio raramente portano a manifestazioni di eteroaggressivita`. Il delirio ha un decorso cronico e spesso si alternano periodi di efflorescenza a periodi di remissione.

4. Nosografia I temi deliranti piu` frequenti della paranoia sono quelli di persecuzione e di grandezza.

La paranoia

4.1. Delirio di gelosia ` un delirio ad alto contenuto passionale in cui E il soggetto ha l’incrollabile convinzione di essere tradito dal proprio partner. Il delirante interpreta eventi reali attuali e ricordi insignificanti in modo delirante e controlla, con ogni mezzo, il partner per ottenere la documentazione definitiva del tradimento che egli non vuole confessare. Il delirio diviene sempre piu` sistematizzato e stabile ed il paziente si trasforma da perseguitato in persecutore nei confronti del partner o del presunto rivale. Freud spiego` la formazione del delirio di gelosia come tentativo di risolvere l’emergere delle pulsioni omosessuali del soggetto tramite la proiezione sul partner dei propri desideri sessuali nei confronti di un individuo dello stesso sesso. 4.2. Delirio erotomane Si tratta della convinzione, errata ed irriducibile, di essere amato da un partner di rango elevato che gli invia, attraverso i canali di comunicazione (stampa, televisione ecc.), messaggi che il paziente interpreta come conferme, incontrovertibili, della passione che nutre per lui. In genere, all’inizio, il soggetto ha la speranza di poter realizzare il proprio sogno d’amore; segue poi una fase di rabbia e dispetto quando si accorge che questo non si concretizza e l’oggetto non mostra di amarlo. Spesso la sua aggressivita` e violenza e` diretta nei confronti dei familiari dell’oggetto d’amore, accusandoli di ostacolare la relazione amorosa. 4.3. Delirio interpretativo (di Se´rieux e Capgras) Vengono attribuiti significati abnormi di tipo persecutorio, mistico ecc. riferiti al soggetto stesso, con contenuti di coscienza e percezione della realta` corretti. 4.4. Delirio di persecuzione Il soggetto si sente minacciato, si crede perseguitato da singoli individui o da gruppi organiz-

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zati e si sente al centro di un complotto ordito contro di lui. Spesso reagisce e talora si trasforma da vittima in giustiziere perseguitando, con ogni mezzo, i suoi nemici.

4.5. Delirio di querela Spesso in seguito ad un movente reale, ad un danno realmente subito (una mancata promozione, un processo perduto, ecc.) inizia un delirio a contenuto rivendicativo che evolve rapidamente. Il soggetto inizia, se la soddisfazione richiesta per vie legali non viene raggiunta, una sequela di ricorsi interminabili intrapresi con un sentimento ipertrofico di Se´ e dei propri diritti. Il delirio si espande progressivamente e con una crescente esaltazione passionale puo` rivolgersi con petizioni ad uomini politici o all’opinione pubblica con argomentazioni giuridiche sempre piu` cavillose. La riparazione, che il paziente esige ad ogni costo, diventa la sua principale ragione di vita tanto che si crea una marcata sproporzione tra il presunto danno subito e l’entita` delle richieste e dell’impegno posto dal paziente per ottenere la riparazione.

4.6. Delirio di grandezza In questo delirio il soggetto realizza, nel grado piu` alto, il proprio sentimento di onnipotenza e di onniscenza. I contenuti del suo delirio spaziano dal sentirsi capace di grandi riforme religiose, di grandi scoperte scientifiche, all’essere in grado di compiere qualsiasi impresa. Il fanatismo di questi soggetti, talora, sfocia in un delirio di rivendicazione.

5. Diagnosi differenziale La paranoia si distingue dalla sindrome paranoidea della schizofrenia per le caratteristiche proprie del delirio: lucido, sistematizzato e coerente nei suoi temi, vissuto con intensa partecipazione affettiva e sempre in rapporto con l’ambiente. Nella schizofrenia i deliri sono piu` frammentari e vissuti con labile partecipazione affet-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

tiva e inoltre sono presenti la dissociazione mentale e le alterazioni percettive. Nelle parafrenie i deliri sono di ordine fantastico ed immaginativo, sono vissuti con scarsa passionalita` e sono presenti le allucinazioni.

6. Decorso e prognosi La paranoia ha un decorso cronico. Talora vi sono oscillazioni spontanee ma la guarigione e` esclusa eccetto che per le reazioni paranoicali ad accadimenti sfavorevoli (vedi Reazioni Psicogene Acute), che sono di breve durata.

7. Note di terapia Il trattamento e` simile a quello della schizofrenia.

Riferimenti bibliografici Kraepelin E., Psychiatrie, 8th edn., Barth, Leipzig, 1913. American Psychiatric Association (DSM III), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Masson, Milano, 1983. Callieri B., «Paranoia», in Enciclopedia Medica Italiana, 2a ed., 1983. Lewis A., «Paranoia and Paranoid: a Historical Perspective» Psychological Medicine. 1, 2, 1970. Freud S., Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritta autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schereber), 1911, in Opere, Boringhieri, Torino, 1974. Freud S., Introduzione al narcisismo, 1914, in Opere, Boringhieri, Torino, 1975. Klein M., Note sui meccanismi schizoidi, 1946, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978.

33 Le parafrenie Ernesto Bollea Parole chiave psicosi croniche; delirio; allucinazione; doppio binario

Le parafrenie sono sindromi di difficile sistemazione nosografica, la cui autonomia e` contestata da molti AA. Se ci basiamo pero` sull’osservazione clinica, dobbiamo riconoscere che spesso incontriamo quadri clinici che mal si adattano sia ad una diagnosi di paranoia sia di schizofrenia paranoidea, e che si caratterizzano per la presenza di un delirio, spesso molto immaginifico e fantastico, che pero` non comporta ne´ un deterioramento della personalita`, ne´ tanto meno un comportamento patologico.

Anzi i pazienti con tale quadro clinico presentano una caratteristica separazione tra il delirio e la loro quotidianita` spesso normale, anche se complessivamente ridotta ed abbastanza regredita. Questa caratteristica, definita del doppio binario, e` forse il dato principale, che in una zona ancora nebulosa della nosografia psichiatrica ci autorizza ad estrapolare il quadro delle parafrenie, in attesa di una piu` precisa collocazione. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Definizione e cenni storici Le parafrenie sono un gruppo di psicosi croniche che possiamo collocare a meta` strada tra le schizofrenie e la paranoia. Infatti esse sono caratterizzate: da deliri cronici paralogici, fantastici e mitologici in cui domina l’elemento immaginativo e in cui prevalgono temi favolosi e soprannaturali; da allucinazioni vivaci e polimorfe; da marcate alterazioni dell’umore; da assenza di disgregazione della personalita` e di deterioramento mentale con integrita` intellettiva ed affettivo-volitiva; da prevalenza delle alterazioni del linguaggio concreto o ricco di simbolismo su quelle della condotta. Il riconoscimento dell’individualita` nosografica della parafrenia e` stato oggetto di vivaci controversie. Kraepelin (1913) stesso, in un primo tempo, la inserı` tra le forme paranoidi della demenza precoce ma poi la separo` da esse per la minore intensita` dei disturbi affettivo-volitivi e la migliore conservazione della personalita`. Gli psichiatri di scuola tedesca tendono a farla rientrare nel gruppo delle schizofrenie paranoidi sia per la sintomatologia che per l’evoluzione, mentre gli psichiatri francesi le riconoscono una propria autonomia e la inseriscono tra le «Psicosi deliranti croniche senza evoluzione deficitaria». La maggior parte degli psichiatri italiani ritiene che la Parafrenia non vada riconosciuta come entita` nosologica, ma le vada solo attribuita un’individualita` sindromica per la necessita` di tenere separate le schizofrenie croniche con disgregazione della personalita` da quelle, piu` o meno sistematizzate, con personalita` ben conservata.

2. Psicopatologia e psicogenesi La parafrenia insorge nell’eta` adulta e presenile. Il sintomo fondamentale e` il delirio cronico, a cui il soggetto si lega strettamente, a differenza dello schizofrenico paranoide anche se non in modo cosı` totale come fa il paranoico. I temi deliranti sono di persecuzione, influenzamento, genealogici, mistici ecc., a carattere fantastico e grandioso, talora paradossali e di proporzioni cosmiche; ed in genere hanno una trama ben correlata ed un’unita` di significato. Alimentano le tematiche deliranti illusioni ed

allucinazioni floride e mutevoli, prevalentemente visive ma anche uditive, gustative, olfattive e cenestesiche. Su tutto regna il pensiero magico che si manifesta con idee allegoriche e simboliche o assolutamente concrete. La personalita` e` ancora relativamente integra per cui e` conservato il rapporto con la realta`, e conservate sono le differenti funzioni mentali, la coscienza e le capacita` pragmatiche. Situazioni scatenanti la sindrome parafrenica sono, per lo piu`, quelle legate a condizioni di solitudine e vecchiaia (pensionamento, isolamento affettivo ecc.) che agiscono su una personalita` premorbosa caratterizzata dalla presenza, contemporanea, di tratti schizoidi: introversione, sensitivita`, bizzarria e di tratti distimici: estroversione, iperattivita`, euforia. Tale personalita` puo` collocarsi in una posizione intermedia su un continuum di profili caratteriali che vanno da quelli che predispongono alla schizofrenia a quelli che favoriscono la psicosi maniaco-depressiva.

3. Nosografia Kraepelin (1913) distinse nell’ambito della parafrenia, a seconda della struttura del delirio, quattro diverse forme cliniche: fantastica, espansiva, confabulatoria, sistematica. 3.1. Parafrenia fantastica Questa forma, piu` frequente negli uomini, inizia intorno ai 30 anni; spesso, dopo un periodo prodromico di inquietudine o di depressione, si organizzano deliri molto floridi e persistenti, esuberanti e stravaganti, con idee di influenzamento, di persecuzione o di grandezza. Sovente il parafrenico si sente torturato da una miriade di persecutori con fantastici mezzi elettronici. La florida produzione delirante nasce da allucinazioni che compaiono precocemente o direttamente da meccanismi intuitivi ed immaginativi. L’umore e` per lo piu` euforico e spesso sconfina in manifestazioni violente improvvise. Alla stravaganza ed enormita` del delirio si contrappone un buon contatto sociale e la capacita` lavorativa e` conservata anche se, in molti casi, le re-

Le parafrenie

lazioni affettive e gli interessi si restringono progressivamente. Infatti questa forma, che e` quella che piu` si avvicina alla schizofrenia, di norma progredisce verso la disgregazione della personalita`.

3.2. Parafrenia espansiva Piu` frequente tra le donne, tra i 30-50 anni, e` caratterizzata da tematiche deliranti, sostenute da umore espansivo e dalla convinzione di essere in possesso di qualita` eccezionali: genialita`, bellezza, ricchezza, forza fisica, misticismo (possono sentirsi rivelatrici di nuove religioni) ecc. La tonalita` espansiva dell’umore, presente nel delirio di grandezza, si associa alla vivacita` ideativa propria della mania (per alcuni AA. questa forma corrisponde alla mania delirante cronica) e si manifesta con euforia, logorrea, iperattivita` ed atteggiamenti stravaganti. Sono presenti anche allucinazioni visive: frequenti le visioni mistiche ed uditive con presenza di voci profetiche ecc. Talora vi sono cambiamenti dell’umore, in genere di breve durata, in senso depressivo o angosce persecutorie e affiorano tematiche di gelosia. L’adattamento sociale e` preservato perche´ riescono a mantenere un comportamento corretto e non vi e` tendenza alla disgregazione della personalita`.

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3.4. Parafrenia sistematica Tra tutte e` la piu` frequente, inizia tra i 30-40 anni, in modo insidioso, con un progressivo mutamento del carattere che diviene chiuso, irritabile, diffidente. Il soggetto vive in un continuo stato di allarme, quindi insorgono i primi deliri, ancora poco strutturati, riferiti all’ambiente circostante. Progressivamente il delirio si stabilizza su di un tema persecutorio, ben sistematizzato, alimentato da allucinazioni in prevalenza uditive. Il parafrenico, in questa fase, reagisce alla persecuzione allontanandosi dall’ambiente che lo perseguita, o diventando aggressivo con i propri nemici che affronta con violenza fisica e con azioni legali. Progressivamente, al delirio di persecuzione si lega un delirio di grandezza, che si espande sempre piu`, con temi erotomani e mistici; spesso sono coinvolti personaggi celebri, nemici appartenenti al mondo dei portatori del male contro i quali il soggetto, che si identifica nel bene, combatte. L’evoluzione non giunge alla disgregazione mentale; nel tempo i deliri si impoveriscono mentre e` preservato un discreto contatto con la realta` e non compaiono gravi alterazioni dell’umore e della condotta.

4. Decorso e prognosi 3.3. Parafrenia confabulatoria Questa forma, ugualmente diffusa nei due sessi, molto rara, piu` precoce e grave delle altre, inizia tra i 20 e i 40 anni e puo` condurre, attraverso periodi produttivi e periodi di apparente remissione, alla disgregazione mentale. Innestandosi su di una personalita` di base che tende alla mitomania la forma progredisce, in maniera incalzante, partendo da alterazioni del tono dell’umore su cui si inseriscono i deliri che prendono spunto da ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui danno una lettura travisata o completamente falsificata, con temi di grandezza o di persecuzione molto fantasiosi e sempre ben articolati fra loro.

L’insorgenza e` insidiosa e subdola; e progressivamente compaiono le illusioni e le allucinazioni e si strutturano i deliri che hanno un’evoluzione molto lunga, spesso attraverso periodi di remissione e di riaccensione. L’esito puo` essere o la cronicizzazione della sindrome parafrenica con i deliri che perdono la loro stenicita` e tendono ad impoverirsi e con la conservazione di un buon adattamen- to sociale oppure, soprattutto nelle forme ad inizio piu` precoce, si puo` giungere ad uno stato difettuale schizofrenico oppure, nelle forme ad insorgenza senile, ad uno stato demenziale di tipo organico. La prognosi e` piu` sfavorevole nelle forme ad insorgenza precoce e nelle forme confabulatoria e fantastica.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

5. Diagnosi La diagnosi differenziale si pone da un lato con la sindrome paranoidea della schizofrenia in cui sono presenti l’autismo, la dissociazione, la scarsa sistematizzazione dei deliri, la disgregazione della personalita` ecc., e dall’altro con la paranoia in cui vi e` l’adesione totale ad un sistema delirante ben sistematizzato e non vi sono allucinazioni. Negli anziani gli esami strumentali (TAC ecc.) escludono la possibilita` di una sindrome parafrenica organica.

6. Note di terapia ` di La terapia e` la stessa della schizofrenia. E grande utilita` il trattamento combinato con neurolettici a breve e lunga azione, psicoterapie individuali e di gruppo, interventi riabilitativi socializzanti e assistenziali. Per ulteriori approfondimenti vedi il capitolo «La schizofrenia».

Riferimenti bibliografici American Psychiatric Association (DSM-III), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1983. Callieri B., «Paranoia» in Enciclopedia Medica Italiana, 2a ed., 1983. Freud S., Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritta autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schereber), 1911, in Opere, Boringhieri, Torino, 1974. Freud S., Introduzione al narcisismo, 1914, in Opere, Boringhieri, Torino, 1975. Kraepelin E., Psychiatrie, 8th edn., Barth, Leipzig, 1913. Lewis A., «Paranoia and Paranoid: a Historical Perspective» Psychol. Med. 1, 2, 1970.

34 Le reazioni organiche acute Michele Piccione Parole chiave confusione mentale; sindrome amnestica; allucinosi organica; sindrome organica d’ansia

Questo capitolo propone una sorta di tavola sinottica di tutte le cause di reazioni psicopatologiche acute, sostenute da una patologia organica e in netta contrapposizione, per eziologia, terapia e prognosi, alle reazioni psicogene acute. Il sintomo dominante e tipico quanto aspeci-

fico, rappresentato dalla confusione mentale, viene esposto in modo dettagliato all’interno delle varie patologie per la cui trattazione si rimanda ai rispettivi capitoli. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. La confusione mentale



Per confusione mentale si intende un disturbo dello stato di coscienza caratterizzato da un disorientamento nel tempo e/o nello spazio e/o nelle persone; da una difficolta` a coordinare le idee ed a formulare le attivita` del pensiero in termini corretti sul piano della coerenza e della conseguenza; da una possibile alterazione dell’affettivita`, della sensopercezione, della memoria. I paragrafi che seguono illustrano le molteplici cause in grado di provocare una tale evenienza psicopatologica.



1.1. Malattie somatiche primitive cerebrali

1.1.1. Confusione mentale organica acuta

Puo` insorgere a qualunque eta` ma piu` facilmente nei bambini e negli anziani; ha esordio acuto, decorso intermittente e durata breve (circa una settimana) a cui fa seguito o una restitutio ad integrum totale, o un’evoluzione in modo ingravescente, fino al coma ed alla morte, se provocata da malattie sistemiche o metaboliche o traumatiche cerebrali. Sintomatologicamente si apprezza una notevole riduzione del livello di coscienza con disorientamento temporo-spaziale, incapacita` di mantenere l’attenzione in modo continuo e costante nei confronti degli stimoli esterni; presenza di disturbi della senso-percezione con illusioni e/o allucinazioni anche altamente strutturate; disturbi della memoria di fissazione per fatti recenti o prossimi all’evento nel caso di traumi cranici; alterazione del ritmo sonno-veglia (dalla sonnolenza fino al semicoma ed al coma); comportamento caratterizzato da inquietudine, ipervigilanza, iperattivita`, agitazione psichica e motoria con possibili crisi a tipo fuga o pantoclastiche. Il pensiero puo` diventare accelerato o rallentato, perdere finalita` e chiarezza fino ad arrivare nei casi piu` gravi alla frammentazione, incongruenza e disorganizzazione. Le cause possono essere: —

neoplasie cerebrali (lobi frontali);

— — — — — — — — — —

traumi cranici (inclusa la sindrome postcommotiva); vasculopatie cerebrali (ematomi, aneurismi, emorragie intracraniche non traumatiche); periodo intercritico dell’epilessia temporale; sclerosi multipla e Corea di Huntington; morbo di Parkinson; morbo di Alzheimer; morbo di Pick; embolia cerebrale; anossia cerebrale; encefaliti virali; meningiti; uso cronico di sostanze psicoattive.

1.2. Malattie somatiche secondariamente cerebrali Il fenomeno della confusione mentale e` anche provocato da patologie non a partenza cerebrale, ma somatiche. Tra le piu` note e frequenti riconosciamo le: 1)

Endocrine: — Iper/ipotiroidismo; — Addison; — Cushing; — Iper/ipo paratiroidismo; — Insufficienza ipofisaria; — Iperinsulinismo; — Epatica-Renale-Polmonare; — Pancreatica: iper/ipoglicemia.

2)

Vascolari: — Cardiache (vasculopatie, endocardite batterica subacuta, crisi ipertensive, interventi cardiaci).

3)

Infettive: — sistemiche endocraniche; — infezioni da Rickettsie; — epatite virale acuta; — malaria; — HIV.

4)

Degenerative: — lupus eritematoso sistemico; — sclerosi multipla;

Le reazioni organiche acute

5)

Metaboliche: — encefalopatia epatica; — encefalopatia uremica; — chetoacidosi diabetica.

6)

Carenziali: — deficit di vitamina B1; — deficit di acido nicotinico; — deficit di vitamina B12.

7)



b)

Varie; — stati post-operatori.

2. Demenza ` una sindrome fino a questo momento consiE derata a decorso cronico ed irreversibile; ad insorgenza comunemente oltre i 60 anni; caratterizzata da progressivo e graduale deterioramento delle funzioni cognitive a coscienza integra e vigile, con possibilita` di episodi accessuali e transitori di confusione mentale organica acuta configurando nei casi piu` gravi la sindrome nota come reazione catastrofica di Boeneffer, soprattutto come risposta ai cambiamenti (di luoghi o persone abituali e note). Caratteristica essenziale della demenza e sintomo di maggior spicco e` il deficit di memoria sia a breve che a lungo termine. A questa si associano deficit del pensiero astratto, del linguaggio, del giudizio e della critica, della capacita` di costruzione con agnosia, aprassia, modificazioni della personalita` e dell’autocontrollo. Sono possibili reazioni acute d’ansia o di depressione marcata, soprattutto nelle fasi iniziali, quando ancora sono possibili tentativi di dissimulazione e compensazione. In base al decorso, alla patologia organica sottostante, alla risposta al trattamento ed alla presenza di eventi stressanti sia fisici che psicosociali, le demenze sono anche classificate in: a)

trattabili nel 20% circa dei casi quando le patologie organiche sono: — gran parte dei disturbi endocrini e metabolici precedentemente citati come cause di confusione mentale organica acuta;

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tossine esogene: farmaci (barbiturici, bromuri), esposizione a metalli pesanti; — deficit nutritivi: ipovitaminosi B12, pellagra, sindrome di Wernike-Korsakoff; — disturbi post-traumatici: ematoma subdurale, idrocefalo normoteso; — disturbi infiammatori intracranici; — equivalenti epilettici ricorrenti. non trattabili nell’80% circa dei casi quando sono l’espressione di patologie come: — Alzheimer; — alcolismo cronico; — demenza multinfartuale; — corea di Huntington.

2.1. Sindrome amnestica ` una sindrome non frequente. Come nella E demenza, il soggetto presenta un deficit della memoria a breve e a lungo termine, ma sicuramente attribuibile ad un fattore organico specifico ed eziologicamente definito. Manifestazioni emotive associate possono essere: anaffettivita`, apatia e mancanza di iniziativa. La presenza di amnesie spesso porta a confabulazioni che, come gia` detto, hanno la funzione ed il significato di sopperire e dissimulare l’incapacita` di rievocare gli engrammi. Il decorso della malattia e` spesso di tipo cronico ed in relazione alle cause organiche sottostanti che piu` frequentemente sono: — — — — — — —

alcolismo cronico; carenza di tiamina; traumi cranici; interventi chirurgici; ipossia; infarto cerebrale; encefalite da Herpes Simplex.

2.2. Allucinosi organica Sindrome caratterizzata dalla presenza di allucinazioni persistenti o ricorrenti, (visive, uditive, ecc.) che vanno da forme molto semplici non strutturate a forme notevolmente complesse ed organizzate, con integrita` dello stato di coscienza;

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

presenza di una certa critica nei confronti dei fenomeni dispercettivi, oppure viceversa una totale mancanza di critica per cui si puo` arrivare ad un vero e proprio delirio. La diagnosi di allucinosi organica non puo` essere posta se le allucinazioni sono associate all’incapacita` di mantenere e spostare l’attenzione verso uno stimolo esterno. Il decorso della malattia puo` essere brevissimo se secondario all’ingestione di psicostimolanti, o essere cronico quando e` associato a malattie organiche vere e proprie. Come fattori eziologici dell’allucinosi organica si riconoscono: — — — — — —

alcolismo cronico (a. visive, uditive); sordita` (a. uditive); assunzione recente di allucinogeni (a. visive); cecita` da cataratta (a. visive); deprivazione sensoriale; focolai epilettogeni temporali o occipitali.

Si presenta con gli stessi sintomi di un episodio depressivo maggiore o di un episodio maniacale, ma associato ad un lieve difetto cognitivo causato da fattori tossici metabolici. Manifestazioni psicopatologiche concomitanti possono essere ansia, paura, irritabilita`, fobie, ipocondria, irascibilita`. Quali cause organiche si riconoscono: a)

Fattori endocrini: — iper/ipotiroidismo; — iper/ipocorticismo; — carcinoma del pancreas.

b)

Fattori tossici: — reserpina; — metildopa; — allucinogeni.

c)

Malattie virali.

2.5. Sindrome organica d’ansia 2.3. Sindrome delirante organica Il quadro e` dominato dalla presenza di delirio secondario ad un fattore organico specifico. Il tipo di delirio puo` essere variabile, ma il piu` comune e` quello persecutorio. Possono essere presenti disturbi della sensopercezione e lieve difetto cognitivo. Spesso vi sono associate manifestazioni schizofreniformi con alterazioni dell’attivita` psicomotoria (immobilita` o iperattivita`), perplessita`, eccentricita`, alterazioni del tono dell’umore del tipo instabilita` ed irascibilita`. Quali cause di sindrome delirante organica si riconoscono: — — — —

uso di sostanze (anfetamine, cannabis, allucinogeni); epilessia temporale; lesioni cerebrali; corea di Huntington.

Il quadro e` caratterizzato da rilevanti e ricorrenti attacchi non psicogeni, di panico acuto o di ansia generalizzata associata ad irrequietezza motoria per: a)

Fattori endocrini: — iper/ipotiroidismo; — feocromocitoma; — ipoglicemia; — ipercortisolemia.

b)

Fattori tossici: — caffeina; — cocaina; — anfetamina.

c)

Astinenza da: — alcool; — sedativi.

d)

Tumori: — nelle vicinanze del terzo ventricolo.

e)

Epilessia: — temporale.

2.4. Sindrome organica dell’umore ` presente una rilevante e persistente depresE sione oppure una espansione del tono dell’umore.

Le reazioni organiche acute

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2.6 Sindrome organica di personalita`

3.2. Astinenza

` un quadro dominato da un mutamento E della personalita` dipendente principalmente dalla natura e dalla localizzazione del processo organico. Nella sindrome frontale e` presente afasia nominum, iperattivita` inoperosa, esaltazione del tono dell’umore, fatuita`, labilita` emozionale, litigiosita`, scoppi di collera; oppure indifferenza, apatia, perplessita`, disinteresse. In alcuni pazienti con epilessia del lobo temporale puo` essere presente una marcata verbosita`, aggressivita` e sviluppo di sospettosita` o ideazione persecutoria. Il decorso e` acuto o cronico a seconda dell’eziologia costituita prevalentemente da:

A differenza dell’intossicazione, la sindrome da astinenza e` dovuta alla cessazione o riduzione di una sostanza specifica. Essa e` caratterizzata da disorientamento, turbe della senso-percezione, agitazione psicomotoria. A questi si associano: ansia, irritabilita`, irrequietezza, disturbi dell’attenzione ed insonnia. Le sostanze psicoattive in grado di provocare intossicazione e astinenza sono:

— — — — — — —

neoplasie cerebrali (lobi frontali); traumi cranici (inclusa la sindrome postcommotiva); vasculopatie cerebrali; periodo intercritico dell’epilessia temporale; sclerosi multipla e corea di Huntington; disturbi endocrini (tiroidei e surrenalici); uso cronico di sostanze psicoattive.

— — — — — — — — — — —

alcool; anfetamina e sostanze correlate; caffeina; cannabis; cocaina; allucinogeni; inalanti; nicotina; oppiacei; fenciclidina e sostanze correlate; sedativi, ipnotici o ansiolitici.

3.3. Farmaci a dosaggi terapeutici

3. Intossicazioni da sostanze psicoattive e/o tossiche

3.1. Abuso I sintomi da intossicazione sono caratterizzati da un difetto delle capacita` critiche, dell’attenzione, della percezione, della vigilanza, del pensiero. La rapidita` di insorgenza e la durata della sintomatologia sono in stretta relazione e legate alla: a) b) c) d) e) f)

quantita` e qualita` della sostanza; velocita` dell’assunzione; tolleranza individuale; emivita della sostanza; taglia corporea; eventuale combinazione con altre sostanze o farmaci o cibo.

In questo caso le reazioni organiche acute sono associate all’ingestione di farmaci a dosaggi terapeutici. Tra questi i piu` usati sono: a)

Psicofarmaci: — neurolettici (se associati ad antiparkinson o a barbiturici); — antidepressivi triciclici (soprattutto negli anziani).

b)

Analgesici: — non stupefacenti (salicilati, indometacina); — stupefacenti (morfina, codeina, pentazocina).

c)

Anticolinergici: — alcaloidi della belladonna (ad alte dosi); — derivati della piperidina.

d)

Cortisonici (ad alte dosi).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

e)

Cardiovascolari: — diuretici (antialdosteronici drastici); — antiipertensivi (idralazina, nitroprussiato); — antiaritmici (procainamide, lidocaina).

f)

Anticonvulsivanti: — derivati idantoinici (ad alte dosi).

g)

Antiparkinson: — L-dopa.

h)

Chemioterapici e antibiotici: — sulfamidici; — antivirali (adenosina, arabinoside); — antimicotici (griseofulvina, fluorocitosina); — antitubercolari (isoniazide per somministrazione prolungata, cicloserina).

i)

Antistaminici: — cimetidina ad alte dosi.

Riferimenti bibliografici DSM-III-R. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, (American Psychiatric Association), Masson, Milano, 1988. Ey H., Bernard P., Brisset Ch., Manuale di psichiatria, Masson, Milano, 1979. Freedman A.M., Kaplan H. I., Sadock B.J., Trattato di psichiatria, Piccin, Padova, 1984. Giberti F., Rossi R., Manuale di psichiatria, Vallardi, Milano, 1986. Lipowski Z.J. «Organic Mental Disorder» in Kaplan H.I., Fredman A.M., Sandock B.J. (EDS) Comprehensive Textbook of Psychiatry, III, William and Wilkins Baltimore, 1980. Lishaman W.A., Organic Psychiatry, Blackwell, London, 1978. Miotti M.V., Perini G.I, Colombo G. «Disturbi mentali organici: clinica ed eziopatogenesi», Psichiatria e medicina, anno III, n. 8, pag. 7-13, ottobre 1989. Perini G.I., I disturbi mentali organici, Patron, Bologna, 1989.

35 Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche Roberto Tatarelli Parole chiave psicosindrome organica; disturbi di coscienza; psicosi epilettiche

I due capitoli che seguono possono rappresentare il sogno di molti psichiatri: ovverosia la possibilita` di correlare i disturbi psichiatrici a ben determinati quadri anatomo-patologici. A ben guardare, queste sindromi rappresentano pero` una parte abbastanza esigua della clinica, quasi a testimoniare l’impossibilita` di ridurre la psichiatria ad una anatomia patologica. Questo nulla toglie all’importanza dei quadri clinici descritti, sia in ordine ad una migliore comprensione della complessita` della psichiatria, sia in ordine all’importanza clinica e sociale di questi quadri, soprattutto le demenze. Il disturbo organico psichiatrico si esplicita fondamentalmente con la compromissione di al-

cune funzioni psichiche fondamentali, quali soprattutto la memoria e la coscienza. Altro dato importante e` che il prolungarsi della lunghezza media della vita comporta l’aumento di questi quadri e soprattutto delle demenze. In questi casi, purtroppo, fin quando non si trovera` una terapia efficace, l’unica possibilita` rimane quella assistenziale. Si pone cosı` un problema che richiede una corretta valutazione delle capacita` operative residue del paziente, onde stimolare queste capacita` e permettere al soggetto affetto da demenza di non diventare completamente passivo e dipendente. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Traumi cranici In seguito a traumi cranici possono verificarsi diversi disturbi psichici, la cui eziologia e` ben lungi dall’essere chiarita. I fattori che entrano in gioco sono molteplici. Naturalmente, la sede e l’entita` del trauma hanno una certa importanza, specie per quello che riguarda lo stadio acuto post-traumatico; ma anche la personalita` dell’individuo gioca un ruolo non di secondo piano, specie nell’evoluzione cronica.

1.1. Disturbi post-traumatici acuti Descriviamo brevemente, per completezza, questi stati, che pur ben difficilmente, come si puo` capire, sono di pertinenza psichiatrica. Il sintomo cardinale e` un disturbo di coscienza che puo` andare dalla perdita ad un piu` semplice obnubilamento. Questo si puo` verificare subito dopo il trauma (commozioni e contusioni cerebrali) o a distanza di qualche giorno (compressioni cerebrali da formazione di ematomi). La durata puo` variare da pochi secondi (ad esempio, il knock out dei pugili) a settimane intere. In generale, si puo` affermare che piu` lunga e` la durata della perdita (o dell’obnubilamento) della coscienza, piu` elevata e` la possibilita` di trovarsi di fronte ad emorragie o contusioni, anche se questo non puo` essere considerato, secondo Adams e Victor (1988), un criterio assoluto. Alla ripresa della coscienza, si assiste di regola alla insorgenza di uno stato dismnesico, che in genere e` di tipo retro-anterogrado, ossia riguarda sia il periodo immediatamente precedente sia quello immediatamente successivo al trauma. Inoltre, se c’e` stata perdita di coscienza, e` da ricordare che la ripresa delle normali funzioni psichiche e` graduale e che, di norma, si assiste quindi al cosiddetto stato confusionale posttraumatico, caratterizzato da disorientamento temporo-spaziale, disconoscimenti, ideazione rallentata e frammentaria, emotivita` incontrollata. Questo stato e`, di norma, reversibile in qualche giorno. Per quel che riguarda l’etiologia di questi disturbi, come gia` detto, essa non e` ancora chiarita:

vengono comunque attribuiti ad una sofferenza funzionale delle strutture mesodiencefaliche, provocata forse o da transitorie ischemie o dal brusco aumento della pressione intracranica, che supera quella arteriosa sistemica, o da sfregamenti sui piani ossei.

1.1.1. Disturbi post-traumatici cronici

Sono quelli di maggiore interesse, oltre che ` in questi, o spesso di pertinenza psichiatrica. E almeno in parte di questi, che la personalita` dell’individuo gioca un ruolo predominante, mentre il trauma gioca solo un ruolo di fattore di scatenamento. a)

Disturbo post-traumatico da stress: con questo nome, il Manuale Diagnostico e Statistico (DSM-III-R) dell’American Psychiatric Association sistema nella categoria dei «Disturbi d’ansia» un disturbo indicato dagli Autori francesi come «sindrome soggettiva dei traumatizzati cranici» e dagli Autori anglosassoni come «nevrosi da indennizzo» o, piu` semplicemente, «disturbo post-commo` un quadro di tipo neurasteniforme, i tivo». E cui sintomi principali consistono in cefalea diffusa che si esacerba con gli sforzi fisici, vertigini di tipo soggettivo, astenia, turbe del sonno, disturbi dell’attenzione e della memoria, disturbi dell’umore con tendenza a reazioni di tipo depressivo-ansioso (disforia), iperestesia emotiva. ` stata chiamata anche «nevrosi da indenE nizzo» perche´ spesso si puo` riscontrare una forte componente rivendicativa («sinistrosi» degli Autori francesi), in seguito ad incidenti stradali, o sul lavoro, che comportano appunto una richiesta di risarcimento del danno subito dal traumatizzato; e` un problema medico-legale di non facile soluzione, in quanto e` sempre vivo il dubbio di simulazione. La maggior parte degli Autori e` concorde nel ritenere, nonostante l’usuale negativita` dell’esame neurologico e di quelli strumentali e di laboratorio, che all’origine del disturbo vi possano essere turbe neurolo-

Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche

b)

c)

d)

giche a carico delle strutture meso-diencefaliche su cui si innestano fattori psicogeni, essenziali nel suo mantenimento, consci ed inconsci, legati alla preoccupazione per il danno subito e all’eventuale risarcimento. Diversa e` infatti la prognosi in relazione alla personalita` premorbosa: in soggetti con personalita` armonica la sindrome tende a scomparire in breve tempo, mentre in personalita` nevrotiche tende a persistere a lungo. Non sono eccezionalmente rare evoluzioni in senso psicotico, incentrate su temi deliranti di rivendicazione e querulomani; Sindrome di Korsakoff post-traumatica: nel 2-3% dei traumatizzati, di solito dopo un lungo periodo di coma, si puo` manifestare una classica sindrome di Korsakoff (amnesia di fissazione, falsi riconoscimenti, confabulazioni) che pero`, a differenza di quella ad etiologia alcoolica, e` completamente reversibile nel giro di poche settimane. Solo raramente, per lo piu` in persone anziane, questo quadro tende a peggiorare fino al deterioramento mentale; Psicosi post-traumatiche: anche se alcuni Autori ammettono tale possibilita` (psicosi esogene), e` difficile sostenere che un trauma cranico possa rappresentare la causa etiologica di una psicosi di tipo schizofrenico o maniaco-depressiva insorta in rapporto cronologico al trauma stesso. Secondo MayerGross (1954), l’incidenza di tali disturbi nei traumatizzati cranici non supera quella della popolazione generale: va quindi ammesso che il trauma giochi un ruolo scatenante in personalita` predisposte; Nevrosi post-traumatiche: oltre al gia` citato Disturbo Post-Traumatico da Stress, il trauma puo` slatentizzare nevrosi fobiche (soprattutto agorafobiche), ossessive, parossismi d’ansia (psiconevrosi da spavento), nevrosi di tipo ipocondriaco. Anche qui il trauma gioca solo un ruolo di «fattore scatenante» in personalita` predisposte1.

2. Malattie infettive

2.1. Sifilide cerebrale L’interessamento del SNC da parte del Treponema Pallidum, che avviene nella fase terziaria della sifilide, puo` manifestarsi clinicamente sotto diverse forme, espressioni della diversa localizzazione dei granulomi (o gomme) luetici. Il piu` spesso, pero`, i sintomi delle forme che descriveremo si fondono per dare luogo a forme miste. Non possiamo percio` prescindere, anche se i sintomi psichici sono presenti nella sola meningoencefalite, dal descrivere anche le altre forme. 1)

2)

3) 1

Vedi anche capitoli 38; 39; 40.

609

Meningite luetica. Secondo Adams e Victor (1988), tutti i casi di neurosifilide iniziano con meningite, ma spesso questa rimane asintomatica, e puo` venire evidenziata solo attraverso una puntura lombare (neurosifilide asintomatica), che puo` in seguito evolvere a meningoencefalite. Si manifesta, di solito, entro i primi due anni dall’infezione. Quando non e` asintomatica si hanno i classici segni e sintomi dell’irritazione meningea (rigidita` nucale, posizione ad opistotono o ‘a cane di fucile’, segni di Kernig e di Brudzinski), di ipertensione endocranica (cefalea diffusa, vomito ‘cerebrale’, papilla da stasi, paralisi del VI paio) e generali (obnubilamento della coscienza). Generalmente non c’e` febbre. Sifilide meningovascolare. In media si verifica dopo 6 o 7 anni dall’infezione primaria, ma la latenza puo` variare da sei mesi a dodici ` causata da infiammazione delle arteanni. E rie (arterite di Huebner), con fibrosi reattiva che porta a restringimento del lume delle arterie ed alla loro occlusione. Si possono percio` verificare, in tempi successivi, diversi accidenti cerebro-vascolari (afasia, emiplegia, emianestesia etc.). La diagnosi differenziale si basa su esame del liquor e tests sierologici. ` la forma piu` tardiva Neurosifilide tabetica. E (15-20 anni dall’infezione), ed e` dovuta alla degenerazione dei cordoni posteriori del mi-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

` caratterizzata da atassia, dollo spinale. E perdita della sensibilita` superficiale con conservazione della termodolorifica (dissociazione tabetica), dolori lancinanti, incontinenza urinaria, ulcere trofiche della pianta del piede (mal perforante). Piu` raramente si hanno stipsi e turbe della digestione. ` la vecchia paraMeningoencefalite luetica. E lisi generale o demenza paralitica, che nel 1911 Nogouchi e Moore dimostrarono dipendere dalla presenza nel parenchima cerebrale dei treponemi. Si sviluppa a 10-20 anni dall’infezione; all’esordio si ha di solito un quadro di tipo neurastenico, cui fa seguito un progressivo impoverimento delle capacita` intellettive. Al quadro demenziale si sovrappongono sempre disturbi dell’umore. Bleuler individuo` una forma maniacale, molto piu` frequente, una forma euforica, una rara forma melanconica ed una forma agitata. Ai disturbi cognitivi e dell’affettivita` si affiancano caratteristici segni neurologici, soprattutto oculari: anisocoria, anisociclia, fenomeno di Argyll-Robertson. Si hanno poi disturbi della fonazione (disartria, ‘parola scandita’), della scrittura (irregolarita`, omissione di lettere o sillabe), tremori, movimenti involontari bucco-linguali. Episodicamente il paziente puo` andare incontro a crisi comiziali o apoplettiformi.

2.1.1. Diagnosi, terapia e prognosi

La diagnosi di sifilide cerebrale si basa classicamente sulla ricerca degli anticorpi antitreponema, non specifici (reagine) e specifici. I primi, che si basano sulle tecniche di flocculazione (VDRL) o di deviazione del complemento (Wassermann) danno pero` un certo numero di falsi positivi e negativi. Si ricercano quindi, di preferenza, gli anticorpi specifici (PHTA). Di norma, in casi di neurosifilide, questi anticorpi possono ritrovarsi nel sangue, ma la negativita` degli esami ematochimici non esclude con assoluta certezza la positivita` del liquor: e` buona norma, quindi, ricorrere sempre alla puntura lombare. L’esame

del liquor rivela, oltre alla positivita` dei tests nominati, le seguenti alterazioni: 1) 2) 3)

aumento delle cellule, con prevalenza di elementi linfomononucleati (200-300/mmc); proteinorrachia aumentata, con innalzamento prevalente delle gamma-globuline; glicorrachia nei limiti.

La terapia si basa sull’uso della penicillina; gli Autori americani raccomandano l’uso di dosi altissime (18-24 milioni di UI/die) di penicillina G cristallina, per via endovenosa, per 14 giorni. La penicillina ritardo (benzatin-penicillina) non avrebbe effetto. Alternative efficaci possono essere l’eritromicina o le tetracicline. Questi cicli andrebbero ripetuti ogni sei mesi fino a normalizzazione del quadro liquorale, che e` l’unico elemento che guida la prognosi, che e` comunque sempre favorevole quoad vitam. 2.2. Altri processi infettivi Nelle meningiti, spesso, l’esplosione drammatica della sintomatologia e` preceduta da un breve periodo caratterizzato da sintomatologia neurasteniforme: sonnolenza, stancabilita`, abulia con improvvisi sbalzi d’umore. Questo stato tende a prolungarsi nel tempo quando il processo flogistico e` a lenta evoluzione (es. meningite tubercolare). Gravi reliquati della meningite, specie nei bambini, possono essere epilessia, ipoevolutismo psichico, sindromi amnesiche. Nelle encefaliti, se si eccettua la meningoencefalite luetica, non c’e` un quadro psichico caratteristico di questa o quella forma: con una certa costanza si verificano quadri deliranti-allucinatori ed agitazione psicomotoria sovraimposti a restringimenti del campo di coscienza (vedi ‘‘la confusione mentale’’). Anche qui si possono avere gravissime conseguenze, soprattutto deficit cognitivi, alla remissione del processo morboso. Anche varie malattie febbrili acute (tifo, malaria, esantemi infantili) possono provocare l’insorgenza di stati confuso-onirici come quello sopra descritto: in queste, pero`, la sintomatologia non e` dovuta alla localizzazione dell’agente infettivo nel parenchima cerebrale, ma a meccanismi di ipossia

Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche

cerebrale o, almeno secondo alcuni Autori, a tossine di natura sconosciuta. ` poi il caso di ricordare che varie malattie febE brili, specie virali (influenza), possono agire da fattori scatenanti episodi affettivi maniacali o depressivi. Un discorso a parte e` da farsi per la brucellosi, fra le cui forme croniche e` da ricordare la forma neuropsicastenica, consistente in depressione con forti componenti ansiose, irritabilita`, astenia spiccata. Questo sembra essere un quadro proprio della malattia, e non uno scatenamento in personalita` predisposte. Sembra essere dovuta alla localizzazione delle brucelle nel SNC: di solito, ma non sempre, si associa a sintomi o segni di meningismo.

3. Disturbi psichici nell’epilessia In questo paragrafo descriveremo solo i quadri clinici di maggior interesse psichiatrico legati alla patologia epilettica: il lettore e` rimandato ai testi di Neurologia per quel che riguarda i criteri classificativi e la eziopatogenesi dei disturbi epilettici.

3.1. Disturbi acuti negli epilettici

3.1.1. Crisi epilettiche parziali con sintomatologia complessa (epilessia temporale)

Quando una scarica epilettica ha il suo focus d’origine nel lobo temporale, la sintomatologia che ne deriva puo` interessare numerosi aspetti dell’attivita` psichica. Ne nascono quadri comportamentali che possono porre problemi di diagnosi differenziale con disturbi psichici primari, sia psicotici (schizofrenia) sia nevrotici (soprattutto l’isteria). Questi problemi saranno presi in considerazione dopo un breve esame dei quadri clinici. 1)

Crisi psicomotorie: il soggetto che va incontro a questo tipo di crisi inizia improvvisamente a comportarsi in maniera inadeguata all’ambiente, con comportamenti ripetitivi, automatici («automatismi psicomotori») dei quali sembra non avere coscienza («stato crepusco-

2)

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lare»): puo` ad esempio spogliarsi e rivestirsi, o fregarsi continuamente le mani ecc. («automatismi mimici o gestuali»), ripetere monotonamente una parola o una cantilena («automatismi verbali»), mettersi a camminare o a correre senza una meta apparente («automatismi ambulatori»). A volte, la sintomatologia consiste nel solo obnubilamento della coscienza («crisi confusionali»). Altre volte la crisi puo` anche passare inosservata, perche´ il malato continua a fare automaticamente cio` che stava facendo (es. se mangiava, continua a portarsi le posate alla bocca anche se il cibo e` finito). Le crisi in genere hanno breve durata, ma a volte, specialmente nel caso degli automatismi ambulatori, possono durare qualche giorno: si hanno allora le «fughe» epilettiche. Le «crisi furiose», descritte in quest’ambito, sono state interpretate da Gastaut come conseguenza di una mancanza di critica di fronte a situazioni mal interpretate: di fronte a reazioni per altri versi logiche (es. cercar di fermare un paziente epilettico, in preda a crisi ambulatorie, che attraversa una strada piena di traffico) le controreazioni del malato, che come ricordiamo si trova in stato di obnubilamento della coscienza, possono essere inconsulte (es. picchiare o ferire chi cerca d’aiutarlo). Crisi psicosensoriali: possono manifestarsi davanti agli occhi del paziente vivide scene («crisi allucinatorie»), o questi puo` percepire in maniera errata il mondo che lo circonda («crisi illusionali»), o puo` immaginare di aver «gia` visto» la scena che sta vivendo, o di aver «gia` udito» cio` che gli si dice (de´ja` vu, de´ja` entendu), o al contrario di non riconoscere l’ambiente che dovrebbe essergli familiare (jamais vu). Oppure possono verificarsi disturbi della coscienza dell’Io, per cui il paziente afferma che e` ‘‘come se’’ le persone che sono davanti a lui non fossero vere, reali, anche se sa che sono vere e reali (derealizzazione o depersonalizzazione allopsichica), oppure ‘‘come se’’ il proprio corpo si smaterializzasse, anche se sa che cio` non accade (depersonalizzazione somatopsichica). Tutti questi sintomi si verificano in uno stato di

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3)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

coscienza durante il quale il paziente mescola elementi provenienti dal mondo interno ad un parziale contatto col mondo esterno: da` l’impressione, a chi lo osserva, di vivere un’esperienza di sogno («stato oniroide»). Crisi affettive, crisi ideatorie («pensiero forzato»): sono piu` rare dei due tipi precedenti. Le prime consistono, in genere, in improvvise reazioni emotive di paura, piu` raramente di gioia immotivata. Le seconde consistono in vere e proprie idee coatte, da cui il soggetto non riesce a staccarsi, vivendo un’esperienza molto simile alle ossessioni. Finita la crisi, pero`, raramente il paziente ricorda il contenuto di tale idea coatta.

Diagnosi differenziale. Per le crisi psicomotorie, i problemi di diagnosi differenziale si pongono soprattutto con l’isteria. Oltre ai criteri strumentali (EEG), che anche in fase intercritica mostrano di solito anomalie bioelettriche in sede temporale, i criteri di diagnosi sono l’accessibilita` del disturbo epilettico, la durata delle crisi, la amnesia lacunare che segue la crisi (molto importante nel differenziare una «fuga» epilettica da analoghi fenomeni che possono verificarsi in isterici e schizofrenici) e, naturalmente, il disturbo di coscienza: l’isterico, se distratto, reagisce adeguatamente, mostrando che in realta` l’estensione del suo campo di coscienza e` normale. Le crisi psicosensoriali possono porre problemi di diagnosi differenziale soprattutto con episodi psicotici acuti: anche qui l’accessualita`, la durata, il «dreamy state» possono essere d’aiuto. In genere, poi, se c’e` delirio, questo e` sempre legato al contenuto dell’allucinazione, e non assume i connotati del delirio schizofrenico (mistici, persecutori ecc.). Ricordiamo poi che i fenomeni di depersonalizzazione possono trovarsi in altri tipi di disturbo, ad esempio nello «stato d’animo delirante» (Wahnstimmung) che precede l’esordio della schizofrenia o nelle reazioni d’ansia acute ed anche, al pari dei fenomeni a tipo de´ja` vu, in condizioni di spossatezza psicofisica. Per cio` che riguarda il «pensiero forzato», il fatto che l’idea dominante non sia strutturata, che non vi sia «psichismo di difesa», che non si abbia ricordo di tale idea una volta finita la crisi con-

sente la diagnosi differenziale sia dalla nevrosi ossessiva sia dagli «equivalenti depressivi» a sfondo anancastico.

3.1.2. Psicosi acute epilettiche

Sono molto simili alle «crisi confusionali», agli «stati crepuscolari» e agli «stati oniroidi» gia` visti nella descrizione delle crisi parziali complesse: a volte, questi disturbi si hanno in fase post-critica, ad es. conseguenti a crisi di Grande Male. Possono essere interpretate come liberazione di attivita` automatiche conseguenti all’obnubilamento della coscienza.

3.2. Disturbi cronici negli epilettici

3.2.1. Psicosi croniche

Si tratta di disturbi psicotici, non riferibili alla comizialita`, ossia post- o intercritici: disturbi che si sviluppano raramente (nel 2% circa di tutti gli epilettici). Si manifestano di solito in forma paranoicale, con deliri lucidi, strutturati, riguardanti temi religiosi (molto piu` raramente persecutori, di gelosia o megalomanici). Eccezionali sono le allucinazioni. Si strutturano di solito, ma non unicamente, in epilettici di vecchia data, soprattutto sofferenti di crisi temporali. I rapporti fra le psicosi e l’epilessia sono controversi: alcuni sostengono trattarsi di una coincidenza fortuita fra le due sindromi, altri (Stevens 1973; Bruens 1974) propendono per un’eziopatogenesi comune.

3.2.2. Demenza epilettica

Rispetto al secolo scorso, in cui le prognosi erano influenzate dall’assenza di terapia e soprattutto dall’istituzionalizzazione degli epilettici, un’evoluzione verso il deterioramento psichico si e` fatta molto meno frequente. I vari Autori sono d’accordo nel sostenere che, piu` che essere legata all’epilessia in se´ stessa, tale evoluzione e` legata alla natura e alla sede della lesione che determina

Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche

la sintomatologia epilettica (si ha soprattutto in seguito ad epilessia temporale ed e` influenzata da fattori quali la scolarita`, l’inserimento sociale e lavorativo, l’ospedalizzazione). 3.2.3. Personalita` epilettica

Gia` nel secolo scorso (Esquirol 1838; Fe`re 1890) si noto` come negli epilettici fosse piuttosto comune una labilita` dell’umore, in cui a stati di torpore e rallentamento ideativo facevano seguito scoppi di collera. In seguito E. Bleuler e soprattutto F. Minkowska studiarono molto a fondo la personalita` degli epilettici. Quest’ultima (1927) arrivo` a proporre una «costituzione epilettoide» (da affiancare alle due costituzioni «cicloide» e «schizoide» di Kretschmer), caratterizzata da irritabilita` con esplosioni affettive e da quella che lei chiamo` «gliscroidia» (dal greco: viscosita`), che stava ad indicare il rallentamento ideativo ed intellettivo («bradipsichismo») di questi soggetti e il loro particolare comportamento affettivo pedante, perseverante, soffocante ed appiccicoso. A parte le altre considerazioni della Minkowska (ad es. quelle costituzionaliste e tipologiche) oggi ormai abbandonate, la discussione su questa peculiare personalita` e` stata abbondante. Oggi si ritiene che, piu` che di una costituzione vera e propria, sia meglio parlare di tratti caratteriali epilettici cui concorrono vari fattori: localizzazione della lesione (soprattutto i temporali presenterebbero turbe del carattere), ospedalizzazione e, non troppo sorprendentemente se si pensa alla sua importanza nel rallentamento psichico, la terapia con barbiturici. Secondo Ey, Gastaut ed altri Autori c’e` una sorta di «bilanciamento» tra frequenza delle crisi comiziali e turbe del carattere: diminuendo le une, aumentano le altre (effetto «catartico» delle crisi comiziali).

4. Terapia Rimandando a testi di Neurologia per una trattazione piu` approfondita, diremo che i cardini

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della terapia antiepilettica restano barbiturici ed idantoinici, mentre si va sempre piu` affermando la carbamazepina (grazie anche al suo ruolo nei disturbi affettivi, che la fa considerare un ‘ponte’ fra Neurologia e Psichiatria, quindi particolarmente adatta — con un sillogismo forse poco corretto — nei disturbi psichici degli epilettici). Un problema particolare e` dato dalle psicosi epilettiche, specie croniche, in cui il trattamento con neurolettici, farmaci capaci di abbassare la soglia convulsiva, puo` peggiorare la situazione. Alcuni Autori consigliano «un giusto equilibrio» fra neurolettici ed anticonvulsivanti; altri, forse piu` avvedutamente, consigliano di non usare neurolettici, basando tutta la terapia su barbiturici e benzodiazepine.

5. Tumori dell’encefalo I tumori cerebrali possono manifestarsi con vari sintomi a carico della sfera psichica. Questi non hanno alcun rapporto con la natura del tumore, bensı` con la sede (sintomi «a focolaio»). Per brevita`, questi sintomi vengono elencati in Tabella 1. Prima di questi, e prima dei caratteristici disturbi neurologici, si puo` verificare l’insorgenza della cosiddetta «sindrome amnesica organica» o «sindrome psico-organica», caratterizzata da obnubilamento, torpore e rallentamento generale delle funzioni psichiche (bradipsichismo). Non se ne conosce l’origine: e` stata ipotizzata come causa etiologica l’azione dell’ipertensione endocranica sulle strutture del tronco cerebrale, ma questa ipotesi e` stata smentita da Autori come Schlesinger, Maxwell, Ajuriaguerra. Insieme ai sintomi suddetti, tuttavia, si possono riscontrare i segni classici dell’ipertensione endocranica (cefalea, papilla da stasi, paralisi del VI paio, vomito non preceduto da nausea) che, insieme al disturbo di coscienza, consentono di distinguere questa sindrome da un episodio depressivo.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia Tabella 1 - SINTOMI «A FOCOLAIO» DA TUMORE CEREBRALE

Disturbi dell’umore: perdita dei principi etici e dell’autocontrollo, fatuita`, irritabilita`, indifferenza affettiva (moria frontale) Lobo frontale

Disturbi dell’attivita`: eccitamento o inibizione psicomotoria Disturbi dell’intelligenza: deficit di memoria, incapacita` di concentrazione

Lobo temporale

«Crisi uncinate»: allucinazioni olfattive spesso sgradevoli (cacosmie) cui fa seguito un restringimento del campo di coscienza («stato oniroide») con esperienze tipo de´ja` vu o de´ja` vecu) Automatismi psicomotori verbali, ambulatori ecc. Crisi psicosensoriali

Lobo parietale

Alterazioni della percezione a tipo anosognosia (negazione o assoluto disinteresse per l’emilato colpito), astereognosia (incapacita` di riconoscere gli oggetti in base alla forma) ecc.

Lobo occipitale

Alterazioni della percezione a tipo allucinosi elementari (compaiono davanti agli occhi del paziente elementi quali linee, cerchi, macchie colorate; il paziente conserva buona critica; non c’e` alcun disturbo della coscienza)

Ipofisi

Disturbi dell’umore e del comportamento, in genere a sfondo depressivo-disforico con abulia, apatia, irritabilita`, umore depresso, mancanza di iniziativa

Regione mesodiencefalica

Turbe della coscienza simili a quelle da tumore temporale (mancano, naturalmente, le crisi uncinate) Disturbi dell’umore

6. Disturbi endocrini I rapporti fra SNC e sistema endocrino sono oggi studiati a fondo soprattutto per quel che riguarda l’approccio psicobiologico-psicofisiologico dalla Psicosomatica. Non va dimenticato, pero`, che diversi disturbi psichici possono essere favoriti o modificati, nel loro decorso, dalla coesistenza di disturbi endocrini. Ad es. fra l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide ed il disturbo bipolare esistono complicati rapporti non ancora del tutto chiariti, e basta pensare alle innumerevoli dispute sul Disturbo della Tarda Fase Luteinica (la vecchia «sindrome premestruale») per avere un’idea dei rapporti fra umore e asse ipotalamo-ipofisigonadi. In questa sede verranno sinteticamente de-

scritti solo i quadri psicopatologici secondari a disturbi endocrini conclamati, rimandando il lettore a testi piu` specializzati per eventuali approfondimenti: a)

Tiroide: nelle condizioni di ipertiroidismo si manifesta il classico «stato eretistico», in cui il soggetto e` irritabile, iperemotivo, collerico o pauroso, insonne. Raramente si instaurano quadri di confusione psichica. Nell’ipotiroidismo congenito o infantile, che si manifesta come globale rallentamento psicomotorio con sonnolenza, astenia, flebilita` del pianto, iporeflessia ecc., se non si interviene in tempo si va incontro a quella tipica forma di ritardo mentale che prende il nome di cretinismo, irreversibile una volta instauratosi.

Disturbi psichiatrici secondari ad alterazioni organiche

b)

c)

d)

Nel mixedema (ipotiroidismo dell’adulto) si verifica solo il globale rallentamento psicomotorio, ideativo ed intellettivo («demenza ipotiroidea»), del tutto reversibile una volta instaurata la terapia. Ipofisi: un vero e proprio quadro psicopatologico e` presente solo nella sindrome di Schwartz-Bartter, dovuta a secrezione impropria di ADH da parte di un tumore non ipofisario; l’iperidratazione del cervello puo` produrre un quadro simile alla «psicosi confusionale» descritta altrove. Peraltro, il diabete insipido puo` porre problemi di diagnosi differenziale con la potomania, e la cachessia ipofisaria puo` essere confusa, specie all’inizio, con una forma di anoressia mentale. Surrene: nella malattia (o nella sindrome) di Cushing si ritrovano costantemente disturbi dell’umore, che possono essere sia di tipo maniacale sia depressivo. Nella malattia di Addison si ritrovano invece apatia, sonnolenza alternata ad agitazione, irritabilita`, insonnia. Tutti questi disturbi sono completamente reversibili curando la malattia causale. Paratiroidi: nell’ipercalcemia si ritrova incostantemente una tendenza alla depressione dell’umore con cui sarebbero peraltro compatibili sintomi come astenia, dolori ossei, cefalea diffusa. L’ipocalcemia provoca invece sintomi epilettiformi (parestesie, convulsioni) cui si possono aggiungere manifestazioni psicotiche a sfondo depressivo. Tutti

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questi sintomi sono reversibili correggendo la calcemia*.

Riferimenti bibliografici Adams M., Victor R., Principles of Neurology, 3a ediz., Mc Graw-Hill, New York, 1988. Bruens J. M., «Psychosis in epilepsy», in Vinken P.J., Bruyn G.W., Handbook of Clinical Neurology, North Holland, Amsterdam, 1974. Ey H., Bernard P., Brisset C., Manuale di Psichiatria, 3a ediz., Masson, Milano, 1984. Gastaut H., Dizionario dell’epilessia, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1976. Lipowski R.J., «Organic Mental Disorder», in Kaplan H.I., Friedman A.M., Sadok B.J. (eds), Comprehensive Texbook of Psychiatry III, William and Wilkins, Baltimore, 1980. Lishman, W.A., Organic Psychiatry: the psychological consequences of cerebral disorders, 2a ediz., Blackwell Scient. Publ., Oxford-London, 1987. Mayer-Gross W., Slater E., Roth M., Clinical Psychiatry, Cassell and Company LTD, London, 1954. Perini G.I., I disturbi mentali organici, Patron, Bologna, 1989. Stevens J.R., «Psychomotor epilepsy and schizophrenia: a common anatomy?» in Brazier M., Epilepsy: its phenomena in Man, Academic Press, New York, 1973. [Per le note storiche (Esquirol, Fe´re, Minkowska), vedi: Ey H., Bernard P., Brisset C., op. cit.].

* Ringrazio Renato Proietti per l’aiuto fornitomi nella stesura del presente capitolo.

36 Le demenze Roberto Tatarelli Parole chiave Malattia di Alzheimer; demenza multinfartuale (M.I.D.); Malattia di Pick; deterioramento cognitivo; demenze reversibili; idrocefalo normoteso

1. Introduzione L’accezione piu` classica di stato demenziale e` bene espressa dalla definizione di Ey di «decadimento psichico profondo, globale e progressivo che altera le funzioni intellettive di base e disintegra le condotte sociali». Nonostante, gia` nel 1917, la possibilita` di stabilizzare o addirittura far regredire il quadro demenziale della paralisi progressiva attraverso terapie specifiche abbia, in un certo modo, minato il concetto di progressivita`, molti autori hanno seguitato a sostenere che la demenza propriamente detta sia intimamente connotata da una tendenza evolutiva, nel senso di un progressivo decadimento delle funzioni psichiche. Recentemente, tuttavia, l’osservazione di numerosi quadri demenziali reversibili, secondari a varie patologie neurologiche e internistiche, ha condotto a formulare definizioni che contengono implicazioni prognostiche meno severe. Cosı`, per il Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians britannico (1981), «la demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi com-

prese la memoria, la capacita` di far fronte alle richieste della vita di ogni giorno e di svolgere le prestazioni percettivo-motorie gia` acquisite in precedenza, di conservare un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive; tutto cio` in assenza di compromissione dello stato di vigilanza. La condizione e` spesso irreversibile e progressiva». Ecco quindi prevalere un approccio descrittivo che sottolinea l’aspetto sindromico, includendo tutte le condizioni patologiche in cui sia presente un decadimento psico-intellettivo, comprese le demenze reversibili o trattabili. Se pero` ci si limita a considerare le forme demenziali piu` note e frequenti come quelle degenerative primarie e quella multinfartuale (forme in cui la demenza non rappresenta solo un sintomo ma costituisce il nucleo psicopatologico essenziale), il concetto di potenziale evolutivo infausto, di perdita progressiva e irreversibile del patrimonio intellettivo, per quanto a volte lenta o molto lenta, conserva tutta la sua validita`. La demenza e` un fenomeno patologico complesso. Il soggetto con capacita` intellettive nor-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

malmente sviluppate non va semplicemente incontro ad una «perdita di intelligenza», ma ad un deterioramento profondo del suo essere psichico, spesso difficile da cogliere negli stadi iniziali, in cui proprio l’attenzione ad aspetti comportamentali alterati, piu` che a sintomi precisi, puo` indirizzare al sospetto diagnostico.

2. Nosografia ed epidemiologia In Tabella 1 vengono elencate le forme demenziali a tutt’oggi conosciute suddivise in cinque gruppi nosografici. La demenza non e` appannaggio esclusivo dell’eta` presenile e senile, tuttavia le forme piu` frequenti, come la Malattia di Alzheimer (dalla meta` ai due terzi di tutte le forme demenziali, a seconda delle statistiche) e la Demenza Multinfartuale (dal 15 al 20% dei valori di prevalenza riportati) interessano il presenio (eta` tra i 45 e i 65 anni) e il senio (oltre i 65 anni), in cui peraltro

aumenta la frequenza di altre patologie, ad esempio il Morbo di Parkinson, potenzialmente responsabili di decadimento intellettivo. Negli ultimi decenni l’aumento della popolazione ultrassessantacinquenne ha comportato un equivalente incremento dei casi con percentuali di prevalenza del 5% a 65 anni fino al 20% ed oltre ad 80 anni. L’invecchiamento puo` quindi essere considerato come un fattore di rischio per le forme principali di demenza, ma non implica di per se´ un decadimento psicointellettivo effettivo. Nell’invecchiamento fisiologico, nonostante il reperto frequente di lesioni cerebrali atrofico-involutive e l’eventuale riscontro di deficit enzimatici, e nonostante il declino di efficienza di alcune funzioni psichiche e sensomotorie (vista, udito, memoria, tempi di reazione e fluidita` mentale), e` permesso un assetto psicointellettivo nel complesso ampiamente soddisfacente, e non di rado si osservano alti livelli di performance nell’ambito delle funzioni nervose superiori.

Tabella 1 - CLASSIFICAZIONE DELLE DEMENZE Demenza degenerativa primaria

— —

Malattia di Alzheimer-Perusini (presenile e senile) Morbo di Pick

— — —

— — — —

Idrocefalo normoteso Tumori cerebrali, Ematoma subdurale Infezioni del SNC: Neurosifilide, Meningite tubercolare o micotica, Encefalite virale, Malattia di Creutzfeldt-Jacob, AIDS Traumi cranici Malattie extrapiramidali: M. di Parkinson, M. di Wilson, Corea di Huntington, Paralisi progressiva sopranucleare Sclerosi multipla Eredoatassia spinocerebellare Sclerosi laterale amiotrofica Sindromi epilettiche

— — — — — — —

Anemia perniciosa Deficienza di folati Ipotiroidismo Morbo di Cushing Alcolismo, Malattia di Marchiafava-Bignami Intossicazione da bromuri Stati post-anossici e postipoglicemici

Demenza multinfartuale (MID) Demenza di tipo misto (degenerativo-vascolare)

Demenza correlata a malattie neurologiche

Demenza correlata a disturbi tossico-metabolici

— —

Le demenze

2.1. Malattia di Alzheimer-Perusini1 Descritta da Alzheimer nel 1907-1911 (e da Perusini nel 1910) colpisce prevalentemente il sesso femminile. Attualmente vengono riconosciute la forma presenile (eta` tra i 45 e i 65 anni) o Malattia di Alzheimer in senso stretto (AD) e la «demenza senile di tipo Alzheimer» (SDAT), etichettate entrambe come «Malattia di Alzheimer». La maggioranza dei casi di Malattia di Alzheimer insorge sporadicamente, ma in alcuni casi puo` essere evidenziata una tendenza familiare ben definita. Alcune fonti riportano una prevalenza della malattia quattro volte superiore nei parenti di primo grado. La tendenza ereditaria potrebbe consentire ad altri fattori esterni di determinare la slatentizzazione della malattia. Nelle forme presenili l’esordio e` spesso piu` appariscente rispetto alle forme senili, in cui e` in genere piu` lento ed insidioso. L’esordio, talvolta, appare in relazione a circostanze scatenanti quali malattie fisiche, traumi, assunzione di vari farmaci, stress emotivi, anestesia. Una attenta anamnesi potra` pero` evidenziare che la malattia era gia` presente e che i fattori cosiddetti precipitanti l’hanno semplicemente evidenziata, probabilmente attraverso danni cerebrali anche minimi, in grado di portare il paziente al di sotto delle proprie capacita` di adattamento. 2.1.1. Anatomia patologica - Eziopatogenesi

All’esame macroscopico il cervello e` diffusamente atrofico, di peso inferiore alla norma, potendosi raggiungere valori di 1000 gr. e anche meno. L’atrofia corticale, sebbene generalizzata, e` piu` marcata a livello dei lobi frontali e temporali. Le circonvoluzioni cerebrali sono rimpicciolite, i solchi allargati e le cavita` ventricolari dilatate. Occasionalmente l’atrofia puo` essere strettamente lobare o il cervello puo` apparire pressoche´ nor-

1 Il morbo di Alzheimer-Perusini e il morbo di Pick vengono a volte definiti malattia, perche´ si conosce il quadro anatomo-patologico; a volte piu` correttamente sindrome, perche´ l’eziologia e` sconosciuta. (vedi capitolo 10).

619

male o solo moderatamente atrofico, nonostante una estesa degenerazione microscopica. L’esame microscopico evidenzia estesa degenerazione e sfoltimento neuronale soprattutto nelle aree frontali parietali e temporali, con proliferazione gliale secondaria e modificazioni caratteristiche: le placche senili e la degenerazione neurofibrillare (diffuse in tutta la corteccia con accentuazione nell’ippocampo e nell’amigdala) e la degenerazione granulo-vacuolare (prevalentemente ippocampale). Le placche senili si evidenziano all’impregnazione argentica come masse irregolari extracellulari di 20-100 µ di diametro, con un nucleo centrale argirofilo circondato da un alone chiaro con intorno un anello di materiale filamentoso. Alla periferia delle placche sono presenti astrociti, mentre cellule microgliali si trovano all’interno; nel nucleo e` presente materiale amiloide. Al microscopio elettronico appaiono costituite da processi neuronali, inclusi bottoni sinaptici, in via di degenerazione, che possono contenere lisosomi e mitocondri alterati e filamenti elicoidali accoppiati simili a quelli della degenerazione neurofibrillare. Le placche senili si trovano diffusamente nella sostanza grigia, particolarmente nell’ippocampo e nella amigdala. I neuroni in degenerazione neurofibrillare di Alzheimer appaiono nell’impregnazione argentica occupati da ammassi e grovigli di materiale fibrillare che tendono a spostare il nucleo o a riempire l’intero corpo cellulare. Tale materiale al microscopio elettronico risulta costituito da filamenti simili ai neurofilamenti ma con disposizione spaziale diversa, essendo uniti a coppia elicoidale. Si trovano anch’essi diffusamente nella sostanza grigia e particolarmente nell’ippocampo. La degenerazione granulo-vacuolare, anch’essa come la neurofibrillare intracellulare, e` caratterizzata da minuti vacuoli intracitoplasmatici chiari contenenti un granulo argentofilo. I neuroni in degenerazione granulo-vacuolare si trovano prevalentemente nell’ippocampo. L’etiopatogenesi della Malattia di Alzheimer e` tuttora sconosciuta; nessuna delle numerose ipotesi avanzate ha trovato incontrovertibili conferme. Sono state chiamate in causa anomalie del

620

Manuale di psichiatria e psicoterapia

sistema presinaptico colinergico corticale. I livelli di acetilcolintransferasi e acetilcolinesterasi, trovati marcatamente ridotti in molte aree cerebrali, sono stati messi in relazione con le anormalita` morfologiche dei terminali presinaptici a livello corticale, come abbiamo visto talvolta riconoscibili alla microscopia elettronica nelle placche senili. Il processo degenerativo della Malattia di Alzheimer colpisce d’altro canto principalmente i tre strati esterni della corteccia cerebrale, ma interessa anche strutture sottocorticali ed in particolare il nucleo basale di Meynert, sede di marcata diminuzione neuronale. Cio` ha fatto formulare l’ipotesi che l’insufficienza presinaptica corticale possa essere conseguente al depauperamento neuronale in aree sottocorticali ed in particolare del nucleo di Meynert, normalmente costituito da cellule ad alta attivita` acetil-transferasica; la disfunzione corticale potrebbe essere cosı` conseguenza della alterazione delle proiezioni basali alla corteccia. Un difetto nella sintesi di materiale proteico neurofibrillare, forse di natura genetica (alterazioni simili a degenerazione neurofibrillare si riscontrano nella Sindrome di Down, la Malattia di Alzheimer e` talvolta ereditaria), potrebbe essere responsabile dell’accoppiamento a elica dei filamenti, che si riscontra nelle placche senili e nella degenerazione neurofibrillare, e di conseguenza del danno neuronale. La particolare disposizione spaziale d’altro canto potrebbe essere semplicemente dovuta ad una alterazione di materiale proteico normalmente sintetizzato. La presenza di sostanza amiloide nel nucleo delle placche senili, nella degenerazione neurofibrillare e nella parete delle arteriole corticali («angiopatia congofila»), ha suggerito un possibile coinvolgimento del sistema immunitario nella loro formazione. L’osservazione che l’alluminio puo` riprodurre sperimentalmente degenerazioni neurofibrillari simili a quelle della Malattia di Alzheimer ha fatto ipotizzare nella sua genesi una intossicazione cronica di tale metallo. Il reperto infine di alterazioni simili a quelle riscontrate nell’Alzheimer in malattie da virus lenti (panencefalite sclerosante subacuta), unitamente ad altre osservazioni sperimentali, hanno

fatto ipotizzare una genesi virale. Ma anche qui i dati sono tutt’altro che univoci. Il difetto di base della Malattia di Alzheimer e` quindi a tutt’oggi sconosciuto e pure incerto rimane il significato da dare alle alterazioni neuropatologiche: esse potrebbero riflettere un danno primitivo della malattia o essere delle reazioni secondarie aspecifiche della cellula nervosa. Occorre infatti ricordare che alterazioni del tipo delle placche senili e delle degenerazioni neurofibrillari e granulo-vacuolari si possono riscontrare non solo in altre patologie (Sindrome di Down, Demenza pugilistica, Panencefalite sclerosante subacuta, Parkinsonismo postencefalitico), ma anche nell’invecchiamento normale. Il fatto importante e` che il numero di tali alterazioni e` sempre eccedente nei dementi rispetto a individui della stessa eta`, e l’intensita` di tali reperti sembra correlarsi strettamente con la gravita` della demenza. Lo stesso si puo` dire del depauperamento neuronale, anch’esso sempre piu` evidente, a parita` di eta`, nei cervelli di soggetti affetti da Malattia di Alzheimer.

2.1.2. Manifestazioni cliniche

L’evoluzione e` tipicamente cronico-progressiva. Si e` soliti dividere il decorso della malattia di Alzheimer in stadi o fasi. Fase precoce. Si protrae per diversi mesi (6-12 ` caratterizzata da facile faticabilita`, in media). E riduzione delle facolta` mnesiche, difficolta` di concentrazione, aumento degli errori di fronte a compiti nuovi e complessi, diminuita fluidita` del linguaggio. Frequenti sono le reazioni di tipo ansioso-depressivo legate alla coscienza dei propri insuccessi. Non rari i disturbi del sonno con risvegli notturni e mattutini precoci. ` talora possibile che la compromissione psiE chica si manifesti con particolare evidenza in occasione di «episodi demenziali» (Pinelli 1985), eventi di breve durata (da pochi minuti a qualche ora) cosı` caratterizzati: disorientamento spaziotemporale, minzione in circostanze inappropriate, spesso con piena coscienza da parte del soggetto tanto da essere ricordati con angoscia e da scate-

Le demenze

nare reazioni depressive anche gravi, dismnesia (falsi e protratti riconoscimenti fisiognomici o di edifici) o amnesia. Una indagine clinica e psicologica approfondita puo` rilevare, in questa fase, la presenza di deficit mascherati da un compenso effettuato dal paziente almeno inizialmente con un certo successo, ma spesso a prezzo della riduzione di alcune attivita` abituali (comprese le relazioni sociali), abbandonate con scuse e giustificazioni varie. Fase di stato. Ha una durata media di alcuni anni; in essa si manifestano i disturbi tipici della Malattia di Alzheimer, di gravita` variabile nei diversi soggetti. 1)

2)

I disturbi mnesici sono costanti e posseggono un valore diagnostico primario, tanto che in passato si parlava di «demenza mnestica»; essi contribuiscono al progressivo disorientamento spaziale, evidente e spesso plateale anche tra le mura domestiche. Il disturbo coinvolge sia la memoria immediata (fissazione degli engrammi mnesici) sia la memoria primaria o a breve termine (rievocazione dei ricordi piu` recenti). Meno compromessa la memoria secondaria, stabile o a lungo termine (legge di Ribot). Il deficit attentivo e` rilevante. Il paziente ripete spesso le stesse domande. Ricorrente e` il mancato riconoscimento delle fisionomie di amici e parenti e di luoghi noti. Cio` causa spesso sentimenti di profonda angoscia nel soggetto e nei familiari. I disturbi del linguaggio, per la tendenza a dimenticare nomi propri e vocaboli precisi, sono caratterizzati dall’utilizzo sempre piu` esteso di parole generiche dette «passe par tout». Nel tempo compaiono grossolani errori grammaticali. In un primo momento e` possibile che i pazienti risultino addirittura logorroici; caratteristiche le frequenti parafasie (distorsione delle parole, sostituzioni con parole errate), i neologismi e i contenuti di tipo confabulatorio (falsi ricordi) che inizialmente alimentano una intensa produttivita` verbale. Il linguaggio tende comunque successivamente ad impoverirsi, a divenire ste-

3)

4)

5)

6)

621

reotipato e ripetitivo, e il paziente finisce col parlare pochissimo fino a giungere al mutismo. La comprensione raggiunge solo tardivamente livelli molto gravi di compromissione (nessuna possibilita` di contatto), ma certamente nella comunicazione interferiscono i deficit intellettivi, mnestici e soprattutto attentivi. Secondo alcune osservazioni cliniche il linguaggio scritto sarebbe piu` precocemente e gravemente compromesso (alessia e agrafia) di quello orale. I disturbi della prassia, saltuari fino a una certa epoca, consistono in difficolta` e insuccessi nelle sequenze motorie gestuali degli atti di vita quotidiana (guidare, usare le posate, accendere una sigaretta, vestirsi) soprattutto quelli richiedenti una attivita` cognitivo-spaziale (organizzazione dello spazio secondo uno schema mentale che permette di collocare oggetti e sequenze motorie) piu` complessa, la cui compromissione si evidenzia anche nel disorientamento topografico (non ritrovare la strada di casa). I disturbi del pensiero astratto (secondo alcuni «disturbi dell’intelligenza») si manifestano attraverso l’impaccio e il fallimento nell’affrontare nuovi compiti, attraverso le difficolta` nel rilevare differenze e somiglianze; il paziente prende alla lettera frasi e situazioni, evidenziando una difficolta` nel riferirsi alle categorie generali richieste da un dato compito o stimolo, e quindi nel distaccarsi dal concreto e dal particolare. I disturbi delle funzioni visuo-spaziali riguardano la difficolta` di analisi visuo-percettiva che si evidenzia in compiti quali il riconoscere disegni incompleti, frammentari o sovrapposti. Appaiono in relazione con i disturbi gnosici (incapacita` di riconoscere e identificare oggetti). Tardivamente compare un difetto di esplorazione entro il campo visivo fino, in qualche caso, alla fissazione «congelata» su un dettaglio dello stimolo visivo (Pinelli, 1985). I disturbi della senso-percezione, quali illusioni e allucinazioni, compaiono a volte nell’ambito di un tardivo quadro delirante.

622

Manuale di psichiatria e psicoterapia

7)

I disturbi dell’affettivita` sono di vario tipo. In questa fase appaiono spesso collegati ad una crescente difficolta` a verbalizzare adeguatamente i propri sentimenti e ad accettare frustrazioni e restrizioni. Si giunge tardivamente a una vera labilita` infantile con improvvisi scoppi di ira o di pianto che si esauriscono molto rapidamente. La comparsa di deliri (ricordiamo quello di latrocinio alimentato dai deficit mnesici) in genere scarsamente strutturati e con partecipazione emotiva variabile nel corso della giornata, viene riferita spesso ad una fase tardiva, ma in realta` si osserva talora piu` precocemente. Compaiono, a volte, fenomeni all’apparenza ossessiva come i rituali rupofobici e il collezionismo compulsivo, specie alimentare. Complessivamente la personalita` risulta alterata con modificazione del carattere di varia entita`, specie in caso di lesioni frontali anteriori. Si osserva una progressiva e drastica riduzione dei contatti sociali, e una esasperazione di alcuni tratti premorbosi (vedi la parsimonia). Il comportamento e` talvolta disforico-aggressivo con agitazione, a volte invece apatico oppure fatuo e sciocco. Il soggetto trascura la propria persona e l’abbigliamento. Secondo alcuni autori (Nardi e coll., 1986) queste regressioni comportamentali non sarebbero dovute solo al danno neuronale ma anche a una reattivita`, seppure disorganizzata, scatenata dalla sensazione piu` o meno confusa di perdere progressivamente il controllo della propria vita

8)

Fase «neurologica». Alcuni disturbi neurologici segnano l’aggravarsi della sindrome demenziale verso la fase terminale. Consistono in manifestazioni comiziali (per lo piu` generalizzate), paraparesi spastica e amiotrofie ectromeliche. Da 1/2 a 2/3 dei pazienti con Alzheimer presentano, nel giro di qualche anno, manifestazioni di tipo parkinsoniano: amimia, dismetria, disartria, rigidita`, tremori, soprattutto intenzionali e attitudinali, scarsamente rispondenti alla somministrazione di L-Dopa. Tardivamente compaiono

atassia della marcia e ipercinesie (movimenti coreo-atetosici), peraltro piuttosto rare. Alcuni autori sostengono che i pazienti con segni extrapiramidali abbiano una progressivita` piu` rapida e infausta. Anche precocemente si possono riscontrare disturbi del controllo sfinterico (vescica spastica, vescica automatica di tipo infantile, oltre a minzioni in luoghi inappropriati per incongruita` del comportamento). Ugualmente frequenti i fenomeni di «liberazione» (release reflexes da ridotto controllo corticale), quali i riflessi arcaici di prensione e suzione, il riflesso palmo-mentoniero. Nella fase terminale il demente non emette piu` suoni articolati, e` praticamente immobile, amimico, con ripetuti episodi di compromissione della vigilanza. Fase internistica. Poche settimane prima dell’exitus, che avviene spesso per broncopolmonite, si verificano fenomeni infettivi nel contesto di una progressiva cachessia.

2.2. Malattia di Pick Molto piu` rara dell’Alzheimer, e` difficile da diagnosticare. Anatomopatologicamente l’atrofia corticale e` localizzata in sede fronto-temporale. Assenti le placche senili e le alterazioni neurofibrillari. Si possono riscontrare sferule argirofile. L’evoluzione e` progressiva. In genere in pochi mesi si giunge alla cosiddetta sindrome prefrontale caratterizzata da perdita dell’iniziativa psicomotoria, deficit attentivi, passivita`, motricita` inibita; saltuariamente si manifestano euforia, moria, iperattivita`. Invece nella sindrome prefrontale le manifestazioni cliniche possono consistere in una sindrome afasica con ecolalia, palilalia, logoclonia (ripetizione di frasi, parole o sillabe) o, raramente, in una sindrome alogica con perdita di tutte le funzioni simboliche. Lo stadio terminale e` la fase della completa disgregazione psicointellettiva.

Le demenze

2.3. Demenza multi-infartuale Il termine di Demenza Multi-Infartuale (MID) e` oggi preferito a quello classico di Demenza Arteriosclerotica poiche´ l’evoluzione in demenza, secondo la maggior parte degli autori, e` dovuta al sommarsi di deficit causati da infarti cerebrali recidivanti di varie dimensioni (l’instaurarsi di una sindrome demenziale e` probabile quando il volume globale di sostanza cerebrale in rammollimento supera i cento millimetri) e non gia` da ischemia cronica progressiva. Gli infarti sarebbero dovuti per la maggior parte a tromboembolie dei vasi extracranici, e in tal senso giuocano un ruolo primario nella genesi della MID l’aterosclerosi e l’ipertensione. Quest’ultima, sia predisponendo all’aterosclerosi diffusa, sia provocando la malattia ipertensiva dei piccoli vasi, e` responsabile, tramite l’interessamento delle arterie lunghe perforanti, dei piccoli infarti lacunari della sostanza profonda che, insieme alle ampie aree infartuali, risultano essere le basi anatomopatologiche della MID. Nella genesi di tale patologia vanno inoltre ricordate altre malattie quali diabete mellito, policitemia, leucemie, dislipidemie, malattie cardiache embolizzanti e perfino, secondo alcuni studi, fumo e stress psicofisici. La MID insorge bruscamente, talora nel presenio e in coincidenza con un episodio ictale. Colpisce con maggior frequenza il sesso maschile. L’evoluzione, nelle forme vascolari pure, caratteristicamente e` descritta «a scalini», cioe` con fasi di stazionarieta` e fasi peggiorative, che corrisponderebbero ad ictus recidivanti in distretti arteriosi ed emisferi diversi. Spesso i primi ictus non comportano alcuna manifestazione demenziale, e del resto solo una parte degli individui colpiti da vasculopatia cerebrale a focolaio va incontro ad un decadimento intellettivo. In ogni caso, oltre alla perdita globale di tessuto cerebrale, sembra importante la localizzazione delle lesioni (ad esempio, lesioni unilaterali dell’emisfero dominante oppure bilaterali diffuse). Hachinski2 ha proposto l’utilizzo di un «indice

2

Dal lavoro di Del Re e coll., 1988.

623

ischemico» (Tabella 2) rappresentato da un punteggio che, tenendo conto di determinate variabili, depone per una demenza multi-infartuale quando e` superiore a 6, e per demenze degenerative primarie nel caso in cui sia inferiore a 4. Tabella 2 - INDICE ISCHEMICO DI HACHINSKI

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Esordio improvviso Deterioramento a scalini Decorso fluttuante Confusione notturna Relativa conservazione della personalita` Depressione Sintomi somatici Labilita` emotiva Storia di ipertensione Storia di ictus Segni focali Sintomi focali Aterosclerosi associata

Tra le variabili discriminanti per la diagnosi differenziale sono soprattutto da considerare l’evoluzione (a «gradini» nella MID, cronicoprogressiva nell’Alzheimer) e l’anamnesi positiva per episodi ictali (deponente per una MID). Di notevole rilevanza clinica e`, nella Demenza Multi-Infartuale, la possibile conservazione del nucleo della personalita` in un contesto in cui il paziente, entro certi limiti e fino ad una certa epoca, puo` avere consapevolezza della sua condizione. Sono state individuate alcune varianti cliniche e/o anatomopatologiche delle demenze su base vascolare. a)

b)

L’encefalopatia sottocorticale di Binswanger (alterazioni a livello della sostanza bianca profonda), con decorso subacuto e possibili manifestazioni rientranti nel quadro di una sindrome pseudo-bulbare (disartria, disfagia, riso e pianto spastico); la demenza e` in genere tardiva. Lo stato lacunare (lesioni piccole diffuse, spesso in sede periventricolare e/o nei distretti vascolari anteriori del tronco encefalico), con tipico quadro clinico pseudobulbare; turbe della fonazione e della deglutizione,

624

c)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

amimia, ipertono, marcia a piccoli passi, incontinenza urinaria, riso e pianto spastici; il quadro demenziale si manifesta occasionalmente con un’evoluzione a «gradini». Infarti corticali bilaterali, dovuti a turbe circolatorie a livello delle aree spartiacque tra i distretti arteriosi cerebrali; clinicamente l’esordio e` acuto con grave sindrome amnestica (ippocampale), aprassia, agnosia, talvolta afasia e disturbi di tipo parkinsoniano; quando e` presente il quadro demenziale assume un decorso cronico-progressivo.

2.4. Demenza da idrocefalo normoteso (NPH) In primo piano si collocano i disturbi della deambulazione che rappresentano il segno piu` precoce e consistono in atassia, instabilita`, disturbi di tipo spastico. L’incontinenza sfinterica (in genere urinaria), non costante, compare tardivamente. Il quadro demenziale (molto evidenti i deficit attentivi) presenta fluttuazioni giornaliere della sintomatologia e non e`, in genere, molto grave; puo` tuttavia assumere un decorso lentamente progressivo, in coincidenza con la comparsa dei disturbi della memoria. Il meccanismo patogenetico dell’NPH riconosce un ruolo essenziale al riflusso di liquor dal 4o ventricolo al 3o e ai ventricoli laterali, con infiltrazione della sostanza bianca periventricolare da riassorbimento trans-ependimale, dovuto a un’ostruzione subaracnoidea incompleta tra cisterne della base e seno longitudinale superiore, oppure ad un aumento patologico della permeabilita` dell’ependima. L’eziologia non e` ben definita: circa nel 30% dei casi (soprattutto nei soggetti tra 55 e 70 anni) non e` possibile risalire ad alcun fattore collegabile alla patologia in atto (NPH idiopatico); negli altri casi (NPH secondario) spesso si riscontra una pregressa meningopatia (talora e` in causa un’emorragia subaracnoidea) a volte supposta per riscontro anamnestico di traumi cranioencefalici. La diagnosi si avvale, oltre che della TC (tomografia computerizzata), della dimostrazione

scintigrafica del riflusso liquorale attraverso il RISA-scan (Radio-Jodine-Serum-Albumina). Il trattamento consiste nella derivazione liquorale (ventricolo-atriale o peritoneale e ventricolo-giugulare); e` spesso efficace, specie quando e` minore l’ampliamento ventricolare, determinando la regressione dei sintomi e in particolare del quadro demenziale. I rischi dell’intervento non sono tuttavia da sottovalutare.

2.5. Demenze post-traumatiche La demenza puo` presentarsi quale sequela di gravi traumi cranio-encefalici; in genere si manifesta dopo qualche mese dall’evento. Si tratta di manifestazioni di tipo demenziale croniche, per lo piu` irreversibili e talora progressive, in assenza di difetti di vigilanza (distinte pertanto dai quadri di encefalopatia posttraumatica protratta), associate talora a difetti neurologici focali e a sindromi comiziali. La sintomatologia e` variabile; spesso si evidenziano, oltre al decadimento mnestico, alterazioni della personalita` a volte in direzione di una perdita di iniziativa psicomotoria con ipobulia. La cosiddetta «demenza pugilistica» (tra i 40 e i 60 anni) colpisce pugili e altri professionisti dello sport (ad esempio, fantini) sottoposti a traumi ripetuti; il quadro clinico ha decorso cronico-progressivo.

3. Diagnosi

3.1. Strumenti diagnostici L’approccio diagnostico si basa principalmente su un accurato esame clinico e anamnestico che indaghi anche i livelli premorbosi di efficienza mentale del paziente, e che tenga conto della necessita` di instaurare un rapporto di tipo rassicurativo col paziente stesso per evitare che i livelli di ansia interferiscano sulle prestazioni anche verbali del soggetto. Il medico puo` avvalersi di una vasta serie di

Le demenze

esami clinici, strumentali e di laboratorio utili come ausilio diagnostico. Tabella 3 - STRUMENTI CLINICI E INDAGINI DI LABORATORIO UTILI NELLA VALUTAZIONE DI SOGGETTI CON DANNO COGNITIVO

Tests - Scale — — — — — — — — —

Mini Mental State Examination Benton Visual Retention Test WAIS MMPI Test di Rorschach Blessed Dementia Scale Gustavsson & Nilson Scale Hachinski Ischemic Score Cornell Scale For Depression in Dementia

b)

Indagini di laboratorio — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —

a)

3

EEG Tomografia Computerizzata del Cranio (TC) Risonanza Magnetica Nucleare Tomografia ad emissione di Positroni (PET) Biopsia Cerebrale Angiografia Cerebrale Potenziali Evocati Esame Doppler Carotideo Tests di Funzionalita` Tiroidea Dosaggi Farmacologici Ematici e Urinari Tests di Funzionalita` Epatica Uremia e Creatininemia Elettrolitemia Glicemia Emocromo Tests per la Sifilide Livelli Ematici di Vit B1 e B12 e Folati Puntura Lombare Ves Tests Ematologici per AIDS

c)

Testistica psicodiagnostica e neuropsicologica. Tra i test di personalita` si possono utilizzare il test di Rorschach (nelle fasi iniziali) e l’MMPI3. Le singole funzioni neuropsichiche vengono indagate mediante test di

Inventario Multifasico della Personalita` Minnesota

4

625

efficienza globali o selettivi: WAIS4 per valutare il grado di deterioramento; Mini-Mental State Examination per l’orientamento temporo-spaziale; test di apprendimento e di richiamo di nomi concreti per la memoria verbale; test di Benton e test di Bender per la memoria visuo-spaziale e la aprassia costruttiva; scale di valutazione del grado di autonomia; scale per l’ansia e la depressione; Hachinski Ischemic Score per l’indice ischemico. I test sono generalmente molto utili nelle fasi precoci di una sindrome demenziale per orientare la diagnosi e anche negli stadi intermedi, soprattutto per valutare il livello di gravita` della patologia in atto. Esami di laboratorio. Indagini ematologiche (soprattutto per la funzionalita` epato-renale e per l’assetto endocrino; da ricordare i dosaggi della vitamina B12 e dei folati), i test per la lue e per l’AIDS. Indagini strumentali. L’EEG puo` evidenziare, in caso di Demenze Degenerative Primarie un rallentamento con riduzione o scomparsa del ritmo. Rari i parossismi. Nelle forme Multi-Infartuali si possono osservare rallentamenti intermittenti del ritmo di fondo con asimmetrie localizzate. Nell’idrocefalo normoteso e` frequente un discreto e diffuso rallentamento dell’attivita` di fondo con possibili complessi ritmici d’attivita` lenta tipo delta. Nella malattia di CreutzfeldtJacob si evidenziano tipici reperti costituiti da punte ritmiche bi- o trifasiche. Per cio` che riguarda l’esame TC, sono stati documentati reperti specifici per la Malattia di Alzheimer e per la MID. Nel caso della AD-SDAT il quadro e` quello dell’atrofia interna (a carico dei ventricoli laterali e del terzo ventricolo) associato ad ampliamento dei solchi tra le circonvoluzioni cerebrali (atrofia esterna). Nell’idrocefalo normoteso l’atrofia e` solo interna, mancando l’atrofia corticale. Nella MID possono essere riscontrate lesioni fo-

Wechsler Adult Intelligence Scale

626

Manuale di psichiatria e psicoterapia

cali evidenziate da aree di ipodensita` circoscritta, localizzate o diffuse. Talora le lesioni, per le dimensioni inferiori al potere di risoluzione dello strumento, non sono rileva` possibile all’indagine bili all’esame TC. E TC che pazienti dementi non presentino le tipiche anomalie morfologiche e che, viceversa, soggetti anziani normali mostrino quadri atrofici diffusi o localizzati. Cio` impone una particolare prudenza nella valutazione dei reperti alla TC che, nondimeno, trova una corretta indicazione in pressoche´ tutte le sindromi demenziali. Di relativamente recente introduzione, la Risonanza Magnetica Nucleare e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) stanno aprendo nuove prospettive di indagine, ma al momento, anche per i costi eccessivi, risultano di assai limitata utilizzazione. Alla biopsia cerebrale si ricorre solo in casi rarissimi dati i rischi che ovviamente comporta. L’esame doppler dei vasi carotidei puo` utilmente visualizzare difetti nell’afflusso al circolo ematico cerebrale che possono orientare verso un’etiopatogenesi vascolare. ` opportuno ricordare che la diagnosi delle E demenze, in particolare nel caso delle forme degenerative primarie e della MID, rimane eminentemente clinica e longitudinale; e pertanto solo l’osservazione lungo il tempo costituira` l’elemento fondante di un giudizio diagnostico. 3.2. Elementi di diagnosi differenziale Di fronte ad un quadro clinico che evidenzi un deterioramento intellettivo occorre innanzitutto stabilire con sufficiente certezza l’esistenza di un effettivo decadimento di tipo demenziale. La demenza si distingue dall’oligofrenia o deficienza mentale, in cui si ha un ritardo dello sviluppo del patrimonio psichico. Nelle persone anziane bisogna escludere che si tratti di «involuzione fisiologica» (diversa nei vari individui sia come epoca di insorgenza sia come entita` ). L’invecchiamento comporta in realta` un declino di efficienza di alcune funzioni psichiche e senso-motorie, ma non implica per il

soggetto una perdita delle capacita` di integrazione delle proprie esperienze psichiche con la realta` quotidiana, attraverso abilita` psicomotorie sufficientemente attive. Questa condizione, mediante meccanismi di compenso basati soprattutto sull’ancoraggio dell’individuo a comportamenti e schemi verbali consuetudinari e molto ben appresi, puo` mascherare una fase precoce di vero e proprio decadimento demenziale. Le indagini psicometriche risultano allora fondamentali, poiche´ consentono di distinguere il deterioramento «fisiologico» da quello «patologico»; particolarmente utile il Wechsler-Adult Intelligence Scale (WAIS) associato ad altri test (vedi Tabella 3 per un’analisi piu` completa ed esauriente). Nell’anziano si puo` scambiare per demenza uno stato confusionale, che inoltre puo` non essere riconosciuto quando insorga in un demente. Occorre tener presente che lo stato confusionale e` caratterizzato da alterazioni del pensiero e del comportamento nel contesto di un disturbo della coscienza con alterazioni della vigilanza, elemento questo differenziale rispetto alla demenza. L’insorgenza e` rapida e l’andamento fluttuante; sono spesso presenti disturbi del ritmo cardiaco e dell’equilibrio idroelettrolitico. Le cosiddette demenze reversibili, o, meglio, potenzialmente trattabili, pongono un importante problema diagnostico particolarmente quando l’esordio della sindrome demenziale sia recente e quindi richiedano una completa serie di indagini anamnestiche, cliniche e di laboratorio. Si pensi alle demenze in corso di dismetabolismi, disendocrinie, stati anemici o infettivi (vedi l’infezione luetica), trattamenti farmacologici, alcolismo (solo alcune forme e solo in parte trattabili) oppure alle demenze da deficit di vit. B12 e folati, da processi espansivi intracranici (tumori, cisti aracnoidee, ematomi subdurali, idrocefalo normoteso) e, ancora, alle forme post-traumatiche. Il problema assume una fondamentale rilevanza proprio nelle persone anziane, in cui una diagnosi di questo tipo puo` essere ritardata a causa della tendenza a diagnosticare la malattia di Alzheimer o la MID. ` tuttavia opportuno segnalare il dato secondo E il quale alcune demenze reversibili, che rispon-

Le demenze

dono positivamente alla terapia specifica, ad un follow-up di alcuni anni mostrano un’evoluzione in demenza di tipo Alzheimer; si puo` ipotizzare una maggiore vulnerabilita` al danno cerebrale o un effetto sensibilizzante o slatentizzante nei confronti della malattia di Alzheimer da parte di svariate noxe patogene. Si conferma, anche in questi casi, la necessita` di un’osservazione longitudinale. Alcuni autori includono tra le demenze reversibili la sindrome pseudo-demenziale, in cui il quadro deficitario, senza base organica, e` conseguente a disturbi depressivi del soggetto anziano. Il disturbo intellettivo in realta` e` solo apparente e secondario alle alterazioni del tono dell’umore. Il problema e` complicato dalla possibilita` che disturbi dell’affettivita` compaiono nel corso di «vere» demenze (si e` parlato anche di pseudodepressione). La questione e` piuttosto complessa. Le differenze nella sintomatologia (maggior coscienza dei deficit, mancanza di confabulazione, esordio piu` rapido in caso di pseudo-demenza) non sono sempre rilevabili ne´ significative; inoltre una rispondenza positiva agli antidepressivi non autorizza ad avallare, sic et simpliciter, la diagnosi di pseudodemenza, ottenendosi a volte buone risposte immediate in soggetti che, successivamente, procedono verso un deterioramento progressivo. La diagnosi differenziale tra Demenza degenerativa primaria e demenza Multi-Infartuale e` stata discussa nel paragrafo della MID. Aggiungiamo che in quest’ultima forma i reperti TC risultano negativi oppure non corrispondenti ai dati clinici, che restano percio` d’importanza primaria nell’accertamento diagnostico. Concludiamo ricordando la demenza insorgente nel corso di Psicosi schizofreniche (la storica «dementia praecox»). Essa pone questioni di ordine non solo e soprattutto teorico ma anche pratico: talvolta il dubbio diagnostico rispetto a forme degenerative primarie rimane insoluto.

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nergica, adrenergica, gabaergica o neuropeptidica, sono risultati inefficienti nelle demenze degenerative primarie. L’uso di farmaci nootropi (piracetam, oxiracetam) non ha fornito i risultati sperati, sebbene siano ancora in corso studi volti sia all’individuazione di nuove molecole sia alla definizione di dosaggi e modalita` di somministrazione terapeuticamente piu` validi. Per quanto riguarda la MID, o comunque nei casi in cui siano coinvolti fattori vascolari, si possono attuare trattamenti con farmaci vasoattivi, antiipertensivi o antiaggreganti allo scopo di prevenire o limitare l’ulteriore progressione della malattia vascolare. Terapie sintomatiche possono essere in tutti i casi utili soprattutto nelle manifestazioni di agitazione, nell’insonnia e nei disturbi dell’umore. La prognosi, se si escludono le demenze trattabili (che non superano 1/3 di tutte le sindromi demenziali), appare sostanzialmente infausta. La prognosi quoad vitam dell’AD-SDAT varia fra i 3 e i 12 anni. Non si puo` tuttavia sottovalutare il fatto che il decorso e` in realta` variabile nei diversi individui per cio` che riguarda la rapidita` di evoluzione; un atteggiamento prognostico negativo, alimentato dalla frustrazione terapeutica, puo` influenzare la famiglia e l’ambiente, con la conseguenza di compromettere in maniera pregiudizievole le eventuali possibilita` di compenso del paziente. Non a caso sta crescendo anche in Italia l’interesse per le forme di trattamento riabilitativo, basate sulla psicostimolazione e la rieducazione sociale (vedi la Terapia di Orientamento Reale), e sostenute dalla necessita` di assistere il paziente affetto da demenza in maniera piu` adeguata che in passato. A tale proposito si consiglia la lettura del manuale redatto a cura dell’Alzheimer Disease Society dal titolo: Come assistere i pazienti affetti da demenza.*

4. Prognosi e terapia I tentativi di terapia farmacologica sostenuti dalle ipotesi etiopatologiche di insufficienza coli-

* Ringrazio Carola Celozzi e Stefano Valentini per l’aiuto fornitomi nella stesura del presente capitolo.

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Parte terza Patologia speciale psichiatrica

37 Il sonno: normalita` e patologia Nicola Lalli Parole chiave insonnia; ipersonnia; parasonnia; ritmo circadiano; sonno non-REM; sonno REM; oscillatore pontino; latenza sonno; latenza REM; sogno

L’uomo trascorre mediamente un terzo della sua vita nel sonno. Ma dormire non vuol dire tagliare completamente i ponti con la realta`: perche´ durante il sonno si determina una serie com` solo plessa di fenomeni, primo fra tutti il sogno. E in questi ultimi decenni che si e` cercato di approfondire e capire i meccanismi di questo fenomeno cosı` complesso ed importante, che per lungo tempo, ed in parte tuttora, rimane simile al lato oscuro della luna. Infatti, nonostante l’enorme mole degli studi i problemi da risolvere e le domande a cui rispondere sono ancora tanti. Se l’evidenziare le due fasi del sonno (REM e NREM) ha costituito un primo fondamentale passo per uno studio oggettivo del sonno, e` pur vero che poco sappiamo non solo sui meccanismi ciclici che innescano il sonno e le sue fasi, ma anche su quanto accade complessivamente nell’organismo umano durante il sonno. L’importanza del sonno si puo` evidenziare anche sul piano evo-

lutivo: assente nei pesci e negli anfibi, comincia a comparire nei rettili, mentre le fasi REM e NREM fanno una timida comparsa negli uccelli, per strutturarsi definitivamente nei mammiferi. Ma a parte l’importanza dello studio neurofisiologico del sonno, rimane aperto anche il problema della patologia del sonno: ovverosia le insonnie, le parasonnie, le ipersonnie. Si calcola che attualmente circa un quarto della popolazione sopra i 40 anni soffre di insonnia. Se si tiene conto di questa elevata incidenza e del fatto che l’insonnia cronica non e` solo un disturbo del sonno ma dell’intera personalita`, si puo` comprendere l’importanza dello studio del sonno, non solo sul piano teorico ma anche su quello clinico. La dizione non-REN e NREM sono equivalenti. * * *

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1. Considerazioni generali Il neonato dorme circa 16 ore al giorno; questo periodo si riduce progressivamente, ed a partire dall’infanzia, mediamente oscilla intorno alle 8 ore, ovverosia un terzo della giornata. Inoltre il sonno permette l’emergenza del sogno, questa strana produzione che da sempre affascina l’uomo, che ha cercato a volte di utilizzarla come presagio, ma soprattutto per esplorare la complessita` della psicologia e della psicopatologia umana. J.H. Jackson affermava che capire il mistero del sogno significava svelare il mistero della follia. Questi due fatti giustificano ampiamente il sempre maggiore interesse che lo studio del sonno ha destato, soprattutto da quando e` stato possibile farlo attraverso possibilita` piu` oggettive di rilevazioni come l’EEG, l’EMG (elettromiogramma) e l’EOG (elettrooculogramma). Il sonno sembra essere un comportamento facilmente definibile ed uniforme: vedremo invece che esso e` molto complesso ed articolato. Ma come possiamo definire il sonno? Diciamo che esso puo` essere caratterizzato dai seguenti elementi: a)

b)

c) d)

stato di rilassamento muscolare che fa assumere al corpo una posizione inerte e rilassata; innalzamento della soglia di risposta agli stimoli esterni con scomparsa dello stato di vigilanza, fenomeno che puo` essere pero` molto selettivo. L’esempio tipico e` quello della madre, che dorme nonostante i rumori, e che si sveglia al pianto del neonato; all’EEG compaiono i tracciati tipici dello stato di sonno; con appropriati stimoli, lo stato di sonno cessa, e si ripristina quello di veglia.

Se e` facile distinguere lo stato di veglia dal sonno, non sempre e` facile coglierne l’inizio. W.C. Dement (1969) asserisce: «...e` impossibile definire l’istante esatto di inizio del sonno anche ricorrendo all’EEG. La differenza essenziale tra la veglia ed il sonno avviene nel preciso istante in cui uno stimolo significativo non riesce a provocare la consueta risposta».

Un segno per distinguere colui che dorme veramente da uno che fa finta di dormire e` il tremolio delle palpebre, che denota lo sforzo cosciente di tenerle chiuse. Ma se e` facile distinguere la veglia dal sonno, piu` complesso puo` essere differenziarlo da alcuni quadri come la sonnolenza, il torpore ed il coma. La sonnolenza e` uno stato caratterizzato da forzata chiusura degli occhi, con brevi periodi di sonno alternati a risvegli bruschi. Puo` essere causata da banale stanchezza, ma anche da disturbi somatici, spesso da intossicazioni. Il torpore e` uno stato di rallentamento psicomotorio, con scarsa e debole reattivita` agli stimoli esterni e con difficolta` a reagire prontamente a stimoli forti e dolorosi. Il meccanismo della termoregolazione e` alterato, per cui la temperatura corporea si abbassa in concomitanza con quella esterna: spesso la morte di persone che presentano torpore (per ingestione eccessiva di alcolici o sedativi) puo` sopraggiungere per assideramento. Il coma e` invece caratterizzato da assenza completa di reazione agli stimoli esterni e presenza di gravi disturbi delle principali funzioni vitali. Dovuto in genere a lesioni del tronco encefalico, puo` essere irreversibile. Dicevo che il sonno puo` sembrare uno stato uniforme: nulla di piu` falso. Nel sonno dobbiamo distinguere fondamentalmente due fasi che presentano notevoli differenze: il sonno NREM o sincronizzato; ed il sonno REM (da Rapid Eye Movements) o paradosso o desincronizzato, che si alternano nel corso della notte. Questa alternanza di fase NREM e REM avviene in un lasso di tempo di circa 90 minuti; tempo che rimane abbastanza costante e costituisce il ciclo del sonno. Questo ciclo tende a ripresentarsi, per una persona che dorme mediamente 8 ore, circa 4-5 volte per notte. La fase non-REM inizia con la cessazione dello stato di veglia e si divide in quattro stadi. Lo stadio uno e` caratterizzato, all’EEG, da un tracciato d’onde di tipo teta, ovverosia a basso voltaggio, con una frequenza meno elevata che allo stato di veglia, ed aritmico. Lo stadio due e` caratterizzato dalla comparsa di «fusi» di sonno: si tratta di onde di ampiezza crescente e decre-

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scente con frequenza 10-12 c/s, con complessi K che sono costituiti da onde bifasiche di alto voltaggio (fino a 100 microvolts).

Figura 1

Lo stadio tre presenta onde di tipo delta caratterizzate da bassa frequenza 1-4 c/s e da alto voltaggio (superiore a 100 microvolts). Questi stadi si seguono a breve distanza di tempo (10-15 minuti) fino ad arrivare allo stadio quattro. Lo stadio quattro e` costituito da onde lente, 1-3 c/s con voltaggio fino a 250 microvolts. Dopo una permanenza di circa 10-30 minuti, il ciclo si inverte e si ripassa allo stadio tre, poi al due ed infine allo stadio uno. Ma questo ritorno

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allo stadio uno presenta alcune particolarita` che lo configurano come sonno REM. Prima di proseguire debbo sottolineare due aspetti importanti nel ciclo del sonno. Il primo viene definito latenza sonno ed e` costituito dal tempo che intercorre tra la fine della veglia e la fine del primo stadio del sonno. Il secondo viene definito latenza REM ed e` costituito dal tempo che intercorre tra la fine del primo stadio e l’inizio della prima fase REM (vedi fig. 1). Nei passaggi dalla fase non-REM a quella REM avvengono generalmente i cambiamenti di posizione del corpo (vedi Figura 2). Il sonno REM costituisce circa il 20% del sonno totale; quindi e` pari a circa 80-90 minuti per notte. Ci sono altri elementi che differenziano il sonno NREM da quello REM e che per comodita` espositiva cerchero` di sintetizzare (vedi Tabella 1). Se consideriamo la differenza tra le due fasi, possiamo osservare come la fase NREM e` prevalentemente anabolica e coincide con un momento di riposo e di reintegrazione delle energie. Mentre la fase REM mostra chiaramente una intensa attivita` non solo fisiologica, ma anche psicologica. ` interessante rilevare come queste fasi si siano E evolute nel corso della filogenesi. Infatti mentre nei pesci e negli anfibi non e` dimostrabile uno stato che puo` essere definito di sonno, esso comincia a comparire nei rettili come fase NREM; negli uccelli compare anche la fase REM, ma solo

Tabella 1 - SONNO NREM - SONNO REM

Sonno NREM o sonno sincronizzato

Sonno REM

Presenza all’EEG di onde di alto voltaggio e di bassa frequenza. Assenza di movimenti oculari. Il tono muscolare e` praticamente assente. Inoltre diminuiscono sia la pressione arteriosa che la frequenza cardiaca e respiratoria.

All’EEG onde di basso voltaggio a frequenza elevata. I movimenti oculari sono presenti e rapidi. Il tono muscolare e` inibito attivamente: e` in questa fase che, soprattutto alle estremita`, compaiono clonie o guizzi muscolari. La frequenza cardiaca, respiratoria e la pressione arteriosa aumentano. C’e` un inturgidimento dei capezzoli, della clitoride e del pene. Inoltre e` presente un fenomeno di non facile interpretazione: la caduta delle capacita` di termoregolazione con conseguente abbassamento della temperatura corporea. Infine, e` in questa fase che compaiono i sogni.

Contemporaneamente l’ipofisi secerne gli ormoni gonadotropi e quello della crescita. Sul piano dell’attivita` psicologica e` presente un pensiero simile a quello cosciente, caratterizzato pero` da una forte tendenza iterativa.

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nei primi giorni di vita, mentre in tutti i mammiferi sono presenti ambedue le fasi. Quindi e` evidente che nella filogenesi la comparsa del sonno e la differenziazione in fase REM e NREM e` indice di una progressiva evoluzione. Il sonno NREM, che e` prevalentemente legato ad un ripristino delle funzioni biologiche, nei milioni di anni di evoluzione si e` sviluppato parallelamente al ciclo luce-buio, nel senso che il buio, permettendo minori attivita` biologicamente utili, e` stato utilizzato per il riposo. Il sonno REM, che compare solo negli animali evoluti, sembra avere non una funzione di riposo, ma piuttosto di una intensa attivita` cerebrale che rende possibile elaborare o comunque attivare funzioni cerebrali superiori, come e` dimostrato dalla comparsa dei sogni proprio in questa fase. Ma prima di passare al problema delle attivita` mentali durante il sonno, dobbiamo soffermarci a considerare la complessita` del ritmo veglia-sonno, che funziona come una sorta di orologio interno.

2. Ritmo circadiano e sonno L’organismo umano, nel suo lungo interminabile processo di evoluzione, ha sviluppato una sorta di orologio interno che da` cadenze precise e ritmiche a fondamentali funzioni biologiche, come quella del ritmo veglia-sonno. Lo stretto collegamento tra organismo e natura fa sı` che questo orologio sia sincronizzato sul periodo di 24 ore, che corrisponde al periodo di rotazione della terra, con le conseguenti fasi di luce e di buio. Questo ritmo circadiano si mantiene uniforme e non viene modificato dal variare di situazioni esterne. Cio` e` stato dimostrato da esperimenti con volontari che, sottoposti a lunghi periodi di isolamento (spesso in grotte per periodi di 20-40 giorni, e senza alcuna possibilita` di utilizzare riferimenti esterni come l’alternarsi di luce e buio oppure l’uso di orologio che permettesse loro di regolarsi), hanno continuato ad avere ritmi di veglia-sonno corrispondenti, perlomeno come quantita`, a quelli che avevano in situazioni normali. In queste particolari condizioni, si e` osservato che il ritmo mostrava solo una piccola variazione di circa un’ora, spostandosi su un periodo

di 25 ore (di qui il nome di circadiano, ovverosia di circa un giorno). Il ritmo circadiano e` regolato da strutture che risiedono nei nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo, collegati, attraverso le vie chiasmatiche, con la retina che fornisce informazioni sulla presenza o meno della luce (fig. 3). Accanto a questo circuito esiste anche la via ottica inferiore, che collega la retina con l’epifisi e condiziona, sulla base della quantita` della luce, la secrezione di ormoni, quali la melatonina, o di neurotrasmettitori, quali l’acetilcolina e la serotonina. Ma se questi nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo spiegano il ritmo, non spiegano la differenza tra sonno non-REM e sonno REM. Pertanto per comprendere il fenomeno sonno, dobbiamo pensare a meccanismi piu` complessi. Per lungo tempo il sonno e` stato considerato come un fenomeno passivo: nel senso che si sarebbe attivato quando venivano meno le stimolazioni sensoriali (teoria della deafferentazione). Attualmente si ritiene che il sonno sia invece un fenomeno in gran parte attivo, collegato ad una serie di complessi sistemi funzionali, situati nel tronco encefalico (mesencefalo, ponte, bulbo) che agiscono con il seguente meccanismo. Il sonno REM e` innescato da un gruppo di neuroni che si trovano soprattutto nei nuclei mesencefalici, pontini e della sostanza reticolare midollare, e che producono sostanze mediatrici colinergiche con attivita` eccitatoria (cellule REMon). Mentre, al contrario, il rafe dorsale serotoninergico ed il locus coeruleus noradrenergico hanno attivita` opposta. Questi nuclei aminergici sono maggiormente attivi nello stato di veglia e nel sonno NREM (cellule REM off). «Il modello di stato per interazione reciproca attribuisce la progressiva maggiore eccitabilita` della popolazione neuronale esecutiva (REM-on) ed una disattivazione della popolazione modulatrice (REM-off). Non sappiamo pero` come il sistema aminergico venga disattivato, cosı` come deve essere ancora precisato il meccanismo di interazione di questo sistema con l’oscillazione circardiana ipotalamica» (J. Allan Hobson, 1987). La presenza di sonno NREM e REM si spiega con il fatto che da una parte il sonno e` un meccanismo necessario per il riposo dell’organismo in genere e del SNC in particolare: ed una riprova

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Figura 2 - Aspetti comportamentali e psicofisiologia del sonno umano: un tipico ciclo sonno NREM/REM. Sono rappresentati schematicamente gli aspetti comportamentali, poligrafici e psicofisiologici dell’organizzazione del ciclo del sonno. Le due principali fasi del sonno, NREM e REM, si alterano di norma ad intervalli regolari, che vanno aumentando dai 45 minuti del bambino ai 90 minuti dell’adulto. Le due manifestazioni comportamentali del sonno REM si osservano molto piu` facilmente nel bambino in quanto: 1) si verificano piu` frequentemente; 2) i bambini dormono durante il giorno come (si spera) durante la notte; e 3) i segni motori del sonno REM, come avviene in altri animali, sono piu` evidenti nell’uomo immaturo. Le stesse circostanze rendono cani e gatti soggetti ricercatissimi dagli esperti e studiosi del sonno. E` da aggiungere che i cani, specialmente i cuccioli, mostrano una amplificazione specie-specifica delle manifestazioni motorie del sonno REM. Alle transizioni veglia-NREM/REM sono associati i principali cambiamenti di posizione del corpo: una normale notte di sonno, consistente di quattro-cinque unita` NREM/REM di 90 minuti ciascuna, comprende diverse posizioni del corpo. (Riprodotto da Discussions in Neurosciences vol. II, n. 4, J.A. Hobson, Neurobiologia e fisiopatologia del sonno e dei sogni. Per gentile autorizzazione della Fidia S.p.A.).

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consiste nel fatto che il metabolismo cerebrale durante il sonno non-REM e` ridotto in molte strutture. Dall’altra il sonno e` espressione di attiva e specifica funzionalita`: considerazione che nasce non solo dall’importanza che assume il sonno nella scala evolutiva, ma anche dal fatto che il sonno REM e` specifico proprio degli animali piu` evoluti, come i mammiferi. Pertanto il sonno REM viene considerato come un momento fondamentale di attivazione dei circuiti neurali responsabili dei

riflessi sensitivo-motori e dei comportamenti elementari. Cioe` il sonno REM potrebbe servire a mantenere efficienti i circuiti critici per la sopravvivenza, indipendentemente dal fatto che essi siano o no messi in opera durante lo stato di veglia. «...Sulla base dell’osservazione di una relazione reciproca tra durata del sonno REM e apprendimento, alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il sonno possa avere la funzione di consoli-

Figura 3 - Attivita` e riposo, che negli organismi superiori sono sinonimi di veglia e sonno, rientrano tra le molte funzioni dell’organismo che oscillano ritmicamente con periodi di circa 24 ore, e che percio` vengono dette «circadiane». Il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo gioca un ruolo chiave nel controllare questo ritmo, sincronizzando i processi interni con le forze esterne. Il ciclo NREM/REM e` una chiave nel controllare questo ritmo, sincronizzando i processi interni con le forze esterne. Il ciclo NREM/REM e` una funzione fisiologica con espressione circadiana, ma avendo le sue fasi un periodo di 90-100 minuti, il suo ritmo e` indicato come ultradiano. Il ciclo del sonno e` controllato da reciproche interazioni tra neuroni colinergici e aminergici della formazione reticolare pontina, che oscillano sfasati gli uni rispetto agli altri. Il meccanismo con il quale l’orologio circadiano regola la soglia del ciclo del sonno e` sconosciuto. Molte funzioni regolatrici omeostatiche, compresa la respirazione, sono influenzate dal ritmo circadiano e dal ciclo sonno-veglia. L’oscillatore respiratorio e` simile per organizzazione neuronale all’orologio del ciclo del sonno, ma ha un periodo molto piu` breve (3 secondi), determinato dalla reciproca inibizione dei neuroni espiratori ed inspiratori del bulbo. (Riprodotta da J.A. Hobson, Neurobiologia e psicopatologia del sonno e del sogno, vol. II n. 4, Discussions in Neurosciences, 1987. Per gentile autorizzazione della Fidia S.p.A.).

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dare o di organizzare la informazione pervenuta al cervello. Piu` specificamente si puo` postulare che la corteccia cerebrale modifichi, durante il sonno, il suo modo di processare le informazioni, non solo attraverso l’esclusione delle afferenze, ma anche in virtu` di un intrinseco slittamento del metabolismo cellulare ... poiche´ i neurotrasmettitori aminergici e colinergici non solo influenzano fenomeni neurali a livello di membrana, ma anche l’attivita` metabolica del citoplasma e del nucleo attraverso secondi messaggeri, una profonda deviazione nel rapporto tra i diversi trasmettitori potrebbe mediare una variazione post-sinaptica del modo di operare dei neuroni. Il sonno potrebbe essere allora considerato non soltanto come uno stato atto a favorire lo sviluppo ed il mantenimento dell’integrazione con l’esperienza epigenetica dell’animale di priorita` organizzative cerebrali determinate geneticamente. L’informazione gia` immagazzinata nella memoria potrebbe in tal modo essere integrata con le afferenze piu` recenti, in modo da incrementare ed aggiornare i dati basali. A questa visione si correla il concetto del consolidamento della memoria e della eliminazione delle informazioni spurie o non necessarie (cosiddetta teoria ‘della cancellazione’ di Crick e Mitchison)» (J. Allen Hobson, 1987). ` evidente che una spiegazione del sonno in E termini di pura e semplice funzione di riposo e` troppo riduttiva: «l’intera fenomenologia del sonno e dei suoi disturbi parla a favore dell’idea che il sonno sia una funzione di cui l’organismo necessita e percio` saldamente ancorata nel quadro dell’organizzazione somatica e psichica» (W. Koella, 1975). Del resto la complessita` e il numero dei meccanismi funzionali neuroanatomici e neurochimici testimoniano l’importanza di questa funzione. Inoltre, tenendo conto del rapporto tra sonno REM e sogno, si apre la possibilita` di formulare una ipotesi estremamente interessante: che il sonno REM, con la comparsa dei sogni, rappresenta una modalita` psichica particolare ove emergono nuove situazioni e dinamiche che, normalmente, non compaiono da svegli nel pensiero cosciente rappresentando un momento di crescita e di creativita`. Che il sogno sia una possibilita` creativa e`

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ampiamente dimostrato: l’esempio piu` conosciuto e` quello di Kekule` che dopo inutili tentativi di capire quale fosse la struttura dell’anello benzenico, dopo aver visto, in sogno, dei serpenti che si mordevano a vicenda la coda formando un circolo, al risveglio trovo` la chiave del problema.

3. Sonno e sogno Durante il sonno, l’attivita` psichica continua, anche se con caratteristiche diverse da quelle della veglia. L’attivita` psichica piu` conosciuta e` certamente quella del sogno e, dato il collegamento tra sonno e fase REM, si e` pensato, per lungo tempo, che l’attivita` psichica fosse assente durante la fase NREM. Invece l’attivita` psichica e` piu` vicina a quella della veglia, «meno viva, meno ricca in effetti, in immagini visive e in scene animate, piu` astratta, piu` logica e piu` dipendente dalla volonta`, piu` in rapporto con i fatti della vita» (A. Bourguignon, 1971). Per quanto riguarda il rapporto tra stimoli (interni ed ester- ni) e sogno, e` caduta completamente la vecchia ipotesi che il sogno derivasse da stimoli: in studi controllati, si e` potuto constatare che solo in una piccola percentuale di sogni c’era una correlazione tra contenuto del sogno e stimolo. Cade cosı` anche l’ipotesi tanto cara a Freud che il sogno, puro esaudimento allucinatorio del deside` esattamente il rio, serve a proteggere il sonno. E contrario invece: il sonno serve per far emergere il sogno e potremmo aggiungere che serve a proteggerlo, nel senso che se l’attivita` onirica si svolgesse in stato di veglia costituirebbe una situazione di patologia. Il sogno ha caratteristiche di tipo allucinatorio, nel senso che colui che sogna non e` consapevole del suo particolare stato psicologico, ma vive come vere le immagini o le parole del sogno: il sogno e` caratterizzato da immagini molto vivide, accompagnate spesso da sensazioni uditive e di movimento: quindi nel sogno sono impegnate la sensorialita` visiva, uditiva e la cenestesi. Molto raramente sono interessati gli altri sensi come il gusto, l’olfatto o il tatto. Intense invece possono essere le emozioni che variano dalla gioia all’angoscia. Sul piano neurofisiologico

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il sogno e` caratterizzato da tre processi fondamentali (J. Allan Hobson, 1987): 1) 2)

3)

L’attivita` del SNC che corrisponde appunto alla fase REM. Il blocco delle afferenze sensoriali tramite una prima inibizione presinaptica dei terminali afferenti dei nervi cutanei, e da una ulteriore inibizione dei livelli piu` elevati dei circuiti sensoriali. Blocco delle afferenze motorie: questo fenomeno e` dovuto ad una inibizione post-sinaptica dei motoneuroni della via finale comune situata nel midollo spinale e nel tronco encefalico. La generazione di segnali interni che vengono vissuti, a causa dell’interazione sensoriale, come provenienti dall’esterno.

«Sulla base di questi tre processi, il cervello si prepara a processare l’informazione che proviene dal suo interno, ad escludere i dati provenienti dall’esterno ed a non agire in rapporto alla informazione generatasi al suo interno» (J. Allan Hobson, 1987). Certamente questi dati sono validi; ma la neurofisiologia non puo` dirci nulla di piu` circa il significato delle immagini e delle informazioni ` evidente che le informazioni interne interne. E nascono dall’esperienza, dalla memoria dei residui diurni, ma anche e soprattutto dalla organizzazione psichica del soggetto. Nel sogno compaiono personaggi che rappresentano parti del soggetto, ovverosia identificazioni del soggetto con persone significative, oppure il soggetto stesso in veste di attore o di spettatore. Rimando per ulteriori approfondimenti al capitolo «Psicoterapia analitica». Tuttavia, qui possiamo dire, sulla base delle nozioni di neurofisiologia e sulla base delle esperienze cliniche, che il sogno puo` essere considerato come una particolare modalita` di pensiero che permette al soggetto non solo di rappresentarsi la sua situazione interna, ma anche di tentare delle soluzioni, piu` o meno congrue, delle sue problematiche e delle sue conflittualita`. Il sogno e` un momento di riflessione ed un tentativo di soluzione dei problemi o dei conflitti mediante la rappresentazione drammatica, come in uno scenario teatrale, delle

pulsioni, delle angosce, delle speranze e dei desideri. In una parola, con tutta la complessa e piu` profonda struttura psichica del sognatore: ed e` questo che rende possibile l’interpretazione del racconto del sogno.

4. Sonno e psicopatologia Per lungo tempo si e` creduto di poter comprendere e riprodurre i fenomeni psicopatologici attraverso la privazione del sonno. Infatti dopo una lunga e forzata privazione di sonno (in genere 2-3 notti insonni) compaiono fenomeni costanti di irritabilita`, ansia, incoordinazione motoria, difficolta` di concentrazione, perdita della nozione del tempo. Per tempi piu` lunghi, compaiono fenomeni di depersonalizzazione, fenomeni allucinatori fino a sindromi psicotiche spesso a carattere persecutorio, che tendono a scomparire dopo qualche giorno di sonno normale. Sono stati descritti comunque casi (con controlli precisi e sicuri) di persone rimaste sveglie fino a 264 ore, senza comparsa di disturbi psicopatologici. Occorre quindi ammettere che, anche per la privazione del sonno, ci puo` essere una maggiore o minore vulnerabilita`: e` probabile che quanto piu` e` alta la motivazione, come per esperimenti scientifici, tanto piu` difficile e` l’insorgenza di fenomeni patologici. A parte questi esperimenti di privazione totale del sonno, molto piu` interessanti sono quelli collegati alla soppressione del sonno REM, che viene attuata risvegliando il soggetto appena l’EEG e l’EOG mettono in evidenza l’inizio di tale fase. A volte la mancanza di sonno REM induce in maniera piu` marcata i fenomeni gia` descritti per la interruzione globale del sonno. Comunque un dato sicuro e` il seguente: il sonno REM assolve ad una specifica funzione all’interno del sonno e non se ne puo` fare a meno1. Infatti se si priva un soggetto di sonno REM per

1 Questi dati sembrano essere in contraddizione con quanto osservato recentemente: ovverosia che la deprivazione del sonno REM nei depressi puo` indurre miglioramenti della sintomatologia, e non peggioramenti (vedi pag. 528).

Il sonno: normalita` e patologia

3-4 notti, nella notte o nelle notti successive si ha il «rimbalzo REM», cioe` un aumento considerevole di tale tipo di sonno, che deve considerarsi come necessario recupero. Alcuni esperimenti con farmaci hanno fornito altri dati significativi. I farmaci anti-MAO, l’alcool ed i barbiturici tendono a ridurre il sonno REM: una loro brusca sospensione puo` provocare un forte rimbalzo REM, determinando una serie di sogni angosciosi, tipo incubo, per un aumento complessivo della fase REM. Questo stesso fenomeno, ma molto piu` accentuato, avverrebbe nel delirium tremens che insorge negli alcolisti per brusca sospensione dell’alcool. In questi casi si ha una notevole alterazione del sonno, per cui il periodo REM diventa quasi il 100% del totale del sonno e le allucinazioni rappresentano una continuazione della fase REM durante la veglia. Appare quindi evidente, seppure in maniera non ancora chiarita, che c’e` un rapporto tra sonno REM e possibilita` di esperienze allucinatorie visive (che e` tipico dei disturbi dello stato di coscienza). Dato interessante e` che negli schizofrenici la privazione del sonno REM non provoca, in genere, il fenomeno del rimbalzo. Tuttavia la clinica ci indica da tempo il rapporto tra psicopatologia e sonno. Ad es., i disturbi del sonno (in genere l’insonnia) possono annunciare, anche con molto anticipo, l’emergenza di disturbi psicopatologici; incubi possono precedere le fasi psicotiche di tipo schizofrenico; nel depresso, la capacita` di riprendere a sognare (o a ricordare i sogni) indica una prossima evoluzione risolutiva della fase depressiva.

5. Patologia del sonno 5.1. Fisiopatologia del sonno La valutazione clinica dei disturbi del sonno e` piuttosto aleatoria per due motivi. Il primo consiste nel fatto che i dati riferiti dal paziente sono chiaramente soggettivi e non sempre facilmente verificabili. Inoltre il paziente attribuisce ad una supposta insonnia molti fenomeni di malessere e di stanchezza. Numerose ricerche, condotte presso centri per lo studio del sonno, su soggetti che lamentavano insonnia, hanno dimostrato at-

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traverso rilevazioni obiettive (EEG, EOG ecc.) che questi avevano un sonno pressoche´ normale, perlomeno per quantita`. Va tenuto presente che i soggetti che lamentano insonnia sono quasi sempre soggetti che presentano note di nevrosi. Il secondo motivo e` collegato al fatto che il sonno puo` variare molto e per numerosi motivi. Il sonno varia a seconda dell’eta`: il lattante dorme circa 16 ore, l’uomo in eta` giovanile-matura dorme una media di otto ore; dopo i 50 anni il sonno tende a ridursi, sia come quantita` che come profondita`. Il sonno inoltre e` molto legato alle modalita` dello stato di veglia: esso e` molto sensibile, e quindi puo` diminuire momentaneamente per eventi stressanti o per ansia. Oppure puo` diminuire in casi di iperattivita` del soggetto legata a motivi di lavoro, di studio ecc. Il sonno puo` variare anche rispetto ad una intensa attivita` fisica, con possibilita` pero` di recupero a breve tempo. Quindi numerose sono le possibilita` di alterazione del sonno, ma va tenuto presente un dato fondamentale. Che in assenza di una patologia, il sonno tende ad autoregolarsi: pertanto molto spesso non e` necessario fare alcun intervento terapeutico, se non quello di spiegare al paziente i motivi dell’insonnia e correggere a volte alcune abitudini di vita. Prima di esporre i vari quadri clinici, credo sia utile descrivere un possibile modello neurofisiologico dei disturbi del sonno. Attualmente si ritiene «che due diverse alterazioni possono verificarsi a carico dell’oscillatore pontino e degli altri sistemi posti sotto il suo controllo» (J.A. Hobson, 1987) (Fig. 4). Questo schema ci permette, in accordo con la clinica, di unificare sul piano neurofisiologico la maggior parte dei disturbi del sonno, che dividiamo in tre gruppi: le insonnie, le ipersonnie, le parasonnie. La valutazione clinica di questi disturbi e` piuttosto complessa ed e` necessaria una attenta documentazione dei dati, ed una accurata anamnesi. In genere nella diagnosi dei disturbi del sonno si incorre spesso in due errori: la sopravvalutazione dei disturbi soggettivi e la sottovalutazione invece dei disturbi respiratori che possono gravemente disturbare la continuita` del sonno, ma dei quali il paziente non riesce a rendersi conto. A questo scopo, onde ottenere dati piu`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Figura 4 - Due diverse alterazioni possono verificarsi a carico dell’oscillatore pontino e degli altri sistemi posti sotto il suo controllo (nella figura schematicamente e` rappresentato il tronco encefalico). La prima (A) consiste in una variazione (di attivita` o di efficacia) del livello di regolazione delle popolazioni cellulari aminergiche e colinergiche. Per semplicita`, limitiamo la nostra attenzione alle conseguenze o di una diminuita o di una aumentata attivita` dei sistemi aminergici (linea tratteggiata). Quando l’attivita` aminergica si abbassa, il sonno e` stimolato (come nella narcolessia e in altre ipersonnie); quando invece essa e` innalzata, il sonno e` ostacolato (come nell’ansia cronica e nelle altre forme di insonnia). La seconda alterazione (B) consiste in una imperfetta sincronizzazione tra l’attivazione (o l’inattivazione) dei sistemi neuronali periferici posti sotto il controllo centrale dell’oscillatore. Se, ad esempio, all’inizio del sonno REM i generatori centrali del moto sono attivati prima che sia completa l’inibizione dei motoneuroni spinali, puo` manifestarsi una attivita` motoria (come nel sonnambulismo, nella sonniloquia, nel bruxismo o in altre parasonnie). (Riprodotta da J.A. Hobson, Neurobiologia e fisiopatologia del sonno e del sogno, vol. II n. 4, Discussions in Neurosciences. Per gentile concessione della Fidia S.p.A.).

attendibili, prima di fare una diagnosi e` opportuno far registrare al paziente tutta una serie di avvenimenti, per un arco di circa 10-15 giorni. In questo diario il paziente deve annotare durante l’arco dell’intera giornata le sue modalita` comportamentali ed i tempi: l’ora del risveglio, il momento in cui si alza, l’orario dei pasti, le even-

tuali attivita` fisiche o mentali e la durata delle medesime, eventuali momenti di riposo o di addormentamento durante il giorno, l’intervallo tra l’andare a letto e l’inizio del sonno, eventuali risvegli notturni con le modalita`, (spontaneo, incubi, per difficolta` respiratorie ecc.) ed i tempi. Inoltre, se e` possibile, perche´ evidenziati dall’e-

Il sonno: normalita` e patologia

ventuale partner, segnalare altri fenomeni quali il bruxismo, la quantita` di variazione delle posizioni durante il sonno, il russare, eventuali movimenti violenti e scoordinati ecc... Questa specie di diario e` utile non solo al paziente perche´ lo aiuta ad una piu` precisa autoosservazione, evitando cosı` di fargli denunciare solo un generico malessere, ma anche al medico per meglio valutare la fenomenologia dell’insonnia e porre una corretta diagnosi e terapia.

5.2. Le insonnie Per insonnia deve intendersi una diminuzione, significativa e prolungata nel tempo, della quantita` totale di sonno. Il bisogno di sonno e` una costante individuale che varia da soggetto a sog-

641

getto, e sembra essere determinata da fattori ereditari. Ci sono persone che dormono 4-6 ore per notte e si sentono perfettamente a loro agio di giorno; mentre altri, pur dormendo 7-8 ore, si sentono stanchi. Quindi bisogna prima valutare lo standard medio di quella persona, tenendo conto che nello stesso soggetto la quantita` di sonno varia con l’eta`. Il sonno normale e l’insonnia sono direttamente collegati con lo stato di veglia, nel senso che interagiscono reciprocamente. Puo` sembrare paradossale, ma per dormire bene bisogna essere ben riposati: e viceversa un sonno ristoratore induce una piu` efficace attivita` durante la veglia. Al contrario l’insonnia puo` manifestarsi, durante la veglia, con stanchezza, depressione, minore attivita` fisica e mentale. Questa stanchezza e` dovuta ad un aumento del bilancio energetico notturno. Infatti la temperatura media

Figura 5

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

notturna dei soggetti insonni rimane significativamente piu` elevata rispetto a coloro che dormono bene: il che vuol dire che gli insonni presentano un aumentato consumo energetico notturno. Quindi la stanchezza, la depressione, la facile fatigabilita` che l’insonne denuncia, vanno giudicati spesso come dati oggettivi. A volte invece il sintomo insonnia e` uno dei tanti «sintomi offerti», ovverosia e` un sintomo che il paziente propone al medico al posto di situazioni conflittuali piu` o meno inconsapevoli. In questi casi, nel corso del colloquio, il paziente tende facilmente a non parlare piu` di questo disturbo, appena si abbia l’accortezza di spostare l’attenzione su altre problematiche. Le insonnie si suddividono in acute (meno di 1 mese), persistenti (oltre 2 mesi) e croniche. Sul piano eziologico l’insonnia si puo` dividere in: reattiva, primaria psicogena, secondaria.

5.2.1. Insonnia reattiva legata a fattori ambientali

«Il sonno e la conseguente sensazione di riposo e` migliore quando i ritmi giornalieri sonnoveglia sono strettamente correlati in accoppiamento di fase con i ritmi circadiani corporei ed il ciclo ambientale giorno-notte. In circostanze normali gli Zeitgebers (segnatempi), come il momento del risveglio notturno, servono a mantenere il corretto accoppiamento di fase di questi ritmi. Ma in alcuni individui questi Zeitgebers vengono a mancare ed i ritmi si sfasano, e il sonno diventa allora variabile ed irregolare. Poiche´ le abitudini della vita quotidiana sono importanti Zeitgebers, gli individui dalla vita poco organizzata, come gli studenti, i disoccupati, gli anziani, vanno piu` frequentemente incontro a questo sfasamento e sviluppano irregolarita` del sonno» (M. Mamelak, 1989). Questa manifestazione non assume quindi i caratteri di una vera insonnia, ma piuttosto di un ritardo della fase ipnica, nel senso che questi soggetti hanno difficolta` ad addormentarsi presto, mentre tendono a dormire piu` a lungo al mattino. Bisogna invece sottolineare due situazioni specifiche. La prima e` dovuta a rapidi sposta-

menti con viaggi aerei e quindi a cambiamenti dei fusi orari. Questa sindrome definita «jet lag» presenta una singolare caratteristica. Lo spostamento verso ovest produce una perdita di sonno minore (rispetto a spostamenti verso est) perche´, essendo il ciclo circadiano di 25 ore, rende piu` facile prolungare il giorno e ritardare il momento di andare a dormire. Quindi il giorno successivo allo spostamento c’e` insonnia, pero` il ciclo del sonno si regolarizza rapidamente. Nel viaggio verso l’est, particolarmente dopo un volo notturno, il giorno successivo al viaggio si dorme bene, salvo poi ad avere insonnia nei ` necessario in genere un pegiorni successivi. E riodo di circa 7 giorni per adattarsi al nuovo fuso orario. Altro motivo di sfasamento del ritmo circadiano, rispetto a situazioni ambientali, sono i ` evidente che questa turni di lavoro di notte. E situazione comporta uno sfasamento degli orari del sonno: si sviluppa facilmente insonnia. In alcuni casi il meccanismo e` talmente alterato che i soggetti sviluppano una forma di narcolessia.

5.2.2. Insonnia primaria psicogena

L’insonnia puo` costituire un sintomo predominante nelle varie forme psiconevrotiche, parti` cacolarmente in quella ansiosa e depressiva. E ratterizzata da una difficolta` all’addormentamento, spesso con presenza di risvegli notturni che possono essere spontanei o collegati a sogni ` prevalentemente cronica. In genere angosciosi. E questa insonnia si caratterizza soprattutto per un disturbo qualitativo piu` che quantitativo del sonno: l’insufficiente quantita` di sonno notturno e` spesso compensata dalla tendenza a prolungarlo in mattinata. L’insonnia psicogena e` determinata dall’ansia, ma spesso e` peggiorata da un cattivo uso od abuso di sostanze, quali sedativi, oppure alcool, che spesso erroneamente viene utilizzato come sonnifero. Ben presto si crea un circolo vizioso di difficile soluzione, non solo per la tendenza ad aumentare i dosaggi, ma anche perche´ queste sostanze diminuiscono il sonno REM e quindi comportano un disturbo qualitativo del sonno. Si

Il sonno: normalita` e patologia

crea ben presto una dipendenza di tipo psicologico, che aggrava lo stato di ansia per il timore di non dormire o di non avere a disposizione il farmaco. Una reale diminuzione del sonno, unita ad alterazione della fase REM ed all’astenia provocata dai sonniferi, fa sı` che questi pazienti si alzino al mattino «piu` stanchi della sera». A volte l’insonnia invece assume la connotazione di una fobia per il dormire: il sonno viene vissuto come perdita di controllo e come una interruzione con il mondo esterno. Spesso questi pazienti riescono a dormire solo alle prime luci dell’alba o quando c’e` movimento intorno a loro. L’insonnia primaria e` rara prima dei 20 anni, mentre raggiunge tra i 20 ed i 25 anni una percentuale di circa il 13% tra gli uomini e del 25% delle donne. Dopo i 60 anni l’insonnia puo` colpire circa il 30% della popolazione, configurandosi come disturbo di rilevante interesse sociale a causa dei numerosi problemi che provoca.

5.2.3. Insonnia secondaria di origine farmacologica

A volte possiamo avere sintomi di insonnia in soggetti che prendono durante il giorno farmaci eccitanti (tipo anfetaminici o prodotti similari usati come anoressizzanti); oppure farmaci che possono indurre insonnia, come il cortisone: oppure sostanze eccitanti, come il caffe`.

5.2.4. Insonnia secondaria di origine somatica

Questa insonnia e` determinata o da difficolta` respiratorie (come asma bronchiale o cardiaca) oppure da situazioni dolorose (artrite reumatoide, artrosi ecc.) oppure da alcune affezioni neurologiche (quali alcuni tumori cerebrali o la malattia di Parkinson); oppure da disturbi dovuti ad ipereccitabilita`, come nell’ipertiroidismo.

5.2.5. Insonnia secondaria di origine psichiatrica

Una manifestazione molto frequente della depressione e` l’insonnia che e` caratterizzata (ed a

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volte, nelle forme monosintomatiche, puo` essere l’unico sintomo) da addormentamento normale e da risveglio precoce2 (fig. 5). Il paziente, dopo aver dormito 3-4 ore, si risveglia improvvisamente, lucido, ripreso in genere dai propri pensieri pessimi` l’insonnia piu` spiacevole, anche perche´ il stici. E paziente a quell’ora (le 2-3 del mattino), rimane solo con i propri pensieri nell’attesa spasmodica di vedere l’alba. Nelle sindromi maniacali, invece, l’insonnia e` presente in forma molto massiccia, a volte totale, ed il paziente passa la notte interamente in bianco, con solo qualche breve periodo di riposo, magari durante il giorno. A volte, si ha addirittura una inversione notte-giorno. Frequente e` l’insonnia, ma soprattutto l’inversione nictemerale, nelle demenze.

5.3. Ipersonnie Esse sono caratterizzate da un aumento della quantita` di sonno che puo` essere continuo o per crisi. Si dividono in ipersonnie psicogene, primarie e secondarie (legate a disturbi della vigilanza).

5.3.1. Ipersonnia psicogena

Riconosce genesi diverse: spesso il sonno e` chiaramente utilizzato come meccanismo di fuga per una regressione massiccia, come nelle nevrosi depressive, dove l’ipersonnia spesso si associa alla bulimia. Una manifestazione eclatante e` data da certe ipersonnie isteriche che possono durare anche per mesi; esse si distinguono dalle forme secondarie o dalla narcolessia per la regolarita` dell’EEG.

5.3.2. Ipersonnia primaria

Una sindrome particolare e` quella di KleineLevin, che si riscontra in soggetti giovani in pre-

2 In effetti nel depresso c’e` un disturbo piu` complesso del sonno: per esempio c’e` una inversione, quasi speculare, della fase REM. Nel senso che la durata della fase REM e` piu` lunga nelle fasi iniziali del sonno che verso il mattino (vedi fig. 5).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

valenza di sesso maschile: consiste in una ipersonnia con bulimia ed uno stato depressivo con manifestazioni confuso-oniriche. Essa interviene con regolarita` fino a 2-3 volte per anno e tende a durare da una a tre settimane per poi scomparire improvvisamente. La causa e` sconosciuta. Una sindrome piu` frequente e` invece quella di Pickwick. Essa compare in individui obesi ed e` caratterizzata da crisi irresistibili di sonno diurno, accompagnate da disturbi respiratori, nel senso di un arresto dell’escursione polmonare che puo` arrivare fino ad una momentanea apnea. Si crea quindi una situazione di ipercapnia e di ipossia che stimola bruscamente il centro del respiro: questo determina una brusca, rumorosa inspirazione ed il momentaneo risveglio. La malattia e` certamente collegata con l’adiposita`, nel senso che un calo del peso migliora la sindrome, anche se non sempre scompare del tutto. Un’altra sindrome e` la narcolessia o sindrome di Gelinau, che fu descritta come particolare sindrome nevrotica da Gelinau nel 1880: gli attuali studi sul sonno hanno portato ad una comprensione maggiore (anche se non totale) di questo strano disturbo. La narcolessia consiste in un attacco incoercibile di sonno, di breve durata, che puo` ripetersi varie volte durante il giorno. Perche´ si possa parlare di narcolessia e` necessario che siano presenti tutti i sintomi e cioe`: narcolessia, cataplessia, paralisi del risveglio o dell’addormentamento, allucinazioni ipnagogiche. La cataplessia e` caratterizzata da una diminuzione brusca e di breve durata del tono muscolare che comporta spesso la caduta a terra, senza alcuna perdita di coscienza. Il soggetto cade a terra come una marionetta alla quale siano staccati i fili. La narcolessia e la cataplessia spesso insorgono in occasioni di emozioni piacevoli (almeno apparentemente): come in situazioni di gioia improvvisa oppure di riso. Le paralisi da sonno intervengono al risveglio e all’addormentamento e sono fenomeni analoghi alla cataplessia. Le allucinazioni sono in genere visive, spesso a carattere angosciante. Questa sindrome, considerata come una forma di nevrosi, e` in effetti legata ad un preciso meccanismo neurofisiologico.

Si e` visto che la narcolessia corrisponde ad un attacco tipico di sonno REM con la sua caratteristica caduta del tono muscolare. Inoltre, a differenza dei soggetti normali nei quali la fase REM interviene sempre dopo 80-90 minuti di sonno non-REM, in quelli affetti da narcolessia il sonno inizia con una fase REM. Quanto detto, se anche ci chiarisce alcuni meccanismi dei sintomi, nulla ci dice circa l’origine di questa malattia che rimane, almeno per ora, una situazione psicopatologica legata a vari fattori. Spesso la narcolessia interviene dopo traumi psichici. Il fatto pero` che questi sintomi possano comparire in relazione a situazioni emozionali piacevoli ci puo` forse chiarire i rapporti tra certe manifestazioni apparentemente piacevoli e certe pulsioni profonde di tipo aggressivo. Il detto «morire dal ridere» trova forse in questo contesto una spiegazione piu` precisa: il ridere come espressione di una intensa rabbia che puo` portare, quasi in un rapido sintomo di conversione, alla perdita totale del tono muscolare. 5.3.3. Ipersonnia secondaria o da disturbi della vigilanza

Anche se queste sindromi andrebbero trattate nel capitolo sui disturbi della vigilanza, preferisco accennarle qui per comodita` didattica, soprattutto perche´, nell’ambito della ipersonnia, sono queste le situazioni che creano piu` diffusamente diffi` chiaro che l’ipersonnia va colta` diagnostiche. E distinta dal coma, del quale puo` rappresentare un segno premonitore. Abbiamo delle ipersonnie legate a lesioni neurologiche, in genere a malattie infettive del S.N.C., delle quali le piu` comuni sono l’encefalite epidemica e la tripanosomiasi. Esse possono essere dovute anche a disturbi vascolari, soprattutto quando questi interessano la parte rostrale e mediana del tronco e soprattutto l’ipotalamo posteriore. Anche i tumori cerebrali possono causare ipersonnia (attraverso il meccanismo dell’ipertensione endocranica, oppure per precise localizzazioni in genere a livello mesencefalico; altrettanto possono fare particolari tipi di craniofaringiomi). Da ricordare anche l’ipersonnia nei traumi cranici complicati da ematomi subdurali.

Il sonno: normalita` e patologia

Frequenti sono le ipersonnie dismetaboliche (come nell’uremia) che in genere precedono il coma. Esse sono caratterizzate da una inversione del ritmo giorno-notte e si accompagnano ai sintomi specifici delle varie manifestazioni dismetaboliche. Sul piano dei disturbi endocrini sono da tener presenti il mixedema ed, a volte, il morbo di Addison.

5.4. Parasonnie Esse sono il sonnambulismo, l’enuresi, il pavor nocturnus, la sindrome «restless legs» (gambe senza riposo), il mioclono notturno, il bruxismo, l’apnea da sonno. Il sonnambulismo si presenta durante il sonno profondo (stadio 3 e 4). Il soggetto si alza, in genere con gli occhi aperti, riesce a compiere movimenti coordinati e complessi di deambula` una zione, ma senza averne nessuna coscienza. E sindrome piu` frequente negli adolescenti e nei maschi, e va distinta dalle forme di epilessia. L’enuresi e` un disturbo piuttosto frequente nei bambini ed interviene nella fase piu` profonda del sonno; si tratta di un sintomo piuttosto complesso che trae origine, spesso, da situazioni conflittuali familiari. Il pavor nocturnus consiste in una sensazione di terrore, spesso collegata a sogni a tipo incubo, che svegliano improvvisamente il soggetto (in genere il bambino), nella fase piu` profonda del sonno. Come fa giustamente osservare A. Bourguignon, il pavor nocturnus non va sottovalutato, per quanto riguarda la prognosi: frequentemente esso si ritrova nell’anamnesi di psiconevrotici. Sindrome delle gambe senza riposo (restless legs). Essa consiste in una sensazione sgradevole, di tipo crampiforme, localizzata ai polpacci, che puo` impedire il sonno. Infatti si pone termine a questa sensazione sgradevole camminando, per cui molti pazienti passano parte della notte passeggiando. Sembra essere un disturbo su base ` piu` familiare, spesso si associa al mioclono. E frequente negli anziani; a volte puo` essere indizio di una intossicazione uremica. Mioclono notturno. Consiste in contrazioni violente e regolari, che interessano i tibiali ante-

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riori. Questo sintomo non e` avvertito dal soggetto. Sull’eventuale compagno di letto ha effetti piu` spiacevoli: infatti il paziente «tende a scalciare». Spesso sono presenti disturbi di tipo apnoico. Se questi miocloni sono frequenti, puo` instaurarsi una insonnia secondaria. Il bruxismo. Consiste in una contrazione dei masseteri, con digrignamento dei denti: interviene nella fase piu` profonda del sonno NREM. Il controllo della respirazione e` legato ad un oscillatore, con un ritmo di circa 4-6 secondi, che si trova nella formazione reticolare del tronco encefalico, quindi molto vicino ai centri deputati al ciclo veglia-sonno. Queste due funzioni, quindi, possono facilmente interagire. Fisiologicamente nella fase NREM la respirazione diventa piu` profonda e rallentata; nella fase REM invece e` presente una maggiore eccitabilita`, caratterizzata da irregolarita` del respiro con possibilita` di fenomeni di apnea della durata di 10-15 secondi con una frequenza di 3-4 volte per ora. L’apnea da sonno consiste, invece, in fasi di apnea della durata in genere di 10-12 secondi, ma che intervengono con una frequenza anche di ` chiaro che questa apnea 20-30 volte per ora. E comporta un sonno disagiato e soprattutto poco riposante. Il soggetto spesso non e` consapevole di questo fenomeno: a volte puo` evidenziarsi solo per una forte tendenza al russare. L’unico sintomo soggettivo e` costituito invece da una certa sonnolenza durante il giorno. Soggetti di media eta`, di sesso maschile, piuttosto obesi, che durante il giorno hanno continua sonnolenza, possono essere affetti, senza saperlo, proprio da apnea da sonno. Le cause possono essere centrali, nel senso che il centro del sonno tende ad interferire con quello respiratorio. Oppure periferiche e sono dovute a patologie delle vie respiratorie, come enfisema, bronchite, oppure parziali ostruzioni della cavita` nasale e della orofaringe, o da situazioni edematose, come nello scompenso cardiaco. Piu` frequentemente, data la regolazione anche chimica della respirazione, l’eziopatogenesi e` mista: cioe` centrale e periferica. Questa patologia non e` facilmente diagnosticabile, e richiede un controllo accurato del paziente. Infine ed a parte dobbiamo considerare gli incubi.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Essi si verificano a qualsiasi eta`, e possono comparire nelle due fasi del sonno. Nel sonno NREM essi compaiono come crisi di angoscia senza sogni, mentre nella fase REM essi sono accompagnati da sogni vividi ed angoscianti. Questa distinzione e` importante sul piano terapeutico: infatti i primi rispondono bene alle benzodiazepine (in particolare il diazepam) che riducono o sopprimono lo stadio n. 3 e 4 del sonno NREM; i secondi invece non rispondono ai farmaci, ma possono essere utili per comprendere la psicodinamica del paziente, e debbono essere affrontati mediante una risoluzione della conflittualita` sottostante.

c)

d)

e)

f)

6. Terapia ` evidente che una terapia corretta e` possiE bile solo sulla base di una conoscenza completa di tutti i fattori, psicologici, ambientali ed organici, che possono costituire causa o concausa del disturbo. Se questo e` valido per ogni forma morbosa, lo e` ancora di piu` per i disturbi del sonno, essendo disturbi a genesi multifattoriale. ` importante quindi una accurata anamnesi E che deve riguardare non solo il disturbo, ma anche la vita e le abitudini del paziente. Se non e` possibile raccogliere tutti i dati necessari e` preferibile rimandare una eventuale terapia dopo una raccolta piu` accurata dei dati: raccolta che puo` essere affidata al paziente stesso, chiedendogli di segnare tutte le attivita` e le abitudini nell’arco della giornata, per un certo periodo di tempo. Il seguente schema puo` essere tenuto presente nell’anamnesi di pazienti insonni: a)

b)

Descrizione del tipo di insonnia. Difficolta` ad addormentarsi (psiconevrosi, stati di ansia); risveglio precoce (depressione); frequenti risvegli notturni (apnea da sonno, mioclono notturno, restless legs ecc.). Modalita` dei risvegli notturni. Sogni angosciosi (pavor nocturnus, incubi, situazioni di stress ecc.); dolori fisici (artrosi, artrite reumatoide, malattie neurologiche); sensazione di fame d’aria (apnea da sonno, disturbi cardiaci o respiratori).

g)

h)

i)

j) k)

l)

Tempo di insorgenza del disturbo. Si tratta di una insonnia acuta (disturbi psicotici, situazioni ambientali ecc.); oppure e` una insonnia cronica (in genere psiconevrosi ansiosa, tendenza ad assumere psicofarmaci o alcolici ecc.). Se l’insonnia e` acuta, indagare se il paziente ha avuto precedentemente episodi simili, e quanto sono durati; se sono cessati spontaneamente o con terapie, in caso affermativo quali farmaci ha usato. Collegamenti tra avvenimenti significativi ed insorgenza della insonnia (indagare su eventuali cause ambientali o psicologiche). Se oltre l’insonnia sono presenti altri fenomeni: come russare (apnea da sonno, disturbi respiratori); scalciare (mioclono notturno); necessita` di camminare (sindrome delle gambe senza riposo) ecc. Presenza di fenomeni di sonnolenza durante il giorno (narcolessia, apnea da sonno, disturbi della vigilanza da cause tossiche o neurologiche ecc.). Abitudine di riposarsi durante il giorno. In ` caso affermativo, come e per quanto tempo. E evidente che il tempo di riposo diurno va sommato al numero di ore di sonno notturno. L’insonnia presenta variazioni durante l’arco della settimana. Per esempio puo` comparire il venerdı` sera ed e` collegabile con una situazione conflittuale familiare, oppure per la pausa della attivita` lavorativa. Oppure puo` comparire la domenica sera, ed e` segno di uno stato di stress. Abitudini di vita dell’insonne: attivita` lavorativa, attivita` fisica ecc. Ingestione di sostanze eccitanti (caffe`) o di sostanze come l’alcool, oppure abuso di sedativi. Presenza di episodi depressivi nel passato. A volte l’insonnia puo` essere l’unica manifestazione di una depressione mascherata.

Questa anamnesi ci permette di determinare la causa scatenante e quindi o correggere le abitudini del paziente, o proporre un intervento psicoterapeutico, oppure un mirato intervento psicofarmacologico. Comunque, al di la` di specifici

Il sonno: normalita` e patologia

interventi, a volte puo` essere utile proporre all’insonne una serie di regole fondamentali. La piu` importante e` il mantenimento di un regolare ritmo del sonno, che si puo` ottenere coricandosi alla stessa ora e restando a letto per 7-8 ore. ` poi da evitare l’ingestione di sostanze stiE molanti, ma soprattutto dell’alcool che spesso viene usato come sedativo, mentre in effetti riduce la quantita` e la qualita` del sonno. Inoltre e` necessario non rimanere a letto oltre le ore strettamente necessarie. A volte queste semplici indicazioni possono modificare forme leggere di insonnia. Altrimenti bisogna ricorrere ad interventi piu` specifici. Per l’insonnia dovuta a fattori ambientali (jet-lag, turni di lavoro ecc.) possono essere utili delle benzodiazepine ad emivita breve, come ad esempio il triazolam o il brotizolam. Per le insonnie dovute a cause somatiche, la terapia consiste nella rimozione della causa primaria. Per le insonnie di natura psichiatrica e` necessaria una terapia specifica: nelle forme di schizofrenia e di eccitamento maniacale sono necessari neurolettici, soprattutto quelli con effetto sedativo. I triciclici sono indicati nei casi ove l’insonnia e` l’unica manifestazione di una depressione mascherata. Per l’insonnia legata all’abuso di psicofarmaci (sedativi) o ad abuso di alcool, puo` essere necessario un intervento psicoterapeutico. Lo stesso dicasi per le insonnie psicogene. Comunque per periodi limitati puo` essere utile proporre un intervento con psicofarmaci che riducono l’insonnia. I farmaci piu` usati sono le benzodiazepine. Nell’uso di questi farmaci, bisogna tener presente alcuni in` vero che le benzodiazepine non convenienti. E danno fenomeni di assuefazione, ma e` anche vero che la sospensione, anche di bassi dosaggi, puo` creare difficolta` potendo momentaneamente aggravare l’insonnia, il che porta inevitabilmente a fare di nuovo uso del farmaco. Le benzodiazepine inoltre interferiscono con l’apprendimento: quindi un uso continuato puo` diminuire le capacita` prestazionali del soggetto. Nell’uso delle benzodiazepine (BDZ) bisogna tener presenti alcuni dati di farmacodinamica. Le BDZ, una volta assorbite, raggiungono un picco ematico in 1-2 ore, che corrisponde anche al massimo di azione sul SNC. Successivamente sono distribuite ad altri tessuti (muscolare, adiposo, ecc.); in questa fase di distri-

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buzione, diminuisce il picco ematico e contemporaneamente la funzione sedativa. Altro fattore importante e` il tempo di eliminazione, che e` direttamente collegato alla velocita` con le quali le BDZ subiscono una biotrasformazione e vengono escrete. Rispetto al tempo di eliminazione, le benzodiazepine si dividono in tre classi: Tabella 2 - LE ORE CORRISPONDONO ALL’EMIVITA DI ELIMINAZIONE PLASMATICA

a) a lunga durata Flunitrazepam di azione Nitrazepam

20-30 ore 15-40 ore

b) a media durata Lormetazepam di azione Temazepam

10-12 ore 10-12 ore

c) a breve durata Triazolam di azione Brotizolam

1,5-5 ore 3-6 ore

La scelta quindi sara` determinata dalla funzione specifica: nel senso che se si vuole ottenere un effetto sedativo anche durante il giorno, si usano BDZ della classe a e b; se invece si vuole ottenere solo un rapido effetto ipnoinducente, senza effetti residui, si usano quelli della classe c. Bisogna tener presente che alcuni farmaci (come la cimetidina, i contraccettivi orali e l’etanolo) possono interferire con la biodegradazione di molte benzodiazepine, escluse quelle biotrasformate tramite la glucoronil-transferasi, determinando quindi un ac` comunque importante tecumulo indesiderato. E ner presente che sia per le benzodiazepine a lenta eliminazione che per quelle a rapida eliminazione si sviluppa una certa tolleranza agli effetti ipnoinducenti nel giro di 3-4 settimane. Questo significa che una terapia con BDZ non solo deve essere mirata, ma soprattutto deve svolgersi nell’arco di un tempo relativamente breve. Perche´ deve servire a reintegrare il sonno perduto ed a riequilibrare il ritmo veglia-sonno, lasciando poi ad altri fattori la possibilita` di stabilizzare questa situazione. Per quanto riguarda le ipersonnie la terapia deve mirare, quando e` possibile, ad eliminare eventuali fattori concomitanti: per esempio nel morbo di Pickwick la riduzione dell’obesita` comporta un miglioramento. Specifica invece e` la terapia della narcolessia. Essa puo` essere a base

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

di stimolanti (tipo efedrina da 0.050 a 0.20 g. pro die; o amfetaminici da 5 a 20 mg. pro die) oppure ricorrendo alla somministrazione di antidepressivi triciclici o antiMAO. Per le parasonnie la terapia e` molto varia: interventi psicoterapeutici nell’enuresi, e interventi psicofarmacologici, in genere BDZ, nel mioclono notturno (clonazepam). Nell’apnea da sonno, invece, l’intervento e` piu` complesso e polispecialistico, perche´ bisogna intervenire anche sulla concomitante patologia respiratoria.

Riferimenti bibliografici Bourguignon A., «Troubles du sommeil», EMC Psychiatrie 37105A10, Paris, 1971. Bourguignon A., Reynaud M., «Les troubles du sommeil», EMC Psychiatrie, 37105A10, Paris, 1977.

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38 Il concetto di stress Nicola Lalli Parole chiave Stress; adattamento; reazione di allarme; coping; situazioni estreme; trauma

Il termine stress, entrato ormai nell’uso scientifico e comune, indica genericamente uno stato di malessere, piu` o meno grave, dovuto a una situazione traumatica. L’origine del termine e` singolare: viene mutuato in medicina dall’ingegneria ove e` utilizzato per indicare il massimo di tensione sopportabile da una struttura rigida in condizioni di sollecitazione: quindi equivalente di elasticita` che puo` essere maggiore o minore fino a giungere alla rottura.

In psichiatria il termine stress viene utilizzato come equivalente di trauma psichico e serve a valutare il grado di risposta e di adattamento al trauma. In questo capitolo cerchero` di evidenziare i punti qualificanti del concetto di stress; in due successivi capitoli forniro` ulteriori spunti di riflessione su due specifiche situazioni: la morte psicogena e le situazioni estreme. * * *

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1. Il concetto di stress Il termine “stress” fu utilizzato per la prima volta nel 1936 da H. Selye per indicare una reazione aspecifica dell’organismo nei confronti di uno o piu` agenti stressanti, che possono essere di varia natura (fisica, chimica, biologica, emotiva, ecc.), e che vengono generalmente indicati come induttori “fisici” e/o “psichici” di stress. A tale considerazione Selye giunse notando che nel corso di alcuni esperimenti di laboratorio, ratti a cui venivano inoculati estratti ovarici mostravano a livello anatomo-patologico le stesse lesioni presenti nei ratti di controllo a cui veniva iniettata una semplice soluzione fisiologica. Tali lesioni erano caratterizzate da atrofia del timo e del tessuto linfatico in genere, ipertrofia della corteccia surrenale e lesioni sulle pareti gastriche. Dall’osservazione di cio` fu possibile ipotizzare che il danno somatico non era determinato dalla sostanza iniettata, ma dalla reazione di allarme generata dalla situazione specifica. Selye quindi giunse alla definizione di “Sindrome generale di adattamento” per indicare la reazione aspecifica che viene indotta in un soggetto in presenza di un fattore/evento stressante. Tale sindrome prevede tre momenti fondamentali: una reazione di allarme, caratterizzata da una fase di shock in cui prevale una attivazione del sistema parasimpatico che determina una brusca caduta della pressione arteriosa, ipotermia, riduzione della diuresi, ecc., a cui fa seguito una fase di contro-shock, in cui l’attivazione del simpatico provoca invece un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, una vasocostrizione periferica, una riduzione del flusso ematico a livello splancnico con un aumento invece in altri distretti (cuore, cervello, ecc.), una maggior utilizzazione del glucosio, ecc. Questo status complessivo corrisponde alla messa in atto di meccanismi di attacco. Alla reazione di allarme segue la cosiddetta fase di resistenza nella quale l’organismo continua la propria difesa cercando di trovare una forma di adattamento e di compensazione alla situazione di stress. Se pero` quest’ultima si protrae troppo a lungo si arriva alla terza ed ultima fase, che e`

quella di esaurimento. In questo caso si determina uno stato di inibizione diffusa che coinvolge i vari sistemi (neurovegetativo, endocrino, ecc.) che si erano attivati per far fronte alla situazione di stress, e cio` comporta un danneggiamento diretto ed irreversibile, di grado variabile, di alcune delle strutture coinvolte. Anche nell’uomo si e` potuta riscontrare la presenza di identiche lesioni degenerative in pazienti deceduti per cause diverse che comunque avevano esercitato una pressione costante sull’individuo (v. nel caso della morte da superlavoro, gravi traumi psichici, ecc...). Aragona sostiene che le «...alterazioni organiche da stress sono qualitativamente uniformi indipendentemente dalla natura dello stress, essendo possibili solo differenze quantitative in relazione alla suscettibilita` individuale, alla qualita`, all’intensita` e alla durata dello stress» (Aragona F., 1993). Nell’uomo, quindi, la risposta all’agente stressante e` mediata anche da altri fattori che sono collegati fondamentalmente ai processi cognitivi e all’emotivita`, quindi complessivamente alla personalita` del soggetto. Secondo Pancheri, uno stress induce una risposta che in primo luogo viene elaborata, “controllata”, riconosciuta a livello cognitivo, e successivamente valutata da un punto di vista emotivo, cioe` ogni singolo soggetto rispondera` attivando sia una risposta di tipo puramente biologico sia una piu` strettamente comportamentale. La risposta biologica consiste nella attivazione di una serie di assi che coinvolgono il sistema nervoso sia centrale che periferico, l’asse ipotalamo-surrenale; dalla liberazione di endorfine che sono responsabili, tra le altre cose, di una riduzione della sensibilita` al dolore, dall’inibizione di varie funzioni quali quelle relative alla riproduzione, alla crescita, alla digestione, ecc. La risposta comportamentale e` invece legata a fattori che sono piu` strettamente in relazione con la personalita` del soggetto, al modo di reagire nei confronti di alcune situazioni, alla memoria delle precedenti esperienze vissute, ad una serie di modelli comportamentali appresi nell’ambito della societa` in cui l’individuo vive, alla possibi-

Il concetto di stress

lita` concreta di poter modificare lo stato delle cose, ecc... La reazione di stress e` quindi un tentativo di neutralizzare uno stimolo quando questo determina una alterazione della normale attivita` dell’organismo. Secondo Weiner, «...la perturbazione di un sistema non altera l’homeostatic steady state, ma conduce ad un bivio che o forza il sistema verso una instabilita` oscillatoria, o produce un ritorno ad una modalita` precedente di funzionamento» (Weiner J. M., 1991). Vista infatti la complessita` del funzionamento dell’organismo e di come questo possa essere modificato anche in assenza di uno stimolo evidente, riesce difficile immaginarsi la presenza di un equilibrio omeostatico. A questo proposito e` utile introdurre il concetto di ritmo biologico. Tutte le funzioni di un dato organismo sono caratterizzate dall’alternarsi di ritmi endogeni quali il ritmo sonno-veglia, la termoregolazione, la secrezione di cortisolo e di ACTH, del GH, ecc. Come ho gia` affermato, «...e` importante tener presente che tutti questi ritmi sono sottoposti all’influenza di sincronizzatori ambientali, ma anche che sono legati tra di loro in relazione di fase per produrre un adattamento ambientale, sul piano biologico e comportamentale, ottimale» (Lalli N., 1994). Si e` anche osservato che se si creano delle situazioni sperimentali in cui viene meno il ruolo del sincronizzatore ambientale, vi sono alcuni di questi ritmi (secrezione di ACTH, cortisolo, regolazione della temperatura corporea) che rimangono costanti, mentre altri (alternanza del ritmo sonno-veglia, secrezione di GH, prolattina, ecc.) subiscono delle modificazioni. In una situazione di stress questi equilibri dinamici tendono ad alterarsi. La presenza e l’interazione dei ritmi biologici rende ancora piu` complessa e delicata la valutazione della reazione da stress, ma implica sicuramente un fattore importante: la durata della situazione stressante. Le reazioni innescate da un evento stressante devono durare un periodo di tempo limitato, altrimenti e` possibile che si provochino dei danni che possono variare da forme piu` leggere, reversi-

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bili, fino a forme irreversibili sia sul piano fisico che su quello psichico. Qualora infatti si abbia uno scompenso nella risposta biologica si possono determinare patologie che coinvolgono direttamente l’organismo sul piano somatico (ipertensione, ulcera gastrica o duodenale, malattie intestinali, respiratorie, ecc..); se invece prevale una risposta di tipo psicologico-comportamentale, si possono manifestare una serie di disturbi psichici che possono andare dalla depressione fino ad un quadro di psicosi conclamata. Il problema che si pone e` capire che cosa determina delle risposte cosı` diverse ad uno stesso evento stressante. Numerose sono le ipotesi a questo riguardo. Da alcune ricerche effettuate su animali in laboratorio, si e` potuto evidenziare che alcune situazioni, quali la prevedibilita` e la capacita` di poter porre rimedio o quanto meno fronteggiare una situazione di stress, possono avere delle conseguenze meno negative. A questo proposito mi sembra interessante riferire gli esperimenti condotti in laboratorio da J.M. Weiss. Ponendo in gabbie separate due topi collegati a livello della coda allo stesso stimolatore elettrico, ed in una terza gabbia un topo di controllo che per tutta la durata dell’esperimento era libero di esplorare il suo ambiente senza ricevere alcuna stimolazione elettrica, si e` visto che le alterazioni gastriche riscontrate nel topo della prima gabbia erano inferiori rispetto a quelle presenti nel secondo topo che riceveva simultaneamente la stessa scossa, poiche´ mentre il primo animale riceveva un segnale prima di ciascuna stimolazione, il secondo topo invece riceveva un segnale che non aveva alcuna relazione temporale con il verificarsi della stessa scossa. I topi della terza gabbia presentavano invece lesioni minime o nulle. Allo stesso modo si e` osservato che se il topo della prima gabbia veniva messo in condizione di evitare o interrompere lo stimolo, presentava lesioni minori del topo presente nella seconda gabbia che riceveva lo stesso segnale di avvertimento, la stessa scossa di uguale durata, ma non poteva far nulla per evitarla. Inoltre si e` visto che se un topo che ha imparato ad evitare, con un

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

determinato movimento appreso, la stimolazione elettrica, subisce improvvisamente una scossa pur ripetendo quegli stessi movimenti, presentera` delle lesioni gastriche maggiori rispetto al topo che non puo` evitare lo stimolo. Weiss parla a questo proposito dell’importanza di quella che definisce una retroazione utile: «Una retroazione appropriata e` detta utile e consiste di stimoli che non sono associati alla situazione di stress. Si ha una retroazione utile quando una risposta produce stimoli che differiscono dallo stressor. La quantita` di retroazione utile prodotta dipende da quanto diventa diversa la situazione di stimolo e da quanto lontani sono questi nuovi stimoli da qualsiasi associazione con lo stressor» (Weiss J.M., 1991). Anche osservazioni effettuate su babbuini, nei quali e` stato analizzato in particolare quanto influisce la posizione di ciascun animale all’interno della propria gerarchia sociale ai fini di una risposta ad uno stimolo stressante, hanno indicato, come afferma Sapolsky, che «...il numero di induttori sociali di stress ai quali un individuo e` sottoposto influisce meno sulla fisiologia di quanto faccia lo “stile” emotivo con cui il soggetto li percepisce e li affronta» (Sapolsky R.M., 1991). ` evidente che questo “stile emotivo” e` anE cora piu` importante e determinante nell’uomo. Come ad es. riporta Sapolsky, «...uno studio classico ha dimostrato che i genitori i cui figli erano colpiti da tumore avevano livelli di cortisolo piu` elevati di quelli dei genitori di figli sani. L’incremento, tuttavia, variava a seconda di come i soggetti affrontavano la situazione. Livelli di cortisolo molto piu` bassi furono trovati nei genitori che avevano difese psicologiche contro l’angoscia come, per esempio, la fede religiosa, la capacita` di negare la gravita` della malattia del figlio o la tendenza ad annullare l’ansia occupandosi di tutti i dettagli della cura del figlio malato» (Sapolsky R.M., 1991). ` chiaro che la specificita` di una reazione E viene ad essere meno spiccata qualora si presenti uno stress improvviso, che richiede una immediata capacita` di reazione, senza troppe possibilita` di valutazione. In questi casi la risposta diventa piu` aspecifica ed il tipo di reazione e` piu`

` cio` che avviene ad facilmente generalizzabile. E esempio in caso di terremoto, incendio, o altre calamita` naturali che non consentono all’uomo di elaborare una risposta adeguata. Weiner, che riscontra gia` nelle teorie evoluzionistiche di Darwin le origini del termine stress, definisce lo stress come «...una sfida o una minaccia all’integrita` e sopravvivenza dell’organismo», ed individua come elementi di stress «quelle pressioni selettive che derivano dall’ambiente fisico e sociale» (Weiner H. 1991) che vengono cosı` divise: 1) disastri naturali: terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, infezioni, ecc...; 2) disastri provocati dall’uomo: guerre, invenzioni tecnologiche, torture, stupri, ecc.. ; 3) esperienze personali: rottura di relazioni umane importanti, perdite, separazioni, divorzi, poverta`, migrazione, ecc... Non e` facile stabilire una tipologia degli individui che avranno una maggiore probabilita` di sviluppare una patologia psichica o organica a seguito di una serie di eventi stressanti ripetuti o protratti nel tempo. Per quanto riguarda le patologie somatiche si e` ipotizzato che una iperstimolazione del sistema simpatico-ergotrofico sia in grado di determinare una eccitazione spiccata nell’organismo che, prolungata nel tempo, potrebbe essere responsabile di patologie quali ipertensione arteriosa, aritmie cardiache, ecc., che si verificherebbero con maggior probabilita` quando appunto la reazione di allarme, ripetuta e protratta nel tempo, non e` seguita da una reale e concreta messa in atto della reazione di stress. Sembrano essere piu` soggetti a questo tipo di patologie gli individui cosiddetti di tipo A: si tratta di persone in un costante stato di iperattivita` , eccitabilita` , aggressivita` , competitivita`, ostilita`, in cui neanche il riposo determina un recupero di energie da parte dell’organismo. (Alexander a questo proposito parlava della presenza, in questi soggetti, di comportamenti di natura ostile-aggressiva, che non potendo per motivi esterni essere messi in atto potevano determinare delle malattie a livello cardiocircolatorio). Una stimolazione protratta del sistema parasimpatico sarebbe invece responsabile di una reazione di inibizione, in cui prevalgono nell’organismo meccanismi di mantenimento e anabolici che

Il concetto di stress

su un piano somatico si manifesterebbero prevalentemente con patologie a carico dell’apparato gastroenterico. In questo caso la reazione di resistenza nei confronti dell’ambiente esterno viene completamente evitata, con un ripiegamento dell’individuo sul proprio corpo. Questa condizione psicofisica e` spiegata da Alexander come legata ad un problema di oralita`, nel senso che l’individuo che mette in atto questi meccanismi di difesa si viene a trovare in particolari condizioni psicologiche (fondamentalmente di dipendenza), per cui come un bambino richiede di “essere nutrito”, oltre che amato. Questo comporterebbe una continua attivazione dell’apparato digerente con conseguenti lesioni a carico degli organi stessi. Quindi se i meccanismi biologici ci possono fornire indicazioni sul come lo stress induce lesioni, piu` o meno transitorie, e` evidente che il perche´ e` da cercarsi nei fattori psicologici. Abbiamo gia` accennato al ruolo importante che viene svolto dall’atteggiamento psicologico con il quale l’individuo affronta uno stress. L’avere una rete di relazioni sociali che sostiene l’individuo nei momenti difficili, la capacita` di prevedere, di affrontare o di evitare un evento stressante, possono essere dei meccanismi che giocano indubbiamente a favore di una risposta adeguata. Schematicamente Levine e Ursin hanno delineato tre diverse modalita` di reazione allo stress che si basano fondamentalmente sulle aspettative che il singolo soggetto nutre nei confronti della situazione di stress: “coping”, “helplessness”, “hopelessness” (Levine S., Ursin H., 1991). Si puo` intendere come “coping” la capacita` di fronteggiare una determinata situazione di minaccia o di sfida, basata sulla aspettativa di un risultato favorevole. Tutto cio` e` strettamente legato alla capacita` «...di capire se si e` in grado di controllare una determinata situazione. Questo dipende dalla capacita` di rispondere attivamente in presenza di stimoli avversi e di registrare le conseguenze di tali atti. Se le risposte producono un risultato positivo, sia attraverso dei meccanismi di fuga o di evitamento dell’evento dannoso o attraverso la capacita` di ottenere un rinforzo po-

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sitivo, il cervello immagazzinera` allora queste relazioni come aspettative di risultati positivi. Questo tipo di apprendimento richiede non solo che si verifichino tali eventi positivi, ma il cervello deve anche essere in grado di registrare questi risultati. Questo processo e` spesso chiamato di feedback. Un feedback rapido e chiaro e` necessario per controllare, ed inoltre per saper fronteggiare cio` che si potra` verificare». L’“helplessness” corrisponde ad un senso di impotenza, di incapacita` e si verifica in «...quelle situazioni psicologiche in cui l’individuo non puo` determinare alcuna relazione tra le risposte disponibili ed il risultato probabile». In questo caso il soggetto ritiene che esiste una probabilita` molto bassa che le risposte disponibili porteranno ad una qualsiasi conseguenza positiva. L’“hopelessness”, che significa mancanza di speranza, indica che «...l’individuo ha acquisito con l’esperienza l’idea che le risposte possibili porteranno ad eventi contrari o negativi, quali una punizione». Accanto a queste modalita` di reazione, Levine e Ursin aggiungono anche l’atteggiamento di “distorsione” e di “diniego”. «...Nelle sue forme piu` primitive, questo meccanismo di difesa puo` bloccare i segnali di minaccia che inducono la risposta di stress. Il prezzo di tutto cio` puo` essere il fallimento nel sapersi comportare adeguatamente in situazioni di pericolo». Cio` che sembra determinare il prevalere di un atteggiamento psicologico rispetto ad un altro e` il tipo di esperienze vissute in precedenza, in particolare nei primi anni di vita. Esperienze di perdita, di separazione o traumatiche in genere, possono predisporre maggiormente l’individuo ad un atteggiamento di timore, di ansia, d’incapacita` di gestire una situazione. La psicologia e la psicodinamica cercano di individuare la complessita` di tutti i fattori che concorrono a determinare la risposta psicologica nell’individuo al fine di poter considerare la malattia, anzi il malato, nella sua globalita`. Quello che possiamo affermare e` che pur continuando ad utilizzare il termine di stress, in effetti la complessita` di questo concetto nell’uomo ` e` ben lungi dalla linearita` esposta da Selye. E

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

evidente che esistono diverse risposte, molto soggettive, ad uno stesso stimolo stressante. Non esiste lo stress in senso assoluto, ma invece esistono diverse risposte dell’uomo alle varie sollecitazioni alle quali egli e` costantemente esposto. Pertanto il concetto di stress e` un ponte, a volte una scorciatoia non sempre percorribile, tra il concetto di trauma e di adattamento. Come vedremo nei due capitoli successivi, lo stesso trauma puo` comportare reazioni molto diverse, il che implica l’importanza, per comprendere l’effetto del trauma, della diversa struttura di personalita` e anche della situazione contestuale. Quindi l’effetto del trauma non e` una variabile indipendente dalla personalita`: alcuni possono soccombere rapidamente, altri adattarsi, altri ancora resistere e utilizzare il trauma per una ulteriore evoluzione psichica. Diceva F. Nietsche: «... cio` che non mi uccide, mi rinforza». Credo che sul concetto di trauma possiamo fare tre affermazioni che non sono smentibili: a) l’effetto del trauma e` tanto piu` deleterio quanto piu` avviene in eta` molto precoce. Per questo i traumi nei primi anni di vita possono indurre effetti molto catastrofici: e` come se il trauma comportasse una sorta di imprinting, quindi difficilmente trasformabile. b) non e` tanto importante l’entita` del trauma, quanto piuttosto la persistenza. Questo vale sia in eta` infantile che in quella adulta. Nel capitolo successivo, Psicopatologia delle situazioni estreme, vedremo la grande capacita` di reazione e adattamento di un P. Levi e di un B. Bettelheim, anche se il suicidio del primo e i comportamenti sadici dello psichiatra infantile inducono a pensare che traumi ripetuti e continuativi anche in eta` adulta

possono lasciare comunque tracce indelebili, che magari compaiono solo a distanza di tempo. c) che non sempre il trauma si identifica con situazioni sadiche evidenti. Molto spesso il trauma, soprattutto in eta` infantile, puo` essere l’assenza psichica o fisica o l’indifferenza, comportamenti che non sono sempre facilmente percepibili sul piano comportamentale. Pertanto cercheremo di affrofondire il concetto di trauma nei due capitoli successivi.

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39 La morte psicogena Romana Panieri Parole chiave Dualismo cartesiano; psicosomatica; stressors; sistema vegetativo; ipnosi; “lavaggio del cervello”; voodoo

La morte psicogena rappresenta un esempio piuttosto raro ma interessante, perche´ a meta` strada fra stress e trauma. Per quanto se ne parli molto, spesso a sproposito, e` un argomento su cui la letteratura e` piuttosto scarsa e non sempre convincente, soprattutto perche´ questi eventi sono conosciuti piu` attraverso racconti che attraverso casi direttamente osservati. Abbiamo ritenuto opportuno rileggere questo fenomeno anche sul piano storico e culturale evidenziando come il concetto di morte psicogena sia stato utilizzato a seconda delle teorie vigenti in quel momento.

Comunque il fenomeno, al di la` delle difficolta` di spiegazione, esiste e puo` rappresentare un campo di riflessione molto interessante per capire come gli aspetti emotivi e/o affettivi possano indurre alterazioni estremamente gravi nel soma dell’uomo, fino alla morte. Esamineremo in successione: 1) considerazioni generali; 2) una possibile spiegazione; 3) lo stress e la morte psicogena. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Usiamo il termine “morte psicogena” per indicare quei casi in cui non sia possibile identificare alcuna causa organica specifica a cui ascrivere un decesso. Gia` nei secoli scorsi la medicina ha tentato di ricercare una spiegazione plausibile per questo genere di fenomeni, tuttavia la formulazione di un’ipotesi esplicativa condivisa appare ancora lontana. Uno dei motivi, a nostro modo di vedere, sembra doversi ricercare nella difficolta` che esiste nel definire e sistematizzare la materia psicosomatica. In un certo senso il fenomeno della morte psicogena fornisce una sorta di “rappresentazione mentale” alla difficolta` estrema, presente in questo campo, di riuscire a conciliare in una visione olistica psiche e soma, difficolta` dovuta in parte ad una sorta di “scissione” concettuale e teorica, retaggio ed eredita` di una medicina dualistica che ricalca l’antica distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Cosı`, nel caso specifico della morte psicogena, ci troviamo di fronte ad un fenomeno del quale molto si parla, che richiama interesse e curiosita`, ma assai poco sistematizzato, ed al quale si presta scarsa attenzione concettuale e metodologica; i resoconti degli episodi di morte psicogena sono infatti in larga misura riconducibili esclusivamente a racconti aneddotici. Il fenomeno della morte psicogena sembra allora collocarsi in un’area indefinita e fumosa, uno spazio di confine nel quale la medicina tradizionale si mescola ad elementi transculturali ed antropologici e dove il rigore metodologico lascia spazio ad una dimensione soggettiva e spirituale, alla suggestione mistica ed evocativa della credenza popolare. In effetti, molti degli esempi di “morte psicogena” frequentemente citati in letteratura si riferiscono proprio all’ambito culturale delle societa` aborigene e riguardano pratiche magiche di puntamento dell’osso e di morte per voodoo. Qui infatti, piu` che in ogni altro caso, si mette in evidenza, in modo paradigmatico, la possibilita` che un evento non organico (cioe` il puntamento

dell’osso o la formulazione di una maledizione di morte) possa originare addirittura la morte. L’aspetto centrale in tal senso, come vedremo piu` avanti, sembrerebbe essere la convinzione che un’entita` magica, un demone o qualcosa di simile, sia entrata nel corpo delle vittime e che, a seguito di cio`, la morte sia inevitabile. Di certo non si puo` tralasciare di porre l’accento sull’atmosfera di forte emotivita` che permea situazioni del genere, coinvolgendo la vittima in primo luogo, ma che si diffonde, in una dimensione di drammaticita`, anche all’intera comunita` sociale in cui vive il soggetto. La convinzione che sembra maturare nelle vittime e` l’assoluta certezza che a seguito della “pronuncia di morte” il loro spirito vitale si disperdera`, cosicche´ in esse svanisce la speranza di poter continuare a vivere, convinzione del resto condivisa anche dalla comunita` che considera la vittima “gia` morta” e l’abbandona dunque a se stessa. Va detto inoltre che la pratica di puntamento dell’osso non e` un atto che possa essere attivato da chiunque per pura malignita` ma che, viceversa, e` un’azione pertinente a scelte condivise socialmente e prescritte in riunioni comuni. Tuttavia esempi di “morte psicogena” ricorrono diffusamente fin dai secoli scorsi anche nella tradizione medica occidentale. La “morte per paura” era un argomento comune di discussione da parte di medici e filosofi dell’antichita`. Cosı` M. Montaigne (1590) parla esplicitamente di un caso del genere: «...Era una paura a tal punto memorabile da riuscire a colpire, contrarre ed agghiacciare il cuore di un uomo, cosı` da farlo soccombere, impietrire o squarciare, senza alcuna traccia di ferita o offesa». Nelle numerose guerre che si sono avvicendate nel corso dei secoli, sono stati spesso osservati casi di soldati morti sul campo senza che si potesse riscontrare sul loro corpo alcun danno organico o segno di ferita che potesse giustificarne la morte. Questi casi di patogenesi legati alle emozioni smisero di essere discussi nella letteratura medica nel momento in cui si affermo` nel campo delle scienze la tendenza a scindere radicalmente tra

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corpo e mente, tra psichico e fisico. Da allora le malattie senza evidenti cause fisiche furono considerate “inesistenti” e la realta` di questi eventi fu totalmente negata, lasciando spazio solo a spiegazioni ascrivibili a leggi meccanicistiche e a principi fisici. Da tali ipotesi, formulate storicamente nel corso degli anni, si pongono nettamente in evidenza i numerosi limiti che derivano da una visione impostata in modo rigidamente dicotomico.

2. Una possibile spiegazione Come nei secoli scorsi, anche in tempi piu` recenti i casi di soldati deceduti tra i campi di battaglia senza cause organiche evidenti continuano a suscitare grande interesse. Cosı` alcuni psichiatri americani, osservando i soldati morti sulla spiaggia di Omaha durante lo sbarco degli alleati del D-Day, riscontrarono con sorpresa che questi avevano ferite superficiali, che da sole non avrebbero potuto causare la morte. Inoltre altri resoconti riferiscono di situazioni simili legate a catastrofi naturali o a casi di calamita` e sciagure. Alcuni autori parlano di corpi di uomini e donne, ritrovati senza alcun segno di offesa in citta` distrutte da terremoti. Sembra percio` che lo sforzo di trovare un punto di unione tra cio` che e` la “materia” e cio` che e` l’‘‘anima” — per dirla alla maniera degli antichi — rappresenta ancora oggi un obiettivo assai ambito; in particolar modo sembra destare grande interesse l’individuazione dei meccanismi attraverso i quali gli “eventi psicogeni” determinano fenomeni somatici gravemente invalidanti o addirittura la morte. La letteratura piu` recente sull’argomento e` diversamente orientata; molti degli autori puntano soprattutto ad una lettura interpretativa del fenomeno a carattere antropologico, ponendo al centro dei loro interessi — come abbiamo visto — le pratiche magiche di puntamento dell’osso e di voodoo presenti soprattutto nelle culture aborigene ed evidenziando in particolar modo la dimensione “sacrale” soggettiva ed esperienziale dell’individuo vittima della magia. Un secondo orientamento cerca di compren-

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dere i sofisticati meccanismi organici legati agli esiti mortali, ponendo in evidenza il ruolo di uno squilibrio ed uno sbilanciamento a carico del Sistema Nervoso Autonomo e del sistema endocrino. Cosı` Cannon (1942) afferma che gli sviluppi mortali di atti magici sono da collegarsi ad una eccessiva e persistente attivita` del sistema adrenalinico. Un recente articolo statunitense (1992) riprende alcuni dei contributi principali sul tema della morte psicogena, cercando di convogliare ed integrare i vari apporti all’interno dei diversi orientamenti presenti in letteratura. Morse, Martin e Mohonov — gli autori dell’articolo — evidenziano alcuni elementi esplicativi che si fondano sull’identificazione di un comune denominatore: lo stress. Essi tentano in tal modo di ricomporre la frattura tra “anima” e “materia”, ponendo al centro del loro discorso il concetto di stress ed interrelandolo anche ad altre dimensioni, cosı` da arrivare ad una visione multidimensionale a piu` piani: quello fisiologico, quello psicologico e quello della sfera di personalita`. Gli autori sottolineano cosı` che nella determinazione di una situazione stressante hanno un ruolo funzionale di primo piano sia i fattori fisiologici legati all’attivazione del Sistema Nervoso Autonomo e al rilascio di ormoni, sia i fattori “ambientali” legati alla natura dell’agente stressante; sia, infine, quelli psicologici, legati alla struttura di personalita` e alla percezione individuale dell’evento stressante. In tal modo, dunque, si tenta di ricomporre la spaccatura indotta dal “dualismo cartesiano” tra mente e corpo a favore di una visione della psicosomatica come concetto olistico. In senso stretto la “psico-somatica” indica in che modo i conflitti psicologici e le emozioni possono avere un esito in segni e sintomi somatici (come ad esempio il caso dello stress che conduce a emicrania tensiva). Considerata in modo piu` ampio, la psicosomatica puo` anche essere vista in senso inverso, come “somato-psichica” o “corpo-mente”, ponendo l’accento sull’effetto che malattie fisiche hanno sul funzionamento psicologico (come ad esempio il

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cancro, che puo` predisporre l’ammalato alla depressione). Infine, un’altra condizione e` quella che possiamo definire “psico-psichico”, nella quale “la mente ammala la mente”, in cui cioe` una psicopatologia facilita l’insorgenza di un’altra psicopatologia (come ad esempio uno stato di ansieta`, che puo` funzionare da base per l’instaurarsi di una condizione depressiva).

3. Stress e morte psicogena Come abbiamo visto nella considerazione degli autori, il concetto di stress alla base della “morte psicogena” presenta tre componenti: 1) gli agenti di stress; 2) la struttura individuale di personalita`; 3) la risposta allo stress. Gli agenti di stress sono i fattori potenziali responsabili dello stress. Possono essere di tre tipi: fisici, sociali, psicologici. I fattori fisici sono fattori ambientali ed includono agenti chimici, droghe, sostanze inquinanti, cibi, microbi infettivi, traumi, rumori, ecc. Sono potenzialmente dannosi, anche se sono facilmente evitabili. Gli agenti di stress sociale (eventi di vita stressanti) sono eventi traumatici inattesi ed imprevisti per i quali non c’e` modo di prepararsi. Molti stressors sociali sono infatti inevitabili. Questo tipo di stressors e` generalmente il piu` devastante e destabilizzante e riguarda, ad esempio, la morte di una persona cara, un divorzio, la perdita di un lavoro, uno stato di solitudine indesiderato, improvvisi tracolli finanziari ecc. Gli stressors psicologici sono forti emozioni, generalmente a connotazione negativa (di paura, ansieta`, frustrazione, panico, rabbia, dispiacere, risentimento, gelosia, odio, disgusto, colpa ecc.), assai deleterie a causa della loro natura ripetitiva. Sebbene possano essere indotti da altri agenti fisici o sociali, gli stressors psicologici sono generalmente auto-indotti. La seconda categoria, la struttura individuale di personalita`, indica in che modo e con quali modalita` le persone rispondono agli stressors. Il fatto che la situazione stressante influenzi

negativamente l’individuo dipende molto anche dalla risposta piu` o meno adeguata messa in atto dal soggetto. Le persone hanno stili di risposte ai cambiamenti dell’ambiente molto diversi, che possono dipendere da fattori genetici e ambientali, come ad esempio l’eta`, il sesso, i tratti e le attitudini individuali, le origini etniche, la cultura, lo stato civile, la stabilita` emozionale e cosı` via. Anche il tipo di personalita` che caratterizza l’individuo sembra giocare un ruolo di primaria importanza, cosicche´ l’influenza che lo stress ha sul soggetto dipende senza dubbio dallo stile di personalita` (introverso-estroverso; interno-esterno, tipo-a/tipo-b; ossessivo-compulsivo; isterico; narcisistico) che, in un certo senso, puo` riuscire a mediare con l’impatto della situazione stressante. La terza categoria infine e` relativa alla risposta allo stress vera e propria. La risposta allo stress non e` univoca: possono infatti alternarsi risposte varie e complesse, anche interrelate tra loro. Le reazioni fisiche, psicologiche e biochimiche possono dipendere dalla natura degli agenti stressanti, a seconda cioe` che essi siano fisici, sociali o psicologici, acuti o cronici. Tuttavia, anche in questo caso, non si puo` sottovalutare l’importanza dei fattori individuali, cosicche´ la risposta allo stress puo` essere piu` o meno perniciosa a seconda del grado di percezione del controllo sulla situazione che l’individuo crede di poter esercitare (se il soggetto crede che la situazione sia fuori del suo controllo, la reazione che interverra` sara` piu` dannosa); a seconda che lo stressor sia atteso o inatteso (in quest’ultimo caso la reazione sara` piu` forte); a seconda infine dell’umore di base, poiche´ uno stato d’animo ansioso o depresso puo` accentuare la reazione allo stress. ` assai interessante, a nostro avviso, porre E l’accento su un particolare aspetto evidenziato dagli autori relativo all’uso dei meccanismi di difesa adoperati dal soggetto per far fronte alle frustrazioni della realta`. In tal senso si sottolinea in soggetti particolarmente predisposti all’influenza dello stress la presenza di un uso massivo del diniego: gli individui che usano in modo preferenziale tale meccanismo di difesa sono portati a scotomizzare determinati aspetti della realta` circostante, ad esempio non curandosi dell’esi-

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stenza di particolari segni patognomici quali — tanto per fare un esempio — noduli al seno o i segni prodromi dell’infarto. Morse, Martin e Moshonov infatti, si soffermano nel loro articolo anche sul ruolo dei comportamenti dannosi e dei metodi inefficaci di gestione dello stress, che potenzialmente massimizzano il ruolo dei fattori sopra citati. ` altresı` importante, ai fini del nostro diE scorso, conoscere a fondo anche gli aspetti biologici e fisiologici legati allo stress. Nella maggior parte dei casi, i principali effetti dello stress derivano dall’attivita` di due sistemi principali. In primo luogo troviamo il sistema ipotalamo anteriore-ipofisi (ipotesi asse adreno-corticale) che implica il rilascio di corticotropina dall’ipotalamo e ACTH dall’ipofisi anteriore, innescando il rilascio di due gruppi di corticosterodi dalla corteccia surrenale: i glucocortidi (es. cortisolo) e i mineral-cortidi (es. aldosterone). In secondo luogo troviamo la divisione simpatica del Sistema Nervoso Autonomo e midollo surrenale, che rilasciano catecolamine, epinefrine e norepinefrine. Sebbene gli effettivi intrecci neurologici ed ormonali tra Sistema Nervoso Centrale ed Autonomo e Sistema Circolatorio non siano ancora conosciuti in tutta la loro complessita`, e` nota l’esistenza di una rete di componenti interattive a livello di Sistema Nervoso Centrale che processano ed elaborano le informazioni e formulano risposte ad una moltitudine di stressors. Assoni efferenti da questi centri nervosi viaggiano verso neuroni simpatici e parasimpatici nel midollo e nella colonna vertebrale. Da queste regioni le fibre postgangliari si connettono con molte regioni corporee incluso il cuore (miocardio, endocardio, pareti delle arterie coronariche), i polmoni ed il tratto gastrointestinale. Argomenti interessanti a sostegno dell’ipotesi di una relazione tra stress e “morte psicogena” provengono anche da studi che si occupano di chiarire i processi dell’invecchiamento. ` possibile in tal senso attingere ad alcune E teorie sull’invecchiamento, nelle quali, al di la` del ruolo fondamentale dei fattori genetici, si mette in luce anche il ruolo dei fattori ambientali.

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Una delle teorie — nota come teoria dell’invecchiamento e dello stress accumulato — e` particolarmente rilevante per la nostra discussione. Essenzialmente questa teoria afferma che lo stress e` di per se´ una causa di invecchiamento. Il concetto e` che l’accumulo di stressors ambientali — non importa quanto deboli e poco rilevanti — puo` accelerare l’invecchiamento e dare luogo alla morte. Dati sostanziali mostrano che aumentando gli stressors ai quali la popolazione umana e` sottoposta, l’attesa di vita decresce ed in tal modo, presumibilmente, l’invecchiamento e` accelerato. Si nota infatti quanto l’adattamento agli stressors sia ridotto negli anziani, se comparato a quello di persone giovani. La morte, in tal senso, e` considerata un evento causato dagli effetti distruttivi di stressors che, ipoteticamente, si sarebbero potuti tollerare in un’eta` piu` giovane. Con il declino graduale fisiologico, ormonale, e neurologico, si verifica una diminuzione, in relazione all’eta`, nella resistenza a stressors di diverso tipo, come radiazioni, freddo e forti emozioni (rabbia, ostilita`, ansia). Una ulteriore riduzione si verifica in relazione alla diminuzione della forza muscolare, della capacita` lavorativa, delle abilita` psicomotorie e della creativita`. Di fondo, quindi, con l’invecchiamento il corpo perde la capacita` di adattarsi rapidamente agli stressors. Per dare sostanza a queste affermazioni puo` essere interessante riportare un esperimento condotto negli Stati Uniti e citato dagli autori. In questo studio sperimentale, 35 soggetti furono sottoposti ad uno stress determinato dalla somministrazione di una batteria di test. I soggetti furono confrontati con un gruppo di controllo che non era stato sottoposto a stress. Gli individui stressati hanno mostrato, rispetto al gruppo di controllo, un significativo decremento nella ricostruzione delle spirali a seguito di danni alla catena di DNA. La conclusione e` che i soggetti stressati hanno risposto come se fossero stati piu` anziani di molti anni. Dunque lo stress indotto a livello psicologico

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potrebbe condurre, in linea con quanto visto fi` ormai amnora, persino alla morte prematura. E piamente dimostrato infatti che le personalita` di tipo A (H. J. Eysenk), soprattutto con un’alta componente di ostilita`, sembrerebbero piu` inclini a disturbi alle arterie coronarie ed a morte improvvisa. Lo stress, inoltre, puo` provocare una morte precoce anche in persone piu` giovani e senza disturbi cardiaci apparenti, come risultato dell’azione ripetuta di stressors cronici e stressors acuti che possono innestarsi perniciosamente causando disturbi molto seri. In conclusione, gli autori citati ribadiscono la loro visione multidimensionale tesa ad integrare fattori fisiologici, psicologici ed ambientali nell’ambito di un’ipotesi interpretativa che mette in relazione stress e morte psicogena. Volendo sintetizzare le numerose considerazioni esposte, possiamo rapidamente ricapitolare i meccanismi piu` significativi, che possono determinare la morte psicogena: I principali fattori fisiologici che intervengono nel processo sono: —



un eccessivo rilascio di epinefrina, che induce sia una fibrillazione ventricolare sia uno spasmo delle arterie coronarie; un sovraccarico del sistema simpatico-parasimpatico, che provoca bradicardia e che puo` esitare sia in tachicardia ventricolare, aritmia e fibrillazione, sia in shock ipotensivo con circolazione insufficiente per il cuore ed il cervello.

Non sono d’altronde da trascurare alcuni tratti di personalita` che sembrano implicati, in modo particolare, nei meccanismi alla base della morte psicogena. Sembrerebbero dunque particolarmente inclini a morte improvvisa quei soggetti: a) b) c) d) e) f)

molto ansiosi; con un alto desiderio di controllo; che mostrano ostilita` e rabbia; con Personalita` di tipo A; poco flessibili; con sbalzi tra ansia e umore depresso.

Infine, tra i fattori ambientali che rivestono particolare importanza possiamo evidenziare:

a) b) c)

situazioni dalle quali sembra non esserci via di uscita (incontrollabilita`); il confrontarsi con situazioni inattese (la familiarita` della situazione riduce lo stress); gravi stressors di vita.

3.1. L’ipnosi, il “lavaggio del cervello” e le pratiche voodoo Morse, Martin e Moshonov si pongono l’obiettivo di trasporre questo stesso piano di analisi finora considerato anche a situazioni che, per la loro stessa natura, possono essere analizzate con minor rigore metodologico. Alcuni dei casi di morte psicogena, come abbiamo visto, possono dunque esser legati alla presenza di situazioni fortemente stressanti, nelle quali sembra predominare la convinzione, da parte del soggetto, di non avere possibilita` di controllo sull’evento o vie di fuga. In tal senso, possiamo considerare legate alla morte psicogena anche condizioni come il “controllo della mente”, la suggestione ipnotica ed il voodoo, attraverso le quali e` appunto possibile indurre nel soggetto uno stato di forte stress e di perdita di controllo. Esaminiamo brevemente alcuni elementi al riguardo, iniziando dall’ipnosi. Il termine ipnosi, nell’uso comune, fa riferimento ad uno stato di coscienza alterato, nel quale un soggetto raggiunge diversi gradi di rilassamento, modificazioni soggettive nell’immagine del corpo, una certa distorsione della realta` e l’abilita` di esercitare un controllo sul sistema nervoso autonomo e sul funzionamento immunologico. Perche´ l’ipnosi abbia successo devono essere presenti alcune condizioni; in primo luogo e` necessaria una condizione di suggestionabilita` nel soggetto: piu` le persone accettano idee e concetti in modo acritico, piu` facilmente sono ipnotizzabili. ` importante parimenti che il soggetto mostri E una certa facilita` alla concentrazione: le persone con una buona capacita` di concentrarsi su un oggetto, su un suono, su un odore o un’immagine mentale riescono a restringere il campo della co-

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scienza e dunque ad essere facilmente ipnotizzabili. La condizione che innesta lo stato ipnotico e` generalmente una situazione di monotonia: una goccia che cade, un tono ripetitivo, un suono che si ripete costantemente. Fattori importanti sembrano inoltre essere la presenza di motivazione nel soggetto e lo stabilirsi di un rapporto tra ipnotizzatore ed ipnotizzato: la relazione positiva tra ipnotista e soggetto facilita infatti l’instaurarsi della trance. Sembra inoltre che lo stato ipnotico possa essere indotto attraverso l’uso di metodi confusivi e distorcenti: contrariamente a quanto si pensa, infatti, un ipnotista puo` effettivamente indurre uno stato di trance nelle persone, usando metodi che inducono confusione ed incoerenza. Come abbiamo visto in precedenza, uno dei meccanismi ipotizzabili alla base di un decesso provocato da fattori psicogeni sembra risiedere in uno stress pesante al punto tale da causare un rapido balzo tra divisione simpatica e parasimpatica del Sistema Nervoso Autonomo. Oltre a cio` sembra altrettanto determinante che il soggetto viva una condizione mentale tale da ritenere di non avere piu` speranza e controllo sulla situazione o vie d’uscita possibili (situazione senza speranza e senza possibilita` di aiuto: helpless and hopeless). Cerchiamo allora di capire se questi elementi che sono stati enucleati abbiano una loro valenza anche negli ambiti che stiamo ora considerando: l’ipnosi, il lavaggio del cervello ed il voodoo. Un metodo per avere accesso all’inconscio del soggetto, specialmente se egli non e` completamente consenziente, si basa — come abbiamo detto — sull’uso di tecniche che creano uno stato di confusione e di incongruenza. Queste tecniche, rese note da Milton Erickson, consentono di ipnotizzare un soggetto parzialmente resistente. Le tecniche di confusione usano infatti affermazioni e descrizioni contraddittorie e illogiche, volte a provocare uno stato mentale di aberrazione tale nel soggetto, che egli, nel tentativo di sottrarsi da una tale condizione di indeterminatezza, passa in uno stato di ipnosi. La tecnica si basa sull’uso di una quantita` di

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cavilli verbali irrilevanti, e di assurdita` logiche tra le quali ricordiamo: l’omonimia, l’antinomia, i sinonimi multipli, le ripetizioni, le interruzioni in cui non viene detto nulla (mentre il soggetto si aspetta qualcosa). Il soggetto, che ha bisogno e necessita di una qualche chiusura, alla fine cade in uno stato ipnotico. Una volta che il soggetto e` in uno stato di ipnosi diventa per definizione suggestionabile. Possono essere date suggestioni che causano una risposta estrema del Sistema Simpatico (per esempio la suggestione che un palazzo e` in fiamme) alle quali possono far seguito altre suggestioni che influenzano il soggetto a credere di essere in una situazione senza possibilita` di fuga. Possiamo inoltre considerare alcuni tipi di tecniche di suggestione usate in casi di “lavaggio del cervello” ed in casi di pratiche magiche di voodoo. Per quanto si conosca poco a proposito del “controllo della mente” e del “lavaggio del cervello”, si puo` ipotizzare che siano presenti alcune delle condizioni prima discusse a proposito delle morti psicogene, alla base delle quali puo` essere ipotizzato un disequilibrio a carico del Sistema Simpatico e Parasimpatico associato agli specifici aspetti psicologici, piu` volte sottolineati precedentemente. Gli individui che si trovano in uno stato di controllo della mente sono infatti in una situazione di totale e completa subordinazione. Non hanno piu` alcun legame sociale e spesso sono lasciati isolati. Sono in genere vittime di torture fisiche o psicologiche, dalle quali non possono sottrarsi in alcun modo. Si puo` dire dunque senza alcun dubbio che tali individui si trovano in una condizione senza speranza e senza aiuto (hopeless and helpless), esposti inoltre ad una situazione di gravissimo stress. Analoghe riflessioni sono possibili riguardo alla morte per voodoo. La morte a seguito di voodoo e` stata riferita da osservatori credibili fin dal 1587. Abitanti di luoghi diversi — come il Sud America, l’Africa, l’Australia, la Nuova Zelanda,

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le Hawaii, la Guyana inglese, e naturalmente Haiti — sono morti dopo esser stati maledetti o “puntati” con un osso o un altro oggetto, senza che fosse possibile rinvenire alcuna traccia di veleno. Sono state riscontrate alcune condizioni comuni in molti di questi esempi, che si richiamano e si connettono con gli elementi evidenziati. Le vittime sono persone molto superstiziose e suggestionabili e credono in modo totale al potere soprannaturale dei bokor, degli stregoni, dei maghi o dei capi della tribu`; esse credono inoltre nel potere della possessione, della bone-pointing. Ai fini del nostro discorso e` assai rilevante mettere in evidenza che le vittime, una volta divenute oggetto di voodoo, si trovano in una situazione dalla quale sentono di non avere vie di fuga, giacche´ sono convinte di non avere piu` alcuna speranza (hopeless); cio` senza dubbio causa loro uno stato di grande terrore. I familiari, gli amici ed i conoscenti, che credono anche loro nella efficacia della possessione, e nel potere soprannaturale dello stregone, abbandonano i soggetti a loro stessi, lasciandoli in uno stato di totale isolamento. In alcuni casi si assiste al rifiuto da parte delle vittime di mangiare e bere, atteggiamento che generalmente le conduce alla morte per inedia, ma non perche´ abbiano perso la voglia di vivere quanto piuttosto perche´ si sentono vittime designate di poteri maligni o fluidi fatali e invisibili, che non lasciano loro altra alternativa che morire. Anche in questo caso dunque possiamo rintracciare alcuni comuni denominatori che si accordano con l’analisi proposta finora. Cosı` ci e` possibile enucleare alcuni fattori, tra i quali una situazione fortemente stressante che porta con se´ una serie di correlati psicofisiologici legati al Sistema Nervoso Autonomo e al sistema neuroendocrino, ed un’insieme di fattori psicologici e tratti di personalita` caratteristici, inseriti in una dimensione ambientale e sociale specifica. Le implicazioni che possono essere tratte da questo discorso sono molte e complesse. Infatti la morte per voodoo, che segue la pronuncia ritualizzata di morte da parte di una personalita` potente, dotata di un’autorita` riconosciuta, e` un fenomeno poco accettato nelle nostre

comunita` scientifiche occidentali e relegato ad ambiti culturali che caratterizzano le societa` aborigene. Ma se osserviamo con attenzione i fattori che abbiamo enucleato poco sopra, ci rendiamo conto di quanto facilmente questi possano essere trasposti anche nella nostra cultura, e quanto siano intrisi di valori e di significati presenti — naturalmente con diverse connotazioni — anche nella societa` occidentale. In tal senso vogliamo citare un lavoro di C. K. Meador (1992) nel quale sono proposte le storie, apparentemente molto diverse, di due pazienti, che ci offrono l’occasione di concludere il nostro discorso sollevando spunti di discussione interessanti. Il primo individuo, un uomo poco istruito, era prossimo alla morte per aver ricevuto un malocchio da parte di uno “stregone” locale. Egli tuttavia si ristabilı` rapidamente grazie alle preghiere e alle pratiche di un “guaritore”. Il secondo paziente, invece, aveva ricevuto una diagnosi di carcinoma metastatico all’esofago, e morı` nella convinzione che la morte fosse provocata dall’estensione del cancro, convinzione condivisa anche dai suoi familiari e dai medici che lo avevano in cura. All’autopsia, pero`, nel suo fegato fu ritrovato un solo nodulo di circa due centimetri. Questi due casi, appena citati, sono davvero cosı` diversi come sembrano? Tali considerazioni non possono non indurci a numerosi interrogativi al riguardo. Non e` forse importante riflettere e chiederci se la convinzione di essere “senza speranza” e dunque destinati inevitabilmente a morire, che caratterizza la morte per malocchio, sia limitata a tribu` superstiziose — come la cultura occidentale ritiene — o se piuttosto essa non faccia parte di situazioni piu` generali rintracciabili alla base di fenomeni diversi e piu` diffusi, e dunque presenti anche nelle nostre culture? Viene inoltre da domandarci se le pratiche di puntamento dell’osso ed il malocchio siano semplicemente forme di suggestione o qualcosa di diverso e di piu`. Se, come abbiamo visto accadere nel caso del voodoo, e` possibile causare la morte attraverso

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cio` che si dice o si fa, allora siamo sicuri di poter escludere che lo stesso tipo di meccanismo non possa giocare un ruolo — naturalmente con le dovute differenziazioni e distinzioni — anche nel comportamento che si puo` indurre in pazienti appartenenti alla nostra “moderna” cultura occidentale? La figura del medico, infatti, non riveste forse un ruolo autorevole nella nostra societa`? Ed il malato non e` forse, per definizione, in una posizione di dipendenza e di passivita`? Puo` essere plausibile ipotizzare, in linea di principio, delle similitudini — seppure al solo scopo speculativo e teoretico — tra le “etichette diagnostiche” di malattie terminali ed i fenomeni qui accennati? Appare chiaro che le conoscenze che abbiamo in merito a questi fenomeni non ci consentono di fornire delle risposte esaustive a questi o ad altri interrogativi. Certamente si avverte l’esigenza di trovare una prospettiva di ricerca metodologicamente valida e rigorosa, che consenta di affrontare la materia psicosomatica in modo sistematizzato e coerente, nel tentativo di sviluppare delle ipotesi interpretative ed esplicative esaurienti, che diano conto della complessita` dell’essere umano in quanto unione inscindibile di corpo e psiche.

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40 Psicopatologia da situazioni estreme Nicola Lalli Parole chiave identificazione con l’aggressore; regressione; isolamento; sindrome di Stoccolma; annullamento; negazione; allucinazione; ospitalismo; situazione estrema; privazione sensoriale

Per situazioni estreme devono intendersi quelle situazioni in cui l’uomo e` sottoposto dalla natura, o molto piu` spesso e piu` tragicamente da altri uomini, a condizioni al limite della sopportazione fisica e psichica. Gli esperimenti di deprivazione sensoriale ci hanno fornito indicazioni interessanti circa le reazioni dell’uomo: situazioni davvero risibili se confrontate con quelle in cui l’uomo e` stato sottoposto dalla «follia» di altri uomini a una sistematica distruzione della dignita` e dell’essere uomo: come nei campi di sterminio.

Eppure, rispetto a queste situazioni estreme, emerge tutta la forza o la bassezza dell’uomo. Da una parte un Guillaumet che lotta per giorni contro il gelo e l’assideramento perche´ deve salvarsi, non tanto per se´ ma per la moglie e per gli amici che hanno fiducia in lui e l’aspettano: e lui cammina perche´ «... se non cammino sono un mascalzone». Dall’altra i kapo`, prigionieri anch’essi, ma divenuti, in una probabile identificazione con l’aggressore, peggiori degli stessi aguzzini. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Introduzione Il termine «situazioni estreme» e` tratto da un libro di B. Bettelheim che l’ha utilizzato per denotare la drammatica esperienza dell’internamento nei lager o campi di sterminio. La dizione potrebbe anche essere di «situazioni di emergenza» o di «grave stress psicofisico»; ma credo che «situazioni estreme», semanticamente, renda molto meglio l’idea. Questo capitolo ci dara` modo di descrivere, anche se brevemente, alcune situazioni in genere non trattate nei Manuali di Psichiatria e precisamente: la deprivazione sensoriale, le esperienze nei lager ed infine quella del sequestro da parte di terroristi o di criminali. Pur nella loro relativa diversita`, questi argomenti ci daranno la possibilita` non solo di poter capire le reazioni psicologiche dei soggetti in questi frangenti, ma di mettere meglio a fuoco l’importanza dei fattori ambientali e traumatici sull’apparato psichico. ` di estremo interesse, teorico ed operativo, E discernere come e in che modo una situazione ambientale traumatica puo` determinare reazioni patologiche negative e, per converso, quanta importanza puo` avere la struttura psicologica di base nell’affrontare o nel soccombere di fronte a situazioni traumatiche. Numerosi resoconti autobiografici, cosı` come numerose ricerche, hanno sicuramente dimostrato che di fronte a situazioni estreme, pur nella diversita` delle reazioni, c’e` una tendenza a manifestazioni psicopatologiche; ma e` altrettanto vero che di fronte alle stesse situazioni ci possono essere comportamenti o reazioni completamente diversi. Cominciamo con l’esaminare una situazione sperimentale che ci permettera` di meglio definire alcuni dati, anche se, come vedremo, quanto ad effetti drammatici, la realta` puo` superare di gran lunga la complessita` di qualsiasi esperimento.

2. Privazione sensoriale Situazioni di isolamento e di privazione sensoriale sono state descritte, spesso autobiograficamente, da prigionieri di guerra o naufraghi — molto piu` raramente da navigatori solitari o esploratori polari — in condizioni sperimentali

non controllate. Questo fatto segnala gia` una differenza fondamentale tra persone che vi si trovano per caso o comunque non volontariamente, e persone che invece scelgono volontariamente e ` deliberatamente di affrontare queste situazioni. E evidente che queste ultime sono molto piu` preparate e motivate: questi due fattori sembrano interferire positivamente nel senso di una minore reattivita` psicopatologica. I disturbi riferiti consistono in allucinazioni visive, a volte uditive, disturbi del pensiero con scarsa aderenza alla realta` (Byrd nella sua lunga solitudine nell’Antartico descrive l’incapacita` a discriminare tra il vero ed il falso), disturbi dell’umore fino a gravi depressioni che possono condizionare un lasciarsi morire senza attivare alcun meccanismo difensivo. Le allucinazioni possono essere complesse: a volte a contenuto piacevole (miraggio), a volte a contenuto persecutorio e terrificante. Altri dati erano stati rilevati in soggetti operati di cataratta e quindi costretti ad una situazione di buio totale per molti giorni. Questi soggetti presentavano fenomeni di panico e spesso allucinazioni terrificanti: tuttavia, la somministrazione di atropina (necessaria per mantenere in midriasi la pupilla) poteva interferire sulla genesi di questi fenomeni che pertanto non potevano essere riportati esclusivamente ad una privazione sensoriale visiva. Da numerose fonti si potevano trarre informazioni che erano sempre abbastanza aleatorie fino al 1954, quando Hebb comincio` a pubblicare resoconti sperimentali sull’isolamento artificiale o privazione sensoriale. Le numerose ricerche sperimentali, pur nella loro diversita`, erano cosı` strutturate. Soggetti volontari venivano sistemati in ambiente con pochissima luce, praticamente senza rumori e con poche possibilita` di movimento, per un periodo di tempo che poteva oscillare da qualche ora a vari giorni. A fine esperimento, in genere i soggetti lamentavano i seguenti disturbi: bisogno di stimoli forti, alterazioni percettive, modico stato di confusione mentale con ridotta capacita` di critica, a volte disorientamento temporo-spaziale, quasi sempre aumento della labilita` emotiva. Ricerche piu` approfondite hanno permesso di capire quali sono i fattori piu` significativi che possono influire su questi esperimenti. Essi sono:

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a) b) c) d) e)

motivazioni all’esperimento; quantita` di afferenze sensoriali; limitazioni motorie; isolamento totale dei volontari; durata dell’esperimento.

a)

trattandosi di esperimenti e` evidente che si ha a che fare sempre con volontari che possono avere motivazioni diverse, ma che comunque sono sempre motivati e preparati. Questo dato fa sı` che i risultati degli esperimenti non sempre sono estrapolabili a situazioni ove il soggetto si trova in situazioni analoghe, ma contro la sua volonta`; si e` cercato di studiare quali privazioni sensoriali provocano maggiori disturbi. Zuckerman e Biase hanno studiato tre gruppi: un primo tenuto all’oscurita` e senza rumori; un secondo alla luce ma senza rumori; un terzo in condizioni di presenza di rumore, ma senza luce. Essi hanno notato che l’isolamento sensoriale totale del primo gruppo era molto piu` traumatizzante, mentre l’assenza di sola luce era piu` stressante che la sola mancanza di rumori; accanto a situazioni di privazione sensoriale sono stati condotti studi anche sulla limitazione motoria ottenuta mettendo il soggetto in spazi piccoli ed in posizione sdraiata. Si e` notato che l’accumulo di limitazione motoria e privazione sensoriale aumenta notevolmente la quantita` dei disturbi; mentre la sola immobilita` non sembra produrre una gamma di disturbi cosı` ampia come nelle privazioni sensoriali; l’isolamento viene ottenuto sia facendo esperimenti con soggetti da soli, sia limitando al massimo le comunicazioni con lo sperimentatore. Se il soggetto non riesce ad attuare meccanismi difensivi, quali ad esempio parlare ad alta voce o cercare di fare attenzione alle proprie sensazioni per poterle riferire poi allo sperimentatore, la situazione di isolamento incrementa notevolmente i disturbi; gli effetti degli esperimenti possono notevolmente variare a seconda della durata dell’esperimento: nel senso che a periodi piu` lun-

b)

c)

d)

e)

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ghi corrispondono reazioni psicopatologiche piu` gravi. Dato significativo e` la conoscenza o meno, da parte di colui che si presta a tali sperimentazioni, della durata delle stesse: un fattore di incertezza o di non conoscenza della durata aumenta notevolmente l’ansia, tanto che molti soggetti abbandonano l’esperimento molto prima che in altre situazioni nelle quali la durata dell’esperimento era conosciuta. L’incertezza sembra potenziare un vissuto temporale negativo, che nelle situazioni di privazione sensoriale e` caratterizzato gia` da un tempo che sembra essere immobile e lunghissimo. I dati sopra descritti riguardano i dati obiettivi della sperimentazione: sicuramente sugli effetti finali gioca un ruolo importante, a volte decisivo, il fattore soggettivo di personalita`. I risultati sono pero` discordanti eccetto che per tre dati acquisiti: i soggetti ansiosi o nevrotici reagiscono male ad una privazione sensoriale, quelli con piu` alta motivazione reagiscono meglio, ed infine la suggestionabilita` puo` incidere positivamente o negativamente a seconda del rapporto positivo o negativo con lo sperimentatore. Questi dati segnalano chiaramente l’estrema importanza nell’affrontare le situazioni di privazioni sensoriali, della struttura di personalita`, e soprattutto della capacita` o meno di poter mantenere un contatto affettivo con l’esterno. Questo dato puo` essere confermato da due esperienze. La prima riguarda la sindrome di ospitalismo descritta da A. Spitz. L’autore ha dimostrato chiaramente che nei bambini la mancanza o la rottura traumatica di un legame affettivo, che non viene validamente sostituito, puo` indurre gravi alterazioni psicopatologiche, fino all’exitus, nonostante che questi bambini siano sul piano materiale validamente accuditi. Questo studio dimostra come una privazione affettiva, se persiste nel tempo, e` di gran lunga piu` lesiva di una privazione sensoriale. La seconda riguarda la descrizione di una situazione drammatica, descritta da A. de SaintExupe´ry in Terra degli uomini, ma vissuta dal suo amico H. Guillaumet (a cui il libro e` dedicato). Intorno al 1940 il sistema postale nelle Americhe del Sud, date le grandi distanze, era svolto preva-

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lentemente per via aerea da un gruppo di uomini che dovevano spesso sorvolare le Ande. Ed ogni tanto accadeva che l’aereo precipitava sulle infinite distese ghiacciate e le possibilita` di salvezza erano pressoche´ inesistenti. A meno che... «Pugile, vincente, ma segnato dai duri colpi ricevuti, rivivevi la tua strana avventura. Te ne sgravavi a brandelli. E nel corso del tuo racconto notturno, io ti scorgevo, in cammino, senza piccozza, senza corde, senza viveri, mentre scalavi valichi di quattromilacinquecento metri o avanzavi lungo pareti verticali, con piedi, ginocchia e mani sanguinanti, a quaranta gradi sotto zero. Svuotato a poco a poco di sangue, di forze, di ragione, procedevi con una cocciutaggine da formica, tornando sui tuoi passi per aggirare l’ostacolo, rimettendoti in piedi dopo i capitomboli, o risalendo le discese che portavano solo a un abisso, senza concederti, insomma, alcun riposo, poiche´ dal letto di neve non ti saresti rialzato. Quando scivolavi, infatti, dovevi affrettarti a rimetterti in piedi, per non essere tramutato in pietra. Il freddo ti pietrificava d’istante in istante, e un attimo di riposo, in piu` assaporato dopo una caduta, ti costringeva a far funzionare muscoli inerti, per rialzarti. Resistevi alle tentazioni, — Nella neve —, mi dicesti, — si perde totalmente l’istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera piu` altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino; hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone —. E camminavi. E, con la punta del temperino, allargavi ogni giorno un po’ lo sdrucio delle scarpe affinche´ i tuoi piedi, che gelavano e si gonfiavano, ci potessero stare. Mi hai fatto questa strana confidenza: — Sai, dal secondo giorno in poi, il lavoro piu` grosso fu quello di vietarmi di pensare. Soffrivo troppo, ero in una situazione troppo disperata; per avere il coraggio di camminare non dovevo considerarla. Per sfortuna, non avevo un buon dominio sul cervello, che girava come una turbina. Avevo pero` ancora la possibilita` di scegliergli le immagini. Lo imballavo in un film, su un

libro. E il film o il libro mi scorreva davanti agli occhi a tutta forza. Poi mi riconduceva alla situazione in atto. Immancabile. Ed io lo lasciavo su altri ricordi... Una volta, pero`, steso bocconi sulla neve dopo una caduta, rinunciasti a rialzarti. Eri come il pugile che, svuotato ad un tratto d’ogni passione, ode i secondi cadere in un mondo estraneo, ad uno ad uno, fino al declino ch’e` senza appello. — Ho fatto cio` che potevo e non ho speranze, perche´ ostinarmi in questo martirio? —. Non avevi che da chiudere gli occhi e la pace sarebbe scesa sull’universo. Rocce, ghiacci e nevi si sarebbero cancellati. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, niente piu` colpi, cadute, strappi muscolari, ustioni del gelo, ne´ quel peso di dover trascinare la vita, quando si e` costretti ad andare avanti come un bue ed essa diventa piu` pesante di un carro. Ne sentivi gia` il sapore, di quel freddo divenuto veleno e che, simile alla morfina, ti colmava ora di beatitudine. La tua vita si rifugiava intorno al cuore. Qualcosa di dolce e prezioso si rincantucciava al centro di te stesso. La tua coscienza per gradi abbandonava le remote regioni di quel corpo, che animale saturato di sofferenza, gia` assumeva l’indifferenza del marmo. Si placavano anche i tuoi scrupoli. I nostri richiami non ti raggiungevano piu`, o meglio, ti si tramutavano in richiami di sogno. Rispondevi, felice, con una marcia sognata, con lunghi passi agevoli che ti aprivano senza sforzo le delizie della pianura. Come facilmente scivolavi in un mondo diventato cosı` tenero per te! Decidesti, Guillaumet, avaramente, di negarci il tuo ritorno. I rimorsi sorsero dal sottofondo della coscienza. Certi particolari precisi si mescolarono improvvisamente al sogno. — Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sı`, ma le assicurazioni... —. In caso di scomparsa, c’e` una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presento` abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell’estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva,

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davanti a te, a cinquanta metri: — Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla: e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno —. Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni. Ma non credevi affatto di arrivare lontano: — Presagivo la fine, da molti indizi. Eccone uno. Ero costretto a sostare, circa ogni due ore, per incidere un po’ di piu` la scarpa, per frizionarmi con la neve i piedi che si gonfiavano, o semplicemente per far riposare un po’ il cuore. Ma negli ultimi giorni cominciai a perdere la memoria. Dopo che mi ero rimesso in moto da un pezzo, mi si faceva luce: ogni volta, avevo dimenticato qualcosa. La prima, si tratto` di un guanto; ed era grossa, con quel freddo! L’avevo posato davanti a me ed ero ripartito senza raccattarlo. Poi si tratto` dell’orologio. Poi del temperino. Poi della bussola. Ad ogni sosta mi impoverivo... — La salvezza sta nel fare un passo. Ancora uno. Il passo e` sempre quello, ripetuto... —. — Ti giuro, non c’e` bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto —. Questa frase, la piu` nobile che io conosca, questa frase, che da` all’uomo il suo posto, che lo onora, che ristabilisce le vere gerarchie, mi tornava in mente. Finisti con l’addormentarti, la coscienza in te fu soppressa; ma al risveglio sarebbe rinata da quel corpo smantellato, gualcito, arso, e l’avrebbe nuovamente dominato. Il corpo, allora, non e` piu` altro che un buon strumento, che un buon servitore. E tu, Guillaumet, sapesti anche esprimere questo orgoglio del buon strumento: — Privo di nutrimento, puoi figurarti se, al terzo giorno di marcia... il cuore, non mi funzionava mica un gran che... Ebbene, su una parete a picco, lungo la quale avanzavo sospeso sul vuoto e scavando buche per punti d’appoggio alle mani, eccoti che il mio cuore si pianta. Esita, riparte. Perde colpi. Sento che se esito un attimo di piu`, io mollero`. Sto fermo, immobile, ad ascoltarmi dentro. Mai, capisci, mai in aereo mi sono sentito aggrappato cosı` strettamente al motore, come mi sono sentito, in quei pochi minuti, appeso al mio cuore. Gli dicevo: su fa uno sforzo, tenta di battere ancora... Ma era un cuore di buona qualita`!

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Esitava, ma sempre riprendeva... Sapessi com’ero fiero di quel cuore! —. Finivi coll’addormentarti in un sonno affannoso, nella camera di Mendoza in cui ti vegliavo. Ed io pensavo: Guillaumet farebbe un’alzata di spalle, a parlargli del suo coraggio; ma lo si tradirebbe anche celebrando la sua modestia. Egli sta molto piu` in la` di questa virtu` mediocre. Alza le spalle, ma per saggezza. Sa che gli uomini non hanno piu` paura delle cose, una volta che sono accadute e li hanno tirati in ballo. Solo l’ignoto spaventa gli uomini. Ma, per chiunque, cessa di essere ignoto, nell’attimo in cui egli l’affronta. Specialmente se lo considera con tale lucida serieta`. Il coraggio di Guillaumet e` conseguenza, in primo luogo della sua rettitudine. La sua virtu` vera non e` in questo. La sua grandezza e` di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso, del corriere. E dei compagni che sperano, poiche´ la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiu`, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini. Appartiene al novero di quegli esseri di ampia levatura che consentono a coprire con il loro fogliame ampi orizzonti. Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza di una miseria che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri di una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo. Si vuol confondere uomini simili con i toreri e i giocatori. Si loda il loro disprezzo della morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice in una responsabilita` consapevolmente accettata, e` indice unicamente di poverta` e d’eccesso giovanile. Ho conosciuto un giovane suicida. Fu spinto, da non so piu` qual pena d’amore, a spararsi con cura una pallottola nel cuore. S’era infilato un paio di guanti bianchi, e non so a qual tentazione letteraria avesse ceduto; ma ricordo d’aver provato, di fronte a quella triste esibizione, un’impressione non di nobilta`, ma di miseria. Dietro quel viso simpatico, sotto quel cranio d’uomo, non c’era stato dunque nien-

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te, proprio un bel niente. Tranne l’immagine di non so qual sciocchina simile ad altre. Di fronte a quella sorte meschina ricordai una vera morte da uomo. Quella di un giardiniere che mi diceva: — Sa... talvolta faticavo a vangare e avevo le fitte dei reumatismi nella gamba. Imprecavo contro quella schiavitu`. Oggi invece vorrei vangare, vangare nel terreno. Mi sembra cosı` bello, vangare! Si e` cosı` liberi, vangando! e poi, anche i miei alberi, chi li potera`? —. Egli lasciava un terreno incolto. Era vincolato amorosamente a tutti i terreni ed alberi della terra. Il generoso, il prodigo, il gran signore era lui! Era coraggioso, come Guillaumet, lottando contro la morte in nome della propria Creazione»1. ` evidente come la «responsabilita`», ma anE che la capacita` di mantenere un contatto con il mondo, la capacita` del ricordo del mondo lasciato, abbiano permesso a questo eroe oscuro di continuare a sperare e quindi di sopravvivere. Dopo questo lungo excursus nella realta` di una vita vissuta, torniamo a quali sono gli effetti della privazione sensoriale in situazioni sperimentali. a)

b)

modificazioni cognitive: difficolta` della concentrazione, dell’attenzione e diminuzione della capacita` di risolvere problemi. allucinazioni: pur nella variabilita` dei dati, c’e` sempre concordanza, tra i vari AA., sull’alta incidenza di allucinazioni uditive, visive e cenestesiche. Le allucinazioni uditive sono costituite da rumori, a volte da voci. Le allucinazioni visive vanno da bagliori, a figure geometriche, a scene complesse. Quelle cenestesiche possono portare ad alterazioni dello schema corporeo. In effetti sarebbe piu` corretto parlare di allucinosi o di allucinazioni ipnagogiche, perche´ i soggetti le riconoscono sempre e comunque come produzioni della loro imma-

1 A. de Saint-Exupe´ry, Terra degli uomini, pp. 43-49, Mursia, Milano, 1939.

c)

ginazione, pur avendo nette caratteristiche di esteriorita` e di estesia; alterazioni dell’affettivita`: compaiono spesso segni di ansia, disforia, irritabilita`, noia. Si puo` avere una netta depressione del tono dell’umore.

Non e` facile l’interpretazione di questi vari fenomeni, che sono stati spiegati sia in termini neurobiologici sia psicologici. Un dato importante secondo i neurofisiologi e` costituito dalla necessita` per il SNC di ricevere una sufficiente quantita` di informazioni e di stimolazioni dall’ambiente esterno. Data la complessa interazione tra sensazioni, sistema reticolare ascendente e corteccia cerebrale e` probabile che una minore attivazione del sistema reticolare ascendente possa far assumere alla corteccia un ruolo piu` attivo e che essa possa diventare sorgente di immagini. Questo fenomeno e` d’altra parte simile a quanto accade nella fase REM del sonno (vedi capitolo 37). L’interpretazione psicoanalitica spiega questi fenomeni come dovuti alla regressione. Rapaport sostiene che l’Io ha bisogno di stimoli esterni per mantenere una sua autonomia. Se questi stimoli mancano puo` esserci una irruzione di elementi inconsci rimossi o comunque appartenenti all’Es. Comunque sia, e` evidente che una ridotta stimolazione ha sicuramente effetti negativi, ma anche che questi effetti sono sicuramente mediati dalla struttura di personalita` , dalla maturazione del soggetto e soprattutto dalla capacita` del soggetto di integrare questa nuova situazione, mantenendo la propria identita` e la continuita` con il mondo umano esterno. Tutto questo impedisce non solo la disintegrazione, ma rende possibile integrare la situazione drammatica, successivamente, in una piu` articolata maturita` del soggetto. Questi dati, che, come vedremo, saranno ampiamente evidenziati in un’altra situazione estrema che e` quella dei lager, rendono chiaramente molto discutibile il tentativo di alcuni AA., di voler utilizzare questa situazione di privazione sensoriale a fini terapeutici. Una persona poco strutturata o comunque con disturbi psicopatologici, non puo` infatti che peggiorare in una situazione di privazione sensoriale.

Psicopatologia da situazioni estreme

3. L’universo concentrazionario: i lager Come dicevo precedentemente, la realta` molto spesso supera in drammaticita` molte situazioni sperimentali o immaginate. Ed e` quanto hanno dovuto constatare quelli che hanno subı`to le violenze dei campi di concentramento o quanti hanno potuto prendere visione, alla fine della seconda guerra mondiale, delle atrocita` commesse in quei luoghi. Sicuramente queste situazioni si sono ripetute anche in altri contesti; l’universo dei lager nazisti e` pero` quello sui quali si ha un maggior numero di informazioni. Soprattutto da parte di quelli che sono riusciti a sopravvivere fisicamente e psichicamente a questa situazione, nella quale lo sterminio fisico e psichico era «scientificamente» programmato. Il 29 febbraio del 1933 in Germania fu varata una legge che prevedeva l’internamento di qualsiasi cittadino da parte della polizia, con la solita dizione accattivante, come era stile dei nazisti (basti pensare all’insegna dei campi di concentramento «il lavoro rende libero l’uomo»), di Schutzhaft, ovverosia custodia legale preventiva, che segnava l’inizio dell’era dei lager. Chiunque incappava in questa situazione perdeva ogni diritto e rispetto umano, per diventare solo un numero di valore inferiore al prezzo di una pallottola. «Qua- si ogni giorno questa o quella guardia, gingillandosi con il fucile, diceva ad un prigioniero che lo avrebbe ucciso volentieri se una pallottola non fosse costata tre pfenning, un prezzo, questo, troppo alto perche´ valesse la pena di sprecarla per lui» (B. Bettelheim, 1960). Se in un primo tempo i lager funzionarono soprattutto nei confronti di eventuali avversari politici, nel giro di qualche anno essi assunsero una funzione sempre piu` precisa: sistema di terrorismo generalizzato ed attuazione dello sterminio di tutte quelle popolazioni che erano considerate composte di Untermenschen (cioe` sottouomini) e che erano non solo gli ebrei, ma anche i polacchi, i russi, gli zingari, in una parola tutti, esclusi solo gli ariani. A queste due funzioni fondamentali se ne aggiunge ben presto un’altra: lo sfruttamento in-

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tensivo degli Untermenschen, sia sul piano lavorativo, sia come potenziali cavie da esperimento. Credo che non abbia bisogno di alcun commento questa corrispondenza tra i responsabili di Auschwitz e i dirigenti dell’industria chimica e farmacologica I. G. Farbeindustrie, riportata da B. Bettelheim. «In previsione di ulteriori esperimenti con una nuova droga soporifera, vi saremmo grati se ci poteste procurare un certo numero di donne... ... Abbiamo ricevuto la vostra risposta, ma consideriamo che il prezzo di 220 marchi per donna sia eccessivo. Vi proponiamo un prezzo non superiore a 170 marchi a testa. Se siete d’accordo sulla cifra, prenderemo possesso delle donne. Ce ne abbisognano circa 150... ... Accusiamo ricevuta dell’accordo. Preparateci 150 donne nelle migliori condizioni di salute: appena pronte le prenderemo a nostro carico... ... Ricevuta l’ordinazione di 150 donne. Nonostante l’aspetto emaciato, esse sono state giudicate soddisfacenti. A giro di posta vi terremo al corrente dei risultati dell’esperimento... ... Gli esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo presto in con2 tatto con voi per una nuova ordinazione» . Questo comportamento non era isolato o dovuto a soggetti sadici ma faceva parte di una visione globale: nel progetto nazista di sterminio dei sottouomini, uccidere per fame o per esperimenti in fondo non cambiava molto. Questa situazione aberrante era la base della «filosofia» che sottostava all’organizzazione dei lager. Questi dovevano servire per distruggere qualsiasi opposizione, qualsiasi forma di protesta, nella follia di una totale massificazione degli uomini. In questo senso possiamo vedere una rigida dicotomia: da una parte gli uomini «liberi» fortemente e rigidamente gerarchizzati e dall’altra una massa di uomini che dovevano perdere qualsiasi autonomia e dignita`, fino ad eliminare ogni sembianza umana (P. Levi, 1958). Quindi il lavoro forzato non era finalizzato, come sostengono alcuni, ad una economia di

2

B. Bettelheim, p. 217, 1965.

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guerra, ma semplicemente a distruggere ogni resistenza degli internati. «L’attivita` richiesta era considerata in se stessa come una punizione. Nelle scure mattine nebbiose, quando la visibilita` era cosı` scarsa che le SS non osavano far uscire i detenuti dall’area rinchiusa dal filo spinato, poteva accadere che quei gruppi che avrebbero dovuto recarsi al lavoro all’aperto ricevessero ordine di fare «dello sport» fino a quando la visibilita` non fosse migliorata. Sport poteva significare fare a spintoni, oppure strisciare carponi nel fango... Sullo spiazzo delle parate a Buchenwald si trovano grossi mucchi di ghiaia ad una certa distanza l’uno dall’altro. I prigionieri erano costretti a rotolarsi su di essi fino a che i loro corpi non fossero tutti tagliuzzati dalle punte acuminate delle pietre»3. Molte volte gli internati erano costretti a trasportare mucchi di pietre da un posto all’altro, senza alcun motivo e senza alcuna finalita` pratica, se non quella di umiliare cio` che ancora rimaneva di umano. Forse puo` essere utile, per condensare tutta l’enorme letteratura su questo argomento, esaminare i seguenti problemi. L’organizzazione dei campi e le finalita`; cosa avveniva agli internati; cosa portava alcuni alla sopravvivenza, altri alla morte.

3.1. L’organizzazione del campo di sterminio Esso aveva fondamentalmente due scopi. «Uno dei piu` importanti era di frantumare la personalita` dei prigionieri come individui e di trasformarli in una docile massa dalla quale non potesse scaturire alcuna reazione di resistenza ne´ individuale ne´ collettiva. Un altro scopo era di seminare il terrore tra la popolazione civile...» (B. Bettelheim, 1960). Tutto questo era ottenuto con una programmazione, dove e` difficile distinguere quanto era dovuto ad una utilizzazione consapevole dei meccanismi psicologici e quanto a dinamiche inconsce sadiche. Il primo shock era inferto nel momento in cui il soggetto veniva prelevato senza alcuna

3

B. Bettelheim, 1965.

giustificazione e senza sapere cosa gli sarebbe successo o dove sarebbe andato a finire. Questo espediente serviva a tagliare subito qualsiasi possibilita` di collegamento con la famiglia. Il viaggio verso il campo di concentramento serviva ad una sorta d’iniziazione. Durante il lungo viaggio (anche giorni) stipati in carri bestiame, senza luce, senza acqua, i prigionieri venivano continuamente torturati. Se la natura della tortura poteva dipendere dal sadismo, maggiore o minore, delle varie SS, le torture avevano, in ogni caso, uno scopo ben preciso: frustate, calci, schiaffi, ferite da baionetta, dovevano servire a produrre un esaurimento totale. Quando questo non bastava, le SS costringevano i prigionieri a colpirsi l’un l’altro ed a profanare le cose che avevano piu` care. Lo scopo era quello evidentemente di indurre una totale disgregazione della personalita` e quindi una regressione psichica. Prova evidente e` che appena i prigionieri cominciavano a dimostrarsi obbedienti e passivi, quando obbedivano a un ordine delle SS anche il piu` offensivo e lesivo, le punizioni cessavano. Questa iniziazione serviva ad introdurre il prigioniero, gia` condizionato, nei campi di concentramento. Qui venivano spogliati, rapati a zero, rivestiti con una divisa uguale per tutti, il che serviva ulteriormente ad umiliare, ma soprattutto a far perdere al soggetto qualsiasi situazione di identita`. I turni massacranti di lavoro, le privazioni continue, la completa assenza di notizie dei familiari, faceva sı` che molto spesso la sopravvivenza di molti nuovi arrivati al campo non andasse oltre i sei mesi. Il comportamento delle SS era comunque finalizzato ad ottenere una totale passivita` del prigioniero. Per esempio a Buchenwald era proibito andare ai gabinetti per l’intera giornata: per cui molto spesso i prigionieri erano costretti a bagnarsi e sporcarsi: il che costituiva una situazione molto umiliante. Se a volte si facevano delle eccezioni, il prigioniero, dopo aver ottenuto il permesso con una formula gia` di per se´ molto umiliante («Il prigioniero X Y, no di matricola... prega umilmente che gli venga permesso di andare al bagno»), doveva tornare dalle guardie per fare rapporto. Un altro espediente era quello di far com-

Psicopatologia da situazioni estreme

piere lavori faticosi e privi di senso, oppure di rendere totalmente imprevedibile l’ambiente. «In un campo, un gruppo di cecoslovacchi fu distrutto in questo modo: venne fatto credere loro che erano prigionieri «eccezionali» aventi diritto a privilegi speciali; per un certo tempo li si lasciava vivere abbastanza comodamente, senza farli lavorare e senza maltrattarli, poi improvvisamente li si spediva nelle cave di pietra, dove le condizioni di lavoro erano terribili, ed il tasso di mortalita` altissimo, riducendo contemporaneamente la loro razione di cibo; dopo un po’ li si trattava di nuovo bene, affidando loro lavori facili e dopo pochi mesi li si rispediva alle cave di pietra con poco cibo. Ben presto furono tutti ` evidente quindi morti» (B. Bettelheim, 1965). E che non erano solo le privazioni fisiche ad indurre situazioni drammatiche, quanto piuttosto l’umiliazione subita, il dover compiere lavori faticosi privi di scopo, la mancanza totale di scambi umani, l’imprevedibilita` assoluta dell’ambiente, la mancanza di qualsiasi contatto con l’esterno che potevano indurre reazioni psicologiche estremamente negative. Annullare in modo totale la capacita` di agire liberamente, di dare un senso alle proprie azioni, di poter prevedere il futuro, faceva sı` che molti internati, ad un certo punto, si piegavano completamente e rinunciavano a voler vivere. Ed in effetti in situazioni di questo genere potevano resistere o persone fortemente motivate a resistere, o persone che si adattavano in una sorta di identificazione con l’aggressore o un personaggio come Elias (da Se questo e` un uomo di P. Levi): Il cranio e` massiccio e da` l’impressione di essere di metallo o di pietra; si vede il limite nero dei capelli rasi appena un dito sopra le sopracciglia. Il naso, il mento, la fronte, gli zigomi sono duri e compatti, l’intero viso sembra una testa d’ariete, uno strumento adatto a percuotere... Parla continuamente, degli argomenti piu` disparati: sempre con voce tonante, con accento oratorio, con una mimica violenta da dissociato... Della sua vita di uomo libero, nessuno sa nulla: del resto rappresentarsi Elias in veste di uomo libero esige un profondo sforzo della fantasia e dell’induzione... Ci si puo` ora domandare chi e` questo Elias. Se e` un pazzo, incomprensibile ed extraumano, finito

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in Lager per caso. Se e` un atavismo, eterogeneo dal nostro mondo moderno, e meglio adatto alle primordiali condizioni di vita del campo. O se non e` invece un prodotto del campo, quello che tutti noi diverremmo, se in un campo non morremmo, e se il campo stesso non finira` prima. C’e` del vero nelle tre supposizioni. Elias e` sopravvissuto alla distruzione dal di fuori, perche´ e` fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annien` tamento dal di dentro, perche´ e` demente. E dunque in primo luogo un superstite: e` il piu` adatto, l’esemplare umano piu` idoneo a questo modo di vivere. Se Elias riacquistera` la liberta`, si trovera` confinato in margine del consorzio umano, in un carcere o in un manicomio. Ma qui, in Lager, non vi sono ne´ criminali ne´ pazzi: non criminali, perche´ non v’e` legge morale a cui si contravviene, non pazzi, perche´ siamo determinati, e ogni nostra azione e`, a tempo e luogo, sensibilmente l’unica possibile4.

3.2. Le reazioni psicologiche e psicopatologiche degli internati «Cio` che accadeva nei campi di concentramento prova che, in condizioni di estreme privazioni, l’ambiente puo` avere totalmente ragione dell’individuo. Che cio` avvenga oppure no sembra dipendere soprattutto dal grado e dalla durata della pressione che esso esercita. Ma non soltanto da questa; dipende anche da quanto improvvisamente essa si sia manifestata e da quanto gli individui su cui e` stata esercitata fossero preparati a subirla (poiche´ e` anche un’esperienza istruttiva l’aspettarsi che debba accadere una cosa terribile se poi questa accade davvero). Dipende ancor piu` dalla durata di tale condizione oppressiva, dal grado d’integrazione della persona e infine dal fatto che la pressione rimanga o meno immutata. Ovvero, per chiarire meglio quest’ultimo punto, dal fatto che le persone siano o meno convinte che, qualsiasi cosa facciano, tutti i loro sforzi non riusciranno mai a esercitare il minimo influsso positivo sull’ambiente circostante. Nei campi di concentramento questo era tanto vero che la sopravvivenza di una persona poteva

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P. Levi, pp. 120-123, 1958.

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dipendere solo dalla sua capacita` di mantenere una qualche sfera di azione in cui potesse muoversi con un minimo di liberta`, di controllare alcuni aspetti della propria vita, nonostante un ambiente schiacciante. Per sopravvivere da uomo e non come un’ombra delle SS, si doveva avere un certo campo di esperienze personali e significative, e mantenere su di esse il proprio controllo»5. Quando questo non succedeva, quando i prigionieri si convincevano, ed era il ritornello delle guardie, che non c’era alcuna speranza di lasciare il campo, che non avrebbero mai potuto influire sull’ambiente, che in fondo essi non esistevano, i prigionieri cadevano in uno stato di passivita` e venivano chiamati «musulmani» per il loro fatalistico cedimento di fronte all’ambiente. «Questo processo di deterioramento aveva inizio quando essi cessavano di agire. E questo era anche il momento in cui gli altri prigionieri cominciavano a rendersi conto di quello che stava accadendo in loro e a distaccarsene, perche´ erano ormai uomini «marcati», e ogni ulteriore contatto con loro non poteva portare che alla propria distruzione. Essi subivano ancora gli ordini, ma ciecamente e automaticamente: la loro ubbidienza era del tutto passiva e incondizionata, e per di piu` senza risentimenti di sorta. Si guardavano ancora attorno, o almeno muovevano ancora gli occhi. Cessavano di guardare molto piu` tardi, pur continuando a muoversi quando gli veniva ordinato, ma non facendo piu` nulla di propria iniziativa. Da notare che tale cessazione di qualsiasi forma di attivita` cominciava quando non muovevano piu` le gambe, ma le trascinavano. Quando finalmente cessavano di guardarsi attorno, morivano ben presto.» «...Erano del tutto incapaci di rendersi conto di quello che stava succedendo e perche´. Si aggrappavano piu` che mai a cio` che fino ad allora aveva alimentato il loro rispetto di se´. Perfino mentre venivano maltrattati ed ingiuriati cercavano di convincere le SS di non essersi mai opposti al nazismo. Non riuscivano a capire perche´ fossero proprio loro ad essere perseguitati, loro che avevano sempre obbedito a tutte le leggi

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B. Bettelheim, 1965.

senza discutere. Perfino ora che erano stati messi ingiustamente in prigione non osavano opporsi ai loro persecutori, nemmeno col pensiero, anche se cio` li avrebbe aiutati in parte a recuperare quella dignita` di cui essi avevano tanto bisogno. Il loro comportamento mostrava quanto il borghese tedesco apolitico fosse impreparato a resistere contro il nazionalsocialismo. Privi di una ideologia coerente, di una vera morale, di ferme convinzioni politiche e sociali, non avevano niente che li proteggesse contro il nazismo o desse loro energie per alimentare una qualche resistenza interiore. Poco o niente restava loro cui potessero ricorrere nel momento in cui subivano lo shock dell’internamento. La loro dignita` si fondava sulla posizione sociale che avevano occupato e sul rispetto derivato dalla professione, dalla qualita` di capofamiglia e da altri fattori egualmente esteriori. Chi conosce la mentalita` delle persone appartenenti a questa classe sociale si rendera` facilmente conto di quale colpo fosse per costoro il fatto che un membro qualsiasi delle SS gli rivolgesse la parola usando non un Herr Rat (o altro titolo ufficiale del genere), ma il volgarissimo «tu»; peggio ancora, era loro proibito di parlarsi servendosi di quei titoli che avevano costituito il loro massimo orgoglio: erano costretti a usare il «tu», scandalosamente familiare, anche nei loro rapporti reciproci. Fino ad allora non si erano mai resi conto di essersi serviti di puntelli esteriori e superficiali, al posto di una genuina forza interiore e di un reale rispetto di se´. Improvvisamente si sentivano mancare sotto i piedi tutto cio` che per tanto tempo li aveva fatti sentire soddisfatti di se´. Talvolta non potevano evitare di riconoscere l’abissale cambiamento subito. Poiche´ per loro cio` equivaleva ad una perdita totale del rispetto di se´, essi si disintegravano come persone autonome. Per costoro, bastava spesso il semplice imprigionamento perche´ il processo di disintegrazione si mettesse in moto e progredisse pericolosamente. Per esempio i diversi suicidi che si ebbero in prigione e durante il trasporto si annoveravano in maggioranza fra i membri del loro gruppo»6. Secondo R. Weitz (da B. Bettelheim, 1965),

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B. Bettelheim, 1965.

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che presto` la sua opera in una infermeria, i livelli di adattamento e sopravvivenza delle varie categorie variavano molto a seconda della loro struttura psicologica. «In linea generale, nei campi della Slesia e tra i Francesi, i deportati che reggono meglio alla prova sono: 1)

2) 3) 4) 5)

i combattenti autentici della Resistenza (che fanno effettivamente parte di movimenti di resistenza in Francia); i comunisti; i giovani che hanno praticato lo scoutismo; qualche intellettuale di grande forza morale; qualche lavoratore manuale.

Senza dubbio gli individui che hanno un ideale posseggono l’abitudine alla lotta, sanno imporsi una disciplina severa, si adattano alla vita collettiva, non soggiacciono ad un decadimento paragonabile a quello della maggioranza dei detenuti». Questa spiegazione in termini di impegno sociale e` certamente valida, ma altrettanto valida e` la reazione che Bettelheim descrive a proposito di se stesso. La capacita` di capire i meccanismi del campo di concentramento, di adeguarsi alla situazione realisticamente senza pero` cadere in nessun meccanismo di identificazione con l’aggressore, il mantenere una sua capacita` di ricerca che lo porto` a continuare il suo lavoro di psicoanalista, all’interno del campo, sono le valenze positive che hanno permesso a Bettelheim di salvarsi come uomo, anche se ha dovuto necessariamente mettere in crisi il suo essere psicoanalista in un certo modo. «Dapprima soltanto oscuramente, poi con una lucidita` sempre maggiore, arrivai anche a vedere che in poco tempo la maniera con cui un uomo agisce puo` alterare cio` che egli e`. Coloro che nei campi resistettero bene divennero degli uomini migliori, quelli che reagirono male, divennero ben presto delle persone cattive: e questo, o almeno cosı` mi sembrava, indipendentemente dalla loro vita passata e dalla loro personalita`, ovvero indipendentemente da quegli aspetti della personalita` che sembrano significativi dal punto di vista psicoanalitico...». «La teoria psicoanalitica allora corrente era

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inadeguata a spiegare esaurientemente quello che stava accadendo ai prigionieri; aiutava ben poco a capire che cosa costituisca una vita «buona», un uomo «buono». Applicata entro un determinato ambito di riferimento, essa chiariva molto. Al di fuori di questo ambito, ovvero applicata a fenomeni che erano fuori del suo campo di applicazione, essa distorceva il loro significato, invece di chiarirlo. Mentre poteva dirmi molto intorno alla parte «nascosta» dell’uomo, essa mi rivelava molto meno intorno al «vero» uomo. Tanto per usare un solo esempio: era del tutto evidente che l’Io non era affatto un debole servitore dell’Es o del Super-Io. Alcuni uomini rivelarono una stupefacente forza dell’Io che sembrava non derivasse ne´ dall’Es ne´ dal Super-Io» (B. Bettelheim, 1960). Ma accanto alla reazione negativa dei musulmani, a quella positiva di Bettelheim, dobbiamo citare anche un’altra modalita` di adattamento, certamente la peggiore, la piu` abbietta. Molti prigionieri finirono, nel tentativo di salvare il corpo, ma non la personalita`, con l’identificarsi con l’aggressore. Di qui la schiera dei Kapo`, ovverosia sembianze di uomini che per un pezzo di pane denunciarono gli altri prigionieri e finirono con il diventare peggiori delle stesse SS che, come succede sempre in questi casi, pur utilizzandole, in fondo le disprezzavano.

3.3. Spiegazione Di fronte ad una situazione ambientale cosı` sconvolgente e traumatica, che mette rapidamente e totalmente in discussione precedenti modelli mentali, le reazioni possono essere diverse. Certamente le SS deliberatamente o inconsapevolmente tendevano alla distruzione della personalita` o ad una possibile identificazione di alcuni prigionieri con i persecutori. Sono caduti, in questa situazione mortale, i piu` deboli, quelli che non erano minimamente preparati a questa evenienza, quelli che non avevano alcun ideale per cui combattere, quelli che non erano riusciti a mantenere un contatto, reale o nel ricordo, con il mondo esterno al lager. Chi invece riusciva a mantenere una speranza,

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ad avere una ideologia politica, a mantenere un legame con l’esterno, ad utilizzare la situazione presente per continuare a capire e a comprendere meglio, riusciva a mantenere la sua identita` e riusciva a sopravvivere all’orrore di una situazione che comunque non poteva non lasciare profonde cicatrici. Il sogno ricorrente di cui parla P. Levi sembra essere una conferma del fatto che molto spesso il sopravvissuto al lager continuera` a portarsi dentro anche l’angoscia per chi non era riuscito. O forse anche di chi si era ribellato ed a prezzo della sua vita era riuscito a ritrovare, anche se per un breve attimo, la propria identita`. «Un altro di quei rari esempi di suprema affermazione di se´ puo` forse far luce sulla questione. Un giorno, un gruppo di prigionieri nudi stavano in fila davanti alla camera a gas pronti ad entrarci. Non si sa come, uno degli ufficiali delle SS di servizio venne a sapere che una delle prigioniere era stata una ballerina. Egli le ordino` di danzare per lui; lei obbedı`, e danzando gli si avvicino`, gli prese il fucile e gli sparo`, uccidendolo. Anche lei fu immediatamente uccisa». «Non puo` forse darsi che, nonostante la scena terribile sulla quale danzava, la danza abbia di nuovo fatto di lei una persona? Quando le fu ordinato di danzare, di esplicare quella che un tempo era stata la sua vocazione liberamente accettata, ella si differenzio` dagli altri, ridivenne un individuo; non era piu` un numero, una prigioniera senza nome e senza personalita`, ma la ballerina di un tempo. Trasformata, anche se per pochi attimi, reagı` come avrebbe reagito il suo vecchio io, distruggendo il nemico che stava per distruggerla, anche se cio` l’avrebbe condotta alla morte»7. Credo tuttavia che sia relativamente piu` facile affrontare una situazione drammatica (come un naufragio, un atterraggio sulle Ande ecc.) che lascia intatta la speranza negli altri, anziche´ una situazione, come nel lager o nei sequestri, ove il comportamento degli uomini, implicando una totale assenza di umanita`, distrugge anche la speranza negli uomini.

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B. Bettelheim, 1965.

4. Il sequestro da parte di criminali o terroristi. La sindrome di Stoccolma Questa situazione e` descritta per ultima, non solo perche´ e` un dato recente l’aumento di questa evenienza, ma anche perche´ gli effetti e le reazioni psicopatologiche possono essere meglio comprese alla luce delle due situazioni sopradescritte. In questo frangente infatti si sommano spesso le componenti negative legate all’isolamento ed alla privazione sensoriale, o comunque sociale, a quelle di una convivenza con persone sadiche o violente. Le reazioni psicologiche e/o psicopatologiche possono essere varie e diverse perche´ condizionate da numerose variabili quali la personalita` di base del sequestrato, la durata del sequestro, il rapporto con i rapitori, la possibilita` di mantenere un contatto con l’esterno ecc. Per questo possiamo avere reazioni che vanno da estrema angoscia con attuazione di meccanismi regressivi (quali il dormire), a situazioni di identificazione con l’aggressore, a situazioni in cui il rapito ha mantenuto talmente la propria identita` da mettere in difficolta` gli stessi rapitori. A questo proposito l’esempio piu` conosciuto e` quello riguardante l’ambasciatore britannico in Uruguay, rapito dai Tupamaros e tenuto in ostaggio per otto mesi. Egli in tutto quel tempo mantenne un atteggiamento talmente energico, sereno e dignitoso da impressionare i terroristi al punto da costringerli a cambiare spesso i guardiani per timore che l’atteggiamento di G. Jackson potesse convincere alcuni dei rapitori che il loro comportamento era una follia. Ma se questi esempi non sono unici, non sono nemmeno molto frequenti. Piuttosto frequente e` invece una reazione psicopatologica che e` definita sindrome di Stoccolma 8 (T. Strentz e F. Ochberg, 1987) . Nell’agosto del 1973, quattro impiegati di una banca di Stoccolma furono tenuti in ostaggio nel sotterraneo della banca, per circa sei giorni, da due banditi. Situazione altamente drammatica, perche´ la banca fu rapidamente circondata dalla

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Da Ferracuti F., 1987.

Psicopatologia da situazioni estreme

polizia: seguirono trattative difficili, sempre al limite della rottura e quindi con un rischio di vita per gli ostaggi. Rischio di vita, condizionato sia da eventuali reazioni omicide dei sequestratori, sia da un possibile intervento della polizia. Alla fine di questa avventura, al contrario di quanto era legittimo aspettarsi, risulto` che le vittime non solo dichiararono di aver temuto la polizia piu` dei rapinatori, ma verso questi descrissero anche sentimenti positivi. «Essi descrissero di aver avuto la sensazione che i criminali avessero ridato loro la vita e quindi si sentirono emotivamente in debito verso i loro sequestratori per questa loro generosita`» (Strentz T. e Ochberg F., 1987). «La sindrome di Stoccolma consiste generalmente in tre fasi: sentimenti positivi degli ostaggi verso i loro sequestratori, sentimenti negativi degli ostaggi contro la polizia o altre autorita` governative, e reciprocita` di sentimenti positivi da parte dei sequestratori» (Strentz T. e Ochberg F., 1987). Questa particolare modalita` di comportamento e` spiegata da molti AA. come attuazione di due meccanismi difensivi: la regressione e la identificazione con l’aggressore. In effetti l’immediatezza e la drammaticita` della situazione possono indurre meccanismi regressivi, di cui certamente il piu` frequente e` il sonno. Sono descritti casi di ostaggi che sono riusciti a dormire anche per due giorni consecutivi: e` evidente che questo meccanismo e` piu` probabile dove c’e` un numero elevato di ostaggi. T. Strentz, che ha studiato a lungo questo fenomeno, sostiene che i meccanismi piu` utilizzati dagli ostaggi sono di tipo regressivo. «L’ostaggio e` piu` simile al neonato che deve piangere perche´ gli venga dato da mangiare, che non puo` parlare ed e` costretto all’immobilita`. Come il neonato, l’ostaggio e` in uno stato di estrema dipendenza e paura... Egli e` ora dipendente come lo era da neonato: e di nuovo e` presente un adulto onnipotente che lo controlla ed il mondo esterno e` di nuovo minaccioso. Le armi che la polizia si appresta ad usare contro il delinquente sono, nella mente dell’ostaggio, rivolte contro di lui» (Strentz T. e Ochberg F., 1987). Il secondo meccanismo che si attua e` l’identi-

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ficazione con l’aggressore. Alcuni fatti sembrerebbero dar ragione a questa ipotesi. Molte volte il sequestrato comincia a vivere un legame con il sequestratore sulla base di un comune nemico: la polizia. «Gli ostaggi percepiscono le armi della polizia come puntate contro di loro; la minaccia dei gas lacrimogeni li mette in ansia. L’insistenza della polizia per la resa del criminale e` cio` che li mantiene nello stato di ostaggi. Costoro cominciano a sviluppare l’idea che «se la polizia se ne andasse via, io potrei tornare a casa. Se lasciassero andare il rapinatore, io anche sarei libero» (Strentz T. e Ochberg F., pag. 332, 1987). Ma se questa reazione e` ancora comprensibile, forse un po’ meno e` la dichiarazione di una delle vittime di un dirottamento, avvenuto nel 1976, di un aereo in volo da New York a Parigi. «Dopo che tutto era finito e che eravamo salvi, ho realizzato che essi (i dirottatori) mi avevano fatto passare l’inferno, e avevano causato ai miei genitori e alla mia fidanzata un forte trauma. Eppure io ero vivo. Ed ero vivo perche´ essi mi avevano lasciato vivere. Voi conoscete solo poche persone, o forse nessuna, che possano tenere la vostra vita nelle loro mani, e ridarvela quando vogliono. Quando tutto fu finito ed eravamo salvi e loro avevano le manette, io andai verso di loro e li baciai ad uno ad uno dicendo: «Grazie di avermi ridato la vita». So bene che sembra ridicolo, ma e` cosı` che mi sentivo allora». Forse non e` ridicolo, ma e` certamente un comportamento ed un vissuto singolare: chiaramente non ci si puo` fermare solo alle reazioni ed alle dichiarazioni sull’avvenimento, senza tener ` evidente che ci conto della personalita` di base. E possono essere reazioni molto diverse, che sono condizionate oltre che dalla personalita` di base dell’ostaggio anche dalla situazione del sequestro, dalla durata e dal comportamento dei rapitori. Si e` potuto constatare che quanto piu` dura il sequestro e quanto piu` il comportamento dei sequestratori non e` brutale, tanto piu` si avvera questa identificazione con l’aggressore. Ma in questi casi la sindrome di Stoccolma puo` funzionare nei due sensi. Quanto piu` l’ostaggio riesce a farsi riconoscere nella sua identita`, tanto piu` diventa difficile (non impossibile) per il sequestratore uccidere. Ci sono molti casi de-

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scritti dove il raccontare da parte del sequestrato la propria vita o i propri problemi puo` condizionare, con molta probabilita`, l’aver salva la vita. «La maggior parte delle persone non riesce a fare del male ad altri individui, a meno che la vittima non resti anonima... Consciamente o inconsciamente, l’autore del sequestro disumanizza il proprio ostaggio, rendendo, cosı`, facile il poterlo uccidere» (Strentz T. e Ochberg F., 1987). Questo meccanismo e` stato evidenziato dagli etologi soprattutto negli animali: quando un animale, nel combattimento, da` segni di sottomissione e si fa riconoscere, questo blocca l’ostilita` ` chiaro che questa estrapolazione e` dell’altro. E relativa, perche´ e` solo nell’uomo che esiste una distruttivita` intraspecifica, mentre negli animali e` sempre interspecifica. Quanto descritto sopra e` certamente importante, ma non credo che spieghi la complessita` di questa situazione e tanto meno la varieta` delle reazioni psicologiche. Credo sia piu` credibile pensare che una situazione di sequestro sia talmente rapida ed inaspettata da creare una grave situazione di emergenza psichica che rende facile una dinamica di regressione, ma forse anche di annullamento. Successivamente, l’isolamento sociale, la convivenza forzata, l’angoscia di non poter prevedere il futuro possono facilitare un vissuto di negazione sull’ambiente esterno. L’ostaggio riduce il mondo al suo mondo, ed il suo mondo e` una simbiosi rapito-rapitore. In questa situazione di annullamento-regressione-negazione e` comprensibile l’emergenza di un meccanismo del tipo identificazione con l’aggressore, che puo` emergere solo su tempi sufficientemente lunghi. Ma bisogna tener presente che questo meccanismo non e` ubiquitario; anzi esso si attiva solo in personalita` che possiamo definire fragili, dipendenti, e che comunque non hanno una identita` precisa. Quanto piu` l’individuo, magari per il lavoro che fa, puo` attendersi un atto del genere, e soprattutto quanto piu` egli ha una personalita` forte e precisa, l’identifica-

zione con l’aggressore non si attua, ma puo` avvenire una situazione inversa: quella del rapito che cerca di convincere il rapitore.

5. Conclusioni ` evidente che situazioni drammatiche come E quelle descritte permettono solo alcune considerazioni di massima sul cosa fare. Sembra comunque che, quando la situazione non si risolve nel giro di ore, il tempo puo` giocare a favore del rapito. Non tanto per stanchezza del rapitore (cio`, anzi, puo` essere un’arma a doppio taglio), ma soprattutto perche´ il passare del tempo permette al rapitore quel minimo di riconoscimento del rapito che non rimane quindi uno sconosciuto sul quale e` piu` facile riversare la propria distruttivita`. Se il sequestrato riesce a mantenere un comportamento adeguato e dignitoso, evitando eccessive regressioni, certamente diminuisce i suoi rischi. Ma forse bisogna intendersi sul concetto di regressione: se questa e` massiccia tanto da ridurre il rapito in una condizione di totale subordinazione ed impotenza, e` assolutamente negativo. Se invece c’e` una ‘‘maschera’’ di regressione, ovverosia un riconoscimento della situazione ed un adattamento che eviti inutili reazioni ostili o di insofferenza, questa dinamica puo` essere utile, perche´ permette all’ostaggio di accettare e riconoscere la situazione senza subirla totalmente. Se questo comportamento e` unito alla capacita` di mantenere un rapporto con l’esterno e quindi anche alla possibilita` di poter progettare un futuro, sicuramente non ci sara` alcuna identificazione con l’aggressore. Il meccanismo di identificazione con l’aggressore e` stato osservato nella sindrome di Stoccolma, ma anche nei campi di sterminio. In questa situazione, colui che si identificava con l’aggressore diventava il Kapo`, individuo spesso piu` violento e sadico delle stesse SS.

Psicopatologia da situazioni estreme

Riferimenti bibliografici Bettelheim B., Il prezzo della vita, Bompiani, Torino, 1965. Ferracuti F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, vol. IX, Giuffre`, Milano, 1987.

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Frank V. E., Uno psicologo nei lager, Ares, Milano, 1978. Levi P., Se questo e` un uomo, Einaudi, Torino, 1958. Nyiszli M., Medico ad Auschwitz, Longanesi, Milano, 1976. Ruff G. E., «Isolamento e privazione sensoriale», in Arieti S. (a cura di), Manuale di Psichiatria (19591966), Boringhieri, Torino, 1969. Saint-Exupe´ry A. de, Terra degli uomini (1939), Mursia, Milano, 1976.

41 L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica? Nicola Lalli Parole chiave break-down; crisi; riti di passaggio; disagio psichico; area pulsionale; vissuto corporeo; Io-ideale; condotta suicidaria; prevenzione; disarmonia

L’adolescenza, tappa fisiologica dello sviluppo umano, rappresenta il primo momento di verifica del passato e di preambolo cosciente del futuro. La rivisitazione dei rapporti di dipendenza infantile soprattutto nei confronti del nucleo familiare e la nascita di un’autonoma formazione dell’identita` e della personalita` richiedono una continua quanto difficile modificazione dei rapporti con se stessi e con il mondo esterno. Il processo di crescita, transitando attraverso una continua messa in crisi e verifica dei modelli

psicologici e comportamentali precedenti, se e quando si arresta provoca la comparsa di sintomi piu` o meno stabili, piu` o meno gravi. La complessita` terapeutica, pertanto, nasce non solo dalla fragilita` della personalita` in formazione, ma anche dalla patologia. Per questo lo psicoterapeuta adolescenziale deve essere altamente specializzato sia da un punto di vista personale che metodologico. * * *

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1. Considerazioni generali «L’adolescenza — afferma Winnicott — e` una scoperta personale durante la quale ogni soggetto e` impegnato in una esperienza: quella di vivere; in un problema: quello di esistere». Questa lunga fase di scoperta, segnata da numerosi cambiamenti somatici e psichici e` finalizzata ad un assetto nuovo ed originale del soggetto. Ma questo “nuovo ed originale” puo` essere causa di turbamenti: come l’angoscia di perdere, nella trasformazione, l’unita` dell’Io; il timore di un ritorno all’impotenza originaria; il rischio di una chiusura in se stessi per l’incapacita` di far fronte alle nuove e pressanti richieste dell’ambiente. Tuttavia questa scoperta rappresenta anche una fase stimolante e creativa, perche´ apre a nuove esperienze, nuove possibilita`. Le numerose, a volte contrastanti teorie dello sviluppo adolescenziale sono raggruppabili in due visioni fondamentali, corrispondenti poi a due diverse visioni dell’uomo. La prima considera l’adolescenza come una fase certamente difficile, ma complessivamente creativa e positiva: una sorta di working in pro` la tesi di E. Erickson, di H. Kohut, di D. gress. E Winnicott. La seconda invece considera l’adolescenza come una fase pericolosa e drammatica del ciclo vitale, che puo` oscillare tra un sicuro turmoil ed un probabile break-down e comporta sempre un ` la tesi di M. Klein, di M. Mahrischio elevato. E ler, di A. Freud, dei Laufer che sembrano confermare le parole del poeta P. Nizan: «Ho avuto anch’io vent’anni e non permettero` a nessuno di affermare che e` la piu` bella eta` della vita». Tra queste due polarita`, ritengo piu` aderente alla realta` considerare l’adolescenza come una fase dello sviluppo caratterizzata fondamentalmente da una disarmonia piu` o meno temporanea, dovuta all’emergenza di pressioni biologiche, psicologiche e sociali che, prima di configurarsi in un nuovo assetto, inevitabilmente si presentano e sono vissute dal soggetto e dal gruppo sociale come disarmonia, come mancanza di integrazione, come sospensione tra un passato inattuale e un futuro appena abbozzato.

Mi sembra che il termine disarmonia esprima un aspetto peculiare dell’adolescenza e corrisponda al mutamento fisico indotto dalla puberta`, che in genere e` disarmonico prima di giungere ad un assetto definitivo. Inoltre collegare la puberta` e l’adolescenza comporta un preciso postulato teorico: vuol dire correlare eventi biologici e psicologici rendendo impossibile qualsiasi operazione di relativismo culturale o di negazione del biologico. Oltre la disarmonia che esprime sia il vissuto soggettivo dell’adolescente, sia come questi puo` essere vissuto dal gruppo sociale, c’e` un ulteriore vissuto tipico dell’adolescenza che possiamo definire di sospensione. L’adolescente cioe` si trova, rispetto ad alcune delle piu` importanti aree dell’esperienza come quelle della dipendenza e dell’autonomia, in una condizione di attesa e di rinvio. Tale dinamica puo` essere resa ancora piu` conflittuale da situazioni sociali e culturali che da una parte attribuiscono all’adolescente una maturita` che non ha ancora acquisito, dall’altro lo mantengono in una situazione di dipendenza forzata. Ma l’adolescenza non e` solo un problema psicologico o interpersonale: rappresenta anche un evento sociale che come tale puo` essere favorito o ostacolato da una serie di dispositivi di natura culturale e/o sociale.

2. Cultura e adolescenza* Non e` possibile in questa sede soffermarsi sul complesso rapporto tra cultura, psicologia e psicopatologia e su quanto la cultura possa o meno determinare la psicopatologia. Sicuramente non e` accettabile la posizione di T. Nathan che asserisce che: «la cultura non e` un abito, ma il fondamento strutturante e strutturale dello psichismo umano». Data la complessita` del problema, e` necessario proporre due quesiti di fondo: uno metodologico e l’altro storico-culturale. Sul piano metodologico dobbiamo tenere presente che quando parliamo della “nostra” cultura

* Il testo del paragrafo 2 e` stato elaborato da R. Panieri.

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

(occidentale, tecnologica, ecc.) ne parliamo come di un insieme coeso ed omogeneo. Nulla di piu` falso: questa visione e` applicabile a culture altamente omogenee ed in genere geograficamente delimitate; ma non e` applicabile ad una cultura come la nostra, in continua trasformazione e che, nei fatti, e` gia` multietnica e multiculturale e quindi variegata e complessa. Sul piano storico-culturale non e` assolutamente accettabile ritenere che sia la cultura a creare la fase peculiare definita “adolescenza”. La convergenza, come accennato sopra, di fattori psicologici e biologici, puo` evitare simili estremismi banali e falsificanti. L’adolescenza e` sempre esistita; la cultura tuttavia puo` esercitare su questa fase un peso rilevante in senso patoplastico: la cultura puo` favorire, opporsi o negare questa importante fase dello sviluppo. Anche perche´ l’adolescenza non risveglia solo conflitti intrapsichici, ma anche generazionali. L’accesso dell’adolescente nel mondo degli adulti crea sicuramente conflittualita` e competizioni piu` o meno manifeste. Una corretta lettura del mito di Edipo e del conflitto edipico puo` essere collegata proprio a questa fase del ciclo vitale. Lo scontro mortale tra Edipo adolescente e Laio adulto avviene in una strada stretta che immette ad un bivio, ed ha luogo per un problema di precedenza, che esprime esattamente un conflitto di gerarchia e di autorita` (vedi cap. 55). Il mondo degli adulti accetta l’adolescente, se questi accetta le norme del mondo degli adulti ed in primo luogo il principio di autorita`. La cultura quindi non crea l’adolescenza, ma attua una serie di dispositivi per gestire il punto nodale della problematica adolescenziale: lo svincolo, la separazione, il passaggio da uno stadio di identificazione ad uno di identita`, l’accettazione di un “nuovo” di cui l’adolescente puo` essere un portatore non sempre consapevole. Molto sinteticamente, si possono delineare tre situazioni: 1)

Alcune culture facilitano il processo di identificazione: sono in genere culture stabili e tradizionali, che tramite una serie di ritualita`

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(riti di passaggio) accettano il nuovo arrivato (l’adolescente) nel contesto sociale. Il conflitto tra autonomia e norma, tra fedelta` e novita` nei confronti dei valori tradizionali viene gestito e risolto a favore della norma e della fedelta`. L’adolescente viene accettato perche´ accetta le regole del gruppo e vi si ` evidente che l’aspetto positivo e` adegua. E l’eliminazione del conflitto. L’aspetto negativo e` la totale ripetitivita` dei ruoli, la mancanza di qualsiasi originalita`. Altre culture invece, e la nostra sembra rientrare in questo ambito, tendono a negare questa fase, proponendo false autonomie in assenza di validi supporti psicologici. Questa dinamica comporta una confusione ed una diffusione dell’identita` per la disconferma continua dei ruoli, tra l’altro poco definiti e spesso intercambiabili (il genitore che fa l’amico del figlio, il figlio che deve farsi carico del genitore rimasto adolescente ecc.). Tutto questo rende impossibile non solo una delimitazione temporale di questa fase, ma soprattutto la possibilita` di affrontarla. Non e` raro che questa situazione, da “passaggio”, diventi uno status permanente. Nel passato, ed attualmente in alcune “enclave” della nostra cultura, esistono dei riti di passaggio che, seppure limitati, potrebbero costituire dei punti di riferimento. Ci riferiamo a pratiche religiose come la “prima comunione”, oppure al servizio militare. Questi passaggi, tuttavia, avvengono casualmente e sono non solo deprivati di qualsiasi valore simbolico (al massimo assumono gli aspetti deteriori della ritualita`), ma soprattutto non rappresentano un momento di condivisione tra il mondo degli adulti e quello dell’adolescente. Molto piu` frequentemente, soprattutto nella nostra cultura per il lungo apprendistato degli studi, si rischia di perdere invece completamente qualsiasi punto di riferimento. In mancanza di parametri socialmente condivisi, il superamento dell’adolescenza diventa sempre piu` un problema individuale, al massimo condivisibile all’interno di un gruppo di coetanei, con la modalita` tipica della aggre-

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gazione dell’eta` pre-adolescenziale. Per l’adolescente in balı`a di se stesso, privo di formazione e di informazione, pieno di energie che non sa come utilizzare, con progetti confusi e spesso irrealizzabili, il cambiamento, il “passaggio” diventano incomprensibili, impossibili, pericolosi e ingovernabili e quindi fonte di un’ansia che spesso suscita negazione o ribellione. A fronte di queste due situazioni sopradescritte che sono storicamente configurate, la cultura dovrebbe tendere a privilegiare la possibilita` di una dinamica di separazione che porti ad una reale autonomia e quindi ad una “identita` dell’adolescente”. Queste modalita` si riscontrano in culture, in via di evoluzione, che facilitano il processo di identita` mediante l’accettazione dell’originalita` e del nuovo di cui l’adolescente puo` essere portatore.

2.1. I riti di passaggio Il rapporto tra puberta` e adolescenza si fa piu` complesso se si prendono in considerazione i dati provenienti dagli studi di antropologia culturale riguardo ai riti di iniziazione. In alcuni casi, il trapasso dall’infanzia all’eta` adulta avviene senza scosse e rimane ignorato dalla societa`; in altri casi i riti della puberta` portano con se´ un trapasso non dalla fanciullezza all’adolescenza, ma dalla fanciullezza all’eta` adulta. La letteratura sull’argomento evidenzia il fatto che non sempre il rito di iniziazione avviene in contemporanea con il momento della puberta`; inoltre mentre la durata della puberta` e` stabilita da fattori biologici, quella dell’adolescenza e` determinata socialmente dalle istituzioni e dalle norme che vigono in un dato gruppo sociale. Esse possono coincidere, ma cio` non accade necessariamente. Si afferma spesso che una delle caratteristiche del mondo “moderno” e` la scomparsa dell’iniziazione: infatti nelle societa` tradizionali esistono numerose varianti dei riti di iniziazione. I riti di iniziazione relativi al passaggio dal-

l’eta` dell’infanzia a quella adulta vengono celebrati alle soglie della puberta` e sanciscono l’ingresso ufficiale del giovane nella comunita` degli adulti. Tale passaggio viene rappresentato attraverso una morte e una rinascita simbolica: il giovane muore nella sua vita infantile per rinascere in un’esistenza di adulto. Osserva J. Ries che «L’atto rituale e` legato ad una struttura simbolica che permette di realizzare il passaggio dal significante al significato, dall’immaginario alla realta` ontologica, dal segno all’essere» (Ries, J., I riti di iniziazione, 1986, p. 10). Per acquisire il diritto di essere ammesso tra gli adulti, l’adolescente deve sottoporsi ad una serie di prove iniziatiche grazie alle quali sara` riconosciuto come un membro “responsabile” della comunita`. Molti sono i contributi che la letteratura offre sull’argomento, tuttavia ci sembra utile restringere il campo a due autori fondamentali, Mircea Eliade e Arnold Van Gennep, dai quali possiamo attingere elementi di riflessione importanti. Il primo offre una chiave di lettura in termini di una supposta religiosita` naturale dell’uomo, teoria che sebbene non condivisibile e sicuramente non universale riteniamo comunque utile proporre. Il secondo offre invece una lettura in chiave piu` sociologica e antropologica.

2.1.1. Mircea Eliade e i riti di iniziazione

L’autore cosı` si esprime al proposito: «S’intende generalmente per iniziazione un insieme di riti e di insegnamenti orali, il cui scopo e` la modificazione radicale dello statuto religioso e sociale del soggetto da iniziare. Filosoficamente parlando, l’iniziazione equivale ad una mutazione ontologica del regime esistenziale. Al termine delle prove il neofita gode di un’esistenza diversa dalla precedente: e` diventato un altro» (Eliade, M., La nascita mistica. Riti e simboli di iniziazione, 1958, pp. 9-10). Eliade afferma che nella vita religiosa dell’uomo e` possibile l’esperienza del soprannaturale. In questo modo e` possibile cogliere l’importanza che rivestono il simbolo, il mito e il rito.

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

` il simbolo, infatti, che svela all’uomo diE mensioni altrimenti non percepibili a livello dell’esperienza immediata e che lo conduce alla partecipazione al sacro. Per cio` che riguarda il mito, inoltre, esso consiste in una storia sacra che spiega le origini e attraverso la quale l’uomo attribuisce un significato alla propria vita. Il rito, infine, ha un ruolo essenziale negli sforzi compiuti dall’uomo per realizzare l’unione con il sacro, consentendogli di fare riferimento ad un archetipo che conferisce senso alla sua vita ed efficacia alle sue azioni. Per comprendere la concezione di Eliade del rito e` importante capire a fondo la sua definizione di archetipo come modello esemplare. Eliade da` infatti all’archetipo un significato diverso da quello attribuitogli da Jung, che concepisce gli archetipi come forze attive, come strutture dell’inconscio collettivo. Per Eliade, invece, l’archetipo e` un modello esemplare: in esso l’autore vede lo stato puro, un momento iniziale e un modello primordiale. Come chiaramente mette in luce Julien Ries, l’archetipo e` per Eliade «...un oggetto (o un essere o un atto), al quale per partecipazione si riferisce un altro oggetto (un altro essere, un altro atto) che da quello ricava consistenza e dimensione reali. Grazie all’archetipo l’homo religiosus e` cosciente di entrare in relazione con la trascendenza.» (Ries, J., L’uomo, il rito e l’iniziazione secondo Mircea Eliade. In: I riti di iniziazione, op.cit, p. 18). Una prima componente dell’archetipo capace di rendere conto dell’efficacia dei riti si rintraccia nei modelli celesti dei territori, dei templi e delle citta`. In questo senso e` possibile osservare una sorta di sdoppiamento della creazione, operato a ` il rito che partire da una situazione archetipica. E provvede a conferire una dimensione sacrale. Una seconda componente dell’archetipo si manifesta nel simbolismo del centro, considerato uno spazio sacro e un punto di partenza per ogni creazione. Ogni volta che si costruisce una citta`, una casa o un santuario si riproduce la cosmogonia iniziale. L’accesso al centro equivale a una nuova esistenza. La terza componente dell’archetipo e` costi-

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tuita dal modello divino. Questa e` la nozione fondamentale del rito, dato che il rito e` per l’uomo l’imitazione del modello divino. Ogni festa e` la celebrazione di un evento primordiale, secondo la frase citata da Eliade: «Cosı` hanno fatto gli de`i, cosı` fanno gli uomini» (Taittiriya Brahamana, 1, 5, 9, 4, citato in Eliade, M., Il mito dell’eterno ritorno, 1949, p. 39). Il rito, dunque, costituisce la ripetizione di uno scenario iniziale. Eliade ha rivolto il suo interesse principalmente ai riti di iniziazione. L’iniziazione, come abbiamo visto, rappresenta per l’autore una modificazione ontologica del neofita. Sinteticamente possiamo centrare la nostra attenzione su alcuni aspetti che caratterizzano i diversi riti di iniziazione celebrati nelle societa` tradizionali. Notiamo cosı` che l’iniziazione di puberta` comincia con un atto di rottura: il fanciullo e` separato fisicamente dalla madre, in modi piu` o meno bruschi a seconda delle tribu`. Ad ogni modo i novizi “muoiono all’infanzia” e le madri sanno che non ritroveranno piu` i loro figli quali erano prima dell’iniziazione. L’altro elemento determinante e` la funzione delle numerose interdizioni (come la proibizione di mangiare, di bere, di dormire ecc.) cui il novizio e` sottoposto nel periodo di separazione. Tutte queste interdizioni hanno per Eliade la funzione di esercizi ascetici che pongono il novizio a contatto con la meditazione e la concentrazione: «Le diverse prove fisiche hanno dunque pure un carattere spirituale. Il neofita viene preparato alle responsabilita` della vita adulta e insieme svegliato progressivamente alla vita dello spirito. ... Le prove fisiche perseguono uno scopo spirituale: introdurre il ragazzo alla cultura, renderlo ‘aperto’ ai valori dello spirito» (M. Eliade, op. cit., p. 35). Dunque l’elemento fondante la concettualizzazione di Eliade e` quest’esperienza di morte e di rinascita iniziatica che porta il novizio ad un “trapasso”; da una situazione iniziale di ‘‘non-conoscenza’’, ad un nuovo status di ‘‘conoscenza’’, la fine dell’uomo naturale ed il passaggio ad una nuova modalita` di esistenza «...quella di essere ‘‘nato allo spirito’’». (M. Eliade, op. cit., p. 189).

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2.2.2. La teoria di Van Gennep: i riti di passaggio ed il concetto di margine

Diversi i contenuti su cui si sofferma l’altro autore che abbiamo scelto di considerare. Ricordiamo brevemente che per Van Gennep la societa` umana e` assimilabile a uno spazio delimitato all’esterno da linee di confine e organizzato all’interno in un certo numero di comparti, secondo linee precise di divisione. Societa` per Van Gennep vuol dire dunque divisione. Per sopravvivere, ogni societa` deve soddisfare due criteri fondamentali: la coesione interna e la continuita` temporale del gruppo; la classificazione degli individui in relazione alla struttura sociale e` il modo con cui si cerca di garantire coesione e continuita`. Classificare e quindi predisporre categorie e gruppi significa produrre legami di natura particolare tra individui. Ogni classificazione dunque e` allo stesso tempo un fattore di solidarieta` e un fattore di divisione: si divide verso l’esterno per creare solidarieta` all’interno. Ogni societa` deve sapersi destreggiare per trovare il giusto equilibrio tra tendenza alla divisione e tendenza alla coesione. L’organizzazione generale della societa` e` frutto di questo equilibrio. Dunque appare chiaramente l’immagine di societa` propria di questo autore, solcata da divisioni piu` o meno profonde e organizzata secondo spazi interni in cui gli individui si aggregano e tra i quali si muovono. ` il fatto stesso di vivere che rende necessa«E rio il passaggio successivo da una societa` speciale a un’altra, e da una situazione sociale a un’altra, cosicche´ la vita dell’individuo si svolge in una successione di tappe nelle quali il termine finale e l’inizio costituiscono degli insiemi dello stesso ordine: nascita, puberta` sociale, matrimonio, paternita`, progressione di classe, specializzazione di occupazione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine e` identico: far passare l’individuo da una situazione determinata a un’altra anch’essa determinata» (Van Gennep, A., I riti di passaggio, 1909, p. 5). Da questo Van Gennep trae la nozione piu` importante nella struttura dei riti di passaggio,

quella di margine, di una zona cioe` di confine, una soglia delimitata piu` o meno chiaramente, una zona di nessuno, neutra, che divide i due spazi attraverso i quali avviene il passaggio. Cosı` Van Gennep dice al proposito: «...I due territori occupati sono sacri per coloro che vivono nella zona, ma d’altra parte la zona e` sacra per gli abitanti dei due territori. Chiunque passi dall’uno all’altro si trova percio`, da un punto di vista materiale magico-religioso, per un periodo piu` o meno lungo, in una situazione particolare, nel senso che ` questa la situazione sta sospeso tra due mondi. E che designo col termine margine...» (ibidem, p. 16). La struttura dei riti di passaggio si articola in una specifica configurazione, che consiste in: a)

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riti di separazione o preliminari, che hanno la funzione di agevolare il distacco dell’individuo dalla situazione originaria; riti di margine o liminari, che si caratterizzano per il collocare il soggetto in uno stato di sospensione; riti di aggregazione o postliminari, che facilitano l’introduzione dell’iniziato nel nuovo gruppo, nel nuovo territorio, o nella nuova categoria sociale.

Appare percio` evidente, da quanto detto fino ad ora, l’importanza che l’autore conferisce alla nozione centrale di margine. ` in effetti il margine» scrive Francesco Re«E motti nell’introduzione all’opera di Van Gennep «cio` che elimina dal passaggio quell’immediatezza che provocherebbe turbamenti — secondo Van Gennep — sia nella vita sociale sia nella vita individuale; e` il margine che rallenta il passaggio e vi introduce la gradualita` tipica del rituale; e` il margine, in altre parole, che impedisce la coincidenza tra il movimento di separazione (da una situazione A) e il movimento di aggregazione (a una situazione B): senza il margine, l’allontanamento da A coinciderebbe con l’avvicinamento a B». Cosı`, pur senza entrare nello specifico delle riflessioni di Van Gennep, possiamo evidenziare che nelle varie pratiche che caratterizzano le diverse cerimonie di iniziazione si possono rintracciare elementi che si richiamano allo schema tripartito sopra citato.

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Per l’autore dunque vivere e crescere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, un morire per poi rinascere, in cui la nuova identita` necessita di una capacita` di separazione da quella precedente. Tale formulazione dunque ben si adatta al faticoso processo di trasformazione che l’adolescente compie, nel passaggio dal mondo dell’infanzia al mondo degli adulti. Il concetto di margine, importante per cogliere il dinamismo implicato nel passaggio tra “stati” diversi, sembra dunque molto utile per poter individuare prospettive che consentono di cogliere l’essenza della trasformazione che caratterizza il processo adolescenziale. In particolare, come spesse volte accade, ci sembra che questo delicato processo di passaggio possa esser colto in tutto il suo spessore, attraverso le parole di scrittori e poeti. Cosı`, nello specifico, ci sembra che il senso delle parole che Conrad utilizza nella descrizione della sua “linea d’ombra” ben si adatti al pensiero di Van Gennep. La “linea d’ombra” di Conrad e` una sorta di limite che il giovane scorge dinanzi ai suoi occhi, che gli fa comprendere come la sua esistenza stia mutando e che cio` che e` stato della prima gioventu` si e` ormai concluso nel passato. Queste sono le parole di Conrad nel racconto ` privilegio della prima “La linea d’ombra”: «E giovinezza vivere oltre il presente, nella bella ed ininterrotta speranza che non conosce pause ed introspezioni (...) Gia` si va avanti. E anche il tempo va avanti, finche´ si scorge innanzi a noi una linea d’ombra che ci avverte che la regione della prima gioventu`, anch’essa, la dobbiamo lasciare addietro. Questo e` il periodo della vita in cui possono venire i momenti di (...) noia (...), di stanchezza, d’insoddisfazione (...)» (Conrad, J., La linea d’ombra, 1917, p. 11). Pur distaccandoci dallo specifico quadro etnografico e folkloristico che connota il pensiero dei due autori, riteniamo che i fondamenti teorici da essi tratteggiati possano essere di grande efficacia nell’esplicitazione di processi tipici dell’adolescenza presenti ancor oggi nel nostro contesto culturale. Ci sembra infatti che anche nella nostra so-

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cieta`, ove non sembra esserci rimasta piu` traccia di cerimonie iniziatiche nel senso letterale del termine, si possa scorgere ugualmente la fatica nel passaggio alla dimensione “culturale” dell’esistenza come ha sottolineato Eliade, cosı` come allo stesso modo ci sembra utilizzabile il concetto di rito di passaggio di Van Gennep, in cui si possano differenziare un momento iniziale di separazione, un momento intermedio di sospensione (zona di margine), ed infine un momento di aggregazione ad un nuovo stato di cose. Dalle spiegazioni di Eliade e Van Gennep, in chiave antropologica e sociologica, si passera` ora ad esaminare il problema sul piano piu` strettamente psicologico cercando di esporre sinteticamente le formulazioni piu` importanti sull’adolescenza.

3. Teorie sull’adolescenza

3.1. S. Freud La teoria psicoanalitica dell’adolescenza si fonda sostanzialmente sull’idea di una “ricapitolazione” delle fasi precedenti: le modificazioni puberali comportano la riorganizzazione delle pulsioni parziali sotto il primato genitale e conducono ad un organizzazione sessuale definitiva. Freud concepisce dunque lo sviluppo adolescenziale nell’ambito della sua teoria di base di uno sviluppo psicosessuale, che si attua nel conflitto tra pulsioni e difese, senza pero` approfondire questo delicato periodo della vita dell’uomo. Le teorizzazioni psicoanalitiche successive riprenderanno il contenuto di fondo della teoria freudiana del conflitto tra pulsioni e difese, sviluppando concettualizzazioni nelle quali gli aspetti caratteristici dello sviluppo adolescenziale sono maggiormente approfonditi ed elaborati.

3.2. A. Freud Anna Freud ha approfondito queste dinamiche evidenziando in particolar modo gli aspetti concernenti le relazioni tra Es, Io, e Super-Io.

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L’autrice, nel considerare le complesse modificazioni che si attuano nell’adolescente, concettualizza un risveglio ed una temporanea reviviscenza pulsionale che mina l’equilibrio raggiunto nella fase precedente di sviluppo che e` la fase di latenza. Il cambiamento qualitativo e quantitativo delle pulsioni che si verifica durante la puberta` implica una sorta di rimaneggiamento intrapsichico che tende ad una riorganizzazione complessiva della struttura di personalita`. I profondi mutamenti fisiologici hanno intense ripercussioni psicologiche sia per cio` che riguarda il livello di realta` concreta, sia per cio` che riguarda il livello simbolico ed immaginario. L’esplosione libidica che si verifica nella puberta`, con i suoi aspetti economici e dinamici rende l’Io fragile nel suo ruolo di controllo delle pulsioni. Alle modificazioni fisiologiche e pulsionali si aggiunge un altro movimento intrapsichico, legato all’esperienza fondamentale di separazione dalle figure parentali. Si verifica in tal modo una ‘‘perdita dell’oggetto’’ nel senso psicoanalitico del termine, che induce nell’adolescente un “sentimento di lutto” di fronte al quale l’Io attiva una serie di modalita` difensive. L’Io dell’adolescente si trova ad affrontare l’insorgenza pulsionale libidica ed aggressiva, nello stesso momento in cui, secondo l’Autrice, questo e` diventato piu` instabile. Poiche´ la funzione principale dell’Io e` di fronteggiare l’esacerbazione pulsionale, nel tentativo di ripristinare lo status di equilibrio e` in questo periodo che le funzioni difensive dell’Io si intensificano e si accentuano. E questa intensificazione delle difese comporta un aumento di rigidita` dell’Io stesso. L’adolescente cioe` apparira` tanto piu` inflessibile ed intransigente quanto piu` sentira` forte la minaccia pulsionale. Le modalita` difensive caratteristiche del periodo adolescenziale enucleate da Anna Freud sono l’intellettualizzazione, l’ascetismo, la scissione ed il passaggio all’atto. a)

L’intellettualizzazione si estrinseca come isolamento dell’affetto che si attua collegando

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il conflitto pulsionale alle idee, al livello del pensiero e della coscienza e nell’atteggiamento generale dell’Io di dominare i processi affettivi e pulsionali attraverso la razionalita`. L’adolescente cerca cioe` di trasformare cio` che sente in un pensiero astratto, nel tentativo di esercitare un controllo sulle pulsioni, soivrainvestendo i processi mentali. Tale meccanismo difensivo diventa stabilmente presente nella nevrosi ossessiva. L’ascetismo si realizza nel disconoscimento e nella repressione di tutti i desideri pulsionali e corporei. La sua espressione clinica piu` tipica si focalizza intorno al corpo e diviene estrema e radicale nel caso dell’anoressia mentale. La scissione, meccanismo non prettamente caratteristico del periodo adolescenziale, viene tuttavia utilizzata preferenzialmente in tale momento come difesa dal conflitto di ambivalenza centrato sul legame con le immagini genitoriali. L’utilizzazione di tale meccanismo si evidenzia bene in alcune condotte tipiche dell’adolescente: bruschi passaggi da un estremo all’altro, giudizi sferzanti senza possibilita` di modulazione, instabilita` e labilita` che si manifestano in diversi settori. Il passaggio all’atto viene utilizzato dall’adolescente come protezione dall’interiorizzazione del conflitto e dalla sofferenza psichica. L’espressione clinica di tale meccanismo e` assai diversificata, poiche´ l’agire e` considerato una delle forme di espressione privilegiata dei conflitti e delle angosce dell’individuo adolescente.

Dai brevi cenni proposti, si evince che l’autrice concepisce lo sviluppo nei termini di un progressivo e sempre maggiore controllo dell’Io sull’Es. Dunque per Anna Freud l’adolescenza e` per sua natura una interruzione di una crescita tranquilla, un momento di “crisi” caratterizzato da posizioni economiche e dinamiche estreme, mutevoli e fluttuanti che conferiscono a tale periodo un aspetto tumultuoso e denso di sconvolgimenti.

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3.3. E. Erikson

3.4. M. Mahler

Senza voler ripercorrere le linee concettuali della teoria dello sviluppo di Erikson, che il lettore trovera` esposta con completezza nel capitolo 7, voglio in questa sede evidenziare sinteticamente alcuni aspetti centrali che caratterizzano la crisi psicosociale (formazione dell’identita` – dispersione dei ruoli) tipica dell’adolescenza. Ci sembra importante sottolineare il peso del contributo di Erikson soprattutto in funzione di una riorganizzazione sistematica del pensiero psicoanalitico anche alla luce del contesto sociale ed il cui contributo e la cui influenza sembrano determinanti nel comprendere il processo di formazione dell’identita` personale. Le trasformazioni somatiche e psicologiche innescate dalla puberta` creano nell’adolescente un sentimento di frattura della continuita`: ecco dunque che il compito principale per Erikson diviene appunto la conquista dell’identita`, il senso di valere per se´ e per gli altri. L’inserimento nel contesto sociale dovrebbe costituire un elemento di facilitazione che aiuti l’adolescente nel percorso di definizione della propria identita`; accade invece che il bisogno di appartenenza e di accettazione del giovane sia frustrato, dal momento che spesso la societa` accoglie gli adolescenti con un atteggiamento ambivalente, riconoscendo loro da un lato uno status “adulto”, dall’altro negandolo al tempo stesso. Se il processo di formazione ed integrita` dell’identita` non avviene, assistiamo al verificarsi del processo opposto di dispersione dei ruoli. Il giovane oscilla in molteplici tentativi infruttuosi di inserimento, i quali piuttosto che indurre il sentimento di continuita` ricercato, lasciano spazio ad un vissuto di ambiguita` ed insicurezza. Tale vissuto di incertezza, se permane insoluto, puo` dare origine a sentimenti di ribellione nei confronti della societa` ad un senso di estraniazione ed intolleranza verso gli altri (formazione di identita` negativa). In conclusione, dunque, per Erikson lo sviluppo e` concepito come uno sviluppo dell’Io, che si realizza grazie all’integrazione graduale di aspetti istintivi e sociali che caratterizzano le diverse fasi evolutive dell’uomo.

Le concettualizzazioni di alcuni autori, pur non ponendo in secondo ordine le vicissitudini pulsionali, sottolineano tuttavia l’importanza delle relazioni oggettuali, evidenziando l’influenza che queste rivestono nella definizione della natura e del funzionamento della struttura psichica. In tal senso va inserito il contributo di Margaret Mahler, autrice che ha offerto un contributo alla teoria dello sviluppo, in particolar modo quello relativo agli anni preedipici. Brevemente, il percorso che il bambino compie nel raggiungimento della sua individuazione e` stato descritto suddividendolo in alcune fasi. a)

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La fase simbiotica, il cui elemento essenziale e` la fusione illusoria e onnipotente con la madre, divisibile in due stadi: uno stadio di «autismo primario fisiologico», di assoluto narcisismo primario, in cui il soddisfacimento dei propri bisogni appartiene alla sfera autistica e dunque in cui manca totalmente la consapevolezza della presenza della madre e degli stimoli esterni; e uno stadio di «simbiosi normale», nel quale inizia a definirsi una vaga consapevolezza delle fonti esterne di gratificazione. Il processo di separazione-individuazione (da 8-10 mesi fino a circa 3 anni) include una serie di sottofasi durante le quali avviene la nascita psicologica del bambino come entita` separata e autonoma. All’inizio si verifica un primo spostamento parziale dell’investimento libidico, in concomitanza con i progressi ottenuti nella sfera della motricita` che portano il bambino al di fuori della sfera simbiotica. Successivamente gli spostamenti d’investimento del bambino si fanno sempre piu` massicci con l’aumentare delle capacita` esplorative e con il maturare di funzioni dell’Io quali la motricita`, la percezione e l’apprendimento. Tuttavia questo movimento graduale di separazione e` connotato da momenti di crisi, collegati al progredire del processo di autonomia e ai conflitti di ambivalenza: e` la fase del riavvicinamento. In questa alternanza il bambino raggiunge l’acqui-

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sizione della permanenza dell’oggetto libidico che implica il raggiungimento di un’immagine materna intrapsichicamente disponibile, cioe` l’acquisizione di un’immagine interna sicura e stabile. Questo movimento di separazione-individuazione, che si compie nei primi anni di sviluppo, costituisce una dinamica di sviluppo fondamentale, che secondo alcuni autori ben interpreta e rappresenta, sebbene con connotazioni e specificita` diverse, anche il processo di sviluppo adolescenziale. L’adolescenza e` cosı` concepita come un momento centrale del processo che conduce all’autonomia ed all’autosufficienza, durante il quale l’integrazione delle immagini contraddittorie del Se´ e dell’altro permettono il raggiungimento della fase di costanza non piu` solo dell’oggetto libidico, ma anche del Se´. Questo implica la capacita` di mantenere un investimento positivo nei confronti delle figure significative e della propria immagine, nonostante le oscillazioni negative dovute alle separazioni, alle frustrazioni ed ai fallimenti e nonostante la presenza di sentimenti aggressivi e ostili. Nell’adolescenza si possono evidenziare processi assimilabili a quelli presenti nella prima fase di separazione-individuazione. La spinta alla sperimentazione e alla curiosita` si ripropone nuovamente nel campo delle relazioni nel gruppo di coetanei, cosı` come si possono assimilare molti comportamenti a quelli presenti nella fase di riavvicinamento, rintracciabili soprattutto nell’ambivalenza che caratterizza la relazione con gli adulti e soprattutto con i genitori. Si possono in sostanza rintracciare elementi progressivi che tendono al raggiungimento dell’indipendenza ed elementi negativi che esprimono bisogni di dipendenza infantile che, attraverso atteggiamenti di ostilita`, denotano la necessita` di proteggere l’Io dalla tendenza ad una passivita`, vissuta come pericolosa.

3.5. P. Blos L’Autore considera il processo adolescenziale come un momento di trasformazione che conduce

alla definizione della struttura del carattere, fondato sullo stabilirsi di rappresentazioni del Se´ e dell’oggetto piu` realistiche, su una diminuzione della rigidita` del Super-Io, su un aumento di influenza dell’ideale dell’Io e sul raggiungimento di una identita` sessuale adeguata. Blos, prendendo spunto dalle osservazioni formulate da Margaret Malher in merito alle relazioni all’interno della diade madre-bambino nei primi anni di vita, considera il processo adolescenziale, come abbiamo visto, un seconda fase del processo di separazione-individuazione. Come il bambino si distacca dalla madre attraverso un processo di internalizzazione dell’immagine di essa, allo stesso modo l’adolescente deve distaccarsi dai propri oggetti internalizzati per riuscire a rivolgersi verso oggetti esterni alla famiglia. In questa seconda fase del processo di separazione-individuazione, cosı` come in quello avvenuto nell’infanzia, si manifesta dunque l’emergenza di un cambiamento della struttura psichica consono ad una maturazione fisica in fieri. Il processo di separazione-individuazione si sviluppa lungo il corso di tutta l’adolescenza. Blos descrive l’adolescenza attraverso diverse sottofasi: —









la preadolescenza: in cui si assiste al momento di maggior aumento quantitativo della pressione pulsionale e al riattivarsi della pregenitalita`; la prima adolescenza: caratterizzata dal primato genitale e dal rigetto degli oggetti genitoriali interni; l’adolescenza propriamente detta, in cui dominano il risveglio del complesso d’Edipo ed il distacco dai primi oggetti d’amore; l’adolescenza tardiva, fase di consolidamento delle funzioni e degli interessi dell’Io e della strutturazione della rappresentazione del se´; la post-adolescenza, nel corso della quale il compito di organizzazione della personalita` deve concludersi ed essere portato a termine.

Dalla delineazione di queste fasi appare evidente che il processo adolescenziale tende sostan-

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

zialmente da un lato al distacco dall’oggetto infantile e dall’altro alla maturazione dell’Io. Ne consegue che, in uno sviluppo anormale, l’insorgenza dei disturbi psichici origina da disturbi nello sviluppo delle funzioni dell’Io, sintomatici di fissazioni pulsionali e dipendenza da oggetti infantili. Il compito tipico dell’adolescenza e` dunque la riorganizzazione interna delle istanze psichiche e dei loro rapporti che Blos ritiene attuabile attraverso momenti di adattamento basati su meccanismi e manovre difensive che in una dinamica complessiva tentano di stabilizzare alcuni tratti fondamentali del carattere. Un altro aspetto evolutivo fondamentale nello sviluppo adolescenziale e` la formazione dell’Ideale dell’Io. Secondo Blos l’Ideale dell’Io e` l’erede del processo adolescenziale, allo stesso modo in cui il Super-Io e` l’erede del complesso d’Edipo. Alla relazione edipica passiva tra genitori e figli succede la relazione intrapsichica tra Io e Ideale dell’Io che si svolge all’insegna della progettualita` e del divenire: la rinuncia all’attaccamento edipico passivo non puo` avvenire che tramite la formazione dell’Ideale dell’Io e l’integrazione con le altre istanze psichiche. A questo punto cessa la fase conflittuale ed emerge un carattere stabile che si forma quando sono superate alcune precondizioni. La prima e` il superamento, come si e` gia` detto, del processo di separazione-individuazione. La seconda precondizione e` la padronanza di stati aventi una valenza traumatica, cioe` strutturalmente e affettivamente disturbanti. Nell’adolescenza, infatti, diventa possibile l’elaborazione di risposte adeguate. La terza precondizione e` il raggiungimento di un senso di continuita` dell’Io, attraverso una revisione del passato. L’ultima precondizione implica lo stabilirsi di un’identita` sessuale, conseguenza della maturazione sessuale della puberta`. Il modo in cui queste quattro precondizioni si realizzano dara` un’impronta definitiva alla formazione della natura autonoma o difensiva del carattere. La formazione del carattere, per Blos, riflette

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dunque il livello di sviluppo personale raggiunto nella fase adolescenziale.

3.6. M. e M. E. Laufer Per questi autori il processo adolescenziale verte sostanzialmente intorno a tre compiti “evolutivi”: il cambiamento nelle relazioni con gli oggetti adulti, il cambiamento nelle relazioni con il gruppo di coetanei e, soprattutto, il cambiamento nella relazione con il proprio corpo nel contesto dello stabilirsi dell’identita` sessuale. I Laufer ritengono che la crisi che si verifica nell’adolescenza e` sempre collegata a un disturbo nel processo di stabilizzazione dell’identita` sessuale e nella relazione conflittuale che l’Io stabilisce con il proprio corpo sessuato. La patologia adolescenziale e` dunque conseguenza di un breakdown, di una rottura nella continuita` della rappresentazione del Se´. Il breakdown costituisce in altri termini una vera e propria minaccia di rottura psicotica, quasi permanente in adolescenza, che mette a rischio l’integrazione di un’immagine del corpo fisicamente maturo all’interno della rappresentazione del Se´, esprimendosi in un rifiuto inconscio del corpo sessuato. Le pulsioni aggressive si intensificano e si rivolgono contro il corpo sessuato, ma anche contro il nuovo rapporto con gli oggetti interni che la trasformazione puberale implica. In sostanza la psicopatologia adolescenziale e` sempre correlata a fattori che ostacolano l’integrazione del corpo maturo nell’immagine corporea, ed e` possibile valutarla in relazione a tre parametri: l’estensione dell’influenza del breakdown sul processo di sviluppo, la natura della distorsione del rapporto che l’adolescente ha con se stesso come persona matura, l’indebolimento del legame con la realta` esterna. In linea con queste formulazioni, si pongono le indicazioni al trattamento. Il compito principale del terapeuta deve mirare alla comprensione della causa del breakdown, al fine di rimettere in moto il processo evolutivo di integrazione del corpo sessualmente maturo, consentendo all’adolescente di rivivere la “frattura” in seno al transfert.

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3.7. H. Kohut Anche per cio` che riguarda la concezione teorica di questo autore rimando al capitolo 7, ove e` possibile trovare una trattazione esaustiva. In questa sede mi interessa proporre una chiave di lettura che si diversifica da quelle proposte, sebbene il contributo di Kohut si inserisca in una concezione globale dello sviluppo psichico piuttosto che in formulazioni specifiche relative alla fase di sviluppo adolescenziale. Come e` stato gia` chiarito nel cap. 7, Kohut sposta l’attenzione da un modello energetico basato sulla dinamica tra pulsioni e difese e ipotizza invece uno sviluppo psichico dipendente dalle relazioni che si stabiliscono tra il Se´ e gli oggetti-Se´: i fattori primari di sviluppo non sono le pulsioni, ma il Se´ e le relazioni oggettuali. Esperienze stabili di oggetto-Se´ sono i fattori costituenti del senso di integrita`, di vitalita` personale e di continuita` personale, in altri termini di realizzazione del Se´. Pur senza l’intento di dilungarmi oltre, mi sembra importante sottolineare il valore di tali formulazioni per la comprensione di dinamiche fondamentali del processo adolescenziale. Il mutare della prospettiva, che decentra l’importanza delle conflittualita` pulsionali per privilegiare il raggiungimento della coesione e dell’integrazione del Se´, consente di operare un passaggio importante: non e` la reviviscenza delle pulsioni aggressive e libidiche che minaccia l’adolescente ma, secondo Kohut, la modificazione che si verifica nell’area del Se´ grandioso e delle idealizzazioni, che suscita una potente angoscia di frammentazione del Se´ a seguito della mobilitazione dei bisogni arcaici di oggetti-Se´.

pita come transizione creativa verso la maturazione globale, transizione che puo` evidenziare anche difficolta` o conflittualita`, ma che rappresenta “normalmente” un momento importante per l’apprendimento di valori sociali e per l’acquisizione di capacita` di elaborare dinamiche psicologiche fondamentali come la separazione. Se confrontiamo le teorie sullo sviluppo psicologico dell’adolescente con quelle dello sviluppo evolutivo (Cap. 8) risalta con evidenza che gli stessi autori che propongono come “condizione di normalita`” una psicopatologia originaria del bambino considerano l’adolescenza come fase di per se´ psicopatologica.

4. Il concetto di crisi — La formazione della personalita` Rimando al cap. 8 per una trattazione piu` specifica del modello di sviluppo psichico, soffermandomi in questa sede solo sull’importanza del concetto di crisi per la formazione della personalita`. Per giungere alla puberta` il bambino deve attraversare una serie di crisi prevalentemente concentrate nei primi anni di vita, situazioni cioe` dove sono messe in discussione la struttura e la modalita` relazionale di quel momento, per una situazione maturativa piu` evoluta. Queste crisi sono tappe fondamentali innescate anche dalla maturazione biologica del bambino: l’acquisizione di nuove potenzialita` e capacita` rende infatti anacronistiche quelle precedenti. Le tappe di sviluppo fondamentali, dopo quella della nascita, sono: a)

L’adolescenza, che inizia con la puberta`, e` una fase essenziale nel ciclo vitale dell’uomo e puo` avere una durata piu` o meno lunga a causa di numerose variabili individuali e socioculturali. Per molti autori questo passaggio e` teorizzato come fonte di inevitabile turmoil (turbolenza): l’adolescenza e` sempre a rischio, o addirittura “normalmente” mostra segni di “rottura” piu` o meno transitori. Per altri autori, invece, l’adolescenza e` conce-

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Riconoscimento dell’oggetto come unico: il passaggio da un rapporto parziale ad un rap` in questa fase porto totale con l’oggetto. E che compare l’angoscia per la perdita dell’oggetto. Svezzamento: questa fase corrisponde non tanto ad un fatto materiale, quanto piuttosto al passaggio da una fase di totale dipendenza ad una di maggiore autonomia, favorita anche dalla maggiore capacita` espressiva verbale (acquisizione del linguaggio).

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f)

Fase esplorativa: la capacita` di movimento (deambulazione) permette infatti al bambino di allontanarsi attivamente dall’oggetto, ma allo stesso tempo di poterne individuare la presenza, attraverso il richiamo verbale e l’ascolto. Conoscenza del diverso: la scoperta cioe` di un essere fisicamente e psichicamente diverso, fatto che comporta l’uscita definitiva da una fase basata esclusivamente sul riconoscimento dell’uguale. Incontro con l’esterno: con una realta` non familiare e accettazione di un mondo diverso ` la situazione tipica da quello familiare. E dell’asilo. Puberta` : ultima tappa fondamentale che comporta la modificazione fisica e l’accettazione successiva di un’identita` sessuale.

Dobbiamo considerare le crisi non come un momento puntiforme, ma come una fase che puo` essere piu` o meno lunga; sono comunque fasi ove (come l’etimologia indica) ci deve essere una scelta tra la sicurezza della situazione attuale e l’avventura verso una situazione nuova e quindi sconosciuta. Quindi le crisi rappresentano momenti decisivi perche´ implicano una scelta, sulla quale influiranno vari fattori: •

• •

una situazione complessiva di sviluppo psichico: le crisi quindi non sono collegate a particolari e parziali zone erogene, ma alla intera organizzazione psichica del bambino; l’acquisizione di nuove capacita`, dovute alla maturazione biologica del bambino; l’importanza e la significativita` dell’A.S. sulla possibilita` o meno di far affrontare e superare la crisi. Per esempio l’insorgenza di specifiche e non risolte conflittualita` dell’A. S. possono paralizzare l’evoluzione nel bambino.

Come abbiamo visto, con la puberta` fenomeno biologico e l’adolescenza fenomeno prevalentemente psicologico siamo giunti all’ultima tappa fondamentale dello sviluppo. Certamente il decorso delle fasi precedenti avra` una influenza determinante, ma e` in questa

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fase che le acquisizioni o i deficit ritorneranno a galla, comportando il notevole sforzo di integrare il passato in previsione del futuro. A questo punto il giovane e` ad un bivio: come Edipo deve imboccare la strada giusta e deve superare soprattutto le eventuali identificazioni avvenute nei periodi precedenti. In questo senso possiamo distinguere una crisi adolescenziale normale, oppure una difficolta` evolutiva che puo` esprimersi con diverse modalita` psicopatologiche.

5. La crisi adolescenziale Con l’adolescenza giungono a compimento alcune dinamiche fondamentali che debbono a loro volta essere superate per una valida e creativa situazione, a cui seguira` l’ingresso a pieno titolo nella vita. Per comodita` espositiva provero` ad elencarle. a)

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Un primo nodo e` l’accettazione del proprio cambiamento corporeo, quel cambiamento corporeo che soprattutto nei primi tempi viene vissuto come disarmonico. Man mano che questa situazione evolve, il bruco diventa farfalla. Tuttavia accettare questa situazione non e` sempre facile: accettare la propria identita` sessuale vuol dire avere una valida immagine interna e vuol dire accettare la differenza. Differenza che, una volta accettata, porta al desiderio di intimita` con l’altro. La capacita` di separazione. Ho descritto brevemente cosa debba intendersi per separazione e come questa debba essere letta come una modalita` che deve essere gestita senza quelle ambivalenze o angosce che portano a “distaccare l’oggetto” ed introiettarlo, piuttosto che a separarsene (vedi cap. 8). In questa fase la separazione quindi si limita, non solo nei confronti di situazioni interne ma anche rispetto a situazioni ambientali. In fondo vuol dire accettare l’unicita` del proprio ciclo biologico, separarsi dai genitori ed essere disponibile a poter diventare eventualmente, genitore. L’adolescenza viene vissuta spesso come un

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mondo di totipotenzialita`: l’adolescente in fieri sente che puo` diventare qualsiasi cosa. Questo spiega un fenomeno molto comune, come l’attaccamento momentaneo a diversi personaggi alla moda, eroi di una sola stagione, vissuti come esseri privilegiati e fortu` ovvio che man mano che l’adolescente nati. E prosegue nella sua storia, questo mondo “alla Peter Pan” finisce con il diventare sempre piu` improponibile. A volte questo passaggio viene vissuto positivamente: come scelta sicura, come scelta di vita professionale, affettiva, sociale. E diventa anche il momento dei grandi ideali che spesso sono abbracciati in maniera totale e con completa fiducia e fedelta`. Ma e` necessario vivere ed elaborare questa perdita di totipotenzialita` come lutto. Sicuramente nelle fasi precedenti ci sono state delle identificazioni. A scanso di equivoci, mi riferisco non alle “identificazioni mimetiche” frutto di introiezione di aspetti parziali dell’altro, bensı` all’acquisizione di modelli, ideali, comportamenti di persone significative che hanno rappresentato per l’adolescente un sicuro e valido punto di riferimento. Ma l’adolescente deve soprattutto distaccarsi da probabili identificazioni genitoriali: e` il momento in cui il padre diventa l’uomo adulto che puo` essere pari, perlomeno nelle potenzialita`. Si passa cosı` da una situazione di dipendenza ad una di parita`, per giungere ad una situazione di autostima, che non dipende piu` dal giudizio degli altri. Tolleranza all’ambiguita`. Una caratteristica dell’adolescenza e` l’intolleranza verso le situazioni che non sono nettamente definite. Per l’adolescente, alla ricerca di nuovi valori, questi debbono essere assoluti ed intangibili. Il rapporto con la realta` non e` mitigato dall’esperienza della realta` che puo` invece comportare possibili accettazioni di dinamiche anche non sempre chiare e definite. Non e` tanto la difficolta` di comprenderle che mette in crisi l’adolecente, quanto la difficolta` di accettarle. Questi cambiamenti comportano inevitabilmente una modalita` diversa di rapporti interpersonali. Dalla dipendenza all’autono-

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mia, dalla coesione tra coetanei al rapporto con il diverso, dal rifiuto del diverso, a volte esagerato, alla capacita` di intimita`. Questi cambiamenti non avvengono in una volta sola, sono progressivi ed a volte sottoposti anche alla prova per tentativi ed errori, fino alla messa a punto del proprio stile. Ed infine l’assunzione di nuovi valori che formano quello che possiamo definire Io ideale. E tutto questo deve avvenire all’interno di una riflessione con la quale l’adolescente prima o poi dovra` fare i conti. Essere consapevoli che per lui esiste un solo ciclo vitale che e` quello che sta vivendo e di cui e` responsabile, ma anche che il ciclo si compie inevitabilmente all’interno di quel particolare contesto storico e culturale. Con tutte le conseguenze che ne comporta: accettare i limiti per sviluppare le potenzialita`.

6. Crisi adolescenziale e disagio psichico La crisi adolescenziale e` caratterizzata da una serie di cambiamenti complessi. Per vari motivi questi cambiamenti possono non attuarsi e trasformarsi in situazioni di malessere o di chiara patologia. Cerchero` di delineare quelle specifiche aree all’interno delle quali possono evidenziarsi specifiche problematiche, e come queste possono essere temporanee e superate o dar luogo a situazioni psicopatologiche: 6.1. 6.2. 6.3. 6.4.

Area pulsionale Vissuto corporeo Area relazionale Progettualita` e valori.

` ovvio che questa divisione e` puramente di E comodo e che le aree descritte tendono ad integrarsi complessivamente tra di loro.

6.1. Area pulsionale L’area pulsionale, se l’adolescente si trova in una situazione non eccessivamente problematica,

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riguarda fondamentalmente la gestione della sessualita`. Perche´ questa possa avvenire in modo corretto e` necessario non solo che l’adolescente riconosca ed accetti la diversita` dell’altro, ma che abbia una immagine corporea di se stesso sufficientemente accettata ed accettabile. Questo tuttavia non basta, poiche´ egli deve anche recidere gli eventuali residui narcistici e gli aspetti anaclitici dell’istinto libidico. Inoltre l’istinto di morte deve essere sufficientemente canalizzato verso situazioni interne, senza eccessive deflessioni all’esterno contro l’oggetto. Senza entrare in situazioni specifiche, le problematiche piu` frequenti sono legate: a)

b)

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ad angosce pulsionali. Se non c’e` un Io ben distinto, l’intimita` e la sessualita` possono essere vissute come perdita di questa identita`, ovviamente poco strutturata. Le angosce fusionali possono portare a specifici atteggiamenti che magari non si evidenziano come forme di conclamata patologia, come ad esempio l’ascetismo, l’intellettualizzazione e la negazione dell’esistenza del diverso. al timore di non sapere gestire eventuali valenze aggressive. Se c’e` una componente di non accettazione dell’altro, questo puo` essere visto come un nemico, e come tale l’ambivalenza tra desiderio di intimita` e tendenza ad aggredire l’oggetto, puo` portare a fantasticherie di aggressivita` che sovente esitano o in una inibizione o peggio ancora in un acting-out spesso gestito in gruppo. ai frequenti vissuti di colpa, legati alle fantasticherie aggressive oppure a valori internalizzati immutabili, come accade agli adolescenti vissuti in ambienti rigidamente religiosi.

Mi limito a queste considerazioni molto riduttive, perche´ altrimenti dovrei parlare di tutta la psicopatologia sessuale. Ma al di la` di situazioni di patologia manifesta — dall’inibizione completa al passaggio al comportamento sadico, dall’inversione omosessuale alla perversione — c’e` tutta un’area ove il disturbo si manifesta come malessere generico e

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diffuso: sono in fondo questi gli adolescenti piu` propensi a chiedere un aiuto.

6.2. Vissuto corporeo Il vissuto corporeo e` una lunga e complessa elaborazione di diversi vissuti: dalla primitiva percezione corporea, alla immagine corporea, alla immagine corporea idealizzata. Per quanto riguarda questo tema complesso, si rimanda a precedenti lavori (Lalli N. 19931997). Vale la pena tuttavia di sottolineare l’importanza di distinguere lo schema corporeo (concetto prevalentemente neurologico) dall’immagine corporea (concetto prevalentemente psicologico), tenendo presente che e` in questa area che si manifestano i disturbi piu` frequenti e significativi, collegati ad una patologia del vissuto corporeo. Il corpo viene disinvestito nell’anoressia, oppure negato nell’ascetismo o nella intellettualizzazione, o preso come “feticcio” nel narcisismo, o aggredito e distrutto nel suicidio. Accanto a queste problematiche che, una volta emerse, rappresentano una patologia grave, ancora una volta e` importante sottolineare quella vasta area adolescenziale che trova nel vissuto corporeo una problematicita` che si esprime come rifiuto del proprio corpo perche´ ritenuto brutto, o che si irrigidisce in schemi corporei idealizzati e quindi irraggiungibili (la magrezza assoluta per le donne, il corpo da atleta per il maschio) e si trasforma in vaghe fobie ipocondriache o disturbi psicosomatici che rappresentano non solo un insorgente malessere, ma anche una domanda di aiuto, sempreche´ venga data all’adolescente la possibilita` di porre una domanda.

6.3. Area relazionale ` ovvio che questa area coprirebbe sufficienE temente tutte le altre: mi soffermermero` pertanto su situazioni molto specifiche. Sicuramente le modalita` relazionali sono strettamente legate alle modalita` delle relazioni familiari.

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Conosciamo bene due modalita` di relazioni familiari: quella invischiante e quella della falsa autonomia. In ambedue i casi possiamo evidenziare un sostanziale rifiuto nei confronti del bambino e ancora piu` dell’adolescente, rifiuto che lo costringe a separazioni traumatiche con traumatici ritorni, o ad una fantasticata separazione che non avverra` mai o che avverra` solo per passaggio di consegna. La difficolta` alla separazione e` legata ad una impossibilita` di elaborazione del lutto o a sensi di colpa dovuti ad un atteggiamento fortemente invischiante dei genitori. Sappiamo che queste problematiche possono manifestarsi come limitazione nei rapporti, o per reazione avversa con tendenza ad una promiscuita` eccessiva, oppure con atteggiamenti fobici o con un blocco improvviso negli studi. Anche qui ci troviamo di fronte a comportamenti che esprimono un malessere: sono adolescenti che richiedono aiuto, anche se spesso lo fanno in modo maldestro o aggressivo.

6.4. Progettualita` e valori ` stato prima evidenziato l’atteggiamento toE tipotenziale dell’adolescente e la necessaria messa in crisi di questa dimensione. Non sempre questa operazione riesce: in questi casi ci troviamo di fronte alla “sindrome di Peter Pan”: ad un adolescente che, tutto sommato, vuole tornare bambino. Ma la problematica puo` nascere anche per la difficolta` ad abbandonare i valori acquisiti in famiglia rispetto a nuovi valori che, seppur ritenuti piu` adeguati, vengono vissuti come troppo contrastanti con quelli precedenti, determinando quindi un vissuto di tradimento o di scarsa lealta` verso l’ambiente familiare. Il conflitto puo` esprimersi anche come lotta contro l’autorita`: se i nuovi valori vengono vissuti come imposti egli rivive una situazione passata ed e` probabile che finisca con l’assumere o uno sterile atteggiamento di ribellione perenne o, per converso, una accettazione acritica di situazioni dogmatiche e una riproposizione altrettanto dogmatica.

Se la situazione di dipendenza e` eccessiva, se l’adolescente non scopre la possibilita` del “nuovo”, valori come amicizia, lealta`, liberta`, possono essere difficilmente acquisiti e rimangono parole ` evidente che c’e` una altisonanti, ma vuote. E stretta correlazione tra autostima e capacita` di assumere ed esprimere valori validi. Le situazioni sepradescritte bloccano piu` o meno completamente la progettualita`: all’incertezza del futuro si preferisce un passato conosciuto. L’identificazione ed il conformismo diventano cosı` scelte obbligate. ` evidente che mi sono limitato a discrivere E molto sommariamente, e forse riduttivamente, la complessita` del malessere e delle patologie meno gravi che l’adolescenza puo` evidenziare. Ma e` stata mia precisa intenzione proporre quelle situazioni di malessere meno evidenti e piu` nascoste, che spesso portano l’adolescente a presentare false richieste (al dietologo, all’internista, al pediatra ecc.) che, come in un gioco di specchi, tendono a potenziarsi e a prolungarsi all’infinito. Invece e` proprio a questa fascia di adolescenti che occorre fare attenzione affinche´ la crisi psicologica di crescita non si trasformi in una crisi permanente. Ma accanto al disagio psichico, che puo` essere piu` o meno gestibile, spesso la crisi adolescenziale puo` trasformarsi in una chiara patologia, dalla rottura psicotica al comportamento delinquenziale, dalla dipendenza da sostanze stupefacenti al suicidio.

7. Il suicidio nell’adolescenza L’adolescenza rappresenta una transizione delicata e complessa: e` pertanto comprensibile che questo passaggio possa comportare l’emergenza di psicopatologie diverse per natura e gravita`. Accanto a disagi psicologici piu` o meno superabili possono evidenziarsi patologie molto gravi come l’anoressia, l’ebefrenia o la tossicomania. Per queste patologie rimando ai rispettivi capitoli; in questa sede mi occupero` invece di un’altra patologia grave, non solo per l’esito spesso

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

irreversibile ma anche per l’elevata incidenza: il suicidio. I dati epidemiologici mostrano non solo che il suicidio e` al secondo posto dopo gli incidenti stradali come causa di morte, ma anche che e` in progressivo incremento. In Italia si passa dai 310 suicidi (di eta` compresa tra i 14 e i 24 anni) del 1989, ai 356 del 1992. In altre nazioni come la Norvegia e la Danimarca il tasso di suicidi si raddoppia, fino a triplicarsi in Irlanda.

7.1. Condotta suicidaria Si definisce il suicidio come una deliberata e volontaria decisione di autosoppressione; accanto a questa modalita` che e` il suicidio riuscito dobbiamo evidenziare altre condotte che, pur presentando punti in comune, si differenziano per dinamiche e finalita`: distinzione necessaria per motivi epidemiologici e psicodinamici. Alcuni autori distinguono il suicidio in due categorie: suicidio riuscito e tentativo di suicidio, finendo cosı` con l’includere nella dizione “tentativo di suicidio” (T.S.) due situazioni a mio avviso completamente diverse. Infatti un suicidio dimostrativo che esita in un decesso solo perche´ il soggetto ha sbagliato i propri calcoli viene automaticamente incluso tra i suicidi riusciti; mentre un soggetto che ha piena volonta` di togliersi la vita ma sopravvive, potremmo dire per caso, viene considerato un caso di suicidio dimostrativo. Inoltre bisogna considerare una ulteriore modalita` che e` il suicidio mascherato, situazione non sempre facilmente identificabile. Molti incidenti che avvengono con modalita` incomprensibili possono essere interpretabili come suicidi mascherati. Se sommiamo le varie modalita`, e` plausibile ritenere che il suicidio sia al primo posto tra le cause di morte nell’adolescenza. Il suicidio rappresenta la via finale comune di dinamiche psicopatologiche diverse, e questa diversita` incide sulle modalita` di attuazione. ` necessario pertanto tener distinte quattro E diverse forme : il suicidio riuscito, il suicidio mancato, il suicidio dimostrativo e quello mascherato.

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7.1.1. Suicidio riuscito

Si parla di suicidio riuscito quando il soggetto deliberatamente e volontariamente cerca di porre fine alla sua vita con modalita` tali da renderlo, perlomeno nelle intenzioni, un gesto irreversibile. Il suicidio riuscito presenta per le modalita` di attuazione una diversita` tra maschi e femmine. I ragazzi in genere utilizzano le armi da fuoco, l’impiccagione, il precipitarsi da luoghi elevati; modalita` quest’ultima presente anche nelle ragazze insieme all’annegamento, al taglio delle vene e all’intossicazione da ossido di carbonio. Non e` raro che il suicidio venga messo in atto da una coppia di adolescenti a causa di amori ritenuti impossibili o contrastati. La modalita` piu` frequente e` l’intossicazione con i gas di scarico dell’auto, lasciando il motore acceso in un luogo chiuso o in luoghi aperti con una derivazione del tubo di scappamento nell’abitacolo. Queste modalita` dimostrano la determinazione della condotta suicidaria: infatti, se il comportamento suicidario non ottiene lo scopo voluto e l’individuo si salva, cio` e` dovuto esclusivamente ad un caso fortuito. In questo caso parliamo di suicidio mancato.

7.1.2. Suicidio mancato

` piuttosto raro, perche´ in genere se la deterE minazione a morire e` molto elevata il soggetto cerca mezzi adeguati e sicuri per porre fine ai suoi giorni. Comunque un suicidio mancato comporta un’attenta osservazione del soggetto che andra` supportato a lungo, perche´ il rischio che a distanza piu` o meno breve di tempo egli tornera` a ripetere il suo gesto e` molto elevato.

7.1.3. Suicidio dimostrativo

Il suicidio dimostrativo e` la messa in atto di un gesto autolesionista, attuato per richiamare l’attenzione sul proprio malessere: e` dunque una sorta di richiamo muto e disperato nei confronti dell’ambiente familiare. Il suicidio dimostrativo e` molto piu` frequente

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nel sesso femminile: mediamente si ritiene che mentre nei maschi il rapporto tra suicidio riuscito e dimostrativo e` di 1 a 20, nelle ragazze e` di 1 a 140. Le modalita` che si riscontrano con maggiore frequenza sono: ingestione di medicinali (spesso sedativi, ma a volte anche medicinali di ogni sorta), il taglio superficiale delle vene ai polsi, una vistosa fuga di gas provocata insieme a modalita` difensive (come tenere le finestre aperte). Comunque il suicidio dimostrativo non deve essere sottovalutato quanto a pericolosita`; si e` evidenziato infatti che spesso, nel 35% dei casi, nell’arco di pochi mesi avviene un secondo o un terzo tentativo che puo` assumere sempre piu` la connotazione del suicidio riuscito. 7.1.4. Suicidio mascherato

Tutti gli autori che si sono interessati alla condotta suicidaria sono convinti che il suicidio mascherato sia estremamente frequente, anche se difficilmente dimostrabile con sicurezza. Da una parte manca infatti qualsiasi possibilita` di comprendere la motivazione, perche´ in genere purtroppo e` un suicidio riuscito, dall’altra una ricerca anamnestica risulta infruttuosa dal momento che i parenti sono restii ad accettare l’evento e tendono a negare qualsiasi eventuale problematica preesistente. La tendenza dei familiari a negare qualsiasi problematica o psicopatologia del suicida e` un evento ricorrente. Parenti e conoscenti, interrogati sullo stato psichico del suicida, affermano con convinzione che non c’era in questi alcun segno di malessere prima del gesto. Questo comportamento, che spesso sembra strano o poco sincero, ha cause complesse. Da una parte bisogna tener presente che l’aspirante suicida, soprattutto se di sesso maschile, tende a non comunicare i propri stati d’animo o i propri malesseri. Dall’altra bisogna capire che soprattutto i parenti negano eventuali problematiche perche´ l’ammissione li farebbe sentire colpevoli di non aver impedito il suicidio. Pertanto considerare come un suicidio mascherato un incidente mortale incomprensibile lascia sempre un margine di dubbio e di incertezza:

questo spiega perche´ i dati statistici siano cosı` discordanti. Si puo` parlare di suicidio mascherato quando la condotta che ha portato al decesso dell’adolescente e` dovuta a cause inspiegabili o comunque a comportamenti che risultano essere eccessivamente pericolosi. Certamente si puo` obbiettare che l’adolescente non sempre ha quel patrimonio di esperienza che gli permette di discernere il rischio “lecito” da quello potenzialmente mortale. Tuttavia un’auto lanciata a folle velocita` o che va fuori strada in assenza di qualsiasi motivo valido, una ingestione esagerata di sostanze medicamentose e di alcool, l’affrontare situazioni alle quali si e` assolutamente impreparati (come scalare una vetta difficile o affrontare il mare in condizioni proibitive) possono essere considerate condotte suicida` ovvio che questi casi andrebbero rie mascherate. E vagliati volta per volta e non sono sempre chiaramente dimostrabili: per questo il suicidio mascherato non entra nel computo statistico. 7.2. Psicodinamica del suicidio Il suicidio puo` essere meditato a lungo; a volte invece sembra essere il risultato di un gesto impulsivo. Possiamo individuare almeno sei livelli di espressione di tale comportamento: ideazione generica di voler morire, ideazione di un piano, minaccia di suicidio, attuazione di comportamenti autolesivi, suicidio dimostrativo, suicidio riuscito. Questi sei livelli possono essere presenti in maniera progressiva nello stesso soggetto: piu` frequentemente sono invece specificatamente legati alle diverse condotte suicidarie. In genere l’idea di suicidio e` piuttosto frequente nell’adolescenza: puo` essere verbalizzata o semplicemente pensata, a volte viene descritta nei diari. In genere la semplice ideazione di suicidio non presenta alcun valore predittivo; anche la minaccia di suicidio e` scarsamente indicativa rispetto ad una possibile condotta suicidaria. Molto piu` significativi sono invece i comportamenti autolesivi ripetuti, l’ideazione di un piano preciso di attuazione del suicidio e ripetuti tentativi di suicidio anche a carattere dimostrativo.

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

Nel novanta per cento dei casi il suicidio rappresenta l’ultimo atto di una sequenza di disturbi psicopatologici che a loro volta sono il risultato di un accumulo di eventi esistenziali traumatici e frustranti. Pertanto la psicopatologia (in genere stati depressivi o forme croniche di ansia) rappresenta l’anello intermedio tra eventi traumatici del passato e l’attuale tendenza a “risolvere” il malessere psichico con l’atto autolesivo. In un dieci per cento di casi, invece, e` pressoche´ impossibile enucleare una psicopatologia e dunque il comportamento sembra essere dettato da un impulso che spesso sfugge a qualsiasi possibilita` di comprensione e quindi di eventuale prevenzione. Quali sono dunque le motivazioni ultime che spiegano il suicidio? Sicuramente nel suicidio dimostrativo c’e` una richiesta impropria ed indiretta di aiuto. Le spiegazioni piu` frequentemente riportate sono il desiderio di far sapere «quanto mi sentissi solo e disperato» oppure «quanto desiderassi l’aiuto di qualcuno». Negli altri casi sembra esserci un malessere molto piu` acuto. Nei casi di soggetti sopravvissuti al tentativo di suicidio, le risposte ad un questionario indicano le seguenti motivazioni: «desideravo non soffrire piu`» (75%); «desideravo fuggire da una situazione impossibile» (71%); «non sapevo cosa altro fare» (80%); «desideravo venir fuori da un terribile stato mentale» (58%). Meno frequenti del previsto sono invece le motivazioni dettate dal desiderio di colpire un familiare o una persona che e` ritenuta essere causa del malessere: la frase «desideravo far dispiacere a qualcuno» oppure «desideravo spaventare qualcuno» e` presente infatti solo nel 20% dei casi intervistati. Certamente sarebbe utile poter disporre di segnali di prevedibilita`, soprattutto nei momenti che precedono la messa in atto del comportamento suicidario. Purtroppo, in alcuni casi, il tempo che intercorre tra l’ideazione e l’attuazione del suicidio e` ` evidente che molto breve, a volte di poche ore. E ci troviamo di fronte ad un comportamento di

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tipo impulsivo e quindi difficilmente percepibile (o prevedibile) anche dal soggetto stesso. Abbiamo visto che una delle modalita` piu` frequenti di suicidio negli adolescenti maschi e` l’utilizzo di armi da fuoco. Si e` evidenziato che nelle famiglie ove avviene questo tipo di suicidio c’e` una “cultura” delle armi da fuoco: in media ogni famiglia possiede almeno quattro pistole e uno o due fucili. Non e` facile discernere quanto questo tipo di mentalita` possa essere una causa e quanto invece l’avere a disposizione un mezzo rapido e sicuro sia determinante: probabilmente sono due concause che rivelano una sinergia mortale, soprattutto quando si tratta di un suicidio “impulsivo”. Comunque numerosi autori hanno cercato di evidenziare lo stato d’animo dell’aspirante suicida nei momenti che precedono l’attuazione. I soggetti generalmente riferiscono stati di malessere e di frustrazione legati soprattutto a conflittualita` familiari o affettive e quasi sempre un acuto senso di solitudine. Sono presenti forti sentimenti di rabbia e di aggressivita`. Questi stati di malessere sembrano andare incontro improvvisamente ad un forte incremento, fino a far ritenere al soggetto che il suicidio sia l’unica possibilita` di soluzione. Non e` infrequente pero` uno stato d’animo completamente opposto: un senso di pace, di tranquillita`, quasi di euforia. Riporto sinteticamente un caso paradigmatico in tal senso. Si tratta di una ragazza di 19 anni con una struttura di personalita` borderline che inizia a sentirsi sempre piu` depressa, isolata, inutile, fino ad arrivare alla conclusione che i problemi che la affliggono siano insolubili. Una mattina d’estate si alza all’alba: la vista del sole, del mare e l’assenza di persone le inducono un senso di calma “oceanica”, si sente a tal punto in contatto con la natura da avere il desiderio di perdersi in questa “pace”. Ritorna a casa, prende un enorme quantitativo di farmaci e si reca sulla spiaggia per ingerirli, e finche´ non perde coscienza continua a vivere questa sensazione in maniera quasi euforica. Al risveglio, dopo cinque giorni di coma, con fatica ma anche con dispiacere per essere ancora

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

“su questa terra”, racconta queste sue emozioni: «Per me non si trattava di morire, era invece una rinascita in un mondo totalmente diverso da questo». Da questi pochi accenni ci si rende conto della grande difficolta` di poter prevedere un comportamento suicidario nell’adolescente. ` necessario cercare di individuare alcuni eleE menti che sicuramente sono alla base del comportamento suicidario, anche se questo alla fine sembra avere una sua dinamica intrinseca e specifica. In circa il 90% dei casi e` sicuramente presente una psicopatologia che puo` avere inizio anche in tempi piuttosto remoti. ` molto frequente uno stato di depressione E piu` o meno prolungato, oppure uno stato di ansia associato ad attacchi di panico e comportamenti fobici. Molto importante e` la presenza di un precedente tentativo di suicidio (dimostrativo o mancato). Quasi patognomonica e` invece la presenza di gravi disturbi della condotta, la tendenza autolesionistica ripetitiva, l’abuso di sostanze tossiche, un cronico vissuto di isolamento sociale, pregressi episodi di tentativi di suicidio, decremento dell’autostima soprattutto in campo scolastico. I sintomi sopra descritti dovrebbero allertare qualsiasi operatore in merito ad un rischio di suicidio dell’adolescente.

7.4. La prevenzione ` ovvio che per questa patologia le prevenE zione assume una importanza determinante. Distinguiamo una prevenzione primaria rivolta al riconoscimento ed alla rimozione di tutti quei fattori ambientali e personali che possono essere causa di malessere psichico grave. Questo sarebbe certamente l’atteggiamento migliore da adottare, anche se e` evidente che spesso e` impossibile attuare un programma del genere che implicherebbe una campagna complessiva di salute mentale. Piu` realisticamente dunque si tende ad una prevenzione secondaria, intesa come possibilita` di individuare i soggetti che presentano un elevato

rischio di suicidio il che e` possibile evidenziando i fattori di rischio e l’indice di rischio. Fattore di rischio (FR): sono eventi o situazioni pregresse correlatii in maniera significativa alla condotta suicidaria. Indice di rischio (IR): sono situazioni o vissuti presenti nei soggetti con elevata probabilita` di mettere in atto l’ideazione suicidaria. Dall’analisi di numerosi lavori sull’argomento, si possono estrapolare gli indici ed i fattori piu` importanti e significativi: a) b) c)

d) e) f)

g) h)

i) j)

appartenenza al sesso femminile; madre molto giovane (sotto i 20 anni); difficolta` interpersonali gravi con incapacita` di stabilire rapporti e conseguenti vissuti di isolamento sociale; elevata percezione di uno stato di malessere psichico o somatico cronico; reiterati episodi depressivi; comportamento caratterizzato da atteggiamenti autolesionistici (si e` evidenziato, ad esempio, che molti adolescenti con tentativo di suicidio hanno avuto in passato numerosi incidenti e frequenti ospedalizzazioni); ideazione persistente di suicidio; insuccesso scolastico (reale o fantasmatico) con timore di giudizio negativo da parte dei genitori; abuso di medicinali o sostanze stupefacenti; puberta` precoce.

Rispetto a questi indici, un punteggio superiore a 5 (ovvero la presenza di cinque di questi fattori) porta il rischio di suicidio a circa il 65%: detto in termini piu` semplici significa che due ragazzi su tre tenteranno il suicidio. ` fondamentale tener presente questi dati E perche´ offrono la possibilita` di attuare una prevenzione secondaria. L’operatore che si trova di fronte ad una situazione del genere deve considerare che la possibilita` di un passaggio all’atto e` molto elevata e quindi che e` assolutamente necessario intervenire sul soggetto e sull’ambiente familiare e scolastico. Accanto alla prevenzione primaria e secondaria c’e` la possibilita` di una prevenzione terziaria che riguarda sia il soggetto che ha tentato il suicidio, sia il gruppo di adolescenti in contatto,

L’adolescenza: crisi psicologica o psicopatologica?

piu` o meno diretto, con il soggetto che ha messo in atto il suicidio. Infatti un suicidio, anche se mancato, provoca inevitabilmente un trauma psicologico nei compagni o comunque nell’ambiente ove il ragazzo e` conosciuto. ` abbastanza frequente che dopo un suicidio E (soprattutto se riuscito), nel gruppo di amici o conoscenti possano verificarsi episodi simili. Si e` cercato di spiegare questo fenomeno con la suggestione, o con la tendenza imitativa dell’adolescente. Studi approfonditi hanno evidenziato invece una significativa percentuale di disturbi psichici antecedenti all’esposizione di rischio. L’ipotesi piu` probabile e` che ci sia una tendenza dei giovani con problematiche psicologiche alla ricerca di un reciproco supporto attraverso l’induzione di una rete di amicizia: la morte di uno dei componenti assume il significato di perdita e di rottura della coesione del gruppo, tanto da indurre altri a imitare la condotta suicidaria. L’adolescenza e` una sfida: una sfida a se´ ` necessario che ci stessi, alla societa`, al futuro. E siano degli adulti (che siano stati adolescenti, ma che siano cresciuti sufficientemente) in grado di capire e raccogliere questa sfida. Non raccoglierla vuol dire aumentare il disagio e trasformarlo a volte in gravi patologie, ma vuol dire soprattutto perdere quell’enorme patrimonio creativo che ogni adolescente e`, e che e` in ogni adolescente.

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42 La coppia: formazione e crisi Nicola Lalli Parole chiave partner; coppia; idealizzazione; Io negativo; desiderio di immortalita`; identita`; individuo

Lo sviluppo psichico trova nell’adolescenza la fase ultima e ricapitolativa delle tappe precedenti. Subito dopo, l’avvenimento piu` significativo e` sicuramente la formazione della coppia. Importante e` capire come e perche´ si forma la coppia, quali sono le modalita` normali e quali le nascoste conflittualita` che potrebbero, piu` o meno

acutamente, comprometterne la continuita`. Sia ben chiaro che la coppia non e` ancora la formazione della famiglia, ma e` certamente una fase importante della realizzazione del ciclo vitale che puo` essere influenzata da numerosi fattori: psicologici, sociali, culturali. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali L’esistenza e la persistenza della coppia, al di la` di mode, culture, epoche storiche e fattori socio-economici, e` indice di due proposizioni fondamentali. Fondamentali nel senso che fondano il discorso. La prima e` che diventare individuo e` una condizione complessa, perche´ comporta un lungo faticoso cammino, non sempre esente da pericoli, che si snoda dalla iniziale completa dipendenza del neonato all’autonomia dell’adulto. In genere noi osserviamo o abbiamo a che fare con dividui, ovvero persone che, come indica l’etimologia, (la radice indoeuropea vidh o veid indica divisione, mancanza, da cui il termine vedova) hanno bisogno per completarsi, di un’altra persona. Cioe` il bisogno di formare una coppia. Cioe` ripetere quella situazione iniziale che e` appunto la coppia madre-bambino. Perche´ all’inizio dello sviluppo c’e` una coppia: non gia` la simbiosi. Il neonato non e` naturalmente in simbiosi con la madre, non e` appendice della madre: certo puo` essere costretto ad assumere questa posizione, ma sempre e comunque per una dinamica patologica. Proporre la simbiosi come stadio iniziale naturale, al di la` di chiare disconferme sul campo (osservazione della diade madre-neonato in situazioni normali), comporta inoltre una difficolta` epistemologica di comprendere come, quando e perche´ questa simbiosi sia superabile. La teoria della Mahler e coll. che sembrava aver superato l’impasse del narcisismo primario, in effetti propone un problema ulteriore. La seconda affermazione e` che il narcisismo primario non esiste: e` una fantasticheria di Freud originata chiaramente da una sua personale situazione difensiva, ma che ha trovato, per motivi diversi, una ampia risonanza. Quindi non esiste ne´ un narcisismo primario ne´ una simbiosi naturale. All’inizio, cioe` dalla nascita in poi, esiste la coppia. La simbiosi ed il narcisismo primario nascono da una aporia evidente: considerare la fisiologica

dipendenza-impotenza del bambino come patologia. La dipendenza del neonato non e` simbiosi; e` semplicemente una situazione psicobiologica che ha gia` in se´ la possibilita` del superamento e della separazione. E la possibilita` della separazione, come dinamica attiva e non puro meccanismo automatico di soddisfacimento del bisogno, comporta che sin dall’inizio si formi una coppia. Noi nasciamo come dividui e diventiamo individui. Diventiamo individui se riusciamo a superare il difficile ponte del desiderio: il che vuol dire presupporre che il desiderio esiste e puo` essere esaudito e non e` pura allucinazione. Narciso ed Eco sono la rappresentazione piu` emblematica dell’impossibilita` di esaudire il desiderio, ma anche la rappresentazione piu` emblematica dell’impossibilita` di formare una coppia. Il rispecchiamento mortale di Narciso evidenzia come la pregressa mancanza di un rispecchiamento umano lascia all’adolescente una sola possibilita`: il rapporto con la realta` materiale, cioe` la natura. Certo rispecchiarsi nella natura e` possibile e non e` mortale, solo se non si cerca nell’inanimato (la natura) cio` che e` mancato nel rapporto umano. Ed Eco fa da controcanto a Narciso. Eco e` la rappresentazione della simbiosi, del morso, della rabbia, della incapacita` a separarsi. Perche´ non e` possibile una separazione da un oggetto deludente: c’e` solo distacco, staccando un pezzo dell’oggetto frustrante (introiezione). Narcisismo-simbiosi rappresentano i due estremi patologici che impediscono lo strutturarsi di una coppia. Normalmente tra questi due estremi c’e` una gamma, ampia, e varia, di dinamiche che permettono invece lo strutturarsi della coppia, con maggiori o minori possibilita` di fallimento quanto piu` si avvicinano a questi due estremi.

1.1. Ma che cos’e` una coppia? J. Lemaire afferma: «la coppia e` il luogo privilegiato di espressione dell’ambivalenza del desiderio».

La coppia: formazione e crisi

In modo piu` descrittivo direi che la coppia e` l’espressione di una aggregazione affettiva tra due soggetti basata su di un progetto esistenziale, presumibilmente di lunga durata. Ho parlato di soggetti e non di soggetto-oggetto: questa non e` una pura espressione lessicale, ma veicola una differenza di fondo che esporro` successivamente.

1.2. Metodologia e studio Se e` vero che la coppia e` formata da due soggetti, e` anche vero che motivazioni consce ed inconsce portano a strutturare un campo e una situazione che presenta specifiche peculiarita`. Quando due partner formano una relazione particolarmente intensa, che mette in gioco processi fondamentali come quelli della sicurezza, del riconoscimento reciproco dell’esaudimento di bisogni e di desideri, e` ovvio che ci troviamo di fronte ad una situazione (la coppia) che non puo` essere la semplice somma delle singole dinamiche intrapsichiche. Evidente quindi che e` molto riduttivo utilizzare gli strumenti analitici classici di quella psicoanalisi che Rickman definiva come one body psychology e al cui riguardo, molto piu` chiaramente, Balint gia` nel ’38 sottolineava «la grande differenza che esiste in psicoanalisi tra una tecnica fondata sulla comunicazione e sulla relazione interpersonale e la sua teorizzazione espressa esclusivamente in termini di processi intrapsichici». Ovviamente si potra` osservare che oggi siamo ben lontani da queste posizioni, perche´ la teoria psicoanalitica si esprime prevalentemente in termini di relazioni oggettuali. Ma bisogna fare attenzione: perche´ spesso la teoria delle relazioni oggettuali e` gravata dalla pesante ipoteca della psicoanalisi classica o diventa riduttiva espressione di dinamiche a livello interpersonale. (Psicologia dell’Io). Di fronte ad un avvenimento molto comune e frequente (la formazione di una coppia) che spesso dai soggetti e` vissuta come autodeterminata, bisogna invece evidenziare il complesso delle forze (e la relativa conseguente importanza) che spiegano questa scelta.

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Pressioni sociali, culturali, condizionamenti economici, pulsioni, affetti, ruoli sociali, rapporti di potere e interessi materiali, conflitti interpersonali, pulsioni aggressive, angosce, difficolta` comunicative, ecc. La coppia e` la risultante di tutto questo e pertanto bisogna capire in che modo questi fattori concorrono alla formazione e/o alla rottura della coppia. La necessita` di osservare i processi della coppia da diversi punti di vista comporta un problema di metodo: evitare semplicistiche interpolazioni e soprattutto non confrontare dati ricavati da metodologie, teoriche e di intervento, diverse. Sicuramente molti aspetti della strutturazione della coppia sono interpretabili alla luce di una teoria psicodinamica; altri aspetti, soprattutto quando la coppia diventa famiglia, sono coglibili con la teoria sistemica (disturbi della comunicazione, spostamento del sintomo, paziente designato ecc.); ma non possiamo dimenticare che la coppia e` anche un riflesso delle strutture sociali in cui e` immersa: non puo` essere considerata isolata dall’organizzazione sociale e dalle conseguenti forze coesive o disgreganti che questa esercita sulla coppia stessa. Quando parliamo di ruoli, di rapporti di potere e di forza, di pressioni economiche e` ovvio che la lettura della coppia e` legata ad una interpretazione in chiave di psicologia sociale e di sociologia. Ed un sociologo ironicamente ha paragonato la coppia ad un ponte che, costruito per romantiche passeggiate, si pretende poi di utilizzare per far passare grossi camion da trasporto. Nelle pagine che seguono tentero` di esaminare alcune problematiche della coppia (soprattutto la dinamica della scelta del partner, e la coppia come sistema difensivo) alla luce di una teorizzazione psicodinamica che superi l’impasse sia di quella classica, sia di quella delle relazioni oggettuali.

2. La scelta del partner La scelta del partner in genere non e` mai casuale. Comunque numerose ricerche sociologiche tendono a sfatare una considerazione co-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

mune: che oggi la scelta del partner sia molto piu` libera rispetto ai matrimoni combinati del passato. Numerosi Autori sostengono invece che fattori socio-culturali ed economici impongono ancora limiti molto forti e condizionano una scelta ritenuta invece come autodeterminata. Comunque ritengo che sia possibile cercare di ritrovare motivazioni psicologiche, piu` o meno profonde, nella scelta del partner: ed e` molto probabile che le motivazioni della scelta siano molto importanti non solo per capire la genesi della coppia, ma anche i motivi di una eventuale crisi. S. Freud, nei Tre saggi sulla teoria sessuale, afferma che «... trovare l’oggetto e` semplicemente ritrovarlo». In questa visione e` evidente che l’aspetto pulsionale e` fondamentale, mentre l’oggetto viene considerato come contingente: la scelta quindi e` molto relativa, perche´ e` sempre un supporto che si cerca. Si ama la donna che nutre, si ama l’uomo che protegge. Questa posizione, pur parzialmente modificata con il riconoscimento di una scelta anche su basi narcisistiche, e` persistita a lungo nella spiegazione della scelta dei partner. ` evidente che in questo modo non si tratta E di una scelta, ma di una ripetizione, piu` o meno riuscita; ma e` evidente che una tale ripetizione comporta, a monte, un massiccio processo di identificazione che non lascia molto spazio alla ricerca. Ma a parte questo credo che il processo sia molto piu` complesso. Il partner non viene scelto solo perche´ e` simile o e` opposto alla figura parentale di riferimento. Piuttosto la scelta avviene sia sulla modalita` relazionale del bambino con l’adulto significativo, sia sulla modalita` relazionale della coppia genitoriale. E tutto questo puo` avvenire in positivo (come identificazione) o in opposizione (come ribellione). Quindi la dinamica della scelta e` complessa ed articolata, anche se possiamo affermare che e` sulla base delle relazioni parentali che si organizza (come nostalgia o come rifiuto) il riferimento che condurra` in seguito il soggetto a strut-

turare la sua personale organizzazione diadica. Ma e` evidente che perche´ la coppia si strutturi e` necessaria una reciprocita`, e di conseguenza il soggetto deve trovare un oggetto che presenti caratteristiche simmetriche o complementari. L’oggetto d’amore deve corrispondere non solo a dinamiche inconsce del passato, ma anche al presente, come possibilita` di soddisfare bisogni, desideri, costituire un rafforzamento dell’Io, soddisfare il bisogno di intimita` e di accudimento (sia passivo che attivo che si esplicita come desiderio di avere un figlio), superare le angosce e i dolori ` evidente quindi da una parte la della vita. E complessita` nella scelta del partner e dall’altra l’importanza di capirne le motivazioni profonde, soprattutto quando la coppia entra in crisi. Una attenta analisi di queste motivazioni (che e` molto simile all’analisi della domanda di un paziente che chiede una psicoterapia) comporta la possibilita` di capire la natura della crisi e quindi anche come intervenire. Sono venuti meno i presupposti della scelta originaria, oppure i meccanismi difensivi sono diventati insufficienti, oppure c’e` un fatto nuovo, una situazione nuova che destabilizza quella iniziale? O e` l’incapacita` di sopportare un avvenimento positivo o negativo (una perdita, un lutto, un problema economico) che mette in crisi la coppia? O e` invece la crescita di uno dei due che rende la coppia asimmetrica? Oppure e` semplicemente la fine di quel progetto iniziale che aveva dato luogo alla formazione della coppia? A questo proposito vorrei sottolineare che molto spesso la comparsa del terzo, all’interno di una coppia, comparsa che spesso segnala l’inizio della fine, e` dovuta propria alla caduta di una progettualita` iniziale. Leggendo il bellissimo libro di J. W. Goethe Le affinita` elettive viene da chiedersi: cosa mai induce Edoardo a invitare il capitano? Sicuramente la fine della sua progettualita` di coppia, come avverte Carlotta che e` molto perplessa e restı`a di fronte al desiderio del marito: «...diamo dunque un’occhiata alla nostra vita di oggi, al passato e riconoscerai che far venire il capitano non corrisponde pienamente ai nostri progetti, ai nostri piani, a come siano sistemati...

La coppia: formazione e crisi

Tutto questo l’ho fatto d’accordo con te, semplicemente perche´ potessimo godere indisturbati una felicita` desiderata con tanto ardore e ottenuta tardi. In tal modo abbiamo preso a vivere in campagna, io occupandomi dell’interno, tu dell’esterno e delle questioni generali. Il mio programma e` di accontentarti in tutto, a vivere solo per te...». Ma di fronte all’insistenza di Edoardo, Carlotta passa dal ragionamento alla minaccia velata: «Permetti, allora, che ti dica chiaramente — replico` Carlotta un po’ spazientita — che questa proposta urta la mia sensibilita`, che ho come un cattivo presentimento». Ma anche quando la decisione di invitare il capitano e` presa e i due ritengono opportuno inviare una lettera, Carlotta compie un gesto inconscio, ma significativo: «Carlotta dovette aggiungere, in un poscritto di suo pugno, che era d’accordo di unire a quello di lui il suo piu` amichevole invito. Scrisse con penna sciolta, in modo piacevole e cortese, pero` con una certa furia, che non aveva di solito e — cio` non le capitava spesso — finı` per fare sul foglio una macchia d’inchiostro, che la rese rabbiosa e che, mentre cercava di cancellarla, divenne invece sempre piu` grande. Edoardo ci scherzo` sopra, e siccome c’era ancora spazio, aggiunse un secondo poscritto: dalla macchia l’amico poteva intendere l’impazienza con la quale era atteso, e dalla fretta della lettera l’urgenza del suo arrivo». ` certamente il genio di Goethe che viene E prestato alla sensibilita` e capacita` intuitiva di Carlotta che sente perfettamente che questa richiesta del marito e` il segno di una noia incipiente. Dall’altro canto l’ottusita` di Edoardo risalta ancora piu` evidente dal come interpreta la macchia sulla lettera: come segno di impazienza e di desiderio per l’arrivo del capitano. Carlotta intuisce la caduta di progettualita` e di interesse da parte di Edoardo, ma non riesce a bloccare la situazione: le rimane come ultima protesta la macchia d’inchiostro sulla lettera. Come abbiamo visto, i motivi della crisi possono essere numerosi, ma e` evidente che per comprendere la vera motivazione della crisi e` necessaria una attenta considerazione di alcuni punti basilari:

a)

b)

c)

d)

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Le motivazioni alla scelta non possono essere considerate esclusivamente come regressive e ripetitive del passato. Perche´ la coppia ha una progettualita` che riguarda comunque il futuro. La crisi della coppia non puo` essere ritenuta solo come indice di insufficienza o di deficit, ma puo` esprimere invece la necessita` di rivedere, uniti o separati, le motivazioni iniziali. E spesso questo puo` comportare una evoluzione dei partner, anche a costo della rottura della coppia. La coppia deve essere vista come momento e fattore di evoluzione del ciclo esistenziale di ognuno dei soggetti: e poiche´ la coppia si forma dopo l’uscita dalla fase adolescenziale bisogna comprendere l’importanza di questa ultima crisi per lo sviluppo psichico, per poter comprendere quale dovrebbe essere la modalita` di una normale formazione della coppia. Ma bisogna anche tener presente, a fronte di una coppia ideale, che mediamente noi ci troviamo di fronte a coppie che rappresentano il luogo privilegiato dell’ambivalenza del desiderio. E quindi dobbiamo tener presente che spesso la coppia si costituisce come sistema difensivo.

E su questo ultimo punto mi soffermero` per cercare di proporre alcune configurazioni significative delle dinamiche difensive che portano alla strutturazione di una coppia che puo` anche resistere a lungo, magari per tutta la vita, ma che presenta comunque una situazione instabile e precaria oppure fondamentalmente anaffettiva.

3. La coppia come sistema difensivo

3.1. L’idealizzazione Per la coppia esistono solo due oggetti positivi, anzi nelle fasi piu` primitive, un solo oggetto che e` la coppia: tutto il resto e` cattivo e persecutorio. ` tipico della fase adolescenziale, quando l’aE dolescente non riesce a gestire la fine della totipo-

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tenzialita` e vivere il lutto per questa perdita e, soprattutto, non riuscendo a raggiungere una propria identita` la cerca attraverso una ribellione contro tutti. La scelta del partner in questi casi avviene ovviamente per bisogni simmetrici e si fonda su di un mutuo rinforzo narcisistico: l’esempio classico e`: Romeo e Giulietta. Ma non sempre questa dinamica e` cosı` distruttiva: a volte, anche se faticosamente, puo` segnalare un passaggio verso una maturazione che deve necessariamente passare per l’elaborazione del lutto adolescenziale. Molte volte invece questa modalita` diventa permanente e comporta, nel tempo, scelte del partner parziali e poco durature. Un oggetto qualsiasi viene fortemente idealizzato, salvo dopo un tempo piu` o meno breve essere visto totalmente in negativo. Anche perche´ paradossalmente in questi casi la scelta dell’oggetto cade su di un oggetto qualsiasi, cioe` privo realmente di qualita`. Maggiore e` il processo di idealizzazione, tanto piu` l’oggetto puo` essere insufficiente. Quando finira` il vissuto di onnipotenza, l’oggetto sara` vissuto nella sua reale poverta` e pertanto radicalmente rinnegato, ma soprattutto sara` accusato di tradimento perche´ non corrisponde piu` all’immagine precedente. Pertanto, in linea di massima, questi soggetti passano da un partner all’altro, in una sorta di coazione a ripetere. A volte invece l’idealizzazione non riguarda tanto il partner quanto il “progetto”: il mantenimento della coppia, la sacralita` del matrimonio ecc. In questi casi il perdurare del rapporto andra` a discapito del vissuto emotivo che sara` fortemente inibito.

3.2. Lotta contro la depressione La scelta dell’oggetto avviene sulla base di motivazioni legate all’angoscia della solitudine. ` come se alcuni soggetti si sentissero troppo E esposti e fragili per avventurarsi da soli nella vita: la coppia e` un supporto per le loro angosce. Sentono che la vita e` difficile soprattutto nel

deserto delle grandi citta`. Ovviamente non si avventurano in un impegno amoroso che sarebbe troppo carico di emozioni; pertanto essi scelgono un partner simmetrico con lo scopo di unire due angosce di solitudine, il che dovrebbe rendere piu` sopportabile la vita. A volte questa dinamica, se e` piu` articolata, sfocia in un gioco di ruoli ove si scambiano vicendevolemente i ruoli di assistenza e di oblativita` reciproca. Nei casi ove c’e` una maggiore angoscia si arriva a quelle situazioni che i francesi definiscono del “Metro`, boulo`t, dodo`” che letteralmente significa “metro`, lavoro, nanna”, che tradotto per noi italiani sarebbe “auto, ` evidente che in questo modo la lavoro, nanna”. E vita e` ridotta alla routine piu` squallida.

3.3. Lotta contro il coinvolgimento eccessivo. Paura dello scacco Molte persone vivono il coinvolgimento emotivo come estremamente pericoloso: per questo tendono fondamentalmente a distribuire fra persone diverse e differenti una sorta di legame affettivo. L’importante e` che nessuno sia preponderante o significativo. Molto spesso questi comportamenti sono razionalizzati e giustificati anche su base ideologica: in verita`, alla base di questo comportamento c’e` una profonda angoscia dello scacco, della perdita. In genere queste persone tendono a scegliere partners simmetrici con cui condividere queste parziali capacita` emotive. Non e` infrequente pero` che questo tipo di persona attragga fortemente soggetti con bisogni oblativi e trasformativi, che pretendono a tutti i costi di cambiarli. In questi casi si possono instaurare coppie portatrici di una notevole sofferenza e spesso intrappolate in una grave dinamica sadomasochistica.

3.4. La coppia senza sessualita` Coppia non infrequente, anche se difficilmente arriva alla consultazione. In genere sono molti simili a quelli descritti

La coppia: formazione e crisi

precedentemente. Non si tratta infatti di problemi di impotenza, di frigidita`. I due partner si scelgono sulla base di una comune problematica che struttura la loro relazione e che comporta spesso una grande stabilita`. Piu` o meno esplicitamente si arriva ad un mutuo accordo, una sorta di sodalizio, ove la sessualita` viene eliminata, perche´ metterebbe in gioco problematiche profonde e complesse e comunque destabilizzanti il sodalizio.

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Molto sinteticamente ho descritto alcuni dei casi piu` frequenti ove la dinamica di formazione della coppia e` chiaramente di tipo difensivo. Ma la modalita` difensiva, pur nella varieta` ed anche a volte nella relativa stabilita`, e` l’unico modo che rende possibile la formazione di una coppia? Credo proprio di no, anche se certamente e` la piu` frequente.

4. Un modello di sviluppo della coppia

3.5. L’Io negativo ` una definizione di Wynne e Richter e riE guarda soggetti che mal sopportano aspetti piu` o meno inconsci della propria personalita`, per cui scelgono un partner che presenta in maniera evidente questa carenza. Questa coppia in genere permane abbastanza stabile, fin quando ovviamente e` possibile questo gioco delle parti.

3.6. Coppia e desiderio di immortalita` Molto spesso alla base della formazione di una coppia puo` esserci un desiderio inconscio di immortalita`. La coppia e` vissuta non solo come ritorno al passato (identificazione con un genitore), ma anche come possibilita` di tornare indietro, come una sorta di annullamento del tempo in un progetto onnipotente di immortalita`. In questi casi la crisi insorge, piu` o meno rapidamente, quando o la crescita dei figli o l’invecchiamento mettono inevitabilmente i partners di fronte alla ineluttabilita` del passare del tempo e quindi alla caduta del progetto onnipotente, il che puo` comportare o una reazione depressiva o una ulteriore negazione che si manifesta con il chiudere quel rapporto e con il ricrearne un altro che dovrebbe avere le stesse caratteristiche di quello perduto. Esempio tipico e` il secondo matrimonio che avviene ad eta` avanzata con un partner molto piu` giovane. ***

Per proporre una diversa possibile modalita` dello sviluppo psichico e quindi di formazione della coppia debbo ritornare al discorso iniziale. Se simbiosi e narcisismo non esistono come stadi naturali, non bisogna fermarsi poi allo stadio teorico successivo, quello delle relazioni oggettuali, che rappresentano una parziale evoluzione rispetto alla proposizione iniziale. Dico parziale perche´ ripropongono una tematica gia` ampiamente sviluppata da Hegel e ripresa poi da Freud. Nella Fenomenologia della spirito Hegel propone il problema della conflittualita` tra autonomia e dipendenza. Il desiderio assoluto di indipendenza dell’autocoscienza si scontra con il bisogno di essere riconosciuto dall’altro. In questo incontro tra autocoscienza e l’altro, scatta il bisogno del riconoscimento e questo porta inevitabilmente alla costituzione della dinamica schiavo-padrone. L’altro non esiste per essere conosciuto e per mettersi in rapporto, ma esclusivamente utilizzato allo scopo del proprio riconoscimento. Ma se questo accade, il padrone avra` bisogno sempre di uno schiavo per essere riconosciuto come padrone e diventera` alla fine schiavo del suo schiavo. L’assolutezza della sensazione di essere uno («La mia identita` e` del tutto indipendente e coerente») e solo («Non c’e` nulla fuori di me che io non controlli») e` la base del dominio e del rapporto schiavo-padrone. In effetti il fallimento del riconoscimento della propria dipendenza e la negazione dell’altro portano al predominio ed al controllo.

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Questa visione di Hegel, anche se mitigata dal superamento dialettico, e` molto simile a quella che Freud (ed e` singolare che pochi Autori abbiano sottolineato questa corrispondenza) attribuisce al bambino onnipotente “Sua Maesta` il Bambino”. Il desiderio di ritornare all’onnipotenza originaria non cesserebbe mai di motivare l’individuo e lo porterebbe a controllare l’altro, se le barriere poste dalla civilta` non lo impedissero. Controllo onnipotente che avviene mediante dinamiche diverse: come la negazione dell’altro, il controllo puro, l’identificazione, la negazione di Se´. La vera indipendenza invece implica il mantenimento della tensione fondamentale tra queste tendenze contraddittorie: l’affermazione del Se´, il riconoscimento dell’altro. Nell’equilibrio ideale una persona e` in grado di essere ulteriormente concentrata su se stessa, oppure pienamente disponibile nei confronti dell’altro: capace di stare in solitudine o in compagnia. In una dimensione negativa, invece, una persona sente che la solitudine e` possibile solo escludendo l’altro perche´ intrusivo, la sintonia solo arrendendosi all’altro. La psicoanalisi, sia quella classica che quella delle relazioni oggettuali, non e` riuscita ad andare oltre questo ultimo schema: non e` riuscita mai ad accettare la reciprocita`, la intersoggettivita` del rapporto. Al massimo ha proposto la complementarita`. L’altro (l’oggetto) e` rappresentato come risposta, il Se´ come bisogno; l’altro e` il seno, il Se´ e` la fame. Questa complementarita` puo` essere rovesciata, ma non cambia la sostanza. Necessita` quindi di accettare una posizione ove il riconoscimento, pur nella diversita`, deve essere reciproco. Il riconoscimento e` possibile solo quando riconosciamo all’altro una pari dignita`. In questo senso possiamo affermare che questa posizione e` molto vicina alla posizione etica di Kant: l’uomo come fine e mai come mezzo. Inoltre bisogna tener presente che il riconoscimento non e` una sequenza di eventi, o un fattore una tantum, ma un fattore stabile di ogni evento o fase dello sviluppo del rapporto. La difficolta` di pensare in termini di simultaneita` invece che in termini sequenziali spiega una

delle difficolta` di comprendere l’intersoggettivita` che e` appunto una dinamica simultanea. Partendo dalla proposizione di una base istintuale duale che si estrinseca come capacita` di cercare l’oggetto e di separarsene, alla luce di una visione intersoggettiva del rapporto ed alla luce di uno sviluppo che si manifesta per crisi successive, possiamo trovare gli elementi per una teoria che proponga una modalita` normale di formazione della coppia. Intanto preciso che la coppia adulta si forma dopo il superamento dell’adolescenza, l’ultima fondamentale crisi che permette al bambino di diventare adulto. La crisi adolescenziale comporta non solo l’acquisizione di una precisa identita` sessuale ma anche una perdita: quella totipotenzialita` che e` tipica dell’adolescente. Quando l’adolescente avra` superato questo suo lutto – e questo sara` possibile tanto piu` quanto piu` e` stato valido il processo evolutivo precedente – quando avra` acquisito una propria specifica identita`, allora potra` volgersi a trovare un diverso che non e` un oggetto di potere, piacere, dominio ecc., ma un soggetto con cui condividere un progetto che non sia di mutua assistenza o puramente difensivo, ma possa essere di crescita e di sviluppo. Momento particolare del ciclo vitale che trova nella formazione della coppia, sicuramente, uno dei momenti piu` alti, prima di iniziare la lenta discesa della maturita`. Una maturita` che puo` essere vista anche come capacita` di passare da una fase di dividuo a quella di individuo.

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La coppia: formazione e crisi

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43 Le famiglie separate: problematiche e interventi Silvia Mazzoni Parole chiave separazione; divorzio; copione; de´mariage; conflitto costruttivo; attaccamento; triadificazione; cogenitorialita`; famiglie ricomposte; consulenza familiare; mediazione familiare (M.F.)

La formazione della coppia e l’eventuale progettualita` di costituirsi come famiglia rappresentano, nel ciclo vitale dell’individuo, uno dei momenti piu` importanti che si snoda in una serie di fasi, piu` o meno significative, che possono essere destabilizzanti. Di qui la necessita` di una continua “negoziazione” nella coppia, per mantenere la stabilita` nella pur necessaria evoluzione. Ma non sempre questo accade, come dimostrano i piu` recenti dati ISTAT: un matrimonio su sei termina con una separazione. Statistiche in difetto se si tiene conto che molte separazioni di fatto non arrivano a quella legale, e che pertanto sfuggono alle rilevazioni. Sicuramente ci troviamo di fronte ad una situazione molto diversa rispetto a quella di qualche decennio fa: una grande mobilita` che porta non solo alle separazioni, ma anche a un fenomeno nuovo, perlomeno per l’ampiezza, che sono le famiglie ricomposte.

Comunque una separazione, per quanto utile e necessaria in molti casi, e` pur sempre la rottura di un legame che puo` — come sottolinea l’autrice — comportare un vissuto di lutto, nel migliore dei casi, oppure una lunga battaglia emotiva e procedurale. Pertanto e` necessario che figure competenti aiutino le coppie in questa difficile transizione: la mediazione familiare rappresenta una delle modalita` operative piu` significative, che pero` non deve essere confusa con la psicoterapia della coppia. La mediazione familiare, pur mutuando alcuni concetti teorici ed operativi della terapia sistemicorelazionale, presenta un suo statuto teorico ed operativo ben definito, come verra` descritto nel seguente capitolo. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al capitolo «La coppia: formazione e crisi» e al capitolo «La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica». * * *

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1. Il processo dinamico della separazione «Medici di famiglia, sacerdoti e laici sensibili a questi problemi sono sempre stati consapevoli del fatto che vi sono poche disgrazie per lo spirito umano grandi come la perdita di una persona vicina e cara. La saggezza popolare sa che possiamo essere annientati dal dolore e morire di crepacuore, e anche che un amante abbandonato puo` compiere gesti folli e pericolosi per se´ e per gli altri» (Bowlby J., 1982 p. 71). Ci occuperemo in questo capitolo degli effetti sul comportamento e sulle relazioni familiari di una delle forme di “distruzione dei legami affettivi” nella famiglia: la separazione e il divorzio. ` indispensabile tuttavia una premessa che E spieghi perche´ ormai molti professionisti impegnati nell’area della salute mentale sono chiamati a fornire aiuto ad adulti e bambini che si confrontano con la separazione dei coniugi o delle coppie di fatto. La separazione tra uomo e donna non e` infatti di per se´ un sintomo della presenza di situazioni psicopatologiche a carico degli individui o della coppia e non dovrebbe provocare necessariamente sintomi di interesse della psicopatologia. In alcuni casi, addirittura, essa puo` essere correttamente considerata come un’evoluzione verso la salute mentale da parte di quanti avevano formato la propria coppia in base al bisogno di compensare difficolta` psicologiche individuali, scoprendo solo attraverso il processo di maturazione di poter fare una scelta migliore per se´, per l’altro e per i figli stessi che non traggono alcun beneficio da un’unione forzata perche´ non piu` funzionale al benessere degli individui. Con cio` non si deve negare, tuttavia, che la separazione e il divorzio comportano quasi sempre il timore della perdita di figure di riferimento affettive significative e a volte la loro perdita reale e quindi l’esperienza di emozioni intense di dolore o di collera (Bowlby J., 1979) e quella di un forte stress dovuto alla disorganizzazione di quella rete di relazioni significative in cui si e` articolata la propria storia personale (Scabini E., 1995). La separazione e il divorzio, dal punto di vista sociologico, indicano un cambiamento rilevante di quelle societa` in cui viene privilegiato l’inte-

resse per il benessere dell’individuo rispetto a quello della famiglia come istituzione e della societa` nel suo insieme. La famiglia non e` piu` da salvaguardare anche a costo del sacrificio individuale; al contrario, il gruppo familiare deve essere il contesto relazionale che favorisce il benessere degli individui, e se questo non accade e` prevista la possibilita` di sciogliere il contratto matrimoniale ed eventualmente ricostituire altri nuclei familiari. Vista in tal modo, la separazione tra uomo e donna puo` essere considerata una forma di “terapia” cui si ricorre per rispondere al disagio vissuto nella relazione se non sono state individuate soluzioni migliori. La sociologa francese Ire`ne The´ry definisce questa fase storica come quella del de´mariage (de-matrimonio) caratterizzata dal fatto che i rapporti uomo-donna implicano una continua “negoziazione” nella quale in alcuni casi entra in causa anche la giustizia (The´ry I., 1995). Per dare il senso di tale cambiamento, l’autrice si riferisce ad un interessante studio del filosofo Stanley Cavell (1981), sulla trasformazione dell’ideale del matrimonio nella cultura occidentale contemporanea, effettuato analizzando i copioni della cinematografia hollywoodiana. Mentre prima della fase del de´mariage il matrimonio rappresentava il lieto fine della storia, nella fase contemporanea vengono sempre piu` spesso rappresentate storie in cui il matrimonio e` l’inizio di un’avventura che fara` confrontare gli attori con mille ostacoli. Il matrimonio riuscito viene a definirsi dunque come «un itinerario che, per essere convalidato, passa per l’apprendistato del rischio della rottura considerata come inerente a cio` che fornisce all’unione il suo interesse e la sua nobilta`...: una conversazione ininterrotta tra due interlocutori ugualmente liberi» (The´ry I., 1995). Tale visione sociologica indica una tendenza, definisce il contesto storico e sociale in cui le coppie contemporanee si trovano ad affrontare la separazione e il divorzio, indica che tali eventi dovrebbero sempre piu` esser considerati “normali”, ma non prende in considerazione la situazione di coloro che ancora oggi possono far riferimento a comunita` culturali che non si adeguano alle tendenze generali (pensiamo solo alla concezione religiosa del matrimonio). Soprattutto in Italia,

Le famiglie separate: problematiche e interventi

dove i recenti dati ISTAT indicano che un matrimonio ogni sei finisce con la separazione e che le separazioni e i divorzi sono in costante aumento, esistono ancora molte famiglie in cui si manifesta una resistenza di tipo culturale e anche le giovani generazioni hanno difficolta` ad interpretare ruoli diversi da quelli appresi nel contesto delle famiglie d’origine, in cui il matrimonio veniva considerato indissolubile ed una sua rottura vissuta come un evento imprevedibile e quindi particolarmente stressante dal punto di vista psicologico. Se il matrimonio riuscito e` quello in cui le continue negoziazioni hanno esito soddisfacente, perche´ producono cambiamenti in cui i singoli individui vedono una risposta ai propri bisogni e desideri, e` utile far riferimento ai contributi concettuali e metodologici sul conflitto coniugale (Deutsch M. 1973; Raush H.L., Barry W.A., Hertel R.K., Swain M.A., 1974) forniti prevalentemente dalla psicologia sociale. Esso viene considerato infatti elemento costitutivo e vitale della relazione di coppia, in cui due individui differenziati hanno appunto il compito di confrontare le diversita` e trovare punti di integrazione. Da questo punto di vista, una relazione senza conflitto e` impensabile se non a costo dell’annullamento delle differenze e dunque dell’individualita` stessa che provoca lo stallo della relazione intorno a regole rigide e alla ripetitivita` delle interazioni. Cio` che interessa, dunque, valutare e` la tendenza della coppia a favorire percorsi del conflitto di tipo costruttivo o distruttivo (Deutsch M., 1973) in base alla prevalenza nella relazione di strategie collaborative nel primo percorso o competitive nel secondo. La separazione coniugale non e` sempre l’esito di un percorso conflittuale distruttivo, anzi, spesso la competizione spinge i partner ad essere disposti ad impegnarsi nel conflitto, pagando anche prezzi elevati, e a non abbandonare il campo. Come si vedra` in seguito, i diversi tipi di conflitto sono presenti anche nella dinamica della coppia che ha deciso di separarsi e influiscono nel determinare modalita` diverse di affrontare la negoziazione degli accordi implicita nella riorganizzazione della famiglia che si separa. Nell’ottica della psicodinamica dello sviluppo individuale e delle relazioni familiari, nonostante il processo socioculturale di normalizzazione

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della separazione e del divorzio, possono evidenziarsi difficolta` psicologiche di adattamento del bambino e degli adulti piu` o meno gravi che devono essere analizzate ogni volta facendo riferimento a diversi fattori quali le motivazioni dell’incontro fra l’uomo e la donna (il patto iniziale tra i partner), la storia della coppia, i livelli di attaccamento reciproco che hanno favorito o meno la valorizzazione di esplorazioni individuali al di fuori della famiglia e gli eventi di fronte ai quali gli individui si sono trovati impotenti nella ricerca di soluzioni efficaci alla salvaguardia dell’unione. Accade cosı` che molte persone reagiscano alla separazione con modalita` che vanno al di la` della normale sofferenza per le diverse perdite che e` necessario accettare. Ansia, angoscia, depressione, sintomi psicosomatici, deliri persecutori, sono solo alcune delle forme attraverso le quali puo` essere denunciata l’incapacita` di elaborazione e di riorganizzazione di fronte alla richiesta di cambiamento che la separazione comporta. Molto piu` spesso il sintomo che emerge e si stabilizza e` quello della conflittualita` in cui dominano sentimenti di collera e rancore espressi attraverso comportamenti a finalita` distruttiva non solo verso il proprio “nemico”, ma anche verso se stessi e verso i figli. Gli adulti, che dovrebbero essere particolarmente competenti per aiutare se stessi e i figli ad affrontare con successo nuovi compiti di sviluppo, possono mostrarsi fragili e bisognosi d’aiuto e favorire inversioni della gerarchia generazionale per la quale bambini anche molto piccoli si sentono chiamati a proteggere e sostenere il genitore riconosciuto come piu` debole. I tempi dell’elaborazione si allungano, e a volte possono stabilizzarsi situazioni relazionali che bloccano il normale sviluppo sia degli adulti che dei bambini o degli adolescenti. Tenendo conto dell’esperienza dei terapeuti familiari che hanno individuato le linee di un modello terapeutico definito ‘‘terapia del divorzio’’ (Everett C.E., Volgy S.S., 1981), si deve essere consapevoli che l’esperienza della separazione e del divorzio puo` provocare problematiche cliniche di un certo rilievo a livello multigenerazionale del sistema familiare e che essa «rappresenta l’evento evolutivo forse piu` traumatico e di

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vasta portata nell’esperienza umana» (p. 482). Cio` nonostante non sono ancora chiari i risultati della ricerca che consentano di definire diversi modelli di interazione familiare e di stabilire quali problematiche cliniche siano strettamente collegate al processo dinamico attivato dalla separazione della coppia e quale sia «piuttosto una sindrome fondata su precondizioni endogene che l’esperienza del divorzio ha soltanto esacerbato» (p. 480). Rispetto ai rischi che abbiamo citato, diviene necessaria una conoscenza del processo dinamico di elaborazione della separazione che consenta di valutare in ciascun caso l’opportunita` di suggerire forme di aiuto diverse, a livello preventivo e/o terapeutico, per quelle coppie e famiglie che non dispongono delle risorse psicologiche e relazionali e delle competenze necessarie ad affrontare con successo i compiti di sviluppo che la separazione comporta. Parlare di separazione in termini di processo e non di evento puntuale (Scabini E., 1995) implica il riferimento ad un’ottica che restituisce all’evento il suo carattere storico e dunque la consapevolezza di una interconnessione di eventi che si sono articolati nel passato, si articolano nel presente e si articoleranno nel futuro delle persone che la sperimentano. Il divorzio verra` dunque qui definito come «un evento della storia evolutiva della famiglia che si esprime nella forma di una crisi di transizione della vita, capace di generare conseguenze acute e/o croniche suscettibili di avere influenza sui singoli membri, sul sistema intergenerazionale e sulla rete sociale esterna, e persino sui membri non ancora nati ` cioe` un dell’ultima generazione della famiglia. E evento che produce una riorganizzazione di enorme ampiezza del sistema familiare nel suo complesso». (Everett C.E., Volgy S.S., 1981, p. 483). Coerentemente con quest’ottica, non prenderemo in esame solo le fasi del processo di elaborazione della separazione che si susseguono dalla crisi della coppia al divorzio psichico (Bohannan P., 1970), ma anche quelle successive (che possono verificarsi o meno nelle famiglie separate) che comprendono anche la possibilita` di nuovi matrimoni e quindi un processo di ricomposizione familiare.

2. Il ciclo evolutivo della famiglia separata Parlare di processo di elaborazione implica il riferimento ad un ciclo evolutivo che si avvia con l’evento della crisi nel rapporto di coppia e la decisione di separarsi discussa tra i partner e a volte con gli esperti (avvocati, consulenti etc.) e che procede attraverso diverse fasi segnate da altri eventi quali l’uscita da casa di uno dei partner, il rito dell’udienza in Tribunale concretizzato nella sentenza, l’eventuale incontro con nuovi partner, l’inizio di nuove convivenze, la celebrazione di nuovi matrimoni, la nascita di figli dalle nuove unioni. Si tratta dunque di una nuova storia familiare suddivisa in fasi durante le quali gli individui devono riorganizzarsi sia in termini emotivi che cognitivi. Tale rappresentazione non e` usuale ne´ scontata. Si puo` ipotizzare che coloro che riescono a pensare la separazione in questi termini siano gia` ben predisposti a trovare le risorse necessarie per affrontare i diversi cambiamenti con successo perche´ esiste un riferimento al futuro e dunque la consapevolezza sui tempi necessari al cambiamento. Per coloro che non riescono a concepire la separazione e il divorzio in questi termini, al contrario, il passato e il presente sono gli unici tempi considerati e dunque la sofferenza, espressa con diversi tipi di affetti, l’unica possibilita`. La conoscenza del ciclo evolutivo delle coppie e delle famiglie separate con successo e` il primo obiettivo da raggiungere nella formazione di coloro che possono essere interpellati per una richiesta di aiuto. In generale e` infatti necessario aiutare le persone rassicurandole sulla transitorieta` dello stato di sofferenza. Puo` essere utile il paragone, in campo medico, con una situazione in cui una persona chiede aiuto perche´ ha la febbre molto alta e un forte dolore all’addome: a seconda del caso, il medico potrebbe mostrarsi pensieroso, preoccupato, prescrivere indagini piu` o meno dolorose e intrusive, magari un ricovero; se invece diagnosticasse la presenza di un virus influenzale potrebbe rassicurare il paziente dicendogli che, assumendo alcuni farmaci e magari rispettando una dieta alimentare, la febbre calera`, il dolore passera` e tutto sara` finito in circa tre

Le famiglie separate: problematiche e interventi

` giorni e con una settimana di convalescenza. E evidente che le reazioni dei due pazienti e la loro possibilita` di accedere alle risorse necessarie per collaborare nella cura e nel processo di guarigione saranno molto diverse. Non si tratta dunque di sottovalutare i sintomi che possono collegarsi all’esperienza della separazione, bensı` di poterli connettere in termini di significato ad un processo “tipico” nel contesto definito da tale evento. Vedremo in seguito, nei paragrafi dedicati agli interventi, alcune situazioni che non rientrano nella tipicita` del processo dinamico della separazione e del divorzio e che rappresentano situazioni di grave rischio per i bambini e per gli adulti.

2.1. La separazione: dalla decisione alla riequilibrazione attraverso la fase legale

2.1.1. Fase decisionale

Il processo decisionale rappresenta la fase piu` impegnativa per molte coppie che si separano. Per poter decidere e` infatti necessario che si sviluppi una alienazione (Kaslow F.W., 1991), un senso di estraneita`, da cio` che precedentemente veniva percepito come appartenente all’esperienza del proprio Se´. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il distacco emotivo e la delusione rispetto alle aspettative non vengono percepiti verso l’insieme delle componenti di una relazione, ma solo verso parti di essa. Accade cosı` di distaccarsi affettivamente dall’altro come persona e non dal progetto che si era fatto insieme (Lalli N., 1997) oppure dall’altro come partner sessuale e non come partner affettivo o sociale oppure ancora dal progetto e non dall’altro come persona significativa in termini affettivi e/o sessuali etc. Decidere di separarsi dunque comporta sempre una rinuncia verso qualcosa o qualcuno che rappresenta ancora una fonte di sicurezza. Byng Hall (1995), facendo riferimento alla teoria dell’attaccamento e al modello delle relazioni familiari basato sul principio per cui ogni membro della famiglia apprende a muoversi sulla base di

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una serie di copioni (script) che definiscono ruoli e modalita` di interazione, ha ipotizzato l’esistenza in ogni famiglia di uno script di attaccamento. Nella famiglia si definiscono diversi pattern di attaccamento a livello della coppia (Carli L., 1995) e a livello del rapporto genitore/figlio ed esiste un’influenza reciproca tra le diverse relazioni di attaccamento (Ammaniti M., Stern D., 1996). In quest’ottica si puo` ipotizzare che la famiglia nel suo insieme possa rappresentare per gli individui una base sicura: «Una famiglia che fornisce una rete affidabile di relazioni di attaccamento che consentono a tutti i componenti e a qualsiasi eta` di sentirsi abbastanza sicuri da spingersi a esplorare le relazioni che vi sono tra di loro e quelle che hanno instaurato all’esterno della famiglia» (Byng Hall J., 1995). L’identificazione negli script familiari fa parte del processo di definizione della propria identita` e le relazioni familiari rappresentano il contesto in cui si sviluppa la percezione del Se´ come entita` distinta da tutte le altre, la sensazione di continuita` e costanza rispetto al variare delle situazioni, la modalita` con cui gli altri confermano, rifiutano, disconfermano la propria identita`. Dunque la separazione e la disorganizzazione delle relazioni familiari possono produrre un senso di perdita che intacca la propria sicurezza personale e la percezione della propria identita` e provoca la necessita` di affrontare un processo di lutto anche per la perdita del vecchio script familiare. Si possono cosı` definire, secondo Byng Hall (1995) differenti percorsi nel processo dinamico della separazione in base allo stile familiare preesistente. Nella famiglia ‘‘base sicura’’ si affrontano le difficolta` e si esplorano nuove soluzioni sostenendosi reciprocamente nel dolore; nella famiglia ‘‘evitante/disimpegnata’’ si tende a negare le difficolta` e i sentimenti di dolore e non ci si impegna nel sostegno; nella famiglia ‘‘ambivalente/invischiata’’ si assiste ad un aumento dell’ansia e della preoccupazione e a difficolta` di accettare la perdita. Molto spesso la fase decisionale puo` impegnare tempi lunghissimi e sono molti ad affermare di aver operato un distacco importante,

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

maturando la decisione di separarsi dal coniuge, ma di aver fatto compromessi per mantenere un certo equilibrio per anni (otto, dieci, quattordici). La motivazione piu` frequente, a livello esplicito, e` quella di non poter alienarsi dal progetto familiare e quindi dai figli, e le coppie sono disposte a vivere una sorta di “separazione in casa” operando progressivamente il distacco necessario a decidere definitivamente per la separazione, ma piu` spesso aspettando la separazione dei figli quando raggiungono almeno la maggiore eta`. I figli non sono solo, ovviamente, il simbolo del progetto familiare. Sono persone con le quali l’uomo e la donna definiscono legami di attaccamento indispensabili allo svolgimento della funzione genitoriale, ma anche a fornire agli adulti stessi un senso di sicurezza affettiva. Puo` dunque risultare intollerabile il timore della perdita di questi legami soprattutto per gli uomini che sono consapevoli di poter essere esclusi dai legami familiari da quelle donne che ancor oggi sono figure privilegiate dal punto di vista genitoriale. Fin qui abbiamo preso in esame le difficolta` decisionali da parte di chi attivamente avvia un processo di distacco che prelude ad una separazione ed abbiamo evidenziato il problema della perdita che puo` ostacolare la decisione. Nel caso di coloro che subiscono la separazione perche´ voluta dal partner, la situazione assomiglia spesso, dal punto di vista psicologico, a quella del lutto provocato dalla morte inaspettata di una persona cara. Si tratta di situazioni in cui nella coppia ha prevalso il bisogno di protezione e il diniego rispetto ai conflitti, alle differenze e ai disagi relazionali nel tentativo di salvaguardare il mito d’armonia. La decisione di separarsi arriva da parte di uno dei partner “come un fulmine a ciel sereno” e spesso e` possibile e/o necessario attribuire ad una terza figura (il/la rovina-famiglie) la responsabilita` dell’evento. Una situazione simile si verifica per i figli che solo in alcuni casi possono partecipare alla crisi di coppia fino al punto di suggerire loro stessi ai genitori di decidere per la separazione, ma che piu` di frequente devono invece subire tale decisione. Anche i figli potrebbero trovarsi impreparati e percepire la notizia, soprattutto se mal fornita, come totalmente inaspettata.

Il conflitto in questa fase e` solitamente centrato sul tema della responsabilita` del fallimento dell’unione e quindi direttamente proporzionale alla difficolta` di operare il distacco affettivo e alla necessita` di convertire il senso di inadeguatezza spostando sull’altro la “colpa” di non aver saputo affrontare gli ostacoli salvando l’unione. Come vedremo in seguito, tuttavia, una conflittualita` intensa in questa fase e` funzionale a rimandare la decisione vera e propria anche quando si verificano allontanamenti fisici provocati dalla eccessiva litigiosita`. Il processo decisionale richiede la capacita` di valutare, uscendo dall’ambivalenza e dall’inconsapevolezza, l’esistenza o meno di risorse per operare un cambiamento che consenta di riconfermare l’unione della coppia perche´ di nuovo soddisfacente. Quando si e` consapevoli dell’impossibilita` di cambiare le regole della relazione, si diviene anche piu` sicuri dell’opportunita` di una scelta che, per quanto dolorosa, potra` aprire nuove opportunita` di benessere. Per effettuare questa valutazione, una risorsa importante e` quella che Byng Hall ha definito consapevolezza interazionale, che a) consente all’individuo di effettuare il monitoraggio di cio` che accade mentre i membri della coppia o della famiglia interagiscono; b) e` parte essenziale del meccanismo di feedback positivo e negativo durante l’interazione e c) e` un fenomeno di gruppo che, in caso di adeguatezza, produce una percezione coerente condivisa (Byng Hall J. 1995). Essa comprende la consapevolezza delle conseguenze dell’interazione, la consapevolezza di se´ e dell’altro (empatia) e quella del significato delle interazioni. Per quanto riguarda l’attribuzione di significato alle interazioni e ai diversi contesti esiste una gerarchia di riferimenti (e di condizionamenti) che vede al primo posto la mitologia culturale, seguita dai miti e dalle leggende familiari che si riferiscono prevalentemente all’esperienza vissuta nelle proprie famiglie d’origine, gli script familiari che rappresentano le aspettative condivise dalla coppia e dalla famiglia di come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti, per arrivare all’episodio o scenario e all’atto comunicativo che fanno parte o meno dell’esperienza gia` vissuta dalla persona.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

Inutile sottolineare che tali livelli di consapevolezza e di competenza relazionale sono presumibilmente rari e che le persone, travolte dagli affetti, si lasciano trasportare spesso dagli eventi reagendo ad essi e riservandosi magari solo a posteriori di comprendere cio` che e` accaduto. Alcune coppie riescono a discutere tra loro i motivi della crisi e ad effettuare insieme, anche solo per tentativi ed errori, la valutazione delle loro risorse per giungere ad una decisione triste, ma consensuale, di separarsi. In queste situazioni i partner riescono anche ad essere consapevoli della necessita` di lavorare insieme per comunicare ai figli la loro decisione rassicurandoli rispetto al possibile timore di perdere legami che invece devono essere mantenuti seppure in un’organizzazione familiare diversa dalla precedente. Tenendo conto delle fasi del processo psichico di elaborazione della separazione coniugale (Kaslow F.W., 1991), risulta evidente dalle storie di chi decide di separarsi che il consigliarsi con i parenti e gli amici e` una delle prime azioni che si presentano con una certa frequenza nella fase decisionale. Per molte coppie cio` puo` essere addirittura utile ad attenuare la tensione e ad individuare il percorso piu` adatto per affrontare la crisi o per avviare una buona separazione. Uscire dall’intimita` della coppia, raccontando ad altri cio` che accade tra marito e moglie, serve in questi casi ad acquisire nuove descrizioni e punti di vista rispetto a quelli forniti dai membri della coppia. Non e` raro che parenti e amici sappiano svolgere una funzione “terapeutica” per la coppia in crisi. Per altre coppie, invece, in questa fase si avviano processi extrasistemici (extra rispetto al sistema definito dalla coppia) che influenzeranno negativamente la possibilita` di definire un percorso costruttivo del conflitto nella fase successiva a quella decisionale. Si stabiliscono infatti delle alleanze o delle vere e proprie coalizioni all’interno delle quali ciascun membro della coppia si impegna a rispondere ad “obblighi e controrichieste” e l’eventuale accordo con il partner, anche volto alla separazione, puo` essere percepito dai parenti e dagli amici intimi come un tradimento. In alcuni casi sono i figli a partecipare ad alleanze e coalizioni con uno dei genitori

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oppure ad assumere ruoli equidistanti nel tentativo di fornire un aiuto alla coppia. Everett e Volgy definiscono questa fase facendo riferimento al processo di ‘‘deconnessione strutturale’’ che la caratterizza: come all’inizio la famiglia si era formata sulla base di un processo di connessione strutturale in cui «componenti separate di un sistema in evoluzione si sviluppano in unita` organizzative» (Everett C.E., Volgy S.S., 1981; p. 483), cosı` nella fase decisionale della separazione e` necessaria una deconnessione che avvia nell’immediato un processo di connessione di nuove reti di relazioni significative che sostituiscano quelle che si stanno perdendo. Al momento dell’uscita dall’ambivalenza e della decisione vera e propria sembrerebbero apparire, nella maggior parte dei casi in forma di fantasia, i presupposti per quella che sara` la fase finale caratterizzata da una riconnessione strutturale che prevede l’integrazione in una nuova unita` organizzativa dei componenti della prima famiglia con nuove figure (partner, nuovi parenti, figli). Dal punto di vista emotivo l’ostacolo principale in questa fase e` l’ambivalenza e sembrerebbe necessario, per affrontare con successo il compito centrale di raggiungere l’obiettivo della decisione per uscire dall’instabilita`, che le persone abbiano raggiunto un buon livello di individuazione (sia nella famiglia d’origine che nella coppia) e che siano capaci di consapevolezza interazionale per poter partecipare attivamente alla decisione dopo una valutazione delle possibilita` eventuali di superare in altro modo la crisi. Cio` sembra favorire il contenimento degli affetti che si connettono al timore della perdita e la loro elaborazione affinche´ sia possibile procedere nelle successive fasi del processo evolutivo nella consapevolezza che la “distruzione dei legami affettivi” puo` essere invece ridefinita in termini di cambiamento di tali legami salvaguardandone la continuita`.

2.1.2. Fase conflittuale

Alla decisione segue la fase definita conflittuale o legale durante la quale emerge la necessita` di riorganizzarsi concretamente nel rispetto della separazione tra i partner e delle diverse esigenze

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

connesse con il cambiamento. Che si ricorra o meno all’avvocato, il conflitto tende a riferirsi al diritto e a questioni di interesse impliciti nel momento in cui si deve sciogliere un contratto. Emergono in questa fase diverse tendenze che possono collocarsi fra due poli opposti: quello in cui si nega la separazione e si cerca di mantenere quanto piu` possibile le condizioni precedenti limitando al minimo i cambiamenti (siamo sempre la stessa famiglia, manteniamo un unico conto in banca...) e quello in cui si compete affinche´ ogni vincolo venga dissolto e ciascun individuo ottenga il massimo beneficio nella contrattazione. Dal punto di vista emotivo, i sentimenti prevalenti mal si adatterebbero al compito di riorganizzare la propria vita in senso concreto dovendo ` effettuare programmi, preventivi, conteggi etc. E questa la fase, infatti, nella quale il senso della perdita diviene piu` intenso e al timore si sostituisce la certezza che molti riferimenti verranno a mancare. Alla depressione puo` seguire la collera, alla disperazione e all’autocompatimento si puo` alternare il furore o la confusione. Ogni piccola o grande decisione rappresenta un input per reazioni emotive contrastanti. Gli accordi immediati riguardano il cambiamento di abitazione di uno dei coniugi, la comunicazione ai figli della decisione dei genitori, gli accordi provvisori affinche´ il genitore che esce di casa continui a frequentare i figli, gli accordi provvisori per il mantenimento dei figli ed eventualmente dell’ex-coniuge. Tutti questi accordi dovrebbero essere sperimentati e resi definitivi in un piano complessivo che rappresenta la base per la sentenza di separazione in sede legale. Dal momento dell’uscita di casa di uno dei due coniugi, si definiscono due nuclei familiari di cui uno chiamato monogenitoriale in base alla convivenza o all’affidamento esclusivo dei figli ad ` bene sottolineare qui la rileun solo genitore. E vanza di tale cambiamento in termini di perdite per gli adulti e per i figli; vedremo invece in un paragrafo successivo la particolarita` di questa organizzazione familiare dal punto di vista delle relazioni familiari e della rinegoziazione delle funzioni genitoriali. La separazione fisica e` l’evento piu` difficile da affrontare sul piano emotivo per la sua valenza a

livello di senso di realta`. Non e` un caso che molti riaprano una nuova fase di ambivalenza in questo momento nel tentativo di evitare di affrontare le conseguenze concrete e affettive del cambiamento di abitazione da parte di un membro significativo del sistema familiare. Per chi si allontana si avverte il senso di esclusione dall’insieme degli elementi costitutivi del contesto familiare, mentre per chi resta si avverte il senso di mancanza in base ai diversi posti vuoti che vengono lasciati da chi si allontana: quello nel letto matrimoniale, quello a tavola o in altri spazi dove si realizzavano le relazioni della coppia e della famiglia. I figli devono affrontare i propri sentimenti legati alla perdita di una figura genitoriale e il timore che deriva dall’osservare i genitori in difficolta`. Uno dei comportamenti piu` frequenti e` quello di occupare il posto del genitore uscito di casa nel letto matrimoniale: si ottiene cosı` protezione rispetto ai propri timori, ma nello stesso tempo si fornisce protezione al genitore rimasto in casa controllando i suoi affetti legati al senso di solitudine. A qualsiasi livello la si interpreti, l’intimita` che si stabilisce tra figlio/i e madre (sono le donne in larga maggioranza — 95% — le figure genitoriali conviventi con i figli dopo la separazione) pone il bambino o l’adolescente in una posizione rischiosa rispetto al proprio sviluppo e quanto piu` si definira` un’alleanza transgenerazionale tra un figlio ed uno solo dei genitori contro l’altro, tanto piu` difficile sara` per tutti progettare o realizzare cambiamenti permettendo eventualmente ad un nuovo partner di entrare nel gruppo familiare che si e` assestato sulla monogenitorialita`. Il problema della perdita diviene dunque reale e spesso le difficolta` economiche sono il simbolo di quanto si sta perdendo e la misura per stabilire chi ` facile dunque che il conflitto sia e` il perdente. E centrato su questi aspetti insieme all’altro “valore” rappresentato dai figli che rischiano di divenire “merce di scambio” valutata in termini di quantita` di tempo che ciascun genitore puo` vivere insieme a loro. Quando gli ex-partner riescono ad avere una relazione collaborativa, tuttavia, la ricerca comune di soluzioni originali, in quanto non apprese nella propria esperienza precedente, puo` stimolare l’aumento dei livelli di autostima e attenuare il senso della perdita.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

In questa fase, oltre alle persone gia` coinvolte durante la fase decisionale, entrano in scena altre figure quali il consulente, il mediatore familiare, ma piu` frequentemente l’avvocato e il giudice. Ognuna di queste figure puo` esercitare un’influenza che favorisce un percorso costruttivo o distruttivo del conflitto. Si assiste ad una connessione di nuove reti (Everett C.E., Volgy S.S., 1981) per ricevere sostegno, ma spesso solo per avere alleati in quella che in alcuni casi potrebbe divenire una vera e propria guerra. La figura dell’avvocato puo` svolgere un ruolo che va al di la` della consulenza: «il mio avvocato», espressione usata nella disputa o nella conversazione, rappresenta il senso di complicita` che si viene a definire in sostituzione di quella coniugale che si sta perdendo. Il rito finale di questa fase e` l’udienza in Tribunale e la sentenza di separazione in cui sono contenuti gli accordi. Quanto piu` le persone hanno partecipato attivamente alla definizione degli accordi, tanto meno tale rituale verra` vissuto come un “funerale” per una morte inattesa e subı`ta. Il valore simbolico della sentenza e` tale che spesso essa viene ricercata troppo in fretta con l’aspettativa che tutto possa cambiare grazie ad essa, oppure ritardata per anni attraverso diverse modalita` come se in tal modo si potesse evitare una separazione che di fatto e` gia` avviata. Ma se il rito viene celebrato dopo il tempo necessario ai partner per elaborare un piano di riorganizzazione personale e familiare, la sentenza puo` essere ridimensionata al suo vero valore di nuovo contratto legale della coppia che si separa. Si definisce cosı` piu` chiaramente la continuita` del contratto genitoriale che permette la stabilita` dei rapporti genitori/figli a prescindere dall’iniziale contratto matrimoniale, e cio` svolge una funzione importante sia dal punto di vista della riorganizzazione delle relazioni familiari che dal punto di vista dell’elaborazione della separazione.

2.1.3 Fase riequilibratrice

La terza ed ultima fase e` quella riequilibratrice in cui si realizza la riorganizzazione sia personale che familiare. Se infatti le fasi precedenti

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sono state affrontate con successo, diviene possibile riguadagnare progressivamente l’ottimismo, accettando la separazione ed attivando di nuovo la curiosita` verso l’esterno. L’esplorazione delle nuove possibilita` e` direttamente proporzionale alla rivalutazione di se stessi e alla fiducia nelle proprie capacita` di affrontare la vita autonomamente. Rispetto al cambiamento, in questa fase viene valutato maggiormente cio` che si acquisisce e non cio` che si perde, e il futuro diviene la prospettiva temporale piu` rilevante. Cio` puo` valere anche per i figli se i genitori hanno lavorato con attenzione ai loro interessi. Seppure esposti ad un’organizzazione di vita piu` complessa, i figli traggono molto beneficio osservando i genitori piu` ottimisti e soddisfatti rispetto a come li percepivano durante la crisi coniugale e possono ritrovare, insieme agli adulti, l’equilibrio necessario ad una vita serena. Non e` raro che in questa fase emerga una spinta creativa che consente un maggior successo professionale o l’impegno in attivita` che stimolano nuovi interessi, e cio` puo` consentire spesso soluzioni efficaci ai disagi economici provocati dalla separazione. In questa fase viene rivalutata l’apertura a nuovi rapporti sociali e di amicizia che preludono a nuovi incontri significativi dal punto di vista affettivo e sessuale. L’insieme di questi cambiamenti favorisce il raggiungimento di quello che e` stato definito il ` interessante notare che in divorzio psichico. E media, nelle situazioni ottimali, tale processo richiede dai due ai quattro anni, vale a dire, nella legge italiana, il tempo richiesto prima di poter effettuare il divorzio legale (tre anni). Nelle situazioni disfunzionali il tempo diviene un indicatore della difficolta` di elaborazione e riorganizzazione e del blocco evolutivo degli individui e del sistema familiare nel suo insieme. Come abbiamo visto, il processo di elaborazione della separazione attiva nelle diverse fasi, ma soprattutto in quella riequilibratrice, un processo di ricomposizione del sistema familiare definito dall’uscita e dall’entrata di figure significative. Vedremo nei paragrafi successivi alcune configurazioni familiari segnalando i compiti evo-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

lutivi che ciascuno deve affrontare per favorire l’adattamento e la riorganizzazione relazionale.

2.2. I nuclei familiari monogenitoriali e la cogenitorialita` Come anticipato, la separazione comporta un distacco fisico di uno dei genitori dall’abitazione familiare oltre alla separazione tra i coniugi e cio` cambia le regole anche nel rapporto fra i partner nel loro ruolo di genitori. La famiglia monogenitoriale e` caratterizzata dalla presenza di un solo genitore che esercita la responsabilita` genitoriale (per il Diritto, potesta` genitoriale) e spesso cio` e` stato interpretato a sfavore del mantenimento di una relazione fra genitori che, pur non compresenti, dovrebbero continuare a condividere la responsabilita` dividendosi i compiti, assumendo ruoli a volte simmetrici e altre volte complementari, riconoscendosi all’interno di una relazione che non si interrompe con la separazione. Sono molti a ritenere che e` impossibile, se non paradossale, separarsi e unirsi contemporaneamente e optare per una sorta di bi-genitorialita` in base alla quale ciascun genitore gestisce il rapporto con i figli nel proprio nucleo familiare rispettando, ma ignorando, l’altro genitore. Ciascuno si immedesima cosı` nel ruolo genitoriale come singolo nel tentativo implicito di essere il miglior genitore. Nell’attuale fase storica si assiste ad un profondo mutamento nella valutazione della validita` genitoriale al momento in cui si discute dell’affidamento dei figli a seguito della separazione. Se infatti fino ad oggi i quesiti posti agli esperti quando una coppia decideva di separarsi erano volti alla scelta del “genitore” piu` valido cui affidare la prole, si assiste ora ad una concezione che attribuisce una fondamentale importanza alla capacita` dei singoli di stabilire una relazione collaborativa fra genitori sulla base del riconoscimento dell’appartenenza ad una coppia genitoriale. Uno stimolo fondamentale in questa direzione e` stato senz’altro rappresentato dai dati che indicano come danno prevalente della separazione coniugale quello della “perdita del padre” o della sua rigida perifericizzazione fin dal mo-

mento in cui si costituisce il nucleo familiare monogenitoriale. La psicologia dello sviluppo infantile si e` evoluta volgendo sempre piu` l’attenzione degli studi sulle relazioni interpersonali che si instaurano tra genitori e figli gia` a partire dalla gravidanza (Ammaniti M., 1992; Stern D., 1987) e che favoriscono, soprattutto nei primi due anni di vita del bambino, la costruzione del senso del proprio Se´. ` da notare tuttavia che la ricerca ha continuato E a privilegiare, evidentemente per una questione di complessita` metodologica, l’osservazione di relazioni diadiche (madre-bambino; padre-bambino; adulto allevante-bambino etc.) rispetto a quella della relazione triadica che definisce il rapporto fra genitori e figlio. Il processo di triadificazione e` oggi al centro dell’attenzione anche della psicologia dinamica che non si limita piu` ad osservare la triade secondo il modello “due piu` uno”, che ipotizza un meccanismo di triangolazione del terzo da parte di una delle tre diadi, ma intende verificare la possibilita` di un modello “tre insieme” per il quale, in base al processo di triadificazione, le rappresentazioni soggettive, le fantasie inconsce, i modelli operativi, gli script familiari e gli aspetti pragmatici danno vita ad una danza che permette ad ognuno il percepirsi nella triade (Fivaz Depeursinge E., Stern D. N., Burgin D., Bying-Hall J., Corboz-Warnery A., Lamour M., Lebovici S., 1994). I rapporti madre-figlio e padre-figlio possono mutare profondamente se si osserva contemporaneamente anche il rapporto madre-padre. Ad esempio si puo` ipotizzare che una madre che risulti competente nella sintonizzazione degli affetti (Stern D., 1987) con il bambino quando e` sola o con la propria madre o con l’osservatore, potrebbe non esserlo ugualmente in presenza di un marito con il quale si e` attivato un conflitto ed una competizione riguardante le qualita` genitoriali e che potrebbe mettere in atto interferenze importanti nella relazione madre-bambino (Dell’Antonio A. 1993, p. 51). Allo stesso modo, la relazione conflittuale tra genitori potrebbe avere un’influenza negativa sulla relazione padre-figlio a prescindere dalle risorse genitoriali del padre. Volgendo in positivo la stessa dinamica, un geni-

Le famiglie separate: problematiche e interventi

tore non del tutto competente potrebbe acquisire maggiori capacita` grazie agli stimoli provenienti dalla collaborazione che la coppia coniugale attiva per prepararsi a divenire genitori. Al fine di non rendere generico e prescrittivo il concetto di “comune responsabilita` genitoriale” anche dopo la separazione, e` bene individuare alcune caratteristiche della relazione di cogenitorialita` facendo riferimento al momento evolutivo in cui essa si stabilisce nella famiglia unita. Gli studi effettuati dai terapeuti familiari (Haley J., 1983; Minuchin S., 1976) — sulla base delle loro osservazioni cliniche in famiglie disfunzionali — e dagli psicologi della famiglia (Cusinato M., Tessarolo M., 1993; Scabini E., 1995) — focalizzati sull’osservazione delle famiglie normofunzionanti — forniscono da tempo indicazioni sull’importanza della costruzione del legame di cogenitorialita` come compito di sviluppo tipico della fase in cui dalla diade coniugale si passa alla triade familiare con la nascita del primo figlio. Il “fronte genitoriale” (Haley J., 1983), cui i terapeuti familiari rivolgono i loro interventi quando esiste un figlio problematico, e` una metafora per indicare il sistema diadico costituito da padre e madre quando si impegnano nel comune compito di allevare la prole. Tale sistema dovrebbe avere confini permeabili, ma non diffusi (Minuchin S., 1976), che lo differenziano dal sistema coniugale in cui l’uomo e la donna sono impegnati a far evolvere la loro relazione di coppia. L’emergenza della “disponibilita` al futuro impegno genitoriale” (Cusinato M., 1988) e` uno dei compiti di sviluppo affrontati dalla coppia senza figli durante la fase di stabilizzazione dell’unione. Gia` in questa fase emerge la necessita` di negoziare tra le personali motivazioni verso la generativita` (Dell’Antonio A., 1993) operando una loro differenziazione che tiene conto del fatto che “il figlio — normalmente — e` l’espressione concreta della progettualita` di coppia” (Scabini E., 1995). La nascita di un figlio e` uno degli eventi critici piu` importanti nel ciclo vitale della famiglia sia in quanto definisce “il sistema come permanente e definitivo” (Scabini E., 1995), sia perche´ richiede risorse e competenze presenti solo nel caso in cui gli individui hanno affrontato con successo le fasi evolutive precedenti. Se e` possi-

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bile a volte affrontare uno svincolo dalla famiglia solo parziale ed un’unione matrimoniale solo formale senza che emergano chiaramente sintomi di disagio e disfunzionalita`, e` molto piu` difficile che il sistema familiare privo di risorse possa affrontare l’impatto con la nascita di un figlio celando la propria difficolta`. Una fase cruciale, dunque, e di verifica della propria validita` come singoli e come gruppo. Il figlio entra in una costellazione di relazioni che riguardano diverse generazioni ed e` compito della coppia rappresentare per lui il centro che garantisce l’organizzazione e l’integrazione delle diverse motivazioni: della madre e del padre che devono assumere il ruolo genitoriale e sperimentare la loro differente competenza nel prendersi cura del figlio; dei genitori dei coniugi che devono assumere il ruolo di nonni accettando che il nipote non “appartiene” a nessuna delle due famiglie d’origine, ma a quella nuova che si sta formando; dei fratelli dei coniugi che assumono il ` sempre compito dei neogenitori, ruolo di zii. E inoltre, «accomodare la relazione di coppia con l’inclusione degli aspetti genitoriali (ridefinizione dei confini)» e «superare la barriera gerarchica con i genitori ristrutturando le relazioni con la famiglia d’origine attraverso il comune ruolo genitoriale» (Scabini, 1995, p. 146). Mentre il figlio evolve, anche la coppia coniugale/genitoriale deve evolvere ed acquisire competenze diverse a seconda degli eventi critici e dei diversi compiti di sviluppo: un processo dinamico fatto di momenti di disorganizzazione e di successivi momenti di stabilizzazione in cui la realta` corrisponde maggiormente alle aspettative. La separazione coniugale rappresenta un evento significativo anche perche´ pone i coniugi di fronte al compito di scindere nettamente il senso del Se´ come appartenente ad una coppia coniugale da quello derivante dall’appartenenza ad una coppia genitoriale. In realta`, come e` stato chiarito, tale compito dovrebbe essere stato affrontato dalla coppia unita fin dalla nascita del primo figlio e in effetti per le coppie che si sono organizzate con successo durante tale fase evolutiva la separazione coniugale puo` essere affrontata con meno difficolta`. La definizione di due nuclei familiari com-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

porta che i figli passino da un nucleo all’altro e sta ai genitori acquisire le competenze genitoriali necessarie affinche´ i figli possano percepire l’organizzazione della nuova famiglia come coerente mantenendo il senso della continuita` e stabilita` del legame tra genitori nonostante la separazione fisica. ` bene specificare che quando si parla di E “acquisizione di competenze genitoriali” si fa riferimento, per molte coppie, solo a quelle necessarie ai genitori per affrontare la nuova fase di ciclo vitale avviata dall’evento separazione. Tuttavia a volte la coppia che si separa diviene consapevole, forse per la prima volta, del lavoro di negoziazione necessario per la definizione del legame di cogenitorialita`. Un esempio classico e` quello del coinvolgimento piu` diretto dei padri, determinato dalla separazione, che precedentemente avevano interpretato il ruolo in modo tradizionale delegando alla moglie la maggior parte dei compiti di genitore e assumendosi invece quelli necessari al mantenimento della prole. Da questo punto di vista esistono tipologie di coppia diverse che presentano altrettanto diversi modelli di relazione. Per le coppie che affrontano il conflitto con modalita` distruttive, il ricorso alla delega e l’illusione di trovare difensori, giudici, esperti, servizi, etc. che prenderanno le parti del “genitore migliore” rappresentano una delle strategie “difensive” per andare avanti nella guerra. La “rabbia di coniugi” penetra ovunque e diventa quasi impossibile individuare le risorse genitoriali su cui lavorare per l’acquisizione delle competenze necessarie a svolgere con successo i nuovi compiti di sviluppo (Scabini E., 1995). Dal punto di vista relazionale si possono evidenziare innumerevoli triangolazioni e lo sconfinamento, fino a livelli di complessita` notevoli, del sistema familiare. «In situazioni di tensione — scrive Bowen — l’‘estraneo’ occupa una posizione privilegiata e gli altri due, entrambi supercoinvolti, faranno sicuramente sforzi per coinvolgerlo nel conflitto. Se la tensione cresce, coinvolgera` un maggior numero di persone esterne, dato che i circuiti emotivi s’imperniano su una serie di triangoli interdipendenti» (Bowen M., 1979). Gli scenari sono complessi e ogni volta diversi ed i sistemi che partecipano attivamente al conflitto

sono tanto piu` numerosi quanto piu` il conflitto e` distruttivo. Diviene cosı` difficile se non impossibile costruire quella che e` stata definita come coalizione parentale (Vicher J.S., Vicher E.B., 1989): una temporanea alleanza di discreta entita` con lo scopo di portare avanti un progetto. Nel rispetto delle separazioni e dei confini dei singoli nuclei familiari, gli adulti definiscono una relazione collaborativa orientata al compito riguardante la crescita dei figli. La coppia funzionale unita nel matrimonio dovrebbe aver gia` sperimentato l’inevitabilita` del conflitto come fattore che garantisce l’evoluzione stessa di un gruppo se affrontato in senso costruttivo. L’esistenza di individui all’interno di un gruppo determina la presenza di differenze che possono provocare un conflitto fra individui. L’accettazione di tali differenze e la loro elaborazione garantisce la dinamicita` stessa dei sistemi umani che altrimenti rischiano «la stagnazione e l’incapacita` di adattarsi alla mutevolezza delle situazioni» (Cusinato M., 1988) in quanto tutti devono attenersi ad una struttura rigida di regole e principi organizzativi. La coppia unita dovrebbe aver gia` conosciuto l’esperienza di dover negoziare su alcuni tipi fondamentali di conflitto (Cusinato M., 1988, pp. 230-246) che concernono la funzione genitoriale e non dovrebbe dunque avere eccessive difficolta` nel momento in cui, dopo la separazione, tra le varie differenze esiste quella di vivere in due diversi nuclei familiari.

2.3. Le famiglie ricomposte: dall’arrivo dei nuovi partner alla costellazione familiare ricomposta Come e` stato anticipato, la possibilita` di costruire un nuovo rapporto affettivo significativo puo` essere considerata un indicatore di una buona elaborazione del processo di separazione e del raggiungimento di un equilibrio personale e relazionale. L’arrivo dei nuovi partner dopo un periodo in cui la famiglia separata si e` riorganizzata in nuclei familiari monogenitoriali e` comunque una nuova perturbazione che puo` riattivare insicurezza e conflittualita` sia per gli adulti che

Le famiglie separate: problematiche e interventi

per i figli. Molti cercano di evitare i nuovi compiti mantenendo la nuova relazione strettamente al di fuori della vita familiare e scegliendo in tal modo di non fare un nuovo progetto familiare. Quando invece le nuove coppie intendono ricostituire un nuovo nucleo familiare, si avvia un ciclo evolutivo segnato da alcuni eventi critici che comportano nuovi compiti che i diversi membri della famiglia, ma soprattutto gli adulti, devono essere in grado di affrontare. Tali eventi possono essere cosı` sintetizzati: • • • • •

la presentazione del nuovo partner ai figli ed eventualmente all’ex-coniuge; l’incontro della “fratria” costituita dai figli dei precedenti matrimoni; l’inizio della convivenza; il/i secondo/i matrimonio/i; la nascita di altri figli.

Spesso non viene rispettata tale successione, ma essa puo` essere un punto di riferimento utile in quanto il rispetto della gradualita` sembrerebbe rappresentare una garanzia per la buona riuscita del processo evolutivo dei nuclei familiari ricostituiti dopo la separazione e il divorzio. La sfida della famiglia ricostituita e` quella di dover divenire gruppo, sistema familiare, senza aver avuto una comune storia precedente. Per analizzare la questione e` necessario inoltre precisare che esistono due sistemi da prendere in considerazione: la ‘‘famiglia ricostituita’’ con la quale si indica il nucleo familiare convivente costituito dalla nuova coppia, e la ‘‘famiglia ricomposta’’ che comprende l’insieme dei nuclei familiari che definiscono un legame tra loro per la condivisione dei compiti genitoriali. La difficolta` prevalente che e` stata osservata nelle famiglie ricomposte riguarda il definirsi di aspettative non realistiche. Ciascun individuo si trova dunque ad affrontare dei livelli di complessita` relazionale senza esserne consapevole e il riferimento a modelli di famiglia tradizionali richiede l’attivazione di meccanismi di difesa e l’instaurarsi di relazioni disfunzionali. Una delle disfunzioni piu` frequenti a livello della gestione dei conflitti nelle famiglie ricomposte e` quella della pseudomutualita` (mito d’armonia) basata sulla

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negazione e sull’evitamento del conflitto. I gruppi patologici hanno evidenziato alti livelli di conflitto aperto e bassi livelli di espressivita` dello stesso. Cio` corrisponde alle relazioni tipiche delle famiglie in cui e` attiva la pseudomutualita`, nelle quali i membri della famiglia non vengono incoraggiati ad esprimere i propri sentimenti, soprattutto se aggressivi, e i conflitti esplodono improvvisamente su questioni spesso pretestuose. La distorsione idealistica rispetto alla rappresentazione della famiglia puo` comunque presentarsi sia nelle famiglie ricomposte con successo che in quelle patologiche. Si possono individuare alcuni fattori che emergono quando vengono osservate famiglie ricomposte con successo (Vicher J.S.,Vicher E.B., 1990) nel senso che tutti i membri del sistema familiare, che comprende ovviamente i diversi sistemi connessi a quello ricostituito, mostrano soddisfazione. 1. L’elaborazione della perdita e` stata effettuata. Un primo fattore riguarda la dinamica della famiglia separata ed in particolare il processo di elaborazione della perdita rispetto alla rappresentazione della prima famiglia: per ricostituire una famiglia e` necessario che sia maturata la separazione sia dalla famiglia operante nella vita quotidiana che dalla famiglia rappresentata che mediano il definirsi di un senso del Noi sempre connesso con il senso del Se´: «la sensazione di far parte di un’unita` piu` ampia e` continuamente presente e rappresenta un fattore che modella continuamente il Se´. In altri termini, essere un Io ed essere un Noi sono due polarita` dialettiche all’interno di una medesima unita` che ha a che fare con la nostra identita`, tanto che si potrebbe dire che possiamo essere ‘narcisisticamente’ legati al nostro ‘essere un Noi’ e combattere per esso, cosı` come possiamo essere legati al nostro ‘essere un Io’...» (Norsa D., Zavattini G.C., 1997). Ricostituire una famiglia pone dunque una sfida rispetto alla possibilita` di maturare un senso del Noi in un nuovo gruppo familiare che deve confrontarsi e integrarsi sia realmente che in termini rappresentazionali con altri gruppi familiari. 2. Le aspettative sono realistiche. Le persone

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sono consapevoli di appartenere ad un tipo diverso di famiglia in cui: a)

b) c) d) e) f) g)

gli adulti e i bambini si incontrano e si uniscono mentre sono in posizioni diverse del loro ciclo vitale individuale, familiare e di coppia; i legami genitori/figli sono precedenti anziche´ successivi alla formazione della coppia; c’e` un genitore biologico in un’altra casa o nella memoria; gli adulti e i bambini rispettano i partner di relazioni precedenti; i bambini si muovono tra due famiglie; i genitori acquisiti non hanno relazioni legali con i figli del coniuge; c’e` consapevolezza della necessita` di un certo tempo (2-4 anni) per il processo di costruzione di una famiglia ricostituita.

Come si puo` notare, gli elementi che intervengono nell’organizzare aspettative realistiche sono numerosi e non sempre possono essere tenuti tutti nella dovuta considerazione da chi si impegna nell’organizzazione di una famiglia ricostituita. Il fattore tempo sembra essere quello piu` frequentemente implicato nelle situazioni di disagio delle famiglie ricostituite. Numerose sono le coppie formate contemporaneamente alla separazione e numerose sono dunque le situazioni di stress che stimolano l’idea di non poter trovare mai un equilibrio. Solo la consapevolezza dell’importanza del tempo puo` aiutare le persone a confrontarsi costruttivamente e con continuita` con il processo di cambiamento. 3. La nuova coppia e` solida. In una ricerca su bambini problematici appartenenti a famiglie ricostituite (Brown A.C., Green R.J., Druckman J., 1990) e` emerso che la relazione di coppia puo` essere soddisfacente anche quando la relazione tra genitori acquisiti e figli acquisiti e` disfunzionale e produce disagio. Gli autori hanno dunque dedotto che nelle famiglie ricostituite, a differenza di cio` che e` stato rilevato nelle famiglie tradizionali, la relazione di coppia non e` un predittore del buon funzionamento della famiglia. Pur concordando con questi dati, Vicher e Vicher (1990) hanno rilevato che nelle famiglie ricosti-

tuite con successo la coppia e` molto unita e riesce ad avere “una luna di miele in mezzo alla folla”, un’espressione molto efficace per indicare la complessita` del contesto in cui i due partner costruiscono il loro rapporto. Si tratta di un compito non sempre affrontato dalle coppie ricostituite, se pensiamo che in Italia e` ancora alta la percentuale di padri che si allontanano dai figli del primo matrimonio per dedicarsi solo alla nuova famiglia. In altri casi si mantiene il rapporto con i figli, ma viene altresı` mantenuta per anni una netta separazione tra la vita di coppia e gli impegni di genitore. Cio` accade ancor di piu` quando uno dei genitori esprime apertamente il proprio disaccordo rispetto alla frequentazione di nuovi partner considerati colpevoli della separazione oppure semplicemente pericolosi per i figli. Anche nelle situazioni piu` funzionali e in cui non emergono gravi conflitti, e` comunque piu` difficile per la nuova coppia dedicarsi tempo e spazio, soprattutto nelle fasi iniziali, in quanto uno o ambedue i partner hanno impegni genitoriali che riducono comunque le possibilita` di definire un confine tra lo spazio della coppia e quello della famiglia. 4. Sono stati definiti nuovi rituali familiari. «Buone relazioni possono essere sviluppate quando si condividono memorie e sentimenti di appartenenza ad un gruppo prodotti da modi di agire che risultano familiari» (Vicher J.S., Vicher ` sulla base di tale premessa che gli E.B. 1990). E autori evidenziano la necessita` delle famiglie ricostituite di stabilire rituali costruttivi. Cio` riguarda sia i riti e le tradizioni familiari che devono essere integrate o definite ex novo, sia l’identificazione di rituali che segnano i momenti evolutivi di passaggio. ` noto il fatto che ciascun matrimonio tra un E uomo e una donna comporta un matrimonio tra due famiglie che hanno una diversa storia, visione del mondo, stile affettivo e comunicativo nonche´ diverse modalita` di ritualizzare i momenti significativi della propria vita. Il processo di integrazione che la coppia attiva nei primi anni di matrimonio comporta l’individuazione di modelli nuovi che via via nel tempo aiutano nel definire una nuova identita` familiare. Nel caso delle famiglie ricostituite il compito evolutivo del nuovo gruppo

Le famiglie separate: problematiche e interventi

familiare e` ancor piu` complesso. Decidere le modalita` con le quali festeggiare il Natale, la Pasqua, i compleanni o gli onomastici, tenendo conto che spesso i figli dovranno sempre sdoppiare i festeggiamenti, diviene nella famiglia ricostituita un compito delicato da cui dipende la definizione del senso di appartenenza al gruppo. Altri riti importanti sono quelli che, spesso ricordati fotograficamente negli album di famiglia, segnano cambiamenti nelle varie fasi del ciclo vitale: il matrimonio, il battesimo o comunque l’entrata dei primi figli, alcuni compleanni piu` significativi di altri, le lauree, l’inaugurazione di una nuova casa etc. Non sempre chi costituisce una nuova famiglia dopo la separazione e il divorzio e` consapevole dell’importanza per i figli di condividere tali momenti con modalita` che assumono valore di rito. Spesso il clima emotivo che accompagna tali momenti puo` divenire incongruo e le feste possono trasformarsi in tragedie. Come si e` visto precedentemente, il matrimonio della nuova coppia rappresenta un rito di passaggio significativo nel ciclo evolutivo delle famiglie ricomposte e puo` esercitare un’influenza positiva nella riorganizzazione delle relazioni familiari, se preparato bene da parte degli adulti, per consentire ai figli di partecipare all’evento sentendo di essere inclusi. L’ufficializzazione della nuova unione, d’altra parte, puo` riattivare sensi di colpa, conflitti di lealta` e senso di perdita soprattutto quando gli ex-coniugi sono in posizioni non parallele nel processo dinamico della separazione. 5. Sono state sviluppate buone relazioni tra genitori e figli acquisiti. Dalle ricerche effettuate (Vicher J.S., Vicher E.B., 1990) risulta che, quando il genitore acquisito ha sviluppato inizialmente una relazione amichevole lasciando la funzione educativa esclusivamente al genitore biologico e ha raggiunto un accordo con quest’ultimo su tale distinzione di ruoli, vengono stabilite relazioni tra genitori acquisiti e figli acquisiti soddisfacenti. Il ruolo del genitore acquisito resta comunque flessibile e non sovrapponibile a quello di un genitore biologico. Fattori che intervengono sono: a) l’eta` dei figli; b) il numero e l’eta` dei fratelli acquisiti; c) il tempo che si dedica alla relazione.

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In una ricerca in cui sono stati confrontati gruppi di famiglie ricostituite patologici e non patologici (Brown A.C., Green R.J., Druckman J., 1990) e` stato rilevato che essi non differiscono se si prende in considerazione la frequenza di interazioni collegate all’autorita` e all’educazione oppure quella delle interazioni amichevoli iniziate dal genitore acquisito mentre differiscono se si prende in considerazione la reciprocita` dei figli ` dunque piu` importante rispetto a tali iniziative. E il mondo rappresentativo dei figli, che si riferisce presumibilmente alla dinamica di rapporto con i loro genitori biologici, rispetto a quello dell’adulto. Il figlio, a tutte le eta` in modo diverso e con diversita` di genere, deve adattarsi a questa nuova figura facendo riferimento a problemi legati a conflitti di lealta` rispetto al genitore non convivente o a conflitti edipici riattivati perche´ i ruoli parentali non sono ben definiti e viene rimesso in discussione il fantasma del tabu` dell’incesto. Inoltre la parcellizzazione dei legami parentali attiva problemi di identita` rendendo difficile l’identificazione rispetto alle diverse figure con cui si entra in relazione significativa. Nelle famiglie disfunzionali e` piu` probabile che il genitore biologico, di fronte alle difficolta` relazionali tra il proprio figlio e il genitore acquisito, assuma un ruolo di supporto nel conflitto che puo` determinare coalizioni transgenerazionali e conflitti nella nuova coppia. La chiarezza dei ruoli dei diversi adulti che assumono funzioni di cura e` un fattore che differenzia altamente i due gruppi. La qualita` della relazione tra genitore acquisito e figli acquisiti ha un peso maggiore per predire il successo di queste famiglie che non quello determinato dalla qualita` della relazione di coppia. 6. C’e` collaborazione tra le famiglie. Essa si realizza quando gli adulti non sono ostili e competitivi, ma cooperano nell’interesse della generazione dei figli. Si tratta di un fattore estremamente dipendente dal tipo di separazione effettuata, dalle modalita` con cui e` stata elaborata, dalla ricostituzione o meno da parte di ambedue gli ex-coniugi di un nuovo nucleo familiare, dal livello socio-culturale etc.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Quando esiste un problema a livello della collaborazione tra le famiglie, il conflitto spesso assume la modalita` della competizione tra figure allevanti sulla loro validita` genitoriale. Se invece gli adulti hanno gia` definito nella fase della famiglia monogenitoriale una coalizione parentale, essa puo` essere estesa alle nuove figure allevanti. Alcuni passaggi evolutivi, che favoriscono la coalizione parentale nelle famiglie ricomposte, sono stati evidenziati come segue: a) b) c) d)

sono stati definiti i confini delle nuove coppie; si evidenzia la consapevolezza che tutte le figure genitoriali sono importanti per i figli; esiste l’accettazione di ruoli appropriati per i genitori acquisiti; si evidenzia la disponibilita` a condividere il potere e la responsabilita` relativi all’allevamento dei figli con gli adulti presenti in altri nuclei familiari.

Per quanto riguarda invece gli ostacoli, sembrerebbe che le famiglie che falliscono nel compito possano evidenziare un’inadeguata separazione emotiva tra ex-coniugi, l’ostilita` tra gli adulti, la mancanza di impegno nella coppia dei genitori biologici, il fallimento nel coinvolgere i genitori acquisiti nella coalizione, la paura di subire altre perdite quando il bambino, nel passare da una casa all’altra, definisce nuovi rapporti con i genitori acquisiti oppure l’ansieta` provocata dalla difficolta` di definire una autonomia familiare visto che i figli passano da una famiglia all’altra.

3. Gli interventi di aiuto alla famiglia separata Facendo proprio l’obiettivo di «tradurre la complessita` in ricchezza e diversita`» (Vicher J.S.; Vicher E.B., 1990), gli esperti chiamati in aiuto delle famiglie separate dovrebbero impegnarsi nell’attivare le risorse necessarie ad affrontare con successo i compiti di sviluppo.

` necessario individuare strategie d’interE vento piu` mirate e contribuire alla conoscenza delle forme di relazionalita` che si esprimono nel processo di separazione della famiglia. Lavorando prevalentemente in situazioni di difficolta`, e` possibile individuare e conoscere meglio le fasi critiche, le disfunzionalita` e i percorsi a rischio delle famiglie separate e ricomposte e fornire il proprio contributo per una conoscenza che consenta mutamenti nella rappresentazione sociale della famiglia e interventi di prevenzione adeguati. ` bene che l’osservatore abbia una certa coE noscenza, rispetto a ciascuna fase del processo dinamico della separazione, dei diversi percorsi di aiuto che possono essere attivati, tenendo conto che in alcuni casi si deve intervenire sulle problematiche strettamente connesse al processo dinamico della separazione e ricomposizione familiare, mentre in altri casi e` necessario riconoscere problematiche che sono state esacerbate dall’evento separazione e che richiedono un aiuto psicoterapeutico che parte dalla situazione attuale, ma che mira a raggiungere i nuclei problematici che prescindono da essa. In tutti i casi, e` bene tenere presente la necessita` che si strutturi una sorta di “catena terapeutica” tra gli interventi che possono essere offerti a seconda della fase e dei bisogni specifici. Al di la` della formazione professionale di base che i clinici possono avere per gestire le diverse forme di intervento, siamo d’accordo con Everett e Volgy (1981) «che il processo di trattamento clinico del divorzio richieda una riconcettualizzazione sistematica che a sua volta impone, oltre al possesso di strumenti e risorse terapeutiche, una situazione di chiarezza teorica» (p. 480). Tenendo conto delle diverse fasi del processo dinamico della separazione, sono state schematizzate alcune possibilita` di intervento rispetto alle problematiche centrali che caratterizzano ciascuna fase. Gli interventi sono stati elencati partendo da quelli piu` opportuni nelle situazioni in cui il problema e` strettamente connesso alla separazione e, a seguire, indicando quelli necessari nel caso si esprimano disagi psicologici pre-esistenti.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

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Ciclo evolutivo della separazione ed interventi

ALIENAZIONE (Prima della separazione) DECONNESSIONE AMBIVALENZA DECISIONE

Consulenza Familiare Terapia di coppia/familiare Psicoterapia individuale

CONFLITTUALE (Durante la separazione) CONNESSIONE DELLA RETE LUTTO ` COGENITORIALITA

Consulenza familiare Mediazione Familiare Consulenza legale Terapia familiare Psicoterapia individuale Vigilanza servizi socio-sanitari

RIEQUILIBRATRICE (Dopo la separazione) RICONNESSIONE STRUTTURALE ` PROGETTUALITA RIORGANIZZAZIONE DIVORZIO PSICHICO

Consulenza familiare Mediazione familiare Psicoterapia individuale

3.1. La consulenza familiare Tale tipologia di intervento viene effettuata da coloro che hanno una formazione psicoterapeutica nell’ottica sistemico-relazionale oppure da altri operatori che hanno partecipato a corsi specifici presso scuole private riconosciute o corsi di perfezionamento universitari. La consulenza familiare e` un intervento che adotta l’ottica e molte strategie tipiche della terapia familiare, ma che ha come obiettivo principale quello di fornire conoscenze utili ad aumentare i livelli di consapevolezza individuale e interazionale ed alla scelta di percorsi per la soluzione dei problemi. In molte situazioni, in particolare nel caso delle famiglie separate, i problemi potranno essere affrontati dalle persone stesse dopo la consulenza facendo ricorso alle proprie risorse; in altri casi la consulenza si conclude con un invio a professionisti o servizi in grado di fornire l’aiuto necessario in ciascun caso. Nelle diverse fasi del processo dinamico della separazione, la consulenza familiare puo` svolgere un ruolo fondamentale e a volte esaustivo rispetto alla difficolta` delle persone ad individuare le problematiche centrali dal punto di vista individuale e relazionale e i compiti che e` necessario affrontare. Si ipotizza in questo caso che le problematiche psicologiche che si evidenziano pos-

sono essere affrontate dagli individui predisponendosi alla dinamica del cambiamento e assumendosene personalmente il carico. Nella fase decisionale il consulente puo` focalizzare il problema dell’ambivalenza, rispetto al compito di dover prendere una decisione, aiutando la coppia ad individuare le risorse utili al superamento della crisi, tra cui quella di accedere ad una terapia di coppia, oppure incoraggiando la coppia ad andare avanti nel processo della separazione, fornendo informazioni sulle diverse fasi e rassicurando le persone sulla possibilita` di affrontare le diverse difficolta` che si presenteranno. Nella fase conflittuale, la consulenza familiare puo` avere la funzione di indirizzare la coppia al percorso di mediazione familiare e della separazione legale affinche´ affronti la negoziazione degli accordi evitando l’irrigidimento delle posizioni conflittuali ed impostando il legame cogenitoriale. In questa fase il consulente puo` fare anche una valutazione volta ad individuare le diverse forme di coinvolgimento dei figli nel conflitto coniugale, non escludendo il ruolo delle famiglie allargate, i nonni in particolare, nel favorire o meno il definirsi della coalizione parentale volta al mantenimento dell’impegno genitoriale. Nella fase riequilibratrice, la consulenza familiare puo` essere utile nel processo di ricomposizione familiare per fornire conoscenze sulle diffe-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

renze strutturali tra la famiglia del primo matrimonio e quella ricostituita, sul tempo necessario per l’integrazione del nuovo gruppo, sull’importanza di sviluppare e curare il legame di coppia e di sviluppare buone relazioni nel gruppo per condividere in seguito ricordi comuni, sulla necessita` che il genitore acquisito entri lentamente in rapporto con i figli acquisiti. Nelle diverse fasi la consulenza deve fornire una diagnosi relazionale, che comprende aspetti relativi ai singoli individui e alle loro difficolta` personali, sulla base della quale sia possibile indicare la necessita` di altri tipi di intervento di aiuto.

3.2. La mediazione familiare Alcuni gruppi promotori della Mediazione Familiare hanno lavorato nei primi anni ’90 per studiare insieme, tenendo conto delle esperienze straniere piu` avanzate, la definizione piu` adeguata ad una corretta diffusione ed applicazione della mediazione familiare in Italia e sulla base di tale definizione, nonche´ dell’adesione ad un codice deontologico, hanno fondato la Societa` Italiana di Mediazione Familiare (SIMeF). Tale definizione comprende alcune parole-chiave che corrispondono ai criteri riconosciuti dai mediatori della SIMeF e rappresenta dunque un punto di riferimento imprescindibile anche nei corsi di formazione attivati dai diversi gruppi che l’hanno fondata. Altre associazioni italiane di mediazione familiare, sorte negli ultimi anni, si sono implicitamente o esplicitamente ispirate a tale definizione. Vediamo nel suo insieme la definizione della SIMeF per poter esaminare poi piu` in dettaglio le implicazioni determinate da ciascuna parolachiave in essa contenute.

Definire la MF un percorso significa escludere quegli interventi di MF effettuati in una o due sedute. L’esperienza clinica nel campo degli interventi sulle relazioni umane insegna infatti che il tempo e` una variabile importante nei processi di cambiamento personale ed interpersonale; e` noto inoltre che per molte coppie la fretta di definire la separazione legale rappresenta solo un sintomo del disagio relazionale e non il segnale dell’avvenuta elaborazione dei sentimenti legati alla rottura del legame coniugale. Molte di queste separazioni affrettate hanno determinato la necessita` di tornare in tribunale con ricorsi e richieste di revisione degli accordi evidentemente presi con superficialita` e non sperimentati. Il percorso tuttavia non puo` essere troppo lungo sia perche´ le coppie che si separano hanno necessita` di avere punti di riferimento concreti per riorganizzare la vita familiare, sia perche´ la MF puo` avere effetti terapeutici ma non e` una terapia e la definizione di un limite di tempo e` uno dei fattori che la distingue. In base a queste convinzioni si e` stabilito che il percorso di mediazione familiare possa essere svolto in circa 10/12 sedute distribuite in un arco di tempo che puo` variare dai 3 ai 5 mesi. Per chi ritenesse sia eccessivo, basti pensare che a volte i tempi per fissare un’udienza in Tribunale per la separazione possono essere maggiori e che le separazioni giudiziali (quelle in cui e` difficile o a volte impossibile raggiungere accordi) possono protrarsi per una media di 4/5 anni. La scelta di definire la MF come un intervento volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari implica una definizione della MF come un intervento di prevenzione rispetto al rischio di un disagio dei minori. Non si fa dunque qui un generico riferimento alla “disputa familiare”

Definizione di Mediazione Familiare della SIMeF

La mediazione familiare e` un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio. In un contesto strutturato il mediatore familiare, come terzo neutrale e con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinche´ i partner elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per se´ e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilita` genitoriale.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

(Haynes J., Buzzi I. 1996) per la quale si puo` offrire una MF, ma all’esigenza di affrontare una fase di profondo mutamento organizzativo della famiglia nella quale si puo` mettere a rischio il benessere degli individui, primo fra tutti quello dei figli. La “coppia genitoriale” dunque ha come suo compito quello di definire le linee guida per l’organizzazione delle relazioni familiari a prescindere dall’unione o dalla separazione della coppia coniugale. Anche quando si affrontano gli aspetti economici o patrimoniali, dunque, gli exconiugi che accedono alla MF negoziano nell’ottica della riorganizzazione delle relazioni familiari e non in quella del conflitto d’interessi. Specificare che si definisce MF l’intervento messo in atto solo in vista o a seguito della separazione e del divorzio potrebbe sembrare superfluo, ma non lo e`. Ancora oggi, e non solo fra la gente comune, il termine evoca l’idea di una conciliazione dei coniugi in crisi che viene invece affrontata da sempre nei servizi pubblici e privati attraverso la consulenza o la terapia di coppia. Compito dei mediatori e` quello di valutare, prima di avviare la mediazione, se effettivamente la coppia ha elaborato la crisi fino alla fase decisionale rispetto alla separazione e ha aperto la fase conflittuale. La MF si presenta dunque come intervento extragiudiziale nella fase che comunque conduce alla definizione in termini legali della separazione. A seguito della separazione, cosı` come sarebbe possibile ricorrere di nuovo al legale per nuovi conflitti o per la difficolta` a rispettare gli accordi, anche nel caso della MF e` possibile che la coppia di ex-coniugi abbia di nuovo bisogno di rivedere gli accordi. Strettamente collegato al punto precedente e` quello in cui si afferma la necessita` di un contesto strutturato per l’intervento di mediazione familiare. Confondere ad esempio la MF in un contesto giudiziario o sanitario, favorisce l’attribuzione di altri significati che non stimolano l’uso di risorse personali verso il cambiamento e l’evoluzione. Elemento fondamentale per la strutturazione di un contesto e` quello della definizione di regole condivise da tutti per dare coerenza e per

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determinare il minimo di discrepanza possibile tra le aspettative dei singoli e la dinamica interpersonale del gruppo. Il mediatore interviene come terzo neutrale che mette a disposizione della coppia di coniugi unicamente la sua competenza (non il suo potere o la sua autorita`) derivata da una preparazione specifica. La formazione in mediazione familiare rende l’operatore esperto: •



• •



nella conoscenza dell’organizzazione e della struttura della famiglia nel processo di separazione e divorzio; nella lettura e gestione della comunicazione conflittuale che si manifesta nella coppia e nella famiglia in separazione o separata; nelle problematiche giuridiche della separazione e del divorzio; nell’ascolto del minore (coinvolto in diverse fasi del suo sviluppo) nel processo di separazione o divorzio del nucleo familiare; nello stabilire rapporti con le varie agenzie socio-giuridiche coinvolte in materia di separazione e divorzio.

In termini concreti, la competenza fondamentale del mediatore e` quella di suggerire tecniche efficaci di negoziazione decodificando i messaggi comunicativi, verbali e non verbali, quando essi si rivelino disfunzionali rispetto all’obiettivo di lavoro. Per quanto riguarda la formazione di base del mediatore, la SIMeF ha al momento offerto corsi di formazione completa a psicologi, assistenti sociali, educatori laureati, neuropsichiatri infantili e psichiatri. Alle altre figure professionali, quali avvocati, insegnanti e medici, vengono offerti specifici moduli formativi che favoriscono l’acquisizione di una “cultura della mediazione” in senso interdisciplinare. In particolare per gli avvocati si prevede quindi la collaborazione stretta del mediatore e non l’intercambiabilita` dei ruoli. La formazione completa e` rappresentata da un training che si svolge in 30 giornate formative (circa 180 ore) e che comprende la supervisione sui casi seguiti alla fine del corso.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Altre agenzie formative italiane tendono ad attenersi agli stessi criteri. Esiste attualmente un’associazione europea (FORUM EUROPEO per la Formazione in Mediazione Familiare) di tutti i centri che formano mediatori familiari cui molti italiani hanno aderito, che ha definito un documento per gli “Standard di base per la formazione professionale dei mediatori familiari” che puo` rappresentare il punto di riferimento per eventuali agenzie formative che vogliano aderire all’associazione europea. Si tratta di un altro esempio, oltre a quello italiano rappresentato dalla SIMeF, di autoregolamentazione di diversi gruppi di mediatori familiari che intendono garantire la qualita` dei propri interventi in assenza di una legislazione specifica in materia. Il mediatore viene sollecitato dalle parti, riceve dunque una richiesta volontaria alla quale risponde nella garanzia del segreto professionale ed in autonomia dall’ambito giudiziario. Si tratta di una posizione che esclude la possibilita` che la MF sia obbligatoria e che il giudice ponga dei quesiti a ` l’aspetto piu` cui l’operatore deve rispondere. E qualificante della MF come forma di aiuto che esclude la possibilita` che i coniugi deleghino ad altri la formulazione di scelte riguardanti la pro` anche la caratteristica che puo` pria famiglia. E rendere difficile l’accesso alla MF da parte di coppie la cui comunicazione conflittuale assume forme distruttive che richiedono interventi piu` autoritari o autorevoli per la tutela dei minori. Il risultato concreto della MF e` rappresentato da un programma di separazione in cui tutti si possono riconoscere e che puo` per questo essere rispettato. Elemento fondamentale in tal senso e` la soddisfazione di ciascun membro della famiglia che sostituisce il concetto di giustizia ed interesse in senso generale ed astratto. Il termine programma indica che la MF ha un prodotto concreto che corrisponde al piano degli accordi presi durante il percorso e che rappresentera` la base da codificare a livello legale. Se il programma di separazione puo` essere considerato una “mappa”, esso tuttavia rappresenta e “non corrisponde direttamente ad un terri-

torio” (Bateson G., 1984) molto piu` complesso che e` quello della comune responsabilita` genitoriale con cui gli ex-coniugi hanno lavorato insieme al mediatore mettendo da parte sentimenti ed emozioni legati al fallimento della relazione di coppia. Si definisce dunque qui implicitamente che la logica conseguenza di un percorso di MF e` quella di un regime di affidamento congiunto in cui entrambi i genitori, al di la` che abbiano concordato la convivenza dei figli con uno solo dei due, mantengono ed esercitano la potesta` genitoriale con tutto cio` che essa comporta per il quotidiano della vita familiare e per la definizione in termini giuridici. Il termine “responsabilita`” viene quindi a sostituire quello di “potesta`” accentuando sempre piu` l’idea che la genitorialita` e` sostanziata dai doveri piu` che dai poteri che un genitore ha nei confronti dei figli. Doveri che si esplicano nella funzione che l’adulto esercita a sostegno del percorso di sviluppo e di formazione della persona del minore. La MF in senso ideale implica dunque una revisione della distinzione fra genitore affidatario e non affidatario: un genitore resta tale in base alla qualita` delle relazioni che mantiene con il figlio (intensita`, frequenza). Il superamento della distinzione classica tra genitore affidatario e non affidatario d’altra parte comporta la definizione della cogenitorialita` che risulta essere l’obiettivo generale della MF. In conclusione va sottolineato che alla MF si puo` accedere nel corso del processo dinamico della separazione anche quando siano stati avviati altri interventi di aiuto come momento necessario ad un lavoro sui problemi concreti e quotidiani stimolati nella vita familiare dalla decisione di separarsi. Gli psicoterapeuti che lavorano con l’individuo e con la famiglia potrebbero suggerire ai loro clienti di preparare la separazione legale da un mediatore, definendo cosı` un confine tra le problematiche emotive sollecitate dalla separazione e quelle organizzative che possono essere risolte sollevando gli individui da stress aggiuntivi ed evitando meccanismi di spostamento del conflitto su questioni che non riguardano strettamente la dinamica affettiva.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

3.3. La psicoterapia familiare e individuale «Modelli conflittuali e disfunzionali possono sorgere in ogni momento nel processo dinamico della separazione e procrastinarne o bloccarne cosı` lo sviluppo» (Everett C.E., Volgy S.S., 1981, p. 483). Gli affetti legati al processo separativo possono dunque organizzarsi ed essere espressi in forme sintomatiche piu` o meno gravi a seconda delle risorse psicologiche, delle storie personali e di coppia, delle storie delle famiglie allargate. I soggetti che piu` frequentemente esprimono il disagio attraverso sintomatologie di vario tipo (somatizzazioni, depressione, aggressivita`, disagio scolastico etc.) sono i figli, ed e` per questo che la psicoterapia familiare puo` rendersi necessaria e utile in ogni fase del processo con l’obiettivo generale di decodificare e dare significato ai sintomi connettendoli con la dinamica in atto nel contesto della famiglia separata e favorendo cambiamenti nell’interazione dei componenti della famiglia che rispettino l’esigenza di riorganizzazione. Per quanto riguarda l’aiuto psicologico ai bambini sintomatici nelle famiglie separate e ricostituite, si rivelano importanti i seguenti passaggi nel corso della terapia: • • • •



riconoscere e normalizzare i loro sentimenti; aiutarli a star fuori dalle triangolazioni nel conflitto degli ex-coniugi; stimolare il dialogo con i genitori anziche´ esser costretti ad “agire” i loro sentimenti; aiutarli a non interessarsi delle cose che non possono controllare e interessarsi invece di quelle che possono controllare; lavorare con la coppia genitoriale (o con il gruppo degli adulti allevanti) affinche´ gli adulti: a)

b) c)

d)

sviluppino la capacita` di comprendere il tipo di ruolo da assumere come genitori biologici e genitori acquisiti; siano capaci di accettare i sentimenti negativi dei bambini; riescano a definire insieme le regole che verranno dettate dal genitore biologico; possano contrattare degli accordi che

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consentano un passaggio armonioso da una casa all’altra per i bambini. Nel caso delle famiglie ricomposte, l’obiettivo generale e` inoltre quello di validare e normalizzare la famiglia ricostituita lavorando molto sugli aspetti positivi e sulle risorse e tenendo presente il metasistema familiare, vale a dire l’insieme dei nuclei familiari in cui i figli di genitori separati instaurano relazioni significative. In tutte le fasi del processo dinamico della separazione, adulti e bambini possono esprimere una difficolta` particolare ad elaborare i sentimenti sollecitati dalle diverse perdite. Per alcune persone si possono esprimere disturbi di personalita` anche gravi non riconosciuti fin quando il rapporto di coppia aveva costituito un contesto di compenso rispetto alle carenze personali. La psicoterapia individuale puo` quindi essere un supporto necessario in diverse fasi con obiettivi che mutano a seconda della gravita` della sofferenza personale e della difficolta` ad accedere alle risorse necessarie per arrivare ad una fase progettuale che riapre nuove prospettive di esperienza personale. Nelle situazioni meno problematiche la psicoterapia individuale puo` essere suggerita, e spesso in realta` viene ricercata dopo la fase conflittuale proprio per favorire il riequilibrio personale. Nei casi piu` problematici, la fase in cui e` piu` opportuno un aiuto ai singoli componenti della coppia, o ad uno in particolare, e` quella in cui si prepara la separazione. L’ambivalenza che prevale in questo periodo e la progressiva alienazione dal rapporto di coppia possono infatti stimolare difficolta` che compromettono pesantemente l’equilibrio personale deprivando le persone di quelle risorse di cui al contrario avranno particolare bisogno se il processo di separazione andra` avanti. Alcuni potrebbero cosı` assumere posizioni troppo deboli nella fase conflittuale in termini di equilibrio di potere con il partner durante le negoziazioni. In alcuni casi le difficolta` personali possono attivare dinamiche di coppia, basate su una inconsapevole protezione reciproca, che frenano il processo di crescita individuale e che impediscono la

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ricerca di soluzioni, e potrebbe essere utile una terapia di coppia che prepari alla decisione di separarsi e ad affrontare un’eventuale psicoterapia individuale.

4. Il caso di Giulia Giulia e` una donna di 33 anni, figlia di genitori separati da quando lei ne aveva sei, che chiede una consulenza in una fase in cui si e` separata di fatto dal marito senza ancora aver affrontato la separazione legale nonostante qualche tentativo di consulenza da un amico avvocato. Ha un figlio di 5 anni che frequenta la scuola materna e abita con lei e con la propria madre, convivente anche durante gli ultimi due anni di matrimonio. Lavora in un Ente Pubblico come impiegata svolgendo mansioni che la soddisfano. Giulia chiede aiuto personale ad una psicoterapeuta esperta in separazioni e divorzi, facendo riferimento ai propri problemi dovuti a forti livelli di ansia, ipocondria, fobie e tendenza ad abusare di cibo. Riferisce che per questi stessi sintomi ha gia` fatto alcune sedute di psicoterapia alcuni anni prima, quando aveva scoperto una relazione extraconiugale del marito. La psicoterapeuta, sollecitando Giulia a raccontare la storia del matrimonio e della separazione, rileva una difficolta` personale e di coppia a decidere fino in fondo per la separazione nonostante sia gia` avvenuto il distacco fisico. Giulia e Franco, infatti, hanno sempre condiviso una difficolta` a divenire autonomi dalle famiglie d’origine realizzando in modo soddisfacente i propri progetti personali, e alternano una relazione basata sulla forte complicita` a violenti conflitti che sfociano a volte anche nella violenza fisica. Nonostante entrambi abbiano gia` avviato delle relazioni affettive (per ora precarie), nei momenti buoni si frequentano a prescindere dai compiti genitoriali e a volte hanno avuto rapporti sessuali. Giulia e` comunque sicura che non ci siano piu` presupposti perche´ la coppia si riunisca. La scuola del figlio Andrea ha segnalato problemi di comportamento caratterizzati da aggressivita` verso i compagni e irrequietezza che impe-

disce di concentrarsi sui lavori proposti dalle maestre. Viene cosı` suggerito a Giulia il percorso di Mediazione Familiare che, non escludendo una valutazione della decisione presa dalla coppia, possa aiutare entrambi ad organizzare un piano di accordi per la separazione legale e ad evitare l’instabilita` emotiva che continua a caratterizzare la relazione nonostante la separazione. Viene cosı` rinviata la richiesta di aiuto terapeutico personale ad un momento successivo. Dopo circa quattro mesi, a seguito della separazione legale, Giulia e` ancora convinta della necessita` di una psicoterapia individuale. La modalita` della richiesta e` tuttavia cambiata. Giulia e` infatti centrata sulle difficolta` che avverte nel rapporto con il figlio, difficolta` che collega al proprio difficile rapporto con la madre e alla sua storia ` inoltre di figlia contesa tra genitori separati. E preoccupata di ripetere gli errori fatti con il marito scegliendo di nuovo partner sbagliati, e dunque vorrebbe comprendere meglio la propria difficolta` a costruire rapporti soddisfacenti con gli uomini. Risulta evidente come il percorso di mediazione familiare abbia avuto una funzione utile sia a livello dell’organizzazione della separazione che a livello della consapevolezza da parte di Giulia di poter rivedere molti aspetti della propria storia personale per affrontare al meglio la sua situazione di madre separata e di donna che dovra` riprogettare in modo nuovo la propria vita. Viene cosı` avviata una psicoterapia centrata esplicitamente sui conflitti attuali e sullo stress che si produce nelle diverse relazioni familiari e, parallelamente, con l’obiettivo di connettere alcune difficolta` attuali ai modelli relazionali di riferimento definiti durante la propria infanzia e adolescenza. Il caso vuole essere esemplificativo del lavoro di contestualizzazione delle problematiche che qualsiasi consulente o psicoterapeuta e` chiamato a svolgere nella situazione in cui le persone affrontano la separazione coniugale. L’interconnessione tra storia passata e storia presente e` particolarmente importante nell’attribuire significato alla sofferenza e alle difficolta` ad affrontare la vita affettiva e relazionale.

Le famiglie separate: problematiche e interventi

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44 Psicopatologia della donna Emilia Costa Parole chiave sindrome premestruale; dismenorrea; amenorrea; psicosi puerperale; menopausa

In questo capitolo non saranno descritte eventuali, possibili differenze psicologiche e psicopatologiche tra l’uomo e la donna. Saranno descritti invece una serie di disturbi psicopatologici che colpiscono «l’altra meta` del cielo», proprio a causa di sue specifiche funzioni. Funzioni come le mestruazioni, la gravidanza, l’allattamento e l’accudimento della prole ed infine la menopausa: situazione che segnala non la fine

della sessualita`, ma solo la cessazione della capacita` riproduttiva. Queste specifiche funzioni possono creare disturbi psicopatologici con caratteri peculiari. Dedicare un capitolo alla psicopatologia della donna non rappresenta un limite, ma il riconoscimento di specifiche e delicate funzioni che possono essere direttamente o indirettamente alterate. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Disturbi psichici nella vita psicosessuale della donna La vita psicosessuale della donna si caratterizza in fasi distinte, che occorre studiare e descrivere separatamente: ciclo mestruale, gravidanza, puerperio, climaterio. Bisogna pero` chiarire subito che le suddette fasi costituiscono momenti fisiologici e psicologici specifici della donna e che non comportano normalmente psicopatologia. Tutte le fasi sono legate a modificazioni psiconeuroendocrine, che hanno assunto e comportano, per la donna, uno speciale significato e vissuto, legato alla cultura piu` che al determinismo biologico specifico di ogni fase. Cultura che nel corso dei tempi ha quasi sempre teso a medicalizzare e psichiatrizzare cambiamenti squisitamente fisiologici della vita della donna. Citero` solo uno dei molteplici esempi che si potrebbero fare in proposito, in quanto, a mio avviso, ampiamente emblematico di una cultura che da sempre ha condizionato negativamente la salute della donna: la donna durante un lungo periodo della sua vita, deve considerarsi un essere abnorme. Non ho bisogno di rammentare ai medici la grande influenza che la mestruazione e la gravidanza hanno sulla vita psichica, e di fermarmi sul fatto che questi due stadi, senza rappresentare una vera e propria malattia, tuttavia disturbano notevolmente l’equilibrio mentale e ‘‘pregiudicano il libero arbitrio nel senso legale’’1.

Se riflettiamo che Moebius era un grande medico e psichiatra di scuola tedesca, scuola tra le piu` stimate e considerate, possiamo forse, alla luce delle conoscenze attuali, meglio comprendere la relazione cultura-psicopatologia, e conseguentemente l’influenza culturale nella insorgenza della psicopatologia della donna. Esistono tuttavia problemi, disturbi e sintomi inerenti alle modificazioni neuroendocrine e psicosociali delle varie fasi della vita psicosessuale femminile.

1

Paul Moebius, 1900.

La eziologia delle alterazioni psichiche di queste fasi e` comunque molto eterogenea, come pure le conseguenti espressioni psicopatologiche e cliniche. Fondamentalmente, il modo di vivere queste fasi, ed il vissuto di ciascuna donna, producono modificazioni biopsichiche nelle stesse. In modo tale che i fattori neuro-ormonali ed i vissuti psicologici, nei diversi contesti individuali e socioculturali, si influenzano a vicenda, modellando le fasi stesse. Le oscillazioni della psicosessualita` variano quindi dall’eta` puberale al climaterio, generalmente subendo delle modificazioni fisiologiche, relative ad un aumento della libido nel periodo adolescenziale, in cui il corpo e le sue modificazioni assumono una centralita` rispetto ad altre componenti dello sviluppo. Una riduzione della libido sessuale si puo` talvolta osservare nel periodo mestruale, durante la gravidanza e l’allattamento, e nel periodo della menopausa. Queste oscillazioni non sono esclusivamente riferibili all’effetto diretto delle modificazioni ormonali ma piuttosto all’intensa partecipazione affettiva, ai vissuti dinamici, alle attitudini della personalita` della donna in queste fasi di cambiamento psicofisico. I problemi, disturbi e sintomi delle suddette fasi variano anche esse da una donna all’altra. Le variazioni sono condizionate dagli aspetti neuroendocrini individuali, dalla personalita` di base e dalla cultura familiare, sociale ed ambientale. L’interazione tra tutti questi aspetti regola il modo di vivere le diverse fasi della vita della donna. La cui femminilita`, ripeto, non e` — come si riteneva in passato — un prodotto del determinismo biologico, ma una interazione ed interrelazione di aspetti somatici, psichici e socioculturali inerenti alla storia personale e transpersonale di ciascuna donna.

1.1. Sindrome premestruale Diversi studi epidemiologici rilevano una percentuale abbastanza elevata (40%) di disturbi in relazione al ciclo mestruale. Solo pero` in una percentuale minima (dal 2 al 10%) questi disturbi assumono rilevanza di sintomi costituendosi come

Psicopatologia della donna

sindrome premestruale (PMS) e richiedendo l’intervento medico e/o psicologico. Per sindrome premestruale si intende tutta una serie di sintomi psicofisici e comportamentali che compaiono in genere nella settimana precedente l’inizio della mestruazione. Molti sono gli studi che hanno tentato di mostrare la specificita` e l’eziologia di questa sindrome, associando ad essa le piu` svariate sintomatologie. Sul piano biologico la PMS e` stata in passato considerata addirittura una endocrinopatia (Dalton, 1982). Meno drastiche, anche se sempre riduttive, altre ipotesi considerano la PMS legata ad uno squilibrio tra estrogeni e progesterone, o ad una carenza relativa di progesterone, ad iperprolattinemia, a deficit di vitamine (B e/o A), a riduzione di oppioidi endogeni, disfunzione ipotiroidea infraclinica. Le ipotesi psicodinamiche si sono mostrate contraddittorie e/o tendenti a generalizzare senza esprimere le autentiche problematiche del femminile. Gli studi sulla personalita` hanno messo in evidenza un maggior tasso di neuroticismo con tendenza alla somatizzazione dell’ansia ed alla tensione muscolare, insieme ad una minore capacita` di socializzazione. Le piu` recenti ipotesi psicosociali che valutano l’importanza delle credenze e delle aspettative della donna rispetto alle sue mestruazioni, correlandole a fattori situazionali e relazionali, sembrano aprire prospettive diverse nella comprensione di disturbi ad insorgenza multifattoriale. In passato invece si riteneva che le mestruazioni, producendo scompenso, attivassero la sintomatologia nevrotica o psicotica, favorissero il ` stata suicidio ed i comportamenti antisociali. E anche descritta una caratteropatia mestruale con aumento dell’aggressivita`; ed addirittura una psicosi mestruale legata e determinata dal processo somatico mestruale. Inoltre, distimie premestruali e mestruali, la catatonia e la psicosi di Kleist sono state riferite ad una evoluzione periodica mestruale. Oggi il DSM III-R con la nuova categoria diagnostica formulata, «Disturbo distrofico della

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fase luteale del ciclo», sembra riproporre gli atteggiamenti medici diffusi in passato, ponendo l’accento sulla gravita` del PMS, sulla fasicita` e sulle differenziazioni da altri disturbi psicofisici in base ai seguenti sintomi: 1)

marcata labilita` affettiva (sentimenti improvvisi di tristezza, tensione, irritabilita`, rabbia); 2) persistente e marcata rabbia ed irritabilita`; 3) marcata ansieta`, tensione; 4) umore marcatamente depresso, sentimenti di sfiducia, pensieri di autodeprecazione; 5) diminuito interesse delle usuali attivita` (lavoro, amicizie, hobbies); 6) facile stancabilita` o marcata mancanza di energie; 7) sensazioni soggettive di difficolta` della concentrazione; 8) marcato aumento dell’appetito, alimentazione smodata, desiderio di cibi specifici; 9) ipersonnia o insonnia; 10) altri sintomi fisici quali: dolenzia mammaria, emicrania, dolori muscolari o articolari, sensazione di gonfiore, aumento ponderale. In realta` studi recenti hanno ridimensionato la validita` delle asserzioni piu` riduttive, non riconoscendo alla sindrome premestruale una specificita` nosologica. La nostra esperienza ci porta a cercare di comprendere i disturbi premestruali e mestruali in relazione agli stereotipi culturali ancora oggi molto presenti e riproponentisi. Tenendo ben presenti i fattori bio-psico-sociali ed ambientali e le loro complesse interrelazioni. I grandi cambiamenti nel ruolo e nel comportamento femminile negli ultimi anni evidenziano inoltre come le esperienze reali influenzino i vari momenti della vita della donna, compreso il ciclo mestruale; e che la sofferenza femminile non puo` piu` essere reclusa nel biologismo, ma nasce da complesse situazioni a forte impronta psicosocioambientale. 1.2. Dismenorrea Per dismenorrea si intende il dolore durante la mestruazione, soprattutto nei primi giorni, che

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

puo` essere anche accompagnato da dolore lombosacrale e pelvico, ed a volte anche da eccitabilita`, nausea, vomito, meteorismo, cefalea, diarrea o tenesmo, sudorazione, pallore, lipotimia. La durata e l’intensita` del dolore variano da donna a donna; esso si riscontra piu` frequentemente in eta` adolescenziale; tende a risolversi con la prima gravidanza o con la maturita`. Puo` essere sostenuto e prolungarsi per problemi e tensioni sessuali. Nella forma primaria o idiopatica (l’80% dei casi), relativa esclusivamente ad abnormi contrazioni dell’utero, sono i fattori psicologici e socioculturali che sembrano condizionarne l’insorgenza ed il mantenimento. Condizioni predisponenti risultano: l’incidenza familiare, fattori emozionali, lavoro stressante, sessualita` conflittuale, difficolta` di rapporto col partner. Oggi tuttavia il cambiamento dell’atteggiamento verso la sessualita`, la larga informazione, il modo diverso di intendere il femminile ha fatto perdere la grossa carica psicogena legata alla mestruazione dolorosa. Cosı` l’importanza clinica e sociale della dismenorrea e` molto diminuita.

1.3. Amenorrea psicogena Per amenorrea psicogena si intende la sospensione del ciclo mestruale per cause psichiche. La durata della sospensione e` variabile da mesi ad anni, ed in genere e` relativa al disturbo primario, ed all’intensita` e durata dello stress emotivo e fisico. ` in genere molto frequente nelle psicosi deE pressive e schizofreniche con disturbi psicomotori. In alcuni casi il ristabilirsi del ciclo puo` essere segno prognostico favorevole per la risoluzione della psicosi; in altri solo di un miglioramento sul piano fisico. Anche in alcune forme nevrotiche gravi assistiamo alla sospensione, totale o parziale, temporanea del ciclo; ed in alcune forme di anoressia mentale in cui la perdita di peso facilita l’instaurarsi dell’amenorrea psicogena. Inoltre l’amenorrea e` molto frequente in donne che per motivi «istituzionali» si trovano

internate in collegi, ordini religiosi, sezioni militari, carceri. Il ciclo mestruale della donna e` molto sensibile alle variazioni emotivo-affettive, allo stress, all’aggressivita`. Variazioni affettive acute, tensioni emotive persistenti possono provocare varie alterazioni del ciclo ed amenorrea. Molto spesso l’amenorrea rappresenta una difesa per la sessualita` naturale, quando questa e` vissuta in modo conflittuale, o quando la femminilita` non si e` potuta adeguatamente sviluppare.

1.4. Disturbi psichici relativi all’interruzione volontaria di gravidanza La legge 194/78, nel proporre un colloquio psicologico per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), ha permesso di iniziare un lavoro di comprensione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali in un campo altrimenti di non facile accesso. Le difficolta` dell’intervento psicologico relative alle note conflittualita`: politico-amministrative, ospedale-consultorio, ginecologo-psicologo; alla confusione della stessa utente che scambia il «sostegno psicologico» in una situazione di crisi per una perdita di tempo o per un intervento di tipo morale, hanno limitato la possibilita` di elaborare la domanda psicologica sottostante la richiesta di IVG e l’eventuale emergenza di nuclei psicopatologici. La nostra esperienza presso il Servizio di IVG dell’Ospedale S. Filippo Neri ci ha permesso di enucleare alcune problematiche, affrontate in modo interdisciplinare, ed approfondite tramite un lavoro di e´quipe. Il maggior numero di aborti, contrariamente a quanto comunemente si pensa, sembra verificarsi nella fascia socioculturale media e per un’eta` media di 30 anni. Inoltre tutte le donne sembrano sicure circa la loro decisione di abortire, e non mostrano interesse a cambiarla. Danno per lo piu` la «colpa» di questa al partner, alla mancanza di partner, al padre, a fattori economici. Dalle richieste di urgenza emergono motivazioni delle utenti spesso inconsce, che possono essere alla base dell’IVG, e riguardano fondamentalmente una sessualita` conflittuale, un insuf-

Psicopatologia della donna

ficiente desiderio di avere un «figlio» con ambivalenza verso la maternita`, una personalita` passivodipendente con tendenza a deprimersi, o fallica con scarsa maturazione della identita` femminile, e meccanismi di difesa di tipo negazione e razionalizzazione. Nel casi di IVG multipla emergeva angoscia di perdita, di castrazione, di morte. Le motivazioni consce riguardano una cattiva interazione di coppia, mancanza di partner fisso, partner insicuro, relazione conflittuale nella famiglia di origine, numero dei figli, difficolta` economiche e/o di alloggio. Dai colloqui e` inoltre emersa una insufficiente o assente informazione dei mezzi contraccettivi e dei relativi effetti, e della conoscenza della normale fisiologia erotico-sessuale.

1.5. La gravidanza immaginaria Il disturbo, conosciuto e descritto sin dai tempi di Ippocrate, e` forse quello che meglio evidenzia e dimostra l’enorme influenza della psiche sul soma. Il quadro clinico della gravidanza immaginaria e` infatti costituito da tutti i fenomeni classici della gravidanza: malesseri, nausea, vertigini, sensazioni di gioia e pienezza, di movimenti fetali, amenorrea, modificazioni del seno, dell’utero, dei genitali esterni, aumento di peso, ecc., senza che questa sia veramente in atto. L’ideazione ed il comportamento sono centrati su questo tema, che richiama l’attenzione sull’essere madre, e si avvantaggia di questa condizione. La maternita` e` desiderata come strumento e ruolo per ottenere cio` che non si riesce ad avere in modo naturale: attenzione, considerazione, stima, riduzione del lavoro, e tutte le premure riservate al ruolo di madre. In generale non esiste un autentico desiderio di generare, mentre osserviamo disturbi nevrotici o psicotici con difficolta` di rapporto donna-uomo, ansia, insoddisfazione, disturbi della sessualita`. Spesso nell’anamnesi si riscontrano diversi aborti spontanei o volontari. Frequentemente si trova una personalita` isterica o genericamente immatura.

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1.6. Sterilita` psicogena Anche qui la psiche rivela la sua potenza: una donna fisicamente perfettamente normale non riesce, per quanti sforzi faccia, a diventare gravida. In genere il disturbo e` legato ad una forma depressiva cronica, con tensioni emotive prolungate nel tempo; una personalita` nevrotica, prepsicotica o francamente psicotica, e/o pregressa psicopatologia. Spesso il rifiuto inconscio della maternita` e` inerente a carenza o assenza di un modello femminile positivo: svalorizzazione del femminile nella famiglia di origine; pregresso desiderio spesso inconscio dei genitori di un figlio maschio; omosessualita` latente. Qualche volta il disturbo e` dovuto ad una incompatibilita` col partner e sparisce cambiando le condizioni di vita o cambiando partner; oppure ad una relazione di coppia improntata ad interazioni psicopatologiche (eccessiva dipendenza, rapporto edipico, pietrificazione del rapporto). Spesso il vissuto del rapporto evidenzia il fattore ` noto infatti che lo psicogeno come primario. E stress psicogeno puo` bloccare l’ovulazione, la mobilita` tubarica, il muco cervicale e la circolazione ematica a livello pelvico.

2. Disturbi psichici durante la gravidanza ed il puerperio La revisione critica della letteratura su questi argomenti ha permesso di enucleare alcuni problemi: 1)

2)

i vari autori che nel tempo se ne sono occupati non hanno preso in debita considerazione i problemi specifici della maternita` e della individualita` bio-psico-sociale ed ambientale della madre; l’inquadramento nosografico delle psicosi gravidiche e puerperali e` stato, e rimane tutt’oggi, difficile per la multiformita` e variabilita` dei sintomi, che non permettono una classificazione con una precisa identita` sindromica, secondo le concezioni classiche della psichiatria;

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

3)

il problema se esiste una psicopatologia specifica della gravidanza, dell’allattamento e del puerperio, o se i sintomi e/o le sindromi che troviamo in queste fasi della vita della donna siano assimilabili ai grandi quadri clinici classici, rimane tutt’oggi aperto; non emergono studi che mettono in evidenza le interrelazioni tra fattori genetici, biologici, psicologici e sociali nell’insorgenza dei suddetti disturbi.

4)

Normalmente l’esperienza della maternita`, ricca di contenuti istintivi, affettivi, creativi e` cosı` complessa e soggetta alle piu` sottili modulazioni, che anche per la donna piu` sana puo` essere difficile coglierne l’essenza intima e profonda. Questa fase della vita della donna, che inizia fin dal momento del concepimento, porta, come avviene sul piano biologico, ad una serie di mutamenti psicologici, che solo se vengono vissuti consapevolmente permettono alla donna di vivere pienamente questa nuova esperienza. Avviene in lei qualcosa che trascende il personale e la rende pronta a realizzarsi nella sua funzione di madre. Ella prende parte attiva al processo creativo che si svolge in lei, senza farsi assorbire dalle limitazioni della sua condizione, peraltro compensate dalle nuove potenzialita`, e si concentra su cio` che si sta compiendo, e passa attraverso una diversa fase di coscienza. Raggiunge cosı` biologicamente e psicologicamente la pienezza e la completezza. Quando la donna accetta la gravidanza con questo spirito, questa diventa un avvenimento di profonda portata, che le fa sentire la comunanza con la «Madre creatrice» e al tempo stesso la sua individualita`. La donna riconosce che la gravidanza e` l’adempimento di una fase di crescita e maturazione che le appartiene e non di un ruolo imposto dall’esterno. Purtroppo non sempre oggi la maternita` viene vissuta in modo fisiologico naturale. Per motivi personali e sociali, la donna puo` vivere questa esperienza come una limitazione su diversi piani: la bellezza, la sessualita`, la capacita` lavorativa, la carriera; o come un ruolo obbligato ed imposto dall’esterno: dal marito, dai genitori o suoceri, dalla societa`. Inoltre l’eccessivo carico di lavoro e responsabilita` extra ed intradomestico, la molteplicita` dei ruoli che nella societa`

attuale la donna e` chiamata a svolgere, spesso concorrono alla decisione di avere un solo figlio o di non averne affatto. Se l’intensita` del desiderio di maternita` non e` sufficiente, o se esiste un rifiuto conscio o inconscio, parziale o totale, della maternita`, o addirittura l’odio per questa, i problemi e disturbi durante la maternita` non desiderata e voluta possono essere anche di grave entita`. I disturbi che possiamo incontrare durante la gravidanza, l’allattamento ed il puerperio si possono in sintesi ricondurre a fenomeni reattivi situazionali, nevrotici, psicotici e psicosomatici. Secondo il DSM III-R. possiamo considerare: 1) 2) 3)

disturbi dell’allattamento con umore depresso; disturbi distimici; psicosi postpartum.

2.1. Disturbi psichici in gravidanza Alcuni autori continuano a considerare le psicosi gravidiche e le presentano approssimativamente con le stesse caratteristiche cliniche della psicosi postpartum. Altri invece escludono durante la gravidanza una psicosi come entita` morbosa. Altri ancora sostengono che molti disturbi nevrotici, depressivi ed anche schizofrenici precedenti diminuiscono durante questo periodo, che rappresenta una sorta di protezione e stabilizzazione dell’affettivita`. Sembra quindi che malgrado i grandi cambiamenti ormonali propri di questo periodo, se la maternita` viene vissuta positivamente dalla donna puo` avere effetti equilibranti rispetto alle pregresse problematiche. Secondo la nostra esperienza, nei casi in cui esiste un rifiuto della maternita` o questa e` vissuta in modo conflittuale per motivi personali (immaturita` affettiva e/o sessuale, assenza di partner, problemi coniugali, insicurezza economica), la maternita` puo` costituire uno stress, anziche´ un evento positivo e maturativo, ed attivare una depressione psicofisica. In tali casi le alterazioni psichiche e psicosomatiche (depressione ed iperemesi) spesso accoppiandosi, ne rafforzano il vissuto negativo. Nei primi mesi di gravidanza, conseguente-

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mente alle modificazioni endocrine proprie di questo periodo ed ai vari problemi che ciascuna donna puo` avere o incontrare, possiamo trovare diversi tipi di disturbi: 1) Disturbi psicosomatici: a)

b)

astenia, pesantezza, disappetenza o aumento dell’appetito, anche con desiderio di cibi particolari; iperemesi gravidica con nausea e vomito.

Se questi sintomi assumono una grande intensita` e si accompagnano a serie manifestazioni emotive e si prolungano nel tempo, possono essere dovuti ad impregnazione tossica, e/o a meccanismi psicogeni di rifiuto della maternita`: timori per la deformazione fisica, o i dolori da parto; vissuti depressivi con sentimenti di colpa; rapporto disturbato con la madre; precedenti alterazioni psichiche, tra cui l’anoressia mentale; disturbi della sessualita`. L’iperemesi sembra piu` frequente nelle primipare, e puo` assumere anche carattere grave in certe varianti, portando a stadi di denutrizione ed ipovitaminosi. 2) Disturbi psichici: a)

b) c) d)

ansia e fobie per il parto, per le malattie e la vita del nascituro, negazione della gravidanza; depressione lieve; depressione grave; disturbo psicotico.

` noto come nella seconda meta` della graviE danza la crescita del feto aumenta le necessita` calcio-vitaminiche che possono risultare insufficienti nel rapporto alimentare, depauperando cosı` le riserve naturali dell’organismo, e favorendo i disturbi degli ultimi mesi di gravidanza. In questo periodo sono stati descritte crisi epilettiche di lieve entita` che, per diatesi spasmofilica e problemi di carattere, possono aggravarsi fino alla eclampsia vera e propria, con alterazioni psichiche di tipo delirio onirico, angoscia, confusione mentale, disorganizzazione della personalita`.

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Relativamente frequente anche una depressione maggiore con caratteristiche cliniche assimilabili a quelle dei primi mesi di gravidanza, e maggior propensione verso elementi di tipo confusionale. Piu` rara la corea gravidica, che si puo` presentare in donne con pregressa Corea, minore Corea di Sydenham, con disturbi dell’umore e delirio onirico acuto o subacuto.

2.2. Disturbi psichici in puerperio Spesso la donna che partorisce non e` stata adeguatamente preparata, e si trova a dover affrontare quasi sempre da sola eventuali difficolta`, senza aver avuto spiegazioni e chiarimenti sui fenomeni che dovra` fronteggiare. I cambiamenti dell’assetto ormonale, l’inizio dell’allattamento, i problemi situazionali e/o di personalita` possono attivare leggere variazioni dell’umore con ansia e/o sintomi psicoendocrini. Inoltre, durante le settimane seguenti al parto possono comparire le cosiddette psicosi puerperali o postpartum, la cui insorgenza sembra essere condizionata da fattori disposizionali e somatogeni. Secondo Hunhnee e Drenk circa il 90% delle psicosi puerperali sono di tipo endogeno ciclotimico o schizofrenico; in esse i fattori somatici possono avere un ruolo scatenante e patoplastico. In quelle invece ad impronta somatogena, sarebbero i fattori disposizionali che giocano un ruolo maggiore, e possono portare alla ripetizione delle psicosi nella successiva gravidanza. Sempre secondo questi autori, nelle prime prevarrebbero gli stati confusionali, nelle seconde elementi catatoniformi. Per altri autori l’inizio brusco e` caratterizzato da stati confusionali polimorfi, delirio onirico, angoscia, disorganizzazione comportamentale. L’evoluzione del quadro clinico chiarira` se ci troviamo di fronte ad una sintomatologia schizofrenica, o ciclotimica o depressiva. Sembra che per le forme depressive ci sia un maggior rischio di recidiva nelle successive gravidanze. Inoltre per i vecchi autori l’insorgenza dei disturbi emotivi «postpartum» si verificava quasi

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esclusivamente nel primo mese dopo il parto. In contrasto con gli studi precedenti, si evidenzia oggi un maggior numero di casi che incidono dal terzo al nono mese dopo il parto, e non seguono immediatamente la nascita. Ancora, per gli autori moderni esiste una sindrome «maternity blues», che si avvicina alla sindrome depressiva, ma con sintomi meno severi, che consistono in alterazioni dell’umore, di solito transitorie, che possono iniziare con pianto progressivo, tristezza, rabbia, euforia, confusione, ansieta`, labilita`. In alcuni casi il puerperio svela una psicosi latente. In altri la psicosi presenta una eziologia tossica, infettiva o endocrina. La prognosi di queste psicosi e` favorevole, con minor rischio di cronicizzazione rispetto ad altre forme non puerperali, pur presentando pericoli di ricadute soprattutto nelle situazioni a rischio quali: mancanza di supporti affettivi, economici e sociali; eta` adolescenziale o eta` matura; precedenti aborti; eventi di vita stressanti; pregressa psicopatologia; cattivo rapporto con la propria madre e con la psicosessualita`. Inoltre la prognosi sembra piu` favorevole se l’inizio e` brusco e precoce rispetto al parto, nel qual caso anche la durata e` piu` breve rispetto alle forme ad inizio subacuto e piu` tardive, che possono durare anche piu` a lungo. Spesso, nelle donne che si ammalano di psicosi postpartum, si trova una struttura di personalita` di tipo prepsicotico con difficolta` ad esprimere emozioni ed affetti, rigidita` nei rapporti interpersonali, difese di tipo ossessivo con tendenza all’opposizione e al negativismo, pensiero inibito e scarsamente aderente alla realta`. L’eziologia di tutti questi disturbi e` multifattoriale ed e` relativa a: fattori genetici, di personalita`, socio-ambientali e situazionali.

2.3. Disturbi psichici relativi all’allattamento ` noto che quando la donna e` serena ed ha acE cettato il ruolo di madre e la gravidanza, il parto e il successivo allattamento si svolgono normalmente. La madre trae piacere dalla vista e dal con-

tatto con il neonato, che nelle sue prime ore di vita cerca il seno e nella suzione stimola la secrezione di ormoni utili per la lattazione, la contrattilita` e la omeostasi uterina. Questa interazione e reciproca stimolazione tra madre e neonato segna una tappa fondamentale del processo di attaccamento, che prelude alla successiva capacita` della madre di accudire il proprio bambino. Il comportamento della donna in questa fase e` influenzato dalla personalita` di base, dall’ambiente familiare, dalla cultura del luogo e del tempo, dagli eventi perinatali e dalla eventuale pregressa o attuale psicopatologia. Le anomalie di comportamento consistono in: 1) 2) 3) 4)

5)

rifiuto dell’allattamento conscio ed inconscio; allontanamento del neonato; difficolta` nell’accudimento; ansia e preoccupazioni eccessive, che interferiscono col normale allattamento ed accudimento materno; mancanza o scarsa identificazione del neonato come individuo a se´ stante. L’eziologia di questi disturbi e` relativa a:

1) 2) 3)

4) 5) 6)

pregressa o attuale psicopatologia; separazione precoce del bambino dalla madre per parti prematuri; separazione del bambino dalla madre per malattia neonatale (sindrome del bambino vulnerabile); separazione precoce del bambino dalla madre per parti complicati; separazione del bambino dalla madre per cause ospedaliere; separazione precoce del bambino dalla madre per procedure assistenziali.

Il processo di attaccamento e` molto complesso e sensibile agli eventi situazionali, e necessita di particolare delicatezza, in quanto e` responsabile e sta alla base del normale allattamento ed allevamento del bambino e del rapporto madre-bambino, e del futuro sviluppo psicofisico di quest’ultimo.

Psicopatologia della donna

2.4. Disturbi psichici in madri di bambini prematuri La nascita di un figlio prematuro determina l’insorgenza di due ordini di problemi: 1) 2)

la reazione della madre al parto inatteso; la separazione precoce tra madre e bambino, con relativo trauma.

Nella situazione del parto prematuro, la madre, che durante la gravidanza ha percepito il figlio come parte imprescindibile di se´, non e` ancora pronta a considerare il bambino come una entita` distinta. Pertanto, la nascita viene sentita e vissuta come un danno per l’integrita` corporea, una ferita narcisistica, poiche´ la madre si vede sostituita nella sua primaria funzione dall’incubatrice quale entita` indispensabile per la sopravvivenza del bambino. Si evidenziano, nelle madri di prematuri, timori per la vita del neonato con conseguente lutto anticipato: esse si distaccano emotivamente dal piccolo anticipandone la morte; a volte rifiutano di immaginare la futura relazione con il bambino, evitano di parlare con lui, di recarsi al reparto, di toccarlo. Frequente, in questo periodo, una sindrome depressiva, espressione sia della deprivazione subita per la separazione dal bambino, sia dell’introiezione delle pulsioni aggressive rivolte a quest’ultimo. L’assenza del neonato, che accentua la ferita narcisistica dovuta alla perdita di un oggetto interno molto investito (feto), puo` portare alcune madri ad uno stato di smarrimento e di caos dovuto alla mancanza della esperienza attiva di essere madre. Tale sindrome, descritta come «subconfusione esistenziale», malgrado il carattere vistoso dei sintomi, come ansia, depressione, confusione, non solo presenta una evoluzione positiva, scomparendo al primo contatto con il bambino, ma paradossalmente e` segno di buona salute psichica, in quanto proprio le donne che sono preposte psichicamente a vivere un’esperienza materna soffrono maggiormente per la mancanza del figlio. Un secondo quadro clinico e` la «maternita` bianca», la quale costituisce l’opposto della sindrome subconfusionale precedente; in essa, in-

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fatti, la madre si adatta immediatamente all’assenza del bambino e non sembra soffrire per tale mancanza. Ma tale «pseudonormalita`» e` chiaro segno di una difficolta` di maternage, che si rivela appieno quando il bambino viene restituito. Infatti all’atto della dimissione del bambino nasce l’esigenza, per la madre, di entrare concretamente in relazione con lui. Ma essendo stato superato quel periodo di estrema sensibilita` che Winnicott definisce «preoccupazione materna primaria», subentra invece un anacronismo tra gli istinti della madre ed i bisogni del figlio, manca la reciprocita`. Il normale comportamento del bambino (pianto, problemi di sonno, alimentazione, ecc.) viene frequentemente frainteso dalla madre, che puo` reagire negativamente, fino ad arrivare, in casi estremi, al maltrattamento. Queste madri hanno la tendenza a mantenere un contatto con il neonato piu` visivo che non tattile e sempre limitato. Alcuni autori ritengono che la paura di toccare il bambino, manifestata dalle madri dei prematuri, non dipende tanto dalla fragilita` reale di questi bensı` dal periodo, spesso lungo, di separazione della madre dal figlio; infatti l’effetto piu` grave di tale separazione sembra sia proprio la mancanza di fiducia della madre nelle proprie capacita` di entrare in rapporto con il proprio bambino comprendendone i bisogni, calmandolo ed accudendolo. Inoltre tali paure risultano accresciute dal fatto che il bambino viene vissuto come piu` debole degli altri.

3. Disturbi psicofisici in menopausa Si intende per menopausa la sospensione definitiva del normale flusso mestruale mensile. Tale sospensione e` accompagnata da modificazioni psiconeuroendocrine e metaboliche con esaurimento della funzione ovarica. Raramente la sospensione e` brusca, piu` frequentemente si manifesta in maniera parziale e graduale e si caratterizza come premenopausa. La premenopausa si esprime con irregolarita` del ciclo mestruale, in cui si alternano cicli corti, da 14 a 18 giorni circa, a cicli piu` lunghi, da 50 a 80 giorni circa; ed in cui la mestruazione si modifica in modo variabile, sia come intensita` sia

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

come durata. In passato si riteneva che la menopausa era «segnata da una soppressione brusca e fatale del ciclo mestruale, mentre l’andropausa era caratterizzata da una graduale e parziale estinzione della funzione gonadica maschile». In realta` la cultura della menopausa e` andata cambiando attraverso i tempi: in parte per l’innalzamento dell’eta` media di vita, che ha portato anche ad un aumento dell’eta` di insorgenza della menopausa. Inoltre nei Paesi piu` industrializzati l’elevazione dell’eta` media di sopravvivenza, associata al calo di natalita`, ha determinato un progressivo aumento percentuale della distribuzione della popolazione (in misura maggiore 51% delle donne), verso le fasce di eta` piu` avanzate. In parte, i grandi cambiamenti culturali degli ultimi anni hanno ridefinito l’identita`, il ruolo, le capacita` della donna e la cultura del femminile al di la` della funzione riproduttiva e sessuale. In tutti i casi la menopausa, come tutte le fasi di passaggio e di cambiamento, rappresenta una crisi fisiologica. Crisi che ciascuna donna affronta secondo le caratteristiche della sua personalita` biologica e psicologica: il modo di reagire ai cambiamenti ormonali, l’equilibrio affettivo, l’atteggiamento erotico-sessuale, gli aspetti cognitivi, le dinamiche intrapsichiche e relazionali, nonche´ la cultura del contesto familiare e socio-ambientale in cui vive. Un tempo l’identita` femminile faceva riferimento ad un modello unico e stabile (maternita`bellezza) accettato dalla maggior parte delle donne, anche con stratificazioni socioculturali diversificate. Cosı` quasi sempre il climaterio veniva vissuto solo come perdita: della capacita` procreativa, dell’attrattiva sessuale, della efficienza funzionale e quindi della identita` e della autostima, con conseguente difficolta` dell’adattamento personale e sociale; o addirittura come l’inizio del decadimento ed invecchiamento patologico. Oggi, che il modello di identita` femminile sta cambiando e fa riferimento a diversi investimenti libidici secondo la storia biologica, la biografia personale ed il gruppo familiare di appartenenza, la menopausa sta perdendo la connotazione di «ineluttabile invecchiamento», per proporsi come

momento di cambiamento e di sviluppo di nuove e diverse potenzialita` e creativita`. La menopausa tuttavia e` influenzata da diversi fattori che ne possono condizionare l’evoluzione in senso psicopatologico. L’interazione dei vari fattori: genetici, biologici, individuali, familiari, culturali e sociali puo` concorrere a determinare la sindrome del climaterio. Si puo` dire che ogni donna vive il climaterio che corrisponde alla sua vita sessuale precedente ed alla sua personalita` globale; conseguentemente, che esiste la disposizione ad un climaterio patologico. Disposizione che puo` essere attivata dai fattori precedentemente esposti, e, secondo la personalita` premorbosa, dai conflitti riguardanti la sessualita`, della precedente psicopatologia e/o patologia organica. La menopausa puo` essere normale (tra i 45 e i 55 anni), normale precoce (prima dei 45 anni), normale tardiva (dopo i 55 anni), e chirurgica. La sindrome climaterica consiste in una serie di sintomi fisici, psicofisici e psichici, diversi da una donna all’altra, secondo le variabili che abbiamo precedentemente esposto (compresa l’eta` e le modalita` d’insorgenza) e che possono manifestarsi con intensita` e durata molto variabile, da alcuni mesi a molti anni, e che sono sostenuti dalla risposta individuale e medico-sociale alla sindrome stessa. I sintomi di piu` frequente riscontro sono sintomi fisici: ipotensione, ipertensione, disturbi respiratori, manifestazioni edemigene, aumento temporaneo di peso, tensione mammaria, gonfiore addominale, secchezza vaginale, vaginiti, disturbi urinari, emorroidi, disturbi endocrini, dolori muscolo-scheletrici, prurito. Sintomi psicosomatici: disturbi vasomotori, vampate, sudorazione, calore, tachicardia, cardiopalmo, cefalea, parestesie, lipotimie. Sintomi psichici: astenia, inquietudine, irritabilita` emotiva, ansieta`, insonnia, ipersonnia, umore depresso, paure ossessive, agorafobia o altre fobie, malessere, aggressivita`, introversione, difficolta` di attenzione e concentrazione, modificazioni della sessualita`. Inoltre, in donne biologicamente e psicologicamente predisposte, modificazioni psiconeuroimmunoendocrine proprie della menopausa

Psicopatologia della donna

possono essere l’inizio del declino psicofisico e favorire i processi di invecchiamento. Molte malattie psicosomatiche possono insorgere in menopausa: diabete, ipertiroidismo, ipertensione, osteoporosi, infezioni urinarie, vaginiti atrofiche, polimiositi, invecchiamento cerebrale precoce, ecc. Sul piano psicopatologico, la sindrome piu` frequente in menopausa e` la depressione. La depressione puo` manifestarsi in forma lieve e prolungata, in genere in donne con personalita` nevrotica; oppure in forma grave di tipo endogeno monopolare, con caratteri di intensita` e drammaticita`, in donne con personalita` psicopatica o psicotica ma con tendenza ad una remissione piu` rapida rispetto alle forme non legate alla menopausa. L’insorgenza e` variabile rispetto all’inizio della menopausa, il decorso e la remissione sono relativi alla personalita` di base, al trattamento terapeutico ed alle condizioni di vita della donna. I sintomi, rispettando la variabilita` individuale, consistono in: sintomi soggettivi, che si esprimono con sentimenti depressivi di inutilita`, inadeguatezza, incapacita`, infelicita`, riduzione e/o perdita della libido sessuale e dell’interesse per il proprio corpo, perdita della progettualita`; e sintomi oggettivi fisici, psicosomatici e psichici come descritto precedentemente per la sindrome climaterica, che si accoppiano nei modi piu` variabili secondo le diverse personalita` nei vari contesti. I sintomi ansiosi, gli spunti fobici, le paure ossessive, l’insoddisfazione generale e sessuale possono accompagnare la depressione o costituire una «sindrome esistenziale climaterica» inerente alla personalita` di base, a fattori situazionali e relazionali, ad eventi stressanti. Il rapporto tra menopausa e depressione, menopausa e disturbi della sessualita`, sentimenti depressivi e comportamento sessuale, non e` stato ancora sufficientemente studiato ed approfondito. La seguente cartella clinica, da noi approntata ed usata nel nostro servizio di Psicosomatica e Psicoterapia della Donna2, tende ad indagare una serie

2 Presso il Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Psicologia Medica dell’Universita` ‘‘La Sapienza’’, Roma.

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di parametri ancora non sufficientemente valutati nello studio dei problemi psicofisici della donna in menopausa. SCHEDA SEMISTRUTTURATA PER I DISTURBI PSICOFISICI DA MENOPAUSA Data intervista: Nome e Cognome (o sigla di riconoscimento): Luogo e data di nascita: Indirizzo: 1)

caratteristiche sociodemografiche ed antropometriche

2)

caratteristiche psicosociali a)

Profilo di personalita` (colloquio e test M.M.P.I.):

b)

Relazioni psicosociali: — — — — — — — — —

c)

Erotismo e sessualita` — — — — — — — — — — — — — — — — —

d)

Rapporto con la famiglia d’origine: Rapporto con il partner: Rapporto con la famiglia d’origine del partner: Rapporto con i figli: Rapporto con le attivita` casalinghe: Rapporto con il lavoro: Rapporto con il mondo esterno (amici, conoscenti, altri): Rapporto con hobby e vacanze: Altro:

Grado di informazione: Atteggiamento nei confronti della sessualita`: Storia sessuale: Erotismo: Attivita` sessuale: Frequenza rapporti di penetrazione: Frequenza rapporti sostitutivi: Frequenza attivita` masturbatoria: Eccitabilita`: Desiderio: Grado di soddisfazione: Luogo di soddisfazione: Ansia associata all’attivita` sessuale: Pensieri associati all’attivita` sessuale: Oggetti associati all’attivita` sessuale: Disfunzioni sessuali: Disturbi dell’identita` sessuale:

Psicosessualita` attuale — — — — —

Attivita` Attivita` Attivita` Attivita` Attivita`

onirica: fantastica: da stimolo figurato: da stimolo pensato: da stimolo reale saltuario:

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Manuale di psichiatria e psicoterapia — — — — — — — — e)

3)

Attivita` sessuale abituale con penetrazione: Attivita` sessuale senza penetrazione: Attivita` sessuale masturbatoria: Desiderio attuale: Soddisfazione attuale: Preoccupazioni di insufficienza o inadeguatezza: Ricordi e valutazione dell’esperienza: Aspettative nei confronti del partner:

Depressione: scala H.A.R.D.

caratteristiche dello stato di salute a)

Anamnesi

La maggior parte dei problemi, sintomi e sindromi che si riscontrano in menopausa sembrano legati al fallimento nel cambiamento e nella ristrutturazione dell’identita` femminile. Questo cambiamento, se non viene adeguatamente preparato ed affrontato, puo` sconvolgere l’intera omeostasi dell’organismo, con conseguente disadattamento, malattia, invecchiamento precoce. Prima che cio` avvenga sarebbe opportuno: 1) 2)

Familiare; fisiologica; patologica remota; patologica prossima; psicopatologica; altre notizie. b)

Menopausa — — — — — — —





c)

Indagine neuroendocrino-immunologica: Sottopopolazione mono-linfocitaria: 1-CD3, CE4, CD8, HLA-DR, TAC, NK. —



4)

Menopausa chirurgica: Menopausa spontanea precoce: Menopausa spontanea naturale: Menopausa spontanea tardiva: Premenopausa: Data inizio sintomi e/o problemi: Sintomi fisici: ipotensione, ipertensione, disturbi respiratori, manifestazioni edemigene, aumento temporaneo di peso, tensione mammaria, gonfiore addominale, secchezza vaginale, vaginiti, emorroidi, dolori muscolo-scheletrici, prurito, disturbi urinari, disturbi endocrini; Sintomi psicosomatici: disturbi vasomotori, vampate, sudorazione, calore, tachicardia, cardiopalmo, cefalea, parestesie, lipotimia; Sintomi psichici: malessere, inquietudine, astenia, irritabilita`, aggressivita`, instabilita` emotiva, ansieta`, insonnia, ipersonnia, introversione, umore depresso, agorafobia, altre fobie, paure ossessive, insoddisfazione persistente, difficolta` attenzione e concentrazione, difficolta` di memoria;

Dosaggi ormonali: FSH, LH, TSH, PRL, T3, T4, E1, E2, Testosterone, DHEAS, Androstenedione, ACTH, Cortisolo, LHRh. Somatostatina, Alfa-MHS, Plasma BetaEndorfina, Leucina, Enkefalina, Metionina, Sostanza P, Bombesina, Melatonina, Serotonina, N-Acetilserotonina, VIP.

caratteristiche dello stile di vita Abitudini di vita; alimentazione; alcool-fumo; sonno; attivita` fisica, lavoro; altro.

3)

informare correttamente la donna in questa delicata fase naturale di cambiamento; prevenire l’eventuale insorgenza di patologia o psicopatologia (ansia, fobie, depressioni, precoci involuzioni senili, ecc.); assisterla nella trasformazione della giusta percezione della sua nuova identita`.

Le difficolta` che si incontrano durante questa fase trasformativa sono molteplici e spesso segnano il percorso del sintomo. Piu` facilmente l’identificazione nel ruolo materno, o nel ruolo bellezza-attrattiva sessuale, fa sentire la donna priva di questi attributi e quindi di possibilita` di successo. Altri fattori quali: malattie gravi, malattia grave o morte del coniuge o di un figlio, morte dei genitori, infedelta` del partner, dinamiche familiari difficili, figli in giovane eta` rispetto ai genitori anziani, scarso supporto socio-economico, gravi difficolta` nel lavoro, possono favorire l’insorgenza dei sintomi e/o delle sindromi del climaterio.

4. Note di terapia 4.1. Disturbi psichici nella vita sessuale della donna Per tutti i problemi e disturbi precedentemente descritti spesso si rende necessaria una Psicoterapia di sostegno o una Psicoterapia analitica, secondo l’entita` e profondita` delle diverse problematiche, e delle diverse individualita`, che miri a liberare la donna dagli stereotipi culturali che quasi sempre la condizionano pesantemente, impedendole di esprimere le naturali potenzialita` ed ostacolandone il processo di guarigione.

Psicopatologia della donna

La donna deve essere aiutata a manifestare la propria essenza femminile piu` vera e profonda, ed a comprendere come l’attivazione di questa non e` di ostacolo e di blocco, ma anzi di aiuto anche per l’espressione delle sue altre capacita` e funzioni di tipo maschile. Deve diventare consapevole che attraverso il rapporto con lo psicoterapeuta, «la relazione con l’altro», si mettono in movimento meccanismi biopsicologici che portano al cambiamento ed alla trasformazione sia sul piano fisico sia sul piano mentale. Deve imparare a superare le dicotomie che «la mandano in pezzi», la separatezza tra soggetto-oggetto, affermazione-dipendenza, rabbia-depressione, femminile-maschile, che la scindono in parti isolatamente deboli, facendole perdere la forza dell’unita` biopsichica, della potenza della centralita` corpo-mente, e la corporeita` dell’interezza del vissuto emozione-cognizione. Perche´ se prende contatto con se stessa, e fa cio` che vuole e desidera, se privilegia l’individualita` teme l’ansia dell’isolamento personale e sociale, la vendetta del collettivo che non accetta l’individualita` femminile. Per superare i problemi e disturbi ed avere un buon rapporto con l’«altro» reale, la donna deve prima recuperare il rapporto con se stessa, con il femminile, con le proprie mestruazioni, con l’erotismo, con la sessualita`, esautorando ed esorcizzando gli impriting negativi di modelli e regole esterne a se stessa. Comprendere il percorso e la formazione del sintomo, le emozioni negative legate a credenze e convinzioni che hanno bloccato le mestruazioni, l’ovulazione, l’aggressivita` corporea attraverso l’attivazione di risposte psicofisiologiche abnormi. Accettare la pienezza dell’esserci, il coinvolgimento affettivo, la passionalita`, la fantasia creativa.

4.2. Disturbi psichici in gravidanza e puerperio Innanzitutto e` necessario svolgere un’azione preventiva a livello formativo-informativo, in modo tale che il problema della procreazione sia

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affrontato in modo cosciente e responsabile, e quindi equilibrato. L’azione preventiva deve mirare a fornire elementi utili perche´ l’evento riproduttivo sia sdrammatizzato, venga considerato fisiologico, sia accettato e risolto possibilmente senza conflitti interiori, o divenga dimostrazione di femminilita`, o il segno di una raggiunta indipendenza, o motivo per ottenere particolari attenzioni non avute nell’infanzia o nell’eta` dello sviluppo, o da parte di un marito o partner immaturo. ` un problema molto vasto a cui faccio solo E riferimento, ma che ritengo debba essere maggiormente considerato. Qualora la gravidanza sia gia` in atto, e` fondamentale la preparazione al parto con il metodo psico-profilattico. Inoltre molti problemi possono essere risolti con una valida azione psicoterapeutica di sostegno, che dovra` essere intrapresa e sostenuta in accordo con l’ostetrico, con la collaborazione, nei casi piu` difficili, dello psichiatra, e con l’ausilio di mezzi farmacologici idonei a seconda delle epoche gestazionali, o durante il parto ed il puerperio. Utilizzati ovviamente con l’accortezza necessaria per salvaguardare la salute della donna e del prodotto del concepimento. Non va dimenticato infatti che nella gestante si verificano molteplici variazioni biochimiche a livello tessutale, ematico, enzimatico, ecc.; e che pertanto le sue reazioni alle somministrazioni farmacologiche possono essere anomale e abnormi. Inoltre non va dimenticato che la formazione e lo sviluppo dell’embrione e del feto sono condizionati dalla natura delle molecole farmacologiche, dal metabolismo di queste, dal passaggio transplacentare, e che la fine del periodo organoformativo coincide con una fase di maturazione che si realizza nell’aumento ponderale e nell’acquisizione di qualita` molecolari reattive caratteristiche sue proprie, e cioe` di un organismo sempre piu` capace, progredendo la gravidanza, di affrontare l’impegno omeostatico della vita extrauterina e di reagire ai farmaci con modalita` legate alla formazione di veri e propri recettori specifici. Tuttavia quanto esposto non puo` escludere la necessita` di intervenire farmacologicamente nei casi in cui sussista tale esigenza, in quanto le alterazioni emozionali possono modificare consi-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

derevolmente il decorso della gravidanza, l’andamento del parto, la ripresa anatomo-funzionale in puerperio, ed il successivo adattamento al nuovo ruolo, da cui dipende poi il comportamento anche verso il neonato, il cui sviluppo psicologico deve essere protetto anche in tal modo. Un parto difficile con complicazioni provoca disturbi nell’adattamento al mondo esterno ed il rapporto col seno materno e` gia` sfavorevolmente condizionato. Il trattamento delle psicosi puerperali fa riferimento alle varie eziologie, servendosi nelle forme infettive di antibiotici, sedativi, alimentazione adeguata, ecc. eliminando i residui di materiale infetto nelle forme tossiche, con gli altri presidi terapeutici del caso. Ricostituendo l’omeostasi e l’equilibrio nelle forme endocrine, usando terapie neurolettiche o antidepressive nel disturbo psicotico e nelle depressioni. Inoltre in tutti i casi, appena lo stato di coscienza lo permette, e` necessaria una psicoterapia psicodinamica o relazionale che permetta alla donna di vivere la propria maternita` al di la` del ruolo nelle sue premesse e radici piu` profonde, ed in una dinamica relazionale piu` gratificante. In ogni caso ritengo che ogni sforzo deve essere compiuto per una piu` vasta educazione sanitaria della donna e della coppia per l’accettazione della gestazione o dell’evento parto, attraverso una adeguata azione di preparazione psicologica, in modo che l’esigenza di un supporto farmacologico, talora indispensabile, sia efficace con il minimo delle dosi, in tempo e quantita` necessarie per raggiungere lo scopo senza danno.

4.3. Disturbi psicofisici in menopausa La terapia della sindrome climaterica e` volta al riequilibrio ormonale, o ad altre terapie biologiche nel caso in cui occorra una eziologia specifica. Deve essere fatta in tandem dal ginecologo e da uno psicoterapeuta esperto in problemi e disturbi delle fasi della vita sessuale della donna, in quanto i vari sintomi e problemi sono sempre interagenti, e se non vengono presi in considerazione possono portare ad una prognosi sfavorevole. Per i problemi psicosessuali ed i sintomi psicosomatici e psichici e` consigliabile una psicoterapia che miri

alla ristrutturazione dell’identita` della donna, basata sulla attivazione e lo sviluppo delle capacita` affettive, creative, e delle capacita` cognitive quali: introspezione e riflessione, autoaffermazione, capacita` relazionale, capacita` analogica, capacita` operativa pratica, capacita` di tener conto degli altri; inoltre sviluppare la capacita` empatica, la capacita` di cogliere gli insiemi, l’immaginazione proiettiva, la sensibilita` intuitiva, la flessibilita`, la dedizione, la considerazione, la passione, la creativita` personale, la valutazione cognitiva. La terapia della sindrome depressiva e` simile a quella della depressione distimica, e si serve, ove necessario, di ansiolitici ed antidepressivi opportunamente selezionati e dosati secondo il caso particolare e di una adeguata psicoterapia come precedentemente descritto. Per la «sindrome esistenziale climaterica» spesso piu` che la psicoterapia specifica puo` essere utile la psicologia analitica, che meglio affronta ed approfondisce la complessita` dei fenomeni psichici propri dell’eta` matura.

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45 Psicopatologia dell’invecchiamento Roberto Tatarelli Parole chiave terza eta`; quarta eta`; deterioramento; ansia; depressione; delirio

Da alcuni la vecchiaia e` considerata in se stessa una malattia, da altri invece come una fase di maturita` e saggezza. Altri infine si consolano sostenendo che in fondo, pur con i numerosi disagi, e` l’unico modo per vivere piu` a lungo. Ma al di la` di personali giudizi e vissuti sulla vecchiaia, dobbiamo riconoscere che questa eta` ha certamente minori prospettive di cambiamento. Ed e` proprio questa minore elasticita`, sia fisica che psichica, che condiziona le varie reazioni della terza ` chiaro che gli adattamenti sono piu` difficili: eta`. E un lutto, una malattia tendono a durare piu` a lungo; la perdita dei ruoli e degli scopi possono condizionare piu` facilmente l’emergenza di stati

depressivi che presentano una semeiologia ed un decorso particolari. Ma a parte questo, la terza eta` puo` presentare anche problemi specifici, quali i processi di deterioramento mentale o, ancor peggio, processi demenziali. Il prolungamento dell’eta` media, che fa assumere al grafico della popolazione sempre piu` la configurazione di una piramide rovesciata, comporta queste inevitabili conseguenze. Soprattutto i processi demenziali, con l’inevitabile incapacita` ad una gestione autosufficiente, sono un grave problema di interesse sociale. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Il limite dei 65 anni e` oggi il piu` comune e accettato riferimento cronologico della senilita` o terza eta`, anche se per molti studiosi i problemi dell’invecchiamento sarebbero piu` fedelmente evidenziati a partire dai 75 anni (cosiddetta quarta eta`). La condizione di anziano puo` essere individuata sulla base di caratteristiche neuropsicologiche, esistenziali e sociali che nel loro insieme contribuiscono a definirla. Le caratteristiche neuropsicologiche dell’invecchiamento possono essere riassunte nei punti seguenti: 1)

2)

3)

4) 5) 6) 7)

alterazioni della soglia visiva, aumento della soglia audiometrica tonale espressa in decibel, minore efficienza della memoria sensoriale visiva; aumento della latenza dei potenziali precoci della risposta evocata visiva e dei potenziali acustici del tronco encefalico; alterazioni dei potenziali cognitivi o collegati a un evento, di quelli cioe` evocati non dallo stimolo in se´, ma dalla sua elaborazione; riduzione della velocita` di conduzione sensitiva e motoria nei nervi periferici; allungamento dei tempi di reazione; decremento della velocita` del processo di elaborazione dell’informazione; decremento dell’attenzione e della memoria di fissazione, delle prassie costruttive, delle abilita` di calcolo e di quelle percettivo-motorie.

Riguardo alle caratteristiche esistenziali si puo` dire, con Simone De Beauvoir, che un tratto dell’invecchiare consiste nello scoprirsi vecchi, nell’assumere la vecchiaia, nel sentirsi altri, pur rimanendo se stessi. Da questa posizione deriva che gli anziani possono o dirsi malati senza esserlo, nel considerare malattia le indisposizioni dovute alla senescenza, oppure dirsi sani pur essendo malati, nel considerare indisposizioni da senescenza una malattia vera e propria. L’anziano in genere giunge a sentirsi tale attraverso l’immagine di se´ che gli altri gli rimandano:

puo` reagire con sorpresa, scandalo, incredulita` (De Beauvoir, 1971). La ragione profonda, in chiave psicodinamica, e` che l’inconscio ignora la vecchiaia. Quando l’illusione si dissolve o crolla, la ferita narcisistica brucia e bisogna fare qualcosa per lenirla. La difesa e` a volte la negazione. Goya ad esempio a settant’anni dipinge un autoritratto con le sembianze di un uomo di cinquanta. La vecchiaia e` piu` spesso vissuta con ansieta` per possibili malattie, con un abbandonarsi alle malattie e all’inattivita` oppure mantenendo, o anzi accrescendo, il livello di attivita` fisica e intellettuale. Il desiderio sessuale permane ed e` per quanto possibile soddisfatto da chi ha vissuto una soddisfacente sessualita`; ma puo` accadere che l’eta` sia invocata come una buona ragione per evitare rapporti vissuti nella seconda eta` con ripugnanza o angoscia. Per riassumere in schema, di fronte all’esperienza di perdita e alla conseguente ferita narcisistica, il vecchio reagisce con una gamma di posizioni esistenziali che vanno dall’estremo dell’assunzione del ruolo di «bambino malato e bisognoso» all’estremo, certamente piu` raro nella sua espressione meno mascherata, configurabile nel ` evidente «bambino onnipotente ed eccitato». E che si tratta di due immagini paradigmatiche caricaturali e fortemente psicopatogene, conseguenze polari di multiformi organizzazioni difensive, che producono vissuti e comportamenti piu` accettabili e meglio vivibili. Al vecchio piu` frequentemente vengono attribuiti i seguenti aspetti personologici: il rinforzo del conservatorismo; l’acuirsi di certi tratti caratteriali come l’avarizia, la diffidenza, il vaniloquio, l’ipocondria; il restringimento degli interessi e l’ostilita` per le novita`; la difficolta` e l’instabilita` nelle nuove acquisizioni; un generale rallentamento; la diminuzione degli apporti dell’esperienza e delle capacita` di modulazione dell’esperienza interiore. Questi aspetti sarebbero sostenuti da una generale diminuzione delle pulsioni istintive, che favorirebbe una progressiva introversione della personalita`. Deve essere chiaro che la vecchiaia e` anche autentica maturazione, ossia sviluppo di nuove possibilita`, «autentica vita in situazione, con note-

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voli capacita` di evoluzione» (Callieri, 1971). Ma nell’epoca presente, almeno nella civilta` occidentale, cio` sembra avvenire sempre meno frequentemente. La peculiarita` sociale dell’anziano sembra consistere soprattutto nell’aumentata suscettibilita` alla malattia, sia somatica sia psichica, in risposta a eventi stressanti, in situazione di crisi della rete dei rapporti sociali. In ragione della difficolta` ad assumere ruoli sociali significativi, esiste la tendenza a un divario tra scopi desiderati e obiettivi raggiunti (AveniCasucci, 1984). L’anziano, piu` che alla difficolta` di inserirsi in un ruolo personale adeguato, e` in genere posto di fronte alla necessita` di adattarsi alla perdita di ruolo sociale e di conseguenza di valore personale. Le reali aspettative della comunita` nei confronti del vecchio consistono in effetti nell’attesa non tanto di una differenziazione quanto piuttosto di una «uniformita`» conformista tale da escludere la possibilita` di ricoprire un ruolo personale (Callieri, 1971). Oltre alla ora accennata modificazione dello status sociale, gli eventi di cui l’anziano e` ad alto rischio, e che risultano piu` frequentemente stressanti e a un tempo distruttivi della rete di rapporti sociali e di legami affettivi, sono il pensionamento, l’allontanamento dei figli, l’eventuale perdita del coniuge e della casa, la perdita di amici e parenti cari. La perdita del coniuge configura attualmente una situazione di particolare importanza sociopsicopatogena, forse piu` del pensionamento e sicuramente piu` dell’allontanamento dei figli. C’e` da affrontare una duplice perdita, quella di una persona affettivamente importante e insieme alla quale si era costruita la propria esistenza, e quella del ruolo di moglie o marito che in seguito al pensionamento aveva rappresentato il ruolo primario di identificazione sociale. La scomparsa del coniuge impone una serie di riadattamenti di fronte alla prospettiva della solitudine, del cambiamento di residenza o del passaggio all’istituzione. Le sofferenze fisiche, la diminuzione dei contatti interumani, la cessazione delle attivita` professionali e lavorative concorrono nel determi-

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nare lo stato di isolamento: il mondo e` distaccato e lontano, talora e` frammentario e incomprensibile. La diminuita funzionalita` visiva e/o uditiva accentua il quadro comportando una ulteriore diminuzione di vie di comunicazione, di quantita` di informazione, di esattezza di decodificazione. La condizione di estraneamento e` ben percepibile nel particolare tipo di ricordare dell’anziano «vecchio»: passare e ripassare con insistenza i ricordi della propria vita; come per riempire il vuoto attuale dell’esistenza e minare l’insopportabile consapevolezza della frustrante e oltraggiante realta`.

2. La psicopatologia La psicopatologia della terza eta`, pur non potendosi per essa proporre una sicura specificita`, e` diversa da quella della seconda eta`. Possono considerarsi specifiche dell’anziano le modalita` di manifestazione dei disturbi e il loro decorso. Questa tipicita` deriva soprattutto dal campo socio-culturale nel suo particolare impatto con il se´ dell’anziano, in specie alle prese con fenomeni involutivi fisiologici e con disturbi patologici per lo piu` cronici e invalidanti; tale complesso interattivo ha indubbiamente un’influenza patoplastica sulle caratteristiche psicopatologiche dei disturbi e delle disturbanti «rigidita`» personologiche. Cosı`, per esempio, a causa di menomazioni fisiche e/o psichiche vere o culturalmente indotte, l’anziano tende a stabilire relazioni di dipendenza piu` frequentemente connotate da ostilita`, prevalentemente latente ma anche manifesta, che da passivita`; relazioni ostili-dipendenti quasi regolarmente si accompagnano ai vissuti ipocondriaci. Va comunque dato per certo che il vissuto biografico, visto in particolare nelle sue piu` profonde organizzazioni e/o parti nevrotiche (o psicotiche o psicopatiche), ha importanza decisiva sia nell’insorgenza sia nel declinarsi dei fenomeni psicopatologici della vecchiaia: la rottura o l’accentuazione-esagerazione di certi piu` o meno consolidati equilibri della vita psichica svolgono un ruolo determinante nelle manifestazioni delle formazioni caratteriali senili e degli eventuali crolli psicopatologici.

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Esperienze di lutto e di perdita, ad esempio, possono accompagnarsi nel vecchio non soltanto a sentimenti depressivi (di colpa, di incapacita`, di indegnita`) ma anche a vissuti aggressivi, che si manifestano con atteggiamenti disforici di scontentezza, querulosita`, rivendicazione, accusatorieta`, sospettosita` e che talora conducono ad aperta e agita aggressivita`. In base alle loro peculiarita` «senili» vengono ora presi in considerazione i piu` importanti fenomeni psicopatologici che occorrono nella terza eta`.

2.1. Il deterioramento Il decadimento cognitivo e` l’unico fenomeno psicopatologico veramente tipico dell’invecchiamento, anche se non esclusivo di esso, potendo, ma assai piu` raramente, occorrere in altre eta`. Tra decadimento senile fisiologico e deterioramento senile patologico non sembra esserci una relazione di continuita`. Anche i dati biologici confermerebbero l’ipotesi della soluzione di continuo. Nell’anziano sano la degenerazione neurofibrillare e` praticamente circoscritta all’ippocampo, mentre nella demenza senile e` diffusamente e intensamente presente in tutta la corteccia. Nella demenza multinfartuale il volume «soglia» totale di tessuto danneggiato e` di almeno 50 ml; nelle forme miste e` il sommarsi di piu` fattori di entita` subliminare (alterazioni alzheimeriane, microinfarti, deficit tiroideo, carenza di B12) a produrre demenza; e cio` puo` far credere ad un continuum tra demenza con solo scarse lesioni alzheimeriane o infartuali apparenti e cervello senile. Nell’anziano sano l’involuzione fisiologica comporta, come si e` visto, un declino di efficienza di alcune funzioni psichiche e senso-motorie ma non implica una perdita delle capacita` di integrare le proprie esperienze psichiche con la realta` quotidiana attraverso abilita` psicomotorie sufficientemente attive. In taluni casi il particolare irrigidimento della persona in comportamenti e schemi verbali consuetudinari e molto ben appresi puo` mascherare una fase precoce di vero e proprio deterioramento demenziale. Ma in questi casi il dato psico-

metrico risulta dirimente: nell’anziano la memoria di fissazione, le prassie costruttive, le abilita` di calcolo, le abilita` percettivo-motorie, misurate dal WAIS, decadono, mentre la prova di vocabolario tiene; nella demenza senile invece la prova di vocabolario e le altre prove «verbali» decadono spiccatamente. Il decadimento senile fisiologico e` un esempio di scostamento dalla norma statistica e funzionale della popolazione generale e, nonostante la fisiologicita`, risulta essere fonte di sofferenze e di richiesta di aiuto nel momento in cui la scoperta e l’assunzione della vecchiaia accadono con difficolta` e angoscia. Esiste uno pseudo-deterioramento, in cui il disturbo intellettivo e` in realta` solo apparente, che e` per lo piu` espressione e conseguenza di disturbi depressivi. La distinzione dal deterioramento demenziale non e` sempre facile perche´ le differenze fenomeniche (maggior coscienza dei deficit, mancanza di confabulazione, esordio piu` rapido, minori disturbi dell’attenzione e della concentrazione, disturbo della memoria inizialmente piu` globale retro-anterogrado) spesso non sono chiaramente rilevabili.

2.2. L’ansia Come nelle situazioni critiche delle altre eta`, anche nell’invecchiamento l’ansia gioca un ruolo di primo piano. L’eventualmente preesistente tratto ansioso, nel senso di disposizione, di caratteristica di personalita`, tende nell’anziano a peggiorare: l’apprensivita` e l’emozionabilita` risultano piu` scoperte e piu` disturbanti. L’ansia come stato e` soprattutto legata a fattori psicosociali (come vedovanza, perdita di amici, incertezze economiche, consapevolezza del declino fisico) e alla paura della morte. La quota di regressione, tipicamente maggiore nel vecchio che nell’adulto, molto frequentemente porta a concentrare e a ridurre sul corpo i contenuti ansiosi. L’alta incidenza di problemi fisici e` un fatto che tende ulteriormente a incentivare le preoccupazioni per le funzioni corporee. Per di piu` l’assunzione del ruolo di malato e`

Psicopatologia dell’invecchiamento

in grado di assolvere l’anziano dal bisogno socialmente atteso di indipendenza, di successo finanziario e di prestigio sociale. L’ipocondria, con le sue preoccupazioni e le sue minuziose lamentele, talora costituisce una richiesta di aiuto e di sostegno altrimenti non esprimibile, talora nasconde una comunicazione astiosa con gli altri, colpevoli di essere giovani e sani e di trascurare chi non lo e` piu`. La strutturazione ipocondriaca radica il predominio del corpo come luogo privilegiato di riflessioni e di sofferenza e blocca ogni maturazione e ogni progetto all’interno di un corpo probabilmente desiderato come immutabile. Come e` noto, l’ansia somatica puo` essere accompagnata a vere e proprie modificazioni fisiopatologiche e/o anatomopatologiche. Il prurito anale e vulvare, il colon irritabile, i disturbi «reumatici», la sindrome da iperventilazione sono i disturbi psicosomatici piu` frequenti nell’anziano. Inoltre l’esperienza ansiosa dovrebbe essere presa in considerazione ogni qual volta un anziano manifesta tremore, vertigine, cefalea, parestesie, nausea, tosse, affaticabilita`. Non va dimenticato che l’ansia puo` essere prodotta da reali fatti fisici, per esempio ipoglicemia, malattie cardiovascolari, iper- o ipotiroidismo, pneumopatia cronica ostruttiva. L’ansia puo` nel vecchio essere esperita anche altrimenti che con il corpo. Relativamente frequente e` il contenuto fobico, specie nel senso della fobia sociale, come abnorme paura di intraprendere attivita` specifiche in pubblico, come mangiare al ristorante o compilare un modulo in banca.

2.3. La depressione Nell’esperienza depressiva tipica e` in primo piano una profonda, monotona e invasiva tristezza, dove gli eventi non hanno alcuna presa. I caratteristici temi melanconici (impoverimento, autosvalutazione, indegnita`, preoccupazioni ipocondriache, colpa) sono nell’anziano spesso drammaticamente sostenuti da dati di realta` (emarginazione, solitudine, salute precaria, incombenza della morte). L’esperienza del corpo sentito come

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peso, ostacolo, impedimento; l’esperienza della perdita di spinta e di slancio; il ripresentarsi del passato senza i connotati della storicita` e dell’oltrepassamento, contribuiscono a bloccare ogni progettualita` e ogni possibilita` di futuro. Sentimenti di autosvalutazione, di indegnita` e di colpa si manifestano con rimorsi, rimpianti, ruminazioni di passate, spesso futili, mancanze. L’anziano depresso vive un progressivo impoverimento affettivo: gli altri tendono a perdere rilievo e individualita` , hanno sempre meno presa di fronte al decadimento delle sue capacita` relazionali e dialettiche, scadono al ruolo di cose. Ma spesso la depressione dell’anziano non e` cosı` caratteristica. In essa tendono facilmente a manifestarsi in primo piano agitazione psicomotoria, disforia con irritabilita`, evidenze isteriche, timori ipocondriaci, ansia, componenti deliranti persecutorie, di nocumento e di riferimento, associate o meno a fenomeni illusionali o allucinatori. Non e` raro che lo stato d’animo depressivo diventi nel vecchio cosı` insopportabile da fare ulteriormente regredire l’Io con la conseguente messa in opera di difese piu` primitive come la scissione, la proiezione, l’identificazione proiettiva. Ecco allora che parti del Se´, talora nelle sembianze di antichi ricordi, forse anche paramnesici, vengono espulse e decifrate in senso paranoide. Esiste anche, sicuramente piu` frequentemente nel vecchio che nell’adulto, la possibilita` della depressione senza depressione, della depressione cioe` mascherata da sintomi somatici o da ansia o da altri disturbi psicopatologici (fobie e ossessioni, delirio anche cronico, disturbi cognitivi, condotte psicopatiche). Qui il vissuto depressivo non e` evidente, e solo un esame clinico scrupoloso puo` rinvenirlo. Non va dimenticata la possibilita` che la depressione sia prodotta somatogeneticamente. Le depressioni organiche o sintomatiche sono sicuramente piu` frequenti nell’anziano e possono essere causate da fattori tossici (reserpina, alfametildopa, betabloccanti, clonidina, antispastici anticolinergici), fattori infettivi (piu` spesso l’influenza) e fattori metabolici (ipo- e ipertiroidismo, iposurrenalismo o ipersurrenalismo corticale, carcinoma del pancreas).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2.4. Il delirio L’induzione di stati deliranti nell’anziano e` frequentemente prodotta dal vivere da soli, dall’isolamento sociale, dai difetti sensoriali, specie quelli uditivi, e dalla generica incapacita` di comprendere il significato di nuove informazioni. Il meccanismo della proiezione e` generalmente molto attivo nella senilita`, e in se´ e per se´ non costituisce in questa eta` indice di grave psicopatologia. Infatti molto spesso il contenuto del materiale delirante e` direttamente riferibile a un conflitto o a un problema della vita reale. Il delirio serve a proiettare e a negare il conflitto che altrimenti potrebbe risultare schiacciante per l’Io. Spesso il pensiero delirante serve a ricostruire e a riparare l’autostima la` dove e` stata minacciata oppure a mitigare perdite, come la perdita di status o di funzione. Nel caso di una malattia fisica (vissuta come implicita minaccia di sofferenza, di incapacita` e di morte), nel caso di sintomi di deterioramento demenziale, nel caso di difetti sensoriali, il delirio puo` essere concettualizzato nell’anziano come un disperato tentativo sia di mettere un qualche ordine a una situazione che risulta incomprensibile e terrorizzante, sia di mobilizzare un qualche aiuto da un ambiente che appare del tutto insensibile. Il paziente puo` cosı` negare o minimizzare i sottostanti reali problemi di vita, concentrandosi piuttosto sulle sue psicotiche manovre difensive. Gli stati deliranti persecutori vanno da modeste reazioni paranoidi, particolarmente di notte, a

vere e proprie psicosi paranoidi, spesso in soggetti con concomitanti segni organici cerebrali. La comprensione delle forme deliranti croniche, lucide, a contenuto persecutorio e di gelosia, e` spesso assai difficile. Esse infatti nell’anziano non si ritrovano soltanto nella classica paranoia, ma anche nelle condizioni distimiche (ipomaniacali e depressive) e nelle sindromi psicorganiche primitive o secondarie a intossicazioni croniche (per esempio il delirio di gelosia degli alcolisti cronici).

Riferimenti bibliografici Aveni-Casucci M. A. (a cura di), Psicologia e Gerontologia, Claire, Milano 1984. Busse E. W., Pfeiffer E. (eds.), Mental Illness in Later Life, American Psychiatric Association, Washington 1973. Callieri B., «Nozioni di psicologia e psicopatologia dell’eta` involutiva e senile», in Bini L., Bazzi T., Psicologia Medica, II ed., 511-527, Vallardi, Milano 1971. Carstensen L. L., Edelstein B. A. (eds.), Handbook of Clinical Gerontology, Pergamon Press, Oxford 1987. De Beauvoir S., La terza eta`, Einaudi, Torino, 1971. Del Vecchio M., Gandolfo C., Kemali D. (a cura di), Psichiatria Geriatrica, Masson, Milano 1981. Levy R., Post F. (eds.), The Psychiatry of Late Life, Blackwell Scientific Pubblications, Cambridge 1982. Wheatley D. (ed.), Psychopatology of Old Age, Oxford University Press, Londra 1982.

46 Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni Patrizia Pansini Parole chiave omosessualita`, impotenza, frigidita`

Possiamo parlare di disturbo o disfunzione sessuale solo quando questo aspetto e` compromesso in maniera molto specifica ed il sintomo e` centrato fondamentalmente sul comportamento sessuale. In questo senso potremmo dire che i comportamenti realmente ascrivibili alla patologia della sessualita` sono quelli della funzione: quindi l’impotenza e la frigidita`. Infatti, quanto piu` il disturbo e` indice di una complessa alterazione della personalita`, e quindi la sessualita` e` implicata

solo secondariamente, tanto meno potremmo parlare di disturbi della sessualita`. La sessualita`, intesa come modalita` di rapporto con il diverso, evidentemente e` disturbata in tutte le manifestazioni psicopatologiche: non esiste alcun disturbo psicopatologico ove non sia compromessa la sessualita`. * * *

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1. Considerazioni generali L’interesse alla sessuologia e` problema assai remoto per la psichiatria, non solo a causa della predominanza delle situazioni psicopatologiche che caratterizzano il panorama delle alterazioni della sessualita`, ma anche per il coinvolgimento di situazioni interpersonali che affondano le loro radici nell’inconscio e traggono origine da situazioni psicopatologiche remote. Freud con la sua intera opera ha illuminato le conoscenze delle generazioni successive di specialisti. L’indagine psicologica o psicoanalitica finisce spesso per rendersi unica prospettiva valida al superamento positivo di manifestazioni che per la loro stessa natura coinvolgono affetti, relazioni e situazioni familiari. Peraltro la generica difficolta` a realizzare corrette e fisiologiche esperienze sessuali apre la porta alla ricerca di forme alternative di soddisfacimento di un istinto insopprimibile potendo sfociare in quelle alterazioni chiaramente patologiche di cui ci occuperemo in questo capitolo. Va sottolineato che non e` certamente costante l’eziopatogenesi psicologica di queste forme di deviazione, che possono riconoscere anche cause genetiche, organiche e funzionali: ed e` appunto per questo che il capitolo della patologia sessuale riveste per il medico in genere e per lo psichiatra in particolare quella importanza culturale e pratica che ne fanno uno dei temi piu` complessi del nostro sapere. L’approccio sistematico dei disturbi della sessualita` esige la trattazione, almeno sommaria, del concetto di normalita`. Intendiamo difatti come deviazioni sessuali tutte quelle situazioni che da tale concetto si discostano e se ne allontanano sia sotto il profilo fisico che sotto quello funzionale e psicologico. La funzione sessuale e` un’attivita` fisica che si estrinseca attraverso organi ad essa preposti, ma che trova la sua normalita` in una serie di altri fattori, primo tra tutti quello psicologico. Ne deriva una vasta complessita` nell’affrontare le anomalie proprio perche´, stante quanto detto sopra, lo stesso concetto di normalita` subisce delle va-

riazioni non indifferenti in una gamma considerevolmente elastica. Vengono qui tralasciate le descrizioni anatomiche pure e semplici degli organi sessuali in ` coquanto appannaggio dell’anatomia umana. E munque evidente che anomalie anatomiche si riflettono sul corretto divenire della vita sessuale di un individuo. Tale normalita` anatomica dovra` estendersi anche a tutti quegli organi ed apparati che sono preposti biologicamente alla integrita` della funzione sessuale: intendiamo le ghiandole a secrezione interna, la normalita` delle vie di conduzione degli stimoli nervosi afferenti ed efferenti, gli altri organi di senso che favoriscono la preparazione ed il compimento soddisfacente dell’atto sessuale (vista, tatto, olfatto, udito, gusto). Fatta questa breve premessa, data cioe` per scontata una integrita` anatomica, passiamo ad una disamina piu` dettagliata della fisiologia della sessualita`. L’evoluzione e lo sviluppo che approdano alla maturita` sessuale di un bambino sono lunghi e complessi, influenzati non solo da funzioni organiche ed ormonali ma anche e soprattutto dall’atmosfera familiare, dal contesto socio-culturale in cui il giovane vive gli anni della propria infanzia ed adolescenza, da influenze familiari, morali, religiose, ambientali. La maturazione psicosessuale di un giovane puo` subire, in stadi intermedi della propria evoluzione, sia un processo di blocco come di deviazione, che conferiranno alla sessualita` del soggetto adulto comportamenti anomali. Specie nell’uomo adulto la funzione sessuale si compie correttamente per la sommatoria di stimoli psichici e fisici, anelli di una catena di riflessi condizionati, intimamente interconnessi e la cui interruzione in un punto qualsiasi della catena conduce fatalmente ad un disturbo della funzione. C’e` poi la considerazione che la funzione sessuale, a differenza di altre funzioni biologiche, per una sua corretta espletazione abbisogna della collaborazione di un altro individuo, di un partner, il quale a sua volta sara` influenzato positivamente o negativamente dalla stessa serie di stimolazioni cui e` soggetto il primo individuo.

Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni

Difatti, il compimento dell’atto sessuale nella specie umana ha sorpassato la primitiva fase istintuale riferita alla semplice procreazione mirante alla conservazione della specie, ma si cala in un complesso di situazioni affettive di coppia rappresentando il momento piu` complesso, maturo e soddisfacente del rapporto a due. Non vanno confusi i concetti di sessualita` con quelli di genitalita`. Quest’ultima e` l’espressione essenziale della sessualita` ma non ne e` l’unico aspetto. Difatti l’essere umano si differenzia dall’animale per la possibilita` di controllare e di integrare la sua genitalita` in un ventaglio di elementi che sottolineano la sua personalita` psicoaffettiva di livello superiore. L’atto sessuale rappresenta l’espressione di tale personalita` soddisfacendone una molteplice quantita` di aspetti. Esaminando l’attivita` sessuale dell’individuo volta alla semplice funzione procreativa, se ne constata un limite fisiologico nella donna, mentre se si prende in considerazione l’atto come suggello di un rapporto interpersonale esso ha vita ben piu` lunga, pur subendo una fisiologica involuzione col procedere degli anni. Altresı` dobbiamo rimarcare che nella donna esistono momenti fisiologici di scarso interesse alla sessualita`, momenti particolari legati alla sua funzione di maternita` (mestruazioni, gravidanza, allattamento). La sua precipua caratterizzazione, che lega la buona riuscita di un atto sessuale alla adeguata partecipazione di un partner, porta che anomalie del rapporto possono essere assolutamente indipendenti da una anormalita` anatomica e fisiologica di entrambi gli elementi della coppia. Tale situazione, legata il piu` delle volte ad inadeguatezza psico-affettiva, introduce di fatto nel capitolo delle alterazioni, situazioni legate al cattivo assortimento funzionale dei contraenti. Individui perfettamente sani, e che hanno rapporti sessuali senza problemi con altri partner, possono avere difficolta` a sviluppare un rapporto sessuale con individui di sesso opposto verso cui per altri versi si sentirebbero attratti. Fatto tutt’altro che infrequente e che testimo-

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nia della preponderante importanza dell’aspetto psicologico nel determinismo delle disfunzioni sessuali. L’allontanamento da una normalita` fisiologica, pur considerata nelle sue varie sfaccettature, introduce il capitolo ben piu` complesso delle disfunzioni o delle deviazioni che costituisce motivo di corrente consultazione dello psichiatra, stante la predominanza psicogena della patologia sessuale.

2. Classificazione dei disturbi della sessualita` Il tentativo di classificare le alterazioni della sessualita` e` difficile per l’impossibilita` di essere rigorosamente schematici e didattici. Ci sembra che una classificazione accettabile possa chiaramente differenziare le alterazioni organiche da quelle psicopatologiche ed entrambe essere suddivise in primarie e secondarie come indica lo schema qui di seguito riportato. Ad esse vanno aggiunte le manifestazioni funzionali. ************** ALTERAZIONI

PRIMARIE

SECONDARIE

Organiche

Genetiche Neurologiche Urogenitali

Neuroendocrine Tossiche Farmacologiche Vascolari Generali

Psichiche

Deviazioni Impotenza Frigidita` Omosessualita` Transessualismo

Psiconevrosi Depressioni Schizofrenia

Funzionali

Conflitto

Conflitto

Una seconda classificazione potrebbe riferirsi all’eta` dei soggetti esaminando i comportamenti sessuali nel periodo prepuberale, adolescenziale e dell’adulto, e conseguentemente le loro anomalie. In campo chiaramente psicologico potranno suddividersi i capitoli in una piu` articolata e poliedrica personalizzazione degli autori. Tra di esse

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

trova un certo rilievo quella proposta da Robert Volcher che prevede: a) Deviazioni relative all’oggetto preso nella sua totalita`. In esse viene sostituito un partner normale con uno che normale non e` (omosessualita`, pedofilia, bestialita`, narcisismo, necrofilia). b) Deviazioni comportamentali col partner (sadismo, masochismo). c) Sopravvalutazione degli oggetti parziali. Una parte del corpo o un oggetto del partner monopolizza tutto l’interesse libidico; puo` riferirsi anche ad una funzione (urinare, defecare). In questo gruppo vanno inseriti anche il cosiddetto voyeurismo o l’esibizionismo in quanto la relazione visiva costituisce l’essenziale della soddisfazione. d) Tutte le combinazioni sono possibili. Affrontati nella maniera piu` congeniale a chi ne scrive, il risultato non cambia, essendo comunque privilegiati quei capitoli che piu` comunemente ricorrono nella pratica clinica. Considerata come funzione biologica, l’attivita` sessuale non puo` non avere un “range” di normalita`, una iperattivita`, una ipofunzionalita` ed una distorta funzionalita`. ` chiaro che dal punto di vista psichiatrico E l’argomento piu` interessante attiene alle ipofunzionalita` psicologiche ed alle deviazioni come materia praticamente esclusiva. Si rimanda ovviamente ad un lavoro piu` specifico per la trattazione sistematica di tutta la materia. Noi desideriamo tuttavia soffermare la nostra attenzione sintetica su argomenti fondamentali.

3. Alterazioni organiche Fatto riferimento a quello schema di classificazione sopra proposto, accenniamo alla possibile

eziologia delle principali turbe della funzionalita` sessuale. ` evidente come un non armonico sviluppo E degli organi genitali possa riflettersi sulla loro funzione determinando non solo uno stato di impotenza, ma innescando, in presenza di una libido attivo, quella serie di compensi appaganti che ritroveremo nel capitolo delle deviazioni. Dal punto di vista generale hanno grande importanza le affezioni che si riflettono sulla vascolarizzazione degli organi copulativi che proprio da una particolarita` irrorativa trovano, soprattutto nel maschio, la loro possibilita` funzionale fisiologica. Cosı` le affezioni che si accompagnano a sclerosi o comunque a microangiopatie delle pareti vascolari delle pudende interne e delle arterie cavernose provocano una impossibilita` alla erezione nell’uomo ed una frigidita` nella donna. La microangiopatia diabetica, l’arteriosclerosi, il morbo di Buerger, l’induratio penis plastica, il priapismo, le emopatie e le lesioni traumatiche, sono tutti esempi di questa vasta patologia che interessa una percentuale piuttosto alta di pazienti che lamentano impotenza (circa il 25%). Un comportamento inverso, un aumento della libido e della potenza sessuale, e` classicamente descritto invece nei malati di tubercolosi. Cause urologiche (orchite, epididimite, prostatite, cistiti acute e croniche) possono essere manifestazioni transitorie, ma lasciare una turba funzionale permanente. Dal punto di vista neurologico le alterazioni midollari, radicolari o periferiche dei nervi pudendi interni sono le cause piu` frequenti e possono evidentemente essere esito di ferite o traumi — anche post-operatori — con implicazioni medico-legali di particolare interesse. Tra le cause tossiche ritroviamo il tabagismo e l’alcolismo per la particolare azione neuro e vasculotossica della nicotina e dell’alcool; l’assunzione sistematica di stupefacenti anche leggeri. L’hashish puo` determinare in particolare delle tromboembolie a carico dei vasi pudendi. Tra quelle farmacologiche, particolare importanza va data ad alcuni ipotensivi, ai betabloccanti, come ai farmaci psicotropi e agli antidepressivi.

Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni

Sono ben note le affezioni proprie della donna quali la dispareunia ed il vaginismo, da affezioni organiche locali, e non sono da trascurare altre malattie occasionali quali le vaginiti, la retroversione uterina. Il campo ormonico, da ultimo, offre una vasta gamma di possibilita` nel deficit incretivo sia dell’ipofisi che delle gonadi, delle surrenali e della tiroide. Da questa rapida carrellata e` facile comprendere come sia vasto e complesso l’affrontamento organico delle turbe della sessualita` che coinvolge ovviamente piu` competenze, ma la cui indagine deve sempre essere preposta ad un affrontamento della patologia sotto il profilo psichiatrico o psicologico.

4. Alterazioni psichiche primarie 4.1. Omosessualita` La trattazione del fenomeno della omosessualita` presenta momenti di difficolta` inusuali sia sotto il profilo dell’inquadramento psicopatologico che sotto gli altri aspetti che di esso sono propri: intendiamo parlare di quello affettivo, familiare, sociale, politico, culturale. Non sono da sottovalutare le implicazioni determinate dai costumi, dai momenti storici, dalle religioni per arrivare a dare importanza alla fantasia, alla espressivita`, in senso molto lato all’erotismo. Esistita in tutti i tempi ed i tutti i luoghi la omosessualita`, la storia ci fornisce esempi i piu` diversi della concezione e della reazione sociale al fenomeno. Talvolta gli omosessuali sono stati ritenuti esseri superiori, sganciati dalla funzione esclusivamente ed animalescamente riproduttiva, talaltra sono stati demonizzati, perseguitati e persino uccisi. Questi momenti storici e socio-culturali non hanno avuto una evoluzione costante ed una curva lineare, ma al contrario hanno subito corsi e ricorsi disordinati che persistono tuttora. Da quanto sopra si comprendera` come anche la semplice definizione presenti ampie difficolta`.

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L’omosessualita` e` un’attrazione di natura erotica ed affettiva, sempre anormale e talvolta patologica, verso soggetti adulti dello stesso sesso. Vanno primitivamente distinti gli “atti omosessuali” dalle “persone omosessuali”. Kinsey ha potuto riferire che gli atti sono abbastanza comuni, ma che solo una modesta percentuale di individui, maschi o femmine, che praticano atti omosessuali possono essere classificati come individui omosessuali. Tale attribuzione andrebbe riservata solo ad adulti i cui rapporti sessuali avvengono per lungo periodo di tempo con individui dello stesso sesso. Deviazione, perversione o semplice liberta` di espressione? Se e` all’espressione che ci si rivolge, questa sembrerebbe nel caso specifico portata al livello piu` totale di libertarismo esprimendo quel polimorfismo psicologico umano nell’ambito del quale e` la libido l’espressione massima della sua libera fantasia. L’uomo ha sempre dovuto, istintivamente ed istintualmente, difendere la propria specie, e concretizzato la possibilita` del mantenimento della stessa, affidando proprio a questa primaria necessita` biologica la realizzazione dello scopo che la fisiologia ha assunto come concetto di normalita`. Pertanto noi proviamo a fare una descrizione semplice dell’aspetto omosessuale, cercando di sottolineare i delicati problemi che giungono al medico. Questi avra` poi il difficile compito di comprenderli, ricostruendo una storia ed ideando una linea comportamentale volta al tentativo di aiutare il paziente nella sua richiesta, che peraltro spesso non e` esplicita. La sua risposta non dovra` necessariamente essere precisa ed uniforme alle conoscenze teoriche in suo possesso sull’argomento, ma si orientera` a cercare di comprendere la richiesta inconscia del paziente, dando risposte adeguate. Il medico, cioe`, non dovra` esprimere giudizi aprioristici, ma sara` chiamato sempre a cercare di inquadrare la personalita` del sofferente che spesso ha poche possibilita` di risorse proprie per sgravarsi comunque da situazioni molto pesanti. Dovra`, in definitiva, aiutare il paziente, se non a guarire, almeno a meglio sopportare ed accettare la sua anomalia sessuale.

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Tornando al discorso terminologico, che segue quello della definizione in senso tecnico, l’attributo “deviazione” sembra quello piu` adatto ad accompagnare e precedere la parola “sessuale”. “Perversione” implica gia` semanticamente un giudizio moralmente negativo e pertanto andrebbe possibilmente evitato. Esiste una pulsione sessuale, una spinta verso una autosoddisfazione, che riduce una tensione per l’interposizione di un oggetto esteriore necessario, reale o fantasmatico, adeguato o sostitutivo. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’orientamento spontaneo va verso l’oggetto eterosessuale adeguato, orientamento che e` innato, ma viene rafforzato dall’influenza della cultura e dalle stimolazioni dell’ambiente. Per il medico pratico e` importante stabilire se l’omosessualita` e` costituzionale o acquisita. 2) Esistono tre ipotesi eziopatogenetiche: 1) 2) 3) 1)

quella organica (ereditarieta` ed intersessualita`), quella sociologica, quella psicologica. Non si e` mai potuto dimostrare che l’omosessualita` potesse essere segno di degenerazione ereditaria, come alcuni hanno detto. Si e` anche sostenuta l’ipotesi che ci potesse essere un’intersessualita`, cioe` una differenziazione sessuale incompleta, fondata sulla bisessualita` che esiste realmente, dal momento che nella vita uterina sono presenti nel feto simultaneamente gli organi specifici dei due sessi e dato che nell’adulto gli ormoni sessuali di un sesso si ritrovano nell’altro. L’omosessualita` rappresenterebbe in questo quadro una forma psicoerotica dell’ermafroditismo. Quando alcuni uomini hanno un dinamismo vitale, pulsionale, indebolito, la loro pulsione eterosessuale originale si orienta malamente sin dagli inizi verso un oggetto vago ed eterosessualizzato del mondo esterno con la pressione dell’ambiente.

3)

Un fallimento sociale o coniugale, un sentimento doloroso della propria solitudine (pensionato, caserma, carceri, monasteri) e un incontro maschile benevolo, se non proprio disinteressato, faranno il resto. L’omosessualita` non sara` allora il risveglio di una tendenza omosessuale latente, ma vera creazione dipendente da un insieme di concause le piu` importanti delle quali si trovano nell’ambiente passato (influenza della madre) e presente (importanza dell’incontro con l’iniziatore). Una personalita` immatura, una atmosfera sociale debilitante, un incontro determinante costituiscono i mattoni della costruzione errata. L’adolescente, mentalmente labile, timido, dolce, gentile, suggestionabile e` quanto mai minacciato da questa evoluzione. ` la cultura che decide il senso della natura, E affermano gli antropologi culturali. L’atteggiamento educativo svolge un ruolo molto importante, le deviazioni sessuali sono rare tra gli intersessuali educati in maniera adeguata sin dalla loro infanzia. Dal punto di vista psicologico si ritiene che esista una fase omosessuale fisiologica in tutte le persone, durante il periodo edipico. Essa non rappresenta una vera omosessualita` fisiologica, ma potrebbe, secondo alcuni AA., esistere in un individuo disponibile alla ` un errore difatti catalogare cosessualita`. E me omosessuali i giochi prepuberali con individui di uguale sesso. Non e` corretto parlare di omosessualita` avanti il termine dell’accrescimento fisico e sessuale. La bisessualita` psicologica e` una realta` in gran parte sociale. La bisessualita` somatica la precede, ma non la spiega; mette a sua disposizione le caratteristiche distintive del dismorfismo sessuale del quale abbiamo visto gli usi svariati che ne vengono fatti se` l’organico che raggiunge condo le societa`. E il sociale e non mai il contrario: il maschio ordinariamente sceglie la femmina, in primo luogo perche´ la societa` vuole cosı` e poi perche´, provvisto di un organo di attacco ed

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immissione, e` portato istintivamente da questo orientamento strutturale ad incontrare l’individuo morfologicamente complementare con apparato sessuale adeguato.

coltiva narcisisticamente nell’altro, identificandosi con lui, si ama in lui. Il piacere solitario diventa un piacere a due (relazione umanamente falsa).

L’identificazione con i genitori e le relazioni con essi lo definiscono femmina o maschio molto prima che il bambino prenda coscienza di se´ come individuo sessuato.

La riprovazione e la repressione sociale che fanno vivere l’omosessuale in un clima di persecuzione alimentano sensi di colpa che potranno portare l’omosessualita` ben adattata all’omosessualita`-nevrosi o all’omosessualita`-psicosi. Spesso i medici incontrano solamente omosessualita` nevrotiche o psicotiche (sintomatiche), mentre altre, definite a nostro parere impropriamente “perverse”, sfuggono alla sua osservazione pur rappresentando un cospicuo numero percentuale. L’omosessualita` e` l’espressione di uno stato anomalo che annunzia o che evidenzia una patologia. Non basta dire che e` una malattia perche´ alcuni ne soffrono, dato che altri non ne soffrono affatto ma si dolgono solo per la intolleranza che la societa` riserva loro. Problema psichiatrico di non facile soluzione e` l’identificazione dell’omosessualita` con uno stato di nevrosi. Se cosı` fosse, essa sarebbe bene influenzabile da una opportuna psicoterapia. Ma se i nevrotici pagano quasi costantemente con turbe della sessualita` un contributo non indifferente alla loro affezione, gli omosessuali autentici, quelli che alcuni definiscono come sopra detto “perversi”, raramente presentano uno stato nevrotico stabilizzato, accettando pienamente la loro condizione.

4.1.1. Significati psicoanalitici della omosessualita` maschile

Fattori determinanti sono tre: 1) la fissazione alla madre; 2) la paura della castrazione; 3) il narcisismo. 1)

2)

3)

Spesso c’e` la presenza in famiglia di una influenza notevole di una donna o di un ambiente femminile. Si tratta frequentemente di una madre virile, tirannica, superprotettrice. La posizione di figlio unico diventa una aggravante. Punto importante e` un attaccamento preedipico a questa madre. Ella cerchera` di modellare il proprio figlio secondo le qualita` che lei stessa desidera che acquisisca. Paura della castrazione da parte del padre per aver desiderato la madre. L’omosessuale rinuncerebbe alla donna per abolire qualsiasi rivalita` pericolosa con il padre onnipotente. Individui dalla personalita` di base fragile, molto presi dalla propria madre, non riescono a rivaleggiare o ad identificarsi col padre, superando male o affatto gli stadi dello sviluppo libidico. Presentano cosı` un terreno favorevole al condizionamento omosessuale. L’istintiva debolezza del futuro omosessuale e l’ambiente creatogli dalla madre porteranno il bambino a trarre dal proprio corpo soddisfazioni che altri piu` estroversi cercheranno nella conquista di cio` che li circonda: egli si abbiglia, si esibisce, si ammira; seguiranno altri fattori che porteranno a completare il processo di omosessualizzazione: si

Gli amori omosessuali sanciscono il fallimento o l’impossibilita` di concretizzare un rapporto normale ed eterosessuale. ` chiaro che la segregazione sessuale che si E realizza in determinate situazioni (carceri, conventi) ove individui di un sesso sono tenuti separati dagli individui del sesso opposto porta ad adattamenti temporanei e non permanenti. Ne viene di conseguenza che quella soddisfazione orgasmica che accompagna un rapporto amoroso viene ricercata, nell’impossibilita` di un pieno appagamento, attraverso pratiche miste di

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sodomizzazione e di manualita` che finiscono col portare al piacere orgasmico che altrimenti rimarrebbe inappagato. L’omosessuale non e` in genere un individuo felice proprio perche´ non puo` arrivare a provare quel sentimento pieno di appagamento psicofisico che e` proprio del rapporto eterosessuale. Qualche carattere particolare sotto il profilo psicologico assume l’omosessualita` femminile, non solo per il fatto che si rende meno apparente e piu` discreta. Possiamo innanzitutto distinguere una “donna virile” da una “omosessuale vera”. La prima avvicina di preferenza uomini deboli, ha scarso o nullo interesse sessuale essendosi espresse le sue pulsioni libidiche sotto forma di attivita` sublimate; si accosta socialmente all’uomo solo per prenderlo a modello rivaleggiando con lui in ogni campo. La sua identificazione col padre e` evidente. La seconda e` soggetto che, a seguito dell’insuccesso dell’Edipo, esclude totalmente l’uomo dalla propria vita senza cercarne alcun rapporto, mentre e` attratta esclusivamente da partner femminili, cercando relazioni di tenerezza. In ambedue i modelli sopra proposti esiste in comune il convincimento di aver avuto un padre svalorizzato dalla madre. Esse sono cresciute in un ambiente familiare in cui la figura paterna veniva costantemente svalorizzata dalla madre. La maturazione sessuale psicologica della donna trova maggiori difficolta` che quella dell’uomo. Ella, esprimendo fisiologicamente inizialmente la sua libido verso la madre, e caratterizzandosi quindi primitivamente come omosessuale, deve in seguito spostare il suo interesse sul padre ed iniziare, per la buona riuscita dell’operazione, un processo di identificazione con la madre. Il problema terapeutico e` condizionato da una difformita` delle soluzioni proposte. Innanzitutto bisogna tener presente che saranno pochi gli omosessuali che cercheranno un sostegno terapeutico, e lo faranno per lo piu` in circostanze particolari che tenderebbero a desta-

bilizzare il loro difficile assetto familiare e sociale. Sara` talvolta l’insorgenza di una turba insorta in un figlio che lo portera` dallo psichiatra, oppure potra` essere l’emergenza di una difficolta` sociale o comunque psicologica. Si e` abbastanza concordi nell’esprimere pessimismo nell’affrontamento della tematica. Dal punto di vista psicoanalitico si pensa che il meglio che si possa fare e` quello di trasformare un omosessuale angosciato in uno sereno, ma soprattutto di far ottenere loro un migliore adattamento sociale. ` certo che bisognera` prendere in cura solo E coloro che lo richiedono, e certamente sara` piu` opportuno non intervenire se non si maturera` la convinzione di poter effettivamente dare un sostegno valido all’interessato. Una prevenzione e` solo ipotizzabile se si riuscisse ad incidere nell’ambito familiare in modo che le identificazioni del bambino possano essere facilitate da assunzioni di ruoli appropriati, chiari e definiti. Si puo` cogliere l’occasione della trattazione della omosessualita` per fare un breve cenno alla patologia sessuale, oggi particolarmente oggetto di attenzione anche per le implicazioni psicologiche che spesso comporta. All’infezione luetica, temporaneamente limitata, ma che oggi pare in nuova crescita, a quella gonococcica, ai condilomi acuminati, all’herpes genitalis ed alle uretriti non gonococciche si e` oggi aggiunta la sindrome da immunodeficienza acquisita — AIDS o SIDA — che trova nei rapporti sessuali, specie in quelli omosessuali, un motivo essenziale di trasmissione. La ben conosciuta inefficacia di ogni mezzo terapeutico, mista alla drammaticita` sia del decorso che degli esiti, aggiunge un motivo in piu` tra le cause psicopatogeniche del pur fragile equilibrio dell’omosessuale.

4.2. Transessualismo Si da` al termine di transessualismo il significato di un desiderio delirante di appartenenza

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all’altro sesso, pur essendo i portatori di questa deviazione perfettamente normali sia sul piano organico che su quello ormonale. Il bisogno sessuale e` generalmente molto attenuato e talora sconfina nel comportamento omosessuale.

4.3. Impotenza Rappresenta la impossibilita` del congiungimento carnale e della funzione riproduttiva nel maschio adulto. Sotto il profilo giuridico e medico-legale difatti si distingue una impotentia coeundi ed una impotentia generandi, a seconda se e` impossibilitata la copula o il suo fine generazionale. Sotto il profilo psicologico e` evidente che e` la impotentia coeundi che domina l’attenzione del medico, relegando lo studio della forma generandi a situazioni organiche proprie di altre specialita`. L’atto materiale dell’intromissione della verga nella vagina prevede una erezione ed una eiaculazione all’acme del congiungimento. L’impotenza trova cause primarie, che si realizzano quando non si ottiene l’erezione che permetta l’intromissione, e cause secondarie che possono sopraggiungere dopo un certo periodo di rapporti normali. Si considera “elettiva” solo la impossibilita` di congiungersi con determinate partners a causa di condizionamenti. C’e`, da ultimo, tutto il capitolo delle impotenze fisiologiche dovute a malformazioni congenite, di quelle postraumatiche e di quelle conseguenti ad alcune patologie locali e generali. L’impotenza di natura psichica puo` sovrapporsi anche ad un problema organico, aggravandone ovviamente le conseguenze. Posto che la psiche gioca un ruolo fondamentale nel determinismo di una gran parte di impotenze, l’emotivita`, il timore di poter ripetere esperienze negative del primo incontro, una certa selettivita` nei riguardi di alcune partners e circostanze eccezionali possono determinare in un individuo assolutamente normale una impossibilita` occasionale al congiungimento.

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Cause influenti si riscontrano negli adulti che hanno avuto trascorsi masturbatori giovanili brutalmente repressi, o possono rappresentare il primo segno di una deviazione sessuale ignorata. In questo caso l’individuo comprende che un suo problema psicologico, che si concretizza nel fatto di non riuscire ad avere un rapporto eterosessuale soddisfacente, permette di considerare l’impotenza come conseguenza di un atto non desiderato e psicologicamente influenzato da una deviazione. Per restare nel campo delle influenze giovanili come cause del manifestarsi di una impossibilita` all’atto sessuale, troviamo tabu` morali e religiosi, educatori esageratamente rigidi, eccessiva valorizzazione del padre, immaturita` sessuale infantile (infantilismo psicosessuale), tutte cause che influendo negativamente sulla erezione e la copula possono finire coll’innescare un circuito che trasforma il momento giovanile nella causa principale di una impotenza. Ma deve essere considerata alla stessa stregua la aneiaculazione, che trova motivo o in semplici errori di tecnica o in uno sdoppiamento del riflesso che presiede al congiungimento carnale con la persistenza del riflesso d’erezione e la soppressione del riflesso eiaculatorio. In questi casi la funzione della donna diventa essenziale, proprio nella possibilita` di sbloccare una situazione che rischia di degenerare. Sempre in tema di riflesso eiaculatorio e` accertato che un certo rilievo hanno i meccanismi di blocco volontario della eiaculazione, sia per evitare un completo senso di colpa in situazioni particolari che per evitare la possibilita` di una gravidanza non desiderata. Turbe nel congiungimento si hanno anche quando il prolungamento volontario del freno sul riflesso eiaculatorio compiuto per prolungare il piacere della partner finisca per compromettere definitivamente l’eiaculazione. La eiaculatio precox rende impossibile il congiungimento per il realizzarsi della eiaculazione e conseguente perdita della erezione, prima ancora che sia avvenuta la penetrazione. Questa anomalia e` propria dei soggetti ipereccitabili, spesso giovani e con una forte carica libidica. Se il soggetto e` giovane e detta carica libidica

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e` valida per una ripetizione a breve scadenza del tentativo di rapporto, questo avra` buone possibilita` di realizzarsi compiutamente. L’eiaculatio precox puo` anche essere appannaggio di eta` piu` avanzate ed indica il sopravvenire di qualche anomalia che bisognera` accertare e correggere. L’indagine psicologica, essenziale per una diagnosi di natura del disturbo, si rivolgera` alla storia familiare del paziente, alla conoscenza della sua educazione morale e religiosa, come fonti di possibili inibizioni sessuali, ai particolari che possono emergere sia dallo sviluppo sessuale che dalle prime esperienze anche masturbatorie. Incisivo puo` risultare il primo periodo di rapporti sessuali se non addirittura il primo. L’indagine deve risalire al manifestarsi dei primi segni della disfunzione per mettere a fuoco se il paziente non e` mai stato in grado di compiere un atto sessuale o se la sua impotenza e` secondaria. In ogni caso una completa indagine della storia vissuta del paziente e` certamente indispensabile perche´ i fattori causali possono trovarsi lungo tutto l’arco della vita, dall’infanzia al momento di richiesta d’intervento medico. Va considerato che il ritmo della vita attuale, ritmo che concede pochi momenti di relax, puo` indurre a destinare alla attivita` sessuale dei brevi periodi (ad esempio i fine settimana) i quali vengono vissuti come momenti particolarmente attesi che facilmente possono, proprio perche´ tanto sospirati, portare a delusioni innescanti una di quelle reazioni a catena delusione-impotenza psichica, che sono spesso alla base di turbe della sessualita`. Lo psichiatra deve trovare modo di proporre un trattamento. Esso riguardera` consigli tecnici, qualora sia evidente nella storia del paziente una motivazione di questo genere. Le terapie farmacologiche a base di ormoni sono per lo piu` sconsigliate, mentre quando l’impotenza trova motivazioni psichiche puo` essere utile la somministrazione di sedativi. La terapia analitica e` comunque elettiva nel momento che si siano potute escludere cause organiche. Il piu` delle volte una impotenza cosiddetta funzionale si manifesta nei rapporti di una coppia

fino al momento esente da qualsiasi problema. In questo caso non sara` sufficiente il colloquio o l’analisi dell’uomo, ma bisognera` prendere conoscenza anche della partner per realizzare quel trattamento di coppia che eventualmente puo` essere ritenuto utile. L’assunzione di alcolici talvolta permette la disinibizione psicologica e finisce per essere occasionalmente vantaggiosa, ma va ben tenuto presente che la assunzione costante, specie di superalcolici, ha un’influenza alla lunga negativa sulla funzione complessiva della sessualita` maschile.

4.4. Frigidita` Lo studio di questo capitolo, che appare ancora piu` complesso ed articolato di quello della impotenza, non puo` prescindere da una articolata premessa che riguardi la funzione sessuale nella donna e soprattutto la integrazione tra i fattori fisiologici e quelli psicologici che entrano in gioco nel suo espletamento. Secondo Freud esisterebbe uno specifico chimismo sessuale alla base del comportamento. Cioe`, forze biochimiche organiche sarebbero alla base delle motivazioni che la “libido” — misto tra pulsione sessuale ed energia psichica — ha nel comportamento sessuale della donna. Egli enuncio` la teoria secondo la quale ha enorme importanza, nell’integrazione della personalita` femminile, l’energia sessuale. Le sue osservazioni, essenzialmente psicoanalitiche, attendevano una conferma biologica dagli esperti endocrinologi, per poter definitivamente fornire risposte corrette ai problemi del comportamento sessuale. ` a questi suoi lavori che si deve il piu` sisteE matico studio sul comportamento sessuale dei bambini, che egli considerava come concetto fondamentale della psicoanalisi. Negli animali, l’accoppiamento avviene periodicamente, nei periodi di “estro” o “calore” determinati appunto dalla attivita` delle ghiandole a secrezione interna. Osservazioni sui primati pero` ponevano questa specie su un piano differente rispetto agli altri animali, potendo essi essere stimolati all’accop-

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piamento da molteplici altri fattori che non fossero quelli legati alla attivita` delle gonadi. Nel genere umano, gli stimoli che determinano il comportamento sessuale sono talmente complessi e variabili da nascondere quasi totalmente il ciclo fisiologico della fecondita`. Esso cioe` non puo` spiegarsi semplicisticamente in relazione al funzionamento delle gonadi ed alla increzione degli ormoni. Pur tuttavia la funzione delle gonadi e` essenziale perche´ si determinino quelle forze che conducono all’accoppiamento ed al fine biologico della procreazione. Cio` sarebbe dunque una integrazione tra il sistema endocrino e quello nervoso, attribuendo al primo una funzione geneticamente determinata, favorente, con la sua integrita`, la reattivita` fondamentale del sistema neuromuscolare specifico. Nel genere umano la reattivita` e` influenzata dai fattori ambientali che modificano gli effetti degli stimoli, causando anche variazioni della organizzazione della personalita`. In questa maniera l’apparato psichico, proprio del genere superiore, finisce col determinare tutta la variabilita` degli schemi geneticamente ed organicamente predisposti. L’orgasmo femminile sarebbe dunque una conquista culturale, in parte sganciata dalle leggi biologiche. Il termine di frigidita` dovrebbe pertanto usarsi solo nei riguardi di quelle donne che abitualmente non raggiungono l’orgasmo durante un rapporto eterosessuale. La anafrodisia e` invece mancanza assoluta di desiderio sessuale, pur nella possibilita` del raggiungimento di un orgasmo. Queste definizioni, come sempre, finiscono per semplificare in eccesso il senso ben piu` complesso del problema. Non sapremmo allora come definire la donna che e` frigida con un partner mentre giunge regolarmente al soddisfacimento con un altro; ed ancora quella donna che esce insoddisfatta da un rapporto per inesperienza di coppia o per eiaculazione troppo precoce del partner. Entrano in gioco una molteplicita` di fattori,

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primo tra tutti quello socio-culturale, che ne impediscono una rigida classificazione. ` statisticamente provato che, negli ambienti E culturalmente piu` elevati, la percentuale della frigidita` e` risultata sempre inferiore. Peraltro la maggiore liberalizzazione del comportamento nella societa` ha portato alla contrazione del numero delle donne che potevano ritenersi frigide o che lo erano per condizionamenti morali od educativi; in una buona percentuale di donne sposate l’esperienza coitale porta alla contrazione spesso drastica del numero dei contatti insoddisfacenti. La variazione dei costumi ha infine portato ad un piu` frequente rimescolamento delle coppie (convivenza, separazioni, divorzi) creando le premesse per un piu` facile reperimento della coppia bene assortita sul piano sessuale. L’assenza di frigidita` e` in buona parte determinata dall’accordo psico-fisico dei componenti la coppia, accordo che puo` essere raggiunto anche in un tempo non breve. In genere la normalita` e la regolarita` dei rapporti influiscono beneficamente sul soddisfacimento orgasmico; per di piu` la “confidenza” che si sviluppa tra i partner aumenta i contenuti erotici degli incontri contribuendo a migliorare anche il piacere psichico dei rapporti. Non e` affatto certo che negli animali esista un piacere orgasmico della femmina: questo, e conseguentemente la non frigidita`, sarebbero, come sopra detto, una conquista culturale della specie umana. Prova ne e` che l’inizio della menopausa spesso si accompagna ad un aumento della libido che non troverebbe spiegazioni organiche od ormonali. Ne deriva una grande variabilita` nel comportamento sessuale della donna, che puo` esprimersi nelle maniere piu` disparate. Accanto ai soggetti che non hanno alcun interesse per una vita sessuale, soggetti che se giungono al matrimonio vivono le esperienze coitali come un semplice dovere, esiste una abbondante diversificazione nel modo di soddisfare il desiderio sessuale che si differenzia da coppia a coppia; la eventualita` piu` felice e` quella del raggiungimento simultaneo del momento orgasmico. Cosı` come l’affiatamento negli incontri di coppia puo` migliorarne i contenuti sia sul piano

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tecnico che su quello erotico, puo` avvenire che la frigidita` sopravvenga dopo un periodo assolutamente normale: sono le frigidita` secondarie o regressive. Questo tipo di frigidita`, chiaramente elettivo, trova motivazioni quasi esclusivamente psicogene e non va confuso con il naturale processo di invecchiamento. Sono poco influenti le cause organiche generali nel determinismo di una frigidita`. Le terapie ormoniche non riescono a modificare un atteggiamento che e` certamente dominato dalla psiche. L’aspetto psicoanalitico della frigidita` e` totalmente diverso da quello della impotenza maschile. Pur tuttavia le cause della frigidita` non sono sempre interpretabili in chiave psicoanalitica. Nell’uomo tutta l’attenzione si concentra sull’erezione, che e` momento indispensabile perche´ avvenga la copula: pertanto la sua partecipazione psico-emotiva e` essenziale. La donna frigida puo` vivere nella indifferenza un congiungimento carnale senza carica emotiva; ella evidentemente non ha raggiunto quello stadio di partecipazione che deriva da un complesso di fattori, anche emozionali: la ricerca delle sue zone erogene e` talora complessa. L’evoluzione della sessualita` femminile passa attraverso varie fasi cronologicamente susseguentisi: un narcisismo diffuso (non esclusivamente sessuale), un periodo di localizzazione clitoridea, uno di localizzazione vaginale e conseguenti periodi masturbatori, per giungere nella piena maturita` psicofisica alla copula. Perche´ tale maturazione si concretizzi a pieno e` indispensabile che la fissazione dell’affettivita`, inizialmente rivolta alla madre (complesso di Edipo), si sposti sulla figura paterna (complesso di Elettra). La stagnazione in uno di questi periodi della evoluzione, una regressione od una deviazione possono essere sorgente di frigidita`.

5. Alterazioni psichiche secondarie Tra le cause psichiche secondarie va sottolineata la presenza di turbe della sessualita` in quasi

tutte le malattie psichiche, quasi fosse una costante. Il motivo va probabilmente ricercato genericamente nel profondo coinvolgimento affettivo che i disturbi psichici comportano sempre, polarizzando l’interesse del portatore sulle sue problematiche e determinando cosı` di fatto una profonda distrazione da tutti i problemi della vita di relazione, problemi che comprendono ovviamente anche gli interessi sessuali in genere. Un discorso a parte meritano i farmaci psicotropi, prevalentemente con effetto farmacologico deprimente e che concorrono, ove il trattamento sia in corso, ad una limitazione della libido e dell’interesse sessuale. Diciamo che essi meritano un discorso a parte, non solo perche´ la loro azione secondaria non puo` essere confusa con la sintomatologia dell’affezione per la quale sono stati prescritti, ma anche perche´ in alcuni casi, migliorando le manifestazioni della malattia, potrebbero avere invece un effetto benefico su depressione od ansia con la ripresa degli interessi sessuali in genere. Va detto che le alterazioni della sessualita` possono essere addirittura il primo o l’unico segno in fase iniziale della affezione, specialmente per quanto riguarda le depressioni. Sono appunto la depressione, la schizofrenia e la psiconevrosi le patologie che interessano l’argomento delle turbe della sessualita`. Solamente nelle fasi acute di mania e` presente frequentemente un aumento spesso notevole delle attivita` sessuali.

6. Alterazioni funzionali Sotto il profilo eziologico rappresentano la maggioranza delle anomalie della sessualita` cosiddette “di coppia”. Trattasi di individui perfettamente sani sia sotto il profilo organico che sotto quello psicologico, ma che non riescono a raggiungere un reciproco adattamento erotico. ` possibile che nel tempo si sviluppi una E incompatibilita` tra due personalita` divergenti quanto ad erotismo e sessualita`, nonche´ a diverse concezioni del legame di coppia. Tale situazione, secondo la scuola Freudiana,

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e` dipendente costantemente da situazioni conflittuali tra i partner. Secondo altre correnti di pensiero, cio` non e` la norma. Ci sono coppie che convivono ed hanno relazioni sessuali pur in una intricatissima situazione conflittuale determinata da intrecci di interessi anche amorosi. Sembra comunque che un fattore ricorrente sia una certa vulnerabilita` caratteriale di uno dei componenti la coppia, vulnerabilita` indirizzata di preferenza nel senso di una colpevolizzazione dell’attivita` sessuale e di quanto vi si puo` connettere (giochi erotici, masturbazione, contraccezione). Tale stato di cose puo` determinare un blocco che ostacola l’abbandono al piacere creando uno stato di impotenza o frigidita`. Da ultimo, turbe funzionali possono intervenire a seguito di cause organiche guarite e che hanno transitoriamente provocato un disturbo sessuale. In tal caso e` opportuna una azione psicologica a sostegno della ripresa normalita` organica.

7. Prevenzione Il momento storico della medicina, privilegiante la prevenzione sulla terapia delle affezioni conclamate, non sembra aver incluso stabilmente nei suoi programmi molte delle patologie psichiatriche, vuoi per difficolta` obiettiva, vuoi anche per una resistenza culturale all’affrontamento di tematiche inusuali. In tema di turbe della sessualita`, che sono alla base di innumerevoli patologie nevrotiche, la letteratura e` decisamente povera di riflessioni sulla prevenzione dei disturbi sessuali, mentre a noi sembra quanto mai opportuno l’inizio di un dibattito sulla tematica con l’esposizione di alcuni concetti che derivano da una attenta valutazione clinica dei pazienti che si rivolgono alle nostre cure. Sarebbe difatti auspicabile una attenzione rivolta ai giovani nei momenti “critici” del loro sviluppo psicofisico-affettivo (che collochiamo temporalmente dal periodo immediatamente prepuberale a quello postpuberale). Tale attenzione non puo` non interessare l’ambito scolastico.

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I giovani potrebbero avere grande giovamento solo dal sapere che all’interno della istituzione scolastica c’e` qualcuno disponibile ad ascoltare, in maniera competente e scevra da bisogni personali, i loro dubbi, le loro preoccupazioni adolescenziali legate all’inizio delle pulsioni sessuali. Il criterio di indirizzo di questi giovani e` deviato dalla imperfetta lettura del significato di normalita`, affidata, spesso a caso, a persone non in condizione di esprimere un giudizio meditato. Ogni educatore finisce, malgrado tutto, con l’avere una immagine propria della persona “normale”, concetto necessariamente legato all’ambiente culturale ed ai principi etici della societa` in cui vive e lavora. Cio` deriva dal fatto che della normalita` bisognerebbe esprimere un concetto di` impossibile pertanto una namico e non statico. E generalizzazione legata a parametri psicologici e funzionali. Ciononostante e` fondamentale dare corrette informazioni sulla natura e sui bisogni dell’uomo. Ecco perche´ riteniamo che la scuola possa vicariare l’incerta funzione educatrice di molte famiglie ed organizzare al suo interno un servizio di sostegno affidato a psicologi clinici capaci di suscitare nei ragazzi un sentimento affettivo e confidenziale che sara` alla base di un rapporto proficuo. Proprio sulla funzione e sui bisogni sessuali si incentrano la curiosita` e la fantasia degli adolescenti desiderosi di approfondire le tematiche della soddisfazione e della eventuale regolazione dei loro iniziali rapporti col sesso. Non esiste cultura, per quanto primitiva, che non abbia una parvenza di organizzazione; il bisogno di organizzarsi e` diventato sempre piu` forte quanto piu` la civilta` si e` sviluppata e quanto piu` si e` posto l’accento su di un comportamento razionale e su concetti quali l’efficienza e la produttivita`; ma cosı` facendo si son persi di vista altri aspetti non razionali legati all’emotivita`, ai sentimenti che, risultando cosı` carenti, come informazione e conoscenza, possono creare le basi per un “equivoco” che puo` rappresentare il punto di partenza per patologie. Mai come ora nella nostra epoca di crisi, di

772

Manuale di psichiatria e psicoterapia

cambiamenti, di rinnovamento sociale imminente si accompagna ad essi un aumento dell’insicurezza e di paura per il futuro. Il progresso non avviene senza attriti. Molti studi si limitano ad analisi statistiche, ad un conteggio delle prestazioni sessuali senza approfondirne il significato ed il vissuto. Mancano studi longitudinali che abbraccino tutta la complessita` dell’evoluzione psicosessuale nel defluire di esistenze concrete. La normalita` in psicologia ed in sessuologia non e` espressa dai valori statistici, ma risiede nella diversita`, nell’unicita`. Atteggiamenti e comportamenti sessuali sono espressione di tutta la personalita` e pertanto sono un buon rivelatore di come e` in realta` una persona. Spesso l’adolescente che non si conforma alle norme culturali del suo gruppo, che non agisce come i suoi coetanei, si sente anormale. I cambiamenti ormonali fisiologici e somatici della puberta` danno solo la possibilita` di un comportamento adulto. Le tendenze non si traducono in comportamenti se non attraverso un apprendimento che avviene in una cultura ben determinata. La consapevolezza dell’estrema variabilita` delle storie sessuali puo` aiutare i giovani ad essere se stessi, ad esprimere la sessualita` come vogliono, a scegliere i valori che trovano piu` adeguati. Il compito del medico psicologo non e` quello di indicare quale sia il comportamento normale, ma di aiutare ogni persona a fare scelte libere in campo sessuale confacenti alla sua storia ed alla sua personalita`. Patologie possono trovarsi nell’eterosessualita` come nell’omosessualita`, nell’attivita` quanto nell’astinenza. Esse devono essere valutate non in funzione della materialita` di un comportamento, ma all’interno di un quadro complessivo di una storia di una vita. La permissivita` dei genitori e dell’ambiente non impedisce che lo sviluppo sessuale possa risultare difficile. Gli adolescenti vivono sovente il

sesso in modo ambivalente: ne sono affascinati e lo temono, ne sono attratti e lo fuggono. Sarebbe molto utile nei momenti evolutivi, per uscire da questa ambivalenza in maniera corretta ed al fine di prevenire eventuali patologie, poter essere ascoltati da persona preparata, non rappresentata, come spesso accade nelle scuole che si occupano di “educazione sessuale”, dall’insegnante o dal sacerdote. Nella maggior parte dei casi gli adolescenti ricevono informazioni sul sesso dai loro compagni e non dagli adulti. Anche se molti genitori sono teoricamente convinti della necessita` di impartire una informazione sessuale ai propri figli, la maggior parte di loro se ne astiene o fornisce un’educazione fondata sul silenzio o sulla repressione. Tali informazioni sono raramente neutrali: esse sono maggiormente indirizzate a tenere gli adolescenti lontani dal sesso che ad insegnare loro a viverlo con liberta` e gioia. Per aiutare i giovani a prevenire patologie psicologiche sessuali e` sufficiente che qualcuno, a loro bisogno, sia disposto ad ascoltarli, senza indicare ne´ condannare. Con la pletora di medici esistente in Italia potrebbe essere svolto un lavoro interessante ed utile al fine di prevenire accidenti od incidenti di vario tipo, specie nel campo affettivo che, se non ben affrontato e superato nelle situazioni critiche, puo` rappresentare la causa iniziale di disturbi nevrotici. L’esperienza clinica ci dimostra quanto poco basti, ad un giovane motivato, per poter comprendere e cambiare.

8. Note di terapia Riveste carattere di estrema difficolta` il trattamento delle disfunzioni sessuali data la loro particolarita` che ne differenzia la piu` gran parte degli aspetti a fronte di una affezione classica. Di piu` sicura efficacia sono le terapie delle forme organiche, in cui un perfetto inquadramento eziopatogenetico facilita enormemente se non il risultato, almeno l’orientamento corretto che il terapeuta deve intraprendere.

Disturbi sessuali: disfunzioni e deviazioni

Il raggiungimento dello scopo sara` piu` facile nelle forme tossiche, medicamentose, in cui una variazione dell’indirizzo farmacologico potra` assicurare un successo abbastanza rapido. Un diverso destino seguono le forme psichiche, specie quelle cosiddette primarie, in cui la patologia comportamentale fa corpo unico con convincimenti ed abitudini radicati e molto spesso non vissuti come patologie dalle quali il portatore non desidera guarire. Soprattutto nelle deviazioni sessuali non c’e` quasi mai desiderio di un cambiamento verso quel comportamento che la societa` classifica come normale, dato che questo comporterebbe l’abbandono di quegli atteggiamenti che, soli, sono capaci di soddisfare il desiderio sessuale degli interessati. Eziologica e` anche la terapia dei disturbi psichici secondari, in quanto si puo` ragionevolmente sperare che le turbe della sessualita` seguano il miglioramento o la guarigione delle sindromi o delle malattie che le hanno indotte. Un capitolo a parte costituiscono invece i disturbi funzionali o le patologie comportamentali della coppia. In essi un appropriato trattamento psicoanalitico, spesso rivolto ad uno soltanto dei due partners, puo` restituire ad una vita sessuale soddisfacente una coppia che non abbia motivazioni di contrasto che esulano dalle possibilita` di normalizzazione da parte di uno psichiatra. Ad ogni modo l’inizio di un qualsiasi trattamento terapeutico deve essere preceduto da un esame approfondito del caso per non correre il rischio di intraprendere iniziative troppo precipitose che finirebbero con un insuccesso, che a sua volta rafforzerebbe ancor piu` la consapevolezza

773

di una irreversibilita` della condizione patologica. Occorre dare a coloro che tentano una terapia una ragionata fiducia per non far divenire iatrogena la sovrapposizione, e quindi il potenziamento, di fattori psichici con disturbi organici.

Recentemente sono stati prodotti — ed entrati in commercio — vari farmaci che dovrebbero agire, secondo le case farmaceutiche, sulla affettivita`, quali la “pillola” per la timidezza e quella per l’impotenza. La loro efficacia, dopo un primo momento di euforia forse determinata dalla imminenza della commercializzazione, si e` dimostrata assai modesta, confermando che il percorso farmacologico nella cura dell’impotenza e` decisamente secondario ad un’attenta analisi personale, unica in grado di risalire e risolvere la problematica psichica che nella maggior parte dei casi e` alla base della patologia.

Riferimenti bibliografici Arieti S., Manuale di Psichiatria, Vol. II˚, Boringhieri, 1985. Bergeret J. e c., Adolescenza terminata, adolescenza interminabile, Borla, 1987. Giberti F. e Rossi R., Manuale di psichiatria, Piccin, 1986. Lutte G., Psicologia degli adolescenti e dei giovani. Il Mulino, 1987. Volcher R., Dizionario di sessuologia, Cittadella, 1975. Zwang G., Sessuologia, Masson, 1980.

47 Il suicidio Gabriele Cavaggioni Parole chiave suicidio; melanconia; inconscio

Gesto drammatico, spesso definitivo che, pur legato a motivazioni diverse, presenta la tendenza a mantenere un tasso d’incidenza abbastanza stabile nel tempo. Tuttavia nelle statistiche vengono considerati solo i casi chiari e conclamati di suicidio: sfuggono invece tutte le condotte suicidarie (per esempio tossicomanie, alcolismo ecc.) e molti incidenti mortali che, ritenuti dovuti al caso, sono invece dei suicidi mascherati. Sicuramente il suicidio e` legato a una patologia spesso evidente: mi riferisco soprattutto alla depressione ed alla schizofrenia. Molte volte invece la patologia non e` evidenziabile: e allora il

gesto assume un significato ancora piu` drammatico e ripropone domande sul perche´ e sul significato del suicidio. Soprattutto se si pensa che, dopo le situazioni traumatiche, il suicidio occupa il secondo posto come causa di morte negli adolescenti. Ma non meno drammatico e` il suicidio di persone anziane; forse comprensibile in soggetti soli ed ammalati, diventa incomprensibile in soggetti creativi ed ancora validi. Certamente il suicidio rimane un gesto che deve essere elaborato, molto piu` della morte, da parte di chi resta. * * *

776

Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Definizione La soppressione volontaria, il taglio (-cidere) della propria (sui-) linea di vita e` il suicidio, fenomeno che nel mondo si presenta ogni giorno piu` di mille volte e che viene posto tra i primi dieci motivi che determinano la morte in Occi` dunque evento tanto drammatico quanto dente. E frequente, indice comunque di profondo ed evi` un atto usualmente a dente disagio psichico. E lungo premeditato cosı` da organizzare un progetto tale da non lasciare dubbi sull’esito del risultato. Solo occasionalmente si realizza durante un «raptus suicidario», ovvero in un momento in cui lo psichismo del soggetto suicida, qualsiasi esso sia, viene improvvisamente e drammaticamente sconvolto. Non e` raro che il suicida, proprio perche´ e` intenzionato ad uscire-dalla-vita, cerchi di realizzare l’evento uscendo, prima, da tutto cio` che e` vivo, allontanandosi nel tempo (es. la notte) e nello spazio (es. fuori dall’usuale raggio d’azione) dalle persone e da quegli oggettiluoghi che rivestono per lui particolare significato affettivo. Non e` un caso che molti suicidi vengano scoperti dopo diverso tempo dall’accaduto. La ricerca della riservatezza e dell’isolamento sono pertanto non solo fatti comportamentali, ma anche elementi psichici che si confanno appieno alle proprie dinamiche pulsionali. Il tentativo di suicidio (TS), invece, per definizione, non comporta il decesso, quantunque ca` pero` da sualmente in esso si possa incorrere. E considerarsi certamente di non minore gravita` per diversi motivi; tra i piu` significativi sono la frequenza otto volte superiore a quella dei suicidi, il fatto che il gesto riguarda precipuamente una fascia d’eta` medio-bassa, e l’osservazione che nel 10-25% (a seconda dei diversi studi) delle storie personali dei suicidi sono descritti uno o piu` TS. Spesso il TS viene considerato come gesto dimostrativo. Tale appellativo ci sembra troppo vago e forse piu` riflettente una cattiva situazione controtransferale di chi si pone a descrivere il gesto stesso, che una congrua modalita` descrittiva. Riteniamo quindi opportuna una riformulazione. Se il suicidio e` il perentorio e definitivo punto che il soggetto pone a se stesso nel discorso esistenziale sulla vacuita` della propria vita, il tentativo di

suicidio e` una comunicazione disperata con il mondo esterno, non gia` di un vuoto interiore, ma di un’indistricabile confusione, di un caotico tumulto che non riesce a trovare, se non nel gesto assurdo, altro varco per rendersi manifesto. Gesto assurdo, dicevamo, in quanto agito da una dinamica antinomica: la ricerca del riconoscimento dell’oggetto «vita» inteso come il divenire nel tempo, attraverso l’annullamento dell’oggetto stesso. In tal senso il TS non tende dunque a dimostrare, ma a comunicare. Peraltro, invece, alcuni suicidi possono essere dimostrativi: il moralista che dimostra il suo «pentimento»; il fanatico che dimostra il suo «coraggio»; il filosofo che dimostra il proprio «materialismo». Vanno questi considerati con molta attenzione perche´ celano in se´ un germe assai pericoloso: l’esaltazione della morte come principio assoluto, mascherando il movente reale del fallimento del proprio essere pensante. Sicuramente si deve considerare in modo diverso il suicidio mancato. Con questo termine si definiscono quegli eventi in cui pur riconoscendo le medesime dinamiche del suicidio vero, e dunque le stesse modalita` comportamentali, il fine, la morte, non viene raggiunto solo per casualita` o per erronea utilizzazione dei mezzi. Il fenomeno richiede una particolare attenzione massimamente per l’evoluzione a cui va incontro. Infatti ad esso seguono in prevalenza due atteggiamenti. Il primo vede nel permanere della dinamica e nell’assenza di qualsiasi tipo di risposta, difensiva o elaborativa che sia, la probabilita` della ripetitivita` del gesto; il secondo e` quello che prevede una seppur minima rielaborazione del gesto e del vissuto che ha portato al gesto, pur se spesso questa e` parziale ed incompleta, e lascia comunque, nel soggetto, una marcata e spesso indelebile cicatrice. Vanno definiti in questa sede due situazioni particolari: i suicidi subintenzionali ed i suicidiomicidi. I primi «avvengono», o hanno elevate possibilita` di avvenire, ad esempio in coloro i quali conducono attivita` ad alto rischio o ritardano opportuni interventi terapeutici o incorrono sovente in infortuni per distrazione e/o comportamenti incauti. In queste persone la dinamica non e` volontaria, ne´ comunicativa, ne´ dimostrativa, ` possibile paragonare questa dinama inconscia. E

Il suicidio

mica a quella delle fobie d’impulso a cui rimandiamo. In questa sede e` importante sottolineare, pero`, che la dinamica inconscia e` in questo caso una dinamica pulsionale che vede il prevalere della pulsione di morte in modo cosı` massiccio da annullare ogni possibilita` trasformativa. Prevede pertanto l’estrema difficolta` a costruire validi rapporti oggettuali e sottende una profonda incapacita` di elaborazione dei proprio vissuto generata dal costante annullamento quale meccanismo principe di difesa. I suicidi-omicidi, in ultimo, si propongono forse come gli eventi piu` gravi, sia come fatto in se´, nel coinvolgimento di altre persone, sia come manifestazione estrema della dinamica distruttiva dell’odio e dell’invidia. Sono spesso associati a forme deliranti e prevalentemente al delirio di gelosia, al delirio mistico e a quello di salvazione e vengono attuati nel momento in cui proprio la struttura rigida del delirio entra in crisi; il soggetto non regge alla frustrazione e svuota l’altro di ogni possibilita` evolutiva fino ad annullarlo attraverso la morte, riaffermando con questo e con l’idea suicidaria, ancor prima che con l’atto, la propria fantasticheria onnipotente. In ultimo va sottolineato che l’atto suicidario, in qualsiasi forma si manifesti e`, sul piano della relazione oggettuale, sempre un atto violento che viene agito contro un oggetto esterno piu` o meno specificato. Chi cerca di porre o pone fine alla propria vita tenta sempre nel gesto, consapevolmente e/o inconsciamente, di arrecare un danno grave, e sovente ci riesce, a chi e` in relazione con lui. Tabella 1. Tasso medio su 100.000 unita` dei suicidi in alcune aree mondiali in soggetti di oltre 45 anni di eta`, nei trienni 1952-54 e 1961-63 (dati OMS).

Area geografica

777

2. Considerazioni epidemiologiche Quantunque esistano delle caratteristiche sociali, come il vivere in contesti ad elevata densita` di popolazione, il basso livello economico, la tendenda all’abuso di alcool e di droga ed altre piu` personali come l’eta` avanzata, la mancanza di un partner e di figli, il numero di malattie fisiche e/o psichiche, che possono considerarsi statisticamente dei fattori favorenti il suicidio, questo fenomeno e` diversamente presente in tutte le societa`. Fare una tipologia del suicida sulla base di questi elementi e`, a nostro avviso, di scarsa utilita`. Infatti questa dovrebbe tendere a proporre delle possibili modificazioni di tali parametri, ma mentre non e` compito dello psichiatra e tanto meno dello psicoterapeuta il lavorare su fattori sociali intesi come entita` astratte, le caratteristiche personali assumono significato specifico quando non descrivono un dato a se´ stante, ma rientrano, come elementi di maggiore comprensione, nella situazione di vita globale del soggetto. Tabella 2. Tasso di suicidi su 100.000 unita`, per sesso (anno di riferimento 1992, salvo altra indicazione) (dati ISTAT).

Paese

M.

F.

Cile

8,4

1,4

U.S.A.

19,6

4,6

Croazia

37

12,1

Estonia (1994)

70,7

14,9

Spagna

11

3,4

Italia

12,1

4,1

Francia

31,6

11,5

1952-54

1961-63

Australia

14,9

19,6

Svezia (1993)

22,2

9,5

Europa

20,1

20,2

Fed. Russa (1994)

74,1

13,3

Giappone

31,4

24,7

Giappone (1994)

23,1

10,9

Israele

n.c.

10,1

Australia (1993)

18,7

4,5

U.S.A.

14,1

15,6

Cina rurale (1994)

23,7

30,5

Totale

20,1

18,04

Cina urbana (1994)

6,5

7,0

778

Manuale di psichiatria e psicoterapia

Per uno sguardo «storico» del problema possiamo rivolgerci verso alcuni dati OMS (Tab. 1). Risulta comunque interessante (Tab. 2) osservare come il comportamento suicidario, seppure presente significativamente in tutto il mondo, assuma proporzioni diverse da paese a paese. Possiamo individuare alcune costanti di fondo: a) b)

la prevalenza nel sesso maschile; la tendenza ad un incremento sia dei suicidi che dei T.S. nei paesi dove le condizioni socio-economiche sono piu` svantaggiate (es.: per l’Europa, la Croazia, la Repubblica Russa, l’Estonia). Per quello che riguarda questo secondo dato, non si puo` non notare la discrepanza che sussiste anche tra paesi relativamente vicini, sia per cultura che per condizioni economiche, come la Francia e l’Italia, quasi a suggerire che il rilevare queste tendenze non significa poter considerare il suicidio come variabile dipendente dalle condizioni sociali.

I dati anagrafici danno lo spunto per ulteriori considerazioni, soprattutto quando vengono relazionati in rapporto a due situazioni quali quella del suicidio e del T.S. A titolo esemplificativo proponiamo la Tab. 3. Tabella 3. Suicidi e T.S. per eta` in Italia. Anno 1995 (dati ISTAT) Suicidi Classe d’eta` Fino a 13

M

F

T.S. MF

M

F

MF

6

0

6

3

11

14

14-17

29

10

39

33

100

133

18-24

197

57

254

233

266

499

25-44

793

238

1031

759

756

1515

45-64

888

299

1187

370

400

770

oltre i 65

1013

381

1394

217

192

409

Totale

2926

985

3911

1615

1725

3340

Il fenomeno del suicidio aumenta con l’aumentare dell’eta` partendo da una percentuale del

6,6% per eta` comprese tra i 18 e i 24 anni, per arrivare ad una del 35,4% quando supera i 65 anni; riguarda percentualmente la popolazione maschile su quella femminile in rapporto al 2,4: 1. Invece il 45% dei T.S. avvengono in una fascia di eta` compresa tra i 25 ed i 44 anni, mentre solo l’11,2% riguarda la fascia di ultrasessantacinquenni. Anche il rapporto M:F per i T.S. si modifica, diventando 1:1,1. Questi dati acquistano pero` un significato particolare quando si considera che negli adolescenti il suicidio e` causa di morte secondaria solo agli infortuni. In questo senso e` evidente quanto sia necessario porre seria attenzione sull’evoluzione di quella crisi evolutiva che, se non superata, puo` mettere gravemente a rischio talune personalita` gia` deboli o fratturate. Prendendo in considerazione lo stato civile e mettendo in relazione le cifre dell’ultimo censimento con quelle del numero dei suicidi, si evince che i separati/divorziati ed i vedovi vanno incontro al rischio di suicidio con una frequenza circa quadrupla rispetto a quella dei coniugati e dei celibi/nubili. Ora, se ci soffermassimo innanzi a questo unico indice, si potrebbe superficialmente dire che i coniugati e i celibi/nubili sono mediamente piu` «sani» dei separati/divorziati. Considerare questa affermazione come vera e` l’errore in cui piu` facilmente si potrebbe cadere. In realta`, non e` lo status in se´ ad essere causale rispetto al parametro in esame, ma la modalita` con cui si vive all’interno del dato status e quella attraverso la quale allo status si e` giunti. Se non e` vero che lo stato di separato/divorziato coincide comunque con un maggior livello di disagio psichico, bisogna riconoscere che i processi di separazione in senso lato, e come tali indispensabili alla vita delle persone, sono sempre dei processi estremamente significativi e delicati che, se mal fatti, possono gettare il soggetto in profondi baratri, bui come la morte. Altresı`, coppie simbiotiche e rigide che all’apparenza propongono comportamenti uniformi e insospettabili possono nascondere un rischio tanto maggiore quanto maggiore e` l’intolleranza al cambiamento. La crisi in una coppia che considera la separazione come un’eventualita` possibile e` molto piu` tollerabile ed ha piu` possibilita` di essere elaborata che non in una coppia simbiotica

Il suicidio

dove tale evenienza, strutturalmente, non e` neppure ipotizzabile. Tra i mezzi di esecuzione del suicidio (i dati si riferiscono al 1995), i piu` usati sono l’impiccagione (1294), la precipitazione (717) e l’utilizzazione di arma da fuoco (476). L’avvelenamento (1229) e l’arma da taglio (411) sono invece i ` evidente come la mezzi piu` frequenti nel T.S. E scelta del mezzo nasca da esigenze differenti. Non va dimenticato che il suicida vuole ad ogni costo trovare la morte, mentre chi agisce un T.S. cerca per lo piu` una comunicazione. Il salto nel vuoto, il rimanere appeso per il collo, la deflagrazione, sono concretizzazioni di dinamiche psichiche totalizzanti, dietro cui non esiste null’altro, se non il fatto che siano le ultime ad essere agite. Il veleno che scorre nelle vene, come il sangue che da esse defluisce, propone un qualcosa che, certamente male, ma si muove, cerca di uscire. Dietro non c’e` il nulla del vuoto, la frattura della corda, la frammentazione dello scoppio, ma ancora una possibilita`: quella di fare uscire da se´ non gia` la vita, ma quel «veleno», quel dolore, quel male che rende insopportabile la vita stessa. Va inoltre attentamente considerato il movente (Tab. 4). Tabella 4. Suicidi e T.S. per movente in Italia. Anno 1995. (dati ISTAT) Movente

Suicidi

T.S.

% Suicidi

% T.S.

532

148

13,5

39,8

1434

1335

36,5

39,8

M. affettivi

340

725

8,7

21,6

M. d’onore

11

26

0,25

0,8

115

153

2,8

4,6

Ignoti

1479

953

37,7

28,4

Totale

3911

3340

99,45

99,5

Mal. fisiche Mal. psichiche

M. economici

Bisogna prendere atto che la maggior parte dei suicidi riguarda persone a cui e` gia` stata diagnosticata una psicopatologia. Dei diagnosticati, peraltro, il 49% sono depressi, mentre per la

779

schizofrenia, che sta al secondo posto nell’ambito delle psicopatologie in relazione ai suicidi, la percentuale e` del 16%. C’e` a questo punto da porsi la domanda sul perche´ tanti pazienti riconosciuti «gravi» si suicidano. Dire che il togliersi la vita e` una scelta libera e quindi non e` ne´ giusto ne´ possibile controllarla ci pare un’affermazione falsa e tenden` vero che non si e` responsabili di cio` che ziosa. E gli altri fanno, che il medico non e` responsabile di cio` che fa il paziente, ma e` anche vero che ciascuno di noi e` responsabile di cio` che egli stesso fa, e dunque anche di cio` che non fa. Ora, il compito del medico e` di curare, non di guarire; pertanto se il paziente si toglie la vita nel momento in cui e` stato ben curato, il medico non ha colpa. Puo` pero` accadere che una patologia «grave» angosci il medico che non e` preparato a tale eventualita`. L’angoscia generata dal paziente viene, in tale situazione, subita dal medico che a sua volta cerchera` di difendersi negandola e negando a se´ la gravita` dell’altro. Questo porta a non prendersi piu` cura dell’altro, ed e` quest’assenza di cura che diviene per il paziente frustrante. Cade anche la piu` piccola speranza, il che puo` essere inteso come elemento favorente l’attuazione dell’idea suicidaria. Tra gli altri vengono elencati i motivi affettivi, economici e d’onore, ma questi complessivamente non raggiungono il 10% dei moventi. Resta cosı` una percentuale di suicidi superiore al 30% per i quali non e` possibile riconoscere una causa certa. Riteniamo che questo dato sia estremamente significativo perche´ accredita ormai non piu` l’ipotesi, ma la certezza che esiste un’elevata incidenza di suicidi tra i decessi la cui causa non e` facilmente accertabile. Altrettanto e` da ritenersi che molti incidenti, infortuni, patologie stesse o atteggiamenti verso di esse, particolari abusi di sostanze stupefacenti o alcool, finanche il cibo stesso, non siano da considerarsi come casuali o dovuti a disattenzione o patologia tout-court, ma veri e propri tentativi di suicidio che sovente non sono riconosciuti come tali ne´ dal soggetto-paziente, poiche´ le motivazioni sono inconsce, ne´ talvolta dal medico-terapeuta che conosceva prima o comunque conoscera` il paziente dopo l’e` da accettare il fatto che esistono vento stesso. E

780

Manuale di psichiatria e psicoterapia

alcune condotte comportamentali manifeste dietro le quali si celano condotte suicidarie latenti. Su queste ultime e` doveroso porre quell’attenzione che spesso viene spostata su altri parametri apparentemente piu` significativi. Fare errate attribuzioni causali, come, peggio, il ritenere casuali degli eventi, puo` far perdere la strada della comprensione del paziente che, rimasto solo, puo` proseguire verso l’abisso assai velocemente. In ultimo si puo` affermare che quantunque l’evento suicidio non sia databile in un momento particolare dell’anno, ovvero, almeno in Italia, non ci sono mesi che propongono un’incidenza significativa, va rilevato che spesso picchi suicidari sono presenti nelle immediate vicinanze di quei periodi in cui piu` facilmente i lavoratori vanno «in vacanza». Discorso parzialmente diverso invece e` possibile a proposito dell’ora della giornata in cui piu` frequentemente e` attuato il suicidio, in quanto, tolto un 30% dove l’orario e` sconosciuto, il 22% dei suicidi avvengono di notte, mentre un altro 32% (16+16) sono commessi rispettivamente nella seconda mattinata e nel primo pomeriggio; le percentuali cadono drasticamente (5.5%) nelle ore dei pasti, quasi a confermare l’antitesi tra il nutrirsi come vivere ed il morire. Riteniamo pertanto che da tutto quanto sopra esposto si possa trarre un primo importante significato. Il fenomeno del suicidio e` correlato non gia` ad uno specifico status affettivo, ma ad una situazione piu` generale e piu` profonda di vuoto riferita in parte alla perdita degli oggetti di relazione, ma soprattutto alla perdita totale di capacita` di relazionarsi, cosı` da creare quel deserto ove l’unico stimolo possibile e` l’angoscia.

3. Modelli interpretativi Il fenomeno del suicidio e` da sempre oggetto di studio e di ricerca. La domanda «perche´ l’ha fatto» si ripropone ogni volta che ci si trova di fronte all’atto. Tutti coloro che si sono avvicinati al discorso sulla psiche hanno diversamente tentato di dare una risposta a tale domanda. Cosı` sono stati proposti un numero decisamente ele-

vato di modelli interpretativi. Menzionarli tutti diventerebbe dispersivo, confusivo e come tale inutile e dannoso. Pertanto, pur tenendo presente l’esistenza di queste ipotesi, ci e` sembrato opportuno fare una selezione e dare spazio a chi ha preferito rivolgere la sua attenzione, piu` che al discorso sulla psiche, al discorso della psiche. In tal senso riteniamo che l’orientamento psicodinamico sia il piu` esaustivo. Il primo Autore da menzionare, se non altro per ordine cronologico, e` certamente S. Freud. Nella sua vasta opera pochi sono i riferimenti specifici all’argomento, pur tuttavia lo scritto del 1915 Lutto e melanconia offre un ampio varco per successive considerazioni sul tema, proponendo una netta separazione tra i processi psichici inerenti al lavoro del lutto e le dinamiche patologiche che stanno alla base della melanconia. Il problema nasce nel momento in cui si verifica la perdita di un oggetto investito libidicamente. Ora, secondo la formulazione freudiana, il lutto e` un processo cosciente e sano che si puo` verificare in occasione della perdita di un oggetto reale. Il lavoro psichico consiste nel disinvestire l’oggetto perduto delle cariche libidiche che erano state poste su esso per poterle poi reinvestire successivamente su un nuovo oggetto. In questo caso, dunque, il dolore per la perdita subita diventa costruttivo, appartenente a quella pulsione di vita che tenta di rinnovarsi in un ulteriore rapporto. La melanconia invece e` spesso correlata ad una perdita simbolica, appartiene al mondo narcisistico la cui libido, ritirata dall’oggetto, non essendo in grado di ritornare a oggetti nuovi, viene spostata sull’Io mediante il meccanismo dell’identificazione narcisistica. Il problema della melanconia consiste dunque nel fatto che il soggetto e` in grado di riconoscere chi o che cosa ha perduto, ma non e` in grado di riconoscere la qualita` della ` questa che viene sottratta alla coscienperdita. E za. Pertanto se nel lutto e` il mondo esterno a diventare vuoto, nella melanconica e` l’Io del soggetto ad essere tale. Questo quadro puo` comportare una situazione che da Freud viene descritta come «delirio di inferiorita`». Questa si manifesta con una debolezza dell’Io tale da non riuscire piu` a riconoscere quella istintualita` necessaria ad ogni individuo per aggrapparsi in qualche modo

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` evidente come su questo terreno posalla vita. E sano facilmente svilupparsi idee suicidarie. Prima allievo, poi studioso e critico delle teorie freudiane fu C.G. Jung. C.G. Jung sostiene una complessa teoria centrata sull’esistenza di un «inconscio collettivo» quale entita` superiore comprendente tutte le istanze psichiche inconsce di tutti gli individui. Jung afferma che in ciascun individuo vi e` la presenza del sentimento di eternita` dell’energia psichica, togliendo pertanto alla morte il valore di unicita` della fine. In tale ottica, il suicidio viene considerato come un atto proponitivo, come ricerca inconscia di una situazione nuova in coloro i quali hanno esaurito completamente il proprio interesse nei confronti della vita vissuta. ` evidente come questa impostazione si diE scosti profondamente dalla concettualizzazione del maestro. Peraltro la teorizzazione junghiana resta l’unica, nell’ambito dell’ottica psicodinamica, ad intravedere nel suicidio una connotazione positiva. Va sottolineato pero` che questa impostazione non nasce da una visione mistica della vita e dunque dalla proposizione di un mondo ultraterreno, ma dalla postulazione di un inconscio la cui capacita` di ricerca tende a superare le colonne d’Ercole della vita: la nascita e la morte. Va dunque vista come situazione di ‘‘desiderio’’ inconscio e non come bisogno di quell’uomo che non trova risposte alle angosce esistenziali. Tra gli Autori ad orientamento psicodinamico che piu` profondamente si sono interessati al suicidio, certamente sono da menzionare Rado e Bibring. Il primo postula il suicidio come l’estremo tentativo che l’Io propone nella ricerca del perdono del Super-Io in cui e` contenuto un «genitore incorporato». Per Rado, infatti, le persone reagiscono alla perdita oggettuale prima con rabbia e poi con un senso di colpa per questa rabbia, a cui segue, nella depressione, la ricerca della riparazione e del perdono. Il melanconico, pero`, non tenta di riconquistare il perdono dell’oggetto perduto, ma essendosi ritirato narcisisticamente lo cerca nel Super-Io, nei confronti del quale prova la colpa per il sentirsi responsabile della perdita dell’oggetto.

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Bibring invece, pur legando il discorso sul suicidio alla depressione, propone una diversa lettura di tale dinamica. Egli propone questo stato affettivo come conseguenza della perdita dell’autostima. Nel momento in cui l’Io del soggetto non riesce piu`, per la caduta della valutazione del Se´, a dare risposte congrue alle richieste delle proprie aspirazioni narcisistiche che possono essere condensate nel desiderio di essere amato, forte e buono, il soggetto diviene depresso. Il suicidio, in tal senso, e` tanto piu` probabile quanto maggiori sono le richieste narcisistiche da parte di un Io sempre piu` debole. Pur rimandando ai testi specifici per la conoscenza dei modelli interpretativi degli altri indirizzi psicologici, ci sembra pero` utile accennare in questa sede a due modelli radicalmente diversi, quantunque possano avere assonanze con l’impostazione psicodinamica, quale quello bowlbiano e quello sociologico. Bowlby pone in relazione le diverse motivazioni che spingono al suicidio con i molteplici vissuti e dunque le differenti possibilita` di elaborazione del processo del lutto, ovvero di quel complesso sistema che prende origine dalla perdita della figura significativa. Nella teorizzazione bowlbiana, tale processo si sviluppa attraverso tre momenti. Nel primo, dopo lo stupore per l’evento, il soggetto tende a negare il fatto e, nel tentativo di recuperare l’oggetto perduto, si adira per lo sforzo inutile. Successivamente subentrano il riconoscimento della perdita dell’oggetto e la conseguente disperazione che porta ad un comportamento dispersivo. Ne nasce una situazione di vuoto e di depressione. La terza fase e` successivamente caratterizzata dal recupero degli schemi organizzati e quindi dalla possibilita` di trovare nuovi oggetti. Il malfunzionamento di questo meccanismo puo` determinare l’attuazione di possibili idee suicidarie per differenti motivazioni. Il suicidio puo` essere vissuto quale tentativo di ricongiungimento con l’oggetto perduto, ma anche come vendetta contro l’oggetto per quella rabbia e quel dolore che ha causato con la sua scomparsa. Riconosce altresı` tra i significati anche quello di sottrarsi, col gesto suicida, ai profondi sensi di colpa che la morte dell’altro puo` suscitare, ed in ultimo puo` essere vissuto come unica

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scelta in una vita dove sembra non ci sia piu` possibilita` di ulteriori rapporti affettivi. Per quanto riguarda l’ipotesi sociologica, Durkheim e` certamente autore-chiave sia per il valore storico degli scritti, sia per il significato metodologico della teoria. Nel 1897 scrive Le Suicide. Partendo dalla considerazione che il mondo sociale — benche´ costruito da individui il destino dei quali, se isolati, sarebbe solo l’annientamento — ha delle regole proprie, diverse da quelle dell’individuo stesso, egli descrive il suicidio come fenomeno generato dalla trasformazione di tali regole, nascente dal contesto culturale, economico ed ambientale in cui il soggetto vive. A seconda della capacita` che il soggetto ha di inserirsi nel sociale, Durkheim propone tre tipi di suicidio. Se l’individuo non riesce ad inserirsi nel contesto sociale, ed essendo per natura incapace di automantenimento psichico, tendera` a deprimersi, rinchiudendosi sempre di piu` in se stesso fino a raggiungere un tale grado di isolamento da determinare quel livello di angoscia che vede nella morte l’unica ri` questo il suicidio egoistico. Durksoluzione. E heim parla invece di suicidio altruistico quando il soggetto presenta un’integrazione simbiotica col gruppo cosı` da perdere totalmente di personalita`. In tal senso, il gesto viene vissuto dal suicida come un immolarsi per il gruppo. Largo spazio da` in ultimo l’Autore al suicidio anomico. Contrariamente agli altri, questo non nasce dalla difficolta` adattiva del singolo al gruppo, ma dalla perdita (a-nomos) delle regole, del loro valore e significato. L’assenza dunque di precisi parametri sociali di riferimento, cosa che avviene in tutti i momenti di crisi sociale, positivi o negativi che siano (guerre, rivolte, crack economici, come improvvisi sviluppi o significative evoluzioni), porta inevitabilmente all’aumento del fenomeno suicidio. In tal senso si puo` fare un parallelo col freudismo. Infatti nel suicidio anomico l’individuo si toglie la vita ponendo su di se´ quell’odio che prova per gli altri. Resta pero` che mentre per Freud il suicida e` da considerarsi sempre come un malato, per Durkheim non sempre e` cosı`: il suicidio anomico puo` essere commesso da un soggetto sano di per se´, che vive in una situazione sociale eccessivamente disturbata.

4. Considerazioni sulla terapia Parlare di terapia del suicidio potrebbe sembrare un controsenso. Tuttavia, come abbiamo gia` detto, in molte persone che giungono all’atto, la tendenza e` presente gia` molto tempo prima del compimento dell’atto stesso. I compiti del terapeuta sono dunque quelli di prevedere prima e prevenire poi, onde poter curare quell’individuo che consciamente e/o inconsciamente mette in luce una dinamica suicidaria. Gli elementi che permettono di prevedere la possibilita` del fenomeno sono molteplici. Il primo e piu` generale e` la presenza di altri atti suicidi in famiglia. Spesso, un familiare del suicida vive questo evento quasi fosse una predestinazione, una «malattia ereditaria» da cui con elevate probabilita` sara` sempre «contagiato». Anche nelle situazioni di maggior elaborazione il suicidio lascia sempre in coloro che restano un profondo segno psichico, spesso indelebile, che da molti e` sentito come una sorte ineluttabile. Tenere in considerazione questo dato, anche quando a questo sembra non essere dato un particolare valore, significa aprire uno spazio ad una dinamica che e` nascosta comunque sempre nella vita del soggetto. Altro elemento che depone per una prevedibilita` suicidaria e` la presenza, nella storia dei paziente, di precedenti T.S. Come dicevamo il T.S. e` indice di profondo disagio, ma l’aspetto predittivo del T.S. sta nel suo significato psicodinamico. La tendenza che deve far riflettere e` quella che porta il soggetto a risolvere il suo problema-conflitto, annullandolo. Il suicidio e` dunque prevedibile nel soggetto con uno o piu` T.S. poiche´ egli mostra, nell’atto, un atteggiamento negativo verso la possibilita` di una evoluzione. S. era una ragazza di poco piu` di venti anni; sposata, con un figlio di pochi mesi. Stava in psicoterapia da qualche mese e stava riuscendo ad instaurare un buon rapporto col terapeuta, il primo dopo tanti anni di cure inefficaci per le sue angosce e le sue sofferenze. Poche settimane prima del suo compleanno, in seguito ad una discussione con il suocero, si taglio` superficialmente le vene: il gesto, attribuito alla discussione,

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fu considerato come dimostrativo. Probabilmente era un gesto per comunicare la sua angoscia per un suo sentirsi, nel tempo, sempre uguale. La notte del suo compleanno, S., senza far rumore per non svegliare il marito ed il figlio che le dormivano accanto, scese dal letto, scelse la finestra piu` alta della casa e senza un lamento si butto` giu`. Ancora, la depressione ipocondriaca e` fattore indicativo. L’ipocondriaco propone il proprio corpo come la parte di se´ malata. In questa fase vi e` il tentativo estremo di preservare l’io psichico dal riconoscimento dell’essere malato. Nella depressione ipocondriaca, anche l’Io si «ammala» e come tale viene vissuto. Il rischio di suicidio e` a questo punto elevato poiche´ molto profondi divengono i sentimenti di hopelessness e di helplessness. Ulteriore fattore di rischio va rilevato in alcuni pazienti in terapia neurolettica nel momento in cui «migliorano». Talvolta e` possibile osservare come la voce che sente l’allucinato puo` divenire per lui l’unico compagno del proprio vuoto interiore; piu` spesso, il delirio, per quanto rigido e ristretto, e` quello spazio all’interno del quale il soggetto trova una seppur minima possibilita` di ubicazione. Il mettere in crisi tali situazioni, massimamente quando la crisi e` favorita solo da un farmaco, quindi in assenza di validi quanto necessari appoggi, favorisce l’attuazione dell’idea suicidaria, tanto piu` quanto piu` rapidamente avviene questa trasformazione. In ultimo va menzionata la prevedibilita` del fenomeno in coloro i quali, pur ritrovandosi in una posizione limite, non ne parlano. Il rinchiudersi in se stessi fino a coprire le proprie angosce dietro il mutismo si propone come il momento di maggiore gravita` o pericolo. In questa situazione il soggetto sembra perdere qualsiasi tentativo di contatto con la realta` esterna ed il suo non parlare puo` diventare, nei fatti, il preludio all’atto. Il Sig. X era stato ospedalizzato per una forma di depressione grave. All’ingresso si era posta molta attenzione nel privarlo ed allontanarlo da tutti quegli oggetti che potevano essere pericolosi nel caso intendesse togliersi la vita. Durante la degenza la terapia sembrava avere un esito positivo. Il Sig. X sembrava piu` attivo e soprattutto non parlava piu` di suicidio. Dopo piu`

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di un mese, pero`, si uccise cospargendosi di alcool e dandosi fuoco. Fu trovata una bottiglietta dentro la quale, per tutto il tempo della degenza, aveva raccolto l’alcool spremendolo dai batuffoli d’ovatta imbevuti e rubati ad ogni iniezione, ad ogni flebo, ad ogni prelievo. Prevedere significa aprire la strada alla prevenzione. A nostro avviso, questa si puo` esplicitare prevalentemente attraverso tre modalita`. La prima e piu` importante e` quella di affrontare con discrezione il problema, parlandone con il paziente. Diventa questa una complessa comunicazione al paziente, che lo informa circa il proprio interesse verso di lui, circa la propria capacita` di riconoscere in lui anche situazioni piu` profonde senza negarle e/o scantonarle, circa l’eventualita` di un dia-logos e dunque circa una alternativa al proprio isolamento. Successivamente sara` opportuno avvertire i familiari. Quest’atteggiamento va considerato non certo come sistema per deresponsabilizzarsi ne´ come una sorta di «ricatto morale», ma come mezzo per sensibilizzare il contesto entro il quale vive il paziente e coinvolgerlo cosı` da renderlo il piu` attento possibile nei confronti di una situazione a rischio, in modo tale da trasformare il gruppo familiare in attivo e collaborativo. Quando la situazione di rischio diventa grave o perche´ emerge una crisi, o perche´ sempre piu` la dinamica autodistruttiva di fondo tende a manifestarsi, si rende necessario il ricovero. Il tentativo sara` quello di rendere il paziente disponibile verso questa scelta e quindi portarlo ad un ricovero volontario, ma in talune situazioni il ricovero puo` essere coatto. Questo momento, comunque frustrante di per se´, offre in talune circostanze numerosi vantaggi. Infatti, se e` vero che il ricovero puo` agire spesso come una situazione oblativa, determinata da una troppo consueta tendenza al maternage e quindi, di fatto, tale intervento potrebbe favorire i processi rimotivi del paziente, e` altrettanto vero che un soggetto a rischio suicidario e` un soggetto con una situazione psichica altamente disgregata e per tale ragione bisognoso, in questo caso, di un contenimento atto a rinsaldare le difese e rafforzare la struttura dell’Io. Se partiamo da tali premesse, e` possibile pro-

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porre un modello terapeutico, una cura. Riteniamo che questa debba essere indirizzata prevalentemente su due versanti. Da una parte e` necessario lavorare sulla personalita` del paziente, facendo leva sulle dinamiche piu` profonde nel tentativo di attaccare quel nucleo che possiamo definire ad ogni modo psicotico, che nasce dal prevalere della pulsione di morte e si esplicita nella fantasia di sparizione. Dall’altra il lavoro consiste nel farsi pieno carico della follia del paziente, condividendo con lui fino in fondo il peso dell’angoscia per quel suicidio che di fatto e` presente pur mancandone l’atto. Forse solo cosı` quest’atto che, agito, non permetterebbe ulteriori possibilita`, puo` essere evitato. Va ricordato pero` che spesso il rischio di suicidio non e` soltanto il frutto di una crisi passeggera, che una volta superata esaurisce il rischio stesso, ma e` l’epifenomeno di una «personalita` suicidaria», di una «tipologia pulsionale». Prendersi cura di tali pazienti, pertanto, significa investire in quel rapporto una considerevole quota della propria energia psichica e presuppone una solida e valida conoscenza della propria equazione personale, una elevata capacita` di sopportare dolore e frustrazioni ed una congrua disponibilita` per il rapporto. In assenza anche di una sola di tali caratteristiche il lavoro puo` tra-

sformarsi in un grave fallimento, sia per il paziente, sia per il medico.

Riferimenti bibliografici Bibring E., «The Mechanism of Depression», in Affective Disorders, International University Press, New York 1953. Bowlby J., Attaccamento e Perdita, Boringhieri, Torino 1976. Durkheim E., Le Suicide, Paris 1987. Freud S., Trauer und Melancholie, 1915 (tr. it. Lutto e melanconia, Opere complete, Boringhieri, Torino 1980). Gaylin W., Il significato della disperazione, Astrolabio, Roma 1973. Jung C.G., Gli Archetipi e l’Inconscio Collettivo, (1934-1954) in Opere, Boringhieri, Torino 1970. Klein M., Contribution to Psycho-Analysis (19211954), Hogarth, London 1948. Lalli N., Le Psiconevrosi: fenomenologia e psicodinamica, Euroma, La Goliardica, Roma 1988. Rado S., «The Problem of Melancholia», International Journal of Psycho-Analysis, 420, 1928. Reda G.C., Trattato di Psichiatria, USES, Firenze 1982.

Parte quarta Le terapie

48 Elementi di igiene mentale Luigi Frighi Parole chiave benessere; norma; conformismo; prevenzione primaria; prevenzione secondaria; prevenzione terziaria; nuova cronicita`; emigrazione; ecologia urbana; disastri; qualita` della vita

L’igiene mentale e` una branca molto importante della psichiatria che, tra le altre cose, si preoccupa di elaborare, tramite studi specifici sulla popolazione a rischio, strategie finalizzate soprattutto alla prevenzione primaria. Intendiamo per prevenzione primaria tutte quelle pratiche dirette ad eliminare i fattori che possono provocare o favorire l’insorgenza di disturbi psichici: e` in questo campo che l’igiene mentale esplica l’azione piu` specifica e positiva, mentre e` la psichiatria ad intervenire sia nella cosiddetta prevenzione secondaria, che consiste nell’intervenire il piu` precocemente possibile al fine di ridurre la durata e l’intensita` del disturbo psicopatologico, sia nella prevenzione terziaria, che si limita a ridurre gli effetti dell’handicap e quindi si identifica con il concetto di riabilitazione. Gli attuali Dipartimenti di Salute Mentale (D.S.M.), che svolgono un’attivita` clinica ambulatoriale (operando, quindi, una prevenzione secondaria), erano nati invece proprio come Centri di Igiene Mentale, (C.I.M.) cioe` volti alla preven-

zione primaria, con l’intento di fornire informazioni di igiene mentale per migliorare la qualita` della vita e favorire lo sviluppo delle capacita` personali. Pertanto l’igiene mentale dovrebbe occupare una parte rilevante nella politica sanitaria perche´, in termini di costi economici e di costi personali, prevenire rimane molto piu` efficace che curare. Ma l’igiene mentale si occupa anche di un fenomeno sempre piu` importante e che tende a cambiare la struttura socioculturale della nostra societa`: l’immigrazione. Lo studio delle particolari condizioni culturali e delle specificita` di molte forme patologiche presentate dagli immigrati comporta anche, nell’ambito della cura, la capacita` di sapere adattare il proprio operato a tali particolarita`: in questo senso l’igiene mentale ha notevoli affinita` con la Psichiatria Transculturale (vedi cap. 4). * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Concetti generali Come l’igiene generale tende alla promozione della salute fisica, cosı` l’igiene mentale ha per fine la promozione della salute psichica. Tuttavia questo enunciato, dall’apparenza concettuale molto semplice e comprensibile, mostra la sua debolezza quando si voglia definire cio` che si intende per salute psichica. Per quest’ultima, infatti, non si puo` ricorrere, sic et simpliciter, ad una generica assenza di malattia, bensı` a qualcosa di piu` vasto e profondo che potremmo chiamare benessere psicologico, tenendo presente che in esso vanno inclusi sia la gioia di vivere e la spinta al soddisfacimento del piacere, sia l’interesse per la creativita` o, per lo meno, alla realizzazione delle proprie potenzialita`. Resta inoltre il quesito se il benessere psicologico debba valutarsi in senso subiettivo, oppure come dato obiettivo. Se il riferimento al piano subiettivo puo` apparire, psicologicamente parlando, una limitazione, dal momento che non sempre si e` soggettivamente consapevoli della razionalita` e liceita` di certi comportamenti o condotte, altrettanto puo` dirsi di quello obiettivo che deve necessariamente ancorarsi a concetti di norma labili e mutevoli.

1.1. Criteri di norma in tema di salute psichica Di solito, nel nostro campo, si puo` fare riferimento a criteri derivati da norme di valore (come ci si immagina che l’individuo psichicamente sano dovrebbe essere), da norme reali (come ci si rappresenta la media delle persone sane mentalmente) e, infine, da norme empirico-statistiche. Per quel che riguarda la norma di valore, si deve sottolineare che detto criterio non puo` essere che apodittico e ampiamente legato alle gerarchie personali di valore dell’esaminatore. Inoltre, considerata dal punto di vista collettivo, detta norma appare soggetta a profonde modifiche a seconda delle condizioni culturali, del momento storico e delle strutture sociali.

Come esempi cogenti si puo` pensare all’estrema variabilita` del concetto di norma nell’ambito del comportamento sessuale, sensu lato, o al fatto specifico dell’omosessualita` che, nel 1975, e` stata deliberatamente tolta dalla lista ufficiale dei disturbi psichici (elencati nel manuale statistico diagnostico DSM-III) dove figurava tra le deviazioni sessuali, nel gruppo delle nevrosi o in quello dei disturbi della personalita`. Comunque la si consideri, la norma di valore presuppone sempre una formulazione assiomatica, indimostrabile sul piano scientifico. Se si esamina il concetto di norma reale, relativo all’adempimento, piu` o meno ottimale, da parte dell’uomo, delle funzioni a lui proprie nel campo della famiglia, del lavoro, della vita relazionale ecc., ci si accorge che, in questo caso, si corre il rischio di collegare il concetto di norma all’adattamento speculare dell’uomo con la societa` in cui si trova a vivere. In questo caso, il conformismo socioculturale potrebbe venire assunto come attributo normativo della sanita` mentale. La scarsa validita` della norma empiricostatistica dipende, in parte, dalle critiche intrinseche allo stesso metodo (opinabilita` sulla scelta del campione, impossibilita` di definire il punto della curva di frequenza in cui il normale trapassa nell’anormale), ma soprattutto nella difficolta` di valutare in termini statistici cio` che e` espressione delle infinite possibilita` di scelta dell’essere umano. A complicare ulteriormente le cose concorre il concetto di relativismo culturale che, giustamente, si rifa` alla diversa formulazione di norme in funzione degli ambiti culturali nei quali trovano espressione. Dopo queste considerazioni abbastanza negative sull’efficacia di un ricorso a criteri di norma al fine di valutare la salute psichica di un individuo, si puo` proporre il parametro della sofferenza umana come discriminante sicura, seppur essa legata a sensazioni subiettive e a mutevoli riscontri collettivi. Il problema di cui si deve tener conto in questo caso e` quello relativo alla possibilita` reale di misurare la sofferenza psichica. In altre parole, e` giusto, dal punto di vista

Elementi di igiene mentale

dell’igiene mentale, occuparci del malessere psicologico in genere, oppure soltanto dei disturbi psichici pertinenti a specifiche malattie mentali? Anche limitando l’interesse teorico ed operativo a queste ultime, la situazione appare tutt’altro che chiara, dal momento che occorre far uso di modelli nosologici che possono essere di tipo categoriale, discreto, oppure di tipo dimensionale, continuo. Nel primo caso si presuppone che ciascuna malattia psichica costituisca un’entita` discreta, a se´ stante, distinta nettamente dalle altre. Si tratta di un modello nosologico che si rifa` a quello per categorie di Sydenham e di Linneo. Nel secondo caso si preferisce pensare ad un continuum dei disturbi psichici, disposti secondo uno spettro che misura piu` la gravita` del disturbo che non la sua specificita`. Come si vede, la posta in gioco e` tutt’altro che definita con chiarezza e la relativa confusione deriva dal fatto, semplice e complesso ad un tempo, che la sofferenza psichica non puo` esaurirsi in un ambito meramente bio-medico (categoriale, discreto) o medico-statistico (continuo, dimensionale). A mo’ di esemplificazione, si puo` far ricorso alla differenziazione terminologica in uso nella letteratura medica anglosassone, nella quale si distingue il significato di tre parole ugualmente traducibili come malattia. Il termine disease, che potremmo definire come morbo, esprime una prospettiva esclusivamente biomedica, mentre illness, che potremmo chiamare malattia, riguarda l’esperienza soggettiva di essa, accompagnata dalle reazioni interpersonali e socioculturali ad essa pertinenti. L’ultimo termine chiamato in causa e` quello di sickness, che sottolinea la dimensione sociale, la percezione da parte degli altri dello stato di non salute del soggetto, da cui deriva la tolleranza o l’esclusione culturale di determinate condotte o aggregati di sintomi diversi. Partendo quindi dal presupposto che l’uomo non e` soltanto un essere biologico, ma un individuo biopsicosociale, si puo` postulare il concetto che l’igiene mentale si occupa della promozione della salute psichica attraverso la focalizzazione dell’interesse scientifico e operativo sui rapporti

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tra individuo e ambiente, la` dove la sofferenza psichica e l’angoscia indicano le linee di frattura e di emarginazione del rapporto.

1.2. Cenni storici e scientifici Appare ora opportuno distinguere l’igiene mentale come movimento di opinione, con una sua storia particolare e come disciplina di studio con i suoi addentellati scientifici. A questo proposito, e` interessante rilevare che il termine igiene mentale fu coniato, agli inizi del secolo, da A. Meyer, psichiatra svizzero emigrato negli Stati Uniti dove assunse la direzione di uno dei piu` prestigiosi istituti psichiatrici del Paese: il John Hopkins di Baltimore, nel Maryland. Con questo termine egli volle identificare un movimento di opinione a favore del miglioramento delle condizioni di ricovero e di trattamento dei pazienti psichiatrici di cui era stato promotore un certo Clifford Beers. Quest’ultimo, affetto da ciclotimia, aveva iniziato, all’eta` di 24 anni, un itinerario psichiatrico in varie istituzioni che, per le condizioni di assistenza offerte ai degenti, contribuirono a rinsaldarlo nel proposito di dedicarsi interamente ad una riforma dei servizi psichiatrici del suo Paese. Penso`, quindi, di scrivere un resoconto delle sue esperienze ospedaliere e delle sue idee di riforma. Il risultato che ne conseguı` fu la pubblicazione, nel 1908, del libro: A mind that found itself. An Autobiography (La mente che ritrovo` se stessa. Un’autobiografia) che divenne un best seller con numerose ristampe. Il contenuto del libro riscosse l’interesse e l’adesione entusiasta di notevoli personalita` del mondo accademico, politico e religioso del Nord America, tra i quali, oltre al gia` citato A. Meyer, va menzionato il famoso filosofo e psicologo William James, fratello dello scrittore Henry. Venne istituito un Comitato Nazionale per l’igiene mentale i cui scopi consistevano nell’aumento del livello di professionalita` nel campo psichiatrico, nel miglioramento della qualita` della terapia e della cura dei malati mentali e nella

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diffusione dei princı`pi dell’igiene mentale nell’opinione pubblica. Il Comitato ottenne un notevole successo e le idee riformatrici del movimento si estesero, via via, ad altri Paesi, sia in America che in Europa. Anche in Italia venne costituita a Bologna, nel 1924, una Lega Italiana di Igiene e Profilassi mentale ad opera di un gruppo di psichiatri particolarmente sensibili alla necessita` di riformare l’assistenza ai malati mentali. Tra questi ricordiamo: G. C. Ferrari, E. Medea, Sante De Sanctis e C. Tumiati cui si deve la seguente frase, di per se´ rivelatrice: «Quanto non seppero e non poterono fare gli alienisti europei, lo pote´ fare un alienato americano». Il primo congresso internazionale sull’igiene mentale venne celebrato a Washington nel 1930 e ad esso parteciparono circa tremila delegati in rappresentanza di 41 Paesi. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, Clifford Beers, figura carismatica ed esempio vivente di riabilitazione psichica, ebbe un’enorme influenza sulle sorti dell’igiene mentale a livello mondiale. Le vicende della lunga guerra segnarono una pausa d’arresto in questo campo, ma, nel 1948, a Londra, venne fondata la World Federation of Mental Health, erede del movimento d’igiene mentale e, come tale, considerata organo non governativo aperto a tutte le associazioni scientifiche, professionali e laiche interessate ai problemi dell’igiene mentale. La Lega Italiana, costituitasi nel lontano 1924 come associazione multiprofessionale, aperta non solo agli addetti ai servizi di stretta pertinenza psichiatrica, bensı` anche agli altri insegnanti, agli operatori dell’assistenza in genere, agli amministratori della cosa pubblica e a quant’altri fossero interessati alla promozione della salute psichica degli individui, fa tuttora parte della Federazione Mondiale per la Salute Mentale, sopra menzionata. Dopo aver delineato, a grandi linee, la storia dell’igiene mentale come movimento d’opinione, si puo` riflettere sull’igiene mentale come disciplina di studio e forum interdisciplinare e multiprofessionale nel quale discutere problemi di interesse comune e di rilevanza sociale.

In questo caso, si potrebbe considerare l’area specifica di indagine come un territorio di frontiera, poiche´ essa si incunea in campi di ricerca comuni ad altre discipline scientifiche e, nello stesso tempo, subisce incursioni da parte di studiosi con competenze diverse. Infatti l’igiene mentale, al pari della psichiatria, si occupa dei disturbi psichici, ma li osserva, li studia e li misura nell’ottica privilegiata della prevenzione e dei gruppi a rischio, programmando i possibili interventi mediante l’apporto di altre discipline scientifiche, quali, ad esempio, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la statistica e l’economia. Il percorso dell’igiene mentale procede, per definizione, o meglio, per sua stessa natura, in senso innovativo, simile ad un itinerario in continuo sviluppo, aperto a nuove frontiere.

2. Prevenzioni e gruppi a rischio Si puo` affermare che l’orientamento attuale della medicina sia rivolto, almeno per quanto risulta dagli interventi dichiarati, alla soluzione dei problemi della prevenzione. Compito piuttosto arduo, perche´ in questo campo e` piuttosto facile perdere di vista il rapporto con la realta`, sia nei termini di concrete possibilita` d’intervento che delle risorse disponibili. La prevenzione va distinta, anche nell’ambito psichiatrico, in primaria, secondaria e terziaria, pur tenendo presente l’impossibilita`, sul piano pratico, di considerare separati e non articolati i vari momenti.

2.1. Prevenzione primaria La prevenzione primaria e` diretta all’eliminazione dei fattori che si presume possano provocare o favorire l’insorgenza dei disturbi psichici. Si tratta di un’operazione tutt’altro che facile, prima di tutto perche´ detti fattori, sulla cui importanza non v’e` unanime consenso, sono molteplici, non facilmente isolabili dal contesto e, soprattutto, non sempre passibili di modificazioni.

Elementi di igiene mentale

A illustrazione di questo punto, si puo` riflettere sul fatto che detti fattori, per lo meno quelli riconosciuti come tali, si trovano operanti nel contesto delle cosiddette istituzioni primarie: famiglia, scuola, lavoro, ambiti nei quali la prevenzione primaria dovrebbe maggiormente esplicarsi. ` chiaro che, al fine di provocare qualche E modifica a livello di siffatte istituzioni, e` necessario il concorso non solo di psicoigienisti che potrebbero, al limite, trovarsi relegati nel ruolo di profeti clamanti nel deserto, bensı` di altri operatori: genitori, insegnanti, datori di lavoro, sindacalisti e, non ultimi, gli amministratori della cosa pubblica cui compete, in modo precipuo, la programmazione di interventi per il benessere psicofisico dei cittadini. Se poi si considera che le risposte disponibili per i programmi di prevenzione sono di solito molto limitate, risulta ancor piu` evidente lo scarto tra le intenzioni positive e la realta` operativa. Si puo`, infatti, dare per scontato che se per prevenzione primaria si intende qualcosa che, eliminando a monte le cause di malattia, possa portare ad una loro totale scomparsa, nel senso di eliminare il male ancor prima che si manifesti, si cade decisamente nell’utopia, nell’aspirazione a un desiderio impossibile. Per questo si puo` tranquillamente affermare che l’attuazione globale della prevenzione primaria non e` riuscita in alcun paese. Tuttavia, pur tenendo in debito conto il forte richiamo alla realta` del possibile, sarebbe estremamente ingiusto e disdicevole, sul piano umano, abbandonare la spinta verso questo ideale, tanto piu` che esso coincide con l’educazione a operare in senso critico e creativo.

2.2. Prevenzione secondaria Essa va intesa come quell’insieme di misure e interventi che servono a ridurre la prevalenza dei casi psichiatrici, mediante la diminuzione della durata media dei disturbi psichici che si puo` ottenere con una diagnosi precoce, un trattamento efficace e l’identificazione di soggetti a rischio. La riduzione della prevalenza, misura epidemiologica nella quale vanno inclusi tutti i casi di

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malattia riscontrati (i casi nuovi e quelli gia` in trattamento) in una determinata popolazione, puo`, infatti, ottenersi attraverso il concorso a forbice di due interventi: l’uno teso a diminuire l’insorgenza dei casi nuovi, mediante una modifica dei fattori che ne determinano o ne facilitano la comparsa, l’altro volto ad abbreviare il decorso clinico dei disturbi, a mezzo di un trattamento il piu` efficace possibile. Il primo genere di intervento rientra nel campo della prevenzione primaria, mentre il secondo dovra` svolgersi in un secondo tempo e risultera` tanto piu` efficiente quanto maggiormente precoce ed esteso numericamente. La possibilita` di formulare una diagnosi precoce presuppone un continuo affinamento dei procedimenti diagnostici e un riferimento precoce, attraverso l’identificazione di sintomi iniziali sia da parte del paziente stesso che di chi gli sta vicino (familiari, amici ecc.) sia, soprattutto, da parte del medico di base. Per quanto riguarda l’affinamento degli strumenti diagnostici, si tratta di un’operazione che va riportata, in prima istanza, alla capacita` formativa delle scuole di specializzazione in psichiatria. Il riferimento precoce dei pazienti presuppone, a sua volta, una vasta opera di educazione sanitaria e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul piano del riconoscimento di sintomi funzionali o di turbe del comportamento e su quello dell’eliminazione dello stigma legato ai disturbi psichici. In questa fase della prevenzione secondaria il medico di base e` chiamato direttamente in causa attraverso la sua provata capacita` di sceverare l’organico dal funzionale, la lamentazione ipocondriaca dalla vera sofferenza somatica, il cattivo umore dall’incipiente stato depressivo. Tutto questo presuppone un’adeguata qualificazione professionale durante il corso di studi in medicina che dovrebbe essere sempre piu` mirato al medico di base, in modo da fornirgli gli strumenti del sapere adatti all’opera di prevenzione cui e` chiamato. Una delle funzioni che egli puo` svolgere in questo ambito e` costituita dal riferimento precoce del paziente psichiatrico ai presidi sanitari in

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grado di curarlo adeguatamente e tempestivamente. Ugualmente dicasi delle richieste di consultazione psichiatrica (psichiatria di liaison) in ambiente ospedaliero per le quali l’urgenza trova giustificazione nella possibilita` di instaurare provvedimenti terapeutici a breve termine. L’efficacia del trattamento, altro cardine della prevenzione secondaria, viene misurata, in termini reali, attraverso il numero dei pazienti che riesce ad aiutare in modo soddisfacente, mentre le opinioni sui vari metodi di trattamento sono sovente frutto di pregiudizi, di assunti ideologici, di mode del momento. Appare quindi indubbio che nei centri preposti alla prevenzione secondaria occorre avere a disposizione, se si vuole essere veramente in grado di aiutare molti pazienti di diverso tipo, una gamma sufficientemente ampia di trattamenti sia farmacologici che psicoterapici. L’ultimo (non certo per importanza) strumento su cui poggia la prevenzione secondaria e` rappresentato dal reperimento della popolazione a rischio psicopatologico. Si tratta, in concreto, di giungere all’identificazione di gruppi di individui a rischio per il fatto che, per varie ragioni connesse con determinate fasce d’eta` (infanzia, adolescenza, vecchiaia), con condizioni sociali specifiche (soggetti economicamente svantaggiati, barboni ecc.), con problemi relativi alla cultura dominante (minoranze etniche, religiose ecc.), essi sono esposti, piu` degli altri, all’effetto devastante di agenti stressanti verso i quali sono maggiormente indifesi. Si e`, infatti, constatato che, per certe categorie di individui, e` presente una vulnerabilita` particolare in funzione di fattori di rischio connessi alle condizioni di vita presenti in quel momento. Senza voler entrare in un’area maggiormente pertinente alla psichiatria clinica, appare opportuno accennare a due settori di notevole sviluppo, collegati entrambi alla prevenzione secondaria: le crisi emozionali (con relativa psichiatria d’urgenza) e la psichiatria di consultazione e di collegamento. Le osservazioni epidemiologiche, infatti, inducono a ritenere che luoghi privilegiati per la prevenzione psichiatrica, soprattutto secondaria,

siano gli ambulatori e i reparti di medicina generale e specialistica, sia per i disturbi psicopatologici preesistenti al ricovero o alla consultazione sia per quelli che possono insorgere in seguito alle vicende di una malattia somatica e alle terapie ricevute. Si potrebbe attribuire il termine “consultazione” al lavoro clinico svolto direttamente con i pazienti e le loro famiglie, mentre il “collegamento” potrebbe riferirsi alle attivita` di insegnamento e formative dirette ai medici del reparto o dell’ambulatorio sugli aspetti psicosociali del loro lavoro e sulla complessita` del rapporto medicopaziente.

2.3. Prevenzione terziaria Ha lo scopo di ridurre il grado di sofferenza, invalidita` e incapacita` sociale dovute ai disturbi mentali cronici e di promuovere il riconoscimento, lo sviluppo e l’utilizzazione delle capacita` funzionali residue. Caplan distingue la riabilitazione in senso stretto, intesa come intervento sul singolo individuo, dalla prevenzione terziaria considerata come complesso di interventi e progetti medico-sociali che investono intere comunita` e sono rivolti ai pazienti psichiatrici cronici come categoria complessiva. Fa parte della prevenzione delle riacutizzazioni e delle ricadute, concetti clinici non sempre facili da distinguere nella pratica, la cui frequenza, gravita` e durata finiscono per essere correlate con il grado di incapacita` e di emarginazione sociale dell’individuo. I pazienti vengono, di solito, considerati cronici in base a tre parametri: severita` della diagnosi, lungo decorso della malattia, grave invalidita` funzionale e sociale. Quest’ultima puo` essere valutata in base alle inabilita` in alcune aree del comportamento, tra le quali si possono citare: la cura di se´ e l’igiene personale, l’espressione del linguaggio e l’interesse a comunicare, la capacita` di condurre una vita autonoma, la ricchezza delle relazioni interpersonali ecc. In altri tempi la maggior parte di questi pa-

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zienti era candidata a lunghe e, in molti casi, permanenti ospedalizzazioni psichiatriche e la cronicita` veniva misurata proprio dal numero dei ricoveri e dal complessivo trascorso in ospedale. Negli anni ottanta e` comparsa una figura nuova: il paziente cronico adulto giovane, vissuto nell’epoca della de-istituzionalizzazione psichiatrica. Questo sottogruppo, cui e` stato dato il nome di nuova cronicita`, comprende non soltanto psicotici, ma anche personalita` borderline, tossicodipendenti, alcolisti, individui senza fissa dimora, emarginati sociali. Caratteristica comune ai nuovi pazienti psichici cronici e` quella di non essere mai stati istituzionalizzati o di avere avuto soltanto brevi ricoveri in fase acuta. L’onere principale della cura di questi pazienti ricade, spesso, sulle loro famiglie, anche per il fatto che tra loro e` molto frequente il rifiuto verso trattamenti sistematici di lunga durata o di appoggio presso centri e servizi di salute mentale ed e` anche comune una scarsa “compliance” ai farmaci (si e` parlato di “obiettori della terapia farmacologica”). Un destino frequente e` rappresentato dal progressivo degrado esistenziale, dall’isolamento e dalla emarginazione sociale. I suicidi, l’abuso di droghe e alcol, i comportamenti dissociali e violenti sono piu` frequenti nel gruppo dei “nuovi cronici” che nei vecchi. Un paziente mentale cronico ha bisogno di una rete di interventi di varia natura: medicopsichiatrici, riabilitativo-educativi e di assistenza ` difficile formulare principi generali, dal sociale. E momento che gli interventi dovrebbero essere personalizzati al massimo, attraverso una valutazione iniziale e successivi controlli a intervalli frequenti. ` bene ricordare che l’handicap psichico e` E sempre qualcosa che coinvolge l’individuo e la comunita`. Un ultimo argomento e` quello che si riferisce alla prevenzione dei disturbi psichici dei medici, in particolare quelli legati allo stress da lavoro. ` noto che tra i medici la frequenza dei suiE cidi e` piu` elevata che in altre categorie professio-

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nali ed e` pure noto che complesse motivazioni inconsce sottendono la scelta della professione medica. Come sempre, e` importante per una soddisfacente realizzazione di se´ che tali fattori funzionino come molle e non agiscano come trappole nel percorso dell’esistenza. Un certo grado di consapevolezza della propria “equazione personale” e del senso psicologico della scelta di lavoro compiuta e dello stile di lavoro seguito puo` essere d’aiuto sia per l’equilibrio personale che per la qualita` del rapporto con i pazienti. Uno dei rischi psicologici ai quali sono esposti i medici, soprattutto quando lavorano in reparti e servizi particolarmente pesanti per il carico dei malati o per la gravita` della loro diagnosi, oppure, al contrario, quando essi operano in situazioni monotone e poco gratificanti, e` la comparsa della cosiddetta sindrome del burn out, caratterizzata dalla progressiva perdita d’interesse nel proprio lavoro, tendenza all’assenteismo, irritabilita`, insofferenza, chiusura ai rapporti relazionali, depressione ecc. Una trama di attivita` indirizzate alla formazione permanente, con aspetti sia di sostegno emotivo che di stimolo intellettuale (incentivazione delle ricerche, ad es.), puo` rappresentare un utile strumento di prevenzione di questa forma di usura personale e professionale.

3. Problemi emergenti d’igiene mentale nel contesto socio-culturale attuale Dalla storia del movimento d’igiene mentale, dall’insieme delle caratteristiche che ne costituiscono una specifica disciplina di studio, dal precipuo attributo di preventivo che ne caratterizza l’essenza programmatica e operativa, si puo` ricavare una ridefinizione dell’igiene mentale come indagine, ricerca e studio propositivo dei problemi dell’uomo in crisi con il suo ambiente sociale e culturale. Naturalmente questo comporta una dilatazione sempre piu` ampia degli ambiti di interesse della materia, per cui, nell’impossibilita` di occuparsi di tutto, appare necessario operare una scelta degli argomenti da trattare, usando come

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parametro di selezione quello basato sull’attualita` delle relative problematiche. Queste ultime potrebbero essere indicate come relative a: • • • • •

soggetti con disabilita` psichica e connessa nuova cronicita`; soggetti senza fissa dimora; emigrazione; patologie ambientali (degrado urbano, disastri); qualita` della vita ed etica della salute.

vittime se non si cerca di sostituire il pessimismo prognostico incombente e la routine demotivante con un affinamento continuo delle metodologie poste in atto attraverso un loro confronto e verifica con quelle usate da altre e´quipes di assistenza. Va, inoltre, tenuto presente che i programmi riabilitativi, per quanto buoni, non possono essere mai generalizzati, mentre, il piu` delle volte, il trattamento del paziente deve essere personalizzato sui suoi effettivi bisogni e possibilita` di recupero.

3.1. Nuova cronicita`

3.2. Soggetti senza fissa dimora

Nel paragrafo dedicato alla prevenzione terziaria si e` brevemente discusso del problema legato alla riabilitazione dei disabili psichici e si e` anche accennato alla cosiddetta “nuova cronicita`” costituita da pazienti giovani adulti cronici, cresciuti nell’epoca della de-istituzionalizzazione. Restano da prendere in considerazione i programmi riabilitativi e i mezzi necessari per tradurli in realta` operativa. Lo spostamento dell’assistenza psichiatrica dall’ospedale al territorio e alla comunita` implica la costruzione e la messa in atto di una serie di “alternative” all’ospedale vecchia maniera, che possono essere: centri psico-sociali, sedi delle attivita` ambulatoriali e del coordinamento dell’attivita` domiciliare; centri residenziali di terapia psichiatrica, preposti al completamento del ciclo terapeutico e propedeutici al reinserimento dei pazienti nel loro contesto familiare e sociale; comunita` protette, costituite da comunita` alloggio, case-famiglia, laboratori di attivita` pratica, che permettano una discreta autonomia dei pazienti e una loro occupazione durante la giornata. Naturalmente, la lista delle alternative e` destinata ad allungarsi in funzione sia di una sempre migliore conoscenza e comprensione dei bisogni del paziente psichiatrico cronico, sia della fantasia creativa degli psichiatri. A questo proposito non va dimenticato che il paziente cronico puo` essere fonte di notevoli frustrazioni per chi lo ha in cura e che il burn out professionale che ne deriva puo` mietere diverse

` facile rendersi conto dell’ingravescenza del E fenomeno osservando, lungo le strade o in luoghi di aggregazione particolari (stazioni ferroviarie ecc.) delle nostre citta`, soprattutto delle metropoli, soggetti accovacciati per terra, coperti da stracci o da cartoni, del tutto indifferenti a cio` che li circonda, sordi e talvolta ostili verso chiunque si avvicini, pur con le intenzioni piu` benevole. Il loro numero e` in continuo aumento e soltanto a Roma essi assommano a due-tremila. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna le cifre complessive raggiungono i due-tre milioni di soggetti che la letteratura anglosassone denomina homeless (senza casa). Una volta da noi erano chiamati “barboni”, e in Francia “clochards”. Su di loro si sono impiantate una letteratura d’ambiente e una produzione cinematografica ad hoc. Tuttavia, i barboni di vecchio stampo hanno poche somiglianze con quelli di oggi, anche se la definizione di persone socialmente disadattate che vivono senza lavoro e senza domicilio puo` andar bene per entrambi. I barboni “classici” erano in media piu` anziani, con eta` superiore ai 40 anni, erano in maggioranza maschi (M/F=2/1), avevano uno stile di vita rigidamente cristallizzato e, inoltre, avevano quasi sempre operato una scelta volontaria di vita. Una loro caratteristica, condivisa in parte anche dai soggetti senza fissa dimora attuali, era di

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essere afflitti da quella che, con espressione felice, e` stata denominata “anoressia istituzionale” che descrive molto bene la difficolta` sostanziale che presentano molti di questi soggetti ad usufruire di strutture di assistenza pubblica, pur essendone estremamente bisognosi, allo stesso modo che l’anoressica rifiuta il cibo di cui e`, nel profondo, famelica. I “nuovi barboni” hanno un’eta` compresa tra i 25 e i 35 anni, sono soprattutto maschi (M/F=4/1), conducono uno stile di vita maggiormente plastico e chiedono aiuto piu` facilmente. Il termine barbone e` ora desueto ed il fenomeno si riferisce piu` propriamente agli homeless, soggetti senza fissa dimora. Una loro definizione come di “qualsiasi persona singola senza casa propria” risulto` ben presto inadeguata, dal momento che sulla strada comparvero anche intere famiglie (specie donne con bambini) e non era stata posta nel giusto rilievo l’emarginazione sociale in cui detti soggetti versavano. Una seconda definizione della Mental Health Administration inglese stabiliva come soggetto senza fissa dimora chiunque mancasse di rifugio adeguato, di risorse e di legami comunitari. Sono state proposte diverse classificazioni degli homeless: temporale, geografica e tipologica. La prima distingue i senza fissa dimora in cronici (in prevalenza soggetti con disturbi mentali), episodici (giovani “difficili” da trattare, che alternano periodi di vita a domicilio ad altri sulla strada), transitori (sfrattati e vittime di una crisi situazionale acuta). La classificazione geografica comprende persone che dormono per strada, altre che frequentano gli ostelli e i dormitori pubblici, altre ancora alloggiate in piccoli alberghi e pensioni (spesso famiglie in collocazione che da temporanea finisce per prolungarsi indefinitamente) ecc. La classificazione tipologica riconosce tra i soggetti senza fissa dimora: gli street people (persone che vivono stabilmente per strada); i senzacasa cronici; i soggetti con disturbi psichici cronici; gli alcolisti cronici; le persone in crisi situazionali acute (gli sfrattati, le vittime di disastri); le famiglie senza casa (nel 70% dei casi facenti capo a una figura femminile); i giovani senza casa e

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senza legami relazionali; le donne senza casa (con o senza figli). A parte i senza fissa dimora intenzionali, cioe` per scelta volontaria, la cui percentuale sarebbe del 4% sul totale, per gli altri e` necessario tener conto dei diversi fattori che possono facilitare la deriva verso questa condizione di vita. Dagli USA e dalla Gran Bretagna, paesi nei quali il fenomeno e` stato maggiormente studiato, provengono le seguenti percentuali collegate ai vari fattori che favoriscono il fenomeno degli homeless. I fattori economici (poverta`, disoccupazione, penuria di alloggi, sfratti) inciderebbero per il 13% e, in questo settore, le minoranze etniche sarebbero le piu` colpite. I fattori relativi alla salute psichica e fisica risulterebbero determinanti nel 25-30% dei casi. I soggetti con disturbi psichici sono, per lo piu`, psicotici cronici (vedi paragrafo precedente sulla “nuova cronicita`”) e soggetti con gravi disturbi della personalita`. In questo ambito si possono distinguere tre sottogruppi di cui il primo comprende i soggetti con disturbi mentali che presentano una storia di ricovero in ospedale psichiatrico per malattie mentali gravi e che diventano senza fissa dimora qualche tempo (circa trenta mesi) dopo la dimissione. Poiche´ le cifre ufficiali degli homeless, sempre relative agli USA e Gran Bretagna, sono raddoppiate nel periodo 1979-88 coincidente con una politica di rapida e massima dimissione dagli ospedali psichiatrici, si e` discusso a lungo sull’importanza del fattore de-istituzionalizzazione sulla crescita del fenomeno, giungendo alla conclusione che si tratti di qualcosa di additivo, piuttosto che di direttamente causativo. Il secondo sottogruppo riunisce adulti giovani che non hanno mai ricevuto trattamenti psichiatrici e la cui sofferenza psichica (sia essa espressione di un disturbo di personalita`, di un deficit organico o di una psicosi) puo` aver contribuito alla deriva sociale. Il terzo sottogruppo, infine, raccoglie quei soggetti i cui problemi di salute mentale sono piuttosto una conseguenza dell’essere homeless oppure hanno interagito nell’aumentare il possi-

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bile sviluppo di problemi di ordine psicosociale a loro volta diretti responsabili del fenomeno. Da ultimo, dopo i fattori economici e quelli relativi alla salute psichica, vengono menzionati i problemi sociali riferiti per il 42% al rifiuto di genitori, parenti e amici di alloggiare in modo permanente individui che diventano, in questo modo, candidati a non fruire di fissa dimora, e per il 40% a tensioni matrimoniali. Gli aspetti generali del fenomeno sono rappresentati dall’entita` dei bisogni primari che rimangono insoddisfatti (alloggio, vitto assicurato, cure sanitarie), dall’isolamento sociale ed affettivo e dalla progressiva tendenza al deterioramento psichico e fisico. Le categorie principali a rischio di questa particolare deriva sociale sono costituite da persone che hanno trascorso molti anni in istituzioni totali (ospedali psichiatrici, carceri, istituti per minori), da malati psichici cronici, da tossicodipendenti e alcolisti, da disoccupati e sfrattati e, infine, da immigrati emarginati. Sempre stando alle valutazioni riportate dalla letteratura anglosassone, si rileva che i soggetti senza fissa dimora presentano una comorbilita` psichiatrica e tossicofilica (droghe e alcol) molto elevata e un tasso di malattie fisiche (tubercolosi, malattie dermatologiche, ulcere peptiche) di proporzione superiore a quella dei residenti a domicilio. Le storie di vita di questi soggetti riferiscono che la maggior parte di loro ha avuto occupazioni saltuarie, una resa lavorativa discontinua, con bassa tenuta (il 30% per meno di due anni) e poca specializzazione. Gli aspetti preventivi di questo fenomeno si intrecciano con quelli relativi ai vari fattori contributivi dei quali si e` fatta menzione e, naturalmente, la priorita` degli interventi vertera` sulla soddisfazione dei bisogni primari (alloggio, cibo, vestiario, igiene personale) per cui, data la carenza istituzionale pubblica a provvedere in modo adeguato e globale ad essi, il vero problema consistera` nel prevenire che i soggetti senza fissa dimora transitori finiscano per stabilizzarsi nella cronicita`. Attualmente, tre linee di tendenza caratterizzano l’evoluzione del fenomeno:

• • •

l’eta` media tende a diminuire; la presenza percentuale di donne tende ad aumentare; la presenza di casi psichiatrici e` in aumento.

4. Emigrazione 4.1. Aspetti generali e dati sull’immigrazione extracomunitaria in Italia Da sempre esistono i cicli migratori: e la tipologia di suddivisione degli immigrati in lavoratori con contratto, in transito, pendolari o permanenti, clandestini e rifugiati ha, probabilmente, radici storiche molto lontane. Vi e`, inoltre, una pressoche´ infinita varieta` dell’esperienza umana e dei processi sociali, spaziali e temporali, impliciti nell’emigrazione per cui nessuna situazione puo` essere considerata esattamente simile all’altra, tuttavia il fenomeno e` sempre stato associato con pericoli e conflitti ai due poli della partenza e dell’arrivo, come pure durante il tragitto. L’emigrazione ha da sempre inscritto nel vissuto dell’uomo il dolore della separazione, la nostalgia della patria, il fascino dell’ignoto. Nonostante la continuita` e le analogie storiche, la situazione migratoria nel mondo, nel corso degli ultimi trent’anni, e` stata caratterizzata da notevoli cambiamenti qualitativi e quantitativi. Ad esempio, le grandi direttrici spaziali dei flussi migratori, dapprima rivolte principalmente da est verso ovest (dall’Europa alle Americhe), sono state soppiantate da altre inserite in un percorso privilegiato sud-nord, per cui paesi esportatori di lavoratori sono diventati luoghi di immigrazione, pur mantenendo forti contingenti di popolazione all’estero. Nello stesso tempo e` aumentato drammaticamente il numero di persone che sfuggono a situazioni pericolose, vengono espulse con violenza dai loro Paesi per conflitti politici, etnici e religiosi e quindi entrano nello stato di rifugiati. Risulta percio` evidente che quando si affronta il tema dell’emigrazione si ha sempre a che fare con un fenomeno molto complesso, per cui, anche

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limitando lo sguardo sul campo nazionale, sara` difficile offrire una visione panoramica onnicomprensiva del fenomeno stesso, in tutte le sue dimensioni. Le ondate di emigrazione verso l’Italia hanno cominciato a manifestarsi quando la vecchia emigrazione dal nostro Paese andava spegnendosi. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla meta` degli anni sessanta, dall’Italia emigravano in media, per anno, 370.000 persone e ne rientravano dall’estero circa 150.000, con un saldo passivo dell’ordine di 220.000 persone per anno. In seguito, le emigrazioni sono diminuite fino a che, nel 1973, sono diventate inferiori alle immigrazioni; in quell’anno, per la prima volta nella storia italiana recente, il saldo dei movimenti migratori con l’estero ha cambiato segno. A ridosso di quell’anno, nella seconda meta` degli anni settanta, fa la sua prima comparsa l’immigrazione da Paesi del Terzo Mondo che assumera` dimensioni rilevanti solo negli anni ottanta in concomitanza con la politica di chiusura all’immigrazione da parte di alcuni Paesi europei e alle nuove esigenze di un mercato del lavoro in trasformazione. Come spesso avviene, fenomeni tanto importanti come quello dell’immigrazione vengono difficilmente compresi sin dall’inizio nella loro interezza e vastita`. I tempi per una reale percezione di fenomeni di questo tipo sono sempre stati estremamente lunghi e in ritardo con la formulazione dei progetti migratori da parte degli immigrati. E poiche´ uno dei requisiti per l’avvio di politiche nei confronti dell’immigrazione e` costituito dalla percezione e dal riconoscimento del carattere permanente della presenza straniera, le ondate di immigrati negli anni ottanta hanno colto l’Italia del tutto impreparata sul piano legislativo. La prima legge sui lavoratori stranieri e`, infatti, del dicembre 1986, mentre una seconda legge sull’immigrazione, piu` ampia e maggiormente esplicativa, risale al febbraio 1990. Inoltre, la logica del tempo differito nella percezione del fenomeno come entita` permanente ha fatto sı` che, nelle fasi iniziali, ci si preoccupasse esclusivamente di occupazione e la-

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voro, senza alcun interesse per i bisogni umani e sociali degli immigrati. Con buona approssimazione si puo` ritenere che il numero complessivo degli immigrati in Italia da Paesi extracomunitari (incluse America del Sud e Asia) si aggiri sul milione e duecentomila unita`, tenendo conto della quota di clandestini che non dovrebbe superare i trecentomila soggetti. L’Africa assomma circa il 30% di tutti gli stranieri, mentre, nel suo interno, i Paesi del bacino mediterraneo (Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto) totalizzano il 61% dell’intero continente. Senegal, Ghana, Etiopia e Somalia raggiungono un altro 24,5%. Per quel che riguarda l’Asia, le Filippine raggruppano il 27% del totale, India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka totalizzano il 27%, mentre la Cina rappresenta, con circa 20.000 presenze, il 13% degli asiatici. Una sola comunita`, quella marocchina, rappresenta il 10% circa delle presenze, al secondo posto si colloca quella tunisina, poi l’ex Iugoslavia (4,8% del totale), le Filippine, il Senegal, l’Egitto, la Cina, la Polonia e, via via, tutte le altre. I nomadi residenti sono circa 100.000, di cui 25-30.000 provenienti dalla Iugoslavia. Il 70% circa degli immigrati si colloca in un eta` compresa tra i 19-40 anni, mentre i maschi rappresentano il 57% del totale (in Italia la percentuale dei maschi, secondo i dati del censimento 1991, e` rappresentata dal 48,5% del totale), mentre, all’inizio, assommavano al 70%. La crescente femminilizzazione della popolazione immigrata e` un indice che e` ormai iniziato il tempo dell’immigrazione e che, d’ora in avanti, si trattera` sempre piu` di famiglie che non di singoli. L’analfabetismo appare minimo (3,4% nei maschi e il 2,7% nelle donne) e l’istruzione superiore prevale su quella inferiore e numerosi sono i laureati. La regione con il maggior numero di immigrati e` il Lazio che assorbe il 25% del totale, seguito da Lombardia ed Emilia Romagna, mentre il Veneto, per la sua vicinanza alla ex Iugoslavia, ha subı`to il maggior incremento di presenze in questi ultimissimi anni.

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Roma assorbe il 90% circa del totale regionale con duecentomila presenze regolari alle quali devono essere aggiunti i clandestini, che si pensa assommino a circa 100.000 nella Capitale. Come ultima osservazione sul quadro generale, si puo` asserire che la presenza degli immigrati appare, al giorno d’oggi, abbastanza visibile in alcune citta` e aree rurali, ma che la densita` della loro popolazione che si aggira, su tutto il territorio nazionale, sull’1,3% e` ancora nettamente inferiore alla media comunitaria che e` del 4,6%, con punte del 10% in Belgio, del 4,7% in Germania e del 6,8% in Francia.

4.2. Tutela della salute fisica e mentale degli immigrati Per quel che riguarda quest’ultimo argomento, occorre premettere che l’ultima legge sui lavoratori stranieri in Italia, la nº 39 del 1990, ha disposto l’assistenza gratuita per tutti i regolarizzati, mentre una variante successiva ha riservato un trattamento di favore per i disoccupati stranieri con permesso di soggiorno, i quali non sono tenuti al pagamento di alcun contributo sanitario. Tuttavia, le difficolta` burocratiche che sono immancabili presso il Servizio Sanitario pubblico, unite al fatto che sono molto numerosi gli immigrati senza permesso di soggiorno stabile, hanno favorito il diffondersi su tutto il territorio nazionale, oltreche´ di centri di accoglienza, di strutture sanitarie autonome gestite dal volontariato sia laico che religioso. A Roma, ad esempio, e` in funzione un ambulatorio polispecialistico gestito dalla Caritas e sito in via Marsala, a ridosso della Stazione Centrale, luogo molto frequentato dagli immigrati. Uno studio ivi effettuato, nel periodo 1983-93, su circa 12.000 pazienti, ha dimostrato che tra le malattie infettive riscontrate quelle di importazione sono soltanto una piccola parte e certamente non rappresentano un rischio per la popolazione ospite. Viene cosı` sfatato il mito dell’immigrato come fonte di infezione e portatore di malattie esotiche. Per quel che riguarda il discorso sulla salute mentale degli immigrati, va innanzitutto superato

il concetto dell’emigrato dotato di una personalita` psichica particolarmente fragile per presunte instabilita` e insicurezze interiori precedenti la partenza o per il fatto stesso della migrazione, ritenuta fattore morbigeno di per se´. Al fine di una valutazione obiettiva, occorre, invece, tener conto dei fattori precedenti l’emigrazione sociale in cui essi vengono a trovarsi nel Paese ospite. I dati che la letteratura internazionale riporta sui risultati di ricerche epidemiologiche effettuate sui migranti sono molto spesso discordanti. Questo avviene per una serie di fattori riferibili: agli strumenti di screening usati (questionari, rating, scales ecc.) che non sono stati tarati transculturalmente; al fatto che gli immigrati, molto spesso, vengono considerati come una categoria omogenea, mentre sarebbe necessario distinguerli per etnia; a problemi di comunicazione verbale; a pregiudizi culturali e, infine, al carattere vago e mal definito del concetto stesso di “disturbi psichici”. Quello che si puo` affermare e` che non esistono disturbi psichici specifici degli emigrati e che la sintomatologia riscontrata rientra, per lo piu`, nei quadri clinici dell’ansia, della depressione e dei disturbi somatoformi. Dall’esperienza diretta del Servizio d’igiene mentale inserito nell’ambulatorio Caritas di Roma e dalla frequentazione psicosociale con gli immigrati e` stato possibile formulare un modello di approccio medico-antropologico, secondo il quale la relazione medico-paziente immigrato dovrebbe basarsi sui seguenti punti: 1)

2) 3) 4) 5)

la rappresentazione mentale della malattia, specifica di una data cultura, e il comportamento da malattia (illness behavior) che ne deriva; il significato latente della somatizzazione dei sintomi; la diversa esperienza del tempo; l’interazione individuo-comunita` di appartenenza; la situazione psicosociale sottesa all’espressione sintomatologica. Sul primo punto vi e` da osservare che per

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molti immigrati l’eziologia dei disturbi psichici e` centrata sull’intervento di cause di ordine soprannaturale, da cui deriva la constatazione che i referenti per la cura di questo tipo di disturbi vanno ricercati tra i guaritori tradizionali piuttosto che tra gli psichiatri. Questo fatto costituisce una delle ragioni del sottoutilizzo dei servizi d’igiene mentale da parte degli immigrati, con una notevole eccezione per quelli provenienti dal Sud America. Per quel che riguarda la somatizzazione dei sintomi, sarebbe sin troppo facile attribuire la prevalenza di lamentazioni somatiche a difficolta` di comunicazione linguistica, mentre risulta maggiormente utile comprendere che la somatizzazione appare, in qualche modo, collegata alla ricerca di un corpo che si e` antropologicamente perduto nel tentativo di mantenere la propria identita` culturale. ` , infatti, noto che all’immigrato viene ricoE nosciuta importanza essenzialmente in rapporto alla forza-lavoro che e` capace di produrre, a prescindere dagli altri valori umani connessi con la sua persona. Non e` quindi difficile capire come l’immigrato, attraverso il suo corpo sofferente, possa esprimere problematiche profonde connesse con le fluttuazioni della sua personalita` continuamente posta in uno stato di crisi. Sentirsi identici a se stessi e, nello stesso tempo, partecipi di una continuita` storica, e` impresa difficile per molti, ma risulta estremamente improbabile per categorie di persone che, come gli immigrati, devono far fronte alla morte simbolica del gruppo di origine ed alla ricostruzione degli oggetti interni perduti. Per quanto riguarda l’esperienza del tempo, e` facile immaginare la diversa esperienza temporale di chi vive, ad esempio, in paesi rurali africani e che sperimenta il ritmo accelerato e confusivo delle nostre citta`. Come conseguenza dell’interazione individuicomunita` di appartenenza, occorre usare la massima prudenza, nel corso di colloqui con immigrati, nel proporre modelli di comportamento di tipo occidentale, basati sull’autonomia e l’individualismo, a soggetti molto piu` inclini a preferire un rafforzamento dei legami familiari e di clan.

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L’ultimo punto sottolinea la necessita` di considerare la situazione psicosociale che sta sotto l’espressione dei sintomi, dal momento che e` molto probabile che condizioni abitative estremamente precarie, condizioni igieniche al limite della decenza, lavori saltuari e di bassa qualita`, contribuiscano in modo cospicuo alla sofferenza psichica degli immigrati. Questa e` una delle ragioni per cui e` difficile programmare un servizio d’igiene mentale senza il supporto di un’estesa rete di assistenza sociale. Per quel che riguarda gli errori professionali nella pratica psichiatrica con gli immigrati, il primo e` relativo alla difficolta` di comunicazione, per il cui rimedio si dovrebbero approntare e inserire stabilmente nell’e´quipe clinica i cosiddetti bilingual workers (operatori bilingui), con un training specifico sul piano psicologico. Il secondo tipo di errore rientra in quelli diagnostici d’origine culturale che possono venire diminuiti a seguito dell’incremento di una competenza specifica transculturale e di una maggiore consapevolezza delle trappole insite nel razzismo etnocentrico. Il terzo errore puo` derivare dalla prescrizione di psicofarmaci senza tener conto della variabilita` culturale nella risposta alla farmacoterapia (etnopsicofarmacologia). I problemi psicosociali emergenti a carico degli immigrati nel nostro Paese si identificano con la necessita` di fornire adeguata assistenza sanitaria e sociale alle madri nel periodo pre e postnatale, nell’assistenza ai bambini, specie quelli che non vivono con la madre o in famiglia ma in istituti pubblici e privati, o sono affidati a famiglie italiane. Il nodo centrale e` quello di rendere operativo anche per i bambini stranieri il principio fondamentale del diritto del minore a crescere nella propria famiglia. Anche se i minori in Italia rappresentano, per ora, soltanto il 3% circa del totale, bisogna prevedere un loro massiccio incremento legato ad un maggior dinamismo nell’accettazione delle pratiche di ricongiungimento familiare. ` ormai prossimo a manifestarsi il fenomeno E adolescenziale per gli immigrati di seconda gene-

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razione, con tutte le problematiche d’identita` che esso andra` inevitabilmente a proporre. Come proposizione conclusiva, appare opportuno sottolineare che per l’inserimento degli immigrati nel nostro Paese e` meglio tendere verso una loro integrazione che lasci spazio alla loro identita` culturale, piuttosto che verso una loro assimilazione tout court. Il percorso per raggiungere questa meta non sara` ne´ facile, ne´ breve, tuttavia essa rappresenta l’unico modello di convivenza possibile in una societa` che si dichiara multietnica. Va ricordato che questo processo di acculturazione implica la messa in atto di propositi e, soprattutto, di azioni da parte di entrambe le popolazioni interessate, quella degli immigrati e quella del Paese ospite.

5. Patologie ambientali 5.1. Ecologia urbana Le patologie ambientali vanno inserite nel vasto capitolo dell’ecologia psichica che comprende le implicazioni del rapporto uomoambiente, inteso quest’ultimo nell’accezione piu` ampia e complessa di spazio vissuto. L’incremento demografico della popolazione mondiale ha provocato ovunque fenomeni di inurbamento massivo tale per cui e` prevista, nell’arco di pochi decenni, una concentrazione urbana di circa un terzo della popolazione totale e una conurbazione progressiva senza soluzione di continuita` tra i diversi agglomerati cittadini. Questo fenomeno, conseguente o concomitante allo spopolamento delle zone rurali, ha creato innumerevoli problemi a livello degli alloggi, dei cambiamenti di stile di vita, dell’appropriazione di modelli culturali troppo velocemente assorbiti senza i tempi necessari per una loro metabolizzazione efficace. ` quindi naturale che le citta` vengano spesso E rappresentate come il risultato di crescite tumorali o terremoti del tessuto relazionale umano e non manchino, in proposito, illustrazioni evidenti a livello della criminalita`, dell’indifferenza e dell’iso-

lamento sociale, dell’invivibilita` ingravescente. Le antiche citta` venivano fondate attraverso un rito sacro di inaugurazione ed erano limitate, nella loro crescita, dal perimetro delle mura che seguiva l’andamento di disegni di derivazione celeste, cosmica: il quadrato e il circolo. Le citta` moderne hanno perso del tutto la memoria dell’antico rito fondante e mostrano uno sviluppo molto spesso dissacratore dei valori dell’uomo e della qualita` della vita. Per una troppo facile contrapposizione, si tende poi a credere che la campagna, l’ambiente rurale, rappresentino oasi idilliche cui sono risparmiati i disagi psichici che affliggono i cittadini. Questo poteva essere parzialmente vero nei tempi passati, mentre oggi si stanno verificando fenomeni di spopolamento e di depauperamento progressivo in vaste zone agricole talmente imponenti e carichi di conseguenze a tutti i livelli, che il quadro idillico della vita dei campi si e` attualmente rovesciato in una prospettiva di tensioni e frustrazioni sociali. La citta`, al contrario, potrebbe costituire il paradigma del luogo da cui bandire il conformismo, l’idiosincrasia, l’intolleranza per il diverso e l’invidia che, spesso, caratterizzano i piccoli centri abitati. La citta` moderna offre, invece, anche ad una osservazione superficiale, sacche evidenti di emarginazione sociale e psichica. In alcune aree di essa si concentrano fenomeni appariscenti di disgregazione sociale (poverta`, carenza di alloggi, microcriminalita`, disoccupazione, prostituzione ecc.) cui spesso si accompagnano preoccupanti addensamenti di soggetti con disturbi psichici (malati cronici, alcolisti, tossicodipendenti). Questa commistione tra disgregazione sociale e patologia psichica, verificata in numerose ricerche, ha dato origine a due ipotesi esplicative, una sociogenetica e l’altra denominata deriva sociale. Secondo la prima, le condizioni del luogo cosı` socialmente deprivato sarebbero di per se´ causative della patologia psichica ivi afferente; per la seconda ipotesi, invece, si tratterebbe di una specie di deriva di soggetti che, a causa delle loro condizioni mentali, sarebbero incapaci di mantenere il livello di produttivita` necessario per non

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farli planare, a poco a poco, oppure celermente, verso luoghi nei quali prevalgono l’indifferenza, l’isolamento sociale e l’anonimato. Esistono, poi, altri fenomeni sociali come il pendolarismo (fenomeno abbastanza recente creato dal rapido declino dell’attivita` artigianale soppiantata dall’industrializzazione di massa) che possono favorire l’insorgenza di particolari malesseri psichici che, pur non essendo sinonimo di malattia, possono rappresentare indizi inequivocabili di disagio sul piano psicologico e non concorrono certamente ad un miglioramento della qualita` della vita. Cosı`, oltre alle dromopatie da pendolarismo, si possono ugualmente citare le cosiddette fobie sociali di cui e` possibile avanzare una spiegazione sul piano socioculturale, nel senso che l’impatto con la folla anonima e indifferente della citta` puo` suscitare sia sentimenti di oppressione claustrofobica, sia l’esperienza di vertigine agorafobica causata dal vuoto interpersonale e dall’assenza di comunicazione (ricorda la folla solitaria descritta da Riesman). Ugualmente, la diffusione nel contesto cittadino dei disturbi psicogeni delle condotte alimentari (bulimia e anoressia) puo` trovare una spiegazione nel fatto che la citta` offre una doviziosa mostra permanente di quel consumismo tipico di una societa` affluente cui e` stato ascritto un ruolo preminente nella genesi di quei disturbi tanto da definirli sindromi specifiche dell’occidente opulento. Detto questo succintamente sul malessere psicologico che affligge l’habitat urbano, resta da sottolineare l’importanza di una intera serie di fattori economici, amministrativi e burocratici che stanno alla base dell’evoluzione negativa del contesto cittadino, per cui, alla fine, invece del progetto di costruire una citta` adatta all’uomo si e` cercato di adattare forzosamente l’uomo ad una citta` malata.

5.2. Disastri Disastri di entita` diversa sono avvenuti in tutte le epoche, tuttavia le societa` attuali sono, in realta`, esposte sia all’antica minaccia di calamita`

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naturali, sia a quella, non meno grave, di eventi catastrofici provocati dall’uomo o legati ad attivita` umane. Il termine disastro deriva etimologicamente da dis, prefisso che esprime un valore negativo, e astro, quindi cattiva stella. Catastrofe, dal significato greco di rivolgimento, equivale in pratica a disastro, anche se la parola parrebbe esprimere un parametro temporale di subitaneita`. Tra le varie definizioni di disastro, la piu` appropriata sembrerebbe quella di Kinston e Rosser di: situazione di stress massivo collettivo. Una buona, ancorche´ sintetica, classificazione dei disastri ne riporta quattro tipi: • • • •

naturali (Acts of God = atti di Dio); provocati dall’uomo (man-made disasters); tecnologici cronici (tipo Cernobyl); complex disasters (definizione dell’ONU) che comprendono eventi come: atti di terrorismo, guerre, conflitti etnici ed altre emergenze su base essenzialmente politica (tumulti, sommosse ecc.).

Non e` sempre facile distinguere tra loro i vari tipi di disastri perche´ ad eventi naturali possono sovrapporsi concause determinate dall’uomo, come quando ad un’alluvione (act of God) seguono eventi catastrofici provocati dalla deforestazione inferta dall’uomo a quel territorio. In alcuni disastri tecnologici (tipo esplosione di centrale atomica) possono risultare vittime di quel disastro individui non ancora nati. Elemento comune dei disastri e` comunque la grande disorganizzazione sociale che ne consegue, per cui, nei Paesi maggiormente esposti ai disastri, si e` andata sviluppando la consapevolezza di dovere non solo provvedere ai danni provocati, ma anche di giungere ad un maggior controllo di siffatti eventi, migliorando sia la capacita` di previsione e di prevenzione, sia le strategie di primo intervento e di ricostruzione (in Italia, attraverso la Protezione Civile). Nel panorama degli studi in questo ambito i problemi di salute pubblica occupano un posto centrale ed e` nata una nuova disciplina: la medicina delle catastrofi.

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Fra i capitoli di questa materia, sono oggetto di particolare attenzione e argomento di complesse controversie scientifiche (e talora medicolegali) gli effetti, a breve e a lunga distanza di tempo, dell’esperienza di un disastro sulla salute psichica degli individui colpiti. La letteratura scientifica pubblicata sulla psicologia e sulla psicopatologia delle reazioni postdisastro e`, attualmente, molto abbondante. I Centri di ricerca e di documentazione che, in vari Paesi del mondo, si occupano del problema sono ormai numerosi e, allo stesso modo, si moltiplicano i congressi sull’argomento. Tra i territori della Protezione Civile e dell’Igiene Mentale esiste un’area di intersezione costituita dallo studio, teorico e applicativo, delle reazioni psichiche ai disastri e delle misure di prevenzione e cura delle sequele psicopatologiche, immediate e tardive. La letteratura scientifica sul tema e` in rapido aumento e impone un’opera continua di aggiornamento e di analisi critica dei dati forniti. I limiti imposti alla stesura di questo paragrafo impediscono un’adeguata trattazione delle reazioni umane ai disastri, tuttavia puo` essere utile ricordare che dette reazioni possono essere di tipo collettivo o individuale. A livello collettivo possono aversi reazioni sotto forma di inibizione-stupore, oppure di panico, o di esodo compulsivo e inebetito dai luoghi della catastrofe. Sul piano individuale si possono avere reazioni aspecifiche nevrotiche o psicotiche, oppure la cosiddetta sindrome da disastro caratterizzata da assenza di emozioni, inibizione della volonta`, passivita`, indecisione, confusione o negazione completa dell’evento. I sintomi post-disastro piu` frequenti e che trovano collocazione nel DSM-III R (manuale diagnostico statistico revisionato) tra i disturbi post-traumatici da stress sono costituiti da raggruppamenti di sintomi facenti capo, rispettivamente, ad una fase di intrusione e ad una di evitamento e negazione. Alcuni studiosi pensano che le due fasi si presentino in modo successivo, con quella d’intrusione come precedente, ma altri ricercatori negano questa sequenza e pensano a due fasi di-

stinte soltanto per comodita` descrittiva, ma con sintomi molto intrecciati tra loro. La fase di intrusione comprende, come lascia intendere il nome, pensieri intrusivi e ricorrenti riferiti al trauma, con disturbi del sonno e incubi angosciosi. Esiste, inoltre, un’ipervigilanza con reazioni abnormi di allarme per stimoli improvvisi o allusivi al trauma subito. La fase di evitamento implica ottundimento, torpore, sentimenti di irrealta`, coartazione del pensiero, depressione, inerzia, isolamento, amnesia (specie anterograda) e disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia). ` difficile prevedere quanti, tra le vittime di E un disastro, saranno colpiti da sintomi della sindrome post-traumatica da stress, perche´, nella loro genesi e mantenimento, rivestono particolare importanza la vulnerabilita` psichica dei soggetti colpiti e un’eventuale loro storia psichiatrica precedente. Va inoltre sottolineato il fatto che, spesso, tra le vittime dei traumi post-disastro, compaiono anche i soccorritori, specie quelli addetti a funzioni penose come la ricerca e la rimozione delle salme, o quelli sottoposti, per un tempo eccessivo, a stress difficilmente sopportabili.

6. Qualita` della vita ed etica della salute Ai giorni nostri si fa un gran parlare di aggiungere, anziche´ anni alla vita, qualita` all’esistenza umana. ` ovvio che, in questo discorso, si prescinde E dal fatto morboso per puntare verso il generico miglioramento del benessere psichico. In questo ambito si potrebbero, sin dall’inizio, privilegiare le qualita` dello spirito, se non si tenesse conto del fatto che il soddisfacimento dei bisogni materiali dell’esistenza rimane pur sempre la condizione preliminare ad ogni ulteriore passo dello spirito. Una riprova di questa affermazione si puo` ricavare dalla constatazione che i Paesi emergenti o in via di sviluppo, una volta affrontati e, in parte, risolti i problemi sanitari primari (mortalita` infantile, epidemie ecc.) si trovano di fronte a

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problemi derivanti dall’igiene mentale, come se l’innalzarsi delle qualita` materiali della vita si riflettesse in modo negativo sulla salute mentale degli individui. Nei Paesi occidentali, d’altro canto, la gestione improvvida del benessere economico ha finito per suscitare condotte di vita ancorate a una serie, continuamente rinnovantesi, di pseudobisogni che pongono ugualmente in crisi il binomio qualita` della vita e benessere psicologico. Per uscirne, resterebbe la soluzione soggettiva per cui ognuno dovrebbe cercare di farcela da se´ nel tentativo di ritrovare quell’equilibrio mentale che le qualita` materiali e spirituali della sua esistenza gli permettono. Una soluzione del genere e`, ovviamente, improponibile proprio perche´ riferita al singolo, mentre il discorso in atto e` rivolto al collettivo e al sociale. Un’ulteriore complicazione al problema e` data dal fatto che le qualita` della vita che si possono immaginare a sostegno del benessere psichico variano con l’eta` dei soggetti, per cui l’ambiente ideale per il bambino puo` esserlo in misura minore o addirittura negativa nei riguardi dell’adulto e del vecchio. Allo stesso modo, non si possono considerare come ugualmente stressanti situazioni ed eventi che possono, invece, avere rilevanze subbiettive molto diversificate, come dimostra l’esperienza operativa delle rating scales sugli eventi di vita stressanti che, proprio a causa del carico diverso che lo stesso evento puo` avere sugli individui, si dimostrano tutte abbastanza opinabili o, per lo meno, da usare con l’aggiunta di correttivi critici. I fattori stressanti o stressors, infatti, non colpiscono tutti allo stesso modo, dal momento che non si tratta, nel caso di soggetti umani, di reazioni semplici del tipo stimolo-risposta, bensı` di reazioni complesse nelle quali tra lo stimolo e la risposta si interpongono elementi di mediazione di ordine emotivo e cognitivo. La difficolta` di reperire parametri abbastanza adeguati di misura degli stressors e` facilmente rilevabile anche a livello di stimoli apparentemente semplici, come puo` essere la risposta a rumori eccessivi. Indagini in questo campo hanno dimostrato

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che individui esposti, durante il lavoro, a rumori intensi di molti decibel senza riportarne eccessivi disturbi, una volta tornati a casa diventavano intolleranti verso rumori filtranti attraverso le pareti domestiche, specie se costituite da voci umane. ` come se la “privacy” familiare dovesse veE nire salvaguardata soprattutto dalle intrusioni dei vicini. Non e` possibile individuare qualita` della vita che siano adatte al benessere psichico di tutti, per cui sara` sempre necessario operare mediazioni e livellare eccessi. Forse, il salto di qualita` piu` importante occorrera` consumarlo negli stili di vita di ognuno di noi, acquisendo tolleranza, autonomia e responsabilita` decisionale. La societa`, d’altro canto, dovra` anch’essa concorrere e rendere proponibile agli individui una gamma di alternative di scelta soddisfacenti per i bisogni materiali e spirituali dell’uomo. In questo quadro viene ad inserirsi l’etica della salute i cui confini vanno continuamente dilatandosi a causa del progredire, nel campo medico, di tecnologie sempre piu` avanzate, invasive e coinvolgenti sul piano delle decisioni professionali e dall’emergere di nuove responsabilita` individuali di fronte alle malattie, sia sul piano della prevenzione (fumo, alcol, alimentazione, droghe ecc.), sia su quello dell’autoriferimento precoce a indagini diagnostiche. Trapianti, medicina fetale, tecniche di prolungamento indefinito della vita vegetativa di organismi umani, manipolazioni genetiche, metodiche di fertilizzazione tra le piu` disparate, sono alcune delle tematiche sempre piu` numerose sulle quali lo psicoigienista sara` chiamato a rispondere dal punto di vista etico. Potranno allora confrontarsi posizioni ancorate a impostazioni mentali diverse, le une derivate da una specie di incantamento prodotto dalle nuove biotecnologie, le altre fondate sulla difesa a oltranza dei diritti dell’uomo. Anche gli orientamenti attuali di molte psichiatrie sembrano decisamente spostarsi sul piano biologico, a scapito degli aspetti psicologici, relazionali e sociali della malattia. Occorre percio` salvaguardare, ad ogni costo,

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la visione antropocentrica della medicina per cui l’uomo non e` solo un corpo biologico, ma un essere biopsicosociale.

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49 Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica Nicola Lalli Parole chiave relazione terapeutica; malato; paziente; reazioni psicologiche alla malattia; effetto placebo; psicofarmaci

Da sempre, nella storia dell’uomo, sono esistiti un paziente, ovverosia uno che soffre ed un medico, ovverosia uno che, come indica l’etimologia (mede´ri) riflette e cura. Se nel tempo la figura del paziente e` rimasta piuttosto stabile, al contrario articolata e multiforme e` stata la figura del medico che per costituirsi e` dovuta passare attraverso quella dello sciamano, dello stregone, del guaritore. Complessa l’interazione tra queste due entita`: ripercorrerne la storia significherebbe scrivere la storia della medicina e della Psichiatria. Evidente quindi che il rapporto medico-paziente rappresenta la porta maestra per entrare, attraverso la medicina, nello specifico psichiatrico. La relazione terapeutica si costituisce a partire da alcuni fattori basilari che sono: la teoria, la prassi, l’interesse: ovverosia l’empatia per il paziente e la curiosita` scientifica per la malattia, ed infine l’etica, il rispetto per l’altro che e` tanto piu` basilare quanto piu` ci si rende conto degli enormi

poteri che il medico ha nei confronti del paziente. Il tutto inserito all’interno del setting, ovverosia di specifiche modalita` situazionali che, come cornice di riferimento, definiscono e delineano la complessita` dell’operazione. Il rapporto medico-paziente non e` un rapporto tecnico o neutrale: numerose sono le fantasie con` nesse all’essere medico ed all’essere paziente. E necessario quindi esaminare l’equazione personale del medico e le varie reazioni psicologiche del malato, per giungere poi a proporre una dinamica di rapporto medico-paziente basata sulla recettivita` e la flessibilita` del terapeuta, che, avendo raggiunto una sua precisa identita`, puo` articolare una risposta globale alle domande del paziente. Tale modello, se e` valido in ogni situazione medica, e` indispensabile nel rapporto psichiatrico ed in quello psicoterapico in particolare. * * *

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1. Il medico ed il paziente Il rapporto medico-paziente si costituisce dall’interazione di una coppia: il medico ed il paziente. Bisogna quindi descrivere quali sono gli aspetti e le caratteristiche del medico e del paziente.

1.1. Il medico: motivazioni psicologiche In genere lo studente di medicina che passa sei anni della sua vita a studiare, conoscere il paziente, mai si propone o gli viene proposto di cambiare ottica. Chi e` il medico, questo sconosciuto? Perche´ sceglie una professione che, pur comportando numerosi vantaggi, dall’altro lato pero` comporta una vita a contatto con la sofferenza, la malattia, la morte? Motivi profondi o ` solo sociali? Cosa significa fare medicina? E un’arte, una professione, una missione, una tecnica: tutto questo insieme o solo un modo come un altro per guadagnare? Dobbiamo per un momento soffermarci a considerare e dare una risposta a queste domande. Possiamo cominciare con il dire che la scelta di medicina ha motivazioni in genere profonde e complesse. Numerosi sono gli studi in proposito, anche se non sempre i risultati concordano. Se analizziamo l’ubiquitario gioco del dottore fra i bambini, possiamo fare alcune riflessioni. Una motivazione puo` nascere dal desiderio di conoscere l’altro: la connotazione sessuale, a cui e` stata data sempre molta importanza, e` spesso un ` chiaro che la conoscenza e` fatto secondario. E tanto piu` interessante quanto piu` l’altro e` diverso da noi. Ma, oltre il desiderio della conoscenza e della scoperta, si possono intravedere, piu` o meno chiaramente, altre dimensioni come il desiderio di controllare e sottomettere l’altro (dimensione sadico-aggressiva) e la tendenza a vedere, fine a se stessa (scoptofilia). Le stesse dinamiche possono essere osservate relativamente alla scelta di medicina. Le motivazioni valide hanno a che fare con un desiderio di conoscere, aiutare gli altri: sono derivati della pulsione libidica. Ma frequentemente sono pre-

senti motivazioni che derivano da dinamiche conflittuali rimosse. Spesso c’e` un bisogno di negare paure ipocondriache o della morte: quindi la scelta di medicina diventa un tentativo, chiaramente incongruo, di autoterapia. Frequenti le pulsioni sadico-aggressive che vengono camuffate da comportamenti di tipo riparativo, a volte francamente masochistici: e` il medico missionario. Frequenti le dimensioni di onnipotenza che tendono ad estrinsecarsi con comportamenti di controllo e di sottomissione dell’altro. Spesso ci sono dimensioni voyeristiche. Queste motivazioni profonde, quando non sono risolte, possono ‘‘risolversi’’ in patologici stili di comportamento nel rapporto con il paziente. Sarebbe auspicabile, quando queste dimensioni sono presenti e quindi la scelta di medicina e` una scelta sintomatica, un lavoro psicoterapico tendente non solo a portare in superficie queste dinamiche, ma anche a superarle. Le stesse motivazioni che incidono nella scelta di medicina incidono in maniera ancora piu` massiccia nella scelta di Psichiatria. Una dinamica frequente e pericolosa, quando non e` superata, e` quella della onnipotenza astratta: essa e` frequente soprattutto in quelli che scelgono Psichiatria, ancora prima di scegliere Medicina. Insicurezze personali vengono compensate da fantasie onnipotenti, per cui si crede di essere in grado di dominare, controllare l’uomo nella sua funzione piu` intima: quella psichica. Quando queste dinamiche conflittuali non sono superate, tendono, basandosi su di un meccanismo d’identificazione, a costituire due modalita` di rapporto, ambedue poco valide. Nella prima, l’identificazione del medico con il paziente e` presente ed accettata. ` come se il medico dicesse ‘‘anch’io posso E essere o potevo essere come te’’. In genere, il comportamento e` fondamentalmente improntato ad una visione di incurabilita` e di non trasformazione e si estrinseca attraverso un atteggiamento assistenziale e consolatorio. Nella seconda, l’identificazione c’e`, ma viene ` come se il medico dicesse ‘‘io non sono negata. E come te, io sto bene, tu sei malato’’. Il comportamento e` in genere aggressivo, iperattivo, manipolativo, ad esso corrisponde l’insofferenza verso il non poter fare qualcosa: in fondo, non c’e` in

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

questi medici la visione dell’incurabilita`. Tutt’altro! Infatti sono riusciti a fare molto: negare le proprie motivazioni patologiche. Ambedue questi modelli hanno in comune un dato: il bisogno di avere pazienti, e non solo per motivi economici. Sono medici che si sentono male se non possono assistere o curare qualcuno. Ma esiste un terzo modello, che si rifa` ad una dimensione completamente diversa. Il superamento di problematiche personali (quelle stesse che possono essere una molla, ma che non superate diventano una trappola) non comporta piu` meccanismi identificatori. Il medico ha raggiunto una sua identita`: questa gli permette di avere nei confronti del paziente non solo interesse e conoscenza, ma anche quella flessibilita` legata alla sua possibilita` recettiva. Quest’ultima modalita`, che dovrebbe essere presente in ogni rapporto medico-paziente, e` indispensabile nella relazione psicoterapica.

1.2. Il paziente: definizione e caratteristiche Definire il paziente e` operazione complessa e difficile perche´ vari e numerosi sono le situazioni ed i fattori che intervengono a caratterizzarlo: ben diversa e` ad esempio la situazione in caso di malattie acute o croniche, di malattie curabili o incurabili, ecc. Ma c’e` un dato fondamentale che troppo spesso viene trascurato: e cioe` che il concetto di paziente e quello di malato, spesso confusi e sovrapposti, non sempre necessariamente coincidono. Etimologicamente, paziente vuol dire colui che soffre e che e` consapevole del suo malessere: malato invece e` colui che, portatore di una malattia, spesso puo` non esserne consapevole e per due motivi. O perche´ non e` a conoscenza del suo disturbo, o perche´, pur a conoscenza, ha attuato una operazione di rimozione e di negazione della sua realta` di malato. Per essere esemplificativi basta pensare, nel primo caso, ad una persona che, affetta da una malattia organica grave, ma asintomatica, non ne e` a conoscenza: in questo caso ci troviamo di

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fronte ad un malato, ma non certamente ad un paziente. Nel secondo, potremmo citare il caso di un eccitamento maniacale, ove il paziente nega, e spesso con violenza, il suo essere malato. In questo ultimo caso il soggetto malato non e` che non sa, ma attua uno specifico meccanismo difensivo (la negazione) per non essere consapevole e quindi non diventare paziente. Dunque c’e` una differenza sostanziale tra malato e paziente. L’essere malato appartiene al mondo dell’oggettivita`, ove e` necessaria la presenza di un tecnico competente che rilevi e riveli la patologia. L’essere paziente appartiene al mondo della soggettivita`: ove e` il soggetto stesso che prova sofferenza, che si sente portatore di un malessere, anche se a volte questa sofferenza non e` strettamente proporzionale alla entita` della malattia, come nel caso di alcune forme psiconevrotiche. Esiste una dinamica estremamente importante nel campo psichiatrico tra l’esser paziente e l’esser malato. Vedremo come spesso bisogna compiere uno specifico lavoro per trasformare un malato mentale in paziente; operazione importante perche´ e` il paziente, con la sua consapevole sofferenza, ad essere il portatore di una domanda o di una richiesta di aiuto, che rende possibile instaurare la relazione terapeutica.

1.2.1. Il paziente con disturbi organici

Un soggetto affetto da disturbi organici in genere tende, anche se con tempi piu` o meno lunghi e variabili a secondo della personalita`, dell’ambiente circostante, della gravita` della malattia, ad opporsi a questa nuova situazione che spesso puo` sconvolgere il suo assetto emotivo e sociale. Opporsi vuol dire cercare di fare, sul piano personale e medico, tutto quello che gli e` possibile per superare questa drammatica evenienza. Quando la malattia non e` completamente superabile, o tende a trasformarsi in cronica, il soggetto mette in atto una serie di modificazioni delle sue abitudini che lo portano ad una situazione di adattamento, piu` o meno valido.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Cioe` la malattia, vissuta in un primo momento come situazione ostile proveniente dall’esterno, viene trasformata in una situazione interna, con la quale bisogna convivere. Venuto meno l’atteggiamento reattivo, subentra un atteggiamento di accettazione dei limiti imposti dalla malattia, il che permette di lasciare libere tutte le altre attivita`. Questa, che e` da considerarsi come una modalita` valida, si estrinseca anche con una certa ritrosia del paziente a mostrarsi come tale: egli non utilizza infatti questa sua menomazione per conseguirne un utile secondario. Ma accanto a questa modalita` possono esserci altre reazioni che utilizzano meccanismi psicopatologici, piu` o meno gravi, piu` o meno persistenti. La reazione depressiva. Qualsiasi malattia somatica, di un certo rilievo, modifica inesorabilmente il modo di vita del paziente, nei confronti di se stesso e nei confronti del gruppo. Cambia non solo il modo con il quale egli si avvicina agli altri, ma anche come gli altri si avvicinano a lui. La malattia rappresenta una situazione di cambiamento in negativo, nei confronti del ruolo, dell’identita`, dei valori, della possibilita` di investimento libidico: spesso e` accompagnata dalla caduta dell’autostima, per l’aumentata dipendenza dagli altri e dalla sgradevole sensazione che la vita degli altri continua inesorabile a scorrere comunque, nonostante la sua malattia. Tutto questo induce una reazione depressiva. Due esperienze fondamentali si alternano e segnano il paziente: il vissuto corporeo e quello del tempo. Il corpo non e` piu` il corpo che si e`, ma diventa esclusivamente il corpo che si ha e che e` segnato dalla menomazione. Un corpo che, scissa l’unita` psicosomatica, sembra vivere secondo sue leggi completamente indipendenti dall’Io. Ma anche il vissuto temporale si altera. La dimensione del passato, delle cose che non ritorneranno piu`, prende il sopravvento sul futuro che tende sempre piu` ad essere vissuto come estremamente lontano o addirittura impossibile. Si perde cosı` la possibilita` di qualsiasi speranza, mentre il presente con la sua angoscia e sofferenza si amplia a dismisura ed incombe sul paziente. Questa reazione depressiva viene avvertita dagli altri come tendenza del paziente a lasciarsi andare, a

non reagire, dando a volte la netta sensazione che il paziente aspetti la morte. Questo comportamento depressivo, che certamente puo` influire negativamente sul decorso della malattia somatica, puo` a volte precipitare in una situazione di grave crisi depressiva dove la mancanza di speranza diventa disperazione, il futuro si annulla, l’agitazione si ferma e si gela nella pietrificazione di un arresto psicomotorio. Accanto a questa, che e` la piu` frequente tra le reazioni psicopatologiche, possono comparire altre dinamiche. ` una modalita` di reazione La regressione. E che si osserva anche per disturbi banali. Di fronte ad esperienze spiacevoli, l’uomo puo` infatti tendere verso modalita` precedenti di soddisfazione e l’intensita` di tale tendenza e` strettamente connessa a due fattori: la capacita` di adattamento alla nuova situazione, il grado di fissazione a stadi anteriori. Manifestazioni regressive del malato sono l’abbandono della propria attivita`, il mettersi a letto, desiderare solo le cure dei familiari, fino a schiavizzarli rispetto ai suoi bisogni, come pure l’eccessiva importanza attribuita al cibo e la fuga nel sonno. Questo ridursi a bambino passivo puo` essere comprensibile ed accettabile nel caso di disturbi gravi, sempre che lo stato di dipendenza non sia mantenuto piu` del necessario. In caso di affezioni banali, tale tendenza va invece scoraggiata, in modo che la convalescenza non si trascini troppo a lungo. Quando la realta` presenta aspetti spiacevoli, possono essere messi in atto altri due meccanismi di difesa: negare la realta` stessa, od accettarla, ma staccata dal continuum della propria esperienza significativa e dai sentimenti che vi sono collegati. Sono i meccanismi di negazione e di isolamento. La negazione. Si constata con relativa frequenza nelle malattie gravi, per lo piu` in fase terminale, oppure in caso di malattia mitica (Schneider), come ad es. il cancro. Il paziente dice di non aver alcun disturbo, oppure dichiara di soffrire di una malattia benigna. Interessante a questo proposito una ricerca condotta in Inghilterra da Ajtken-Swan su 231 pazienti cancerosi che presentavano lesioni cura-

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

bili (cancro della pelle, della bocca, della lingua, dell’utero e del seno). Messi al corrente della natura della malattia ed interrogati un mese dopo, il 19% di essi nego` di essere stato informato. Una particolare forma di negazione della malattia e` la fiducia smisurata nel medico ritenuto onnipotente e possessore del farmaco miracoloso, fiducia mantenuta nonostante l’obiettivo progredire del male. L’isolamento. Si evidenzia invece in quei pazienti che parlano della loro malattia con il distacco caratteristico delle dissertazioni scientifiche, come se i disturbi riguardassero un ipotetico altro, non coinvolgendo quindi alcuna carica affettiva. Soprattutto nei disturbi psicosomatici assistiamo all’isolamento del sintomo dal suo contesto psicologico; il paziente non si rende conto di cio` che per gli altri e` evidente: ad es., che la cefalea o il vomito sopravvengono in rapporto a situazioni conflittuali ben determinate, che la diarrea e` scatenata da circostanze specifiche. Tale scotomizzazione porta a non riconoscere il conflitto sottostante e quindi a non risolverlo. ` evidente in soggetti La reazione aggressiva. E che, normalmente affabili, concilianti, colpiti da un disturbo fisico diventano diffidenti, rivendicativi, sempre insoddisfatti delle cure di cui sono oggetto. Tale atteggiamento testimonia il loro modo di vivere la malattia come attacco proveniente dall’esterno, di cui devono sopportare le conseguenze, contornati da una supposta indifferenza degli altri, medico e familiari, verso i quali esplicitano la loro aggressivita`. A volte, nell’arco di una malattia grave, queste reazioni possono alternarsi e sovrapporsi. Credo che pochi siano riusciti a descrivere queste situazioni come ha fatto L. Tolstoj nel suo racconto La morte di Ivan Il’icˇ.

1.2.2. Il paziente con disturbi psichici

La distinzione proposta tra paziente e malato e` ancora piu` evidente e significativa nello specifico psichiatrico, nel senso che il soggetto portatore di disturbi psicologici tende ad essere meno consapevole del portatore di disturbi organici. Questa affermazione sembrerebbe essere con-

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traddetta nel caso della psiconevrosi, ove in genere il soggetto tende ad ipertrofizzare il suo disturbo e a lamentarsene continuamente. In effetti anche nelle psiconevrosi il soggetto si lamenta e/o chiede aiuto per il suo sintomo, spesso a connotazione somatica, ma non e` consapevole del conflitto e della problematica sottostante. Ma non e` solo questa scarsa consapevolezza che caratterizza il soggetto affetto da disturbi psichici. Un secondo dato significativo e` la tendenza ad utilizzare il sintomo (o i sintomi) per ottenere un utile secondario: ovverosia da una parte per colpevolizzare l’entourage familiare o di lavoro, e dall’altra per assumere un ruolo di deresponsabilizzazione. In questo secondo aspetto, spesso interviene una collusione tra societa` e malato psichico. La societa` accetta il suo essere malato, ma gli impone una serie di oneri, non ultimo quello della non-responsabilita` in ordine alla genesi del disturbo. Questo, come vedremo, e` uno dei punti piu` difficili e delicati, perche´ il terapeuta dovra` lottare contro la tendenza del malato a non trasformarsi in paziente, tendenza spesso sostenuta ed avallata dalla cultura. Un terzo punto, connesso con il precedente, e` la tendenza alla regressione ed alla dipendenza: il soggetto tende ad assumere una dimensione di passivita` , a non esprimere una richiesta, ma spesso a pretendere un aiuto, salvo a rifiutarlo se non coincide con le sue aspettative. Di notevole rilievo e` la difficolta` da parte del paziente psichiatrico di porre una domanda diretta e non ambigua: una domanda ove la richiesta di aiuto coincida con il desiderio di affrontare e risolvere le sue problematiche. Il soggetto affetto da disturbi psichiatrici spesso richiede una terapia sintomatica: solo che in psicopatologia non sempre e` possibile eliminare il sintomo se non si affronta la globalita` della situazione. Ultima caratteristica, ma forse prima per importanza, e` la presenza del transfert: ovverosia della tendenza a proiettare sul terapeuta tutta una serie di fantasticherie, emozioni, paure che sono presenti in ogni rapporto medico-paziente, ma che in questo caso sono piu` evidenti ed esasperate. Questo fenomeno e` dovuto non solo alla spe-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cificita` del disturbo, ma anche al fatto che spesso un paziente psichiatrico prima di decidersi ad affrontare una situazione di cura, trascorre periodi lunghi, a volte molto lunghi, di attesa, carichi di ripensamenti, di paure, di fantasticherie, di previsioni che fanno sı` che quando il paziente affronta la realta` dell’incontro utilizzi il medico come uno schermo bianco, che sara` ricoperto dalle sue numerose proiezioni. Il che lo portera` spesso a non vedere la realta`, positiva o negativa, dell’altro, ma a rimanere chiuso nel suo guscio caratteriale. Questa dinamica comunque, per quanto disturbante, e` fondamentale nel rapporto psicoterapeutico.

2. Dal rapporto medico-paziente alla relazione terapeutica L’incontro ed il rapporto medico-paziente e` certamente finalizzato ad una attivita` specifica che e` la terapia. Se per terapia intendiamo la capacita` del medico di rispondere in maniera esauriente e globale alla domanda di cura del paziente, e` chiaro che questa attivita` puo` articolarsi a vari livelli di efficacia. Pertanto bisogna distinguere l’incontro medico-paziente dalla relazione terapeutica, perche´ quest’ultima, per costituirsi, ha bisogno non solo dell’incontro, ma di una serie di fattori. Alcuni di questi fattori, definiti strutturali, sono essenziali perche´ un incontro possa avere valenze terapeutiche. Altri fattori, definiti strutturanti, invece delineano e condizionano le modalita` dell’agire terapeutico. 2.1. I fattori strutturali

Questo momento, che puo` avere una durata piu` o meno lunga e che puo` essere sempre successivamente arricchito, rappresenta il momento della recettivita` del medico che puo` essere maggiore o minore a seconda delle proprie capacita` e ` il famoso occhio clidella difficolta` del caso. E nico. Un esempio famoso, ove all’acume clinico si aggiunge anche l’acume psicologico e sociale, e` quello attribuito a Cushing (e riferito da S. J. Korchin): «Egli doveva visitare, davanti ad una classe di giovani medici, un uomo che si sospettava avere una lesione cerebrale. L’uomo entro` nell’anfiteatro, accompagnato dalla moglie, ma non aveva quasi fatto in tempo ad avvicinarsi al letto per essere esaminato che Cushing disse loro che potevano andare. Quindi si volse verso gli studenti e annuncio` che l’uomo indubbiamente aveva una lesione della corteccia cerebrale. In risposta alle loro sorprese domande, egli spiego` che non poteva altrimenti capire come mai un gentiluomo di Boston, colto e di classe elevata, potesse passare attraverso una porta prima di una signora». Ma la rilevazione del dato e`, di per se´, senza significato se non viene integrata in una serie di nessi associativi e soprattutto non viene riferita ad una teoria che deve fungere da riferimento: ed e` questa la seconda fase. Un paziente entra in uno studio medico e non chiude la porta; questo comportamento puo` essere visto come un fatto banale oppure, integrato con altri dati, puo` costituire il punto di riferimento privilegiato per esplorare eventuali angosce claustrofobiche. Evidentemente, in questo caso, il dato viene collegato ad uno schema di riferimento di tipo psicodinamico. Quindi, il momento conoscitivo e` una continua spola tra l’osservazione e il riferimento ad un sistema teorico. In mancanza di questo, anche il dato piu` importante puo` non avere alcun valore.

2.1.1. Il momento conoscitivo

Esso si articola in due fasi. Nella prima c’e` la raccolta dei dati: sia quelli offerti dal paziente (anamnesi), sia quelli osservati direttamente dal medico (esame obiettivo), sia quelli provenienti da fonti esterne (per es. dati di laboratorio, oppure notizie fornite dai familiari).

2.1.2. Il momento terapeutico

In molti casi, come in medicina internistica, questo momento e` staccato, ed in genere segue il primo. In altri casi (colloquio psichiatrico), questi due momenti possono coincidere, e comunque

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

` il momento della tendono sempre ad integrarsi. E tecnica, e` il momento del come fare, che, in Psichiatria, coincide con il rapporto interpersonale.

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stabilita` di questo servira` a comprendere meglio tutte le variazioni e le variabili che nascono all’interno del rapporto.

2.2. I fattori strutturanti 2.1.3. Il momento affettivo

` la dimensione di interesse per l’altro come E malato; interesse che non puo` essere disgiunto dai primi due momenti, altrimenti l’atto medico diventa completamente impersonale ed asettico. Questa dimensione e` la ‘‘filı`a’’ dei greci: cioe` una dimensione per cui l’atto medico diventa gratificante anche per chi lo fa. Gratificazione che non consiste in soddisfazioni di pulsioni parziali quali potrebbero essere il riconoscimento economico o l’esibizionismo per la riuscita della cura. L’interesse e` investimento affettivo e libidico sull’altro, ed e` fine a se stesso.

2.1.4. Il momento etico

Dal giuramento di Ippocrate in poi la professione medica e` sempre stata regolamentata da una specifica deontologia che in qualche modo limita il potere del medico. Potere che egli acquisisce non solo in virtu` delle sue capacita`, ma anche per la particolare situazione di debolezza della persona malata. Il terapeuta, a causa del suo lavoro, viene a conoscenza di fatti significativi ed importanti del paziente, inoltre il paziente tende ad affidarsi pienamente nelle mani di colui che ritiene potergli ridare la salute. Quindi e` possibile che il potere del medico possa diventare, in mancanza di una visione e dimensione etica, strapotere e violenza.

2.1.5. Il setting

` il momento contrattuale che regola i rapE porti: gli orari, gli onorari, il posto, la definizione del rapporto e di quella realta` materiale dell’incontro che il terapeuta tendera` a mantenere quanto piu` possibile stabile ed immodificata. La

Abbiamo descritto i fattori strutturali attinenti al terapeuta: ma bisogna tener presente che esiste un paziente con le sue angosce, le sue fantasie, i suoi bisogni, la sua teoria sulla malattia e soprattutto con le sue modalita` di reazione e al ` da questo incontro che disturbo e al rapporto. E si stabilisce il processo terapeutico. Ma se il processo terapeutico si costituisce dall’incontro del medico con il paziente, esso puo` strutturarsi in modi diversi a seconda di una serie di elementi che definiro` strutturanti perche´ delineano e condizionano le modalita` terapeutiche. Essi sono: a) b) c) d) e) f) g)

tempo; scopi; strumenti; livello di regressione del paziente; rapporto psicologico medico-paziente; domanda del paziente; setting.

Sulla base di questi fattori possiamo distinguere tre diverse modalita` del processo terapeutico.

2.2.1. Intervento terapeutico tecnico

` quello che si instaura, come caso paradigE matico, nell’intervento chirurgico per patologie acute, o in modo emblematico nel rapporto specialistico, soprattutto se richiesto dal medico curante. Questa modalita` e` sovrapponibile a quella che P. B. Schneider chiama ‘‘relazione del servizio di riparazione’’. Per essere concisi riportiamo in un quadro le caratteristiche fondamentali. a) b)

tempo: in genere e` molto ridotto da pochi minuti a qualche ora; scopo: in genere implica una attivita` diagno-

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c) d)

e)

f)

g)

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stica ed un tentativo di eliminare la causa nociva o comunque ridurre il danno in atto; gli strumenti: sono quelli specifici della metodologia medica; livello di regressione del paziente: e` molto elevato e si arriva a situazioni di totale passivita` del paziente rispetto all’agire del medico; rapporto psicologico medico-paziente: ridotto al minimo o quasi assente in certi casi. Spesso c’e` una situazione reciproca di anonimato; domanda del paziente: spesso assente; o comunque il paziente viene inviato allo specialista, piu` che andare spontaneamente. Per cui non c’e` una sua domanda; setting: molto preciso e rigido.

Questa prima modalita` non puo` essere definita una relazione terapeutica perche´ manca qualsiasi interazione-scambio tra terapeuta e paziente. Questo non toglie che, ove esistono le basi strutturali della terapia, l’intervento sia comunque terapeutico. Quindi, in campo medico, dobbiamo distinguere nell’ambito del processo terapeutico tra ` imintervento tecnico e relazione terapeutica. E portante sottolineare questo aspetto perche´ , come vedremo, le cose cambiano nell’ambito della psicoterapia, ove la relazione terapeutica costituisce la base e l’essenza della terapia.

2.2.2. Relazione terapeutica di sostegno

` il caso tipico del rapporto medico-paziente E all’interno di situazioni subacute o tendenti alla cronicizzazione. Si stabilisce tra il medico ed il paziente un rapporto che come vedremo ha connotazioni psicologiche significative e non potrebbe esserne privo, come invece puo` accadere nella modalita` precedente. Questo modello corrisponde a quello che P. B. Schneider chiama ‘‘modello di manutenzione’’. Comunque vediamo brevemente come esso si struttura: a)

il tempo: esso non puo` essere predeterminato. In genere si svolge nell’arco di anni, anche se il rapporto concreto con il medico

b)

c)

d)

e)

f)

g)

puo` essere saltuario. C’e` una tendenza alla cronicizzazione del rapporto; gli scopi: lo scopo fondamentale e` quello di migliorare lo status del paziente, ma soprattutto di aiutarlo a convivere con il proprio ` il caso tipico dove il paziente, disturbo. E piano piano, deve diventare medico di se stesso; gli strumenti: a parte quelli specifici della metodologia medica, in questo caso intervengono fattori che gia` sono di natura psicologica. Possiamo dire che il medico, piu` o meno saggiamente, utilizza strumenti come la suggestione, metodi pedagogici, e metodi piu` o meno autoritari. In fondo il medico cerca di spiegare e di convincere il paziente, circa la malattia, i rischi e le modalita` di gestione della sua vita; livello di regressione del paziente: in questo caso il livello di regressione e` minore, perche´ non si instaura una situazione di passivita`, ma certamente di dipendenza, che in qualche modo viene sostenuta proprio dal comportamento del medico il quale tende a mantenere un rapporto di autorita` con il paziente; rapporto psicologico medico-paziente: e` sempre presente, puo` variare, ma comunque e` improntato ad una dinamica relazionale ben precisa che e` quella che, potremo dire, si costituisce tra un adulto ed un bambino. Il medico e` colui che sa e puo`, il paziente e` quello che deve imparare e sottostare; la domanda del paziente: e` in genere piuttosto chiara ed esplicita. Cercare di diminuire o allontanare il malessere o nella peggiore delle ipotesi cercare di conviverci alla meglio; setting: molto variabile.

2.2.3. Relazione terapeutica globale o psicosomatica

` quella che si instaura (o si dovrebbe instauE rare) in tutte quelle situazioni acute o subacute di malessere ed ove la tendenza, sia del medico che del paziente, e` quella di arrivare ad un supera-

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

mento del disturbo. Essa si differenzia dalla relazione terapeutica di sostegno, per alcune modalita` che ora esamineremo: a)

b)

c)

d)

e)

f)

g)

tempo: il tempo e` sempre determinato. Puo` andare da periodi brevi a lunghi, ma c’e` sempre una precisa tendenza a terminare il rapporto: in questo senso non si tende alla cronicizzazione; scopo: lo scopo fondamentale e` il superamento della malattia non solo con l’attuazione di una precisa terapia su base eziologica, ma anche per la tendenza a stimolare nel paziente adeguate risposte di reazione. Sul piano psicologico, e` necessaria l’integrazione di questa esperienza nella vita del paziente. Evitando quindi processi di negazione o di rimozione e facendo sı` che la malattia possa costituire una esperienza significativa per il paziente, in ordine alla sua ulteriore crescita; strumenti: oltre a quelli specifici della metodologia medica, il terapeuta cerca di stimolare nel paziente adeguate risposte biologiche e psichiche alla malattia; livello di regressione: certamente, pur partendo da un livello di dipendenza, questa deve essere superata per far giungere il paziente ad una situazione di riconquistata autonomia; rapporto psicologico medico-paziente: e` ` chiaro che in questo molto importante. E caso il medico deve avere ben precise conoscenze non solo delle dimensioni psicologiche in genere, ma soprattutto della sua equazione personale, che se ben gestita puo` rappresentare un fattore terapeutico di non secondaria importanza. Esso e` basato su di una situazione di empatia, e soprattutto su di un interesse del medico oltre che per il paziente come malato, anche per il paziente come individuo; domanda del paziente: la domanda e` sempre ben precisa e si tende, in questa modalita`, ad una situazione di alleanza terapeutica; setting: molto preciso e definito.

Le tre modalita` sopradescritte si riscontrano in una situazione medica dove c’e` un terapeuta ed

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un paziente portatore di un disturbo organico (o prevalentemente organico) ed ove lo scopo e` determinato dalla capacita` del terapeuta di ridurrecontenere, fino a far scomparire, le cause della malattia, utilizzando la metodologia medica. Abbiamo distinto, nell’ambito della terapia medica, l’intervento tecnico dalla relazione terapeutica, a sua volta divisa in quella di sostegno ed in quella psicosomatica o globale.

3. Il rapporto medico-paziente in Psichiatria Ci soffermeremo ora a descrivere alcune situazioni particolari e specifiche del rapporto medico-paziente in ambito psichiatrico: il rapporto con lo psicotico e il rapporto mediato da psicofarmaci. Queste due specifiche situazioni sono qui descritte perche´ rientrano nell’ambito del rapporto medico-paziente in senso lato. Situazioni piu` specifiche saranno descritte nei capitoli riguardanti la psicoterapia.

3.1. Il rapporto con lo psicotico Lo psicotico, sia in fase acuta che cronica, puo` suscitare una sensazione di angoscia o di fastidio. I motivi sono diversi. Un primo motivo e`, se non l’incomprensibilita`, la certamente difficile comprensione dello psicotico. Quando ci troviamo di fronte ad uno schizofrenico, chiuso nel suo mutismo piu` assoluto, o di fronte all’angoscia del depresso endogeno o alla irriducibilita` del paranoico, non sempre e` facile calarsi in quella realta` psicopatologica per uscirne fuori subito dopo. La incomprensibilita` e la conseguente reazione di angoscia o di fastidio possono diminuire solo man mano che noi riusciamo a ritrovare dentro di noi, anche se in modo molto attenuato, quelle stesse dinamiche psichiche con le quali ci scontriamo e che nello psicotico si evidenziano in tutta la loro esasperazione e drammaticita`. Ma e` l’unica strada percorribile. Solo nel momento in cui ritroviamo dentro noi stessi il ri-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

cordo di un dolore o di una testarda opposizione, possiamo trovare la strada per arrivare a capire il depresso o il mutacismo dello schizofrenico, e cercare se non di spiegare la loro patologia, di comprendere il loro vissuto. Non si tratta tanto di immedesimazione, operazione piuttosto pericolosa se dovesse avvenire realmente, perche´ significherebbe diventare psicotici per capire lo psicotico, quanto piuttosto di trovare dentro di noi quelle emozioni che possono aiutarci ad aprire un canale di comunicazione. ` evidente che nel momento che ci poniamo E in questo modo, lo psicotico, pur rimanendo nella sua diversita`, non e` piu` totalmente alieno da noi e quindi si apre una possibilita`, anche se a volte minima, di contatto. Ma non e` solo l’incomprensibilita` che crea problemi. Spesso allo psicotico si associa una idea di incurabilita`, che certamente tende a far rinunciare a qualsiasi tentativo di terapia e privilegiare la scorciatoia del ricovero e del solo trattamento psicofarmacologico. Inoltre si avverte spesso una tendenza da parte del gruppo familiare (che e` sempre coinvolto nella genesi del disturbo psichico) a voler scaricare il paziente: questa pressione dei familiari, spesso, viene avvertita dallo psichiatra come un carico ed una responsabilita` eccessiva. Infine la mancata collaborazione del paziente e` fonte spesso di reazioni controtransferali negative. Tutti questi fattori rendono sempre molto complessa e difficile la relazione con lo psicotico; non e` infrequente che lo psichiatra possa reagire con modalita` certamente poco terapeutiche. Infatti in una situazione di angoscia lo psichiatra puo` reagire con tre modalita`: 1)

con l’indifferenza, ovverosia con l’annulla` la modalita` mento di tutta questa realta`. E dello psichiatra astratto che razionalizza tutto; oppure di quello che ribalta tutto sulla societa` quale astratta entita` generatrice di tutti i mali. Non e` un caso che sia quelli che credono nello schizococco, sia quelli che credono nella dimensione della societa` generatrice di tutti i mali tendono spesso, stranamente, ma non tanto, a confluire.

2)

3)

con l’angoscia che spinge all’iperattivita`, al fare assolutamente qualcosa; a vivere la stessa angoscia del paziente, ma in forma reattiva. Alla paralisi del depresso e dello schizofrenico si risponde con una modalita` iperattiva ed esibizionistica; con il delirio terapeutico, la malattia non esiste o se esiste si guarisce rapidamente. L’istituzione psichiatrica diventa una specie di catena di montaggio dove si rimettono in piedi in poche settimane schizofrenici gravi. Da questa impostazione nascono tabelle, teorie, prescrizioni psichiatriche tutte governate da un unico principio che e` quello della guarigione in poche settimane.

Se si riescono a superare queste situazioni controtransferali negative, allora e` possibile articolare una relazione terapeutica che ci permette di comprendere alcune situazioni. La prima cosa e` valutare esattamente la situazione psicopatologica del paziente non solo in ordine allo status attuale, ma anche rispetto al passato. Tale valutazione deve essere fatta acquisendo non solo il maggior numero di informazioni anamnestiche, ma soprattutto basandosi sulla situazione emotiva e di rapporto oggettuale dello psicotico, nello specifico del rapporto con lo psichiatra. La valutazione della psicopatologia deve accompagnarsi anche ad una corretta valutazione degli aspetti positivi, o comunque potenzialmente positivi del paziente. Ma non basta; bisogna anche saper valutare le possibilita` positive o negative, del gruppo con il quale lo psicotico vive e con il quale egli dovra` probabilmente continuare a vivere. Quindi l’analisi non puo` essere rivolta solo al paziente, ma deve essere rivolta all’intero gruppo familiare o sociale nel quale egli e` inserito e del quale bisogna valutare la patogenicita` o le capacita` di accettazione del paziente e dei suoi disturbi. Questo perche´, soprattutto nei casi cronici, occorrono tempi lunghi affinche´ lo psicotico possa acquisire quella autonomia che gli permettera` di potersi distaccare dal gruppo di origine: il che vuol dire che lo psicotico non e` forse piu` tale. All’interno di questa relazione globale, si puo` articolare un piano terapeutico che deve tener conto non solo delle possibilita` di un intervento

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

psicofarmacologico (se necessario), ma anche di un apporto psicoterapeutico e di un eventuale intervento di riabilitazione sociale.

3.2. Lo psichiatra ed il paziente nel rapporto mediato dal farmaco Se e` vero, come afferma Balint, che il medico nel rapporto con il paziente prescrive e somministra se stesso, e` pur vero che egli spesso prescrive dei farmaci che possono avere una duplice funzione: una strettamente farmacodinamica, collegata al tipo di farmaco (funzione questa che puo` ritenersi sufficientemente stabile ed indipendente), ed un’altra psicodinamica che invece dipende moltissimo dalle aspettative o comunque dalle dimensioni psicologiche del medico e del paziente. In questo senso, la somministrazione di un farmaco puo` avere numerose implicazioni: puo` essere un mediatore del rapporto medico-paziente, oppure puo` essere un sostituto, oppure puo` servire solamente ad allontanare il paziente, facendo finta di interessarsene. L’ultimo aspetto e` stupendamente descritto da A. Cechov nel racconto La corsia numero 6, quando Andrej Efimjc comincia ad essere emarginato ed il collega Chobotov si sente in dovere ed in grado di curarlo. Chobotov stimava suo dovere visitare di tanto in tanto il suo collega malato. Tutto in lui riusciva odioso ad Andrej Efimjc: e il viso ben pasciuto, il tono volgare condiscendente e la parola ‘‘collega’’, e gli stivaloni alti; la cosa piu` odiosa, poi, era che egli si reputasse obbligato a curare Andrej Efimjc e credesse in realta` di curarlo. Ad ogni sua visita gli portava una boccetta di bromuro e delle pastiglie di rabarbaro. (A. Cechov, 1892).

Il farmaco qui rappresenta la copertura dell’indifferenza e dell’ignoranza. Farmaco significa sia medicina che veleno, e rivela etimologicamente la propria dimensione di oggetto ambivalente, caricato com’e` di significati strani sia dal medico che dal paziente. Due esemplificazioni. La prima riguarda il medico.

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Si dice che una volta Dieulafoy urlo` inorridito alla madre di una ragazza che era sopravvissuta ad una grave malattia infettiva e che stava riacquistando la gioia di vivere: ‘‘le ho detto di farle mangiare una pera e non una mela, la vuol dunque far morire?’’ (P. B. Schneider, 1972).

Sull’altro versante, vale l’esempio riportato da E. Berne a proposito ‘‘dei giochi dello studio medico’’. Il prototipo della nostra contadina e` quella abitante di un piccolo villaggio bulgaro, malata di artrite, che vendette la sua unica mucca per andare a Sofia, a farsi visitare presso la clinica universitaria. Il professore l’esamino` e trovo` cosı` interessante il caso che alla lezione di diagnostica pratica la presento` agli studenti. Espose non solo la patologia, i sintomi e la diagnosi, ma anche la cura. La donna era in estasi, piena di rispettosa ammirazione. Prima di congedarla, il professore le dette una ricetta e le spiego` con maggiori particolari come doveva curarsi. La donna era sopraffatta dallo sfoggio di tanta dottrina, e se ne uscı` con l’equivalente bulgaro di ‘‘accidenti! lei e` un grand’uomo, professore!’’. Tuttavia non fece mai la cura. Primo: al villaggio non c’erano farmacie; secondo: anche se ci fossero state, non avrebbe mai osato disfarsi di quel prezioso foglietto. E poi non avrebbe avuto la possibilita` di seguire tutte le altre prescrizioni, le diete, l’idroterapia e via dicendo. E cosı` continuo` a vivere tutta rattrappita come era prima, ma piu` contenta, perche´ poteva raccontare a tutti la storia della meravigliosa cura prescritta proprio a lei dal grande professore di Sofia, che continuava a ricordare coscienziosamente nelle sue preghiere (E. Berne, 1967).

Quindi i farmaci possono assumere significati diversi essendo investiti, sia da parte del medico che del paziente, di svariati significati. Si puo` comprendere quindi l’importanza del saper distinguere gli effetti farmacodinamici da quelli psicodinamici che costituiscono l’effetto placebo.

3.2.1. L’effetto placebo

Per placebo si intende una sostanza farmacologicamente inattiva che viene somministrata come medicina. L’effetto placebo e` invece l’insieme delle reazioni soggettive o oggettive che si

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

manifestano nel paziente (o anche in soggetti normali che si sottopongono ad esperimento) dopo somministrazione di placebo. Apparentemente, sembrerebbe che gli effetti del placebo (che deriva dal latino e che significa piacero` ) debbano essere positivi. Invece possono esserci reazioni positive, nel senso del miglioramento dei sintomi, ma anche negative, nel senso, piu` che di un peggioramento dei sintomi, di comparsa di effetti collaterali spiacevoli. Numerosi studi sono stati fatti per poter prevedere quanti e quali persone presentino l’effetto placebo: infatti, a parte l’interesse scientifico, basti pensare a quanti farmaci, che sarebbe piu` corretto denominare placebo, vengono somministrati inutilmente. Dall’altro canto, la tendenza a somministrare sostanze piu` o meno inerti corrisponde (a parte la consapevolezza o meno che si ha di tale dinamica) a precise motivazioni sia da parte del paziente che ` la dinamica della voracita` da parte del medico. E del paziente che chiede ad ogni costo qualcosa; e la dinamica dell’indifferenza ed incapacita` da parte del medico di proporre risposte piu` precise ed articolate. Ma corrisponde anche alla sua paura di somministrare farmaci con effetti farmacodinamici reali che potrebbero comunque preoccupare il paziente e creare al medico dei problemi. Il tutto rischia di trasformare il medico in ‘‘guaritore’’; il che, se puo` essere comprensibile di fronte a malattie attualmente incurabili, e` ingiustificato e criminale ove esista una reale possibilita` terapeutica. Cosı`, tutti gli epatoprotettori, le vitamine, i ricostituenti sono tutti placebo che costano centinaia di miliardi in una drammatica dinamica di bramosia del paziente e di non-risposta del medico; circolo vizioso che si autopotenzia progressivamente. Comunque, seguendo J. Delay e P. Pichot, si e` evidenziato che circa il 33% dei pazienti presenta delle reazioni positive al placebo; quelle negative, che sono effetti collaterali molto vari, si presentano invece in una percentuale minore, al` chiaro che l’effetto placebo e` l’incirca il 20%. E collegato a vari fattori. Uno di questi e`, ad es., il tipo di malattia: infatti, si e` visto che in certe sintomatologie dolorose (soprattutto cefalee) si ha

un effetto positivo in circa il 62% dei casi; cosı` pure per l’ansia. Ma anche le modalita` di somministrazione incidono: per es., la via iniettiva e` quella piu` efficace, molto meno le supposte. Anche il colore e la presentazione del placebo hanno una certa influenza. Si noti che l’effetto placebo tende a diminuire nel tempo (tale fenomeno viene definito tachifilassi). I fattori piu` importanti pero` sono certamente il paziente ed il medico. Dalle varie ricerche sembra che i pazienti che presentano effetto placebo positivo siano individui estroversi, dipendenti, piuttosto ansiosi; quelli con effetto negativo sono soggetti piuttosto rigidi che si fidano poco, e che tendono a presentare una sintomatologia prevalentemente ad espressione somatica. Molto piu` difficile individuare quale sia l’implicazione del medico: certamente essa e` enorme. Se il medico crede fermamente ed intimamente all’efficacia del placebo, esso risultera` tanto piu` attivo. Proprio per evitare queste interferenze del medico e del paziente, da lungo tempo le sperimentazioni dei farmaci si fanno in doppio cieco. Cioe` si costituiscono due gruppi omogenei e si somministra ad un gruppo il farmaco ed all’altro placebo; e` ovvio che tutti i pazienti ritengono di prendere un farmaco, mentre il medico non e` a conoscenza se sta somministrando il farmaco o il placebo. Il giudizio sull’effetto pertanto sara` rimandato ad esperimento terminato, nel momento in cui una terza persona potra` dire quale dei due gruppi ha preso il farmaco e quali il placebo. Questo ed altri metodi ancora piu` complicati non riescono affatto ad eliminare il fattore placebo. Questo perche´, pur se non e` stato ancora ben definito nelle cause, l’effetto placebo e` collegato sicuramente a dinamiche inconsce, cioe` a fantasie inconsce dove la dinamica medicopaziente rimane sempre fondamentale sia se mediata da un farmaco sia se mediata da un placebo.

3.2.2. Effetto ed usi dello psicofarmaco

Se l’effetto placebo ha tanta importanza in medicina, ancora piu` significativo lo sara` nel rapporto psichiatrico. Infatti, e` ben chiaro che l’effetto placebo compare ed e` presente anche quan-

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

do si tratta di una sostanza farmacodinamicamente attiva; anzi, in questo caso le cose stranamente si complicano. Infatti, oltre all’effetto placebo si creeranno tutta una serie di dinamiche collegate proprio alla comparsa degli effetti positivi o degli eventuali effetti collaterali negativi del farmaco. L’introduzione degli psicofarmaci in Psichiatria ha certamente cambiato molte cose: la piu` importante e` quella di aver trasformato una Psichiatria fondamentalmente custodialistica in una Psichiatria piu` interventista e diciamo in qualche modo curativa. Quanto questo sia dovuto all’effetto squisitamente farmacodinamico e quanto ad un fenomeno di presa di coscienza dello psichiatra che, in tal modo, ha acquisito un ruolo ed una dimensione sentendosi in qualche modo in grado di poter trasformare la situazione patologica, non e` facile discernere. Certamente, l’entusiasmo della scoperta e della sperimentazione ha creato un interesse per il malato da parte dello psichiatra e degli infermieri che prima non c’era. Un fenomeno uguale si era visto accadere durante la cura degli psicotici con l’insulinoterapia: infatti, subito dopo la scoperta di questa metodica, si creo` intorno al paziente un clima estremamente attivo. Questo contribuı` a creare una serie se non di guarigioni, perlomeno di miglioramenti. Man mano pero` che l’interesse per questa metodica diminuı` o scomparve del tutto, gli effetti positivi che prima si erano riscontrati scomparvero, tanto che attualmente l’insulinoterapia e` stata abbandonata. Comunque, ritornando agli psicofarmaci, resta il fatto che con il tempo il loro numero sia salito notevolmente, e la continua immissione sul mercato di sempre nuovi farmaci desta qualche sospetto. Certo, da una parte, la ricerca farmacologica puo` produrre nuovi prodotti, ma si ha l’impressione che sia necessario tener vigile l’attenzione dello psichiatra e anche del paziente con la presentazione di sempre nuovi farmaci, in confezioni sempre diverse e per vie di somministrazioni sempre nuove. Quindi, possiamo dire che evidentemente, nonostante tutto, nella somministrazione dello psicofarmaco si punta anche sull’effetto placebo. Soprattutto nelle psiconevrosi, ove si evidenzia pero` maggiormente il fenomeno della tachifilassi, ovverosia

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della diminuzione progressiva dell’effetto placebo operato da un determinato farmaco. Vediamo quali possono essere le reazioni dello psichiatra e del paziente dal momento che il loro rapporto e` mediato dallo psicofarmaco. Lo psichiatra puo` utilizzare lo psicofarmaco con tre motivazioni diverse. 1)

2)

Per avvicinarsi al paziente. In questo senso, lo psicofarmaco e` usato fondamentalmente per diminuire o far scomparire alcuni disturbi che possono rendere difficile o impossibile il rapporto (ad esempio, un’intensa agitazione psicomotoria, un grave arresto psicomotorio, una grave crisi di angoscia); in questi casi, l’effetto sedativo o quello sbloccante (realmente connessi all’azione farmacodinamica) possono non solo favorire l’intervento dello psichiatra, ma agire sul paziente nel senso che, migliorando la sua sintomatologia, si accresce la fiducia nel medico. In questo senso, comunque, lo psicofarmaco non puo` non essere inserito all’interno di un progetto psicoterapico; e` abbastanza evidente che se il farmaco e` servito a rendere possibile un rapporto, questo deve poi proseguire nell’ambito di una dimensione psicoterapica, ed in questo caso il farmaco non solo non e` piu` utile, ma puo` divenire un ostacolo. Bisognera` poi comunque elaborare con il paziente la precedente assunzione del farmaco: le fantasie che il paziente ha elaborato nei confronti dello psicofarmaco vanno interpretate, altrimenti possono divenire delle resistenze. Per allontanare il paziente. Spesso la prescrizione del farmaco nasce solo da un desiderio di distanziare quanto piu` possibile la relazione con il malato: lo psicofarmaco non diventa un tramite, bensı` un muro contro il quale si spegne ogni richiesta del paziente. Questa dimensione, che esprime un rifiuto dello psichiatra nei riguardi del paziente e dei suoi problemi, deve poi essere logicamente razionalizzata, per evitare allo psichiatra di entrare in conflitto con la sua dimensione cosciente che ha scelto questo lavoro per aiutare gli altri; cosı` affermera`

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

che ‘‘non si puo` fare altrimenti, perche´ ci sono tanti pazienti, l’ambulatorio e` pieno e bisogna aiutare tutti’’. Il tutto viene razionalizzato in termini di economia: la frase comune e`: ‘‘certo, si potrebbe fare di meglio, ma il farmaco realizza un notevole risparmio di tempo e di energie’’. E, in effetti, bastano, a volte, pochi minuti per prescrivere uno psicofarmaco. Ma questo tentativo di razionalizzazione cadrebbe immediatamente se questi psichiatri riuscissero a vedere i loro pazienti nel tempo: quante volte ritornano, quante decine di minuti (che e` il tempo di una visita) si sommano negli anni e soprattutto i risultati: una progressiva e totale perdita di quel poco di vitalita` che c’e` sempre, anche nel piu` grave degli psicotici. L’uso dello psicofarmaco, in questo modo, puo` essere sintomo di una relazione psicotica, un caso di delirio a due, come fanno notare giustamente P. C. Racamier e L. Carretier (1970): ....si tratta di una negazione reciproca della specificita` dell’altro, dell’affossamento del rapporto medico sotto i fiori ben presto appassiti di un rapporto curativo. In psichiatria, dove i principali farmaci neurolettici smorzano e, per modo di dire, robotizzano la vita psichica e il comportamento dei pazienti, questa negazione della persona e della individualita` dell’altro puo` ampliarsi enormemente perche´ entra in perfetta risonanza con la depressione, come dice uno di noi, che costituisce la caratteristica fondamentale della psicopatologia psicotica ed in particolare della schizofrenia. Al limite, il farmaco prescritto e preso appare come un reale sintomo della relazione psicotica, intesa nel senso piu` ampio come una relazione ove la contrapposizione dello psichiatra diventa simmetrica, complice e prigioniero della posizione del paziente, ove l’una e l’altra posizione si completano, si collegano e si rinforzano vicendevolmente in un circolo vizioso privo di aperture verso modalita` di rapporto diverse e piu` sane. Al limite, anche gli scambi non si fanno piu` che attraverso e a proposito del farmaco, oggetto centrale, adorato o aborrito, ove prescrittore e utente non sono piu` che dei satelliti.

3)

Per controllare. Lo psichiatra tende a reprimere e controllare la sintomatologia del paziente attraverso lo psicofarmaco. Se tutto va bene, in questi casi si stabilisce un rapporto sadomasochistico, fatto a colpi di sintomi e prescrizioni mediche, all’interno di un rapporto ove vittima ed aggressore sono strettamente legati. ` il caso tipico dove spesso il controllo viene E agito mediante dosaggi anche minimi (a volte e` dubbia l’attivita` farmacodinamica) che non possono essere aboliti, pena la ricaduta del paziente. C’e` una collusione precisa tra lo psichiatra ed il paziente che in fondo richiede un controllo su quelle dimensioni psichiche che potrebbero sconvolgere la sua struttura, se dovessero riemergere.

Esaminiamo ora quali sono le modalita` di reazione del paziente allo psicofarmaco. Le reazioni sono divisibili in due gruppi, che corrispondono grosso modo alla possibilita` di un transfert negativo o positivo. Nel transfert positivo il paziente mostra una buona predisposizione nei confronti dello psichiatra, ha fiducia in lui e vuole essere aiutato. Lo psicofarmaco viene vissuto come oggetto buono e ` chiaro che quecome tramite con lo psichiatra. E sto transfert copre una dinamica molto precisa che e` quella della idealizzazione: investire di qualita` lo psichiatra, idealizzandolo. Ma ogni processo di idealizzazione comporta necessariamente due dinamiche: da una parte uno svuotamento delle proprie residue possibilita` libidiche trasferite sull’oggetto idealizzato, dall’altro un rapporto di bramosia, di oralita`, dove il farmaco rappresenta una parte dell’oggetto idealizzato che viene introiettato. Se questa dinamica non viene analizzata e risolta, ancora una volta si trasforma in un legame sadomasochistico che comporta, in una serie di richieste piu` o meno discontinue, un rapporto simbiotico a vita. Oppure la tendenza alla richiesta puo` farsi sempre piu` pressante: sia per la quantita` che per i tempi. Quando si innesca un meccanismo di questo genere, il rapporto con lo psichiatra e` destinato a deteriorarsi fino alla rottura, dovuta allo psichiatra stesso o al paziente. Infatti, o il paziente tende sempre piu` a peggio-

Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

rare nel tempo e a fare richieste sempre piu` elevate (e il fatto che queste non vengono soddisfatte lo induce a spostare la dinamica con un altro medico della citta` ed oltre); o e` lo psichiatra che interrompe questo circolo vizioso, trasformando questo rapporto benevolo ma instabile in ` il classico ricovero uno piu` decisamente ostile. E che segue ad una serie di trattamenti farmacologici la cui efficacia e` andata progressivamente diminuendo nel tempo. Nei casi invece di transfert negativo, si manifesta, o apertamente o in maniera dissimulata, un rifiuto del farmaco, oppure un aumento (o un’aumentata importanza) degli effetti collaterali negativi. Il paziente rifiuta i farmaci e, se e` costretto ad assumerli, li vive come situazioni pericolose; e` chiaro che l’insorgenza di un minimo disturbo collaterale viene vissuto come indizio del pericolo presupposto. Questo non succede solo con gli psicotici (con i quali l’imposizione dello psicofarmaco e` piu` facile o, per lo meno, piu` frequente), ma anche in casi di psiconevrosi, ove la somministrazione dello psicofarmaco viene vissuta, in genere, o come inefficace (creando spesso pericolosi giochi di aumento e cambiamento dei farmaci) o come fonte di effetti collaterali, sempre molto spiacevoli. Quali sono in genere le motivazioni al rifiuto degli psicofarmaci? Abbiamo parlato genericamente di un transfert negativo, ed esso puo` essere collegato a due motivazioni fondamentali. Una e` collegata al delirio di influenzamento o di venificio: testimonianza di sfiducia e di timore nei confronti dell’altro, portata agli estremi limiti (il farmaco puo` essere vissuto, allora, come il mezzo che produce l’intrusione e il danno da parte del nemico). L’altra e` collegata a fobie, soprattutto ipocondriache, piu` o meno esplicite (lo psicofarmaco viene vissuto, allora, come possibilita` di danno all’organismo, magari razionalizzata come timore di una generica intossicazione o di assuefazione allo psicofarmaco). Possiamo dire che queste reazioni negative sono statisticamente inferiori a quelle positive: ovvero, in maniera grossolana, possiamo trovare una certa sovrapposizione, sia in percentuale che per caratteristiche, con quelle che abbiamo visto avvenire come reazioni negative al placebo. Infatti, in questi casi,

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troviamo tra le caratteristiche della personalita` quella del non fidarsi e della rigidita`, tipiche sia ` chiaro che in del delirante che del fobico. E questi pazienti l’emergenza di un effetto collaterale reale (acatisia, sindrome neurodislettica, ipotensione ecc.) aumenta ulteriormente la resistenza allo psicofarmaco. ` logico che bisogna tener conto di numerosi E fattori nella prescrizione di psicofarmaci; vi sono situazioni in cui questi possono essere necessari, nel senso di rendere possibile un difficile rapporto del paziente con lo psichiatra (e sono casi ben precisi, corrispondenti, in genere, a quadri psicopatologici molto gravi); vi sono poi situazioni discutibili ove un piu` intenso lavoro di rapporto potrebbe renderli completamente inutili; e vi sono invece situazioni ove la prescrizione dello psicofarmaco rappresenta un ben preciso gesto, a dir poco antiterapeutico. La decisione non puo` basarsi solo su fattori tecnici, ma deve basarsi su considerazioni che lo psichiatra deve elaborare all’interno di una situazione complessa, ove vanno considerate le condizioni del paziente, la propria situazione controtransferale, la possibilita` del paziente di essere riaccolto all’esterno, le possibilita` curative o patologiche del gruppo all’interno del quale egli vive. Sapersi rendere conto dell’atteggiamento di transfert negativo o positivo del paziente puo` incidere molto anche sul dosaggio degli psicofarmaci, che sembrerebbe l’aspetto piu` squisitamente tecnico. Infatti se il paziente si fida e si lascia andare, cioe` vive una situazione di transfert positivo, possono bastare dosaggi molto bassi per ottenere un effetto sedativo o ipnotico. Se il paziente invece non si fida e vive una situazione di transfert negativo, e` inutile e pericoloso aumentare i dosaggi fino a limiti pericolosi e tossici. Sarebbe piu` opportuno e utile cercare di analizzare e ridurre la situazione negativa del paziente. Il pericolo maggiore nella somministrazione degli psicofarmaci nasce, comunque, dalla non conoscenza o sottovalutazione degli effetti farmacodinamici e di quelli psicodinamici e della loro eventuale interazione; questo comporta spesso una grande confusione. Gli psicofarmaci hanno certamente effetti farmacodinamici propri, che sono completamente indipendenti dall’uso con-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

trotransferale che lo psichiatra ne puo` fare, ovverosia l’effetto farmacodinamico e` indipendente dal fatto che lo psichiatra ci creda o meno. Le motivazioni dello psichiatra incidono invece sull’effetto psicodinamico dello psicofarmaco, che non e` certamente minore. Il problema quindi e` di rendersi sempre conto e soprattutto saper gestire con chiarezza il rapporto.

4. Conclusioni Il rapporto medico-paziente e le dinamiche ad esso connesse rappresentano la chiave di volta di qualsiasi lavoro medico ed in particolare di quello psichiatrico. Considerare il lavoro psichiatrico come un fatto tecnico e quindi neutrale e` molto pericoloso: esso determina sempre l’assunzione di un ruolo che a sua volta tende a coprire e nascondere le dimensioni interne e quindi reali. Colui che cura la psiche non puo` nascondersi che egli cura soprattutto con la psiche. Osserva giustamente Balint che il farmaco di gran lunga piu` prescritto e` proprio il medico, anche se questi poi di se´ non conosce bene quali siano la posologia, le indicazioni e le controindicazioni. Se la conoscenza della propria equazione personale e` il minimo indispensabile che si richiede al medico, evidentemente allo psichiatra bisogna chiedere qualcosa di piu`. Non solo la conoscenza delle proprie dinamiche, ma anche una loro trasformazione. Solo in questo modo lo psichiatra potra` uscire dalla dimensione ambigua (che di volta in volta si attribuisce e gli viene attribuita) di giudice, poliziotto, assistente sociale, per assumersi interamente la dimensione che gli compete, cioe` quella di terapeuta. Forse niente e` in grado di spiegare questo concetto meglio del significato etimologico di terapeuta, che vuol dire servitore. Infatti, una prima dimensione e` quella di essere al servizio del paziente, delle sue richieste, delle sue domande: essere al servizio vuol dire solamente rendersi conto dell’enorme potere che uno psichiatra ha e puo` esercitare ed utilizzarlo solo al servizio ed in funzione del paziente. ‘‘Al servizio’’ vuol dire tener conto solamente delle esigenze del paziente, cioe` non trasformarsi in schiavo, ma nemmeno in

tiranno. Per questo, non e` sufficiente un codice deontologico: ci vuole una dimensione interiore che in maniera naturale tolga allo psichiatra ogni tentazione di utilizzare il suo potere per se´ stesso, anziche´ per il paziente. Ma se questo e` fondamentale, non e` sufficiente per svolgere un’azione terapeutica; evidentemente e` necessario anche che egli possieda una teoria, una tecnica ed un metodo che rendano possibile il fine della terapia psichiatrica: cioe` alleviare la sofferenza psichica e soprattutto trasformare la persona, aumentando la sua liberta` ed autonomia. In fondo, e` solo il fine, lo scopo, che diversificano profondamente l’atto chirurgico da ` solo la tecnica, il metodo e lo scopo un crimine. E di dare la salute al paziente che trasformano un coltello in un bisturi. Anche lo psichiatra dispone di qualcosa che somiglia ad un bisturi; l’unico guaio e` che questo bisturi non lascia segni evidenti. Solo nel momento in cui una persona ha una reale possibilita` (teorica e metodologica) di cura e la sa usare, e` un terapeuta; altrimenti puo` essere o un imbroglione o un individuo pericoloso. Come si vede, il problema della Psichiatria, oltre ogni teoria e metodologia, e` soprattutto il problema della formazione dello psichiatra.

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Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica

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50 Il consenso informato Francesco Tucci - Serena Tucci Parole chiave consenso informato; comunicazione; deontologia; negozio giuridico; atto giuridico; stato di necessita`; privilegio terapeutico; codice deontologico

Negli ultimi decenni il rapporto medico-paziente si e` radicalmente modificato: da una situazione di totale fiducia e di massima autorita` del medico si e` giunti ad una situazione di sfiducia, spesso di sospettosita`, da parte del paziente. Numerosi i motivi, che comunque non sono tutti imputabili al medico: stranamente si e` determinata una relazione inversamente proporzionale tra capacita` terapeutica della medicina e grado di fiducia da parte del paziente. Comunque bisogna prendere atto di questa inversione di tendenza che mette sempre piu` al centro dell’atto medico la liberta` e l’autonomia di scelta del paziente: tanto che, secondo una giurisprudenza sempre piu` accreditata, l’atto medico e` considerato potenzialmente illegittimo e lesivo e pertanto perseguibile. Atto illegittimo che puo` essere rimosso solo da uno stato di necessita`, nei casi previsti dalla legge, oppure dalla decisione del paziente che, dopo una corretta informazione, puo` dare il suo consenso. Pertanto il cosiddetto consenso informato che, giustamente, l’autore tende a dividere in due momenti: informazione completa e corretta da parte

del medico e consenso libero da parte del paziente, diventa atto fondamentale e parte integrante di qualsiasi procedimento diagnostico e terapeutico. Poiche´ la validita` del consenso informato dipende dalla capacita` di intendere e di volere del paziente, risulta chiaro che in campo psichiatrico le difficolta` possono essere ancora piu` complesse. Comunque, fatta salva la liberta` del paziente di accettare o meno l’intervento terapeutico, non bisogna dimenticare che l’imperativo fondamentale del medico rimane quello di agire secondo scienza e coscienza nell’interesse del paziente. Il presente capitolo espone in maniera chiara ed esauriente la problematica del consenso informato: se la lettura non risultera` immediatamente comprensibile, cio` e` dovuto sia alla particolare difficolta` del tema, sia alla scarsa tendenza del medico a comprendere il linguaggio giuridico. Proprio per una migliore comprensione viene fornita qui di seguito una precisazione su due concetti fondamentali: negozio giuridico e atto giuridico. Negozio giuridico: e` quel contratto tra privati, che non trova alcun ostacolo di legge, stipulato

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

tra due parti che ne hanno volonta`, diritto e capacita` giuridica, e che assume, mediante l’accordo formale, valore giuridico a tutti gli effetti. Esempio tipico di un negozio giuridico e` la compravendita tra il legittimo proprietario di un immobile (maggiorenne, non inabilitato e non incapace) ed un acquirente che abbia le stesse caratteristiche. Con la formalizzazione (firma) del contratto si assumono diritti e doveri che la legge e` poi tenuta a far rispettare.

Atto giuridico: e` un atto, attestato unilaterale, che ha di per se´ valore giuridico. Esempio di atto giuridico e` un certificato medico, un estratto di nascita o di matrimonio rilasciato da un ente pubblico. Comunque e` necessario tener presenti le indicazioni sopra riportate, mentre per ulteriori approfondimenti rimando ai capitoli “Il rapporto medico-paziente e la relazione terapeutica” e “La malpractice in psicoterapia”. * * *

Il consenso informato

1. Introduzione

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1.1. Un po’ di storia

che nulla dovesse essere rivelato al paziente al quale pero` era sempre dovuta una promessa di guarigione. I pazienti comunque erano sempre tenuti alla stretta osservanza delle disposizioni del medico. Fu solo nel tardo 1700, con l’avvento del pensiero illuministico, ad opera di Benjamin Rush, che inizio` una sorta di demistificazione della medicina e conseguentemente il riconoscimento della opportunita` di dare al paziente informazioni circa il suo stato di salute e sulla terapia in atto. Ciononostante il principio che informava questo comportamento non era dettato dal riconoscimento del diritto di autodeterminazione dell’uomo, bensı` dalla convinzione che la consapevolezza del malato potesse determinare un beneficio terapeutico. L’operato e le decisioni del medico rimanevano comunque indiscutibili. Siamo ormai agli albori della teorizzazione della cosiddetta alleanza terapeutica degli autori anglofoni (therapeutic alliance). Pochi anni dopo, Thomas Percival pubblico` un fondamentale lavoro che fu la base del primo codice di deontologia medica della American Medical Association (1847). In esso era codificato il diritto del malato alla informazione pur persistendo il diritto del medico alla benevolent deception, inganno caritatevole, nei casi di prognosi sfavorevoli. Ci vollero le edizioni del 1957 e quella immediatamente successiva del 1980 per giungere, secondo l’American Medical Association, alla teorizzazione moderna dell’informed consent. Furono il processo e la sentenza di Norimberga e la dichiarazione di Ginevra del 1948 ad introdurre internazionalmente il principio del diritto del malato all’autodeterminazione ripreso ormai da tutti i codici di deontologia medica.

La filosofia pitagorica ed il successivo corpo Ippocratico consacravano il diritto del medico di non far partecipe il malato delle sue condizioni di salute e del tipo di terapia che egli intendesse intraprendere, contegno dogmatico sanzionato in seguito da Galeno che per molto tempo fu presente nelle regole della professione. Nel Medio Evo Henry de Mondeville, sposando in pieno la tradizione ippocratica, asseriva

Dunque quello che un tempo era considerato un affidamento cieco e fiducioso del proprio stato di salute al medico, curante o specialista che fosse, si e` trasformato in quella che oggi viene indicata come “alleanza terapeutica” medicopaziente cui si giunge correttamente, sotto il profilo deontologico, giuridico e medico-legale, una volta posta da parte del medico la diagnosi, con la dettagliata informazione della situazione sanita-

L’attivita` medica e` sempre piu` legata ai concetti di rispetto del malato, dei suoi diritti, della sua consapevolezza, nonche´ della affidabilita` comportamentale, oltre che tecnica, del medico. Aggiungasi che negli ultimi anni sono mutati l’atteggiamento dei pazienti, le norme deontologiche e giuridiche ed il complesso delle consuetudini che hanno regolato sinora il rapporto medico-paziente, atteggiamento che ha determinato un vertiginoso aumento della conflittualita` tradottasi in un brusco innalzamento delle cifre relative alle vertenze per responsabilita` professionale. Il 1997 ha prodotto in Italia un disavanzo delle compagnie di assicurazione di circa 500 miliardi (250 incassati per premi, 750 sborsati per coprire i rischi assicurati). Che trattasi di un mutamento di atteggiamento e non di altro e` confermato dal fatto che questo livello di conflittualita` si e` raggiunto proprio in un momento in cui la medicina e` capace di offrire ai pazienti il piu` alto livello di capacita` professionale e tecnologica e la “sicurezza sociale” copre gratuitamente tutti i rischi gravi di salute che possono presentarsi nella vita di un cittadino. Dobbiamo convincerci che in questo momento storico sta montando verso la classe medica una sorta di diffidenza ed una disaffezione che porta a ritenere il sanitario colpevole di ogni mancata guarigione e colpevole anche di aver tenuto nel rapporto con il paziente o con i suoi familiari un atteggiamento non conforme alle norme deontologiche e giuridiche.

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ria, delle vie ritenute necessarie per correggere le anomalie o eliminare i fattori patologici, con la spiegazione della scelta terapeutica, con la prospettazione dei rischi, con la elencazione di possibili vie terapeutiche alternative. In altre parole il medico deve ottenere la fiducia del paziente e quindi il consenso ad agire col comunicare — oltre la diagnosi — la sua proposta terapeutica, motivandone peraltro la scelta. Cio` comporta non solo una “perdita di potere” da parte del medico, ma costituisce una forma di aggravio dei costi di gestione, sia nel pubblico che nel privato, a causa del dovere di dare — quasi sempre personalmente — informazioni, accertarsi che esse siano state comprese, dare tempo al paziente di meditarci, raccogliere in un momento successivo il suo eventuale consenso. Tale iter, che potrebbe sembrare a latere della attivita` sanitaria vera e propria, e` invece parte integrante dell’atto medico, essendone legalmente perseguibile la eliminazione o soltanto l’incuria nel seguire correttamente la sua impostazione. Il cambio di mentalita` imposto dalla ormai consolidata impostazione giuridica e giurisprudenziale appare penalizzante per il medico di vecchia impostazione culturale, abituato ad essere libero nelle sue scelte e negli eventuali cambiamenti di rotta, ma non puo` in alcun modo essere sottovalutato a meno di non voler incorrere in rischi aggiuntivi e dolorosi contenziosi. La attuale condizione etico-deontologicogiuridica non deve comunque essere vissuta come una frustrazione, ma deve essere affrontata nello spirito ippocratico di ricerca piu` attenta della fiducia e del consenso. Se nel tempo, per motivazioni diverse delle quali non ci sentiamo in questa sede di analizzare le cause remote, il carisma del medico onnipotente e` venuto meno, questa deve essere una occasione per riconquistare non il potere sconfinato, ma il carisma che merita l’uomo al servizio della societa` e dei suoi simili.

Sotto il profilo psicologico, poi, il medico, il chirurgo o lo psichiatra debbono ricercare nelle richieste del paziente le motivazioni recondite che lo portano spesso a richiedere prestazioni. Se prendiamo il caso della chirurgia plastica, il chirurgo deve scoprire nella richiesta della ricostruzione di un seno o della correzione del profilo di un naso la richiesta subcosciente del richiedente il quale in realta` non vuole un intervento finalizzato ai problemi del seno o del naso, ma vuole, dall’intervento, acquisire una migliore sicurezza personale, una maggiore autostima estetica. Vuole sentirsi piu` presentabile, attraente, seducente. Sempre nella chirurgia di carattere estetico, il medico specialista deve essere ben certo che la richiesta non provenga da una situazione nevrotica che finisce col far pensare al paziente che la sua insoddisfazione dipenda dalla forma del naso, dalla presenza di qualche ruga, di una miopia che lo obbliga a portare occhiali o da un eccesso di peso. In questo caso la corretta conclusione della terapia chirurgica dara` un miglioramento temporaneo, ritornando il paziente ad avere la stessa sintomatologia nevrotica, forse anche peggiorata dalla delusione di non essere riuscito nell’intento, cosa che causera` insoddisfazione e possibile inizio di un contenzioso con il terapeuta, mentre egli dirigera` la sua attenzione verso altri possibili organi bersaglio. Il momento della informazione deve assumere un ruolo in cui si stabilisca la “comunicazione” tra medico e paziente, come meglio espliciteremo in seguito, che segua una direzione alternante medico-paziente e paziente-medico al fine di informare e comprendere, stabilire e verificare il consolidarsi di una empatia col soggetto in terapia ed assolvere cosı` al dovere deontologico-giuridico che permettera` l’espressione di un consenso valido, ma anche permettere al medico di penetrare le reali intenzioni del paziente, poter effettivamente proporre un giusto trattamento o, al limite, rifiutare la prestazione. ` questo il momento in cui ha la sua piu` alta E espressione il cosiddetto rapporto medico-paziente, che segue regole deontologiche ben precise, ma che istaurandosi al momento della comunica-

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zione finalizzata alla informazione deve mantenersi sui binari tracciati dagli estensori dei codici deontologici — da Ippocrate ai tempi nostri. La giurisprudenza annovera come attivita` negligente, quindi colposa, la mancanza di una informazione espressa in maniera chiara e soprattutto comprensibile dal paziente il quale puo` avere un livello intellettivo e culturale insufficiente, ma non per questo deve essere tenuto all’oscuro delle sue condizioni di salute e del programma terapeutico del medico. Non e` giuridicamente lecita, nella maggior parte dei casi, la scriminante di aver fornito una informazione incompleta al fine di non ingenerare angosce o paure nel paziente, sentimenti che potrebbero compromettere l’accettazione della terapia, pur se detto comportamento venga posto in essere a fin di bene, al fine cioe` di far accettare al paziente un trattamento indilazionabile. Tale assunto giuridico appare dal punto di vista squisitamente medico non completamente condivisibile. Vedremo in seguito come si manifestino perplessita` anche tra i giuristi. Dice Anna Maria Princigalli, che e` uno dei maggiori teorici dell’argomento “responsabilita` professionale”, nel suo libro La responsabilita` del medico: «Da un lato il medico puo` reputare opportuno tacere al malato i rischi del trattamento, per evitare angosce e paure che possano compromettere la guarigione, dall’altro i giudici potrebbero riconoscere nella decisione del medico una colpa per il fatto di non aver adeguatamente informato l’interessato sulle conseguenze pregiudizievoli cui veniva esposto». Non valgono comunque le generiche dichiarazioni, anche scritte, ancora in uso in molti nosocomi, di acconsentire a qualsiasi trattamento medico e chirurgico che i sanitari dell’ospedale ritengano di dover praticare. L’informazione — personalizzata, corretta, esaustiva e ben compresa — e` la base su cui poggera` la validita` del consenso, atto indispensabile perche´ un medico possa iniziare la sua attivita` terapeutica, sia essa di natura clinica che farmacologica e chirurgica. Il diritto del malato a decidere in piena co-

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scienza e liberta` se, da chi e come farsi curare discende d’altronde da un dettato costituzionale. L’art. 32 della nostra Carta costituzionale recita appunto: «Nessuno puo` essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Contro o in assenza di una volonta` esplicita del paziente e` lecito solo intervenire se ne va della sua vita o dell’integrita` fisica. Concettualmente il legislatore ha considerato difatti il bene della vita come prioritario rispetto al diritto di autodeterminazione. Sempre l’art. 32 della Costituzione considera la tutela della salute, oltre che come fondamentale diritto dell’individuo, anche come interesse della collettivita`. Vedremo come alcune malattie di competenza psichiatrica, cosı` come malattie contagiose e pratiche di vaccinazione, possano rientrare nella esimente prevista dalla Costituzione. L’informazione e` dunque un atto medico diligente che il paziente valutera` e su cui formera` il suo convincimento, quindi formulera` il consenso. ` per questo che il termine, universalmente E entrato nel vocabolario giuridico, di “consenso informato” e` leggermente fuorviante perche´ fa apparire l’obbligo come un atto unico ed unitario, sia formalmente che temporalmente. I due momenti, quello dell’informazione e quello del consenso, debbono essere invece disgiunti perche´ il paziente, una volta ricevute le informazioni, deve avere la possibilita` di meditare, valutare la proposta terapeutica prima di formalizzare il tempo successivo, quel consenso che dara` giuridicamente via libera all’azione del medico. Noi abbiamo sempre preferito separare i due termini e parlare di “INFORMAZIONE E CONSENSO” anziche´ di consenso informato. Il CONSENSO e` il conferimento al medico del potere di agire con mezzi terapeutici, farmacologici, chirurgici o psicologici contro un proprio stato patologico. Esso e` giuridicamente valido se dato da persona capace, informata e pienamente consapevole del significato dell’atto che il terapeuta andra` a compiere sulla sua persona.

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2. La natura giuridica del consenso La volonta` del paziente assume forza centrale nella valutazione della liceita` o illiceita` dell’intervento curativo ed assume forma giuridica nella formulazione del consenso. La costruzione teorica italiana della formalizzazione del consenso non ha trovato sinora una rigidita` metodologica come nella dottrina tedesca. La giurisprudenza di questo Paese, difatti, ha dimostrato un estremo rigore nel legare alla completezza della informazione, e quindi al consenso, la liceita` di ogni atto medico nel senso che la volonta` positiva del paziente, e la sua libera decisione, verrebbero interpretate come unico atto capace di togliere antigiuridicita` all’azione “lesiva” del trattamento terapeutico. La dottrina francese riconosce invece quasi un collegamento “funzionale” tra l’obbligo del medico di rispettare la libera decisione del paziente e quello della salvaguardia della sua salute. Il problema fondamentale nel dare regole al rapporto giuridico professionale tra medico e paziente sta nella oscillazione interpretativa della norma: se collocarlo, cioe`, nella categoria dei “negozi giuridici”, quindi nel novero dei contratti o dare a questo un insieme di regole capaci di configurare la validita` o la illiceita` dell’intervento terapeutico legandolo ad un “atto giuridico”, collegato strettamente alla libera volonta` del paziente. Questo secondo schema, che trova origine nella dottrina tedesca, va assumendo ruolo fondamentale anche in quella italiana e tende a configurare il consenso all’intervento come un atto giuridico in senso stretto. I fautori della tesi che vorrebbe attribuire al consenso natura e caratteri di un negozio giuridico muovono dalla considerazione che in esso si ravvisi una manifestazione di volonta` rivolta alla realizzazione di uno scopo lecito e quindi di un effetto giuridico, consistente nella attribuzione al professionista medico di un mandato a curare, sempre verificabile e sempre revocabile. Dato che l’esercizio di un diritto non puo` mai configurarsi come comportamento illecito, il consenso escluderebbe l’antigiuridicita` penale ed ogni responsabilita` civile.

La linearita` della teorizzazione trova anche un valido alleato nella sua praticita` di applicazione poiche´ al consenso potrebbero essere estese tutte le regole proprie del negozio giuridico (vizio di volonta`, capacita` ecc.). Piu` recentemente, pero`, anche per la necessita` di approfondire le categorie giuridiche oltre il dogma, tenendo cioe` in debito conto le realta` sociali, politiche e culturali entro cui si e` chiamati ad operare, la concezione dell’identita` col negozio giuridico ha progressivamente perduto i favori dei teorici. E le cause di critica piu` frequenti hanno proprio riguardato la disciplina della valutazione dei vizi del volere e della capacita` di consentire. La capacita` di fornire correttamente una dichiarazione di volonta` e` difatti dominata nel negozio giuridico da elementi di certezza che corrispondono alla capacita`/incapacita` legale, alla incapacita` di fatto ed alla facile rilevanza della capacita` di intendere e di volere del minore e dell’interdetto. L’atto di consenso ad operare sul proprio corpo muove invece dalla esigenza di slegare il consenziente dalle rigide regole giuridiche della capacita`. Non si terrebbe, secondo la prima tesi, debito conto della possibilita` di un minore di esprimere validamente, proprio perche´ trattasi di atti destinati ad incidere sulla propria persona, il suo consenso/dissenso. Lo stesso discorso potrebbe divenire valido per gli incapaci legali, per gli interdetti. Da queste considerazioni nascerebbe la necessita` di dedicare al capitolo del consenso una dignita` a se´ stante, svincolata dalla disciplina del negozio giuridico. Come vedremo, anche il collocamento del consenso nella categoria dell’atto giuridico trova fautori e scettici. Secondo i fautori il consenso non si tradurrebbe, per i soggetti, nell’assunzione di diritti e doveri, ma in una semplice autorizzazione a svolgere sul proprio corpo una attivita` terapeutica. Ne discenderebbe un minore vigore nella espressione di volonta`. Dato che per gli atti giuridici si

Il consenso informato

considerano sufficienti requisiti di capacita` e di volonta` diversi e minori che per i negozi, ne deriva che, ai fini della validita` del consenso ad un trattamento terapeutico dovrebbero operare criteri di minore rigidita` e sostanzialmente analoghi a quelli stabiliti, in materia di imputabilita`, nel settore dell’illecito e in quello del reato. Tale tesi pero` e` facile critica da parte di coloro che individuano in tale autorizzazione uno dei possibili modi con cui si manifesta l’autonomia dei privati e quindi il ritorno al negozio giuridico. Il peso e la consistenza dell’elemento volitivo, per la delicatezza e l’importanza delle conseguenze, non potrebbero essere inferiori a quelli previsti per l’istituto del negozio giuridico: nella manifestazione del consenso ad un atto terapeutico invasivo, superano addirittura il livello previ` difatti ben diverso il sto per gli atti negoziali. E grado di idoneita` a rappresentare gli effetti di un comportamento che potrebbe essere lesivo di interessi altrui; altro e` la completezza necessaria per operare una scelta valida in merito a consentire o meno un intervento medico sulla propria persona. La differenza starebbe solo nel modo di valutare il grado di maturita` del soggetto e quindi la sua capacita` di esprimere un consenso valido. Se, dall’analisi appena fatta, risulta evidente che l’istituto del consenso trova ragioni di contrasto nella sua collocazione tra il negozio giuridico e l’atto giuridico in senso stretto, sembra percorribile una terza via che porterebbe a catalogare il consenso come negozio giuridico sui generis, qualificazione che appare oggi la piu` consona a definire una dichiarazione di volonta` con cui il paziente dispone coscientemente del diritto di inviolabilita` del proprio corpo accettando l’esercizio di un’attivita` che potrebbe essere giudicata come lesiva. In linea con questa tesi sono peraltro una serie di circostanze giuridiche che vanno dal consenso alla diffusione della propria immagine, alla idoneita` del minore a concludere un contratto di lavoro, ad alcune situazioni che interessano la sfera sanitaria quali gli atti di disposizione del proprio corpo (art. 5 del c.c.), le norme relative alla liberta` sessuale ed all’interruzione di gravidanza.

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In altre parole, il minor vincolo che la qualificazione del consenso assume nella formula del negozio sui generis permette una maggiore apertura riguardo ai problemi della manifestazione e dei requisiti del consenso accettando soluzioni non dogmaticamente ristrette da un rigido modello teorico. La individuazione del bene protetto tramite il consenso e conseguentemente del ruolo attribuito alla volonta` del paziente e` fondamentale nella qualificazione della liceita` o meno dell’atto terapeutico. Sono evidenti le implicazioni che possono prospettarsi in tema di capacita` del paziente a ` fondamentale che, prestare il proprio consenso. E secondo tali premesse, il medico debba rispettare il dissenso del malato anche quando questi non abbia raggiunto la pienezza delle sue possibilita` intellettive e volitive. Soltanto un consenso proveniente da soggetto in possesso di piene capacita` decisionali toglie all’atto medico la caratteristica della antigiuridicita`. Occorrera` inoltre che detto consenso si basi sulla esatta conoscenza della situazione sanitaria in ogni suo aspetto. Il paziente deve decidere senza ignorare la natura, la gravita`, la prognosi ed i possibili esiti che l’atto terapeutico prospetta per la sua malattia. Dovrebbe spettare al medico prendere l’iniziativa nell’informare il paziente indipendentemente da una sua esplicita richiesta. Egli ha il dovere di correggere una errata rappresentazione della realta` e deve curarsi perche´ la determinazione di volonta` del paziente si formi sempre in assenza di dubbi e immune da vizi. Solo attraverso la perfetta conoscenza della situazione da parte del paziente e` possibile giustificare un abbassamento del livello dei requisiti richiesti per attribuire validita` al consenso; cio` comporta anche l’accoglimento di soluzioni meno formali nella manifestazione di volonta` e comunque tali che si distacchino dalle regole valide all’interno dello schema del negozio giuridico (atto di consenso non formalizzato; consenso presunto o implicito nella stessa richiesta di prestazione d’opera). Emergono pertanto i tratti distintivi che caratterizzano una linea interpretativa che giudica legittimo il trattamento salvo dissenso dall’altra

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teorizzazione in cui l’atto medico e` valutato come una lesione, scriminabile solo col consenso del paziente. I due orientamenti comporterebbero una differente disciplina in tema di informazione. Qualora il medico fosse considerato obbligato ad assumere l’iniziativa per verificare e promuovere la conoscenza dei fatti collegati all’atto terapeutico (seconda ipotesi), l’intervento medico si configurerebbe sempre come un potenziale illecito, valu` tato cioe` alla stregua di una attivita` vietata. E solo in forza di queste condizioni che il medico in quanto soggetto che pone in essere un comportamento invasivo sara` ritenuto responsabile di illustrare al paziente la situazione in ogni suo aspetto specificando le ragioni che a suo parere rendono utile o indispensabile l’atto terapeutico. Spettera` comunque al paziente l’onere di dimostrare di non aver ricevuto sufficienti informazioni o di non averne ottenute in misura adeguata alla formazione della consapevolezza che lo ha portato ad esprimere un consenso. In questa diversita` di opinioni non vanno tralasciati alcuni rilievi di ordine pratico: —







Non sara` facile individuare il grado di consapevolezza del paziente e di conoscenza approfondita della situazione clinica, che si tramuta giuridicamente nella capacita` di prestare il proprio consenso. Il giudice si trova ad operare in un momento di contenzioso, nel quale, ovviamente il paziente sosterra` di non aver ricevuto informazioni valide mentre il medico sara` pronto a testimoniare il contrario. Spesso il rapporto personale medico/paziente si esaurisce in un colloquio senza testimoni. Trasferire sul medico la totale responsabilita` della capacita` del paziente di prestare consenso puo` tradursi in un freno all’attivita` terapeutica, specie chirurgica. ` parimenti difficile, per non dire impossiE bile per il medico, avere consapevolezza della comprensione piena del paziente quando le informazioni debbono necessariamente entrare in una sfera a lui non usuale. Nonostante i dubbi e le diversita` dottrinali, il

regime di negozio giuridico, sui generis a noi sembra il piu` appropriato ad un inquadramento teorico. Questa collocazione permette anche di non assumere rigidi schemi comportamentali, dal momento che estremamente elastici appaiono il livello di comprensione del paziente ed il suo conseguente grado di capacita`, cose che andranno valutate da caso a caso senza la falsariga di schematismi precostituiti. Pertanto potremo dire che, dal punto di vista strettamente giuridico, il consenso e` un negozio giuridico che si contrae al momento tra medico e paziente; ma e` anche un contratto professionale che distingue il creditore dal debitore attribuendo a ciascuno diritti e doveri ben catalogati. Informazione e consenso, nella loro forma attuale, sono diritti giurisprudenziali derivando dalle sentenze e dalle interpretazioni che di detti atti hanno fatto le corti italiane. Il diritto vigente prevede comunque che il paziente che si accinge ad un determinato trattamento medico o chirurgico sia informato preventivamente circa le modalita` di attuazione e i rischi ad esso connessi, onde fornire consenso all’opera del sanitario. Informazione e consenso, che una volta non erano considerati di primaria importanza se non nella chirurgia, oggi sono in evidenza anche nella medicina di tutti i giorni, quella ambulatoriale. Ne´, d’altro canto, il medico puo` fornire una informazione incompleta al fine di evitare angosce e paure nel paziente che possano compromettere l’accettazione dell’atto diagnostico-terapeutico poiche´ in caso di infortunio i giudici potrebbero rilevare nel comportamento del medico una colpa per difetto di informazione. La spersonalizzazione del rapporto tradizionale medico-paziente conseguenza della medicina di e´quipes non esime chi di dovere dall’assicurare al malato i diritti riconosciuti per legge. ` talmente abituale difatti la presunzione di E tacita accettazione del trattamento di un paziente solo perche´ ricoverato presso un reparto ospedaliero, al punto che anche il piu` scrupoloso dei medici finisce per dimenticare questo suo pur importante dovere.

Il consenso informato

Non valgono le generiche affermazioni di consenso che alcuni ospedali fanno sottoscrivere ai pazienti in entrata. Un caso abbastanza recente di una vertenza che ha riguardato un’e´quipe di oculisti in servizio presso una clinica universitaria ha sorprendentemente visto il Giudice istruttore non accettare, considerandolo “una mera formalita` burocratica”, un consenso firmato dal paziente all’atto del ricovero che cosı` si esprimeva: «Il sottoscritto autorizza l’esecuzione di tutte le indagini diagnostiche, delle tecniche di anestesia e degli interventi chirurgici ritenuti necessari dai sanitari.» Il consenso, dice la sentenza, «implicito nei trattamenti di normale impegno, necessario esplicitamente nei trattamenti piu` complessi, impegnativi o pericolosi, legittima l’opera del medico». Il medico nella illustrazione del trattamento deve, con parole appropriate al grado di cultura del malato, rimuovere nel suo interesse eventuali incertezze e perplessita` mirando ad ottenere quel consenso che, unico, rendera` possibile l’effettuazione della prestazione. ` a questo proposito utile ricordare che al E secondo comma dell’art. 1176 del c.c. (diligenza nell’adempimento) si legge: «Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attivita` professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura della attivita` esercitata». La diligenza pertanto va esercitata non solo nella attivita` diagnostico-terapeutica, ma pretesa anche nelle fasi preliminari che riguardano informazione e consenso. Connesso con il dovere dell’informazione e` il diritto del malato di decidere in piena liberta` se farsi curare, il diritto cioe` di prestare o meno il proprio consenso. Tale diritto deriva direttamente dall’art. 32 della Costituzione, che dice: «nessuno puo` essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Solo un interesse della societa` puo` giustificare l’obbligo di terapia (malattie contagiose, vaccinazioni obbligatorie, alcune malattie psichiatriche). In definitiva, secondo il diritto corrente non solo in Italia, perche´ il paziente possa prendere

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una decisione meditata per acconsentire al trattamento egli deve essere adeguatamente informato circa i rischi e le probabilita` di successo, essendo l’unico in condizioni di decidere e valutare il rapporto tra danno temuto e vantaggio sperato. Il dovere di informazione «non ricorre solo nel caso in cui l’intervento, qualunque possa essere l’esito, si palesi necessario ed urgente, ed il paziente non si trovi in grado di poter esprimere una cosciente volonta`, favorevole o contraria». Ovviamente spetta al medico rendere possibile questa valutazione. Contro la volonta` del paziente e` lecito agire soltanto se si interviene per salvarne la vita o la integrita` fisica. Il concetto che ha guidato il legislatore porta a considerare che il bene della vita vada garantito prioritariamente rispetto al diritto di autodeterminazione. In fondo sia l’art. 32 della costituzione che «tutela la salute oltre che come fondamentale diritto di un individuo anche nell’interesse della collettivita`», sia l’art. 5 del c.c. che limita gli atti di disposizione del proprio corpo, si pongono come limiti del diritto di ciascuno affermando un dovere di autotutela della propria integrita` fisica. In termini puramente teorici queste disposizioni potrebbero offrire anche un’altra chiave interpretativa: se il rifiuto puo` essere considerato l’inverso del consenso e se quest’ultimo deve valere per legittimare un intervento medico, anche il rifiuto puo` considerarsi giuridicamente ineccepibile. Sarebbe forse piu` logico che la liberta` fosse sacrificata dalla legge solo nel caso di salvaguardia di un interesse di carattere sociale e collettivo, sempre nel rispetto della persona umana. Un problema importante in merito al rifiuto e che puo` interessare il chirurgo si pone quando un paziente che abbia subito danno da un errore professionale possa essere considerato in colpa se rifiuta di sottoporsi ad un intervento riparatore. Fermo restando il principio che nessuno puo` obbligare il paziente ad operarsi suo malgrado, il problema si sposta sull’obbligo e sull’entita` del risarcimento da parte del danneggiante. Non c’e` dubbio che l’offerta riparatrice del medico incontri abitualmente resistenza per una ridotta fiducia da parte del paziente. A questo punto debbono riconsiderarsi i termini risarcitivi di una eventuale vertenza.

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Un giurista insigne quale il Criscuoli, ne Il dovere di mitigare il danno subito, dice testualmente: «si ammette generalmente che il danneggiato sia tenuto a sottoporsi al trattamento medico chirurgico nei limiti in cui non vi siano valide ragioni ostative». La giurisprudenza va sempre piu` considerando il rifiuto di consenso ad un trattamento medico chirurgico riparatore quale una violazione del dovere di mitigare il danno. «Chi subisce un danno fisico eliminabile con intervento medico e` libero di non farsi curare, ma non puo` sfruttare l’assolutezza del diritto morale alla liberta` dal trattamento sanitario anche in senso economico» (Princigalli, La responsabilita` del medico). Peraltro gli art. 87-88 del T.U. 30 giugno 1965, n. 1124 affermano che chi ha subito un infortunio sul lavoro perde il diritto alle prestazioni economiche quando rifiuti di sottostare alle cure mediche. Non potra` mai considerarsi il consenso come scriminante degli errori professionali riconducibili alla colpa del medico, ne´ il paziente puo` assumere i rischi derivanti da un trattamento sbagliato neppure se l’esonero di responsabilita` sia espressamente sottoscritto. Il consenso inoltre si riferisce sempre e soltanto a quei trattamenti concordati con il medico. Se nel corso di un intervento chirurgico si rendesse necessaria una variazione di indirizzo, anche a seguito di situazioni nuove ed imprevedibili, specie se portatrice di postumi, a meno che non trattasi di una urgenza che possa mettere in serio pericolo l’ammalato, il chirurgo dovrebbe interrompere l’intervento, informare il paziente appena possibile e intervenire in un secondo tempo. Nel caso ci si trovi in presenza di minori la legge non prevede precisi limiti di eta`: cio` che conta e` la capacita` d’intendere e di volere, e non la capacita` legale. Si puo` genericamente affermare che, soprattutto in casi di interventi di una certa entita` e gravita`, un giovane che abbia piu` di 14 anni e buone capacita` intellettive abbia il diritto di essere informato per prestare il suo consenso, anche se tra le incombenze che gravano su chi esercita la potesta` debbano farsi rientrare le decisioni che riguardano gli interventi diagnostici e terapeutici del figlio minore. Cosı` come per i giovanissimi (non e` il caso di parlare di minori in senso giuridico, per quanto

detto sopra), anche per gli handicappati e per quei malati incapaci di formulare al momento un valido consenso la legge prescrive che altri possano provvedere per loro. Per i familiari il problema non si pone. Un minimo di difficolta` si ha quando la richiesta di prestazione viene da un terzo. Ci si riferisce all’istituto del mandato e, anche nella ristrettezza dei limiti di operabilita` (ci troviamo di fronte ad un diritto inalienabile), chi assume il mandato ha facolta` di stipulare il contratto d’opera professionale. Ovviamente il consenso cosı` concesso potra` rilevarsi carente per quanto riguarda il contenuto tecnico della prestazione. Sara` ovviamente il medico a decidere il da farsi secondo scienza e coscienza. Se cioe` il paziente e` impossibilitato, un parente od anche un terzo potra` decidere per lui l’affidamento alle cure di un sanitario il quale, unico, sara` responsabile dei metodi di cura che pone in essere. Situazioni particolarmente difficili o delicate potranno essere risolte con un consulto, che avra` in questo caso non solo funzione dirimente dubbi professionali, quand’anche il potere di limitare la responsabilita` di una scelta. C’e` poi il problema della contrazione dell’obbligo amministrativo. Chi chiama il medico e gli affida un malato in genere e` responsabile verso il professionista del pagamento degli onorari. Se trattasi di familiare del paziente il problema si risolvera` presumibilmente con semplicita`. Nel caso che a richiedere la prestazione, per un paziente in stato di incoscienza, sia un terzo, l’istituto civilistico della “gestione d’affari” previsto dall’art. 2028 del C.C. assegna a quest’ultimo l’obbligo di rispondere in proprio per gli onorari (potra` poi rivalersi in seguito) a meno che non possa essere considerato soltanto un semplice soccorritore che porti notizia della presenza di una persona in stato di incoscienza e bisognosa di aiuto. La informazione deve essere fatta in maniera tale da non viziare la decisione conseguente del paziente e deve essere tanto piu` dettagliata e precisa quanto maggiori sono i rischi e gli effetti collaterali dell’intervento.

Il consenso informato

In Italia non e` ammesso il prelievo di organi o tessuti da viventi (escluso il rene), ma nei Paesi dove questo e` possibile e` sui donatori che il medico dovra` effettuare il massimo sforzo informativo, tanto piu` che si trattera` di effettuare un intervento per lui non terapeutico e dal quale potra` subire solo una mutilazione. Lo stesso criterio andra` seguito negli interventi che si effettuano a scopo estetico, soprattutto per quanto attiene ai rischi. Sullo stesso piano potremo mettere l’avvertimento al malato, per ottenere il consenso all’atto medico, di quell’operatore che ha scarsa pratica nel tipo di operazione che va a compiere o se esistono terapie alternative al metodo che il medico si accinge a compiere. Queste ultime tematiche, molto sentite nelle legislazioni di altri Paesi europei, sono da noi tenute in considerazione minore tanto che non sono abitualmente praticate. Ciononostante, se al verificarsi di un evento grave il Giudice ritenesse di effettuare un’indagine conoscitiva approfondita, potrebbe trovare nelle pieghe della legislazione i motivi di considerare colposa la condotta del medico per difetto d’informazione e quindi per vizio di consenso. Occorre riconoscere pero` al medico il compito di analizzare, vista la personalita` anche psichica del paziente, i contenuti di un’informativa che egli giudichi sufficiente, non esageratamente dettagliata, quindi in grado di creare nel malato uno stato di fiducia: il paziente va informato, ma senza indulgere a particolarismi che potrebbero ingenerare dubbi e alla fine portarlo a rimandare o sospendere l’intervento col solo risultato di ricevere un danno anziche´ un vantaggio. Un limite netto al dovere della informazione si ha quando, per la gravita` del caso e per l’imminente pericolo di vita del paziente, ci si trovi nella necessita` di intervenire senza perdite di tempo. Quanto piu` urgente sara` la necessita` di intervenire tanto minore sara` l’impegno del medico nella ricerca del consenso rigorosamente e formalmente valido.

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3. Deontologia del consenso Il consenso non e` solo dunque obbligo giuridico, ma dovere deontologico, cosa che per un medico assume valore fondamentale. In merito alla informazione al cittadino — dice l’art. 30 del Codice deontologico: Il medico deve fornire al paziente la piu` idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico, nell’informarlo, dovra` tenere conto delle sue capacita` di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Il medico deve, altresı`, soddisfare le richieste di informazione del cittadino in tema di prevenzione. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volonta` della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata.

E l’art. 31 — Informazione a terzi: L’informazione a terzi e` ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto dall’art. 9 allorche´ sia in grave pericolo la salute o la vita di altri. In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

L’art. 32 — Acquisizione del consenso: Il medico non deve intraprendere attivita` diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi

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previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarita` delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrita` fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volonta` della persona, e` integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 30. Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumita` della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessita` e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volonta` della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 34.

L’art. 33 — Consenso del legale rappresentante: Allorche´ si tratti di minore, di interdetto o di inabilitato, il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici, nonche´ al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale. In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico e` tenuto ad informare l’autorita` giudiziaria.

L’art. 34 — Autonomia del cittadino: Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignita`, della liberta` e dell’indipendenza professionale, alla volonta` di curarsi, liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non e` in grado di esprimere la propria volonta` in caso di grave pericolo di vita, non puo` non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso. Il medico ha l’obbligo di dare informazioni al minore e di tenere conto della sua volonta`, compatibilmente con l’eta` e con la capacita` di compren-

sione, fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente.

L’art. 35 — Assistenza d’urgenza: Allorche´ sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo per la vita di una persona, che non possa esprimere, al momento, volonta` contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili. Nel terreno psichiatrico e psicoterapeutico e` fondamentale la instaurazione della sopramenzionata alleanza terapeutica, cosa bene evidenziata dall’articolo 30 del Nuovo Codice di Deontologia Medica lı` dove si legge «al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte terapeutiche». Ma, sempre in campo psichiatrico, pur risultando chiaramente l’obbligo di informazione, si propone sempre una attenta valutazione delle condizioni psicologiche del malato perche´ una informazione mal portata potrebbe procurare un ulteriore nocumento alla sua salute. Nei Paesi nordamericani si e` istituita, nei casi in questione, la figura del “crisis councelor” cioe` di un professionista, psicologo o psichiatra, che nella necessita` possa e sappia fornire al malato o alla sua famiglia un supporto valido sotto il profilo psicologico.

4. L’informazione come presupposto giuridico del consenso Il rituale della visita inizia dalla parte anamnestica che approfondira` tutte le problematiche di salute che il paziente ha avuto nel passato remoto e recente fino a giungere alla situazione che lo porta in quel momento a consultare il medico. Segue la fase dell’esame obiettivo e la formulazione di una diagnosi e di una proposta terapeutica. ` a questo punto che il medico deve iniziare E un colloquio e portare il paziente a conoscenza delle sue condizioni di salute estendendo detta

Il consenso informato

informativa sino al metodo di terapia che egli intende adottare. Riteniamo utile ribadire alcuni concetti espressi in precedenza. L’informazione deve essere posta in maniera chiara ed esaustiva per porre il paziente nella migliore condizione di decidere se accettare o meno quanto il terapeuta ha in mente di fare nel suo caso. Il medico non puo` fornire una informazione incompleta al fine di evitare angosce e paure nel paziente che possano compromettere l’accettazione dell’atto diagnostico terapeutico, poiche´ in caso di esito infausto i giudici potrebbero rilevare nel comportamento del medico una colpa per difetto di informazione. La spersonalizzazione del rapporto tradizionale medico-paziente, conseguenza della medicina di e´quipe, non esime chi di dovere dall’assi` curare al malato i diritti riconosciuti per legge. E talmente abituale, infatti, la presunzione di tacita accettazione del trattamento di un paziente solo perche´ ricoverato presso il reparto ospedaliero al punto che anche il piu` scrupoloso dei medici finisce per dimenticare questo suo importante dovere di informazione. ` a questo proposito fondamentale ricordare E che al secondo comma dell’art. 1176 c.c. (diligenza nell’adempimento) si legge: «nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attivita` professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attivita` esercitata». La diligenza, pertanto, va esercitata non solo nell’attivita` diagnostico-terapeutica, ma pretesa anche nelle fasi preliminari che riguardano informazione e consenso. L’informazione deve esser fatta in maniera tale da non viziare la decisione conseguente del paziente, e deve esser tanto piu` dettagliata e precisa quanto maggiori sono i rischi e gli effetti collaterali dell’intervento. Non sembra invece necessario ed opportuno illustrare nei dettagli al paziente i rischi generici e quelli comuni, a meno che non siano di importanza specifica per il soggetto. Un tipo particolare di informativa, quasi mai praticata, e` quella che riguarda le attrezzature del

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reparto o della clinica in cui si effettuera` l’intervento, informativa che, per essere completa, dovrebbe spingersi addirittura all’indicazione di esistenza di altri reparti piu` attrezzati nella zona. Sullo stesso piano potremo mettere l’avvertimento al malato se l’operatore ha scarsa pratica nel tipo di operazione che andra` a compiere o se esistano terapie alternative al metodo che il medico si propone. Queste ultime tematiche, molto sentite nelle legislazioni di altri Paesi Europei, sono da noi tenute in considerazione minore, tanto che non sono abitualmente praticate. Ciononostante, se al verificarsi di un evento grave il giudice ritenesse di effettuare una indagine conoscitiva approfondita, potrebbe trovare nelle pieghe della legislazione i motivi di considerare colposa la condotta del medico per difetto di informazione e quindi per vizio di consenso. Occorre riconoscere poi al medico il compito di analizzare, vista la personalita` anche psichica del paziente, i contenuti di un’informativa che egli giudichi sufficiente, non esageratamente dettagliata, quindi in grado di creare nel malato uno stato di fiducia: il paziente va informato, ma senza indulgere a particolarismi che potrebbero ingenerare dubbi e alla fine portarlo a rimandare o sospendere l’intervento, col risultato di ricevere un danno anziche´ un vantaggio. Il dovere della informazione e` dunque oggi, nelle disposizione di legge e nella giurisprudenza dei Paesi evoluti, il presupposto essenziale, la base fondamentale su cui poggia la costruzione di un consenso valido. Ma quando e in base a quale parametro si puo` dire che il medico abbia chiaramente informato il paziente e percio` assolto il suo dovere? La Cassazione, con sentenza n. 3604 del 12 giugno 1982 ha sentenziato che: «in tema di responsabilita` del medico connessa all’esecuzione di un intervento chirurgico, l’accertamento del consenso del paziente... postula… che costui vi abbia acconsentito dopo essere stato opportunamente informato dal chirurgo dell’effettiva portata dell’intervento in relazione alla sua gravita`, agli effetti conseguibili, alle inevitabili difficolta`, alle complicazioni ed ai rischi».

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Qualche autore, sullo stesso tono, ripete «che costituisce dovere primario del medico una esauriente informazione del paziente». Tuttavia affermazioni di tal genere non possono ritenersi appaganti in quanto ci si chiede ulteriormente quale sia il metro dell’opportuno ed esauriente. Credo che una prospettiva piu` realista sia data dalla Princigalli, che tende a soggettivizzare la problematica: «sembra piu` equo un criterio soggettivo per cui si possa accertare se il malato, nella sua particolare situazione, avrebbe consentito al trattamento proposto dal medico in quella circostanza se fosse stato adeguatamente informato. Quindi il medico e` tenuto ad illustrare ed a fornire tutti gli elementi utili che consentono di prendere una decisione seria e consapevole. L’informazione deve essere graduata dalle esigenze e dai bisogni del soggetto interessato».

4.1. Informazione o comunicazione? Nel percorso che porta al consenso, il ruolo dell’informazione ha, per psichiatri e psicologi, particolare importanza pratica. La correttezza della informazione poggia sulla comprensibilita` e sulla completezza dei contenuti. Inoltre l’informazione non e` un’arida elencazione di questioni tecniche: essa e` l’inizio di un colloquio che vede seguire alle prime informazioni le domande del paziente che a loro volta richiedono precisazioni. Sotto questo profilo sarebbe piu` corretto parlare della instaurazione di un ponte comunicativo tra psichiatra e paziente che culmina con l’accettazione o meno della proposta terapeutica del medico. ` facile comprendere come il modo di porre E il flusso delle informazioni abbia una funzione determinante nel condizionare le risposte e gli atteggiamenti del paziente. Ecco perche´ la deontologia trova nello psichiatra una esaltazione del ruolo morale ed una assunzione di responsabilita` professionale innalzata ad una potenza elevata. Lo psichiatra deve sentire il ruolo fondamentale che il suo ascendente gioca nel rapporto

medico-paziente e valutare appieno la sua influenza e quella della sua comunicazione nel condizionare l’atteggiamento del paziente. Tutto questo quando ci si trovi di fronte ad un cittadino pienamente capace di intendere e di volere, affatto intaccato in questo suo stato di salute mentale dalla malattia per la quale chiede aiuto allo psichiatra. Non esiste tuttavia uno steccato rigido, una linea netta di demarcazione tra la piena disponibilita` delle proprie facolta` mentali e l’area in cui tale capacita` e` di fatto — e di diritto — trasferita su un soggetto tutore. Si richiederebbe pertanto dallo psichiatra/psicologo la capacita` di fotografare all’istante la personalita` del soggetto che gli si rivolge in prima istanza, di poter quindi valutare anche le reazioni alle informazioni fornitegli. L’abitudine, ormai inveterata, da parte degli psicoterapeuti di richiedere qualche seduta prima di pronunciarsi sulle ipotesi diagnostiche e sulle proposte terapeutiche permette un comportamento piu` ortodosso. Le condizioni in cui lo psichiatra deve affrontare il momento della “comunicazione” o, per seguire la terminologia piu` usuale, del “consenso informato” si complicano se e` in presenza di un paziente adolescente, dovendo valutare, anche per unanime orientamento giurisprudenziale, la capacita` mentale di assolvere a quello che viene considerato un suo diritto, quello di decidere, indipendentemente dalla sua capacita` giuridica, se, come e da chi farsi curare. ` la capacita` di agire del paziente, non la E capacita` giuridica, che rende valido il consenso. Anche il codice civile impone (in apparente contrasto con il diritto che si acquisisce con la maggiore eta`) di sentire il minore ai fini del riconoscimento (art. 250 c.c.) e per decisioni influenti sulla sua vita (art. 316 c.c.). Ugo Fornari, insigne studioso di medicina legale e titolare della cattedra di psicopatologia forense all’Universita` di Torino, dice testualmente in un suo recente lavoro: «Occorre distinguere l’informazione dalla comunicazione». «Informare significa dire qualche cosa, rendere consapevole qualcuno di un fatto, di un processo, di un inter-

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dalla urgenza, non potendosi delegare al momento l’opera ad altro professionista. Il consenso ha invece un carattere continuativo per l’incontro delle volonta` delle parti contraenti che instaurano la sopradetta “alleanza” quale progetto terapeutico, assoggettato a continua verifica, specie in campo psicoterapeutico. Con una felice espressione il Fornari dice: «l’informazione sta all’assenso come la comunicazione sta al consenso». ` — sotto il profilo medico-legale — certaE mente valido il primo livello di comunicazione (che genera assenso) per sottoporre il paziente ad accertamenti o trattamenti urgenti. Non e` piu` sufficiente laddove l’atto medico si realizzi in un’opera continuativa, di durata nel tempo, quando cioe` va raggiunto, da parte del paziente, un vero e proprio consenso.

vento, elencare notizie, ragguagliare. Comunicare significa informare con partecipazione, con empatia, con umana e professionale compassione». Esemplificando, quando un medico invia un suo paziente ad un chirurgo, questi ha solo l’obbligo di presentarsi, di dire gli obiettivi che si prefigge, di dire cioe` che il suo compito e` quello di compiere un atto chirurgico e che la sua opera si esaurisce con l’atto medico che si appresta a compiere. Completera` il suo rapporto con il perfezionamento del contratto professionale. Ci troviamo in presenza di un rapporto medico-paziente che i teorici (Tatossian, Hollander) relegano nel loro primo gruppo, quello cioe` riservato alle malattie acute o alle emergenze, in cui e` richiesta massima attivita` del medico e minima attivita` del paziente. In queste situazioni non e` necessaria, anzi e` talvolta inopportuna, l’attesa della instaurazione di un rapporto medico-paziente che preveda una vera e piena fiducia. ` evidente che lo psichiatra deve ottemperare E al dovere di informare il paziente affrontando non solo la prima parte, quella riservata a fornire notizie tecniche, ma entrare a pieno titolo anche nella seconda parte che si riferisce a come dare l’informazione. Egli deve instaurare col paziente un colloquio che piu` propriamente chiameremo “comunicazione”. Solo nel caso che l’informazione si sia svolta in maniera corretta il paziente puo` validamente esercitare il suo diritto di consenso o di dissenso dall’opera che il terapeuta si accinge a compiere. E non e` sufficiente la certezza di aver esposto la situazione in modo chiaro ed intelligibile; occorre avere certezza che il paziente abbia compreso quanto riferito, anche e soprattutto in relazione alle sue momentanee capacita` di attenzione e concentrazione, quindi in condizione psichica di dare risposte meditate e corrette. Solo le estreme urgenze possono costituire difficolta` a che il terapeuta si allinei a questa condotta ideale.

` chiaro che dovremo tener ben distinti gli E aspetti squisitamente teorici dalla pratica, adattata alle singole specialita` mediche dove giocano momenti e situazioni dissimili.

Non solo per questioni di semantica, ma occorrera` anche distinguere tra assenso e consenso, riservando al primo termine un valore temporale immediato, di intervento sulla persona dettata

Abbiamo gia` accennato al fatto che la ritualita` del consenso e` abbreviata, modificata o addirittura abolita — come accennato sopra — nei casi di emergenza o di estrema urgenza.

Si puo` quindi parlare di consenso tacito o presunto solo nelle condizioni in cui, assente una informazione valida, si sia manifestata da parte del paziente un qualsiasi atto di volonta` gestuale, mimica, che deponga per un atteggiamento di comprensione ed accettazione della terapia proposta. Sarebbe deontologicamente — e penalmente — perseguibile una informazione inesatta, distorta, espressa solo per ottenere cosı`, “fraudolentemente”, il consenso del paziente.

5. Situazione giuridica e giurisprudenziale Lasciamo qui le dissertazioni semantiche e deontologiche, che pure hanno il loro immenso valore, ed affrontiamo il nocciolo del problema pratico.

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Altre volte ha invece necessita` di essere espressa formalmente (possibilmente per iscritto). Poniamo difatti il caso di argomenti relativi alla chirurgia estetica (da non confondersi con la chirurgia plastico-ricostruttiva) che postulano obbligo di risultati; pensiamo alla chirurgia pediatrica in cui il consenso e` prestato solitamente da chi esercita la patria potesta`; pensiamo infine ai trattamenti psichiatrici e psicologici che sono il motivo della nostra trattazione. Ripeto quanto detto sopra che la capacita` di agire del paziente, non la sua capacita` giuridica, rende valido il consenso. Il codice civile impone difatti di sentire il minore ai fini del riconoscimento (art. 250 c.c. – Del riconoscimento dei figli naturali: «Il figlio naturale puo` essere riconosciuto, nei modi previsti dall’art. 254, dal padre e dalla madre, anche se gia` uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento puo` avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente. Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non ha effetto senza il suo assenso. Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non puo` avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia gia` effettuato il riconoscimento. Il consenso non puo` essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio. Se vi e` opposizione, su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante………». Del diritto del minore in tema di consenso si occupa il c.c. per decisioni influenti sulla sua vita di relazione. L’art. 316 c.c. “Esercizio della potesta` dei genitori” recita: «Il figlio e` soggetto alla potesta` dei genitori sino all’eta` maggiore o all’emancipazione. La potesta` e` esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori puo` ricorrere senza formalita` al giudice indicando i provvedimenti che ritiene piu` idonei. Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio

per il figlio, il padre puo` adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili. Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene piu` utili nell’interesse del figlio e dell’unita` familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il piu` idoneo a curare l’interesse del figlio». Viene quindi confermato che l’informazione deve essere data anche al minore, purche´ maggiore di anni quattordici, affinche´ egli possa esprimere il suo parere, ed il suo consenso, ad un trattamento sanitario o psicoterapico. Sorge qui la necessita` di interpretare le disposizioni di legge che appaiono non tassative. In che conto difatti deve essere tenuto il parere del minore? Per alcuni giuristi sarebbe sufficiente informare il minore ed ascoltare la sua opinione restando inteso che il potere decisionale spetti o ai genitori o all’eventuale tutore; secondo altri, la volonta` del minore, capace di autodeterminarsi, dovrebbe poter prevalere su quella dei genitori. L’opinione giuridica prevalente e` comunque quella che sia opportuno e doveroso coinvolgere il minore nel processo decisionale ma che non puo` essere disattesa la norma giuridica che stabilisce che per ogni minore, in tema di diritto alla salute, la parola definitiva spetta ai genitori. Problemi analoghi a quelli posti dai soggetti in giovane eta` li portano, nei riguardi dell’informazione e del consenso ai trattamenti sanitari, i soggetti che la legge (c.c. articoli 414 e seguenti) cataloga come “infermi di mente”. Saranno opportune alcune precisazioni sul significato di alcuni termini giuridici: Persone che devono essere interdette — art. 414 del c.c. — «Il maggiore di eta` ed il minore emancipato, i quali si trovano in condizione di abituale infermita` di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti». Persone che possono essere inabilitate – art. 415 del c.c. – Il maggiore di eta` infermo di mente,

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lo stato del quale non e` talmente grave da far luogo all’interdizione, puo` essere inabilitato. Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalita` o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono se´ o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. Possono infine essere inabilitati il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente, salva l’applicazione dell’art. 414 quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi. Presupposto necessario per l’inabilitazione e l’interdizione di un infermo di mente non e` l’esistenza di una tipica malattia mentale, di un’infermita` nella quale ricorrono caratteristiche di una forma patologica ben definita, bensı` l’esistenza di una alterazione delle facolta` mentali tali da dar luogo ad una incapacita` parziale o totale di provvedere ai propri interessi. L’attualita` della malattia che produce tale alterazione esclude che una precorsa infermita` mentale possa essere elemento determinante di un provvedimento di inabilitazione o di interdizione, salva l’ipotesi di infermita` mentale abituale e continua. Si deve pronunciare l’interdizione se la patologica alterazione delle facolta` mentali produce incapacita` di provvedere ai propri interessi; l’inabilitazione quando tale incapacita` e` soltanto parziale. Accertare nel caso concreto l’esistenza della patologica alterazione delle facolta` mentali e la conseguente incapacita` totale o parziale di provvedere ai propri interessi e` compito riservato ai giudici di merito, in quanto si esaurisce interamente nella valutazione delle risultanze processuali (Cass. 19 giugno 1962, n. 1573 e 8 luglio 1976, n. 2553). L’infermita` di mente, richiesta dalla legge per far luogo al provvedimento di interdizione previsto dall’art. 4141 del c.c., non riguarda soltanto le facolta` intellettive dell’interdicendo (intelligenza e memoria), ma anche facolta` volitive (formazione e manifestazione delle volonta`), ossia tanto lo stato di coscienza comune come quello di liberta` del volere, non essendo rare le infermita` di mente nelle quali le attivita` intellettive possano apparire sufficientemente conservate, mentre grave sia il decadimento etico, sentimentale per cui l’atto volitivo ne

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risulti morbosamente turbato (Cass. 29 novembre 1955, n. 2690). Ai fini della pronuncia di interdizione il pericolo attuale di atti pregiudizievoli al patrimonio va desunto dalle condizioni morbose del soggetto e sussiste quando la patologica alterazione delle facolta` mentali, intellettive e volitive, renda il soggetto stesso totalmente incapace di provvedere ai propri interessi, incapacita` che deve essere apprezzata con riferimento non solo agli atti di indole economica e patrimoniale, ma anche a tutti gli atti della vita civile che attengono alla cura delle persone e a quella dei doveri familiari e pubblici (Cass. 26 ottobre 1970, n. 2155).

L’interdetto, dunque, ha diritto di ricevere le notizie riguardanti la sua salute e necessarie per la formazione del consenso che in definitiva spettera` al tutore. Per l’infermo di mente non interdetto non esiste alcuna presunzione di incapacita`, sia psichica che giuridica, e pertanto la validita` del consenso o la eventualita` di un dissenso da lui espressa andra` accertata per ogni singolo caso, valutando anche le condizioni psichiche del momento. Per i soggetti inabilitati non possono valere le regole vigenti per gli interdetti. Questi pazienti sono da ritenersi perfettamente idonei a dare o meno il consenso e la loro manifestazione di volonta` andra` rispettata, a meno che lo psichiatra non si convinca di aver di fronte un paziente in stato di “incapacita` naturale”. L’art. 428 del c.c. che si riferisce appunto alla incapacita` naturale recita: «gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore……». E merita ricordare un giudizio della Corte di Cassazione (febbraio 1978): L’annullamento del contratto, ai sensi dell’art. 428 c.c. non e` subordinato alla prova dell’incapa-

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cita` assoluta e totale del soggetto essendo sufficiente che le facolta` intellettive o volitive risultino scemate, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione dei propri atti, ancorche´ per fattori che non si identifichino in una tipica infermita` mentale o in una precisa forma patologica. Pertanto, al giudice del merito non e` inibito fondare il proprio convincimento circa la sussistenza dell’incapacita` naturale del contraente sul congiunto riferimento ad una malattia ed alla tarda eta`, nel senso che a causa di questa prima, di per se´ grave, l’incapacita` abbia avuto un’incidenza ancora piu` intensa sulla sfera intellettiva o volitiva. L’incapacita` naturale e` dunque una condizione, anche transitoria, nella quale il paziente non e` in grado di esprimere consenso o dissenso. Trattasi di situazioni molto delicate in cui l’opera dello psichiatra puo` essere realmente illuminante, sia per i trattamenti psicoterapeutici che per quelli di carattere medico generale. In quest’ultimo caso e` — sotto il profilo medico legale e della responsabilita` professionale — fondamentale la consulenza di uno psichiatra che sappia valutare le condizioni di capacita` psichica del paziente. Il nuovo codice deontologico si riferisce ai trattamenti sanitari obbligatori nell’articolo riguardante la “Tutela della salute collettiva”. Dice l’art. 78: «il medico deve svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestivita` la informativa alle autorita` sanitarie e ad altre autorita` nei modi, nei tempi e con le procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista, la tutela dell’anonimato». D’altronde, secondo l’art. 13 della Costituzione italiana, «al medico non e` peraltro consentito di porre in essere, anche in caso di trattamento sanitario obbligatorio, trattamenti fisici coattivi». Di analogo tenore, con chiara ispirazione alla legge costituzionale, e` l’art. 49 del Codice Deontologico che recita testualmente: «In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve porre in essere o autorizzare misure coattive, salvo casi di effettiva necessita` e nei limiti previsti dalla legge».

Particolare importanza hanno in psichiatria le norme che regolano, sia deontologicamente che giuridicamente, i trattamenti d’urgenza. Informazione e consenso, quando sussistano condizioni di obbligatorieta` ed urgenza, non sono aspetti da ricercare, in quanto per le prime gia` provvede l’art. 32 della Costituzione, al secondo capoverso, mentre le seconde sono legittimate dallo stato di necessita`. A proposito del quale e` opportuna la lettura del codice penale e di qualche massima delle Corti per avere una idea precisa del significato giuridico della norma. Dice l’art. 54 del c.p. – Stato di necessita` — «Non e` punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessita` di salvare se´ od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, ne´ altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo…….». «Lo stato di necessita` postula l’immanenza di un pericolo grave alla persona, che non possa altrimenti evitarsi se non attraverso la commissione di un illecito penale» (Cass. II sez., 30 gennaio 1978). «L’esimente non trova applicazione nel caso in cui il pericolo avrebbe potuto essere evitato dall’agente con comportamento diverso» (Cass. II sez., 30 gennaio 1978). «Al di fuori dei casi piu` gravi caratterizzati dalla indilazionabilita`, lo stato di bisogno, ancorche´ inteso ed attinente all’alimentazione (anoressia, n.d.r.), alle cure mediche ed ai medicinali, non puo` integrare l’esimente di cui all’art. 54 c.p., poiche´ la moderna organizzazione sociale, venendo incontro con diversi mezzi ed istituzioni agli indigenti, agli inabili al lavoro e ai bisognosi in genere, elimina per costoro il pericolo di restare privi di quanto occorre per le loro cure ed il loro sostentamento quotidiano» (Cass. Sez. II, 13 aprile 1978). «Anche per lo stato di necessita` e` richiesto il requisito della proporzione tra il fatto ed il pericolo: quando si agisce nella piena consapevolezza della sproporzione tra tali elementi si versa in un

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eccesso, il quale, non potendo essere considerato ne´ scusabile, ne´ colposo, ma doloso, preclude il diritto di invocare lo stato di necessita`» (Cass. 12 ottobre 1954). «Nel reato colposo lo stato di necessita` agisce non come causa di esclusione di reato, ma come causa di esclusione della colpa eliminando l’elemento psicologico del reato» (Cass. Sez. IV, 27 ottobre 1959). Il riconoscimento dello stato di necessita`, come si puo` desumere da quanto scritto sopra, e` tutt’altro che scevro da implicazioni giuridiche di estrema delicatezza che impongono una attenta valutazione di ogni situazione, tanto piu` che l’onere di provare l’esistenza dello stato di necessita` incombe all’imputato (che in questo caso sarebbe il medico). L’urgenza cui puo` essere interessato uno psichiatra non e` soltanto quella derivante da patologie afferenti al campo della propria specializzazione. ` possibile che uno psichiatra venga chiamato E per dominare un quadro sintomatologico sovrappostosi ad una malattia generale, fatto che rende difficile il proseguimento dei trattamenti necessari per manifesto dissenso del paziente. In questi casi, se non giudica lo stato di coscienza del malato realmente alterato, lo psichiatra deve astenersi da ogni forma di intervento mirante a modificare l’atteggiamento del paziente (psicofarmaci). Ancor piu` deve astenersi dal proporre o convalidare una eventuale richiesta di trattamento sanitario obbligatorio. La legittimazione di un intervento coatto puo` essere ricercata solo nei casi previsti dall’art. 54 del c.p. (stato di necessita`) o dall’art. 51 (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) allorquando il giudice abbia convalidato un trattamento sanitario obbligatorio. La difficolta` di destreggiarsi tra le numerose norme che regolano la materia e soprattutto l’atteggiamento giurisprudenziale piu` recente portano al convincimento che la concezione del passato che tendeva ad escludere il reato di lesioni

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personali per l’atto medico, considerandolo atto socialmente utile e quindi pienamente lecito, si vada radicalmente modificando. Attualmente l’orientamento giurisprudenziale, piu` formale che sostanziale, in tema di lesioni personali e violenza privata, stante anche l’assenza di una legislazione specifica, porterebbe a ritenere che l’atto medico fosse nella sua essenza un fatto antigiuridico, in quanto produttore di lesioni personali, salvo a diventare lecito per effetto delle scriminanti codificate (stato di necessita` e adempimento di un dovere) e del consenso che, se prestato validamente, diventa l’atto piu` importante nel rapporto medico-paziente. La dottrina, specialmente penalistica, ha dibattuto a lungo cercando di individuare le cause di giustificazione giuridica per un atto che, seppur rivolto al miglioramento delle condizione fisiche di un individuo, vi giunge spesso attraverso una violazione dell’integrita` psicofisica se si guardi sia all’opera del chirurgo che a quella del medico o dello psichiatra. Tutto quanto sopra porta a considerare il fatto che il consenso del paziente diventa presupposto essenziale per la liceita` di un trattamento sanitario in assenza di situazioni di emergenza o di condizioni previste per legge. Una affermazione cosı` categorica derivante dall’analisi delle norme e dalle sentenze emesse sull’argomento non puo` voler dire che ogni atto medico, in assenza di valido consenso, sia da considerare illegittimo o arbitrario. La difficile articolazione tra il diritto alla liberta` e il diritto alla salute, che talora contrasta e la cui interpretazione viene al momento affidata al medico, deve portare piu` di frequente a considerare la finalita` dell’atto medico nel senso che qualora esso sia realmente e documentatamente rivolto all’interesse preminente del paziente e alla tutela della salute questo deve essere giudicato, con uno spirito meno formale, piu` sostanziale, nella applicazione delle norme giuridiche. Occorre comunque che il medico si abitui a prestare maggiore attenzione al capitolo del consenso penetrandone lo spirito e facendone un atto routinario della sua professione. Sempre in tema di consenso, ma nel senso

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della negazione della sua validita`, sono l’art. 5 del c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo «quando cagionino una diminuzione permanente della integrita` fisica», e l’art. 579 del cod. penale, che punisce l’omicidio del consenziente. Particolare importanza per lo psichiatra, soprattutto nella sua attivita` medico legale, hanno: l’art. 728 del cod. penale “trattamento idoneo a sopprimere la coscienza o la volonta` altrui”, che recita: «chiunque pone taluno, con il suo consenso, in stato di narcosi o di ipnotismo o esegue su di lui un trattamento che gli sopprima la coscienza o la volonta`, e` punito, se dal fatto deriva pericolo per la incolumita` della persona, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda…….. Tale disposizione non si applica se il fatto e` commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita la professione sanitaria»; e l’art. 613 del cod. penale “stato di incapacita` procurato mediante violenza”, che dice: «chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei in stato di incapacita` di intendere o di volere, e` punito con la reclusione fino ad un anno. Il consenso dato dalle persone indicate nell’ultimo capoverso dell’art. 579 (minore degli anni 18, infermo di mente o in condizione di deficienza psichica per un’altra infermita` o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, consenso estorto con suggestione o carpito con inganno) non esclude la punibilita`». Il confronto dei due articoli sopra riportati mette in evidenza come i trattamenti di cui gli articoli si occupano sono ritenuti leciti quando effettuati da personale sanitario con il consenso del paziente. L’assenza di consenso pone il medico, invece, alla stessa stregua di un qualsiasi cittadino. Inoltre, quale valore legale puo` avere il consenso di un paziente psichiatrico classificato come “infermo di mente”? Lo psichiatra deve decidere del suo comportamento valutando autonoma-

mente la possibile influenza — nel soggetto che ha in cura — della norma penale che punisce l’abbandono di persona incapace (il che costituirebbe obbligo di curare) e quella della violenza privata o della circonvenzione d’incapace, nella eventualita` che decida di agire pur nel dubbio della validita` del consenso. Posizione assai delicata ed alquanto scomoda che chiama lo psichiatra a responsabilita` mal valutabili aprioristicamente. Un atteggiamento sufficientemente chiaro, in tema di consenso, lo ha preso il Consiglio d’Europa nel primo ‘‘Accordo internazionale sui diritti dell’uomo e biomedicina” con una Convenzione adottata a Strasburgo il 19 novembre 1986, recepita dalla legislazione italiana con legge del 4 aprile 1997. Per la prima volta nella storia internazionale e` stata adottata una convenzione sulla bioetica. Un punto fermo che e` arrivato dopo un serrato dibattito iniziato nel 1991. All’elaborazione del teso hanno partecipato oltre agli stati membri del Consiglio d’Europa, anche la Santa Sede, il Canada, gli Stati Uniti ed il Giappone. ` doveroso includerne il testo in questa tratE tazione. Preambolo…. omesso Capitolo I – Disposizioni generali Art. 1 – Oggetto e finalita` Le Parti alla presente Convenzione tutelano l’essere umano nella sua dignita` e nella sua integrita` e garantiscono ad ogni persona, senza discriminazioni, il rispetto della sua integrita` e degli altri diritti e liberta` fondamentali rispetto all’utilizzazione della biologia e della medicina. Ciascuna Parte adotta nel proprio ordinamento interno le misure necessarie per rendere efficaci le disposizioni della presente Convenzione. Art. 2 – Preminenza dell’essere umano L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della societa` o della scienza.

Il consenso informato

Art. 3 – Accesso equo alle cure sanitarie Le parti adottano, tenuto conto delle necessita` della sanita` e delle risorse disponibili, le misure idonee ad assicurare, nella loro sfera di giurisdizione, un accesso equo a cure sanitarie di qualita` adeguata. Art. 4 – Obblighi professionali e regole di comportamento Ogni trattamento sanitario, inclusa la ricerca, deve essere praticato nel rispetto delle norme e degli obblighi professionali, nonche´ delle regole di comportamento applicabili nella fattispecie. Capitolo II — Consenso Art. 5 – Disciplina generale Un trattamento sanitario puo` essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e consapevole. Tale persona riceve preliminarmente informazioni adeguate sulla finalita` e sulla natura del trattamento nonche´ sulle sue conseguenze e sui suoi rischi. Le persona interessata puo`, in qualsiasi momento, ritirare liberamente il proprio consenso. Art. 6 – Tutela delle persone incapaci di prestare consenso 1)

2)

3)

Con riserva degli articoli 17 e 20, un trattamento puo` essere praticato su una persona incapace di prestare consenso solo se gliene derivi un beneficio immediato. Quando, per legge, un minore non ha la capacita` di acconsentire ad un trattamento, quest’ultimo non puo` essere praticato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorita` o di una persona o di un organismo designati dalla legge. Il parere del minore e` considerato elemento determinante in funzione dell’eta` e del suo livello di maturita`. Quando un maggiorenne e` per legge, a causa di una tara mentale, di una malattia o per un motivo analogo, incapace di acconsentire ad un trattamento, quest’ultimo non puo` essere praticato senza l’autorizzazione del suo rap-

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presentante, di un’autorita` o di una persona o di un organismo designati dalla legge. La persona interessata deve, nei limiti del possibile, partecipare al procedimento di autorizzazione. Il rappresentante, l’autorita`, la persona o l’organismo menzionati ai paragrafi 2 e 3 ricevono, alle medesime condizioni, l’informazione prevista dall’articolo 5. L’autorizzazione di cui ai paragrafi 2 e 3 puo`, in qualsiasi momento, essere revocata nell’interesse della persona in causa.

Art. 7 – Tutela delle persone affette da turbe psichiche La persona affetta da una grave turba psichica puo` essere sottoposta senza il proprio consenso ad un trattamento che ha lo scopo di curare tale turba solo se l’assenza di simile terapia rischi di essere seriamente pregiudizievole per la sua salute e con riserva dei requisiti di tutela previsti dalla legge comprendenti procedimenti di sorveglianza e di controllo nonche´ mezzi di ricorso. Art. 8 – Situazioni di urgenza Quando a causa di una situazione di urgenza non e` possibile ottenere il consenso, si potra` praticare ogni trattamento necessario, dal punto di vista sanitario, per la salute della persona interessata. Art. 9 – Desiderata espressi anteriormente I desiderata espressi anteriormente in ordine ad un trattamento sanitario da un paziente che, al momento del trattamento, non e` in grado di manifestare la sua volonta` saranno presi in considerazione.

Capitolo III – Vita privata e diritto all’informazione Art. 10 – Vita privata e diritto all’informazione 1)

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Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata in merito alle informazioni relative alla propria salute. Ogni persona ha il diritto di venire a conoscenza di ogni dato raccolto sulla propria salute.

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3)

Tuttavia la volonta` di una persona di non essere informata deve essere rispettata. In via eccezionale, la legge puo` prevedere, nell’interesse del paziente, limiti dell’esercizio dei diritti evocati nel paragrafo 2.

5.1. Limiti dell’informazione per ottenere il consenso Molti giuristi, anche di altre nazionalita` europee (V.R. Rodenburg, O. Tempel, H.G. Mertens, D. Giesen, E. Deutch, A.M. Princigalli) teorizzano che il medico possa limitare l’informazione, nell’interesse del malato, qualora la conoscenza completa ed assoluta delle modalita` dell’intervento e dei rischi possa provocare inconvenienti ed influire negativamente sulla terapia. Se il paziente subisse un danno dal comportamento del medico perche´ questo ha fornito troppi particolari non avendo tenuto presente il suo stato psicofisico, il paziente avrebbe diritto ad un risarcimento. Cio` implica che quello che gli AA. tedeschi chiamano l’esercizio del cosiddetto “privilegio terapeutico” (mezzo giuridico che consente al medico di sottrarsi al dovere della informazione) essendo diretto a tutelare la salute del malato, non possa essere invocato dal medico a suo favore se la mancata informazione, parziale o totale, non corrisponda ai canoni sopra espressi, non sia diretta cioe` ad evitare un serio ed irrimediabile danno alla salute del paziente. Ci si rende conto di come i confini del comportamento corretto, in caso di pazienti psichiatrici, siano difficili da tracciare tanto piu` che sembra logico porre sullo stesso piano sia la mancanza di informazione che un suo eccesso. La caratterizzazione clinica delle malattia di competenza psichiatrica e psicologica sono tali da non consentire peraltro la possibilita` di porre rapidamente diagnosi di certezza con l’ausilio di uno o piu` colloqui. Lo psichiatra si riferisce per lo piu` ad una “diagnosi di stato” che e` di per se´ temporale, basata su cio` che si e` potuto evidenziare all’interno del colloquio o dei primi contatti

avuti col paziente. Ciononostante egli deve individuare la personalita` del paziente per ottemperare ad un obbligo che discende da disposizioni di legge e da pratica giurisprudenziale. Se dovessimo addentrarci in dissertazioni teoriche dovremmo anche prendere in considerazione la personalita` dello psichiatra (che ha nel colloquio il suo principale strumento diagnostico e quindi propositivo di una terapia mirata al soggetto), la sua capacita` di rapportarsi in tempi brevi con il paziente, e la sua intuizione diagnostica. Ma ci avviteremmo in una discussione solo accademica. Rifacendoci dunque alle conoscenze di medicina legale e psicologia-psichiatria ci sembra corretto distinguere, trattandosi di informazioni e consenso, pazienti affetti da forme patologiche che si traducono nella impossibilita` ed incapacita` di intendere e di volere, anche temporanea o parziale (psicosi, stati confusionali), da quelle forme in cui sono alterate solo funzioni che non intaccano questa capacita` (nevrosi). Nelle prime, la legge prevede espressamente che “altri” possano provvedere per il malato. Non e` solo il caso dei genitori o familiari. Per “altri” possiamo intendere terze persone che abbiano ricevuto un “mandato”. L’istituto giuridico del mandato prevede appunto che chi lo abbia ricevuto abbia anche la facolta` di stipulare un contratto d’opera professionale. Il consenso cosı` concesso e` pero` talora carente sotto il profilo del contenuto tecnico della prestazione. Sara` allora la responsabilita` del medico a guidare con scienza e coscienza la sua opera pro` questo un passaggio estremamente fessionale. E delicato nei trattamenti psichiatrici perche´ acuisce i termini della responsabilita` del medico. In casi dubbi sara` utile ricorrere al consulto, formalizzandone le conclusioni diagnostiche e terapeutiche. In tema di paziente minore o giovane, si apre apparentemente un caso nel quale la informazione deve giungere puntuale a chiarire dubbi che ` il caso potrebbero intervenire a terapia iniziata. E di un giovane che soffra di conflittualita` con i genitori, peraltro unici a poter dare (e togliere) il consenso ad un trattamento psicoterapeutico. La

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presa eventuale di coscienza del soggetto in trattamento determinera` puntualmente reazioni comportamentali, anche all’interno della famiglia, reazioni che potrebbero essere non gradite ai familiari stessi ed interpretate come un peggioramento delle condizioni psichiche del giovane che verrebbe sottratto alla psicoterapia. Concettualmente l’informazione deve essere fornita in maniera tale da non viziare la decisione del paziente e deve essere tanto piu` precisa e dettagliata quanto maggiori potranno essere i rischi, gli effetti indesiderati e le possibilita` di insuccesso della terapia. Il medico, comunque, va accreditato anche — e soprattutto in questo caso — della capacita` di una valutazione psichica, anche se sommaria, del paziente e lasciato arbitro dei contenuti della informativa. Essa deve sı` corrispondere ai dettati di legge e di giurisprudenza consolidata, ma non puo` indurre nel paziente reazioni tali da portarlo ad una decisione inesatta. Nel colloquio, il clinico psichiatra non puo` indulgere a particolarismi terapeutici e possibili reazioni negative che — stante la personalita` dei soggetti cui viene offerta — potrebbero ingenerare dubbi ed incertezze nocive. In un caso del genere il paziente riceverebbe danno anziche´ vantaggio dalla azione del medico. «Appare opportuno riconoscere al medico un ambito di discrezionalita` entro cui egli possa valutare liberamente se e` il caso di informare piu` o meno dettagliatamente il malato, salva una informazione minima di base sempre dovuta a tutti. Cio`, dal punto di vista giuridico consente di ripartire meglio l’onere della prova fra le parti in causa, nel senso che l’attore sara` tenuto a provare i fatti che possono far apparire infondata la valutazione soggettiva del medico a limitare l’informazione, mentre tocchera` al convenuto dimostrare che c’erano i presupposti per il privilegio terapeutico» (A. Maria Princigalli). Un caso di informazione e consenso tutto di competenza psichiatrica e` quello in cui il medico ritenga utile un trattamento di elettroshock. Per la necessita` di operare in narcosi, quindi, l’informazione ed il consenso diventano duplici e — cosı` come la responsabilita` professionale —

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separata tra i due professionisti, anestesistarianimatore e psichiatra.

5.2. Vizi di consenso Perche´ possa parlarsi di consenso valido e informato e` indispensabile che questo risulti immune da vizi. Perche´ il consenso risulti immune da vizi debbono ricorrere una serie di circostanze che assumono il ruolo di un vero e proprio protocollo. La maggiore eta` del paziente. Se questi e` minore, a prescindere dalle considerazioni fatte sopra in merito a consenso e relativita` della minore eta` rispetto ad esso, il consenso deve essere espresso dai genitori congiuntamente; in caso di dissenso tra essi, e` il giudice che deve esprimersi in proposito. La capacita` psichica del paziente, accertata attraverso il colloquio preliminare durante il quale viene fornita l’informazione sulle condizioni di salute, la natura e il significato della prestazione che il medico si accinge a prestare. Se sussiste incapacita` psichica, anche temporanea e transitoria, il medico esigere un consenso da parte di un familiare che ne ha facolta` o di chi eventualmente abbia la rappresentanza legale. La buona fede dei contraenti. L’accordo esplicito che il paziente possa revocare il consenso in qualsiasi momento. L’informazione previa, che deve essere corretta ed esaustiva, nonche´ compresa da chi prestera` il consenso. Il protocollo terapeutico concordato con il paziente deve esser rispettato. Ogni variazione di questo esige un rinnovato consenso.

6. Il comportamento dello psichiatra Dopo questa lunga disamina degli aspetti giuridici, medici e medico-legali che interessano il capitolo del cosiddetto consenso informato e` fondamentale rivolgersi all’atteggiamento pratico che lo psichiatra deve avere quando inizia un trattamento terapeutico. Fermo restando il suo obbligo di fornire le

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informazioni in ogni caso, resta pur sempre a sua discrezione la valutazione della personalita` psichica del paziente che ha di fronte. ` proprio compito clinico dello psichiatra E quello di valutare il grado di attenzione, di comprensione e la coerenza e validita` della risposta ricevuta. Pertanto, sia che trattasi di soggetto per il quale si giudichi opportuno un trattamento farmacologico, sia che detto trattamento sia previsto del tipo analitico, di fronte ad un rifiuto il medico deve astenersi dal dar corso alla terapia. In caso di accettazione sara` compito dello psichiatra il verificare, anche nel prosieguo della terapia, se il paziente e` sempre consapevole al punto da considerare il consenso ancora operante. Proprio nei trattamenti di lunga durata va tenuto presente che il consenso non e` un atto formale, assunto il quale il medico ha liberta` di manovra fintantoche´ lo ritiene necessario. Il consenso all’atto medico ha la caratteristica di poter essere revocato in qualsiasi momento, e di questo lo psichiatra deve tener conto con una verifica attiva della collaborazione — e quindi del consenso — del paziente. Circa la formalizzazione dell’atto di consenso sara` opportuno raccogliere un documento scritto almeno per quei casi che hanno un certo carattere di invasivita`: ci riferiamo ai trattamenti con elettroshock e a quelli con farmaci neurolettici che possono alterare sia le condizioni psichiche del paziente che quelle fisiche. Il medico psichiatra conosce bene le controindicazioni e le influenze che alcuni psicofarmaci hanno sul fisico dell’individuo: ed e` appunto in questo tipo di terapie che e` fondamentale che egli non solo verifichi clinicamente, prima e durante il trattamento, l’assenza di pericolosita` nel soggetto, ma sara` opportuna una copertura di responsabilita` attraverso la formalizzazione scritta di un consenso che per essere “informato” deve essere preceduto da un dettagliato foglio di informazioni. Per una valida formalizzazione e` indispensabile che il paziente, o chi per lui, ponga la firma sia sul foglio di informazioni che su quello del consenso attraverso un protocollo medico-legale che non va disatteso.

7. Il consenso agli accertamenti diagnostici Lo psichiatra, come ogni altro specialista, ha la necessita` di effettuare accertamenti diagnostici. Essi possono essere di natura non cruenta e/o immuni da rischi (visite specialistiche, esami di laboratorio) o cruenti e percio` presentanti un certo coefficiente di rischio (esami radiografici, angiografici, iniezioni di mezzo di contrasto ecc.). Come principio generale e` indispensabile limitare gli esami cruenti al minimo, utilizzando semmai accertamenti analoghi effettuati di recente da altro specialista o struttura sanitaria che dia affidabilita`, anche per non sovraccaricare un paziente che spesso e` sottoposto a un lungo iter diagnostico strumentale. Un caso particolare, in cui tale attenzione deve assumere caratteristiche particolari, e` quello che vede lo psichiatra quale fiduciario di una compagnia di assicurazione. Egli assume il difficile compito di medico controllore, di medico fiscale. A prescindere dai diritti e doveri insiti nella autonomia professionale e nel rispetto del codice deontologico, lo psichiatra, cosı` come ogni altro medico deve — nell’eventualita` che gli necessitino dati provenienti da esami cruenti, in particolar modo da esami radiografici, perche´ tali sono considerate le indagini semeiologiche che utilizzano radiazioni ionizzanti — essere particolarmente attento a fornire informazioni e richiedere il consenso del paziente, non esitando a ricorrere a esami meno rischiosi, anche se meno probanti, quando il paziente rifiuti recisamente di sottoporsi all’esame indicato. Per quanto attiene alle indagini radiologiche a scopo medico-legale e assicurativo, una legge recente (n. 230 del 12 marzo 1995) ha stabilito precise norme sull’utilizzo delle radiazioni ionizzanti: «Particolare attenzione deve essere posta nella giustificazione delle indagini radiologiche espletate su singole persone o su particolari gruppi di persone con fini medico-legali e di assicurazione. Per questi esami e` escluso l’impiego della radioscopia diretta» … «Tali esami vengono effettuati con il consenso della persona interessata».

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` buona norma: motivare, magari nella richieE sta scritta fatta al radiologo, l’esame e il fine che esso si prefigge; sottolineare che per l’indagine specialistica che si domanda e` stato chiesto ed

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ottenuto il consenso informato del paziente (il radiologo non e` esentato dal chiederlo a sua volta). * * *

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MODELLO DI INFORMAZIONE: (paziente non in condizione di decidere autonomamente) Informazione in merito al caso clinico del paziente .................................................................................. nato a ...................................... il ...................................... e residente a....................................................... Lo psichiatra cui i familiari del paziente si sono rivolti per la valutazione diagnostica e la proposta terapeutica riguardante il caso ha condotto il medico a formulare diagnosi di: ................................................................................................................................................................................... La patologia, che comporta la perdita parziale o totale, costante o temporanea, della capacita` di intendere e di volere del paziente, impone la esposizione delle informazioni di prammatica al familiare o all’avente diritto signor ...................................................................................................................................................................... con grado di parentela ....................................................................................................................................... con mandato .......................................................................................................................................................... L’affezione del paziente si giova abitualmente del trattamento a) farmacologico a base di ................................................................................................................................ b) con elettroshock .............................................................................................................................................. c) terapie psicologiche e/o psicoanalitiche ..................................................................................................... sul quale trattamento possono esistere riserve da parte della scienza consolidata sia sulla validita` terapeutica, che non potra` necessariamente essere risolutrice della patologia (guarigione stabile e definitiva), sia sulle possibili ed imprevedibili influenze negative sotto il profilo fisico e psicologico. Ciononostante lo psichiatra che prendera` in cura il/la paziente ritiene in scienza e coscienza che la terapia proposta sia, al momento, la piu` idonea al trattamento terapeutico del caso. Chi riceve dette informazioni dichiara di aver ben compreso il loro significato. Lo psichiatra

per il paziente

Il consenso informato

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ATTO DI CONSENSO Il sottoscritto ......................................................................................................................................................... ................................................................................................................................................................................... nel pieno possesso delle proprie facolta` mentali, dopo aver preso visione delle accluse e sottoscritte note informative sulle condizioni di salute mentale del paziente ................................................................................................................................................................................... e sulle prospettive terapeutiche, ivi comprese le ampie riserve sull’esito stabile e definitivo del trattamento proposto, trattamento che peraltro appare al momento il piu` idoneo, acconsente alla terapia ..................................................................................................................................................................... proposta dal dott.\prof ........................................................................................................................................ per il proprio congiunto/affidato ...................................................................................................................... sollevando sin d’ora il medico da responsabilita` derivanti dal trattamento medesimo che non siano quelle determinate da una sua condotta negligente. Il responsabile

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MODELLO DI INFORMAZIONE: (paziente in condizione di decidere autonomamente) Informazione in merito al caso clinico del paziente .................................................................................. nato a ........................................... il ........................................... e residente a ...........................................

Lo psichiatra cui il signor ................................................................................................................................. si e` rivolto per la valutazione diagnostica dei propri disturbi e la conseguente proposta terapeutica ha formulato la seguente diagnosi: La patologia di che trattasi si giova abitualmente del trattamento a) farmacologico a base di ................................................................................................................................ b) con elettroshock .............................................................................................................................................. c) terapie psicologiche e/o psicoanalitiche ..................................................................................................... Lo psichiatra che prende in cura il/la paziente ................................................................................... ritiene in scienza e coscienza che la terapia proposta sia, al momento, la piu` idonea al trattamento terapeutico del caso, pur esprimendo al paziente le doverose riserve sull’esito del trattamento (guarigione stabile e definitiva) e sulle sue possibili influenze fisiche e psichiche che da detto trattamento possano derivare. Esse comunque saranno valutate e corrette in corso di terapia. Chi riceve dette informazioni dichiara di aver ben compreso il loro significato.

Lo psichiatra

Il paziente

Il consenso informato

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ATTO DI CONSENSO Il sottoscritto nel pieno possesso delle proprie facolta` mentali, dopo aver preso visione delle accluse e sottoscritte note informative sulle sue condizioni di salute mentale e sulle prospettive terapeutiche, ivi comprese le ampie riserve sull’esito stabile e definitivo del trattamento proposto, trattamento che peraltro appare al momento il piu` idoneo, acconsente alla terapia ..................................................................................... ................................................................................................................................................................................... proposta dal dott.\prof. ....................................................................................................................................... sollevando sin d’ora il medico da responsabilita` derivanti dal trattamento medesimo che non siano quelle determinate da una sua condotta negligente. Firma

Data

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51 Le urgenze in psichiatria Alberto Scavo Parole chiave crisi; emergenza; urgenza; agitazione psicomotoria; blocco psicomotorio; minaccia di suicidio

L’urgenza psichiatrica nasce dall’incapacita` dell’individuo e/o dell’ambiente di affrontare una situazione psicopatologica acuta. Varie possono essere le situazioni: da una crisi di angoscia ad uno stato di eccitamento maniacale, da un tentativo o minaccia di suicidio ad una grave crisi depressiva, da uno stato confusionale ad una intossicazione da sostanze psicoattive, ecc. Evidente quindi che l’intervento psichiatrico di urgenza comporta conoscenze mediche, medico-

legali, psichiatriche e soprattutto capacita` intuitive e di sintesi, perche´ sul piano operativo spesso e` necessario prendere rapidamente decisioni. Decisioni che corrette o sbagliate potranno incidere positivamente o negativamente sull’iter successivo del paziente. Non escludendo che a volte un intervento corretto puo` essere risolutivo della situazione d’urgenza. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Caratteri dell’urgenza psichiatrica

1.1. Nozioni generali Si riconosce come urgenza psichiatrica l’incapacita` di un individuo di affrontare una situazione che oltrepassa le sue capacita` di elaborazione ed adattamento. Il concetto e` legato a quello di crisi e di emergenza, utilizzati come sinonimi di «urgenza» e che invece e` opportuno distinguere (Cuzzolaro, Vetrone, 1986). Crisi (krisis) significa appunto scelta ed indica una situazione che, anche nella terminologia strettamente medica, identifica un cambiamento in peggio ma anche in meglio. Ed e` questa la lettura che va data anche in Psichiatria. La crisi intesa come aperta richiesta di aiuto o sblocco liberatorio di una conflittualita` a lungo ignorata e compressa, che puo` quindi evolvere in una situazione di alleggerimento liberatorio o in una ulteriore involuzione di tipo regressivo secondo la risposta che ` quindi viene data dall’esterno a chi la propone. E evidente quanto la crisi rappresenti spesso una buona occasione di intervento tenendo peraltro presente che spesso la crisi non si presenta con i caratteri dell’«urgenza» ma contempla invece i caratteri della gravita`, della acuzie e della necessita` di immediato trattamento secondo la valutazione di condizione patologica in medicina. «Emergenza», termine piu` vicino nella accezione comune a quello di «urgenza», puo` spesso indicare piu` che uno scompenso proprio di chi la propone, una rottura dell’equilibrio dinamico del paziente con l’ambiente. Urgenze psichiatriche intese anche in senso parziale come «crisi» o come «emergenza» si manifestano spesso in quei periodi della vita che Sifneos (1972) ha definito «situazioni di rischio», come l’adolescenza ed il pensionamento. ` evidente a questo punto che l’urgenza psiE chiatrica va affrontata sempre considerandone i suoi aspetti parziali di crisi, di emergenza e di situazione di rischio; cosı` come pure e` importante considerare la manifestazione acuta proposta dal paziente come tentativo di soluzione autoterapico

dopo avere constatato la inefficacia delle compensazioni fino ad allora utilizzate.

1.2. Note storiche La psichiatria d’urgenza e` stata oggetto di studio e si e` evoluta soprattutto negli ultimi venti anni, grazie ai progressi fatti dalle terapie psicologiche, biologiche ed allo sviluppo della psichiatria di comunita`. Importanti gli studi di psicoterapia breve e le elaborazioni della crisi da parte di H. Malan (1976) e di G. Gillieron (1983). Con la riforma psichiatrica del 1978 in Italia sono stati istituiti all’interno degli Ospedali generali i Servizi di Diagnosi e Cura, destinati in particolare alla psichiatria d’urgenza. L’invio a questi servizi di Diagnosi e Cura e` tuttora complesso in quanto e` richiesto dai medici generici, da centri specialistici (Dipartimenti di Salute Mentale), da servizi di Pronto Intervento Cittadino (P.I.C.) ed alle volte direttamente dalle forze di Polizia o dai Carabinieri. Ma questi interventi sono tutt’oggi poco coordinati fra loro, per cui l’urgenza psichiatrica ed in particolare quella sul territorio viene vissuta con disagio dagli operatori che la affrontano. Sia perche´ per le sue caratteristiche e` poco prevedibile, sia perche´ chi la affronta sa che raramente esiste una struttura che gestira` il «dopo crisi» con un supporto psicosociale adeguato nel tempo; da cio` la consapevolezza frustrante di attivare un meccanismo solo parziale. L’urgenza sul territorio diventa cosı` una difficolta` da delegare spesso «ad altri», con conflitti di competenza che altro non mascherano se non il timore di affrontare un paziente che gia` altre volte e` stato ricoverato in modo coatto senza che la sua situazione cambiasse. Il discorso coinvolge il problema della collaborazione fra strutture di collegamento fra medici, medicina generale e psichiatri; ma soprattutto della formazione psicologica di base che dovrebbe essere data ad ogni medico. ` questo il campo della «Psichiatria di colleE gamento», branca di indiscutibile interesse e necessita` sviluppatasi negli ultimi anni per creare un tessuto connettivo fra i reparti ospedalieri, gli

Le urgenze in psichiatria

ambulatori dove operano medici non psichiatri e dove vengono affrontate buona parte delle emergenze psichiatriche e la Psichiatria (vedi capitolo «Psichiatria di collegamento»). Il lavoro di collegamento tra la Psichiatria e le altre branche mediche e` stato pero` complicato dalle evoluzioni della Psichiatria, che negli ultimi decenni ha oscillato da una posizione tendente alla «psicologizzazione» totale del problema clinico ad un rilancio della psichiatria biologica e «neokraepeliniana».

2. Classificazione delle urgenze psichiatriche Si propongono quattro categorie generali delle urgenze che si possono presentare al medico o allo psichiatra. 1)

2)

3)

4)

Urgenze esclusivamente psichiatriche: a) crisi di agitazione; b) crisi di depressione; c) crisi di angoscia; d) stato confusionale; e) blocco psicomotorio; f) minaccia di suicidio. Urgenze somatopsichiche, che si presentano come una combinazione di sintomi somatici e psichici. Urgenze pseudosomatiche, che sono urgenze psichiatriche camuffate dall’offerta di un disturbo somatico; Urgenze «pseudopsichiatriche», che sono urgenze somatiche che si manifestano con prevalenza di disturbi psichici.

2.1. Urgenze esclusivamente psichiatriche

2.1.1. Crisi di agitazione

Sono stati di tensione e di esaltazione disordinata nei quali l’angoscia si manifesta con iperattivita` nell’area psicomotoria. Spesso e` presente aggressivita` contro cose o persone o autodiretta. Il paziente deve essere

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sedato e contenuto solo in casi estremi, ed e` buona norma che il colloquio si svolga in un luogo privo di oggetti pericolosi. Sono presenti in quadri clinici diversi; quelli che giungono all’osservazione del medico con maggiore frequenza sono espressione di: — — — — — — — — — —

schizofrenia acuta; fase maniacale di una psicosi maniacodepressiva; furore epilettico; bouffe´e delirante oniroide; psicosi involutiva; psicopatia; furore isterico; crisi di astinenza da droga o farmaco (tossicomania); crisi di agitazione da intossicazione da droga, farmaci o alcool; oligofrenia.

2.1.2. Crisi depressive

La depressione si manifesta con umore depresso, senso di fallimento ed inadeguatezza che spesso si configurano come crisi esistenziale; il piu` delle volte si associano disturbi somatici come insonnia, perdita di peso, diminuzione della libido. «La melanconia e` psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacita` di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attivita` e da un avvilimento del sentimento di se´ che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione. Questo quadro guadagna in intelleggibilita` se consideriamo che il lutto presenta – ad eccezione di una – le medesime caratteristiche; nel lutto non compare il disturbo del sentimento di se´, ma per il resto il quadro e` lo stesso» (S. Freud). L’anamnesi e l’osservazione del caso clinico sono indispensabili per riconoscere le varie forme di depressione qui elencate: — —

depressione nevrotica; depressione reattiva;

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fase depressiva di una psicosi maniaco-depressiva; depressione sintomatica; stupore (isterico, confusionale, schizofrenico); sindrome presuicidaria (tentato suicidio o minaccia di suicidio), trattata anche in un altro capitolo di questo Manuale al quale si rimanda per l’importanza del discorso.

— — —

` importante nell’approccio con il depresso E accettarlo nella sua situazione regressiva e proteggerlo dagli stimoli che ne possono aumentare la sensazione di inadeguatezza. Il depresso va soprattutto ascoltato, e una terapia farmacologica deve tamponare prima di tutto la quota di ansia con benzodiazepine, ed eventuali tematiche deliranti con neurolettici. Un primo approccio con terapia antidepressiva (triciclici o antidepressivi di altra struttura) in una situazione di urgenza da` in genere risultati scarsi. 2.1.3. Crisi di angoscia

Hanno etiologia diversa e sono di osservazione molto frequente. Ne elenchiamo le piu` comuni: — — — — — —

scompenso di un quadro nevrotico; scompenso di un quadro psicopatico; reazione da stress; inizio di un quadro psicotico; reazione ad ingestione di farmaci vari; crisi di astinenza (da farmaco o droga).

L’ansia, di cui l’angoscia rappresenta una manifestazione acuta, propone un versante somatico caratterizzato da tachicardia, tremori, disturbi respiratori, disturbi della muscolatura liscia, disturbi vasomotori ed un versante psichico. Il versante psichico e` caratterizzato da un presentimento di pericolo, da stato di allarme, da un atteggiamento centripeto che rende impossibile la soluzione di problemi reali, da una profonda sensazione di impotenza. La crisi di angoscia si differenzia da quella di paura in quanto quest’ultima si riferisce ad un pericolo reale e non ad un pericolo irreale o immaginario come quello che scatena l’angoscia.

2.1.4. Stato confusionale

Gli stati confusionali acuti sono manifestazioni psichiche che possono derivare da situazioni organiche. Quelli di piu` comune osservazione sono l’espressione di: — — —

episodi schizofrenici acuti con alterazione dello stato di coscienza; episodi maniacali; psicosi puerperali e gravidiche.

Sono caratterizzati da alterazioni dell’orientamento e dello stato di coscienza, e da disturbi della memoria, in particolare di quella a breve termine.

2.1.5. Blocco psicomotorio

` un arresto dell’attivita` psicomotoria che si E puo` manifestare in modo totale o parziale. L’urgenza viene di solito motivata dal defedamento fisico del paziente che non si alimenta da lungo tempo. Il quadro clinico puo` essere l’espressione di una grave depressione, di schizofrenia (catatonica), di intossicazione (sostanze stupefacenti o psicofarmaci) o di una reazione psicogena ad un grave stress.

2.1.6. Minaccia di suicidio

` un’emergenza psichiatrica relativamente E frequente che si propone come espressione di una depressione maggiore, di una reazione psicogena depressiva o di schizofrenia. Si rimanda il lettore al capitolo specifico per una trattazione estesa del quadro clinico.

2.2. Urgenze somatopsichiche Sono quadri clinici con disturbi somatici e psichici combinati, come l’angoscia che si accompagna all’infarto del miocardio o ad una colica

Le urgenze in psichiatria

addominale, e che si possono contenere in modo adeguato con l’uso di una benzodiazepina.

2.3. Urgenze pseudosomatiche Sono sindromi di interesse psichiatrico che si nascondono dietro sintomi somatici acuti che polarizzano l’attenzione del medico. Sono forse i casi piu` facilmente trattati a sproposito da medici generici e nei pronti soccorsi. Spesso la storia di questi pazienti e` una storia di interventi chirurgici ripetuti e ricoveri inutili (sindromi conosciute come polysurgical addiction o hospital addiction). Secondo alcuni autori, solo la forma meno critica (e piu` psicotica) di polysurgical addiction corrisponderebbe alla sindrome di Mu¨ nchausen (termine proposto da Asher nel 1951 per riferirsi a quei pazienti che passano da un ospedale all’altro dando false informazioni sul loro stato di salute simulando malattie mediche o chirurgiche)1. Questi sono i casi che richiedono piu` di altri una capacita` di lettura e di decodificazione del sintomo da parte del medico, presupponendone una adeguata preparazione.

2.4. Urgenze pseudopsichiatriche Sono crisi che si manifestano con disturbi psicopatologici acuti cui sottostanno gravi malattie somatiche. Esempi di tale quadro sintomatologico possono essere un grave stato ansioso che maschera un infarto del miocardio, la depressione grave in un morbo di Addison, crisi epilettiche in un adenoma pancreatico, malattie cerebrali come trombosi, tumori, encefalopatie tossiche, ascessi, meningoencefaliti. Stati ansiosi possono essere la manifestazione piu` evidente in sindromi cliniche piu` complesse quali: intossicazione da anfetamine e simili, aterosclerosi cerebrale, ipertensione, iper ed ipocalcemia, ipopotassiemia, feocromocitoma.

1

Da Cheng L.; Hummel L., 1978.

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Caratteristico il quadro psicopatologico che si puo` accompagnare alla porfiria che in fase di crisi si manifesta con eccitamento, confusione, allucinazioni o depressione. Sono diagnosi difficili per le quali sono indispensabili una accurata raccolta anamnestica ed una attenta osservazione di disturbi collaterali alle volte apparentemente poco significativi.

3. Linee generali di intervento: indicazioni e controindicazioni La premessa per un intervento in una urgenza psichiatrica e` che si deve essere pronti ad affrontare un lavoro stressante e spesso difficile che richiede capacita` di lettura dei segni al di la` delle parole, ed abilita` nel tollerare l’ambiguita` di una situazione che peraltro richiede decisioni veloci. Si presuppone da parte dell’operatore una buona conoscenza della psicodinamica psichiatrica, della medicina generale, della neurologia e della psichiatria biologica; a cio` si deve aggiungere la consapevolezza delle risorse sociali sulle quali puo` contare ed ovviamente una buona conoscenza della medicina legale. (vedi capp. 50 e 65). Premesso che e` indispensabile un adattamento flessibile ad ogni situazione di emergenza psichiatrica che si deve affrontare, elencheremo alcune delle regole fondamentali da tenere presenti. 1)

2)

Proporsi sempre con chiarezza specificando il proprio nome e qualifica ed evitando sotterfugi e menzogne che, svelati in breve tempo, non farebbero che aumentare la confusione e la diffidenza del paziente. Raccogliere una anamnesi la piu` completa possibile, confrontandola con l’esame somatico e gli altri elementi clinici che permettono di capire che tipo di urgenza psichiatrica si stia affrontando. In base a questa valutazione si intervenga con una terapia adeguata di tipo psicofarmacologico. Quando il caso sia di stretta pertinenza psichiatrica, e quando questo sia necessario, si intervenga o con un ricovero in ambiente psichiatrico o internistico oppure con misure di pronto soccorso indispensabili.

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3)

Sintonizzare il proprio intervento non solo con la disponibilita` e le risposte del paziente, ma anche in relazione alle risonanze ansiose o aggressive dell’ambiente. Ovviamente si dovra` restare soli con il paziente tutte le volte che cio` sia possibile, per permettergli di verbalizzare con maggiore liberta` le sue richieste ed il suo stato d’animo. Un orientamento interpretativo psicoanalitico aiutera` a cogliere il senso profondo di una patologia acuta e permettera` all’operatore di decodificarlo anche agli altri operatori. Per far cio`, meglio sarebbe potere fare questo intervento in un ambiente che permettesse di stabilire un setting piu` corretto, ma rinunciare ad un intervento domiciliare sulla crisi farebbe perdere una serie di elementi conoscitivi apprezzabili solo in loco. ` opportuno essere chiari, calmi e pazienti, E trasmettendo al paziente una sensazione di sicurezza ed interesse ma soprattutto proporgli soluzioni semplici, piuttosto che prescrizioni comportamentali o interpretazioni complesse che gli creerebbero solo ulteriore confusione. Somministrare psicofarmaci non seguendo schemi fissi, ma adattando sostanza, dosi e via di somministrazione caso per caso, secondo la necessita`. Si propone uno schema indicativo dei farmaci piu` maneggevoli per dosaggi relativi ad un’unica somministrazione (Tabella 1). Spesso e` necessario utilizzare un cocktail di farmaci (es. un ansiolitico e.v. ed un neurolettico i.m.) quando si vuole ottenere una sedazione immediata ed un effetto prolungato; cosı` come e` opportuno associare al farmaco fleboclisi reidratanti nei pazienti che non bevono da molte ore. Va tenuto presente che ogni somministrazione di farmaci va fatta considerando le interazioni con farmaci gia` assunti, il peso corporeo del paziente e soprattutto l’eta` in quanto gli psicofarmaci, che a dosi eccessive provocano effetti paradossi (di agitazione) nei pazienti giovani, negli anziani, anche a dosi modeste, possono aumentare uno stato confusionale. Piu` complesso e` cosa fare nella sindrome presuicidaria, che rappresenta una discreta

4)

5)

percentuale delle urgenze psichiatriche. ` caratterizzata da depressione, fantasie di E morte, presenza di idee autoaggressive. Si puo` presentare nelle situazioni piu` diverse, ma spesso e` in relazione con terapie antidepressive mal gestite o in fase iniziale, quando il nucleo depressivo e` presente ma i farmaci hanno sbloccato l’inibizione psicomotoria, o in periodi di remissione di una crisi psicotica, quando il paziente ha maggiore consapevolezza del proprio stato di malattia. ` quindi importante valutare il rischio di E queste situazioni nelle quali il paziente non puo` che contare sulle proprie difese patologiche senza poterne utilizzare altre.

4. I casi clinici Si propongono due interventi di urgenza psichiatrica: un caso di depressione nevrotica con minaccia di suicidio gestito telefonicamente durante la notte, ed una visita fatta da una equipe di un Centro di Salute Mentale, nell’abitazione di una paziente psicotica. ` UTILIZZATI Tabella 1 - PSICOFARMACI PIU Sostanza

Nome commerciale

Via parenterale

Via orale

Diazepam

Valium

F l e b . , i m . , cpr. o gutt. ev., 5-10 mg 10-20 mg

Prometazina

Fargan

Fleb., im., 50 mg

conf. 25-50 mg

Aloperidolo

Serenase

Fleb., im. 2-4 mg

cpr. gutt. 2-4 mg

Clotiapina

Entumin

Fleb., im. 40 mg

cpr. gutt. 40-60 mg

Promazina

Talofen

Fleb., im. 50-100 mg

cpr. 100-200 mg

Bromazepam

Lexotan

Gardenale

Gardenal

Clomipramina Anafranil

cpr. gutt. 3-9 mg Fleb., im. 100-200 mg

cpr. 100-200 mg

Fleb., im. 25-50 mg

conf. 25-75 mg

Le urgenze in psichiatria

1o Caso Il paziente, Giulio P., di 36 anni telefona a tarda sera ad uno psichiatra che ha conosciuto alcuni mesi prima a casa di amici. Dice di sentirsi molto depresso, confuso, angosciato e di avere propositi suicidi. Lo psichiatra si rende conto di dover dare una risposta immediata, telefonica, tale da rompere la tensione e l’idea ossessiva di morte; piuttosto che approfondire le motivazioni della sua depressione o tentare di rassicurarlo minimizzando i sintomi proposti, gli chiede di descrivergli la stanza dalla quale sta telefonando e gli oggetti in essa contenuti, poi chiede notizie sempre piu` dettagliate sugli oggetti, la loro storia, i loro colori. Il paziente ha una occasione per interrompere la spirale ossessiva nella quale si e` sentito imprigionato fino ad allora e segue all’inizio faticosamente, poi di buon grado, questa traccia che gli permette di riprendere contatto con la dimensione esterna di oggetti conosciuti e rassicuranti, e dopo circa mezz’ora accetta di continuare il discorso il giorno seguente. 2o Caso Una visita domiciliare viene sollecitata dalla madre di Carmela V., che si reca presso un D.S.M. lamentandosi della aggressivita` e della ingestibilita` della figlia 24enne gia` ricoverata con TSO presso reparti di Diagnosi e Cura in occasione di due fughe da casa. L’intervento viene fatto da una e´quipe composta da uno psichiatra, da una infermiera e da una assistente sociale. Il nucleo familiare, composto da madre e figlia, vive in un rustico, all’estrema periferia della citta`, privo di vetri alle finestre e molto povero negli arredi ma apparentemente pulito. La madre, che accoglie l’equipe e che e` notoriamente alcolista, raccomanda prudenza perche´ la figlia e` molto aggressiva. La paziente accoglie gli operatori distesa su una branda e finge di dormire, ma all’avvicinarsi degli operatori si alza improvvisamente brandendo un martello che, a suo dire, serve per difendere la sua «virtu`» da attacchi esterni; peraltro assume atteggiamenti seduttivi alzando la gonna in continuazione ed imitando una cantante

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nota per gli atteggiamenti e l’abbigliamento sempre molto audaci. ` disorientata su tempo, spazio e persone, ed E esprime in modo concitato fantasie mistiche e magiche, alternate a minacce sconnesse. Si apprende dalla madre e dai vicini che crisi simili si erano gia` verificate per Carmela in passato, come risposta alle violenze del padre con il quale sembra abbia avuto una relazione incestuosa. Del padre si apprende che e` stato ucciso pochi mesi prima con un martello, durante una lite, dal fratello di Carmela attualmente in carcere. Miseria, ignoranza ed alcolismo sono lo sfondo di questo quadro tragico del quale si potrebbero dare molte interpretazioni complesse; l’e´quipe deve prendere decisioni immediate che sono: a)

b)

c)

d) e)

f)

assicurarsi che la paziente non corra pericoli immediati per ingestione di alcool o psicofarmaci presenti nella abitazione; allontanare la paziente dall’abitazione e dal rapporto perverso e violento che si e` creato con la madre; contenere la paziente ed impostare una terapia psicofarmacologica che riduca lo stato confusionale o il delirio; offrirle un supporto psicologico rassicurante; inserirla, almeno per un certo periodo, in una casa-famiglia dove possa ricevere le cure che la madre non sembra in grado di darle; offrirle una assistenza anche economica e sociale che le permetta un inserimento sociale guidato.

Carmela, ricoverata per la terza volta in un reparto di Diagnosi e Cura, dove e` rimasta 10 giorni, e` stata inserita dopo la dimissione in una casa-famiglia dove si e` trovata a suo agio; assume regolarmente neurolettici a basso dosaggio e con l’aiuto di una assistente sociale e di uno psicologo sta cercando un’occupazione lavorativa semplice ed adeguata.

5. Conclusioni Il paziente che richiede l’attenzione del medico attraverso un’urgenza psichiatrica e` un pa-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ziente che spesso la propone come sintomo ricorrente che tende alla cronicizzazione nel tempo. Varie sono le cause che concorrono a questo processo: una di queste e` sicuramente identificabile nella validita` della risposta data dai neurolettici che, somministrati spesso con generosita`, tranquillizzano e obnubilano il paziente impedendo una valida lettura intrapsichica e relazionale di quanto egli offre. Alla terapia farmacologica che il piu` delle volte ha buon successo, troppo spesso non segue una strategia di sostegno del paziente e del nucleo familiare o sociale dal quale proviene. L’uso isolato del farmaco peraltro permette di liberarsi velocemente di un paziente scomodo e che scatena elementi controtransferali e risonanze emotive angoscianti che sono le stesse che motivano molti dei ricoveri nei centri di Diagnosi e Cura. Si deve considerare che il paziente che si propone attraverso una situazione di «urgenza» spesso appartiene alla fascia sociale con piu` bassa contrattualita` ed e` obiettivamente piu` difficile da sostenere per l’inconsistenza o la fragilita` del contesto familiare o sociale in cui vive. L’internamento in Ospedale o, anche per pochi giorni, nel Centro di Diagnosi e Cura, va comunque letto come fallimento delle misure di prevenzione e di Igiene Mentale che dovrebbero collegare i presidi sociosanitari specifici. ` dimostrato dalle statistiche che dove sono E operanti strutture tipo day hospital o night hospital la percentuale dei ricoveri diminuisce di molto. Il problema della gestione delle urgenze psichiatriche nell’assistenza pubblica e` complicato spesso da situazioni sottostanti di politica sociosanitaria che raramente prevedono programmi di formazione del personale medico e paramedico, che concretamente affrontano le urgenze psichiatriche, o situazioni logistiche in grado di realizzare gestioni terapeutiche efficaci.

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52 Terapie psicofarmacologiche Roberto Tatarelli Parole chiave psicofarmaci; antidepressivi; ansiolitici; antipsicotici; neurolettici; trattamento ESK

L’introduzione degli psicofarmaci e` stata considerata una vera rivoluzione nel campo psichiatrico perche´ ha reso possibile la cura di forme morbose fino ad allora destinate esclusivamente ad una assistenza custodialistica. Ma sottolineare solo l’aspetto terapeutico degli psicofarmaci e` certamente parziale: infatti gli psicofarmaci sono da considerarsi delle vere e proprie sonde chimiche che hanno permesso notevoli progressi nella conoscenza dei neurotrasmettitori e quindi del funzionamento del SNC. Gli psicofarmaci attualmente sono in grado di agire sulle principali e piu` frequenti manifestazioni psicopatologiche: dall’ansia alla depressione, dalla schizofrenia alla mania. Non bisogna pero` sottovalutare che se lo psicofarmaco e` utile e necessario nel ridurre e sbloc-

care una situazione psicopatologica, a poco serve se poi questo miglioramento non e` sostenuto e mantenuto da un lavoro psicoterapico che agisce proprio la` dove l’azione dello psicofarmaco si arresta. Quando il paziente, in tono rassegnato, e il medico, in tono persuasivo, affermano che «il farmaco non risolve i problemi», dicono la verita`. Lo psicofarmaco puo` essere infatti utilizzato per aprirsi un varco nel rapporto con il paziente e per attenuarne la sofferenza, ma puo` anche essere utilizzato in maniera difensiva, per elevare un muro che serva a non ascoltare le tante domande, esplicite o latenti, verbalizzate o inespresse, che il paziente si rivolge e rivolge al medico. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Terapia dei disturbi dell’umore

1.1. La terapia antidepressiva L’individuazione dei disturbi depressivi che sicuramente si giovano di una terapia farmacologica non e` semplice, non essendoci un criterio indicativo condiviso da tutti i clinici. La posizione concettuale che ogni sintomo depressivo deve essere il target di un farmaco antidepressivo non e` sostenibile, perche´ conduce all’uso indiscriminato e potenzialmente dannoso di questi farmaci anche in condizioni psicopatologiche meglio curabili altrimenti. Secondo l’attuale esperienza ci si puo` attendere un effettivo beneficio (superiore agli effetti del placebo) nei casi definiti, secondo le varie terminologie, come depressione endogena, depressione maggiore e depressione bipolare. Nelle forme «nevrotiche» e nei disturbi della persona-

lita` di tipo depressivo si e` generalmente concordi nel privilegiare altri tipi di intervento, anche se l’uso dei farmaci puo` non essere controindicato. Nelle depressioni di natura organica (sindrome affettiva organica, che comprende anche gli episodi maniacali) la terapia deve essere, per quanto possibile, eziologica.

1.1.1. Gli antidepressivi

A. Farmacologia I farmaci usati nella terapia della depressione sono gli antidepressivi (AD) triciclici (TCA, con l’acronimo inglese), gli AD di seconda generazione e gli inibitori delle monoamino-ossidasi (IMAO) (Tab. 1). Tutti gli antidepressivi hanno un’azione sui neurotrasmettitori aminergici (noradrenalina, serotonina, dopamina), sebbene i vari composti possiedano azioni prevalenti sull’uno o sull’altro sistema.

Tabella 1 - ANTIDEPRESSIVI E DOSI TERAPEUTICHE ORIENTATIVE

TCA

mg/die

AD II gener.

mg/die

IMAO

mg/die

Amitriptilina

50-100

Amineptina

100-300

Isocarbossazide

10-30

Clomipramina

50-100

Fluoxetina

20-60

Tranilcipromina

10-30

Desipramina

50-200

Fluvoxamina

100-200

Doxepina

50-200

Mianserina

60-120

Imipramina

50-200

Trazodone

100-300

Maprotilina

50-150

Viloxazina

100-300

Nortriptilina

30-150

Protriptilina

15-60

Trimipramina

100-300

L’azione farmacologica dopo trattamento acuto consiste, per i TCA, nel blocco della ricaptazione delle amine attraverso l’intervento dei recettori postsinaptici e presinaptici (autorecettori): in pratica si rendono disponibili per la neurotrasmissione maggiori quote di amine. Dopo somministrazione cronica i risultati sul turnover dei neurotrasmettitori sono meno chiari e piu` diffe-

renziati rispetto al tipo di antidepressivo utilizzato. Si puo` assistere ad un rallentamento del turnover, compensatorio della maggior disponibilita` di amine; inoltre e` presente un effetto sui recettori postsinaptici definito come down regulation, e consistente in una diminuzione della sensibilita` recettoriale postsinaptica. Gli IMAO esplicano la loro azione farmaco-

Terapie psicofarmacologiche

logica a livello degli enzimi deputati al catabolismo delle amine cerebrali (MAO, monoaminoossidasi), permettendo cosı` un accumulo di questi neurotrasmettitori a livello del neurone, e rendendoli pronti per l’utilizzo nella trasmissione nervosa. I sistemi enzimatici MAO sono di tipo A e B. I farmaci in commercio in Italia sono inibitori selettivi delle MAO A. Dopo somministrazione cronica gli IMAO non producono la down regulation dei recettori, tranne di quelli serotoninergici. Queste azioni sulla ricaptazione delle amine, pur se non specifiche degli AD, sono state alla base della cosiddetta «ipotesi aminica» della depressione, in cui si sosteneva che il disturbo fosse dovuto a deficit delle amine cerebrali (una conferma veniva dal fatto che la reserpina, farmaco che provoca una deplezione aminica, era capace di indurre una depressione del tono dell’umore, anche se solo in soggetti predisposti). Un’altra ipotesi, legata al meccanismo d’azione degli AD sui diversi sistemi neurotrasmettitoriali, prevedeva di differenziare le depressioni in base al tipo di trasmettitore coinvolto. Tale ipotesi, che aveva fatto proporre una «tipologia molecolare» della depressione, viene ritenuta inattuale, poiche´ e` stato dimostrato che ogni antidepressivo agisce, sebbene in maniera diversa, su tutti i sistemi aminergici, e anche su quello GABAergico (lo stesso sul quale agiscono le benzodiazepine). Attualmente viene ritenuta piu` attendibile l’ipotesi secondo la quale alla base del disturbo depressivo ci sarebbe una anormalita` della regolazione recettoriale, ma i dati non sono univoci, soprattutto in relazione alle modificazioni osservate in acuto e dopo somministrazione cronica. La maggior parte degli AD hanno anche azione anticolinergica centrale e periferica. Tra i vari composti la maggior potenza anticolinergica e` da attribuirsi all’amitriptilina; medi effetti anticolinergici sono evidenziabili per la clomipramina, la doxepina, l’imipramina, la nortriptilina, la trimipramina; minimi effetti sono riscontrabili per la desipramina, la maprotilina, il trazodone, la fluoxetina. L’amineptina, la mianserina e gli IMAO (come la tranilcipromina) non hanno azione anticolinergica apprezzabile. Va messo l’accento sul fatto che questa azione rende conto

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della maggior parte degli effetti collaterali e delle controindicazioni. Per cio` che riguarda la farmacocinetica i TCA hanno caratteristiche sovrapponibili: sono assorbiti completamente dopo somministrazione orale, il metabolismo e` epatico, l’escrezione e` per 2/3 renale, il legame con le proteine plasmatiche intorno al 90%. L’emivita mostra un’ampia variabilita` interindividuale, specie nella fase di eliminazione lenta. Anche gli AD di seconda generazione condividono le stesse caratteristiche, ma l’emivita e` piu` variabile; molto lunga, per esempio, e` quella della fluoxetina, 24-96 ore. Gli IMAO vengono assorbiti rapidamente, hanno un’emivita di 20-30 ore, ma i loro effetti farmacologici sono piu` persistenti (2-3 settimane); la tranilcipromina ha sulle MAO un’azione reversibile. B. Uso clinico La scelta dell’antidepressivo va fatta tenendo conto della capacita` di indurre effetti indesiderati e in base alla prevalenza, nel quadro clinico, di ansia-insonnia, di inibizione-rallentamento o di tratti misti. Nelle depressioni con piu` cospicua sintomatologia ansiosa sono raccomandate le seguenti sostanze: amitriptilina, trazodone, doxepina, trimipramina, mianserina. Nelle depressioni inibite si consigliano la desipramina, la protriptilina, l’amineptina, la tranilcipromina. Nelle depressioni con caratteristiche miste sono da preferire l’imipramina, la clomipramina, la nortriptilina, la maprotilina. La scelta del farmaco puo` avvenire anche sulla base di dati anamnestici sull’uso di sostanze risultate efficaci. Si deve inoltre ricordare che ci sono fattori, farmacologici e non, che possono condizionare la risposta terapeutica: ad esempio cattiva relazione medico-paziente, aspetti particolari di personalita`. L’associazione tra due o piu` farmaci AD non e` considerata piu` efficace dell’uso di un solo AD; quella tra IMAO e TCA, sebbene consigliata in casi di depressione «resistente», e` da evitarsi per il pericolo di gravi crisi ipo- o ipertensive. L’aggiunta di benzodiazepine e` utile solo quando la componente ansiosa sia particolarmente grave e

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

non dominabile dal solo antidepressivo (scelto tra quelli piu` sedativi). Nelle depressioni psicotiche l’associazione con neurolettici e` poco documentata. Per quasi tutti i TCA il dosaggio pro die e` tra 50 e 200 mg. Per la protriptilina e` di 15-60 mg/die, ` per la maprotilina di 50-150 mg/die (Tab. 1). E buona norma iniziare sempre il trattamento con dosi scalari, per controllare l’eventuale tossicita` e gli effetti collaterali; anche la sospensione del trattamento non dovrebbe avvenire bruscamente. Il dosaggio e` comunque da individualizzare rispetto al paziente, sia per la sintomatologia sia per la tollerabilita`. La dose minima terapeutica puo` essere raggiunta entro la prima settimana, tenendo conto che l’azione degli AD sul tono dell’umore si manifesta dopo 10-15 gg.; piu` precoci sono invece gli effetti sedativi e il miglioramento del rallentamento psicomotorio. Questa azione «difasica» dei TCA deve essere attentamente valutata qualora ci si trovi di fronte a pazienti con ideazione suicidaria, poiche´ la disinibizione ottenuta, in presenza degli ancora non modificati temi depressivi, puo` favorire la messa in atto dei propositi autolesivi. La risposta antidepressiva si ha generalmente entro 3-4 settimane dall’inizio della terapia; il trattamento va proseguito fino alla stabilizzazione dei risultati, tenendo pero` sotto controllo la possibilita` di fenomeni di eccitazione, vale a dire lo scatenamento (viraggio) di euforia patologica e/o di mania. In alcuni pazienti, soprattutto quelli sofferenti di depressione ricorrente (tipo unipolare), e` stata proposta una terapia di mantenimento protratta per sei mesi, poiche´ si e` accertato che tale procedura e` in grado di limitare significativamente le ricadute. Nei pazienti bipolari e in quelli unipolari predisposti tale utilizzo puo` pero` favorire il fenomeno di rapid-cycling, che consiste nel rapido alternarsi di fasi maniacali e depressive (piu` di due cicli completi, ovvero piu` di quattro episodi in un anno). La constatazione della difficolta` di trattamento di tali forme dovrebbero sconsigliare l’uso prolungato (e ripetuto) di terapie antidepressive. C. Controindicazioni e precauzioni Esistono, fondamentalmente, tre controindi-

cazioni assolute per i TCA: il primo trimestre di gravidanza, il glaucoma, l’ipertrofia prostatica. I cardiopatici, i gravi epatopatici e gli epilettici sono da considerarsi categorie a rischio, nelle quali e` bene considerare l’opportunita` del trattamento dopo aver valutato il grado di compromissione funzionale (cuore e fegato) e la gravita` clinica (epilessia). I TCA possono provocare ipotensione ortostatica, tachicardia, anomalie elettrocardiografiche (allungamento del tratto QRS, appiattimento dell’onda T), aritmie. In caso di pazienti cardiopatici conviene utilizzare la nortriptilina o gli AD di seconda generazione, molto piu` sicuri per quanto concerne gli effetti cardiovascolari. Nei pazienti epilettici la controindicazione e` legata alla capacita` dei TCA di abbassare la soglia convulsiva; negli epatopazienti possono aversi fenomeni di accumulo e intossicazione. L’intossicazione acuta ha effetti a carico del cuore e del SNC. La sintomatologia e` caratterizzata da convulsioni, gravi aritmie, coma. Possono esserci fibrillazione e flutter atriali e ventricolari, asistolie, blocchi AV completi o incompleti; l’intervallo QRS e` superiore a 100 msec. Possono presentarsi agitazione psicomotoria e stato confusionale, midriasi, ritenzione urinaria e paralisi intestinale. Dosi di 1-2 g di TCA sono risultate letali; dosi minori sono ugualmente letali se prese in associazione con altri sedativi del SNC (compreso l’alcool). Il trattamento dell’intossicazione va fatto in terapia intensiva, con terapia sintomatica delle funzioni compromesse e somministrazione di salicilato di fisostigmina a dosi di 1-4 mg e.v. In caso di convulsioni e` utile il diazepam e.v. D. Effetti indesiderati Quelli legati all’effetto anticolinergico sono: secchezza delle fauci (20-40%), stipsi (10-30%), visione offuscata (10-20%), ritenzione urinaria (5-10%), vertigini. Negli anziani, molto sensibili agli effetti anticolinergici, e` possibile una vera e propria sindrome confusionale con agitazione. Tra gli altri effetti sono da citare le alterazioni a carico della curva glicemica nei diabetici. Un effetto indesiderato gia` ricordato consiste nello scatenamento di crisi di eccitamento, ipomaniacali o francamente maniacali oppure con sfumature di irritabilita`-aggressivita`. A volte il

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trattamento puo` provocare ansia (piu` spesso con amineptina, desipramina, fluoxetina, protriptilina), facilmente dominabile con l’associazione con benzodiazepine. Alterazioni a carico dell’appetito con anoressia e diminuzione di peso sono possibili con amineptina e fluoxetina. Rischi per la crasi ematica (e alterazioni delle transaminasi) sono segnalati per la mianserina. Per il trazodone vengono riportati nel maschio priapismo, impotenza, inibizione dell’eiaculazione (in circa l’1% dei casi trattati)1.

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comotorio, sia di controllare i disturbi psicotici eventualmente presenti nella fase maniacale. Nella sindrome maniacale vengono usati efficacemente i neurolettici. Il farmaco antimaniacale elettivo e` pero` il litio, che possiede pure un’azione profilattica sui disturbi bipolari. Altri farmaci, che a somiglianza del litio possiedono azione antimaniacale e preventiva delle ricadute del disturbo bipolare, sono la carbamazepina e la valpromide.

1.2.1. Il litio

E. Interazioni farmacologiche Per quanto riguarda i TCA, con tutti i sedativi del SNC si hanno effetti di sommazione; la clonidina e gli alfa e beta-bloccanti sono degli antagonisti; con i diuretici e` facilitata l’ipotensione ortostatica; con le anfetamine si ha un effetto di potenziamento e inoltre il rischio di crisi ipertensive con emorragie cerebrali. L’associazione di TCA con IMAO, come gia` ricordato, puo` causare collassi, gravi crisi ipertensive, morte improvvisa. La maggior disponibilita` di amine dopo trattamento con IMAO deve far prevedere un periodo di almeno due settimane libere da terapia prima di sostituire un IMAO con un triciclico. Per quanto riguarda gli IMAO, l’ingestione di alimenti contenenti tiramina (vino e altri alcoolici, formaggi, carni affumicate, ecc.) puo` provocare gravi crisi ipertensive; questi farmaci interagiscono, con la produzione di effetti negativi, con molte sostanze di largo uso medico, specie negli anziani.

1.2. La terapia antimaniacale Le sindromi ipomaniacale e maniacale, che caratterizzano il disturbo bipolare, sono condizioni che generalmente si giovano di un intervento farmacologico tempestivo ed efficace. Questo risulta in grado sia di ricondurre in ambiti non patologici il tono dell’umore e l’eccitamento psi-

1

Vedi capitolo 28 ‘‘Le psicosi affettive: la depressione’’.

A. Farmacologia Le azioni farmacologiche del litio si svolgono a livello delle membrane cellulari (effetti a breve termine) e sui sistemi recettoriali (effetti a lungo termine). Per quanto riguarda le membrane, il litio favorirebbe la formazione del «secondo messaggero» (ad esempio il fosfatidil-inositolo) interferendo con le attivita` noradrenergiche e serotoninergiche. La somministrazione cronica di litio sarebbe in grado di influenzare la trasmissione dopaminergica (modificazione della sensibilita` recettoriale) e colinergica, dalle quali dipenderebbe in sostanza l’azione antimaniacale. L’azione antidepressiva, sia nella profilassi sia, in alcuni casi, nei depressi «resistenti» agli AD, dipenderebbe invece dalla modificazione delle attivita` di rinforzo della trasmissione serotoninergica. Il meccanismo col quale il litio svolge la sua complessa azione nei disturbi dell’umore non e` ancora chiaro. L’assorbimento, dopo somministrazione per os, e` rapido e completo dopo circa 4-6 ore. Il litio e` distribuito uniformemente nell’organismo, non si lega alle proteine plasmatiche ne´ viene metabolizzato a livello epatico. L’eliminazione e` quasi esclusivamente renale (95%); il resto avviene attraverso feci, sudore e saliva. L’80% del litio filtrato dal glomerulo e` riassorbito nel tubulo prossimale. Il riassorbimento di Na e Li a quel livello e` di tipo competitivo (il litio e` un catione monovalente come il Na e il K), e dunque il livello del litio tendera` ad aumentare al diminuire del sodio (per dieta iposodica o per uso di diuretici). La vita media di eliminazione e` intorno alle

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

15-20 ore, ma subisce variazioni col variare (normale o patologico) della funzionalita` renale. La clearance del litio varia tra 10 e 40 ml/min ed e` correlata a quella della creatinina. Da ricordare, per l’interpretazione degli effetti collaterali, che inibisce l’adenilciclasi renale e quella tiroidea. Il litio e` usato sotto forma di carbonato o, piu` raramente, di glutammato. B. Uso clinico La terapia antimaniacale puo` essere iniziata gia` ai primi sintomi dell’eccitamento (se e` un primo episodio), ed eventualmente essere affiancata, per le prime due-tre settimane, da terapia neurolettica; i suoi effetti clinici infatti si manifestano piu` lentamente rispetto a quelli dei neurolettici. Il litio e` il farmaco di scelta anche nella profilassi dei disturbi maniaco-depressivi: previene o attenua le ricadute, sia depressive che maniacali, tanto nei pazienti bipolari che negli unipolari, anche se in quest’ultimo caso non ci sono pareri concordi. Per quanto riguarda la terapia di mantenimento questa puo` essere instaurata anche dopo il primo episodio, se si e` trattato di una fase maniacale, oppure, nel caso di una depressione, se ci sia nell’anamnesi familiare una positivita` per disturbi bipolari. La durata della terapia di mantenimento non puo` essere stabilita a priori, visto che il decorso dei disturbi maniaco-depressivi e` estremamente variabile; l’eventuale sospensione va sempre affrontata con accortezza e gradatamente, mantenendo una condotta di osservazione assidua della situazione clinica, cosı` da intervenire ai primi segni di un nuovo scompenso. La terapia con litio e` in genere ben accetta ai pazienti, che non ne percepiscono effetti sedativi spiacevoli simili a quelli dei neurolettici. Tuttavia alcune persone lamentano, soprattutto negli intervalli liberi, una riduzione delle loro perfomances. Specialmente nel caso di pazienti ipertimici, naturalmente tendenti all’euforia e all’iperattivita`, l’effetto «normotimizzante» del litio puo` essere percepito come spiacevole e puo` divenire causa di sospensioni spontanee della terapia, con conseguente possibilita` di ricaduta. Di recente e` stato proposto l’uso del litio

nelle depressioni cosiddette «resistenti», quelle depressioni, cioe`, che non rispondono alla somministrazione di terapie antidepressive. In questo caso il litio puo` essere aggiunto agli AD. Il dosaggio del litio va opportunamente adeguato alla situazione clinica: nella fase maniacale si puo` iniziare con una dose di 300 mg due/tre volte al giorno, per la prima settimana, per arrivare a dosaggi complessivi di 1200-1500 mg/die, frazionati durante la giornata. La litiemia e` il mezzo piu` efficace e preciso col quale determinare i livelli terapeutici del farmaco. Essa va effettuata almeno due volte nella prima settimana di terapia; successivamente si puo` effettuare il controllo ogni 3-4 settimane, se il paziente non e` un paziente «a rischio» e se non insorgono effetti collaterali; in questi casi i controlli dovrebbero essere piu` frequenti. Il prelievo va effettuato a 12 ore dall’ultima assunzione e prima della successiva, preferibilmente al mattino. Il range terapeutico della litiemia e` stabilito tra 0,6-1,2 mEq/l; in mania si puo` mantenerla intorno ai 0,7-0,8 mEq/l, in depressione tra 0,4-0,5 mEq/l. Questi intervalli litiemici consentono un certo margine di sicurezza, oltre che per l’azione profilattica, anche nei confronti dell’intossicazione. I controlli litiemici vanno comunque mantenuti frequenti poiche´, a parita` di dose, la litiemia tende ad elevarsi in depressione e ad abbassarsi in mania. Prima di intraprendere una terapia con litio e` consigliabile valutare le controindicazioni ed effettuare una serie di accertamenti, tra i quali ECG e visita cardiologica, azotemia, creatininemia, creatinina-clearance, elettrolitemia, emocromo completo, protidogramma, valutazione funzionale della tiroide (T3, T4, TSH). C. Controindicazioni e precauzioni Nella Tabella 2 vengono riassunte le principali controindicazioni alla litioterapia. L’uso del litio durante il primo trimestre di gravidanza potrebbe avere effetti teratogeni sul feto (sindrome di Ebstein). Durante il restante periodo di gravidanza e` necessario il controllo della clearance renale e dosaggi piu` frazionati durante la gior-

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nata. Nel puerperio l’allattamento al seno materno e` da valutare nei singoli casi. L’intossicazione si ha di solito quando vengono superati i valori considerati terapeutici: a volte puo` verificarsi anche a valori intorno a 1 mEq/l specie in pazienti con patologia renale, in dieta iposodica o che fanno uso di diuretici. A volte pero` l’aumento si verifica indipendentemente da questi fattori. Tabella 2 - CONTROINDICAZIONI E PRECAUZIONI DELLA LITIOTERAPIA

Gravidanza primo trimestre

+++

Insufficienza renale

+++

Malattia tubulare renale

+++

Infarto miocardico acuto

+++

Miastenia grave

+++

Difetti della conduzione cardiaca

++

Morbo di Parkinson

++

Ipotiroidismo

++

Insufficienza cardiaca compensata

+

Epilessia

+

Discinesia tardiva

+

Demenza

+

Diabete mellito

+

Colite ulcerosa

+

Psoriasi

+

Cataratta senile

+

+ = cautela ++ = controllo specialistico +++ = controindicazione

I sintomi dell’intossicazione sono: vomito, diarrea, atassia, disartria, grossolani tremori alle mani, sonnolenza, vertigini. Oltre i 3 mEq/l compaiono iperreflessia tendinea profonda, nistagmo, convulsioni, stato confusionale o sopore, fino al coma. Sono possibili gravi aritmie, insufficienza

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renale acuta con anuria. Il trattamento consiste nella sospensione della terapia, nel forzare l’eliminazione del catione con la diuresi, nell’alcalinizzazione delle urine; e` utile il monitoraggio delle funzioni cardiocircolatorie e respiratorie, con l’eventuale terapia sintomatica dei disturbi a carico di tali sistemi. Il trattamento dialitico e` raramente necessario. D. Effetti indesiderati Compaiono anche a concentrazioni terapeutiche, richiedono in genere adeguamenti del dosaggio, raramente la sospensione: 1) 2)

3)

4)

5)

effetti renali: poliuria e polidipsia, in genere compaiono nella prima settimana; effetti neurologici: tremore fine alle mani (si attenua col proseguimento della terapia); astenia, vertigini, iperreflessia, disartria (tutti richiedono sorveglianza e sospensione solo se particolarmente accentuati). I tremori grossolani, la confusione, la letargia, richiedono invece la sospensione della terapia; l’eventuale ripristino va programmato a dosi inferiori; effetti cardiaci: le aritmie richiedono sorveglianza soprattutto se si verificano in pazienti a rischio; la depressione dell’onda T nell’ECG non comporta particolari cautele; effetti gastrointestinali: nausea, diarrea e dolori addominali, se lievi, tendono a diminuire col proseguimento della terapia; il vomito e` segno di intossicazione; altri effetti: sono possibili eruzioni cutanee acneiformi o rashes cutanei, di scarso rilievo; l’aumento di peso e la comparsa di edemi vanno controllati attraverso la dieta o con terapie destinate al ripristino dell’equilibrio elettrolitico/metabolico; la leucocitosi e` preoccupante solo se cronica.

Una considerazione a parte meritano alcune alterazioni funzionali e morfologiche a carico del rene: consistono per lo piu` in alterazioni tubulari, e possono essere o meno associate ad alterazioni funzionali; l’alterazione della filtrazione glomerulare, presente in alcuni casi, appare correlata con l’eta`; piu` frequente la poliuria, anche di notevole entita` (3 litri), che regredisce con la sospensione del trattamento.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Anche la tiroide risente della terapia con litio: gli effetti piu` noti sono l’ipotiroidismo (non frequente), il gozzo eutiroideo (dopo qualche anno di terapia, piu` frequente nei maschi), che puo` essere corretto con la sospensione del litio e la somministrazione di piccole dosi di ormone tiroideo. Per quanto riguarda l’ipotiroidismo, che in genere insorge in soggetti predisposti, esso si associa significativamente con un particolare decorso del disturbo maniaco-depressivo, denominato «rapid-cycling», tipicamente non responder al litio. E. Associazioni farmacologiche: 1)

2)

richiedono sorveglianza, per l’aumento degli effetti tossici dovuti ad aumento della litiemia, le associazioni con i neurolettici (soprattutto tioridazina e aloperidolo), con gli antinfiammatori, con la digitale e i diuretici (soprattutto i tiazidici); richiedono la sospensione le associazioni con i miorilassanti e gli antibiotici nefrotossici.

1.2.2. La carbamazepina e la valpromide

Nei casi in cui fallisca la terapia con litio o vi sia intolleranza al farmaco, si puo` ricorrere all’uso, in alternativa o in associazione, della carbamazepina o della valpromide. La carbamazepina e` un derivato iminobenzilico, noto per la sua efficacia terapeutica nella epilessia e nella nevralgia del trigemino. Nell’ambito dei disturbi affettivi esso sarebbe indicato nei pazienti bipolari, nei quali sarebbe efficace tanto nella fase maniacale che nella profilassi delle ricadute. Le dosi quotidiane sono tra i 300 e 700 mg., ma occorre sempre iniziare a dosi scalari per saggiare la tollerabilita` e controllare l’insorgenza di effetti collaterali (rashes cutanei, nausea, tremori, visione offuscata, agranulocitosi). Per la valpromide le dosi sono simili a quelle indicate per la carbamazepina. Gli effetti collaterali piu` spiacevoli sono la nausea e il vomito, comunque rari; e` consigliabile controllare la funzionalita` epatica in caso di terapia prolungata.

Sono possibili disturbi della coagulazione (controllare le piastrine e il tempo di coagulazione).

2. Terapia antipsicotica Col termine di psicosi ci si riferisce in genere a quadri eterogenei dal punto di vista sindromico, i quali hanno pero` in comune una sintomatologia caratterizzata da disturbi del pensiero (formali e del contenuto), allucinazioni, agitazione o rallentamento psicomotorio, gravi disturbi dell’affettivita`, in un contesto globale (per lo piu` in assenza di confusione mentale) di alterazione della capacita` di operare in modo congruo ed efficace nei confronti dei dati di realta`. Al termine di psicosi si affianca in genere l’aggettivo «funzionale» per indicare l’assenza di una alterazione somatica (strutturale) come base etiologica. Le condizioni psicotiche funzionali piu` tipiche e frequenti, tra cui le psicosi schizofreniche, la paranoia e le psicosi affettive bipolari, rappresentano i quadri nei confronti dei quali la farmacoterapia antipsicotica e` efficace, anche se aspecifica ed eminentemente sintomatica; essa infatti puo` rivelarsi utile anche in quadri psicotici di natura organica (tossica, infettiva, neoplastica, ecc.), nei quali e` spesso presente anche un grave disturbo della coscienza. L’efficacia dei farmaci antipsicotici, detti anche neurolettici (NL), e` ben documentata nelle fasi acute (molto spesso di esordio) dei disturbi schizofrenici, soprattutto nei confronti dei cosiddetti «sintomi positivi» (deliri, eccitamento, allucinazioni); nei riguardi dei sintomi «negativi» (appiattimento affettivo, poverta` ideativa, ritiro sociale), che prevalgono nella cronicita`, sarebbero di scarsa utilita`. Attualmente non e` possibile affrontare una terapia delle psicosi schizofreniche senza tener conto dei dati sociali e ambientali che riguardano il paziente. In particolar modo, negli studi di Leff e Vaughn (1981) sulla famiglia, e` dimostrato che una «alta emotivita` espressa» del gruppo familiare e` un’importante fattore di riacutizzazione sintomatologica, capace di condizionare la stabilita` del quadro clinico e utile per indirizzare la terapia di mantenimento.

Terapie psicofarmacologiche

Riguardo al decorso e all’esito delle psicosi schizofreniche, nella maggior parte dei casi gli psicofarmaci, se usati in modo razionale, attraverso un’attenta valutazione dei rischi e dei benefici e dei parametri extraindividuali sopra accennati, contribuiscono ad una stabilizzazione del quadro sintomatologico e/o alla prevenzione delle riacutizzazioni. L’uso dei neurolettici e` possibile in altre condizioni cliniche (gravi caratteropatie, demenze, sindrome da astinenza da alcool, etc.): in questi casi si deve valutare singolarmente l’uso del farmaco, senza dimenticare la possibilita` di far ricorso ad altri tipi di intervento.

Tabella 3 - NEUROLETTICI E DOSI TERAPEUTICHE ORIENTATIVE

NEUROLETTICO

MG/DIE

Clorpromazina (fenotiazine Levomepromazina alifatiche)

100-800 120-800

Tioridazina Propericiazina

(fenotiazine piperidiniche)

100-800 25-150

Flufenazina Perfenazina Trifluoperazina

(fenotiazine piperaziniche)

4-40 12-50 6-40

Aloperidolo Benperidolo Trifluoperidolo

(butirrofenoni)

3-30 3-30 3-30

Pimozide

(difenilbutil piperidina)

4-30

Flupentixolo Tiotixene

(tioxanteni)

4- 30 4-30

Clotiapina

(dibenzo-Xazepina)

16-100

Sulpiride

(benzamide sostituita)

200-1200

2.1. Neurolettici A. Farmacologia Dal punto di vista farmacologico i neurolettici (NL) possono suddividersi in: fenotiazine, butirrofenoni, tioxanteni, benzamidi sostituite, e inoltre dibenzo-X-azepine e difenilbutilpiperidine. Tutti questi farmaci hanno una sostanziale equivalenza terapeutica antipsicotica, e la scelta dei composti avviene soprattutto in base alla loro potenza sedativa, alla risposta clinica e alla capacita` di produrre effetti collaterali. Nella Tabella 3 sono indicati alcuni dei NL piu` usati con il loro range di dosaggio terapeutico. A causa della differente attivita` anticolinergica, alcuni neurolettici (aloperidolo, perfenazina, flufenazina) inducono piu` facilmente di altri effetti extrapiramidali. I neurolettici possiedono anche azioni di blocco sui recettori α-adrenergici centrali e periferici da cui deriva la comparsa di effetti sedativi e ipotensivi; anche in questo caso per i vari composti esiste una diversa affinita` per i recettori (tiorizadina e flufenazina sono quelli con effetti ipotensivi e sedativi maggiori). Anche l’azione antistaminica dei NL e` responsabile dell’effetto sedativo: essa e` piu` elevata per la clorpromazina, la tiorizadina e il droperidolo. Meno documentata e` l’azione antiserotoninergica (soprattutto per il benperidolo e il pipamperone). Per cio` che riguarda la farmacocinetica dei neurolettici, i dati piu` importanti riguardano:

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1)

2) 3)

l’assorbimento per os (rapido e completo per aloperidolo, lento e incompleto per clorpromazina, tioridazina, perfenazina, pimozide); il metabolismo, quasi esclusivamente epatico; la vita media plasmatica (20-30 ore per clorpromazina, pimozide e tioridazina; 8-21 ore per la perfenazina e 12-40 per l’aloperidolo).

Per alcuni composti e` attuabile la somministrazione parenterale quasi sempre intramuscolare, tranne per l’aloperidolo, la promazina, la levosulpiride che prevedono anche la via endovenosa, e per il droperidolo che e` solo iniettabile. Gli effetti biochimici, farmacologici e comportamentali dei NL sono da attribuirsi all’attivita` che tali composti esercitano su alcuni sistemi recettoriali cerebrali, con la mediazione di alcuni neurotrasmettitori tra i quali la dopamina (DA), la noradrenalina (NA), la serotonina (5-HT), l’acetilcolina (Ach) e l’istamina. L’attivita` sul sistema dopaminergico e` quella prevalente; su que-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sto dato era stata infatti formulata l’ipotesi patogenetica dopaminergica delle psicosi schizofreniche. Tutti i NL causano un blocco dei recettori dopaminergici post-sinaptici e dunque un rallentamento della trasmissione della DA. Esistono alcune differenze per cio` che riguarda le modificazioni recettoriali dopo trattamento acuto e cronico con NL. In acuto si ha un’attivazione del turnover della DA e un’attivazione della tirosinaidrossilasi, enzima che limita la sintesi del mediatore. Dopo somministrazione cronica, invece, si evidenzia una diminuzione della attivita` dopaminergica di alcuni gruppi neuronali dei sistemi nigrostriatale, mesolimbico e mesocorticale (l’attivita` farmacologica dei NL su questi ultimi due sistemi sarebbe, in particolare, responsabile della remissione dei sintomi psicotici). I neurolettici possiedono anche un’azione di blocco sui recettori colinergici del SNC e del SNA; l’affinita` per il recettore colinergico non e` pero` la stessa per tutti i composti; attivita` elevata posseggono la tioridazina e la clozapina, mentre e` bassa quella dei butirrofenoni, delle fenotiazine piperaziniche, della pimozide. Queste differenze rendono conto dell’insorgenza dei fenomeni parkinsoniani durante la terapia con NL. Piu` in particolare, l’alterazione a livello nigrostriatale dell’equilibrio esistente tra attivita` colinergica e dopaminergica conduce ad una ipereccitabilita` dei neuroni colinergici e al manifestarsi di effetti quali il tremore, la bradicinesia, la rigidita`. B. Uso clinico La scelta del farmaco da preferire dipende molto dal quadro clinico e dalla esperienza del terapeuta, che non dovrebbe mai sopravvalutare l’efficacia dell’intervento farmacologico a scapito di un atteggiamento disponibile e deciso nei confronti di un paziente che si presenti con una crisi psicotica acuta. Data l’equivalenza terapeutica antipsicotica gia` ricordata, la scelta del composto puo` essere fatta in base alla potenza sedativa e alla capacita` di produrre effetti collaterali; si deve inoltre tener conto della precedente risposta terapeutica (anche in termini di dosaggio e di tollerabilita`). Nel caso che il paziente si presenti molto agitato e che rifiuti la terapia per os, e` consiglia-

bile ricorrere alla via intramuscolare, senza dimenticare di controllare la pressione arteriosa, che puo` subire abbassamenti discreti. Dopo il periodo acuto, che puo` durare anche alcune settimane, e` bene controllare il paziente ogni 7-15 giorni con colloqui clinici che permettano di verificare, oltre la compliance farmacologica, anche l’eventuale comparsa di disturbi collaterali. Attualmente prevale la convinzione che si possano trattare i disturbi schizofrenici con terapie di mantenimento opportunamente interrotte in alcuni periodi; cio` naturalmente prevede che il medico possa seguire il malato da vicino, meglio se con un supporto anche di tipo psicologico (non necessariamente psicoterapeutico). Questa condotta appare in grado di ridurre la possibilita` di scompensi acuti: l’osservazione attenta e sollecita riesce infatti a cogliere prodromi significativi (aumento dell’ansia e della irritabilita`, distacco dal mondo reale, disturbi del sonno). I neurolettici sono anche indicati nelle fasi di eccitamento maniacale nelle quali sia prevalente l’agitazione psicomotoria e sintomi dispercettivodeliranti. Quando invece e` in primo piano la componente euforica si preferisce l’uso del litio; in questo caso la terapia neurolettica puo` essere utile, ma a dosi minori. Per quanto riguarda l’uso dei NL depot, vari studi clinici hanno confermato che essi non hanno efficacia terapeutica superiore agli analoghi composti per os; tuttavia essi possono essere indicati in situazioni in cui e` difficile controllare l’assunzione giornaliera del farmaco (per problemi di compliance di diversa natura). Dal punto di vista farmacologico non sono farmaci molto maneggevoli, visto il rischio piu` elevato di effetti collaterali di tipo extrapiramidale e considerato il fatto che non e` possibile ridurre il dosaggio dopo la somministrazione. Una breve citazione meritano le terapie combinate: l’associazione con antidepressivi e` poco documentata in studi controllati, mentre quella con altri neurolettici e` da considerarsi poco razionale, anche se puo` essere giustificata da una posologia differenziata (i neurolettici piu` sedativi possono essere usati, al posto delle benzodiazepine, come ipnotici). Esistono poche regole fisse per i dosaggi e le modalita` d’uso. In genere,

Terapie psicofarmacologiche

specie in caso di prima somministrazione, vale la regola di iniziare con dosi scalari, raggiungendo i dosaggi terapeutici entro la prima settimana; superare i dosaggi massimi non e` controindicato, ma non produce migliori e piu` rapidi effetti terapeutici; la somministrazione parenterale e` riservata a quei casi in cui non sia possibile quella per os e quando sia necessaria una sedazione rapida; le dosi non dovrebbero, per quanto possibile, essere troppo frazionate all’interno della giornata, soprattutto per motivi di compliance, mentre puo` essere utile l’unica somministrazione serale. I dosaggi sono riportati in Tabella 3. Per i NL depot si utilizzano di solito dosi di 1/2 o 1 fiala ogni 2-4 settimane, a seconda dello stato clinico e tenendo conto di eventuali fattori sociali e ambientali: a volte una eccessiva sedazione viene pagata in termini di rendimento sul lavoro o nelle varie occupazioni e puo` rendere il soggetto meno disponibile alla terapia; nelle situazioni in cui lo scompenso e` piu` probabile e meno prevedibile si puo` usare il dosaggio pieno, avendo pero` cura di controllare piu` frequentemente il paziente. C. Controindicazioni e precauzioni I fenomeni di idiosincrasia sono assai rari e richiedono attenta sorveglianza. Da ricordare l’ittero. L’effetto piu` temibile e` l’agranulocitosi: si manifesta intorno alle prime quattro settimane di terapia, spesso con febbre, angina e malessere generale; a volte puo` essere asintomatica. Sono possibili altri difetti della crasi ematica (leucocitosi e leucopenia, anemia emolitica), comunque di scarso rilievo clinico. I neurolettici sono da evitarsi nei pazienti affetti da morbo di Parkinson e da altri disturbi extrapiramidali. Durante la gravidanza l’uso dei NL puo` provocare malformazioni, specie nel primo trimestre; nei mesi successivi e durante l’allattamento si possono avere nel neonato problemi di eccessiva sedazione, ittero e alterazioni retiniche. Alcuni pazienti sono considerati «a rischio» per l’uso di NL, per cui esistono controindicazioni relative, da valutare caso per caso. Nei cardiopatici il pericolo, peraltro molto raro, consiste nello scatenare o aggravare disturbi del ritmo e della

873

conduzione (aritmie ventricolari improvvise e fatali); le precauzioni vanno dalla riduzione del dosaggio alla somministrazione di sali di potassio; puo` essere indicato il monitoraggio della funzione cardiaca. Negli epilettici, soprattutto le fenotiazine, abbassano la soglia convulsiva. Negli epatopatici i rischi di ittero sono piu` elevati e richiedono la riduzione del dosaggio. Negli anziani e` sempre indicata una riduzione (in genere un dimezzamento) dei dosaggi per fenomeni di rallentamento del metabolismo e maggiore sensibilita` dei recettori. I neurolettici, come le benzodiazepine, sono farmaci ad alto indice terapeutico (rapporto tra dose minima efficace e dose letale), quindi relativamente sicuri e praticamente privi di «potenziale suicidario». L’intossicazione si manifesta con segni di depressione respiratoria, ipotermia e coma; sono anche presenti disturbi extrapiramidali. Un’eventualita` rara e` quella nota come «sindrome maligna» da neurolettici (SMN): il tasso di mortalita` per questa sindrome tossica e` di circa il 20%. Insorge in modo imprevedibile, con qualsiasi tipo di neurolettico e senza riferimento ai dosaggi. A volte pero` il raggiungimento di alti dosaggi in breve tempo puo` favorirne lo scatenamento, anche in pazienti gia` trattati con neurolettici. La patogenesi della SMN sarebbe da riferirsi ad un blocco dopaminergico centrale che influenzerebbe la termoregolazione a livello centrale; forse pero` esiste anche un effetto tossico diretto sul metabolismo muscolare (da cui il dato della elevazione dei valori della creatinfosfochinasi e della mioglobinemia o mioglobinuria). La sintomatologia e` caratterizzata dall’insorgenza (da poche ore a qualche giorno dall’inizio del trattamento) di febbre (38o-40o C e oltre) con rigidita` muscolare, tachicardia, ipertensione, disfagia; a volte sono presenti ipotensione, scialorrea e incontinenza urinaria. Frequente la leucocitosi (12.000-30.000 GB/mm). Alcune complicanze sono: insufficienza renale, polmoniti ed embolie polmonari; meno frequenti la coagulazione intravascolare disseminata e la sepsi. Il trattamento della SMN consiste nella sospensione del NL, nell’assistenza alle funzioni compromesse, compreso l’attento monitoraggio

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

dell’equilibrio idroelettrolitico. Si puo` utilizzare anche la bromocriptina (agonista della dopamina), a dosaggi di 5-20 mg/die e il dantrolene (300-1600 mg/die). La sindrome maligna da neurolettici puo` presentarsi, nel 70% circa dei casi, quando si usi nuovamente il NL che l’ha causata; puo` essere utile, dunque, usarne un altro di classe differente. D. Effetti indesiderati Quelli piu` importanti sono costituiti dai disturbi extrapiramidali che vengono classificati, rispetto all’epoca di comparsa, in precoci, intermedi e tardivi. Questi disturbi sono meno frequenti con tioridazina e benzamidi sostituite, richiedono trattamenti diversificati e, tranne alcuni casi particolari, sono reversibili con la riduzione dei dosaggi o la sospensione del trattamento. Tali effetti indesiderati sarebbero piu` frequenti nelle donne e in tutti i pazienti in cui vengano raggiunti rapidamente dosaggi elevati. Distonie acute (crisi neurodislettiche). Sono disturbi extrapiramidali precoci, che compaiono entro i primi 5-7 giorni di trattamento e sono indipendenti dal dosaggio. Si presentano con contrazioni dei muscoli del collo, della bocca e della lingua, a volte dolorose; sono possibili anche crisi oculogire e spasmi a carico dei muscoli laringei (rare). Sarebbero piu` frequenti nei maschi giovani. Il trattamento di elezione e` il diazepam (10 mg e.v.); utili anche gli anticolinergici (i.m. o e.v.). Risolta la crisi si deve provvedere ad aumentare il dosaggio (se inizialmente basso) oppure a diminuirlo (se gia` congruo) o a sostituire il NL con altra sostanza. Acatisia e tasincinesia. Sono disturbi a comparsa intermedia (da poche settimane a due mesi circa dopo l’inizio della terapia). Consistono in un generale stato di tensione e irrequietezza, con difficolta` a rimanere seduti (acatisia) e smania di camminare (tasincinesia); il quadro puo` essere confuso con uno stato d’ansia. In genere questi effetti sono reversibili con la diminuzione del dosaggio; la somministrazione delle benzodiazepine non e` efficace, ma puo` aiutare a dirimere la diagnosi differenziale con l’ansia. Puo` essere usato con successo il propranololo a dosi di 20

mg., tre o quattro volte al dı`. Sconsigliati gli anticolinergici. Parkinsonismo. Anche questo e` un disturbo a comparsa intermedia, in genere entro i primi tre ` di solito reversibile, ma sono descritti casi mesi. E persistenti per mesi o anni; in questo caso si ipotizza la concomitanza di un parkinsonismo idiopatico. Il parkinsonismo da NL e` caratterizzato dai tremori a riposo, dalla ipertonia muscolare (rigidita`), dalla bradicinesia e dall’amimia. Sono possibili la micrografia e la scialorrea. Il trattamento del parkinsonismo da neurolettici puo` essere fatto con farmaci anticolinergici (che risultano piu` attivi nei confronti di tremori e rigidita`), al momento della comparsa dei disturbi. Non e` corretto associare anticolinergici e NL gia` all’inizio, perche´ tale comportamento implicherebbe una maggiore possibilita` di sviluppare una discinesia tardiva. Gli anticolinergici piu` usati sono i seguenti: biperidene (8 mg.); orfenadrina (100-150 mg.); triesifenidile (6-15 mg.). ` un disturbo che La discinesia tardiva (DT). E compare di solito dopo esposizione prolungata ai neurolettici (sono pero` noti casi comparsi anche in assenza di esposizione a questi farmaci), piu` spesso dopo i 50 anni e nel sesso femminile. La prevalenza del disturbo e` molto variabile, con una media intorno al 20%. La discinesia tardiva puo` comparire dopo qualche anno di trattamento, sia alla sospensione sia durante la terapia. Se ne distinguono forme a evoluzione favorevole (DT reversibile) e sfavorevole (DT irreversibile). La sintomatologia e` caratterizzata da movimenti discinetici involontari coreiformi della bocca e della lingua. Appaiono come movimenti di suzione o masticazione, ma possono presentarsi anche movimenti degli arti o del tronco. Il trattamento migliore consiste nella prevenzione, mentre gli interventi farmacologici non sono sempre efficaci. Risultati positivi, anche se a breve scadenza, si sono ottenuti con l’uso dei neurolettici, che provocherebbero il blocco dei recettori postsinaptici nigrostriatali con il rallentamento della trasmissione dopaminergica. L’ipotesi patogenetica della discinesia tardiva prevede infatti che si instauri nel tempo una ipersensibilita` dei recettori citati. Altri farmaci utili, ma sempre in via sperimentale, sono la colina (ad alte dosi e per lunghi periodi),

Terapie psicofarmacologiche

la lecitina, il muscimolo e la progabide (con potenziamento della trasmissione GABAergica, inibitrice). La rabbit syndrome. Disturbo tardivo che consiste in movimenti involontari dei muscoli periorali; e` sensibile alla somministrazione di anticolinergici (diagnosi differenziale con la DT). Altri effetti collaterali dei neurolettici sono: alterazioni dell’EEG (aumento dell’attivita` lenta, teta e delta); disturbi ipotensivi (da trattare eventualmente con norepinefrina); alterazioni dell’ECG (appiattimento dell’onda T e aumento dell’intervallo QRS), reversibili con la sospensione o la riduzione del dosaggio; iperprolattinemia: nella donna con possibile amenorrea e galattorrea, nell’uomo con ginecomastia e impotenza. Uno dei disturbi piu` gravi si puo` avere tuttavia a livello dell’occhio: si tratta della retinopatia pigmentosa, irreversibile, da tioridazina a dosi molto elevate (intorno agli 800 mg/die); depositi di pigmento nella cornea sono descritti con gli altri NL, ma scompaiono col tempo e sono indipendenti da dosaggio e durata della terapia.

3. Terapia ansiolitica e ipnotica Dal punto di vista terapeutico non tutte le forme ansiose necessitano di trattamento farmacologico. I fenomeni clinici per i quali si puo` prendere in considerazione un intervento rientrano tra quelli definibili come ansia patologica, e consistono in un’alterazione di vario grado delle funzioni psichiche, tale da condizionare l’assunzione di comportamenti non adattivi. L’ansia patologica, inoltre, produce sempre sofferenza e senso di malattia. L’ansia caratterologica, come tratto o come disposizione, non necessita di trattamento farmacologico. Per l’analisi di una situazione d’ansia, ai fini dell’eventualita` di un trattamento farmacologico, e` necessario stabilirne, con la maggiore accuratezza possibile, la natura e l’origine (tenendo conto che molti disturbi psichiatrici possono essere associati ad ansia e che anche malattie somatiche possono esserne causa), la durata e le difese messe in atto per affrontarla. Come indicazione principale per il trattamento farmacologico dell’ansia patologica deb-

875

bono essere considerati gli stati acuti. Negli stati cronici l’uso deve essere valutato nei singoli casi, tenendo conto che l’ansia cronica e` piu` facilmente associata a fenomeni di abuso e dipendenza. I fenomeni che vanno sotto il nome di «stress» non dovrebbero, in via di principio, essere trattati farmacologicamente, tranne quando siano riportabili a quadri ansiosi nosograficamente inquadrabili. L’insonnia e` un sintomo che consiste nella incapacita` di dormire o nel dormire in modo non soddisfacente. Puo` presentarsi come difficolta`/incapacita` di addormentamento, oppure con risvegli notturni o mattutini precoci. Prima di intervenire con un farmaco e` buona norma esaminare la natura e l’origine del sintomo. Per un adeguato programma terapeutico e` utile distinguere tre tipi di insonnia: l’insonnia transitoria, l’insonnia di breve periodo, l’insonnia persistente. Oltre che per la durata (da pochi giorni fino a tre-quattro settimane, oppure piu` prolungata), questa classificazione tiene conto anche delle cause. Le prime due forme sono comuni in relazione a fatti sporadici come un viaggio in aereo, ricoveri, lutti, malattie, gravi problemi familiari o sul lavoro. L’insonnia persistente e` un problema piu` complesso; per essa in genere e` ` richiesto l’intervento chiarificatore del medico. E necessaria una corretta anamnesi, sia per quanto riguarda gli abituali ritmi sonno-veglia, sia per le modalita` di presentazione e per la durata del sintomo. La terapia deve essere principalmente eziologica e deve quindi tener conto dei disturbi psichiatrici (nevrosi, depressione, mania, vissuti deliranti, ecc.), dell’uso/abuso di farmaci e alcool, di varie patologie somatiche. Esiste anche una cosiddetta insonnia psicofisiologica, che si identifica con un ridotto numero di ore di sonno e per la quale non sono evidenti cause internistiche o psichiatriche (questo tipo di pattern di sonno e` frequente nei temperamenti ipertimici)2. In una classificazione clinica dei farmaci attivi nei disturbi ansiosi e del sonno, possono distinguersi due categorie di sostanze attive:

2

Vedi capitolo ‘‘Il sonno: normalita` e patologia’’.

876

Manuale di psichiatria e psicoterapia

1)

gli ipnotico-sedativi, rappresentati dai barbiturici, dai meprobamati e dalle benzodiazepine (BDZ), caratterizzati da azione sedativa, miorilassante e anticonvulsivante, e con possibilita` di produrre assuefazione e dipendenza fisica; i sedativi vegetativi, cioe` antistaminici, fenotiazine e antidepressivi, caratterizzati da azione sul SNA periferico con aumento del tono muscolare, abbassamento della soglia convulsivante, assenza di potenziali di assuefazione e dipendenza. In questa classe rientrano anche i betabloccanti (propranololo), con azione sedativa centrale e azione sui correlati somatici dell’ansia (tachicardia e aumento della pressione arteriosa).

2)

nante e ipnotica. Il suo meccansimo d’azione e` diverso da quello delle benzodiazepine (non e` attivo sui recettori GABAergici), ma non ancora noto; la sua attivita` e` diretta sia sui recettori sia sui neurotrasmettitori (sono interessati i sistemi serotoninergici, noradrenergici e dopaminergici). ` completamente assorbito a livello gastrointestiE nale e metabolizzato a livello epatico; la sua emivita varia dalle 2 alle 11 h. Il dosaggio terapeutico e` di 20-40 mg/die; rispetto alle BDZ non e` piu` efficace, ma produce minore sedazione e sonnolenza. Tra gli effetti indesiderati ci sono vertigini, cefalea, nausea e irritabilita`, mentre e` accertata la sua incapacita` di produrre dipendenza (assenza di fenomeni di rebound e di astinenza).

3.1.2. Lo zolpidem

3.1. Farmaci non benzodiazepinici Da quando si e` affermato l’uso delle benzodiazepine, i barbiturici e i meprobamati non vengono piu` consigliati come farmaci di prima scelta per il trattamento dell’ansia e dell’insonnia, e cio` soprattutto a causa della pericolosita` dei sovradosaggi e per l’alto grado di assuefazione e dipendenza indotti. L’indice terapeutico delle BDZ e` sicuramente migliore, e l’efficacia ansiolitica e ipnotica e` riportabile ad una maggiore selettivita` di azione. Per la farmacologia dei barbiturici e dei meprobamati si rimanda ai testi specializzati. Tra gli antistaminici si ricorda la prometazina, usata sia come ipnotico sia come potenziatore degli effetti ipnotici di altri farmaci. Va ricordato anche il cloralio idrato che, essendo poco potente ma abbastanza sicuro, e` utile in casi di insonnia lieve e di breve durata, visto anche il suo basso potenziale di assuefazione e dipendenza e gli scarsi effetti sulle fasi del sonno normale (da ricordare che ne e` controindicata l’associazione con il warfarin e la difenilidantoina).

3.1.1. Il buspirone

` un ansiolitico di recente sintesi, che non E possiede attivita` miorilassante, anticonvulsio-

` una sostanza non benzodiazepinica (imidaE zopiridina) a emivita breve, con azione sedativoipnotica prevalente su quella miorilassante e anticonvulsivante. Non produce insonnia di rimbalzo e non altera le fasi del sonno.

3.2. Le benzodiazepine A. Farmacologia Le benzodiazepine sono un gruppo molto vasto di composti caratterizzati dalle seguenti attivita` farmacologiche: ansiolitico-ipnotica, miorilassante, anticonvulsivante. Il principale meccanismo d’azione attraverso il quale esplicano la loro azione e` costituito dal potenziamento o facilitazione della trasmissione neuronale mediata dall’acido gamma-aminobutirrico (GABA). Questo e` un neuromediatore con azione di tipo inibitorio sulla trasmissione degli altri neurotrasmettitori (noradrenalina, dopamina, serotonina, acetilcolina, glicina). L’azione delle BDZ puo` essere cosı` riassunta: legandosi a siti specifici del SNC (aree corticali, limbiche e cerebellari e della periferia), interferiscono con il complesso recettoriale GABAergico determinando, attraverso l’apertura dei canali al cloro, una iperpolarizzazione cellulare e una conseguente inibizione della trasmissione nervosa.

Terapie psicofarmacologiche

L’identificazione dei recettori per le benzodiazepine ha permesso la scoperta di una sostanza endogena, il diazepam binding inhibitor (DBI), un peptide in grado di inibire il legame tra diazepam (una BDZ) e il suo recettore. Tale peptide, analogamente a sostanze di sintesi chiamate betacarboline, viene considerato un «agonista inverso» delle BDZ ed e` presente in concentrazioni molto elevate nell’ippocampo, nel cervello e nel sistema limbico. Le beta-carboline, pur avendo un’alta affinita` per i recettori benzodiazepinici, provocano nell’animale effetti opposti alle BDZ: ansia, insonnia, convulsioni. Ulteriori studi sono comunque necessari prima di poter definire un modello biologico dell’ansia; per ora questi risultati vanno considerati come ipotesi sperimentali di lavoro. Per cio` che riguarda i dati della farmacocinetica vanno messi in evidenza i seguenti elementi: 1)

2)

dopo somministrazione per os, tutte le benzodiazepine sono assorbite rapidamente e in maniera completa; tra le BDZ disponibili per via endovenosa i farmaci di scelta sono il diazepam e il clordesmetildiazepam; per via intramuscolare e` ben assorbito il flunitrazepam; tutte le BDZ sono altamente liposolubili; il legame con le proteine plasmatiche e` in-

3)

4)

877

torno al 90%; il metabolismo delle BDZ avviene a livello epatico, ed e` responsabile della formazione sia dei metaboliti attivi sia di quelli inattivi che verranno eliminati per la maggior parte con le urine; una caratteristica importante dal punto di vista clinico e` l’emivita plasmatica del farmaco. Questo parametro permette di distinguere BDZ a breve e a lunga azione: tale distinzione e` utile sia per le indicazioni sia per le controindicazioni (ad esempio i composti a lunga emivita sono da evitare negli anziani e nei gravi epatopatici).

B. Uso clinico Le benzodiazepine trovano la loro principale indicazione nel trattamento della sintomatologia ansiosa e dell’insonnia. La distinzione tra BDZ ansiolitiche e ipnotiche non e` razionale, poiche´ la differenza nell’effetto clinico e` funzione del diverso dosaggio; si deve tuttavia segnalare che alcune molecole sono usate solo come ipnotici e non se ne conosce l’esatto dosaggio ansiolitico (Tabella 4). Quando l’ansia e l’insonnia fanno parte di un quadro psichiatrico di tipo depressivo si deve valutare clinicamente l’entita` dei disturbi prima di affiancare al trattamento antidepressivo quello sedativo-ipnotico.

Tabella 4 - BENZODIAZEPINE E DOSI TERAPEUTICHE ANSIOLITICHE E IPNOTICHE (IN MG)

A lunga azione

Dose ansiolitica

Dose ipnotica

1-3

15

Alprazolam

0,25-1

-

Clordiazepossido

10-20

50

Brotizolam

-

0,25

Clorazepato

10-20

-

Clotiazepam

5-15

-

Desmetildiazepam

2,5-5

10

Lorazepam

1-2

4

Diazepam

5-15

15

Lormetazepam

-

2

Flunitrazepam

-

3

Oxazepam

15-30

60

Flurazepam

-

30

Temazepam

10-20

50

Ketazolam

15-45

-

-

0,25

Bromazepam

A breve azione Dose ansiolitica

Triazolam

Dose ipnotica

878

Manuale di psichiatria e psicoterapia

Le BDZ sono utili anche nel trattamento della fase di astinenza da alcool; tuttavia, nell’alcolismo cronico, l’uso delle BDZ deve essere attentamente valutato per la facilita` dell’instaurarsi di abuso e dipendenza. La scelta del composto da preferire puo` essere fatta in base ad alcuni dati obiettivi che riguardano il farmaco (ad es. i farmaci ad emivita breve sono da preferire in caso di trattamenti prolungati, poiche´ si evita l’accumulo) e a considerazioni tratte dall’anamnesi del paziente (ad es. un atteggiamento negativo nei confronti del farmaco puo` consigliare di iniziare la terapia con dosi al di sotto di quelle efficaci al fine di limitare gli effetti collaterali e favorire l’«accettabilita`» del trattamento). Un criterio generale irrinunciabile per ogni terapia con benzodiazepine e` l’individualizzazione del dosaggio, per motivi sia farmacologici sia clinici; percio` e` utile, dopo la prescrizione, rivedere il paziente a breve distanza di tempo, allo scopo di controllare gli effetti terapeutici e di assicurarsi sull’uso corretto del farmaco. Altrettanto necessario e` il controllo dell’esecuzione della terapia secondo lo schema posologico stabi` importante nolito (verifica della compliance). E tare che il potenziale di dipendenza psicologica del farmaco puo` condizionarne l’uso oltre i limiti stabiliti dal medico, al quale compete sempre l’esecuzione di una strategia terapeutica che preveda l’uso del farmaco per il minor tempo possibile e un confronto con il paziente sui motivi che sono alla base dei sintomi ansiosi e dell’insonnia. Nei casi in cui se ne ravveda la necessita`, si puo` far ricorso allo specialista. C. Controindicazioni e precauzioni ` buona norma evitare l’uso prolungato nei E primi tre mesi di gravidanza. Sono stati segnalati effetti malformativi (labbro leporino e/o palatoschisi) con l’uso di diazepam e clordiazepossido. L’uso durante l’ultima fase di gestazione e nel parto ha dato luogo alla comparsa nel neonato di depressione respiratoria, asfissia, ipotonia muscolare con riflessi negativi sulla suzione. Tutte le BDZ sono secrete nel latte materno, ma effetti sul neonato sono possibili solo con dosi molto elevate. La valutazione dell’uso in gravidanza e

nell’allattamento va fatta secondo il singolo caso, tenendo conto che sono stati descritti fenomeni di astinenza del neonato, probabilmente dovuti all’uso cronico da parte della madre. Le benzodiazepine sono controindicate nella miastenia gravis e nelle gravi forme di broncopatia ostruttiva cronica (per la loro azione depressogena sul centro del respiro). Nei pazienti epatopatici l’uso richiede cautela, ma non c’e` controindicazione assoluta. Negli anziani e` necessaria la riduzione dei dosaggi e un’attenzione particolare verso gli effetti collaterali e quelli indesiderati. Un problema paventato da molti, ma sicuramente sovrastimato, e` quello della intossicazione da BDZ (anche a scopo suicida). Si tratta di farmaci piuttosto sicuri, i sintomi dell’intossicazione acuta essendo un’accentuazione degli effetti collaterali: astenia muscolare, profonda sonnolenza, atonia, ipotensione ortostatica, ipotermia, disartria; possono inoltre insorgere stati confusionali che non richiedono trattamenti particolari. La remissione del quadro avviene in genere in 48 ore; il paziente va assistito dal punto di vista sintomatico e, solo se ci sia stata contemporanea assunzione di alcool o altri sedativi, conviene assistere il paziente in ambito ospedaliero, poiche´ queste associazioni possono rivelarsi fatali. Cautela e` da tenersi nel caso che l’intossicazione riguardi persone anziane o con gravi patologie cardio-respiratorie. D. Effetti indesiderati Come effetti indesiderati delle BDZ si considerano una serie di fenomeni che sono da attribuire in parte alle proprieta` farmacologiche dei composti e in parte a modificazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche. L’uso delle BDZ puo` produrre effetti abnormi e sintomi di astinenza; dubbi risultano i fenomeni di tolleranza. Una considerazione a parte merita la dipendenza. 1)

2)

Effetti abnormi: eccessivo miorilassamento, atassia, effetto hangover (malessere generale con cefalea), eccessiva sedazione, ipotensione, reazioni cutanee allergiche. Effetto rebound: e` costituito dalla ricomparsa della sintomatologia ansiosa, in modo piu` accentuato; in genere segue ad una ridu-

Terapie psicofarmacologiche

3)

4)

5)

zione o sospensione troppo brusca del farmaco. Esiste anche un’insonnia rebound. Sindrome d’astinenza: si manifesta con disturbi del sonno, irritabilita`, ansia, nausea e vomito, dolori muscolari diffusi, tachicardia o cardiopalmo. Possono presentarsi anche alterazioni della percezione, vertigini, parestesie, ipo- e ipersensibilita` sensoriali. Raramente, specie con gli alti dosaggi, si sono avuti fenomeni psicotici (deliri, allucinazioni) e convulsioni. I sintomi dell’astinenza si presentano 4-5 gg. dopo la sospensione e sono piu` probabili quanto maggiore e` stata la durata del trattamento e piu` alte le dosi usate. Attualmente si raccomanda di non protrarre il trattamento, senza interruzioni, per piu` di 4 mesi. Il miglior trattamento della sindrome d’astinenza e` la sua prevenzione. Il controllo dell’astinenza e` sintomatico; puo` essere utile il propranololo. Effetti paradossi: in un numero limitato di casi possono presentarsi sintomi quali irrequietezza motoria, malumore e irritabilita`, insonnia e incubi, reazioni aggressive, euforie di breve durata. Questi disturbi si possono presentare anche dopo la prima somministrazione; sembrano dipendere da un particolare tono di fondo dell’umore che risente in vario modo dell’effetto ansiolitico. Dipendenza: e` un fenomeno molto complesso, nel quale entrano in gioco fattori sia biologico-molecolari sia comportamentali e psicologici. La dipendenza si rivela attraverso la comparsa della sindrome d’astinenza, ma anche attraverso la difficolta` da parte del paziente a sospendere il farmaco una volta terminata la fase acuta. Alcuni pazienti (alcolisti, tossicodipendenti) sono maggiormente a rischio per la dipendenza, ma una potenziale tossicofilia e` sempre da valutare quando si decide di usare questi farmaci.

E. Interazioni farmacologiche Ricordiamo le piu` importanti, precisando che, essendo le BDZ farmaci con un alto indice terapeutico, i problemi riguardano soprattutto l’interazione con alcool e altri farmaci depressogeni

879

del SNC (con sommazione degli effetti per quanto riguarda le funzioni cardiaca e respiratoria). Negli etilisti cronici, a causa della induzione di enzimi microsomiali epatici, si sviluppa una certa tolleranza verso le BDZ. Rallentano l’eliminazione delle BDZ sia i contraccettivi orali sia l’isoniazide e il propranololo. Altre interazioni non completamente documentate sono quelle con gli anticoagulanti cumarinici (aumento della loro attivita`), con la fenitoina (aumento dei suoi livelli plasmatici) e con la digossina (aumento dell’emivita plasmatica della stessa).

4. La terapia elettroconvulsivante

4.1. Generalita` La terapia elettroconvulsivante fu messa a punto e sperimentata clinicamente per la prima volta a Roma da Lucio Bini e Ugo Cerletti nel ` una terapia che pero` attualmente, almeno 1938. E nel nostro paese, non gode della giusta considerazione nonostante l’ormai dimostrata efficacia terapeutica in certe condizioni cliniche. Il metodo consiste nell’applicazione di corrente elettrica alternata, per un breve periodo di tempo (0,2-0,6 sec.) alla teca cranica, attraverso due elettrodi posti bilateralmente nella regione fronto-temporale (elettroshock bilaterale) oppure uno in regione temporale e l’altro al vertice (elettroshock unilaterale). Il passaggio di corrente provoca l’immediata perdita di coscienza, cui segue, dopo una brevissima fase preconvulsiva con rilassamento generale, una crisi tonico-clonica generalizzata. Il paziente viene premedicato con barbiturici, in genere pentothal, e curarizzato; viene inoltre somministrato ossigeno. Dopo la convulsione e la ripresa della funzione respiratoria, il paziente presenta un tipico torpore postcritico e in genere dorme (fino a qualche ora). A. Condizioni d’uso Le indicazioni cliniche per l’uso della terapia elettroconvulsivante (ECT) possono cosı` sintetizzarsi:

880

Manuale di psichiatria e psicoterapia

1)

depressioni assai gravi, con forte inibizione psicomotoria o con agitazione (stati misti); stati psicopatologici con grave rischio suicidario; episodi maniacali gravi, specie quando coesista uno stato confusionale; mancata risposta agli psicofarmaci o impossibilita` al loro utilizzo.

2) 3) 4)

Il numero di applicazioni varia a seconda dei casi, ma e` in genere tra 6 e 8; la risposta puo` tuttavia tardare e il trattamento si puo` prolungare fino a 10 applicazioni. La terapia puo` essere eseguita anche ambulatorialmente. Prima di praticare una terapia elettroconvulsivante vanno effettuati una serie di accertamenti di base. Piu` precisamente: 1)

2) 3)

4) 5)

un’anamnesi accurata che escluda gravi malattie cardiache e/o polmonari e reazioni idiosincrasiche ai farmaci usati per l’anestesia; esame obiettivo neurologico che escluda la presenza di ipertensione endocranica; esame della cavita` orale per escludere la presenza di denti mobili o protesi che vanno rimossi prima del trattamento; radiografia del torace e esame delle urine; esame della funzione cognitiva e un test di memoria.

B. Controindicazioni Le controindicazioni assolute sono: tumore cerebrale, ematoma subdurale, sclerosi multipla, infarto miocardico in atto. Controindicazioni relative sono da conside-

rarsi: l’infarto miocardico recente (specie se complicato da ipertensione e aritmie), aneurisma cerebrale o aortico, pregresse emorragie cerebrali e insufficienza cardiaca congestizia. L’eta` avanzata non e` una controindicazione, ma bisogna tener conto che il paziente anziano e` molto spesso in condizioni di salute non perfette o assume farmaci che possono comportare un maggior numero di complicanze (specie quelli per patologie cardiovascolari). C. Complicanze Le piu` frequenti complicanze da ECT consistono in: 1)

2)

3)

effetti cardiorespiratori: ad esempio crisi ipertensive, controllabili con nifedipina; tachiaritmie; polmoniti ab ingestis (in genere perche´ il paziente non ha osservato la prescrizione del digiuno); cadute: in genere legate all’ipotensione postcritica o al fatto che il paziente si alza non essendo ben sveglio; confusione: e` piu` frequente quando siano in corso terapie psicofarmacologiche (soprattutto neurolettici e benzodiazepine ad alte dosi) o nei pazienti anziani.

Possono inoltre aversi cefalea, vertigini, nausea, diplopia e dolori muscolari. Tutti questi effetti non richiedono provvedimenti particolari (per la cefalea si possono usare i comuni antinevralgici). A volte puo` comparire ansia, che va trattata solo se clinicamente rilevante. Un altro effetto possibile e` il viraggio in ipomania/mania. La morte dopo ECT e` rarissima; in genere e` dovuta a gravi complicanze cardiocircolatorie post-ECT*.

* Ringrazio Eleonora di Pisa per l’aiuto fornitomi nella stesura del presente capitolo.

Terapie psicofarmacologiche

881

Tabella 5 - INDICE DEI FARMACI

Principio attivo

Preparato

Aloperidolo Aloperidolo (decanoato)

Haldol, Serenase Haldol decanoas

Alprazolam

Valeans Xanax

Amineptina

Maneon Survector

Amitriptilina

Adepril Amilit Laroxyl

Benperidolo

Psicoben

Biperidene

Akineton

Bromocriptina

Parlodel

Bromazepam

Compendium Lexotan

Brotizolam

Lendormin

Buspirone

Axoren Buspimen

Carbamazepina

Tegretol

Cloralio idrato

Chloraldurat

Clorazepato

Transene

Clordesmetildiazepam

En

Clordiazepossido

Equibral Librium Reliberan

Cloropromazina

Largactil Prozin

Clotiazepam

Rizen Tienor

Dantrolene

Dantrium

Desipramina

Nortimil

Desmetildiazepam

Madar (segue)

882

Manuale di psichiatria e psicoterapia Tabella 5 - INDICE DEI FARMACI (seguito)

Principio attivo

Preparato

Diazepam

Ansiolin Aliseum Noan Tranquirit Valium Vatran

Doxepina

Sinequan

Droperidolo

Sintodian

Etizolam

Pasaden

Flufenazina Flufenazina (decanoato)

Anatensol Moditen depot

Flunitrazepam

Darkene Roipnol

Fluoxetina

Prozac Fluoxeren

Flurazepam

Remdue Dalmadorm Felison Flunox

Fluvoxamina

Maveral

Imipramina

Tofranil mite Tofranil

Isocarbossazide

Marplan

Ketazolam

Anseren

Litio carbonato

Carbolithium Manialit

Lorazepam

Control Lorans Securit Tavor

Lormetazepam

Minias

Maprotilina

Ludiomil

Meprobamato

Perequil Quanil

Mianserina

Lantanon (segue)

Terapie psicofarmacologiche

883

Tabella 5 - INDICE DEI FARMACI (seguito)

Principio attivo

Preparato

Nitrazepam

Mogadon

Nortriptilina

Noritren Vividyl

Orfenadrina

Disipal

Oxazepam

Limbial Quen Serpax

Perfenazina Perfenazina (enantato)

Trilafon Trilafon enantato

Pimozide

Orap

Pipamperone

Piperonil

Promazina

Talofen

Prometazina

Farganesse

Propericiazina

Neuleptil

Propranololo

Euprovasin Inderal

Protriptilina

Concordin

Sulpiride

Championyl Dobren Equilid Normum

Sultopride

Barnotil

Temazepam

Levanxol

Tiotixene

Navane

Tioridazina

Mellerette Melleril

Trazodone

Trittico

Tranilcipromina +Trifluoperazina

Parmodalin

Triazolam

Halcion Songar

Triciclamolo

Kemadrin (segue)

884

Manuale di psichiatria e psicoterapia Tabella 5 - INDICE DEI FARMACI (seguito)

Principio attivo

Preparato

Triesifenidile

Artane Artane retard

Trifluoperazina

Modalina

Trifluoperidolo

Psicoperidol

Trimipramina

Surmontil

Valpromide

Depamide

Zolpidem

Stilnox

5. Appendice Negli ultimi anni la ricerca di laboratorio e la sperimentazione clinica hanno prodotto nuovi farmaci antidepressivi e antipsicotici con l’intento di migliorare l’efficacia clinica e la tollerabilita` delle terapie. La natura dei composti in realta` e` eterogenea e non del tutto assimilabile alle classi farmacologiche conosciute finora. Si illustreranno sinteticamente le caratteristiche farmacologiche e cliniche di ognuno e verranno riportate due tabelle (una per gli antidepressivi e una per i neurolettici) indicanti nome della molecola e il corrispettivo nome commerciale.

5.1. I nuovi antidepressivi Ne fanno parte la moclobemide, il nefazodone, la venlafaxina, la mirtazapina, la reboxetina. La prima appartiene alla classe dei RIMA (inibitori reversibili delle monoaminossidasi di tipo A): la farmacocinetica prevede un picco plasmatico dopo due ore di somministrazione, uno steady state raggiunto tra il sesto e ottavo giorno di terapia e una biodisponibilita` pari all’80-90% nel corso dei giorni. Nella formacodinamica si distingue per la relativa selettivita` per le MAO-A e la reversibilita` del legame, potendo le amine biogene come la tiramina spiazzarla dal sito recettoriale. Questo ne conferisce un’alta tollerabilita`, ma anche una minore durata di attivita` sui

recettori. Nefazodone, venlafacina e mirtazapina agiscono prevalentemente sul sistema serotoninergico, anche se con meccanismi diversi e farmacodinamicamente con proprie caratteristiche. Il primo agisce in prima istanza sui post-recettori 5-HT2a, risultando prevalentemente ansiolitico. Nel corso delle settimane inibisce il re-uptake serotoninico equivalendo gli SSRI. La venlafaxina risulta preziosa per la doppia inibizione del re-uptake di SER e NA, anche se per la noradrenalina questo avviene a dosaggi perlomeno doppi rispetto a quanto avviene per la serotonina. La mirtazapian deve la sua attivita` a meccanismi ancora piu` complessi: da una parte favorendo il rilascio di NA in quei neuroni che modulano, proprio con la noradrenalina, l’attivita` serotoninergica, dall’altra agendo direttamente sui recettori serotoninergici pre e post-sinaptici. Inoltre, bloccando i recettori postsinaptici 5-HT2a e 5-HT3, ma non 5-HT1, ridurebbe gli effetti indesiderati tipici degli SSRI. Per quanto riguarda controindicazioni ed effetti indesiderati, questi tre farmaci sono sovrapponibili sostanzialmente agli SSRI. La reboxetina si distingue per la sua prevalente attivita` noradrenergica, una blanda attivita` anticolinergica, nessun effetto istaminergico. Non rileva particolari controindicazioni per condizioni mediche concomitanti, non sono rilevabili dati sulla possibile teratogenicita`. Gli effetti indesiderati sono dovuti alla modesta attivita` anticolinergica (comunque decisamente minore ai TC), scaris quelli a carico del sistema serotoninergico.

Terapie psicofarmacologiche

Riguardo all’efficacia complessiva, tutti questi composti si sono dimostrati sovrapponibili ai precedenti antidepressivi, pertanto l’uso clinico e la scelta dei preparati si fondera` sulle caratteristiche individuali della persona da trattare, sulle personali capacita` di risposta di ogni individuo, sull’esperienza del clinico e delle sue strategie terapeutiche, anche extrafarmacologiche. Tabella 6 — INDICE DEI NUOVI FARMACI ANTIDEPRESSIVI

principio attivo

preparato

nefazodone

reseril

moclobemide

aurorix

venlafacina

efexor

mirtazapina

remeron

reboxetina

edronax davedax

5.2. I nuovi neurolettici Attualmente le terapie farmacologiche per le psicosi vorrebbero centrare i loro obiettivi su una riduzione degli indesiderati effetti extrapiramidali e sul miglioramento dei sintomi negativi della schizofrenia. Le molecole in commercio che rispondono, perlomeno parzialmente, a tali propositi sono la clozapina, il risperidone e l’olanzapina. La clozapina, che in realta` e` conosciuta fin dagli anni ’60, solo recentemente e` stata reintrodotta in commercio alla luce delle sue spiccate caratteristiche antipsicotiche. Il suo complesso profilo recettoriale le fanno considerare un antagonista recettoriale multiplo. Si lega debolmente ai D2, al massimo del dosaggio terapeutico, al 67%: gli antipsicotici tradizionali raggiungono percentuali piu` alte, superando quella soglia di saturazione recettoriale da cui emergono i disturbi extrapiramidali. Si contrappone, viceversa, una maggiore affinita` per i D1, anche rispetto agli AP classici. Ma soprattutto mostra un’affinita` per i D4, quasi del tutto assenti nello striato, dieci volte di piu` degli altri neurolettici, per i 5-HT2 della corteccia frontale, per i 5-HT1a ippocampali. Infine, nell’e-

885

stensione della sua attivita`, interessa gli H1 e gli alfa-1 adrenergici, da cui le forti azioni sedative e ipotensive. Controindicazioni sono quelle generali per gli AP. Effetti indesiderati sono aumento ponderale, scialorrea, sedazione, ipotensione posturale, modesti disturbi dell’apparato gastroenterico e urinario, disturbi del rimo cardiaco, ma in particolare l’insorgenza di una grave agranulocitosi quasi nell’uno per cento dei soggetti trattati, prevalentemente nei primi tre mesi di terapia: per questo e` richiesto un rigido controllo periodico della crasi ematica. Il risperidone agisce sui D2, prevalentemente mesocorticali, sui 5-HT2 duecento volte piu` dell’aloperidolo, sugli alfa-1 e alfa-2 adrenergici. Controindicato in particolare per i pazienti con problemi ipotensivi. Gli effetti indesiderati sono stati d’ansia, cefalea, agitazione, insonnia, iperprolattinemia. Gli effetti extrapiramidali sono assenti o minimi fino al dosaggio di 6-8 mg, dopo di che sembrerebbe che la molecola si comporti come gli altri neurolettici. L’olanzapina ha un comportamento farmacodinamico quasi sovrapponibile alla clozapina, seppur dimostrando un’affinita` leggermente maggiore per quasi tutti i recettori, tranne gli alfaladrenergici. Gli effetti indesiderati rilevati sono cefalea, stipsi, vertigini, incremento ponderale, mentre sono assenti alterazioni della crasi ematica. Negli studi clinici emerge che tutti e tre i farmaci sono dotati di ottima efficacia e superiori ad aloperidolo e clorpromazina nel miglioramento dei sintomi negativi. Tuttavia, negli USA la clozapina e` l’unico AP approvato dalla Food and Drug Administration per il trattamento delle schizofrenie resistenti. Inoltre, sempre la clozapina e` risultata molto utile anche nel trattamento dei gravi disturbi bipolari e nelle psicosi organiche accompagnate da importante agitazione. Tabella 7 — INDICE DEI NUOVI NEUROLETTICI

principio attivo

preparato

clozapina

leponex

olanzapina

zyprexa belivon

risperidone risperdal

886

Manuale di psichiatria e psicoterapia

Riferimenti bibliografici Abrams R., Electroconvulsive therapy, Oxford University Press, Oxford - New York, 1988. Baldessarini R. J., Farmacoterapia in psichiatria, Masson, Milano, 1987. Bellantuono C., Tansella M. (a cura di), Gli psicofarmaci nella pratica terapeutica, il Pensiero Scientifico, Roma, 1989. Ghodse H., Khan I., Prescrivere gli psicofarmaci, il Pensiero Scientifico, Roma, 1989. Johnson F. N., (ed), Handbook of Lithium Therapy, MTP Press, Lancaster, 1980.

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53 Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci Nicola Lalli Parole chiave psicofarmaci; oggetto transizionale; pharmacos; pharmacon; processo; inconscio; ambivalenza; psicoterapia; cultura della droga

In questo capitolo sono state raccolte alcune riflessioni sull’uso e sull’effetto degli psicofarmaci sia per comprendere come questi abbiano influenzato il percorso della psichiatria, sia come l’effetto sintomatico possa aver indotto la proposizione di modelli del funzionamento mentale parziali e riduttivi. Con questo non si vuole demonizzare l’uso dello psicofarmaco, ma semplicemente ricondurlo

a quella che e` la sua funzione: ausilio sintomatico soprattutto utile nei disturbi psicotici. Inoltre si propone un modello esplicativo: l’equiparazione all’oggetto transizionale offre una spiegazione per un uso piu` razionale dello psicofarmaco, soprattutto in vista di una concomitante o successiva psicoterapia. * * *

888

Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Lo psicofarmaco come oggetto transizionale di Nicola Lalli

ziente che il terapeuta, anche se sperabilmente con modalita` e consapevolezze ben diverse.

1.2. Il farmaco: da pharmacos a pharmacon 1.1. Premessa Non e` infrequente che uno psicotico, dopo aver superato la fase acuta e raggiunto un buon equilibrio, potra` essere “controllato” per un lungo periodo di tempo (mesi o anni) con neurolettici a dosaggi di gran lunga inferiori a quelli che dovrebbero dare reali effetti farmacologici, sempreche´ si mantenga il rapporto, anche se saltuario, con il terapeuta. Ma se per caso, sulla base di una reiterata richiesta del paziente o per scelta autonoma del terapeuta, questi modesti dosaggi vengono aboliti, ci troviamo spesso di fronte ad una ricaduta piu` o meno grave. Ricaduta che, non trovando alcuna spiegazione nel contesto esistenziale del paziente, puo` essere collegata solamente a questa interruzione, vissuta come rottura, come taglio di quel tenue filo che legava il paziente al terapeuta. Come non e` infrequente che un paziente con attacchi di panico o con sintomi fobici, dopo aver iniziato una psicoterapia e dal momento che questa comincia a funzionare, puo` sospendere gli psicofarmaci, anche se a lungo continuera` a portarli con se´ come una specie di amuleto. Ma non e` infrequente neppure che il paziente venga non a chiederci uno psicofarmaco per lenire l’angoscia, la disperazione o l’insonnia, bensı` a chiederci di liberarlo dalla tirannia di un farmaco che, inizialmente efficace e buono, si e` trasformato, a causa di una dipendenza psicologica, sempre piu` in un oggetto dannoso e persecutorio. Queste e tante altre vicissitudini del rapporto psichiatra-paziente ci debbono indurre a considerare il farmaco sia come sostanza che modifica lo stato fisio-patologico del paziente, alleviandone il malessere o rimuovendo la causa della malattia, ma anche come oggetto che veicola fantasie, speranze, desideri. Ma anche paure e timori: in una parola, come oggetto che viene investito da numerose, diverse, a volte contrastanti, valenze psicologiche. E questo riguarda, come vedremo, sia il pa-

Il farmaco e` nato con l’uomo non solo come rimedio contro il dolore e la malattia, ma anche come possibilita` di modificare le funzioni mentali. Antico sogno dell’uomo: quello di poter modificare, in modo artificiale e rapido, lo stato mentale per raggiungere dimensioni nuove e vissuti diversi. Altro sogno dell’uomo e` stato quello di abolire o lenire il dolore: il famoso “nepente” di cui parla Omero nell’Odissea e` il farmaco conosciuto da Elena, che aveva il magico effetto di far scomparire il dolore. «Divinum est sedare dolorem», affermava un’antica massima, forse ippocratica. Ma per giungere al concetto di farmaco in una accezione potremmo dire attuale, c’e` un lungo percorso che dev’esser tenuto presente soprattutto per chi ritiene che i successi della moderna psicofarmacologia abbiano eliminato, con l’aumento dell’efficacia, tutto quel mondo fantasmatico che, nato con il farmaco, continua ad essere presente e ad investire ogni relazione medica, soprattutto se mediata dal farmaco. Intanto bisogna sapere che all’origine esisteva il pharmacos, parola che connotava una persona che veicolava forze maligne e pertanto pericolosa, che doveva essere espulsa per purificare e reintegrare l’equilibrio del corpo sociale. Non e` un caso che spesso si adopera la parola corpo per indicare un agglomerato urbano. Nella tragedia di Sofocle, Edipo e` definito turannos e pharmacos allo stesso ` colui che salva Tebe dalla peste con la tempo. E sua sapienza (turannos), ma anche lo stesso che apporta la peste e che pertanto deve essere esiliato. Girard ritiene che l’Edipo racconti anche la storia di una usanza greca, quella del capro espiatorio (pharmacon), animale ricettacolo di tutti i mali che potevano essere allontanati solo con l’allontanamento di questo oggetto. ` ormai certo che nella Grecia del V secolo «E A. C. il sacrificio umano era perpetuato (anche

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

se in maniera simbolica), nella forma del pharmacon, animale che la citta` manteneva a sue spese per sacrificarlo nei periodi di calamita`» (Nielsen, p. 34). Si noti un passaggio importante: da pharmacos a pharmacon. Il primo e` una persona o una sostanza vitale, il secondo e` un animale o un oggetto: come si evidenzia dal cambio di genere che da maschile diventa neutro. Il farmaco presenta due peculiari caratteristiche: la duplicita` di soggetto ed oggetto e l’ambiguita`. Il farmaco e` portatore di salute, ma anche di malattia, e` rimedio ma e` anche veleno. E se pensiamo alla nascita della medicina greca (perlomeno sul piano mitologico), questa caratteristica risulta ancora piu` evidente. ` il centauro Chirone (vissuto in Tessaglia E circa nel 1200 A. C.) ad essere ritenuto l’inventore della medicina, sapere che tramandera` ad Asclepio e che gli era stato dato da Atena mediante un dono eccezionale: il sangue della Gorgona. Sia quello colato dalle vene di sinistra che era un potente veleno, sia quella raccolto dalle vene di destra che conteneva invece un balsamo altamente benefico. Questo breve e sommario excursus (che avrebbe meritato una piu` ampia ed articolata trattazione) rende possibile sottolineare alcuni aspetti strutturali del farmaco, tuttora presenti. 1)

2)

3)

Il farmaco inizialmente e` pharmacos, cioe` persona o forza vitale che successivamente si trasforma in un oggetto (pharmacon). Questa duplicita` e` ancora attuale e puo` essere visualizzata nella modalita` del medico che somministra, al contempo, se stesso ed il farmaco. Come sostiene M. Balint, «... il farmaco di gran lunga piu` prescritto dal medico e` se stesso». Il farmaco mantiene inalterata la primigenia ambiguita` di essere rimedio e veleno al tempo stesso. Infatti sappiamo benissimo che qualsiasi sostanza farmacologicamente attiva puo` presentare effetti collaterali o produrre un esito letale, in caso di dosaggi eccessivi. Ma a parte questo, ogni soggetto assume il farmaco con desiderio e timore. Il farmaco non veicola solo proprieta` farma-

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cologiche ma anche, come nel caso del placebo, esclusivamente fantasie, desideri, paure che entrano a far parte intimamente del rapporto medico-paziente: e` quindi un dato essenziale e strutturale del farmaco quello di essere oggetto materiale, ma anche fantasmatico. Se questo e` valido per i farmaci in genere, lo e` ancora di piu` per i farmaci psicotropi, che comportano una maggiore complessita`. Infatti in questo caso «... l’investimento del prodotto psicotropo da parte del paziente diviene funzione della personalita` del terapeuta, del tipo di malattia, della personalita` premorbosa, dell’atteggiamento dell’ambiente, della percezione da parte del soggetto, degli effetti farmacologici e dalla qualita` degli effetti secondari», afferma Nielsen (p. 53). Ma io aggiungerei a tutto questo anche uno specifico fattore culturale inerente la concezione della malattia mentale e delle relative terapie, che rischia di mistificare una dinamica relazionale gia` di per se´ complessa.

1.3. Lo psicofarmaco: illusioni ed inganni Tutti sanno, ma spesso lo rimuovono, che la psicofarmacologia (ma un po’ tutto l’arsenale terapeutico biologico della psichiatria) e` nata per caso: ma il vero problema e` che questa casualita` non e` stata mai messa in discussione. Mi spiego meglio: la casualita` della scoperta evidenziava la mancanza di un qualsiasi modello psicopatologico di riferimento. Solo successivamente e surrettiziamente si e` proposto un modello di funzionamento della mente derivante dall’effetto e dai meccanismi di azione delle sostanze psicotrope con il seguente ragionamento. Se gli psicofarmaci agiscono sui sintomi psichiatrici con il meccanismo dell’inibizione e dell’incremento di specifici neuromediatori, ergo la causa dei distubi mentali (e non solo, ma di qualsiasi comportamento) e` strettamente collegato ai neuromediatori. Metodologia che B. Silvestrini critica come «ricerca farmacocentrica, cioe` centrata sull’effetto degli psicofarmaci anziche´

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sulla ricerca delle cause della malattia mentale». Questo ragionamento, se da una parte ha bloccato qualsiasi tentativo di trovare nuovi modelli, dall’altra ha incrementato la cultura della droga. Intendo per cultura della droga la tendenza a ritenere non solo possibile, ma utile ed auspicabile, che qualsiasi problema, difficolta`, malessere debbano essere affrontati e risolti con uno psicofarmaco appropriato. L’ideologia sottostante e` che nel futuro la ricerca farmacologica sara` in grado di trovare molecole sempre piu` specifiche che potranno incidere selettivamente su parti del SNC deputate a particolari comportamenti: l’ultima e` la pillola contro la timidezza. Tutto questo costituisce un vero delirio che Gutheil definisce “delirio di precisione”. Certamente nessuno nega che lo psicofarmaco possa migliorare una sintomatologia psichiatrica per proprieta` specifiche e non per un generico effetto placebo. «Ma non si puo` sostenere che, poiche´ gli psicofarmaci riducono i sintomi psichiatrici agendo su specifici recettori, e` l’alterazione di questi la causa dei disturbi mentali. Ragionamento a dir poco ingenuo, che potrebbe essere facilmente ribaltato. Poiche´ e` evidente che le psicoterapie (anche in tempi brevi) comportano cambiamenti e miglioramenti, potremmo, sulla stessa base, affermare che non esistono substrati biologici dei processi mentali» (Nielsen). Ma non e` da posizioni di questo genere che si puo` fare un progresso: credo che sia piu` proficuo riconoscere che gli psicofarmaci agiscano su meccanismi biologici, ma in maniera sintomatica come e` ben evidente, e poi cercare di capire come si possono utilizzare meglio, ai fini di una terapia sempre piu` completa. Pertanto e` importante capire con quale modalita`, con quale spirito, lo psichiatra utilizza lo psicofarmaco. Fin dal 1969 ho prospettato che lo psichiatra puo` utilizzare lo psicofarmaco con tre motivazioni diverse. 1)

Per avvicinarsi al paziente. In questo senso, lo psicofarmaco e` usato fondamentalmente per diminuire o far scomparire alcuni di-

2)

sturbi che spesso rendono difficile o impossibile il rapporto (ad esempio, un’intensa agitazione psicomotoria, un arresto psicomotorio, una grave crisi d’angoscia); in questi casi, l’effetto sedativo o quello sbloccante (realmente connessi all’azione farmacodinamica) possono non solo favorire l’intervento dello psichiatra, ma agire sul paziente nel senso che, migliorando la sua sintomatologia, si accresce la fiducia nel medico. In questo senso, lo psicofarmaco deve pero` essere inserito all’interno di un progetto psicoterapeutico. Per allontanare il paziente. Spesso la prescrizione del farmaco nasce solo dal bisogno di distanziare quanto piu` possibile il malato: lo psicofarmaco non diventa un tramite, bensı` un muro contro il quale si spegne ogni richiesta del paziente. Questa dimensione, che esprime il rifiuto dello psichiatra nei riguardi del paziente e dei suoi problemi, deve poi essere logicamente razionalizzata, per evitare allo psichiatra di entrare in conflitto con la sua dimensione cosciente di aver scelto questo lavoro per aiutare gli altri; cosı` affermera` che «non si puo` fare altrimenti, perche´ ci sono tanti pazienti, l’ambulatorio e` pieno e bisogna aiutare tutti». Il tutto viene razionalizzato in termini di economia: la frase comune e`: «Certo, si potrebbe fare di meglio, ma il farmaco realizza un notevole risparmio di tempo e di energie». E, in effetti, bastano, a volte, pochi minuti per prescrivere uno psicofarmaco. Ma questo tentativo di razionalizzazione cadrebbe immediatamente se questi psichiatri riuscissero a vedere i loro pazienti nel tempo. Quante volte ritornano, quante decine di minuti (che e` il tempo di un visita) si sommano negli anni e soprattutto quali risultati: una progressiva e totale perdita di quel poco di vitalita` che c’e` sempre anche nel piu` grave degli psicotici. L’uso dello psicofarmaco, in questo modo, puo` essere sintomo di una relazione psicotica, un caso di delirio a due, come fanno notare giustamente P.C. Racamier e L. Carretier (1970):

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

3)

«... si tratta di una negazione reciproca della specificita` dell’altro, dell’affossamento del rapporto medico sotto i fiori ben presto appassiti di un rapporto curativo. In psichiatria, dove i principali farmaci neurolettici smorzano e, per modo di dire, robotizzano la vita psichica e il comportamento dei pazienti, questa negazione della persona e della individualita` dell’altro puo` ampliarsi enormemente perche´ entra in perfetta risonanza con la depressione, come dice uno di noi, che costituisce la caratteristica fondamentale della psicopatologia psicotica ed in particolare della schizofrenia. Al limite, il farmaco prescritto e preso appare come un reale sintomo della relazione psicotica, intesa nel senso piu` ampio come una relazione ove la contrapposizione dello psichiatra, complice e prigioniero del paziente, diventa simmetrica, ove l’una e l’altra posizione si completano, si collegano e si rinforzano vicendevolmente in un circolo vizioso privo di aperture verso modalita` di rapporto diverse e piu` sane. Al limite, anche gli scambi non si fanno che attraverso e a proposito del farmaco, oggetto centrale, adorato o aborrito, ove prescrittore e utente non sono piu` che dei satelliti». Per controllare o gestire il paziente. Lo psichiatra tende a reprimere e controllare la sintomatologia del paziente attraverso lo psicofarmaco. Se tutto va bene, in questi casi, si stabilisce un rapporto sadomasochistico, fatto a colpi di sintomi e prescrizioni mediche, all’interno di un rapporto ove vittima ed aggressore sono strettamente legati. C’e` una collusione precisa tra lo psichiatra ed il paziente, che in fondo richiede un controllo su quelle dimensioni psichiche che potrebbero sconvolgere la sua struttura, se dovessero riemergere.

` evidente che lo psicofarmaco e` utile, e E realmente terapeutico, solo nel primo caso: ma questo non basta. Infatti dobbiamo trovare un modello di riferimento che possa correlarsi con l’uso dello psicofarmaco al fine di un migliore uso

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dello stesso, all’interno della relazione terapeutica. Credo che la teoria dell’oggetto transizionale possa essere considerata un valido modello di riferimento.

1.4. L’oggetto transizionale La teorizzazione di oggetto transizionale e di fenomeno transizionale e` dovuta a D.W. Winnicott: e` quindi necessario rifarsi all’Autore soprattutto perche´ questo e` un concetto inflazionato e spesso usato a sproposito. Dopo la nascita vi e` una prima fase durante la quale la madre “sufficientemente buona” deve adattarsi e saper rispondere ai bisogni del bambino, soprattutto apportando un cambiamento ed un miglioramento delle condizioni psicofisiche dello stesso: deve in altri termini essere un oggetto trasformativo. Questo dato e`, secondo me, essenziale. Comunque, man mano che il bambino si sviluppa, il suo adattamento diviene piu` flessibile e la madre puo` comportarsi in modo da poter essere anche frustrante. Infatti dice Winnicott: «...un adattamento (da parte della madre) perfetto saprebbe di magia e il soggetto che si comporta in modo perfetto (ovvero che corrispondesse sempre ed immediatamente ai bisogni del bambino) sarebbe molto simile ad una allucinazione». ` in questo stadio che il bambino inizia un E processo di separazione e di individuazione che gli permettera` di cominciare a distinguere tra cio` che e` soggettivo e cio` che proviene dalla realta` esterna. «Il bambino tende a rinunciare ad una sua onnipotenza allucinatoria per accettare il principio di realta`». ` in questa fase che compare l’oggetto transiE zionale, come momento di mediazione, come area intermedia tra il mondo interno del bambino ed il mondo esterno. Pertanto non e` importante quale e` la natura dell’oggetto, e` importante la funzione che quell’oggetto avra` per questa delicata fase di sviluppo. Come si evidenzia, l’oggetto transizionale non ha nulla a che vedere con l’oggetto interno di M.

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Klein: non solo per la genesi, ma anche per la funzione. Infatti l’oggetto transizionale non e` soggetto al controllo magico onnipotente come succede per l’oggetto interno: l’oggetto transizionale e` lı` realmente, ma e` anche simbolico, e` un ponte tra mondo interno e mondo esterno, ma anche un ponte che mantiene, nel momento iniziale della separazione, il legame con la madre. ` un terzo regno, situato tra quello interno e E quello esterno, e` il regno del gioco, della fantasia che si costituisce e si mantiene attraverso un singolare “paradosso”. «... perche´ si stabilisca un oggetto transizionale (come una copertina o un orsacchiotto) c’e` un tacito accordo tra gli adulti e i bambini, un non farsi domande sulla natura e le origini di questo oggetto» (Mitchell, pag. 198). Con il passare del tempo l’oggetto transizionale tende a perdere la sua centralita`, perche´ sostituito dai fenomeni transizionali che coprono tutta l’area che separa il mondo interno e il mondo esterno nella percezione comune a due persone. I fenomeni transizionali danno luogo cosı` a tutta l’area del simbolico e della cultura. Quali sono le specificita` dell’oggetto transizionale? 1)

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Il rapporto tra madre “sufficientemente buona” e bambino e` valido dal momento che la madre risponde ai bisogni del bambino ed e` in grado di cambiare la di lui realta` psichica e materiale. Una volta stabilito un valido legame, l’eventuale non corrispondenza (che puo` essere vissuta come frustrazione momentanea) induce il bambino a scegliere l’oggetto transizionale che serve a tollerare la frustrazione e a mantenere il legame. C’e` un tacito accordo tra adulto e bambino sull’uso e sul significato: e` un oggetto specifico che, pur avendo una sua realta` oggettiva e materiale, e` anche un simbolo del mondo interno del bambino. L’oggetto transizionale tende nel tempo a venir meno, perche´ sostituito dai fenomeni transizionali che coprono tutta l’area del simbolico e della cultura. Mi sembra evidente una plausibile correla-

zione tra quanto descritto da Winnicott e quanto accade nel rapporto (soprattutto nella fase iniziale) tra terapeuta e paziente. L’uso dello psicofarmaco all’inizio di un trattamento psicoterapico potrebbe rappresentare una sorta di riedizione di una fase di sviluppo importante che probabilmente e` stata difficile o impossibile per il paziente, che potrebbe utilizzare lo psicofarmaco appunto ` ovvio che questo come oggetto transizionale. E dipende strettamente dal paziente e dalla sua patologia, ma anche dalla capacita` del terapeuta di facilitare questa conversione. Ma quali sono le analogie? 1)

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Intanto lo psicofarmaco modifica realmente lo stato psicofisico del paziente diminuendo lo stato di angoscia e di malessere. Puo` essere equiparato alla funzione della madre “prevalentemente buona” che cerca di rispondere ai bisogni del bambino e alleviarne le sofferenze. Inoltre lo psicofarmaco si pone in un’area intermedia (come l’oggetto transizionale) tra il mondo interno del paziente ed una realta` materiale ed esterna. Questo oggetto materiale e visibile puo` avere sia la funzione di alleviare le angosce distruttive del paziente, sia quella di mantenere un legame ed una continuita` con il terapeuta quando questi e` assente. ` ovvio che il farmaco, come l’oggetto tranE sizionale, deve essere inquadrato nell’ottica di un superamento e di un distacco, per giungere al fenomeno transizionale che e` il regno del simbolico e della parola: quindi passare dalla pillola alla parola, dal bisogno di una presenza materiale, veicolato anche dall’uso dello psicofarmaco, alla capacita` di accettare la frustrazione della separazione.

Questo modello di riferimento ha una sua validita` se viene considerato come cornice di riferimento all’interno della quale bisogna poi saper valutare e confrontarsi con situazioni diverse. Soprattutto valutare non solo quali sono le patologie nelle quali lo psicofarmaco puo` essere utilmente proposto, ma anche quelle dove invece deve essere accuratamente evitato.

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

Dal paranoico e dall’ipocondriaco che tenderanno a rifiutare lo psicofarmaco perche´ vissuto come oggetto persecutorio, e che pertanto avranno bisogno di un supporto psicologico proprio per poter prendere lo psicofarmaco, al soggetto con crisi di ansia al quale bisognera` negarlo perche´ lo utilizzera` solo per non evidenziare i motivi del suo malessere. Dall’ossessivo che accettera` il farmaco per mantenere la giusta distanza tra l’evitamento e l’accettazione ritualistica o cerchera` di inserirlo nella dinamica del controllo onnipotente, all’isterico che, nella sua modalita` di strumentalizzare tutto, usera` gli effetti collaterali come deterrenti nei confronti del terapeuta o dell’ambiente familiare. Bisogna tener presente che molti pazienti diagnosticati come “depressi” sono in realta` isterici, e pertanto saranno tra quelli ai quali lo psicofarmaco va assolutamente sconsigliato. Dallo schizoide che lo vivra` alternativamente come oggetto onnipotente, buono o persecutorio, e tendera` ad improvvise, immotivate interruzioni, al narcisista che lo utilizzera` per lenire le proprie ferite narcisistiche. ` evidente che si tratta di psicopatologie diE verse che comportano un diverso rapporto con l’oggetto-farmaco. Ma sara` essenziale l’abilita` del terapeuta non solo nel riconoscerle, ma soprattutto nel far superare nei casi adatti quelle negazioni, quelle resistenze, che impediscono di utilizzare, per un tempo limitato ovviamente, lo psicofarmaco come oggetto transizionale. In questa ottica la psicofarmacologia puo` diventare una farmaco-psicologia, ovvero una disciplina che contempli soprattutto la complessita` relazionale dell’uso del farmaco. In questo modo risulta chiaramente che lo psichiatra-psicoterapeuta e` in grado di utilizzare lo psicofarmaco in maniera molto piu` proficua dello psichiatra orientato solo biologicamente. D’altronde affermava Lion nel 1978: «La psicofarmacologia e` una scienza, mentre saper somministrare i farmaci e` un’arte». Affermazione pienamente condivisibile: l’arte consiste nel saper riconoscere a chi somministrarlo e soprattutto come inserirlo in un progetto psicoterapeutico.

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2. L’effetto degli psicofarmaci sui processi psichici di Gabriele Cavaggioni Credo che sia esperienza di molti imbattersi talvolta in situazioni da cui si esce con qualcosa in piu` e qualcosa di diverso rispetto a come vi si era giunti. Poiche´ l’oggetto del mio pensare e` la realta` dell’essere umano, e` necessario sottolineare che se per render plausibile la prima istanza, ovvero una diversita` quantitativa, potrebbe essere sufficiente un apporto materiale, questo, a mio avviso, di per se´ non permette la realizzazione della seconda, ovverosia una differenza qualitativa, poiche´ essa necessita comunque della interazione interpersonale; potrei ritrovarmi con un fiore in mano che prima non avevo, ma, per quanto profumato possa essere, poiche´ questo non sia soltanto l’intralcio di un fiore strappato e mi permetta un affetto oltre che una percezione sensoriale, abbisogna in qualche modo di un significato che riguarda comunque una relazione: e` un regalo ricevuto, e` un regalo che faccio, mi permette un ricordo. Pertanto, affinche´ si realizzi la situazione a cui ho fatto riferimento, non si puo` prescindere dall’identificare questa come situazione di rapporto. Dunque, psiche, processi, farmaci. Questi i tre ambiti su cui mi sono sforzato di orientarmi. E da questi, sugli inevitabili campi dei loro intrecci; giacche´ psiche e farmaci riportano ad un’idea di malattia; psiche e processi ad una riflessione di significati; processi e farmaci ad un rischio epistemologico. Nel dibattito sempre aperto sul disturbo mentale tra l’approccio psicologico e quello biologico, a dispetto di coloro che sostengono, apparentemente in modo paradossale, un rapporto costibenefici-rischi favorevole alla prima impostazione, la prassi biologica risponde, negli Stati Uniti come in Italia, con la utilizzazione degli psicofarmaci in circa un terzo della popolazione, quantunque i risultati dovrebbero ridimensionare il decantato metodo scientifico che, pur nella pro-

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sopopea della tecnica, non pare abbia, nel tempo, variato di molto la sua ottica. Infatti, se nell’ottocento si ricercava la causa della patologia mentale nel grosso reperto anatomo-patologico, oggi in molti ricercano questa nel lillipuziano mondo dei neurotrasmettitori, come se rimpicciolendo all’infinito la materia, nel caso quella cerebrale, si riuscisse a trovare quel qualcosa di infinitamente piccolo che, forse perche´ tale, caparbiamente continua a sfuggire: il gene, la proteina, l’aminoacido. Dunque, si continua a cercare con gli occhi, in spazi sempre piu` ristretti, sempre piu` microscopici; confortati, peraltro, da una parte da certa impostazione vichiana che, togliendo alla scienza la possibilita` di occuparsi del “vero” in quanto definita come istanza non nata per rispondere a domande di senso, la relega allo spazio del “certo’’, dell’obiettivabile, del visibile; e dall’altra dalla postulazione razionalista che la produzione di un discorso scientifico presuppone la non interferenza della dimensione psichica. All’interno di questi due binari, pertanto, sembra che la scienza goda della possibilita` del vedere, ma, paradossalmente, non di quella del pensare, quantunque questo sia parametro distintivo dell’essere umano.

cattiva dialettica tra il singolo ed il contesto, che viene resa manifesta in un disagio obiettivabile nelle espressioni sintomatiche. Sintomi pertanto da intendersi non come epifenomeni di un alterato chimismo cerebrale, ne´ come evidenza di un inconscio fallace, ma, per utilizzare una terminologia cara a Laing, come rappresentazione di relazioni aggrovigliate, ossia “nodi” relazionali. Tuttavia, per quanto l’antipsichiatria in effetti abbia giocato e giochi un ruolo sostanziale nell’attacco alla possibilita` della terapia annullando l’oggetto di riferimento (se la malattia non esiste, non c’e` necessita` di cura, ne´ di ricerca su questa), credo che effettivamente non sia stato il sistema piu` letale per la ricerca contro la follia, almeno per due ragioni: ovvero perche´, almeno originariamente, gli ideatori di questo movimento non avevano finalita` speculative; e perche´ comunque la lotta alla struttura manicomiale caratterizzata da dimensioni violente e squallide, coercitive e degradanti la dignita` umana, era doverosa.

La domanda sul perche´ di questa che sembra un’evidente castrazione sorge spontanea. Anche perche´, in verita`, come si sa, la scoperta, quella vera, produttiva, anche nel campo della psicofarmacologia ha avuto sempre la caratteristica di poggiare una gamba sulla casualita` e l’imprevisto, ovvero fuori dai binari prestabiliti, e l’altra proprio sulla tanto bistrattata riflessione.

Altre formulazioni, invece, che genericamente originano dalla postulazione del “perverso polimorfo” quale teoresi che impedisce ogni possibile pensiero di trasformazione hanno rallentato e rallentano in maniera piu` significativa il corso della ricerca. Che senso avrebbe, infatti, una trasformazione terapeutica, se invece della sanita` e` postulata un’origine perversa? Non mi soffermo tuttavia sui precordi di queste. Mi preme invece evidenziare come anche attualmente pubbliche affermazioni che appaiono comuni ovvieta`, proprio nella misura in cui trovano generici consensi, massificano il pensiero della gente in modo da rendere questo un molliccio amalgama di ottusita`.

Sulla base di queste osservazioni, si possono inquadrare almeno due delle tre impostazioni che hanno affrontato il problema della malattia mentale almeno in questa seconda meta` del secolo. Prendo per prima in considerazione quella che confuta l’esistenza stessa della malattia. Relativamente a questa, certamente si articola tutto il sistema che si identifica con i presupposti dell’antipsichiatria. Questa individua nel contesto sociale le ragioni della difficolta` di alcuni ad interagire col contesto stesso; tutto cioe` e` relativo alla

Due esempi. Sovente si fa riferimento all’utilita` della sofferenza come stimolo per il cambiamento. Affermazione che superficialmente potrebbe da molti essere condivisa e` quella che sostiene “molti, poiche´ sofferenti, capaci.”. Ora, credo che se non altro piu` logico sarebbe dire: benche´ sofferenti, capaci. Infatti, questo termine, sofferenza, puo` avere diverse accezioni, ovvero diverso significato: la sofferenza puo` essere data da un cruccio, un peso, un problema faticoso, ed anche da una malattia. Ma mentre la sofferenza

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

dei primi spinge sı` verso la soluzione di cio` che la determina, la sofferenza dei secondi, quella a cui si dovrebbe riferire chi si occupa di cura, nasce proprio dal fallimento del tentativo del soggetto di risolvere il proprio problema. Cosı`, dire tout court che la sofferenza e` stimolo, ha in verita` un duplice risultato: quello di lasciare tale il sofferente malato e, per quanto riguarda il terapeuta, giustificare a se stesso il suddetto abbandono. Ancora: piu` voci sostengono un aspecifico “diritto al dolore”, sovrapponendo il dolore, quello fisico, che e` una possibilita` animale funzionale, al dolore psichico. Ora, se ad esempio non sentissi dolore mettendo una mano sul fuoco, potrei continuare a mantenerla dove sta, con conseguenze ben piu` gravi. Fisiologicamente, pertanto, le fibre nervose dolorifiche sono una realta` anatomica e come tali hanno uno scopo. Invece, qual e` la realta` fisiologica del dolore psichico? Secondo quale principio questo dolore dovrebbe essere un diritto da conservare? Facile sarebbe l’obiezione che nasce dal sillogismo sofferenza dell’animo viatico per la creativita`. Come se piu` comprensibile forse non fosse che, ai limiti, la creativita` sia correlata al dolore che il soggetto prova in risposta alla sofferenza psichica e non gia` a quello attributo di quest’ultima. La seconda impostazione, al contrario, riconosce l’esistenza della malattia mentale, ma la assicura nell’ambito dell’organicita` : la malattia mentale e` malattia organica. Meglio, dicono alcuni, e` malattia del cervello e come tale va curata. Sara`. Certo e` che la ricerca in questa direzione conferme obbiettive — giacche´ questo e` il criterio che viene utilizzato dagli organicisti per criticare il modello psicologico — non ne ha ancora date. Comunque, dovrebbe essere una malattia dalle numerosissime variabili date le forme in cui si manifesta; certamente, patologia difficilmente definibile. Infatti, al di la` dell’eziopatogenenesi sconosciuta, resta una sintomatologia assolutamente polimorfa tanto da definire quadri molto diversi tra loro, un’anatomia patologica macroscopica inesistente e microscopica variabile almeno quanto lo e` la sintomatologia, con in piu` l’ecce-

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zionalita` che a variazioni neurotrasmettitoriali simili possono corrispondere quadri sintomatologici differenti; in ultimo un ampio range prognostico, cosı` che un giovane al suo primo episodio delirante potrebbe diventare un adulto che ha dimenticato l’episodio stesso, come parimenti, mi riferisco sempre per quel che attiene all’ottica biologica, uno psicotico cronico. In questo polimorfismo l’idea che un solo medicamento possa fungere da panacea lascia almeno una sensazione di grossolanita`. Ed a conferma di questa osservazione sarebbero sufficienti i dati, assodati e sovente taciuti almeno al grosso pubblico, che il 30% delle cure farmacologiche falliscono nel loro intento (non danno effetti, danno fenomeni paradossi, ecc.) e l’80% dei pazienti trattati con terapia biologica va incontro a ricadute. Cosı` si potrebbe finanche arrivare a pensare che e` proprio l’ottica biologica a rendere improponibile una biologica terapia. Mentre noi sappiamo che, al di la` dell’aspetto manifesto, la patologia mentale sottende dinamiche inconsce simili e che in effetti cio` che ad uno psichiatra ovvero ad un analista dovrebbe interessare non e` certo il comportamento, il fatto in se´, gli eventi della quotidianita`, ma le dinamiche che sottendono ad essi. Sicche´ accade uno strano evento per cui i biologi asserragliati nei fortini delle fabbriche farmaceutiche cacciano i pazzi dalle gabbie dei manicomi, talora anche contro la loro volonta`, ed alcuni analisti aprono le porte a nuovi studi che si caratterizzano per la volonta` presente in ogni dettaglio di combattere la follia. Da qui, la terza impostazione, ossia la malattia mentale come malattia della dimensione psichica. In altre parole, realta` patologica che come tale e` lesiva e dannosa e, in quanto psichica, umana. Percio`, dimensione non organica; ovvero che presuppone l’organico, ma che non ha in esso ne´ la causa ne´, pertanto, il presupposto per la sua soluzione. Tuttavia anche questo spazio viene attraversato da strade molto diverse che vanno dal lavoro tendente alla sopportazione del danno a quello che di questo cerca un senso, ma ne presuppone la immodificabilita`, a chi invece rivendi-

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cando la propria formazione ritiene che il proprio contributo debba mirare al cambiamento. Dunque, intanto, malattia. Cioe` non qualche cosa di confuso, superficiale, difficilmente definibile, legato al mondo delle relazioni, dall’aria filosofica, che va capita, magari consigliata, perdonata, educata; non dimensione morale, religiosa, intellettuale. Non uno stato d’animo, ma malattia. Eppure resta una sostanziale differenza tra chi di questa si vuole prendere cura e chi, invece, ha velleita` di curarla. Pertanto, per scelta in quest’occasione preferisco tralasciare sia l’indirizzo cognitivista che si occupa della rielaborazione delle informazioni esperienziali dissonanti con il precedente assetto mentale, ritenute la causa del disturbo psichico, sia quello relazionale, dove il disturbo del singolo e` considerato la risultante di un’alterazione del sistema in cui il soggetto e` inserito. Cosı`, poiche´ continuo a ritenere che sia l’inconscio a dare specificita` allo psichico, mi pare coerente proporre l’indirizzo psicodinamico poiche´ e` cio` che elettivamente di quello si occupa, e dunque di questo mi occupero`. Tuttavia nella dizione “indirizzo psicodinamico” si celano due modalita` assolutamente antitetiche. La prima, quella che si rifa` ad una teorizzazione classica, impianta la sua metodologia sul presupposto di riportare l’inconscio al cosciente. L’analista dice: «Tu non sai di avere l’ansia; ora te lo dico e tu lo sai», ed il paziente dice: «Ho capito». Il paziente in questo modo viene a conoscenza di qualcosa che lo riguarda, che gli appartiene, ma che prima non sapeva. Se proviamo a riflettere su questa esemplificazione, ci accorgeremo che in fondo il metodo non e` poi molto dissimile da cio` che avviene in medicina organica. Il paziente va dal cardiologo lamentando una facile affaticabilita`; questi gli ausculta il cuore e gli dice: «Tu non sai di avere un’insufficienza aortica; ora te lo dico e tu lo sai». In entrambi i casi il paziente sa di se´ qualcosa in piu` di quello che sapeva prima; in ambo i casi il paziente ha un elemento che potrebbe aiutarlo a cambiare, ma che di per se´ non lo cambia. Per converso, un altro sistema presuppone la

possibilita` di portare il cosciente all’inconscio, ossia l’analista utilizza un linguaggio ovviamente cosciente, il quale pero` non necessariamente fa sapere cose in piu`, ma fa sentire al paziente dimensioni interne ad esse correlate, dimensioni delle quali egli e` “portatore” pur non accorgendosene. L’analista dice: «Io sento che tu sei angosciato, ora lo senti anche tu»; ed il paziente dice: ` vero». «E Questo riconoscimento del paziente e` per esso trasformativo nella misura in cui e` riconoscimento di una dimensione di rapporto prima assente e percezione della possibilita` che un sentire nuovo sia veritieramente realizzabile. Pertanto, la strada che porta dall’inconscio al cosciente sembra che corra parallela a quella della dovizia biologica. L’una e l’altra, infatti, mi pare che sostanzialmente offrano un apporto quantitativo alla conoscenza. Ho incontrato pazienti che mi hanno sottoposto accurati grafici dei valori litiemici valutati nel corso di un tempo che avevo l’impressione fosse per loro solo un lasso tra un prelievo e l’altro, cosı` come ho incontrato quello che avendo gia` fatto “anni di analisi’’, ammiccando come si fa tra vecchi commilitoni affiatati, mi ha amichevolmente confidato che lui sapeva bene di avere “l’Edipo non risolto’’. Per converso, la strada opposta non aumenta il patrimonio cognitivo del paziente, non modifica alcuna quantita`, ma permette di dare a questa un senso nuovo, una differente qualita` la quale, avendo origine nella sanita` dell’analista, e`, comunque, piu` bella. Ora, avendo citato fenomeni che si succedono l’uno all’altro attraverso un nesso di relazioni piu` o meno profondo, in realta` mi sono riferito ad un sistema definibile come processo. Jaspers definisce il processo come un’alterazione permanente della vita psichica e distingue in esso uno spostamento, una trasformazione ed una alienazione della personalita` che, dice, avvengono solo una volta nella vita e creano uno “stato nuovo” che ha progressione costante e si arresta solo di fronte allo stato terminale, e distingue i processi provocati da affezioni cerebrali organiche dai “rimanenti processi ancora numerosi’’. I primi insorgono sempre in una vita psichica defi-

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

nita da Jaspers come “gravemente distrutta’’, mentre i secondi sono caratterizzati dal fatto che pur determinando un’alterazione della vita psichica, questa non viene distrutta e mantiene la possibilita` dell’essere comprensibile. Ma mentre nei processi organici l’intreccio dei fenomeni psichici non e` psicologicamente comprensibile poiche´ disordinato e casuale, nei processi psichici si trovano «relazioni di decorso psicologicamente tipiche». (K. Jaspers, Psicopatologia generale). Tuttavia, mentre quelli organici vengono definiti come processi che, al pari di altre malattie, hanno decorso variabile dall’arresto alla remissione e finanche alla guarigione e dipendente totalmente dai fenomeni cerebrali, nei processi psichici viene definita “per principio – si legge – l’esistenza di un’alterazione permanente’’. (Cfr. Idem) Cosı` anche Jaspers sostiene che dove c’e` comprensibilita`, non vi e` trasformazione, mentre dove il processo e` casuale ed il capire e` per definizione evento da alienare, esiste – continuo a non capire bene come – la possibilita` della guarigione. Non e` casuale pertanto che Jaspers concluda la sua disquisizione paragonando l’intrasformabilita` dell’alterazione del processo psichico a quella dovuta alla naturale evoluzione dello sviluppo vitale; afferma infatti che «cio` che una volta e` cresciuto, sia nella evoluzione naturale della vita, sia in proliferazione e deviazione anormali, non si puo` far regredire». Freud invece, utilizza il termine processo per indicare il sistema di regole che modulano il funzionamento dell’apparato psichico. Egli formula il concetto di processo primario quale quello che caratterizza l’inconscio, ed il concetto di processo secondario per identificare i meccanismi del preconscio e del cosciente. Nel primitivo processo primario l’energia psichica, spostandosi e condensandosi, si muove liberamente attraverso le diverse rappresentazioni soddisfacendo cosı` le esigenze del principio di piacere; in quello secondario, invece, l’energia viene rallentata attraverso il legame alle rappresentazioni ed il soddisfacimento differito onde permettere la realizzazione adeguata del principio di realta`. Cosı` per Freud, se il processo primario troverebbe metafora nel sogno, quello secondario si

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sostanzierebbe nel pensiero. Ed anche per Freud, naturalmente, non c’e` differenza tra processo primario dell’Io immaturo e processo primario che nel malato persiste, ai danni del pensiero del processo secondario. Alcuni interrogativi tuttavia restano inevasi. Uno e`, per esempio, per quale ragione questi due processi debbano essere cosı` in contrasto tra loro, giacche´ la realizzazione del secondario, sinergica con lo sviluppo dell’Io, necessita della rimozione del primario: e` una deduzione o un modo per giustificare l’insoddisfazione creata dai bisogni? Secondo, per quale ragione, se non morale, il piacere dovrebbe essere cosı` in contrasto con la realta`? E terzo, se la persistenza del processo primario ossia la tendenza alla realizzazione del principio del piacere indica patologia, curare il malato e` a lui funzionale o e` soltanto adattativo? Sono questi solo alcuni degli interrogativi che mi pongono queste formulazioni; ma oltre a questi, esse mi invitano a numerose riflessioni che riportano al tema in oggetto. Pertanto, da quanto detto si potrebbe dedurre che, per esempio, i processi organici e quelli psichici sono realta` totalmente distinte e separate e se i primi possono andare incontro a trasformazione, i secondi non lo possono; la patologia, secondo queste formulazioni, e` solo una questione quantitativa, ovvero determinata dalla maggiore o minore quantita` di una qualche energia che sfugge ad un qualche controllo; la facolta` del capire non ha nessuna rilevanza sulla possibilita`, ove presente, del curare; la cura consiste nel riportare alla norma, ossia all’uguale per tutti, ogni situazione che dalla norma si discosti. Sicche´ l’estremizzazione farmacologica poggia in verita` su un pensiero molto meno acritico e reazionario di questo. Un pensiero, se vogliamo, piu` ottuso, ma proprio perche´ tale meno pericoloso. La psicofarmacologia e` come lo schiaffo che il genitore da` al figlio pensando di educarlo: e` gesto sciatto e stupido, ma non fa impazzire. Chi invece mi pare abbia contribuito in modo determinante alla follia dilagante della normalita` contemporanea e` proprio l’indifferenza, voluta, cercata e perpetuata, di certa acritica ideologia che sovente si e` sostituita al pensare quale produttiva metodologia di ricerca. Che la fabbrica

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psicofarmacologica tenda a trasformarsi in un impero e` un’evidenza macroscopica da cui non si puo` prescindere; ma l’attribuzione ad una sostanza, naturale o sintetica che sia, dell’aggettivo psicotropo, significando con questo la capacita` di modificare, si dice, “l’attivita` mentale ed il comportamento”, permette alla dottrina farmacologica l’aberrazione di quel salto epistemologico che collassa l’illustrazione del come quel composto agisce con l’interpretazione dei significati: e` doveroso riconoscere al farmaco il potere di variare le quantita` di sostanze biochimiche che di momento in momento, di situazione in situazione, di soggetto in soggetto, circolano nel cervello di tutti noi, ma da qui a ritenere che dette sostanze cambino il contenuto qualitativo del pensiero mi pare ci sia un abisso che, se cosı` colmato, credo sia solo per l’angoscia che questo crea. Ne´ il pensiero analitico ortodosso, ossia freudiano, o quello fenomenologico, ha colmato questo jatus. Anzi, nella formulazione del concetto di processo uniformato nel suo costituirsi fisiologico e nel suo divenire patologico ha mantenuto o forse ricreato terreno fertile alla reviviscenza ottocentesca della patologia mentale come patologia d’organo. ` vero che se io somministro ad alcuni paE zienti un neurolettico incisivo o un triciclico, o inietto una fiala di benzodiazepine, con ogni probabilita`, rispettivamente, questi non mi racconteranno piu` di vedere la Madonna, smetteranno di cercare di convincermi che il vicino di pianerottolo li vuole avvelenare e forse avranno un sonno piu` lungo; tuttavia non credo che una molecola trasformi un cattolico in un laico, faccia sentire piu` valido chi ha fallito, cambi il contenuto di un sogno. Se uno e` malato, resta malato anche se dorme tranquillamente; la malattia mentale non coincide necessariamente con l’alterazione della realta` materiale. Anzi con questa ha poca relazione giacche´ una lesione organica puo` dare un disturbo neurologico, ma questo non solo non e` sempre associato ad uno psichico, ma talvolta, se dobbiamo dar credito agli organicisti, visto che son proprio loro a dirlo, come nell’herculeus morbus lo escludono. ` peraltro di frequente osservazione che un E

soggetto puo` avere una struttura somato-biologica assolutamente normale, un comportamento ineccepibile, un rapporto con la realta` apparentemente adeguato, ed essere comunque totalmente folle. Il problema dello psicotico non e` quello di avere allucinazioni o deliri, o di non riuscire nel vivere quotidiano: infatti per i primi gli e` sufficiente prendere qualche pastiglia e questi scompaiono molto piu` rapidamente di quanto non scompaia una polmonite, e, per converso rispetto al vivere quotidiano, e` sufficiente accendere la televisione o leggere un giornale per vedere quanti psicotici sono perfettamente inseriti nella societa` d’appartenenza. Il problema dello psicotico e` quello di essere psicotico, ossia, quantunque senza sintomi e ben inserito, assolutamente non vitale, psichicamente assente, indifferente al vivere proprio ed all’altrui, anaffettivo. La quantita` biologica, modificabile farmacologicamente, puo` alterare le modalita` di rappresentazione dei contenuti psichici, ma non ne altera i significati: nell’assunzione di sostanze allucinogene, per esempio, si ha risultato nel sintomo allucinatorio, ma sul piano psicopatologico il disturbo non e` relativo al fatto che il soggetto allucina, come invece viene proposto per esempio per la schizofrenia, ma alla dimensione annullante della tossicomania; chi prende LSD non e` pazzo perche´ allucina, ma perche´ si droga. Il contenuto dell’allucinazione nella tossicomania e` indifferente rispetto alla diagnosi psicopatologica, mentre puo` essere patognomonico nella psicosi. Un’ultima considerazione per quel che riguarda il meccanismo farmacodinamico delle sostanze psicotrope va fatta circa un’esperienza che, credo, e` condivisa da molti. Nella pratica clinica e` comunemente osservabile che e` tanto piu` facile ottenere lampanti successi quanto piu` massicci sono i sintomi presentati. Il medico che si trova di fronte ad un paziente con sintomatologia florida, sia che questa sia positiva sia che invece riguardi i sintomi negativi, otterra` con i farmaci risultati molto piu` rapidi ed eclatanti, ma a mio avviso anche molto poco persistenti, di quanti ne ottenga quando la sintomatologia e` invece piu` sfumata. Credo che questo fenomeno possa essere an-

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

cora interpretato in termini di significati. Se dobbiamo togliere o aggiungere qualcosa di obiettivabile, il problema e` facilmente risolvibile; quando invece la manifestazione rappresentabile cede spazio al senso, il problema si complica e l’incisivita` farmacologica perde di consistenza. Inoltre, l’assunzione di farmaci ha anche valori euristici che prescindono dal meccanismo d’azione degli stessi e su cui e` doveroso fare qualche semplice osservazione. Somministrare un farmaco, oltre che necessario alle condizioni del paziente, per esempio quando il rischio suicidario e` elevato e non e` proponibile altra alternativa o quando la destrutturazione e` tale da impedire ogni ragionevole possibilita` di rapporto, puo` essere mezzo per avvicinare il paziente, ovvero strumento, se vogliamo grossolano e rischioso, per favorire il rapporto almeno nella definizione di questo come rapporto terapeutico; anche se ogni analista sa bene che il prezzo di questa modalita` verra` profumatamente pagato nel corso della relazione. Tuttavia credo che se questa fosse la finalita` della somministrazione del farmaco, forse meglio sarebbe il ricovero. Infatti, se il farmaco e` somministrato quale iniziale alternativa all’impossibilita` momentanea del rapporto, significa intanto che il paziente sta proprio male, e quindi perche´ non situarlo nella condizione almeno teoricamente migliore per la cura? Inoltre il farmaco, comunque, e` e resta oggetto esterno rispetto alla realta` relazionale, mentre il ricovero, tanto piu` quanto maggiormente e` coatto, almeno teoricamente, dovrebbe imporre la completa presenza del medico, ossia presenza non gia` sadicamente fisica, ma, se mi e` concesso l’anacoluto, fisicamente psichica. E finanche i teorici della holding postulano quanto questa, se effettiva, foss’anche coercitiva, sia funzionale alla possibilita` della trasformazione. Il medico che sta con il paziente impone a questo il riconoscimento della sua presenza, raggiungendo cosı` almeno lo stesso risultato, se non migliore, che teoricamente tenta di ottenere attraverso il farmaco. In verita`, pero`, questa rimane la migliore delle ipotesi. Obiettivamente, considerando la quantita` di psicofarmaci che vengono venduti, la

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somministrazione del farmaco tende al risultato esattamente opposto. Dare un farmaco, obiettivamente, non serve ad avvicinare il paziente, ma ad allontanarlo, sia materialmente che psichicamente. Materialmente il farmaco agisce nel tempo secondo due modalita`, e comunque sempre su sistemi che al piu` possono essere correlati alla macroscopica sintomatologia obiettiva: infatti, o e` incisivo e quindi i sintomi scompaiono nell’arco finanche di poche ore permettendo al medico prestidigitatore la magia della risoluzione ed al malato, che rimane tale, l’illusione che, non essendo piu` paziente nella misura in cui torna a casa, cio` significa essere guarito; oppure i risultati si rendono visibili dopo un tempo durante il quale e` possibile aspettare e, avendoli veduti, nella maggior parte dei casi non e` necessario incontrare nuovamente il paziente – tanto e` vero che in linea di massima i controlli farmacologici non durano piu` di quindici minuti – e sovente e` sufficiente una laconica telefonata che si esaurisce nelle tre battute: «Come va? – Bene – Allora continui cosı`.». Oppure, «Come va? – Male – Allora aggiunga due gocce.» Psichicamente, invece, la sua azione di allontanamento si realizza attraverso tre fondamentali canali. Il primo consiste nella delega che implicitamente viene fatta al farmaco dall’operato del medico. Quest’ultimo cioe`, somministrando una sostanza che il paziente percepisce attiva su di se´, si puo` sentire in diritto di deresponsabilizzarsi circa gli effetti della sostanza stessa. Ne e` dimostrazione il fatto che lo psichiatra farmacologo, quando la pillola non funziona, non pensa di cambiare operato, ma generalmente cambia pillola, pur sapendo che la seconda, in verita`, non puo` essere molto dissimile dalla prima. Secondariamente, la somministrazione del farmaco permette il rinforzo delle difese. Infatti, lo spostamento sulla realta` biologica puo` essere per il paziente facile negazione della sua conflittualita` e iatrogeno confinamento nella perseverazione del disagio. Se all’elettrica signora che rifiuta i bollenti spiriti del marito somministriamo un cachet per il sedicente mal di testa giustificativo, forse riusciremo a farla addormentare, ma l’indomani si svegliera` probabilmente ancora piu` insoddisfatta.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Cosı`, in ultimo, il farmaco allontana il paziente dal medico e dalla cura poiche´ toglie al rapporto la gia` esigua possibilita` del linguaggio verbale. Poiche´ il linguaggio nasce dal pensiero e nella patologia psichica e` ubiquitario un disturbo di quest’ultimo; rallentare, condizionare, ghettizzare il linguaggio all’interno della cornice degli effetti, presupposta dall’intervento farmacologico, significa oscurare quel panorama della dialettica attraverso il quale e` possibile vedere, mostrare e, quando possibile e necessario, modificare, i vulcani delle pulsioni, le nubi delle angosce, gli stagni delle difese, i fiumi delle possibilita`. Il linguaggio e`, pertanto, presupposto necessario alla cura della psiche; un muto puo` diventare un idraulico, un artista, un architetto, un falegname, un chirurgo, finanche un paziente psichiatrico, ma non potra` mai diventare un analista, ossia uno psichiatra, giacche´ questo dovrebbe aver scelto l’obbligo di curare il paziente costantemente comunicandogli verbalmente una propria sana dimensione inconscia. Le parole che vengono espresse dal terapeuta della psiche all’interno di un contesto clinico che pretende di essere trasformativo non sono fonemi formulati e ascoltati, ma insostituibili veicoli di un proprio contenuto vitale modificante il vuoto affettivo del paziente. Il linguaggio da` continuita` al processo psichico e ne permette la trasformazione giacche´ il divenire di questa attraverso il linguaggio non presuppone la perdita della dimensione precedente che, invece, conservata nel ricordo, funziona da riferimento al cambiamento. Il farmaco invece rompe la continuita` del processo psichico modificando una situazione in un altra, destoricizzandole, ossia togliendo il nesso che intercorre tra le due. Il linguaggio, aggiungendo al sintomo il senso, ne permette la perdita; il farmaco, annullando il sintomo, crea un vuoto di significati. Pertanto ritengo che per queste ragioni il linguaggio analitico non possa poggiare sul buon senso comune, quantunque questo magari si ritrovera` nell’ornamento della costruzione linguistica, ma debba trovare fondamenta portanti in un costrutto teorico solido e coerente. Cosı`, attribuire al variare dei costumi sociali

la causa della crisi del modello freudiano, peraltro mantenendo una certa indeterminazione circa l’oggetto della crisi, se cioe` e` crisi di prassi o di teoria, o ipotizzare che far morire Freud significa automaticamente spingere verso il biologismo, sono affermazioni parziali. La validita` o il fallimento di una teoria scientifica non viene messo in discussione dal tempo che passa, ma dall’osservazione, che magari e` dal tempo permessa, dell’infondatezza del suo presupposto. Galileo ha messo in discussione l’idea del centrismo mondano non perche´ fosse arrivato il momento giusto, ma perche´, in effetti, e` la terra a girare intorno al sole. Se ragionassimo per converso, rientreremmo in un determinismo religioso assolutamente paralizzante. Inoltre il far morire Freud non spinge necessariamente verso il biologismo; intanto perche´ se Freud muore, muore per i fatti suoi, ossia il perverso e` evidentemente insito nella circolarita` della teoria stessa nella misura in cui essa tende ad autoconfermarsi piuttosto che a criticarsi costruttivamente quando l’obiettivita` della clinica lo rendeva necessario e quindi non necessita di alcuna giustapposizione. E comunque sarebbe tolemaico il voler mantenere una teoria al solo scopo di evitare una strada diversa, per quanto questa sia sdrucciolevole. In verita`, peraltro, proprio la psicoanalisi ha favorito lo sviluppo dell’attuale organicismo e per questo penso che la critica al biologismo debba passare necessariamente attraverso la critica al freudismo. Freudismo da intendersi nel suo significato piu` lato ossia come limbo che rende lecite affermazioni accomodanti sulla similarita` dei soggetti della relazione terapeutica, dall’apparenza innocua, che suscitano legittimanti sorrisi compiacenti e compiaciuti per la democraticita` del loro contenuto. Dunque democratica sembrerebbe la psicoterapia come democratico e` il farmaco che a tutti e` concesso e a tutti smuove le stesse sostanze. Cosı` i farmaci guariscono, la psicoanalisi ricerca, nessuno cura. E la malattia mentale, piu` o meno incravattata, continua a circolare. Ma la psicoterapia non e` democratica e non puo` esserlo poiche´ se lo fosse sarebbe violenta

Considerazioni critiche sull’uso e l’effetto degli psicofarmaci

perche´ reiteratamente deludente nella perpetuazione dell’immodificabilita`. La psicoterapia necessita invece di una primaria diversita` che consiste nella sanita` di uno contro la follia dell’altro. Poiche´ la follia e` dimensione disumana che puo` essere guarita. E la sanita` psichica e` dimensione dell’uomo che, recuperata, gli permette di pensare che, pur potendo temere di ammalarsi delle piu` varie malattie organiche, certamente, impazzire, quello no, non impazzira` mai piu`.

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Riferimenti bibligrafici Bellantuono C., Tansella M., Gli Psicofarmaci nella Pratica Terapeutica, P.S.E., 1994, Roma. G. Cavaggioni, Qualita` della vita, psicofarmaci e psicoterapia. Il Sogno della Farfalla, Wichtig Ed., vol. 5, n. 4, 1996, Milano. Fagioli M., La marionetta e il burattino, N.E.R., 1991, Roma. Hilgard E.R., Psicologia. Corso introduttivo, Giunti Ed., 1971. Jaspers K., Psicopatologia generale, P.S.E., 1988, Roma. Zapparoli G. C., Paranoia e tradimento. Boringhieri, 1992, Torino.

54 La psicoterapia: considerazioni generali Nicola Lalli Parole chiave relazione terapeutica; fattori strutturali; fattori strutturanti; collegamenti; ridefinizione; interpretazione; abreazione; suggestione; atteggiamento pedagogico-autoritario; gratificazioni narcisistiche; frustrazione con interesse; regressione; sciamanismo; magnetismo; relazione narcisistica; tecnica psicologica d’apprendimento; relazione psicologica di sostegno; gruppo Balint

La psicoterapia e` una relazione terapeutica che si instaura tra un paziente ed un terapeuta ed ha come scopo l’autoconoscenza e la messa in discussione della struttura psicopatologica del paziente. La relazione terapeutica coinvolge gli aspetti emotivi, affettivi, cognitivi e relazionali dei partecipanti. Alcuni di questi aspetti possono essere privilegiati, il che comporta modalita` diverse di psicoterapia: diversita` che danno luogo ad una teoria, una prassi ed un training di formazione diversi. La psicoterapia utilizza prevalentemente la comunicazione verbale: puo` essere duale o di gruppo, a tempo determinato o indeterminato. Comunque deve essere sempre presente, sia per il terapeuta che per il paziente, l’idea di un termine che dovrebbe coincidere, per il paziente, con la presa di coscienza dei suoi conflitti o con il superamento delle sue dinamiche psicopatologiche. La psicoterapia non puo` essere imposta ma

deve essere sempre una libera scelta sia per il paziente che per il terapeuta. La relazione terapeutica, intesa come scambio emotivo-affettivo tra una persona che chiede un aiuto ed un’altra che, in possesso di una teoria ed una prassi ben precisa, e` in grado di rispondere, ` costituisce la base di ogni azione psicoterapeutica. E pertanto possibile distinguere due modalita` di intervento psicologico che impropriamente vengono definite psicoterapia: le tecniche psicologiche di apprendimento o addestramento, in cui la relazione e` minima perche´ sostituita da un ruolo tecnico o pedagogico-autoritario del terapeuta; la relazione psicologica di sostegno, caratterizzata da un minor rigore teorico ed operativo e dalla possibilita` di associare altri interventi, come per esempio quello sociale-assistenziale o quello psicofarmacologico. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Proporre un discorso generale sulla psicoterapia e` operazione difficile ed oserei dire pericolosa: quale che sia l’impostazione che se ne da`, sara` sempre possibile criticare le posizioni prese, come omissioni, imprecisioni o comunque tendenza a privilegiare un modello rispetto ad altri. Problema centrale e` se bisogna parlare di psicoterapia o di psicoterapie, ed in quest’ultimo caso, quali e quante forme diverse bisogna riconoscere. Ricerche, non molto recenti, hanno evidenziato che, solo negli USA, esistono circa 250 forme diverse di psicoterapia o perlomeno diversamente denominate: e` evidente che seguire questo filone porterebbe ad una operazione di natura inventariale di nessuna utilita`. Per orientarci in questo composito arcipelago denominato «psicoterapia», dobbiamo tener presenti due punti di riferimento. Il primo consiste nel postulare una indivisibilita` della psiche, nel senso che esistono situazioni basilari del funzionamento psichico che prescindono da fattori sociali e culturali, e sono da attribuirsi quindi alla fondamentale struttura unitaria della psiche. Ma dobbiamo tener presente anche un secondo punto: cioe` che in fondo tutto quello che succede intorno a noi interviene a formare, arricchire e a disturbare la nostra vita psichica, anche quando le cause possono essere poco evidenti e riconoscibili. Rimarrebbero quindi fuori dall’attivita` psichica solo le operazioni fisico-chimiche del nostro organismo; ma la conoscenza piu` approfondita del funzionamento del SNC, del sistema endocrino e di quello immunitario ci dimostra quanto stretti siano i legami tra soma e psiche: per cui e` chiaro che, quando parliamo di attivita` psichica, praticamente parliamo della complessa globalita` dell’uomo. Ed e` proprio questa complessita` che rende comprensibile la presenza di approcci diversi; diversita` che nasce dal privilegiare alcuni aspetti nei confronti di altri, fermo restando che le differenze non possono essere sostanziali dal momento che l’oggetto di studio e di intervento rimane, pur nella sua complessita`, unico. Quindi ritengo che possiamo definire la psicoterapia come una situazione basilare di intervento psico-

logico, che puo` presentare modificazioni e diver` importante quindi individuare quali sono sita`. E gli elementi comuni e connotanti la psicoterapia, anche per poterla distinguere da altre prassi che psicoterapeutiche non sono. Operazione necessaria perche´ sul mercato dell’angoscia troppo spesso e troppo numerosi sono i venditori di fumo che scambiano le chiacchiere per parole, la seduzione per gratificazione, il proprio tornaconto per interesse nei confronti del paziente e la propria incapacita` per resistenza del paziente.

2. Definizione della psicoterapia Ho gia` dato all’inizio del capitolo una definizione abbastanza ampia e precisa. In questo momento puo` essere utile trovarne una piu` sintetica: direi che la psicoterapia e` una relazione terapeutica che utilizza strumenti psicologici. Pertanto ora dobbiamo esaminare questi tre parametri: la terapia, gli strumenti psicologici e la relazione. Alcuni elementi piu` specifici del rapporto medico-paziente e della relazione terapeutica sono stati descritti nel capitolo «Il rapporto medico-paziente» a cui rimando. Ma se la psicoterapia e` una disciplina che nasce all’interno della metodologia medica, e` pur vero che presenta differenze e variazioni notevoli che rendono necessario un discorso piu` ampio e particolareggiato.

3. La terapia Da sempre nella storia dell’uomo sono esistiti un paziente, ovverosia uno che soffre, ed un medico, ovverosia uno che come dice la radice etimologica (mede´ri) riflette e cura. Se nel tempo la figura del paziente e` rimasta piuttosto stabile, al contrario articolata e multiforme e` stata la figura del medico che per costituirsi e` dovuta passare attraverso quella dello stregone, del guaritore, dello sciamano; come vedremo, alcuni di questi aspetti possono essere ancora presenti nell’attivita` della psicoterapia in generale, di quella analitica in particolare. La domanda di terapia – per quanto si debba pensare che sia nata con la malattia stessa – con-

La psicoterapia: considerazioni generali

utilizzare il sapere per l’altro, e non ridurlo ad un potere strumentale per i propri bisogni. Questa dimensione e` strettamente collegata alla precedente. Ma il problema centrale e` come stimolarla. Certamente questa dovrebbe essere presente gia` nel futuro aspirante-terapeuta, ma essa puo` essere attivata solo dalla metodologia medica. Che, con la sua specificita`, costringe il terapeuta a confrontarsi continuamente con i problemi della malattia, della incurabilita`, della morte: problemi che possono bloccare dinamiche onnipotenti. Questo dato e` essenziale e rappresenta il motivo fondamentale del perche´ la terapia e` specificatamente atto medico. Non bisogna sottovalutare che spesso l’aspirazione a «curare» nasce da valenze ostili e sadiche, che rendono il «curare» un atto tendenzialmente riparativo; ed accanto a queste, spesso si trovano presenti dinamiche onnipotenti. Il tutto puo` essere evidenziato, frustrato e contenuto proprio dalla specificita` della metodologia medica che offre le possibilita`, ma pone anche i limiti dell’operare.

cretamente si formalizza e si attua dal momento che comincia a crearsi una reale possibilita` di risposta terapeutica. ` quello che storicamente e` avvenuto, sia per E quanto attiene alla terapia somatica che a quella psicologica. Quindi e` inevitabile che, per definire la struttura fondamentale di una terapia, bisogna definire anche quali sono gli elementi fondamentali del terapeuta: la terapia e` un concetto astratto se non c’e` un terapeuta. Cerchero` quindi di definire sinteticamente quali sono gli elementi fondamentali che servono per costituire la figura del terapeuta.

3.1. Fattori strutturali 1)

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La teoria. Ovverosia il capire, spiegare, che viene da un sapere acquisito e trasmissibile: lo studio della fisiologia, della patologia, della semeiotica che attiene allo specifico della medicina come la psicologia e la psicopatologia attengono alla psicoterapia. La prassi. Ovverosia un modello operativo che discenda direttamente dalla teoria e quindi sia coerente e conseguenziale alla teoria. La capacita` di fare, che unita alla teoria permette di formulare una previsione del ` fare, saper fare e sapere proprio operare. E cosa si sta facendo. L’interesse. Nasce da una partecipazione emotiva ed affettiva nei riguardi dell’uomo portatore di una malattia. Interesse che porta a curare – prendersi cura – dell’altro; ma anche interesse per la ricerca e per una ulteriore conoscenza, mai disgiunta dall’interesse per il paziente, e quindi sempre finalizzata. Questo e` un dato fondamentale: infatti se si costituisce solo una situazione di interesse teorico ed astratto — se si perde di vista l’uomo — si cade nell’atteggiamento piu` antiterapeutico che esiste. In questo caso il paziente diventa un oggetto da studiare: sotto il camice del medico compare il bambino perverso, che rompe il giocattolo non per curiosita`, ma solo perche´ tanto ne avra` presto un altro. I medici di Auschwitz insegnano. ` la dimensione che permette di L’etica. E

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Questi sono i fattori strutturali del terapeuta, che permettono a questi di essere tale e di attivare quindi un processo terapeutico. 3.2. Fattori strutturanti Abbiamo descritto i fattori strutturali attinenti al terapeuta: ma bisogna tener presente che esiste un paziente con le sue angosce, le sue fantasie, i suoi bisogni, la sua teoria sulla malattia e con le sue modalita` di reazione al disturbo ed al rap` da questo incontro che si stabilisce il porto. E processo terapeutico. Ma il processo terapeutico che si costituisce dall’incontro del medico con il paziente puo` strutturarsi in modi diversi a seconda di una serie di fattori che definiro` strutturanti, perche´ delineano e condizionano le modalita` terapeutiche. Essi sono: a) b) c)

tempo; scopi; strumenti;

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livello di regressione del paziente; rapporto psicologico medico-paziente; domanda del paziente; setting.

Dall’interazione di tutti questi fattori si possono configurare tre diverse modalita` di intervento terapeutico. Modalita` che sono riscontrabili anche nel campo strettamente medico, dove abbiamo: l’intervento tecnico terapeutico (l’esempio piu` classico e` l’intervento chirurgico); la relazione terapeutica di sostegno (l’esempio e` costituito dall’ampio settore delle malattie croniche); la relazione terapeutica globale o psicosomatica (N. Lalli, 1989b). Analogamente, nel campo psicopatologico abbiamo tre modelli, che pero` non sono tutti definibili, come vedremo, come psicoterapia: infatti la psicoterapia corrisponde al modello di relazione terapeutica globale (vedi capitolo ‘‘Rapporto medico-paziente’’). Data l’alta specificita` e l’importanza degli strumenti (voce c dei fattori strutturanti) e` necessario soffermarsi ad esaminarli. 3.3. Strumenti della terapia psicologica Cerchero` brevemente di elencare le caratteristiche fondamentali di ognuno di essi, sottolineando che mentre alcuni sono aspecifici, nel senso che possono essere presenti nelle varie modalita` d’intervento psicologico, altri sono altamente specifici e connotano quella specifica modalita` di intervento. Per esempio, l’interpretazione e` uno strumento specifico della psicoterapia analitica, mentre i collegamenti-spiegazione attengono alle varie modalita` psicoterapeutiche. 1)

Collegamenti-Spiegazione. Dal momento che la psicoterapia fonda gran parte delle possibilita` d’intervento sulla verbalizzazione, e` evidente che la modalita` del terapeuta di sottolineare ed evidenziare comportamenti, idee, emozioni, che per il paziente sono spesso totalmente sconosciute, rappresenta un fattore di presa di consapevolezza molto importante. Si collegano avvenimenti ed emozioni spesso distanti tra di loro, si fornisce una cronologia degli avvenimenti, si cerca di spie-

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gare al paziente i motivi o le motivazioni di ` un certe sue modalita` comportamentali. E fattore usato prevalentemente, a volte esclusivamente, in una serie di modalita` che vanno dalla Terapia centrata sul cliente a tutta una serie di relazioni psicologiche di sostegno. In maniera non prevalente, e` comunque uno strumento presente nella maggior parte delle psicoterapie. ` una spiegazione che si riferiRidefinizione. E sce ad un livello di metacomunicazione e serve quindi ad introdurre un elemento nuovo nel sistema, elemento che porta alla messa in crisi dell’omeostasi del sistema ` specifico della terapia sistemicostesso. E relazionale, ma e` presente anche nella psicoterapia cognitiva. ` anche essa una spiegazioInterpretazione. E ne-ridefinizione, ma si diversifica non solo perche´ attiene a livelli inconsci, ma soprattutto perche´ c’e` una comunicazione semantica specifica che deve riuscire ad attivare e ` lo riunire le emozioni con la conoscenza. E stumento tipico della psicoanalisi. ` la possibilita` di portare a liAbreazione. E velli di consapevolezza, in maniera rapida e spesso traumatica, emozioni, conflitti o comunque complessi ideo-affettivi rimossi o ` fattore terapeutico solo se utilizrepressi. E zato con estrema parsimonia, altrimenti di` utilizzato venta un fattore antiterapeutico. E o in situazioni di alterazione dello stato di coscienza (ipnosi), oppure in situazioni di gruppo (per es. T-Group; gruppi selvaggi). Suggestione. Modalita` che utilizza la dipendenza ed alterazioni dello stato di coscienza, per imporre all’altro idee, convinzioni, ordini. Comporta modificazioni tanto rapide ` utilizzata prevalentequanto transitorie. E mente nella terapia direttiva, nell’ipnosi, in parte in alcune metodiche di sostegno. Tuttavia, non va sottovalutata la eventualita` che elementi di suggestione possano essere attivati anche in modalita` psicoterapeutiche, quali la psicoanalisi. Atteggiamento pedagogico-autoritario. Il terapeuta si pone come giudice-autorita` indiscussa, e comunica al paziente ordini, diret-

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` prevalentemente utilizzata nelle terative. E pie di sostegno. Gratificazioni narcisistiche. I bisogni di dipendenza, di deresponsabilizzazione, di essere accudito, vengono soddisfatti in un rap` una modalita` porto di tipo maternage. E usata prevalentemente nelle relazioni psicologiche di sostegno e teoricamente non puo` essere considerata, se non in casi eccezionali, un fattore terapeutico. ` l’opposto del Frustrazione con interesse. E precedente. I bisogni, le dimensioni regressive del paziente, vengono interpretate e quindi fondamentalmente rifiutate, mentre si gratificano le esigenze di chiarezza, di rispo` un fattore di sta e di crescita del paziente. E estrema importanza, ma anche di estrema delicatezza, nel senso che la frustrazione deve essere posta in maniera chiara. Ovverosia che il rifiuto e` nei confronti della dimensione regressiva del paziente, non della sua persona. Ritengo che la proposizione e la chiarificazione di questo fattore siano dovute a M. Fagioli, ai cui lavori rimando. Regressione. Tendenza a far assumere al paziente comportamenti ed emozioni di livello infantile. Si tende ad accentuare la dipendenza del paziente tramite un atteggiamento di non risposta e di frustrazione delle esigenze. L’esempio tipico e` l’uso del lettino unito alla tendenza al silenzio da parte dell’analista: certamente non e` un fattore tera` vero che la situazione psicoterapeutico. E pica puo` stimolare tendenze regressive, ma queste andrebbero contenute e non incoraggiate.

4. La relazione ` evidente che ogni rapporto puo` veicolare E una valenza terapeutica, ma cio` che rende possibile accertarne gli effetti e` la presenza di un modello valido che specifichi e renda ragione dell’effetto terapeutico. La mancanza di una teoria e di una prassi che sia coerente e conseguenziale rende ogni relazione, anche se parzialmente terapeutica, aleatoria ed inverificabile. Non a

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caso prima del terapeuta c’e` stato il guaritore o lo stregone; e certamente il guaritore, lo stregone, lo sciamano hanno agito e continuano ad agire modalita` di rapporto che possono avere anche una certa efficacia, nel senso di indurre modificazioni positive e spesso la relazione che essi suscitano puo` essere molto intensa. A. Huxley giustamente afferma: «...la relazione tra indemoniato ed esorcista e` probabilmente ancora piu` intima di quella tra psichiatra e nevrotico». Questa citazione di A. Huxley puo` indurci ad una riflessione, anche se molto sintetica, su una delle piu` antiche modalita` terapeutiche, basata esclusivamente sulla relazione: lo sciamanismo. Tuttavia l’importanza delle dimensioni psichiche nella concezione della terapia e della malattia e` stata ampiamente illustrata anche presso altre culture (Bartocci G., 1988).

4.1. La funzione sciamanica «Uno studio accurato dello sciamanismo ci potrebbe condurre molto vicino a quello che fu l’inizio della scienza medica, in un periodo in cui la pratica della medicina era essenzialmente psicologica... Lo sciamanismo agisce in corrispondenza di quel sottile ed impalpabile confine in cui la psiche ` ed il corpo si influenzano reciprocamente». E quanto afferma A. Lommel (1980), al quale mi riferiro` nel trattare questo argomento. Ma, aggiungerei, quello che stupisce sono le notevoli, sconcertanti analogie tra questa pratica e quanto puo` accadere attualmente, in una cultura completamente diversa, all’interno di una relazione terapeutica analitica. La filosofia dello sciamanismo trae le sue origini dalle condizioni di vita nel paleolitico, quando l’uomo si trovava a combattere, e spesso a soccombere, nella lotta contro i proibitivi fattori climatici, e nella caccia ad animali di grossa taglia e feroci. Sembra che la caccia, con l’uccisione degli animali che d’altro canto rappresentavano la fonte essenziale del sostentamento e quindi della sopravvivenza dell’uomo, abbia creato a quest’ultimo il primo conflitto. L’uomo doveva uccidere quello stesso oggetto da cui dipendeva; e` possibile che si sia angosciato di fronte alla previsione

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che gli animali uccisi sarebbero ben presto completamente spariti. Da questa dinamica si sviluppa una concezione del mondo che considera che ogni essere vivente sia costituito da una parte fisica e da una parte spirituale. Quello che veniva ucciso era la parte fisica, mentre lo spirito dell’animale continuava a vivere nell’aldila`. «Il cacciatore primitivo inventa l’animale immortale e la vita eterna per poter dire che in realta` non si uccidono gli animali, ma soltanto i loro corpi, e che qualora le ossa vengano trattate in modo giusto1, gli animali possono sempre rinascere... Ed e` da questa concezione che trae origine l’arte; la figura di un animale dipinto contiene la sua sostanza spirituale: attraverso l’immagine, una specie animale puo` essere a piacere riportata o mantenuta in vita» (A. Lommel, 1980). Ed e` sulla base di questa concezione del mondo che si esplicita l’attivita` «terapeutica» dello sciamano. Ma lo sciamano per arrivare ad essere tale deve aver attraversato e superato una lunga penosa malattia che e` stata spesso diagnosticata dagli antropologi come grave disturbo psicopatologico di tipo psicotico (depressione endogena o forse stati crepuscolari epilettici). Questa lunga malattia, drammaticamente vissuta come essere sbranato e poi ricomposto dagli spiriti, configura il suo lungo apprendistato, che in una sorta di morte-rinascita lo portera` ad una maturazione. L’essere stato a contatto con gli «spiriti» gli permettera` di acquisire un potere enorme che in termini piu` moderni

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Trattate nel modo giusto vuol dire non spezzate: in questo modo l’animale lasciato intatto nel suo scheletro poteva ritornare dall’aldila`. Questo rito si ritrova presso le tribu` della Mesopotamia nel sacrificio dell’agnello che avviene nel plenilunio di primavera e sempre con il tabu` di non spezzare le ossa. Questo rito passera` direttamente nella Pasqua biblica come e` riferito nel cap. 12 dell’Esodo. «Il 14 del mese di Nisan, ciascuno si prepari un agnello e, senza spezzarne le ossa, lo immoli al tramonto. Preso un po’ del suo sangue lo si spalmi sugli stipiti e sull’architrave delle case. Poi, con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano, se ne mangi la carne arrostita al fuoco, con azzimi ed erbe amare. E` la Pasqua del Signore». Questo rito passera` poi nella Pasqua cristiana. E` molto singolare che il sacrificio dell’animale «senza spezzarne le ossa» e` come un filo rosso, che pur nelle notevoli variazioni segnala la connessione con la concezione della rinascita e della immortalita`.

potremmo definire di conoscenza e controllo delle dimensioni emotive piu` profonde. Emerge gia` qui una prima analogia: come lo sciamano, anche lo psicoterapeuta deve attraversare una lunga fase di apprendistato, e sulla sua pelle, per giungere ad una maturazione emotiva che gli permettera` di accedere al mondo sconosciuto dell’inconscio (l’aldila` dello sciamano). Superato questo apprendistato, lo sciamano e` pronto a guarire. Ma in che modo? Attraverso elaborati e creativi cerimoniali che fanno dire a A. Lommel: «Eppure dovrebbe essere abbastanza chiaro che soltanto una intensa attivita` artistica puo` permettere allo sciamano di vincere la malattia. Quella dello sciamano e` dunque una attivita` artistica che consiste nel mimare, cantare, danzare, dipingere, costruire maschere che rappresentano gli ‘‘spiriti amici’’ ed indossarle, il che equivale a trasformarsi in essi». Emergono due altre analogie. L’attivita` terapeutica e` fondamentalmente una attivita` artistica, cioe` creativa: e` una continua invenzionecreazione-elaborazione, e non gia` la ripetizione di una tecnica o di un rito. Questo aspetto sembra estremamente vicino a quanto sostiene M. Fagioli, a proposito della terapia analitica. Inoltre lo sciamano fabbrica maschere di «spiriti» e le indossa: anche qui sembra evidente l’analogia con la capacita` che deve avere l’analista di immedesimarsi o di saper vivere i «fantasmi» o le fantasie del paziente. In questo senso sembra evidente la correlazione con quelle due attivita` fondamentali, secondo H. Kohut, per la psicoanalisi: l’introspezione e l’empatia. Lo sciamano inoltre trasmette ai compagni della tribu` il potere acquisito attraverso l’induzione di uno stato di estasi, ovverosia di estrema comprensione e fiducia che possono arrivare a stati di trance. Questo dato e` confermato da un occidentale che ha vissuto direttamente una 2 esperienza del genere. Racconta M. Konner che molti fattori quali l’iperventilazione respiratoria, l’ipoglicemia, la ripetitivita` dei ritmi, possono indurre queste sensazioni di benessere fino ad arrivare a stati di alienazione di coscienza. «Ma assai piu` di uno qualsiasi di questi fattori, cio` che mi

2 Gli AA. non citati in questa bibliografia si ritrovano in Lalli N., 1990.

La psicoterapia: considerazioni generali

rese possibile entrare in trance, sia pur nella limitatissima misura in cui mi accadde, fu la fiducia... In chi ebbi fiducia? In tutti; nelle donne, negli altri danzatori, negli apprendisti guaritori, nell’intera comunita`, ma soprattutto nel mio maestro». Konner descrive una sensazione rapportabile ad un «sentimento oceanico di unione con il mondo» esperienza estatica, ma sentita anche come pericolosa, perche´ al limite del proprio controllo. Solo la fiducia nel suo maestro gli dette la possibilita` di lasciarsi andare. Questo stato di estasi sembra essere molto simile a fenomeni in parte assimilabili, ma che sono avvenuti in altri contesti: come la passione sonnambulica descritta da P. Janet. Ma un’altra capacita` «terapeutica» dello sciamano si esplicita attraverso la capacita` di poter distaccare dal proprio corpo lo spirito, il quale cosı` libero puo` andare alla ricerca dello spirito malato del paziente. Ma questa capacita` deve essere usata con molta attenzione, perche´ egli e` esposto ad un rischio: «... ed infatti la loro credenza e` che l’anima in uno stato sufficientemente profondo di trance possa lasciare il corpo, e che tale dissociazione possa diventare permanente» (M. Konner). Quindi e` evidente che l’esercizio della terapia comporta un rischio per il terapeuta stesso. Ed anche qui ritroviamo un’altra analogia: che la cura analitica essendo eseguita senza mediazioni, ma solo con la propria personalita`, puo` comportare un rischio per il terapeuta. Viene alla mente, pur in una enorme distanza culturale, temporale e geografica, l’episodio di J. Breuer nei confronti di Anna O. Ma lo stato di trance ci induce a numerose ulteriori considerazioni. «La trance, vale a dire il processo attraverso cui si conferisce una forma alle immagini interne, viene sperimentato dallo sciamano come una comunicazione con gli spiriti: lo spostamento di livello di coscienza e` interpretato come un «viaggio nell’aldila`...». Per una propria carenza di obiettivita` l’uomo primitivo (o l’uomo ‘‘posseduto’’, nel caso di una di queste manifestazioni iperattive) non e` in grado di riconoscere ‘‘gli spiriti’’ come fenomeni emersi dalla propria psiche: essi gli appaiono come creature di un altro mondo che si impossessano di lui» (A. Lommel, 1980). Ma lo sciamano riproducendo, attraverso le maschere,

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questi spiriti, e poi indossandole, non solo rende visibile lo sconosciuto ma comunica soprattutto la possibilita` che questi «spiriti» possano essere manovrati e controllati. Ulteriore analogia di estremo interesse. Lo sciamano in trance «attiva le sue immagini interne». Cosa che sembra corrispondere esattamente all’attivita` dell’analista che deve trasformare le parole e le emozioni del paziente «in sue immagini interne», per poi poterle riproporre e farle riconoscere al paziente come sue dimensioni, attraverso le parole dell’interpretazione. Questo stato di trance e` molto significativo e per due motivi. Da una parte esso e` espressione di una attivazione di un substrato somatico, probabilmente del sistema limbico o delle strutture del midollo allungato (M. Konner) e quindi ci propone, in maniera evidente, l’importanza ma soprattutto l’esistenza di un nesso continuo tra soma e psiche, nonche´ l’importanza della globalita` psicosomatica, sia del terapeuta che del paziente. Dall’altra parte, questo stato di trance viene utilizzato non solo per attivare dinamiche affettive estremamente intense, ma anche per cogliere ed elaborare il conflitto. Vediamo cosa succede presso la tribu` Kung. «Una giovane madre ebbe un grave attacco di malaria mentre partecipava alla veglia funebre del padre, un uomo di mezza eta`. Il guaritore incaricato di curarla entro` in una profonda trance, durante la quale la sua anima uscı` dal corpo, e viaggiando nel mondo degli spiriti incontro` per la via il padre che reggeva sulle braccia l’anima della figlia. Dopo una lunga discussione, il guaritore aveva convinto il padre che il bisogno che la figlia aveva di restare in vita sulla terra prevaleva sul bisogno che egli aveva di lei e sul suo inconsolabile cordoglio. Cosı` aveva restituito alla vita ed alla salute l’anima della donna. Qualche giorno piu` tardi erano completamente spariti in lei i gravissimi sintomi della febbre e dei brividi» (M. Konner). ` difficile fare ipotesi, ma sembra probabile E che l’aver evidenziato, drammatizzato e risolto un probabile conflitto inconscio della figlia nei confronti del padre possa aver aiutato questa donna

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

ad attivare le sue difese biologiche nei confronti della malaria. In questi rapidi cenni sulla funzione sciamanica emergono le numerose, a volte strabilianti, affinita` con l’attivita` psicoanalitica: dico strabilianti perche´ si tratta di metodologie appartenenti a culture profondamente diverse. L’attivazione delle immagini interne come possibilita` di capire e rispondere, l’attivita` terapeutica come continuo processo creativo ed inventivo, la possibilita` di far riappropriare al paziente conflittualita` rimosse e proiettate, la terapia come messa in gioco e rischio per il terapeuta. L’unico dato non concordante, come vedremo, e` l’uso della trance, come metodica che invece deve essere sostituita, nella relazione terapeutica, da un clima di empatia e di investimento libidico. Quindi e` evidente che da sempre la relazione interpersonale e` stata utilizzata per fini terapeutici; ma il primo vero tentativo di comprenderne l’importanza, capirne le cause, codificarne l’uso, inizia con il magnetismo. Ed in effetti, pur presentando lo sciamanismo impressionanti analogie con il processo analitico, non credo che lo si possa definire terapeutico nel senso sopra descritto. Cioe` se per terapia intendiamo non solo una prassi, ma anche e soprattutto una teoria di riferimento, che struttura la prassi facendole acquisire i caratteri della metodicita` e controllabilita` e non piu` un agire inconsapevole e ripetitivo.

4.2. Il magnetismo Mesmer e` il primo ad intuire l’importanza, nella terapia, del rapporto interpersonale, anche se attribuira` l’effetto ad un generico magnetismo. Puysegur e` il primo invece ad essere consapevole e ad affermare con chiarezza l’importanza del rapporto, la sua efficacia, ma anche i suoi rischi: la terapia si basa sulla relazione. Il concetto di reciprocita` magnetica aprira` la strada al concetto di transfert-controtransfert. J. Braid oscurera` questa chiarezza e, riducendo l’importanza del rapporto a favore del concetto di autoinduzione e quindi della prevalenza dell’attivita` del SNC del paziente, arrivera` al concetto di ipnosi. Cosı` definito, ma anche in parte cosı` am-

putato, il magnetismo diventera` piu` accettabile ed accettato dalla comunita` scientifica: l’ipnosi comunque si affermera` solo sminuendo le intuizioni dei magnetizzatori. P. Janet infine si soffermera` a descrivere non solo l’importanza del rapporto, ma anche la capacita` del paziente. L’ipnotizzato, egli sostiene, puo` spesso cogliere aspetti molto reconditi dell’ipnotizzatore, il che vuol dire che la terapia non e` solo una tecnica, ma avviene attraverso le valenze consce ed inconsce del paziente e del terapeuta. Egli propone inoltre una teorizzazione dell’ipnosi. L’ipnosi e` dovuta ad una sorta di allucinazione negativa (ovverosia scotoma) su tutto cio` che non riguarda l’ipnotizzatore. Descrivendo la passione sonnambulica, pone il problema della possibile dipendenza dell’ipnotizzato, ma anche i rischi e la responsabilita` dell’ipnotizzatore. Questo campo di ricerca sara` soprattutto privilegiato nel campo della psicoterapia, ma investira` anche il campo del rapporto medico-paziente in genere. Bisognera` quindi approfondire sempre di piu` la complessita` e la vastita` dei fattori che entrano in gioco in una relazione, soprattutto quando l’oggetto di questa relazione e` una richiesta di terapia.

4.3. Considerazioni psicodinamiche sulla relazione La domanda di terapia contiene varie richieste: la piu` ovvia e` quella di una cura valida per bloccare il male. Ma non solo: c’e` una richiesta di speranza ed una, spesso inconscia, di poter recuperare quella stima di se´ che ogni malattia lacera e diminuisce. Una malattia, reale o fantasmatica, costituisce sempre una ferita narcisistica piu` o meno grave: non e` un caso che la reazione piu` frequente alla malattia sia la depressione. Il paziente quindi, proprio nel suo essere tale, propone una relazione che l’aiuti a «curare» il suo narcisismo ferito: stabilisce cioe` una relazione narcisistica. Questa relazione deve essere accettata dal terapeuta: e questi deve farlo in maniera consapevole, senza porsi in una situazione narcisistica complementare. Intendo per situazione narcisistica complementare quella che stabilisce il te-

La psicoterapia: considerazioni generali

rapeuta allorquando la richiesta di terapia non sollecita il suo interesse-empatia, ma il bisogno di fare terapia come supporto per mantenere o aumentare il proprio narcisismo. Preferisco definire questa relazione come complementare, anziche´ simmetrica, perche´ in effetti non si tratta di una situazione speculare. Mentre nel paziente il narcisismo e` ferito e chiede di essere «curato», il narcisismo del «guaritore» chiede di essere mantenuto o aumentato. Non a caso uso il termine «guaritore» perche´ quanto piu` questa relazione si innesca, tanto piu` il terapeuta assume il ruolo di guaritore. Tuttavia, quando questa relazione narcisistica complementare viene agita, e` possibile che possano presentarsi nel paziente eventi positivi, anche se temporanei: ed e` quanto accade nei rituali, nei cerimoniali, nella funzione sciamanica. Per il paziente sapere che tutto un gruppo partecipa alla sua malattia, che lo sciamano rischia il proprio spirito per andare alla ricerca del suo, il sentire insomma che ci si occupa di lui, e` di per se´ un fattore di miglioramento, perche´ sicuramente alimenta la speranza ed in qualche modo tampona la ferita narcisistica. Dall’altra parte, per il guaritore, il sentirsi investito e riconosciuto da tutto il gruppo nella sua funzione di autorita` e di potere aumenta la sua dinamica onnipotente-narcisistica. In questi casi possiamo osservare modificazioni che sarebbero interpretabili anche in senso di una terapia, se non ci fossero alcuni aspetti negativi e neganti un reale processo terapeutico. Il primo e` che il tutto viene agito e quindi non c’e` alcuna possibilita` di capire e di teorizzare quanto accade: il rito, il cerimoniale non diventa mai un sapere, se non ad un osservatore che ha gli strumenti per decodificare quel comportamento. Il secondo e` che una relazione cosı` costituita rimane immutata nei secoli: non esiste alcuna possibilita` di evoluzione. Nulla di singolare quindi che Milingo, in pieno 2000, in una grande metropoli, possa eseguire lo stesso cerimoniale che si e` strutturato migliaia di anni fa presso tribu` africane. Infine, in questa situazione si crea un legame che non ha alcuna possibilita` di essere sciolto e quindi di evolvere.

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Una richiesta di terapia puo` quindi innescare una relazione narcisistica complementare da parte del medico, ma quando questo avviene la differenza tra terapeuta e guaritore risulta molto ri` necessario, al contrario, che il terapeuta dotta. E si ponga in una situazione empatica e quindi asimmetrica. E questo sara` tanto piu` possibile quanto piu` il terapeuta, oltre ad essere possessore di una teoria e di una prassi specifica, abbia raggiunto una sua ben precisa identita` che gli permettera` di mettersi in gioco, per recuperare le angosce proiettive del paziente, senza pero` ne´ agirle ne´ farsi invischiare. In questo modo egli puo` empaticamente lenire la ferita narcisistica del paziente: ovverosia riconoscere ed accettare le angosce del paziente il che vuol dire che egli si prende cura, ancor prima di curare. Il terapeuta quindi puo` anche farsi «possedere» momentaneamente dal paziente, senza scadere pero` nel rito dell’esorcismo o, per contrapposizione, nella difesa razionalizzante. In questo modo la relazione terapeutica conduce inevitabilmente il paziente ad una maturazione ed evoluzione; e questo e` valido non solo per la psicoterapia, ma per la terapia in genere.

5. Fattori strutturanti e relazione Dopo aver esaminato il concetto di relazione che e` fondamentale in psicoterapia, dobbiamo esaminare come i fattori strutturanti, con particolare riferimento agli strumenti psicologici, si integrano tra di loro e come, ma non sempre e necessariamente, si stabilisce una relazione terapeutica. Infatti, come vedremo, possiamo evidenziare all’interno della dizione «psicoterapia» le tre seguenti modalita` operative che si diversificano tra di loro non solo sulla base di un diverso uso dei fattori strutturanti, ma anche per la specificita` degli strumenti psicologici impiegati: 1) 2) 3)

tecniche psicologiche di apprendimento o di addestramento; relazione psicologica di sostegno; relazione psicologica terapeutica o psicoterapia.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

5.1. Tecnica psicologica di apprendimento o di addestramento Si attua attraverso varie tecniche psicologiche che presentano le seguenti caratteristiche comuni: a) b)

c)

d)

e)

f)

g)

tempo: esso e` ben definito ed in genere breve, da qualche settimana a qualche mese; scopo: e` prevalentemente sintomatico ed e` rivolto alla diminuzione o eliminazione non del fattore patogeno, ma del sintomo indesiderato; strumenti: fondamentalmente sono la suggestione, l’atteggiamento pedagogico-autoritario, a volte l’abreazione; livello di regressione del paziente: e` sempre presente e puo` andare da un massimo – come l’ipnosi – ad un minimo come nel training autogeno; rapporto psicologico medico-paziente: in genere il terapeuta si pone come un tecnico, quindi con modalita` asettiche, mantenendo sempre un atteggiamento distaccato; domanda del paziente: in genere e` una domanda basata sul sintomo e non c’e` alcuna attivita` da parte del terapeuta nel ridefinire la domanda; setting: abbastanza preciso e ben definito.

Questa modalita` corrisponde a varie tecniche psicologiche di intervento, caratterizzate dagli elementi sopra descritti e nelle quali gli strumenti sono basati sulla dinamica dell’apprendimento e sulla suggestione. Possono essere incluse in questa modalita` le seguenti «psicoterapie»: training autogeno; tecniche di rilassamento in genere; tecniche di desensibilizzazione; biofeedback; alcune modalita` della terapia comportamentale; molte tecniche basate sull’ipnosi; alcune «psicoterapie brevi», ecc.

b)

c)

d)

e)

f)

g)

puo` essere saltuario. C’e` una tendenza alla dipendenza e quindi alla cronicizzazione del rapporto; scopo: quello fondamentale e` aiutare a ridurre il disturbo, ma soprattutto aiutare il paziente a convivere ed adattarsi al proprio disturbo; strumenti: sono vari e variamente usati. Essi possono andare da momenti in cui prevale l’atteggiamento di spiegazione, a momenti in cui invece si utilizza la suggestione, fino a tecniche di abreazione. Ma fondamentalmente il filo rosso e` l’atteggiamento pedagogico-autoritario; livello di regressione del paziente: il paziente viene mantenuto sempre ad un livello di dipendenza, piu` o meno profonda; rapporto psicologico medico-paziente: e` sempre presente, a volte molto personalizzato. Ma questo non vuol dire che si arrivi a livelli di interpretazione del vissuto fantasmatico del paziente nei confronti del terapeuta, che mantiene invece sempre un suo ruolo ben definito, mai messo in discussione; domanda del paziente: e` molto varia, ma in genere e` sintomatica. La domanda non viene mai ridefinita, ma accettata, anche se con il tempo la domanda puo` cambiare; setting: molto variabile ed indefinito; inoltre puo` cambiare durante il corso della relazione.

Possono essere incluse in questa modalita` tutte quelle «psicoterapie» cosiddette di sostegno che vanno da un appoggio ad una modalita` basata sull’atteggiamento pedagogico-autoritario o suggestivo. 5.3. Relazione psicologica terapeutica: psicoterapia

5.2. Relazione psicologica di sostegno

Si attua attraverso modalita` ben precise e codificate che hanno i seguenti punti in comune:

Si attua attraverso varie tecniche psicologiche che presentano le seguenti caratteristiche comuni:

a)

a)

tempo: non e` determinabile. In genere si svolge nell’arco di anni, anche se il rapporto

tempo: esso puo` essere abbastanza lungo, comunque e` sempre insito il concetto di un tempo determinato. Vale a dire non c’e` la tendenza a cronicizzare il rapporto;

La psicoterapia: considerazioni generali

b)

c)

d)

e)

f)

g)

scopo: e` quello di arrivare ad una modificazione sostanziale del comportamento del paziente, anche se non sempre e` possibile attivare una terapia eziologica. Comunque non si e` interessati al sintomo, se non come indice rivelatore di un malessere piu` profondo. Infine, la psicoterapia ha come scopo fondamentale quello di fornire al paziente una autonomia sempre maggiore. Inoltre il disturbo, la crisi, il malessere del paziente devono essere elaborati ed integrati nel vissuto globale del paziente, il quale deve giungere ad una situazione che gli permettera` di attivare proprie capacita` personali per affrontare eventuali future situazioni traumatiche; strumenti: gli strumenti sono quelli specifici delle varie psicoterapie. Possiamo dire che gli strumenti principali sono: la spiegazione, il collegamento, l’interpretazione, la ridefinizione, la frustrazione con interesse; livello di regressione del paziente: la regressione e` certamente presente, ma non si tende ad accentuarla eccessivamente. Eccezione alla regola dovrebbe essere costituita dalla nevrosi di transfert: ma e` tutto da vedere se questa regressione sia effettivamente terapeutica; rapporto psicologico medico-paziente: e` fondamentale, anzi possiamo dire che tutta la terapia e` centrata proprio sulla interazione interpersonale. Certamente ci sono livelli diversi di profondita` che vanno dall’atteggiamento dell’analista «presente» a modalita` piu` distaccate, come per esempio nella terapia cognitivo-comportamentale; domanda del paziente: essa viene sempre elaborata e ridefinita, nel senso che va dato un senso preciso alla domanda del paziente. Anzi potremmo dire che parte della psicoterapia puo` essere proprio centrata su questa problematica, nel senso che deve migliorare la capacita` del paziente di porre e di porsi domande valide; setting: sempre preciso e definito.

Sono da includersi in questa modalita` terapeutica: la psicoterapia analitica, la terapia cogni-

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tiva, la terapia sistemico-relazionale, la terapia di gruppo centrata sul gruppo. Credo opportuno sottolineare la necessita` di non continuare a definire «psicoterapia» qualsiasi tipo di intervento, solo perche´ utilizza strumenti psicologici. Si puo` obiettare che queste metodiche, diverse dalla psicoterapia, possono comportare miglioramenti e guarigioni. Certamente, ma non e` un elemento sufficiente, dal momento che miglioramenti o guarigioni possono anche essere spontanei. Quello che conta, perche´ la metodica possa definirsi terapia, e` l’iter metodologico, l’attendibilita` e la coerenza delle ipotesi, la prevedibilita` del decorso, ed inoltre una terapia per essere tale deve tentare di essere eziologica e non semplicemente sintomatica. Quindi e` necessaria la presenza di numerosi elementi per definire una prassi come psicoterapica: la semplice presenza di uno strumento psicologico, per quanto specifico, non basta. Una metodica che utilizzi l’interpretazione come strumento fondamentale, ma che tende a durare decenni (ovverosia che non abbia l’idea di fine) e quindi tende a sviluppare la dipendenza, non puo` essere definita come psicoterapia analitica, bensı` come una relazione psicologica di sostegno. Credo che sulla base di quanto detto precedentemente c’e` una possibilita`, metodologicamente corretta, di distinguere meglio ed in modo piu` appropriato e meno ideologizzato cio` che e` psicoterapia da cio` che non lo e`. Questo nulla toglie al fatto che alcune tecniche psicologiche di apprendimento o le relazioni psicologiche di sostegno possano essere di valido ausilio in situazioni particolari e definite. Anzi, credo proprio che una definizione piu` chiara e precisa di psicoterapia possa sgombrare il campo dai numerosi equivoci e rendere possibile una risposta piu` precisa ed articolata alle domande di aiuto del paziente. Quindi per poter definire una situazione come relazione terapeutica psicologica occorrono dei parametri ben precisi. A rischio di essere schematico, credo li si possa riassumere nei seguenti punti: 1)

la domanda di terapia implica, oltre che una richiesta di cura, anche un aiuto per la pro-

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2)

3)

Manuale di psichiatria e psicoterapia

pria ferita narcisistica: questa domanda non puo` essere negata ne´ ipertrofizzata; il terapeuta, per essere tale, deve essere in possesso di una teoria precisa, codificata, verificabile e di una prassi che ne sia logica o coerente conseguenza; il terapeuta deve aver superato problematiche di una possibile identificazione con il paziente ed aver raggiunto una sua precisa identita`.

Comunque e` evidente che la terapia non puo` essere considerata come una situazione di tutto o nulla: come nella crescita e nell’apprendimento esistono vari gradi. L’abilita` del terapeuta sara` quella di avvicinarsi ad una dimensione che comporti non solo la cura, ma anche la maturazione del paziente. In questo senso, una relazione terapeutica si costituisce nel momento che il curare ed il prendersi cura del paziente avvengono attraverso una attivita` creativa che permette non solo la crescita del paziente, ma anche una corrispondente e parallela crescita del terapeuta. In questo senso il terapeuta si pone al servizio (terapeuo= servire) non solo del paziente, ma anche di se´ e della ricerca.

6. Indicazioni Come abbiamo visto, esistono modalita` diverse di intervento psicoterapico che, corrispondendo a situazioni diverse e non sempre sovrapponibili, ne costituiscono le indicazioni specifiche. Ma prima di esaminare queste indicazioni specifiche dobbiamo considerare che esiste anche una condizione generica e di base alla psicoterapia, che riguarda la complessa interazione tra il paziente, la sua malattia ed il contesto sociale, culturale e familiare in cui vive. Per quanto riguarda il paziente, e` necessario che ci sia una domanda di aiuto, una discreta intelligenza, una consapevolezza del proprio disturbo, insieme ad una capacita` di affrontare il dolore psichico. Per quanto riguarda la patologia, la presenza di una massiccia negazione (come nella mania e nella paranoia) o di un deterioramento mentale rende pressoche´ improponibile un

lavoro psicoterapico. Per quanto riguarda il contesto, bisogna valutare quanto questo puo` ostacolare o bloccare un eventuale lavoro. La capacita` clinica dello psicoterapeuta e` anche quella di saper valutare attentamente tutti questi parametri, prima di proporre un lavoro psicoterapico. Accanto a queste condizioni di base, bisogna tener presente che le diverse psicoterapie hanno indicazioni e controindicazioni specifiche: cerchero` qui brevemente di elencarne le piu` significative, rimandando ai vari capitoli per notizie piu` approfondite.

6.1. Psicoterapia familiare o sistemico-relazionale Le indicazioni principali sono costituite dalle situazioni in cui c’e` una scarsa individuazione ed identita` del paziente, una incapacita` alla separazione dal nucleo familiare, l’impossibilita` alla designazione di uno specifico paziente ed alla formulazione univoca di una richiesta di intervento. Quindi costituiscono indicazioni precise: la psicosi schizofrenica, l’anoressia mentale, la psiconevrosi ossessiva con cerimoniali, le conflittualita` che coinvolgono l’intero nucleo familiare. Controindicazioni sono da considerare quelle situazioni in cui c’e` un desiderio ed una possibilita` di separazione e di crescita: in questi casi il coinvolgimento del nucleo familiare costituisce un fattore regressivo. Lo stesso discorso vale anche per la coppia: spesso la terapia di coppia ha l’unica funzione di bloccare la possibilita` di crescita, anche se unilaterale, di uno dei partner della coppia. Non bisogna comunque confondere la terapia familiare con la possibilita` di avere dei colloqui con l’intero nucleo familiare, al fine di avere una visione piu` globale della situazione. Cosa che puo` avvenire anche all’interno di altre metodiche, soprattutto quando la domanda di terapia e` complessa e non facilmente decifrabile, come per esempio nelle problematiche adolescenziali. In questo caso i colloqui servono per un orientamento piu` preciso, al fine di poter proporre un lavoro psicoterapico piu` articolato: come per esempio una

La psicoterapia: considerazioni generali

psicoterapia analitica per il paziente, ed una relazione psicologica di sostegno per i genitori.

6.2. Psicoterapia di gruppo Data la varieta` delle terapie di gruppo, puo` essere utile valutare dapprima quali sono i fattori terapeutici specifici del gruppo. I. Yalom3 propone una lista di dieci fattori specifici; di questi ne estrapolero` solo alcuni, che ritengo piu` significativi e con qualche modificazione: a) b) c) d) e)

f)

possibilita` di sviluppare modelli nuovi e piu` funzionali di socializzazione; comportamento imitativo: il gruppo funziona come uno specchio; apprendimento interpersonale; tendenza coesiva del gruppo e quindi di sostegno psicologico per il paziente; sviluppo di un senso di appartenenza e di appoggio che facilita l’uscita dall’isolamento del paziente; apprendimento di modalita` di rapporti interpersonali piu` validi, senza un diretto, immediato coinvolgimento personale, ma osservando come si comportano gli altri: il gruppo come teatro.

Questi fattori, in misura maggiore o minore, sono presenti in tutti i gruppi terapeutici, al di la` della loro specifica modalita` operativa. 4 Giustamente J. Ondarsa Linares fa notare che la scelta di una terapia di gruppo (e quindi l’invio) non deve essere motivata dalla impossibilita` di poter fare una terapia individuale o per incapacita` personale o per difficolta` economiche; inoltre non deve essere considerata una panacea per tutti i mali o uno scarico per tutti i casi difficili. Passiamo ad esaminare quali sono le indicazioni specifiche. Molte forme di psiconevrosi, soprattutto quelle depressive, ansiose e fobiche; situazioni di difficolta` nei rapporti interpersonali; disturbi non

gravi di tipo sociopatico; disturbi della sessualita` come frigidita` ed impotenza, ed infine, al di la` di specifiche sintomatologie, soggetti che presentano una massiccia dipendenza che creerebbe problemi di transfert in una psicoterapia analitica. Controindicazioni sono: depressioni gravi, situazioni ipomaniacali, personalita` con tendenze paranoicali, soggetti con scarsa individuazione e con identita` diffusa. L’affermazione di M. Balint esprime bene la differenza fra una terapia di gruppo ed una individuale analitica. «Forse si potrebbe essere nel giusto quando si dice che dopo una cura psicoanalitica riuscita un paziente e` senz’altro meno nevrotico (o psicotico) anche se non e` necessariamente maturo; dall’altro canto dopo una cura riuscita operata con i metodi del gruppo, il paziente non e` necessariamente meno nevrotico ma e` senz’altro piu` maturo». Bisogna accennare inoltre a due situazioni patologiche che si giovano di una terapia di gruppo, anche se questa presenta caratteristiche molto particolari: l’alcolismo (vedi capitolo sull’alcolismo) ed a volte le tossicomanie.

6.3. Psicoterapia cognitiva Presenta un campo di applicazione abbastanza ampio che va dalla psiconevrosi fobica a quella isterica, ai disturbi psicosomatici, alle difficolta` sessuali ed ai disordini alimentari quali la bulimia e l’obesita` psicogena. La struttura della terapia cognitiva comporta necessariamente la presenza di tre fattori fondamentali, che possono costituire le indicazioni al di la` della sintomatologia. 1)

2) 3) 3 4

Da Volterra V. (a cura di), 1979. In Lalli N., 1990.

915

Accettazione da parte del paziente di concordare una meta terapeutica, il che rende questa metodica strettamente assimilabile al modello medico, ove in genere c’e` una chiara definizione ed una concordanza fra medico e paziente sull’obiettivo da raggiungere; sufficiente livello di intelligenza; accettazione delle regole e delle prescrizioni non solo all’interno della terapia, ma anche ` evidente che la al di fuori delle sedute. E

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

terapia cognitiva cerca soprattutto di mettere a fuoco e risolvere il problema o il sintomo, senza dover necessariamente mettere in discussione l’intera personalita` del paziente. Una controindicazione e` costituita quindi da quei pazienti che pongono una domanda di terapia in maniera ambivalente o comunque presentano notevoli «resistenze» ad un processo terapeutico: atteggiamento che attraversa varie patologie, e che diventa uno specifico campo di intervento della psicoterapia analitica. 6.4. La psicoterapia analitica La psicoterapia analitica, in maniera specifica, fonda sulla relazione interpersonale la propria capacita` terapeutica e trasformativa. Pertanto possiamo dire che le indicazioni e le controindicazioni, piu` che alla patologia, sono collegate alla capacita` ed allo stile del terapeuta. Intendo per stile del terapeuta quell’insieme di interessi e di capacita` che fanno sı` che ogni psicoterapeuta tenda a privilegiare alcune sindromi ed alcune particolari modalita` relazionali. Questo dato, estremamente reale, e` spesso negato da molti terapeuti in nome di una astratta capacita` terapeutica che nasconde una forma, piu` o meno velata, di onnipotenza terapeutica non risolta. Credo che ogni terapeuta dovrebbe essere consapevole delle sue capacita` e dei suoi limiti; come diceva M. Balint, il medico e` come un farmaco e bisognerebbe conoscerne oltre che le indicazioni anche le «controindicazioni». Tuttavia esistono delle indicazioni che sono altamente specifiche della psicoterapia analitica; direi tutte quelle situazioni in cui c’e` una domanda ed un desiderio di conoscenza e di crescita. Sul piano piu` strettamente sindromico: le psiconevrosi, le personalita` borderline, il carattere depressivo.

di una psicoterapia, ma anche a delineare meglio quali ne sono le indicazioni e le controindicazioni. Su questo problema ci sono numerose discussioni e controversie. Alcuni AA., fra questi Eysenck in particolare, sostengono che le guarigioni spontanee dei sintomi psicopatologici sono frequenti e numerose: entro due anni dall’inizio dei sintomi, una risoluzione degli stessi sarebbe presente in una percentuale che varia dal 40% al 60%. Pertanto, per essere efficace, una psicoterapia dovrebbe dare un tasso di miglioramento di gran lunga superiore. Notoriamente Eysenck e` un detrattore della psicoterapia; ma anche Malan, che e` uno psicoanalista, sostiene che il fattore guarigione spontanea e` da tenere in attenta considerazione. Ma questa tesi puo` essere accettabile solo se consideriamo il miglioramento come semplice scomparsa dei sintomi; ma piu` volte abbiamo sottolineato come il sintomo sia soltanto l’ultimo anello di una lunga catena. Quindi il miglioramento deve essere valutato non sulla scomparsa dei sintomi, quanto piuttosto sulla reale modificazione della struttura psicologica del paziente. Infatti Malan, nel riportare una casistica di 45 casi di pazienti psiconevrotici non trattati, trova che di questi dopo 8 anni, il 51% era migliorato sul piano dei sintomi, ma solo il 20% lo era sul piano psicodinamico. Inoltre se e` vero che questi pazienti non avevano avuto un trattamento psicoterapico, avevano pero` avuto dei colloqui ad orientamento analitico. Fatto non da sottovalutare, perche´ si e` osservato che spesso, nell’intervallo tra i primi colloqui e l’inizio della psicoterapia, molti pazienti migliorano. Questo vuol dire che il rapporto interpersonale puo` avere un effetto placebo, molto simile a quello notato a proposito dei farmaci. Quindi l’obiezione che l’esistenza delle guarigioni spontanee non rende possibile una valutazione dell’efficacia della psicoterapia e` poco accettabile. Ma altrettanto poco accettabile e` l’affermazione che la psicoterapia non ha bisogno di valutazioni, come fanno gli psicoanalisti a partire da S. Freud, che afferma che «l’evidenza psicoanalitica basta a se stessa»5. Il che vuol dire che

7. Valutazione dei risultati 5

Problema importante, perche´ una corretta valutazione serve non solo a convalidare l’efficacia

Anche se Freud afferma questo a proposito della teoria, e` evidente che la teoria trova la sua conferma anche nella prassi.

La psicoterapia: considerazioni generali

non c’e` alcuna necessita` di valutazione e di verifica. Invece una valutazione della psicoterapia puo` e deve essere fatta ed anche in un periodo di tempo abbastanza definito. Valutare un intervento psicoterapeutico che dura decenni e` praticamente inutile, perche´ e` impossibile, in un lasso di tempo cosı` lungo, sceverare tutti quegli avvenimenti esistenziali che potrebbero aver favorito il miglioramento del paziente. Questo e` un ulteriore elemento a favore della proposizione che il lavoro di psicoterapia deve essere svolto in un arco di tempo accettabile. Senza dimenticare che il paziente spesso puo` dare il meglio di se´, dopo la fine del lavoro psicoterapico. Sul problema della verificabilita` o meno dei risultati, attualmente ci sono due schieramenti contrapposti. Da una parte quelli che ritengono impossibile (e quasi offensivo) pensare che si possa valutare una situazione cosı` impalpabile, quale e` una situazione di cambiamento psichico. Sono quelli che considerano la psicoterapia come un incontro mistico, quindi atto ineffabile ed irripetibile. Essi confondono cio` che non vogliono valutare con cio` che non si puo` valutare, dimenticando che forse l’unico a poter dire ‘‘non voglio’’ e` solamente il paziente, sulla base della sua volonta` di riservatezza del rapporto psicoterapico. Dall’altra parte ci sono quelli che invece ritengono possibile una valutazione obiettiva, numerica, insomma naturalistica. Il che evidentemente e` impossibile: il modello medico, preso come punto di riferimento, non trova, in questo contesto, applicabilita` per il semplice motivo che in medicina il concetto di miglioramento-guarigione ha nella «restitutio ad integrum» un punto stabile e preciso di riferimento. Invece in psicoterapia non solo il miglioramento non puo` essere riportabile ad una situazione precedente, ma il processo psicoterapico, visualizzato come un processo di crescita, e` rapportabile solo ad un modello ideale e funzionale. Quindi possiamo ritenere che la psicoterapia puo` essere oggetto di valutazione, solo tenendo conto di una serie di variabili che rendono la valutazione stessa non impossibile, ma soltanto non lineare. Ma in che modo, allora, possiamo fare una valutazione della psicoterapia? Praticamente esistono due metodiche: una che si basa sui gruppi

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di controllo; l’altra invece su di una valutazione diacronica di pazienti trattati da terapeuti omogenei per formazione. La prima si attua mediante la costituzione di due gruppi omogenei per eta`, patologia, ecc.: di questi uno e` sottoposto ad una specifica psicoterapia, mentre l’altro non pratica alcun intervento. A distanza di un periodo di tempo determinato, si ` un valutano le differenze tra i due gruppi. E sistema poco valido, perche´ tralascia molti elementi essenziali e perche´ e` applicabile solo a metodiche psicoterapiche che si attuano in tempi brevi. Il secondo consiste nel prevedere all’interno di una specifica metodica psicoterapeutica quali saranno le variazioni attendibili e valutare se queste compaiono o no. In questo modo lo psicoterapeuta dovrebbe prevedere, in base alla teoria ed alla prassi utilizzata, se e quali cambiamenti dovrebbero intervenire. In caso positivo potrebbe sorgere il dubbio se l’efficacia e` legata al terapeuta, con le sue capacita` personali, oppure alla validita` della metodica usata. Quest’ultimo problema puo` essere risolto sulla base di nume` rose osservazioni fatte con vari psicoterapeuti. E un metodo piu` laborioso, relativamente meno quantificabile, ma comunque valido. In conclusione, quindi, pur con limitazioni e difficolta`, possiamo affermare che e` possibile una valutazione dell’efficacia della psicoterapia.

8. Il tempo: durata e fine Una delle domande piu` frequenti che il paziente o i familiari del paziente pongono all’inizio di una psicoterapia e`: quanto tempo durera`? Questa domanda, se da una parte esprime una richiesta di tipo oggettivo, dall’altra nasconde, e non sempre velatamente, una resistenza ed un timore per una possibile dipendenza. Non e` sempre facile rispondere: difficolta` collegata alla non conoscenza preventiva di quali saranno le problematiche, le resistenze del paziente al lavoro psicoterapico. Questo problema non attiene a tutte le psicoterapie, ma solo ad alcune, in particolare a quella analitica. Schematicamente possiamo dire che rispetto al problema ‘‘tempo e durata’’ si possono presentare tre possibilita`:

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a)

tempo breve e predeterminato: e` il caso delle tecniche psicologiche di apprendimento, delle cosiddette psicoterapie brevi o focali e molto spesso della terapia familiare; tempo indefinito e senza un termine: e` il caso delle relazioni psicologiche di sostegno, ove il rapporto tende a cronicizzarsi; tempo finito, ma non predeterminato: e` il caso della psicoterapia analitica, di quella cognitiva e della psicoterapia di gruppo.

b)

c)

Soprattutto nella psicoterapia analitica la fine della terapia diventa un elemento di elaborazione al pari di tutte le altre problematiche, a differenza dei casi (a) ove la fine e` determinata esclusivamente dal terapeuta, o i casi (b) ove questo problema non si pone o e` affidato al caso. Comunque il problema della durata e` un problema che nasce con la psicoanalisi e soprattutto da quando, intorno al 1915-20, il trattamento analitico tende a diventare sempre piu` lungo. Lunghezza che e` certamente determinata da un cambiamento degli obiettivi, che da puramente sintomatici nei primi anni diventano sempre piu` tendenti a modificare la complessa struttura della personalita` del paziente. Ma la lunghezza e` collegata anche ad un cambiamento della psicoanalisi da semplice terapia a sistema antropologico onnicomprensivo. L’analisi da terminabile tende a diventare interminabile. E non a caso e` proprio in questo periodo che sorgono i primi tentativi (Rank, Ferenczi) di una psicoanalisi breve: tentativi poco riusciti perche´ in effetti la lunghezza della psicoanalisi era determinata proprio da una impostazione teorica sempre meno legata alla terapia. Dovranno passare molti decenni perche´ questi tentativi di affrontare il problema della interminabilita` siano ripresi. E saranno ripresi sia con la modalita` di psicoterapie analitiche a tempo determinato o focali, sia e soprattutto con una revisione della teoria e della prassi analitica con la tendenza a dare sempre maggiore importanza all’analisi del transfert come situazione attuale ed ad una sempre maggiore «presenza» dell’analista. In questo modo il problema della terminabilita` sara` posto fin dall’inizio, frustrando le eccessive tendenze alla dipendenza e l’onnipotenza di

eternita` del paziente. Il lavoro analitico si configurera` come una scelta, e non come un destino, con dei suoi tempi, delle sue cadenze, dei suoi ritmi. L’analista dovra` assicurare la continuita`, ponendosi come memoria e punto di riferimento per il paziente, e non come «posto» dove il paziente va. L’attenzione sempre maggiore da parte dell’analista per la relazione, in termini non solo di ripetizione di ricordi infantili quanto piuttosto di ripetizione di attuali modalita` oggettuali, rappresenta per il paziente la possibilita` di evitare un massiccio ripiegamento sul passato, che e` di per se´ condizione dell’interminabilita` del processo analitico (vedi anche il capitolo ‘‘La psicoterapia analitica’’).

9. La formazione dello psicoterapeuta Rispetto ad altre attivita` terapeutiche o professionali, la formazione dello psicoterapeuta presenta peculiarita` e difficolta` specifiche che richiedono un training molto complesso ed articolato. Queste difficolta` vanno ascritte a tre problemi di base. 1)

2)

Il primo problema attiene alla motivazione della scelta di medicina. Nel capitolo «Il rapporto medico-paziente» ho esaminato alcune problematiche che portano a questa scelta, e che ne fanno una scelta sintomatica, perche´ legata a progetti riparativi conseguenti a pregressi traumi su` il cobiti o a forti valenze sadiche-ostili. E siddetto «wounded healer» (il guaritore ferito) che trova nella figura dello sciamano la rappresentazione piu` completa e drammatica. ` evidente che queste motivazioni vanno E chiarite e superate, altrimenti si perpetuera` la tendenza «autoterapeutica», ovverosia la tendenza a curare negli altri se stesso, atteggiamento di per se´ poco terapeutico. Il secondo problema e` piu` specifico dello psicoterapeuta. A questi, infatti, non basta conoscere-superare le valenze autoriparative, ma deve an-

La psicoterapia: considerazioni generali

3)

che conoscere la sua struttura psicologica e psicopatologica. E questo per evitare scotomi su problematiche del paziente, simili alle sue problematiche non risolte, o peggio ancora di proiettare sul paziente le proprie conflittualita`. Ma soprattutto perche´ e` solo attraverso un lavoro su se stesso che si stimolano quelle capacita` recettive e di ascolto, che sono due caratteristiche fondamentali dello psicoterapeuta. Un terzo problema attiene ad una conoscenza approfondita della terapia e della prassi psicoterapeutica. Apprendimento che non e` un fatto tecnico, ma che si svolge attraverso il rapporto con i pazienti, in una continua elaborazione del proprio controtransfert.

` evidente che mi sono soffermato fondaE mentalmente sulla formazione alla psicoterapia analitica e per due validi motivi. Il primo attiene al fatto che e` stata la psicoanalisi per prima a porsi il problema della formazione del terapeuta ed a tentare di risolverla. Dico tentare perche´ il modello dell’analisi didattica e` stato sempre piu` condizionato dall’esigenza di ortodossia, piu` che da un reale progetto formativo. Le critiche all’analisi didattica, numerose e nate anche all’interno della stessa istituzione psicoanalitica, hanno dato scarsi risultati e l’istituzione analitica e` caduta sempre piu` in una sterile autoriproduzione legata alla coazione a ripetere, a danno di una possibile creativita` del singolo. Comunque la critica non toglie che si puo` derivare da questo modello quanto c’e` di valido: e quanto c’e` di valido e` esattamente l’analisi personale che e` tale, se non e` finalizzata al progetto di diventare terapeuta a tutti i costi. Il secondo motivo riguarda il fatto che sicuramente la formazione ottenuta attraverso una analisi personale e` la piu` completa ed e` quella che dovrebbe essere la base comune anche per quanti si applicheranno a modalita` diverse di psicoterapie. Perche´ dal momento che si puo` capire, aiutare, trasformare l’altro attraverso una propria modalita` relazionale, l’applicazione di modalita` operative diverse non diventera` mai un’arida tecnica. Quanto detto ci permette di proporre un di-

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scorso piu` ampio sulla formazione dello psicoterapeuta: discorso che diventa sempre piu` importante dal momento che la legge 56/89 propone l’istituzione di un apposito albo. Personalmente ritengo che per una valida formazione psicoterapeutica bisogna passare attraverso quattro livelli, che rappresentano livelli organizzativi, personali e conoscitivi, sempre piu` creativi e integrati. Il primo livello e` costituito da una metodologia di base che propone la messa in crisi, attraverso modalita` operative, dell’onnipotenza che spesso si nasconde in tutti coloro che si vogliono dedicare ` quanto succede all’interno del alla terapia. E corso di laurea in medicina, ove i fattori strutturanti la terapia vengono in qualche modo attivati attraverso il contatto con la malattia, la morte, la difficolta` terapeutica che, mettendo concretamente in crisi le valenze onnipotenti, rendono piu` umano il terapeuta. Ma questo non basta: e` necessario anche un livello di approfondimento di questa scelta. Operazione che dovrebbe essere fatta attraverso un campo conoscitivo piu` ampio (psicologia, psicosomatica, psicoterapia, ecc.) ed attraverso dei gruppi di sensibilizzazione tipo il gruppo Balint, ovverosia gruppi di medici che, guidati da uno psicoterapeuta, hanno come scopo la messa in luce delle dinamiche relazionali medico-paziente: ove la supervisione non e` collegata tanto alla conoscenza della malattia, quanto al rapporto con il malato. Questi due livelli costituiscono una corretta formazione psicologica del medico. Formazione necessaria non solo per attuare una terapia piu` globale (vedi relazione terapeutica globale o psicosomatica), ma anche per evitare una scissione sempre presente nel pensiero occidentale: quella tra soma e psiche. Ma quanto e` sufficiente per il medico, e` insufficiente per lo psichiatra. Infatti per questi si richiede un livello di approfondi` il terzo livello mento piu` ampio e piu` completo. E che si attua attraverso un’analisi personale, ed un approfondimento teorico e clinico mediante la supervisione dei casi clinici e la continua analisi del controtransfert. Questo livello costituisce una formazione psicoterapica di base. Infine per lo psichiatra che voglia dedicarsi prevalentemente o esclusivamente all’attivita` psi-

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coterapica e` necessario un ulteriore approfondimento teorico e clinico che passa attraverso un’operazione continua di ricerca sia sul piano teorico che su quello operativo, e che abbia come punto focale la complessita` della relazione terapeutica.

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55 La psicoterapia analitica Nicola Lalli Parole chiave desiderio; fantasia di sparizione; annullamento; inconscio mare calmo; inconscio rimosso; proiezione; frustrazione con interesse; presenza dell’analista; Io libidico; Io somatico; Io pelle; conflitto edipico; sogno; transfert; controtransfert; interpretazione; scissione; rimozione; identificazione proiettiva; narcisismo; setting; processo primario; processo secondario; simbolo; segno

La psicoterapia analitica rende possibile una domanda di cura ed un desiderio di ricerca e ne stabilisce le modalita` di attuazione. Proporre il concetto di cura vuol dire riconoscere la filiazione della psicoterapia analitica dalla specifica attivita` medica, ma con una differenza. Se in campo medico la cura-guarigione si configura sostanzialmente come ritorno allo status quo ante, questo non e` possibile in campo psichico, ove il miglioramento si configura sempre come evoluzione e come crescita e non semplicemente come eliminazione di dinamiche negative. Quindi la psicoterapia analitica si pone non come negazione, ma come superamento della medicina. Definire la psicoterapia analitica come campo del desiderio vuol dire anche affermare che la psicopatologia, sia quella che si ha sia quella che si subisce, e` tutto cio` che blocca, inibisce o perverte questa fondamentale dimensione umana.

Molto spesso dinamiche perverse, impropriamente, ma forse proprio per confondere le idee, sono ascritte al desiderio. Parlare di «desiderio» di violenza o di «desiderio omosessuale» vuol dire legittimare e giustificare queste dinamiche perverse. Ben altro e ben piu` difficile e` il problema! Definire il desiderio come fondamentale matrice del rapporto umano vuol dire non solo stabilire quali dinamiche umane sono valide e quali no, non solo definire che il desiderio spesso va cercato dietro il muro della indifferenza o della bramosia, ma anche proporne il superamento. Il desiderio, infatti, ha nella delusione il suo tallone d’Achille; delusione che puo` trasformarlo in rabbia e odio. ` necessario quindi proporre la possibilita` di E un superamento, che attui la trasformazione dalla dipendenza dei bisogni all’autonomia delle esigenze, ed aumenti contemporaneamente le capacita` di recettivita` e di resistenza. Dimensioni che

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costituiscono, insieme alla teoria, le basi dell’identita` dell’analista. Teoria e prassi, situazioni di lavoro e personali, emozione ed intelligenza, sono inscindibili, come inscindibile e` l’unita` della psiche e del soma, intesi come fantasia e come corpo sessuato. E non a caso in questo capitolo ho proposto in contrappunto la teoria e la prassi, cercando di partecipare cosa puo` e deve essere un lavoro analitico. Lavoro analitico che nel recupero del desiderio e del suo superamento, inteso come capacita` di investimento libidico, propone la fondamentale esigenza di raggiungere un corretto e valido rapporto con la realta`. Rapporto con la realta` che vuol dire far recuperare al paziente il senso del tempo e della storia e la sua identita`, ovverosia i suoi limiti e le sue

possibilita`. Desiderare (de-sidera), che etimologicamente vuol dire «cessare di volgere lo sguardo alle stelle», indica una mancanza; ed e` l’opposto di considerare (cum-sidera) che, significando «essere in accordo con le stelle», indica una completezza. Facendo riemergere questi termini dall’origine ancestrale dei vaticini, possiamo dire che e` possibile desiderare solo se si e` in grado di considerare le dimensioni interne dell’Altro: la cecita` o l’idealizzazione portano inevitabilmente alla delusione. Cio` premesso, parlare di teoria, di inconscio, di interpretazione o di setting, vuol dire, in fondo, definire i mezzi e gli strumenti che rendono possibile una domanda di cura ed un desiderio di ricerca. * * *

STRUTTURA DEL CAPITOLO

Teoria

Prassi

1) 2) 3)

La nascita Gli istinti. Le dinamiche oggettuali L’integrazione e la scissione

1) 2) 3)

4)

La struttura dell’Io I meccanismi di difesa Il conflitto edipico L’inconscio Le crisi di sviluppo Dipendenza ed autonomia

4)

5) 6) 7) 8)

5) 6) 7) 8)

Il primo colloquio come crisi Il setting Le funzioni dell’analista: presenza, memoria, continuita` L’interpretazione Le difese dall’analisi Transfert e controtransfert Il sogno. L’interpretazione del sogno Le separazioni L’analisi terminabile. La fine del lavoro psicoterapeutico

La psicoterapia analitica

1. Considerazioni generali La psicoterapia non deriva, come da sempre si asserisce, dalla psicoanalisi; perche´ quella certa prassi chiamata psicoanalisi si e` distaccata dalla psicoterapia e quindi da ogni intento terapeutico, perche´ si e` separata ed ha negato la psichiatria. Conviene quindi definire prima quali sono gli aspetti caratterizzanti la psicoanalisi. Termine che soprattutto negli ultimi decenni ha finito con l’assumere un significato sempre piu` ampio e quindi meno specifico, per una inevitabile quanto necessaria evoluzione, che ha prodotto numerose varianti: dalla psicoanalisi classica alla psicologia dell’Io, dalla teoria kleiniana a quella dei neofreudiani. S. Freud sosteneva che «ogni trattamento puo` essere considerato psicoanalisi, se si prefigge di annullare le resistenze ed interpretare il transfert». Questa definizione, esatta nella sua sinteticita`, non e` esauriente se vogliamo definire gli aspetti teorici fondamentali della psicoanalisi. Operazione non facile, ma necessaria. Credo che i seguenti postulati possono essere considerati aspetti fondamentali di questa disciplina: ammettere la base pulsionale del comportamento umano e l’esistenza dell’inconscio, inoltre considerare la relazione, basata fondamentalmente sull’attivita` interpretativa, come modalita` di transfert-controtransfert. Inoltre la metapsicologia analitica, per l’osservazione del comportamento umano, utilizza particolari punti di osservazione: a) b) c) d)

il punto di vista economico, ovverosia la distribuzione dell’energia nell’apparato psichico; il punto di vista dinamico, ovverosia il gioco delle forze pulsionali e le dinamiche tra le distinte componenti dell’apparato psichico; il punto di vista topico, ovverosia la relazione tra dimensioni consce ed inconsce; il punto di vista genetico, ovverosia l’osservazione dei fenomeni psichici in termini di sviluppo.

Se queste sono le basi comuni della psicoanalisi, attualmente possiamo riconoscere l’esistenza di perlomeno tre filoni fondamentali, sufficientemente diversificati tra di loro, che si sono costituiti sulla base di una maggiore o minore accentuazione dei parametri sopradescritti.

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Da una parte un filone molto ampio, che potremmo definire ortodosso, che, rifacendosi al pensiero di S. Freud, nega fondamentalmente l’importanza delle relazioni oggettuali, privilegiando esclusivamente l’aspetto pulsionale. Aspetto pulsionale che avendo come unico scopo la scarica per il soddisfacimento, e negando qualsiasi importanza all’oggetto, porta inevitabilmente a concettualizzare il «narcisismo» come fase normale di sviluppo. Dall’altra, una serie di filoni che, privilegiando invece le relazioni oggettuali, spesso finiscono per negare qualsiasi importanza all’aspetto pulsionale, e riducono l’uomo agli aspetti puramente culturali e sociali. Questa tendenza trova nella psicologia dell’Io la sua espressione piu` radicale. Infine un terzo filone, che ritiene non essere possibile alcuna esperienza che non sia organizzata da una struttura preesistente: e` il filone strutturalista, che trova nella corrente lacaniana la manifestazione piu` oltranzista. Questa divisione puo` sembrare tanto schematica da rendere difficile, o impossibile, sistemare gli AA., almeno i piu` conosciuti, in uno di questi filoni. Ma in realta` questa difficolta` e` legata, piu` che alla schematica suddivisione, a due fattori. Il primo e` connesso alla normale evoluzione di molti AA., che in alcuni casi iniziano con la teoria classica e poi approdano a conclusioni addirittura opposte (ad es. Fairbairn e Kohut); dall’altra c’e` una tendenza, molto sintomatica, in quasi tutti gli AA., che pur giunti a posizioni radicalmente diverse, o addirittura opposte a quelle ortodosse freudiane, cercano di mimetizzarle, pur di rimanere in linea con l’ortodossia freudiana. Questo rituale del ritorno a Freud e` cosı` frequente e comune che deve essere considerato un sintomo, e quindi come tale deve essere esplicitato. Questo sintomo nasce da una leggenda (o forse piu` correttamente bisognerebbe parlare di un falso storico) che attribuisce a S. Freud «la scoperta» della psicoanalisi. Affermazione che vuol dire non solo negare la storia, ovverosia che i concetti di inconscio, rimozione, pulsione, transfert, erano ampiamente diffusi e conosciuti nella cultura dell’epoca, ma anche negare a Freud un suo reale merito: cioe` quello di aver cercato di organizzare e teorizzare una serie di osservazioni e di ipotesi che, seppur presenti,

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erano slegate ed informali. Bisogna considerare la psicoanalisi come una disciplina in evoluzione, che puo` esprimersi con teorie diverse. Diversita` che ha una funzione dialettica, se riconosciamo che tale diversita` nasce dal privilegiare un punto di osservazione, spesso a discapito di altri. La clinica, che e` il nostro punto fondamentale di osservazione e di verifica, ci rende edotti su due cose. Certamente la teoria delle pulsioni e` necessaria per spiegare molti fenomeni sia patologici che normali; ma considerare che scopo delle pulsioni e` la pura scarica, indipendentemente dalla qualita` dell’oggetto e delle relazioni oggettuali, ci porta in un vicolo cieco. Inoltre, sembra evidente che alcuni meccanismi iscritti biologicamente determinano in gran parte le prime reazioni del bambino all’ambiente. Una visione epigenetica dell’uomo sembra essere piu` euristica e piu` soddisfacente di una concezione rigidamente genetica o rigidamente socio-ambientale. Quindi, senza voler proporre facili eclettismi, credo che si debbano tener presenti questi vari aspetti e cercare di validarne l’interazione soprattutto rispetto a quali e quanti fenomeni sono spiegati in maniera soddisfacente. Se questa e` la complessa situazione della psicoanalisi, come si situa la psicoterapia analitica rispetto a tutto cio`? Dobbiamo subito sottolineare che psicoterapia analitica non indica, come vorrebbero alcuni AA., una psicoanalisi di serie B; ma e` una modalita` operativa ed una teoria che, pur riconoscendosi nella psicoanalisi, se ne distacca per un punto fondamentale. Cioe` quello di privilegiare l’aspetto terapeutico e trasformativo su quello puramente conoscitivo, tipico della psicoanalisi. Quindi la psicoterapia analitica (P.A.) cerca nella clinica la sua conferma, la sua attendibilita` e la sua evoluzione, e pertanto non accetta alcuna formulazione «ex cathedra», ne´ facili liquidazioni di critiche che, mosse ad alcuni aspetti teorici della psicoanalisi, sono definite come banali «resistenze». Non si cerca dunque un ritorno a Freud, bensı`, nel riconoscimento dei limiti e della validita` di questa teorizzazione, una separazione. L’accentuazione dell’aspetto terapeutico, aspetto che e` stato sempre piu` sminuito dalla psicoanalisi a favore di una astratta ricerca sul-

l’uomo, comporta inevitabilmente diverse variazioni sul piano operativo e sul piano teorico. Sul piano operativo c’e` una maggiore duttilita` che porta ad affrontare situazioni psicopatologiche in genere rifiutate dalla psicoanalisi ortodossa. Il setting non e` un rituale, ma esprime la reale situazione controtransferale del terapeuta; il setting non e` la terapia, ma solo una struttura operativa. Si tende a privilegiare la qualita` del rapporto e non il numero delle sedute settimanali. Quando si propone come psicoanalisi quella che esige 4-5 sedute settimanali, e psicoterapia banale quella con un numero di sedute inferiori, si fa una affermazione che tradisce chiaramente la scarsa intelligenza del proponente. Anche l’uso del lettino e` una variabile che va adattata alle dinamiche del paziente e non ai bisogni del terapeuta. S. Freud, con molta sincerita`, sosteneva che l’uso del lettino gli era utile, perche´ gli permetteva di non dover affrontare lo sguardo del paziente per 8-10 ore al giorno. Gli epigoni hanno trasformato questa verita` umana di Freud in una assoluta inconfutabile necessita`, che sola e da sola rende possibile l’instaurarsi del processo psicoanalitico. Allo stesso modo, la psicoterapia analitica non considera la regressione come fattore necessario e fondamentale per la terapia. Che la regressione, come la dipendenza, emerga nella situazione di terapia e` inevitabile, ma che ci si sforzi di accentuarla o crearla artificialmente (nevrosi di transfert) e` certamente molto discutibile. Inoltre, le libere associazioni non solo non costituiscono la principale modalita` di comunicazione del paziente, ma anzi si ritengono espressione di modalita` difensive e razionalizzanti del paziente. La relazione terapeutica inoltre e` interpretata non come ripetizione di vissuti precedenti, quanto piuttosto come modalita` attuale di relazione oggettuale. Tutto questo chiaramente comporta una modalita` di essere del terapeuta che non trova la sua realizzazione nella neutralita`, piu` o meno benevola, bensı` in una modalita` di attenzione e di presenza continua, che lo porta ad essere punto di riferimento, memoria e continuita` per il paziente. Queste differenze sul piano operativo non possono non riguardare anche l’aspetto teorico.

La psicoterapia analitica

Pertanto mi soffermero` a descrivere la teoria e la prassi della psicoterapia analitica, premettendo che potro` farlo solo in maniera sintetica, rimandando per ulteriori approfondimenti ad una successiva monografia sul tema. In questa sede suddividero` la teoria e la prassi in otto sottoparti ciascuna, corrispondenti tra di loro e segno di quella profonda simmetria che c’e` tra la teoria e la prassi. La teoria in fondo non e` altro che l’esplicitazione del controtransfert del terapeuta.

2. La teoria La teoria e` per il terapeuta l’equivalente della bussola e delle carte nautiche per il navigante. Ovverosia e` impossibile proporre ed attuare un percorso terapeutico senza avere la teoria come punto di riferimento: teoria che non e` uno statuto immodificabile ed immodificato, ma visione globale e coerente dello sviluppo psicologico e psicopatologico. Teoria che puo` subire modificazioni ed ampliamenti ogniqualvolta l’esperienza clinica ci falsifica alcune formulazioni di base. Personalmente ritengo possibile attuare una valida psicoterapia, solo allorche´ questa ricerca teorica sia sempre presente nel terapeuta. La teoria e` il controtransfert del terapeuta. Controtransfert che, inteso nella accezione piu` ampia, nasce da molteplici radici: letture, confronti, rapporti, terapie, che unificandosi formano uno stile specifico e personale. L’autore nei confronti del lettore, come il terapeuta nei confronti del paziente, ne assume interamente la responsabilita`.

2.1. La nascita Il feto, per un lungo periodo di tempo, vive una situazione unica ed irripetibile: e` una situazione di omeostasi, sufficientemente protetta da stimolazioni eccessive, che permette lo sviluppo somatico, ma costituisce anche la base di un «rapporto», matrice dell’istinto libidico. Nella situazione endouterina si svolgono due dinamiche caratteristiche e fondamentali: 1)

il feto esperisce fondamentalmente una si-

2)

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tuazione di contatto: e` il senso del tatto e secondariamente quello propriocettivo, che costituiscono la base delle sensazioni. Il feto riceve anche stimoli acustici, sicuramente non ha stimoli visivi, ma e` assolutamente certo che il maggior flusso di sensazioni gli proviene dal tatto; nel liquido amniotico non esiste un interno ed un esterno, un fuori ed un dentro, un Io ed un non-Io. Esiste una unita` completa e totale. Anche l’attivita` di deglutizione del liquido amniotico accentua questa sensazione: il feto vive come il pesce nell’acqua. Questa sensazione sara` perduta con la nascita: nascita necessaria ed inevitabile perche´ il feto non muoia, continuando troppo a lungo a rimanere tale. Nel passaggio da feto a bambino, se questi perde i vantaggi del primo, acquista pero` le potenzialita` del secondo. La nascita, quindi, propone la prima fondamentale separazione, che rende possibile l’attuarsi della vita psichica.

La nascita deve concettualizzarsi come crisi, e per vari motivi. Sul piano strettamente biologico, accanto alla comparsa della respirazione ed alla attivazione della vista c’e` anche la rottura di quella omeostasi di cui il feto ha a lungo beneficiato. Ma la nascita rappresenta anche una situazione di separazione che rompe l’unita` e comporta la dualita`. Tutti questi processi si attuano nell’arco di poche ore: non e` quindi azzardato pensare che questi cambiamenti abbiano ripercussioni molteplici e complesse sul bambino. M. Fagioli situa in questo momento la comparsa di una specifica fantasia, la fantasia di sparizione, esplicitazione dell’istinto di morte che viene attivato appunto dalla nascita. La fantasia di sparizione puo` essere concettualizzata come un meccanismo difensivo che si esplicita di fronte alla novita` assoluta collegata con la nascita: cioe` la luce. Questa novita` , vissuta come eccessiva e quindi lesiva, porta «istintivamente» il bambino a chiudere gli occhi. Ma la chiusura delle palpebre rende buio l’ambiente circostante, e quindi ricrea la situazione precedente del feto nel liquido

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amniotico, cioe` al buio. Ma porta anche a recuperare quella situazione di contatto e di omeostasi, matrice dell’istinto libidico che M. Fagioli definisce inconscio mare calmo. Quindi con la nascita il bambino, se da una parte perde qualcosa, acquista in compenso una serie di possibilita`. 1)

2)

3)

Si attiva l’istinto di morte mediante la fantasia di sparizione che presenta una duplice funzione: far scomparire fuori, nella realta` esterna, e far comparire dentro in quella che si sta costituendo come «sfera psichica». Che il chiudere gli occhi possa avere questa doppia valenza e` testimoniato quotidianamente dal sonno che evoca il sogno. Ma anche simbolicamente, il cieco e` colui che, non vedendo, riesce a vedere oltre la realta` materiale e tangibile. Con la fantasia di sparizione si recupera la precedente situazione di rapporto libidico con il liquido amniotico. Con la nascita e quindi con la separazione, si attua una situazione di individualita`, tutta potenziale, ma che comunque e` l’inizio della vita psichica e delle funzioni dell’Io.

Alla nascita, proprio in virtu` della separazione avvenuta, si costituisce l’Io, Io prevalentemente somatico, perche´ sostenuto dalle molteplici sensazioni, interne ed esterne, che investono il bambino. Ma alla nascita il bambino recupera anche il ricordo di un contenitore: l’utero che, non esistendo piu` nella realta`, viene recuperato come sensazione-ricordo. Ma questa sensazione-ricordo e` molto fragile e precaria e puo` essere mantenuta solo attraverso un continuo, gratificante rapporto ` chiaro quindi che con tattile da parte dell’A.S. E la nascita emergono situazioni nuove e diverse. La fantasia di sparizione permette il recupero dell’inconscio mare calmo e del contenitore; si costituisce l’Io sulla base di una separazione e questo Io, prevalentemente somatico, tende a diventare sempre piu` psichico, nella misura in cui il bambino riceve una situazione gratificante e «toccante» da parte dell’A.S. Il conflitto epistemologico della psicoanalisi, che ha trovato soluzioni parziali nei tre filoni

accennati, potrebbe essere sanato. Sicuramente c’e` una base istintuale, anche se questa ha connotazioni diverse dalla teoria classica; sicuramente ci sono situazioni strutturali, come l’emergenza della fantasia di sparizione, ma e` altrettanto vero che questa situazione puo` progredire o regredire a seconda della validita` dei rapporti interpersonali.

2.2. Gli istinti. Le dinamiche oggettuali Il bambino alla nascita possiede un Io che e` prevalentemente somatico, ma che tende sempre piu` ad evolvere verso un Io psichico, e due istinti: quello libidico e l’istinto di morte. Ma quali sono le funzioni di questi istinti? L’istinto libidico tende prevalentemente a mantenere il rapporto, ad investire la realta` materiale ed umana per una sempre maggiore conoscenza. Ma le manifestazioni dell’istinto libidico variano a seconda delle situazioni e dei vari momenti dello sviluppo. Una prima manifestazione della libido si esplicita come attaccamento, ovverosia come bisogno del rapporto anche fisico con l’A.S. In una fase successiva, nel normale sviluppo, si manifesta come attivita` esplorativa. Successivamente come capacita` di opposizione, ovverosia saper dire di NO, senza negare e senza annullare l’altro, per arrivare al massimo dello sviluppo che e` l’investimento sessuale, ovverosia l’investimento con interesse ed affettivita`. Quindi potremmo dire che l’istinto libidico puo` portare alla ricerca o al rifiuto dell’oggetto, ma sempre mantenendo l’integrita` dell’oggetto stesso. L’istinto di morte si esplicita fondamentalmente con due attivita`, che si diversificano profondamente a seconda che venga rivolto contro la realta` esterna o verso quella interna. Nel primo caso la fantasia di sparizione si esplicita come tendenza a far sparire l’oggetto frustrante, nel secondo invece, rivolto verso situazioni interne, ha una funzione creativa e non distruttiva, perche´ serve ad eliminare situazioni psichiche superate ed anacronistiche, per dar luogo a situazioni nuove e piu` evolute. Per comprendere questa duplice possibilita` dobbiamo tener presente che solo eccezionalmente i due istinti possono essere defusi: in genere essi sono

La psicoterapia analitica

uniti e sono mediati dall’Io. La maggiore o minore distruttivita` dell’istinto di morte e` inversamente proporzionale alla presenza dell’istinto libidico: la fantasia di sparizione verso situazioni interne e` chiaramente legata alla presenza dell’istinto libidico che ne condiziona la vettorialita`. La fusione tra questi due istinti puo` dar luogo a dinamiche diverse: a)

b)

c)

d)

e)

Investimento libidico: l’istinto sessuale tende ad investire la realta` con capacita` di separazione: l’istinto di morte e` volto verso situazioni interne. Il desiderio: come situazione di un vuoto rispetto ad un pieno, riferita fondamentalmente ad una ricerca di qualita` psichiche. La bramosia: la frustrazione del desiderio porta all’emergenza della rabbia: la rabbia si trasforma in bramosia che porta ad introiettare, controllare l’oggetto frustrante. L’istinto libidico si manifesta prevalentemente come attaccamento, mentre l’istinto di morte comporta un deterioramento, ed una successiva introiezione, dell’oggetto. Invidia: se la frustrazione e` eccessiva e continuativa, se questa avviene soprattutto nel momento piu` delicato che e` la fase di autonomia del bambino, l’affetto che emerge e` l’odio, ovverosia una ostilita` ed una distruttivita` pura. Ma anche in questo caso l’affetto subisce una trasformazione piu` accettabile: l’odio diventa invidia, ovverosia negazione delle qualita` dell’altro, svuotamento dell’altro che viene non usato, ma semplicemente controllato. In questo caso le valenze libidiche sono ulteriormente ridotte. Annullamento: se la frustrazione e` eccessiva, il soggetto puo` arrivare a rompere completamente il legame con l’oggetto frustrante, e tramite una fantasia di sparizione fa sparire l’oggetto e la possibile identificazione. Si costituisce una situazione di buio, che a differenza della dinamica della nascita non avviene solo fuori ma anche dentro, lasciando quindi un vuoto interno.

L’evoluzione ed il destino delle pulsioni sono strettamente legate alle qualita` dell’oggetto. Non

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e` un cammino naturale, ma storico, che si ritma in una serie di dinamiche. Il bambino per il suo sviluppo ha bisogno che siano soddisfatti i bisogni, ovverosia l’accudimento fisico, la prevenzione dei malanni, una sicurezza materiale ed emotiva, quella che dovrebbe essere fornita da una madre sufficientemente buona, come la definisce Winnicott. Ma il bambino ha anche esigenze: come quella di un contatto psico-fisico, una sicurezza di risposta emotiva, una possibilita` del contenimento delle sue angosce, una speranza che il suo sviluppo possa attuarsi. Queste esigenze vengono espresse attraverso una dinamica di desiderio, che indica chiaramente una situazione di dipendenza dall’altro: il desiderio e` quindi frustrabile, perche´ l’A.S. puo` non rispondere o rispondere negativamente alle attese del bambino. Questa non risposta alle esigenze costituisce una frustrazione. Pertanto la frustrazione non va concettualizzata in termini comportamentistici, come non esaudimento di una qualsiasi richiesta del bambino. La frustrazione si costituisce in rapporto ad un desiderio. Queste sono le dinamiche fondamentali dello sviluppo umano, che portano allo sviluppo ed alla evoluzione dell’Io, oppure alla regressione.

2.3. L’integrazione e la scissione Abbiamo visto che alla nascita il bambino e` dotato di un Io somatico che recepisce prevalentemente le sensazioni a livello cutaneo e di contatto. Ma abbastanza rapidamente entrano in gioco anche gli altri sensi che contribuiscono ad una sempre maggiore integrazione delle sensazioni. La capacita` di sentire della pelle, che ha una importante funzione di osmosi, di regolazione e di difesa, viene man mano appoggiata al gusto ed all’olfatto, poi in maniera piu` complessa all’udito. La capacita` di vedere rimane fondamentale appannaggio della vista. Ma se queste attivita` sono legate ad una dinamica del ricevere, c’e` anche un atteggiamento del prendere, che viene attuato prevalentemente dalla bocca. Questa capacita` recettiva e la capacita` del prendere, sia in senso

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somatico, ma soprattutto in senso psichico, hanno bisogno di integrarsi. Ed e` quanto dovrebbe avvenire nei primi 8-10 mesi, periodo che va dalla nascita allo svezzamento. Allo svezzamento il bambino tende a passare da un rapporto con un oggetto parziale, il seno, ad un rapporto con un oggetto totale, la madre. In questa fase di passaggio, se la dinamica interpersonale e` ed e` stata valida, in genere il bambino giunge ad una integrazione occhi-bocca, ovverosia ad una capacita` di vedere-rapportarsiprendere-separarsi. Ma e` una situazione sempre a rischio, nel senso che puo` esserci una disintegrazione di questo triangolo: crisi patologica che, se protratta, puo` manifestarsi in due modi. Gli occhi tendono a non vedere: la rinuncia a vedere, come dinamica di captare le immagini, sposta ulteriormente ed esclusivamente sulla bocca la funzione del prendere: e` la dinamica della bramosia, ovverosia di una attivita` orale cieca, che porta a divorare, introiettare tutto. Oppure gli occhi continuano a restare aperti, ma non vengono utilizzati per captare l’immagine, bensı` superinvestiti dall’attivita` orale del prendere, prendono per divorare-svuotare l’oggetto, mentre la bocca, vissuta come distruttiva e pericolosa, viene paralizzata: e` la situazione dell’invidia, che nell’anoressia mentale trova la sua esplicitazione clinica piu` eclatante. In ambedue i casi, invece di una integrazione, si ha una scissione che non rimane localizzata a livello di dinamica oggettuale, ma si ripercuote sull’Io stesso che si scinde. In una fase successiva, in genere intorno ai due-tre anni, si presenta un’ulteriore possibilita` di evoluzione. Il vedere si manifesta come capacita` di capire, vedere la realta`, ed e` collegato con lo sviluppo delle capacita` libidiche che portano ad un investimento vedente la realta`. Il sentire, che trae la matrice piu` profonda dall’Io somatico, trova nell’ascolto una ulteriore capacita` evolutiva. L’integrazione di vedere e sentire permette di esprimere un giudizio piu` globale sulla realta`, nel senso che vengono recepite (sentite) non solo le cose evidenti, ma anche quelle latenti dell’oggetto. In questa fase un atteggiamento ambiguo, un atteggiamento tipo doppio legame, ovverosia

un dire e un fare ambivalente da parte dell’A.S. possono portare ad una scissione o ad una labile integrazione tra il vedere e il sentire. Il soggetto puo` vedere senza sentire, che e` un altro aspetto dell’invidia; oppure puo` sentire senza vedere, che e` un altro aspetto della dinamica della bramosia. Queste due dinamiche di non integrazione e quindi di scissione le ritroviamo, in maniera piu` o meno evidente, in numerose patologie. Il vedere senza sentire e` tipico dello psicopatico e dell’autismo; il sentire senza vedere e` tipico del depresso. Comunque non sempre la scissione e` cosı` completa: a volte si puo` creare una situazione in cui il sentire viene vissuto come pericoloso, il che porta ad una difesa tipica che e` la corazza caratteriale.

2.4. La struttura dell’Io. I meccanismi di difesa Alla nascita il bambino presenta una struttura potenziale, l’Io, e delle energie, gli istinti, che gli permettono nelle vicissitudini dei rapporti interpersonali di poter sempre piu` integrare e sottomettere l’istinto di morte a quello libidico, e di ampliare la struttura dell’Io in un armonico sviluppo che lo portera` ad affrontare, in una situazione di separazione e di elaborazione della separazione, la sua autonomia e la sua identita` . Questo percorso che non si esaurisce mai, mediamente dovrebbe trovare il suo apice intorno al periodo della giovinezza. Ma vari motivi possono ritardarlo o possono gravemente alterarlo. Pertanto dobbiamo vedere molto sinteticamente come si struttura l’Io. Alla nascita l’Io e` prevalentemente somatico, ovverosia trae le sue potenzialita` prevalentemente a livello tattile e cenestesico, come avveniva anche nella precedente situazione endouterina, con una differenza fondamentale. La cesura della nascita, imponendo la rottura della omeostasi e quindi l’inevitabile «vissuto» del non essere piu` in simbiosi, ne costituisce una unita` separata e divisa che deve lottare per mantenere questa nuova situazione. Nuova situazione che presenta alcuni aspetti di quella precedente: la culla e le braccia dell’A.S. segnalano queste diversita`, ma anche questa continuita`, nel cambiamento. La fantasia di sparizione

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ed il recupero del ricordo della precedente esperienza fanno sı` che si costituisca la sensazione di un contenitore. Ma questa sensazione interna di un contenitore e` estremamente fragile, pronta a lacerarsi, come spesso si infiamma e si lacera la pelle del bambino. Percio`, questa immagine interna deve trovare supporto e fortificarsi sulla base delle successive esperienze tattili: la pelle, che gia` nel liquido amniotico ha rappresentato il principale mezzo di comunicazione e di osmosi, anche dopo la nascita continua ad essere luogo privilegiato dell’attenzione e delle cure degli adulti nei confronti del bambino. In questo senso, il fragile Io si consolida, sempre che ci sia una dinamica oggettuale valida che deve passare attraverso le comunicazioni, le emozioni e gli affetti che la pelle raccoglie e trasmette al bambino. Cosı` l’Io fondamentalmente somatico tende a strutturarsi come Io-pelle. Ovverosia una struttura che e` sempre piu` psichica, ma che ha ancora nel somatico la sua base. Credo utile sottolineare che questa dizione di Io-pelle e` stata gia` utilizzata da uno psicoanalista (D. Anzieu), ma e` evidente che sia la genesi che la funzione sono, nella mia ipotesi, completamente diverse. Comunque, man mano che il bambino cresce, questa situazione puo` evolvere in due modi abbastanza diversi che riguardano molto schematicamente l’evoluzione normale e quella patologica. Se le modalita` di rapporto interpersonale sono valide, lo scambio continuo, osmotico tra l’inconscio mare calmo e l’esterno rendono sempre piu` questo Io-pelle un Io libidico, ovverosia un Io capace di investimento sessuale, dove la «pelle» si e` trasformata in una qualita` psichica: la recettivita`. Questo Io libidico attraverso una serie di crisi evolutive (vedi 2.7) tende successivamente a strutturarsi con modalita` sempre piu` complesse: a)

b)

c)

investimento libidico della realta`, ovverosia con un approccio basato e stimolato dall’interesse verso; capacita` di modulare il rapporto e la separazione, costituendo un rapporto e non un legame; capacita` di opporsi, ovverosia di dire no,

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sulla base di una conoscenza della realta` interna dell’altro. Ma per giungere a questo c’e` una lunga fase in cui il bambino prima, il ragazzo poi, necessitano di un oggetto esterno che sia valido, presente e rassicurante e che l’aiuti a mantenere l’integrita` e l’unita` dell’Io. Possiamo definire questa fase come fase del narcisismo, intendendo con questo termine non una pulsione autoerotica, bensı` una dinamica relazionale molto specifica. Il bambino infatti ha desiderio e bisogno di essere accettato come tale e di essere riconosciuto ed apprezzato per le sue ` pertanto fondamentale, in qualita` e capacita`. E questa fase, che ci sia un A.S. valido e presente, e questa dinamica si attua soprattutto attraverso lo sguardo. Il bambino si riconosce e si sente valido nell’essere guardato, quando lo sguardo e` una tacita conferma della sua capacita` di suscitare ` una dinamica molto simile emozioni nell’altro. E allo sguardo innamorato, che ci rimanda una risposta affermativa alla nostra domanda se siamo o no in grado di suscitare emozioni nell’altro. Un sentimento tipico che si manifestera` successivamente, ma che ha la sua genesi in questa fase, e` il senso di vergogna, indizio di un vissuto in cui il soggetto non si sente all’altezza delle sue e delle altrui aspettative. Non si sente validamente guardato. Non e` un caso che il senso della vergogna e` collegato con la vista, con il sentirsi guardato. Una situazione di frustrazione o di assenza in questa fase puo` generare disturbi specifici che vanno, in un crescendo di patologie, dalla persistenza del senso di vergogna, indice di una debole formazione di un Io ideale, che pertanto rende il soggetto sottoposto al giudizio degli altri, alle ferite narcisistiche che si manifestano come ipersensibilita` alle frustrazioni ed alle critiche soprattutto da parte di persone significative; ad una caduta dell’Io con un vissuto continuativo di fallimento; ad una situazione di onnipotenza, che reattivamente puo` derivare proprio dalla mancata conferma dell’altro. Infatti l’autostima si attiva e si sviluppa proprio sulla base di concrete conferme e risposte degli altri. Se le dinamiche di sviluppo dell’Io invece

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procedono in maniera normale, si arriva ben presto ad una struttura dell’Io che puo` essere cosı` concettualizzata. Un Io definito libidico che regola i due istinti fondamentali, quello libidico e quello di morte, e che contiene una dimensione di inconscio mare calmo, inteso soprattutto come potenzialita`, ed un Io ideale che si costituisce sulla base dei rapporti validi che diventano immagine (e non quindi oggetti interni) e che esprime una tendenza verso una progettualita`. Ma quanto piu` l’Io libidico e l’Io ideale tendono a convergere, tanto piu` si arriva ad una capacita` di accettare la solitudine, non come scelta ne´ come bisogno, ma come possibilita`. Solitudine che permette l’attivita` creativa e l’attivita` terapeutica, ma che soprattutto permette di agire secondo proprie direttive, senza paura del giudizio degli altri. In questo senso si arriva ad un massimo di integrazione, senza scissioni o rimozioni. L’unica separazione interna e` tra conscio ed inconscio, che appunto non essendo rimosso, ma solo separato, rimane tale fino a quando non si trasforma a sua volta in conscio. In questo caso possiamo dire che il carattere e l’Io libidico coincidono o, se preferiamo, possiamo parlare di un carattere normale. Questa e` schematicamente la struttura e l’evoluzione dell’Io che forse puo` essere meglio compresa dopo averne esaminato anche la patologia. Se la dinamica di rapporto da parte dell’A.S. e` intrisa di ostilita`, indifferenza, in una parola di non gratificazione delle esigenze e del desiderio, il bambino inevitabilmente va incontro ad una delusione che, se ripetuta nel tempo, genera un affetto di rabbia. Ma la rabbia non puo` essere vissuta troppo a lungo perche´ penosa e pericolosa per l’equilibrio del bambino (vedi anche cap. 8 «Le psiconevrosi: nozioni generali»). Pertanto il bambino e` costretto ad operare una scissione ed una rimozione. Questi sono i principali e primari meccanismi difensivi che comportano, come vedremo, la trasformazione della rabbia in bramosia. La rabbia e` un affetto caratterizzato da una immediatezza e da una partecipazione totale del bambino; ma proprio per questo temibile, perche´ non gestibile, se non in termini di distruttivita`

dell’oggetto. Il bambino deve quindi scindere questa situazione unitaria, ma fragile dell’Iopelle. Si costituisce cosı` una situazione molto precisa: l’Io-pelle tende ad irrigidirsi e diventare la corazza caratteriale, l’inconscio mare calmo tende a diventare meno «osmotico» e meno accessibile, mentre si costituisce un altro elemento importante: l’inconscio rimosso. Ovverosia la scissione ha portato inevitabilmente alla rimozione dell’affetto rabbia, anche se questa dinamica continua ad agire come bramosia. Il bambino fantastica cosı` di introiettare l’oggetto frustrante per poterlo controllare. Ripeto ancora una volta che e` l’oggetto frustrante che comporta la introiezione: un oggetto gratificante non ha bisogno di essere introiettato. L’introiezione comporta l’angoscia di aver danneggiato l’oggetto e soprattutto di non ritrovarlo piu`: si comprende quindi perche´, in questa situazione, ogni separazione e` vissuta sempre come abbandono-morte. La ripetitivita` di questa dinamica comporta sempre piu` l’aumento dell’inconscio rimosso e la formazione di oggetti interni, invece di ricordi e fantasie, come si ha nella normale situazione di un rapporto, su base libidica e vedente. Ma accanto alla rabbia puo` emergere anche l’odio: anche in questo caso l’affetto, ritenuto troppo lesivo, deve subire un cambiamento e si trasforma in invidia. L’invidia si esplicita fondamentalmente attraverso il meccanismo della negazione, ovverosia nel vedere le dimensioni interne dell’altro, ma negarle e svuotarle. ` sulla base della negazione che saranno poi E possibili le proiezioni, ovverosia il mettere sull’altro parte delle proprie identificazioni operate attraverso l’introiezione. Quindi come si vede le due modalita`, bramosia e invidia, sono strettamente legate, ed ambedue concorrono sia ad alterare la conoscenza ed il rapporto con la realta`, sia alla formazione della corazza caratteriale. In questa situazione si forma una ulteriore struttura, con funzioni bloccanti e punitive, che e` il Super-Io. La formazione del Super-Io deriva da introiezioni di dinamiche punitive, piu` che normative, che provengono dall’ambiente culturale e sono mediate dai genitori o da altre figure significative.

La psicoterapia analitica

Il Super-Io si differenzia nettamente dall’Io ideale, perche´ ha funzioni non evolutive, ma punitive e colpevolizzanti, aumentando quindi una gia` presente tendenza alla rigidita` ed al blocco. Comunque la corazza caratteriale deve essere concettualizzata come un meccanismo difensivo massiccio e totalizzante, rispetto alla situazione di «sentirsi a pezzi», che testimonia un fallimento totale del processo unificante dell’Io. La corazza caratteriale e` determinata da una scarsa e poco sviluppata spinta libidica (che si esprimera` dopo la puberta` come disturbi della sessualita`), da una reiterata situazione frustrante il desiderio che pertanto innesca la dinamica delusione-rabbia-introiezione-oggetti interni; ma soprattutto della mancanza di un A.S. valido che sia stato in grado di far sviluppare quel processo maturativo ed integrativo dell’Io, che si svolge fondamentalmente nella fase narcisistica. Si arriva cosı` alla formazione di un contenitore rigido, che e` la trasformazione patologica dell’Io-pelle. Contenitore che ha una duplice funzione: quella di impedire una ulteriore recettivita` e quella non tanto di contenere gli oggetti interni, quanto piuttosto di evitare che questi possano esplodere e frantumarsi ulteriormente. Ed e` quanto vediamo nella fase acuta schizofrenica quando, rotta questa corazza, il mondo si riempie di proiezioni parcellari e si colora quindi di intenzionalita` persecutorie. E da questa situazione si puo` giungere infine ad una situazione di totale annullamento, che comporta un ulteriore impoverimento dell’Io ed un ulteriore distacco dalla realta`.

2.5. Il conflitto edipico Sigmund Freud pone al centro dello sviluppo e del fallimento psicologico dell’uomo il complesso edipico. La derivazione di questo complesso dalla tragedia greca ha finito certamente con l’accentuare la visione pessimistica e la ineluttabilita` del destino umano di questo autore. Molto sinteticamente, per Freud, il complesso edipico e` determinato dalla necessita` cieca della pulsione libidica di investire il genitore di sesso

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diverso, con la contemporanea angoscia della punizione da parte del genitore dello stesso sesso: insorge intorno ai 4-5 anni e si conclude con la formazione del Super-Io. In effetti il mito di Edipo, da cui Freud deriva il complesso, e` stato variamente letto ed interpretato, spesso dando luogo a considerazioni e conclusioni diverse. Esso richiama alla mente certi luoghi che, situati in posizioni strategiche importanti, mostrano durante gli scavi archeologici varie stratificazioni appartenenti ad epoche lontane e diverse: testimonianza dell’importanza di quel luogo. Esempio tipico e` Troia, che ha rivelato ben nove strati diversi: ma come Troia e` stato un topos significativo sul piano geografico e commerciale nella storia della civilta` mediterranea, cosı` Edipo e` un topos significativo nell’ambito dello sviluppo dell’uomo. Il mito di Edipo condensa una serie di nodi o passaggi estremamente significativi nello sviluppo dell’uomo. Esso narra della ricerca, dell’essere dell’uomo, del suo divenire (dice la Sfinge: τ ι´ ε σ τ ι` ν ο` ... γ ι´ ν ε τ α ι : cio` che e`... diventa); ma anche dell’odio, dell’omicidio, dell’incesto, della colpa e dei tentativi di espiarla. La presenza di tante e svariate dinamiche ha fatto sı` che gli autori cogliessero di questo mito solo alcuni aspetti: di qui la molteplicita` delle letture e delle interpretazioni. Ma alcuni punti rimangono fermi. Il primo e` che per suscitare ancora oggi un interesse cosı` profondo, questo mito deve essere portatore di dinamiche fondamentali dell’uomo. Il secondo e` che tutti gli AA. sono concordi nel ritenere che il mito di Edipo adombri la ricerca dell’uomo su se stesso e sul suo destino. Il terzo e` che il mito di Edipo esplicita anche la lunga e conflittuale relazione tra genitori e figli. Questo ultimo aspetto e` un nodo centrale e specifico dello sviluppo dell’uomo: il lungo periodo di dipendenza, materiale e psicologica, del bambino ed il fatto che solo l’uomo ha consapevolezza del proprio futuro e quindi anche della vecchiaia e della morte, fa capire che il conflitto edipico e` esclusivamente umano. Ma per capire meglio questo conflitto dobbiamo riproporre il mito di Edipo nella sua completezza e non estrapolarne solo una parte, come ha fatto S. Freud,

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che non e` nuovo a queste censure. L’esempio piu` eclatante e` lo studio sul Presidente Schreber, ove Freud giunse a conclusioni errate perche´ non volle considerare minimamente le valenze gravemente sadiche ed omicide di Schreber padre. Solo dopo ben 50 anni Schatzman, con «La famiglia che uccide», rendendo di pubblico dominio quali erano stati i metodi «pedagogici» di Schreber padre, ha reso intellegibile la follia di Schreber figlio. Se esaminiamo il mito di Edipo nella sua complessita` ed interezza, e` possibile comprenderne il significato. Nel ripercorrere la strada del mito, cosa non facile perche´ numerose e contraddittorie sono le versioni, mi riferiro` principalmente alla Tebaide e ad Apollodoro quali fonti piu` accreditate di riferimento, oltre le tragedie di Sofocle. Edipo ha ascendenze mitiche. Suo bisnonno Cadmo (figlio del fenicio Agenore) e` ritenuto oltre che fondatore di Tebe anche l’inventore della scrittura. Cadmo ha due figli: di questi Labdaco dara` origine alla progenie dei Labdacidi ed al ciclo di Tebe. Labdaco muore giovane e lascia un figlio, Laio, che quindi non conoscera` mai suo padre. Di Laio giovane si raccontano cose abbastanza terribili: bugiardo, traditore, omosessuale. L’episodio piu` significativo riguarda il rapporto con Pelope: questi gli aveva affidato il figlio Crisippo, perche´ gli facesse da tutore. Ma Laio lo rapisce e pratica su di lui l’omosessualita`, tanto da essere considerato in Grecia l’inventore dell’omosessualita`. Ancora giovane Laio sposa Giocasta, ma il matrimonio risulta sterile. Per cercare di capire il motivo della sua sterilita`, si reca a Delfi per sentire l’oracolo. E l’oracolo vaticina che per lui era meglio non avere figli, perche´ il figlio lo avrebbe ucciso. Ma Laio non ascolta l’oracolo ed una sera ubriaco (secondo un’altra versione, ubriacato da Giocasta) ha un rapporto con la moglie che rimane incinta. Nato Edipo, il padre, ricordandosi dell’oracolo, lo fara` esporre sul Citerone, non prima di avergli conficcato un gancio nei piedi (di qui una probabile etimologia di Edipo: ovverosia dai piedi gonfi). Ma Edipo, raccolto da un pastore e condotto a Corinto, viene adottato dalla coppia regale del luogo. Quindi Edipo, pur con genitori diversi, viene a

ritrovarsi in una identica situazione sociale e di prestigio. Ma all’eta` di 17-18 anni Edipo, anche per le voci che circolano, comincia ad avere dubbi sulla sua origine. L’unica possibilita` e` interpellare l’oracolo di Delfi. Mentre Edipo si avvia da Corinto verso Delfi, da Tebe simultaneamente si muove Laio, anch’egli desideroso di sapere qualcosa su Edipo. Desiderio di sapere che egli e` ancora vivo o paura di sapere che Edipo non e` stato ucciso sul Citerone? Edipo, giunto a Delfi, per bocca della Pizia viene avvertito di non tornare nella sua terra natale, altrimenti avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Sulla base di questa predizione, Edipo non puo` far altro che allontanarsi sempre piu` da Corinto, e cosı` facendo attua proprio quello da cui voleva fuggire, cioe` avviarsi verso Tebe, ovvero verso i genitori reali. L’incontro avviene in una strada stretta (stene` odo`s), una specie di passaggio obbligato; la violenza e la prepotenza di Laio spingono Edipo a difendersi ed a uccidere lo sconosciuto, di cui inconsciamente andava alla ricerca. Edipo, proseguendo nel suo cammino verso Tebe, deve affrontare la Sfinge, mostro meta` donna e meta` animale, che propone un enigma: «Chi e` quell’animale che al mattino cammina a quattro piedi, a mezzogiorno con due, ed alla sera con tre?». Chi non lo risolve viene ucciso. Edipo individua che questo enigma si riferisce all’uomo, e la Sfinge precipita e muore. Giunto a Tebe e` considerato un salvatore, sposa Giocasta ed ha quattro figli: ma la scoperta della sua vera identita` portera` Giocasta a suicidarsi ed Edipo ad accecarsi. In questo mito, soprattutto nella versione sofoclea, Freud ha ravvisato un punto centrale dello sviluppo umano: il complesso edipico. Ovverosia l’emergenza di valenze erotico-sessuali verso il genitore di sesso opposto e di valenze omicide nei confronti del genitore dello stesso sesso. Il tutto vissuto con l’angoscia della ritorsione, secondo la legge del taglione: ovverosia la castrazione. Ma se esaminiamo il mito di Edipo globalmente ci accorgiamo che questa parte, evidenziata da Freud, e` forse la meno interessante, mentre c’e` una possibilita` di lettura piu` ampia. Il primo dato e` che Laio viene a conoscenza, tramite l’oracolo, che il

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figlio che nascera` sara` causa della sua morte. Se andiamo oltre il manifesto, a cogliere l’aspetto latente, possiamo vedere una preoccupazione molto frequente nell’uomo. Cioe` che il figlio che nasce, e soprattutto che cresce, lo mettera` inevitabilmente di fronte al suo declino, alla vecchiaia, ` evidente che questo vissuto puo` alla morte. E essere piu` o meno drammatizzato ed agito diversamente a seconda della psicopatologia del padre, ma certamente e` un vissuto universale. Laio, orfano, omosessuale e bugiardo tentera` di risolverlo con l’omicidio, espressione di una fantasia onnipotente di negare la vecchiaia e la morte. Questo tentativo avviene per ben due volte: dapprima alla nascita, poi alla puberta` di Edipo, ovverosia nei due momenti fondamentali che l’uomo deve attraversare (la strada stretta di Delfi e` simbolicamente anche il canale del parto), per separarsi ed acquisire una identita`. Quindi, per due volte, Laio cerca di non «far passare» Edipo, potremmo dire che cerca di rimandarlo indietro, cioe` di farlo reinfetare. Se questo e` Laio, cosa succede ad Edipo? Egli, sopravvissuto al tentativo di uccisione, di cui nulla ricorda, vive in una situazione privilegiata: ha due genitori affettuosi e di pari dignita` regale. Se anche qui andiamo oltre il dato evidente, possiamo ritrovare che Edipo esprime una fantasia molto frequente nei bambini, a volte anche negli adolescenti: che la coppia genitoriale con la quale vivono, non e` quella vera; c’e` n’e` un’altra, alla quale spesso sono attribuite qualita` di gran lunga superiori. A cosa serve questa fantasia? Poiche´ nel contesto della famiglia il bambino inevitabilmente va incontro a delle frustrazioni, o comunque non riesce ad esaudire tutte le aspettative, immaginarsi una coppia diversa di genitori vuol dire poter realizzare fantasticamente tutte le aspirazioni e i desideri. Questa fantasia in genere si attenua e scompare con il crescere. In Edipo invece permane e lo spinge, anche sulla base di alcune voci di corte che dubitano della sua origine, a mettersi alla ricerca. Ma Edipo non conosce e quindi non puo` riconoscere il padre: inoltre, questi assume esclusivamente caratteri negativi di colui che frustra,

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punisce, impedisce. Ed Edipo e` costretto ad uccidere per sopravvivere. La strada e` stretta e per passare egli deve uccidere l’ostacolo. Questo scontro, che puo` essere letto come uno scontro generazionale, nasconde un aspetto piu` profondo. La necessita` che il padre riconosca la nascita e la crescita del figlio: cioe` la sua identita`; ma la necessita` anche che il figlio conosca il padre, cioe` che non lo annulli. Perche´ e` proprio questa dinamica che porta Edipo ad uccidere e che segnera` anche la successiva generazione maschile: Eteocle e Polinice, figli di Edipo, arriveranno ad una lotta fratricida che distruggera` entrambi. L’uccisione di Laio non e` quindi una vendetta di Edipo, e` il prezzo che egli paga per la non conoscenza: ed e` questa non conoscenza, legata ad un annullamento del padre, che lo portera`, in un atteggiamento quasi coattivo, alla ricerca continua della verita` e della conoscenza. Anche l’accecamento segnala, oltre l’atteggiamento punitivo, il bisogno di questa ricerca. Ma come mai solo Edipo ha saputo svelare l’enigma della Sfinge, Edipo vuol dire anche «colui che ricorda» (Oida-pous), ed in questo senso egli ricorda non gia` il tentato omicidio, quanto il suo meccanismo difensivo, cioe` la creazione di una doppia coppia genitoriale. Egli sa quindi che e` solo l’uomo che puo` fantasticare di avere due coppie di genitori, che gli permette di affrontare meglio le frustrazioni e le delusioni reali. Infatti nella tragedia (come in Edipo) o nella realta` (come in molti bambini) la fantasia dell’esistenza di una doppia coppia permette di affrontare meglio le inevitabili frustrazioni della crescita. Π ο υ˜ in greco vuol dire, oltre che piede, anche appoggio. I quattro piedi sono i quattro appoggi (ovvero le due coppie genitoriali) di cui il bambino ha bisogno nei primi anni (al mattino) per affrontare le situazioni frustranti. Il resto dell’enigma racconta quello che avverra`: i due piedi nell’eta` matura, corrisponde alla coppia; ed i tre piedi, nell’eta` senile, costituiscono l’accettazione della vecchiaia ed il figlio come possibile aiuto... Ed infatti Edipo accettera` la sua colpa, come la sua vecchiaia e la prossima morte, ed insieme alla figlia andra` a Colono. Anche se in modo molto schematico, questa lettura del mito di Edipo in effetti porta a concettualizzare un conflitto edipico, piu` che un com-

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plesso edipico. Conflitto che inevitabilmente si crea a livello dei padri e dei figli e che puo` essere gestito in vari modi. Quello di Edipo non e` la soluzione universale, ma rappresenta solo una soluzione, anche se drammatica. Nel mito di Edipo, infatti, le valenze psichiche vengono estremizzate e diventano tragiche; ma il percorso di Edipo puo` essere molto diverso, come diverso puo` essere quello di Laio.

2.6. L’inconscio Abbiamo parlato di un inconscio mare calmo e di un inconscio rimosso: se ambedue condividono le qualita` del non conosciuto, vedremo che una differenza sostanziale li divide. L’inconscio mare calmo e` stato postulato da M. Fagioli come dimensione libidica recuperata alla nascita, attraverso la fantasia-ricordo della precedente situazione. L’inconscio mare calmo veicola abbastanza chiaramente la proposizione di una sostanziale sanita` del bambino alla nascita e quindi, implicitamente, l’idea che la psicopatologia umana e` legata soprattutto ai rapporti interpersonali. Quindi in opposizione a Freud ed alla Klein, questa proposizione indica che l’uomo non nasce congenitamente perverso e distruttivo, ma queste dinamiche possono essere generate da situazioni interpersonali frustranti. ` mia impressione che sia proprio questa la E proposizione piu` osteggiata; e che spesso la non accettazione di questa comporti un giudizio negativo anche sugli altri aspetti della teorizzazione di Fagioli. Comunque anche non volendo condividere questa impostazione, non accettabile secondo alcuni, o troppo ideologica secondo altri, come dato importante rimane la proposizione che l’inconscio non e` solo il rimosso. Il che inevitabilmente fa riacquistare all’inconscio un ruolo creativo e positivo, che invece sembra essere completamente assente nella equazione inconscio= rimosso. Infatti, come abbiamo visto, la rimozione si attiva sulla base di una frustrazione, che generando delusione porta il soggetto ad un meccanismo di scissione. Scissione e rimozione portano alla formazione

di oggetti interni rimossi (e quindi inconsci) che chiaramente hanno solo valenze negative. Certamente l’inconscio rimosso esiste, ma e` generato da una patologia e genera patologia, non solo perche´ cio` che e` rimosso e` alieno al soggetto, e questo comporta inevitabilmente un depauperamento complessivo, ma anche perche´ la rimozione porta, attraverso la negazione, alla proiezione. Ed abbiamo visto come tutto questo altera il rapporto e la conoscenza della realta`. Il concettualizzare l’esistenza di un inconscio diverso da quello rimosso, credo che apra un possibilita` maggiore di comprensione dell’inconscio, ma costituisce anche una sorta di sfida. Infatti anche nella situazione piu` patologica, anche lı` dove ci puo` essere la piu` rigida corazza caratteriale, o una situazione di ripetuti annullamenti che hanno portato ad un vuoto interiore, e` probabile ipotizzare che in fondo una traccia di un inconscio mare calmo, una traccia quindi di una possibilita` curativa, sia comunque rinvenibile.

2.7. Le crisi di sviluppo Descrivendo la struttura dell’Io, ho brevemente proposto le due principali ipotesi di svi` eviluppo: quella normale e quella patologica. E dente che, come ogni tentativo di schematizzare, anche questo rischia di penalizzare la realta`: in effetti i processi non sono cosı` rigidi ed irreversibili. Le dinamiche patologiche possono instaurarsi, ma anche possono regredire al di fuori di uno specifico trattamento terapeutico, per vari motivi collegati spesso ad avvenimenti favorevoli, momenti positivi ecc. E cosı` pure una struttura dell’Io valida puo` andare incontro a situazioni che possono essere momentaneamente regressive. Ma accanto a questa verita` ne va evidenziata un’altra ancor piu` importante: lo sviluppo non e` mai lineare e rettilineo. Lo sviluppo, anche quello normale, avviene per crisi. Per crisi dobbiamo intendere un particolare momento dello sviluppo e l’attivazione di dinamiche specifiche. Le crisi avvengono allorquando una determinata fase dello sviluppo ha assolto le sue funzioni e quindi comincia a diventare anacronistica e non piu` funzionale. Certamente la

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nascita rappresenta il prototipo della crisi, non solo perche´ fondamentale e ricca di eventi, ma perche´ questo avvenimento rappresenta, con drammatica evidenza, il fatto che se un certo stadio non viene affrontato e superato si rischia la paralisi e la morte. Infatti, se dopo i nove mesi non ci fosse l’evento nascita, il feto finirebbe per entrare in sofferenza e morire. Questa situazione, su un piano simbolico, puo` essere utilizzata anche per altre situazioni. Ovverosia se la fase di sviluppo che e` terminata non si chiude, il bambino rischia di morire «soffocato». Le crisi come tappe evolutive dello sviluppo umano sono diverse, ma e` importante sottolineare quelle piu` significative. a)

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Lo svezzamento. Deve intendersi per svezzamento, al di la` della modalita` di allattamento, quella fase che coincide con la fine del rapporto parziale con il seno e l’inizio ` della fase di rapporto con l’oggetto totale. E una fase molto importante perche´ eventuali dinamiche di scissione, collegate a gravi frustrazioni di questo periodo, sono meno facilmente riparabili dopo lo svezzamento. Il rapporto con l’oggetto totale comporta anche l’angoscia per una eventuale perdita dello stesso. Si situa tra gli 8 e i 10 mesi. Il controllo degli sfinteri. Normalmente ed isolatamente, non e` una tappa molto importante: in genere e` vissuta come maggiore capacita` di autonomia da parte del bambino. In questa fase possono sorgere conflitti con l’A.S., soprattutto se questi, per motivi personali, pretende un controllo precoce, instaurandosi una competizione, certamente perdente per il bambino. Il linguaggio. Questa capacita` non solo segnala nel bambino l’acquisizione di una capacita` creativa e ludica, ma permette anche la fase successiva: l’attivita` esplorativa. Infatti la possibilita` di mantenere un rapporto con l’A.S. non solo attraverso lo sguardo, ma anche attraverso la parola e quindi il richiamo, permette al bambino di allontanarsi sufficientemente ed iniziare la fase di ricerca. Molto probabilmente una situazione conflittuale, in questa fase, puo` essere causa delle fobie.

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` un momento Il riconoscimento del diverso. E molto importante scoprire che un essere umano e` configurato in maniera diversa. Questa diversita` normalmente suscita curiosita`, altrimenti puo` essere un momento conflittuale, ove emergono facilmente dinamiche di invidia. ` la fase di passaggio Rapporto con gli altri. E dalla sicurezza dell’ambiente familiare ad un ambiente nuovo e sconosciuto. Molte fobie sociali possono evidenziarsi in questa fase. La puberta`. La puberta` rappresenta una sorta di cartina di tornasole di tutte le tappe precedenti. Chiaramente la trasformazione fisica, l’assunzione di una precisa identita` sessuale, puo` essere un momento difficile. La sessualita`. Insieme alla trasformazione somatica, rappresenta il momento di completa autonomia, che dovrebbe permettere una gestione completa del proprio Io e del proprio corpo.

Il superamento piu` o meno valido di queste fasi e` legato a vari fattori. Da una parte alla situazione generale del soggetto, e quindi anche a come ha superato le fasi precedenti. Dall’altra e` molto importante l’atteggiamento positivo o negativo degli adulti. Per esempio, se il bambino ha difficolta` ad affrontare la separazione dalla famiglia (asilo), e questa paura e` condivisa anche dai genitori, questo comportera` l’aumento delle paure del bambino, in un circolo vizioso non sempre risolvibile. Se di fronte al bambino anche la madre piange o cerca di riaccompagnarlo a casa, il bambino si sente ancora piu` angosciato. Questo dato e` molto importante perche´ ci permette anche di capire l’insorgere della patologia. Molto spesso la patologia si crea non solo per situazioni interne del soggetto, ma anche perche´ queste dinamiche vengono patologicamente rinforzate dall’ambiente familiare. Ma molte volte la patologia si rinforza anche perche´ il soggetto comincia a mettere in atto comportamenti che ritiene utili, e che invece sono ulteriori trappole sul suo cammino. Il superamento delle varie crisi puo` normalmente comportare un vissuto doloroso: il lutto che e` un evento normale. ` l’emergenza di una depressione che invece seE gnala il fallimento del passaggio.

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2.8. Dipendenza ed autonomia La dipendenza e` uno stadio normale e fisiologico dell’uomo ed e` legata, prevalentemente, alla cosiddetta fetalizzazione dell’uomo. Ovverosia al fatto che l’uomo, proprio per avere non degli istinti definiti, precisi e tecnici, ma due istintualita` molto generiche ed ampie, ha bisogno di un periodo molto piu` lungo di dipendenza per l’apprendimento. Ma se la dipendenza e` necessaria, e` anche superabile: quando il soggetto ha acquisito, attraverso le fasi evolutive dello sviluppo, una sua identita` fisica e psichica, allora deve iniziare una fase di autonomia, ovverosia di separazione dal luogo e dalle persone che sono state fino ad allora garanti della sua crescita, per cercare sulla base delle sue possibilita` uno sviluppo autonomo. Ed e` quanto dovrebbe succedere al giovane nella separazione dall’ambito familiare, ed al paziente alla fine di un corretto processo di terapia.

un compito molto preciso: da una parte contenere le ansie eccessive e le proiezioni del paziente, dall’altra proporre direttamente cosa puo` essere un lavoro di analisi, frustrando eventuali idealizzazioni o massicce negazioni da parte del paziente. Inoltre il terapeuta deve valutare attentamente il proprio controtransfert, partendo dal principio fondamentale che egli potrebbe non sentirsela di affrontare quella particolare dinamica o quel particolare paziente. Per il paziente questo primo momento deve rappresentare un momento di crisi, inteso come possibilita` di una scelta che lo puo` portare a mettere in discussione se stesso. Cosa che puo` avere una analogia, chiaramente molto simbolica, con la nascita. Anche perche´, come questa, il lavoro analitico offre delle possibilita`, ma offre anche inevitabilmente delle frustrazioni. Una volta deciso per l’inizio di un lavoro analitico, debbono essere comunicate le informazioni fondamentali rispetto al setting ed alle modalita` materiali che regoleranno il corso dell’analisi.

3. La prassi La psicoterapia analitica non e` una tecnica, ma e` fondamentalmente un modo di essere del terapeuta che utilizza questa sua modalita` come strumento conoscitivo e terapeutico. Evidente quindi che teoria e prassi non sono scindibili, se non a livello espositivo e per comodita` didattica. Cerchero` ora di proporre quello che puo` essere l’iter medio di una psicoterapia analitica, segnalandone gli aspetti operativi essenziali.

3.1. Il primo colloquio come crisi Mi soffermero` brevemente su questo argomento, gia` ampiamente trattato nel capitolo «Il colloquio psichiatrico», particolarmente alle voci «Il colloquio psicoterapeutico» e «Il primo colloquio». Il primo incontro, che ci sia o no da parte del paziente l’idea o il desiderio di un lavoro analitico, e` sempre molto denso di aspettative, di proiezioni e quindi anche di possibili delusioni. In questi primi incontri, il terapeuta deve svolgere

3.2. Il setting La relazione analitica si svolge all’interno di due coordinate fondamentali: una centrata sulla stabilita`-continuita`, l’altra sul cambiamento-trasformazione. Alla prima appartengono il setting, la continuita` ed il ritmo del lavoro; alla seconda, l’interpretazione e la separazione. Comincero` con l’esaminare il primo aspetto, partendo appunto dal setting. Il setting rappresenta, a livello manifesto, le coordinate temporo-spaziali che, restando definite e fisse, permettono lo svolgersi del rapporto terapeutico. Ad un livello piu` profondo e globale e` una forma di comunicazione del terapeuta: comunicazione circa il proprio assetto interno, la propria teoria, la propria disponibilita`. Quindi non puo` esistere una sola modalita` di setting: ritenere che la modalita` del setting sia unica corrisponde ad una acritica e ritualistica accettazione di regole determinate non da esigenze del terapeuta e del paziente, ma da fattori sociali e cultu-

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rali, quando non esclusivamente da bisogni del terapeuta. In realta` esistono modalita` diverse di setting e queste sono valide se corrispondono ad una precisa e stabile situazione controtransferale del terapeuta. ` chiaro che il setting comprende non solo gli E aspetti temporo-spaziali delle sedute, ma anche le separazioni che interverranno nel corso dell’anno: separazioni, che, come vedremo, sono fondamentali e costituiscono parte integrante del lavoro analitico. Quindi il setting che si propone al paziente (e che vincola in maniera paritaria il terapeuta) deve nascere da un assetto interno preciso, coerente, globale del terapeuta: il setting non e` un rito, ma un impegno preciso che deve evidenziare con chiarezza non solo la corretta organizzazione temporale, ma soprattutto la disponibilita` del terapeuta. Nella concezione del setting e` evidente che il tempo della seduta e` il tempo per il paziente. Sono quindi inammissibili, perche´ dimostrazione di totale indifferenza, i comportamenti del terapeuta che legge, telefona o scrive durante le sedute: cose purtroppo non infrequenti. Personalmente propongo un setting di due-tre sedute settimanali, intervallate nell’arco dell’anno da due periodi di separazione, stabiliti in precedenza e fissi. L’assetto del setting, una volta stabilito, va mantenuto non per motivi di rigidita`, ma semplicemente perche´ molte volte l’attacco e la «resistenza» del paziente si esplicitano proprio nei confronti del setting: ritardi, anticipi, sedute saltate, ecc. Un cambiamento del setting da parte del terapeuta porterebbe o a non vedere o, se viste, a non poter interpretare queste «resistenze». Ma bisogna anche tener presente che spesso l’assetto continuativo del lavoro analitico puo` essere utilizzato dal paziente come una difesa per mantenere scisso il lavoro terapeutico dalla sua vita quoti` possibile modificare il setting da parte del diana. E terapeuta, e per quali motivi? Ritengo che sia poco utile apportare modificazioni al setting, se prima non si e` costituita una solida e stabile situazione di lavoro. Comunque in alcuni casi possono esserci modificazioni del setting, se queste servono a comunicare qualcosa di significativo. Riporto una situazione di limitata modificazione del setting, corrispondente al prolunga-

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mento del tempo della seduta. Una ragazza in analisi da circa un anno, e con gravi problemi di inibizione emotiva e di rapporto, arriva con 15 minuti di ritardo. Si scusa e dice che ha sbagliato «la linea dell’autobus»; poi aggiunge che sull’autobus ha visto un uomo borseggiare una vecchietta. Raccontando vari episodi inerenti il lavoro, esprime la sua difficolta` di accettare un mondo che definisce grigio. Quindi alla fine della seduta racconta un sogno: «Lei in maglietta e pantaloncini sta insieme ai colleghi d’ufficio: e` una specie di maratona, con un clima molto scherzoso. Ad un certo punto i colleghi si fermano e lei prosegue. Arriva in una specie di giardino dove incontra il direttore: c’e` un gran piatto d’uva e di frutta, lei vorrebbe mangiarne un po’, insieme al direttore». Dice che questa e` una persona di cui si fida. Anche se e` un sogno chiaramente di transfert, preferisco fare una interpretazione piu` generale. Le propongo che c’e` una sua situazione meno bloccata che le permette di muoversi e anche di separarsi dai colleghi di ufficio. L’incontro con il direttore, persona del quale lei dice di fidarsi, corrisponde ad un suo desiderio di una maggiore intimita`. La paziente reagisce dicendo che non ha mai pensato di voler avere rapporti sessuali con il direttore. Le propongo che intimita` non vuol dire necessariamente avere rapporti sessuali: ma questa sua affermazione-negazione mi da` la possibilita` di aggiungere qualcosa. Cioe`, che lei dice di fidarsi degli uomini, ma in effetti e` ambivalente e continua a non fidarsi: in fondo c’e` sempre l’immagine di un ladro che le ruba le cose e che corrisponde ad una sua immagine di essere vecchia e povera (derubata). Il sogno era stato comunicato e forse non a caso alla fine della seduta: avrei potuto chiudere la seduta e rimandare l’interpretazione alla prossima. Ma recuperare i quindici minuti del suo ritardo iniziale oltre tutto comunica una situazione precisa: non frustrare un suo desiderio, seppure espresso in maniera ambivalente. In questo modo, le propongo che e` possibile trovare una linea1 di percorso valida, ma questa deve passare

1 E` un riferimento a quanto detto dalla paziente che aveva sbagliato ‘‘la linea dell’autobus’’.

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attraverso un reale recupero della fiducia, altrimenti lei continuera` a sentire che c’e` sempre qualcuno che la deruba e continuera` ad essere vecchia e grinzosa (ovverosia senza desideri). Ed e` quanto la paziente avrebbe vissuto riconfermandosi che in fondo c’e` sempre qualcuno che le ruba qualcosa: in questo caso i minuti della seduta. In questo caso la modificazione del setting aveva una valenza comunicativa molto precisa, e pertanto era utile attuarla.

3.3. Le funzioni dell’analista: presenza, memoria, continuita` Normalmente si ritiene che la funzione fondamentale dell’analista sia interpretare; ma l’interpretazione va preparata e sostenuta da una serie di operazioni che sono: a) b) c) d)

l’ascoltare-recepire; la presenza dell’analista; l’analista come memoria; l’analista come intermediario del desiderio.

Queste funzioni si oppongono alla tendenza, da parte del paziente, a scindere l’oggetto e lo costringono quindi ad un lavoro di integrazione.

3.3.1. Ascoltare-recepire

La capacita` di ascoltare e di recepire deve essere rivolta principalmente alle dimensioni inconsce del paziente. Il terapeuta, tramite la sua recettivita`, deve saper cogliere la realta` interna del paziente, senza fare negazioni o proiezioni. La capacita` di ascoltare-recepire permette inoltre la costituzione di un reticolo cronologico mediante il quale il terapeuta riesce a dare una collocazione ed una sistemazione esatta agli avvenimenti del paziente, separando cio` che e` avvenuto nel passato da cio` che avviene nel presente.

3.3.2. La presenza dell’analista

Questa dimensione fondamentale puo` essere meglio compresa se vista in contrapposizione a

quella della neutralita`-assenza. Il concetto di neutralita` nasce all’interno di una teoria, che ritiene che il processo analitico consiste nel fatto che l’analizzando tramite le libere associazioni deve ricordare, e che il ricordo e` di per se´ terapeutico. Quindi la funzione dell’analista e` quella di un ascolto passivo: egli deve intervenire solo quando questo flusso associativo si interrompe; teorizzazione che evidentemente si lega strettamente a quella del narcisismo, intesa come pulsione autoerotica. L’analisi invece e` un lavoro che si oppone continuamente alle fantasie di sparizione, agli an` evinullamenti, alle negazioni dell’analizzando. E dente che concettualizzando l’analisi come lavoro non c’e` posto per la neutralita` o per l’assenza dell’analista, come non c’e` posto per la parita` o uguaglianza. Il lavoro di analisi esiste solo se c’e` una differenza, che consiste nella presenza-attivita` dell’analista e nella tendenza dell’analizzando a negare questo lavoro di ricerca. Frustrare gli annullamenti, le assenze, le fantasticherie onnipotenti del paziente corrisponde al concetto di presenza dell’analista ed alla possibilita` di utilizzare la frustrazione con interesse. Ma per proporre correttamente il concetto di frustrazione con interesse bisogna esplicitare la differenza tra esigenze e bisogni. Molto schematicamente si puo` dire che le esigenze sono costituite dalla ricerca di conoscenza, di crescita globale, di possibilita` di capire-vedere e di rapportarsi validamente con gli altri. I bisogni sono invece richieste di rapporto parziale, tentativi di non mettersi in crisi, atteggiamenti bramosi e neganti che tendono fondamentalmente a rendere statica e ripetitiva la situazione di analisi e quindi a bloccare ogni possibilita` evolutiva e di crescita. I bisogni vanno sempre e comunque frustrati, anche se questo comportera` l’emergenza di affetti come la rabbia e l’odio; le esigenze invece soddisfatte. Questa duplice modalita` di rapporto costituisce la base della frustrazione con interesse. Se invece i bisogni sono piu` o meno gratificati e le esigenze frustrate, per assenza di una risposta valida, si costituisce allora una dinamica opposta: quella della frustrazione sadica. La neutralita` dell’analista freudiano sembra apparentemente non appartenere a nessuna delle due modalita`: sem-

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bra, perche´ la neutralita` e` in effetti assenza e come tale e` sempre frustrazione sadica. ` evidente che per porre una frustrazione con E interesse ci deve essere una situazione di reale presenza dell’analista, che combatte l’indifferenza dell’analizzando, che nulla concede alle strutture caratteriali, ben consapevole che emergeranno inevitabilmente una serie di affetti negativi come la rabbia e l’odio; ma che sa anche che questo e solo questo puo` portare ad una dinamica di desiderio e di ricerca. Sara` poi compito dell’analista far affrontare all’analizzando, all’interno di una dinamica affettiva intensa, il problema della separazione, perche´ questa non avvenga con rabbia, odio o con una fantasia di sparizione, ma avvenga invece con una fantasia ricordo che gli permettera` , ritornando, di continuare il lavoro. Allo stesso modo del bambino, che dopo essersi attaccato al seno ed aver ricevuto insieme al latte anche l’investimento sessuale della madre, puo` staccarsi, addormentarsi e risvegliarsi con la sicurezza di poter ritrovare il seno, proprio nella misura in cui la soddisfazione del desiderio non gli ha fatto fare alcuna fantasia di sparizione. Questo paragone e` solo apparentemente una metafora; piu` esattamente ci sono due momenti diversi nella storia dell’individuo, due realta` diverse: quella del bambino che ha bisogno di latte e di investimento sessuale e quella dell’analizzando che ha bisogno di risposte e... di investimento sessuale.

3.3.3. L’analista come memoria

La rimozione, riducendo emozioni, pensieri ed affetti allo stato inconscio, e` causa di patologia, perche´ la progressiva perdita della capacita` di contenere e di memorizzare comporta un progressivo depauperamento delle possibilita` operative dell’Io. La rimozione e` quindi l’opposto della memoria. Ma come si sviluppa la memoria? Il bambino subito dopo la nascita e` bombardato da una miriade di sensazioni, tattili, visive, acustiche, che pian piano egli riuscira` ad ordinare. Questo progressivo ordinamento e` la memoria. Questo processo lungo e complesso avviene attraverso una progressiva mielinizzazione che rende il SNC sem-

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pre piu` discriminante, ma soprattutto attraverso la sempre maggiore attivita` dell’Io. Ma e` fondamentale che esista un oggetto esterno, valido e soddisfacente, che consenta questo ordinamento, base della memoria. L’oggetto esterno necessariamente si propone, e non puo` essere altrimenti, come discontinuo sul piano materiale. In questa situazione il bambino deve compiere un lavoro creativo che, mediante la costruzione delle immagini e dei ricordi, gli consenta una continuita` interna. Quindi per la costruzione dell’immagine e del ricordo e` necessaria una separazione: ma questa separazione puo` essere creativa solo se e` stato soddisfacente il rapporto con l’oggetto. Se l’oggetto non e` soddisfacente si ha, invece, la creazione dell’oggetto interno. Se l’oggetto invece propone una dinamica soddisfacente, il bambino accetta la separazione, e la separazione porta alla costruzione dell’immagine. Quanto piu` l’oggetto e` coerente e presente, tanto piu` l’immagine interna corrispondera` alla realta` dell’oggetto, dando al bambino una sensazione di fiducia e di stabilita`. Sicuramente la memoria e` collegata all’inten` chiaro che sita` ed alla qualita` dell’emozione. E noi ricordiamo avvenimenti che ci hanno colpito (intensita`); ma e` importante anche la qualita`, nel senso che situazioni molto angoscianti possono essere oggetto di rimozione. Quindi una situazione di rapporto molto negativa suscita una tendenza a non accettare quella situazione e quindi a rimuoverla. Da cio` origina l’inconscio rimosso: la proiezione successiva di questo rimosso rende la distanza tra l’Io e la realta` sempre maggiore. Questi pochi cenni servono a comprendere in che modo l’analista puo` funzionare come memoria. 1)

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3)

Perche´ ripropone cose che il paziente ha detto, ma che successivamente tende a dimenticare. Perche´ si costituisce come oggetto di riferimento stabile e presente, e quindi assume una funzione simile a quella che ha la madre per il bambino. Inoltre nella proposizione ritmica dell’incontro e delle separazioni, l’analista offre al paziente la possibilita` di recuperare il tempo interno. Tutto questo pian piano rendera`

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possibile al paziente non solo recuperare il ricordo di cose passate, ma acquisire una capacita` di memoria sempre maggiore, man mano che rinuncera` all’annullamento ed alla rimozione.

3.3.4. L’analista come intermediario del desiderio

` evidente che l’analista non puo` porsi escluE sivamente e materialmente come oggetto del desiderio. Se lo facesse, questo comportamento sarebbe dettato da problemi personali: onnipotenza o tentativi di difesa dalla depressione. Il bisogno di essere al centro dell’attenzione e la necessita` di essere amati, chiaramente, renderebbe impossibile accettare le inevitabili frustrazioni che il lavoro di analisi comporta. Inoltre, se egli si ponesse come unico oggetto del desiderio, proporrebbe un legame regressivo, perche´ manterrebbe una situazione di simbiosi perenne, ed inevitabilmente stimolerebbe il desiderio di cose materiali, ovverosia la bramosia. Se volessimo utilizzare una metafora, potremmo dire che l’analista non deve porsi ne´ sopra, ne´ sotto, ne´ dietro, rispetto all’analizzando; posizioni che corrispondono rispettivamente a situazioni di dominio, di sottomissione o di persecuzione, ma a lato del paziente, per aiutare questi nella sua ricerca e nella conoscenza, che devono costituire il reale oggetto del desiderio. Quindi l’analista non deve essere ne´ quello che neutraleassente non risponde, ne´ quello che in maniera esibizionistica e seduttiva risponde a tutto. Egli deve rispondere, ma soprattutto aiutare a formulare le domande e le risposte. Usando un vecchio proverbio cinese, potremmo dire che egli non deve dare il pesce, ma insegnare a pescare.

3.4. L’interpretazione. Le difese dall’analisi Voglio sottolineare subito che il termine «difese dall’analisi» e` sovrapponibile al termine classico «resistenze all’analisi». Uso difese perche´ il termine di resistenza in questo contesto e` utilizzato per indicare la capacita` del soggetto di op-

porsi e rifiutare dinamiche ostili, o comunque negative. Molto sinteticamente potremmo dire che l’analista interpreta il transfert e le difese del paziente. Questa definizione ci permette di differenziare la psicoterapia analitica da altre psicoterapie che, avendo nella suggestione il principale strumento di lavoro, tendono a manipolare il transfert e a far aumentare le difese. Manipolare il transfert vuol dire far sviluppare ed utilizzare il transfert positivo, cioe` la tendenza ad identificarsi con il terapeuta che diventa una sorta di Io ausiliario per il paziente, vestendo pero` i panni del giudice o del pedagogo. Aumentare le difese vuol dire aumentare la capacita` di rimozione e di regressione del paziente. Interpretare vuol dire esattamente il contrario. L’interpretazione e` la comunicazione verbale dell’analista, che collegando vari avvenimenti e cogliendo il significato profondo della comunicazione del paziente, offre al paziente i mezzi per una piu` completa conoscenza di se stesso, soprattutto in termini emotivi. Quindi non tutte le comunicazioni dell’analista sono interpretazioni, ma solo quelle che riuscendo a cogliere i significati latenti delle comunicazioni del paziente li veicolano in termini chiari e precisi, al paziente. L’interpretazione su di un piano epistemologico si situa a meta` strada tra una spiegazione causale, tipica delle scienze naturali, ed una comprensione dei significati, che e` tipica delle scienze umane. Questa posizione epistemologica spiega la presenza di due posizioni diverse riguardo al significato ed alla validita` dell’interpretazione. Da una parte quelli che considerano l’interpretazione come un dato scientifico, inoppugnabile ma asettico; dall’altra quelli che ritengono l’interpretazione come un atto creativo dell’analista, che nasce all’interno della situazione di transfertcontrotransfert e la cui scientificita` o validita` non e` dimostrabile. In effetti, se l’interpretazione viene data con criteri precisi, come vedremo oltre, possiamo affermare che essa ha uno statuto scientifico, o perlomeno di verita` e verificabilita`. L’aspetto creativo dell’analista permane, ma attiene non tanto al contenuto, quanto piuttosto

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alla forma ed alla modalita` espressiva, che costituisce lo stile dell’analista. Per comprendere il processo dell’interpretazione, dobbiamo tener conto delle modalita` con le quali si forma il conflitto o comunque il processo di rimozione. Un conflitto si costituisce sulla base di una triade: pulsione o desiderio rimosso, difesa, ansia. Questi tre elementi, piu` o meno sconosciuti al paziente, danno luogo al comportamento, ai sogni ed ai sintomi del paziente. Accanto a questa triade (impulso, difesa, ansia), bisogna considerare anche un’altra triade, che e` costituita da tre diversi tipi di persone, con le quali il paziente ha avuto o ha a che fare e che definiamo triangolo di relazione:

aprire la strada verso un insight, segue una interpretazione totalizzante, abbiamo quella che viene definita da Strachey «interpretazione mutativa». Come in una situazione di Gestalt, il paziente riesce improvvisamente a dare un senso nuovo e piu` profondo ad avvenimenti fino ad allora giudicati insignificanti. Inoltre le interpretazioni devono essere date al momento giusto; se date con troppo anticipo rispetto alle capacita` del paziente sono interpretazioni premature, che in genere, nonostante siano esatte, non sortiscono un effetto terapeutico. Le interpretazioni possono essere suddivise in interpretazioni di contenuto, di transfert, delle difese, del desiderio, dirette, mutative.

a)

1)

b)

c)

situazioni attuali, ovverosia le persone significative attuali per il paziente; situazioni passate, ovverosia persone significative del passato, che sono in genere familiari; situazione di transfert, cioe` il rapporto del paziente con l’analista.

2)

Quindi se la triade impulso-difesa-ansia esprime il conflitto in termini intrapsichici ed il triangolo di relazione lo esprime in termini relazionali, al terapeuta resta un compito che puo` essere ben definito e che consiste: a)

b) c)

nel chiarire la natura dell’impulso e della difesa e nell’esplicitare le ansie piu` profonde; portare questa chiarificazione nei riguardi del presente, del passato e del transfert; fare un collegamento tra queste due aree: quella intrapsichica e quella relazionale.

In questi termini, non solo sono definiti con chiarezza gli elementi dell’interpretazione, ma anche che questa puo` essere validata proprio attraverso la conferma in queste due aree. Una interpretazione cosı` complessa e` piuttosto infrequente; in genere l’interpretazione procede per fasi parziali, nel senso che non sempre e` possibile collegare le due aree e le varie componenti tra di loro. Quando ad una serie di interpretazioni parziali, che hanno pero` la funzione di

3)

Le interpretazioni di contenuto sono quelle che riguardano fondamentalmente gli impulsi e le fantasie inconsce, senza considerare le difese che le hanno mantenute inconsce. Questa modalita` interpretativa e` la piu` frequente per i sogni. Interpretazioni di transfert: e` una delle modalita` interpretative fondamentali perche´ collega fantasie, comportamenti, emozioni del paziente con il presente, nella situazione di rapporto con l’analista. Possiamo dire che molte interpretazioni mutative, tali cioe` da comportare una reale presa di coscienza da parte del paziente, sono interpretazioni di transfert. Inoltre molto spesso le interpretazioni di transfert coinvolgono contemporaneamente anche le difese. Infatti, come vedremo, se non e` corretto considerare ogni manifestazione di transfert come una difesa, alcuni aspetti del transfert certamente sono difese. Come un transfert troppo passivo o idealizzante, un transfert molto ostile, o l’erotizzazione del transfert, cioe` il tentativo di coinvolgere l’analista se non sul piano del comportamento, per lo meno sul piano di fantasie erotiche. Interpretazione delle difese. Con quelle di transfert, costituiscono le interpretazioni piu` importanti. Sul piano strettamente intrapsichico, queste interpretazioni si rivolgono ai processi di an-

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cioe` quelli difensivi, di transfert, di contenuto. Precedentemente ho definito l’interpretazione una comunicazione verbale, ma ci sono dei casi in cui continuare ad interpretare diventa inutile, perche´ rinforza un circolo vizioso. Questo succede soprattutto nei massicci processi di negazione che vengono gestiti con il comportamento: per esempio un ripetuto ritardo o assenza dalle sedute. In questi casi puo` essere necessaria quella che definisco una «interpretazione agita», ovverosia non si interpretano piu` i motivi inconsci del comportamento, ma si comunica la decisione unilaterale, ma esplicita, di terminare il lavoro di analisi. Infine, per ultimo, ci dobbiamo chiedere qual e` la risposta media ad una interpretazione. In genere una interpretazione determina una maggiore capacita` di comprensione da parte del paziente. Ma non e` infrequente che ad una interpretazione corretta, soprattutto quanto piu` e` incisiva, il paziente possa rispondere con la frase «non e` vero», che e` un tentativo di negare l’incisivita` dell’interpretazione. Quando un’interpretazione invece e` errata, puo` insorgere una situazione di confusione da parte del paziente; ma soprattutto il ritornare iterativo nei discorsi, nei comportamenti e particolarmente nei sogni di quella dinamica, ci dimostra che l’interpretazione era errata o comunque parziale.

nullamento, di negazione, di rimozione e di proiezione del paziente, dinamiche che comportano una distorsione della conoscenza e del rapporto con la realta`. A volte queste difese sono gestite attraverso un uso scorretto della psicoterapia. Il paziente tende a scindere completamente il lavoro analitico dalla sua vita, e quindi a viverlo come una situazione astratta. Oppure il lavoro analitico viene vissuto in maniera totalizzante, come una sorta di sostituto della nevrosi. In questi casi l’interpretazione e` possibile solo se c’e` una continua presenza dell’analista, che non permette l’instaurarsi di queste difese. L’interpretazione del desiderio. Puo` sembrare che il lavoro analitico e` volto esclusivamente ad interpretare gli aspetti negativi e difensivi del paziente. In effetti, anche se questo costituisce una parte fondamentale e preliminare del lavoro, nello svolgimento emerge molto rapidamente la situazione di desiderio che va riconosciuto ed interpretato. Interpretato vuol dire capirne le qualita` soprattutto in relazione alla bramosia: e` chiaro che quanto piu` un desiderio e` intriso di bramosia, tanto meno e` valido. Ma bisogna anche considerare la validita` complessiva dell’Io: un vissuto di desiderio presuppone una discreta validita` dell’Io. Ed infine va proposta la possibilita` del superamento del desiderio verso la fase piu` matura di investimento sessuale. Interpretazioni dirette. Si basano su di una immediata comprensione controtransferale dell’inconscio del paziente e del linguaggio simbolico: e` sicuramente la modalita` che richiede maggiore abilita`. In questo caso, le parole del paziente vengono trasformate dal terapeuta in sue immagini interne, e sulla base di queste, oltre che dalla storia del paziente, il terapeuta puo` comprendere il significato profondo della comunicazione del paziente. Le interpretazioni dirette in genere sono anche mutative.

1)

Quest’ultima modalita` d’interpretazione chiaramente coinvolge tutti gli aspetti descritti prima,

2) 3)

4)

5)

3.5. Transfert. Controtransfert La concezione del transfert ha subito numerose variazioni rispetto a quella classica freudiana, che considerava fondamentalmente il transfert come «resistenza» (ovverosia una difesa contro l’analisi) del paziente, il quale, vivendo emozioni e ricordi del passato sull’analista, agiva, evitando quindi di ricordare. Concezione strettamente legata alla idea secondo cui la funzione terapeutica dell’analisi e` esclusivamente quella di recuperare i ricordi rimossi. Attualmente tre sono le concezioni principali per definire il transfert: tutti i sentimenti del paziente verso l’analista; solo quelli che esprimono la sua nevrosi; solo quelli che hanno una origine infantile.

La psicoterapia analitica

C. Rycroft sostiene che «il ‘‘transfert’’ e` il processo per cui un paziente sposta sul suo analista i sentimenti, le idee ecc., che derivano da figure precedenti della sua vita, entra in rapporto con il suo analista come se questo fosse un qualche oggetto precedente della sua vita, proietta sull’analista le rappresentazioni oggettuali acquisite come precedenti introiezioni, attribuisce all’analista il significato di un altro soggetto, di solito precedente». Questo e` certamente vero, ma parziale, perche´ nel rapporto analitico il paziente riconosce la realta` e vive anche una situazione del presente, oltre che del passato. Se il paziente vivesse esclusivamente il presente in termini di passato, dovremmo ritenere che ogni paziente e` un delirante. D’altra parte non e` facile distinguere quanto del vissuto del paziente e` frutto del rapporto presente con l’analista e quanto di sue proiezioni. Pertanto penso che sia piu` accettabile definire il transfert come la globalita` della relazione che il paziente vive nei confronti del terapeuta. In questo modo si evita anche il termine confusivo di transfert negativo o positivo, dove non si capisce se negativo e` inteso come non utile o invece come ostile nei confronti dell’analista. Infatti ritengo che, in una concezione ampia del transfert, possiamo distinguere da una parte una collaborazione ed accettazione della realta` da parte del paziente, che piu` correttamente possiamo definire «alleanza di lavoro»; e dall’altra emergenze di attacco contro l’analista, che possiamo definire «transfert ostile». Inoltre una accezione ampia del concetto di transfert evita di cadere nella trappola di considerare il transfert esclusivamente un «come se», ovverosia una finzione. Infatti, se il paziente prova amore o odio, anche se questi sentimenti possono riguardare situazioni del passato, non sono meno reali. Nella concezione del «come se», dobbiamo ritenere che l’analista e` costretto a far finta di trovarsi di fronte a derivati o sostituti di sentimenti e non a sentimenti veri e propri. Quindi considerare il transfert come l’insieme dei vissuti del paziente, sapendo che tra questi molti sono legati non alla persona dell’analista ma a figure del passato, ci permette di avere una visione piu` vera del processo analitico.

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In questo modo, piu` correttamente potremmo dire che, all’interno del lavoro analitico, si possono articolare tre modalita` di transfert: a)

b)

c)

l’uso massiccio di proiezioni o di identificazioni proiettive: e` la forma piu` regressiva che esprime anche una piu` grave patologia, in quanto indica che il paziente e` invaso da oggetti interni che non riesce a contenere; il paziente proietta sul terapeuta una serie di rapporti non superati o mal superati del suo passato; c’e` una situazione conflittuale che coinvolge il terapeuta, che pero` viene riconosciuto in parte anche per la sua realta`; il paziente vive il terapeuta come persona diversa ed altra da se´, anche se interessata e coinvolta nella ricerca.

Queste tre modalita`, anche se possono intrecciarsi, in effetti indicano una progressione evolutiva, e potremmo dire che la costituzione dell’ultima modalita` e` un segno di una maggiore consapevolezza e maturita` del paziente. Alcune volte il transfert puo` bloccarsi in una situazione ripetitiva che, basata su di una specifica dinamica, puo` connotare complessivamente tutto il lavoro di analisi. Un esempio tipico, ma non unico, e` il transfert erotico. Per transfert erotico si intende una manifesta intenzione del paziente o della paziente, nei confronti del terapeuta di sesso opposto, di voler trasformare il rapporto di analisi in rapporto erotico e sessuale. Alcune volte questo comportamento puo` esprimere una momentanea difesa dal lavoro di analisi: l’interpretazione delle angosce sottostanti puo` sbloccare la situazione. In questi casi e` piu` corretto parlare di erotizzazione del transfert. Nel transfert erotico, invece, questa dinamica tende a perpetuarsi, e molto spesso l’atteggiamento di rifiuto dell’analista non viene letto come tale, ma come una forma di ritrosia, che pertanto prima o poi verra` a cessare. Manifestazione evidente di una mancanza di rapporto con la realta`, tale da rendere impossibile, a volte, il poter proseguire la terapia. L’evidente aspetto irreale di questa dinamica permette di distinguerla nettamente da un’altra,

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con la quale frequentemente viene confusa: cioe` l’innamoramento da transfert. L’innamoramento da transfert e` una dinamica che coinvolge il paziente, non tanto sulla base di un investimento di situazioni del passato, quanto nell’ambito del riconoscimento delle qualita` del terapeuta; il che implica una capacita` di conoscenza e di investimento della realta` psichica, indizio di maturita`. L’elaborazione di questa dinamica e` facilitata dal riconoscimento delle valenze libidiche e delle emozioni del paziente, piuttosto che da un atteggiamento di rifiuto o di esclusiva interpretazione in chiave del «come se». Il problema del transfert ci apre al problema del controtransfert: termine che nel nome tradisce la sua origine. Infatti esso e` stato concettualizzato come la risposta del terapeuta alle situazioni transferali del paziente. Definizione imprecisa e limitante: e` infatti piu` esatto considerare il controtransfert (come abbiamo fatto per il transfert) come la relazione globale (e non la reazione semplicemente) del terapeuta con il paziente. In questo modo e` possibile eliminare anche la dizione ambigua di controtransfert negativo, che ancora una volta non chiarisce se e` usato per definire un controtransfert non funzionale o per definire, invece, una situazione ostile del terapeuta nei confronti del paziente. Credo sia necessario precisare allora la dinamica della controidentificazione proiettiva, che spesso genericamente ed impropriamente viene definita come controtransfert. Il paziente, come abbiamo visto, oltre le proiezioni puo` investire massicciamente il terapeuta di emozioni, affetti, angosce che non riesce a contenere, e che pertanto vengono messe non sopra (proiezioni), ma dentro l’analista (identificazione proiettiva). Cosı` l’analista viene vissuto come una parte integrante del paziente: questa dinamica, soprattutto se permanente, e` segno di una patologia grave. Di fronte a questa identificazione proiettiva, il terapeuta puo` reagire impropriamente e antiterapeuticamente con una controidentificazione proiettiva, che si manifesta come incapacita` di separare il proprio Io da quello del paziente e quindi, sul piano comportamentale, di corrispondere o di rifiutare violentemente le dinamiche del paziente. In tal caso parlare di controtransfert

positivo o negativo serve solo a confondere le idee. In questo caso ci troviamo di fronte ad una controidentificazione proiettiva del terapeuta: che sia in positivo (cioe` accettante) o in negativo (cioe` rifiutante) poco importa. Quello che importa e` che in una dinamica di questo genere non c’e` alcuna possibilita` di terapia: il terapeuta viene agito dal paziente. Quindi ben diversa da quella che deve essere la situazione del controtransfert: per cui il terapeuta deve riconoscere la realta` del paziente, elaborarne le angosce, e rispondergli in termini interpretativi. Controtransfert che nasce quindi non solo dalla relazione con il paziente, ma anche dalla capacita` del terapeuta di conoscere se stesso e di proseguire continuamente in questa ricerca. Quindi transfert-controtransfert segnala la modalita` di una relazione di crescita, di sviluppo, di terapia: e questa relazione e` stata posta, non a caso, in contrappunto con il conflitto edipico. Non solo per gli enigmi che la relazione terapeutica comporta e che bisogna risolvere; non solo perche´ puo` essere vista come modello della relazione maestro-allievo, simile quindi a quella genitore-figlio; non solo perche´ a volte il paziente puo` vivere il terapeuta come Laio, o porsi come Giocasta che cerca disperatamente di nascondere la verita`, ma per un fondamentale motivo. Anche nella terapia analitica, come nel mito di Edipo, c’e` una strada stretta (stene´ odo`s) che costringe l’analista ad un grande cimento. Riconoscere ed accettare l’altro, frustrandone le dinamiche negative, e facilitare, nel momento della maggiore capacita` ed autonomia del paziente, la separazione e la fine del lavoro di analisi.

3.6. Il sogno. L’interpretazione del sogno Il sogno e` una fondamentale attivita` psicobiologica, che coincide con la fase REM del sonno. Il sonno REM compare tardi nella scala evolutiva: negli uccelli solo nei primi giorni di vita, stabilmente nei mammiferi. Nell’uomo, nei primi due anni di vita, il sonno REM occupa il 50% circa del sonno totale. Questi dati ci confermano che al sonno REM e` affidata una funzione altamente specifica ed importante per quanto riguarda l’e-

La psicoterapia analitica

voluzione psichica. Jouvet ritiene che il sonno REM renda possibile l’attivazione del patrimonio psicologico ereditario.

3.6.1. Sonno e sogno

` certamente il sonno che permette l’emerE genza del sogno. Il sonno si distingue dalla veglia per la scarsa recettivita` agli stimoli esterni, per l’inibizione motoria e per uno stato psicologico complessivamente diverso. Questi due stadi, il sonno e la veglia, debbono restare nettamente separati e distinti tra di loro, per una reciproca e normale funzionalita`. Se il soggetto non riuscisse a separare questi due stadi, cadrebbe in una situazione di patologia, come avviene, per esempio nel delirium tremens dove il rebound di sonno REM, in piena veglia, provoca fenomeni allucinatori. Il sonno ha varie funzioni, ma due sono fondamentali: la reintegrazione energetica e la produzione del sogno che non ha, come si e` ritenuto a lungo, la funzione di preservare il sonno. L’evidenziamento di una specifica funzione neurofisiologica, il CAP (ciclyc alternating pattern) che serve a stabilizzare il sonno e che avviene solo durante la fase non-REM, e` una conferma ulteriore, su base neurofisiologica, che il sogno non e` un «esaudimento allucinatorio dei desideri», necessario a proteggere il sonno. Le funzioni del sogno sono invece molteplici e non del tutto chiarite. Le piu` importanti sono: attivare i circuiti cerebrali, attivare il passaggio delle informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine ed inoltre, probabilmente, eliminare una serie di informazioni inutili o superflue. Ma sicuramente il sogno assolve anche una funzione, quella forse da piu` tempo accertata, di aprire al mondo dell’inconscio, avendo parzialmente chiuso, con il sonno, al mondo esterno. Ma prima di affrontare questo problema, credo sia necessario sottolineare un particolare aspetto del sogno. Noi sappiamo che il sogno avviene, probabilmente occupandone gran parte, nella fase REM, che nell’adulto corrisponde a circa il 20% del sonno totale, ovverosia circa 80-90 minuti per notte. Sappiamo inoltre che il sogno, per quanto articolato e complesso, puo` avvenire nell’arco di

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pochi secondi. Ora, mediamente, a parte rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la complessiva produzione onirica noi riusciamo a ricordarne solo una parte minima. Dobbiamo dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva attivita` onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo. Nel senso che se probabilmente l’attivita` onirica nel suo insieme ha funzioni numerose e complesse, il sogno ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano, riguardano esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche psicologiche conflittuali o comunque piu` importanti, in quel momento, per quella persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano sono tentativi di visualizzazione, ed a volte tentativi di risoluzione, di conflitti, problemi o di particolari dinamiche psicologiche del soggetto.

3.6.2. Il linguaggio del sogno

Il sogno si esprime mediante un linguaggio la cui caratteristica fondamentale e` di essere costituito prevalentemente per immagini. Il bambino conosce il mondo attraverso le sensazioni tattili, acustiche, ma soprattutto visive. All’inizio non c’e` il verbo, ma l’immagine, che deve essere distinta dalla pura sensazione visiva perche´ indice di una capacita` di organizzazione psichica piu` complessa. Il bambino recepisce miriadi di sensazioni visive, le seleziona e le elabora soprattutto sulla base della continuita` e della ripetitivita` dell’oggetto. Dal momento che riesce a formare e mantenere le immagini, il bambino comincia a crearne di nuove ed a giocarci: il sogno puo` essere visto come una continuazione di questa attivita` ludica. Il linguaggio onirico e` un linguaggio per immagini, e di queste conserva una proprieta` caratteristica: la sinteticita`. Su un piano evolutivo culturale, possiamo paragonare il sogno alla scrittura ideografica, paragone che ci permette di comprenderne anche un’altra caratteristica. L’immagine ci fornisce una informazione piu` rapida e

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sintetica, ma in qualche modo anche meno definita e precisa. Ovverosia l’immagine, piu` della parola, puo` avere significati multipli, fenomeno che si esplica con due modalita` del linguaggio onirico: la condensazione e lo spostamento, ovverosia la possibilita` che ha l’immagine di fondersi o di sostituirsi ad un’altra. Questi due processi danno luogo al simbolo, che e` qualcosa che si riferisce o rappresenta qualche altra cosa. A differenza del segno, che indica invece la presenza di un’entita` specifica. Sono inoltre caratteristiche del linguaggio onirico altre due modalita`, tipiche del processo primario: mancanza delle categorie temporospaziali e persistenza del principio di contraddizione, per cui possono accadere cose antitetiche ed opposte senza che questo desti nel sognatore stupore o incredulita`. Quindi la struttura del linguaggio onirico e` caratterizzata da spostamento, condensazione, simbolismo ed assenza sia del principio di continuita` e contiguita`, sia di quello di non contraddizione. Se questa e` la struttura del linguaggio onirico, i contenuti sono immagini che possono derivare da: a) b) c)

immagini riguardanti il passato; immagini tratte da situazioni presenti (resti diurni); costituzione di immagini completamente nuove.

Le scene possono essere semplici o molto complesse ed articolate. Normalmente il soggetto vive il sogno come realta`; a volte invece «sa» che sta sognando. Questa evenienza puo` indicare un tentativo di superamento dell’angoscia, nel senso che il contenuto del sogno potrebbe suscitare angoscia, ma pensare che si sta sognando e` un modo per sdrammatizzarlo. L’esperienza onirica viene successivamente, nella veglia, organizzata in un racconto, ed e` questo racconto del sogno che da` la possibilita` di interpretarlo.

3.6.3. L’interpretazione del sogno

A partire dal racconto del sogno, e` possibile interpretarlo. Ma cosa significa interpretare un

sogno? Interpretare, etimologicamente (interpretium) vuol dire mediare, ed e` esattamente quanto bisogna fare. Ovverosia mediare tra il conscio (racconto del sogno) e l’inconscio (esperienza onirica) del paziente, ma anche tra quest’ultimo ed il terapeuta che costituisce il referente del racconto del sogno. Questi due livelli rendono possibile l’interpretazione, che significa quindi traduzione dal linguaggio onirico al linguaggio del processo secondario, all’interno di una relazione specifica, quella terapeutica, che da` significato e chiarezza a precedenti o ad attuali dinamiche di rapporto. Il sogno e` comprensibile ed interpretabile anche attraverso una lettura simbolica di alcune immagini: come per esempio l’acqua, il mare, il bambino, la casa, l’auto ecc. Per esempio la casa puo` essere espressione di una rappresentazione del proprio corpo, l’auto di un assetto di corazza caratteriale ecc. Ma e` solo il contesto che rende possibile una corretta lettura. Per contesto deve intendersi un insieme di fattori che sono: la situazione psicologica del paziente, il suo livello di insight, il momento particolare del lavoro di analisi o particolari situazioni dell’analisi (come le separazioni) e soprattutto quanto il paziente sta vivendo complessivamente in quel momento. Sono le situazioni attuali che, riattivando situazioni anche molto antiche, a`ncorano il sogno ad un preciso significato. Staccato da questo contesto, il sogno diventa interpretabile in tutti i modi possibili: cioe` praticamente e` ininterpretabile. Questo indica la necessaria, stretta correlazione che ci deve essere tra la vita del paziente, la realta` esterna e la psicoterapia analitica. Se la situazione analitica diventa il luogo privilegiato della fantasticheria, figlia della scissione terapia-realta` e dell’annullamento di quest’ultima, non e` piu` psicoterapia, ma coazione a confessare. Con questo non si nega che il sogno ha in genere un riferimento al transfert: ma molte volte e` da tener presente che se il sogno puo` essere compreso nella dinamica del transfert, non deve essere interpretato sempre e necessariamente in riferimento al transfert. Rimandare il paziente in una triangolazione continua, dal vissuto del transfert e dai vissuti passati riattivati alle situazioni attuali dell’hic et nunc, puo` servire ad aumentare ulteriormente la sua dipendenza.

La psicoterapia analitica

Ma quale e` il processo che rende interpretabile il sogno? Esistono due posizioni fondamentali. Una si basa esclusivamente sulla risonanza emotiva del terapeuta, che accogliendo il racconto del sogno lo trasforma in sue immagini interne. Immagini che danno la possibilita` di collegare ed associare, non in modo arbitrario, ma sul binario di quel controtransfert specifico: e` una interpretazione immediata, che si basa sulla risonanza inconscia tra terapeuta e paziente. L’altra cerca di «analizzare» il sogno, attraverso le libere associazioni del paziente: e` un metodo che in genere funziona poco. Il sogno e` una comunicazione sintetica e globale. O questa viene compresa, perlomeno nel suo senso generale, abbastanza rapidamente dal terapeuta, oppure le libere associazioni del paziente possono portare molto lontano, perche´ il paziente puo` utilizzarle solo in funzione delle sue difese. Le libere associazioni, usate con discrezione, possono essere utili invece in due casi. O quando il terapeuta, avendo una comprensione del sogno, vuole stimolare il paziente a trovarne la soluzione; oppure quando puo` essere difficile coglierne il significato. Comunque, piu` che le libere associazioni si tratta di far rintracciare situazioni attuali o vissuti relativi a precedenti sedute, attinenti con il sogno.

3.6.4. Alcuni sogni particolari

Descrivere le numerose e complesse possibilita` che esprime la scena onirica e` assolutamente ` possibile proporre impossibile in poche pagine. E alcune linee generali, che debbono pero` sempre essere considerate come situazioni esemplificative. Se cerchiamo di scomporre la scena onirica, possiamo trovare alcuni elementi comuni: 1) 2)

ci sono personaggi piu` o meno numerosi, che possono essere conosciuti o sconosciuti; il sognatore puo` essere assente, oppure puo` essere spettatore o attore o avere ambedue le funzioni;

3) 4)

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ci sono scenari e luoghi significativi; ci sono azioni e comportamenti vari.

1) Il problema dei personaggi del sogno e` molto complesso. In genere una folla puo` testimoniare una situazione pulsionale a livelli di guardia ed a volte una situazione di smarrimento e di confusione. Personaggi sconosciuti, o comunque non identificabili, tratteggiati sulla base della capacita` creativa dell’inconscio (mediante spostamenti e condensazioni), in genere esprimono dinamiche intrapsichiche del sognatore che le visualizza e fa agire sul palcoscenico del sogno. Due sogni consecutivi. «Un bambino in cima ad una scala piange disperatamente perche´ il maestro non ha apprezzato il suo compito. Compare il maestro: e` un nano brutto e cattivo che il sognatore punisce duramente». «Lui chiede un favore ad una donna, questa acconsente, ma vuole essere accompagnata in un bar quella sera. Quando ritorna la donna e` ben curata e vestita, ma e` evidente che, fraintendendo il sı` del sognatore, crede che questi sia innamorato di lei. Questi le dice che non e` vero: la donna e` delusa e si allontana camminando male: e` un po’ handicappata». Nei due sogni e` evidente e comune una dinamica di delusione. Nel primo il sognatore rappresenta se stesso da bambino, che di fronte alle delusioni non riusciva a crescere (il nano) e diventava cattivo, tanto da dover essere punito dagli adulti. Nel secondo sogno, invece, e` rappresentata una sua parte piu` adulta, che, di fronte ad una delusione, diventa leggermente handicappata. Le dinamiche inconsce vengono agite quindi attraverso personaggi non conosciuti, ma altamente simbolici: una donna, un uomo, un bambino, un nano, ecc. Spesso invece il personaggio del sogno e` chiaramente identificato, e molto spesso e` il terapeuta che puo` essere vissuto in molteplici modi. A volte l’analista e` riconosciuto come tale, ma con delle modificazioni. Se il sognatore non entra nella scena nemmeno come spettatore, e` indizio di un massiccio processo di negazione e di proiezione e puo` segnalare una rottura del rapporto. «L’analista e` nell’Antartide, in mezzo ai ghiac-

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ciai ed ha una specie di maschera sul viso». Questo sogno testimonia la lontananza e la freddezza con la quale e` vissuto il terapeuta: il rapporto sembra al limite della rottura. L’analista e` rappresentato come tale ed il sognatore e` spettatore o attore dell’azione. L’analista puo` essere visto come due persone diverse (indice di una ambivalenza proiettata), oppure in due situazioni diverse, che spesso possono testimoniare una sottile dinamica d’invidia, come nei due sogni seguenti. «La paziente va a casa del terapeuta: c’e` una cena preparata. Il terapeuta comincia a parlarle dei propri problemi, e lei insorge dicendo ‘‘ma questa non e` un’analisi!’’». «Lei sul treno: entra un uomo e lei vorrebbe che andasse a sedersi vicino a lei». La paziente vuole che io mi metta al suo livello (andare a sedere vicino a lei), il che potrebbe essere indizio, sia pure non certo, di una negazione che emerge chiaramente dal primo sogno. Da una parte c’e` la dinamica della scissione, anche se non molto esplicita: ci sono due analisti diversi, uno a casa ed uno allo studio. Ma il fatto che l’analista, a casa, parli dei propri problemi, significa che la paziente attribuisce le capacita` del terapeuta non alle sue dimensioni personali, ma al luogo di lavoro. Al di fuori dello studio l’analista perde le sue capacita`. Pertanto e` giustificato per la paziente rifiutare questo rapporto di lavoro (che e` stato svalutato) e chiederne uno diverso, sulla base di una dinamica di bramosia (la cena preparata). 2) Il sognatore e` presente come attore o come spettatore, ed il significato si articola strettamente con le azioni del sogno. Varie possono essere le situazioni. A volte uno o piu` personaggi possono morire o dissolversi. Questo puo` servire molte volte per visualizzare la dinamica di fantasia di sparizione verso situazioni interne. Ovverosia il personaggio rappresenta una parte di se´ superata e quindi «morta». Sogno. «Lei con dei vestiti neri in mano. Sta in casa di un uomo verso cui prova una forte gelosia e molta rabbia, perche´ teme che lui possa avere altri rapporti. Va via sbattendo la porta. Si ritrova in una macchina bianca; in senso inverso, muove una macchina nera con due donne a bor-

do. Una ha i capelli neri; la macchina va a schiantarsi contro un muro. La donna con i capelli neri muore; l’altra sembra bruciare. Si reca verso la paziente e la incita a continuare, andare avanti. La paziente la tocca e non solo non scotta, ma e` bagnata come un bambino appena nato». Riconosce, nella donna dai capelli neri e lisci, se stessa di alcuni anni prima. La donna con i vestiti neri in mano e quella con i capelli neri rappresentano una sua dimensione del passato che si manifestava soprattutto con la gelosia e con la rabbia. Questa dimensione muore, sparisce per dare luogo ad una dimensione piu` evoluta, ma anche molto fragile: e` appena nata, e puo` quindi rischiare di bruciare per le emozioni. In questo sogno si evidenzia un altro dato caratteristico: il significato di alcuni colori. Il nero e` spesso collegato con il buio, che puo` indicare o una situazione di annullamento completo, come nei casi ove la luce si spegne; oppure una dinamica di bramosia o di invidia che non fa sparire gli oggetti, ma li rende neri. Il bianco, invece, e` collegato spesso con una situazione di possibilita` ` come uno schermo o emergente, ma fragile. E come una pagina bianca (fenomeno di Isakower), un desiderio emergente e quindi poco strutturato. 3) Spesso nel sogno compaiono scene che rappresentano prevalentemente dei luoghi che hanno una forte valenza emotiva. Sogno di una donna. «Lei si trova in alto, sulla scogliera della citta` di mare dove e` nata. Le rocce sono nere. In fondo, su questi scogli neri, una bambina giace morta». La paziente, che ha una figlia di sei anni, sta cominciando a rivivere numerose angosce, collegate al disturbato rapporto con sua madre. Le rocce nere rappresentano il suo vissuto da bambina con la madre, che con durezza rifiutava ogni rapporto ed ogni minimo contatto con lei, tanto da farla morire. Sogno di un ragazzo. «Una pianura deserta: in lontananza un altopiano verdeggiante. Il paziente lo scala, ed arrivato in cima, vede in lontananza una citta` piena di fermento». Il paziente sta uscendo da una situazione di isolamento affettivo. La scalata, difficile ma non

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impossibile, esprime la sua fatica, ma anche la speranza di recuperare la sua vitalita`. 4) Le azioni nel sogno possono essere lette prevalentemente in chiave del transfert e veicolano dinamiche di desiderio, di bramosia, di invidia. O anche spesso timori legati alla dinamica del transfert. Per esempio, il paziente che nel sogno anziche´ parlare con l’analista gli telefona, esprime che la comunicazione e` attivata, ma che puo` interrompersi se non e` sostenuta dalla vista come accade durante la separazione: interruzione che e` segnalata da una caduta della linea telefonica. I sogni in genere esprimono situazioni piu` o meno conflittuali; ma ci sono sogni che esprimono invece la risoluzione di un conflitto. Questi sogni, importanti e significativi per il paziente, sono vissuti con una sensazione di pienezza e di armonia tra il vissuto onirico e quanto egli sente da sveglio. Sogno. «La madre deve operarsi per un disturbo non grave, ma che e` molto antico. Lei vede la casa dei genitori: e` piu` piccola, ma piu` compatta e senza fronzoli rispetto a quella reale. Ha deciso di praticare l’uscita del garage sul lato antistante la casa. In questo modo si sente piu` libera, perche´ il rumore dell’auto non disturbera` i vicini». Nella realta` l’uscita del garage e` sul lato posteriore della casa, ed in effetti, dice la paziente, a notte fonda, nel salire la rampa il rumore della macchina puo` dare fastidio. Interpreto questo sogno, vissuto con molta emozione dalla paziente, come un suo ridimensionare il conflitto con i genitori, che lei aveva sempre ipertrofizzato. In questo modo, lei e` piu` libera ed autonoma, nella misura in cui sente di non essere piu` controllata, ma anche di non controllare gli altri. L’operazione che la madre dovra` fare e` il segno di un suo riconoscere che molte problematiche della madre e con la madre non appartengono piu` a lei. Queste rapidissime esemplificazioni non hanno certo la pretesa di delineare la poliedrica possibilita` creativa del sogno e la contemporanea possibilita` di trovarne una chiave interpretativa, ma intendono solo segnalare la possibilita` di un percorso.

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3.7. Le separazioni Parlando del setting, ho accennato ad una organizzazione di lavoro della psicoterapia che prevede, oltre le due o tre sedute settimanali, due periodi di separazione (di una settimana e di un mese) stabiliti in anticipo, e vincolanti in maniera paritaria sia il terapeuta che il paziente. ` chiaro che gia` tra una seduta e l’altra c’e` E una separazione: ma questa, pur con qualche difficolta`, in genere piu` evidente nella seduta che segue la domenica, e` sufficientemente accettata. Le difficolta` insorgono invece rispetto ad una separazione che comporta un lasso di tempo maggiore. Definisco questa interruzione temporanea del lavoro analitico separazione e non vacanza (come invece la chiamano i pazienti), perche´ la ritengo parte integrante ed inevitabile del lavoro di analisi. Ma cosa significa separazione? Quando abbiamo difficolta` a capire, quando l’abuso della parola porta a perderne il significato, un aiuto ci puo` venire risalendo il profondo fiume dell’etimologia. Separazione deriva dal latino: (de e parare) che vuol dire apprestare, preparare in un altro posto. Questo vuol dire che separazione non e` assenza, vacanza (da vacuum), cioe` il caos; ma e` un ordine diverso. Questa specificazione e` fondamentale, perche´ e` solo all’interno di un lavoro che non prevede assenze che la separazione, pur essendo frustrante per il paziente, e` una frustrazione con interesse e quindi terapeutica. Infatti la separazione frustra la dipendenza, la tendenza alla simbiosi, il bisogno di maternage del paziente, e lo porta ad affrontare dinamiche inconsce piu` profonde. La separazione comporta sempre, come primo vissuto, l’interruzione di un ritmo; l’alterazione del ritmo comporta un malessere, che riattiva dinamiche inconsce profonde. Ma cosa succede durante una separazione? Varie dinamiche e vari meccanismi difensivi che ora cerchero` di descrivere brevemente. Durante la separazione c’e` una reale assenza dell’analista. Ma l’assenza dell’analista e` vissuta dal paziente come sadica e pericolosa. Il paziente teme che, con l’assenza, l’analista gestisca una dinamica di

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disinteresse e di annullamento nei suoi confronti. L’analista assente e` vissuto come colui che «fa fuori» l’immagine interna del paziente e quindi il paziente stesso. Per capire l’intensita` e la drammaticita` di questo vissuto, citero` una riflessione di Pirandello (citata da F. Fornari, 1985). Pirandello, trovandosi in Germania, ebbe con ritardo la notizia della morte della madre e fece le seguenti riflessioni: «...quando non lo sapevo, per quanto morta, lei continuava ad essere viva per me. Al contrario e` lei che non poteva piu` pensarmi e sono io allora quello che e` morto perche´ non saro` piu` nei suoi pensieri. Quindi la vera perdita e` l’immagine di noi stessi presso la persona cara. Noi possiamo pensarla, ma non possiamo piu` ` come se morissimo noi, in essere pensati da lei. E quanto non c’e` piu` chi ci pensa». Questa riflessione di Pirandello mi sembra fondamentale, perche´ e` quello che vive il paziente di fronte all’assenza dell’analista. L’analista non pensa piu` a lui; quindi lui, il paziente, e` come se fosse morto. Per reagire contro questa fantasticheria di essere fatto fuori, l’analizzando muove la fantasia di sparizione. Fa sparire l’oggetto vissuto come frustrante, sadico, mortifero. Ma in questo modo annulla soprattutto l’immagine, nascente dentro di se´, del terapeuta, base del rapporto, finendo per cadere in una situazione di vuoto e di indiffe` una situazione ben nota: e` quella che renza. E Freud chiama la crosta del lunedı`; ma e` anche quella che Freud non ha capito, proprio a proposito di una situazione vissuta da vicino. Nel gioco del rocchetto, Freud non ha capito che il bambino reagiva alle continue sparizioni della madre, non cambiando una situazione da passiva in attiva, ma gestendo una fantasia di sparizione che lo portera`, quando la madre sara` definitivamente scomparsa, a reagire con indifferenza. «Quando il bambino ebbe 5 anni e 9 mesi la madre morı`. Ora che la madre era andata via (...), il bambino non mostro` alcun segno di afflizione» (Freud, vol. IX, pag. 202). Ed e` quello che succede al paziente, che dopo una separazione dall’analista ritorna spesso «guarito», cioe` indifferente. Se questa specifica fantasia non viene interpretata, le possibilita` di lavoro trasformativo sono ridotte al minimo. Esaminiamo ora rapidamente quali possono

essere le dinamiche connesse alla separazione, e l’evoluzione conseguente l’interpretazione di queste dinamiche. Si tratta di quattro dinamiche ben precise, la cui evoluzione ci segnala anche la possibilita` di poter proporre una separazione definitiva: la fine del rapporto terapeutico. 1) La prima modalita`, sia in ordine di tempo che in ordine di importanza, e` certamente l’annullamento, come fantasia di sparizione contro l’oggetto. Esso puo` avvenire con due forme diverse. a)

b)

Puo` evidenziarsi nella fase che precede la separazione. Nonostante la presenza dell’analista, il paziente non lo vede piu`, lo an` un nulla, e` come se gia` non ci fosse piu`. E gesto magico, onnipotente: e` un gesto che scatta non di fronte alla delusione, all’angoscia di una assenza reale, bensı` come un meccanismo predeterminato, innescato come una bomba ad orologeria e che rischia di distruggere tutto. Sogno di una paziente, in una fase precedente la separazione. «Un side-car, c’e` un uomo che guida ed una bambina che ha inghiottito una sorta di bomba ad orologeria. Questa scoppia, e la paziente vede che la bambina e l’uomo non sono dilaniati, ma ` diventano evanescenti e poi scompaiono». E il meccanismo piu` grave, non solo perche´ avviene in presenza dell’analista, ma soprattutto perche´ non deriva dal rapporto con ` un meccanismo gia` preordinato l’analista. E e che scatta a comando. Ovverosia esso si e` formato e si e` sviluppato all’interno di precedenti dinamiche relazionali. E potremmo dire che non c’e` bisogno nemmeno del fatto materiale della separazione. Scatta prima dell’avvenimento che e` solo immaginato. La seconda forma e` invece collegata realmente alla separazione che e` vissuta, da parte del paziente, come fantasticheria di scomparsa dell’analista, che viene poi investito proiettivamente da questa dinamica. Cioe` per il paziente sara` l’analista momentaneamente assente che lo fara` scomparire. Il paziente non puo` fidarsi: la frustrazione e`

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eccessiva, la frustrazione e` sadica: egli non puo` tollerarla. Solo facendo scomparire, cioe` annullando l’oggetto sadico, il paziente si sentira` sollevato. E spesso, al ritorno, il paziente si mostrera` indifferente. Il paziente ha sofferto troppo, per precedenti separazioni, vissute come perdite definitive; non vuole rivivere ancora una volta una situazione simile. Meglio annullare, dimenticare, cosı` non sentira` piu` dolore. Sogno di un paziente durante una fase di separazione. «Lui e` in una casa a picco sul mare. Di fronte, lontano, vede una casa illuminata ed un’ombra che si muove. All’improvviso una ondata enorme, nera, irrompe nella sua casa, sommergendola». ` evidente, in questo caso, che la separaE zione e` stata accettata in un primo tempo con la possibilita` di mantenere un legame attraverso l’immagine dell’analista, anche se e` appena un’ombra. Ma il perdurare della separazione fa scattare un meccanismo pulsionale (l’onda enorme e nera) che si esprime come fantasia di sparizione e che dimostra chiaramente come questa onda nera contro l’oggetto sommerge e fa sparire l’Io nascente del paziente. La possibilita` di evidenziare ed interpretare queste dinamiche non solo permette un superamento delle stesse, ma puo` essere considerata anche come indice predittivo sulla struttura psichica del paziente e sulla sua evoluzione complessiva. Riporto brevemente due esemplificazioni. Una donna sposata, dopo alcuni mesi di analisi e prima di una separazione di una settimana, fa un sogno che l’angoscia moltissimo. «Lei sta ` prematuro picchiando selvaggiamente la figlia». E interpretare il sogno in chiave di transfert, e quindi viene utilizzato come esemplificazione della sua complessa problematica con la figlia adolescente. Agli inizi di luglio, mi comunica che dovra` iniziare le sue «vacanze» prima del previsto e quindi non verra` a partire dalla meta` del mese. Le comunico che, come da contratto iniziale, io continuero` ad esserci ed a lavorare. Nella seduta

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successiva, mi comunica che ha pensato a lungo e ritiene opportuno rimanere e continuare l’analisi, cosa che avviene regolarmente. Nell’ultima seduta porta il seguente sogno: «Lei prende la figlia per i capelli e la strattona. Sente una sorta di dispiacere». Collega questo sogno con il ricordo dei litigi con sua madre, ma soprattutto con il ricordo della morte della madre, avvenuta ` evidente e banale che quando lei aveva 15 anni. E dal sogno emerge una dinamica di identificazione della paziente con sua madre in una dinamica di rapporto sado-masochistico. Quello che e` meno evidente, e` che la paziente ha vissuto la morte della madre come ultimo, definitivo gesto sadico di questa nei suoi confronti: ovverosia la morte come punizione, vendetta. Ancora meno evidente e` che lei ha cercato di difendersi, cercando a sua volta di far sparire la madre. Ed e` quanto lei tenta di ripetere in analisi, con l’annuncio di an` evidente che lei nel sogno dare via prima. E rappresenta se stessa come figlia (cioe` come analizzanda) e quindi nel rapporto di transfert. Ma mentre nella prima separazione il vissuto e` di essere picchiata selvaggiamente, nel secondo e` quello di essere «ripresa» per i capelli, rispetto ad una sua tendenza ad annullare. L’emozione e` collegata non solo ad una modificazione di una sua tendenza sadica (come emerge dal primo sogno), ma anche ad una capacita` empatica nei confronti dell’analista: capire che la frustrazione dell’analista non era dettata da un atteggiamento sadico, ma da un interesse nei suoi confronti. La mia proposizione di continuare il lavoro analitico, recepita dalla paziente, le aveva consentito la possibilita` di non attuare una dinamica di annullamento. Si era limitata ad annunciarlo: ma questo comportamento indica una capacita` recettiva ed una possibilita` di investimento libidico ben diverse da quelle che si evidenziano nel caso che segue. Una ragazza di 26 anni, prima della separazione, salta due sedute. Al ritorno mi dice che, molto stanca, aveva avuto assolutamente bisogno ` tutta eccitata, dice di essersi di una vacanza. E molto divertita, ma in effetti si evidenzia uno stato di distacco emotivo e di indifferenza. Quando le chiedo come mai aveva dovuto anticipare di una settimana la «sua» vacanza, mi dice

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che lavora moltissimo e che in certi momenti ha bisogno di fare una vacanza. Ma accenna anche ad un altro particolare. Da qualche mese sul posto di lavoro sono giunte due colleghe nuove. Lei si e` sentita messa in disparte, rispetto al gruppo, fino a sentirsi quasi esclusa. Quando le ho comunicato che ci sarebbe stata una settimana di separazione in analisi (avevo intuito che la paziente l’aveva rimosso), si e` sentita «stanchissima», tanto da dover andare in vacanza. Interpreto che lei, per rabbia nei miei confronti, ha annullato completamente il rapporto. «Non e` vero niente, risponde, e` una cosa che faccio tutti gli anni». Ma poi aggiunge (a rendere ancora piu` chiara la negazione implicita nella sua affermazione) che lei andando in vacanza stacca tutto, cancella tutto e si sente come un’altra persona, con grandi possibilita`. Anche se il ritorno e` molto faticoso e opprimente, e prova una strana sensazione: la citta` le sembra strana ed estranea, come se fosse cambiata. ` evidente la dinamica sottostante. La paE ziente non riesce a tollerare minimamente le frustrazioni, soprattutto se queste le fanno vivere una situazione di essere messa da parte. Ha un Io molto fragile, con bisogno di un continuo rinforzo e di supporti narcisistici che le permettono di sentirsi «la migliore». Quando non succede, anche per avvenimenti banali lei opera un progressivo allontanamento dell’oggetto vissuto come frustrante, fino ad arrivare alla vacanza, che per lei corrisponde al senso etimologico, cioe` fare un «vuoto», annullare tutto. Questo annullamento porta alla emergenza di fantasticherie onnipotenti: fantastica avventure meravigliose, si sente completamente libera da ogni legame, niente piu` la frustra. In questo caso l’annullamento non e` annunciato, ma messo direttamente in atto: non e` una possibilita`, ma e` una dinamica ben precisa e ripetitiva. Quindi, come dicevo, questa modalita` di comportamento, emersa di fronte ad una separazione, implica anche un valore predittivo sulla struttura ` evidente che in questo psichica della paziente. E caso le capacita` di investimento libidico (almeno al momento), sono estremamente ridotte; c’e` una incapacita` di mantenere un legame, che e` il primo segno di una possibilita` di passare ad una situa-

zione piu` matura di rapporto, mentre la dimensione narcisistica e` evidente e marcata. Da queste due esemplificazioni, risalta chiaramente come le separazioni implicano emergenze di dinamiche che altrimenti rimarrebbero molto piu` coperte e come le modalita` di reazione possono essere utilizzate anche quali possibilita` predittive della struttura psichica dell’analizzando. Ma ci sono anche altre modalita`, che certamente possiamo definire piu` mature, e che nascono dalla continua, iterativa interpretazione delle dinamiche sopradescritte. 2) In questi casi, una volta avvenuta, la sepa` razione fa scattare l’angoscia dell’abbandono. E evidente che il vissuto dall’abbandono presuppone una dinamica piu` matura, implica l’esistenza di un legame. E se questo legame si interrompe (anche se momentaneamente), il paziente si angoscia e cerca di difendersi dall’angoscia con un meccanismo che oscilla tra l’identificazione e la negazione. Anche se a volte queste dinamiche possono comparire separatamente, in genere esse sono correlate. Questo fenomeno e` molto significativo, perche´ mostra chiaramente non solo che l’identificazione e` un meccanismo difensivo che scatta rispetto alla perdita, ma che e` sempre intriso di elementi di negazione, cioe` di svalutazione. Il sogno seguente e` molto paradigmatico. Al ritorno da un lungo periodo di separazione (mese di agosto), il paziente racconta: «Mi mettevo davanti allo specchio del gel nei capelli. Ma poi mi accorgevo che di capelli ne avevo tantissimi e quindi non solo il gel non mi serviva, ma era un elemento negativo, perche´ mi rendeva i capelli appiccicosi». Dice che lui, avendo pochi capelli, in realta` usa il gel per mantenerli in ordine. Interpreto che, rispetto alla separazione, egli ha utilizzato un meccanismo di identificazione con l’analista; lui davanti allo specchio era l’analista, e che avendo tanti capelli (ovverosia non avendo piu` problemi), l’analisi (=gel) non solo non serviva piu`, ma addirittura gli dava fastidio, perche´ diventava una situazione «appiccicosa». Evidente ulteriore negazione del dolore per la separazione. Dopo l’interpretazione, il paziente dice che in effetti i capelli che aveva nel sogno sono proprio quelli dell’analista. Man mano che anche questa dinamica di iden-

La psicoterapia analitica

tificazione-negazione viene vissuta dal paziente, ed e` interpretata dall’analista, ne emerge una nuova. 3) Il paziente, che riesce ormai a mantenere un rapporto con il terapeuta, teme che questi durante la separazione, vissuta dal paziente non piu` come vacanza, possa «distrarsi». Il paziente, pur fidandosi del terapeuta, teme la di lui assenza fisica, come possibilita` di essere dimenticato, perche´ l’analista e` tutto preso dai piaceri della vacanza. Ovverosia quest’ultimo non e` vissuto piu` come sadico, ma semplicemente come un «essere umano» che come tale puo` distrarsi. Cosı` come puo` avvenire al paziente, che ora e` diventato piu` umano (perche´ liberato della fantasia di sparizione), ma e` sempre esposto al rischio ed alla delusione. L’invito al terapeuta e` pertanto: «Non ti dimenticare di me». Sogno di una paziente in una fase molto progredita dell’analisi. «Lei e` seduta vicino all’analista che sta guidando, e parlano. L’analista ad un certo punto smette di parlare, e vuole ascoltare della musica. Comincia a manovrare le manopole della radio. L’auto finisce fuori strada». Molto chiaramente la paziente esprime il timore che dal momento che l’analista non c’e` (smette di parlare), egli possa distrarsi, cioe` non essere attento alla paziente bensı`, preso da bisogni e desideri personali, perdere la tenuta di strada, ovverosia il rapporto: rischio che la pa` evidente che si tratta di ziente vive come fatale. E una proiezione della paziente. 4) Infine, man mano che la terapia volge al termine, comincia a comparire, e non solo nei sogni, un vissuto doloroso, collegato alla separa` una dinamica complessa perche´ corrizione. E sponde non solo alla possibilita` di mantenere presente l’oggetto (non si ha piu` ne´ annullamento, ne´ l’introiezione del terapeuta), ma alla possibilita` di riconoscergli una sua autonomia e liberta` e quindi dover accettare la separazione nella sua realta` umana: cioe` come distacco. Distacco che non genera piu` depressione, ma nostalgia; ovverosia l’ambivalenza e la rabbia sono dinamiche elaborate e superate, come e` superato il vincolo del legame. Si genera un vissuto che e` l’equivalente di un lutto, anche se momentaneo, espressione di una maggiore validita` e maturita`

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dell’Io del paziente nei confronti delle frustrazioni e della realta`. ` chiaro che non sempre queste dinamiche si E superano facilmente: spesso una dinamica che sembrava essere superata ritorna di nuovo ad agire.

3.8. L’analisi terminabile. La fine del lavoro psicoterapeutico Il concetto di perdita, nei rapporti umani, deve essere visualizzato alla luce delle modalita` di formazione dell’immagine-ricordo dell’Altro significativo; e soprattutto della capacita` di persistenza e di mantenimento di questa immagine che e` collegata all’investimento libidico. Ma bisogna anche tener presente un’altra «capacita`», che e` quella di far scomparire l’Altro e conseguentemente l’immagine interna, espressione questa dell’istinto di morte. Quindi non si puo` identificare la separazione con la perdita, come non si puo` identificare la separazione con la vacanza. La perdita, o e` reale perche´ legata alla scomparsa materiale e duratura dell’Altro, oppure e` legata ad una precisa dinamica psichica. L’angoscia del paziente per la separazione, vissuta invece (sulla base di precedenti esperienze) come perdita, nasce dalla convinzione che l’Altro significativo tende a cancellare l’immagine del paziente. Se questo accade, soprattutto nel delicato momento della rottura della corazza caratteriale e quindi nel momento della fragile costituzione di un rapporto di base, attraverso l’identificazione, la separazione e` equiparata ad una perdita assoluta dell’altro: situazione che si tende a fronteggiare con la fantasia di sparizione contro l’Altro significativo, il che comporta la caduta nel vuoto e nel buio dell’indifferenza. Ed il terapeuta e` certamente — e per un lungo periodo di tempo — non solo una persona significativa, ma la piu` significativa per il paziente. Di qui la necessita` di una presenza costante, di una stabilita` e di una continuita` dell’analista che solo in questo modo puo` opporsi alla tendenza inevitabile del paziente a vivere la separazione come perdita assoluta e totale.

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Avviandomi alle conclusioni, diro` che la continua elaborazione delle separazioni e delle conseguenti dinamiche difensive puo` portare pian piano il paziente ad affrontare l’ultima separazione: cioe` la fine del lavoro. Accettando la fine, senza scadere nell’annullamento e nella depressione, bensı` come lutto, cioe` come perdita reale. Perdita reale, ma che non puo` riguardare il terapeuta che altrimenti dovrebbe essere vissuto come scomparso-morto, bensı` la fine di quel lavoro-cammino fatto insieme. Quindi non e` necessario, come spesso viene teorizzato, che la fine di una psicoterapia «ben riuscita» debba esitare nella fine del rapporto stesso. Quello che sicuramente termina e` il lavoro di analisi, e questo termina nel momento in cui il paziente non solo non vive piu` la separazione come abbandono-morte, ma e` anche in grado di poter proseguire il cammino. Non sempre questo e` facile, e pertanto il paziente cerchera` spesso, proprio in previsione di un possibile termine del lavoro, di riottenere quello che teme di star perdendo. Ma molti segni ci indicano se questo e` un timore o una reale incapacita`. Una paziente, dopo un lungo lavoro di analisi, ha molta difficolta` ad accettarne la fine. Questo problema viene elaborato a lungo. Un sogno: «Lei consulta un vocabolario per trovare la parola morte. Non riesce a trovarla, ma trova numerosi equivalenti come: separazione, fine». Uno dei suoi problemi centrali era stato quello di aver sempre stabilito legami simbiotici che le facevano vivere eventuali separazioni, o la fine di un rapporto, come una morte. Nel considerare una separazione definitiva, dopo le tante affrontate ed interpretate nel lavoro di terapia, cerca di riproporre in questa separazione, ancora una volta, un vissuto di morte. Ma non ci riesce, il che vuol dire che oggi per lei e` possibile accettare una separazione come tale, e non piu` come una morte-distruzione. Cosı` nell’alternanza dei rapporti e delle separazioni, il paziente, mentre vive la sua storia attuale nell’analisi, comincia a ricostruire, con i ricordi del passato, la sua storia globale. Cosı`, avendo rinunciato all’onnipotenza dell’annullamento e quindi alla fantasticheria di eternita`, riesce a recuperare il senso del tempo (e quindi della possibilita` della morte) e la propria identita`,

che devono rappresentare gli scopi ultimi di qualsiasi psicoterapia che non sia assistenza, ma realmente terapeutica, cioe` trasformativa.

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La psicoterapia analitica

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56 Le psicoterapie di gruppo Rocco A. Pisani Parole chiave gruppo, gruppo piccolo, gruppo intermedio, gruppo grande, gruppoanalisi, matrice di gruppo; struttura, processo, contenuto; koinonia

La terapia di gruppo, nata nelle sue premesse teoriche in Europa, trova negli USA un fertile terreno di sviluppo, e dagli USA essa ritorna in Europa. La terapia di gruppo, pur nella varieta` delle teorie e delle prassi, utilizza fondamentalmente la possibilita` di attivare processi psichici all’interno di un gruppo. I vantaggi possono essere molti: la possibilita` del confronto, quella di poter osservare negli altri propri aspetti comportamentali, la dialettica inter-

personale che permette di evidenziare le proprie modalita` di rapporto. Ma anche i limiti: quali la possibilita` di nascondersi nel gruppo e di essere spettatore piu` che attore. Comunque, se le psicoterapie di gruppo non vengono utilizzate solamente con finalita` di economia di tempo e di impegno, sicuramente offrono numerosi vantaggi. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Premessa La psicoterapia di gruppo va assumendo un’importanza maggiore per ragioni sia teoriche che pratiche. L’importanza teorica risiede in una consapevolezza sempre crescente del fatto che l’individuo non puo` essere concepito in isolamento ma in continua relazione con il suo gruppo sociale. L’individuo e` l’espressione del contesto socioculturale di appartenenza, contesto che a sua volta contribuisce a costituire. Le ricerche piu` recenti hanno messo in luce che anche la psicopatologia individuale e` in stretta relazione con la psicopatologia del gruppo. Il paziente e` cioe` portavoce di conflitti e problemi che investono tutto il suo gruppo di appartenenza a cominciare da quello primario familiare. L’intervento psicoterapico non puo` ignorare pertanto la presenza reale ed effettiva del contesto sociale nella sede di trattamento, limitandosi a considerare solo gli aspetti fantasmatici del gruppo come avviene nei trattamenti individuali. La collettivita` entra cosı` a far parte direttamente della situazione terapeutica. Le ragioni pratiche consistono in una maggiore utilita` applicativa. L’intervento gruppale permette di trattare contemporaneamente un numero molto piu` vasto di pazienti, la qual cosa implica una grossa economia di tempo e di risorse economiche, sia nelle istituzioni pubbliche che in privato.

2. Note storiche Le origini della psicoterapia di gruppo possono essere ritrovate da una parte in ambito sociologico e da un’altra in ambito psicoterapico (Ondarza Linares J., Feliziani P., 1991a, b). Furono i sociologi e poi gli psicologi a prendere in considerazione l’influenza delle relazioni interpersonali e dei ruoli sociali sulla personalita` degli individui (de Mare` P., 1972). Alcuni esempi: Emil Durkheim (1859-1917): ha valorizzato la centralita` del sociale rispetto all’individuale. Ha considerato la coscienza collettiva come elemento centrale che contiene credenze e valori comuni al

gruppo sociale ed ha formulato il concetto di “anomia”: l’individuo “anomico” non partecipa alla collettivita`, non condivide regole, valori, relazioni, ecc. per cui e` molto esposto al rischio di suicidio. George Simmel (1858-1918): per la formazione della societa` sono essenziali “l’appartenenza al gruppo” e la “centralita` dell’interazione”. Gustave Le Bon (1841-1931): descrive le folle con caratteristiche del bambino, del primitivo e del selvaggio. L’individualita` viene annullata. Emergono tre fattori che contraddistinguono l’anomia delle folle: 1) sentimento di potenza invincibile; 2) contagio mentale; 3) stato di suggestione ipnotica. Il lavoro di Le Bon e` stato preso in considerazione da Freud in Psicologia delle Masse ed Analisi dell’Io. Wilfred Trotter (nel 1916): ha postulato un istinto gregario innato, analogo alla pluricellularita`, espressione della tendenza degli individui della stessa specie a stare insieme. Lo scopo e` quello della sopravvivenza. William Mac Dougall (1871-1933): ha teorizzato una mente collettiva. La societa` e` costituita dal sistema di relazioni tra le menti individuali che la compongono. George Mead (1863-1931): il comportamento dell’individuo si puo` comprendere solo in relazione al gruppo sociale di appartenenza. Il gruppo sociale e` sempre presente come rappresentazione simbolica nella mente dei singoli individui. Kurt Lewin (1890-1947): ha approfondito lo studio dell’interazione tra individuo e gruppo, utilizzando concetti mutuati dalla matematica e dalla fisica, ed ha formulato il concetto di dinamica di gruppo. Ha applicato i concetti della matematica topologica al campo psicologico. La topologia e` la scienza delle relazioni tra le parti ed il tutto. Il campo e` il dato fisico in cui possono essere circoscritti certi fenomeni. Il campo psicologico o spazio di vita puo` essere riassunto con la formula: S.V. = f (P. A.) (Spazio di vita = interazione tra individuo ed ambiente). Il comportamento e` in funzione dello spazio di vita ed e` motivato da un bisogno. La Dinamica di Gruppo implica una intera-

Le psicoterapie di gruppo

zione: il tutto e` unita` dinamica: ogni cambiamento di una parte comporta il cambiamento delle altre. Nella dinamica entrano le forze di cambiamento e quelle di resistenza (Ossicini, 1974). Le prime esperienze di psicoterapia di gruppo sono state fatte da medici non psichiatri agli inizi di questo secolo. Il pioniere della psicoterapia di gruppo puo` essere considerato J. Pratt. J. Pratt, internista di Boston, intorno al 1905, inizio` la terapia di gruppo con pazienti tubercolotici. Si era accorto che, curando i pazienti in gruppo, il decorso della tubercolosi era favorevolmente influenzato in senso psicologico dall’interazione sociale positiva. Pratt estese successivamente (1930) il trattamento a gruppi di 20 o piu` pazienti psichiatrici che praticavano una psicoterapia d’appoggio. La cura comprendeva visite alla casa dei pazienti, diari in cui registrare il decorso della malattia ed incontri settimanali concepiti come classe di insegnamento. Si leggevano i diari, si registravano pubblicamente le variazioni di peso ed i pazienti che miglioravano scambiavano le loro esperienze con gli altri. Gli incontri, utilizzando la coesione ed il sostegno si dimostrarono efficaci nel combattere la depressione e l’isolamento dei tubercolotici (Yalom I. D., 1970; Ondarza Linares J., Feliziani P., 1991b). Successivamente l’esperienza fu estesa anche a pazienti psichiatrici. Negli anni ’20 C. Marsh istituı` delle vere e proprie classi composte oltre che dai pazienti anche da insegnanti ed ecclesiastici. L’insegnamento e l’educazione costituivano l’essenza del trattamento. Lezioni, compiti a casa, esercizi di interazione costituivano il trattamento. I pazienti erano invitati a curarsi reciprocamente. All’inizio ed alla fine della lezione il clima sociale era allietato da musica, scambio di fiori, ballo, ecc. La cura fu applicata a tutti i disturbi psichiatrici e sembra che soprattutto i balbuzienti ne traessero vantaggio. (Yalom I. D., 1970; Ondarza Linares J., Feliziani P., 1991b). J. L. Moreno puo` essere considerato uno dei piu` grandi pionieri. Fu lui a coniare per primo il

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termine Psicoterapia di gruppo nel 1931 (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957). Invento` il teatro della spontaneita` e successivamente lo psicodramma di cui si parlera` in seguito. Personaggio di primo piano nell’ambito dell’approccio psicoanalitico alla psicoterapia di gruppo e` senza dubbio Trigant Burrow (18751950) che conio` il termine di Gruppoanalisi (1928); «la gruppoanalisi o analisi sociale e` l’analisi del gruppo immediato nel momento immediato» (citazione di Gatti Pertegato E., 1994a) termine che muto` successivamente in quello di Filoanalisi. A partire dal 1911 T. Burrow sposto` l’attenzione dal conflitto intrapsichico individuale a quello sociale, sviluppando concezioni teoriche centrate sempre piu` sull’importanza dei fattori sociali-relazionali nell’insorgenza delle nevrosi. «La sua tesi, che sviluppera` nel corso degli anni, era che la societa` nel suo insieme contiene gli elementi nevrotici che Freud circoscriveva nella mente individuale, tanto da sostenere che la cosiddetta ‘normalita`’ non fosse altro che una malattia condivisa» (Gatti Pertegato E., 1994a). Trigant Burrow va considerato come il fondatore dell’approccio psicoanalitico al gruppo, fino ad intuizioni molto precoci, che anticipano Winnicott, sul ruolo della figura materna come tramite tra bambino ed ambiente: «quella che viene chiamata immagine materna non e` altro che la somma delle impressioni che vengono riflesse attraverso la madre dall’ambiente sociale che la circonda e queste impressioni vengono di nuovo trasmesse attraverso di noi ad altri attraverso la loro riflessione all’interno di noi stessi”» (citazione di Gatti Pertegato E., 1994b).

3. L’approccio psicoanalitico alla psicoterapia di gruppo La psicoterapia psicoanalitica di gruppo puo` essere divisa in tre fondamentali indirizzi (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957, 1973; Ondarza Linares J., Feliziani P., 1992): 1) 2)

Psicoanalisi in gruppo; Psicoanalisi del gruppo;

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3)

Psicoanalisi attraverso il gruppo o piu` propriamente Gruppoanalisi.

3.1. Psicoanalisi in gruppo o terapia psicoanaliticamente orientata dell’individuo in un setting di gruppo S. R. Slavson in U.S.A. e` il rappresentante piu` importante di questo indirizzo. I principi della psicoanalisi sono applicati al gruppo. In sintesi: l’accento e` sull’individuo e non sul gruppo; l’analista e` il principale agente terapeutico; il setting e` costituito da analista-analizzando in un contesto gruppale; l’obbiettivo e` evidenziare le dinamiche intrapsichiche in presenza del gruppo; l’interpersonale ed il transpersonale sono ignorati; la tendenza verso il gruppo (sinergia) e` considerata una resistenza all’analisi del transfert; il transfert fraterno e gruppale sono utili poiche´ riducono le difese ed attenuano il Super-Io, ma nello stesso tempo sono una resistenza al transfert sul terapeuta; il gruppo infine e` centrato sul leader. La psicologia sociale viene pertanto ignorata. Il gruppo in quanto tale non ha valore terapeutico. L’ottica rimane quella della psicologia intrapsichica individuale applicata al gruppo. Per Slavson in definitiva (riportato da Anthony E. J., ` un errore parlare del gruppo come 1957): «E ` sempre l’individuo e non il un’entita` in terapia. E gruppo in quanto tale che rimane al centro dell’attenzione terapeutica». Wolf e Schwartz, anche loro in U.S.A., non si discostano molto da questa impostazione: la dinamica di gruppo viene presa in considerazione ma non ritenuta utile a risolvere le difficolta` intrapsichiche; l’analisi si basa sulle libere associazioni, sull’analisi dei sogni, del transfert e delle resistenze dell’individuo; si crea una famiglia permissiva; il gruppo aiuta l’individuo a realizzarsi nel contesto interpersonale. Permane la convinzione della non terapeuticita` del gruppo in quanto tale. Wolf giunge a postulare il concetto di “Io collettivo” con il quale ogni membro tende ad identificarsi (Anthony E. J., 1957; Profita G., Venza G., 1995). Ma l’Io collettivo permette solo un’esplorazione psicoanalitica piu` profonda del setting individuale. La situazione di gruppo agisce

solo da sostegno per tollerare meglio l’ansia dell’analisi.

3.2. Psicoanalisi del gruppo Ha come principali rappresentanti Bion W. R. ed Ezriel H. dell’Istituto Tavistock di Londra. Si tratta ancora di una concezione psicoanalitica individuale: l’atteggiamento del terapeuta rimane strettamente psicoanalitico ed il gruppo in toto e` trattato come se fosse un unico paziente. Bion insieme a Richman nell’ospedale militare di Northfield (I esperimento) in Inghilterra nel 1942 introdusse il trattamento di gruppo considerando tutto il reparto, e non i singoli pazienti, come oggetto dell’intervento terapeutico. Fu di fatto la prima esperienza con gruppi grandi (large group). L’esperienza fu interrotta dopo sei settimane e Bion fu allontanato dell’ospedale perche´ non si prese cura dell’ordine e della disciplina militari. Bion concepisce l’individuo come un animale di gruppo e da questo punto di vista e` d’accordo con Freud che la psicologia di gruppo e` la psicologia piu` antica. Il gruppo e` il risultato di conflitti intrapsichici con oggetti interni ed ha una mente inconscia che puo` essere analizzata; e` il prodotto dei contributi anonimi dei singoli membri partecipanti. Per Bion il gruppo ha due livelli secondo concetti psicoanalitici: superficiale e profondo, manifesto e latente, conscio ed inconscio, primario e secondario, di realta` e fantasia (Bion W., 1961; Anthony E. J., 1957) Il livello superiore e` costituito dal gruppo di ` il livello conscio e razionale. A questo lavoro. E livello i membri si incontrano per eseguire alcuni compiti e scelgono il leader in base alla capacita` di attenersi alla realta` della situazione. Il livello piu` profondo e` quello degli assunti di base, dominato dalle emozioni. Si tratta di bisogni fondamentali comuni a tutti i membri del gruppo. A questo livello gli individui si incontrano: a)

Per trovare un leader con cui appagare il bisogno di dipendenza, trovare cioe` un lea-

Le psicoterapie di gruppo

b)

c)

der da cui essere protetti, difesi e nutriti (assunto di dipendenza); Per trovare un partner sessuale (assunto di accoppiamento) nella speranza che da questa unione possa nascere un messia salvatore del gruppo; Per trovare un leader che li guidera` all’attacco o alla fuga di fronte ad un pericolo o nemico comune (assunto di attacco e fuga).

Gli assunti di base sono l’espressione di una difesa da ansie psicotiche di frammentazione individuale. Gli individui si riuniscono per difendersi da queste ansie. A livello manifesto il gruppo e` tenuto insieme dal lavoro in atto ed i membri collaborano volontariamente con il lavoro del leader. Ad un livello piu` profondo Bion postula l’esistenza di un fattore di spontanea coesione, la valenza: la capacita` cioe` degli individui di combinarsi autonomamente con gli altri secondo gli assunti di base condivisi. Gli assunti di base trovano un riferimento nei cosiddetti fenomeni protomentali: gli assunti non sono sempre attivi, ne´ lo sono contemporaneamente. Quando inattivi sono confinati nel sistema protomentale. Secondo Schermer (citato da Profita e Venza, 1995) gli assunti di base si «avvicinano molto strettamente ai tre imperativi biologici dei gruppi umani: allevamento-educazione dei figli (assunto di dipendenza), riproduzione della specie (assunto di accoppiamento), protezione del gruppo da pericoli interni ed esterni (assunto di attacco-fuga). In ogni situazione di gruppo sono sempre presenti i due livelli: quello del gruppo di lavoro e quello degli assunti di base. Il compito dell’analista, secondo Bion, e` quello di interpretare, e l’interpretazione e` rivolta a tutto il gruppo e piu` precisamente agli assunti di base. Il fine ultimo e` quello di conoscenza del livello profondo e di trasformazione del gruppo di assunti di base in quello di lavoro. In definitiva il gruppo e` comunque leadercen-

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trico; e` un gruppo di apprendimento attraverso l’esperienza e non terapeutico. Ezriel H. ha una concezione del gruppo affine a quella di Bion. Si distingue tuttavia da questi per due motivi: per una visione particolare del transfert e per il concetto di “tensione di gruppo comune”. Il rapporto paziente-terapeuta si esprime in tre tipi di transfert: necessario, evitato, calamitoso. Nel gruppo ogni paziente ricerca l’equilibrio piu` vantaggioso tra i tre tipi: si crea una tensione inconscia da cui emerge la struttura di gruppo comune, cioe` «un atteggiamento transferale di gruppo che rappresenta in un certo qual modo il denominatore comune del transfert individuale» e che permette di «curare il gruppo nel suo insieme come se fosse un singolo paziente e di interpretare tutto cio` che avviene in termini dei tre tipi di transfert» (Profita e Venza, 1995).

3.3. Psicoanalisi attraverso il gruppo o piu` propriamente gruppoanalisi Ha come fondatore S. H. Foulkes e principali rappresentanti Patrick de Mare`, James Anthony, Malcolm Pines, Dennis Brown ed altri colleghi ed allievi di Foulkes con il quale hanno fondato l’Istituto di Gruppoanalisi e la Societa` di Gruppoanalisi di Londra. S. H. Foulkes e` l’autore del II esperimento di Northfield ampiamente descritto nell’Introduzione alla Psicoterapia Gruppoanalitica (1948). Foulkes pone il gruppo al centro della terapia. Il processo terapeutico si basa sulla comunicazione e sulla traduzione del significato di essa. L’intervento e` comunque diretto agli individui (Foulkes S. H., 1948, 1957, 1964, 1975). L’enfasi e` sulla matrice dinamica di comunicazione che si basa su una continua interazione tra l’intrapsichico, l’interpersonale ed il transpersonale. Il terapeuta fa parte del gruppo, il gruppo e` centrato sul gruppo. Questi concetti sono presentati in dettaglio nel paragrafo seguente.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

4. La gruppoanalisi 4.1. Il piccolo gruppo

4.1.1. Principi teorici

Freud in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io (1921) aveva affermato che «una massa primaria e` costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto dell’Io ideale e si sono identificati gli uni con gli altri nel loro Io»… «Nella Chiesa, come nell’esercito, vige la medesima illusione in base alla quale esiste un capo supremo (nella Chiesa il Cristo, nell’esercito il comandante in capo) che ama di amore uguale tutti i singoli componenti della massa. Tutto risulta subordinato a tale illusione: se venisse lasciata cadere, Chiesa ed Esercito non tarderebbero a disgregarsi». In entrambe queste masse artificiali ogni singolo individuo e` libidicamente legato da un lato al capo, dall’altro agli altri individui componenti la massa… «Fenomeno fondamentale della psicologia collettiva e` l’assenza di liberta` del singolo all’interno della massa»… Si tratta dunque di una organizzazione verticistica, leadercentrica e narcisistica. Gia` Freud aveva fatto riferimento all’inconscio collettivo ed alle fantasie primordiali che hanno un’origine filogenetica ed appaiono nei miti, nelle fantasie e nei sogni. Nel Compendio di Psicoanalisi (1938) Freud scriveva: «Il sogno mette in rilievo dei contenuti che non possono trarre origine ne´ dalla vita adulta, ne´ dall’infanzia dimenticata del sognatore. Siamo obbligati a considerarli parte dell’eredita` arcaica che il bambino porta con se´ quando viene al mondo per influsso di cio` che i suoi progenitori hanno vissuto, prima ancora di aver sperimentato personalmente alcunche´. Tracce di questo materiale filogenetico si trovano nelle leggende piu` antiche dell’umanita` oltre che negli usi e costumi che di esse sopravvivono. Il sogno e` quindi una fonte non disprezzabile per la conoscenza della storia umana». ` stato pero` Jung che ha ampiamente stuE

diato l’inconscio collettivo e gli archetipi, contenuti universali dello psichismo normale e patologico, che appartengono a tutte le culture ed a tutte le epoche. Nell’inconscio collettivo e` contenuta l’eredita` filogenetica. Per Jung (citato da Jacobi), «L’inconscio collettivo, in quanto totalita` di tutti gli archetipi, e` il deposito di tutte le esperienze umane fino ai piu` oscuri primordi; non un deposito morto ma sistemi vivi di disposizioni e reazioni che determinano la vita individuale per vie invisibili… e` la fonte degli istinti, in quanto gli archetipi non sono altro che le forme di manifestazione degli istinti…». L’inconscio collettivo, matrice sovrapersonale, «e` l’equivalente interno della creazione dal primo giorno del suo essere e del suo divenire, un cosmo interno di infinita` uguale a quella del mondo esterno… L’inconscio collettivo comprende in se´ tutti i contenuti dell’esperienza psichica umana, i piu` positivi come i piu` negativi… La vita dell’archetipo e` senza tempo e senza confini…» (Jacobi). Per Jung il processo di maturazione ed individuazione e` un processo archetipico che implica l’integrazione nella personalita` di tutte le parti scisse. W. Bion e` stato uno dei pionieri dell’approccio psicoanalitico alla psicoterapia di gruppo. Bion ha il merito di avere tentato per primo, come riportato in precedenza, nel primo esperimento di Northfield, di trattare un gruppo grande, anche se l’esperimento duro` in tutto sei settimane. Come riferisce P. de Mare`, «Bion considerava il gruppo allargato, da cento a duecento membri, come il tronco principale dell’albero, da cui partire ed esplorare le tensioni dei gruppi di attivita` piu` piccoli, una volta che questi fossero stati spinti a riunirsi». Il contributo fondamentale di Bion sta nell’avere individuato gli assunti di base. Gli assunti rappresentano un completamento delle osservazioni di Freud sulle masse. Sono particolarmente evidenti nelle prime fasi di trattamento e si ripetono specie in momenti di regressione del processo gruppale. Bion ha individuato nella difesa dall’ansia psicotica individuale di scissione, frammentazione e distruzione una delle spinte basiche all’aggregazione gruppale.

Le psicoterapie di gruppo

Il concetto di gruppo di lavoro e` una anticipazione, sia pure approssimativa ed incompleta, di quello di idiocultura di de Mare´ (come esposto in seguito). La gruppoanalisi di S. H. Foulkes (1948) comincia esattamente al punto dove Freud, Jung e Bion si fermarono. Con la costituzione del piccolo gruppo analitico, composto da 7-8 membri, disposti in cerchio, Foulkes struttura un processo di individuazione. Il conduttore inizia cioe` una graduale ritirata strategica in un crescendo di decentralizzazione, a vantaggio della libera comunicazione e del dialogo tra i singoli membri (free floating discussion). Gli individui vengono messi cioe` in condizione di acquisire una autonomia funzionale svincolata dal capo e dagli altri membri. Il dialogo e la libera comunicazione permettono il superamento delle barriere narcisistiche, la libera espressione, l’affermazione ed il ricono` lo strumento operativo scimento dell’individuo. E attraverso il quale cio` che e` inconscio e privo di significato diventa conscio e significante. L’individuo si differenzia attraverso un continuo confronto di somiglianze e di differenze con gli altri. Il dialogo e` in definitiva lo strumento di trasformazione e maturazione delle culture narcisistiche pregenitali e di affermazione del primato della genitalita`.

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I concetti fondamentali della Gruppoanalisi possono essere riassunti in questo modo. L’individuo e` in stretta relazione con il sistema madre-bambino, a sua volta collegato con il sistema della famiglia che e` in relazione con il gruppo sociale (Schema 1). Per dirla con Foulkes (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957-1973) il bambino e` determinato dai suoi genitori che sono a loro volta determinati dalla loro famiglia, regione, cultura, religione e nazione. Dal contesto relazionale, cioe`, che l’individuo a sua volta contribuisce a costituire man mano che cresce. L’intrapsichico che possiamo far coincidere con la struttura tripartita della mente in Es, Io e Super Io, e` in stretta interdipendenza con l’interpersonale o rete di interazione, ed il transpersonale o matrice gruppale (Schema 2). Schema 2: rapporto tra intrapsichico, interpersonale e transpersonale.

Schema 1: rapporto individuo-gruppo.

La Rete di interazione (Schema 3) significa che l’equilibrio individuale intrapsichico e` strettamente legato all’equilibrio delle relazioni interpersonali e che ogni rottura o modifica individuale comporta una rottura o modifica dell’intera rete e viceversa (dinamica di gruppo) (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957-1973; Foulkes S. H., 1964).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia Schema 3: Rete di interazione.

1) equilibrio interno I equilibrio relazione interpersonale e viceversa; 2) rottura equilibrio individuale I rottura equilibrio intera rete e viceversa (dinamica di gruppo); 3) paziente: portavoce e capro espiatorio; 4) meccanismi di difesa: significato interattivo e secondariamente intrapsichico; 5) sintomi: formazione di compromesso del conflitto individuo-gruppo; 6) conflitto intrapsichico: rovescio della medaglia del conflitto individuo-gruppo; 7) paura dell’attacco e frammentazione → isolamento narcisistico di cui i sintomi sono espressione; 8) i sintomi sono anche comunicazione indiretta, mascherata e distorta.

Matrice gruppale significa che questa rete di comunicazione e di relazione contiene dei contenuti che consistono nel patrimonio biologico e culturale che gli individui hanno in comune (Matrice di base). La rete di interazione e` responsabile della psicopatologia individuale. La “nevrosi infantile” individuale e` l’espressione della “nevrosi infantile del gruppo” di appartenenza a cominciare da quello familiare. Il paziente e` l’espressione della psicopatologia gruppale; e` il portavoce cioe`, e, in quanto punto nodale piu` debole di questa rete, finisce per diventare spesso il capro espiatorio (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957-1973). I meccanismi di difesa intanto esistono in quanto l’Io deve tenere conto del Super Io (che e` una struttura sociale) e della realta` esterna. Essi sono modelli interattivi sociali appresi fin dalla primissima infanzia. I sintomi pertanto sono una formazione di compromesso non solo del conflitto intrapsichico tra l’Es e l’Io, ma prima di tutto del conflitto individuo-gruppo. Il conflitto intrapsichico e` il rovescio della medaglia del conflitto individuogruppo. Questo conflitto implica che l’individuo non puo` esprimersi nella relazione gruppale per paura di essere attaccato, punito, emarginato, frammentato e distrutto. Per difendersi ricorre al mascheramento ed alla distorsione e si ritira in un isolamento narcisistico di cui i sintomi sono l’espressione. I sintomi sono pertanto una comunicazione mascherata e distorta.

Questi concetti sono ampiamente condivisi con la teoria dei sistemi, con le seguenti differenze. La gruppoanalisi e` una psicoterapia psicoanalitica. Parliamo di psicoterapia psicoanalitica quando prendiamo in considerazione: 1) 2)

3)

l’inconscio; il contenuto dell’inconscio: le pulsioni istintuali dell’Es, il rimosso ed i meccanismi di difesa per quanto riguarda l’inconscio personale; gli archetipi per quanto riguarda l’inconscio collettivo; l’analisi: tutto il lavoro che viene fatto per rendere conscio l’inconscio e per ottenere il cambiamento.

La psicoanalisi opera su una relazione duale basata sul transfert-controtransfert. La gruppoanalisi opera invece su una relazione multipersonale basata su un transfert multiplo, ma anche su molti altri fattori non transferali piu` inerenti al contesto sociale relazionale dell’hic et nunc: il rispecchiamento, la risonanza, l’esperienza emotiva correttiva, l’Ego training in action, la socializzazione. La situazione totale di terapia (T) comprende il transfert (t) e tutti gli altri fattori dell’hic et nunc (x) (Schema 4) (Foulkes S.H. 1964; de Mare´ P., 1972). Il transfert multiplo implica proiezioni transferali non solo sul terapeuta, che ovviamente e` l’oggetto di maggiore investimento transferale, ma anche sugli altri membri ed il gruppo in toto. Il gruppo, in quanto tale, viene vissuto spesso a livello profondo come madre.

Le psicoterapie di gruppo

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Schema 4: Psicoterapie psicoanalitiche.

Il passato rimosso (t) si incontra con il presente attuale (x). L’analisi verticale (t) si combina simultaneamente con l’analisi orizzontale (x). Come per la psicoanalisi, la gruppoanalisi comprende fattori terapeutici di sostegno ed analitici. I principali fattori di sostegno possono essere individuati in catarsi, rassicurazione ed attenuazione del senso di colpa, coesione ed appartenenza, condivisione, altruismo, tolleranza, infusione della speranza ecc. Sono molto importanti nel creare

l’atmosfera adatta per la libera espressione individuale. Sono la condizione indispensabile perche´ i fattori analitici possano entrare in azione. I fattori analitici includono non solo l’elaborazione del transfert e delle resistenze ma anche fattori piu` specifici (Foulkes S. H., Anthony E, J., 1957, 1973; Pines M., 1984). Attraverso il rispecchiamento vari aspetti dell’immagine corporea, psicologica e sociale vengono scoperti nell’interazione con gli altri. Il

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gruppo e` una “sala di specchi” e rappresenta lo strumento fondamentale per la scoperta della propria reale identita` individuale. Il rispecchiamento permette l’espressione dei meccanismi piu` precoci: il diniego, la scissione, la proiezione, l’introiezione e l’identificazione proiettiva; corrisponde al mondo delle relazioni primitive e narcisistiche con gli oggetti interni e parziali. Le reazioni speculari aiutano a differenziare il Se´ dal non Se´ ed a uscire dal narcisismo. La risonanza si riferisce al diverso significato che puo` avere per ogni singolo membro ogni evento nel gruppo, in relazione al livello in cui agisce il personale conflitto: orale, anale, fallico, edipico, etc. L’esperienza emotiva correttiva e l’Ego training in action (addestramento dell’Io in azione) hanno un ruolo di prim’ordine nella situazione Schema 5: Matrice di gruppo.

gruppoanalitica. La comprensione intellettuale ha scarso valore. La reale presa di coscienza ed assimilazione dei fenomeni inconsci (insight-outsight) ed il relativo cambiamento comportamentale avvengono solo quando le emozioni sono interamente impegnate nella loro acquisizione. Questa e` la premessa fondamentale per la ristrutturazione o il rafforzamento dell’Io e del Se´. Attraverso la socializzazione l’individuo egocentrico e leadercentrico diventa altruistico e gruppocentrico. Esce progressivamente dall’isolamento narcisistico per entrare nel mondo delle relazioni con l’esterno. Il gruppo analitico instaura una rete di relazioni e comunicazioni (Matrice di gruppo) continuamente interagenti a piu` livelli (Schema 5):

Le psicoterapie di gruppo

1) 2) 3) 4)

livello di realta`, in cui il gruppo rappresenta la comunita`, la societa`, l’opinione pubblica; livello di transfert che riguarda le relazioni oggettuali mature: gruppo come famiglia; livello proiettivo: gli altri membri rappresentano parti del Se´ o del corpo; livello primordiale in cui emergono gli archetipi dell’inconscio collettivo.

La matrice di gruppo e` in continua evoluzione (Matrice dinamica). Il concetto gestaltico che il tutto e` precedente e piu` elementare delle parti acquista un particolare valore. Il gruppo e l’individuo sono complementari. In alcuni momenti l’individuo e` in primo piano (figura) ed il gruppo sullo sfondo, in altri al contrario e` il gruppo ad essere in primo piano; l’individuo parla a nome del gruppo, i contenuti del gruppo riguardano l’individuo. La gruppoanalisi quindi e` una psicoterapia psicoanalitica fatta da tutto il gruppo, sotto la guida del conduttore, attraverso la comunicazione ed il lavoro di traduzione del significato delle comunicazioni. Partendo dalla comunicazione basata sui sintomi si passa gradualmente ai problemi ed ai conflitti inconsci sottostanti (Foulkes S. H., 1957, 1964). Il lavoro di traduzione conduce alla maturazione della matrice gruppale che a sua volta genera il cambiamento individuale. La maturazione dell’individuo va ad ulteriore vantaggio della matrice gruppale, in un continuum dinamico e circolare (Schema 4).

4.1.2. Il metodo

Il metodo gruppoanalitico si basa sulla triade struttura, processo e contenuto formulata da Anthony (Foulkes S. H., Anthony E., 1957). La struttura si riferisce ai partecipanti, agli aspetti spazio-temporali, all’organizzazione ed alle norme che la regolano. In base al numero dei partecipanti il gruppo si distingue in piccolo (small) dai 7 ai 12 membri, intermedio (median) dai 12 ai 30 membri, grande (large) oltre i 30 membri. Il gruppo e` chiuso (closed) se gli stessi parte-

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cipanti iniziano e terminano insieme la terapia; semiaperto (slow-open) quando i partecipanti vengono sostituiti man mano che cessano o interrompono la terapia; aperto (open) quando i membri sono continuamente mutevoli. La struttura concerne il luogo, la stanza e la disposizione dei mobili, la disposizione delle sedie in un unico cerchio, il posto abitualmente occupato ed il cambiamento di questo, l’orario di inizio e fine della seduta, la durata della seduta, le ferie, gli onorari o il pagamento dei tickets nelle strutture pubbliche, l’uso o meno di strumenti come il registratore o il videoregistratore. Si riferisce inoltre alla regolarita` e puntualita` di partecipazione, alla discrezione, all’astinenza, agli eventuali rapporti esterni ecc. La durata della seduta e` stata stabilita in un’ora e mezza; la frequenza media e` una o due volte a settimana. Particolare importanza ha la selezione dei pazienti. In linea di massima i criteri sono gli stessi della psicoanalisi. La terapia e` indicata per i pazienti dotati di capacita` di insight-outsight e di motivazione profonda alla terapia ed al cambiamento. L’eta` ed il livello di istruzione scolastica hanno un valore relativo, mentre particolare rilievo ai fini dell’indicazione e della prognosi acquista lo studio della rete relazionale specialmente familiare, e dei meccanismi di difesa. Se il paziente e` il portavoce della psicopatologia del gruppo di appartenenza, ne e` anche il “capro ` l’espressione cioe` di meccanismi di espiatorio”. E scissione ed identificazione proiettiva gruppale; rappresenta il meccanismo di difesa gruppale. Da questo punto di vista il cambiamento del paziente implica una dinamica del gruppo di appartenenza di opposizione e resistenza, perche´ ogni cambiamento mette in discussione l’equilibrio, per cosı` dire omeostatico, di tutto il gruppo. Da un punto di vista clinico nosografico la gruppoanalisi e` indicata per pazienti nevrotici, psicosomatici, borderline e psicotici, purche´ dotati di capacita` di insight–outsight e motivazione. Per i borderline e gli psicotici va attentamente valutata la relativa stabilita` e forza dell’Io indispensabili per il trattamento. La situazione gruppoanalitica e` una situazione di potente sostegno e contenimento da una parte e di addestramento dell’Io all’esame

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

di realta` dall’altra (Ego training in action). Il trattamento gruppoanalitico degli psicotici e` ovviamente possibile al di fuori degli stati acuti. In base alla selezione i gruppi si distinguono in eterogenei ed omogenei. I gruppi eterogenei per sintomatologia, eta`, cultura, sesso, religione ecc. sono nettamente preferibili. L’eterogeneita` e` espressione del contesto socioculturale ed e` alla base del rispecchiamento delle parti del Se´. I gruppi omogenei possono avere un’indicazione relativa per alcune categorie di persone, ad esempio gruppi di bambini, adolescenti o vecchi, detenuti, oppure con problemi particolari come l’omosessualita`, le perversioni ecc. difficili da comunicare. Possono essere anche indicati per lo studio ed il trattamento di determinati disturbi come quelli psicotici o psicosomatici. Il processo si riferisce agli aspetti dinamici attivati all’interno della struttura, all’azione cioe` che si svolge tra i partecipanti in quel determinato luogo e quel determinato tempo. L’azione e` costituita dall’interazione, comunicazione e relazione interpersonale che, come gia` detto in precedenza, si svolgono a piu` livelli, a loro volta continuamente interagenti: livello di realta`, di transfert, di rispecchiamento, primordiale. La comunicazione fondamentale e` ovviamente quella verbale, ma tutte le comunicazioni non verbali (mimica, gestualita`, atteggiamento ecc.) sono altrettanto significative. Particolare significato dinamico acquistano le comunicazioni indirette come i ritardi, le assenze, i silenzi, i cambiamenti di posto, gli acting-out ecc. Non si parla tanto per parlare, ma per comunicare, interagire e capire a livelli intimi e profondi. La comunicazione verbale e` l’equivalente dell’associazione libera della psicoanalisi; e` l’associazione di gruppo da Foulkes definita free floating discussion (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957, 1973). Il materiale prodotto dal gruppo attraverso le libere associazioni e` soggetto ad analisi, cioe` studiato e interpretato da parte di tutto il gruppo sotto la guida del terapeuta. La comunicazione manifesta viene utilizzata per arrivare attraverso il lavoro di analisi ed interpretazione al significato latente. Si passa cosı` dalla comunicazione attraverso i sintomi

alla decifrazione, traduzione ed interpretazione dei significati latenti sottostanti, che vengono portati alla comprensione di tutto il gruppo. L’elaborazione del materiale prodotto dalla interazione porta alla maturazione del gruppo che si traduce in quella degli individui, i quali a loro volta contribuiscono ad un’ulteriore maturazione del gruppo in un continuum dinamico e circolare. A volte l’individuo e` in primo piano e parla a nome del gruppo che rimane sullo sfondo, a volte il contrario. Il processo terapeutico inquadrato nella sua evoluzione ideale nel tempo puo` essere diviso in tre fasi: 1) fase iniziale; 2) fase intermedia; 3) fase finale (Anthony E. J., 1973). La fase iniziale e` la fase del pensiero magico. Il gruppo dipende dal terapeuta onnisciente ed onnipotente; egli sa tutto, e` colui che cura ed e` ` la l’artefice nella fantasia di rapidi guarigioni. E fase in cui i pazienti si rivolgono al terapeuta, fanno domande all’“esperto” e si aspettano una risposta (che non arriva) ma anche quella in cui il terapeuta instaura una modalita` di comunicazione orizzontale, da paziente a paziente. Predomina la discussione sui sintomi e si scopre come la maggior parte di essi sono ampiamente condivisi. La catarsi e l’attenuazione del senso di colpa attraverso “pubbliche confessioni” hanno un ruolo im` la fase in cui emerportante in questo stadio. E gono gli assunti di base scoperti da Bion. La fase intermedia e` quella in cui il centro di riferimento e` spostato dal terapeuta al gruppo. Le comunicazioni non sono piu` verticali ma prevalentemente orizzontali. Le comunicazioni interpersonali avvengono sullo sfondo transpersonale sociale. Il terapeuta acquista le dimensioni di un membro del gruppo con funzioni particolari, ed i pazienti svolgono un ruolo attivo. L’attenzione si sposta dai sintomi al loro significato e tutto il gruppo e` impegnato nel lavoro di analisi, traduzione ed interpretazione del materiale prodotto. Entrano in gioco le manifestazioni transferali, i fenomeni di rispecchiamento e di risonanza, l’esperienza emotiva correttiva con le emozioni sicuramente impegnate nel processo di conoscenza, l’Ego training ed il Self training in action, la socializzazione. La condivisione si sposta dai sintomi ai conflitti

Le psicoterapie di gruppo

e problemi sottostanti. L’inconscio rimosso, individuale e sociale, viene evidenziato e reso cosciente. Il “qui ed ora” ed il “lı` ed allora” vengono elaborati continuamente e simultaneamente. La fase finale e` quella in cui i membri si riappropriano della individualita`. Sullo sfondo della condivisione vengono a precisarsi, in base all’elaborazione di somiglianze e differenze, i confini del Se´ e l’affermazione dell’individualita` ed autonomia. L’individuazione si realizza sulla base di una continua integrazione dell’inconscio individuale e sociale nella personalita` e sulla ricucitura delle parti scisse del Se´. L’Io e` piu` in grado di adattarsi alla realta`. I pazienti vengono restituiti alla vita normale. Il processo terapeutico nella realta` non rispecchia necessariamente le linee di evoluzione ideali descritte. Le sorti del gruppo e dei singoli pazienti dipendono da numerose varianti e prima di tutto dalla selezione. La durata e l’esito del trattamento sono condizionati dalla buona selezione e dalla motivazione dei partecipanti. La resistenza al cambiamento individuale e` strettamente legata, come gia` detto, a quella della rete relazionale di appartenenza. Il “vantaggio” primario e secondario della nevrosi, nel loro aspetto relazionale, giocano un ruolo di primo piano sulla durata e l’esito del trattamento; per cui, come nelle terapie individuali, e` abbastanza facile la presa di coscienza intellettiva, ma il vero insight che implica il cambiamento e` difficile da realizzarsi. La terapia puo` finire con una remissione sintomatica, con un rafforzamento dell’Io, con una ristrutturazione dell’Io ed una migliore coesione del Se´, a seconda della motivazione e delle resistenze. Per ottenere risultati di rilievo e duraturi e` richiesta in ogni caso una durata di qualche anno (in media 4-5). Il contenuto si riferisce al significato risultante ` il sidall’interazione tra struttura e processo. E gnificato transpersonale o sovrapersonale che emerge dalla comunicazione gruppale, che coinvolge e viene elaborato da tutti i componenti, a vari livelli di sempre maggior profondita`, e che e` in continua evoluzione (Matrice dinamica). Il passaggio da contenuti manifesti a quelli latenti, dal processo primario a quello secondario, segna la maturazione del gruppo in toto e dei suoi compo-

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nenti. L’elaborazione della nevrosi infantile gruppale si svolge di pari passo con quella della nevrosi infantile individuale verso la risoluzione o il tentativo di risoluzione. Da questo punto di vista la matrice gruppale evolve da contenuti piu` pertinenti a fasi di sviluppo pregenitali a contenuti sempre piu` genitali, man mano che vengono ridimensionate le barriere narcisistiche isolanti e acquistano significato la dimensione ed espansione sociale. 4.1.3. La tecnica

La funzione del terapeuta e` di primaria importanza (Foulkes S. H., 1948, 1957, 1964, 1975). Il terapeuta e` responsabile della selezione e della terapia e da questo punto di vista deve creare, coltivare e mantenere l’atmosfera di gruppo e la partecipazione attiva dei membri. L’accurata selezione non solo in base alla psicopatologia, ma soprattutto in base alla diagnosi psicodinamica del conflitto, dei meccanismi di difesa, della capacita` di insight-outsight e di motivazione “viscerale” al cambiamento e` essenziale (Foulkes S. H., 1975). Da questo punto di vista e` opportuno che i pazienti vengano prima di tutto introdotti in un gruppo di prova e selezione particolarmente utile per la diagnosi psicodinamica e per una prognosi per lo meno indicativa. Il gruppo di prova dovrebbe avere la durata di qualche mese per ciascun paziente (Pisani R. A., 1991). Alla luce di queste premesse, il terapeuta si siede nel cerchio comune a tutti gli altri ed e` visibile a tutti. Rinuncia al ruolo di leader autoritario e direttivo ed usa la tecnica della libera discussione di gruppo (free floating discussion): fa cadere la censura, incoraggia la libera comunicazione tra i membri ed instaura l’atmosfera analitica. Il processo di interazione del gruppo si svolge a due livelli: quello conscio o secondario e quello inconscio o primario (Foulkes S. H. 1964, 1975). Il livello cosciente rappresenta i rapporti umani della realta` adulta attuale. A questo livello il terapeuta si comporta come una guida piuttosto che come un leader. Si mantiene in secondo piano, si oppone alla tendenza del gruppo ad assumerlo come punto di riferimento, incoraggia

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

la sincera comunicazione e l’espressione di sentimenti e reazioni emotive. Agisce, in definitiva, in senso correttivo dell’esperienza emotiva, promuovendo il conseguimento del senso di realta` e l’autonomia. Crea, cioe`, le condizioni adatte all’Ego training in action ed al Self training in action, alla maturazione ed al rafforzamento dell’Io e del Se´ favorendo il processo cosciente di adattamento sociale agli altri membri ed alla realta`. A livello inconscio il terapeuta rappresenta un’autorita` primordiale onnisciente ed onnipo` tente da cui si aspetta una soluzione magica. E una figura dotata di poteri divini o un essere diabolico od ambedue. All’inizio egli accetta questa posizione nell’interesse della coesione del gruppo, ma contemporaneamente comincia il lavoro di progressivo divezzamento dalla dipendenza da una guida autoritaria: “scava progressivamente la fossa alla sua autorita`”. A questo livello il terapeuta e` anche una figura di transfert per i singoli individui. Si comporta come lo psicoanalista del trattamento individuale, non solo per favorire ed interpretare i fenomeni transferali e non transferali, ma anche per sviluppare la libera comunicazione orizzontale. Assume pertanto l’atteggiamento analitico di neutralita`, non da` giudizi, valutazioni, consigli, suggerimenti ecc. Si attiene alla regola dell’astinenza, non intrattiene rapporti al di fuori della situazione terapeutica, ascolta con partecipazione, e` ricettivo ed accetta le reazioni di transfert. Il terapeuta quindi da una parte svolge un ruolo di catalizzatore; instaura e mantiene la libera associazione e discussione di gruppo; dall’altra fa l’analista. Promuove ed alimenta cioe` la cultura analitica che diviene progressivamente patrimonio di tutto il gruppo e dei singoli membri che diventano sempre piu` partecipanti attivi. Nello svolgere questo compito puo` rivolgersi al singolo o al gruppo, all’intrapsichico individuale, al processo interattivo interpersonale o al contenuto delle interazioni sullo sfondo transpersonale della matrice gruppale. Puo` servirsi delle interpretazioni in senso stretto, puo` fare commenti e collegamenti, sottolineare certi interventi o associazioni, richiedere informazioni, favorire le associazioni ed interpretazioni consce ed inconsce

(fenomeno della catena) da parte del gruppo. Favorire la cultura analitica significa considerare ogni evento, intervento, comportamento o sintomo come una comunicazione il cui significato possa emergere dall’interazione e dal lavoro di traduzione dell’intero gruppo, in modo da essere visibile e comprensibile per tutti. Per Foulkes «Ogni evento, in un gruppo, e` considerato come avente il suo significato nell’ambito della rete totale di comunicazione, la matrice del gruppo, anche se spesso si riferisce piu` specificamente ad uno o piu` membri. Questo costituisce una relazione figura-sfondo all’interno del gruppo» (Foulkes S. H., Anthony E. J., 1957, 1973). Per svolgere questo ruolo il gruppo analista deve seguire un iter formativo analogo a quello dello psicoanalista. La formazione comprende l’analisi gruppoanalitica (possibilmente in un gruppo di pazienti), la formazione teorica e la conduzione iniziale sotto supervisione. 4.2. Il gruppo intermedio Il gruppo intermedio (Median Group) di de Mare´ (1991) e` uno sviluppo del piccolo gruppo analitico di Foulkes e si situa in uno spazio intermedio tra il piccolo ed il grande gruppo, molto piu` vicino al contesto sociale (Schema 6). Esso ha una dimensione compresa tra i 12-30 membri. I principi sono gli stessi del piccolo gruppo ma applicati ad un setting piu` ampio. L’attenzione si sposta cosı` sempre piu` dall’intrapsichico al sociale, o meglio ad una maggiore correlazione tra l’intrapsichico ed il sociale. Schema 6: Evoluzione della Gruppoanalisi da Freud a de Mare´. FREUD:

PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO

JUNG:

INCONSCIO COLLETTIVO – ARCHETIPI

BION:

ASSUNTI DI BASE

FOULKES:

MATRICE DI GRUPPO (PICCOLO GRUPPO)

DE MARE´:

` (GRUPPO INTERMEDIO) SOCIETA

Le psicoterapie di gruppo

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Schema 7: Gruppo Intermedio.

— Contesto socio-culturale come oggetto di terapia. — Enfasi piu` sull’outsight che sull’insight. — Conflitto individuo-gruppo di fondamentale importanza. — Obiettivo: piu` umanizzare il contesto socio-culturale che socializzare l’essere umano. — Odio primario reciproco trasformato, attraverso il dialogo, in compartecipazione, comunione, condivisione (KOINONIA). — Metodo affine a quello dei piccoli gruppi: faccia a faccia, unica fila di sedie in circolo, discussione libera, terapeuta non direttivo, etc. — Trasposizione culturale piu` che transfert. Focus su hic et nunc: rispecchiamento, risonanza, esperienza emotiva correttiva, ego e self training in action.

Possiamo cosı` riassumere le principali idee di Patrick de Mare´ (Schema 7): •

• •







il gruppo intermedio pone il gruppo al centro come oggetto della terapia, cosicche´ la cultura ed i miti sociali (l’inconscio sociale) possano essere compresi in una situazione che si avvicina a quella della comunita`; l’enfasi e` molto piu` sull’“outsight” che sull’“insight”; l’attenzione e` volta prevalentemente al conflitto tra individuo e gruppo piu` che al conflitto intrapsichico; l’obiettivo non e` tanto quello di socializzare l’individuo, quanto quello di umanizzare il contesto socio-culturale; creare cioe` le condizioni sociali nell’ambito delle quali le individualita` umane possano emergere ed essere riconosciute; l’odio primario reciproco generato dal conflitto individuo gruppo nel setting piu` grande e` gradualmente trasformato attraverso il dialogo, in compartecipazione, condivisione, comunione (Koinonia). Il dialogo e` lo strumento di trasformazione e maturazione delle culture pregenitali e di affermazione del primato della genitalita`; il gruppo intermedio segue un metodo analogo a quello dei gruppi piccoli basato su struttura, processo e contenuto: 1)

disposizione faccia a faccia in un unico cerchio;

2)





sedute regolari (una o due volte alla settimana, durata un’ora e mezza); 3) discussione libera (free floating discussion). Per quanto riguarda la tecnica, mentre nel piccolo gruppo il conduttore e` una figura transferenziale e la principale proiezione delle figure genitoriali, nel gruppo intermedio l’intero gruppo costituisce la tela sulla quale il Super-Io e` proiettato. Il terapeuta sostiene piu` il ruolo degli individui a livello dell’Io, incoraggiando la liberta` di dialogo ed interpretando la natura dei contenuti e delle pressioni culturali e sociali. Lo scopo principale del terapeuta e` quello di favorire il dialogo, che e` lo strumento fondamentale attraverso il quale cio` che e` inconscio e non ha significato diviene conscio ed acquista significato; Nel gruppo intermedio gli aspetti non transferenziali sono molto piu` ampi ed importanti rispetto al piccolo gruppo. L’attenzione e` rivolta principalmente ai fattori dell’hic et nunc: rispecchiamento, risonanza, esperienza emotiva correttiva, Ego e Self training in action. Il rispecchiamento, l’Ego ed il Self training in action rivestono un’importanza di primo piano.

In sintesi, il gruppo intermedio e` una microcomunita` e quindi una microcultura creata artificialmente, per cosı` dire “in laboratorio”. Questo grup-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

po piu` grande spazia dal mondo interno individuale fino alla comunita` alla quale l’individuo appartiene. Esso offre un setting adatto a capire i modelli culturali gruppali. Tali modelli, trasposti nel gruppo, si estendono da un modello istintuale pre-edipico ad uno edipico di genitori e fratelli (cultura familiare) fino alla cultura sociale. Per de Mare´ «la cultura del gruppo e` la mente del gruppo». Le culture sono tre: 1)

2)

3)

BIOCULTURA: equivale all’ES della ` costituita dai modelli mente individuale. E comportamentali basati sulla fase di sviluppo psicosessuale ampiamente condiviso. Comprende cioe` livelli pre-edipici: orale, anale, fallico (cultura orale, anale ecc.) e gli archetipi dell’inconscio collettivo; SOCIOCULTURA: equivalente al Super-Io ` costituita dalle della mente individuale. E ideologie, dalla morale, dalle leggi, dai va` repressiva, lori, dagli ideali ecc. dominanti. E frustrante, antilibidica, antiincestuosa; IDIOCULTURA: equivalente all’Io della ` la cultura che coltiva mente individuale. E l’affermazione dell’Io e del Se´.

Nel gruppo intermedio lo scontro tra la Biocultura e la Sociocultura e` trasformato, attraverso il dialogo, nella Idiocultura (Schema 8). La maturazione individuale avviene per cosı` dire “in simultanea” con quella gruppale. La Idiocultura del gruppo intermedio permette alle pulsioni della Biocultura di essere espresse, ridimensiona le pressioni della Sociocultura e determina l’affermazione dell’Io e del Se´. Ancor piu` che nel piccolo gruppo, nel contesto sociale piu` grande l’individuo impara a parlare ed a gestire le emozioni suscitate, la qual cosa diventa un esercizio molto attivo. L’Io si allena a far fronte sia alle forze repressive che alle emozioni sollevate (Ego training in action). L’individuo impara gradualmente a pensare e parlare spontaneamente. Le relazioni tra Es e Io da una

parte e il Super Io dall’altra si modificano a favore di una maggiore liberta` e forza dell’Io. All’inizio il pericolo dell’attacco persecutorio da parte del gruppo nei confronti dell’individuo e della dissoluzione dell’individuo nella massa (conflitto individuo-gruppo) da` origine ad un panico di intensita` quasi psicotica. La paura di parlare e di perdere l’identita` conduce ad un isolamento narcisistico. Man mano che il dialogo procede l’identita` (il Se´) sorge dall’atmosfera Koinonica dell’interazione sociale. Il dialogo incoraggia la caduta dei meccanismi di difesa e la libera espressione individuale. Esso permette il superamento delle barriere narcisistiche individuali nei confronti del mondo esterno. Il rispecchiamento ha un ruolo fondamentale: l’individuo arriva a conoscere se´ stesso attraverso la reazione che provoca negli altri e l’immagine che gli viene restituita. Aspetti inconsci del Se´ vengono scoperti attraverso l’interazione ed il dialogo. L’individuo si differenzia attraverso un continuo confronto di somiglianze e differenze con gli altri (Brown D. J., 1986; Pisani R. A., 1995, 1997). In misura molto piu` rilevante che nel piccolo gruppo, l’individuazione e` l’espressione dell’integrazione dell’inconscio individuale e sociale a livello cosciente e del riconoscimento e la ricucitura della parti scisse del Se´ (Self training in action). Per quanto riguarda indicazione, selezione, durata ecc. per il gruppo intermedio i criteri sono analoghi a quelli del piccolo gruppo. Particolare importanza hanno la capacita` di insight-outsight, la motivazione al cambiamento ed una relativa forza dell’Io per gli psicotici. Come per i piccoli gruppi l’esito del trattamento puo` consistere in una remissione sintomatica, in un relativo rafforzamento o nella ristrutturazione dell’Io e del Se´.

Le psicoterapie di gruppo

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Schema 8: Mente del gruppo.

5. Illustrazioni cliniche

5.1. Una seduta del piccolo gruppo La seduta riguarda l’effetto dinamico relativo alla fine della osservazione di una psicologa os` servatrice dopo la fine della sua osservazione. E una seduta del piccolo gruppo condotto da Pisani R. A. nel 1986, nell’ambulatorio della ex Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Universita` di Roma. Il gruppo e` composto di 7 pazienti: 4 donne

(D., R., N., C.) e 3 uomini (G., F., S.). T. e` il terapeuta. All’inizio della seduta si parla del cambiamento terapeutico, riferendosi ad un membro che aveva finito la terapia e che aveva lasciato il gruppo da poco. D. nota subito che la psicologa non c’e` piu`. ` vero, non me ne ero accorta, era una R.: «E presenza che non era presenza». N.: «Io sı`, l’avevo anche detto la volta scorsa». G.: «Io e` la seconda volta che me ne accorgo». R.: «Vedevo una sedia vuota ma non realizzavo, forse l’avevo esclusa dentro di me, ma non

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

faceva parte del gruppo quindi non ho sentito la sua assenza, meglio cosı` altrimenti era drammatico». Torna il discorso sul cambiamento, vero o presunto, del membro che aveva finito la terapia, del quale in qualche modo il gruppo sente la perdita. Si commenta che il suo problema era quello di non essere capace di esprimere all’esterno l’aggressivita`, la qual cosa lo portava a star male, ad avere tanti disturbi per cui finiva sempre al Pronto Soccorso degli ospedali, prima della psicoterapia. Per R. piu` che il cambiamento vero e` la consapevolezza di certe cose che e` gia` un cambiamento, perche´ «sapendo cerchi di modificarti, di adottare nuovi schemi di comportamento». N. e` dubbiosa sui cambiamenti. Di se stessa dice che attualmente si sente solo un po’ anestetizzata, fa il confronto tra la psicoterapia gruppoanalitica e lo Yoga, che lascia intendere determini piu` rapidi cambiamenti. Segue una discussione sulla psicoterapia in privato, a proprie spese, e quelle in pubblico con pareri discordi se l’impegno economico responsabilizzi di piu`. C. chiede: «L’assistente non viene piu`?» T.: «Vedo che torna questo argomento, il gruppo si osserva notando le assenze, mi chiedo se cio` abbia un senso». R.: «L’ultima volta era molto pallida». D.: «Mi fa piacere non vederla piu`, la odio. L’ultima volta volevo parlare ma non avevo voglia di comunicare». T. chiede al gruppo di fare fantasie sulla psicologa. C.: «Ero abituata alla sua presenza anche se all’inizio l’ho aggredita». D.: «Sono contenta che non viene piu`. Infatti, prima che venisse il terapeuta mi mostrava affetto. Da quando e` venuta lei non mi ha piu` calcolato». R.: «Sei gelosa?» D.: «Sı` ed in piu` credo che non abbia migliorato la mia resa qui, questo distacco che ho provato non e` stato utile». Seguono commenti da parte femminile sul sentire o meno la mancanza dell’osservatrice con qualche commento piu` o meno invidioso sul

modo di vestire bene, alla moda, cambiare spesso vestiti, ecc. D. aggiunge: «Non e` neanche detto che il dottore mi dia retta, credo che manterra` il solito atteggiamento professionale distaccato». T.: «Puoi dire quello che ti viene in mente sulla gelosia?» D. dice che quando e` gelosa non capisce piu` niente. Pensa alla madre che baciava sempre il fratello: era molto gelosa sia dell’uno che dell’altra. N. racconta di avere sognato di stare su un ponte con delle amiche ed un uomo di colore; poi di stare in una grande casa dove l’uomo di colore le tocca il sedere: all’inizio si ribella, poi pero` lo porta in una camera dove ha un rapporto sessuale con lui. Infine compare una persona adulta che la invita ad andare con sua figlia. Segue una discussione sulla gelosia. N., tra l’altro, ha cominciato ad avere sintomi di depressione dopo che ha scoperto che il marito aveva un’amante. T. invita il gruppo a fare fantasie sulla negritudine, lo straniero ecc. G. in passato aveva provato a fare una scappatella con una negra. La moglie lo ha trattato molto male. Cio` lo ha indotto ad evitare ogni tentazione in seguito. Per R. il negro e` il massimo della trasgressione. T. avanza l’ipotesi che il negro, in quanto tale, da una parte potrebbe essere la rappresentazione dell’istintualita` selvaggia, primitiva ed aggressiva (come nella realta` sembra essere stato il padre di N.), dall’altra rassomiglia al terapeuta. «Non mi appartiene, allora la trasgressione si puo` fare». Si chiede se la psicologa osservatrice possa essere stata sentita come moglie e madre. Per F. la masturbazione e` il massimo della trasgressione. Di solito fa fantasie masturbatorie su donne reali. In passato pero` ha avuto paura di essere omosessuale per aver fantasticato di praticare la fellatio con un amico. «La mattina quando mi svegliavo avevo questa immagine anche se non avevo apertamente il desiderio. Era poco che mi ero lasciato con una donna dopo sei anni, stavo male».

Le psicoterapie di gruppo

S.: «Quando mi masturbo penso ad una donna con i seni grossi». R.: «Molto materna», commenta. S.: «La donna con cui ho una storia di letto ha i seni molto grossi. Dopo che ho fatto l’amore, passano cinque-dieci minuti prima che parli. Ho una specie di rifiuto, per un po’ di giorni non la voglio vedere». R.: «Forse lo vivi come un rapporto incestuoso». T. invita N. a fantasticare come sarebbe un bianco sotto la pelle del negro. N.: «una persona che mi fa violenza …. pensavo a mio zio, il fratello di mio padre, e` un donnaiolo» …. Racconta una fantasia di quando era bambina: «Immaginavo di stare tra mia zia e mio zio al mare. Accompagnavamo mia zia in un posto, poi rimanevamo soli e andavamo in una casa dove lui si comportava come uno zio affettuoso; poi mi diceva di spogliarmi mentre lui si spogliava. Io mi vergognavo, ma poi chiudevo la porta e rimanevamo lı` spogliati ….. non c’e` dolcezza in tutto questo, anche se a volte essere costretta mi affascina». R.: «Che strano, anche nella mia fantasia c’e` sempre un uomo che mi costringe. Fantasticavo un marito che costringeva la moglie a fare l’amore, la qual cosa mi ha sempre eccitato… l’uomo prepotente mi sembra piu` virile…..». N.: «Anche a me, pero` non mi piace». T. sottolinea l’ambivalenza tra la fantasia erotica della sottomissione e la rabbia per lo stesso motivo (come con il maestro di arti marziali di cui N. aveva parlato nelle sedute precedenti), l’invidia e l’identificazione, a volte, con un uomo di questo tipo. Si chiede se questo possa essere collegato con la conclusione del sogno di avere un rapporto con una donna piu` giovane. La seduta finisce che anche ad N. ed a R. piacciono i seni grossi…. La perdita di un membro e dell’osservatrice provoca nel gruppo angosce di separazione e di distacco, che vengono elaborate a vari livelli della matrice gruppale: Livello di realta`: la perdita di un membro e della osservatrice. Livello transferale edipico: con attrazione, repulsione, gelosia, ambivalenza.

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Livello proiettivo pregenitale: masturbazione, omosessualita`, fellatio, sadomasochismo. Livello primordiale: separazione dalla madre dai seni grossi, donatrice di calore e nutrimento; la Grande Madre arcaica.

5.2. Una seduta del gruppo intermedio Il gruppo analitico intermedio, come detto in precedenza, pone il contesto socioculturale al centro del trattamento. Nella cultura dell’Italia centromeridionale il tema dominante e`, ad un livello inconscio molto profondo, la dipendenza dalla madre arcaica, onnipotente e iperprotettiva (Pisani R. A., 1993). La dipendenza dalla madre esprime due aspetti: la paura della separazione e della perdita e quella della fusione divorante. L’ansia di separazione e` percepita come panico e frammentazione, l’ansia fusionale come assimilazione e annullamento. L’ansia fusionale riguarda l’aspetto negativo e aggressivo dell’archetipo della Grande Madre, la qual cosa e` espressa, nei miti e nelle leg- gende locali nella figura della strega che divora i bambini. La relazione primaria madre-bambino, che caratterizza il contesto culturale, e` anche il tema comune del gruppo intermedio di pazienti selezionati tra persone provenienti dall’Italia centromeridionale. Le ansie di separazione e quelle fusionali sono opposte al bisogno di emancipazione ed individuazione. Lo scontro tra i sessi e il problema dell’identita` maschile e femminile, emergono come tema culturale e l’intero gruppo e` coinvolto nella sua risoluzione. Il problema dell’identita` sessuale e` strettamente connesso con quello dell’identita` personale (Pisani R. A., 1995, 1997). La seduta riportata e` una tra le piu` significative del gruppo analitico intermedio iniziato da Pisani R. A. nel 1991, a frequenza settimanale, nell’ambulatorio della ex Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Universita` di Roma. Il gruppo, con membri diversi, e` tuttora in corso (1998).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia Schema 9: Circolo vizioso “Divorare o essere divorati” (Biocultura).

La seduta ha come tema centrale il bisogno fusionale che ha come figura di primo piano Gs. (omosessuale) e R. (borderline) sullo sfondo del gruppo. Il bisogno e` talmente forte da far perdere a Gs. e R. l’identita` biologica maschile per acquistare quella psicologica femminile. In questa seduta sono presenti 16 pazienti: 6 donne (S., A., Cr., Mt., Ga., L.) e 10 uomini (Gs., R., G., Fe., Ad., Gp., N., E., M., Fr.). La seduta inizia con M. che ripropone il conflitto tra la dipendenza e la ribellione verso i “capi” e le autorita` in genere. Si ripropone il tema di “uscire dal cunicolo” come metafora del processo di individuazione. Gs.: «Vorrei fare il discorso delle talpe…». S.: «Mi sembra di aver capito che il discorso delle talpe e` un po’ simile a quello del cunicolo». Gs.: «…Mi sono tornati in mente dei ricordi di quando ero ragazzino… mi trovavo in campa-

gna con mia madre. Cercavamo una talpa per ammazzarla ... io l’ho uccisa con la vanga. Mi ha fatto associare che quando stavo per colpire la talpa con la vanga ho visto (in fantasia) mio padre seduto davanti a me e l’ho colpito con la vanga sui genitali… Sempre con mia madre sono andato una volta al mattatoio. Avevo 7-8 anni. Sono rimasto colpito dal vedere un vitello ucciso a cui avevano tagliato i genitali… negli incubi che ho avuto successivamente ho collegato questa cosa a mio padre... quasi come se mi alleassi con mia madre per castrare mio padre… Ho sognato un’altra volta di fare l’amore con mia madre… l’ho voluta trasformare in una battona che praticamente mi sodomizzava con la mano… non l’ho accettato neanche in sogno di stare con mia madre, e` una cosa che gia` al pensiero mi fa schifo». Segue una discussione tra Gs., M., Cr., Fr., A. sul ruolo di repressione dei genitori e sull’intra-

Le psicoterapie di gruppo

prendenza-autonomia dei fratelli di Gs. rispetto a lui. Gs. parte sempre sconfitto, sua nonna (paterna) lo ha sempre svalutato nei confronti di fratelli, cugini ecc. A.: «Come vedi la figura maschile?» Gs.: «Un uomo lo vedo molto sicuro, deve esprimere una virilita` che non mi sento addosso» (una virilita` interiore). Cr.: «Tuo padre come era?» ` un tipo effeminato?» A.: «E ` un perdente, forse gli assomiglio pure Gs.: «E troppo… anche mia nonna lo ha sempre svalutato…». A.: «Facendolo sentire come una femminuccia». Gs: «Mia nonna ha una fobia di tutto…». A.: «Una donna come la vedi?». Gs.: «Non mi piace il fatto di cercare protezione, che e` una cosa che mi sento addosso». A. obietta che spesso l’uomo e` piu` debole delle donne. Gs. ribadisce che l’uomo deve essere forte dentro. «L’anno scorso ho visto Aldo (il suo amante) molto debole e gia` mi aveva smontato». Si ripropone il tema della dipendenza ed A. invita Gs. a vivere solo con tutte le sue debolezze. Gs.: «La mia ricerca di affetto e` assurda… questo e` un comportamento puramente infantile». A.: «Anch’io sono cosı`…». R. (rivolto a Gs. che gli fa da specchio): «Volevo dirti che molte cose che hai vissuto le ho vissute anch’io. Soprattutto questo rapporto con mia madre che tendeva ad escludere mio padre come figura negativa e queste avances sessuali. Anche di pomeriggio andavamo a letto. Quando mia madre si accorgeva che c’era attrazione da parte mia tendeva a cambiare discorso. Mi hai anche ricordato mia nonna paterna con cui ho vissuto un periodo. Mia madre mi diceva sempre ‘quando papa` verra` trasferito io lascio papa` e andiamo a vivere io e te da soli’. Poi mio padre fu trasferito e mia madre non fece questo passo. Me ne andai a vivere per protesta da mia nonna». A.: «Come ti trattava tua madre da piccolo?» R.: «Mi coccolava, mi toglieva qualsiasi possibilita` di avere un amico. Io e lei e basta! …. Da lı`

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iniziai a travestirmi da donna con gli indumenti di mia madre, a 13 anni». T.: «Era tanto il bisogno di stare con lei che addirittura ti identificavi con lei, ti mettevi i suoi vestiti». R.: «Sı`, da lı` pero` iniziarono le mie ossessioni, quando pensavo guardandomi allo specchio di essere penetrato da un uomo che poi non si sapeva bene chi fosse». Gs.: «Quando ebbi la prima fantasia, mi impersonificavo con mia madre e penetravo mia madre; nel sogno ero io stesso che mi penetravo, pero` io ero mia madre». ` talmente indifferenziata la cosa che tu T.: «E sei tu e lei contemporaneamente». R.: «C’e` questa visione delle donne col pene». Gs.: «Quando mi viene la fantasia di essere sodomizzato da una donna c’e` sempre la mano o qualche oggetto». ` come se io percepissi che il pene e` A.: «E uguale all’essere forte, gli organi femminili sono la debolezza». G. sente gli interventi del gruppo come paura di uscire dal cunicolo. Cosı` si rimane intrappolati. Questo e` anche il suo problema. Anche sua madre gli ha impedito di avere qualsiasi relazione con il mondo esterno e con gli altri. Anche Fr. ha vissuto un rapporto esclusivo con la madre, una donna forte che ha sempre dominato la scena familiare, mentre il padre era una figura di secondo piano. Pur riconoscendo la dipendenza dalla mamma “chioccia” non riesce a liberarsene. R.: «Forse la fusione del padre autoritario e della mamma chioccia rappresenta la mamma col pene». Fe.: Anche lui ha avuto una madre molto forte. Quando riposava nel pomeriggio si accoccolava vicino a lei. Appena se ne accorgeva lo respingeva a calci. «Ma cio` che mi ha fatto allontanare definitivamente da lei e` stato il fatto che mi colpevolizzava per il suo stare male. Fu un vero trauma quando mi picchio` per un brutto voto preso a scuola; mi picchio` a sangue…». T. sottolinea che questa seduta e` lo sviluppo delle precedenti centrate sul conflitto fusioneseparazione. «Se mi separo sono solo al mondo.

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R. parlava della disintegrazione di se stesso ... Se non mi separo sono fuso…». Cr. riflette sui suoi modelli genitoriali. Il padre molto assente mentre la nonna e` la piu` potente in assoluto della famiglia. Incarna sia la ` quella che figura di uomo che quella di donna. «E ha sempre comandato!» S. ha vissuto la madre come figura molto forte. Le ha fatto da padre e da madre. La vede troppo invasiva ed autoritaria. La sente piu` come padre che come madre. Il padre l’ha fatta soffrire. «Con lui ho chiuso!» Al termine della seduta tutto il gruppo si rispecchia sul tema della dipendenza e la difficolta` ad «abbandonare il cunicolo». G., Gs., R., M., Fr., Cr., S., Fe., in particolare, confermano che il profondo legame con la madre arcaica, la donna con il pene, e l’assenza, il conflitto e la svalutazione-castrazione del padre sono alla base di una incompleta identificazione maschile e femminile.

6. Altre psicoterapie di gruppo

6.1. Lo psicodramma Lo psicodramma e` la creazione di J. Moreno, al quale si deve anche il termine di psicoterapia di gruppo. Negli anni ’20 Moreno inizio` con gruppi di bambini nei parchi di Vienna e successivamente creo` il “teatro della spontaneita`”. Emigrato negli U.S.A. nel 1925, inizio` il trattamento con gruppi in cui i pazienti possono rappresentare i conflitti legati ai ruoli, conflitti ritenuti come l’essenza della nevrosi. Moreno ha criticato Freud per avere limitato l’indagine al passato. L’esclusione del presente e del futuro limita la spontaneita` ed esclude l’interazione tra l’individuo ed il gruppo. La personalita` individuale si realizza solo attraverso l’interazione sociale. ` e la CREATIVITA ` sono La SPONTANEITA la forza propulsiva al comportamento umano. Il conflitto fondamentale si svolge tra il ruolo creativo e quello imposto. Il ruolo creativo e` quello in

cui e` il soggetto ad inventare il ruolo ed a modificarlo a seconda delle proprie esigenze. Il ruolo imposto e` quello prescritto dal sistema sociale, frutto dell’influenza che la societa` esercita sull’individuo. Il ruolo di ciascuno e` determinato da quello degli altri. Il tele` e` il legame affettivo che lega una persona all’altra e che permette la formazione dei gruppi ed e` alla base del processo terapeutico. Il transfert si strutturerebbe come sostituto del tele` per il fallimento di esperienze relazionali. La terapia consiste nel favorire e liberare la spontaneita` valorizzando gli elementi positivi delle relazioni e migliorando la comunicazione interpersonale. Si puo` cosı` apprendere il ruolo giocato da ciascuno in relazione a quello degli altri. Lo psicodramma comprende 3 fasi: riscaldamento, azione, dibattito. Il terapeuta svolge il ruolo del regista. La fase di riscaldamento serve a stabilire canali di comunicazione che possono sfociare in catarsi delle passioni latenti (paura dell’incesto, rabbia, assassinio ecc.), insight e riapprendimento. Nella fase di azione il protagonista rappresenta scenicamente il suo problema e funge da punto focale della comunicazione. Gli Ego Ausiliari sono membri del gruppo, interpretano la persona e gli elementi fondamentali del protagonista. L’uditorio aiuta il soggetto con gli echi, partecipa con l’identificazione e la proiezione. Il regista per stimolare l’insight usa delle tecniche come l’inversione dei ruoli, il doppio, la sedia vuota ecc. Nella fase del dibattito viene svolto un esame intensivo, da parte del protagonista e del gruppo, del significato della seduta.

6.2. La Gestalt terapia ` la terapia messa in atto da F. Perls in E U.S.A. Perls ritiene che le nevrosi siano causate dalla

Le psicoterapie di gruppo

scissione gestaltica tra le mente ed il corpo, tra l’individuo ed il suo ambiente. Il comportamento e` determinato da bisogni che spingono l’individuo a contatto con l’ambiente. I bisogni (fame, sete, sessualita`, di non essere isolati) sono al servizio della sopravvivenza. La mente, il corpo e la realta` esterna sono continuamente interdipendenti. Le inibizioni bloccano l’espressione dei bisogni. Il comportamento nevrotico e` espressione di autoregolazione negativa. Il bisogno non espresso, perche´ considerato ` pericoloso, viene rimosso e reso inconsapevole. E un comportamento relativo a modelli imposti dalla civilta` e dalla cultura. Scopo della terapia e` rimuovere gli ostacoli, liberare i bisogni inibiti e riacquistare la consapevolezza del proprio corpo, dei bisogni interni e degli stimoli, ricostituendo cosı` l’unita`. La drammatizzazione e` usata per esplorare ed esprimere una maggiore consapevolezza di se´ nel “qui ed ora” utilizzando i ruoli o gli esercizi. Gli esercizi gestaltici sono tecniche al servizio della immediatezza e consapevolezza. Il paziente e` in primo piano ed il gruppo sullo sfondo. Ad esempio, nell’esercizio del dialogo il paziente deve creare una conversazione tra due parti scisse dal se´ (ad es. parte maschile e femminile), oppure tra se´ e qualche altra persona seduta in una sedia vuota, oppure viene espresso ad ognuno quello che sente e viceversa da parte degli altri. Nell’esercizio dell’esagerazione si chiede al paziente di agire il sentimento di cui si lamenta in forma accentuata. Nell’esercizio del rovesciamento, di rappresentare l’opposto. La terapia gestaltica considera le parole come poco affidabili e difensive mentre i sentimenti e l’espressione corporea sono ritenuti piu` affidabili.

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57 La psicoterapia relazionale o sistemica Luigi Onnis Parole chiave teoria dei sistemi; contesto; sistema interpersonale; ciclo vitale; doppio legame; modello strategico; modello paradossale; modello strutturale; modello esperienzale, modello boweniano; modello contestuale; miti familiari; paradigmi evolutivi; paradigmi costruttivisti; sistemi autoreferenziali.

La psicoterapia relazionale o sistemica nasce circa mezzo secolo fa dall’esigenza di ricollocare il comportamento umano, normale e patologico, in un ‘‘contesto di relazioni’’ o in un ‘‘sistema di appartenenza’’, di contro alla tendenza di una psicoanalisi che pareva eccessivamente focalizzata sullo studio delle dinamiche intrapsichiche dell’individuo isolato. Ispirandosi come paradigma concettuale alle teoria dei sistemi, la psicoterapia relazionale ne ha derivato i princı`pi di “causalita` circolare”, elaborando una concezione non deterministica e non colpevolizzante dei disturbi psichici; sotto il profilo clinico, ha concentrato l’attenzione e l’intervento soprattutto su quel sistema primario di appartenenza che e` la famiglia (per cui e` largamente nota come “terapia familiare”), evidenziando come comportamenti sintomatici apparentemente incomprensibili possano trovare, se visti nel loro contesto di riferimento, utili chiavi di lettura e di interpretazione.

La prospettiva che essa apre modifica, dunque, notevolmente i concetti di sintomo, di diagnosi, di intervento terapeutico rispetto a quelli psichiatrici tradizionali. Se l’ispirazione alla teoria sistemica e` stata sempre un elemento unificante sul piano concettuale, gli indirizzi terapeutici si sono pero` articolati in differenti modelli secondo l’apporto originale e creativo dei vari Autori: i modelli strategico, paradossale, strutturale, esperienziale, boweniano, contestuale, per non citare che i piu` significativi. Nella fase iniziale del suo sviluppo, anche per l’esigenza di acquisire una fisionomia propria e autonoma rispetto alla psicoanalisi, la terapia sistemica ha concentrato il proprio interesse soprattutto sulle modalita` interattive e comunicative dei sistemi familiari e sulle dinamiche del loro equilibrio e del loro funzionamento. Negli ultimi venticinque anni, pero`, la psicoterapia sistemica ha subı`to una profonda trasformazione teorica e pratica per l’incontro con altri

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paradigmi concettuali (quali, in particolare, i modelli evolutivi, i paradigmi costruttivisti, l’ottica della complessita`) e ha valorizzato l’importanza di aspetti che, nelle prime elaborazioni, erano rimasti piu` in ombra: la ricostruzione delle storie transgenerazionali e il recupero del passato; il rilievo delle soggettivita` individuali, l’esplorazione dei “miti” e dei “fantasmi” familiari; una concezione

della relazione terapeutica ispirata al dialogo e alla “costruzione a due”. Questo fecondo rinnovamento epistemologico, che ha naturalmente ripercussioni sulla pratica clinica, rende oggi la psicoterapia sistemica piu` ricca e complessa, aperta all’incontro (e al confronto) con altri orientamenti psicoterapeutici. * * *

La psicoterapia relazionale o sistemica

1. Introduzione La psicoterapia relazionale o sistemica e` quella teoria e pratica psicoterapeutica che, ispirandosi, come quadro concettuale, alla teoria dei sistemi, centra essenzialmente il proprio interesse sui sistemi interpersonali, focalizzando in modo prevalente l’indagine e l’intervento sugli aspetti interattivi e comunicativi del comportamento umano. Ma perche´ una definizione cosı` generale? Perche´ essa e` utile a chiarire come questo indirizzo psicoterapeutico possa trovare possibilita` di applicazione in ogni sistema interattivo umano, anche se, sotto il profilo storico, la famiglia e` stato il primo e privilegiato campo di studio e di intervento, tanto che e` ancora oggi diffusa la denominazione restrittiva di “terapia familiare”. La definizione generale che abbiamo sopra proposto lascia, pero`, anche delle zone d’ombra, come spesso accade alle definizioni molto generali. Enfatizzando l’attenzione della psicoterapia sistemica per la “relazione”, essa infatti fa torto all’interesse crescente che questo indirizzo psicoterapeutico ha parallelamente rivolto, specie nei suoi sviluppi recenti, a problemi altrettanto essenziali quali la “storia” dell’individuo e del suo gruppo di appartenenza, l’“organizzazione cognitiva”, le “specificita`” individuali e sistemiche (come vedremo meglio piu` avanti). ` indubbio, comunque, che la psicoterapia siE stemica raccoglie i frutti del rilievo crescente che, negli ultimi decenni, le discipline psicologiche e psicoterapeutiche hanno attribuito agli aspetti relazionali del comportamento umano, tentando di distanziarsi, da un lato, dalle semplificazioni di derivazione ancora meccanicistica del comportamentismo prima maniera, e di superare, dall’altro, l’esclusiva valorizzazione delle valenze intrapsichiche propria degli orientamenti psicodinamici classici. L’applicazione dei concetti sistemici alla psicologia e alla psichiatria ha provocato, secondo Grinker (1956) una “terza rivoluzione psichiatrica” (dopo quella psicoanalitica e quella comportamentistica), in particolare per «il lento spostamento dell’interesse teorico verso una tendenza a sviluppare teorie del comportamento umano piu` generali, onnicomprensive e unificate».

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Ma l’aspetto piu` significativo e “rivoluzionario” della teoria dei sistemi e della sua utilizzazione nel campo della psicoterapia e delle scienze dell’uomo in generale e` costituito dal fatto che essa introduce una prospettiva concettuale radicalmente innovativa nello studio del comportamento, proponendosi come nuovo “paradigma”, nel senso di Kuhn, e introducendo, soprattutto con il superamento dei modelli lineari di causalita`, una nuova epistemologia della conoscenza scientifica. La portata dei problemi in gioco e` dunque estremamente ampia e in questo capitolo non potra` essere affrontata che in maniera necessariamente parziale.

2. Le origini storiche Seguire la genesi e lo sviluppo storico della psicoterapia relazionale non e` semplice perche´, come sempre accade per i movimenti culturali complessi, essa deriva dalla convergenza di discipline diverse (dalla sociologia alla antropologia culturale, dalla psichiatria alla psicologia), da ricerche e esperienze eterogenee che trovarono in America, prima che in Europa, un fertile terreno per l’elaborazione di nuove teorie.

2.1. Le matrici culturali ` comunque possibile, seguendo la letteratura E sull’argomento (v. per es. Ruesch e Bateson, 1976; Spiegel e Bell, 1969), individuare alcuni filoni di pensiero che possono essere considerati le matrici culturali della psicoterapia relazionale. Esse sono essenzialmente le seguenti: • • • • •

l’orientamento “culturalista” della psicoanalisi post-freudiana; l’interesse per il “mondo” del bambino nella psichiatria e psicoanalisi infantile; l’attenzione per l’“ambiente” della psichiatria americana; gli sviluppi delle terapie di gruppo; il movimento dell’antipsichiatria europea.

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2.1.1. L’orientamento “culturalista” della psicoanalisi post-freudiana

Per quanto riguarda questa prima matrice culturale, va innanzitutto precisato che gia` la psicoanalisi freudiana, in diverse formulazioni, rivela interesse per le influenze familiari e ambientali sull’origine e la genesi dei problemi psicopatologici. Ma la psicoanalisi classica mantiene una estrema ambivalenza sul rilievo da attribuire a queste influenze. Infatti, da un lato la teoria del complesso di Edipo, la teoria dello sviluppo psicosessuale, la stessa concezione del Super-Io come interiorizzazione delle figure parentali, richiamano chiaramente l’attenzione sull’influenza che i membri della famiglia e i loro comportamenti sembrano avere sia sullo sviluppo psichico del bambino, sia sull’insorgenza di alcuni disturbi mentali e, in particolare, sulla formazione delle nevrosi. Ma dall’altro lato Freud evidenzia nella sua opera che cio` che ha principale importanza non e` la realta` familiare nella sua oggettivita`, quanto piuttosto le distorsioni fantastiche che essa subisce nella psiche infantile. Cio` che e` al centro dell’interesse di Freud e` la dinamica intrapsichica inconscia del soggetto, cosı` che le influenze ambientali, familiari, culturali, (vedi il concetto di “disagio della civilta`”) rimangono piu` speculative che cliniche. In alcuni orientamenti della psicoanalisi postfreudiana compare, invece, una piu` attenta valorizzazione delle relazioni tra l’ambiente e il comportamento dell’individuo. Le cosiddette scuole “culturaliste” neo-freudiane, rappresentate da Autori di grande rilievo, quali Karen Horney, Eric Fromm, Harry Stuck Sullivan (a cui si deve una “teoria interpersonale della psichiatria”), sono tutte caratterizzate da una critica della teoria freudiana delle pulsioni. Esse furono fortemente influenzate dai contemporanei sviluppi dell’antropologia culturale e tentarono di orientare la psicoanalisi verso un maggior interesse per le culture e i rapporti interpersonali e sociali come elementi essenziali per la formazione della personalita` e dei suoi disturbi. I limiti di queste correnti psicoanalitiche ad

indirizzo interpersonale e culturalista consistono soprattutto nel non essere riuscite ad elaborare una teorizzazione e una pratica terapeutica radicalmente innovatrici. Il loro indiscutibile merito e` , comunque, quello di aver sottolineato, nel campo della psicopatologia, l’influenza non tanto delle pulsioni istintuali, quanto delle reazioni al contesto ambientale e alle concrete difficolta` che da esso derivano.

2.1.2. L’interesse per il “mondo” del bambino nella psichiatria e psicoanalisi infantili

` rappresentato soprattutto da due tendenze. E La prima consiste nel vivo interesse che i principali esponenti della psicoanalisi infantile, e tra questi, in particolare, Anna Freud e Melanie Klein, manifestarono per l’influenza che le relazioni con i genitori potevano esercitare sul comportamento del bambino. Pur mantenendo il setting terapeutico rigorosamente riservato al piccolo paziente, esse non trascurarono di segnalare le ripercussioni che alcuni atteggiamenti paterni o materni sembravano avere sull’evoluzione clinica dei disturbi del bambino. La seconda tendenza e` rappresentata dalla attenzione per le difficolta` dell’eta` infantile che caratterizza il panorama socio-culturale americana dei primi decenni del secolo, perche´, come notano Ruesch e Bateson (1976): «La vita della famiglia americana e` organizzata specialmente attorno al bambino, e l’opinione pubblica e` partico` , infatti, larmente sensibile ai problemi infantili». E negli Stati Uniti che, nel 1909, viene promosso il “Child Guidance Moviment”, un programma di assistenza all’infanzia. I centri medico-psicopedagogici previsti dal programma favoriscono un metodo interdisciplinare nello studio dei disturbi del comportamento infantile, specie dopo la introduzione degli assistenti sociali nelle e´quipe col compito specifico di seguire i bambini all’interno della famiglia e della scuola. Attraverso il proficuo incontro di teorie di derivazione psicoanalitica con orientamenti piu` squisitamente sociologici, comincia cosı` ad affermarsi il riconoscimento dell’influenza delle situa-

La psicoterapia relazionale o sistemica

zioni familiari e sociali sui disturbi del comportamento infantile.

2.1.3. L’attenzione per l’“ambiente” della psichiatria americana

Una terza influenza culturale che ebbe grande rilievo nell’orientare l’attenzione sulle matrici relazionali e sociali delle manifestazioni psicopatologiche e` rappresentata dagli indirizzi della psichiatria americana, profondamente influenzata dal pensiero e dall’opera di Adolph Meyer. Secondo la teoria di Meyer i disturbi del comportamento che diventano oggetto di indagine psichiatrica debbono essere considerati come “reazioni abnormi” a situazioni, eventi, difficolta` che si verificano nell’ambiente esterno; la relazione tra l’individuo disturbato e il suo ambiente diventa, dunque, il campo specifico di esplorazione della psichiatria (questa tendenza va, percio`, sotto il nome di “ambientalista”). Meyer concepisce l’individuo come un’unita` che esperisce reazioni sue peculiari agli influssi sociali e biologici, (unita` che egli chiama “complesso psico-biologico”) e fu percio` estremamente critico verso la rigida nosografia di Kraepelin, che prevaleva in Europa, tutta centrata sul concetto organicista di “struttura psicopatologica”, cui sostituı` l’idea di “reazione”. Data l’influenza notevole che la psicoanalisi freudiana ebbe negli Stati Uniti, essa fornı` schemi di riferimento psicodinamici al concetto meyeriano di “reattivita` psicoambientali”, ma non vi e` dubbio che la psichiatria americana si allontano` dalla psicoanalisi classica nella tendenza a rilevare le spiegazioni dei disturbi psichici nelle situazioni ambientali, piuttosto che nella profondita` dell’inconscio.

2.1.4. Lo sviluppo delle terapie di gruppo

Va sotto il nome di “terapie di gruppo” tutta una serie di esperienze psicoterapeutiche, al cui diffondersi contribuisce certamente la convergenza di fattori molteplici: alcuni di ordine pratico, quali la concreta necessita` di dare una rispo-

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sta al numero crescente di domande di trattamento psicoterapeutico (cio` che il setting individuale non avrebbe piu` consentito); altri di ordine culturale, quali le influenze della psicologia della Gestalt (in particolare la “teoria del campo” di K. Lewin) e l’interesse della sociologia americana per i piccoli gruppi (vedi, per es., le opere di Parsons e Bales). Sulla scia di queste diverse influenze, si assiste negli ultimi decenni della prima meta` del secolo a tutta una proliferazione di esperienze terapeutiche di gruppo: dalle prime iniziative di “analisi di gruppo” promosse da T. Burrow nel 1925, al lavoro di Klapman con gruppi di psicotici, dalla ludoterapia di Slevson con bambini disturbati, alle esperienze di Moreno con la tecnica dello psicodramma, fino alle “comunita` terapeutiche” (nella versione introdotta da M. Jones in Gran Bretagna) che non sono che la dilatazione istituzionale di quelle esperienze. Anche se i terapeuti di gruppo, prevalentemente orientati in senso psicodinamico, continuarono spesso ad usare tecniche simili a quelle della terapia individuale, tuttavia la dimensione gruppale mette rapidamente in evidenza come vissuti ed esperienze, facilmente coperti da resistenze nel rapporto individuale, trovano invece nel gruppo, in un gioco di echi e di rimandi, una piu` immediata e spontanea possibilita` di espressione. Questa constatazione naturalmente mette in rilievo l’importanza degli aspetti interattivi e contribuisce a spostare l’attenzione sulla rete delle relazioni gruppali.

2.1.5. Il movimento dell’antipsichiatria europea

Se le correnti finora citate si svilupparono soprattutto negli Stati Uniti, non puo` non essere sottolineato il contributo essenziale dato allo spostamento dell’attenzione dall’individuo al contesto di appartenenza da quel vasto movimento europeo che va sotto il nome di “antipsichiatria”. Centrato sulla critica alle connotazioni troppo riduttivamente organicistiche che la psichiatria ufficiale attribuisce ai disturbi mentali, questo movimento tende invece a richiamare l’attenzione sulle influenze che il contesto sociale, la cultura

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dominante, le condizioni di vita esercitano sulla sofferenza psichica degli individui. Inadeguati e arbitrari appaiono percio` i provvedimenti terapeutici che abitualmente segregano i malati mentali nelle grandi istituzioni manicomiali, dove la situazione di violenza e di depersonalizzazione che il paziente vi incontra diventa responsabile della cronicizzazione e della involuzione progressiva della sua malattia (e qui l’analisi, come si vede, si allarga anche al contesto istituzionale). Nel clima di contestazione degli anni ’60, il movimento si diffonde rapidamente in tutta Europa, caratterizzandosi differentemente nei vari paesi (V. Onnis, Lo Russo, 1979). In Italia, come e` ben noto, esso da` l’avvio a quell’ampio processo di trasformazione dell’assistenza psichiatrica, processo culturale e pratico al tempo stesso, che ha in Franco Basaglia un punto di riferimento che rimarra` nella storia della psichiatria. Ma per quel che piu` direttamente concerne il nostro discorso, furono soprattutto gli antipsichiatri inglesi che condussero studi approfonditi sulle relazioni tra pazienti psicotici gravi e i loro familiari. Influenzati da ricerche analoghe che, come vedremo, si stavano compiendo negli Stati Uniti, Laing, Esterson, Cooper, misero in evidenza l’importanza dello studio del contesto familiare nella comprensione dei comportamenti dei pazienti schizofrenici.

2.2. Il percorso verso una nuova costruzione teorica Nelle correnti culturali cui si e` accennato e` presente, come si vede, il tentativo comune di allargare il campo di osservazione, estendendolo agli aspetti interpersonali, familiari, sociali del comportamento (quegli aspetti che con termine generale potremmo definire “relazionali”). Tali orientamenti sono inoltre accomunati dalla evidente insoddisfazione per una pratica psichiatrica che, focalizzando l’attenzione e l’intervento sull’individuo singolo, finisce per ridurre il suo scopo, come opportunamente nota Jay Haley (1970), «alla descrizione e classificazione dell’indi-

viduo, secondo il tipo fisico, il carattere, la personalita`, la diagnosi clinica e cosı` via», e finisce per isterilire lo stesso apporto fecondo delle teorie psicodinamiche «limitando notevolmente le spiegazioni possibili a proposito degli uomini e del perche´ delle loro azioni». Ma nonostante gli orientamenti citati abbiano posto le premesse storico-culturali per lo sviluppo della psicoterapia relazionale, si dovettero superare ostacoli e difficolta` prima di giungere alla formulazione di modelli teorico-pratici diversi da quelli puramente monadici, cioe` centrati sul singolo. Tali ostacoli furono soprattutto di due ordini: in primo luogo la persistente reticenza, di derivazione psicoanalitica, a includere nel setting terapeutico piu` di una persona, il paziente; in secondo luogo, la difficolta` concettuale di elaborare categorie teoriche, e quindi anche terminologiche, che fossero in grado di permettere una rilettura dei problemi, descrivendoli non piu` in termini di valenze psicodinamiche, ma in termini di relazioni. Il salto concettuale e`, in realta`, particolarmente decisivo e complesso. Jay Haley (1970) paragona addirittura alla rivoluzione copernicana lo spostamento dell’attenzione, in psichiatria, dall’individuo al contesto sociale nel quale vive; si tratta, come allora, di un passo audace e molti reagiscono in modo quasi religioso contro l’idea che l’uomo non sia il centro focale, ma parte di un contesto che egli stesso contribuisce attivamente e dialetticamente a creare. Ma negli anni ’50 si crea finalmente un clima culturale particolarmente favorevole, che investe trasversalmente diverse discipline scientifiche: fiorisce l’ecologia; l’etologia, con K. Lorenz, sposta lo studio del comportamento animale dal chiuso dei laboratori all’ambiente naturale; la sociologia, con Goffman, si interessa di contesti istituzionali (le “istituzioni totali”) e di interazioni nella vita quotidiana; l’antropologia culturale, con R. Benedict e Malinowski, evidenzia le influenze delle culture sui ` in questo comportamenti rituali di diverse etnie. E clima culturale cosı` fecondo che, finalmente, l’interesse per i processi interattivi sfocia nelle prime, chiare formulazioni teoriche e nei primi tentativi di intervento terapeutico.

La psicoterapia relazionale o sistemica

2.2.1. I primi studi relazionali sulla schizofrenia

Sono, in particolare, gli studi sulle malattie piu` gravi, le sindromi schizofreniche, che offrono il contributo piu` importante per una modifica dell’approccio psichiatrico e per porre piu` solide basi per lo sviluppo della psicoterapia relazionale. • La diade In quella straordinaria fucina di elaborazione teorica che fu l’Istituto di Chestnut Lodge (nel Maryland), fondato da Sullivan, viene proposto nel 1948, ad opera di Frieda Fromm-Reichman, il concetto di “madre schizofrenogena”; ad essa segue quello di “madre perversa”, formulato da John Rosen. Si tratta sul piano concettuale di un salto qualitativo di grande importanza storica: infatti il rapporto madre-figlio non e` piu` visto solo in termini eziologici di causalita` confinata in un lontano passato infantile, ma in termini di relazione attuale e reciproca. Il valore di questa idea, come nota J. Haley (1970), non e` certo che le madri vengono deposte dal loro piedistallo, ma che, piuttosto, per la prima volta, l’unita` disturbata non e` piu` la persona singola, cioe` la monade, ma la diade. • La triade Il prevalente interesse, di matrice psicoanalitica, per la relazione madre-figlio, aveva lasciato in ombra la figura paterna. Questa lacuna fu colmata da una serie di studi che, sempre nell’ambito delle ricerche sulla schizofrenia, sono centrati sul padre, sia nel rapporto col figlio che in quello col coniuge. Gli studi di Lidz (1957) evidenziarono padri frequentemente “periferici” e “inadeguati” e indussero a considerazioni sulla rilevanza di questa marginalita` del ruolo paterno agli effetti dell’invischiamento del figlio nel legame con la madre; circa la relazione coniugale Lidz parla di “deviazione coniugale” o di “scissione coniugale” per sottolineare il frequente riscontro del fallimento di ognuno dei due coniugi nel soddisfare i bisogni dell’altro. Tale ipotesi e` ripresa da Bowen (1964) che formula il concetto di “divorzio emotivo” e fonda su questo la sua teoria delle “tre generazioni”, in base alla quale una analoga situazione di

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distanza emozionale e` frequentemente evidenziabile anche tra i nonni dello schizofrenico. I lavori citati, che non sono che i piu` significativi, testimoniano la tendenza ad ampliare il contesto relazionale esaminato, estentendolo ad una struttura che diviene ora triadica. • La famiglia come unita` La concezione della famiglia come unita` funzionale strutturale, verso la fine degli anni ’50, e` ormai matura, perche´ tutti gli studi precedenti rinviano ad essa come sistema durevole di relazioni interdipendenti. Se a John Bell la tradizione attribuisce la prima seduta con un intero gruppo familiare, nel 1953, sono pero` due le ricerche che, compiute sull’intera famiglia del paziente schizofrenico, definiscono chiaramente il nucleo familiare come inscindibile unita` bio-psico-sociale: la ricerca sulla “pseudomutualita`” del gruppo di Wynne (1958), e quella sul “doppio legame” del gruppo di Bateson (1956). Wynne e coll. propongono l’esistenza, nelle famiglie degli schizofrenici, di uno schema di rapporti, indicato col termine di “pseudomutualita`”: esso contraddistingue una forma di organizzazione delle relazioni familiari nella quale ogni differenziazione dei singoli membri e` impedita e ogni discrepanza negata, poiche´ sentita come minaccia costante all’unita` familiare. Due anni prima Bateson, pensatore dalla creativita` interdisciplinare e grande pioniere dall’approccio sistemico-relazionale, col suo gruppo di ricerca (costituito da Haley, Jackson e Weakland) aveva evidenziato l’alta frequenza, nella famiglia dello schizofrenico, di un disordine di livelli di comunicazione che venne definito “doppiolegame” (double-bind). L’idea proposta era che al paziente schizofrenico venissero inviati in modo ripetitivo, da uno o da entrambi i genitori, messaggi contenenti due livelli di significato incompatibili tra loro, senza che gli fosse data la possibilita` ne´ di denunciarne l’incongruita`, ne´ di abbandonare il campo; l’unica via d’uscita in tale situazioni sarebbe percio` una risposta altrettanto incongrua, quale e`, appunto, il comportamento psicotico. Tali studi rinviano, dunque, alla famiglia intera come unita` inseparabile.

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Ma nel momento in cui si compie questo ulteriore e decisivo salto concettuale, cioe` la valutazione della famiglia come sistema che va considerato nella sua totalita`, si verifica anche la insufficienza dei riferimenti teorici e l’inadeguatezza degli stessi strumenti espressivi e operativi. Ecco perche´, al di la` dei contributi ancora parziali dei ricercatori citati, matura progressivamente, lungo il percorso di questi studi, la necessita` di riferirsi a una base teorica piu` complessiva e a una metodologia piu` sicura e piu` stabile. Tale riferimento teorico e metodologico venne individuato da molti gruppi di studiosi delle relazioni interpersonali, in una teoria che, all’inizio degli anni ’50, cominciava ad imporsi tra i cultori delle scienze umane: la teoria generale dei sistemi, proposta inizialmente, circa vent’anni prima, nel campo della biologia, del suo Autore L. Von Bertalanffy.

3. Il modello concettuale di riferimento: la teoria dei sistemi 3.1. Principi teorici generali Ma perche´ gli studiosi delle relazioni interpersonali rivolsero il loro interesse alla teoria dei sistemi? Perche´ constatarono che anche l’interazione umana si “organizza” secondo i criteri e le modalita` di un “sistema”. Appare percio` opportuno, senza pretendere di esaurire un argomento cosı` complesso, dare alcuni accenni essenziali ai princı`pi generali della teoria dei sistemi. La teoria dei sistemi nasce dalla crisi del modello meccanicistico, originato dalla fisica classica del diciannovesimo secolo: un modello fondato su una rigida concezione di causalita` lineare che pareva essere alla base di tutti i fenomeni, sia di quelli del mondo inanimato, come di quelli del mondo vivente e mentale. Ma e` proprio quando si addentra ad esplorare la materia vivente che tale modello mostra i suoi limiti. Infatti, la scansione analitica delle componenti costitutive non e` sufficiente a rendere ragione dei fenomeni vi-

venti, ne´ la connessione delle singole parti con rapporti lineari causa-effetto e` adeguata a comprendere la complessita` delle loro relazioni reciproche, che appaiono conformate non a criteri meramente causalistici, ma a princı`pi di organizzazione, di ordine, di teleologia. Scrive a questo proposito L. Von Bertalanffy (1971), uno dei pionieri della teoria: «L’unico scopo della scienza risultava essere di tipo analitico, e cioe` tale da consistere nella suddivisione della realta` in unita` sempre piu` piccole e nell’isolamento dei singoli freni causali. In tal modo la realta` fisica veniva frantumata in masse puntiformi e in atomi, l’organismo vivente in cellule, il comportamento in riflessi, la percezione in sensazioni puntuali. Corrispondentemente la causalita` era, in sostanza, a senso unico: un certo sole attrae un certo pianeta nella meccanica newtoniana, un certo gene nell’ovulo fertilizzato produce questa o quella malattia, gli elementi mentali sono allineati, come i grani in una collana di perle, mediante la legge di associazione... Possiamo affermare, come caratteristica della scienza moderna, che questo schema in termini di unita` isolabili si e` rivelato insufficiente. Di qui, il comparire in tutti i settori della scienza di nozioni quali quelle di totalita`, di olistico, di organismico, di gestalt, ecc. le quali, complessivamente, altro non significano se non che dobbiamo, in ultima analisi, pensare in termini di sistemi di elementi in interazione». Emerge con chiarezza dal passo riportato l’esigenza di abbandonare un modello meccanicistico di causalita` lineare che scinde, isola ed allinea le singole parti di un tutto, a favore di un modello di causalita` circolare che renda invece ragione delle complesse interazioni tra le parti e le valuti globalmente nelle loro connessioni reciproche: si tratta cioe` dall’esigenza di occuparsi non piu` di fenomeni isolati, ma di “totalita`”, secondo una concezione che Von Bertalanffy definisce “organismica” (da “organismo” nel senso di complesso globale). Tale visione della realta` si fa strada in tutte le discipline scientifiche, comprese le stesse scienze fisico-chimiche. «In contrasto con la concezione meccanicistica — scrive ancora Von Bertalanffy — in diversi settori della fisica moderna hanno fatto la loro apparizione dei problemi concernenti la totalita`,

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l’interazione dinamica e l’organizzazione. Nell’ambito della relazione di Heisemberg e della meccanica dei quanti e` diventato impossibile risolvere i fenomeni in eventi locali; problemi di ordine e di organizzazione compaiono sia che si tratti della struttura degli atomi e dell’architettura delle proteine, sia che si tratti di fenomeni di termodinamica. La concezione organismica e`, ancora, basilare per la biologia moderna. Non e` solamente necessario studiare le parti ed i processi in stato di isolamento, ma anche risolvere i problemi decisivi che si trovano nell’ordine e nell’organizzazione che unificano quelle parti e quei processi, che risultano dall’interazione dinamica delle parti e che rendono il comportamento delle parti ben diverso rispetto a quando e` studiato in stato di isolamento. Inoltre tendenze analoghe sono comparse in psicologia. Mentre la psicologia classica dell’associazione tentava di risolvere i fenomeni mentali in unita` elementari, come se si trattasse di atomi psicologici, del tipo sensazioni elementari e simili, la psicologia della Gestalt dimostrava l’esistenza e il primato di complessita` psicologiche che non sono il risultato di una somma di unita` elementari e che vengono governate da leggi dinamiche». Dai brani riportati si evidenziano gia`, con sufficiente chiarezza, i fondamentali princı`pi ispiratori della teoria: •





a un modello di causalita` lineare che separa ed isola le parti si sostituisce un modello di causalita` circolare che ne valuta le interconnessioni e le interinfluenze reciproche; alla tendenza analitica che disaggrega le componenti di un tutto e poi riduce quest’ultimo alla somma delle sue parti si sostituisce lo studio di “sistemi” come totalita` organizzate, che non sono mai uguali alla somma delle parti, ma a queste piu` le loro relazioni; all’orientamento causalistico che considera il risultato finale di un processo sempre rigidamente in rapporto alle condizioni iniziali si sostituisce l’orientamento equifinale, per il quale lo “stato finale” di un sistema e` del tutto indipendente dalle condizioni di partenza e dipende esclusivamente dalle modalita` della sua organizzazione interna;



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a princı`pi meccanicistici fondati sul “caso” si sostituiscono princı`pi teleologici basati sul riconoscimento nei sistemi di una “organizzazione finalizzata” che il sistema tende a mantenere attraverso meccanismi di autoregolazione (retroazione) orientati alla conservazione di un equilibrio interno (omeostasi), che non e` pero` da intendersi come equilibrio statico, bensı` come “stato stazionario” nel senso di Von Bertalanffy, cioe` come equilibrio dinamico potenzialmente evolvente verso superiori livelli di crescita e verso il raggiungimento di un ordine sempre piu` complesso (anamorfosi).

Ritorneremo piu` avanti su queste caratteristiche fondamentali della teoria generale dei sistemi, a proposito dei sistemi interattivi umani e della loro patologia, che e` l’oggetto di studio che maggiormente ci interessa. Ma appare gia` evidente come questi principi ispiratori della teoria rappresentino una vera e propria rivoluzione epistemologica nella conoscenza scientifica, reintroducendo concetti di “organizzazione”, di “ordine”, di “totalita`”, di “finalismo”, che erano stati banditi come metafisici dalla scienza classica e che ora invece vengono “seriamente considerati come problemi legittimamente scientifici”. La proposta e l’aspirazione che ne emergono si esprimono nel tentativo di fondare, su questi princı`pi, una concezione unitaria delle scienze e dei vari sistemi ai vari livelli, che senza negare, con semplicistiche sovrapposizioni, l’esistenza di leggi specifiche ed autonome in ciascuno di essi vi riconosca, pero`, la presenza di isomorfismi, cioe` di uniformita` formali. «Il principio unificatore — afferma Von Bertalanffy — consiste nel trovare a tutti i livelli l’organizzazione. La concezione meccanicistica del mondo, nel porre come realta` ultima il gioco delle particelle fisiche, trovava la propria espressione in una forma di civilta` che inneggiava a quella tecnologia fisica la quale, alla fine, ha portato alle catastrofi del nostro tempo. Forse un modello di mondo inteso come una grande organizzazione puo` esserci d’aiuto nel rafforzare il senso di rispetto riverenziale nei confronti del vivente, senso

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che abbiamo quasi completamente perduto durante gli ultimi e sanguinosi decenni della storia umana». 3.2. I sistemi interattivi umani: la famiglia come sistema Alla luce delle considerazioni generali riferite, risulta sufficientemente chiaro che per “sistema” deve intendersi un complesso di componenti di interazione reciproca. Ma che avviene quando i componenti del sistema sono persone e l’interazione diventa “comunicazione”? Gli studi sui sistemi umani, compiuti per la prima volta da Jackson su sistemi familiari, hanno consentito di dimostrare che anche l’interazione (comunicazione) umana e` governata da criteri di “organizzazione” e risponde, percio`, alle caratteristiche dei sistemi (e, in particolare, dei sistemi “aperti”, cioe` in continuo scambio di materiali, energia e informazioni con l’ambiente circostante). L’osservazione di cio` che si verifica all’interno di un qualsiasi sistema interattivo umano porta, infatti, a notare che alcuni comportamenti interattivi hanno maggiori probabilita` di verificarsi rispetto ad altri, in assoluto; ogni membro ha i suoi comportamenti caratteristici che permettono di definire funzioni e ruoli; infine il comportamento interattivo di un membro del sistema evoca, negli altri, comportamenti prevedibili secondo un certo arco di probabilita`. Spesso sequenze interattive del tutto identiche si ripetono a distanza di tempo piu` o meno breve con una regolarita` tale da rendere possibile una previsione ragionevole degli eventi che seguono un particolare tipo di comportamento. Tutte queste constatazioni portano a due importanti conseguenze: • •

in primo luogo, che il comportamento e` funzione della relazione; in secondo luogo, che le relazioni presentano delle regole prevedibili, cioe` seguono moduli con un notevole grado di ripetitivita` e di costanza e quindi rivelano una tendenza a strutturarsi come complessita` organizzate.

Questa tendenza dei sistemi interattivi a organizzarsi secondo regole di relazione diventa particolarmente evidente in quei sistemi in cui le interazioni reciproche non siano episodiche o occasionali, ma si fondino su una consuetudine di convivenza o di continuita` di rapporti (come avviene specificamente nella famiglia, oppure in gruppi di amici o di compagni di lavoro, in classi scolastiche, ecc.). Tali sistemi vengono opportunamente definiti da Watzlawick et al. (1971) “sistemi vitali con storia”. Un sistema interattivo, in quanto sistema che, come si e` visto, presenta un’organizzazione secondo regole, tende a conservare entro certi limiti un equilibrio interno, cioe` tende a mantenersi stabile rispetto a certe variabili, se tali variabili rimangono entro limiti definiti. A tale tendenza dei sistemi interattivi a mantenere un equilibrio e una stabilita` si da` il nome di omeostasi. Con riferimento alla famiglia, il concetto di omeostasi fu introdotto, per primo, da Jackson che, insieme a Bateson, fu il fondatore del famoso Mental Research Institute (M.R.I.) di Palo Alto, dove avvenne la prima applicazione clinica dei concetti sistemici a famiglie in terapia. Jackson osservo` che le famiglie di pazienti psichiatrici, in coincidenza con miglioramenti del paziente, manifestavano ripercussioni violente in altri membri (depressioni, attacchi psicosomatici e simili) per cui postulo` che tali comportamenti e forse anche la malattia del paziente erano “meccanismi omeostatici”, che operavano per restituire al sistema disturbato il suo precario equilibrio. Ma prima di soffermarci sui sistemi che presentano manifestazioni patologiche, e sul significato che in essi assumono i meccanismi omeostatici e i comportamenti sintomatici, e` opportuno considerare che, nei sistemi interattivi in genere, la tendenza al mantenimento di una omeostasi assolve ad una funzione essenziale: essa, infatti, consente al sistema di conservare comunque delle regolarita` interne che ne garantiscono la coesione, e di resistere alle tensioni imposte dall’ambiente o dai singoli membri che potrebbero, altrimenti, determinarne la disgregazione. Il mantenimento di questa stabilita`, intesa come stato di

La psicoterapia relazionale o sistemica

coesione detto anche “stato stazionario”, e` reso possibile dalla presenza nel sistema interattivo di meccanismi di autoregolazione che prendono il nome di meccanismi di retroazione (o feedback). Qui e` pero` necessario precisare subito che esistono due tipi di retroazione: •



una retroazione negativa che tende a minimizzare il cambiamento e a stabilizzare rigidamente l’omeostasi del sistema intesa come status quo (si tratta quindi di meccanismi di correzione di ogni ‘‘deviazione’’ dell’equilibrio interno del sistema); una retroazione positiva che tende, al contrario, a facilitare gli inevitabili mutamenti, favorendo il ripristino dell’omeostasi intorno a piu` adeguati livelli di equilibrio (si tratta quindi di meccanismi che innescano processi di crescita, di differenziazione, di maturazione).

Da queste precisazioni consegue che e` erroneo riferire ai sistemi interattivi un concetto di omeostasi inteso come equilibrio statico. In genere nei sistemi aperti e, in particolare, nei sistemi di grande complessita`, come quelli interpersonali e sociali, l’omeostasi e` sempre un equilibrio dinamico, capace di modificarsi e di riproporsi a diversi e mutati livelli, secondo margini ampi di variazione e di cambiamento. Per definire tale processo dinamico si preferisce oggi, con Bateson, usare significativamente il termine di “calibrazione”. La possibilita` di affrontare dei cambiamenti e di calibrare intorno a questi la omeostasi e` condizione essenziale per il buon funzionamento di un sistema interattivo. Come vedremo nel paragrafo successivo, e` proprio questa caratteristica che distingue i sistemi funzionali da quelli “disfunzionali”, in cui cioe` compaiono manifestazioni patologiche.

3.3. I sistemi disfunzionali e i comportamenti patologici

3.3.1. Omeostasi e cambiamento

Se consideriamo un sistema interattivo, quale per es. la famiglia, come un sistema governato da

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regole, e` possibile riconoscere all’interno di esse la co-esistenza dinamica di due contrapposte tendenze: •



una rivolta al mantenimento dell’equilibrio del sistema (omeostasi), attraverso la stabilizzazione delle sue regole, garantita da meccanismi di retroazione negativa; l’altra orientata all’evoluzione e alla crescita del sistema (cambiamento), attraverso una modificazione (o con termine piu` tecnico una “ri-negoziazione”) delle regole, promossa da meccanismi di retroazione positiva, in risposta a pressione interne o esterne che richiedono nuovi livelli di adattamento e quindi nuovi equilibri.

Si tratta dunque di uno stato di equilibrio dinamico che potrebbe rappresentarsi col grafico seguente:

3.3.2. I sistemi funzionali

Abitualmente i sistemi interattivi presentano una sufficiente flessibilita` delle regole, che ne permette un cambiamento e consente quindi al sistema di evolvere, organizzandosi, di volta in volta, intorno a livelli di equilibrio progressivamente piu` maturi. In questi sistemi, l’intervento efficace di meccanismi di retroazione positiva permette modificazioni adeguate alle nuove esigenze che possono sorgere all’interno o all’esterno del sistema stesso. Questi sistemi, percio` considerati “funziona-

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li”, presentano dunque una capacita` di spostare il proprio equilibrio nella direzione dell’evoluzione e del cambiamento.

3.3.3. Il ciclo vitale familiare

Con riferimento alla famiglia, molti studiosi hanno sottolineato l’esistenza di un ciclo vitale, in cui e` possibile riconoscere diverse fasi successive, quali il matrimonio, la nascita del primo figlio, la scolarizzazione dei figli, lo “svincolo” dei figli adolescenti, il matrimonio dei figli e la nascita dei nipoti, il pensionamento e l’eta` anziana (vedi su questo tema la concezione di Milton Erikson, riferita da J. Haley, 1977, e anche, piu` recentemente i saggi di F. Walsh, 1986). La transizione dall’una all’altra di queste fasi corrisponde abitualmente a momenti di crisi, perche´ in essi e` richiesto al sistema familiare un cambiamento della propria organizzazione attraverso una ri-negoziazione delle regole, che renda possibile il passaggio da uno stato di equilibrio ad un altro di equilibrio piu` evoluto e piu` adeguato alle diverse esigenze poste dalla nuova fase del ciclo vitale. Mentre i sistemi “funzionali” affrontano e superano positivamente queste transizioni critiche, in altri sistemi familiari, invece, sono proprio questi delicati passaggi di fase che frequentemente coincidono con la comparsa di manifestazioni patologiche.

3.3.4. I sistemi disfunzionali

Alcuni sistemi interattivi rivelano, infatti, una particolare rigidita` delle regole di relazione che impedisce cambiamenti adeguati in rapporto all’emergere di nuove esigenze evolutive. In questi sistemi, per il prevalere di meccanismi di retroazione negativa che neutralizzano ogni deviazione dallo status quo, l’equilibrio interno rimane bloccato in una condizione di stabilita`. ` come se questi sistemi si arroccassero rigiE damente intorno alla propria omeostasi e riducessero fortemente le proprie potenzialita` evolutive. Sono, questi sistemi, chiaramente “disfunzio-

nali”, quelli in cui piu` facilmente compaiono manifestazioni di patologia e si verificano a carico di uno o piu` membri comportamenti disturbati che assumono la fisionomia dei sintomi. Questi sintomi, come gia` Jackson aveva notato, acquistano dunque un primo e apparente significato: quello di meccanismi omeostatici; sono cioe` come il “prezzo” che il sistema e` disposto a pagare pur di mantenere immodificate le proprie regole e di conservare la rigidita` della propria omeostasi. Se ci si riferisce ancora al concetto di “ciclo vitale” della famiglia, la fase della crescita e dello “svincolo” di un figlio adolescente rappresenta, per esempio, uno di quei momenti in cui e` necessario che il sistema familiare riorganizzi la propria omeostasi intorno ad una modificazione delle regole di relazione: dovrebbero cambiare, infatti, sia la relazione tra i genitori e il figlio, sia la relazione dei genitori tra loro, che da relazione di tipo prevalentemente parentale dovrebbe ricominciare a riproporre in primo piano la dimensione della coniugalita`. Se pero` la rigidita` delle regole di relazione del sistema familiare e` tale da impedirne una rinegoziazione e un cambiamento, tale difficolta` (che e` una difficolta` sistemica) puo` sfociare nel blocco dello svincolo del figlio attraverso la comparsa di un comportamento sintomatico nel figlio stesso o in un altro membro del sistema: il sintomo cosı` allontana la minaccia del cambiamento e conferma il sistema nella rigidita` della sua omeostasi. Watzlawick e coll. (1971) sottolineano, percio`, che «piu` un sistema e` bloccato intorno a un numero ridotto di sequenze comunicative possibili, piu` facilmente esso e` disturbato dalla presenza di comportamenti abitualmente considerati sintomo di malattia mentale e da una condizione di soffe` opportuno anticipare renza dei suoi membri». E fin d’ora, che, come vedremo meglio fra breve, il sintomo non e`, comunque, soltanto elemento di rinforzo della rigidita` omeostatica del sistema, ma ha anche una implicita valenza evolutiva, perche´, essendo una chiara e dolorosa manifestazione di disagio, richiama la necessita` di movimenti trasformativi; ed e`, d’altra parte, proprio su questa valenza che trova spazio ed assume senso il lavoro terapeutico.

La psicoterapia relazionale o sistemica

4. Sintomo, diagnosi, intervento nella psicoterapia relazionale

equilibrio sistemico che mette il paziente in correlazione “circolare” col sistema disfunzionale ed ha implicazioni essenziali per il superamento del concetto lineare di causalita`: da questo punto di vista, infatti, e` del tutto scorretto, non solo eticamente, ma anche concettualmente, considerare la famiglia come “responsabile” o “colpevole” della malattia del paziente (per una critica del concetto ancora lineare di “famiglia nociva” vedi Onnis 1985).

Sulla base delle considerazioni teoriche sin qui svolte, appare piu` facile comprendere come l’applicazione dell’orientamento sistemico alla psicoterapia comporti innovazioni profonde nei significati attribuiti dalla tradizione psichiatrica ai concetti di sintomo, di diagnosi, di intervento terapeutico.

4.1. Il sintomo e i suoi significati Nella concezione della psicoterapia relazionale, il sintomo non e` piu` soltanto la manifestazione di una sofferenza dell’individuo, ma e` l’espressione di un disagio che investe nella sua totalita` il sistema di cui l’individuo fa parte. Il paziente diventa dunque il portatore esplicito (e, in tal senso, viene indicato come “paziente designato”) di un malessere che si ricollega a una organizzazione disfunzionale del sistema e che, come si e` visto, consiste solitamente in una particolare rigidita` delle regole relazionali e degli equilibri sistemici.

4.1.1. Ambivalenza del significato del sintomo

Il sintomo, dunque, come si e` accennato, appare, da un lato, come un tentativo sofferto e oscuro di mettere in discussione le rigide regole del sistema e quindi come espressione di un’esigenza di cambiamento; dall’altro, come elemento di stabilizzazione dell’omeostasi sistemica. Esso assume dunque un duplice e ambivalente significato: •



ad un livello esso e` indice, fenomenologicamente evidente in un membro, della sofferenza del sistema che non riesce ad evolvere verso piu` maturi livelli di crescita e che richiederebbe quindi processi di trasformazione; ad un altro livello, e contemporaneamente, esso diventa potente ed attivo rinforzo della omeostasi del sistema. Ed e` proprio questa cooperazione “attiva” o “retroattiva” del paziente designato al mantenimento del rigido

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Questa concezione sistemica del sintomo comporta due conseguenze essenziali: •



la prima e` che il sintomo, in quanto inserito in una sequenza rigida (cioe` ridondante e ripetitiva) di altri comportamenti che lo precedono e lo seguono nel tempo, deve essere considerato e studiato a pieno diritto come un comportamento significativo all’interno di una interazione in corso (ecco perche´ si preferisce parlare di “comportamento sintomatico”); la seconda e` che, allora, il sintomo diventa comprensibile e acquista un senso solo se si riesce a seguire l’intera sequenza comunicativa in cui il comportamento sintomatico si inserisce, se cioe` l’attenzione viene rivolta nella sua totalita` al sistema interattivo o piu` in generale al contesto, in cui il sintomo compare, e di cui e` parte integrante e significativa.

4.1.2. La comprensibilita` del sintomo all’interno del contesto

Questo discorso assume una particolare importanza, se si pensa che i sintomi psichiatrici gravi, e in particolare quelli psicotici, sono abitualmente ritenuti “incomprensibili” dalla tradizione medica. Sarebbe, invece, opportuno domandarsi se la presunta incomprensibilita` dei comportamenti sintomatici non sia, in realta`, una “incapacita` di comprendere”, per mancanza di informazioni sufficienti sul contesto in cui il sintomo si manifesta, sulle sue caratteristiche, le sue dinamiche relazionali, la sua storia.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Se, infatti, un comportamento apparentemente inspiegabile, incongruo, “folle” viene esaminato alla luce della conoscenza del sistema interattivo in cui appare, allora puo` accadere che perda la sua incomprensibilita` e appaia perfettamente coerente ` quanto gia` Bateson e coll. e adeguata al contesto. E (1956) avevano constatato nelle loro ricerche sulla schizofrenia, verificando che lo schizofrenico “vive in un universo in cui le sequenze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali diventano in qualche modo appropriate”. Ed e` d’altra parte cio` che la pratica terapeutica consente di constatare quotidianamente per chi adotti una prospettiva sistemica. «Una volta che si sia accettato il principio secondo cui un comportamento si puo` studiare soltanto nel contesto in cui si attua — scrivono Watzlawick e coll. (1971) —, i termini “sanita`” e “insania” perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui. Analogamente la nozione di “anormalita`” diventa molto discutibile perche´ ora generalmente si e` concordi nel ritenere che la condizione del paziente non sia statica, ma vari al variare della situazione interpersonale e dell’ottica preconcetta dell’osservatore. Inoltre quando si considerano i sintomi psichiatrici come comportamenti che si adeguano ad un’interazione in corso, emerge uno schema di riferimento che e` diametralmente opposto alle teorie psichiatriche classiche. Che si sia spostato l’interesse in questa direzione ha un’importanza che non sara` mai troppo sottolineata. Ne consegue che la “schizofrenia” considerata come una malattia incurabile e progressiva della mente di un individuo e la schizofrenia considerata come l’unica reazione possibile ad un contesto di comunicazione assurdo e insostenibile (una reazione che segue e percio` perpetua le regole di tale contesto) sono due cose del tutto diverse, che differiscono profondamente per l’incompatibilita` delle due strutture concettuali, anche se il quadro clinico cui esse si riferiscono e` lo stesso in tutti e due i casi. Da modi cosı` diversi di affrontare il medesimo problema derivano implicazioni pure assai diverse sia per l’eziologia che per la terapia». Il sintomo dunque nella psicoterapia sistemica non e` piu` soltanto “attributo individuale” bensı` e` “qualita` del sistema”, nell’accezione di Watzla-

wick e coll. (1971), e puo` percio` recuperare pienamente senso, coerenza e comprensibilita`, qualora ci si preoccupi di includere nel campo di osservazione l’intero contesto significativo. Ma in questa operazione concettuale e pratica al sintomo viene restituito, insieme al significato comunicativo e relazionale che gli e` proprio, anche il senso storico di terreno di intersezione, in cui la vicenda umana del singolo si lega e si intreccia con quella del suo gruppo familiare e sociale. 4.2. Il senso dinamico della valutazione diagnostica Anche il concetto di diagnosi viene, nella psicoterapia sistemica, completamente modificato, rispetto a quello tradizionale. Soprattutto sotto due aspetti: •



in primo luogo, l’unita` diagnostica non e` piu` l’individuo, ma il sistema di cui esso fa parte e quindi la rete di relazioni in cui esso e` coinvolto; in secondo luogo, la valutazione diagnostica non consiste piu` nel rinchiudere la problematicita` del sintomo in caselle nosografiche cui abitualmente si collegano giudizi di incomprensibilita` e di irrecuperabilita`; consiste, al contrario, nel restituire senso a cio` che e` apparentemente incomprensibile, reintegrando la sofferenza dell’individuo nel disagio complessivo del contesto in cui insorge, che va valutato come realta` dinamica, passibile di trasformazioni.

Differenti sono anche le implicazioni della “diagnosi sistemica”, rispetto a quella tradizionale, sul gruppo familiare di cui il paziente fa parte: la diagnosi tradizionale, tutta centrata sul singolo, deresponsabilizza e passivizza il gruppo familiare, perche´ si propone come autosufficiente e autogiustificativa; la diagnosi sistemica, invece, sposta la designazione del singolo e coinvolge tutti i membri del gruppo nella responsabilita` comune di affrontare comuni difficolta`, ricercandone insieme le soluzioni. Come e` evidente, dunque, la diagnosi sistemica non si adegua a finalita` puramente “descrit-

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tive” o “classificative”, ma si pone immediatamente in una prospettiva dinamica, che ha implicazioni operative verso una direzione di possibile cambiamento.

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perche´ spesso incontra resistenze che debbono essere analizzate e affrontate. 4.3.2. L’importanza della “convocazione” della famiglia

4.3. L’intervento terapeutico e l’operatore psichiatrico Vedremo meglio in seguito quali sono le caratteristiche specifiche dell’intervento, in rapporto ai differenti modelli terapeutici e, in particolare, agli sviluppi piu` recenti della psicoterapia sistemica. Ci limiteremo ora ad accennare alle caratteristiche e alle finalita` generali dell’intervento, anche in relazione alle modificazioni profonde dei concetti di sintomo e di diagnosi di cui abbiamo appena detto.

4.3.1. L’intervento terapeutico nei suoi caratteri generali

Se la terapia psichiatrica tradizionale (e in particolare quella riduttivamente farmacologica) e` fondamentalmente finalizzata alla gestione e al controllo delle devianze comportamentali del singolo, l’intervento sistemico tende a favorire la riassunzione di tali devianze nel gruppo naturale in cui si manifestano, evitando cosı` vecchie e nuove forme di designazione e di emarginazione e avviando processi di cambiamento che coinvolgono l’intero sistema. Al rispetto e all’attenzione per la sofferenza individuale si associa il tentativo di ri-comprenderla (nel doppio significato di capirla e di integrarla) nell’ambito del disagio collettivo del gruppo familiare, utilizzando modalita` di intervento che sono piu` direttamente orientate sul complesso dei rapporti interpersonali. Finalita` del lavoro terapeutico e` allora quella di proporre al sistema nuove visioni di realta`, permettendogli di ricercare nuove soluzioni per la situazione problematica e di sperimentare modelli alternativi di funzionamento e di interazione. Ma il coinvolgimento del sistema familiare nel lavoro terapeutico non e` operazione semplice,

Tali resistenze possono nascere, da un lato, dall’adesione a una prassi psichiatrica collaudata che centra, abitualmente, l’attenzione sul solo paziente; ma possono fondarsi, dall’altro, su timori che la famiglia puo` nutrire, nel momento in cui riceve una convocazione a partecipare agli incontri terapeutici. Tali timori, piu` o meno consapevolmente avvertiti e esplicitati, sono frequentemente di due tipi: •



timori di colpa, legati cioe` all’idea che la convocazione possa nascondere intenti accusatori o colpevolizzanti (“se ci chiamano, vuol dire che ci ritengono responsabili della malattia del paziente”); timori di malattia, legati cioe` all’idea che la convocazione possa implicare una valutazione collettiva di patologia (“se ci chiamano, vuol dire che pensano che siamo tutti malati”).

La convocazione del gruppo familiare deve tener conto di questi timori, rispetto ai quali la famiglia deve essere rassicurata: il terapeuta deve far in modo che la famiglia si senta una risorsa terapeutica, deve valorizzare il contributo di tutti alla comprensione di cio` che sta accadendo e alla ricerca di soluzioni nuove, deve sostenere la partecipazione attiva dell’intero nucleo familiare, come via privilegiata per superare la difficolta`. Ma oltre all’atto, specifico e delicato, della convocazione della famiglia, e`, piu` in generale, tutta la dimensione dell’operare che viene modificata per chi adotti una prospettiva sistemica. E il ruolo e i compiti dell’operatore psichiatrico mutano anch’essi notevolmente. 4.3.3. Il ruolo dell’operatore psichiatrico

Se l’apparente incomprensibilita` dei sintomi psichiatrici e` funzione della mancanza di informa-

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zioni sul contesto nel quale essi si producono, compito essenziale dell’operatore e`, allora, quello di allargare il campo dell’indagine e della pratica e di sostituire all’intervento sul sintomo l’intervento sulla situazione (interpersonale e sociale). Ronald Laing (1973), a cui si deve questa essenziale distinzione, sottolinea ancora che la qualita` dell’intervento dell’operatore ha un peso decisivo nell’orientare l’evoluzione e gli esiti delle situazioni di disagio che e` chiamato ad affrontare. Se l’operatore sancisce una definizione di malattia, confermandola con l’autorevolezza del suo giudizio tecnico, spesso avvia il paziente in modo irreversibile ad una carriera di devianza. Ma se l’operatore si confronta invece con i problemi di sofferenza proposti da una situazione interpersonale, modifica completamente la propria prassi: egli tenta, allora, di coinvolgere le persone partecipi di quella situazione ridefinendo il problema presentato come un disagio comune. 4.3.4. La “riformulazione” della domanda

Ma qui l’operatore incontra spesso un’altra difficolta` e resistenza: la domanda stessa dei pazienti, fortemente influenzata da condizionamenti culturali e istituzionali (una cultura di tipo medicobiologico dei disturbi psichici accreditata dalle risposte frequentemente erogate dai servizi), e` spesso una domanda di intervento di tipo medico legata alla aspettativa del “farmaco risolutore” e profondamente distante dai problemi psicologici e relazionali che stanno alla base del disagio. La “riformulazione della domanda” (V. Onnis, 1982) diventa allora momento essenziale del processo terapeutico, spesso decisivo per l’evoluzione stessa della terapia: esso coincide col passaggio da una designazione di malattia della quale il singolo paziente e` il portatore, al coinvolgimento del nucleo familiare, corresponsabilizzato nella ricerca di soluzioni per una difficolta` che viene ridefinita come difficolta` comune.

5. Due esempi clinici Le considerazioni sulla revisione profonda che la psicoterapia sistemica propone dei concetti di

sintomo, di diagnosi, di intervento, possono essere piu` chiaramente comprese attraverso alcune esemplificazioni cliniche. Esse non possono naturalmente. Entrare nel dettaglio della tecnica terapeutica di volta in volta prescelta (che cercheremo di chiarire meglio nel paragrafo successivo), ma sono indicative della metodologia di intervento adottata. Entrambi i casi sono stati seguiti presso il Servizio di Terapia Familiare del Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell’Universita` degli Studi di Roma “La Sapienza”.

5.1. La famiglia di Daniela: quando la paura del conflitto blocca l’autonomia Daniela e` un’adolescente di 14 anni che da circa 8 mesi alterna stati di depressione a crisi di ansieta`, durante le quali sembra pronunciare frasi sconnesse; trascorre la maggior parte del tempo a casa, ha smesso di andare a scuola, non vuole vedere gli amici. Visitata da uno specialista, le e` stata fatta una diagnosi pesante (“sindrome schizoide”) e prescritta una terapia a base di forti dosi di psicofarmaci, che pero` la ragazza da qualche tempo rifiuta di prendere perche´ la “stordiscono”. Lo specialista che l’aveva in cura, a questo punto, ha consigliato un ricovero. Un medico amico della famiglia ha preferito, pero`, inviarla nel nostro servizio per un ultimo tentativo. Quando la famiglia si presenta per il primo incontro terapeutico, l’atteggiamento iniziale e` di cortesia formale, ma anche chiaramente difensivo: i genitori tendono a dare l’immagine di una famiglia molto unita e senza disaccordi, in cui «tutto andrebbe bene se non ci fosse la preoccupazione per la malattia grave di Daniela». La richiesta e`, percio`, di una nuova cura farmacologica che Daniela possa seguire piu` volentieri e che «l’aiuti a guarire». Daniela siede tra i genitori, silenziosa, con aria quasi assente; risponde stentatamente e di malavoglia alle domande che le vengono rivolte. Ci colpisce pero` il fatto che Daniela sembra animarsi tutte le volte che l’interazione fra i genitori sale di tono emotivo, come quando essi discutono animatamente sull’atteggiamento da assumere nei confronti delle crisi della figlia, o ma-

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nifestano divergenze sui sistemi educativi adottati in passato. Daniela allora farfuglia qualcosa, accenna a star male, richiama l’attenzione dei genitori che immediatamente si rivolgono verso di lei, interrompendo l’interazione. Nella seconda seduta, durante uno scambio particolarmente accesso tra i genitori, Daniela ha una crisi di agitazione clamorosa davanti al terapeuta, bloccando il litigio che stava per esplodere: i genitori si precipitano infatti verso di lei con atteggiamenti di grande allarme e la madre, rivolta al terapeuta, afferma: «Come vuole che si possa non essere tesi e nervosi con una malattia cosı` grave in casa!». Il ruolo di Daniela e` chiaramente segnato. In una famiglia in cui la regola fondamentale sembra essere l’impossibilita` del disaccordo e il divieto del litigio, vissuto come minaccioso per l’unita` del sistema, il sintomo di Daniela si colloca come elemento pacificatore che fornisce tutte le giustificazioni e tutte le coperture, mantenendo l’equilibrio omeostatico del sistema e proteggendo i genitori dall’affrontare il problema di fondo: la conflittualita` della loro relazione. Richiesti di una “diagnosi”, decidiamo di tentare una “ridefinizione” della situazione e di proporre, al tempo stesso, una “prescrizione”: «secondo noi Daniela col suo “star male” sta compiendo un grande sacrificio per tenere uniti intorno a se´ i genitori, come se avesse paura che, senza questo suo aiuto, qualcosa nella famiglia possa spezzarsi. Se questo atteggiamento serve a rassicurarla, Daniela puo` continuare a sacrificarsi. Ma noi in realta` non comprendiamo come in una famiglia cosı` unita ci sia necessita` di questo sacrificio». La ridefinizione, rinforzata dalla prescrizione, propone, dunque, una chiave di lettura del sintomo per cui questo non e` piu` la manifestazione oscura di una malattia, ma ha un significato relazionale preciso, in cui sono coinvolti anche gli altri membri del sistema; e contemporaneamente, pur gratificando il sistema, che viene connotato positivamente nella sua unita`, lancia un’implicita e sottile provocazione che induce al cambiamento («ma e` veramente unita la famiglia in cui avviene questo sacrificio?»). Nelle sedute successive, il comportamento di

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Daniela migliora: le crisi sono diminuite, la ragazza interferisce meno frequentemente quando e` in seduta, i genitori discutono fra loro: riesce a non interferire e a non bloccare l’interazione perfino quando, in sesta seduta, tra i genitori esplode un litigio violento. Emergono notizie molto utili sulla relazione coniugale. Il marito e` un tecnico specializzato in una impresa di costruzioni e sta gran parte della giornata fuori di casa. La moglie trascorre la massima parte del suo tempo fra le pareti domestiche, perche´ non e` riuscita a trovare un’occupazione pur avendola cercata; si sente sola, accusa il marito di «trascurarla e di non preoccuparsi di lei». Il marito si lamenta della «scarsa comprensione della moglie», del fatto che spesso negli ultimi tempi e` «insofferente e nervosa». Man mano che il sintomo di Daniela non occupa piu` il centro della scena emerge il problema della relazione di coppia, che i coniugi sembrano ora piu` disponibili ad affrontare. Ci preoccupiamo di incoraggiare questa evoluzione favorevole della situazione ridefinendo in positivo i contenuti del litigio come manifestazione di reciproco interesse e di ricerca di affetto. In questo nuovo clima emotivo, diventa possibile esplorare l’area della vita di coppia e indagare gli spazi che i coniugi riescono a riservare per se´. Anche in questo ambito si ha l’impressione che la malattia di Daniela abbia svolto una funzione protettiva coprendo una difficolta` che perdurava da tempo. Infatti, si scopre che Daniela, da quando e` stata male, ha ripreso a dormire nella camera dei genitori e che la sua stanza e` stata adibita a salotto. Si chiede, allora, alla madre di compiere il “sacrificio” (il tono emotivo del sacrificio, insieme a quello dell’unita` familiare, sembrano corrispondere meglio allo “stile” di questa famiglia) di rinunciare al salotto per consentire a Daniela uno spazio cui ormai ha diritto. Man mano che va avanti il processo di svincolo di Daniela, il cui ritorno a scuola e` un’altra tappa importante, si decide di alternare sedute con tutta la famiglia riunita a sedute separate, le une con i due coniugi, le altre con la sola Daniela. Alla ragazza si comunica cosı` implicitamente il messaggio di avere ormai un ruolo e un suo “spazio”, nel quale puo` e deve affrontare problemi

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che siano i suoi, lasciando ai genitori il compito di gestire i propri. Con la coppia si continua a lavorare sulle difficolta` della relazione coniugale, promuovendo un riemergere di reciproche potenzialita` affettive. La necessaria sinteticita` con cui e` stato esposto questo caso giustifica alcune semplificazioni che non possono certo rendere conto della complessita` del processo terapeutico. Ma esso si presta ad alcune considerazioni che sono quelle che ci preme soprattutto sottolineare: •





la piena comprensibilita` del sintomo quando questo venga osservato all’interno di un contesto in cui possa riassumere il senso di un problema di relazione; la necessita`, dunque, che la domanda, che e` domanda di intervento su una “malattia”, venga “riformulata”, cosı` da trasformarsi in domanda di intervento su una “situazione interpersonale di difficolta`”, che accomuna tutti i componenti del gruppo familiare; la possibilita` che questa iniziale domanda riformulata (“il problema e` il modo di interagire delle persone all’interno della famiglia”) venga gradualmente amplificata promuovendo una progressiva ricerca di soluzioni trasformative e fornendo, al tempo stesso, un mutamento piu` complessivo della visione di realta`. Ma cio` e` possibile solo quando sia stato sgombrato il campo dal “sintomo” e dalla “malattia” e quando si sia operato un significativo cambiamento del contesto familiare, quando insomma siano state pazientemente ripercorse tutte le mediazioni necessarie.

Un’ultima considerazione: val forse la pena di domandarsi che cosa sarebbe successo di Daniela se il peso terribile della designazione pronunciata con le due sole parole della prima diagnosi (“sindrome schizoide”) avesse portato a tutte le sue inesorabili conseguenze. Cio` che conferma, ancora una volta, l’importanza decisiva della fase iniziale dell’intervento (e quindi della “riformulazione della domanda”) nel segnare l’evoluzione delle situazioni di difficolta`.

5.2. La famiglia di Piergiorgio: un bambino che non poteva crescere1 Pergiorgio e` una bambino di 12 anni che presenta un’enuresi persistente: a detta dei genitori non ha mai smesso di bagnare il letto. Il disturbo e` quasi quotidiano e limita notevolmente Piergiorgio nella vita sociale: non puo`, per esempio, andare in colonia con i compagni, perche´ teme che possano accorgersi del suo sintomo. I medici consultati hanno consigliato, a piu` riprese, tutta una serie di esami clinici e radiologici da cui non e` risultato alcun danno organico evidente. La diagnosi piu` frequentemente formulata e` stata percio` quella di “disturbo funzionale”, accompagnata da modiche prescrizioni di farmaci e dalla previsione generica che l’enuresi sarebbe scomparsa con l’eta`. Data la persistenza del disturbo, i genitori decidono, su consiglio di amici, di tentare una psicoterapia. La famiglia, quando si presenta alla prima seduta, e` composta dai genitori, entrambi sui trentacinque anni, il padre segretario comunale, la madre infermiera professionale; da Piergiorgio che frequenta la seconda media e da due fratelli minori, Alessandro e Gianna, di 8 e 6 anni, studenti delle scuole elementari. Si viene a sapere che con la famiglia vive anche la nonna paterna da quando, sei anni prima, e` rimasta vedova. L’atteggiamento dei genitori nei confronti del disturbo del figlio e` ambivalente, talvolta infatti essi propongono una definizione di malattia organica (“forse e` malato e non e` colpa sua’’), talvolta tendono a considerare il figlio responsabile di cio` che avviene, colpevolizzandolo (padre: “Secondo me lui ci vuole punire di qualche cosa!...”) o autocolpevolizzandosi (madre: “Almeno ci dica in cosa abbiamo mancato!”). Ma, comunque, sia che il ragazzo venga definito “malato” o “capriccioso”, tutto il fuoco dell’attenzione rimane centrato su di lui. Cio` che invece colpisce l’osservazione, fin dall’inizio della seduta, e` l’atteggiamento particolarmente depresso della madre che, parlando con un

1 Questo caso e` stato proposto in una prima versione nel volume di L. Onnis, Corpo e contesto, NIS, Roma, 1985.

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filo di voce, denuncia la sua stanchezza e il suo avvilimento. Madre: «Non ce la faccio piu`: il lavoro in ospedale mi impegna tante ore al giorno; poi quando torno a casa, stanca, e trovo che Piergiorgio ha bagnato il letto, davvero mi demoralizzo; non so come fare!» Terapeuta: «Non c’e` nessuna che l’aiuta, signora?» Madre: «Beh... mio marito e` molto occupato col lavoro. Ma certo... almeno nel tempo libero potrebbe... potrebbe stare di piu` a casa con i ragazzi, con Piergiorgio; io quando torno dall’ospedale non lo trovo mai. Lui esce con gli amici o va a caccia... A me, invece, la situazione di Piergiorgio mi preoccupa molto; forse bisognerebbe seguirlo di piu`, ma io da sola non ce la faccio!» Padre: «Esco, vado a caccia!... Lo faccio solo per la salute. Dopo che sto chiuso in ufficio ho bisogno di respirare aria pura! E poi tu, come al solito, drammatizzi troppo. Anche i medici l’hanno detto che il disturbo di Piergiorgio passera` da solo, con l’eta`. D’altra parte, per fortuna, con i bambini ci sta mia madre che ci da` una mano d’aiuto». Madre: «Io sono molto preoccupata!» Il dialogo tra i genitori sembra un dialogo tra sordi, o tra due persone che parlano lingue diverse: le preoccupazioni e l’ansia della madre non arrivano al padre, ne´ i messaggi di rassicurazione di quest’ultimo riescono a tranquillizzare la moglie. Anzi, sembra che piu` il padre tende a sdrammatizzare il problema, piu` la madre ne sottolinea la gravita`, esprimendo una preoccupazione crescente. La comunicazione non verbale e la disposizione della famiglia nella stanza danno anche qui informazioni preziose. I genitori sono seduti a distanza l’uno dall’altro e lasciano tra di loro lo spazio di una sedia vuota; Piergiorgio siede vicino alla madre; i due piccoli, seduti vicino a Piergiorgio, si spostano spesso a occupare la sedia tra i genitori come se dovessero colmare un vuoto. (Fig. 1). Mentre tra i genitori gli scambi gestuali e le affettivita` sono molto scarsi, tra la madre e Piergiorgio sembra esistere una particolare intesa:

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nonostante i toni critici e dolenti nei confronti del figlio, la madre ha verso di lui un atteggiamento non verbale di vicinanza e di sollecitudine, cui Piergiorgio sembra rispondere con una sorta di complicita`.

Figura 1 – P= padre; M= madre; PG= Piergiorgio; A= Alessandro; G= Gianna.

Il quadro si completa, offrendo (come in tutte le “mappe dettagliate”) le informazioni piu` ricche, quando nella seduta successiva entra in scena il personaggio mancante: la nonna. Invitata dal terapeuta, che ne aveva intuito l’importanza, a partecipare alle sedute di terapia, la nonna, fin dal suo primo apparire, contribuisce a fornire elementi essenziali per la comprensione della situazione. Si siede immediatamente accanto al figlio e chiama a se´, per prenderli in grembo, i due piccoli affermando che i bambini “stanno piu` con lei che con la mamma che, poverina, e` cosı` impegnata al lavoro!”. Sul problema dell’enuresi di Piergiorgio, appoggia la tesi del figlio sostenendo che “non e` il caso di drammatizzare perche´ si sa che questi disturbi scompaiono con l’eta` ”. Ha parole di apprezzamento nei confronti della nuora che e` cosı` assorbita dal lavoro, ma la rassicura affermando di non preoccuparsi “perche´ lei ha ancora sufficienti energie per badare a tutto, alla casa e ai bambini. Mentre la nonna parla, la nuora che ascolta in silenzio, senza replicare, ha un non-verbale eloquente di sofferenza e di disagio; rivolge talvolta qualche sguardo al marito, come attendendo qualcosa, ma il marito sembra riprendere davanti alla madre il ruolo di un figlio timido e consenziente. Si delinea cosı` in questo sistema familiare una grave confusione di ruoli e di competenze: la nonna ha preso il posto della madre, e il padre, trovandosi in mezzo tra madre e moglie, ha ri-

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preso il vecchio posto del figlio lasciando quello di marito. La disposizione dei posti nello spazio, dopo l’ingresso della nonna, da` ancora una volta un’immagine molto indicativa di questa anomala struttura familiare in cui si fronteggiano due coppie di alleati, costituiti ciascuna da una madre e un figlio (Fig. 2).

Figura 2 - N= nonna; P= padre; M= madre; PG= Piergiorgio; A= Alessandro; G= Gianna.

Ma anche in questa famiglia, seppure in forme diverse, vige la regola che il conflitto e le tensioni non possono essere esplicitati; percio` la comunicazione non puo` essere diretta. Cosı` l’insofferenza della madre nei confronti della suocera non trova voce, e non trova voce l’esasperazione della moglie nei confronti del marito e la richiesta che rioccupi il suo posto e l’aiuti a riprendere il proprio. C’e` Piergiorgio che con il suo sintomo si presta ad offrire alla madre questa voce che, per le regole rigide della famiglia, non puo` essere espressa altrimenti. E cosı` la preoccupazione manifestata nei confronti del disturbo del figlio, l’ansia, l’incapacita` dichiarata di affrontare la situazione da sola, sono soprattutto un modo di richiamare il marito, di inviargli il messaggio: «Ho bisogno del tuo aiuto». Ma il messaggio e` indiretto e implicito e proprio perche´ non esplicitato, consente al marito di ignorarlo e induce la moglie a riproporlo. E cosı` nel dialogo tra sordi (di cui ora si comprendono meglio le modalita`) il gioco si perpetua. Ma cio` che si perpetua e`, soprattutto e dolorosamente, l’enuresi di Piergiorgio. Come puo` infatti Piergiorgio abbandonare il sintomo finche´ esso serve (e di fatto cosı` funziona) da mediatore per la comunicazione tra i suoi genitori? Come

puo` Piergiorgio crescere, finche´ il suo restare un bambino che bagna il letto rimane l’unica “voce” con cui sua madre puo` rivolgersi a suo padre? Come i “sintomi psichiatrici” di Daniela, anche l’enuresi di Piergiorgio, che pure e` sintomo che apparentemente non richiede spiegazioni, in quanto disturbo del “corpo”, diventa ricca di significati e si chiarisce in tutte le sue componenti non appena si allarghi il contesto di osservazione e cambino le chiavi di lettura. La strategia dell’intervento terapeutico prende anche qui le mosse da una “ridefinizione” del problema, proposto come difficolta` di crescita di Piergiorgio in una situazione comune di disagio, piuttosto che come malattia organica. E si articola in una serie di tappe che perseguono l’obiettivo di una riorganizzazione complessiva del sistema familiare, unendo il padre e la madre nel riappropriarsi delle loro competenze genitoriali, restituendo alla nonna la collocazione che le e` propria, liberando Piergiorgio dalla funzione pesante di “mediatore” tra i genitori e consentendogli di recuperare le proprie potenzialita` di crescita, all’interno di un sistema ridiventato, nel suo complesso, capace di evolvere. Cio` che accomuna i due casi, e su cui vorremmo, in particolare, richiamare l’attenzione, e` l’importanza e la delicatezza dell’atto terapeutico iniziale: la necessita` di ridefinire in senso relazionale e sistemico, un problema che e` quasi sempre connotato in termini di malattia e di disturbo individuale.

6. I principali indirizzi terapeutici Sebbene l’orientamento sistemico rimanga la base teorica a cui si ispira la psicoterapia relazionale, e` possibile, pero`, distinguere, all’interno di essa, una molteplicita` di indirizzi terapeutici che si differenziano non solo per le particolarita` tecniche di intervento utilizzate, e quindi per l’articolazione del processo terapeutico, ma anche per i presupposti concettuali di riferimento. Questi presupposti, pur rimanendo coerenti, come si e` detto, con la prospettiva sistemica, propongono, pero`, diversi modi di concepire il funzionamento della famiglia, come pure di definire gli elementi

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essenziali della sua disfunzionalita`; e prefigurano, percio`, anche, differenti modalita` nel perseguire gli obiettivi terapeutici. Prenderemo in considerazione i piu` importanti di questi modelli terapeutici, precisando, per ognuno i presupposti concettuali, gli obiettivi terapeutici, le principali tecniche di intervento.

6.1. Il modello strategico Gli esponenti del gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto (Watzlawick, Weakland e Fisch), Jay Haley, direttore dell’Institute of Family Therapy di Washington, e la scuola di Milano (Mara Selvini Palazzoli e coll., nella fase iniziale, “comunicazionalista” del gruppo) sono i principali rappresentanti del modello strategico.

6.1.1. I presupposti concettuali

Watzlawick e gli altri ricercatori del gruppo di Palo Alto (v. Watzlawick e coll. 1974) concepiscono la famiglia come un sistema flessibile, capace di utilizzare un’ampia gamma di comportamenti e di soluzioni per far fronte ai problemi. La famiglia patologica mostra, al contrario, una notevole rigidita` di funzionamento, una carenza di alternative, una tendenza a ripetere in maniera stereotipata gli stessi tentativi di risolvere i problemi. Se questi tentativi si dimostrano inadeguati, il problema stesso tende a perpetuarsi e ` ben nota la frase di anzi ne risulta rinforzato. E Watzlawick e coll. (1974): «Spesso e` la soluzione che diventa il problema». Cosı` sono proprio i tentativi di soluzione della difficolta` messi in atto dalla famiglia che diventano frequentemente l’oggetto del cambiamento terapeutico. Jay Haley, che si ispira fondamentalmente al modello strategico (v. Haley 1974) nonostante la notevole influenza della terapia strutturale legata alla lunga collaborazione con S. Minuchin alla Child Guidance Clinic di Philapadelphia, da` molta importanza al “ciclo vitale familiare”. Questo concetto, di cui gia` si e` accennato, e` mutuato dall’opera di M. Erikson, grande maestro dell’ipnoterapia che influenzo` largamente anche la psi-

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coterapia relazionale ad indirizzo strategico. Haley tende a valutare le famiglie sulla base del modo con cui affrontano le transizioni evolutive da una fase all’altra del ciclo vitale, e considera le difficolta` individuali, per es. i sintomi che compaiono nella fase del “distacco adolescenziale” (v. Haley, 1989), come correlabili a blocchi evolutivi del sistema familiare. Haley per questa via giunge a considerare ogni disfunzione familiare, ogni patologia essenzialmente come una “crisi di sviluppo”, concetto che ha largamente permeato la terapia familiare sistemica.

6.1.2. Gli obiettivi terapeutici

Se i sintomi vengono considerati dai terapeuti strategici come atti comunicativi che vengono rigidamente ripetuti a causa dei reiterati tentativi falliti di affrontare i problemi, cio` che crea inesorabili “circoli viziosi” comunicativi, gli obiettivi della terapia tenderanno, allora, a risolvere il problema attuale, interrompendo la sequenza interattiva e comunicativa irrigidita che perpetua i sintomi. L’area d’intervento e` fondamentalmente focalizzata intorno al problema presentato ed e` orientata alla ricerca di soluzioni che permettano finalmente alla famiglia di modificare le rigide circolarita` comunicative in cui e` bloccata. (Si parla percio` di strategie di “problem solving”, v. Haley, 1985). La prevalente attenzione del lavoro terapeutico all’area del problema e alle sequenze interattive che lo mantengono e` indubbiamente piuttosto riduttiva, come vedremo meglio nei paragrafi successivi, ed e` uno dei limiti dei terapeuti strategici (anche se alcuni Autori, come la Selvini, furono, fin dall’inizio, molto piu` attenti al significato dei sintomi nell’ambito delle storie familiari e non solo delle sequenze comunicative). Ma va anche notato che in alcuni terapeuti, come, in particolare, Haley, limitarsi ad affrontare l’area indicata dalla famiglia come “problematica” corrispondeva anche all’idea che la famiglia stessa dovesse definire cio` che e` “sano” e “normale” per se´ e che il terapeuta dovesse sol-

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tanto avviare un processo di cambiamento intorno a “nodi problematici”, nella fiducia ottimistica che la famiglia potesse poi, autonomamente, ampliarne lo sviluppo. Per tali motivi, la relazione terapeutica, seppur intensa, deve evitare coinvolgimenti che rendano difficile la risoluzione del rapporto. E, percio`, la terapia strategica e` essenzialmente una terapia breve.

6.1.3. Le tecniche di intervento

Tra le modalita` di intervento che non possono essere indicate che nelle loro linee essenziali, hanno un posto privilegiato gli interventi paradossali. Si tratta di interventi che tendono a incoraggiare la resistenza e la patologia familiare, sovrastando, percio`, la logica comune. La prescrizione del sintomo e` un esempio ben noto di tali interventi. La sua prima formulazione si deve a Victor Frankl che la chiamo` “intenzione paradossale” (v. Loriedo e Vella 1989). Nella terapia familiare fu introdotta dai terapeuti del gruppo di Palo Alto e, in particolare, da Jay Haley che inizialmente ne faceva parte. La prescrizione del sintomo consiste nell’incoraggiare o richiedere al paziente la comparsa del comportamento sintomatico: il paziente si trova davanti a una ingiunzione paradossale, rispetto alla quale, qualunque sia la risposta, si avvia comunque un cambiamento: se trasgredisce la prescrizione abbandona il sintomo; se la esegue e il comportamento sintomatico si mantiene, acquista, pero`, una connotazione di volontarieta`, che lo fa uscire dalla dimensione della malattia incontrollabile e gli conferisce, invece, una caratteristica comportamentale che il paziente e` in grado di gestire. Per i terapeuti strategici, il vantaggio della prescrizione del sintomo e` che, comunque, quest’ultimo viene ricondotto sotto il controllo del terapeuta, e che questo modifica la relazione terapeutica stessa. Un contributo di grande rilievo alla elaborazione delle strategie paradossali viene da Mara Selvini Palazzoli e dal suo primo gruppo di ricercatori (v. Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata, 1975) che ampliarono la prescrizione del

sintomo, trasformandola in una “prescrizione dell’omeostasi sistemica”, in cui si evidenzia come non solo il comportamento sintomatico del paziente, ma anche i comportamenti di ogni altro membro della famiglia, in correlazione circolare tra loro, contribuiscono al mantenimento dell’equilibrio del sistema. Nel modello di intervento della Selvini, che ha avuto una ampia risonanza, anche se oggi l’Autrice e il suo nuovo gruppo tendono a discostarsene (v. Selvini Palazzoli, Cirillo, Selvini, Sorrentino, 1988), la prescrizione del sintomo e` sempre preceduta da una connotazione positiva del comportamento sintomatico e dell’equilibrio sistemico, per quanto disfunzionale esso possa apparire. (Non si puo` infatti prescrivere qualcosa di cui non venga evidenziata l’utilita`). Va piu` in generale sottolineato che la “ridefinizione in positivo”, modalita` frequentemente utilizzata in terapia familiare, e` di per se´ un intervento, perche´ rovescia la connotazione negativa che la famiglia abitualmente attribuisce a certi comportamenti o situazioni relazionali mettendone in evidenza gli aspetti, piu` nascosti, di utilita` e di positivita`. Un chiaro esempio di questa impostazione terapeutica di tipo strategico e` stato descritto, nel paragrafo precedente, nel primo caso clinico, quello di Daniela: lo “star male” di Daniela viene prima connotato positivamente come un tentativo di aiuto generoso ai genitori e alla famiglia, e poi prescritto, anche se con una modalita` che gia` insinua l’ombra del dubbio e apre alla possibilita` di alternative. Proprio il caso di Daniela permette, inoltre, di comprendere come queste strategie paradossali che potrebbero apparire come degli “artifici terapeutici” si fondano in realta` (almeno quando sono correttamente utilizzati) su vissuti profondi e vincoli di lealta` importanti che legano il paziente alla sua famiglia.

6.2. Il modello strutturale Questo modello fu sviluppato da Salvador Minuchin e dai suoi collaboratori (Montalvo, Aponte, Rosman sono i nomi piu` significativi),

La psicoterapia relazionale o sistemica

che lavorarono dapprima con le famiglie degli immigrati portoricani dei ghetti di New York e poi presso la Child Guidance Clinic di Philadelphia, dove, per un certo periodo, anche J. Haley collaboro` ad alcune ricerche del gruppo (v. Minuchin 1976, Minuchin e coll. 1980, 1982).

6.2.1. Presupposti concettuali

Nel modello strutturale la famiglia e` concepita come “struttura organizzativa”, governata da un insieme di regole, (alcune generali, legate alla cultura; altre specifiche per le singole famiglie) che definiscono le relazioni e i comportamenti e, in particolare, consentono una gerarchia articolata di rapporti. All’interno della struttura familiare sono, infatti, riconoscibili sottosistemi gerarchicamente ordinati: i sottosistemi generazionali sono i piu` importanti e sono caratterizzati da funzioni e da ruoli loro propri. La delimitazione tra i sottosistemi generazionali come quella tra gli individui singoli, in una struttura familiare funzionale, e` garantita dall’esistenza di confini chiari. Il concetto di “confine” e` fondamentale nel modello strutturale, perche´ i confini hanno lo scopo di permettere la differenziazione interna al sistema. I confini debbono essere sufficientemente netti da consentire spazi di autonomia per i singoli individui e per i sottosistemi, garantendo ad ognuno (quello coniugale e quello dei figli) le rispettive caratteristiche e funzioni; e nello stesso tempo devono essere sufficientemente permeabili da permettere scambi di informazioni, di emozioni, di affettivita`. (v. la Fig. 3 che mostra la “mappa” grafica di una struttura familiare funzionale, in cui i due sottosistemi generazionali sono ben riconoscibili e delimitati da un confine chiaro). M − P F1 − F2 − F3

sottosistema genitoriale sottosistema figli

Figura 3

Una famiglia funzionale avra`, anche, natural-

1003

mente, la flessibilita` organizzativa necessaria per modificare la propria struttura (“ristrutturarsi”) in rapporto a esigenze interne (di ciclo vitale, per es.) o a spinte ambientali esterne. La struttura familiare, diventa, invece, disfunzionale, quando i confini non hanno le caratteristiche che abbiano indicato. Minuchin descrive due tipologie contrapposte di famiglie disfunzionali: le famiglie “invischiate” e quelle “disimpegnate” •



nelle famiglie invischiate i confini sono labili e confusi, cosı` che le differenze fra i membri e i sottosistemi sono attenuate, le autonomie personali rischiano di essere gravemente impedite e la confusione delle funzioni e dei ruoli compromette l’efficacia nell’affrontare i compiti e nello sviluppo delle potenzialita` cognitive e affettive (il sottosistema genitoriali perde la propria capacita` di guida e sostegno; qualcuno dei figli puo` trovarsi in una posizione parentale, il “parental child”); nella famiglia disimpegnata, i confini, all’opposto, sono molto rigidi: essi ostacolano la comunicazione e il reciproco aiuto all’interno della famiglia, cosı` che le autonomie individuali si ottengono a spese di una sostanziale disgregazione dei rapporti e alla perdita del contatto con gli altri familiari.

Se prendiamo in considerazione una struttura familiare invischiata (che e` alla base, insieme, naturalmente, ad altre specifiche caratteristiche, di una vasta gamma di manifestazioni psicopatologiche, da quelle psicosomatiche a quelle psicotiche), un fenomeno gravemente disfunzionale che in essa si manifesta e` quello che va sotto il nome di “triangolazione”: in una organizzazione strutturale caratterizzata da labilita` dei confini tra i sottosistemi, e` possibile che uno dei figli venga “assorbito” nel sottosistema genitoriale e, se la comunicazione tra i due genitori e` carente e bloccata, per es. per il timore di conflitti attinenti all’area della coniugalita`, e` possibile che il figlio si trovi a fare il mediatore della comunicazione tra i genitori, e occupi stabilmente la posizione scomoda del “terzo” in mezzo alla diade genitoriale (vedi Fig. 4).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia





Figura 4

Quando questo avviene, il ruolo anomalo che il figlio “triangolato” si trova ad assumere, il carico emotivo che deve sostenere partecipando a coalizioni con l’uno o con l’altro genitore (a seconda delle situazioni), i coinvolgimenti e i vincoli che limitano le sue possibilita` di autonomizzazione e di crescita, possono favorire la comparsa di sofferenze psicopatologiche piu` o meno gravi (che, non a caso, compaiono proprio nelle delicate fasi di transizione del ciclo vitale familiare).

6.2.2. Gli obiettivi terapeutici

Date le premesse concettuali che abbiamo indicato, obiettivo fondamentale della terapia strutturale e` la riorganizzazione del sistema familiare, cosı` da renderlo piu` funzionale e da permettere il superamento della situazione patologica. Cio` consiste nel demarcare correttamente i confini interni ed esterni della famiglia, nel ristabilire la delimitazione e le gerarchie generazionali, nel risolvere le coalizioni e i processi disfunzionali di triangolazione. A tal fine il terapeuta strutturale deve saper aiutare la famiglia ad accrescere la capacita` di affrontare e risolvere i conflitti, di chiarire la definizione delle relazioni, di acquistare flessibilita` nel consentire l’individuazione e l’autonomia dei suoi membri.

6.2.3. Le tecniche di intervento

Il terapeuta che segue un modello strutturale e` molto partecipe e attivo nel contesto terapeutico. Egli, come sottolinea Minuchin (1976), segue fondamentalmente due modalita` di intervento.

tecniche di joining, che consistono nella ricerca di contatto emotivo con la famiglia nel suo complesso e con i suoi membri, cosı` da garantire la solidita` e affidabilita` della relazione terapeutica; tecniche di ristrutturazione, che sono finalizzate a modificare l’organizzazione disfunzionale del sistema, attraverso un coinvolgimento attivo del terapeuta.

Il terapeuta strutturale partecipa direttamente a quanto avviene nel corso della seduta: modifica le posizioni dei membri della famiglia nello spazio; interviene sulle alleanze e sui confini, tenta di “squilibrare” la rigida struttura del sistema in modo da avviare processi di riorganizzazione, partendo, pero`, da esperienze di cambiamento, che la famiglia comincia a verificare possibili gia` durante l’incontro terapeutico. La raccolta di notizie sulla storia familiare non e` certo trascurata, ma essa rimane indubbiamente meno centrale rispetto a quanto si costruisce nel “qui e ora” della seduta: si tratta di costruzioni che spesso fanno leva sulle atmosfere emotive (talvolta vere e proprie “drammatizzazioni” nelle quali Minuchin e` un inimitabile maestra) o utilizzano un linguaggio metaforico, di solito mimeticamente mutuato dal linguaggio stesso della famiglia. Un buon esempio di terapia strutturale e` dato dal secondo caso che abbiamo esposto nel paragrafo precedente: la famiglia di Piergiorgio e` una famiglia chiaramente invischiata, in cui la labilita` dei confini e la conseguente confusione dei ruoli permettono la “triangolazione” di Piergiorgio che si stringe in una coalizione anomala con la madre, diventando l’unica possibile “voce” di lei e arrestando la sua crescita. Il lavoro terapeutico si orienta a ristabilire confini piu` chiari e funzionali, a riattivare i canali di comunicazione bloccati, a restituire a Piergiorgio la “propria” voce. Ma nonostante il ruolo attivo e spesso direttivo del terapeuta strutturale, il presupposto da cui si parte e` che esistono, sempre e comunque, risorse trasformative nel sistema, che rendono potenzialmente trattabile ogni struttura disfunzionale. Minuchin, a questo proposito, propone una significativa metafora quando paragona una fami-

La psicoterapia relazionale o sistemica

glia disfunzionale a un diamante che si e` adattato a mostrare una sola faccia di se´: il compito del terapeuta e` quello di far ruotare il diamante perche´ le altre facce, quelle nascoste, ma presenti, possano ricominciare a mettersi in luce.

6.3. Il modello esperienziale Il fondatore e principale esponente del modello esperienziale e` Carl Whitaker, che lavoro` con i suoi collaboratori presso l’Istituto di Psichiatria dell’Universita` del Wisconsin (v. Whitaker 1984, Whitaker e coll., 1981, 1989).

6.3.1. I presupposti concettuali

Non e` facile definire i presupposti concettuali del modello esperienziale, perche´, come indica il termine stesso, si tratta di un approccio fondamentalmente basato sulla “esperienza dell’incontro” fra terapeuta e famiglia. Cio` non significa che non vengano definiti dei criteri che distinguono le famiglie ben funzionanti da quelle disturbate. Un sistema familiare funzionale e` un sistema aperto che mantiene relazioni con la parentela estesa e con la societa`, salvaguardando l’unita` del nucleo familiare; e` un sistema in cui coesistono livelli di intimita` e di individuazione; e` un sistema in cui, per usare le parole di Whitaker (1981), «passionalita` e sessualita`, che sono l’energia vitale della famiglia, possono fluire liberamente». Distintivi di un buon funzionamento familiare sono, inoltre, la possibilita` di gioco (comportamento “come se”) che e` propria dei processi creativi, e la disponibilita` alla regressione collettiva nell’interesse della crescita degli individui. «La maturita` — scrive ancora Whitaker — e` la capacita` di essere maturi, anche nella famiglia». Le famiglie disfunzionali sono, dunque, sistemi che mancano di queste caratteristiche o hanno limitato queste potenzialita`. «Ma le famiglie — afferma con un paradosso Whitaker — diventano anormali solo per la sofferenza causata dal tentativo stesso di essere normali», quando la

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“normalita`” e` legata ai pesanti condizionamenti degli stereotipi culturali.

6.3.2. Obiettivi terapeutici

L’obiettivo della terapia esperienziale, e`, dunque, quello di espandere le potenzialita` della famiglia, di riattivare le valenze emozionali, di leggere i significati nascosti di quei messaggi non verbali che sono i sintomi perche´ «la terapia simbolico-esperienziale — dice Whitaker — e` uno sforzo per trattare il sistema di rappresentazione che si trova al di sotto di cio` che viene effettivamente detto; implica il raccogliere le briciole, i frammenti simbolici di cio` che avverti o percepisci» (Whitaker, 1989). Cio` avviene attraverso la relazione terapeutica, esperienza nella quale l’obiettivo e` quello di potenziare tutti gli aspetti emotivi ed espressivi che possono facilitare la crescita sia del paziente che del terapeuta.

6.3.3. Le tecniche di intervento

L’uso del Se´ del terapeuta e`, come appare evidente, lo strumento terapeutico privilegiato. Esistono comunque due modalita` di intervento che sono caratteristiche del modello esperenziale di Whitaker: •



la cosiddetta “psicoterapia dell’assurdo”, in cui il terapeuta esaspera l’incongruenza della famiglia, amplifica l’irrazionalita` di certe situazioni, fino a renderle insostenibili, evidenziandone l’assurdita`; le tecniche di gioco, in cui l’uso di elementi ludici, o la produzione di fantasie, o l’utilizzazione di oggetti metaforici diventano canali di accesso al sistema familiare e strumenti di cambiamento.

Ma probabilmente parlare di “tecniche” e` improprio e riduttivo per un terapeuta come Whitaker, che ha sempre soprattutto valorizzato l’esperienza emozionale dell’incontro e che, al tramonto della sua vita, con immensa umilta` e straordinaria saggezza, ha saputo dire: «Durante

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

quarant’anni di lavoro e di meditazione, ho imparato dalla gente che soffre qual e` il processo che induce al cambiamento» (dalla prefaz. di Whitaker al suo ultimo libro, 1990).

b)

6.4. Il modello di Bowen Murray Bowen, uno dei pionieri e una delle figure di primo piano della terapia familiare, svolse le sue elaborazioni teoriche e di ricerca clinica presso la Georgetown University di Washington (v. Bowen, 1979, 1988).

6.4.1. Presupposti teorici

La teoria di Bowen pone alla base del funzionamento familiare il livello di “differenziazione del Se´” che e` fondamentalmente in rapporto al grado di integrazione tra il sistema emotivo e quello intellettivo; quando tale integrazione consente un buon equilibrio tra i due sistemi, gli individui, e la famiglia, presentano un miglior adattamento attivo alle difficolta` esistenziali, quella che Bowen chiama la “liberta` di rispondere”; quando, invece, l’integrazione e` squilibrata e il sistema emotivo prevale, gli individui, e le famiglie, sono dominati dall’ansieta`, i comportamenti diventano automatici, e alla liberta` di rispondere, per usare la terminologia di Bowen (1979), si sostituiscono meccanismi reattivi e ripetitivi. Le fluttuazioni del “livello di differenziazione” sono, nella teoria di Bowen, da mettere in rapporto essenzialmente a tre fattori: a)

Il sistema emotivo familiare: e` lo stile di attivita` emotiva, che e` specifico per ogni famiglia e che condiziona, come si e` detto, il processo di differenziazione. Ma ogni coniuge ha sviluppato il proprio livello di differenziazione e il proprio stile di vita nella propria famiglia di origine, ed e` ipotizzabile che la stessa scelta del partner avvenga sulla base di livelli di differenziazione simili; ma quando la differenziazione e` scarsa e dominano alti gradi di ansieta`, possono comparire conflitti tra i coniugi o un aumento della

c)

distanza emotiva tra loro (a scopo reattivo e difensivo), o meccanismi proiettivi sui figli. La triangolazione: la tendenza a coinvolgere una terza persona e` propria, per Bowen, di ogni sistema emotivo, e non e` necessariamente patologica; lo diventa quando bassi livelli di differenziazione, insieme all’alta ansieta` che l’accompagna, tendono a trasformarla in un meccanismo stabile di coinvolgimento di un terzo, che spesso e` il piu` vulnerabile, come veicolo di assorbimento della tensione. La separazione emotiva: consiste nelle modalita` possibili con cui gli individui si separano dalla propria famiglia di origine: abitualmente il grado di attaccamento emotivo irrisolto e` tanto piu` intenso quanto piu` e` basso il livello di differenziazione.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, un sistema familiare disfunzionale, in cui e` possibile che compaiano manifestazioni sintomatiche, e` caratterizzato da scarsa differenziazione, dal prevalere di ansieta` e reattivita`, dalla frequenza e intensita` con cui si verificano processi proiettivi e meccanismi di triangolazione.

6.4.2. Obiettivi terapeutici

Ne consegue che, nel modello di Bowen, gli obiettivi terapeutici consistono nel ridurre la reattivita` emotiva potenziando la liberta` cognitiva, nel favorire i processi di differenziazione, nel modificare le relazioni familiari attraverso le “detriangolazioni”, nel permettere l’elaborazione delle separazioni.

6.4.3. Tecniche di intervento

Anche nel modello di Bowen e` la posizione stessa del terapeuta che diventa “strumento” del lavoro terapeutico, sia perche´ il terapeuta si propone come “Io” coerente e differenziato, inducendo i membri della famiglia a fare altrettanto; sia perche´ egli entra nei meccanismi di triangolazione della famiglia, proprio allo scopo di favorire

La psicoterapia relazionale o sistemica

la “detriangolazione” degli individui che vi sono coinvolti. L’analisi delle relazioni della famiglia di origine e la ripresa di contatti con essa, per osservarne i modelli emotivi e interattivi, sono altre importanti modalita` del lavoro terapeutico. d) 6.5. I modelli di ispirazione psicodinamica Si tratta di modelli di vari Autori che, pur riconoscendo le proprieta` sistemiche della famiglia e quindi mantenendo l’orientamento sistemico come teoria di riferimento, tentano pero` di integrarla con alcuni concetti essenziali di derivazione psicodinamica. a)

b)

c)

Ackerman, fondatore dell’omonimo Istituto di New York, che insieme al M.R.I. di Palo Alto fu uno dei primi laboratori di ricerca sulle famiglie, inizio` l’osservazione diretta delle interazioni familiari nel tentativo di comprendere il ruolo giocato dalle dinamiche inconsce nella strutturazione dell’esperienza cosciente e nella definizione dei legami interpersonali. In questa prospettiva il sintomo di un membro della famiglia e` visto come il risultato dei conflitti familiari irrisolti (v. Ackerman 1968). Framo vede anch’egli l’origine dei sintomi nel tentativo inconsapevole da parte dei genitori di riprodurre o controllare i conflitti, intrapsichici che si erano sviluppati nella loro famiglia di origine. Infatti e` su questa base, per Framo, che si strutturano le relazioni familiari. Percio` il processo terapeutico non puo` che essere transgenerazionale, non puo` cioe` non tener conto delle famiglie di origine, fino a coinvolgerle, quando e` necessario, in alcune fasi del lavoro terapeutico (v. Framo 1996). Boszormenyi-Nagy, nel suo “approccio contestuale” (1981), sottolinea l’aspetto etico delle relazioni familiari, che si ritrova e si manifesta nei “mandati” transgenerazionali, che veicolano le responsabilita` genitoriali e gli impegni di “lealta`” dei figli. Mentre nelle famiglie ben funzionanti l’autonomia dei sin-

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goli e` permessa dal “mandato” familiare, nei sistemi disfunzionali i “vincoli di lealta`” (v. Boszrmeniy-Nagy e Spark 1988) possono entrare in conflitto con i processi di individuazione ed essere di ostacolo nelle transizioni evolutive. Stierlin (1970) propone che la difficolta` nei processi di separazione, in particolare nella fase adolescenziale, puo` essere alla base di manifestazioni patologiche indipendentemente dalla tipologia delle famiglie che egli distingue in “centripete” e “centrifughe”. Non ci soffermeremo ulteriormente sulla teoria di questi Autori, perche´ su alcuni di questi concetti, ispirati all’influenza della famiglia di origine, agli aspetti piu` nascosti e inconsapevoli delle dinamiche familiari, ai processi transgenerazionali, ritorneremo piu` avanti, e vedremo come essi sono stati largamente valorizzati negli sviluppi piu` recenti della psicoterapia sistemica.

6.6. Considerazioni critiche Se infatti, agli esordi del movimento sistemico, la terapia familiare doveva darsi una base concettuale autonoma che, come si e` visto nelle origini storiche, le permettesse di distinguersi dalla psicoanalisi, spesso esasperando le contrapposizioni, quasi per un bisogno di definizione e di identita`, negli ultimi venti anni e` stata proprio la caduta di questa esigenza “oppositiva”, resa possibile dalla crescente importanza nel frattempo acquistata dalla psicoterapia sistemica, che ha permesso il recupero di molti aspetti connessi con la vecchia matrice psicoanalitica. Questo spiega perche´ inizialmente ebbero larghissima diffusione soprattutto i modelli strategico e strutturale, piu` centrati sugli aspetti comunicazionali e interattivi dei sistemi familiari che sulle dinamiche familiari profonde, piu` attenti alla pragmatica dei comportamenti osservabili nel “qui e ora” che alla ricostruzione di storie, e rimasero notevolmente piu` in ombra i modelli piu` orientati a esplorare i “mondi interni” individuali e familiari. Ma nell’ultimo ventennio, la terapia familiare e` andata incontro a un processo di pro-

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fonde trasformazioni che non solo hanno notevolmente arricchito i modelli “classici” di cui abbiamo parlato, ma che hanno permesso l’emergere di modelli nuovi piu` articolati, piu` attenti all’integrazione di molteplici livelli sistemici. Questo fenomeno si collega, soprattutto, a due importanti influenze: •



l’impetuoso e creativo sviluppo della terapia familiare europea, con un contributo importante di stimoli culturali originali; l’incontro del pensiero sistemico con nuovi paradigmi concettuali che avvia un profondo rinnovamento della stessa epistemologia sistemica.

` di questo fenomeno che vedremo, nei paraE grafi successivi, le caratteristiche teoriche essenziali e le conseguenti implicazioni terapeutiche.

7. Sviluppi della psicoterapia relazionale nella teoria e nella pratica La psicoterapia relazionale e` andata incontro, negli ultimi due decenni, a un processo di profonde trasformazioni legate alle influenze di correnti culturali che, spesso provenienti da ricerche compiute in settori estranei alle scienze del comportamento, hanno largamente investito il campo della psicoterapia. Per quanto riguarda la psicoterapia sistemica, tre sono gli “incontri” che hanno contribuito al processo di rinnovamento della sua epistemologia e della sua pratica: a) b) c)

l’incontro con i paradigmi evolutivi; l’incontro con i paradigmi costruttivisti; l’incontro con l’ottica della complessita`.

7.1. L’incontro con i paradigmi evolutivi I primi terapeuti familiari, e in particolare il gruppo di Palo Alto (v. Watzlawick e coll. 1971), avendo lavorato con famiglie gravemente disfunzionali, si erano trovati ad osservare sistemi di alta rigidita`, in cui appariva prevalente la tendenza a neutralizzare, attraverso situazioni nega-

tive, ogni modificazione della propria omeostasi, tanto che ogni comportamento dei membri del sistema, a cominciare dal sintomo del paziente designato, pareva cooperare a questo scopo. Ma in questa concezione che enfatizza gli aspetti omeostatici dei sistemi (il “modello omeostatico”) e che risente dell’influenza concettuale della cosiddetta “prima cibernetica”, cioe` della cibernetica che studia le macchine dotate di autoregolazione dell’equilibrio, l’attenzione e` prevalentemente centrata sul gioco delle interazioni reciproche nel “qui e ora” e, soprattutto, si perde un aspetto fondamentale: la dimensione del tempo. Il sistema sembra congelato in un eterno presente e, quindi, e` un sistema “senza storia”. Questo modello omeostatico e` stato largamente superato, nella psicoterapia sistemica, dall’imporsi di una nuova concezione (il “modello evolutivo”), favorita dall’incontro con nuovi paradigmi epistemologici, i paradigmi evolutivi. ` stata soprattutto la teoria dei “sistemi lonE tani dall’equilibrio” elaborata da Prigogine, premio Nobel per la fisico-chimica, che ha largamente influenzato il campo sistemico. Per Prigogine un sistema, per quanto sia governato da circuiti di reatroazione ripetitivi, non e` mai “uguale a se stesso”. Esso e` sempre attraversato da “fluttuazioni” che creano un equilibrio costantemente dinamico, e che, quando arrivano ad una soglia critica (“punto di biforcazione”), possono provocare un cambiamento di stato. In questa concezione, come si vede, viene reintrodotta nel sistema la dimensione del tempo; esiste, per usare una felice espressione di Prigogine, una “freccia nel tempo” (v. Prigogine e Stengers, 1981) che ne indica la direzione evolutiva del sistema e che ne segna la “irreversibilita`”. Acquista allora pieno rilievo la storia del sistema. Le conseguenze di tale concezione sono estremamente importanti. In primo luogo il sintomo (e in particolare la “crisi”) recuperano pienamente i loro significati evolutivi, diventano momenti di estrema instabilita` del sistema (il “punto di biforcazione” di Prigogine), a partire dai quali diverse direzioni sono possibili: momenti, dunque, particolarmente fecondi per il lavoro terapeutico. Inoltre, la reintroduzione nel sistema della

La psicoterapia relazionale o sistemica

dimensione diacronica del tempo non solo gli restituisce l’appartenenza a una storia (e ristoricizza la sofferenza stessa), ma recupera il valore del passato. Non pero` nel senso di una piatta concezione causalistica che propone che il passato “causa” il presente (per la quale la terapia sistemica aveva inizialmente preso le distanze dalla psicoanalisi), ma nel senso che il passato “e`” nel presente e continua a vivere nel presente. Continua a vivervi attraverso i miti, i fantasmi, i complessi condivisi di valori e di significati che caratterizzano l’immagine (o la “rappresentazione”) che il sistema familiare si da` di se stesso e che percio`, come vedremo tra breve, possono e debbono essere esplorati e ricercati.

7.2. L’incontro con i paradigmi costruttivisti La concezione sistemica, ispirata a quella che abbiamo chiamato la “prima cibernetica”, rischiava di proporre una visione molto riduttiva dei sistemi umani valutandone la dinamica soprattutto come gioco interattivo di “input” e di “output”, ancora cosı` simili ai complessi stimolorisposta del comportamentismo classico, in cui si perdono (o vengono messi tra parentesi nella cosiddetta “scatola nera”) valori e significati, cioe` tutti gli elementi di elaborazione che, tra input e output, sono “interni” al sistema. Questa concezione, ancora cosı` gravida di residui meccanicistici, contrasta, peraltro, con la stessa visione bertalanffiana dell’uomo come “sistema attivo di personalita`, e tradisce, inoltre, il profondo interesse che Gregory Bateson sviluppo` sempre per i processi mentali (basti vedere la ricchezza dei suoi saggi raccolti nel volume Verso un’ecologia della mente, 1975). La concezione sistemica della prima fase limita, invece, l’operazione conoscitiva alla descrizione delle sequenze comunicative ridondanti e agli effetti “pragmatici” che esse esercitano sul comportamento dei membri (vedi il volume di Watzlawick e coll., 1971: Pragmatica della comunicazione umana); essa inoltre pone il terapeuta in una posizione esterna e “neutrale” che gli con-

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sentirebbe di dare del sistema una descrizione “oggettiva”. Ma all’inizio degli anni ’80, vari campi del sapere scientifico sono stati attraversati da nuove correnti culturali che segnano l’incontro tra il pensiero sistemico e i “paradigmi costruttivisti”. Essi propongono una profonda revisione della stessa epistemologia della conoscenza, sostenendo che nessuna realta` puo` essere “oggettivamente” conosciuta e descritta perche´ ogni descrizione non puo` mai prescindere dalle attribuzioni di senso, e quindi dalla “soggettivita`” dell’osservatore che, percio` stesso, non si limita a “descriverla”, ma contribuisce attivamente a “costruirla”. Che implicazioni ha questa nuova concezione sulla psicoterapia sistemica? Almeno due, entrambe di grande importanza: •



la prima consiste nel fatto che essa riporta in primo piano le motivazioni, le intenzionalita`, le attribuzioni di significato con cui i soggetti accompagnano i loro comportamenti; fa ricomparire, dunque, a pieno titolo, gli individui, con le loro specificita`, sulla scena sistemica; segna il passaggio dalla pragmatica delle comunicazioni alla semantica dei comportamenti e autorizzza, dunque, l’accesso alla “scatola nera”, l’esplorazione di cio` che si cela sotto le interazioni fenomenologicamente osservabili, e cioe` quel “mondo interno”, individuale e sistemico in cui, come vedremo, i vissuti personali si legano ai “miti familiari”. La seconda implicazione consiste nella revisione profonda cui va sottoposta la stessa relazione terapeutica. Il terapeuta, perdendo la posizione di osservatore distaccato e centrale che la “prima cibernetica” gli aveva assegnato, viene ora coinvolto, in ogni momento, a co-partecipare alla “costruzione” del processo terapeutico. Questo passaggio, di cui tratteremo meglio in seguito, da` l’avvio a cio` che va sotto il nome di “cibernetica di secondo ordine”, per usare la terminologia di Von Foester (1987) o di “modello dei sistemi auto-referenziali”, per usare quella di Maturana e Varela (1985).

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

7.3. L’incontro con l’ottica della complessita` La progressiva esplorazione di nuove dimensioni ed aspetti, nel corso del rinnovamento di cui stiamo descrivendo le caratteristiche essenziali, mette, dunque, la psicoterapia sistemica davanti alla identificazione di una molteplicita` di livelli sistemici: presente e passato, interazioni attuali e storia familiare, individuo e sistema, osservatore e osservato. La psicoterapia relazionale certamente ne risulta arricchita, ma si trova anche ad affrontare il problema di come si organizzano tra loro questi livelli sistemici molteplici, quale ne sia il rapporto reciproco. Una possibile risposta a questo problema emerge dal terzo degli incontri epistemologici che il pensiero sistemico ha affrontato nei tempi recenti: quello con l’ottica della complessita` (Morin, 1977). L’ottica della complessita` propone, infatti, che i vari livelli sistemici non sono tra loro in opposizione, non si escludono a vicenda, secondo le classiche dicotomie cartesiane, ma sono tra loro complementari, nel senso che ognuno rimanda all’altro e non puo` sussistere senza l’altro: cosı` il passato rimanda al presente perche´ continua a vivere nel presente, l’individuo rimanda al sistema familiare in una costante dialettica tra identita` e appartenenza, l’osservatore rimanda all’osservato in un rapporto di dialogo in cui insieme “costruiscono” una nuova realta`. Percio` alla classica logica di opposizione disgiuntiva di tipo “o/o” (intrapsichico o relazionale, mondo interno o mondo esterno, individuale o familiare) si sostituisce una logica di articolazioni dialettiche di tipo “e/e” (intrapsichico e relazionale; mondo interno e mondo esterno, individuale e familiare). Tutti questi livelli sistemici, dunque, in una prospettiva di complessita`, sono intrecciati tra loro come «i fili di un tessuto», per usare la bella metafora di Morin (1977), pur mantenendo ognuno, nell’insieme della trama, la propria autonomia e specificita`. Questa profonda trasformazione epistemologica della psicoterapia sistemica significa, natural-

mente, che la stessa pratica terapeutica si trasforma e tende a diventare piu` complessa. 7.4. Il rinnovamento delle pratiche terapeutiche Nell’ultimo decennio si e` assistito, infatti, a una ricca elaborazione e sperimentazione di nuove modalita` di lavoro e di nuove tecniche terapeutiche che, mantenendo ovviamente stabili una serie di regole codificate concernenti il setting e la relazione terapeutica, testimoniamo una fase particolarmente creativa. Riprendendo i fondamentali passaggi che caratterizzano l’evoluzione della teoria sistemica, tenteremo ora, in modo necessariamente molto essenziale, di evidenziarne le influenze piu` significative sul rinnovamento della pratica terapeutica. a)

La tendenza a spostare l’attenzione dalla pragmatica dalle interazioni osservabili a un piano che potremmo chiamare dei “miti familiari”, ricostruendone il percorso storico, e quindi reintegrando nel sistema la dimensione del tempo, ha introdotto nel lavoro terapeutico una piu` complessa articolazione di livelli. Cosı` al livello sincronico dei comportamenti agiti nel “qui e ora” si correla il livello diacronico della storia e dei suoi significati; e alla fenomenologia dei modelli interattivi attuali si associa l’esplorazione dell’immagine o della “rappresentazione simbolica” che la famiglia ha di se stessa. Non a caso Caille´ (1985) parla di “livello fenomenologico” e di “livello mitico” come piani reciprocamente influenzantisi che, come in un gioco di specchi, si riflettono l’uno nell’altro; non a caso Elkaim parla di “singolarita`”, e cioe` di quegli elementi mitici che caratterizzano la specificita` di ogni sistema familiare; e Onnis e coll. (1994) trovano correlazioni significative tra alcuni modelli interattivi tipici di certe famiglie e miti familiari specifici. Ma, come vedremo meglio nel paragrafo successivo, per l’esplorazione del livello mitico, spesso, al potere evocativo della parola e` utile associare la funzione

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dello sguardo; si valorizzano cioe` i livelli di comunicazione non-verbali, di espressione analogica e metaforica, attraverso l’uso di tecniche (come le sculture familiari) che hanno molti punti di contatto con tecniche di derivazione psicodrammatica (v. Caille´ 1985, Onnis 1994, Onnis e coll. 1994). L’attenzione rivolta alla storia trigenerazionale delle famiglie e` , ancora, un chiaro esempio della tendenza a recuperare la dimensione temporale ed evolutiva dei sistemi umani. Essa rivalorizza inoltre l’opera dei primi terapeuti familiari, di ispirazione psicodinamica, che, nel clima attuale, puo` trovare uno spazio piu` maturo di rivalutazione. Un altro aspetto importante riguarda l’attenzione particolare che viene riservata nella pratica attuale della terapia familiare alle specificita` individuali: gli individui non sono piu` soltanto “parti” della famiglia e delle sue interazioni, ma emergono in tutta la loro irriducibile singolarita`. Si apre qui una ulteriore, essenziale correlazione tra altri due livelli (su cui torneremo piu` avanti): tra identita` individuale e appartenenza sistemica, tra individuo con la sua soggettivita`, i suoi vissuti, le sue reazioni emozionali e famiglia con la sua organizzazione e i suoi miti; tra mondo interno, dunque, e mondo esterno.

Questa particolare attenzione rivolta alla soggettivita` individuale si riflette non solo nella modalita` di conduzione del lavoro terapeutico, ma anche nella stessa organizzazione del setting, con sedute riservate a singoli membri della famiglia (come ad esempio nell’attuale metodo di lavoro di Mara Selvini Palazzoli e coll. 1988) o con processi terapeutici paralleli, l’uno di terapia famliare con la famiglia e il paziente, l’altro di terapia individuale con il solo paziente (Onnis, 1988). 7.5. La relazione terapeutica Ma le implicazioni del processo di rinnovamento che investe la psicoterapia sistemica non riguardano naturalmente solo le teorie e le pratiche, ma la stessa relazione terapeutica.

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` in particolare la critica costruttivista alla E concezione meccanicistica sulla separatezza dell’osservatore rispetto al proprio oggetto di osservazione ad avere le piu` dirette ripercussioni sul problema della relazione terapeutica. Il terapeuta, in realta`, entra a far parte del sistema che osserva nel momento stesso in cui incomincia a interagire con esso, ne´ d’altra parte e paradossalmente potrebbe conoscerlo se non facendone parte. Percio` la descrizione del sistema non puo` mai essere del tutto oggettiva, perche´ essa include sempre quella parte “soggettiva” che e` il contributo del terapeuta alla “costruzione” della realta` descritta. Questa concezione, anticipata da Bateson (1976), che gia` all’inizio degli anni ’50 parlava della psichiatria come “scienza riflessiva”, viene poi sviluppata, in campo sistemico, come si e` visto, con il concetto di “cibernetica di second’ordine” (Von Foester, 1987) e “auto-referenzialita` dei sistemi” (Maturana e Varela, 1985). Un sistema terapeutico, nell’arco di tutto il processo della terapia e`, dunque, il risultato di una “costruzione a due” (terapeuta e famiglia). Questo passaggio da una epistemologia della descrizione a una epistemologia della costruzione ha importanti conseguenze sulla definizione della relazione terapeutica: •



innanzitutto, abbandonato il mito della separatezza e della neutralita`, il terapeuta abbandona anche la pretesa di una conoscenza oggettiva della realta` terapeutica, intesa come “verita` assoluta”; in secondo luogo, persa la sua posizione di distanza e di estraneita`, il terapeuta deve anche rinunciare alla pretesa di controllare il processo terapeutico, e di programmarne gli esiti.

Ecco perche´ , nell’attuale fase di sviluppo della psicoterapia relazionale, ad atteggiamenti o tecniche di tipo “istruttivo” o “prescrittivo” se ne sostituiscono altri di tipo “dialogico”, che propongono piuttosto “ridefinizioni” della situazione, cioe` visioni alternative di realta` rispetto a quelle rigide e stereotipate presentate e condivise dal sistema familiare. Anche le tendenze attuali a concepire il pro-

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cesso terapeutico come lo sviluppo di trame narrative (White e coll., 1994, Bying-Hall 1998) si basano sul confronto e il dialogo tra la “narrazione” della famiglia e la “rilettura” che puo` proporre il terapeuta. La funzione del terapeuta e` dunque essenzialmente quella di introdurre nel sistema familiare elementi di maggiore complessita`, di accrescerne le possibilita` di scelta. Ma sara` il sistema stesso, una volta che si sia riavviato il processo evolutivo, a trovare i percorsi, e “creare” le forme e le direzioni del proprio cambiamento, diventando, come efficacemente sottolinea Bateson (1984), «l’artefice della propria guarigione». Questa concezione “auto-referenziale”, che riconosce capacita` creative e autonomia al sistema, spoglia, dunque, il terapeuta di ogni possibile finalita` di manipolazione e di controllo. Ma, al tempo stesso, considerandolo “co-costruttore” della realta` terapeutica, gli affida nuove responsabilita`, una “funzione etica”: egli diventa infatti co-responsabile sia della definizione di malattia (che e` anch’essa una “costruzione di realta`”) sia della evoluzione e degli esiti delle situazioni di disagio. Una conseguenza importante di questa concezione sul piano della pratica e` allora una revisione del concetto di “cronicita`”. Esso non e` soltanto esito ineluttabile della malattia e della sua intrinseca natura, come tradizionalmente si sostiene, ma e` anche “funzione della relazione terapeutica”, risultato delle modalita` con cui si definisce e si sviluppa l’incontro terapeutico. Molte ricerche, anche oggi, lo confermano (v. Onnis 1985, 1997) e propongono, dunque, ipotesi assolutamente nuove per quel che concerne la prevenzione della cronicita`, centrando l’attenzione piu` sui modelli di intervento terapeutico che sulle caratteristiche e sull’epidemiologia della malattia. Queste, dunque, sono le caratteristiche essenziali del processo di sviluppo e di trasformazione che ha profondamente rinnovato, nell’ultimo quarto di secolo, le teorie e le pratiche della psicoterapia sistemica, coinvolgendo il senso stesso della relazione terapeutica. Ma ci sembra utile fermarci ora, un po’ piu` in dettaglio, su uno degli aspetti di questo rinnovamento, la valorizzazione del concetto di “mito familiare” che e` particolarmente indicativo della

direzione delle tendenze attuali. Seguira` poi un caso clinico, allo scopo di dare un’idea concreta di come si organizza il lavoro terapeutico.

8. L’importanza dei miti familiari

8.1. Il concetto di mito familiare Il concetto di mito familiare non e` nuovo in terapia familiare, ma esso ha subı`to un’evoluzione legata in parte all’ambivalenza stessa del concetto di mito, in parte all’evoluzione piu` generale della psicoterapia sistemica. Inizialmente, il mito familiare viene considerato espressione di patologia. Uno degli Autori che per primo si occupo` del problema, Ferreira, scriveva in uno dei suoi articoli iniziali (1963) che il mito e` «un insieme di credenze condivise da tutti i membri di una famiglia, concernenti l’immagine che essi hanno di se´ e dei loro ruoli reciproci». Ferreira chiama queste credenze “miti”, nella misura in cui esse appaiono “irrealistiche” e funzionano come mezzo di resistenza al cambiamento. Per Ferreira, dunque, in una prima fase, i “miti familiari” sono dei fenomeni essenzialmente d’ordine patologico che corrispondono a una distorsione “patologica” della percezione del pensiero, dell’organizzazione reciproca delle relazioni all’interno del gruppo familiare. Ma l’evoluzione del concetto di mito progredisce rapidamente in questi ultimi vent’anni, parallelamente all’evoluzione della terapia familiare e, piu` in generale, dall’epistemologia sistemica. Infatti, man mano che i terapeuti familiari cominciano a interrogarsi sulle motivazioni e i significati che gli individui attribuiscono ai loro comportamenti, spostando, dunque, l’attenzione, come si e` visto, dalla pragmatica delle interazioni osservabili alla semantica dei comportamenti; man mano che essi cominciano a esplorare il mondo interno, individuale e familiare, tentando di aprire questa “scatola nera” che la prima cibernetica aveva considerato insignificante e insondabile; man mano che i terapeuti familiari propongono questi nuovi orientamenti interpretativi,

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cominciano a emergere e a comparire anche nuove “rappresentazioni” della famiglia. E la famiglia viene descritta come una “realta` complessa”, come una articolazione complessa di una molteplicita` di livelli; tra questi livelli ha una importanza particolare un livello piu` profondo e nascosto rispetto a quello delle interazioni fenomenologicamente osservabili, un livello che coincide, appunto, con un “livello mitico”. Ma qual e` allora il significato del mito familiare, nel quadro di queste nuove rappresentazioni della famiglia? Innanzitutto il mito non e` piu` l’espressione di una patologia della famiglia, quale Ferreira l’aveva descritto nei suoi primi articoli, ma, al contrario, diventa una funzione normale e “fondatrice” della famiglia; senza la quale la famiglia stessa cesserebbe di esistere. Il mito, da questo punto di vista, e` un insieme di rappresentazioni e di valori condivisi, che organizza i ruoli essenziali dei membri della famiglia nel corso della loro vita e li collega tra loro; il mito definisce, dunque, in un gioco di interdetti e di autorizzazioni, i ruoli sessuali, le posizioni generazionali, le funzioni affettive, sociali, biologiche. La struttura del mito da` a queste rappresentazioni una coerenza che le legittima legandole a un’etica, e le iscrive, inoltre, in una storia, la storia particolare della famniglia, che rimanda sempre indietro, a un passato che attraversa le generazioni. All’interno dei mito la famiglia trova la propria specificita` del tutto unica e singolare, (il fatto che si tratti di quella famiglia e non di un’altra); e, dunque, vi trova la ragione stessa del suo esistere. Queste considerazioni ci inducono, quindi, ad ammettere l’esistenza, e addirittura la necessita`, di un mito fondatore, su cui la famiglia si organizza e si costituisce (v. Caille` 1990, Onnis e coll. 1994, Neuburger, 1995). Lo stesso Ferreira, in scritti piu` recenti (1996), non solo riconosce la funzione normale del mito familiare, ma suggerisce che la natura stessa della famiglia sia di ordine mitico. Perche´ e` la possibilita` di condividere un mito sociale e poi familiare che riunisce i membri del gruppo in quanto comunita` familiare. D’altra parte il mito costitutivo della famiglia trova esso stesso le sue radici nel mito sociale. Quest’ultimo definisce infatti le regole principali

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della struttura della famiglia in quanto cellula costitutiva della societa`. Ma ogni famiglia ne reinterpreta gli elementi in un modo proprio e del tutto specifico, vi aggiunge aspetti collegati all’etica e alla storia della famiglia stessa, crendo cosı` una struttura mitica del tutto singolare. Nello stesso tempo, ogni membro della famiglia si organizza psichicamente sulla base di questa struttura mitica. Il mito, dunque, e` fondante per la famiglia, cosı` come e` strutturante per gli individui. Gruppo sociale, famiglia, psichismo individuale sono, quindi, fondati tutti e tre su uno stesso insieme di trame mitiche, che articolano tra loro questi tre livelli e garantiscono la loro esistenza.

8.2. La dialettica “identita`-appartenenza” Ma di questi tre livelli e` opportuno riprendere brevemente quello che concerne il rapporto e le interinfluenze tra il mito familiare e gli individui che compongono la famiglia. Ferreira sottolinea ancora che “l’immagine che l’individuo ha di se stesso e` come il riflesso in lui dell’immagine che gli e` stata data dal mito familiare”. Questa considerazione e` importante, perche´ sottolinea che il mito familiare non e` soltanto fondatore della specificita` della famiglia, in quanto tale, ma anche del mondo psichico indivi` all’interno di questa trama mitica, allo duale. E stesso tempo immaginaria e logica, che il soggetto si da` una immagine intelligente della sua nascita, del suo ruolo nella famiglia e nella societa`, del ` attraverso il sensuo destino e della sua morta. E timento di appartenenza creato dal mito, un sentimento che e` nel registro dell’affettivita`, prima ancora che della logica, che il soggetto comincia a nascere in quanto individuo e comincia a costruire la propria identita`, la coscienza riflessiva di se stesso. Ma qui si incontra un problema! Perche´, anche se l’identita` individuale si fonda su questo sentimento di appartenenza, tuttavia, non puo` ridursi all’appartenenza. E, infatti, l’individuo trova nel mito familiare la rappresentazione della

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sua lealta` alle regole e alle leggi del gruppo, ma vi trova anche quella della propria parte di liberta` e della responsabilita` della propria vita. Incontriamo, dunque, qui la necessita` di una dialettica sempre aperta tra appartenenza, (e dunque riconoscimento del mito familiare) e identita` individuale (e dunque riconoscimento di uno spazio di liberta` del soggetto): due polarita` che, come in ogni realta` complessa, non sono in opposizione, ma complementari, perche´ entrambe essenziali per lo sviluppo psichico dell’individuo. “Dialettica aperta” significa gioco flessibile e evolutivo di influenze reciproche, per il quale, nelle differenti fasi del ciclo vitale del sistema familiare e del soggetto, l’evoluzione dei bisogni personali dell’individuo possa associarsi a nuove interpretazioni del mito familiare (nel quale si radica il sentimento di appartenenza) e quet’ultimo, a sua volta, possa evolvere e trasformarsi. Quando questo avviene, cio` corrisponde a una esperienza fondamentale per l’individuo e per le sue possibilita` di evoluzione e di crescita: l’esperienza che il mito familiare possa essere trasformato senza che cessi l’esistenza della famiglia, e che, dunque, lo sviluppo dell’identita` personale non debba essere pagato al prezzo angoscioso della perdita dell’appartenenza.

8.2.1. Quando il mito diventa fonte di patologia

Ma se il mito familiare e` cosı` essenziale per lo sviluppo stesso dell’identita` individuale, perche´, in alcune situazioni, puo` diventare fonte di sofferenza che puo` manifestarsi nella comparsa, in seno alla famiglia, di un sintomo, di un “paziente designato”? Quando questo accade, e` l’espressione, appunto, della mancanza, della chiusura o comunque di una limitazione di quella dialettica essenziale tra “appartenenza” e “identita`” di cui abbiamo appena parlato, e rivela l’esistenza di contraddizioni nella logica del mito e dei valori fondatori della famiglia. Cio` significa, dunque, che un mito rigidificato e, potremmo dire, “ipostatizzato”, diventa drammaticamente costrittivo per i bisogni

personali di evoluzione e di crescita dell’individuo, fino al punto da ostacolarli e da bloccarli. In questi casi l’appartenenza al mito familiare entra in opposizione, piuttosto che in relazione di complementarita`, con le esigenze personali del soggetto e finisce per diventare distruttiva attraverso obblighi di lealta` anch’essi rigidificati. Ma, come sempre avviene nei sistemi umani, quando ci si trova davanti a rigidita` relazionali, affettive, mitiche che sembrano impedire ogni possibilita` di evoluzione e di cambiamento, si entra, allora, nel campo della disfunzionalita` e della patologia. E il prezzo da pagare, nel sistema, e` la manifestazione sintomatica, l’insorgenza della malattia, l’identificazione di un “paziente” tra i membri del sistema. Qual e`, allora, in questa prospettiva dei miti familiari, il significato da attribuire al paziente e alla sua malattia? Anche in questa prospettiva dei miti familiari il significato che la malattia assume e` sempre ambivalente e doppio: manifestazione di protezione del mito e, al tempo stesso, dichiarazione implicita della sua insopportabilita`. Ma i due significati sono inconciliabili. E da questo punto di vista, c’e` qualcosa di “eroico” nel tentativo del paziente, come in tutti i tentativi paradossali, di conciliare l’inconciliabile: essere eroe della fedelta` al mito e, al tempo stesso, essere eroe della sua trasgressione. Ma, come tutte le imprese impossibili, anche questa e` destinata al fallimento. Eppure e` importante sottolineare che in questi sistemi cosı` fortemente disfunzionali, fondati su miti estremamente rigidi, sono sempre riscontrabili due aspetti: •



il primo e` che alla difesa e al mantenimento del mito coopera non solo il paziente, ma tutti i membri della famiglia; il secondo e` che spesso e` proprio il paziente che, attraverso la sua oscura e dolorosa richiesta di cambiamento, tenta di indicare una possibile via di trasformazione che permetta di modificare il vecchio, rigido mito familiare e di costruirne uno nuovo.

Il caso clinico piu` avanti riportato dara` una chiara dimostrazione di questi aspetti.

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8.3. La dimensione transgenerazionale ` evidente che quando si parla di miti famiE liari, nell’accezione e con le implicazioni che abbiamo specificato, non si puo` non domandarsi attraverso quali percorsi e quali vicende essi si organizzino nel tempo. Il discorso sui miti rimanda dunque a una storia che attraversa le generazioni perche´ e` una sorta di “filiazione generazionale”. Una ricerca pluriennale che il nostro gruppo (v. Onnis 1994, 1997) ha compiuto con le famiglie con problemi psicosomatici ha tentato di correlare alcune tipiche modalita` interattive, tra cui in particolare l’“invischiamento” (labilita` di confini e mancanza di spazi personali di autonomia) e l’“evitamento del conflitto” (tendenza a non affrontare mai apertamente il disaccordo) con l’esistenza di miti e fantasmi che giustificassero questa particolare organizzazione sistemica. Abbiamo, infatti, evidenziato la ricorrente presenza di “miti di unita` familiare” da mantenere a qualsiasi prezzo, che naturalmente rivestono una specificita` in rapporto alla storia particolare di ogni famiglia, ma che frequentemente si correlano con quelli che abbiamo chiamato i fantasmi di rottura, e cioe` con la paura che ogni manifestazione di conflitto e ogni movimento di separazione possano comportare una disgregazione dei legami e minacciare l’unita` del sistema. Sotto il profilo individuale l’adesione del paziente a questo mito e` profonda, su un piano emozionale prima ancora che cognitivo, e questo spiega la forza dei legami che lo vincolano alla famiglia e i sentimenti di colpa rispetto a ogni possibilita` di trasgressione: si tratta di quelle lealta` invisibili di cui parlava Boszormenyi-Nagi (1988) o di quelle “deleghe” a cui si riferiva Stierlin (1978), autori che abbiamo trovato nel “modello ad ispirazione psicodinamica” e che, come si vede, recuperano ampio rilievo in questa nuova teorizzazione sistemica. Nell’arco della nostra ricerca ci siamo, dunque, domandati come questi “miti di unita`” e questi “fantasmi di rottura’’ si organizzino nel tempo, emergendo dai vissuti degli individui e, al tempo stesso, costituendo il tessuto emotivo comune che li tiene uniti.

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Abbiamo tentato, per trovare qualche risposta, di ricostruire una storia che rimanda spesso alle famiglie d’origine dei genitori e che rende, dunque, necessaria un’indagine almeno trigenerazionale. E siamo rimasti colpiti dalla frequenza con cui e` possibile ritrovare nel passato di queste famiglie la presenza di eventi traumatici, quali lutti precoci non elaborati o separazioni premature o malattie gravemente invalidanti o abbandoni. In una parola, il tema della perdita sembra spesso dominare queste storie e associarsi a vissuti emozionali profondi di “angoscia di separazione”. Abbiamo ipotizzato allora che i “miti di unita`” da tutelare ad ogni costo, cosı` frequenti in queste famiglie, nascano come costruzioni difensive condivise, che hanno funzione di protezione rispetto a queste paure di perdita e angosce di separazione. Il caso clinico che segue aiutera` a chiarire meglio questi concetti.

9. Un terzo caso clinico. La famiglia di Maurizio: quando il peso dei miti puo` togliere il respiro 9.1. Il problema Maurizio e` un ragazzo di 13 anni che soffre, dall’eta` di 6 anni, di una forma di asma cronica, che non e` migliorata — se non transitoriamente — con nessun trattamento farmacologico, ne´ vaccinico, un’asma definita percio` “intrattabile” con gli abituali interventi medici. Per questo motivo, e per esplorare le eventuali implicazioni psicoemozionali e relazionali, i colleghi della Clinica Pediatrica dell’Universita`, con i quali abbiamo un abituale rapporto di collaborazione, ce lo inviano per una terapia familiare. La famiglia e` composta dal padre, Massimiliano, di 36 anni, elettricista, dalla madre, Luisa, di 33 anni, casalinga, da Maurizio, studente di scuola media, e da una sorella minore, Gabriella, di 9 anni, che frequenta la scuola elementare. La famiglia, gradevole e disponibile, mostra

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quella tipica immagine di armonia e di accordo che e` cosı` frequente nelle famiglie con disturbi psicosomatici; i figli siedono abitualmente in mezzo ai genitori: Maurizio a fianco della madre, Gabriella piu` vicina al padre. Le prime sedute della terapia vengono dedicate alla raccolta di informazioni sul sintomo e su come la famiglia si organizza per affrontarlo, e inoltre alla ricostruzione delle storie familiari.

9.2. Le storie trigenerazionali La madre Luisa ha una storia molto dolorosa. Non ha mai conosciuto il padre il quale, prima ancora della sua nascita, lascia la madre, che e` priva di lavoro stabile ed alcoolista. Luisa, all’eta` di pochi mesi, viene affidata ad un istituto in cui la madre va a trovarla molto raramente, lasciando alla figlia una penosa sensazione di abbandono. Quando Luisa ha 12 anni, la madre le propone di andare a vivere con lei in una camera a pensione presso una famiglia: Luisa accetta di buon grado, ma dopo due anni, improvvisamente e misteriosamente, la madre scompare di nuovo. Luisa vive un’altra esperienza, ancora piu` drammatica, di abbandono: e la famiglia che la ospita, mossa a compassione, decide di adottarla. A 17 anni Luisa conosce Massimiliano, il suo futuro marito, che, commosso per la storia dolorosa della fidanzata, le propone di trasferirsi presso la sua famiglia, dove Luisa e` accolta, ancora, come una figlia adottiva. Un anno dopo, Luisa e Massimiliano si sposano. La famiglia di Massimiliano e` profondamente diversa da quella, praticamente inesistente, di Luisa: e` una famiglia molto invischiata e molto unita, in cui i genitori continuano a rimanere un punto di riferimento per i figli anche dopo il matrimonio: le famiglie di Massimiliano e della sorella stanno, peraltro, in appartamenti contigui a quello dei genitori, che accolgono regolarmente figli e nipoti all’ora dei pasti, “vero centro” — come lo definisce Massimiliano — della vita familiare. All’interno della famiglia estesa di Massimiliano, Luisa, che vi era stata accolta come una “figlia adottiva”, ha difficolta` ad uscire da questo

ruolo anche quando diventa la moglie di Massimiliano e la madre dei suoi figli. Del resto la provenienza da storie familiari con caratteristiche cosı` diverse crea, insieme alla confusione delle funzioni e dei ruoli, anche una distorsione delle aspettative reciproche, che rende molto problematica, fin dall’inizio, la costituzione della coppia. Il processo d’individuazione che ciascuno dei due coniugi ha compiuto nei confronti della rispettiva famiglia di origine e` ancora cosı` parziale che, come sostiene Bowen (1979), ognuno dei due tende a trovare nell’altro la compensazione dei propri bisogni irrisolti. Luisa, che non ha avuto un padre, stabilisce una sorta di dipendenza filiale da Massimiliano e manifesta aspettative di protezione paterna, alle quali Massimiliano ha difficolta` a rispondere, perche´ anch’egli, all’interno della sua grande famiglia, si ritrova ancora nella posizione del figlio. Ma queste mancate risposte sono vissute da Luisa con sentimenti di abbandono e reazioni depressive, perche´ entrano in risonanza con le numerose esperienze di abbandono subı`te. ` , allora, in queste situazioni che la “triangoE lazione” di uno dei figli diventa frequentemente un modo di colmare questi sentimenti di vuoto affettivo e di stabilizzare l’omeostasi del sistema, rinforzandone le necessita` di coesione e di unita`. Ed e` in queste situazioni che la “costruzione dei miti di unita`”, a cui, come vedremo, tutti partecipano, sembra rispondere al bisogno, spesso inconsapevole, di difendersi dal dolore rinnovato, ma necessario, di definire le relazioni interpersonali, di mettere confini tra le generazioni e gli individui, di elaborare le angosce di separazione. Maurizio sembra avere questo ruolo di figlio “triangolato” da quando era bambino. Non e` certamente un caso che la prima grande crisi asmatica coincida con lo “shock emotivo” subı`to da Luisa alla notizia improvvisa della morte della madre, che Luisa non aveva piu` rivisto. Da allora le reazioni depressive della madre e le crisi asmatiche di Maurizio si ripetono e si accompagnano, con frequenza variabile, nel corso degli anni. Alla luce delle informazioni importanti che provengono da queste storie familiari e` possibile formulare delle ipotesi sulla natura della sofferenza familiare e sul significato e la funzione del

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sintomo; l’osservazione diretta dei modelli d’interazione e delle sequenze comunicative aiuta a scoprire le alleanze e le triangolazioni. Ma cio` che rimane ancora celato e coperto e` il livello del mito, che richiede metodi particolari di indagine a cui abbiamo dedicato la fase intermedia della terapia.

9.3. Il lavoro con le “sculture del tempo’’ L’esplorazione dei miti familiari, in particolare in queste situazioni con disturbi psicosomatici, puo` essere piu` facilmente compiuta attraverso l’utilizzo d’un linguaggio terapeutico piu` omogeneo al linguaggio del sintomo, che e` un sintomo che si esprime nel corpo: un linguaggio non verbale e analogico, dunque, che propone una rappresentazione metaforica della famiglia nella forma “scultura familiare”. Questa consiste nella richiesta alla famiglia di dare una raffigurazione visiva e spaziale della propria immagine, attraverso la disposizione dei corpi nello spazio, l’atteggiarsi delle fisionomie e delle posture, il gioco delle vicinanze e delle distanze, la direzione degli sguardi. ` proprio questa rappresentazione per immaE gini e per metafore che permette che trovi espressione anche cio` che non puo` avere accesso alla parola, e consente l’emergere anche di quel “non detto” che e` il “mito” della famiglia. L’aspetto originale del modello elaborato dal nostro gruppo e` che le sculture si caratterizzano come “sculture del tempo” (v. Onnis e coll. 1990, 1994; Onnis 1994): a ogni membro della famiglia domandiamo di fare due sculture: una del presente, l’altra del futuro. Tentiamo cosı` di esplorare e di re-introdurre la dimensione del tempo in un sistema che sembra averla perduta: ed e` proprio qui, nel confronto tra queste due rappresentazioni, che si svela l’aspetto mitico di queste famiglie: la tutela ad ogni costo dell’unita` familiare, attraverso un blocco di ogni potenzialita` evolutiva, attraverso un impossibile arresto nel tempo. Ma torniamo alla famiglia di Maurizio. ` utile qualche rapido accenno a tre delle E sculture proposte dai membri della famiglia, perche´ esse ci consentono di mettere meglio in evi-

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denza non solo il livello del mito ma anche la relazione spesso difficile e contraddittoria di cui abbiamo precedentemente parlato, tra mito familiare e identita` individuale. Quando Maurizio fa la scultura del presente, colloca tutti i membri della famiglia stretti in un cerchio: tutti si danno la mano, e nel cerchio egli reintegra la madre, che nella propria scultura del presente si era collocata in una posizione marginale e isolata rispetto alla famiglia e al padre; ora e` Maurizio che tiene uniti i genitori stringendo le loro mani e guardando tutti i membri della famiglia. «Io guardo tutti e tre», sottolinea Maurizio. Ma in un cerchio troppo stretto in cui puo` mancare l’aria, lo sforzo di guardare tutti puo` essere troppo faticoso e provocare malessere, un malessere di cui Maurizio riesce a parlare nei commenti dopo la scultura. E nella scena successiva, quella del futuro, Maurizio rappresenta un tentativo di uscita dal cerchio: egli immagina se stesso in un proprio spazio di lavoro e colloca i genitori seduti vicini, intenti a guardare qualcosa che, in mezzo a loro, ha preso il suo posto: un album di fotografie di quando lui e la sorella Gabriella, che ora ha 9 anni, erano piccoli: tentativo di segnalare un tempo che trascorre, ma che lascia in dono ricordi ed affetti. Ma la reazione dei genitori, nei commenti dopo la scultura, esprime allarme e sentimenti di fine: il papa` accenna a pericoli incombenti e la mamma parla di malinconia che provoca un “nodo alla gola”, un nodo che ha analogie e risonanze cosı` evidenti con le difficolta` respiratorie di Maurizio. Ed e` allora particolarmente significativo cio` che rivela l’ultima scultura. Nell’ultima scultura, quella del futuro, proposta da Gabriella, viene rappresentato uno scenario rassicurante in cui l’unita` della famiglia si ricompone e la fedelta` al mito trionfa: la madre, al centro della scena, col braccio teso e il dito puntato, impone a Maurizio di assolvere un compito, e tutti intorno a lui sono intenti a compiere un dovere.

9.4. I miti e i fantasmi familiari Quali sono i messaggi che ci vengono inviati da tutte queste immagini? Innanzitutto, i “miti di

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unita` a qualsiasi prezzo”, i “fantasmi di rottura” sono la`, rappresentati in queste scene, davanti ai nostri occhi, come se miti e fantasmi, separandosi finalmente dal corpo del paziente, potessero essi stessi prendere corpo, materializzandosi nella sala di terapia. E attraverso queste rappresentazioni si avvia un dialogo tra i membri della famiglia. Ciascuno propone la propria visione della realta` familiare presente e futura, nella specificita` della propria identita` individuale, ma allo stesso tempo un filo sottile di risonanze, di messaggi, di risposte attraversa le differenti sculture e va ad iscriversi all’interno di un linguaggio comune: il linguaggio del mito della famiglia, dell’appartenenza familiare. Maurizio sente di dover essere il “garante” dell’unita` familiare, quando metaforicamente si pone al centro del cerchio familiare manifestando la sua fedelta` al mito. Ma, nella scena del futuro, egli riesce ad esprimere il proprio bisogno individuale di uscire da un cerchio troppo stretto, lasciando — peraltro — un legame affettivo simbolizzato da un oggetto, dalla vivezza di un ricordo. Ma davanti alle fantasie di catastrofe e di fine, alle sensazioni di rottura irreversibile che l’immagine di questo distacco provoca, la lealta` al mito familiare si impone di nuovo. Ed e` Gabriella che, nella sua scena, ripropone il cerchio dell’unita` familiare, affidando metaforicamente al gesto imperativo della madre un monito: «Tutti hanno da compiere un dovere», che e` innanzitutto un dovere di fedelta`. Si puo` dunque notare come da questo dialogo metaforico che le sculture attivano tra i membri della famiglia emerga un fatto fondamentale: tutti partecipano collettivamente alla costruzione e al mantenimento del mito familiare, un mito cosı` dominante e costrittivo — nei suoi rigidi legami di appartenenza — che l’identita` individuale rischia di rimanerne soffocata. Eppure, nelle rappresentazioni analogiche delle sculture, puo` intravedersi anche un altro dialogo, un dialogo che attraversa questa volta l’individuo e che si instaura tra diverse e conflittuali tendenze nei vissuti intrapsichici del paziente. Maurizio puo` dire, con un linguaggio analogico: «Voglio uscire da un cerchio familiare che mi toglie il respiro»: e qui si oppone al “mito

dell’unita` ad ogni costo”, ma e` in quel cerchio e per sostenere quel cerchio che manifesta un sintomo, la crisi asmatica, che e` la conferma del fatto che egli non potra` separarsi dalla sua fedelta` al mito. Ecco, allora, che ri-incontriamo il paradosso e, come in ogni paradosso, il tentativo impossibile di conciliare l’inconciliabile: cambiare senza cambiare. E la crisi asmatica che mantiene e protegge il mito dell’appartenenza a qualsiasi prezzo diventa, al tempo stesso, il grido disperato dell’identita` individuale che reclama di essere liberata. Ma qui, naturalmente, il paziente incontra la sua sconfitta, come in ogni soluzione paradossale tentata attraverso un sintomo. Eppure e` essenziale sottolineare che — come la scultura del futuro di Maurizio mostra con estrema chiarezza — e` spesso proprio il paziente designato a intravedere le vie di un cambiamento possibile. E cio` che fallisce, dunque, e` anche un tentativo terapeutico che egli cerca, oscuramente, di mettere in atto per se´ e per la propria famiglia. Ma, in termini piu` generali, crediamo che sia sempre possibile scorgere, anche nelle situazioni patologiche piu` rigide, qualche tentativo estremo, e doloroso, forse criptico e inadeguato, ma comunque presente, attraverso cui l’individuo cerca di preservare la propria identita`. Questa e` evidentemente un’esigenza fondamentale dello spirito umano che rimanda, piu` in generale, all’autonomia creatrice che dev’essere riconosciuta ad ogni essere vivente. Autonomia senza la quale, del resto, ogni lavoro terapeutico sarebbe inutile!

9.5. L’intervento terapeutico E il terapeuta, infatti, deve soprattutto saper raccogliere queste risorse e quelle esigenze quando esplora il mito familiare, “soggetto transizionale collettivo” — come lo definisce Andre´ Green — attraverso cui si gioca la dialettica, spesso dolorosa, tra identita` e appartenenza. E in questo spazio transizionale il terapeuta deve saper entrare con rispetto, senza atteggiamenti direttivi ed eccessivamente interpretativi, ma cercando piuttosto le condizioni perche´ sia la famiglia, con i suoi membri, a dare di se´ la propria rappresentazione.

La psicoterapia relazionale o sistemica

Nel caso della terapia di Maurizio, dopo le sculture familiari — che sono di per se´ un intervento — il terapeuta si limita a restituire alla famiglia le indicazioni metaforiche che essa stessa ha proposto, ricollegandole con nuovi nessi di significato (come un mosaico ricomposto), in modo che lo stesso sintomo di Maurizio acquisti il senso di una metafora del disagio familiare e che possano aprirsi visioni alternative di realta`. La fase conclusiva della terapia e` dedicata in particolare ad un lavoro con la coppia genitoriale, che consente progressivamente ai coniugi di esprimere le reciproche insoddisfazioni e aspettative deluse e di comprenderne i significati, attivando nuove risorse per una definizione piu` matura della relazione. Man mano che il clima affettivo migliora e che diventa possibile una circolazione piu` libera delle emozioni, le crisi asmatiche di Maurizio diminuiscono di frequenza fino a scomparire quasi del tutto nell’ultimo mese di terapia, permettendo ai pediatri una riduzione notevole del trattamento farmacologico. La terapia della famiglia di Maurizio ha avuto dunque risultati soddisfacenti, ma non e` di questo che vorremmo parlare in sede di commento conclusivo. Vorremmo, invece, sottolineare come questo caso clinico mostri, anche nel confronto con quelli precedentemente esposti, quanto la psicoterapia relazionale sia diventata piu` articolata e complessa.

10. Conclusioni: verso un’etica della complessita` Quest’apertura verso la complessita` e`, senza dubbio, lo sviluppo attualmente piu` maturo del pensiero sistemico, uno degli orizzonti verso cui esso tende, con influenze importanti nel campo della psicoterapia relazionale, come si e` visto, ma non solo in questo. Innanzitutto un pensiero sistemico ispirato alla complessita` si propone in senso fortemente critico

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verso tutti i riduzionismi, a cominciare da quello, in espansione, della psichiatria biologica e psicofarmacologica, diventata particolarmente aggressiva e dogmatica, non perche´ il pensiero sistemico misconosca l’importanza della componente biologica o, in molti casi, l’utilita` dei farmaci, ma perche´ rifiuta che l’essere umano sia “ridotto” a un puro aggregato di molecole e di reazioni biochimiche. Ma, al tempo stesso, un pensiero sistemico ispirato alla complessita` prende le distanze dai modelli “olistici”, che pretendono di essere onnicomprensivi ed esaustivi e che, nella presunzione di spiegare tutto, finiscono per diventare dogmatici perche´ non ammettono altre visioni di realta`: modelli di totalita` che scivolano, dunque, nella univocita` dei totalitarismi. Se c’e`, invece, nell’ottica della complessita`, una parola-chiave, questa e` pluralita`. Infatti, proprio dalla consapevolezza che ogni modello di riferimento e` necessariamente limitato e parziale emerge l’esigenza di una pluralita` di punti di vista, perche´ e` solo dal confronto tra essi che spesso scaturisce una maggiore approssimazione conoscitiva della realta` osservata. Nel campo della psicoterapia questa concezione favorisce la caduta dei dogmatismi di scuola e stimola un confronto fecondo tra orientamenti psicoterapeutici diversi. Un confronto di cui da molte parti si sente oggi l’esigenza (v. anche Cancrini, 1987) dal momento che si tende a sottolineare l’esistenza di una contiguita` e continuita`, piu` che di una delimitazione, tra soggetto e trama relazionale in cui e` immerso, tra mondo interno e mondo esterno, proponendo dunque che psichismo e relazionalita`, lungi dall’essere spazi lontani e contrapposti, sono piuttosto livelli diversi ma correlati di una medesima realta` umana. Ci sembra allora che un pensiero sistemico ispirato alla complessita`, dando rilievo alla valorizzazione e al rispetto per il diverso e per il molteplice, finisca per assumere una funzione etica: e riprenda e sviluppi la grande lezione di Bateson sulla differenza: «Solo le differenze, e il confronto fra differenze, sono generatrici di informazioni e di conoscenza».

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58 La psicoterapia cognitiva Giovanni Liotti Parole chiave conoscenza di se´ (sviluppo e scrittura); schemi cognitivi; sistemi comportamentali; attaccamento

La psicoterapia cognitiva, distaccatasi definitivamente dal filone comportamentistico, ha assunto sempre piu` la connotazione di una teoria ben precisa ed originale. In alcuni Autori, soprattutto quelli che sono piu` legati agli studi di etologia, si notano interessanti somiglianze o analogie con la teoria psicodinamica: soprattutto per le tematiche del legame, della perdita e della costruzione dell’oggetto.

Sul piano operativo, la psicoterapia cognitiva si connota come una terapia strategica che, in una relazione collaborativa e paritetica con il paziente ed attraverso la ricostruzione della sua storia personale, cerca di aiutare il paziente a superare quelle «resistenze» cognitive che hanno determinato lo strutturarsi della nevrosi. * * *

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1. Nozioni generali e sviluppo storico La psicoterapia cognitiva e` un modo di interpretare e di trattare i disturbi psicopatologici nel quale ha un ruolo centrale lo studio della conoscenza che l’individuo ha di se´ e degli altri. La psicoterapia cognitiva si e` sviluppata come frutto del tentativo di applicare alla psichiatria clinica i princı`pi, i metodi e i risultati della psicologia sperimentale. La ricerca psicologica sperimentale e la psicoterapia hanno a lungo seguito percorsi indipendenti e solo occasionalmente intersecantisi. Soltanto a partire dagli anni Sessanta del nostro secolo, un numero sufficientemente ampio di psicoterapeuti decise di impegnarsi in maniera sistematica a gettare un ponte fra ricerca sperimentale e cura psicologica dei disturbi psichiatrici. Poiche´ negli anni Sessanta la ricerca di base in psicologia era dominata dalla teoria e dalla prassi sperimentale nota come comportamentismo (Behaviorism), le prime tecniche terapeutiche cosı` elaborate si concentravano sul comportamento osservabile, e presero di conseguenza il nome di tecniche di terapia del comportamento (behavior therapy). I primi terapisti del comportamento si limitavano ad osservare come gli eventi ambientali entrassero nell’apprendimento e nel mantenimento dei comportamenti abnormi, e ad usare tecniche terapeutiche capaci di indebolire i legami di apprendimento fra stimoli ambientali e risposte del paziente. La ricerca di base sui processi psicologici dell’apprendimento (condizionamento Pavloviano, apprendimento operante secondo Skinner, etc.) forniva le teorie e i modelli sperimentali necessari per tali tecniche. Le attivita` mentali «interne» del paziente (pensieri, sentimenti, memorie, intenzioni), coscienti o no, non potevano essere studiate secondo i principi e i metodi del comportamentismo, e quindi non venivano prese in considerazione nell’elaborare le tecniche psicoterapeutiche. Per primi, i terapisti del comportamento tentarono sistematicamente di dimostrare l’efficacia delle proprie tecniche non solo con resoconti della cura di casi singoli (a cui si erano quasi sempre limitati gli psicoterapeuti fino alla comparsa della behavior therapy), ma anche con studi sistematici in cui gruppi di pazienti trattati con le

tecniche comportamentali venivano messi a confronto con gruppi di controllo composti da pazienti non trattati, o curati con altre tecniche psicoterapeutiche. Questi studi controllati dimostrarono che, nonostante la semplicita` delle tecniche, la terapia del comportamento era efficace nella cura di alcuni disturbi psicopatologici (fobie, rituali ossessivi, disturbi del comportamento sessuale come l’eiaculazione precoce e la disfunzione orgasmica: Wolpe, 1969). Mentre la terapia del comportamento prendeva forma, la psicologia sperimentale andava gradualmente superando i limiti del comportamentismo. I fenomeni del «mondo interiore» (pensiero, memoria, immaginazione, esperienza emotiva soggettiva) cominciavano ad essere indagati con metodi sperimentali sufficientemente precisi grazie soprattutto agli sviluppi della psicofisiologia e della scienza cognitiva (Gardner, 1985). In corrispondenza di questo cambiamento di paradigma (la cosiddetta «rivoluzione cognitiva») in psicologia sperimentale, cominciarono le applicazioni delle nuove acquisizioni alla psicopatologia e alla psicoterapia. Si andarono cosı` sviluppando tecniche terapeutiche capaci di tener conto dei processi «interni» della mente umana (elaborazione di informazioni, organizzazione della memoria, rapporti funzionali fra pensieri ed emozioni) oltre che del comportamento motorio direttamente osservabile. Per indicare l’insieme di queste tecniche sembro` appropriato il termine cumulativo di terapia cognitiva (cognitive therapy). Ma la rivoluzione cognitiva non rappresenta la sola novita` della ricerca di base in psicologia rispetto al comportamentismo degli anni Cinquanta-Sessanta. Nell’ultimo trentennio, ha raggiunto un grado soddisfacente di precisione scientifica lo studio empirico dello sviluppo mentale del bambino. Alla psicologia dello sviluppo di tipo empirico (basata cioe` sull’osservazione diretta, e non sulla ricostruzione del passato a partire dalle memorie dell’adulto) contribuiscono ormai sia studiosi formatisi a scuole di pensiero psicoanalitiche (p. es. Bowlby, 1969) che studiosi di formazione piu` direttamente sperimentale (Flavell, 1963). Questa confluenza di interessi intorno allo sviluppo umano ha fortemente contribuito a ridurre la distanza fra almeno una parte

La psicoterapia cognitiva

del mondo psicoanalitico e almeno una parte della scuole psicoterapeutiche cognitivo-comportamentali. Anche lo studio del comportamento animale nell’ambiente naturale (etologia) ha contribuito a questo riavvicinamento, attraverso l’identificazione di un’ulteriore area di interesse congiunto per studiosi di formazione psicoanalitica e cognitivo-comportamentale: l’indagine sui processi motivazionali fondata su concetti piu` precisi e scientificamente accettabili del vecchio concetto di «istinto» utilizzato dalla psicoanalisi classica. Infine, l’epistemologia evoluzionista (la visione della vita come processo conoscitivo in evoluzione, basata ampiamente sui risultati della rivoluzione darwiniana in biologia) sembra fornire un supporto teorico unitario a gran parte delle nuove ricerche della psicologia cognitiva, della psicofisiologia, della psicologia dello sviluppo e della etologia (Popper e Eccles, 1977). La psicoterapia cognitiva puo` dunque essere identificata come quel modo di avvicinarsi alla comprensione ed alla cura dei disturbi psicopatologici che si e` assunto il compito di integrare ed utilizzare, oltre ai contributi della psicologia comportamentista dell’apprendimento e della psicologia cognitiva contemporanea, anche i princı`pi e i risultati della psicologia dello sviluppo, dell’etologia umana e dell’epistemologia evoluzionista. In questo sforzo di integrazione, e` verosimile che aumentino sempre piu` i punti di contatto con almeno una parte del mondo delle psicoterapie dinamiche. Va anche ricordato che la psicoterapia cognitiva ha scambi e debiti di riconoscenza verso i precedenti modi di avvicinarsi alla psicoterapia dal punto di vista dello studio della conoscenza di se´ e del mondo, sviluppati da Victor Frankl (logoterapia), da George Kelly (terapia dei costrutti personali) e da Albert Ellis (terapia razionale-emotiva). Per una visione d’insieme dei vari apporti alla psicoterapia cognitiva, si veda il volume sull’argomento a cura di Guidano e Reda (1981), o quelli di Mahiney e Freeman (1985) e di Dryden e Golden (1986).

2. Un modello teorico per la psicoterapia cognitiva La psicoterapia cognitiva e` fondata sullo studio dei processi e delle strutture conoscitive viste

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nella loro correlazione funzionale con l’esperienza emozionale e il comportamento osservabile. Ma cosa dobbiamo intendere per «conoscenza»? Non certo soltanto il pensiero verbale con cui, nel dialogo interno, svolgiamo i nostri ragionamenti, commentiamo le nostre esperienze emozionali, prendiamo le nostre decisioni. E neppure soltanto le rappresentazioni non-verbali delle immagini mentali, come quelle della fantasia e del sogno. La conoscenza ha a che fare con strutture e processi taciti e astratti oltre che con le rappresentazioni concrete di queste nel pensiero, nell’immaginazione e nell’azione. La conoscenza, in altre parole, va intesa come una struttura profonda che sottende l’esperienza e l’azione.

2.1. Conoscenza come struttura profonda Nel flusso dell’esperienza cosciente dell’individuo, hanno continuamente luogo vari tipi di eventi. Percezioni, immagini mentali legate a memorie o fantasie, sogni, pensieri verbalizzati e sentimenti si susseguono incessantemente e si intrecciano variamente fra loro, in maniera apparentemente caotica. Dietro l’apparente caos che caratterizza il flusso di coscienza, esiste una struttura, un ordine. Per esempio possiamo evidenziare, in un paziente, le seguenti riflessioni: un uomo si risveglia da un sogno triste. Lasciando il letto, si sente stanco ed angosciato. Mentre guarda fuori dalla finestra, gli tornano alla mente le immagini del sogno. Lo sguardo sfiora i gerani colorati sul davanzale, e si ferma sui rami spogli degli alberi del giardino. «La mia vita e` spoglia come quest’albero», pensa, «solo che per me non verra` piu` la primavera...». Vaghi ricordi di un’infanzia solitaria e dolorosa gli tornano automaticamente alla mente, quasi a dimostrare il destino di infelicita` che gli sembra caratterizzare tutta la sua vita — il passato, non solo il futuro che crede di avere davanti. Le comuni attivita` della giornata gli appaiono un carico insieme oneroso e insensato.

C’e` una struttura, un ordine soggiacente gli eventi che si susseguono nel flusso di coscienza del protagonista del nostro esempio. Le immagini tristi del sogno, l’esperienza emotiva di angoscia

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al risveglio, l’attenzione selettiva che automaticamente «sceglie» la percezione dell’albero spoglio piuttosto che del colorato geranio, il dialogo interno che parla di un destino di infelicita` immutabile, l’evocazione automatica di episodi infelici del passato, la valutazione negativa del significato dei comuni impegni della giornata: tutto cio` e` regolato da una precisa struttura conoscitiva, uno schema cognitivo. Possiamo riconoscere in questo schema quella triplice visione negativa di se´, degli altri e del futuro che Beck ha identificato come la caratteristica fondamentale della depressione (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979). In altre parole: gli elementi disparati che si susseguono nel flusso di coscienza del protagonista del nostro esempio sono regolati nel loro svolgersi temporale da uno schema cognitivo che convoglia una visione pessimistica di se´ (come non degno di amore e destinato al rifiuto), degli altri (come indisponibili ad un rapporto di accettazione e affetto), e del futuro (come statico, o improduttivo di cambiamenti favorevoli). Questo schema, che consideriamo astratto o «profondo» in quanto non appare come tale negli elementi del flusso di coscienza, pure coordina tali elementi in un’unica struttura di significato. Tutta la conoscenza che un essere umano acquista intorno a se´, agli altri e al mondo in cui vive e` racchiusa in schemi della memoria. Schemi come quello dell’esempio appena fatto predispongono alla depressione. Altri schemi cognitivi saranno caratteristici delle diverse sindromi psicopatologiche (Guidano e Liotti, 1983). Per esempio, schemi che rappresentano se´ come bisognoso insieme di protezione e di indipendenza affettiva sembrano caratteristici delle nevrosi ansiosofobiche. Schemi che convogliano un’immagine di se´ come destinato all’illusione e alla delusione nei legami affettivi sembrano connessi allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare (anoressia mentale, bulimia nervosa: Liotti, 1988a). Schemi che rappresentano se´ e gli altri in maniera «doppia», positiva e negativa, ma tale che se il se´ e` visto positivamente in un dato momento gli altri sono visti come negativi, e viceversa, sono caratteristici dei disturbi ossessivo-compulsivi. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi se lo spazio di questo capitolo lo permettesse.

Schemi cognitivi come quelli appena descritti hanno a che fare con la conoscenza che l’individuo ha di se´ e degli altri: sono quindi schemi interpersonali (Safran, 1990). Gli schemi interpersonali sono, ovviamente, di ben maggiore importanza per la psicopatologia rispetto agli schemi che riguardano la conoscenza del mondo inanimato e impersonale. La psicologia cognitiva sperimentale si e` occupata soprattutto di definire la natura degli schemi conoscitivi riguardanti il mondo inanimato, ma non abbiamo ragioni ne´ teoriche ne´ empiriche per ritenere che i principi di sviluppo riguardanti tali schemi non debbano valere anche per gli schemi interpersonali. Fra tali principi, e` di fondamentale importanza il principio di equilibrazione (v. Flavell, 1963). 2.2. Lo sviluppo cognitivo e il processo di equilibrazione Le strutture della conoscenza non sono statiche nella nostra mente, ma piuttosto vivono in un equilibrio dinamico fra tendenze al cambiamento e tendenze alla stabilita` . Nella mente umana, sembrano essere continuamente all’opera processi taciti (cioe` non coglibili nel dialogo interno, non rappresentabili immediatamente nel pensiero, non voluti ne´ coscienti) che si svolgono attraverso: 1)

2)

3)

la rilevazione del contrasto fra l’insieme delle stimolazioni sensoriali correnti e i modelli delle precedenti esperienze registrati nella memoria (schemi cognitivi); l’eliminazione delle discrepanze fra input sensoriale corrente e schemi cognitivi della memoria, quando queste discrepanze siano minime (processo di assimilazione); la modificazione degli schemi cognitivi in funzione delle discrepanze non annullabili fra questi e la stimolazione sensoriale (processo di accomodamento).

Nella terminologia proposta da Piaget (Flavell, 1963), lo sviluppo della conoscenza si svolge all’interno di questo equilibrio fra stabilita` (processo di assimilazione) e mutamento (processo di accomodamento).

La psicoterapia cognitiva

Il principio di equilibrio ha due importanti implicazioni: 1)

2)

ogni nuova struttura cognitiva non puo` che essere il frutto del cambiamento di una struttura cognitiva precedente; il cambiamento degli schemi cognitivi preesistenti (cioe` l’apprendimento di nuove conoscenze) avviene per effetto delle pressioni ambientali.

Nessuno schema cognitivo puo`, dunque, nascere dal «nulla» mentale. Gia` alla nascita, la mente non e` una tabula rasa, non e` come una cera liscia su cui si stampino le informazioni provenienti dall’ambiente, ma e` piuttosto come un insieme di schemi preformati che vengono progressivamente plasmati e sviluppati per effetto dell’interazione fra individuo e ambiente. Questi schemi preformati o innati sono stati definiti dagli etologi come «meccanismi innati di messa in azione» o come «sistemi di controllo del comportamento» (brevemente, «sistemi comportamentali»). 2.3. I sistemi comportamentali Le prime strutture cognitive si sviluppano a partire da schemi senso-motori ed emozionali innati, che cioe` guidano la percezione ed il comportamento del bambino gia` alla nascita, e quindi prima di ogni esperienza. I primi schemi, su cui si sviluppa la conoscenza di se´ e del mondo, sono dunque patrimonio ereditario della specie, ed hanno, in termini di teoria dell’evoluzione, un alto valore di sopravvivenza. L’etologia suggerisce di studiarli non secondo il vecchio ed inappropriato concetto energetico di «istinto», ma come sintesi di controllo e regolazione di singoli settori del comportamento (sistemi comportamentali: v. Bowlby, 1969, 1988). Avremo cosı` schemi che regolano, fin dalla nascita, il comportamento alimentare, schemi che controllano il comportamento di attaccamento (ricerca di vicinanza ad adulti della stessa specie), schemi che controllano il comportamento esploratorio, e cosı` via. Alcuni sistemi comportamentali, come quello che riguarda la sessualita`, e quello che riguarda la do-

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minanza-sottomissione rispetto ad altri membri del gruppo sociale in cui si vive (Gilbert, 1988), pur presenti potenzialmente gia` alla nascita come sistemi di regole innate, devono attendere determinate fasi di maturazione dell’organismo per potersi esplicare nel pieno delle loro funzioni. L’esperienza e l’apprendimento plasmano progressivamente le regole di comportamento innate, ma non possono mai abolirle. Caratteristica delle regole di comportamento innate e` di esplicarsi, nell’esperienza soggettiva, come intensa spinta all’azione e come intensa propriocezione legata all’attivazione neuro-vegetativa. Da cio` conseguono interessanti conseguenze per la psicopatologia. Un esempio. Un paziente depresso puo` conoscere se stesso come destinato alla solitudine affettiva, e puo`, di conseguenza, sviluppare regole di comportamento miranti all’autosufficienza ad ogni costo. Questo tipo di conoscenza di se´ e queste regole di comportamento centrate sulla accettazione e sulla ricerca della solitudine non possono pero` mai abolire la disposizione innata a formare legami affettivi che compare gia` in ogni bambino nel suo primo anno di vita, sotto forma di comportamento di attaccamento. Le emozioni e le spinte all’azione legate al sistema comportamentale dell’attaccamento saranno pero` in contrasto con gli schemi cognitivi interpersonali del depresso. Il processo di assimilazione potra` allora condurre ad attribuire significati distorti (cioe` congruenti con lo schema cognitivo anziche´ con il valore biologico delle regole innate) alle emozioni implicate dalla attivazione del sistema dell’attaccamento. In altre parole, una persona convinta di dovere e potere bastare sempre a se stessa potra` non capire il senso del bisogno di compagnia e aiuto che normalmente si sviluppa in un essere umano a lungo isolato. Una importante classe di esperienze soggettive sara` allora misconosciuta dal depresso: per esempio, le proprie attivazioni neuro-vegetative correlate alla ricerca di figure di attaccamento (biologicamente determinata, ripeto, dopo un protratto periodo di solitudine) potranno essere interpretate non per quello che sono, ma come segni di una incombente misteriosa malattia, conducendo cosı` ad elaborazioni ipocondriache di pensiero molto lontane dal significato biologico dell’attivazione neuro-vegetativa di partenza.

Il sistema comportamentale dell’attaccamento

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riveste una particolare importanza nella comprensione di come si possano sviluppare strutture cognitive predisponenti ai disturbi psicopatologici a partire dalle prime fasi della vita. Manca pero` qui lo spazio per una trattazione approfondita della teoria dell’attaccamento e delle sue utilizzazioni cliniche in psicoterapia cognitiva. Il lettore interessato potra`, al riguardo, consultare le opere di Bowlby (1969, 1988), di Guidano e Liotti (1983) e di Liotti (1988b).

2.4. L’organizzazione gerarchica della conoscenza Se gli schemi della conoscenza di se´ e del mondo si sviluppano a partire da schemi percettivo-motori innati, e se tali schemi primitivi innati sono distinguibili in piu` sistemi di controllo e regolazione del comportamento, ne consegue che un problema interessante nella ricerca cognitivista riguarda lo studio dei rapporti reciproci fra diversi tipi di schemi cognitivi. Un interessante principio teorico implicato in questo studio e` quello dello strutturalismo gerarchico. La conoscenza e` concepita come una struttura a piu` livelli, di momento in momento, la meta fondamentale dell’azione, mentre le decisioni sui dettagli dell’agire sono lasciati ai livelli subordinati. Riprendiamo il nostro esempio riguardante la psicopatologia della depressione da un punto di vista cognitivo. Nell’organizzazione cognitiva corrispondente alla depressione, un livello gerarchicamente elevato definisce la maggior parte delle azioni della vita quotidiana come inutili, prive di significato e valore. Di conseguenza, il depresso vede la maggior parte delle possibili azioni nella dimensione di uno sforzo improduttivo, che e` meglio risparmiarsi (di qui l’apatia, l’abulia e l’inerzia, ovvero l’agitazione inconcludente, tipiche della depressione). I livelli subordinati della gerarchia cognitiva applicano via via questa regola sovraindicata («Agire e` uno sforzo inutile») a seconda delle diverse contingenze ambientali e dei diversi sistemi comportamentali via via attivati da esse. Cosı`, quando sara` attivato il sistema comportamentale alimentare, il depresso potra` «rispar-

miarsi lo sforzo» di cercare cibi gradevoli o persino di mangiare in quantita` sufficiente. Quando ricevera` l’invito a incontrare degli amici, il depresso decidera` che cio` non puo` che peggiorare il suo stato d’animo (ancora «sforzo» inutile o dannoso), e si rinchiudera` in casa. Se le contingenze ambientali gli imporranno un incontro con una persona, il depresso evitera` di guardarla e di impegnarsi emotivamente nella conversazione (sguardo abbassato, mutismo, mimica povera di espressioni), e cosı` via. La stessa struttura, gerarchicamente sovraordinata, «decide» il corso generale dell’azione (evitare ogni sforzo inutile) e altre strutture cognitive «applicano» via via, concretamente, questa regola generale alle diverse contingenze. A sua volta, la struttura che detta la regola dell’inutilita` dell’agire e` sottoposta, gerarchicamente, ad altri schemi cognitivi, quelli riguardanti la visione pessimistica di se´ in relazione alla possibilita` di rapporti soddisfacenti con gli ` perche´ il depresso non crede che il suo altri. E agire possa ridurre la sofferenza fondamentale della solitudine affettiva che si sviluppa la regola riguardante l’inutilita` dell’agire in generale. Gli schemi interpersonali, come di regola generale, rappresentano i livelli sovraordinati della gerarchia conoscitiva individuale. La ricerca contemporanea in psicologia sociale e dello sviluppo, come pure l’epistemologia evoluzionista, intende indicare che la conoscenza di se´ e la conoscenza dell’Altro sono strettamente interconnesse, quasi come due facce della stessa medaglia, dall’esperienza emotiva interpersonale che fin dall’inizio costituisce il contesto dello sviluppo conoscitivo umano. Se ci si conosce come amati, si conosce l’altro come amante, e se ci si conosce come rifiutati, si conosce l’altro come rifiutante.

2.5. La conoscenza come costruzione ` ora il momento di rendere esplicito un E tema che ha attraversato tutta la descrizione dei principi teorici fondamentali della terapia cognitivistica fin qui esposti: il tema del costruttivismo. Gli esseri umani hanno un ruolo attivo nel costruire la realta` a cui rispondono, e in cui vivono. Fin dall’inizio della nostra vita, selezioniamo atti-

La psicoterapia cognitiva

vamente gli stimoli ambientali per noi significativi. (Gli ultrasuoni entrano nella conoscenza diretta del mondo uditivo del cane, non nella nostra conoscenza dei suoni). Poi, dirigiamo il nostro comportamento verso mete che hanno per noi valore, e non per altri esseri viventi. (I mammiferi, e l’uomo in particolare, cercano attivamente la vicinanza di esseri della stessa specie: non cosı`, ad esempio, fanno i serpenti). Gli aspetti conflittuali, difficili od ostili dell’ambiente, durante questa prima costruzione percettivo-motoria della realta` in cui vivremo, sono trattati come problemi da risolvere, e l’uomo e` un attivo solutore di problemi. Le procedure di soluzione dei problemi ambientali che «inventiamo» nel corso della nostra vita, e non solo le soluzioni piu` o meno felici che troviamo per tali problemi, sono incorporate nella nostra conoscenza di noi stessi e della realta`. Gli schemi di tale conoscenza poi assimilano, rendono simile a se stessi, gli elementi delle nuove realta` con cui veniamo a contatto gia` a livello percettivo, oltre a guidare il nostro comportamento in modo da cercare conferme a quanto gia` conosciamo. In questo senso, l’uomo costruisce la realta` a cui risponde. In psicopatologia, questi principi costruttivisti hanno un valore evidente. Il paziente depresso del nostro esempio non conosce, come crede, una realta` assoluta e definitiva rispetto a se stesso e al mondo, ma piuttosto qualcosa di contingente alle esperienze che hanno guidato la costruzione della sua visione di se´, degli altri e del futuro. In cio` risiede la speranza della psicoterapia: aiutare il paziente nel riconoscimento della natura relativa e contingente della sua attuale conoscenza di se´ e del mondo, e nella successiva costruzione di una conoscenza che implichi minore sofferenza e maggiori possibilita` di ulteriori sviluppi conoscitivi. Proprio la consapevolezza della natura relativa e relazionale (legata cioe` alla relazione, al rapporto con altri esseri umani) costituisce la meta fisiologica e spontanea dello sviluppo conoscitivo umano, nel suo lungo decorso dall’infanzia all’eta` adulta. Il bambino e` cognitivamente egocentrico, nel senso di non saper distinguere il proprio punto di vista sulla realta` da altri possibili punti di vista. L’egocentrismo cognitivo viene gradualmente superato, attraverso un lungo processo

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che si completa, in condizioni ideali, dopo l’adolescenza (Flavell, 1963). Ma le condizioni del nostro sviluppo cognitivo-emotivo-interpersonale solo raramente sono ideali: di conseguenza, aree piu` o meno estese della conoscenza di se´ e degli altri sono, nell’adulto, contrassegnate dal permanere dell’egocentrismo di tipo infantile o di tipo adolescenziale. La psicopatologia, dal punto di vista cognitivo, e` espressione del permanere di troppo ampie modalita` di cognizione egocentrica nell’adulto. Corrispondentemente, uno dei compiti della psicoterapia cognitiva sara` quello di aiutare il paziente a sviluppare quella capacita` di assumere momentaneamente il punto di vista di altri che consente di superare l’egocentrismo cognitivo. La capacita` di assumere il punto di vista dell’altro nella comunicazione, che e` nota come ‘‘empatia’’ nella letteratura psicoanalitica, e` stata recentemente identificata nella letteratura cognitivista con il termine ‘‘teoria della mente’’. Il termine intende sottolineare come essa consista nel costruire ipotesi su cio` che sta accadendo nella mente dell’altro (Camaioni, 1995). Esistono oggi metodi empirici molto accurati per indagare la crescita di questa capacita`, detta anche nel corso dello sviluppo. Grazie a tali metodi (i cosiddetti ‘‘test di falsa credenza’’), si e` osservato che i bambini autistici non riescono a costruire una teoria della mente (Baron-Cohen, 1997), mentre i bambini normali cominciano a costruirla in maniera operativamente efficiente fra i tre ed i quat` anche dimostrato che l’attaccamento tro anni. E sicuro (vedi il successivo paragrafo per la definizione di attaccamento sicuro) favorisce una buona qualita` della ‘‘teoria della mente’’, mentre i diversi tipi di attaccamento insicuro ostacolano tale sviluppo (Meins, 1999). Poiche´ la capacita` di formare una teoria della mente dell’altro e` correlata strettamente (come due facce della stessa medaglia!) alla capacita` di osservare i propri contenuti mentali e di comprenderne natura e valore (capacita` metacognitiva) le ricerche sulla teoria della mente e sulla metacognizione in funzione dell’attaccamento forniscono prove empiriche statisticamente ben fondate a favore delle prospettive intersoggettive ed interpersonali in psicopatologia e psicoterapia. Infatti, esse indicano che la capacita` di

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immedesimarsi nel mondo interiore dell’altro (empatia, teoria della mente) e la corrispondente capacita` di riflettere sul proprio mondo interiore (metacognizione) sono funzione delle relazioni interpersonali in cui si e` immersi: la coscienza individuale appare cosı` come una proprieta` emergente dalla relazione interpersonale (Liotti, 1994). Le implicazioni di questi studi cognitivisti per la psicopatologia e la psicoterapia appaiono davvero notevoli (Liotti, 1994, 1996; Liotti e Intreccialagli, 1998).

2.6. La costruzione di strutture cognitive patogene Lo spazio disponibile per questo capitolo consente appena di accennare alle principali influenze patogene capaci di influire sulla costruzione di schemi cognitivi predisponenti alle varie sindromi psicopatologiche. Mentre il lettore e` invitato ad approfondire l’argomento nelle opere di Bowlby (1988), di Guidano e Liotti (1983) e di Liotti (1988b, 1989), ci limitiamo qui a ricordare le influenze interpersonali precoci che conducono a modelli di attaccamento insicuro, quelle piu` tardive che portano ad una descrizione di se´ e degli altri negativa, e quelle che conducono ad una dissonanza fra gli schemi della memoria semantica e gli eventi registrati nella memoria episodica. Se le aspettative innate di essere accudito e accettato nelle sue fondamentali e vitali esigenze di aiuto, che sono implicite negli schemi percettivo-motori regolanti il comportamento di attaccamento del bambino, vengono variamente disattese dal comportamento dei genitori, si possono sviluppare modelli di attaccamento insicuro (Bowlby, 1969, 1988). In questi modelli, il bambino ha richieste eccessive di vicinanza alle figure di attaccamento (attaccamento ansioso-resistente), tende ad evitare le figure di attaccamento e a inibire le emozioni di legame (attaccamento evitante) oppure appare confuso e disorientato nella sua ricerca di rapporti interpersonali (attaccamento disorientato-disorganizzato), proprio perche´ i genitori, rispettivamente, sono intrusivi e imprevedibili nel rispondere alle sue esigenze,

sono stabilmente indifferenti o ostili ad esse, oppure sono a loro volta gravemente confusi e disorientati nel comportamento di accudimento. Negli schemi cognitivi corrispondenti a queste forme principali di attaccamento insicuro, il Se´ e` rappresentato come indegno di sufficienti cure e affetto, e gli altri come indegni di fiducia o perche´ intrusivi e imprevedibili (attaccamento ansiosoresistente), o perche´ indifferenti se non ostili (attaccamento evitante), o infine perche´ a loro volta troppo sofferenti e bisognosi di aiuto per poter sopperire alle esigenze di conforto e accudimento del bambino in maniera efficiente (attaccamento disorientato). Queste prime forme di conoscenza di se´ e degli altri sembrano predisporre, rispettivamente, ai disturbi ansiosi (nevrosi d’ansia, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, e forse disturbi del comportamento alimentare), ai disturbi che implicano forme piu` o meno gravi di isolamento affettivo o sociale (certe forme di depressione, alcune personalita` schizoidi, forse alcune malattie psicosomatiche) e ai disturbi che implicano dissociazioni «isteriche» della coscienza (depersonalizzazione e derealizzazione, «fughe» isteriche, disturbi dissociativi atipici, forse alcune personalita` borderline). Gli schemi cognitivi interpersonali che accompagnano i primi modelli di attaccamento insicuro possono poi essere variamente confermati dagli eventi e dagli stili interpersonali che caratterizzano la vita della famiglia in cui il bambino si sviluppa. Gli adulti con cui il bambino forma legami affettivi fungono (col loro comportamento e con quanto dicono di se´, del mondo e del carattere del bambino stesso) da descrittori, da definitori della realta` personale e interpersonale, familiare e interfamiliare. Il bambino incamerera` queste descrizioni negli schemi cognitivi della sua memoria semantica. (La memoria semantica e` quell’aspetto della memoria umana che immagazzina significati generali, del tipo per esempio «il mondo e` pericoloso» piuttosto che registrazioni di singoli episodi specifici, del tipo per esempio «ieri ` evidente come mi sono fatto male giocando»). E l’assimilazione di ripetute descrizioni negative di se´ e degli altri possa inquinare durevolmente la conoscenza che il bambino va sviluppando circa le proprie capacita` e attitudini, circa il proprio

La psicoterapia cognitiva

bambini, gli piaceva stare con loro») e memoria episodica («mio padre era stanco, e io cercavo, quella sera, di dargli il modo di allontanarsi presto da me fingendo di dormire»), diviene possibile ricostruire una storia di sostanziale, frequente assenza del padre da casa, e sue continue dimostrazioni di essere troppo stanco per intrattenersi con la figlia le poche volte che trascorreva del tempo in casa. Da dove proviene, allora, (se non dall’esperienza diretta) l’idea che il padre fosse affettuoso con lei e trovasse piacevole trascorrere del tempo in sua compagnia? L’indagine psicoterapeutica consentı` di riconoscere che era stata la madre della paziente a descriverle quanto il padre assente amasse i bambini in generale e lei in particolare. Una sorta di «propaganda» verbale martellante effettuata dalla madre, dunque, indusse la paziente bambina a far propria una descrizione del padre che non corrispondeva alla sua esperienza diretta dell’atteggiamento e del comportamento di lui. La dissonanza, a questo livello, fra memoria episodica e memoria semantica rendeva difficile alla paziente ragionare (il ragionamento si svolge prevalentemente attraverso il dialogo interno, e fa uso delle descrizioni generalizzate fornite dalla memoria semantica) sull’origine e sul vero significato delle sue prime esperienze di solitudine affettiva.

carattere, e circa quello che puo` aspettarsi dal mondo. Le strutture della memoria semantica che si formano per effetto della comunicazione intrafamiliare, oltre che col convogliare pregiudizi e con l’avere contenuti variamente negativi (pessimistici, irrealistici, ostili, e cosı` via) possono esercitare un’influenza patogena anche col loro essere incongruenti rispetto agli eventi registrati nella memoria episodica. Se quanto si assimila, a livello di significati generali (memoria semantica) dal discorso udito dagli altri rappresenta una menzogna o una mistificazione rispetto alla propria esperienza diretta di eventi ed episodi (registrati in una diversa modalita` di funzionamento della memoria, nota come memoria episodica) si crea infatti un ulteriore ostacolo allo sviluppo cognitivo del bambino. Un esempio varra` a chiarire quest’ultimo punto. Una paziente depressa, nel corso della psicoterapia, afferma ripetutamente di essere destinata alla solitudine affettiva a causa della propria intrinseca scarsa amabilita`, che attribuisce ad un carattere sgradevole e immutabile. Il terapista sospetta che il discorso della paziente rifletta piuttosto l’esperienza di scarsi contatti affettivi con i genitori, e prova ad indagare su questo punto. La paziente replica di avere avuto dei genitori affettuosi, soprattutto il padre, che amava molto i bambini. (Questa descrizione generalizzata del padre e` un elemento della memoria semantica). Il terapista chiede allora alla paziente di raccontare qualche preciso episodio che dimostri come il padre «amasse molto» lei da bambina. La paziente rievoca il padre intento a raccontarle una favola, una notte, al suo capezzale, per aiutarla a prendere sonno (e questo e` un elemento della memoria episodica). Il terapista chiede alla paziente se ricorda cosa provava, quella notte, mentre il padre narrava la favola. La paziente ricorda di essersi sentita un poco a disagio, perche´ il padre, stanco, era costretto a passare tanto tempo accanto a lei. Anzi, ad un certo punto, finse di essersi addormentata perche´ lui potesse sentirsi libero di interrompere il racconto e di andare a sua volta a dormire. Ora, questa descrizione non prova che il padre amasse davvero stare coi bambini, visto che lei aveva l’impressione di uno sforzo, di una fatica di lui, di una sua voglia di andarsene in fretta dal suo capezzale. A partire da questa discrepanza fra memoria semantica («mio padre amava molto i

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Come si notera`, la teoria clinica della psicoterapia cognitiva e` prevalentemente ambientalista, cioe` attribuisce particolare valore patogeno agli eventi ambientali negativi nella costruzione di strutture cognitive disfunzionali. Cio` non significa che non venga riconosciuta anche la possibilita` che strategie erronee di soluzione di problemi emotivi e interpersonali intervengano nella costruzione di schemi cognitivi predisponenti alle varie sindromi psicopatologiche. Tra le strategie di soluzione di problemi personali che piu` facilmente possono condurre a problemi anche peggiori di quelli di partenza, sono importanti per la psicopatologia quelle che mirano a evitare la sofferenza emotiva. La psicoterapia cognitiva deve dunque occuparsi sia degli effetti dell’evitamento del dolore emotivo che delle principali strategie cognitive e comportamentali attraverso cui tale evitamento si realizza: 1) 2)

ipercontrollo dell’esperienza emotiva e della sua espressione; distrazione selettiva dell’attenzione da pensieri o ricordi penosi;

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3)

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evitamento sistematico, a livello di comportamento motorio, di situazioni ambientali che evochino emozioni o ricordi dolorosi.

3. La prassi della psicoterapia cognitiva L’obiettivo fondamentale della psicoterapia cognitiva consiste nell’identificare e correggere le strutture della conoscenza di se´ e degli altri che guidano, regolano e sostengono le emozioni ed i comportamenti abnormi tipici delle diverse sindromi psicopatologiche. Per raggiungere tale obiettivo, lo psicoterapeuta dispone della relazione terapeutica e di una serie di tecniche.

3.1. La relazione terapeutica Poiche´ lo studio della visione che il paziente ha di se´ e del mondo costituisce l’oggetto privilegiato di interesse della psicoterapia cognitiva, e` di fondamentale importanza che la relazione terapeutica sia definita come paritetica e collaborativa (Liotti, 1994). Se infatti il terapista assumesse una posizione dominante nella relazione per cercare di imporre dall’esterno la propria visione del mondo al paziente, cio` equivarrebbe non solo ad un tentativo di «indottrinamento» eticamente dubbio, ma anche ad una manovra terapeutica controproducente perche´ contraria al principio per cui le nuove strutture cognitive possono svilupparsi solo come evoluzione interna di quelle vecchie (vedi il paragrafo 2.2). Inoltre, un clima relazionale cooperativo, come pure un clima relazionale simile alla ‘‘base sicura’’ dell’attaccamento (Bowlby, 1988), favoriscono lo sviluppo e l’esercizio delle capacita` metacognitive, facilitando cosı` tanto l’insight quanto le capacita` relazionali del paziente. Terapista e paziente dovrebbero, idealmente, somigliare a due epistemologi che collaborino all’esame critico di una teoria. L’unica disparita` fra i due e` rappresentata dal fatto che la «teoria» sotto esame riguarda prevalentemente la conoscenza di se´ del paziente e assai meno la conoscenza di se´ del terapista ma questo non implica che la visione del mondo del terapista sia «piu` vera» o in altro modo supe-

riore a quella del paziente, ne´ che sia possibile o desiderabile che il paziente sostituisca passivamente la propria conoscenza di se´ e del mondo con quella eventualmente proposta da un terapeuta. Il primo passo per definire la relazione terapeutica come paritetica e collaborativa consiste nell’invitare esplicitamente il paziente a definire le mete del trattamento: il terapista si proporra` allora come un collaboratore allo sforzo del paziente di raggiungere un determinato obiettivo personale — purche´ naturalmente tale obiettivo sia compatibile con la competenza e l’etica professionale del terapista. Nel corso della relazione, il terapista evitera` poi di ricorrere ad interpretazioni o ad affermazioni dogmatiche circa il significato e il valore dell’esperienza del paziente. Piuttosto invitera` il paziente, con opportune tecniche, all’ordinata osservazione di se´ e degli altri, e all’esplorazione attenta della propria e dell’altrui esperienza. La direzione di questa auto-osservazione e di questa esplorazione sara` indicata dagli obiettivi che il paziente si e` proposto di raggiun` appena il caso di notare che la ricerca di gere. E una relazione paritetica e collaborativa proibisce l’uso di posizioni (ad esempio, paziente sdraiato sul lettino e terapista seduto alle sue spalle, come nella psicoanalisi classica) che sottolineino la disparita` fra i due membri della relazione terapeutica. Piuttosto, terapista e paziente saranno seduti uno di fronte all’altro, e sara` compito del terapista cercare, nei limiti imposti da una relazione che e` e resta professionale, di concordare col paziente il maggior numero possibile di aspetti riguardanti il loro rapporto (orari delle sedute, frequenza degli appuntamenti, e cosı` via). In questo modo, il terapista potra` tentare di stabilire un rapporto col suo paziente basato sul rispetto e la coerenza, creando cosı` le condizioni per un’esperienza interpersonale diversa dalle relazioni patogene probabilmente sperimentate dal paziente fin dall’inizio della vita. L’esperienza della relazione terapeutica potra` cosı`, sperabilmente, contribuire al cambiamento di quegli aspetti della conoscenza di se´ e degli altri che giustificano le emozioni e gli stili comportamentali abnormi del paziente.

La psicoterapia cognitiva

3.2. Le tecniche terapeutiche Le prime tecniche usate nel corso di una psicoterapia cognitiva mirano di solito ad aiutare il paziente nel compito dell’auto-osservazione. La capacita` di osservare con ordinata attenzione i propri pensieri, sentimenti e azioni nelle varie contingenze del vivere quotidiano e` infatti l’ovvia premessa per sviluppare la conoscenza di se´ e per cercare di cambiare un qualche aspetto della propria esperienza o del proprio comportamento. In genere si consiglia al paziente di registrare fra una seduta e l’altra (le sedute si svolgono di solito una volta alla settimana) gli episodi di vita quotidiana riguardanti il comportamento o le reazioni emotive che e` necessario conoscere meglio per perseguire gli obiettivi della terapia. Tale registrazione dovra` tener conto di quattro aspetti interconnessi ma distinti: 1)

2) 3)

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il contesto ambientale e di significati in cui l’episodio si e` svolto (in casa propria, per la strada, in solitudine, in compagnia, eccetera); le emozioni provate (paura, tristezza, collera, vergogna, gioia, conforto, eccetera); i pensieri che hanno preceduto, accompagnato, commentato quell’esperienza emotiva; le azioni intraprese o progettate.

Gli episodi concreti cosı` osservati diventeranno poi uno dei temi su cui si esercitera` la riflessione congiunta del terapista e del paziente nella seduta successiva. Uno dei compiti di tale riflessione sara` notare i rapporti che intercorrono fra modo di pensare ed esperienza emotiva. La teoria clinica della psicoterapia cognitiva, a questo riguardo, puo` essere riassunta modificando leggermente un famoso aforisma del filosofo Epitteto: non sono tanto gli eventi a determinare la sofferenza emotiva umana, quanto le opinioni che gli uomini si formano intorno agli eventi. Se il paziente si rendera` conto del fatto che le sue reazioni emotive sono dovute non solo agli eventi, ma anche al modo con cui li valuta o interpreta, egli potra` poi accingersi, per perseguire i propri obiettivi di maggiore benessere emotivo, a rivedere e modificare i propri modi di pensare.

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Il compito terapeutico fondamentale — che si affronta a partire sia dai risultati dell’autoosservazione che dalla considerazione attenta del comportamento del paziente all’interno della relazione terapeutica — e` dunque quello di identificare i modelli di pensiero ricorrenti con cui (a) il paziente valuta il contesto della propria esperienza emotiva e l’esperienza stessa, e (b) progetta il suo agire concreto. Tra questi modelli di pensiero, quelli legati ad emozioni o comportamenti abnormi potranno poi divenire l’oggetto di tecniche terapeutiche atte a facilitarne il cambiamento. Le tecniche miranti ad ottenere un cambiamento dei modelli disfunzionali di pensiero possono rivolgersi direttamente alla confutazione della logica e dell’utilita` pragmatica di determinate credenze o convinzioni (tecniche cognitive), oppure possono aggredire indirettamente quelle credenze e convinzioni attraverso la ricerca del cambiamento di uno stile d’azione che vi sia connesso (tecniche comportamentali). Per comprendere l’uso delle tecniche comportamentali (derivate dalla behaviour therapy) in terapia cognitiva, si ricordi che comportamento, pensiero ed emozione sono connessi, all’interno di ciascun sistema comportamentale (vedi paragrafo 2.3), da complesse relazioni reciproche, e non e` quindi possibile mantenere immodificato l’uno in presenza di uno stabile cambiamento dell’altro. Fra le varie tecniche comportamentali usate in terapia cognitiva, ricordiamo qui per la loro importanza le tecniche di esposizione graduale alle situazioni temute (soprattutto la desensibilizzazione sistematica, particolarmente utile nel trattamento delle fobie), il blocco progressivo dei rituali ossessivi (di grande importanza nel trattamento dei disturbi ossessivo-compulsivi), l’addestramento alle abilita` sociali e comunicative (assertive training, social skills training) e le tecniche di terapia del comportamento sessuale (focalizzazione sensoriale, acquisizione della capacita` di controllare l’eiaculazione, addestramento al rilassamento e alla contrazione volontaria della muscolatura vaginale, eccetera). Una descrizione dettagliata di queste tecniche puo` essere cercata nella vasta letteratura sulla terapia del comportamento (Wolpe, 1969). Qui sara` sufficiente ricor-

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dare che esse mirano ad incoraggiare il paziente ad affrontare nella realta` cio` che evita per una abnorme paura o ansia, a guidarlo nei modi e tempi piu` adatti per questo confronto con le situazioni temute, a indicargli alcune semplici strategie comunicative utili per superare sentimenti di isolamento sociale e di inferiorita`, e a suggerirgli come migliorare (se necessario con l’aiuto del prorio partner coniugale o sessuale) quegli aspetti della conoscenza del proprio corpo che appaiono ostacolati da alcuni disturbi del comportamento sessuale (eiaculazione precoce, disfunzione orgasmica femminile, vaginismo, alcuni casi di impo` intuitivamente evidente come tenza maschile). E l’esposizione a queste tecniche comportamentali possa contribuire a modificare la conoscenza di se´ e degli altri connessa al comportamento fobico di evitamento, ai rituali ossessivi, all’ansia sociale e a vari disturbi del comportamento sessuale. Le tecniche cognitive mirano ad un cambiamento piu` diretto delle strutture conoscitive abnormi. Esse possono basarsi sulla critica di alcuni contenuti conoscitivi che ostacolano l’adattamento interpersonale e il benessere emotivo, oppure sulla critica di processi e modi di pensiero che, oltre a non essere razionali, conducano ad una visione negativa e inutilmente dolorosa di se´ e degli altri. Il modo con cui questa critica viene condotta puo` essere diretto, energico (del tipo: «questa sua idea negativa su se stesso e` una evidente assurdita`, ed e` bene che Lei la abbandoni!» — vedi, ad esempio, Ellis, 1962) oppure piu` pacato, argomentativo e indiretto (del tipo: «potrebbe essere utile per la terapia capire su quali prove concrete Lei basa questa idea negativa di se´» — vedi, ad esempio, Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979). Una descrizione breve ma esauriente di altre tecniche di terapia cognitiva — basate sull’uso dell’immaginazione per affrontare eventi dolorosi ma necessari (coping imagery) o su strategie di soluzione dei problemi (problem solving), sull’addestramento dell’attenzione (selfinstructional training) o sul controllo degli impulsi attraverso il dialogo interno e l’immaginazione anticipatoria (stress inoculation training) — e` for` nita da un recente volume di Sacco (1989). E importante sottolineare che, di regola, le tecniche terapeutiche cognitivo-comportamentali non sono

usate soltanto nel corso delle sedute: il paziente e` attivamente invitato a ripeterne l’applicazione quanto piu` spesso possibile nell’intervallo di tempo che intercorre fra una seduta e l’altra. In questo senso, in quanto prevede prescrizioni di comportamento o di specifiche riflessioni da svolgersi al di fuori delle sedute, la psicoterapia cognitiva e` una terapia prescrittiva. In ogni caso, che si rivolgano ai contenuti o ai processi di pensiero, che sollecitino o no l’uso dell’immaginazione e del pensiero strategico volto alla soluzione dei problemi, e che si svolgano in maniera diretta ed energica o indiretta e pacatamente argomentativa, gli argomenti che il terapista puo` opporre ai modelli disfunzionali di pensiero incontrano facilmente delle resistenze da parte del paziente. La teoria clinica della psicoterapia cognitiva porta a riconoscere in tali resistenze l’operare dei processi di assimilazione (vedi paragrafo 2.2) piu` che, come vuole la psicanalisi classica, l’ostacolo posto dai meccanismi di difesa all’emergere dall’inconscio di materiale rimosso (Liotti, 1989). Di conseguenza, lo psicoterapeuta cognitivista usa le resistenze del paziente alle sue tecniche per acquisire una visione ancora piu` chiara e profonda (rispetto a quella premessa dall’auto-osservazione del paziente) dei modelli disfunzionali di pensiero che sostengono la psicopatologia. Sono questi modelli, infatti, che assimilano le informazioni contenute negli argomenti opposti dal terapista (con le sue tecniche cognitive) alle considerazioni negative che il paziente va facendo su se´ e su gli altri. Nel processo di assimilazione a strutture conoscitive pessimistiche, distruttive o altrimenti negative, le novita` rassicuranti o costruttive contenute nei messaggi del terapista vengono annullate, ma i modi di questo annullamento rivelano la natura e il modo di operare delle strutture conoscitive a cui le comunicazioni del terapista vengono «rese simili» (assimilate). Perche´ il processo di assimilazione sia cosı` intenso da annullare la ricerca di una visione migliore di se´ e degli altri che e` obiettivo della persona stessa cercare (si ricordi che in psicoterapia cognitiva e` il paziente a definire l’obiettivo del lavoro congiunto col terapeuta), e` necessario che le strutture cognitive operino all’interno della dimensione di egocentrismo cogni-

La psicoterapia cognitiva

tivo tipica dell’infanzia o della prima adolescenza (Guidano e Liotti, 1983; Liotti, 1989). Di conseguenza, diviene necessario per il terapista mostrare gradualmente al paziente sia come opera il processo di assimilazione, sia come le strutture a cui viene assimilato ogni messaggio correttivo o positivo debbano, visto il tipo di egocentrismo cognitivo che implicano, essersi formate in un qualche periodo lontano della vita, e comunque non appartenere alla modalita` piu` matura del pensiero umano. Da questo modo di affrontare le resistenze riconducendole all’egocentrismo tipico dell’infanzia o prima adolescenza deriva dunque l’interesse dello psicoterapeuta per la ricostruzione delle esperienze infantili da cui il paziente ha preso le mosse per costuire le strutture cognitive ora «resistenti». Riassumendo, dunque, la psicoterapia cognitiva: 1) 2) 3)

e` una terapia strategica (rivolta cioe` ad un obiettivo preciso e definito dal paziente); comporta la continua ricerca di una relazione paritetica e collaborativa; si svolge di solito attraverso le tappe: — —





dell’auto-osservazione; dell’uso di tecniche terapeutiche rivolte esplicitamente alla correzione del pensiero e/o del comportamento; dell’utilizzazione-esplorazione delle resistenze a tali tecniche (viste soprattutto come manifestazioni dell’egocentrismo cognitivo); della ricostruzione della storia personale a partire dall’infanzia (ricostruzione finalizzata al superamento dell’egocentrismo cognitivo).

Tale processo terapeutico si svolge in genere con la frequenza di un incontro alla settimana, e puo`, in media, comportare un numero di sedute intorno alle trenta quando si mira soltanto ad un sollievo sintomatico, mentre deve prevedibilmente occupare l’arco di almeno cento sedute (in genere di piu`!) quando si cerchi un sostanziale superamento dell’egocentrismo cognitivo. Ogni seduta dura circa un’ora. Il paziente e` attivamente impegnato nel lavoro terapeutico, attra-

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verso le tecniche cognitive e comportamentali, nel tempo che intercorre fra una seduta e l’altra.

4. Indicazioni della psicoterapia cognitiva Le tecniche cognitive e comportamentali sono state messe a punto per trattare i disturbi psicopatologici tipici della nevrosi. Di questo tipo di trattamenti ci e` quindi ampia esperienza. Le tecniche cognitivo-comportamentali hanno, finora, dato buona prova soprattutto nel trattamento delle fobie, dei disturbi ossessivo-compulsivi (in particolare quando sono presenti rituali di lavaggio, e meno quando siano dominanti le ruminazioni ideative e i dubbi ossessivi) e delle depressioni nevrotiche. Meno costanti, anche se prevalentemente positivi, sono gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento di alcuni disturbi del comportamento sessuale (eiaculazione precoce, impotenza, disfunzione orgasmica femminile, vaginismo): in questi casi, perche´ l’intervento cognitivo-comportamentale sia efficace, e` necessario di solito che non siano simultaneamente presenti gravi difficolta` comunicative nella relazione col partner coniugale o affettivo, o gravi disturbi di personalita`. Sembra anche prevalentemente positiva l’esperienza della psicoterapia cognitiva nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia nervosa). L’utilita` e la almeno relativa efficacia delle tecniche cognitivo-comportamentali nell’alleviare i disturbi fin qui elencati e` ormai stata empiricamente accertata, con studi controllati e indagini meta-analitiche (Roth e Fonagy, 1997). Promettenti sembrano pero` anche le applicazioni di alcune innovazioni delle terapie cognitivo-comportamentali ad aree di disturbo fin qui considerate poco accessibili a tali metodiche psicoterapeutiche. Nei disturbi ‘‘isterici’’ (tanto di conversione quanto di tipo dissociativo: Liotti, 1993, 1994), nei disturbi bordeline di personalita` (Linehan, 1993), in altri tipi di disturbi di personalita` (Pretzer e Beck, 1997) e nei disturbi dello spettro schizofrenico (Perris, 1993; Fowler, Garety e Kuiper, 1997), attraverso originali sviluppi teorici e attraverso

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

modificazioni del tradizionale setting di terapia individuale tipico delle terapie cognitivo-comportamentali classiche, si sono ottenuti risultati decisamente interessanti. Nel considerare cosa si intenda per ‘‘risultati interessanti’’, il lettore noti pero` che le terapie cognitive e comportamentali hanno ambizioni relativamente modeste: non mirano alla ‘‘guarigione’’ o al cambiamento strutturale della personalita`, ma piuttosto al contenimento dei disturbi, all’alleviamento delle sofferenze emotive, e al miglioramento delle relazioni sociali del paziente. Forse proprio perche´ mirano ad obiettivi relativamente modesti, le terapie cognitive e comportamentali hanno dimostrato di raggiungerli piu` spesso e meglio di quasi tutti gli altri tipi di psicoterapia con cui sono finora state confrontate con studi controllati (Roth e Fonagy, 1997). In generale, si puo` dire che la psicoterapia cognitiva individuale, come e` stata descritta in questo capitolo, e` utile soprattutto quando siano simultaneamente presenti tutte le seguenti condizioni: 1)

2)

3)

4)

5)

il paziente e` in grado di definire un proprio obiettivo terapeutico costruttivo all’inizio del trattamento, ed e` capace di accettare una relazione terapeutica collaborativa e paritetica; il quadro clinico e` dominato da disturbi psicopatologici circoscritti, specie se espressi nel comportamento (evitamento di situazioni fobiche, rituali ossessivi, riduzione di attivita` nel depresso, eccetera) e avvertiti dal paziente come egodistonici; mancano segni di troppo marcata frammentazione della personalita` ovvero scarsa coesione del senso di se´; sono ragionevolmente conservate alcune relazioni interpersonali emotivamente significative; il paziente e` motivato a cercare un intervento «mirato», diretto e ben strutturato, nonche´ relativamente breve, sui propri disturbi, piuttosto che una esplorazione piu` lunga e complessa, meno definita ma a piu` ampio raggio, sulla propria esperienza glo-

bale di vita (quale quella offerta dalle terapie psicodinamiche). L’assenza simultanea di almeno tre di queste condizioni renderebbe la psicoterapia cognitiva, almeno in un setting individuale, una indicazione non ancora dimostrata valida sugli studi contemporanei sugli effetti delle psicoterapie.

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La psicoterapia cognitiva

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59 La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica Paolo Gentili Parole chiave diade; collusione; legame; motivazione; spazio transizionale; riequilibramento; reciprocita`; autoregolazione; stallo

La psicoterapia di coppia nasce come superamento della terapia individuale che, molto utile per una maturazione personale, non potendo tener conto delle dinamiche intrapsichiche dell’altro partner e della complessita` di quelle interpersonali, puo` a volte portare ad un ulteriore aggravamento della tensione all’interno della coppia. Quindi la psicoterapia della coppia, che ha un modello teorico ed operativo peculiare, e` indicata in particolari contingenze come quella di una coppia gia` costituita che, a causa di particolari momenti del ciclo vitale o per eventi traumatici, puo` entrare in una fase di stallo o di aperta conflittualita`. In questi casi, la possibilita` di esaminare contemporaneamente le dinamiche intrapsichiche dei

singoli e interpersonali della coppia permette al terapeuta di comprendere l’origine della difficolta` e soprattutto i motivi dello stallo e della conflittualita` onde modificare al meglio l’assetto e la progettualita` della coppia. Pertanto psicoterapia della coppia non e` sinonimo di riconciliazione forzata, ma tentativo di far raggiungere alla coppia un equilibrio piu` funzionale e piu` maturo. Oppure accelerare un’eventuale separazione, ma facendo sı` che questa avvenga nel modo meno traumatico possibile. Per ulteriori approfondimenti rimando ai capitoli “La coppia: formazione e crisi”, “Le famiglie separate: problematiche ed interventi”. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Introduzione La terapia della coppia che attualmente si puo` definire di tipo o ad orientamento psicoanalitico pone le sue radici in numerosi autori che hanno studiato, secondo un’ottica psicoanalitica, la famiglia. Cosı`, Anna Freud con il riconoscimento della dimensione psicopedagogica del bambino, M. Klein con la descrizioni delle “posizioni” psicotiche, D.W. Winnicott con le osservazioni sulla presimbolizzazione, W. R. Bion con la struttura dei processi di pensiero ed ancora K. Horney, M. Mead, E. Fromm, E. Erikson della corrente psicoanalitica sociale, hanno avuto un ruolo fondamentale per la fondazione di una psicoterapia psicoanalitica della famiglia. Attualmente il contatto diretto e prolungato con altre modellizzazioni della realta` familiare (vedi in particolare con i modelli sistemicorelazionali) ha portato ad un arricchimento delle iniziali affermazioni sul funzionamento della psiche umana secondo i primi concetti fondanti del pensiero analitico (Miermont J. e Segond P., 1987). Questo e` avvenuto attraverso un confronto non solo con approcci epistemologicamente diversi da quello psicoanalitico ma anche con una molteplicita` di espressioni concettuali e pragmatiche che, progressivamente, sono comparse sulla scena delle psicoterapie per la coppia e che si sono definite ugualmente “psicoanalitiche” o meglio “psicodinamiche ad orientamento psicoanalitico”. Questa comparsa e questo affermarsi di molteplici modelli metapsicologici diversi riguardanti la coppia (basti pensare allo sviluppo delle terapie ad orientamento sistemico-relazionale) hanno dapprima messo in crisi le “classiche” modalita` psicodinamiche di approccio alla coppia. Successivamente la ricchezza di contributi polemici ma anche creativi ha infine contribuito ad arricchire di contributi sia teorici che pratici l’iniziale approccio psicoanalitico della coppia (Miermont J. e Segond P., 1987). Cosı`, per meglio comprendere l’attuale ricchezza delle diverse modalita` “psicoanalitiche” di approccio alla terapia di coppia, si sono individuati, all’interno del processo storico accennato, tre diversi momenti di teorizzazioni e di pratica

terapeutica che spesso sono ancora presenti nel variegato mondo della prassi terapeutica.

1.1. La relazione con l’oggetto nel modello strutturale Nel modello freudiano lo sviluppo e` inteso come un processo sequenziale vincolato alle fasi maturative psico-biologiche. Il bambino appare fondamentalmente disinteressato alle qualita` dell’ambiente e principalmente legato alla necessita` di ‘carica pulsionale’, dove l’oggetto e` considerato non tanto nelle sue precipue caratteristiche, quanto «mezzo contingente al soddisfacimento» (Freud, 1915). Il modello sottostante e` ovviamente intrapsichico e l’attenzione e` totalmente posta alla comprensione di cio` che avviene nell’inconscio individuale in relazione alle vicende pulsionali. Cio` non vuol dire che l’oggetto non conservi le proprie caratteristiche individuali, ma che esso e` determinato «dalla storia soprattutto infantile di ciascun individuo» (Laplanche, Pontalis, 1967). I concetti elaborati quindi da Freud sulla relazione vertono intorno ai processi di identificazione, introiezione e proiezione modulati, nell’arco dello sviluppo infantile e puberale, dalle vicissitudini del complesso di Edipo e tracciano il percorso relazionale e al contempo intrapsichico che condizionera`, fra l’altro, la scelta del partner: «L’identificazione e` per la psicoanalisi la prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona» (S. Freud, 1921). In questa ottica e` interessante sottolineare come Freud tratti l’innamoramento come un investimento dell’oggetto per il raggiungimento del soddisfacimento sessuale e come esso sia intriso di fenomeni di idealizzazione, corrispondenti alla proiezione di aspetti dell’Io sull’altro. Secondo Freud l’amore narcisistico si trasformerebbe in amore per l’altro tramite la proiezione dell’ideale dell’Io. Nella maturazione affettiva l’innamoramento si trasforma in un rapporto durevole, non piu` legato esclusivamente alla scarica pulsionale (‘inibizione della meta e sentimenti di tenerezza’), che si realizza quando l’evoluzione libidica giunge alla fase genitale e ne supera l’ambivalenza distruttiva. Pertanto vengono da Freud individuate due modalita`

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

di scelta d’oggetto: l’una di tipo narcisistico, l’altra ‘per appoggio’. La prima si modula sulla base della relazione del soggetto con se stesso, dove non e` colta l’alterita` dell’oggetto, mentre la seconda si modula in base alle primarie modalita` di relazione con le figure genitoriali e in cui le pulsioni sessuali si appoggiano sulle pulsioni di autoconservazione. In questa ottica la scelta del partner puo` avvenire per somiglianza o per contrasto rispetto ai genitori: in cio` giocano un ruolo le vicissitudini elaborative del complesso di Edipo che, in forma positiva o negativa, influenzano la scelta di oggetto come sostituto di una figura parentale, oppure come oggetto difensivo nei confronti di desideri edipici intensi e non risolti.

1.2. Lo spazio di coppia: le relazioni oggettuali e le identificazioni proiettive Un importante contributo ad una diversa analisi delle dinamiche di coppia e` stato offerto successivamente dai modelli basati sulle relazioni oggettuali. L’opera di Dicks (1967), considerato uno dei ‘padri fondatori’ della teoria e tecnica psicoanalitica di coppia, si situa in questo contesto teorico. Comprendere i paradigmi sottostanti, che si fondano sulle elaborazioni della Klein, e successivamente di Winnicott e Bion, e` indispensabile per collocare la dinamica tra intrapsichico e interpersonale come inteso, appunto, da Dicks. A partire dai lavori degli Autori che hanno promosso le diverse teorie delle relazioni oggettuali e` stato significativamente sottolineato il ruolo delle prime relazioni che il bambino sperimenta con le figure significative, nella costruzione del mondo intrapsichico. In questa ottica le pulsioni emergono nel contesto di una relazione significativa, come la diade madre-bambino, e non possono mai essere separate da questa. L’implicazione che ne deriva e` che nel corso dello sviluppo le relazioni interpersonali vengono trasformate in rappresentazioni interiorizzate di relazioni. Gia` con la Klein si era passati dalla posizione freudiana, che vedeva l’uomo isolato in rapporto con le sue rappresentazioni, ad una posizione in cui l’uomo e` in rapporto con il mondo esterno, principalmente attraverso il meccanismo dell’identifi-

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cazione proiettiva, non piu` unicamente considerato nelle sue dimensioni difensive, ma anche nelle sue dimensioni interpersonali evolutive: «un meccanismo di funzionamento relazionale attraverso cui la fantasia interna al soggetto puo` modificare la realta` dell’altro inteso come ricettore» (Nicolo`, 1996). L’impegno della Klein nel dare una spiegazione dei rapporti tra esseri umani puo` essere sintetizzato nel tema del ‘mondo interno’, inteso come un reticolo di relazioni interiorizzate e non semplicemente un precipitato di oggetti. Significativa a tal proposito e` l’introduzione del concetto di ‘oggetto combinato’, come rappresentazione della relazione tra i genitori. Tuttavia la teoria delle relazioni d’oggetto, come si puo` desumere dalla Klein, appare ancora profondamente connessa con la teoria delle pulsioni e rimane per alcuni versi una teoria prevalentemente intrapsichica in cui, come afferma Stern (1992), «l’interpersonale e` il rampollo». La mente del bambino, secondo la Klein, e` popolata sin dalla nascita da fantasie inconsce che costituiscono l’aspetto psichico degli istinti e fondano l’intrapsichico. Attraverso questa attivita` fantasmatica la mente inizia a categorizzare ed interpretare la ‘realta` interattiva’, ma l’interazione rimane sostanzialmente un evento psichico creato dalla fantasia inconscia. Successivamente la scuola britannica ebbe il merito di controbilanciare l’eccessiva enfasi posta dalla Klein sulla fantasia. Con Winnicott (1974) si cominciano a compiere degli sforzi nel tentativo di collegare l’interpersonale con l’intrapsichico, ovvero cio` che avviene tra le persone e cio` che avviene all’interno della mente individuale. L’ambiente diventa parte integrante dello sviluppo dell’individuo, tanto che Winnicott sottolinea l’impossibilita` di descrivere un neonato indipendentemente dalla madre. Il bambino avra` la possibilita` di usare l’oggetto in relazione all’esistenza di un oggetto interno vivo e sufficientemente buono, e cio` dipende a sua volta direttamente dalle qualita` dell’oggetto reale esterno, dalla sua esistenza e dalla sua vitalita` (Winnicott, 1974). Viene introdotta cosi la basilare differenza tra ‘madre oggetto’ — che soddisfa i bisogni pulsionali e fisiologici — e ‘madre ambiente’, che entra in contatto nei momenti di veglia del neonato accogliendo la possibilita` ed il desiderio di incontro

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

con il mondo esterno. A ribadire l’influenza del mondo esterno, Winnicott inserisce la figura del padre nel complesso processo che portera` il bambino dall’esperienza dell’‘illusione’ vissuta nella relazione con la madre alla ‘disillusione’ intesa come conquista dell’accresciuto contatto con la realta`. Se nelle prime fasi della vita il padre ha il ruolo di proteggere l’unione madre-bambino, in seguito diventa l’elemento fondante del processo di separazione che condurra` il bambino verso l’autonomia. Viene in questi termini data rilevanza alla relazione reale interpersonale, in cui la qualita` dell’altro e dell’esperienza affettiva determina la successiva modalita` individuale di usare l’oggetto, e quindi in eta` adulta la modalita` di mantenere legami affettivi, di utilizzare lo spazio della relazione come ‘spazio potenziale’ per l’espressione di parti autentiche e spontanee del Se´. Nello stesso periodo Bion (1962) evidenzia come la mente si strutturi fondamentalmente attraverso la rappresentazione di “legami” in cui e` centrale il meccanismo dell’identificazione proiettiva. Quest’ultima viene considerata in relazione alle modalita` di reazione ad essa: la risposta della madre, la sua capacita` di reˆverie denotano le possibili modalita` in cui si puo` esplicare la relazione contenuto-contenitore. Le successive elaborazioni di Bion descrivono tale rapporto nelle sue possibili forme di tipo simbiotico, parassitario, conviviale: esse possono essere rappresentative della qualita` del legame e della modalita` di adattamento ed evoluzione reciproca tra soggetto e oggetto. La situazione primaria di Bion e l’unione madre-bambino di Winnicott rappresentano dei processi psichici che rimangono nell’individuo in modo permanente e costituiscono il prototipo di ogni situazione adulta. L’elaborazione di Dicks (1967) sulla dinamica di coppia si situa in questo contesto teorico, in cui sono centrali i concetti di identificazione proiettiva e spazio condiviso. Dicks introduce il concetto di membrana diadica: i legami inconsci della coppia creano un’unita` intorno alla quale si delinea una specie di comune confine dell’Io. Tale membrana assume una configurazione stratificata dove lo

strato esterno e` costituito da elementi eticoreligiosi socio-politici, lo strato intermedio da elementi culturali e familiari e lo strato interno, piu` sensibile ed intimo, da aspetti personali, emotivi ed istintuali. La qualita`, la rigidita` o l’elasticita` di tale membrana diadica denotano le caratteristiche evolutive o patologiche della coppia: essa puo` garantire la possibilita` di apertura verso il mondo esterno, senza sentirsi disgregati, oppure puo` portare ad una fusione diadica o ad una follia a due. Il concetto di membrana diadica e` integrato dal concetto di ‘collusione’. Scrive Dicks come si riesca ad intravedere qualcosa dei legami inconsci piu` profondi partendo dal presupposto che essi trasformano tali coppie in una unita` intorno a cui era tracciata una sorta di confine congiunto dell’Io. Questo attribuirsi a vicenda sentimenti condivisi inconsciamente costituisce l’essenza del processo “simbiotico” o “collusivo”. L’autore sottolinea come nelle coppie sia frequentemente elevato il livello di collusione e forte il ‘senso di appartenenza’. Ciascun partner costituisce una parte di una unita` diadica completa. Tale unita` congiunta permette ai singoli di riscoprire alcuni aspetti perduti dei propri rapporti oggettuali primari, che possono essere sperimentati nuovamente attraverso l’identificazione proiettiva. L’altro e` inteso come se fosse una parte di se stessi; se esso corrisponde realisticamente a tale illusione e se la coppia puo` modulare i propri confini potra` costituire elemento di crescita. Se le identificazioni proiettive diventano invece massive e rigide, la coppia va incontro a processi di delusione (e non disillusione) e di rancore reciproco. ` interessante evidenziare come, nel modello E adottato da Dicks, l’interpersonale sia considerato nell’elaborazione dello spazio condiviso, della collusione, della formazione della membrana diadica. Di conseguenza anche nell’ambito clinico le manifestazioni patologiche sono riferite non tanto al singolo individuo, quanto alla relazione stessa. Ciononostante i meccanismi psichici fondanti si riferiscono unicamente a meccanismi di identificazione proiettiva, tipicamente di stampo intrapsichico.

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

1.3. I nuovi orientamenti tra intrapsichico e interpersonale Anche se preso in considerazione solo ultimamente nella sua importanza, un contributo essenziale rispetto alla revisione della teoria motivazionale della pulsione (e di conseguenza alla dinamica tra intrapsichico e interpersonale) e` stato dato da Fairbairn (1952). Secondo questo autore la libido e` primariamente una ricerca dell’oggetto e non un quantum di energia finalizzato alla ricerca della riduzione della tensione. Il primum movens sarebbe quindi il principio di realta` e non piu` il principio di piacere. Anche se non riprese direttamente dalle nuove correnti psicoanalitiche, le teorizzazioni di Fairbairn sono da tenere in considerazione per quanto concerne le motivazioni alla base della formazione della coppia. Altri contributi essenziali provengono dagli studi di nuove patologie (narcisistica e borderline) e soprattutto dall’Infant Research. Relativamente a questo secondo filone sono da sottolineare gli apporti di D. M. Stern (1985) sul ‘‘senso soggettivo del Se´’’ come principio organizzatore dello sviluppo. Lo sviluppo non procede per sequenze ma, una volta che in momenti successivi si siano formati i diversi sensi del Se´ (emergente, nucleare, soggettivo, verbale, narrativo), essi operano simultaneamente e «definiscono i diversi campi di esperienza interpersonale». Viene in questo contesto ad assumere una valenza centrale ed un nuovo significato il ruolo dell’esperienza reale interpersonale, che si discosta dalla visione che poneva centrale il ruolo dei fantasmi interni nello sviluppo delle relazioni oggettuali. In questo ambito si situa il lavoro di G. Klein (1976), secondo il quale la motivazione centrale consiste nel «raggiungimento e nel mantenimento della continuita` e della coesione del Se´». La motivazione origina dalla necessita` di risolvere le incompatibilita` di fini e tendenze in relazione al Se´, e le strutture sono il risultato delle soluzioni di crisi di ` proprio all’interno del capitolo incompatibilita`. E “Il senso di Se´ come fonte e come meta di esperienze di incompatibilita`”, che viene introdotto il concetto del ‘We go’, tradotto in italiano con ‘Il Senso del Noi’. Punto di partenza e` la considerazione che lo

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sviluppo biologico dell’uomo e` descrivibile come la progressiva creazione di una ‘identita` personale’: «la sensibilita` per la propria identita` fa riferimento a due aspetti del Se´. Il Se´ come unita` autonoma, distinta dalle altre, come Se´ di azione e decisione. Il secondo aspetto e` il Se´ costruito come parte necessaria che trascende le proprie azioni autonome. Entrano a far parte del Se´ anche aspetti dell’identita` costruiti in riferimento ad un Noi». G. Klein sottolinea particolarmente questo secondo aspetto della costruzione dell’identita`, che si collega all’‘appartenere a’. Secondo questo Autore, la psicoanalisi e` priva di un concetto che indichi il senso dell’‘andare insieme’. In quest’ottica la contrapposizione soggetto-oggetto viene letta in una luce differente, in cui il sentirsi separato si coniuga con la possibilita` di sentirsi parte di un’entita` piu` complessiva. Essa stessa verra` ridefinita in base alle successive esperienze e alle molteplici rappresentazioni possibili. Questa concettualizzazione si collega alle teorizzazioni sulle motivazioni, in cui viene riconosciuta una “predisposizione alla socializzazione” (Emde R. M., Buchsbaum M. M., 1989), connessa con la reciprocita` nella relazione genitore-infante, secondo cui alla tendenza innata di attaccamento del bambino verso il genitore (Bolwby, 1988), corrisponde la tendenza, altrettanto basilare, del genitore di prendersi cura del bambino. Vengono da Emde considerate quindi come motivazioni primarie sia la “predisposizione alla socializzazione”, sia il “monitoraggio affettivo”. La motivazione di base e` connessa con l’‘attivita`’, a sua volta collegata al bisogno di sperimentare il senso di ‘efficacia’ o di ‘padronanza’. La prevedibilita` che deriva da un’azione sperimentata come efficace e` intrinsecamente legata al gioco delle relazioni ed alla affettivita`. Ulteriore approfondimento ed espansione delle fonti della motivazione e` dato dal contributo di J. Lichtenberg (1989) con la sua teoria della motivazione strutturata, che lo ha portato ad interessarsi alle diverse fonti dei bisogni fondamentali (bisogni motivazionali) ed a superare la stretta ed unica connessione da sempre sancita tra motivazione e pulsione istintuale. Lo sviluppo, per Lichtenberg, e` inteso secondo un modello di sistemi di regolazione — i sistemi motivazionali.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ogni individuo, in base alla propria esperienza, costruisce modelli — le ‘scene modello’ — che sono schemi che organizzano le rappresentazioni delle esperienze vissute. Nelle scene modello trovano espressione le esperienze collegate ai diversi sistemi motivazionali, basati su bisogni specifici ` ed influenzati da fattori innati ed esperienziali. E questo il punto, in questo contesto, che appare di maggiore interesse. Lichtenberg infatti sottolinea come i sistemi motivazionali non solo derivino da caratteristiche individuali innate e pertanto intrapsichiche, ma anche dalla interazione con le figure di accudimento. I sistemi motivazionali descritti da Lichtenberg sono: la necessita` della regolazione psichica delle esigenze fisiologiche, l’attaccamento-affiliazione, l’esplorazione, l’affermazione di se´, il reagire avversivamente tramite l’antagonismo od il ritiro, il piacere sensuale e l’eccitamento sessuale. ` di fondamentale importanza per questo auE tore il rapporto di regolazione dei sistemi motivazionali: ogni sistema infatti acquista una dominanza nei diversi periodi della vita. Le risposte ai differenti bisogni motivazionali sono collegate alla capacita` di coesione del Se´ per cui il passaggio tra un sistema motivazionale ed un altro puo` essere garantito solo dalla presenza del ‘senso di unita`’, dalla protezione rispetto a sentimenti di ‘rottura’. In questo concetto di coesione del Se´ diventa fondamentale la prospettiva intersoggettiva, secondo cui ogni individuo risponde al sistema motivazionale dell’altro, influenzandosi reciprocamente. Con questi costrutti e` stato elaborato un diverso modello di dinamica della coppia e di funzione che essa svolge. Richiamandosi all’importanza della prevedibilita` dell’ambiente ed alla costruzione dei modelli operativi interni si delinea una coppia in cui l’esperienza di monitoraggio affettivo reciproco e di coesione del senso del Noi puo` contribuire a garantire durante l’arco di tutta la vita una costante e duratura evoluzione. In altri termini, le differenti motivazioni evidenziate da Lichtenberg non si esauriscono una volta per tutte durante l’infanzia, ma necessitano, per poter essere soddisfatte, della continuita` dello scambio affettivo e della possibilita` di scambi

interpersonali connessi con l’evoluzione dei diversi sistemi motivazionali. A questo punto Norsa e Zavattini (1998) mettono in rilievo l’aspetto non patologico delle dinamiche, anche se momentaneamente disfunzionali, della coppia quali occasioni di smentita reale di aspettative disadattive. Cio` che in questo contesto viene evidenziato e` il ruolo giocato dalla necessita` di prevedibilita` che comporta la messa in atto di situazioni in cui e` presente l’aspettativa che il partner riproponga risposte conosciute e prevedibili e che, nel caso siano di stampo negativo, evidenziano cio` che e` stato denominato ‘costante relazionale negativa’. Scrivono Norsa e Zavattini che ci si puo` interrogare sulla relazione rispetto alla funzione di una ` importante consideautoregolazione interna. E rare se essa sia nella direzione di una possibilita` di riparazione e disconferma delle proprie aspettative di un modello operativo interno disadattivo, o se essa tenda a riproporre una costante, per quanto dolorosa possa essere, cioe` un prototipo che l’individuo propone cercando di anticipare le attese al fine di assicurasi una prevedibilita` che mantenga una coesione del Se´. Pertanto questi aspetti legati al preponderante bisogno di coesione del Se´ sono interpretabili come corrispettivi del bisogno eccessivo di sicurezza e di conferma, presenti ogni qual volta l’ambiente reale non abbia sufficientemente assicurato la naturale evoluzione e coesione del Se´ (Kernberg, 1995). In questo quadro di riferimento la funzione della coppia viene considerata sotto una diversa luce. Nel modello freudiano — come affermano Norsa e Zavattini — il fenomeno dell’innamoramento non prevede due soggetti insieme, bensı` uno perso nell’altro. Cosı` nel primo modello delle relazioni oggettuali la coppia costituisce uno spazio condiviso, e di esso vengono esaminati soprattutto i meccanismi delle identificazioni proiettive crociate. Nell’attuale modello motivazionale vengono invece considerati gli aspetti adattivi della reciprocita` nella coppia, nella sua funzione di autoregolazione affettiva e di monitoraggio reciproco: in questi termini i due vertici dell’intrapsichico e dell’interpersonale coesistono a pieno titolo.

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

1.4. La psicoanalisi della coppia come teoria gruppale del legame di alleanza Questa ultima concezione si affianca alle precedenti portando in se´ i fecondi contributi psicoanalitici sui gruppi. Secondo questa ottica la relazione di coppia e` considerata come una diade, la quale, a sua volta, e` connessa ad altre diadi familiari, reali o fantasmatiche, di cui la coppia considerata fa parte e di cui esprime necessariamente alcune caratteristiche (Eiguer, 1986). In particolare viene privilegiato il “legame di alleanza” dei due partner che, considerato sotto il profilo dei legami libidici d’oggetto, comporta investimenti libidici oggettuali di un partner nei confronti dell’altro e la loro estrinsecazione in comportamenti, atteggiamenti e fantasie. Il contributo di questa linea di pensiero e` stato quello di sottolineare come il soggetto sia un “essere multiplo e contraddittorio” in quanto ogni ruolo e legame e` il prodotto dei rapporti che il soggetto vive con gli altri suoi ruoli e legami. La nozione di individuo e` relativa allora alla diversita` delle funzioni di ogni partner nel quadro dei suoi legami libidici e il legame di coppia si fonda su una “fantasmatica gruppale (diadica) inconscia condivisa”. In tal modo si e` costruita una tipologia di coppia fondata su tre tipi: la coppia normale, quella anaclitica o depressiva e, infine, quella narcisistica. In particolare: — la coppia normale rappresenta la maggioranza delle coppie umane. Essa vive intensamente i propri legami libidici e solo una piccola minoranza ha dei problemi e chiede una consultazione. I temi fondamentali della richiesta sono le difficolta` sessuali (impotenza, mancanza di orgasmo, eiaculazione precoce, vaginismo, ecc.), conflitti aperti in cui dominano la gelosia, la rivalita` professionale (come espressione della lotta per il potere fallico) e qualche difficolta` nella comunicazione, specie verbale. I partner di questo tipo di coppia presentano anche crisi legate a relazioni extra-coniugali. I problemi vengono posti chiaramente e l’insight vi evolve facilmente; — la coppia anaclitica e` fondata inconsciamente sulla paura della perdita e si struttura per

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superare il sentimento di tristezza, di fallimento, di sofferenza o di infelicita`. La relazione serve allora da appoggio che attenua o frena nell’uno e nell’altro ogni sofferenza. Inoltre permette di centrare le preoccupazioni, la concezione del proprio mondo e dei propri limiti, dandosi come modello di coppia quello “di accompagno” reciproco (a cui fa riscontro il mito: “quando siamo insieme niente ci puo` distruggere”). Tali coppie presentano conflitti che si attivano per la presenza massiccia delle persone che le circondano. A differenza delle coppie nevrotiche, che parlano soprattutto delle proprie difficolta`, nelle coppie anaclitiche sono gli altri ad occupare, ad invadere letteralmente i discorsi tra i due partner. Spesso si tratta di amici, di genitori, di figli che subissano l’uno o l’altro dei partner, divenendo spesso motivo di conflitto. Tali coppie sono molto sensibili ai cambiamenti, cosı` come le coppie narcisistiche, ma a differenza di queste il loro affetto dominante e` la nostalgia, mentre nella coppia narcisistica domina il risentimento; — la coppia narcisista presenta una aspirazione alla fusione totale. In questo tipo di coppia ogni partner cerca nell’altro un soggetto nel quale identificarsi dopo aver proiettato il proprio Se´ ideale. Cosı` nella donna e` presente la mancanza di una immagine positiva del Se´ femminile associata alla tendenza a ‘‘venerare’’ il proprio partner maschile (e viceversa). In questo tipo di coppia i due partner hanno un Se´ debole non ben delimitato e cercano di prendere in prestito dall’altro un Se´ idealizzato diventandone a loro volta prigionieri, per cui non e` possibile il rifiuto. I conflitti si esauriscono nell’impossibilita` di riconoscersi diversi ed autonomi dall’altro, oggetto delle proprie proiezioni, e contemporaneamente esprimono il disagio di un’ambivalenza fatta di desideri di una fusione ideale e di timore che questo avvenga. La relazione in tal modo e` connotata di sentimenti di attrazione verso l’altro e di continua delusione («io ti desiderio ma tu non mi vuoi, anche se io so che in realta` non lo pensi»), nonche´ di manifestazioni di grande attaccamento seguiti da comportamenti aggressivi (vendicativi), agiti e negati.

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2. Coniugalita` e collusione La sintesi delle numerose proposte teoriche sul funzionamento della coppia sono ben espresse attualmente dal concetto di “collusione” che molti autori individuano come il meccanismo di base del funzionamento della stessa. Questo concetto trae le sue radici etimologiche dalle parole latine cum e ludere, ed oltre a “giocare insieme” e` considerato anche nel significato di intesa segreta, inganno. Questo termine, usato per primo da Laing e successivamente da Dicks (1967), si rifa` alla presenza nella coppia di un “inconscio comune” o di un “Se´ comune”. Pincus e Dare (1983) descrivono «un contratto segreto del matrimonio», le cui origini e motivazioni sono per lo piu` inconsce e derivano da relazioni introiettate precedenti, specialmente nel periodo infantile. Secondo Eiguer (1986), nell’organizzazione inconscia di coppia i due partner si scambiano “oggetti inconsci’’ per cui i partner sono legati insieme (Willi, 1996) da “assunti fondamentali comuni”, per lo piu` inconsci. Le rappresentazioni comuni e le fantasie inconsce costituiscono quindi la base emozionale dell’attrazione reciproca e dell’intensita` del legame, ma formano anche la base del conflitto diadico. Questo concetto si collega fortemente al filone delle relazioni oggettuali e in particolare ai concetti della Klein e di Fairban. In particolare Dicks vede alla radice della motivazione nella scelta del partner la riscoperta di aspetti repressi e perduti del Se´. La collusione rappresenta una sorta di connivenza inconscia la cui essenza e` caratterizzata dall’attribuzione vicendevole non solo di sentimenti ma anche di aspettative (i progetti vitali da attuare con e nella relazione coniugale) e di valori (teorici e pragmatici) condivisi a livello consapevole ma ancor piu` a livello inconscio. La collusione e`, in altri termini, un accordo reciproco inconscio che determina un rapporto complementare nel quale ciascuno desidera sviluppare delle parti di se´ in riferimento al modello (in parte introiettato dalle esperienze precedenti di “coniugalita`” ma anche costruito in base ai propri ideali) di “coppia coniugale felice” condivisi consapevolmente con l’altro od a quello in-

consciamente attribuiti nel corso della formazione della coppia coniugale stabile. Il concetto di collusione si puo` definire a tutti gli effetti un concetto relazionale anche nel senso che il comportamento di un individuo nella coppia, pur essendo influenzato dai suoi antecedenti interpersonali introiettati, e` anche sostanzialmente determinato dal comportamento rinforzante o mitigante del partner. La collusione, intesa come gioco tra parti, trova analogie nel concetto di spazio transizionale di Winnicott (1974) in cui lo spazio interno della coppia puo` essere assimilato a tale zona transizionale perche´ nasce nell’incontro tra due mondi, esterni e quelli interni. Il ‘‘gioco’’ inizia fondamentalmente nei rispettivi mondi interni (di desideri, bisogni, aspettative, fantasie, paure e conflitti) e viene costantemente sottoposto alla verifica imposta dalla presenza dell’altro partner. Riferendosi alla genesi della collusione si puo` invocare l’utilizzo di meccanismi inconsci quali l’idealizzazione, la scissione e, in particolare, l’identificazione proiettiva. Quest’ultima puo` determinare uno scambio di sentimenti di emozioni e parti di Se´ di ciascuno dei membri nei confronti dell’altro. Il senso di appartenenza reciproca dei partner risulterebbe dal fatto che l’altro viene percepito a un livello cosı` profondo da essere una parte di se stessi. In quest’unita` di coppia cosı` creata ognuno puo` riscoprire attraverso l’identificazione proiettiva gli aspetti perduti scissi e repressi delle sue relazioni oggettuali primarie. In tal modo il meccanismo di identificazione proiettiva permette di controllare, attribuire all’altro parti rimosse o scisse di Se´ ma anche, per le caratteristiche proprie dell’identificazione proiettiva, la presa di coscienza di tali parti scisse e proiettate. Per quanto, in generale, si assegni al termine collusione una connotazione negativa, un certo grado di collusione opera in qualsiasi relazione intima. Questi meccanismi possono avere una duplice funzione sia progressiva che regressiva. Possono cioe` favorire la differenziazione o la fusione fra i partner. L’altro partner infatti non e` mai un recettore passivo delle proiezioni. La piu` importante caratteristica dell’altro e` la capacita` di elaborare e far crescere le proiezioni che, nel part-

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

ner che le produce, in quanto contenute ed accettate dall’altro, assumono una dimensione meno angosciosa, piu` tollerabile e diventano cosı` potenzialmente evolutive. Secondo Dicks e` possibile che la coppia attivi anche un processo di trasformazione e conoscenza che passi attraverso queste tre possibilita`: la conoscenza dell’altro, la conoscenza di se stesso nell’altro (cioe` delle proprie parti proiettate nell’altro) ed infine la conoscenza di se stessi attraverso l’immagine che l’altro ci rimanda di noi. Questo gioco di reciproche proiezioni permette lo svilupparsi di modalita` regressive e fusionali che nella coppia normale sono transitorie a favore di una successiva differenziazione tra il Se´ e l’altro. Tuttavia e` anche possibile che si realizzi ‘‘un completo inglobamento fusionale’’ che ha come obiettivo quello di evitare la consapevolezza degli aspetti dell’altro non inseriti nel sistema fusionale e di evitarne la comparsa nella storia e nella vita di coppia. Questo tipo di funzionamento crea un contesto relazionale di “armonia sospesa” con un’immobilita` interna che ciascuno dei due partner controlla. Si genera cosı` un’organizzazione con alto grado di prevedibilita` e rigidita` che esclude il mondo esterno. La finalita` di questo isolamento e` quella di evitare il pericolo di entrare in contatto con l’oggetto e quindi la possibilita` di differenziazione. Questo ‘‘sentirsi in comunione senza bisogno di parole’’ diventa l’antitesi della ` questa una condizione conoscenza dell’altro. E paradossale caratterizzata dall’essere tutt’uno senza conoscere l’altro, dove il partner e` immaginato come assolutamente noto nei minimi particolari, ma e` in realta` trattato alla stessa stregua di una parte del Se´ e negato per tutti gli aspetti non previsti dal sistema fusionale. Poiche´ il confine tra il Se´ e l’altro e` mantenuto indistinto, la perdita dell’oggetto viene vissuta come una perdita del Se´, cosı` come la coscienza di aspetti nuovi non previsti nell’altro agisce con effetto disastroso provocando emozioni di delusione e sensazioni di tradimento o espulsione dal rapporto. In queste coppie, ad esempio, le tappe del ciclo vitale o gli eventi situazionali, che portano ad una ridefinizione della relazione, possono scatenare una rottura improvvisa del sistema che innesca spesso un’angoscia catastrofica in uno o in ambedue i partner.

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Un interessante tentativo di creare una classificazione delle collusioni e` stata fatta da Willi. Secondo l’autore, le collusioni che si possono verificare tra i partner sono riconducibili a quattro modelli tipici che rispondono a quattro temi fondamentali: la collusione narcisistica, il cui tema fondamentale e` ‘‘l’amore come fusione’’; la collusione orale, il cui tema fondamentale e` ‘‘l’amore come sollecitudine reciproca totale’’; la collusione sadico-anale, il cui tema fondamentale e ‘‘l’amore come appartenenza totale’’, e la collusione edipico-fallica, in cui il tema fondamentale e` ‘‘l’amore come conferma maschile’’. Secondo l’autore puo` accadere che la coppia “si avviti” su un tema fondamentale per il suo funzionamento tanto da ` possiimpedire un qualsiasi tipo di maturazione. E bile cioe` che in tutti e due i partner emerga allora un disturbo di fondo analogo ed esternato in ruoli diversi. I partner con disturbi analoghi si incoraggiano a vicenda nel comportamento patologico ed attuano un’intesa inconscia. Questo processo avviene gia` nella scelta del partner mentre successive transazioni portano alla costituzione di un ‘‘Se´ comune’’ che deriva dalla modificazione del ‘‘Se´ individuale’’. In tal modo questo si combina con quello dell’altro fino a formare un tutto senza conflitti ma anche senza confronti delle reciproche diversita`. Secondo questo modello, ogni partner puo` fissarsi a seconda del tipo di collusione in una posizione regressiva o progressiva dove l’una e` complementare all’altra. Secondo Willi un criterio essenziale di relazione sana e` invece l’elasticita` con la quale il soggetto, a seconda della situazione di rapporto diadico, assume la posizione progressiva o regressiva. Dall’altra, in termini di psicopatologia della coppia, il criterio fondamentale per stabilire se una relazione presenta disturbi consiste nella rigidita` ed esclusivita` con cui ognuno dei partner si fissa ad una delle forme estreme di progressione o regressione. Questa tipologia di Willi, sicuramente valida per la diagnosi delle relazioni della coppia e per la costruzione di chiari obiettivi terapeutici, si puo` considerare come un ulteriore e valido contributo all’interno del piu` ampio scenario nel quale gia` la collusione era stata riconosciuta come una dinamica fondante la coppia. In tal senso le varie proposte interpretative si arricchi-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

scono reciprocamente mediante interessanti confronti permessi dalla comune attenzione ai processi collusivi. Cosı`, rispetto alla tipologia proposta da Eiguer (1986), secondo cui la collusione tra i due partner e` in riferimento ad un ‘‘fantasmatico gruppale inconscio’’, la coppia edipico-fallica di Willi puo` essere messa a confronto con il tipo normale mentre quella orale puo` corrispondere alla coppia anaclitico-depressiva, e quella narcisistica e sadico-anale con quella narcisistica. Per concludere, e` da notare che intorno al tema della collusione e` possibile costruire una valutazione diagnostica della coppia ed individuare le linee guida per l’intervento psicoterapeutico. Cosı`, tra gli obiettivi della terapia si deve porre quello di ridurre le identificazioni proiettive utilizzate dall’uno e dall’altro, spesso contemporaneamente, e di portare alla presa di coscienza degli organizzatori inconsci della coppia (come la scelta di oggetto, la scoperta degli oggetti fondatori della coppia, l’organizzazione del Se´ o la storia del legame) al fine di giungere alla presenza nella coppia di un equilibrio libero e flessibile.

3. Le tecniche psicoterapeutiche 3.1. Premessa Nella terapia psicoanalitica della coppia, il terapeuta si cimenta, sia sul piano valutativo che della tecnica d’intervento, nel centrare la propria attenzione e il lavoro terapeutico sul legame diadico e sulla relazione coniugale (ma anche con il terapeuta). Questi sono considerati prevalentemente come espressione, verbalizzata ed in genere agita nonche´ condivisa con il terapeuta, delle modalita` con le quali i due partner, all’interno del proprio mondo di desideri e di conflitti, cercano di coniugare i rispettivi mondi interni nel proprio spazio mentale di raffigurazione della coppia (Zavattini G. C., 1988; Gentili P., 1991). Cosı` la terapia e` riconoscimento nel setting relazionale di complesse realta` interiorizzate e poi esternalizzate prima nella storia della coppia e poi anche nel processo terapeutico. Questo e` visibile nella stessa richiesta di inter-

vento che rispecchia quanto accade nella sfera dei vissuti dei due partner. Dal racconto della storia della coppia che chiede un aiuto psicoterapeutico e` possibile evidenziare come il “fantasma coniugale” sia divenuto fonte di una serie di comportamenti di attacco o di fuga dal legame coniugale, al fine di evitare frustrazioni collegate ad una esperienza inizialmente desiderata. La richiesta di psicoterapia, avanzata da un membro o da ambedue i partner, e` giustificata nelle diverse tipologie di coppie da motivi diversi, ma tutti connessi alla sofferenza presente nella vita coniugale, di cui talora un membro e` portatore esplicito con una franca sintomatologia psicopatologica. Talora esiste la confusione nel pensare che un intervento psicoterapeutico sulla coppia consista nel mettere insieme i coniugi e far loro due psicoterapie individuali l’uno in presenza dell’altro oppure porsi come mediatori dei loro conflitti. In realta` il faticoso processo che porta una coppia a richiedere un intervento e` gia` di per se´ occasione di cambiamento anche se puo` accadere che l’aspettativa implicita sia quella che l’analista sia un giudice che dirima il torto o la ragione. Il progetto di una terapia di coppia ha il merito di focalizzare l’attenzione sulla coppia come struttura con un’identita` specifica e di contribuire a creare percio` un confine rispetto alla famiglia d’origine, ai figli. Inoltre la terapia ripropone ai partner il quesito di quali sono le ragioni del matrimonio e del loro stare insieme (Nicolo` Corigliano, 1996) al fine anche di ristrutturare il patto coniugale sulla base dell’esperienza del rapporto e dei desideri a quello collegati. Per attuare questi obiettivi terapeutici la psicoterapia psicoanalitica di coppia si fonda in maniera specifica (oltre cioe` a quanto attinto da altri modelli e tecniche) su due elementi: le interpretazioni e l’analisi dei processi transferali-controtransferali.

3.1.1 L’interpretazione

L’interpretazione, anche nella psicoterapia psicoanalitica di coppia, comporta il rendere conscio qualcosa che prima era inconscio e l’attuazione di un’osservazione esplicativa che colleghi

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

un sentimento, pensiero, comportamento o sintomo al suo significato o origine inconscia. Naturalmente assume caratteristiche specifiche per questo setting e richiede attenzione su alcuni processi che partecipano alla costruzione e allo svolgersi nel tempo del setting terapeutico (Gabbard, 1994). Questi sono: il riequilibramento e l’interpretazione associativa: a) Il riequilibramento Lo stesso setting di coppia e` di per se´ occasione di trasformazione. Infatti la presenza dell’altro e lo stesso contesto, superata la difficolta` di parlare davanti al terzo, configurano il partner come una sorta di coterapeuta. La possibilita` di confrontarsi l’un l’altro con la presenza del terzo e` gia` molto trasformativa, soprattutto se si ha la garanzia della neutralita` dell’analista che mantiene una posizione ugualmente empatica verso ciascuno dei membri. La neutralita`, nella terapia di coppia piu` che nella terapia individuale, richiede molta abilita` e prudenza. Infatti e` necessario che il terapeuta mantenga una posizione di equilibrio tra i coniugi, visto che molto spesso c’e` il desiderio di sedurlo o, al contrario, di dispiacergli. Tale tecnica, chiamata ‘‘riequilibramento’’ (Eiguer, 1996), consiste in un atteggiamento sia ‘‘passivo’’ (non entrare in gioco con uno dei coniugi per non favorire una relazione privilegiata), che ‘‘attivo’’ (sollecitare il membro piu` silenzioso o piu` riservato tra i due). Per lo stesso motivo, l’interpretazione non e` mai rivolta all’individuo, bensı` alla coppia. Se non si puo` fare a meno di prendere in considerazione uno dei coniugi e` importante articolare l’interpretazione con qualche osservazione che riguardi anche l’altro membro subito dopo o al piu` tardi nel corso della seduta, mai troppo dopo. b) L’interpretazione associativa L’interpretazione associativa e` un processo che per analogia o per opposizione collega aspetti, apparentemente senza legami, del discorso di coppia. Tale processo permette di riallacciare proposizioni enunciate alternativamente dall’uno o dall’altro dei partner e che testimoniano il carattere gruppale dei loro fantasmi. Allo stesso

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modo si individuano le relazioni tra gesti (metacomunicazione) e parole (comunicazione), l’eventuale incompatibilita` tra le norme o i miti verbalizzati da una parte e le regole adottate dall’altra, cioe` l’incompatibilita` tra regole e metaregole, tra colui che decide implicitamente l’adozione di una regola e colui che dichiara esplicitamente la sua adozione, tra colui che viene riconosciuto come il forte della coppia e colui che lo e` veramente. Un’altra variante dell’interpretazione associativa e` l’invito dell’analista a cercare idee o emozioni connesse a un argomento in discussione: ‘‘questo a che cosa vi fa pensare?’’, ‘‘che cosa puo` ricordare questo?,’’ ecc. Tali frasi tendono a disinvestire il comportamento riduttivo e impulsivo a vantaggio dello sviluppo del vissuto (A. Ruffiot 1981). Anche la drammatizzazione e` un procedimento che sviluppa il fantasma e il processo di pensiero senza far intervenire la spiegazione. Se desidera facilitare la mobilitazione fantasmatica, il terapeuta puo` introdurre il gioco dei ruoli, a patto di annunciare chiaramente che e` necessario, dopo il gioco, riflettere sul gioco stesso. L’interpretazione associativa si avvicina all’interpretazione della difesa gruppale. Quando si affronta tale difesa si analizzano i concatenamenti che impediscono alla coppia l’accesso al materiale rimosso con la ricerca, spesso difficile per l’intervento massiccio di difese sia individuali che di coppia, di come quanto si attribuisce all’altro appartenga a se stessi ed alle proprie proiezioni. In conclusione, l’interpretazione associativa, con le sue diverse varianti, e` come un’interpretazione delle difese e in tal senso ha come oggetto il materiale inconscio. Ogni interpretazione comporta un oggetto che comprende tutto cio` che appare nella coppia rispetto alla seduta (qual e` la tensione comune che si e` risvegliata in occasione della seduta? Cosa la coppia pensa di evocare, o quale conflitto rischia di far scoppiare oggi? ecc.). L’angoscia o la tensione comune, gli affetti condivisi o meno dai partner sono il motore del contenuto del dialogo che cerca di svelare fantasmi, emozioni, gesti di solito inconsci e, nel complesso, evidenzia i movimenti transferali coniugali in maniera piu` chiara e viva.

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Questo avviene in un setting relazionale a quattro, la coppia di terapeuti e la coppia di pazienti, e cio` crea maggiori complessita` nell’incrocio delle relazioni in seduta e negli scambi fantasmatici intercorrenti. Anzitutto la coppia terapeutica potrebbe essere rappresentata come una coppia parentale fantasmatica e il suo legame funzionare anche come modello identificatorio. Essa puo` tuttavia essere anche vissuta dai due pazienti come una coppia rivale o avere valenze alter-egoiche. Con tali premesse, l’analista potra` tenere conto di differenti possibilita` di intervento che si dispiegano nel setting: 1) 2) 3)

potra` intervenire sulle relazioni di coppia dei pazienti; potra` tener conto dei rapporti tra la coppia dei pazienti e la coppia dei terapeuti; potra` analizzare la relazione che la coppia dei pazienti, o uno di essi, intrattiene con l’altro analista.

L’interpretare puo` essere situato nella psicoterapia di coppia su tre piani: —

orizzontale: e cioe` sulle identificazioni proiettive reciproche e sulle corrispondenti scissioni. A questo livello l’analista tenta anche di individuare e interpretare le configurazioni-modello che caratterizzano la coppia. L’analista cerca di collegare aspetti apparentemente senza legame del discorso di coppia, individua le relazioni tra i gesti (metacomunicazione) e parole (comunicazione) che dal punto di vista logico possono aver assunto una posizione paradossale e insostenibile. Si tratta di verbalizzare alla coppia tali scoperte, facendo appello a una presa di coscienza della comunicazione paradossale, di cui spesso si copre l’identificazione proiettiva. Certo e` necessario che i coniugi non si sentano colpevolizzati o attaccati dal terapeuta. Quando l’interpretazione mette in luce la simultaneita` nell’uso di tali identificazioni proiettive, si attenua molto l’eventuale impressione di autoriferimento di uno dei coniugi, il quale si rende conto che non e` lui il soggetto preso di mira, ma la coppia nel suo funzionamento;





verticale: questo livello tenta di connettere il funzionamento attuale della coppia con i conflitti e le dinamiche di ciascuno, presenti nella propria storia passata e nella famiglia di origine. Questo avviene in particolare rispetto al legame parentale che ciascuno dei partner ha vissuto nella propria famiglia di origine; trasversale: riguarda il come queste relazioni si riattualizzano nell’hic et nunc e cioe` nelle dinamiche transfert-controtransfert. Si parla di interpretazione del transfert da parte del terapeuta perche´ la coppia raramente richiama spontaneamente il transfert e poi perche´ esso e` ‘‘palpabile’’ nell’hic et nunc della seduta. Miti, antiche storie sui personaggi significativi, riattualizzandosi nella relazione col terapeuta, riattivano affetti provati un tempo per questi personaggi. In altre parole, il transfert e` l’aspetto vivente di tali oggetti inconsci, ‘‘in effigie et in absentia’’. Il transfert coniugale ‘‘ritrova l’insieme dei convitati’’ dei conflitti e dei fantasmi di coppia. L’amore, l’odio, la speranza di ascesa sociale, il disgusto, la rassicurazione reciproca, l’orrore, il sostegno, la possessivita`, la rivalita`, l’idealizzazione e tanti altri affetti provati, si ritrovano collegati al terapeuta. In tal modo l’obiettivo e` quello di stimolare o conservare lo scambio a livello fantasmatico, per rendere conscio l’inconscio e per vegliare sulla continuita` del processo. Quindi si fa attenzione all’ascolto dei sogni, miti, leggende, favole, lapsus, motti di spirito ipotizzando sempre che spesso, proprio perche´ esiste un’elaborazione di coppia di quanto detto dal terapeuta, e` possibile constatare che i due partner hanno capito qualcosa di ben diverso da cio` che egli voleva trasmettere loro (anche se questo spesso si rivela ugualmente utile).

3.1.2. Il transfert e il controtransfert

La concezione di transfert ha subı`to numerose variazioni rispetto a quella classica freudiana, che considerava fondamentalmente il tran-

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

sfert come ‘‘resistenza’’ (ovverosia una difesa contro l’analisi) del paziente il quale vivendo emozioni e ricordi del passato sull’analista, agiva, evitando quindi di ricordare e di riconoscere la realta` attuale, l’hic et nunc della situazione analitica. Questa concezione e` strettamente legata all’idea secondo cui la funzione terapeutica dell’analisi e` esclusivamente quella di recuperare i ricordi rimossi che appaiono in un processo, per cui un paziente sposta sul suo analista sentimenti ed idee che derivano da figure precedenti dalla sua vita come se quello fosse un qualche oggetto precedente della sua vita (Gentili, 1994). Questo e` certamente vero, ma parziale, perche´ nel rapporto analitico il paziente riconosce la realta` e vive anche una situazione di presente, oltre che di passato. Il transfert puo` essere quindi definito come la globalita` della relazione che il paziente vive nei confronti del terapeuta. Considerare il transfert come l’insieme dei vissuti del paziente, sapendo che fra questi molti sono legati non alla persona dell’analista ma a figure del passato, permette di avere una visione piu` vera del processo analitico (Lalli, 1991). Cambiando tipo di setting cambiano anche i contesti interattivi entro cui si circoscrivono i fenomeni di transfert. Il classico setting terapeutico duale tende generalmente a creare un contesto interattivo che favorisce un transfert con una forte caratterizzazione di regressione alla dipendenza infantile e alle dinamiche edipiche infantili, mentre un contesto terapeutico con una coppia di terapeuti tendera` piu` spesso, anche se non esclusivamente, ad indurre fenomeni di transfert relativi alle rappresentazioni interne di una coppia di genitori. Piu` precisa e` l’idea di trattamento terapeutico a cui i terapeuti si riferiscono nel loro assetto teorico, maggiore sara` la capacita` di cogliere i fenomeni di transfert nella loro dinamica e decidere di volta in volta l’opportunita` di interpretare e a quale livello. Per esempio, in riferimento al bisogno regressivo di uno dei due coniugi di comprensione e di contenimento delle proprie ansie da parte di una figura materna soccorevole, si puo` considerare la coppia come un’unita` che sviluppi un proprio transfert nei confronti della coppia di analisti come coppia di genitori persecutori

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e super egoici o viceversa amorevoli e modello ideale da seguire. Nel lavoro clinico si puo` infatti osservare come la coppia, in molte circostanze, funziona come ‘‘un organismo vivente’’, con una sua coesione propria, e cio` determina il fatto che si verifichino, oltre al classico transfert duale, anche un transfert triangolare (ad esempio paziente versus coppia di terapeuti o viceversa), oppure transfert fra relazioni (ad esempio la coppia dei pazienti versus la coppia dei terapeuti o anche le due donne versus i due uomini, ecc.). Specie all’inizio del trattamento, bisogna tenere conto del fatto specifico che la coppia si presenta gia` con un suo particolare codice di regole e abitudini comunicative, quasi un proprio setting di coppia e una precisa organizzazione di transfert. In sostanza, dal momento che le relazioni naturali rispondono anche al bisogno di prendersi cura di aspetti di se´, usando la relazione con l’altro come il luogo affettivo per giungere a un maggiore contatto con se stesso, spesso le coppie che ricorrono a un intervento terapeutico hanno evidentemente difficolta` a poter usufruire, attraverso la relazione, di un aumentato benessere individuale derivante dal sentirsi capiti e riconosciuti dopo aver condiviso il sentimento del ‘‘noi’’. Si tratta cioe` di coppie in cui l’organizzazione collusiva ha evidentemente preso il sopravvento sugli aspetti piu` costruttivi, determinando uno stato di malessere e di impotenza a uscirne. Certamente in questi casi gioca un ruolo importante l’alleanza terapeutica, per cui i pazienti cominciano ad avere fiducia nel lavoro terapeutico, e constatano che, se in seduta i terapeuti decodificano la trama delle rappresentazioni di ciascuno e il modo in cui queste non permettono la percezione dell’altro per quello che e`, allora possono sperimentare un maggiore sollievo e una migliore capacita` di comunicare tra loro. Attento particolarmente al legame che intercorre tra i coniugi e alla relazione terapeutica, l’analista dovra` scoprire la bidirezionalita` di questa relazione, la funzione che ciascuno dei membri svolge per l’altro nella coppia, nella famiglia e nel corso di una storia che puo` ripetersi, mettere in luce, quindi, i punti di intersezione o di incontro di queste relazioni.

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Nel complesso panorama che l’analista avra` davanti nel decodificare la seduta esistono, ad esempio, differenti livelli di realta`, sia transferale che interattiva, che si intersecano e si influenzano reciprocamente. Se volessimo schematizzare i livelli di lettura possibili nelle sedute di coppia potremmo dire che, all’interno dell’asse transfert-controtransfert, occorre fare attenzione: a)

b)

c)

d)

al livello interattivo, rappresentato dai comportamenti verbali e non verbali che caratterizzano le interazioni visibili tra i membri della coppia e tra questi e la coppia terapeutica. Questo livello e` importante dato che il non verbale e` una modalita` privilegiata dalla coppia, esprimendosi attraverso il corpo; ai livelli piu` primitivi che tali organizzazioni come la coppia e la famiglia attivano e che sono livelli piu` indifferenziati ove la distinzione soma-psiche, Io-altro a volte si annulla; alle dimensioni individuali che, al di la` di ogni complementarita`, esistono come aspetti indipendenti del funzionamento. Queste sono parti che non entrano nella collusione e che ogni partner sente come aspetti separati o personali, o segreti di ciascuno e sono una garanzia sia della crescita individuale che dello sviluppo della coppia; alla natura della collusione, alle identificazioni proiettive reciproche tra i partner.

Riuscendo a superare la focalizzazione sui contenuti individuali, si riesce ad osservare il dispiegarsi, nel qui e ora, di vere e proprie ‘‘configurazioni modello’’ che caratterizzano il funzionamento della coppia, le quali ci mostrano la qualita` del legame che unisce i partner. Esse sono, in seduta, la raffigurazione di vere e proprie relazioni circolari in movimento. Si potranno cosı` osservare il dispiegarsi di combinazioni dinamiche complesse che all’analista si presenteranno sotto forma di veri e propri scenari in parte consci, in parte inconsci. Tali scenari esprimono il reciproco percepirsi e comportarsi di ciascun membro rispetto all’altro e mostrano, quindi, una parte dell’identita` della coppia. Rappresentano la

sequenza di interazioni circolari, sia reali che fantasmatiche, le quali possono talvolta assumere una connotazione patologica. ` importante che nella diagnosi ed interpretaE zione l’analista focalizzi e mostri le interazioni circolari disfunzionali della coppia; cio` perche´ l’elaborazione e il cambiamento devono operarsi all’interno della coppia e ognuno deve rendersi conto dei meccanismi difensivi che inconsciamente mette in atto rispetto all’altro evitando di punteggiare accusatoriamente i comportamenti dell’altro. Un’interpretazione a questo livello consente anche di osservare ‘‘l’uso dell’altro’’, attuato sia a livello conscio che inconscio. Lo stesso setting di coppia e` di per se´ occasione di trasformazione. Infatti la presenza dell’altro e lo stesso contesto, superata la difficolta` di parlare davanti al terzo (l’analista o la coppia analitica che rappresentano il terzo reale e fantasmatico rispetto a cui rapportarsi: ‘‘l’altro”, il ‘‘non me’’, sia per la coppia come unita` che per ciascuno dei partner), configurano il partner come una sorta di coterapeuta. La possibilita` di confrontarsi l’un l’altro con la presenza del terzo e` gia` molto trasformativa soprattutto se si ha la garanzia della neutralita` dell’analista, che ha una posizione egualmente empatica verso ciascuno dei membri. La neutralita` dell’analista, che nasce dalla sua capacita` di identificarsi in eguale misura con ambedue i partner, e` una garanzia preliminare utile ad evitare precoci interruzioni della terapia. Il setting a quattro (coppia di psicoterapeuti e coppia di pazienti) dovrebbe facilitare questa posizione, anche se esistono sollecitazioni da parte dei pazienti che talora assumono la caratteristica di veri e propri attacchi al legame nella coppia terapeutica. Conflitti non elaborati all’interno della coppia terapeutica causano talvolta una pericolosa perdita della neutralita`. Ancora prima delle interpretazioni, un lavoro di confrontazione tra l’uno e l’altro partner mediato dall’analista potra` essere utile. Cosı` pure gli interventi di chiarificazione reciproca in presenza dell’analista o da questi indotti sono complementi indispensabili per questo lavoro. Lo stesso setting di coppia delimita e ricostruisce potenzialmente lo spazio e la membrana

La psicoterapia di coppia secondo l’ottica analitica

di coppia (il confine tra la coppia e la famiglia di origine, la coppia e i figli, la coppia e il sociale) e dunque puo` rafforzare l’identita` della coppia. In questa prospettiva possono esistere interpretazioni che rafforzano il legame di coppia e aiutano i partner ad individuare le caratteristiche di questo prodotto comune che hanno costruito. A volte i partner chiedono inconsciamente di poter delimitare la coppia e rafforzare il legame garantendo l’unita`, come si puo` osservare specialmente in certe giovani coppie in cui possono essere ancora incerti la delimitazione e il distacco dalle famiglie di origine. Esistono anche interpretazioni ‘‘dividenti’’, ossia interventi che accentuano la differenza tra i coniugi (le loro aspettative consce e inconsce, i loro bisogni reciproci) a scapito, quindi, della dimensione collusiva o degli aspetti integrativi della coppia.

4. Conclusioni Nella psicoterapia di coppia psicoanalitica si assiste alla riattivazione di schemi interiorizzati attraverso relazioni attuali. Cio` non solo ha l’effetto di condizionare la relazione, ma determina anche una maggiore vulnerabilita` ad essere condizionati dall’altro, a volte a livelli molto profondi. In sostanza l’attenzione si sposta in questo modo da una visione monocentrica ad una rappresentazione della relazione di coppia tra due soggetti non neutri, ma condizionati dalle valenze intrapsichiche di ciascuno, in cui, almeno in certi momenti, predomina il fatto che lo stato interno di ciascuno sia regolato tramite il rapporto con l’altro. Durante il processo terapeutico e` possibile individuare e monitorare i processi affettivi attraverso cui la relazione di coppia si costituisce come luogo di intimita` affettiva e quali modalita` relazionali sono state attivate in ciascun partner della coppia per rispondere sia al bisogno di ‘‘appartenenza’’ (in stretta connessione con le esperienze infantili rinnovate nella relazione di coppia) sia il bisogno del “vissuto del noi’’ che rappresenta l’esperienza interiorizzata ‘‘dell’essere insieme con’’ (Stern, 1985).

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La terapia psicoanalitica tiene conto dell’uso che viene fatto della relazione rispetto alla funzione di un’autoregolazione interna, che puo` essere propulsiva e costruttiva per entrambi, oppure funzionare secondo modalita` come l’identificazione proiettiva incrociata che tende a ricreare contesti relazionali altamente prevedibili, e percio` rassicuranti, ripetendo schemi di interazione sulla base di una costanza relazionale (negativa) per cui ciascuno tende a forzare e controllare l’individualita` dell’altro. Inoltre la terapia, come processo maturativo, si fonda sull’assunto come lo sviluppo individuale e collegato ai diversi momenti del ciclo vitale, che non si definisce una volta per tutte con l’acquisizione della maturita` sessuale, ma che continua anche nel ciclo di vita dell’adulto, con precise problematiche inerenti ai compiti evolutivi che di volta in volta si presentano (Erickson, 1968). Le problematiche della maturita` come la procreativita`, la crescita dei figli, l’invecchiamento e la morte dei propri genitori ecc., costituiscono percio` specifici temi con cui la coppia di coniugi si cimenta. Tali aspetti sono un ulteriore parametro in base al quale poter considerare in quale grado la collusione interferisce con la necessita` di cambiamenti e di ‘‘elaborazione del lutto’’ soggettivo del singolo. Infine occorre tener presente che la coppia e` apparentemente il piu` semplice dei sistemi umani osservabili, ma in realta` presenta una profonda complessita` dovuta al fatto che una diade, per considerarsi coppia, a prescindere dal senso e dallo stato giuridico, si fonda sulla condivisione, da parte dei due individui che la compongono, di tre aree di comportamento: sessuale, emotivo e sociale. Questi tre aspetti sono costantemente in un rapporto di causalita` circolare e il buon funzionamento di uno si riflette sugli altri due, cosı` come il cattivo funzionamento di un settore influenza negativamente gli altri due. La poverta`, la disfunzionalita`, e altro ancora, di un sottosistema possono essere compensate momentaneamente dalle altre due dimensioni, ma questa reciproca funzione vicaria che i tre aspetti possono avere e` solo momentanea. Col perdurare di funzioni vicarie e col predominio in modo invasivo di un aspetto a scapito degli altri, si avra` sclerotizzazione e disfunzionalita` della coppia nella sua totalita`.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Nessuna coppia rimane troppo a lungo tale se uno dei tre aspetti e` costantemente assente o carente, salvo a prezzo di una buona dose di ‘‘sintomi’’ o di disagi, che sono anch’essi meccanismi compensatori che insorgono normalmente in un momento di cambiamento e di stress e finiscono per essere omeostatici cronicizzandosi. Le aree della relazione affettiva, sessuale e sociale sono tutte presenti nel contratto esplicito fra gli individui che la compongono e in questa relazione devono convivere i sentimenti, le passioni, i doveri e i desideri di entrambi. Questa convivenza spesso non e` facile ed alcune esigenze dell’uno possono ad un certo momento apparire inconciliabili con quelle dell’altro, tanto da rendere insoddisfacente e stressante la relazione almeno ad uno dei due. I disagi della trasformazione di alcune regole, il mancato superamento di ostacoli che inizialmente erano stati sottovalutati spingono la coppia a cercare soluzioni o comunque nuovi e piu` soddisfacenti equilibri. Da qui la richiesta di confronto e di rielaborazione che la coppia porta nel momento in cui chiede una terapia di coppia. Nel trattamento psicoanalitico l’oggetto d’indagine e` costituito sia dalla dinamica affettiva che caratterizza l’aspetto intersoggettivo delle relazioni umane che dalla struttura psichica del singolo individuo. L’accento posto sull’importanza della funzione rappresentazionale apre maggiori possibilita` di capire la dinamica delle interazioni, nella misura in cui e` possibile cogliere l’influenza reciproca che le rappresentazioni diadiche e triadiche hanno sulla relazione reale dei due interlocutori, e avvicina lo studio della relazione di transfertcontrotransfert, prerogativa della relazione terapeutica, allo studio della coppia coniugale e delle relazioni genitori-bambini. Fra le figure significative che costituiscono il mondo rappresentazionale interno, si annovera anche la coppia genitoriale come insieme. I modelli di identificazione genitoriale rappresentano funzioni investite affettivamente di significati e aspettative, riferibili non solo a relazioni diadiche, ma anche a relazioni triadiche. La costituzione di un contesto di intimita` e di stabilita`, caratteristica della relazione coniugale, favorisce

il monitoraggio affettivo reciproco, cioe` un livello di comunicazione inconscia, inducendo fenomeni di transfert, cio` che determina anche un possibile uso della relazione in senso autocurante.

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60 La “malpractice” in psicoterapia Nicola Lalli - Nicoletta Giacchetti Parole chiave psicoterapia, malpractice, responsabilita` professionale, consenso informato

Dopo aver esaminato i vari problemi etici e deontologici (vedi Cap. 5) attinenti alla psichiatria e alla psicoterapia, mi sembra utile ritornare a descrivere altri possibili rischi connessi con questa complessa e delicata attivita` terapeutica, riferendomi ad alcune situazioni che costituiscono una vera e propria “malpractice”, termine che letteralmente significa “cattiva pratica”. Nel riportare alcuni casi ove la giurisdizione soprattutto americana si e` espressa in maniera non equivoca, ritengo utile proporre al lettore italiano

alcune situazioni limite che potrebbero presentarsi nell’ambito dell’esercizio di questa professione. Sono fermamente convinto che quanto prescritto dal Codice Civile e Penale e soprattutto dal Codice Deontologico non sempre copre l’intero arco delle possibili infrazioni e che pertanto dovrebbe essere compito degli Ordini Professionali proporre un codice deontologico ancora piu` specifico per questa specifica attivita`. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Un caso esemplare Riteniamo utile presentare il caso seguente e le polemiche suscitate, al fine di proporre alcune considerazioni sulla “malpractice” in psicoterapia. Specialmente in un momento che vede sia un’aspra polemica da parte dei sostenitori di una psichiatria ad indirizzo biologico contro la psicoterapia, sia una crescente tendenza a ricorrere in tribunale da parte di pazienti che si ritengono lesi da uno scorretto comportamento del terapeuta, sia una deviazione della psicoterapia che da strumento trasformativo rischia sempre piu` di diventare strumento di controllo sociale. Nel gennaio del 1979 il dr. Osheroff venne ricoverato a Chestnut Lodge con la diagnosi di “disturbo narcisistico di personalita`”. Trattato per circa sette mesi con una psicoterapia analitica individuale, il paziente mostro` un progressivo peggioramento dello stato psico-fisico. Nonostante cio` si proseguı` con questo tipo di terapia, fin quando la famiglia decise di trasferire il dr. Osheroff presso la Silver Hill Foundation, dove fu ammesso con la diagnosi di “psicosi a carattere depressivo”. Trattato con fenotiazine ed antidepressivi triciclici il paziente mostro` un “drammatico” miglioramento, tanto da essere dimesso dopo circa tre mesi con la diagnosi di “psicosi maniaco-depressiva tipo depresso”. Appena dimesso, il dr. Osheroff intraprese una causa contro Chestnut Lodge. Ci fu un arbitrato che, dopo una lunga lotta tra i periti, si risolse a favore del dr. Osheroff. Le due parti in causa rifiutarono tuttavia la decisione dell’arbitrato (la parte lesa non era d’accordo circa l’entita` dei risarcimento) e si appellarono. Il processo si sarebbe dovuto tenere nell’ottobre del 1987, ma le due parti raggiunsero un accordo prima di quella data e non fu mai formulata alcuna sentenza definitiva. Nonostante questo caso non costituisca quindi un precedente, esso solleva comunque una serie di interrogativi circa i problemi che nascono quando un paziente ricorre in tribunale per dirimere questioni relative ad una presunta “malpractice” in psicoterapia. G.L. Klerman e A.A. Stone sono due psichiatri che si sono confrontati su questo caso con posizioni diverse e che offrono pertanto degli

spunti di riflessione estremamente attuali riguardo alla psicoterapia.

1.1. La posizione di G.L. Klerman Nel suo articolo dal titolo molto seduttivo «Il diritto del paziente psichiatrico ad un trattamento efficace», Klerman a proposito del caso Osheroff sostiene due accuse: che vi fu negligenza da parte di Chestnut Lodge a proseguire nel trattamento esclusivamente psicoterapeutico, nonostante l’evidente peggioramento delle condizioni del paziente, e che vi fu errore circa il tipo di diagnosi. Secondo Klerman la diagnosi di disturbo narcisistico di personalita`, formulata al dr. Osheroff, non rientrava tra quelle presenti nel DSM-II allora in vigore, mentre egli concorda con la diagnosi formulata alla Silver Hill Foundation di depressione maggiore con tratti psicotici. Il diverso tipo di diagnosi formulata rispecchia, secondo l’autore, gli indirizzi teorici degli istituti a cui il paziente si rivolse: Chestnut Lodge, con una impostazione prevalentemente psicodinamica, dava maggiore attenzione all’asse II del DSM-II, mentre la Silver Hill Foundation, ad indirizzo prevalentemente biologico, dava maggiore attenzione all’asse I dei DSM-II. Klerman sostiene che la psichiatria e` la branca della medicina dove esiste il minore accordo riguardo agli standard di cura e che tale confusione determina il ricorso di pazienti al tribunale al fine di ottenere risarcimenti per eventuali danni subiti. Una tale situazione e` molto pericolosa; pertanto egli auspica un accordo tra professionisti circa l’adozione di standard di diagnosi e di cura che siano derivati dalle conoscenze scientifiche dei momento. Per quanto riguarda la diagnosi, secondo l’autore, il DSM-III-R dovrebbe costituire il modello di riferimento, e qualora ci si allontani da esso bisognerebbe spiegarne il motivo ed esplicitare il modello diagnostico a cui si fa riferimento. I trattamenti utilizzati dovrebbero essere solo quelli per i quali esistono prove di efficacia concrete. Tali prove, sempre secondo Klerman, sono fornite principalmente dai trial clinici scientificamente controllati, come avviene ad esempio per gli psicofarmaci per i quali esiste negli Stati Uniti uno

La “malpractice” in psicoterapia

specifico organismo, la Food and Drug Administration, che ha lo scopo di valutare la validita` di tali prove, prima di immettere un nuovo prodotto sul mercato. L’autore lamenta la mancanza di tutto cio` nell’utilizzazione di trattamenti psicoterapeutici e psicanalitici... «Ognuno puo` fare affermazioni riguardanti il valore di una psicoterapia senza alcuna prova della sua efficacia». Egli mette anche in dubbio il principio della «minoranza degna di rispetto». Afferma Klerman: «Fino a poco tempo fa questa dottrina sosteneva che se una minoranza degna di rispetto di professionisti qualificati mantenevano uno standard di cura, questa era una difesa adeguata contro una malpractice. Io propongo che questa posizione non sia piu` valida, se esistono prove che sostengono l’efficacia di un particolare trattamento e se vi e` un accordo tra i professionisti che questo e` il trattamento piu` adeguato in una data condizione. Inoltre tale minoranza degna di rispetto ha il dovere di informare il paziente dei trattamenti alternativi». Klerman sostiene infatti che deve essere comunicata la diagnosi al paziente nel modo piu` completo e possibilmente secondo i canoni dei DSM-III-R. Il paziente deve anche essere informato dell’eventuale esistenza di trattamenti diversi da quello proposto, e nel caso in cui questo rientrasse tra quelli della minoranza degna di rispetto cio` dovrebbe essere esplicitamente comunicato. Chiaramente il medico deve evitare qualsiasi tipo di affermazione che potrebbe influenzare la decisione del soggetto, inoltre deve essere pronto a cambiare terapia e a chiedere la consulenza di un altro collega qualora il paziente non mostri in tempi ragionevoli un miglioramento. Fin qui Klerman.

1.2. La posizione di A.A. Stone Rispondendo all’articolo di G.L. Klerman, A.A. Stone, dichiara di condividere in linea di massima la necessita` di rivedere la terapia prescritta ed eventualmente di chiedere una consulenza, nel caso di un peggioramento del paziente, ma ridescrivendo il caso Osheroff e portando ulteriori elementi biografici del paziente entra in polemica con alcune delle posizioni espresse da

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Klerman. Nel descrivere la vita di Osheroff1, l’autore sottolinea come il paziente, sposato — all’epoca del ricovero — per la terza volta, con tre figli di cui due dalla seconda moglie ed uno dalla terza, avesse dimostrato una certa instabilita` nelle sue relazioni interpersonali e come gia` precedentemente al ricovero si fosse diverse volte rivolto a uno psichiatra e avesse fatto ricorso ad un trattamento farmacologico e psicoterapico senza pero` trarne giovamento. Sulla base di una revisione dettagliata della biografia del paziente l’autore ritiene che la diagnosi di disturbo narcisistico di personalita` era corretta e che il paziente in realta` sviluppo` un transfert negativo nei confronti del terapeuta e dell’istituzione. Pertanto il trasferimento a Silver Hill ed il susseguente trattamento farmacologico avevano costituito una vittoria del paziente: «...egli era fuggito, narcisi- sticamente trionfando, da Chestnut Lodge e dal suo terapeuta. Il suo transfert negativo era stato vendicato». Inoltre Stone sottolinea che, all’epoca del ricovero, non era considerato cosı` importante uniformarsi agli standard diagnostici proposti dal DSM-II, come e` poi avvenuto con il DSM-III, e come Klerman si auspica che avvenga in misura sempre maggiore per il futuro. L’autore sostiene che le raccomandazioni formulate da Klerman nel suo articolo, nonostante vengano espresse come consigli per coloro che operano nell’ambito della salute mentale, sono estremamente pericolose perche´ potrebbero essere sfruttate in tribunale contro coloro che utilizzano dei trattamenti come quello psicoterapeutico, che mancano di prove concrete di efficacia simili ai trial farmacologici che, secondo l’autore, dovrebbero costituire il modello metodologico di confronto. Inoltre Stone ritiene che «il lettore potrebbe pensare che non e` negligente l’uso esclusivo di tali trattamenti secondo il punto di vista di Kler-

1

Ancora una volta si evidenzia come l’omissione dei dati biografici del paziente e` finalizzata a dimostrare la propria tesi. Correttamente Stone, invece, riporta i dati significativi della vita del paziente, con particolari che gettano una luce nuova sul caso.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

man se i pazienti sono stati adeguatamente informati circa i trattamenti alternativi piu` efficaci e sia stato detto loro che il trattamento proposto non ha una efficacia scientificamente provata». Infatti in questo modo il consenso informato, anziche´ divenire una strumento per rafforzare l’alleanza terapeutica e rendere consapevole il paziente del tipo di terapia che e` stata proposta, diventa uno strumento per sollevare il medico da eventuali responsabilita`. Inoltre «...il consenso informato e` un procedimento, non una recitazione in un unico tempo di una formula senza alcuna connessione con la situazione attuale. Il DSMIII-R puo` o non puo` essere utile in questa impresa ed inoltre non deve essere imposto a tutti i pazienti come una regola che pone il medico in uno stretto ruolo ideologico pseudoscientifico». Stone prosegue sostenendo che il DSM-III-R puo` essere uno strumento per una maggiore facilita` di comunicazione tra gli psichiatri e che «i criteri proposti da Klerman suggeriscono un’enfasi sul controllo dei suoi colleghi piuttosto che promuovere una relazione terapeutica». Se fosse accettato come valido il principio per cui un trattamento puo` essere ritenuto efficace solo se esistono prove concrete, e` chiaro che la posizione della minoranza degna di rispetto non e` ulteriormente sostenibile e l’approccio psicofarmacologico rimane l’unico proponibile. Stone sottolinea che in realta` anche la terapia farmacologica subisce costantemente delle modificazioni derivanti dalla ricerca e dall’esperienza. Egli sottolinea che, ad esempio, l’uso massivo di neurolettici (neurolettizzazione) in uso nei tempi precedenti oggi sarebbe sicuramente ritenuto antiterapeutico e dannoso. Stabilire quindi dei rigidi standard di terapia anche in questo campo potrebbe essere estremamente pericoloso. «Klerman ha scelto di attaccare la psichiatria tradizionale nel contesto di una disputa legale ed in un modo che puo` avere delle conseguenze che egli non capisce. La legge e` uno strumento brusco; puo` essere usata per abbattere l’opposizione, ma non si puo` pensare che la legge tracci il sentiero del progresso scientifico nella psichiatria clinica». Sottolineiamo questa posizione di Stone perche´ molto sinteticamente evidenzia uno dei peri-

coli maggiori: se gli ordini professionali dei medici e degli psicologi non proporranno un codice di comportamento valido per tutti, questo sara` stabilito nelle aule dei tribunali con grave danno sia per i pazienti, che in tali sedi potranno agire il loro transfert negativo, sia per i terapeuti che per timore di possibili azioni legali cercheranno di attenersi al minimo indispensabile, con grave danno per la ricerca. 1.3. Alcune considerazioni Il caso riportato e le polemiche suscitate impongono delle riflessioni circa la necessita` di delineare in maniera corretta gli standard medi di cura, che cos’e` il consenso informato e quali sono i criteri per valutare l’efficacia di una psicoterapia. La mancanza di una chiara definizione puo` favorire, infatti, il ricorso ai tribunali. Ma in tali sedi si confrontano posizioni di scuole psichiatriche diverse che, per il luogo stesso dello scontro, rischiano delle radicalizzazioni, mentre eventuali transfert negativi possono essere ampiamente gestiti dal paziente. Ritornando al caso citato, crediamo utile porre alcune domande e cercare di dare una risposta: 1)

2)

la diagnosi di Chestnut Lodge, cosı` come emerge dai dati raccolti dal dr. Stone, e` esatta? La prassi e` stata corretta?

Per dare una risposta esauriente non ci si puo` riferire solo alla diagnosi iniziale, ma bisogna tener conto della complessiva evoluzione clinica. Nonostante l’evoluzione del caso, la diagnosi posta dai clinici di Chestnut Lodge sembra essere molto piu` vicina alla realta` psicodinamica del paziente che non la semplice diagnosi di depressione maggiore. Per quanto riguarda la prassi, secondo noi l’errore dei clinici di Chestnut Lodge e` di non aver tenuto conto dell’evoluzione della malattia: e` infatti in base ad essa che la terapia deve essere modificata. In questo caso il peggioramento delle condizioni cliniche e` stato notevole, e nonostante questo nulla si e` fatto per correggere questa situazione. Si potrebbe obiettare che in una terapia

La “malpractice” in psicoterapia

analitica e` prevista l’emergenza di una reazione terapeutica negativa e che questa deve essere elaborata nel contesto terapeutico. Ma anche accettando questa considerazione, riteniamo che l’errore dei terapeuti di Chestnut Lodge sia consistito nel non valutare correttamente l’entita` del peggioramento e le valenze negative del paziente, ma anche di non aver valutato la continua richiesta dei familiari che chiedevano un cambio di terapia, e che doveva essere letto come preludio ad una eventuale azione legale di risarcimento. Comunque, da un punto di vista strettamente psicodinamico riteniamo che non e` stato valutato ` ipotizzaadeguatamente il transfert negativo. E bile che l’evoluzione finale del caso era quella desiderata dal paziente: vi e` stato infatti un trionfo del transfert negativo. Il “drammatico” miglioramento solleva infatti molte perplessita` soprattutto per la rapidita` che indica che il paziente e` apparentemente guarito solo perche´ ha raggiunto ` chiaro inoltre che nel momento in il suo scopo. E cui il transfert negativo viene portato in tribunale si puo` solo gestire, ma non interpretare ne´ risolvere.

2. “Malpractice” in psicoterapia In linea di massima si puo` essere d’accordo con Klerman sul fatto che un trattamento psicoterapeutico debba basarsi su: sicurezza, efficacia, appropriatezza. Escludendo i casi che rientrano in una condizione di truffa o dolo, che non possono essere considerati come l’espressione di minoranze degne di rispetto e per i quali il ricorso ai tribunali e` legittimo, ci soffermeremo su quei casi ove puo` sorgere il problema di una “malpractice”. Ma come e` possibile stabilire se vi e` stata veramente una cattiva condotta in psicoterapia? T. B. Karasu sostiene che le responsabilita` specifiche che in una relazione psicoterapeutica possono configurare una situazione di malpractice sono: 1) 2)

scorretta gestione del transfert; violazione del segreto professionale;

3) 4)

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non prevenzione di atti auto e/o eterolesivi; prassi inadeguata o scorretta.

Prendiamo rapidamente in esame questi punti.

2.1. Gestione del transfert Uno dei principali motivi di chiamata in causa dello psicoterapeuta e` la eventualita` di rapporti sessuali con il paziente. Questa negli USA (negli anni 1976-1986) e` risultata la prima causa di azione legale nei confronti di psicologi e psicoterapeuti (H.R. Conte, T.B. Karasu). Da statistiche, comunque relativamente attendibili data la delicatezza della situazione, risulterebbe che la media di rapporti sessuali all’interno di una relazione psicoterapeutica e` di circa il 6,5%. Media che e` sovrapponibile a quella di relazioni sessuali medico-paziente che avvengono nell’ambito di tutte le varie modalita` di terapia medica. Questo dato sembra sfatare la credenza che i rapporti sessuali siano molto piu` frequenti in ambito psicoterapeutico. Piuttosto e` da ritenere che la dinamica della relazione terapeutica (fiducia, potere del medico, passivita` del paziente, ecc.) possono favorire questa situazione. Comunque Karasu sostiene che, «a causa della posizione coercitiva del terapeuta nei confronti dei paziente, tutti i casi in cui e` stato dimostrato che il terapeuta ha avuto dei rapporti sessuali con il paziente si sono risolti in un verdetto contro il terapeuta e le giurie tendono a dichiarare prima facie o prova presunta di negligenza generale non solo un rapporto sessuale terapeuta-paziente, ma anche lo sfruttamento transferenziale in genere». ` indicativa a tale proposito la sentenza formulata E nel 1968 a proposito del caso della Sig.ra. Zipkin contro il dr. Freeman. «In questo caso uno psichiatra fu citato in giudizio da una paziente perche´ egli aveva mal gestito il transfert della paziente. Questa era originariamente entrata in trattamento con il dr. Freeman per dei sintomi psicosomatici, che erano scomparsi. Successivamente lei fu d’accordo a proseguire un piano di trattamento piuttosto bizzarro. Il trattamento includeva incontri con il dr. Freeman in riunioni sociali, gare di pattinaggio,

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viaggiare con lui all’estero e nel fare degli investimenti nei suoi affari avventati. Questa donna frequento` anche una “terapia di gruppo”: feste in piscina nei quali alcuni partecipanti, compreso il dr. Freeman, erano nudi. Come risultato di questo “trattamento”, lei chiese il divorzio dal marito, abbandono` i suoi amici e gli incarichi nella societa`, e se ne ando` con il dr. Freeman. Alla fine gli fece causa. Nonostante il dr. Freeman affermasse il contrario, il giudice che scrisse l’opinione della maggioranza della Missouri Supreme Court affermo`: «Una volta che il dr. Freeman inizio` a maltrattare il fenomeno del transfert ... fu inevitabile che il problema andasse avanti ... il danno sarebbe stato fatto a Mrs. Zipkin anche se il viaggio all’estero fosse stato svolto con cura, la nuotata fatta con i vestiti indossati e se ci fosse stato un bacio anziche´ un rapporto sessuale». Cio` che e` importante di questa decisione e` che la corte riconobbe ed affermo` il dovere da parte del terapeuta di gestire correttamente e professionalmente il transfert, e che l’eventuale rapporto erotico e` solo una delle manifestazioni di “malpractice”. Quindi la condanna e` collegata alla mancata correttezza professionale e non tanto allo specifico dei rapporti sessuali avvenuti. Il caso di Roy contro Hartogs e` un altro caso significativo di cattiva condotta per avvenuti rap` porti sessuali tra il terapeuta ed il paziente. E importante notare che la corte di giustizia in questo caso paragono` la relazione tra paziente e terapeuta a quella tra tutore e minore, e che pertanto non e` sufficiente il consenso del paziente, perche´ un minore non e` in grado di essere consenziente. La difesa basata sul fatto che vi era stato il consenso del paziente fu in tal modo respinta perche´ il transfert del paziente ed il generale coinvolgimento nel corso della terapia precludono un consenso volontario. In breve: «Un paziente non puo` acconsentire ad una forma di trattamento inaccettabile professionalmente». Ci sono comunque alcune considerazioni circa l’eticita` o meno di una relazione sessuale con il paziente che vanno esaminate. La prima, che probabilmente risulta dall’ambigua dizione che e` proibito avere rapporti “durante la terapia”, fa sı` che tale condotta venga

ritenuta accettabile se si verifica al di fuori di una seduta terapeutica. La seconda e` se il coinvolgimento sessuale al termine della terapia sia da considerarsi illegale. Nessuno stato americano ha un regolamento che specifichi un limite di tempo in cui, terminata la terapia, la relazione sociale/sessuale puo` iniziare. La California ha recentemente emanato una legge (SB 1406) che dice, in sostanza, che vi e` motivo di processo contro uno psicoterapeuta se questi intrattiene rapporti sessuali entro due anni dal termine della terapia. Questa legge ha il merito di definire chiaramente un termine, ma nella sua precisione sottovaluta alcuni fattori. A due anni dal termine della terapia, una relazione sessuale tra un ex paziente e uno psicoterapeuta non puo` considerarsi sempre e necessariamente legale. Invece la questione da sottolineare, nel determinare se si e` verificata cattiva condotta, non e` se le azioni hanno avuto luogo “durante” o “al di fuori” delle sedute terapeutiche o del tempo intercorso tra fine del trattamento e relazione sessuale, ma piuttosto la misura in cui tali relazioni sono uno sfuttamento della relazione terapeutica. «In ogni caso la maggior parte degli esperti sostengono che il medico sara` su un piano piu` sicuro dal punto di vista etico e legale se egli aderira` al motto una volta paziente, per sempre paziente» (Conte H.R., Karasu T.B.). Questa posizione e` largamente condivisa da quasi tutti gli autori che si sono occupati dell’argomento. Da parte nostra, mentre concordiamo pienamente con la posizione degli autori circa la non liceita` di rapporti sessuali durante il processo terapeutico, perche´ inevitabilmente si sfutterebbe (consenso o no del paziente) il transfert, dissentiamo nettamente pero` con la posizione riguardante l’eventualita` di un rapporto tra paziente e analista (sarebbe meglio dire ex paziente e ex analista) una volta terminata la terapia. Perche´ i casi sono due: o esiste ancora una situazione di transfert ed allora il vero problema e` che il trattamento non e` mai stato portato a termine; oppure bisogna teorizzare che il paziente non guarisce mai. Ma se un paziente rimane sempre paziente non si comprende quale sia l’utilita` di una psicoterapia.

La “malpractice” in psicoterapia

2.2. Violazione di segreto professionale e prevenzione di atti auto e/o eterolesivi Il segreto professionale e` uno degli obblighi fondamentali del medico e dello psicoterapeuta in particolare. Questi, per le peculiari modalita` che contraddistinguono la sua relazione con il paziente, viene a conoscenza di una enorme quantita` di notizie molto intime che ha il dovere di non rendere note. Costituisce infatti esempio evidente di «malpractice», con conseguenze anche penali, il 2 divulgare senza «giusta causa» tali informazioni. Infatti bisogna tener presente che eventuali notizie carpite, piu` o meno in buona fede, allo psicoterapeuta possono essere utilizzate contro il paziente in cause di divorzio o di separazione. Un problema particolare si pone quando un paziente rivela al terapeuta nel corso del trattamento delle intenzioni dichiaratamente ostili contro terze persone. Tali intenzioni, infatti, potrebbero trasformarsi in comportamenti eterolesivi e il terapeuta potrebbe essere citato in giudizio per non aver preso le misure idonee a impedire l’atto. Allo stesso modo, i familiari di un paziente che commetta o tenti un suicidio possono citare in giudizio lo psichiatra, in quanto, se fossero stati al corrente del potenziale rischio del paziente, avrebbero potuto cercare di ostacolarne l’operato. Questo e` ancora piu` valido nel caso che lo psichiatra si renda conto che il paziente in terapia ha serie intenzioni di compiere azioni contro la vita di terzi. Esemplificativa e` la sentenza formulata nel 1974 dalla Corte Suprema della California che, a proposito del caso Tarasoff3, stabilı` il

2

Art. 662 c. p. (Rivelazione di segreto professionale). «Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o della propria arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, e` punito, se dal fatto puo` derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire seicentomila a un milione. Il delitto e` punibile a querela della persona offesa». 3 Tatiana Tarasoff fu uccisa da uno studente indiano, Prosenjit Poddar, gia` in terapia farmacologica e psicoterapica presso la clinica psichiatrica dell’Universita` di Berkley, perche´ aveva ripetutamente rifiutato le profferte amorose di costui.

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«duty to warn», cioe` il dovere da parte del terapeuta di avvertire la vittima potenziale o la polizia delle minacce espresse da un paziente in terapia. Questa sentenza sollevo` un grande clamore, anche perche´ gli psichiatri che avevano in cura lo studente resosi poi responsabile dell’omicidio avevano cercato di verificare le reali intenzioni del paziente rivolgendosi per una ulteriore valutazione anche alla campus police, che dopo aver interrogato il ragazzo escluse un serio pericolo. La Suprema Corte della California riesamino` comunque il caso e la seconda sentenza stabilı` piu` genericamente il «dovere di proteggere, piuttosto che di avvertire, la vittima predestinata». Nel 1985, infine, fu emanata la prima legge di stato in California che riguardava specificamente il dovere del terapeuta «to warn and protect third parties»: secondo questa legge lo psicoterapeuta e` responsabile solo se il suo paziente esprime delle minacce serie di violenza fisica contro una vittima chiaramente identificabile. Questa legge prevede inoltre che il dovere di avvertire e proteggere e` assolto se il terapeuta compie dei tentativi ragionevoli di comunicare le minacce alla vittima o alle autorita` competenti. Ma a questo proposito molte sono le problematiche che si sollevano. Infatti fino a che punto uno psichiatra puo` essere realmente in grado di prevedere dei comportamenti auto e/o eterolesivi? Di quali strumenti egli dispone per prevenire che essi si verifichino? Deve inoltre il medico, nell’incertezza, intervenire ad ogni costo? Lo psicoterapeuta si trova spesso nella condizione di ascoltare delle minacce piu` o meno generiche da parte del paziente nei confronti di altre persone o di se stesso. Questo e` facilitato anche da quel tipo di rapporto medico-paziente che si viene ad instaurare nel corso di una psicoterapia, per cui un soggetto si sente piu` libero di esternare dei sentimenti ostili senza timore di essere giudicato. La verbalizzazione di questi sentimenti da parte del paziente, inoltre, in molti casi puo` rappresentare un momento terapeutico importante. Quindi la posizione dello psicoterapeuta e` molto delicata perche´ da una parte potrebbe essere accusato di negligenza per essersi limitato esclusivamente ad interpretare le minacce, dall’altra la denuncia potrebbe costituire un acting out del

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terapeuta contro il paziente. Quindi l’obbligo del terapeuta e` di valutare attentamente se queste minacce sono collegabili alla situazione della terapia (transfert, maggiore possibilita` espressiva, ecc.) oppure sono reali minacce. In questo caso lo psicoterapeuta non puo` nascondersi dietro la sua “neutralita`”; ne´ tanto meno interrompere la terapia per evitare ulteriori problemi perche´ in questo caso si incorrerebbe nel reato di abbandono di ` evidente che in questo caso, come incapace4. E anche in quello della minaccia di suicidio, si evidenziano la capacita` e la responsabilita` del terapeuta. Gli strumenti che il terapeuta puo` utilizzare, nel caso si renda conto che le minacce siano reali intenzioni, per evitarne la realizzazione, sono: 1)

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avvertire le persone espressamente indicate dal paziente (anche se in tal caso rischia sia la violazione di segreto professionale, sia di mettere in crisi la relazione terapeutica con il paziente); passare momentaneamente ad una terapia piu` incisiva, come quella farmacologica; il ricovero obbligato. Extrema ratio che pero` presenta numerosi problemi nel senso che tale posizione contrasterebbe con lo spirito della legge 180 e privilegiando un atteggiamento custodialistico piuttosto che terapeutico tornerebbe a far riferimento al vecchio concetto di pericolosita` come elemento determinante una simile alternativa.

Si deve inoltre considerare che anche una persona ritenuta “normale” da un punto di vista psichico puo` esternare dei propositi etero e/o autolesivi nella consapevolezza che cio` rimarra` soltanto una espressione verbale, e senza che per questo siano intrapresi dei provvedimenti nei suoi confronti.

4 Art. 591 c.p. (Abbandono di persone minori o incapaci): «Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo per vecchiaia o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, e` punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. (...)».

2.3. Prassi inadeguata o scorretta Una volta formulata una corretta diagnosi e` possibile stabilire in base al caso specifico quale sia il trattamento piu` adeguato. Con questo intendiamo dire che esiste certamente una correlazione tra tipo di diagnosi e terapia, ma che quest’ultima va differenziata di volta in volta in base alle particolari condizioni cliniche del soggetto. Ad esempio, come scrive Montalto, «Nell’ambito degli stati nevrotici il trattamento psicanalitico sarebbe controindicato nella fase acuta di una nevrosi di angoscia, dato che il paziente potrebbe non sopportare alcune delle tecniche abituali; una certa riserva e` anche segnalata negli stati ansiosi subacuti, quando si presume che essi costituiscono i prodromi di una crisi melanconica o di schizofrenia. Un’altra riserva puo` essere espressa nei confronti delle nevrosi di carattere, quando non esistono veri segni di sofferenza psichica. Si tratta in questi casi di pazienti apparentemente inseriti sotto il profilo sociale, i quali presentano meccanismi di difesa integrati nella struttura del carattere e sui quali pertanto si deve evitare di lavorare imprudentemente, sconvolgendo un equilibrio in qualche modo raggiunto». Proprio per l’estrema complessita` nello stabilire degli standard di cura oggettivamente valutabili data la complessita` della relazione terapeutica, potrebbe essere utile che ogni terapeuta operante nell’ambito di questo settore tenesse, come suggerisce Montalto «...una scheda biopsichica, nella quale dovrebbero essere annotati i dati piu` importanti relativi all’esame psichico effettuato prima dell’intervento terapeutico, i conseguenti tratti diagnostici nonche´ gli elementi piu` essenziali della particolare metodica applicata. In tale modo il medico stesso potrebbe cautelarsi da eventuali azioni legali che un paziente non soddisfatto dal tipo di cura ricevuta potrebbe intraprendere. Una corretta diagnosi infatti non esime da una eventuale colpa, se a questa diagnosi non seguono una prassi e un trattamento che sia corrispondente e scientificamente dimostrato essere utile o il piu` utile per quella particolare forma morbosa. Comunque, nell’ambito di un trattamento psi-

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coterapico il terapeuta dovra` inoltre rispettare alcuni principi basilari che Furrow5 cosi descrive: 1)

2)

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mantenere un atteggiamento neutrale ed essere in grado di gestire il transfert del paziente con una continua interpretazione; consultare un collega qualora si presentino delle gravi difficolta` nel portare avanti la terapia; non abbandonare improvvisamente senza valido motivo un paziente, ma garantire a quest’ultimo un tempo sufficiente per trovare un altro terapeuta; terminare un trattamento quando si dimostri inefficace o dannoso.

` inoltre importante sottolineare che poiche´ E la psicoterapia non e` un trattamento effettuato in condizioni di emergenza, si puo` avere tutto il tempo necessario per decidere se e quale terapia sia la piu` indicata per quel paziente.

2.4. Altri problemi per lo psicoterapeuta Un problema particolarmente delicato si pone per lo psichiatra, e per lo psicoterapeuta in particolare, quando gli viene richiesto un parere circa le condizioni psichiche di un soggetto che egli ha avuto o ha tuttora in terapia. In Italia il codice deontologico e la legge sulla Privacy tendono a proteggere sia il terapeuta che il paziente, cosa che non succede in altri paesi come negli U.S.A. Infatti in numerose situazioni, dalla richiesta di lavoro al concorso a cariche pubbliche, puo` essere chiesto al candidato se e` in trattamento psichiatrico. Ovviamente il soggetto puo` rifiutarsi di rispondere6, ma ovviamente il rifiuto viene letto non solo come conferma che il soggetto e` in

5 Cit. in «Malpractice in Psychotherapy: An Overview», di Conte R. H., Karasu B.T., in Am. J. of Psychotherapy, vol. XLIV, N. 1, January 1990, p. 235. 6 Bisogna tener presente che per la cultura americana mentire e` un fatto grave: per questo ad una richiesta si deve rispondere con un rifiuto o rispondere sinceramente. E` presumibile che l’italiano medio in trattamento psichiatrico potrebbe semplicemente rispondere negando il fatto.

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trattamento psichiatrico o psicoterapeutico, ma anche come segno di gravita`. Pertanto in genere il candidato si sottomette a questa regola, e nel caso in cui e` in trattamento psicoterapeutico cio` obbliga lo psicoterapeuta a rilasciare una certifi` evicazione sullo stato mentale del paziente. E dente che questa prassi e` un chiaro ritorno al passato: lo psichiatra come tutore dell’ordine pubblico e gestore del controllo sociale. Cio` comporta una serie d’implicazioni che J.O. Noll cosı` schematicamente riassume: 1)

2) 3)

4)

5)

gli psicoterapeuti si troveranno nella forbice di dover rendere pubblico un segreto professionale e nel rischio di essere citati in tribunale dal paziente stesso per violazione di segreto professionale; questa spada di Damocle puo` ovviamente inquinare il rapporto terapeutico; i terapeuti che si sentono in obbligo di seguire il principio del consenso totale ed informato potranno dissuadere pazienti dal richiedere il loro aiuto; meno persone ricorreranno alla psicoterapia a causa della paura che le cose dette in terapia possano essere utilizzate contro di loro; infine, vi e` il rischio che la psicoterapia diventi sempre meno un luogo privato ove il paziente puo` liberamente proporsi.

Negli U.S.A., paese democratico e liberale, il controllo sociale sembra, senza grandi clamori, aver raggiunto e quindi inquinato il rapporto psicoterapico.

3. Conclusioni Siamo ben consapevoli che le situazioni sopradescritte non possono coprire l’arco molto piu` ampio e variegato dei casi di “malpractice” in psicoterapia. Qualsiasi psicoterapeuta, con una valida preparazione ed in buona fede, ha avuto modo di poter osservare vari casi ove lo psicoterapeuta, per inesperienza, incapacita` o per altri motivi, ha creato situazioni iatrogene piu` o meno gravi, piu` o meno reversibili.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Ma prendere in considerazione tutte le cause e le modalita` di “malpractice” in psicoterapia vorrebbe dire riaprire il problema della teoria, della prassi e soprattutto della formazione dello psicoterapeuta. In questo lavoro abbiamo voluto solo sottolineare alcune situazioni di “malpractice”: le “bucce di banana” sulle quali lo psicoterapeuta puo` scivolare, anche se in buona fede.

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61 Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata Nicola Lalli - Francesco Riggio Parole chiave riabilitazione psichiatrica; crisi; terapia neurolettica; Centro Diurno; teoria; prassi

Sulla possibilita` o meno di una terapia efficace e razionale delle psicosi si gioca, nei prossimi anni, la credibilita` della psichiatria. E perche´ una terapia sia efficace e razionale, deve rifarsi necessariamente non solo ad una teoria dello sviluppo psichico, ma soprattutto ad una teoria delle cause che determinano e che sostengono la situazione psicopatologica. Il rischio maggiore per la psichiatria rimane sempre quello di una prassi che non nasca da una reale conoscenza dei meccanismi patogeni, ma che utilizza modelli esplicativi parziali e non dimostrabili che sono elevati successivamente e surrettiziamente a paradigmi scientifici: l’esempio piu` evidente e` il modello di funzionamento mentale derivato dall’uso degli psicofarmaci. Occorre ricordare, anche a rischio di essere monotoni, che gli psicofarmaci sono stati scoperti per caso, il che dimostra che non esisteva nessuna teoria, anche parziale e sommaria, che indirizzasse alla ricerca di queste molecole. Ma il danno piu` evidente e` stato non gia` l’uso degli psicofarmaci

sui sintomi psicopatologici, quanto piuttosto l’uso, potremmo dire quasi ideologico, di alcuni risultati. Poiche´ gli psicofarmaci presentano interazioni con i diversi neuromediatori, l’eccesso o il deficit di questi e` stato ritenuto la causa delle malattie psichiatriche. «Queste ipotesi sono chiamate farmacocentriche perche´ sono ricavate dallo studio non dalle malattie, ma dai farmaci che le influenzano. (...) Su questi modelli artificiali delle malattie mentali vennero trovati migliaia di composti (...) Il fatto che fossero dotati delle proprieta` caratteristiche dei loro prototipi, scoperti casualmente, venne considerata una controprova della validita` delle ipotesi dopaminergiche e aminergiche sopra citate. Era invece la conseguenza inevitabile del fatto che i farmaci privi di queste caratteristiche venivano scartati immediatamente, senza sottoporli a alcuno studio clinico». Queste affermazioni di un famoso psicofarmacologo, B. Silvestrini, denunciano sia l’errore metodologico di base, sia il rischio che altri prodotti, magari efficaci, siano stati scartati

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sulla base di una ipotesi non attendibile. Ma aggiungerei un’ulteriore considerazione: il problema centrale e` che molti modelli esplicativi della psicopatologia sono dedotti dal comportamento delle cavie in laboratorio e pertanto, al massimo, si riducono a due soli comportamenti che sono l’eccitamento e il rallentamento motorio. E sulla base di questi due dati molto riduttivi e sommari si dovrebbe poi spiegare non solo la psicopatologia (eccitamento maniacale e schizofrenia nel primo caso, depressione nel secondo) ma si continuano a cercare altri psicofarmaci. Questa impostazione di base comporta la convinzione di poter scoprire farmaci sempre piu` selettivi per influenzare singole emozioni o singoli comporta` una impostazione che definirei ‘‘la menti umani. E sindrome del tiro a segno’’ o ancora meglio una sorta di delirio di precisione: localizzare siti neuronali sempre piu` specifici deputati alle dinamiche umane piu` svariate e poi trovare lo psicofarmaco che vada a colpire selettivamente quel singolo sito. Concezione che ha del delirante, dal momento che negli ultimi decenni le acquisizioni sul SNC e sul suo funzionamento portano sempre piu` a considerare questo organo come un insieme per cui ogni singola azione su di un sito cerebrale si riverbera su tutto il SNC e non come un conglomerato di centri deputati a singole funzioni. Questa teoria, detta “localizzatrice”, nata in ambito della neurologia non e` piu` accettata nemmeno dalla neurologia stessa per spiegare i disturbi neurologici. Evidentemente c’e` un peccato originale che sembra pesare sulla psichiatria: l’incapacita` di studiare la psicopatologia a partire dall’uomo malato e non dagli animali di laboratorio. E quel peccato originale sembra attualmente, anche se in maniera meno vistosa, aver condizionato gli studi sulla cosiddetta riabilitazione psichiatrica che, erede della crisi delle speranze terapeutiche riposte nella psicofarmacologia, sembra incamminarsi su di un sentiero ancora piu` pericoloso della stessa psicofarmacologia. Se per riabilitazione si intende un insieme di tecniche volte a migliorare singole funzioni in una sorta di apprendimento forzato, allora possiamo dire che il rimedio (la riabilitazione) e` peggiore del male (la psicofarmacologia). Infatti non solo manca qualsiasi presupposto

teorico ma il malato mentale e` equiparato ad un qualsiasi portatore di handicap al quale si deve cercare solo di rendergli la vita piu` facile. L’abbattimento delle barriere architettoniche per gli handicappati e` segno di grande civilta` e senso sociale, ma non ha nulla a che vedere con una terapia. Non e` un caso che molti AA., anche famosi, nel campo della riabilitazione psichiatrica si rifacciano a tecniche comportamentiste vetuste e superate come il premio-punizione, a secondo di comportamenti accettabili o sbagliati da parte del paziente, modalita` che sembra piu` vicina ad un ammaestramento da animali da circo che ad un trattamento per pazienti che hanno bisogno di ben altro. Se per riabilitazione intendiamo invece che la terapia dello psicotico deve essere necessariamente integrata e rivolta anche alle componenti sociali e familiari, che se non sono la causa possono essere sicuramente un fattore di cronicizzazione o di peggioramento della crisi iniziale, allora possiamo essere d’accordo. Ma non basta una definizione, bisogna proporre una teoria della psicosi ed una prassi coerente ed articolata. ` quanto sara` esposto nel presente capitolo. E Dopo un breve excursus sulle varie concezioni della riabilitazione descriveremo un modello operativo che da alcuni anni viene, sulla base di una teoria ben precisa, attuato presso il Centro Diurno dell’Azienda USL Roma D sito in via Vaiano, 53. Nel gennaio del ’95 i colleghi A. Cantini, M. Dario, G. De Simone, E. Stocco, G. Vendrame si sono trovati nella fortunata condizione di dover costituire ed avviare un Centro Diurno riabilitativo in un quartiere della periferia di Roma. La scelta sul tipo d’intervento da effettuare cadde senza indugi su quella che all’epoca veniva definita riabilitazione terapeutica, che si contrapponeva alla riabilitazione socio-assistenziale. Si proponeva quindi un intervento basato sulla “crisi” tale da mettere in gioco la staticita` del paziente al fine di evitare quella cronicizzazione che viene considerata evoluzione naturale della psicosi, ma che, al contrario, spesso potrebbe essere intesa come patologia iatrogena. ` evidente la complessita` del problema che E rende ragione anche del fatto che sono state pro-

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

poste modalita` d’intervento spesso molto diverse. Poiche´ un Manuale di Psichiatria deve essere coerente, ma non dogmatico, aperto ma non acritico, seguiranno due capitoli che propongono due diverse modalita` di terapia integrata delle psicosi.

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Modelli che pur nella diversita` ritengono il rapporto interumano strumento fondamentale di qualsiasi intervento psichiatrico. * * *

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

1. Considerazioni generali Non si puo` non rimanere colpiti dall’aumentato interesse che la riabilitazione psichiatrica sta suscitando in questi ultimi anni: interi congressi vengono dedicati a questo tema, sorgono societa` psichiatriche di riabilitazione, si moltiplicano libri e pubblicazioni che trattano l’argomento. Di fronte a questa improvvisa “riscoperta” non possiamo non chiederci quali ne siano le ragioni. La riabilitazione, infatti, e` sempre stata considerata una branca cosiddetta “minore” della psichiatria, una Cenerentola destinata a svolgere i servizi piu` umili quali l’accudimento diretto dei malati mentali, la condivisione dei loro spazi ed attivita` quotidiane, l’abolizione di quella distanza asettica che la sorella maggiore, la psicofarmacologia, sdegnosamente teneva. Perche´ adesso viene lussuosamente vestita e portata a corte? La riabilitazione psichiatrica esiste almeno da quando esiste la psichiatria, l’accudimento nel territorio dei malati mentali e` una pratica il cui inizio e` talmente remoto da non essere temporalmente collocabile, eppure nessuno, tolte rare eccezioni, se ne era mai occupato in maniera specifica. Dobbiamo necessariamente pensare che e` intervenuto qualcosa di nuovo che ha provocato curiosita` ed interesse e che porta oggi a “riscoprire” una pratica esistente da moltissimo tempo conferendole uno spazio e una dignita` che prima non aveva. Le risposte possibili a tale interrogativo sono diverse. Ad esempio Saraceno B. (1995) individua le cause del fenomeno nella riduzione crescente di pazienti internati, che comporta pertanto la necessita` di una loro gestione extraospedaliera, nella maggiore consapevolezza dei diritti dei malati e infine nella dimostrazione, ormai accettata, che l’evoluzione della schizofrenia e delle psicosi e` ampiamente condizionata da fattori sociali ed ambientali. I fattori individuati da Saraceno, per quanto reali, non spiegano pero` il fenomeno in modo esaustivo. In epoca attuale la prognosi per un paziente che si ammala di schizofrenia e` la seguente: avra` il 25% di possibilita` di guarire completamente, il 25% di possibilita` di deteriorarsi progressiva-

mente, ed il 50% di possibilita` di una parziale remissione della malattia con episodiche riacutizzazioni ed eventuali sintomi residui (vedi anche M. Bassi, 1992). Se confrontiamo tali percentuali con quelle antecedenti all’uso dei neurolettici, ad esempio con quelle fornite da Bleuler nel 1911 nel suo Trattato di psichiatria ci accorgiamo con stupore che sono pressoche´ identiche. Vale a dire che l’uso dei neurolettici non ha minimamente cambiato l’evoluzione naturale della schizofrenia. Tale dato e` sorprendente. Nonostante l’enorme mole di studi che tendono a sopravvalutare l’efficacia degli psicofarmaci, la prognosi e l’esito naturale della malattia non cambiano a seconda che si assumano o meno. Esistono numerosi dati sperimentali che, per quanto sottaciuti e sottovalutati, stanno mettendo in crisi l’entusiastico ricorso agli psicofarmaci che cosı` tanta speranza aveva suscitato negli anni Sessanta. Recenti dati meta-analitici sembrano ridimensionare l’impatto del neurolettico convenzionale. Infatti sarebbe una percentuale di solo il 49% di pazienti responders ai farmaci antipsicotici somministrati nel corso di un episodio psicotico acuto (Lieberman, 1995). D’altro canto l’efficacia della terapia a lungo termine appare anch’essa in parte messa in discussione dal fatto che dal 70 all’80% dei pazienti trattati presenta una ricaduta psicotica nel giro di 6-7 anni dal primo episodio nonostante il trattamento (Hirsch, 1992). (A. C. Altamura, 1996).

Sono dati che fanno riflettere. Solo il 49% dei pazienti risponde al trattamento neurolettico. Il 70-80% presenta una ricaduta nonostante il trattamento farmacologico. Questi dati non sono nuovi. Sono conosciuti sin dalle prime sperimentazioni con neurolettici, ma l’interpretazione ricorrente era la mancata compliance del paziente psicotico. Secondo questa ipotesi la mancata compliance al trattamento porterebbe ad una assunzione non continua o comunque errata che pregiudicherebbe l’intero trattamento. Eppure in uno studio del 1979 Hogarty, confermando quanto gia` descritto in uno analogo del 1977 da Rifkin, comprovava che non era la mancata compliance a rendere inefficace, sul fronte

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

delle ricadute, una terapia neurolettica. Era bastato comparare i pazienti che assumevano terapia per via orale con altri che assumevano la stessa identica terapia per via intramuscolare per provare che il tasso di ricadute era identico nei due gruppi, dimostrando quindi che l’inefficacia terapeutica non poteva essere in correlazione con la mancata compliance. A tutto cio` aggiungiamo che sono sempre piu` numerosi gli studi che mettono in evidenza i danni, in gran parte irreversibili, provocati dai neurolettici. Citiamo per tutti P. R. Breggin, da sempre impegnato nella dimostrazione della presunta inutilita` e dannosita` della terapia neurolettica, che con prove sperimentali asserisce che: I neurolettici causano danni ai centri superiori del cervello producendo disfunzioni mentali croniche, demenza tardiva, psicosi tardiva [...] discinesia tardiva. Tanto i pazienti quanto l’opinione pubblica dovrebbero essere informati dei rischi della discinesia tardiva e della demenza tardiva. Psichiatri, farmacologi e ricercatori del campo dovrebbero limitare drasticamente l’uso di neurolettici e sviluppare alternative migliori e piu` sicure. (P. R. Breggin, 1990).

Con i risultati espressi in questi studi, mai adeguatamente riconosciuti, ma anzi contrastati da altri che tenderebbero a dimostrare l’esatto contrario di quanto detto, ogni psichiatra nel corso della sua esperienza si e` venuto a confrontare. Forse non la psichiatria ufficiale, quella invitata a parlare nei numerosissimi congressi patrocinati dalle case farmaceutiche, ma quella piu` modesta e piu` umile, che si pratica quotidianamente in ogni corsia psichiatrica o in ogni Dipartimento di Salute Mentale sta lentamente accettando la veridicita` di questi rilievi. Ed e` probabilmente la ricerca di nuove strade, nuove strategie, nuove terapie, che spinge ad affrontare un tema gia` esistente da tempo. L’interesse per la riabilitazione forse nasce dalle ceneri di quanto si era creduto potesse essere l’unica cura per la schizofrenia. Ben venga quindi un nuovo interesse, un nuovo entusiasmo, una nuova speranza di cura.

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Riabilitiamo pure la riabilitazione. Ma a patto che sia una ricerca sulla cura e non una semplice assistenza a chi non potra` mai guarire. Se la riabilitazione psichiatrica non perde quel significato che ha sempre avuto di assistenzialismo, di semplice supporto sociale protettivo, non potra` mai assolvere ad un compito realmente terapeutico. Mancando questa occasione di riflessione potremmo trovarci di fronte ad un passaggio peggiorativo: da una prospettiva farmacologica che individuava l’oggetto della cura in un organo, il cervello, ad un trattamento riabilitativo che, non tenendo in considerazione la cura propriamente detta, risulterebbe mirato alla semplice correzione delle abilita` sociali, compromesse o perdute nel paziente psichiatrico. Nello sforzo di rifiutare una cura farmacologica molto probabilmente sbagliata o dannosa, si ha l’impressione di essersi rifugiati in un trattamento che ha dimenticato di fondarsi come terapeutico. La domanda da porsi e` quindi: puo` esistere una riabilitazione psichiatrica che possa essere definita cura? Possiamo lasciarci alle spalle l’illusione organicistica senza cadere in un assistenzialismo che, negando la possibilita` di una cura psichiatrica, ci relega ad un ruolo tecnico e di semplice assistenza sociale? Per dare una risposta affronteremo dapprima il problema della riabilitazione cosı` come si configura attualmente, e successivamente cercheremo di proporre un modello che sara` in linea con gli aspetti teorici esplicitati nel presente Manuale.

2. La riabilitazione in psichiatria

2.1. Cenni storici Nel tracciare una storia della riabilitazione psichiatrica ci si confronta subito con la difficolta` di stabilire quando essa ebbe inizio, con chi e con quali finalita`. A tal proposito meritano di essere ricordati tre episodi che storicamente anticipano quella che oggi viene definita riabilitazione.

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Il primo di questi episodi riguarda Geel, un ridente paesino in provincia di Anversa che agli inizi dell’Ottocento era meta di viaggi e oggetto di studi da parte di moltissimi medici che si occupavano di malattie mentali. Era infatti a Gheel (cosı` si chiamava fino al XIX secolo) che da circa un millennio si attuava una particolarissima forma di assistenza unica in tutta Europa: l’accudimento familiare dei malati di mente. Di tale esperienza parla Esquirol (1838) nel suo noto trattato sulle malattie mentali in un breve capitolo intitolato Notizie intorno al villaggio di Gheel ove lui stesso si era recato nell’agosto del 1821. Con toni pieni di ammirazione Esquirol osservava che gli abitanti del paese, «da tempo immemorabile» prendevano a casa due o tre malati, accudendoli e facendo loro svolgere le attivita` per loro possibili, e «abbenche´ questi malati siano liberi, tuttavia non sono mai in condizioni di suscitare gravi accidenti per le donne gravide, ne´ per i fanciulli del paese: gli abitanti di Gheel vivono in mezzo a loro nello stato della piu` perfetta sicurezza». L’esperienza di Gheel, primo tentativo di psichiatria territoriale ante-litteram, fu recepita e adattata nel 1839 in Scozia, e si diffuse poi nel resto della Gran Bretagna diventando il prototipo della psichiatria di comunita`, uno dei modelli dell’attuale riabilitazione psichiatrica. Analoghe esperienze furono attuate nel corso dell’Ottocento in Austria, Francia, Germania, Olanda, ed in Italia in Toscana. A differenza pero` delle analoghe esperienze europee, le famiglie toscane che accudivano in casa propria i malati erano prescelte tra quelle degli infermieri del manicomio, che quindi conoscevano gia` da tempo i pazienti e garantivano una seppur tenue continuita` con l’ambiente sanitario. Il secondo episodio e` legato al dr. H. Simon che negli anni Venti lavorava nell’ospedale psichiatrico regionale di Warstein, in Germania. In quell’epoca non esistevano gli psicofarmaci, ed il ricorso alla contenzione protratta per i malati di mente era la norma. Simon, riesumando una vecchia pratica in uso sin dal XV secolo presso l’ospedale di Saragozza, in Spagna, e appoggiandosi a illustri predecessori quali Pinel, Conolly,

Chiarugi, decise di togliere dai propri letti i malati e di metterli a lavorare. Il lavoro effettuato era strettamente finalizzato alla elaborazione di un prodotto e non all’occupazione del tempo dei malati di mente. L’obiettivo da raggiungere, secondo Simon, consisteva nello stimolare quello che c’era di sano nel paziente e ottenere da lui, con un continuo esercizio, il rendimento sociale piu` alto possibile. L’ergoterapia non nacque con Simon, ne´ tantomeno egli ne rivendico` mai la paternita`, ma e` con lui che tale pratica assunse valore di una vera e propria “terapia attiva”. I risultati di questo metodo furono indubbiamente positivi. I malati erano piu` calmi, non necessitavano di presidi di contenzione ed erano attivamente inseriti nel contesto sociale dell’ospedale; molti tipi di comportamento fino ad allora attribuiti alla malattia regredirono rivelandosi artefatti o derivabili dall’ambiente e dalle condizioni di vita; migliorava il senso di responsabilita` e di autosufficienza dei pazienti. Immediatamente furono sollevate obiezioni su tale metodo terapeutico. In particolare, Simon fu accusato di non avere chiaro il reale significato della psicosi e di confondere una capacita` lavorativa con un miglioramento o, ancor piu`, con una guarigione dalla malattia. Nonostante tali critiche furono molti gli istituti in Europa che introdussero il metodo di Simon, ritenuto ancor oggi da alcuni come un utile presidio terapeutico nella cura delle psicosi. Derivano direttamente dalla terapia lavorativa la terapia occupazionale e la ludoterapia, le quali fanno la loro comparsa negli anni Cinquanta-Sessanta, dapprima nei paesi anglo-americani e scandinavi per poi diffondersi in altri Stati. Orientata piu` sulle attivita` che sul prodotto, incurante quindi dell’utilita` pratica di quanto si produce e del correlato aspetto pedagogico, la terapia occupazionale ha lo scopo di stimolare l’iniziativa individuale. Fondamentale in tale contesto e` l’atmosfera, descritta come rilassata, gioiosa, in cui le varie attivita`, per lo piu` di carattere estetico-artistico e musicale, vengono svolte. Il terzo episodio e` di poco successivo. Era il 1933 e l’intera Unione Sovietica versava in una grave crisi economica e finanziaria; pressati da

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

una politica che imponeva ovunque tagli di spesa, anche gli ospedali sovietici dovevano trovare soluzioni che riducessero le spese sostenute soprattutto per il personale medico e paramedico. Il dottor Djagarov, dell’ospedale psichiatrico di Mosca, ebbe un’idea: selezionare alcuni malati mentali, non in fase acuta ma comunque non dimissibili, farli rimanere in ospedale solo per il periodo di trattamento diretto (somministrazione di farmaci, colloqui) e per il resto della giornata inviarli al proprio domicilio; in tal modo si otteneva il risultato di ridurre drasticamente le spese del personale medico e paramedico; e in tal modo, nel contempo, nasceva il primo ospedale diurno per malati mentali. Probabilmente il dottor Djagarov non era animato solo da motivazioni di carattere economico. Nel suo ospedale diurno i malati rimanevano ben oltre il tempo strettamente necessario alla somministrazione farmacologica e vi svolgevano un lavoro di tipo artigianale; l’e´quipe curante teneva frequenti incontri con le famiglie dei malati e le assistenti sociali andavano spesso al domicilio dei pazienti. Djagarov andava ben oltre quello che era il normale mandato a cui un medico ospedaliero era chiamato a rispondere, per ricercare, con una modalita` nuova, un diverso modo di fare terapia: accudimento familiare, terapia del lavoro, terapia occupazionale, ospedalizzazione diurna. Piccoli episodi nel corso della storia della psichiatria che si basavano tutti su un’unica intuizione: la relazione con il malato di mente veniva ritenuta fondamentale per la sua evoluzione prognostica; in base a questa aveva inizio una prassi, un metodo, che non sembrava avere alle spalle alcuna teoria. La riabilitazione inizio` dunque, almeno apparentemente, come prassi senza teoria. Piccoli episodi, quasi dimenticati nei testi di storia della medicina, che al contrario rappresentano importanti punti di riferimento. Non solo e non tanto come antecedenti delle attuali tecniche riabilitative, ma perche´ con essi si potrebbe rintracciare un percorso in un certo senso parallelo a quello della psichiatria ufficiale. Accanto a chi vedeva nel malato di mente un soggetto potenzialmente pericoloso da dover controllare ed annichilire, si

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muoveva un’altra psichiatria, forse minore, ma non meno importante, che cercava di far emergere e sviluppare le potenzialita` del paziente. Questi aspetti facevano riferimento al trattamento morale, derivato dal pensiero che era comunque possibile correggere i comportamenti deviati dei pazienti tramite una relazione con loro, e tale posizione si collocava in un certo senso in contrasto ai metodi punitivi e di controllo. La riabilitazione psichiatrica storicamente trova nel trattamento morale il riferimento moderno piu` importante. 2.2. Limiti delle attuali definizioni Nel diritto romano, la parola riabilitazione indica il ripristino dello stato giuridico, in particolare il ripristino dei diritti civili in seguito ad annullamento di una condanna per dimostrazione di non colpevolezza. Dopo la prima guerra mondiale il termine e` passato dall’ambito giuridico a quello della medicina sociale indicando la reintegrazione di una funzione, soprattutto ortopedica, persa in seguito a traumatismo. In psichiatria l’uso del termine, relativamente recente, indica un processo diretto “all’ottenimento di una soddisfacente integrazione del soggetto nella societa`”. (C. Mu¨ller, 1980). Citiamo alcune definizioni di riabilitazione psichiatrica: 1. “Riabilitare significa ridurre la possibilita` di cadute e superare un deficit, una disabilita` cronica, un handicap, in modo da mettere la persona in grado di vivere nel suo ambiente in maniera piu` efficace possibile [...] Il suo compito e` [...] di aiutare la persona disabile a riadattarsi alla vita quotidiana e di rinforzare le sue competenze sociali in campo lavorativo e la sua partecipazione alla vita sociale della famiglia e della societa`”. (R. Amiol, M. Gittelman, 1992). 2. “La riabilitazione e` il processo attraverso il quale un individuo viene aiutato ad adattarsi ai limiti imposti dalla sua disabilita`”. (C. Hume, I. Pullen, 1994). 3. “La riabilitazione psicosociale e` un processo che deve facilitare agli individui che abbiano un danno, una disabilita` o un handicap dovuto ad una malattia mentale tutte le opportunita` per

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raggiungere il proprio livello ottimale di funzionamento indipendente nella comunita`. Implica dunque sia un miglioramento delle competenze individuali, sia l’introduzione di modificazioni ambientali in modo da creare le condizioni per la migliore qualita` di vita per chiunque abbia avuto l’esperienza della malattia mentale o che soffra di un danno delle proprie capacita` mentali tale da produrre disabilita`”. (O.M.S., 1996).

Non possiamo fare a meno di notare come tutte le definizioni sopra riportate indichino il fine dell’intervento riabilitativo nella modificazione delle disabilita` e degli handicap. Dovremo approfondire quindi il significato di questi due termini. ` largamente in uso a questo proposito la E distinzione proposta dall’O.M.S. nel 1980 riguardante non solo i concetti di disabilita` e di handicap, ma anche quelli di malattia e di danno o menomazione. “Malattia (illness): condizioni fisiche o mentali che sono percepite dall’individuo e dal suo ambiente come deviazioni dallo stato di salute normale, nella misura in cui creano dolore e paura, e che possono essere descritte in termini di sintomi e di segni; danno o menomazione (impairment): disturbo o interferenza nella struttura e nel funzionamento normale del corpo, comprendendo il sistema delle funzioni mentali; disabilita` (disabilities): disturbi nell’espletamento di quei ruoli sociali che ci si aspetterebbe venissero svolti normalmente da un individuo nel suo ambiente naturale; handicap: svantaggio conseguente ad una menomazione e/o ad una disabilita` che limita o impedisce l’adempimento del o dei ruoli adeguati per ciascun soggetto”. (O.M.S., 1980).

Nello stesso documento viene inoltre sottolineato che “lo svantaggio” dell’handicap e` una condizione che non si riferisce al soggetto e alla sua disabilita`, ma alla risposta che l’organizzazione sociale fornisce ad un soggetto con una disabilita`. Vorremmo proporre due brevi osservazioni. 1) In tutte le definizioni vengono nominate prevalentemente le disabilita` e gli handicap ma non viene quasi mai nominato il danno o la malattia da cui essi dovrebbero discendere. Come a

dire che il fine della riabilitazione e` quello di far riacquistare al paziente delle competenze sociali, le abilita`, e non quello di curare il danno che avrebbe provocato la perdita di tali competenze e abilita`. In altre parole, pensiamo che dovrebbe essere rispettato un certo metodo nel considerare come scopo principale di un intervento terapeutico la cura del fatto patologico in causa, e non il porre rimedio a sue conseguenze piu` o meno secondarie quali ci appaiono le cosiddette disabilita`. Cercare, ad esempio, di riattivare la deambulazione in un individuo che ha subito una frattura di un femore non puo` essere il fine di un intervento terapeutico, perche´ questo, invece, dovra` essere indirizzato alla riduzione della frattura stessa. Sara` questo intervento che promuovera` il ripristino della funzione deambulativa che magari, dopo, dovra` essere nuovamente stimolata. La riacquisizione delle abilita` perdute andrebbe sempre considerata come consequenziale alla cura della malattia responsabile della loro alterazione. Non siamo quindi d’accordo con Saraceno (1995) quando afferma che “la malattia dello schizofrenico puo` mutare grazie all’intervento ` come se si sulle disabilita` e sugli handicap”. E dicesse che basta far camminare un paziente per curargli una frattura del femore. Preferiamo continuare a pensare che una patologia psichiatrica, che a nostro parere deve essere intesa come modalita` relazionale malata, non puo` modificarsi e guarire cercando di migliorare le prestazioni sociali di un individuo. 2) Se per intervento riabilitativo s’intende il ripristino di competenze sociali perdute e l’abolizione degli handicap intesi come risultato della risposta dell’ambiente alle disabilita` del soggetto, allora l’intervento riabilitativo si presenta come di natura squisitamente sociale. Rientrerebbe in quegli interventi promossi dallo Stato a favore di categorie protette, al fine di fornire a tali individui gli stessi diritti di cui gode il resto dei cittadini. Ad esempio l’abolizione delle barriere architettoniche a favore dei portatori di handicap non e` un problema medico, ma sociale. Perche´ un intervento di tale natura dovrebbe riguardare la psichiatria? Dobbiamo in effetti notare che la tendenza ad interpretare la riabilitazione psichiatrica come

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uno strumento sociale e non medico non solo e` presente nell’attuale panorama psichiatrico, ma acquista sempre piu` forza. Fino a qualche tempo fa si potevano individuare due filoni di intervento nell’ambito della riabilitazione: quello socioassistenziale, indirizzato verso pazienti malati da molto tempo e per questo in gran parte deteriorati, cronicizzati, nei confronti dei quali andava indirizzato un intervento di natura sostanzialmente assistenziale; e quello terapeutico, destinato a quei pazienti per i quali era possibile ipotizzare una modificazione del quadro clinico. Questa distinzione va rapidamente scomparendo ed oggi il termine riabilitazione e` quasi sempre seguito dal termine psicosociale, proprio a sottolineare il carattere prioritariamente sociale dell’intervento. Il gia` citato documento dell’O.M.S. (1996), a questo proposito, e` chiarissimo; la riabilitazione psicosociale deve mirare al: — trattamento farmacologico: [...] in quanto e` utile per il controllo dei sintomi [...] e la prevenzione delle ricadute; — addestramento alle abilita` sociali e della vita quotidiana: [...] ad esempio il prepararsi da mangiare, il vestirsi, il tenere in ordine; — sostegno psicologico al paziente e alle famiglie: [...] intenso e continuo sostegno psicologico ed educativo ai pazienti e alle loro famiglie. Anche i gruppi di auto-aiuto di familiari costituiscono una strategia efficace. Il sostegno psicologico dovrebbe includere ogni informazione utile sui diritti degli utenti e dei familiari cosı` come sulle risorse disponibili; — l’abitare: [...] bisognerebbe fornire una abitazione normale ad ogni utente [...] e un adeguato sostegno da parte del gruppo curante; — riabilitazione occupazionale ed impiego: [...] e` essenziale impostare attivita` di formazione lavorativa connesse ad esperienze di lavoro reali e concrete. [...] L’addestramento al lavoro dovrebbe iniziare nel luogo di cura e successivamente muovere verso condizioni protette in contatto pero` con il mercato del lavoro; — reti sociali di sostegno: [...] insieme stabile di relazioni umane vissute positivamente dagli individui; — svago: [...] capacita` di partecipare alle attivita` di svago scelte da ciascuno e di goderne. (O.M.S., 1996).

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Tutti questi obiettivi sembrano presentare un carattere socioassistenziale; l’unico punto che potrebbe essere considerato di carattere terapeutico, oltre ovviamente alla sempre presente terapia farmacologica elencata al primo punto, sarebbe il sostegno psicologico al paziente e alla sua famiglia. Anche qui non si parla di cura ma di sostegno, cioe` di qualcosa che non ha insita l’intenzionalita` al cambiamento. In base a tutti i rilievi fatti, dovremmo concludere che la riabilitazione psicosociale e` al momento un insieme di interventi con preminente carattere sociale, tendenti a promuovere il benessere materiale di un paziente. Tale conclusione ci lascia ampiamente insoddisfatti; naturalmente non abbiamo nulla da obiettare sul miglioramento delle condizioni materiali dei pazienti psichiatrici; e` ovvio ed e` giusto per ciascun cittadino godere del diritto al lavoro, del diritto all’abitazione, del diritto allo svago; e` altresı` ovvio e del tutto auspicabile che ci siano degli interventi pubblici tendenti a favorire chi si trova, per varie ragioni, ad essere escluso dal godimento di tali diritti. Ci chiediamo pero` se non sia troppo riduttivo e forse improprio identificare l’intera riabilitazione psichiatrica con questo tipo di presidi; non potremmo quanto meno ipotizzare che il fine riabilitativo possa essere non solo pedagogico e sociale, ma anche terapeutico? Vorremmo in sostanza considerare ancora valida e non superata la vecchia distinzione tra riabilitazione socioassistenziale e terapeutica. I pazienti che necessitano di un trattamento riabilitativo non sono tutti uguali: c’e` chi per varie ragioni (durata della malattia, gravita` della stessa, eta`, etc.), puo` giovarsi esclusivamente di interventi socioassistenziali, ma ci sono altri pazienti rispetto ai quali non sarebbe azzardato pensare ad un intervento che abbia insito nella sua prassi un intento modificatore, ossia terapeutico.

2.3. Strutture e percorsi riabilitativi Proviamo a questo punto a cercare di capire come si articola e come funziona quell’insieme di pratiche senza teoria che vanno sotto il nome di

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riabilitazione e che corrispondono ad un insieme eterogeneo di interventi attuati in contesti diversi e con categorie di pazienti estremamente differenti tra loro. Ci occuperemo innanzitutto dei luoghi dove la riabilitazione viene effettuata, indicati come “strutture intermedie”. Le strutture intermedie sono spazi del territorio istituiti dalla legge n˚ 180 del 1978, anche se una certa “territorializzazione” era gia` iniziata prima di quella data con le cosiddette comunita` “alternative” nelle quali venivano assistiti pazienti sufficientemente autonomi che non necessitavano di un ricovero ospedaliero. Volendo assegnare una funzione caratterizzante tali luoghi, potremmo indicare quella di poter garantire la migliore comprensione dei bisogni dei pazienti nonche´ il loro reinserimento nell’ecosistema; il termine struttura intermedia acquista dunque significati attivi e dinamici e tende a superare la concezione di spazi dove sia preminente una dimensione di incomunicabilita` e di dipendenza istituzionale; la realta` e` pero` in qualche modo diversa, e spesso alcune strutture riabilitative sono caratterizzate da una significativa dipendenza istituzionale. Le strutture intermedie previste dalla legislazione attuale si dividono principalmente in residenziali e non residenziali, e presentano all’interno di queste stesse categorie suddivisioni ulteriori.

2.3.1. Strutture residenziali

Le strutture intermedie residenziali possono essere distinte in: a) Casa-famiglia, gruppo-appartamento. Accolgono piccoli gruppi di pazienti, in media sei, che abitano insieme, per proprio conto, ai quali viene fornita un’assistenza relativa al grado di autosufficienza. Usufruiscono di un’assistenza domiciliare, fornita dal Comune, e di una assistente sociale per quanto riguarda l’aspetto pensionistico, sussidiario, etc. Il servizio psichiatrico interviene su domanda dei diretti interessati o, in genere, su segnalazione delle assistenti sociali.

La tipologia dei pazienti e` piuttosto omogenea trattandosi per lo piu` di persone anziane, spesso pazienti ex-manicomiali, malati quindi da molto tempo e privi di una famiglia d’origine in grado di accoglierli. L’intervento nei confronti di tali utenti non puo` che essere prevalentemente assistenziale. b) Residenze assistite o protette. I pazienti che vi soggiornano, riuniti in piccoli gruppi, presentano una minore autosufficienza rispetto alla categoria precedente. Essi non provvedono in proprio alle pulizie, alla preparazione del cibo e alla gestione del tempo, ma vanno aiutati anche in questo. Il servizio psichiatrico e` piu` presente e, tramite infermieri ed educatori professionali, provvede ad organizzare attivita` che hanno lo scopo di favorire quel minimo di socializzazione che a tali pazienti sembra mancare. Visto il grado di controllo continuo che il servizio psichiatrico puo` esercitare sulle residenze, i pazienti ospitati costituiscono un gruppo piu` eterogeneo rispetto a quelli del gruppo precedente comprendendo anche pazienti giovani che devono allontanarsi per un certo periodo da casa, o pazienti in crisi che possono utilizzarle come alternativa al ricovero ospedaliero. In ogni caso, anche qui la funzione degli operatori e` assistenziale e di sostegno. c) Comunita` terapeutica. In Europa il concetto di comunita` terapeutica e` senz’altro precedente agli anni Settanta. Fu Maxwell Jones a introdurlo nei primi anni Cinquanta in Gran Bretagna, e il modello fu poi introdotto dopo qualche anno anche in Francia. La comunita` terapeutica, che veniva vista come strumento operativo alternativo al manicomio, si basava sull’idea che, partendo dalla fiducia nelle possibilita` di trasformare la relazione tra pazienti ed ambiente circostante, si poteva assumere come prassi operativa la loro totale partecipazione alla gestione e alle decisioni della comunita`. Attualmente, almeno in Italia, le comunita` terapeutiche sono strutture residenziali che ospitano pazienti quasi esclusivamente giovani e in fase post-critica per lunghi, ma determinati, periodi, in media tre anni, nelle quali si attuano

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

interventi terapeutici complessi e diversificati. Quello comunitario e` un intervento continuativo, polifunzionale, che funge da stimolo costante alla relazionalita` del paziente. Si tratta di una possibilita` degna di interesse per l’alta connotazione terapeutica che la contraddistingue; l’unico problema che sembra limitarne l’uso e` l’alto costo economico.

2.3.2. Strutture non residenziali

Le strutture intermedie non residenziali sono rappresentate dai Centri Diurni e dai Day Hospital. In questa sede ci soffermeremo sui Centri Diurni; per i Day Hospital vedi il capitolo relativo su questo Manuale. Classicamente si sono sempre distinti, e noi intenderemmo mantenere tale distinzione, in Centro Diurno socio-assistenziale e Centro Diurno terapeutico. I Centri Diurni socio-assistenziali accolgono pazienti in fase di cronicizzazione, con possibilita` di recupero fortemente compromesse, che necessitano di assistenza diurna in assenza della quale una ospedalizzazione ripetuta e prolungata sarebbe inevitabile. Trattasi di pazienti che presentano una forte dipendenza e una scarsa autonomia evidenziata su piani diversi: carente cura della propria persona, poverta` di relazioni sociali, deficit cognitivi, comportamentali, sociali, anche di notevole entita`. Con questo tipo di pazienti, per lo piu` di eta` avanzata, si cerca sia un intervento tendente al miglioramento delle condizioni materiali di vita, sia un intervento risocializzante attuato tramite lo svolgimento di attivita` per lo piu` di tipo artigianali e attivita` di gruppo svolte all’esterno (gite, soggiorni, etc.). I Centri Diurni terapeutici si pongono invece un obiettivo piu` difficile ed ambizioso in quanto accolgono soprattutto pazienti giovani, con scarsi o comunque non prevalenti disagi materiali e sociali, con diagnosi varie ma per lo piu` gravi (psicotici), e una relativa assenza di deficit della propria autonomia ed autogestione. Oltre alle normali attivita` svolte, all’interno del Centro si prevedono interventi psicoterapici

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sui pazienti, singolarmente o in gruppo, e sulle famiglie. Inoltre le stesse attivita` vengono viste come mezzo con cui stabilire una relazione significativa tra operatori sanitari e pazienti. Concludendo questa rassegna delle risorse attualmente presenti, vogliamo evidenziare che nell’ambito delle strutture intermedie che si occupano di riabilitazione le uniche nelle quali si parla di terapia, cioe` di prassi tendente ad una trasformazione, sono le Comunita` terapeutiche ed i Centri Diurni terapeutici. Volendo intendere la riabilitazione psichiatrica innanzitutto come prassi terapeutica e mettendo tra parentesi le prime per l’alto costo di gestione e per lo scarso numero di pazienti che di conseguenza possono afferirvi, nel seguito della nostra esposizione faremo riferimento ai Centri Diurni. Uno dei pochi autori che si sofferma sul ruolo terapeutico di un Centro Diurno e` Paterniti. Il Centro Diurno terapeutico «risponde a due diverse necessita` del paziente: da una parte il bisogno di socializzazione e di relazioni umane, dall’altra l’urgenza di un trattamento che recuperi il funzionamento sociale attraverso lo sviluppo delle abilita` e delle competenze compromesse dalla malattia e dal suo lungo decorso. Questi obiettivi sono raggiungibili mediante la creazione di un “clima” e di un “ambiente emotivo” che influisce direttamente sulle disabilita` specifiche di ogni paziente. Infatti, programmi che mirano allo sviluppo delle competenze sociali difficilmente porterebbero a risultati permanenti e generalizzabili se non fossero svolti in un’atmosfera emotiva favorevole». (R. Paterniti, 1994). Di grande interesse appare l’insistenza di questo autore sull’importanza di quello che egli definisce un “clima terapeutico”, che viene indicato come il principale strumento per ottenere dei risultati. Proseguendo nella dissertazione, pero`, l’autore non solo non specifica cosa si debba intendere per “clima terapeutico”, ma le conclusioni a cui giunge sono che la funzione di un Centro Diurno terapeutico consiste «da una parte nel contenimento della regressione del paziente [...] dall’altra nella sperimentazione di ruoli sociali quotidiani in una sorta di metafora della vita che oscilla continuamente tra regressione e funzionamento adulto: questo e` cio` che distingue una

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relazione terapeutica orientata verso il cambiamento da una semplice relazione assistenziale». Tali conclusioni ci lasciano profondamente insoddisfatti specie nel passaggio per cui cio` che poteva far pensare ad una realta` di “atmosfera”, di “clima”, realmente permeata di valenze emotive ed affettive viene successivamente codificato come una fredda sperimentazione di ruoli sociali, una sorta di metafora, di caricatura della vita. Cio` che si fa in un Centro Diurno sarebbe una recita di quanto non si riesce a vivere nella vita reale. Vorremmo pero` conservare questa idea di “clima terapeutico” in quanto sara` proprio a tale clima, o meglio, alle dinamiche interumane che concorrono a formarlo, che faremo riferimento successivamente trattando della prassi terapeutica di uno specifico Centro Diurno attivo a Roma da qualche anno.

2.4. I pazienti della riabilitazione Tenendo presente la differenza delle strutture operanti in riabilitazione, consegue che anche i pazienti che ne usufruiscono sono tra loro molto diversi. Da un lato abbiamo la cosiddetta vecchia lungodegenza, costituita per lo piu` da pazienti anziani in dimissione dagli ospedali psichiatrici in attuale fase di chiusura; la capacita` sociale di questo tipo di utenza e` fortemente ridotta, e variabilmente compromessa e` la capacita` autogestionale e di autonomia. I bisogni primari di questo gruppo di pazienti sono per lo piu` legati alla loro condizione di anzianita` e di disadattamento. L’intervento nei loro confronti e` prioritariamente socio-assistenziale. Con il termine lungo-assistiti, invece, si indicano i pazienti in cura per almeno un anno senza interruzioni superiori ai novanta giorni. Non hanno alle spalle anni di ospedale psichiatrico, ma spesso le loro caratteristiche sono sovrapponibili a quelle del primo gruppo in quanto la patologia psichiatrica si accompagna, e spesso ne viene pesantemente condizionata, ad un grave stato di disagio sociale dove la solitu-

dine, la carenza di supporti sociali ed economici, etc., hanno spesso un’importanza preminente rispetto al processo patologico. Anche per loro, almeno inizialmente, si trattera` di soddisfare e colmare i disagi socio-economici. Abbiamo infine un cospicuo numero di giovani psicotici che hanno iniziato da poco la loro “carriera” all’interno del Dipartimento di Salute Mentale e che non presentano, o presentano solo in misura poco significativa, disagi di tipo materiale e sociale. Conservano uno stato continuo di malattia, anche se alcune volte la manifestano sotto forma di bouffe´es. Generalmente si individua il “bisogno di riabilitazione” valutando il grado di dipendenza che gli utenti hanno rispetto al Servizio: tale dipendenza e` motivata dalle varie disabilita` presenti. In tale modo verrebbe a coincidere il “bisogno di riabilitazione” di un paziente con le sue disabilita`: tanto piu` egli e` disabile, tanto piu` e` legittimato ad essere inserito in una prassi riabilitativa. Questo meccanismo, come e` evidente, porta la riabilitazione ad essere concepita come un contenitore che raccoglie prevalentemente, o comunque in maniera privilegiata, i pazienti con piu` marcati problemi sociali. Non possiamo essere d’accordo con tale impostazione che potrebbe portare a trascurare l’utenza con maggiori possibilita` di recupero. In seguito ci soffermeremo in maniera piu` specifica sul problema dell’invio di pazienti ai centri riabilitativi. Per ora limitiamoci a suggerire che non dovrebbero essere i pazienti gia` cronici e deteriorati il principale riferimento dell’attivita` di queste strutture, ma al contrario dovrebbero essere quei pazienti che si presentano come “a rischio” di cronicita` e di deterioramento. Individuare i pazienti a rischio e inviarli alle attivita` e alla prassi riabilitativa e` un compito primario di un servizio psichiatrico. La valutazione del rischio non dovrebbe riferirsi soltanto alle «caratteristiche della sintomatologia o a specifici aspetti della disabilita`, quanto piuttosto alla qualita` del rapporto che si stabilisce tra questi pazienti e il contesto». (M. Ferrara, G. Germano, G. Archi, 1990).

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

2.5. Teorie e modelli in riabilitazione psichiatrica La riabilitazione psichiatrica puo` essere considerata un insieme eterogeneo di pratiche varie, ludiche, artistiche, ginniche, che spesso non poggiano su alcun modello teorico. In questa nostra breve disamina ci occuperemo pero` solo dei modelli teorici che, preesistendo alla prassi, la incanalano e la guidano.

2.5.1. Il modello psicoeducazionale

Tale modello trae origine dalle ricerche effettuate intorno agli anni Sessanta da Brown e Wing a Londra, ricerche che condussero successivamente alla cosiddetta teoria della Emotivita` Espressa1 (E.E.). Gli autori evidenziarono che i pazienti deistituzionalizzati che tornavano a vivere con le famiglie mostravano una maggiore incidenza di ricadute rispetto a quelli che usufruivano di altre situazioni alloggiative. Ne dedussero che l’assetto emotivo familiare era percio` determinante per il numero e la gravita` delle ricadute: infatti i pazienti con famiglie in cui gli atteggiamenti e le risposte emozionali ai sintomi risultavano espressi in maniera esagerata mostravano un tasso di ricaduta significativamente piu` elevato. Il modello psicoeducazionale nacque pertanto come azione psicoeducativa da rivolgere alle famiglie di pazienti psichiatrici. I padri di questo tipo d’impostazione teorica sono Leff, Waughn, Falloon, Hogarty i quali inseriscono il concetto di vulnerabilita` biologica a stressor di diversa natura (esogena o endogena) considerando cosı` lo schizofrenico come un individuo particolarmente sensibile all’ambiente familiare: l’obiettivo comune di questi autori e` di correggere il clima familiare e favorire il cambiamento della qualita` nelle relazioni del contesto che circonda il paziente psicotico; inoltre si potra` cosı` stabilire una alleanza attraverso la quale sara` possibile anche effettuare una corretta somministrazione della terapia farmacologica. 1 Vedi anche capitolo sulla schizofrenia, paragrafo sulla prognosi.

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Attraverso l’educazione familiare l’obiettivo, secondo gli artefici di questa teoria, dovrebbe condurre ad una riduzione o eliminazione delle ricadute psicotiche. Leff e Vaughn prevedono che l’intervento sulle famiglie avvenga attraverso tre fasi differenti. La prima fase consiste in colloqui condotti con i familiari del paziente al loro domicilio per trasmettere alcune informazioni di base sulla diagnosi, sulla sintomatologia, sull’etiologia, sul decorso e sul trattamento della schizofrenia. Questi primi incontri hanno lo scopo di correggere gli atteggiamenti negativi dei familiari nei riguardi del paziente, far capire loro che il comportamento deviato e` un riflesso della malattia mentale e che non si tratta di un comportamento “dispettoso” o “cattivo”. Infatti l’indifferenza, l’apatia, l’abulia sono sintomi psichiatrici che spesso vengono vissuti dai familiari come risultante di una semplice mancanza di volonta`. La seconda fase prevede l’incontro di piu` famiglie, anche qui senza la presenza dei pazienti, in cui si pongono a confronto famiglie con basso indice di E.E. con famiglie con elevato indice; il fine e` riuscire a trasmettere dalle famiglie a basso indice di E.E. a quelle ad alto indice una modalita` relazionale nei confronti del paziente che sia piu` efficace nel fronteggiare la situazione psicotica. Nella terza fase si invita la famiglia al completo, cioe` si include lo stesso paziente. Le tecniche di intervento qui sono variabili e vanno dalle interpretazioni dinamiche a interventi comportamentisti. Nello stesso momento si invita il paziente alla frequentazione giornaliera del Centro e il servizio sociale si attiva per una sua collocazione lavorativa, anche parziale. Questa serie di attivita` , quindi anche la frequentazione quotidiana del Centro, servono ad attenuare il peso della convivenza intrafamiliare, e quindi a ridurre l’esposizione del paziente ad un clima ad alta espressivita` emozionale. Varie critiche vengono mosse a tale modello. Intanto non sembra sufficientemente dimostrato che il modello psicoeducazionale, che attualmente va sotto il nome di bio-psico-sociale proprio a sottolineare l’impostazione biologica ol-

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tre che psicologica, riesca a prevenire le ricadute psicotiche, tanto che gli stessi autori che lo hanno piu` di altri messo a punto sono costretti a parlare di ricadute dilazionate e non piu` prevenute. Inoltre sembra che le ricadute avvengano proprio in situazioni in cui le si attende di meno, ad esempio quando il paziente frequentando giornalmente il Centro e` meno esposto al clima ad alta espressivita` emozionale ritenuto la principale causa delle possibili ricadute. E ancora, viene posta come principale obiettivo terapeutico la prevenzione delle ricadute senza affrontare affatto il nesso tra ricadute e condizione clinica del paziente. Infatti «in nessuna ricerca di orientamento psicoeducativo si e` previsto di verificare gli eventuali effetti di prevenzione delle disabilita` prodotti dall’evitamento o dal dilazionamento della ricaduta, ma, soprattutto, l’approccio non presenta alcun carattere specificatamente riabilitativo...». (B. Saraceno, 1995). Infine il concetto di vulnerabilita` riconosce la sua causa primaria in una predisposizione biologica e in tal modo e` preclusa ogni risoluzione radicale; ne deriva cosı` un processo riabilitativo rivolto alla “consolazione” dei familiari del malato a cui viene trasmessa l’impossibilita` della guarigione e l’incurabilita` del paziente. Si arriverebbe al paradosso che, per quanto giudicato malato, il paziente non venga trattato. Questo farebbe sı` che tale modello venga considerato da molti, come afferma Saraceno, solo alla stregua di un «pacchetto di istruzioni per l’uso destinato essenzialmente ai familiari degli psicotici».

2.5.2. Social skills training

Liberman, Anthony e Farkas sono i principali esponenti di questo metodo riabilitativo che, partendo dagli Stati Uniti d’America negli anni Ottanta, sta trovando sempre piu` risonanza anche in Europa. Viene definito come: “l’insieme di quei metodi che utilizzano i principi della teoria dell’apprendimento allo scopo di promuovere l’acquisizione, la generalizzazione e

la permanenza delle abilita` necessarie nelle situazioni interpersonali”. (G. Thornicroft, 1992).

Viene presupposta per alcuni individui, su base biologica, una maggiore vulnerabilita` personale che li esporrebbe al rischio di psicosi. Questi individui avrebbero una minore capacita` di coping (fronteggiamento) nei confronti di eventi di vita stressante. Esposti a tali eventi, in ragione della presupposta vulnerabilita` personale, non riuscirebbero a trovare una risposta adeguata, ma svilupperebbero una psicosi. La strategia dell’intervento riabilitativo utilizzera` tre assi: a) potenziamento delle abilita` di coping; b) uso ottimale di farmaci; c) azione nel contesto sociale e familiare. La fase di addestramento alle capacita` sociali (SST), come viene chiamato il vero e proprio lavoro riabilitativo, viene preceduta da una accurata fase di valutazione delle funzioni e delle risorse del paziente, al fine di individuare le aree di maggiore disabilita` e poter quindi indirizzare l’intervento in modo piu` personalizzato. Nei casi piu` gravi si promuoveranno solo quelle azioni tendenti a migliorare i supporti ambientali e sociali, mentre negli altri casi si procedera` all’addestramento vero e proprio. Questo prevede un’azione su diversi comportamenti giudicati particolarmente inadeguati o problematici in corso di psicosi: 1) comportamenti di risposta topografica (volume e tono della voce, contatto visivo, correttezza della postura, ecc.); 2) comportamenti di contenuto (fare affermazioni adeguate e congrue, richiedere maggiori informazioni quando non si e` compreso, ecc.); 3) Problem-Solving Training. A sua volta quest’ultimo prevede un addestramento particolare per consentire di recepire adeguatamente e correttamente gli stimoli, di processarli, di identificare la risposta piu` adeguata, di inviarla. La critica che viene mossa a tale complesso modello riabilitativo e` che un addestramento, per quanto accurato possa essere, non corrisponde mai ad una situazione di vita reale e la conseguenza a cui tali pazienti spesso vanno incontro e` che nella vita quotidiana non riescono mai, o solo

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

raramente, ad applicare con successo quanto, in corso di addestramento, riuscivano a fare. Siamo senz’altro d’accordo con tali critiche. Pensiamo infatti che qualsiasi comportamento si accompagni sempre ad un particolare stato affettivo. Potremmo addirittura pensare che e` proprio lo stato affettivo di un individuo a fare da propulsore o modulatore, soprattutto nelle relazioni interumane, ai cosiddetti “comportamenti”, vale a dire alle azioni. Nella pratica addestrativa dei social skills training gli affetti sono naturalmente simulati e l’individuo si trova a confrontarsi con una azione che non e` stata promossa da un affetto corrispondente. O meglio, il comportamento esibito non mostra ma nasconde il vero stato affettivo sottostante. Se questo e` vero il paziente non potra` che rispondere con un comportamento a sua volta scisso dall’affetto sottostante. Un addestramento tendente ad “insegnare” azioni scisse dall’affetto sara` senz’altro fallimentare nel momento in cui il paziente si andra` a trovare nella vita reale a confrontarsi con comportamenti, propri ed altrui, inscindibilmente uniti agli affetti.

2.5.3. Il modello psico-sociale di Mark Spivak

Il modello, di chiara ispirazione cognitivocomportamentista, presenta dei caratteri di originalita` metodologica e teorica. Spivak innanzitutto individua i fruitori di un trattamento riabilitativo tra gli psicotici cronici: il paziente e` cronico quando egli stesso ha una immagine di se´, derivata dal pessimismo e dall’impotenza che gli operatori comunicano, come di malato immodificabile. Secondo questo autore, lo psicotico avrebbe un deficit nel rapportarsi al sociale che lo porterebbe, visti i continui fallimenti sociali, personali, affettivi, e le frustrazioni conseguenti, ad una condotta di evitamento di quelle situazioni per lui fallimentari. Pertanto compito della riabilitazione psico-sociale e` quello di vincere la cronicita`, cioe` sviluppare quelle situazioni di abilita` sociale e competenze atte a modificare l’immagine di immodificabilita` che il paziente ha di se´. Fin qui il modello di Spivak non sembra diffe-

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renziarsi molto dal modello precedente preso in esame, quello del Social Skills Training. Al contrario di questo, pero`, Spivak sembra assegnare alla relazione interpersonale un ruolo che non veniva rimarcato. Lo strumento deputato alla realizzazione degli obiettivi riabilitativi e` infatti rappresentato dagli effetti risocializzanti impliciti nella interazione operatore-paziente. Le interazioni risocializzanti tra pazienti desocializzati e operatori psichiatrici avvengono attraverso quattro dimensioni: il supporto, la permissivita`, la non conferma delle aspettative devianti, la ricompensa dei comportamenti competenti. a) Tramite il supporto l’operatore psichiatrico, fiducioso nei confronti del paziente, cerca di comprendere il ritiro emotivo tendendo ad accettare la condizione psicotica, tranquillizzando cosı` il paziente nel non porgli richieste a cui non puo` rispondere. b) Al paziente viene inoltre “permesso” di esprimere comportamenti devianti. Si accoglieranno quei comportamenti che in passato avevano provocato frustrazioni da parte della societa`. Tramite questa dimensione quindi si comunica al paziente che i suoi comportamenti non rappresentano un ostacolo ad un rapporto diverso con l’operatore. Come nota lo stesso Spivak, con il supporto e la permissivita` in realta` si mantiene una modalita` interattiva del paziente cosı` come era prima del trattamento, ma senza alcun tentativo di trasformazione che si realizza con le altre due dimensioni interattive. c) Con la “non conferma delle aspettative devianti” gli operatori dovranno smentire il senso di impotenza e di disperazione che il paziente avrebbe sviluppato dopo aver messo in atto un comportamento deviato. d) L’altra componente sollecitante un cambiamento evolutivo, la “ricompensa dei comportamenti socializzanti”, riguarda l’attitudine a ricompensare i comportamenti sviluppati in modo adeguato e congruo, sebbene, come giustamente osserva Saraceno, e` difficile «scoprire che cosa possa costituire una ricompensa per un paziente desocializzato e demotivato». Spivak infine prevede una dimissione per i suoi pazienti e un reinserimento nel tessuto so-

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ciale di appartenenza, indicando pero` la necessita` per i pazienti dimessi di mantenere un minimo di frequentazione al Centro, questo per evitare che le competenze acquisite vadano perdute.

2.5.4. Il modello psico-sociale di Luc Ciompi

Luc Ciompi docente di psichiatria sociale all’Universita` di Berna e` una figura di peculiare interesse nell’ambito della psichiatria europea. Egli e` stato il principale autore di una fondamentale ricerca epidemiologica catamnestica concernente il decorso e l’esito a lungo termine delle psicosi schizofreniche. L’autore ha dimostrato nella sua ricerca catamnestica su 289 pazienti nell’ospedale psichiatrico di Losanna, osservati per 37 anni, che la prognosi della schizofrenia, contrariamente a quanto si pensa, non e` affatto invariabilmente infausta, bensı` favorevole in oltre la meta` dei casi (L. Ciompi, 1980). I fattori che piu` incidono sul decorso della patologia sarebbero determinati dall’ambiente familiare, dalla produzione di sintomatologia negativa come difesa per non ricadere in situazioni stressanti e fallimentari, dalle risposte dell’ambiente terapeutico, dalla situazione socio-economica del territorio, dalle abitudini formatesi dopo due o tre anni di malattia. A seconda della differente combinazione di questi fattori l’evoluzione della schizofrenia e` diversa da soggetto a soggetto. In virtu` di tali studi Ciompi ha dedotto alcuni concetti fondamentali che ha poi posto alla base del suo programma riabilitativo. Lo studioso svizzero presenta un modello evolutivo biologico e psico-sociale secondo cui lo schizofrenico e` un individuo con una elevata vulnerabilita` che si esprime come diminuita capacita` di processare le informazioni in arrivo e conseguente difficolta` di risposta. Questa condizione, che corrisponde alla fase premorbosa, potrebbe crollare allorche´ intervengano condizioni particolarmente stressanti che fanno precipitare l’individuo nell’episodio psicotico acuto. La crisi, per Ciompi, non e` l’inizio di una malattia cronicamente ingravescente ma, e i suoi studi lo dimostrerebbero, un momento della vita

di un individuo che puo` risolversi anche completamente. (L. Ciompi, 1992). L’avvio verso la cronicita` e` per Ciompi determinato dalle risposte negative, personali ma soprattutto sociali, dall’ambiente circostante che vengono stimolate dall’episodio acuto. L’ospedalizzazione prolungata, la sottostimolazione ambientale, determinati patterns interattivi del contenuto familiare, insufficienti risposte delle strutture sanitarie atte a curare il paziente, sarebbero responsabili, secondo Ciompi, della progressiva cronicizzazione. Da cio` si evince come unica possibilita` di lavoro clinico e riabilitativo la valorizzazione e la trasformazione del contesto sociale. Lo studioso svizzero individua due assi su cui il lavoro riabilitativo deve articolarsi: essi sono l’asse-casa e l’asse-lavoro. L’obiettivo riabilitativo completo si raggiunge quando un paziente riesce ad avere un’abitazione non protetta ed un lavoro non protetto. Tra gli aspetti sociali che maggiormente vanno trasformati e valorizzati si trovano le aspettative dei familiari e degli operatori sanitari. Questi sarebbero addirittura piu` significativi, per la modificazione del quadro clinico, delle stesse aspettative del paziente. Piu` di altri modelli quello di Ciompi sembra privilegiare la relazione interumana come mezzo capace di promuovere un cambiamento in quanto la modificazione del paziente avrebbe come condizione necessaria e sufficiente la semplice aspettativa di chi con lui si pone in confronto. Non viene esplicitato pero` come una semplice attesa si possa trasformare in una modificazione di un quadro clinico.

2.5.5. Approccio analitico

Per anni le teorie e il metodo psicoanalitico sono stati considerati del tutto inappropriati per essere utilizzati nella cura degli psicotici. La rigidita` di certe regole, poste come condizioni necessarie per poter svolgere un lavoro analitico, faceva sı` che tale metodo venisse aprioristicamente scartato. La situazione psicotica non consente la libera scelta del contratto terapeutico; il lavoro di cura e` svolto da un’intera e´quipe, si

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

lavora in dimensione gruppale, si contattano e in alcuni casi si vanno a trattare i familiari dei pazienti, si gestiscono le crisi talvolta fino al ricovero coatto. Questi ed altri motivi contrastavano apertamente con un’impostazione classicamente ortodossa dell’approccio analitico. Nonostante cio`, pero`, grazie al lavoro ed alla teoria di Winnicott, di Kohut, di Stern, di Bowlby, e di altri, il corpus teorico analitico si e` andato modificando, permettendo cosı` una sua applicazione anche in campo riabilitativo. La psicosi viene vista come conseguenza di un disturbo precoce nella relazione madre-bambino dove la madre, invece di riconoscere, decodificare e rispondere ai messaggi del figlio, si sostituiva a lui imponendo significati arbitrari. La riabilitazione dovra` essere intesa quindi come una relazione dove al paziente si restituisce un’immagine di terapeuta che riesca a sentire cio` che lui prova. Questa particolare condizione, imprescindibile a detta di molti autori per la salute psichica di un bambino, viene chiamata empatia e secondo l’ottica analitica rappresenta il mezzo principe per la conduzione terapeutica in riabilitazione. Soffermiamoci pertanto brevemente sull’impostazione analitica ed in particolare sul concetto di empatia nel trattamento riabilitativo. L’empatia e` un concetto estrapolato dalla psicologia evolutiva ed indica quel clima di condivisione affettiva tra madre e neonato che, permettendo una comunicazione, anche se preverbale, consente in definitiva uno sviluppo ottimale del bambino. In questo contesto l’empatia coincide con un generico concetto di “prendersi cura”, cioe` favorire, accettare lo sviluppo di quanto ha in se´ implicito una potenzialita` evolutiva. A nostro parere questo concetto non puo` essere ricondotto esattamente invariato in un contesto terapeutico dove la cura assume un significato ben diverso dal prendersi cura. Nel concetto di cura, infatti, c’e` implicita l’idea di trasformazione di quanto viene considerato malato, non avente quindi in se´ una potenzialita` normale di sviluppo. L’empatia ha implicito un concetto di similitudine. Che sia intesa come «possibilita` di aver sperimentato gli stessi eventi» (S. Levy, 1993) o come «un permettere ad una parte di me di diventare il paziente» (R. R. Greenson, 1954), sta

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di fatto comunque che, per usare le parole di Kohut, «l’attendibilita` dell’empatia diminuisce quanto piu` diverso e` l’osservatore dall’osservato» (H. Kohut, 1978). Se tra osservatore ed osservato c’e` una sostanziale similitudine viene meno la spinta, lo stimolo capace di promuovere una crisi evolutiva del paziente. La crisi, da intendersi come inizio di una possibile trasformazione, cioe` come prima possibilita` realmente terapeutica, per innestarsi nell’ambito della relazione di cura, e poter essere cosı` gestita all’interno di quella stessa relazione, necessita che l’altro venga “visto” e quindi vissuto come diverso da se´. Se manca tale diversita` viene perduta la possibilita` di innestare una crisi. ` per tali motivi che l’empatia non puo` essere E considerata da sola come mezzo terapeutico (vedi M. Riggio, 1995).

2.5.6. Approccio relazionale sistemico

Attualmente, in un contesto riabilitativo, viene considerato parte di una strategia multicontestuale, dove si ritiene necessario intervenire nel contesto sociale, quotidiano, familiare del paziente. Dopo una prima fase di euforia, intorno agli anni Settanta, in cui si era creduto possibile usare tali strategie in modo generalizzato e soprattutto come unico modo di intervento, l’approccio relazionale sistemico si e` scontrato con una serie di problemi, legati principalmente al rapporto con il paziente psicotico, che non hanno permesso l’applicazione tout-court di tali strategie in ambito riabilitativo. L’approccio sistemico-relazionale riconosce infatti nel contesto della situazione sociale e familiare un insieme di metacomunicazioni tra i componenti del gruppo (comunicazione paradossa, omeostasi, ecc.) che tendono a promuovere a loro volta risposte patologiche. In quest’ottica si era cercato di calibrare il progetto riabilitativo in base all’omeostasi familiare e alle disfunzioni comunicazionali del sistema, per tentare di cambiarle. Tale progettualita` era ampiamente sostenuta da numerosi studi che dimostravano che erano proprio le aspettative negative e le disconferme nell’ambito della famiglia del paziente il

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fattore prognosticamente meno favorevole per l’evoluzione della malattia. L’approccio relazionale sistemico pretendeva di mutare delle situazioni relazionali, consolidate e soprattutto utili all’interno di un sistema, stando all’esterno, conservando un distacco ed una neutralita` da quanto si cercava di cambiare. ` noto come questo approccio usato in maE niera isolata, con pazienti psicotici, abbia portato a scarsi risultati. A nostro parere, forse, il limite puo` essere rintracciato proprio in questa pretesa di trasformare una relazione esistente agendo con neutralita` dall’esterno, senza essere implicati in una relazione, in un concreto rapporto col paziente. Cio` non toglie comunque che l’approccio sistemico relazionale e` stato, ed e` ancora tutt’oggi, un utilissimo metodo d’indagine e di trattamento delle dinamiche intrafamiliari. Impiegato attualmente insieme ad altre tecniche viene riconosciuto come insostituibile strategia di cambiamento delle relazioni patogene all’interno di una famiglia psicotica.

tamenti socialmente competenti” che ciascun paziente deve sviluppare, sia per interagire nei gruppi, sia nelle altre aree di vita: abitazione, lavoro, famiglia e compagni, cura personale, spazio sociale e ricreativo. Vengono utilizzate le previste dimensione operative: supporto, permissivita` per l’espressione di comportamenti devianti, non conferma delle aspettative devianti, ricompense selettive. Il punto critico sta nella determinazione degli obiettivi della riabilitazione e nell’adeguamento degli obiettivi, nel corso del programma, allorquando il paziente vive gia` o lo si vuole reinserire in famiglia. In tal caso riteniamo necessaria l’integrazione con l’approccio sistemico familiare. Non nel senso che la riabilitazione debba essere preceduta dalla terapia familiare, bensı` nel senso di un preliminare assessment delle dinamiche sistemiche o conflittuali e dell’epistemologia familiare. Cio` consentira` di determinare quali abilita` relative all’area domestica e familiare possano essere sviluppate e quali no, in funzione della specificita` di quel contesto. [...] Talora il lavoro riabilitativo puo` essere affiancato da un parallelo lavoro terapeutico con la famiglia. Nuove competenze familiari, sociali e lavorative potranno essere sviluppate in funzione della riuscita dei reframing sistemici e della neutralizzazione della conflittualita` familiare. (R. Siani, O. Siciliani, 1989).

2.5.7. Strategia integrata multicontestuale

L’approccio strategico multicontestuale e` un tentativo di integrazione tra piu` metodologie che deriva dalla constatazione che nessuna di esse, utilizzata singolarmente, risulta efficace non potendo considerare i vari livelli della condizione psicotica. Partendo da questa constatazione si e` sentita da piu` parti l’esigenza di identificare dei modelli di intervento tra loro compatibili e abbinarli in modo tale da coprire vari livelli: quello individuale, familiare e sociale. Ecco un esempio di come puo` essere messa in atto tale strategia: La struttura di base del nostro programma riabilitativo e` quella prevista da Spivak con “attivita` di gruppo di competenza sociale”, ad esempio gruppo di preparazione the` e sistemazione stanza, gruppo lettura e commento giornali, gruppo cucito e maglia, gruppo espressione corporea, gruppo pittura, etc. svolti presso il C.S.M. Vengono individuati preliminarmente i “compor-

2.6. Psicofarmacologia e riabilitazione Per parlare in modo completo dell’uso della farmacoterapia nelle malattie psichiatriche e nella schizofrenia in particolare avremmo probabilmente bisogno dello spazio di un’intera pubblicazione, tanto l’argomento e` vasto e dibattuto. Non e` nostra intenzione quindi trattare esaustivamente questo tema. Ci soffermeremo solo su pochi punti e, data la notevole quantita` di materiale bibliografico preso in esame, riprenderemo l’argomento alla fine di questo capitolo.

2.6.1. Percentuali di ricadute in corso di trattamento farmacologico

I momenti di riacutizzazione dei sintomi sono spesso situazioni in cui il trattamento riabilitativo viene interrotto, procrastinato, o sicuramente assume un aspetto diverso da quando il paziente e`

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

piu` disposto al rapporto cooperativo e piu` inte` ovvia quindi l’importanza grato socialmente. E che da piu` parti si tende ad assegnare alla stabilita` del quadro clinico per il migliore svolgimento di un programma di riabilitazione. Quanto questa stabilita` puo` essere ottenuta con l’uso dei neurolettici? Da tutti gli psichiatri e` riconosciuta l’utilita`, se non l’indispensabilita`, dell’uso dei neurolettici nel trattamento delle psicosi schizofreniche. Sappiamo che dall’introduzione in commercio del primo neurolettico, il Largactil, nel lontano 1952, farmaco tra l’altro “scoperto” per caso nella serie di studi che la Rhoˆne-Poulenc aveva intrapreso per individuare alcune sostanze con proprieta` antistaminiche, la curva della ospedalizzazione in manicomio dei pazienti psichiatrici crollo` repentinamente. Il controllo delle manifestazioni piu` appariscenti permetteva infatti che i pazienti venissero trattati a domicilio riservando di conseguenza l’ospedalizzazione, peraltro molto piu` costosa, ai casi non-responder, o ai periodi di riacutizzazione della sintomatologia florida. Ma come andava svolta la terapia, a quali dosaggi, con quali modalita`, per quanto tempo, e soprattutto proteggeva realmente dal rischio di ricadute? Lo psichiatra dovette farsi una personale esperienza dell’uso di queste sostanze, per superare l’assoluta ignoranza, in parte ancora esistente, sul loro effettivo meccanismo d’azione. Nell’esperienza clinica di ogni psichiatra e` presente la nozione che il decorso della schizofrenia puo` essere vario e difficilmente categorializzabile; puo` essere continuo o a bouffe´es; queste ultime possono essere distanziate in modo del tutto variabile, possono avere una durata variabile, possono recedere anche senza terapia; i periodi intervallari possono essere completamente liberi da manifestazioni psicotiche o al contrario conservare uno stato “residuale” che va aggravandosi ad ogni crisi, e cosı` via. Esperienza comune e` anche quella che le ricadute non sono sempre legate alla assunzione o alla sospensione della terapia farmacologica. Quante volte ci si rende conto dell’aggravamento sintomatologico del paziente nonostante stia assumendo la terapia prescrittagli ai dosaggi richiesti, o quante volte non si assiste a nessuna

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recrudescenza dopo sospensione, o piu` spesso interruzione autonoma da parte del paziente, della terapia farmacologica? A fronte di queste considerazioni derivate da considerazioni soggettive esistono pero` studi autorevoli che le sconfermerebbero pienamente. Tra gli studi in questione riportiamo solo a titolo di esempio quello di Davis del 1975 e quello di Kissling del 1992. Entrambi riportano le percentuali di ricadute psicotiche in corso di terapia neurolettica e dopo sospensione della terapia. Entrambi trovano che la percentuale di ricadute in seguito alla sospensione della terapia e` significativamente maggiore delle ricadute in corso di terapia. Per Davis c’e` una percentuale del 52% contro il 20%, per Kissling c’e` una percentuale di ricadute del 74% dopo sospensione neurolettica a fronte di un 16% in corso di terapia. Entrambi quindi concludono sulla necessita` di una terapia il piu` possibile costante e prolungata per prevenire le probabili ricadute. Un altro punto che e` stato studiato da molti ricercatori e` stata la percentuale di ricadute in relazione ai dosaggi standard o a bassi dosaggi del neurolettico. I risultati sono estremamente discordanti. Kane in due ricerche da lui effettuate nel 1983 e nel 1986 dimostra che le ricadute dei pazienti trattati con basse dosi per un anno sono del 56%, contro il 7% dei pazienti trattati con dosi standard. Marder nel 1984, utilizzando lo stesso neurolettico con dosi simili per bassi e normali dosaggi, osservando i pazienti per lo stesso periodo di tempo, trova che in quelli trattati con bassi dosaggi la percentuale di ricaduta e` del 44% contro il 20% dei pazienti trattati con dosaggi normali. Lo stesso Marder nel 1987 ripete lo studio utilizzando lo stesso neurolettico con i medesimi dosaggi dello studio precedente, ma raddoppiando il tempo di osservazione, ventiquattro mesi invece che dodici. Con grande sorpresa nota che la percentuale delle ricadute nel gruppo dei pazienti che assumevano bassi dosaggi e` inferiore a quella nel gruppo dei pazienti che assumono dosaggi standard, 22% contro il 30%. Ad un risultato simile arriva Hogarty nel 1988

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osservando anche lui i pazienti per ventiquattro mesi. Inoltre egli specifica che non vi sono differenze sostanziali negli effetti collaterali tra chi assume dosaggi standard di neurolettico e chi assume bassi dosaggi, facendo cadere una, se non la principale, motivazione che faceva in qualche modo propendere per un trattamento con bassi dosaggi2. Alla luce di questi risultati ci sembra di poter concludere che al momento non esiste un dato concordante che mostri che l’uso di neurolettici a basse o normali dosi sia sicuramente in correlazione con le possibili ricadute. Sembra rimanga valido quindi il dato puramente empirico, prima riferito, e cioe` che nel paziente che va incontro ad una ricaduta non e` possibile riconoscerne la causa nel dosaggio inadeguato o nella sospensione del neurolettico. Senza considerare che nei casi in cui il paziente si autosospende il farmaco e va incontro a ricaduta potrebbero essere capovolti i termini della situazione, e cioe` che prima di sospendersi autonomamente i farmaci quell’ipotetico paziente era probabilmente gia` precipitato in una crisi, anche non manifesta sintomatologicamente, che lo ha poi condotto in un secondo momento alla sospensione. In uno studio del 1986 Hogarty ha messo a confronto i diversi modelli integrati di trattamento in relazione al tasso di ricadute. I pazienti che assumevano neurolettici e facevano una terapia familiare avevano un tasso di ricaduta pari al 20%. La stessa percentuale si trovava in pazienti che assumevano farmaci e svolgevano un programma tendente a sviluppare le abilita` sociali. La percentuale di ricadute, invece, tendeva allo zero quando i tre modelli di trattamento, farmacologico, familiare e psicosociale, erano svolti in modo integrato. Da cio` si evince che la migliore prevenzione alle ricadute si dovrebbe attuare non variando

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Un recente studio meta-analitico ha sconfermato pienamente il dato di Hogarty. Bollini e coll. (1994) hanno dimostrato infatti una significativa differenza di incidenza e gravita` di effetti collaterali da neurolettici in pazienti che li assumevano a bassi e moderati dosaggi.

dosi, tempi e qualita` del farmaco, ma integrando eventualmente a questo un trattamento di tipo riabilitativo piu` o meno complesso.

2.6.2. Sintomi negativi e riabilitazione

In assenza di una prevalenza di sintomi floridi psicotici, il quadro clinico di piu` comune osservazione nei pazienti schizofrenici e` rappresentato dall’appiattimento dell’affettivita`, dalla cosiddetta sindrome amotivazionale, dall’apatia, dall’anedonia, da quei sintomi cioe` che vengono denominati negativi e che permangono al di la` delle crisi franche. “I sintomi della schizofrenia storicamente definiti negativi costituiscono i sintomi nucleari e certamente i piu` qualificanti il processo schizofrenico”. (A. C. Altamura, F. Silvetti, 1996).

Il termine negativo compare dopo il 1858, introdotto da Reynolds che lo usa per indicare un processo che, indipendentemente dalla eziopatogenesi, sottrae qualcosa alla persona; un “minus”, quindi, rispetto al normale funzionamento mentale di un individuo. Nel 1911 E. Bleuler distinse due gruppi di sintomi nell’ambito delle sindromi schizofreniche: quelli fondamentali, caratteristici della schizofrenia e quelli accessori, non patognomonici di questa. Nel primo gruppo Bleuler inserı` il disturbo dell’associazione e dell’affettivita`, la tendenza a fantasticare e la tendenza ad isolarsi in modo fantastico (autismo). Con un salto notevole di oltre mezzo secolo, periodo in cui si svolge una evoluzione della psicopatologia, arriviamo all’attuale dibattito sulla schizofrenia. All’inizio degli anni Ottanta la dicotomia positivo-negativo viene affrontata da numerosi autori. Tra i primi ad occuparsene e` Crow che gia` nel 1980 distingue due sindromi schizofreniche che denomina di tipo I e di tipo II. Mentre nella sindrome di tipo I, a suo parere, si riscontravano esclusivamente sintomi positivi, quella di tipo II era caratterizzata dalla marcata predominanza dei sintomi negativi (appiattimento affettivo, poverta` dell’eloquio, mancanza di iniziativa,

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

apatia), e da una scarsa o nulla risposta alla terapia neurolettica. Il modello dicotomico positivo-negativo di questo autore e` stato negli anni successivi rivisto ed ampliato, con l’aggiunta di una terza forma di schizofrenia definita mista, comprendente cioe` nello stesso paziente sintomi positivi e negativi. Allo stato attuale delle conoscenze una dicotomia radicale ed assoluta si puo` considerare superata. Il paradigma piu` credibile appare quello secondo cui le schizofrenie comprendono diversi processi psicopatologici che si possono combinare in modo vario dando luogo a quadri clinici eterogenei. A questo punto vorremmo porre due domande. 1) Cosa dobbiamo intendere per sintomi negativi? C’e` univocita` nei vari autori quando si adotta tale termine? La domanda non sembrerebbe inutile se si tiene in considerazione la difficolta` nella valutazione e nell’interpretazione di tali sintomi. Da qualche tempo sono andate infatti moltiplicandosi le scale valutative per i sintomi negativi. Forse non esiste in tutta la psicopatologia un quadro come quello negativo della schizofrenia, che riconosce un numero altrettanto alto di metodi di valutazione diagnostica: Scale for the assessment of negative symptoms (SANS); Krawiecka-Manchester Scale (KMS); The Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS); Negative Symptoms Rating Scale (NSRS); Lewine-Fogg and Meltzer Scale (LFMS); Schedule for deficit syndrome (SDS); Emotional Blunting Scale (EBS); Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS); Pearlson Scale; Wing Scale; Pogue-Geile and Harrow Scale; The negative symptom assessment (NSA). Un tale accanimento nel ricercare strumenti di valutazione obiettivi che possano indicare con certezza la presenza dei sintomi negativi non puo` che nascondere una difficolta` di cogliere e di definire tali aspetti. De Leon e coll. (1989) hanno svolto un esame comparativo delle varie scale di valutazione dei sintomi negativi e hanno riscontrato, in maniera abbastanza sorprendente, che le uniche due voci che si ripetevano, e quindi venivano condivise in

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tutte le scale, erano l’appiattimento affettivo e la poverta` dell’eloquio. Se prendiamo come esempio l’appiattimento affettivo, notiamo pero` che esso viene definito in modo diverso nei differenti sistemi. Ad esempio Overall e Gorham (1962) definiscono l’ottundimento affettivo come ridotto tono emotivo, riduzione della normale intensita` dei sentimenti, appiattimento. Kay (1991) lo definisce come ridotta capacita` di risposta emotiva caratterizzata dalla riduzione della espressivita` facciale, della modulazione dei sentimenti e della gestualita` comunicativa. Andreasen (1983) lo definisce come caratteristico impoverimento dell’espressivita`, della reattivita` e del vissuto emotivo. Kirkpatrick e coll. (1989) giudicano il restringimento affettivo sulla base della espressivita` facciale, della riduzione della gestualita` espressiva e della diminuzione della intonazione. Pogue-Geile e Harrow (1985) definiscono l’appiattimento affettivo mediante una serie di sei valutazioni altamente specifiche e non deduttive ma obiettivabili (evita di guardare l’interlocutore, voce bassa, riferisce difficolta` ad udire, etc.). Tale ventaglio di definizioni interpretative su uno stesso concetto non puo` non farci porre la domanda del perche´ avvenga. Possiamo ipotizzare che la difficolta` di definire con esattezza e in modo univoco i sintomi negativi possa essere legata alla difficolta` di definire il contrario, vale a dire un normale e sano vissuto relazionale. Le definizioni di affettivita`, di spontaneita`, di piacere nel viversi i rapporti interumani, di volizione, di socialita`, non sono semplici. Forse la difficolta` di definizione riconosce un errore teorico e metodologico. Vale a dire quello di pensare che l’affettivita`, la socialita`, la spontaneita`, etc. siano dei parametri valutabili obiettivamente, come la glicemia, l’azotemia, etc., e non invece come situazioni specificamente inerenti ad una relazione, il che comporterebbe quindi anche la considerazione dell’oggetto verso cui si dovrebbe essere affettivi, sociali, spontanei. 2) La seconda domanda riguarda l’efficacia o meno dei neurolettici nel controllare la sintomatologia negativa. Anche qui i vari studi effettuati sono estremamente discordanti. A fronte di lavori che sembrano attestare l’assoluta inefficacia dei

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neurolettici (E.C. Johnstone, 1978) alcuni ne evidenziano l’utilita` (H.Y. Meltzer, 1986; S.R. Kay, 1989), altri addirittura dimostrano un peggioramento delle condizioni cliniche a seguito dell’impiego di tali farmaci (J.M. Kane, 1986). Ma il pensiero piu` comunemente condiviso e` quello di Bellantuono quando afferma che: Le evidenze disponibili dimostrano che l’efficacia degli antipsicotici tradizionali e` stata ben documentata solo nel controllo dei sintomi positivi o produttivi (tematiche deliranti, fenomeni allucinatori, stati di eccitamento, comportamenti aggressivi, etc.), mentre i vantaggi terapeutici che si possono ottenere nella remissione dei sintomi negativi della schizofrenia (ritiro sociale, impoverimento ideativo, autismo, etc.) sono decisamente scarsi. Cio` evidentemente rappresenta uno dei grossi limiti della terapia con antipsicotici, dato che molto spesso sono proprio i sintomi negativi quelli che caratterizzano una delle possibili evoluzioni dei disturbi schizofrenici (stati difettuali).[...]. (C. Bellantuono, M. Tansella, 1985).

Un discorso a parte meritano i cosiddetti neurolettici atipici da poco introdotti sul mercato. Le case farmaceutiche e gli studi effettuati affermano che queste nuove molecole agirebbero anche sui sintomi negativi e sui sintomi affettivi e quindi sarebbero farmaci di scelta per la terapia della schizofrenia. Sarebbero molecole attivanti, sbloccanti un comportamento apatico, ma studi recenti osservano che tali risultati sarebbero da attribuire alla ridotta incidenza degli effetti extrapiramidali e all’assenza di effetto depressogeno e quindi non ad un miglioramento clinico della malattia. Inoltre, agendo sulla psicomotricita` potrebbero essere i responsabili di nuovi quadri clinici: pazienti che si sentono agitati, che dimostrano una iperattivita` che non corrisponde al loro vissuto psichico, insonnia, eccitabilita`. Si puo` dire che questi farmaci atipici per affinita` recettoriali diverse cambiano solo il quadro clinico della malattia, rendono uno psicotico piu` veloce nel muoversi, piu` reattivo alle sollecitazioni fisiche esterne, ma non fanno comparire l’interesse per la realta` umana, non fanno nascere un’armonia nel movimento.

In conclusione si puo` affermare che a tutt’oggi non esiste un trattamento riconosciuto come assolutamente efficace per i sintomi negativi e nessuno di quelli disponibili per i sintomi deficitari o difettuali (Moeller, 1993). (A.C. Altamura, 1996).

2.6.3. Danni cerebrali irreversibili da neurolettici

Oltre le reazioni avverse ai neurolettici, ben conosciute, esistono in letteratura pochi studi che riportano le gravi conseguenze a seguito dell’assunzione cronica degli stessi a carico del SNC. ` univocamente riconosciuto che il trattaE mento con farmaci neurolettici frequentemente provoca una malattia neurologica irreversibile: la discinesia tardiva. Questa temibile “complicanza” piu` comunemente si sviluppa dai sei mesi ai due anni dall’inizio della terapia neurolettica. Spesso inizia con movimenti involontari della lingua (arrotolamento), delle labbra, della bocca (smorfie), della guance, ma puo` iniziare con qualsiasi gruppo muscolare comportando spasmi, contorsioni, tic, tremori. Si possono osservare diversi gradi di atetosi lenta (movimenti di torsione) e posture distoniche sostenute che possono essere inabilitanti, in particolare nei soggetti giovani. Possono essere coinvolti tutti i distretti muscolari con la compromissione della funzione fonatoria, della glutizione e della respirazione. Se la discinesia tardiva viene riconosciuta, seppur con qualche difficolta` da parte di alcuni, come effetto iatrogeno, ancora piu` scarsi sono i riferimenti in letteratura per quanto riguarda la demenza tardiva che e` certo l’effetto piu` devastante provocato da questi farmaci. Eppure una gran mole di lavori effettuati in vivo con tecniche di neuroimaging cerebrale (TC e RMN) su pazienti schizofrenici (trattati con neurolettici da diversi anni) hanno dimostrato un allargamento dei ventricoli cerebrali con assottigliamento della corteccia cerebrale, segno evidente di atrofia. P. R. Breggin nel 1990 (vedi bibliografia), in una revisione della letteratura scientifica, ha proposto l’evidenza di danni strutturali a carico del cervello dopo l’utilizzo di neurolettici per diversi anni. A supporto di questa ipotesi questo psichiatra ha messo in evidenza come molti autori, in studi diversi, facevano riferimento alla relazione

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

esistente tra la discinesia tardiva, indotta dai neurolettici, e la perdita irreversibile delle funzioni mentali superiori, ovverosia i segni di demenza. La spiegazione del collegamento tra questi due eventi sta nel fatto che i gangli della base, i quali sono coinvolti nella patogenesi della discinesia tardiva, hanno un gran numero di interconnessioni con i centri cerebrali superiori e questo spiegherebbe come la loro disfunzione quasi inevitabilmente porti a disturbi dei processi cognitivi funzionali. Breggin inoltre dedica un intero paragrafo di questo lavoro a smentire l’impostazione della cosiddetta psichiatria biologica secondo la quale le alterazioni organiche cerebrali sarebbero determinate dalla schizofrenia stessa. Egli osserva come prima dell’avvento dei neurolettici non era emerso alcun dato neuropatologico in oltre cento anni di studi in autopsie effettuate su pazienti diagnosticati come schizofrenici. D’altro canto, anche un autorevole psichiatra come T. Lidz (Breggin, 1990), in merito all’ipotesi che pazienti schizofrenici presentino deficit neurologici, dilatazione ventricolare, e quindi segni di demenza, cosı` si esprime: «Se il paziente soffre di demenza, la diagnosi non e` di schizofrenia», come a sottolineare che l’evoluzione naturale della schizofrenia non comporta alcuna lesione organica a carico del cervello.

3. Teoria e prassi per una riabilitazione psichiatrica Dopo il breve excursus nel complesso problema della riabilitazione psichiatrica per definirne gli ambiti ed i limiti, proponiamo ora un modello di prassi che coerentemente con quanto proposto nel Manuale rappresenta un intervento terapeutico per le psicosi che non sia assistenziale, ma realmente trasformativo. Prima di procedere, e` necessaria una precisazione rispetto al concetto di crisi, che non e` semplicemente di ordine semantico. Nelle precedenti pagine, infatti, seguendo l’impostazione e la terminologia usata dalla maggior parte degli psichiatri, abbiamo utilizzato il termine crisi per indicare situazioni psicopatologiche, quindi in una acce-

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zione negativa: la crisi quindi rappresenta l’evidenziarsi della patologia. Ma in precedenti capitoli e soprattutto nel lavoro «Modello complementare dello sviluppo psichico» (vedi Cap. 8) e` stato proposto il termine crisi con un significato opposto: come momento di evoluzione e di crescita. Nel 1971 N. Lalli ha sostenuto l’importanza della crisi anche a proposito del primo colloquio psichiatrico (vedi bibliografia) sottolineando che etimologicamente crisi significa scegliere. Infatti nel primo colloquio, quando il paziente propone con i sintomi una domanda di cura, se questa domanda viene chiarita ed il terapeuta e` in grado di rispondere, si pone in essere per il paziente una possibilita` di scelta verso una futura trasformazione. Successivamente il concetto di crisi e` stato riproposto come momento necessario ed inevitabile delle diverse fasi di sviluppo e la psicopatologia invece proprio come incapacita` di scegliere un nuovo assetto psicologico allorche´ fattori biologici e psichici rendono la fase attuale anacronistica (vedi Cap. 8). In questa ottica quindi la crisi non solo non equivale a patologia, ma al contrario proprio il non superare la crisi, come passaggio alla fase evolutiva successiva, costituisce la patologia. Ma allora come mai uno stesso termine puo` essere utilizzato con due significati non solo diversi, ma antitetici? Pura coincidenza? Il motivo esiste ed e` complesso: la confusione nasce dal fatto che la crisi emerge dall’incontro e dal confronto con il nuovo, e dalle conseguenti modalita` di reazione: quindi, in ultima analisi, la crisi riguarda la trasformazione. Certamente, allorche´ nello psicotico esplode una sintomatologia acuta e conclamata, il paziente si trasforma o perlomeno e` visibilmente trasformato. Ma anche il bambino che cresce o l’uomo che si realizza vanno incontro ad una trasformazione. Questa dinamica dell’incontro con il nuovo e delle relative trasformazioni e` stata applicata sempre da N. Lalli anche ad eventi storici, come nel lavoro del 1989 L’incontro con il nuovo: angoscia, conoscenza e resistenza (vedi bibliografia). Ove dimostra, sulla base di eventi storici accertati, che il diverso comportamento rispetto al nuovo, inteso come non conosciuto e non esperito, determina

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due destini diversi. Mentre Montezuma si angoscia di fronte al nuovo e annullandolo cerca inutilmente nel passato una impossibile risposta che lo portera` alla sconfitta, Corte´s invece accettera` la sfida e guardando in avanti cerchera` non solo di comprendere, ma anche di dominare una situazione che gli era tanto sconosciuta da denominare quel mondo come Nuovo Mondo. Ma ritornando dal contesto storico al nostro contesto clinico, riteniamo che sia necessario approfondire il concetto di crisi: e lo faremo partendo questa volta da una situazione molto specifica. L’incontro dello psicotico con una situazione completamente nuova e diversa: cioe` con un terapeuta che sia in grado non solo di comprenderlo, ma soprattutto di affrontarne le sue dimensioni negative. Evidente che questo incontro e` possibile solo all’interno di una dinamica psicoterapica. “Come fa il terapeuta a proporre la sua immagine inconscia nella sua attivita` di interpretazione che e` in prevalenza un rendere cosciente l’inconscio? [...] Il tono della voce, le espressioni verbali, le pause, le forme del racconto esprimono, forse al di la` del contenuto di affetto e di conoscenza dell’interpretazione, una rappresentazione, un’immagine con un certo movimento [...]”. (G. De Simone, 1992).

Il terapeuta propone l’interpretazione. Attraverso questa viene veicolata la sua immagine interna, cio` che egli e`. E il paziente tentera` di annullare, di “non vedere”, di rendere non esistente, di paralizzare, di trasformare l’immagine dell’altro intuita come diversa da se´. C’e` da pensare, quindi, che la crisi del paziente sia legata alla riproposizione dell’immagine del terapeuta che non si lascia annullare, paralizzare, trasformare. Vediamo ora quanto sia possibile riportare i concetti in un ambito completamente diverso da quello psicoterapico classico e cioe` in quello della riabilitazione psichiatrica. Nell’articolazione del nostro discorso sulla dialettica tra i partner del rapporto analitico, l’analista e il paziente, diamo per scontate due cir-

costanze che dovrebbero concorrere contemporaneamente perche´ tale dialettica sia possibile: a) l’immagine interna, inconscia, del terapeuta, che viene espressa innanzitutto nella forma del suo linguaggio e del suo movimento, necessariamente diversa da quella del paziente. In altre parole una attivita` di rapporto sostenuta in gran parte da una relazionalita` inconscia non malata; b) la percezione da parte del paziente, in modo magari del tutto inconsapevole, di questa immagine latente del terapeuta. Ipotizziamo che sia questo lo stimolo che fa scattare una reazione violenta tendente ad annullare o negare quanto intravisto; il contrastare tale attivita` violenta farebbe il rapporto psicoterapico. Ma a questo punto dobbiamo chiederci se la possibilita` di intuire o percepire l’immagine latente, invisibile — che non viene espressa apertamente e quindi non e` coglibile retinicamente — sia sempre presente. Tutti gli esseri umani reagiscono con i propri affetti a quanto viene proposto dall’esterno, e specificatamente all’immagine interna dell’altro? Da questo punto di vista, gli psicotici si differenziano dagli altri? Cercheremo di rispondere a queste domande, e iniziamo a farlo occupandoci proprio di quest’ultimo punto.

3.1. Intuizione, percezione e affettivita` Il confronto con quanto viene percepitointuito all’esterno come diverso da se´ conduce a forme di relazione che, per quanto complesse ed articolate, si possono schematicamente riassumere in tale modo. a) Intuizione e desiderio. Utilizziamo il termine intuizione perche´ a nostro parere ha un significato psichico piu` evoluto della semplice percezione, riferendosi ad una immagine psichica non direttamente visibile, quindi non direttamente percepibile, ma che deve essere colta con un atto, per l’appunto, intuitivo. Per intuire il significato, l’immagine interna di colui che si propone in un rapporto, occorre pero` che nella nostra realta` psichica ci sia una imma-

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

gine in qualche modo “simile”, che ci permetta di intuire quanto e` all’interno dell’altro3. Si stabilisce cosı` quella particolare situazione in cui l’altro viene sentito come diverso, ma nello stesso tempo simile a noi. Intuire la diversita` dell’altro ed accettarla si accompagna al desiderio di “prendere per se´” le qualita` intuite. Potremmo dire che per desiderare le qualita` intuite come diverse occorre una nostra prima immagine di sanita` che ci permetta di “vederle”. b) Intuizione e negazione della nuova immagine. In questo secondo caso si intuisce l’immagine esterna ma sono scarse le capacita` di rapporto del soggetto. La diversita` e` sentita come incolmabile. L’oggetto di rapporto e` vissuto come inavvicinabile, freddo, distaccato. La realizzazione affettiva e` di odio. L’istinto di morte non arriva ad annullare completamente l’altro ma il rapporto e` sentito difficile, o — quando l’odio e` completamente trasformato nella dinamica inconscia, la negazione — come inutile. Va sottolineato che, anche qui, il soggetto ha una propria immagine interna che gli permette di intuire quanto e` proposto in modo latente all’esterno. c) Percezione ed annullamento contro la nuova immagine. In questo caso il soggetto non ha, per averla perduta o estremamente impoverita in precedenza, una immagine concordante con quanto viene proposto. Non puo` quindi intuire. Quanto viene percepito appare totalmente nuovo e sconosciuto. Le qualita` dell’altro, la sua immagine interna, la sua sanita` psichica, vengono intraviste e percepite vagamente. Non si puo` dare una immagine a quanto percepito perche´ manca il ve-

3 Quando si va a indicare l’empatia come l’unico mezzo con cui si riuscirebbe a mettersi in relazione col paziente, presupponendo una similitudine tra quest’ultimo e il terapeuta, si potrebbe pensare che si faccia riferimento proprio a questo discorso. Ma ovviamente il paziente non puo` avere una immagine della nascita cosı` conservata che gli permetta di intuire validamente la realta` psichica dell’altro, mentre, almeno si suppone, il terapeuta sı`. Ne deriva che in psicoterapia, almeno inizialmente, non e` possibile un rapporto empatico.

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dere corrispondente. Si percepisce solo qualcosa di diverso da quanto si sapeva dover esistere. L’affetto vissuto allora non e` odio, non e` ` una sensazione di malessere interno, di rabbia. E agitazione, di instabilita`, di confusione, di stordimento, di perplessita`. La fantasia di sparizione4 si dirige verso quanto viene sentito come completamente diverso da noi, cioe` verso quanto viene considerato non umano, annullando cosı` lo stimolo generatore di crisi. L’annullamento dello stimolo porta immediatamente alla perdita degli affetti, e il soggetto potrebbe apparire ora piu` calmo, tranquillo, rilas` solo la vaghezza dello sguardo, o quella sato. E tranquillita` esagerata che non e` una vera calma, o quei lineamenti del viso sempre fissi, immobili, che ci fanno intuire che la risoluzione della crisi e` avvenuta nell’indifferenza. Vorremmo comunque sottolineare che in tutte e tre queste situazioni di rapporto e` presente una crisi, anche se ovviamente la risoluzione della crisi nei tre casi esposti e` diversa. L’intuizione o la percezione di qualcosa di diverso c’e` in tutti e tre i casi. L’immagine diversa viene in qualche modo intravista e determina reazioni che ovviamente sono diverse a seconda dello stato psichico attuale del soggetto che si mette in relazione con l’immagine nuova. Se ne deduce che dobbiamo necessariamente legare il concetto di crisi alla percezione o intuizione di una immagine nuova e al movimento affettivo che tale percezione o intuizione comporta. La crisi e` quindi una reazione ad una immagine diversa da se´ che comporta un movimento che potra` essere o evolutivo, o regressivo, a seconda della propria realta` psichica. Cosa dovremmo pensare, a questo punto, di chi, rispetto alla proposizione di una immagine nuova, non va incontro a nessuna crisi, a nessun movimento? Evidentemente dobbiamo pensare che esiste la possibilita` di:

4 Per i concetti di fantasia di sparizione, immagine interna, immagine della nascita, pulsione di annullamento, cfr. Fagioli M. (1972), Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Ro8 mane, 1996 .

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d) Non percepire nessuna immagine nuova all’esterno di se´. In questo caso la pulsione di annullamento non viene indirizzata contro quanto percepito come diverso da se´ per il semplice fatto che non viene percepita nessuna diversita`. Si potrebbe quindi ipotizzare che in questo caso il soggetto abbia fatto sparire anche la sola possibilita` che potessero esistere esseri umani diversi da se´. In questa situazione il nuovo non e` mai nuovo, ha sempre qualcosa di gia` noto e familiare. All’immagine nuova vengono attribuite qualita` e caratteristiche gia` note. Gli affetti possono essere conservati ma ovviamente sono diretti verso l’immagine “pensata”, vale a dire il rapporto che si stabilisce e` con quell’immagine attribuita in modo arbitrario al nostro oggetto di rapporto. ` malattia perche´ in questa attribuzione arbiE traria di significato c’e` latente l’annullamento dell’immagine reale di chi ci sta di fronte. ` malattia perche´ tale annullamento dell’imE magine psichica altrui “chiede” che l’altro si metta in relazione con il soggetto con quella immagine non propria che gli viene attribuita. “Chiede” quindi che l’oggetto di rapporto perda, annulli a sua volta la propria personale immagine psichica. ` malattia quindi perche´ e` presente una tenE denza, del tutto distruttiva, a far sı` che l’altro rinunci alla propria immagine reale, in altre parole che si ammali.

3.2. La crisi nello psicotico Il paziente arriva dallo psichiatra con una o piu` crisi alle spalle che lo avevano portato, in genere, all’ospedalizzazione. Di solito e` tranquillo, sembra a suo agio, svolge i compiti che gli sono richiesti, e` puntuale nel venire al Centro. Ma al di la` di queste confortanti caratteristiche viene a volte il sospetto che egli sia completamente anaffettivo. Spento nel sentire. Sembra attento e assorto in quello che fa. Ma un movimento particolare, una frase incongrua, un sorriso leggermente fatuo, ci fanno intuire la completa

assenza degli affetti relativi al rapporto che in quel momento vive. Quel paziente psicotico ha gia` attuato una fantasia di sparizione contro una generica possibilita` dell’esistenza di esseri umani diversi da se´. Ha gia` annullato il mondo nel suo significato piu` profondo. Le relazioni per lui sono diventate tutte uguali, tutte gia` note, perche´ tutte prive di significato. Diverse solo nella forma esterna, in realta` simili e gia` conosciute nel loro significato profondo. La perdita — o il grave impoverimento della propria realta` psichica non cosciente5 — fa sı` che lui non possa intuire o percepire quanto viene proposto in modo invisibile dall’altro. Probabilmente e` l’attribuzione arbitraria di significato alle relazioni vissute nei confronti dello psichiatra e della istituzione che fa sı` che il paziente, almeno all’inizio, non vada incontro a crisi. Non si tratta di rapporti nuovi, non sono immagini diverse da quelle con cui egli e` stato in relazione fino a quel momento. Forse il paziente ha annullato una volta per tutte la possibilita` che gli esseri umani siano diversi da come lui pensa che debbano essere. La pulsione di annullamento non ha immagini; gli affetti di rapporto sono relativi all’immagine nota attribuita arbitrariamente. Il paziente non va in crisi. E non va in crisi perche´ paradossalmente non ha scissione. Quanto percepito al proprio interno corrisponde a quanto vissuto nel rapporto. In buonissima fede egli puo` credere di amare il terapeuta; ma e` semplicemente perche´ il terapeuta, nel suo essere, e` completamente annullato. Ma se il terapeuta e` tale e quindi si propone nella sua identita` succede quasi sempre, piu` o meno inaspettatamente, che a poco a poco cominci ad emergere la crisi. Il paziente inizia ad essere meno puntuale, e` piu` irascibile, svaluta le attivita`, comincia a fare richiesta di aumento di terapia farmacologica, i genitori telefonano allo psichiatra riferendo che il paziente a casa non e` piu` quello di prima. Qualcosa sta succedendo. L’annullamento completo, con la certezza onnipotente

5 Cfr. il dibattito “Terapia integrata delle psicosi”, Il sogno della farfalla, Vol. 6, n. 1, 1997.

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

della mancanza di esseri umani diversi da se´, sta entrando in crisi. Dobbiamo evidentemente pensare che il paziente ha percepito qualcosa che prima non veniva affatto percepito. Una immagine, un movimento, un significato. Non sappiamo. Non sappiamo se ad essere colta e` la costanza di rapporto, l’interesse degli operatori, l’intenzionalita` terapeutica, la resistenza a non fallire, a non farsi “trasformare in tecnici”. Possiamo solo orientarci a pensare che in quel momento qualcosa che prima sembrava o era considerato inesistente, diventa all’improvviso esistente. Ed immediatamente lo stato affettivo, stimolato dalla immagine percepita, inizia a muoversi. Possiamo tentare di raffigurarci, senza alcuna certezza, cosa puo` provare in quel momento il paziente che coglie qualcosa che era stato precedentemente annullato. Lo stupore per la presenza di cio` che non doveva esistere si accompagna al terrore di doversi confrontare con quanto resta al di fuori della sua stessa capacita` di immaginare. La mancanza di capacita` intuitive, per impoverimento psichico, fa sı` che si determini da parte del paziente solo un vago percepire. La presenza di un nuovo viene spesso pensata come presenza di qualcosa di non umano poiche´ non trova all’interno di chi vi si pone in rapporto una immagine corrispondente. ` a quel punto che la crisi si fa visibile. E L’affetto ritrovato e` il terrore, e il paziente ritrova quel movimento che sembrava non dovesse piu` avere. L’affetto ritrovato si compone in un movimento che ha solo uno scopo: allontanare nuovamente l’oggetto percepito, annullare nuovamente lo stimolo che ha generato la crisi, riportare tutto a quella tranquillita` precedente dove le uniche immagini percepite erano quelle retiniche e coscienti. L’attivita` di rapporto violenta con cui lo psicotico tenta di annullare quanto percepisce diventa crisi quando la riproposizione di cio` che era stato annullato riesce ad incrinare l’annullamento stesso. Di fronte al movimento che disegna comunque una immagine di una attivita` di rapporto malata, possiamo finalmente intervenire. Possiamo anche non sapere, almeno all’inizio, cosa ha provocato la crisi. Ma, se la crisi si e` generata

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nell’ambito di un rapporto, e` pensabile che, variando le caratteristiche del rapporto stesso, essa possa venire modulata. E la prima cosa che potra` esser variata sara` la distanza reale ed affettiva. Tenteremo di fare prendere, o di accettare se e` gia` stata presa, una maggiore distanza, una minore disponibilita` , senza comunque arrivare mai a quella frattura del rapporto che si configurerebbe come nuovo annullamento dello stimolo percepito. Tenteremo di fare accettare gradualmente al paziente quanto lui aveva dato per inesistente e che invece, assolutamente presente, era stato finalmente colto. E sara` in genere lo stesso paziente, con la parziale risoluzione del momento critico, ad indicarci quanto potevamo supporre ma non conoscere, ovverosia la causa della crisi. La sua comunicazione in tal senso apre la strada a quanto Kohut indicava come secondo momento terapeutico in un rapporto con pazienti difficili: lo spiegare. Puo` iniziare allora l’attivita` interpretativa del terapeuta che, svolta in un setting individuale o di gruppo, potra` finalmente portare all’accettazione di quanto aveva messo in crisi la struttura anaffettiva del paziente.

3.3. La formazione del personale ` ovvio, da quanto appena detto, che gli opeE ratori coinvolti nel trattamento riabilitativo non possano proporre modalita` relazionali malate. Se cio` avvenisse, non farebbero che ripetere naturalmente i cosiddetti “giochi psicotici” familiari. La cosa che piu` ci interessa sottolineare e` che a non essere malati non possono essere solo il piano comportamentale e la coscienza. Quasi sempre, infatti, i familiari dei pazienti non sono affatto malati nel comportamento o nella coscienza, eppure ugualmente riescono a stabilire un “clima psicotico”. Allora c’e` da considerare che per poter stabilire delle relazioni non psicotiche, un “clima terapeutico”, come si e` detto all’inizio, occorre una sanita` intesa come modalita` non cosciente, istintiva, pre-razionale, potremmo dire inconscia, di mettersi in relazione.

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In particolare la resistenza alla pulsione di annullamento non puo` essere valutata; si tratta di un’opposizione istintiva e spesso inconsapevole a qualcosa che non si coglie, per cosı` dire, per immagini: l’annullamento non ha immagini con cui essere colto. Esso puo` essere al piu` dedotto. Ogni movimento, ogni gesto, ogni parola veicola l’immagine psichica, invisibile di chi si muo` l’immagine che ci racconta gli affetti ve o parla. E di cui e` composta. La mancanza o la carenza di una immagine interiore da` luogo ad un movimento che risulta non armonico in maniera particolare, un movimento manierato. Forse e` la fenomenologia che puo` aiutare l’operatore a cogliere una realta` di assenza di immagine interiore. Questo implica, da parte degli operatori coinvolti nel trattamento riabilitativo, una elaborazione continua dei vissuti in relazione ai pazienti. Gli affetti, anche violenti, che potrebbero nascere dalla relazione con pazienti psicotici, dovrebbero essere continuamente elaborati, accettati, conosciuti e trasformati. Sarebbe buona norma quindi che ogni Centro Diurno dedicasse una buona parte della propria programmazione settimanale alla discussione dei pazienti e all’analisi del rapporto vissuto con loro.

4. Il Centro Diurno: la teoria diventa prassi Quanto proposto in precedenza circa la crisi come dimensione terapeutica e` una prassi che si e` sviluppata sulla base di una teoria ben precisa (quella di M. Fagioli, vedi bibliografia) presso il Centro Diurno che, avviato nel 1995, continua ad essere un’esperienza pilota nella difficile realta` della riabilitazione psichiatrica. Aver posto degli obiettivi terapeutici e non semplicemente assistenziali, aver specificato una teoria di riferimento continuamente interagente con la prassi, aver dichiarato come imprescindibile la formazione personale, profonda, psichica, degli operatori coinvolti, avere indicato la psicoterapia come strumento principe per la cura dei malati, fa sı` che questo Centro si ponga come fenomeno avanzato, nettamente differenziato da altre strutture simili, nella ricerca e nella cura delle malattie psichiatriche gravi.

Occupiamoci ora, seppur brevemente, di come in concreto si articolano i vari momenti terapeutici all’interno del Centro.

4.1.1. La psicoterapia di gruppo (gruppo pazienti) I pazienti che afferiscono al Centro Diurno, e che lo frequentano stabilmente sono, a tutt’oggi, 45. Alla psicoterapia di gruppo partecipano circa in 15. La selezione avviene spontaneamente e non e` guidata da criteri diagnostici o di gravita` sintomatologica e` piuttosto determinata dalla disponibilita` ed accettazione del singolo paziente dalla dialettica che si svolge nel gruppo. L’eta` media e` fra i 30 anni e i 35 anni. La psicoterapia di gruppo ha una frequenza monosettimanale; la sua durata, inizialmente di un’ora, si e` estesa, su decisione dei terapeuti, a due ore. Si effettua una pausa estiva di circa sei settimane e una pausa a Natale di due settimane. Le eventuali sedute che cadono in un giorno festivo non vengono di norma recuperate. I terapeuti conduttori del gruppo sono tre ma e` sempre uno il conduttore principale. Nell’eventualita` che il conduttore principale si trovi a non essere presente nel giorno stabilito per la seduta di gruppo, questa viene tenuta ugualmente, e viene condotta dagli altri due psichiatri co-conduttori. La disposizione materiale e` quella di un cerchio e i terapeuti sono seduti nello stesso cerchio dei pazienti. La tendenza dei pazienti, anche se ovviamente nessuno indica quale posto prendere, e` comunque quella di occupare sempre lo stesso. Ad ogni seduta parlano circa la meta` dei partecipanti, alcuni su invito del terapeuta, altri spontaneamente. Si e` potuto notare che i contenuti di quanto espresso si sono nel tempo modificati. Si e` passati infatti da comunicazioni prettamente personali ed individuali, su piccoli fatti personali, su riferire di terzi assenti, etc., ad una comunicazione pur personale ma senz’altro piu` “sociale” in quanto riguardante la propria modalita` di relazione inter-

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

` frequente che i pazienti raccontino personale. E dei sogni che vengono interpretati come rappresentazioni di come il paziente si rapporta ad una realta` esterna per lui comunque significativa. Pur sapendo che cardine di ogni psicoterapia e` l’interpretazione del transfert negativo, questo viene pero` interpretato dosando di volta in volta la frustrazione-interesse con cui il paziente viene investito considerando quindi la sua possibilita` di elaborazione, il particolare momento storico, la gravita` del transfert negativo, l’incidenza che questo ha sugli altri componenti del gruppo, e si cerca d’integrare tale frustrazione, quando e` possibile, con l’evidenziazione del transfert positivo, sostenendo quindi le parti sane, piu` integre o comunque meno dissociate del paziente. Per quanto possibile si cerca di condurre l’interpretazione verso piani psichici profondi fino ad interpretare situazioni agite inconsapevolmente ma che comunque posseggono un fine ed una logica precisa in quanto rivolte a situazioni-stimolo che il paziente, inconsciamente, riconosce ed aggredisce. Per fare questo non si utilizzano esclusivamente i sogni, ma si interpretano tutte quelle situazioni comportamentali e verbali che in un qualsiasi setting psicoterapeutico possono essere considerate contenenti un significato piu` pro` in quest’ottica che vengono presi in fondo. E considerazione eventuali ritardi, assenze, distrazioni, interventi incoerenti rispetto a quanto si andava dicendo e cosı` via. In altre parole, utilizzando una teoria ed una metodologia specifica, si ricerca, ci si confronta, si cerca di far accettare al paziente una sua realta` psichica non cosciente continuamente reattiva all’ambiente e alle figure significative esterne, e che, seppur non avvertita coscientemente, e` comunque presente e interagente con la sua coscienza e il suo comportamento. La visione, il nominare una realta` psichica non cosciente si pone come frustrazione categorica a quanto non poteva essere ne´ visto, ne´ nominato. La realta` psichica non cosciente cessa cosı` di essere un mostro da dover controllare o annullare e diventa una realta` umana malata da dover curare.

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4.1.2. La psicoterapia di gruppo (gruppo familiari) Il gruppo famiglie e` costituito per lo piu` dai genitori dei pazienti. Generalmente alle sedute partecipa sempre lo stesso genitore, che nella dinamica intrafamiliare e` spesso la figura piu` coerente ed affettiva. In media vengono una decina di genitori e gli incontri si svolgono quindicinalmente. I conduttori terapeuti sono due, ed ambedue sono operatori che seguono in altre attivita` i pazienti del Centro e che quindi sono profondamente a conoscenza della situazione clinica di ogni singolo paziente. La decisione di costituire il gruppo di psicoterapia di sostegno per le famiglie dei pazienti in cura presso il Centro e` nata da alcune considerazioni. In una situazione terapeutica come quella di un Centro Diurno dove i pazienti si trovano ad essere lontani dall’ambiente familiare per piu` giorni a settimana, e dove si vanno comunque a stabilire dei rapporti significativi, questo avrebbe potuto creare all’interno di famiglie, presumibilmente psicotiche, un elemento di crisi e di destabilizzazione che con il tempo avrebbe potuto essere un fattore d’impedimento al lavoro svolto. Inoltre i parenti dei pazienti messi in crisi dal nuovo rapporto che si andava creando tra il proprio figlio e il Centro si sarebbero potuti muovere per attaccare e svalutare o il Centro stesso e i terapeuti coinvolti nella cura del paziente, o lo stesso paziente cercando di mettere in crisi la sua partecipazione alle attivita`. Altra considerazione, infine, che ha reso necessaria ed opportuna la costituzione del gruppo familiare, e` stata la richiesta da parte di alcuni familiari di voler realmente capire, comprendere, la situazione del figlio e le dinamiche intrafamiliari. La differenza con il gruppo di psicoterapia dei pazienti risiede soprattutto nel fatto che nel gruppo famiglie non c’e` mai l’interpretazione del transfert negativo. Il lavoro e` svolto principalmente su due piani: da una parte si parla e si porta a fare accettare ai familiari l’importanza del lavoro svolto al Centro Diurno e il tentativo tera-

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peutico che si sta effettuando, dall’altra si parla delle dinamiche che i familiari vivono non solo nei confronti del proprio figlio malato, ma piu` in generale, verso tutto cio` che puo` essere fonte di disagio psichico. In particolar modo si tende sempre a rifiutare il tentativo, piu` o meno velato ma sempre presente, di parlare dei pazienti in loro assenza, di raccontare di loro e della loro malattia con un’enfasi accusatoria e colpevolizzante. Se a volte, raramente, si parla di pazienti e di modi di essere malati, e` solo per far meglio capire le dinamiche psichiche con le quali ci si ammala. Il genitore e` invitato a parlare in prima persona dei suoi problemi e del proprio modo di vivere, non solo nei confronti della malattia del figlio ma anche verso tutto cio` che considera importante. I risultati raggiunti dopo circa due anni dalla costituzione di tale gruppo sono abbastanza incoraggianti. I pazienti che hanno almeno un genitore che partecipa a tale gruppo si sono dimostrati senz’altro piu` assidui nel frequentare il Centro Diurno, piu` in grado di superare l’ambivalenza nel rapporto con gli operatori e nel vivere cosı` piu` spontaneamente e profondamente le dinamiche di gruppo.

4.2. Il rapporto terapeutico duale Privilegiare come momento terapeutico quello di gruppo, sia come psicoterapia di gruppo sia come attivita` extra-setting, fa sı` che i contenuti piu` privati, quali ad esempio le dinamiche piu` personali con alcune figure significative, in genere i genitori, vengano di fatto esclusi dai contenuti che vengono comunicati ed affrontati. In una psicoterapia di gruppo, e` il gruppo stesso che si pone come frustrante e rifiutante rispetto ad una situazione piu` squisitamente personale e quindi non generalizzabile. Il piu` delle volte sono gli stessi pazienti ad escludere tali contenuti dalle loro comunicazioni in gruppo. Eppure, in alcuni pazienti sembra che l’esigenza di capire le proprie relazioni personali, le proprie dinamiche familiari, le proprie crisi, etc. sia reale. Per tale motivo e` sembrato opportuno stabilire, per alcuni, un momento psicoterapico individuale, oltre quello di gruppo. Nella psicoterapia

individuale si parla dei propri vissuti in relazione a situazioni e a rapporti esterni al setting individuale. Problematiche personali, familiari, nei confronti di altri pazienti, modalita` relazionali malate che hanno portato ad una crisi, etc. vengono affrontati ed approfonditi in un setting individuale. Il terapeuta si presta ad individuare, a chiarire, a mostrare le modalita` relazionali psicotiche del paziente. Il transfert negativo esistente nel setting individuale puo` essere interpretato solo con un fine chiarificatore e dimostrativo delle dinamiche malate del paziente. La possibilita` trasformativa dell’interpretazione del transfert negativo, la dialettica particolarmente dura ed aspra con cui a volte e` necessario affrontare il transfert negativo, e` rimandata alla psicoterapia di gruppo. Fine della psicoterapia individuale, in questo ambito, e` quindi la ricostruzione della storia psicoaffettiva del paziente, l’elaborazione delle sue crisi, l’esplicitazione delle dinamiche personali. Il capire sempre meglio le modalita` relazionali inconsce del paziente e delle figure a lui vicine, come cioe` certe dinamiche possano sfociare in una crisi, in altre parole la comprensione della propria storia, si pone come presupposto indispensabile all’accettazione e alla elaborazione di quanto, in un setting di gruppo, verra` interpretato come dinamica attuale violenta di transfert negativo.

4.3. Il rapporto nelle attivita` di atelier e di laboratorio Insieme alle attivita` specificatamente psicoterapeutiche operanti nel Centro Diurno esistono numerose altre attivita` manuali, ludiche, culturali-esplorative6 che vengono regolarmente svolte e

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Le attivita` manuali sono rappresentate dai laboratori di rilegatoria, cartotecnica, pittura sul vetro, costruzione di maschere di cartapesta, costruzione di strumenti musicali. Le attivita` ludiche sono rappresentate da: video-cineforum, ascolto musica, storia e drammatizzazione del fumetto, lettura quotidiani e informazioni-attualita`, attivita` sportive (nuoto e subacquea, tennis, palestra). Le attivita` culturaliesplorative comprendono gite in citta` d’arte, visite a musei e gallerie, soggiorni estivi.

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

a cui partecipano tutti i pazienti, selezionando il tipo di attivita` che a loro interessa di piu`, insieme agli operatori del Centro. Questo tipo di attivita`, che non e` possibile considerare strettamente psicoterapeutica in quanto mancante dello strumento dell’interpretazione, e` comunque considerato un momento terapeutico. Il vivere insieme, il fare le cose insieme, come dovrebbero essere considerati in un contesto che continuiamo a definire terapeutico? Non possiamo pensare che l’acquisizione di un’abilita` manuale, ad esempio costruire una maschera, possa ` come se dicesessere considerata una terapia. E simo che uno schizofrenico e` tale perche´ non possiede un’abilita` manuale che lo porti a costruire una maschera, e noi sappiamo che questa ipotesi e` falsa. Vorremmo quindi spendere qualche parola in piu` sul tema delle attivita` svolte presso un Centro Diurno, in parte perche´ lo svolgimento di tali attivita` rappresenta per ogni Centro un notevole impegno in termini di tempo e di risorse, in parte perche´ siamo convinti che nel fare le cose insieme, nelle varie attivita` svolte, sia presente una reale attivita` terapeutica. Ci teniamo pero` a precisare che le seguenti considerazioni sono tuttora oggetto di discussione e ricerca e non rappresentano quindi acquisizioni certe. Gli aspetti terapeutici delle varie attivita` svolte presso un Centro Diurno, a nostro parere, vanno ricercati nei seguenti motivi. 1) Consideriamo in primo luogo le cosiddette attivita` espressive. Disegnare, pitturare su vetro, costruire maschere, oggetti di ceramica, etc, rappresentano tutti modi in cui viene privilegiata, o si tenta di provocare, una libera espressione. La libera espressione e` il momento in cui un essere umano, libero da vincoli comunicativi, si rivolge verso se´ stesso per cercare di trovare un modo capace di rappresentare qualcosa presente al proprio interno. Da uno stimolo esterno percepito si passa, con la cessazione dello stimolo, alla creazione di una immagine all’interno di se´ che, poi, potra` essere rappresentata. La capacita` di rappresentare e` forse la caratteristica principale e specifica degli esseri umani.

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Sappiamo benissimo che l’espressione artistica deve essere libera, non vincolata a nessuna costrizione esterna, e non finalizzata a nessuna comunicazione con l’esterno. Un fatto inutile, per l’appunto; di nessuna utilita` materiale.7 Ovviamente in un Centro Diurno cio` non e` possibile. L’attivita` e` proposta dagli operatori: spesso questi devono stimolare e incoraggiare i pazienti, spesso il tema da rappresentare e` vincolante, spesso si propone un fine utile, come una mostra-mercato o un utilizzo degli oggetti creati. Eppure, nonostante tutte queste contraddizioni, riteniamo comunque utile proporre attivita` di questo tipo. Un dato clinico su cui difficilmente ci si sofferma, ma che a noi sembra degno della massima attenzione, e` che nei pazienti frequentanti un Centro Diurno, quindi psicotici, si riscontra, anche se questa ovviamente non e` una regola, una ridottissima capacita` di rappresentare. L’ipotesi che puo` essere formulata, anche se naturalmente in termini generici e schematici, e` la seguente. Per potere rappresentare occorre conservare un ricordo, una immagine di quanto, prima percepito, viene poi rappresentato. Occorre cioe` conservare memoria dell’oggetto percepito. Il modo di percepire l’oggetto e la memoria dello stesso oggetto percepito coinvolgono uno stato affettivo, e la rappresentazione che ne deriva diventa quindi una sintesi dell’oggetto percepito trasformato, deformato in senso positivo o negativo a seconda della propria realta` psichica, dai propri affetti. In questo processo, e chiediamo nuovamente scusa per la schematicita` con cui viene qui espresso, per quanto riguarda lo psicotico, deve esserci un blocco. C’e` da pensare o che lo psicotico non riesca a conservare memoria dell’oggetto percepito, o che questo non riesca a muovere nessuno stato affettivo. Sappiamo pero` che la memoria cosciente di uno psicotico, tolti i rari casi di deterioramento, funziona benissimo. Allora dobbiamo pensare

7 Sarebbe interessante, anche se per ovvi motivi non approfondiamo tale tema, il nesso con il sognare.

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che in uno psicotico quello che non riesce e` questa fusione, mescolanza tra quanto si percepisce ed il proprio stato affettivo. ` per noi agevole motivare questa mancata E reazione con il fatto che, essendo annullato il significato psichico dell’oggetto percepito, viene a mancare l’unico stimolo capace di provocare una reattivita` affettiva. Vale a dire non cogliendo un significato interno, profondo, nascosto dell’oggetto percepito, la memoria non potra` che essere rappresentazione fotografica, materialmente esat8 ta, ma piatta perche´ anaffettiva, della realta`. Ci rendiamo conto pero` che il processo appena descritto non e` un processo cosciente. In altre parole la capacita` di rappresentare realmente non e` un fatto che puo` essere razionalmente controllato. La creazione di una immagine all’interno di se´ dell’oggetto sparito, quando questa si vada ad unire ad un proprio stato affettivo formando una nuova immagine diversa dalla prima, non puo` essere un processo lucido e razionale che puo` essere stimolato e guidato dall’esterno. Nonostante questo noi continuiamo a proporre attivita` in cui i nostri pazienti vengono stimolati a rappresentare. Crediamo infatti che comunque, nonostante tutte le contraddizioni elencate, sia un fatto terapeutico. La rappresentazione di qualcosa, presenza materiale in assenza dello stimolo non piu` percepito, si pone infatti comunque come frustrazione al pensiero psicotico, che tende a fare dell’assenza materiale una sparizione assoluta dell’oggetto senza possibilita` di lasciare nessuna memoria all’interno di se´. 2) Altre attivita`, quali lettura di quotidiani, visione e discussione di films, attivita` sportive,

8 Quanto questo processo puo` essere colto in alcuni disegni di pazienti psicotici e` sorprendente. Se chiediamo durante l’atelier di disegno, ad esempio, di disegnare una strada da cui si e` passati insieme alcune ore prima, ci si puo` stupire, al di la` della padronanza tecnica, della quantita` di particolari presenti in alcuni disegni. Come se la memoria fotografica, esatta, della realta` funzioni benissimo. Non viene pero` mai aggiunto un qualcosa di personale, un colore diverso, un oggetto deformato, vale a dire una propria affettivita`.

ascolto e commento di musica, riguardano maggiormente un aspetto comunicativo. L’individuo e` continuamente stimolato a doversi rapportare agli altri sforzandosi il piu` possibile di essere comunicativo. Se prima dicevamo che la libera espressione era il momento in cui ci si liberava dai vincoli comunicativi, adesso la comunicazione e` il momento in cui la propria attivita` e` tesa, obbligatoriamente, alla costruzione di un rapporto con gli altri. Coerenza, lucidita`, cooperazione, intenzionalita` a comunicare, sono tutti aspetti che, anche se non interpretati, vengono continuamente richiesti. I pazienti sono lentamente portati ad accettare quello che dovrebbe caratterizzare qualsiasi relazione: la pretesa cioe` che ci sia una reale intenzionalita` al rapporto e alla comunicazione, l’obbligo di essere realmente presenti. 3) Da quanto stiamo descrivendo emerge con chiarezza che le varie attivita` ed il modo di svolgerle costituiscono una quantita` enorme di informazioni che i pazienti giornalmente ci forniscono. Sara` quindi compito degli operatori memorizzare alcuni spunti che i pazienti segnalano nel corso delle attivita` per cercare di trarne una indicazione diagnostica di evoluzione clinica, o terapeutica. Le varie attivita` si pongono cioe` come momento insostituibile capace di mostrare come un paziente, al di la` di quello che dice, costruisce i suoi rapporti e come li vive. Sara` compito degli operatori trovare quegli spazi di discussione in cui poter arricchire la propria conoscenza dei pazienti con quanto osservato nel corso delle attivita`. ` ovvio che per potere svolgere un lavoro E come quello sopra descritto, il personale addetto deve essere “formato”. Ma non intendiamo qui per formazione un’acquisizione di dati tecnici che facciano comprendere meglio la “sofferenza mentale”. Intendiamo, invece, un modo di essere ne´ insegnato ne´ appreso che puo` essere certamente acquisito. La reattivita` immediata agli stimoli che i pazienti pongono continuamente, e` ovvio che debba poggiare su un particolare modo di essere degli operatori. Non si puo` chiedere consiglio su ogni risposta che occorre dare, non si puo` pensare se il

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

proprio movimento sia giusto o sbagliato. Occorre fare. Fare senza sapere. E questo e` possibile solo nella misura in cui il proprio fare poggia su una identita` sana, e non malata. La formazione personale degli operatori, una volta intesa come dovrebbe essere, vale a dire come acquisizione di una capacita` reale di stare in rapporto, «recettivita` alle dimensioni psichiche della relazione, presenza attiva nel rapporto» (G. De Simone, M. Dario, E. Stocco, A. Cantini, 1995), fa sı` che i pazienti nello svolgersi delle varie attivita` confrontino il loro modo di essere e di stare in rapporto con il modo di essere e stare in rapporto degli operatori. Si stabilisce cosı` quella “atmosfera terapeutica”9 che pur mancando dell’interpretazione verbale e` comunque fattore di stimolo alla crescita per i pazienti, in quanto confronto con una dimensione psichica diversa dalla loro, con cui comunque si trovano a dovere interagire.

5. I casi clinici 5.1 C. R., anni 23. Giunge alla nostra osservazione dopo la prima crisi psicotica avuta tre mesi prima, nel corso della quale aveva tentato il suicidio su imposizione allucinatoria gettandosi da un cavalcavia ferroviario e riportando fratture multiple. Il paziente, sebbene i genitori neghino qualsiasi patologia psichiatrica precedente all’evento traumatico, sembra invece abbia sofferto da qualche anno di disturbi del comportamento (si era isolato progressivamente dalle amicizie, aveva perduto il posto di lavoro, passava il tempo chiuso in casa nell’inerzia piu` assoluta), della percezione (soprattutto fenomeni allucinatori uditivi), del pensiero (idee di riferimento, persecutorie, di dubbi sulla propria identita` sessuale, di idee dismorfofobiche a carico dei propri denti).

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Dario M., Stocco E., “L’atmosfera terapeutica” in un Centro Diurno, in Terapia combinata della schizofrenia, AIMRP — VI Congresso Nazionale. 1997.

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Passato un primo periodo in cui il paziente frequenta in modo non continuativo perche´ sottoposto anche a riabilitazione ortopedica, subito dopo viene inserito in un progetto con psicoterapia individuale e di gruppo, nonche´ varie attivita` ludiche. In un primo periodo, della durata di circa tre mesi, il paziente sembra rispondere ottima` molto puntuale, mente a questo trattamento. E riferisce un sempre maggior benessere, ma i contenuti ideativi rimangono poveri anche se le idee di riferimento, dismorfofobiche, e soprattutto le allucinazioni uditive, scompaiono. Nello stesso tempo viene intrapreso un programma di terapia di gruppo per i familiari del paziente, ma costoro, dopo il primo appuntamento e nonostante i ripetuti inviti, si ritirano adducendo una sfiducia generica nei confronti dei nostri metodi curativi. Il paziente continua a frequentare il Centro e un giorno riferisce di essere stato condotto la mattina precedente da uno specialista privato, che avrebbe instaurato una pesante terapia neurolettica a cui il paziente non intende rinunciare. Convocati i genitori, si spiega di non essere d’accordo con la terapia prescritta e si rivendica la condotta terapeutica nei confronti del figlio. Ovviamente i genitori non concordano e ci minacciano della responsabilita` delle eventuali conse` lo stesso paziente che decide pero` di guenze. E voler continuare ad assumere i farmaci prescritti. Da allora il paziente inizia ad avere, soprattutto la sera, e nonostante la neurolettizzazione a cui si sottopone, delle violente crisi d’angoscia, che egli supera solo assumendo BDZ ipnoinducenti e andando a dormire con i genitori. Continua pero` a frequentare il Centro anche se in maniera altalenante, e nel corso di una seduta psicoterapica di gruppo racconta un incubo della notte precedente: si trovava in una stanza — non ricordava quale fosse — dove c’erano dei cani dobermann che stavano per dilaniarlo mentre lui cercava intorno qualcuno dei familiari che lo potesse salvare. Ci sembra quindi di capire che il paziente identifica i terapeuti come dei dobermann e il tentativo di separarlo da qualcosa come dila` il momento della crisi. niamento. E Intuendo la possibilita` da parte del paziente di rompere il rapporto, i terapeuti improntano la

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condotta terapeutica tesa solo al semplice mantenimento della relazione. Il paziente chiede di poter venire solo per alcune attivita` e non per altre, inserendo tra quelle escluse anche la psicoterapia, e glielo si concede. Nei giorni in cui non viene si cerca pero`, anche se non sempre, un contatto o tramite visita domiciliare del personale infermieristico, o tramite telefonata. Ma le crisi serotine, quando peraltro il C.D. e` chiuso, continuano, e nel corso di una di queste il paziente viene condotto dai genitori in S.P.D.C. dove viene ricoverato. Nei giorni successivi continuano, pur con frequenza ridotta, le visite in ospedale anche se il paziente, che ha nuovamente iniziato ad avere allucinazioni uditive, sembra meno disponibile al rapporto con noi. Un giorno, recandoci in ospedale, veniamo informati che la sera precedente il paziente era scappato dal reparto e, come si era potuto appurare la mattina seguente, si era recato a casa. A casa del paziente i genitori ci invitano cordialmente a non cercarlo piu`, invito che anche il paziente condivide e ripete. Da allora si interrompono le visite domiciliari e ne´ i familiari, ne´ il paziente cercano piu` di noi. Dopo circa otto mesi veniamo ricontattati dal padre del ragazzo per una certificazione; hanno iniziato le pratiche d’invalidita` ed hanno necessita` di avere la certificazione attestante il periodo in cui e` stato in cura presso il nostro Centro. Cogliamo l’occasione quindi per poter rivedere il ` notevolmente ingrassato, continua ad paziente. E assumere neurolettici, inespressivo, anaffettivo, manierato. Ci dice che in questi ultimi mesi e` stato bene, non ha piu` sentito voci e non ha alcun tipo di “preoccupazioni”, passa il tempo a casa, a guardare la televisione, dorme molto, fuma molto, ed esce solo quando accompagna i genitori. Gli domandiamo se si ricorda del periodo in cui frequentava il centro; dice di sı`, ma si annoiava, anche se non lo voleva ammettere, si facevano sempre le stesse cose, ripetutamente. Gli chiediamo se si ricorda di quell’unico sogno che ci aveva raccontato in una delle sedute di gruppo. La risposta immediata, irriflessiva, ci lascia stupiti: «Ma quello non era un sogno...».

Abbiamo voluto raccontare questo caso clinico per vari motivi: 1) Il modo, del tutto inconscio, che i pazienti hanno di vivere la relazione con i terapeuti del centro puo` essere estremamente violento. In questo caso il paziente si sentiva addirittura dilaniato ` ovvio che in questo dal rapporto terapeutico. E caso la crisi vissuta avra` la connotazione di una persecutorieta` angosciante. La modulazione della distanza puo` far sı`, anche se non e` stato questo il caso, di fare accettare gradatamente al paziente la presenza e il rapporto con i terapeuti. 2) In questo caso e` emblematico il peso che certe dinamiche familiari possono avere sui pazienti. Ne deduciamo che e` fondamentale il trattamento congiunto delle famiglie in corso di terapia riabilitativa. 3) Infine questo caso ci sembra interessante ` infatti evidente per i risvolti clinici presentati. E che lo stato clinico del paziente ha accompagnato, potremmo dire passo dopo passo, l’evoluzione dei rapporti che questi viveva con gli operatori, persone significative per il processo terapeutico.

5.2. F. P., di sesso maschile, di anni 26. Giunge al trattamento riabilitativo dopo la seconda crisi psicotica, manifestatasi con grave stato di agitazione psicomotoria su base delirante, intervenuta a distanza di due anni dalla prima. Viene per questo motivo ricoverato in modo coatto presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. La diagnosi di dimissione e` di schizofrenia ebefrenica. Il paziente si presenta scarsamente sintomatico. Ha una facies inespressiva e fatua; non presenta ideazione delirante, ne´ allucinazioni uditive; l’eloquio e` povero, risponde alle domande poste con estrema concisione e aridita`; l’affettivita` e` appiattita. Assume terapia neurolettica a bassi dosaggi (clorpromazina 50 mg la sera); la sua frequentazione al C.D. e` costante e assidua. In tre mesi di frequentazione non manca mai.

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

` sempre puntualissimo e partecipa alle attivita` E svolte. Dopo tre mesi di perfetta puntualita` inizia ad accumulare ritardi, a saltare alcuni giorni, a volte si presenta nei giorni di chiusura del Centro. Nello stesso tempo inizia a manifestare sintomi psichiatrici prima assenti: e` spesso ansioso, irascibile, presenta a tratti uno stato di subeccitamento che spesso finisce con l’infastidire gli altri pazienti del gruppo, e` aggressivo; a volte, improvvisamente, va via. Riferisce la comparsa di insonnia ed inizia a manifestare un disturbo della forma del pensiero che appare scucito nei nessi e a tratti frammentato. Si incrementa progressivamente il dosaggio neurolettico. Nel corso della riunione mensile di gruppo si scaglia verbalmente contro altri pazienti, da lui indicati come violenti, e svaluta pesantemente le attivita` svolte al Centro. In quell’occasione viene invitato a sospendere temporaneamente la frequentazione al Centro, cosa che accetta ben volentieri. Per due mesi il paziente non viene al Centro Diurno e gli operatori si recano regolarmente a casa sua dove vengono ricevuti e accolti benevolmente. Gli operatori nelle loro visite domiciliari non cercano mai di imporre, ne´ di invitare il paziente nuovamente al Centro. La sintomatologia del paziente nel periodo di allontanamento improvvisamente si e` andata a spegnere, permettendo una immediata riduzione del dosaggio del neurolettico. Dopo due mesi il paziente ritorna spontaneamente al Centro Diurno, dapprima sporadicamente, passando “per fare un saluto”, poi sempre piu` spesso, fino a riprendere pienamente la partecipazione al gruppo. Questo esempio ci e` sembrato indicativo per dimostrare quanto una crisi generata nell’ambito della relazione che il paziente vive all’interno del Centro possa essere gestita e modulata dagli operatori, potendosi evitare cosı` una probabile ospedalizzazione. 5.3. C.G. di anni 28, di sesso maschile, affetto da disturbo di personalita` di tipo borderline con pre-

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gressa crisi delirante, con gravi alterazioni comportamentali che lo hanno portato un anno fa all’ospedalizzazione coatta. ` uno di quei pazienti definiti “difficili”, con E un’affettivita` improntata alla rabbia e allo scontro con l’esterno. Vive con i genitori con i quali ha una conflittualita` aperta, per le continue richieste di denaro che fa loro e per i rifiuti che a queste richieste vengono opposti. Al Centro il paziente porta gli esiti di questa conflittualita`. Arriva sempre in ritardo e spesso ` con uno stato d’animo apertamente rabbioso. E taciturno, risponde a monosillabi, a volte va via improvvisamente motivando la sua rabbia e il suo malessere con i rifiuti che i genitori gli oppongono. Nel corso di una seduta psicoterapica di gruppo viene fatto notare che anche quel giorno era arrivato con molto ritardo e che i suoi continui ritardi possono essere considerati come una svalutazione nei confronti del gruppo e del lavoro svolto nel Centro; pertanto viene invitato ad arrivare puntuale. Il giorno dopo il paziente arriva al Centro piu` rabbioso del solito: dice che deve andare via subito e che e` passato solo per avere dei tranquillanti, richiesta che a suo parere dovremmo comunque soddisfare. Ci racconta che la notte aveva dormito molto male e che si era svegliato spaventato per aver sognato che i suoi genitori, arrabbiati con lui, lo volevano rinchiudere in manicomio. Il paziente cioe` aveva vissuto quanto da noi detto il giorno precedente come una frustrazione che lo privava di una liberta`. Evidentemente arrivare in ritardo era per lui una difesa con cui si metteva al riparo da un coinvolgimento affettivo che egli sentiva come pericoloso. Era quindi naturale che sentisse la nostra richiesta come frustrante e andasse in crisi. Negando pero` l’aspetto terapeutico di quanto veniva da noi proposto, ci trasformava nel sogno nei suoi genitori che lo volevano rinchiudere in manicomio. Il capire cosa il paziente ci stava comunicando, il comprendere quindi la dinamica psichica sottostante che aveva suscitato quella crisi, fece sı` che il comportamento, l’atteggiamento, la comunicazione verbale degli operatori si dinamizzas-

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

sero con gli aspetti violenti dell’attivita` di rapporto del paziente. Per quel giorno il paziente rimase al Centro, la rabbia sparı`, e si “dimentico`” di aver chiesto dei tranquillanti. Questo esempio ci sembra denso di significati per vari motivi: a) il paziente psichiatrico va incontro facilmente a crisi piu` o meno manifeste e violente. Quando si trova a frequentare il Centro, accade facilmente, vista la significativita` delle relazioni che si vanno a stabilire, che le sue crisi sono in rapporto, piu` o meno evidente, con quanto vissuto allo stesso Centro. Questo e` fondamentale per potere intervenire e “modulare” l’evoluzione della stessa crisi. b) L’esempio esposto ci mostra quanto sia comune l’attribuzione di qualcosa di noto, di gia` conosciuto, in questo caso i genitori, ad altro, gli operatori che nulla ovviamente avevano in comune con i genitori del paziente. c) La “comprensione” della crisi non puo` essere ovviamente solo un fatto cosciente che coglie solo i sintomi presentati inquadrandoli nosograficamente, ma diventa un interesse totale, complessivo verso il paziente che non puo` prescindere anche da quanto espresso in modo inconscio, in questo caso con un sogno.

5.4. Uomo di 33 anni. Giunge al Centro Diurno circa sei mesi fa inviato dal C.S.M. con diagnosi di disturbo di personalita` di tipo narcisistico. Ha subı`to anch’egli un ricovero coatto circa due anni prima per stato delirante e agitazione psicomotoria. ` estremamente sensibile ai giudizi e alle criE tiche espresse su di lui, tende all’evitamento affettivo, e` a disagio quando, ad esempio, nel corso della psicoterapia di gruppo settimanale, non si parla con lui, e` pervicacemente convinto che i suoi problemi siano “speciali”, e che quindi, per curarlo, servono delle persone “speciali”, che naturalmente non trova mai. Non ha rapporti personali significativi, e anche se dice di avere molti amici che regolarmente

frequenta e verso cui si prodiga in modo generoso; in realta` sono delle semplici conoscenze superficiali, e di fatto e` continuamente solo. Presenta quindi una sostanziale inerzia di fondo, che motiva con i continui fallimenti e disillusioni che, a suo dire, subisce dagli altri e che in realta` sono date da svalutazioni continue che lui opera, in modo del tutto inconsapevole, sugli altri. La frequentazione al Centro del paziente e` caratterizzata da continui, improvvisi, allontanamenti. Capita sempre che il paziente cominci a frequentare il Centro per alcune settimane, all’inizio con assiduita` e, almeno apparentemente, con interesse. Nel corso dei giorni l’interesse pero` viene meno; inizia ad arrivare in ritardo, salta alcuni giorni, e` svogliato durante lo svolgimento delle attivita`, spesso si isola in una stanza ad ascoltare la musica dicendo che non gli serve partecipare a quelle attivita`. Alla fine di questa fase comunica che ha pensato che per lui la frequentazione al Centro Diurno non e` indicata e decide di andare a sottoporsi ad altra terapia. Terapia ogni volta diversa, investita di aspettative importanti perche´ sentita finalmente come quella giusta e risolutiva. A questo punto il paziente abbandona il Centro. Dopo qualche settimana o mese il paziente spontaneamente ritorna per iniziare nuovamente il ciclo descritto. Nel corso di una seduta di psicoterapia individuale il paziente, che era appena ritornato da uno dei suoi soliti periodi di allontanamento, dice di essere stato particolarmente agitato e ansioso negli ultimi giorni. La notte precedente alla seduta aveva sognato che stava nella stanza di un carcere dalle pareti di colore verde chiaro, e decideva di evadere. In realta` era evaso parecchie volte. Evadere era molto facile, bisognava pero` attraversare la porta d’ingresso e non la finestra in quanto alla finestra c’erano le sbarre. Il problema pero` era che, nonostante evadesse in continuazione, si ritrovava sempre in galera, nella stessa stanza con le sbarre alla finestra. La constatazione che il colore delle pareti corrispondeva a quelle della stanza di terapia, cosı` come le sbarre presenti nel sogno corrispondevano a quelle di protezione della stessa stanza,

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

ci permise di asserire che il paziente parlava di se´ e del suo rapporto con il terapeuta. Potemmo approfondire che le evasioni erano i suoi continui allontanamenti e che l’ansia che aveva provato in quei giorni era dovuta al fatto che si stava “rendendo conto” che quanto fantasticamente annullava ciclicamente era ancora presente, e diventando nuovamente uno stimolo di rapporto lo costringeva a confrontarsi con quanto evidentemente egli viveva in modo estremamente conflittuale. Abbiamo scelto questo caso clinico per mostrare come, a volte, una comunicazione che utilizza immagini oniriche possa indicarci i motivi di un comportamento del paziente.

5.5. Nell’ultimo caso clinico che abbiamo scelto mancano sintomi obiettivabili che ci farebbero pensare ad una situazione di crisi clinicamente manifesta; esso viene ugualmente riportato perche´ a nostro parere chiarisce in modo esemplare i concetti che abbiamo esposto nella seconda parte del nostro lavoro. D. C. e` una giovane psicotica di 23 anni. Ha subı`to diversi ricoveri ospedalieri per riacutizzazione di una psicosi schizofrenica con spunti megalomanici, ideazione delirante, allucinazioni uditive, alterazioni comportamentali. Nei periodi intercritici la paziente e` scarsamente sintomatica, con affettivita` appiattita, abulia, poverta` ideativa. Da un anno e mezzo la paziente frequenta il ` abbastanza puntuale, predilige nostro Centro. E le attivita` manuali ma svolge diligentemente anche le altre previste dal progetto terapeutico. Nel corso della psicoterapia di gruppo settimanale sta sempre in silenzio. Sembra non ascolti. Dopo un po’ di tempo dall’inizio della seduta, inevitabilmente la paziente si alza e chiede di andare via. Questo accade sempre e, almeno all’inizio, e` sembrato essere in relazione alla sua scarsa attenzione e partecipazione. Ci siamo pero` resi conto che la paziente manifesta tale dinamica ogni qual volta i contenuti della seduta iniziano ad essere piu` personali, di-

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ciamo piu` intimi, riguardando vissuti piu` interni che i pazienti raccontano e a cui si tenta di rispondere. Non e` cioe` la mancanza di interesse a far sı` che la paziente si distacchi da quanto sta vivendo, ma sono i contenuti proposti che, ogni qual volta non appaiono banali, riguardanti solo fatti quotidiani o al piu` la propria sintomatologia, ma diventano piu` interni, piu` personali, la paziente tenta di annullare, andandosene. C’e` da pensare che la paziente non riesca ad accettare la relazione diversa che si stabilisce quando la comunicazione e`, diciamo, piu` personale. La paziente attacca, tentando di annullare, una relazione che ella giudica inconsciamente impossibile a svolgersi. Quanto non viene conosciuto, quanto giudicato impossibile, viene annullato. La paziente giudica come unica possibilita` di rapporto qualcosa di banale, di superficiale. Qualora, come accade, viene proposto un rapporto diverso da quello che ella vuole che esista, decide di andare via stabilendo, in modo onnipotente, che il rapporto, almeno per quel giorno, e` terminato. La riproposizione di quanto la paziente regolarmente annulla la porta pero` ad un movimento a cui ella si sente costretta, entrando in crisi l’onnipotenza astratta del pensiero annullante. Il movimento a cui e` costretta rende finalmente visibile la violenza di quanto finora era latente, permettendo cosı` un possibile intervento tendente a contrastare l’attivita` di rapporto violenta.

6. Conclusioni La riabilitazione e` stata sempre vista come una pratica psichiatrica in cui le varie attivita` manuali, ludiche, artistiche si sono andate nel tempo ad identificare con lo stesso termine di riabilitazione; privilegio che derivava dall’assegnare a tali attivita` la legittimita` di terapia. Secondo la nostra impostazione tali attivita` non hanno un ruolo di per se´ terapeutico. Il ruolo terapeutico e` svolto dall’attivita` di rapporto degli operatori coinvolti che si oppone all’attivita` di

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

rapporto violenta dei pazienti tendente ad annullare una relazionalita` sentita, o meglio percepita, come diversa. Le varie attivita` rappresentano quindi semplicemente il mezzo in cui si vanno ad esprimere le varie dinamiche, innanzitutto inconsce, tra operatori e pazienti. Il clima terapeutico o meno, in altre parole, lo creano le dinamiche psichiche e non le attivita` svolte. Abbiamo sottolineato la necessita` di indurre una crisi nel paziente autistico come unica possibilita` realmente terapeutica. In che modo possiamo indurre tale crisi? L’empatia viene ritenuta generalmente l’unico valido mezzo di comunicazione con tali pazienti. L’empatia, questa risonanza comune con l’altro — termine estrapolato dal rapporto madre-neonato e non da un contesto terapeutico — ha implicito un significato di similitudine con l’altro. Accettare di essere simile all’altro in un contesto di relazione terapeutica, in un contesto cioe` dove c’e` un medico e un malato da dover curare, significa accettare di essere ambedue malati. Il simile non puo` provocare nessuna crisi. Per innescare una crisi occorre che l’essere umano che si ha di fronte sia e venga percepito come diverso da se´. Non e` quindi l’empatia il mezzo terapeutico principale in un contesto riabilitativo, e piu` in generale psicoterapeutico, ma e` innanzitutto la resistenza. Non lasciarsi appiattire in una similitudine col paziente, resistere, ribellarsi a non volere considerare normale un rapporto in cui il pensiero cosciente e il comportamento siano gli unici riferimenti di una relazione completamente anaffettiva. Riteniamo che dalla coscienza e dal comportamento di ognuno di noi si ricava un’immagine che potremmo definire interna, un’immagine cioe` di cio` che realmente siamo, non visibile retinicamente, ma sicuramente presente. Questo i pazienti percepiscono e questo regolarmente annullano. L’altro, percepito come essere umano diverso, non cioe` come avente una qualifica professionale particolare, ma proprio come diversita` nel modo di essere, di stare in rapporto, potremmo dire con una immagine interna diversa

dalla loro, si pone come stimolo inconscio potentissimo che attiva l’investimento affettivo, base per ogni relazione significativa. L’annullamento pero` e` un mezzo per evitare la crisi. Annullare lo stimolo percepito significa vivere l’onnipotenza di sapere tutto, di non avere nessuna motivazione, nessun reale interesse, perche´ viene annullata la possibilita` che esistano esseri umani psichicamente diversi. Gli autistici vivono come se coscienza e comportamento non fossero i “veicoli” dell’immagine interiore, manifestazioni della realta` psichica umana. La piattezza della loro comunicazione la ricaviamo dall’assenza di qualsiasi contenuto, di qualsiasi immagine interna, come se a loro, stranamente, mancasse. Ma quest’assenza e` un inganno, un epifenomeno, una conseguenza. La verita` e` che stanno annullando l’immagine interna dell’essere umano che hanno di fronte. Silenziosamente ci stanno chiedendo di diventare simili a loro, anaffettivi. Il riproporre quanto secondo il paziente non dovrebbe piu` esistere mette in crisi lo stesso annullamento, ed e` causa della evidenziazione clinica della crisi. Ovverosia la reiterata riproposizione di tale stimolo potrebbe vincere la condizione annullante che il paziente aveva messo in atto come difesa. Da un lato quindi, confermiamo senz’altro il dato emerso dallo studio del 1986 di Hogarty, cioe` che i pazienti che frequentano un programma riabilitativo presentano minori ospedalizzazioni rispetto a pazienti che assumono solo una terapia farmacologica. Dall’altro, pero`, sottolineiamo che il numero delle crisi non ospedalizzate, di durata ed intensita` variabile, in un lavoro riabilitativo puo` aumentare. E il motivo, lo ribadiamo, e` che questo si puo` porre come stimolo nuovo per una relazione che il paziente avverte come diversa. La gestione della crisi nell’ambito di un rapporto terapeutico, con la modulazione continua degli stimoli che l’hanno provocata, e` a nostro parere lo strumento piu` incisivo di cui puo` disporre oggi un Centro Diurno. Il lavoro riabilitativo puo` essere riassunto come la continua riproposizione della realta` psichica umana annullata dai pazienti psicotici. Nell’attivita` riabilitativa si vive giornalmente

Terapia delle psicosi: dalla riabilitazione alla terapia integrata

nella speranza che la riproposizione della sanita` inconscia possa venire colta ed accettata, continuando a rivendicare uno stare insieme diverso da quello che i pazienti conoscono e vogliono. Si aspetta con calma quel momento in cui l’annullamento della nostra realta` interna cada, pronti a sostenere e a comprendere una susseguente crisi che il rapporto con un essere umano diverso da se´ inevitabilmente comporta.

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62 Terapia integrata dei disturbi schizofrenici Manilio Bordi Parole chiave integrazione; bisogno; deficit; simbiosi

1. Considerazioni generali Kuhn (1962) ha osservato che ogni rivoluzione scientifica e` caratterizzata dall’abbandono di un certo “paradigma’’, dopo un periodo di “crisi’’. Le teorie esistenti, che si rivelano non piu` funzionali, vengono messe in discussione, sorgono ` quanto si sta verificando orientamenti diversi. E attualmente nel campo delle scienze psichiatriche, psicologiche e sociali. Un aspetto di tale fenomeno e` il superamento di atteggiamenti dogmatici, poco inclini ad interrogarsi sulla reale efficacia nella pratica clinica di uno schema considerato valido per ogni paziente, sulla natura delle eventuali modificazioni terapeutiche da introdurre e chiusi ad un confronto costruttivo con posizioni teoriche differenti. Questo approccio antiriduzionistico tende in particolare ad affermarsi riguardo i disturbi schizofrenici, sulla base della consapevolezza che solo attraverso l’apporto di discipline diverse sia possibile accostare la complessita` di tale patologia ed ampliare i criteri di indicazione per ciascun tipo di intervento. Tutto cio` si riflette in un modo nuovo, piu` duttile, di avanzare ipotesi, probabili ma non ancora dimostrate, sull’eziologia della schizofrenia e nella ricerca di griglie diagnostiche piu` attente

alle molteplici espressioni di questa malattia e piu` idonee ad indirizzare un trattamento. 1.1. Dialettica pluralistica Le posizioni radicali persistono, ma sempre piu` nei vari campi di ricerca emergono opinioni ed orientamenti che tengono nel debito conto anche scoperte provenienti da discipline associate e che cercano convergenze. Questo tentativo di superare antagonismi teorici ed ideologici, di trovare una sistematizzazione ed una sintesi delle conoscenze acquisite, mette in discussione le rassicuranti certezze degli univoci schemi di riferimento. La psicofarmacologia, sulla base di nuove conoscenze dei meccanismi di neurotrasmissione, propone neurolettici “atipici’’, che attenuano l’incidenza di effetti collaterali e riducono, senza tuttavia eliminarlo, il problema dei “non responder’’. Cio` chiama in causa una resistenza al farmaco che non puo` essere intesa soltanto in termini biochimici ed implica una riflessione sulle modalita` con cui le medicine vengono proposte e somministrate. La psicoanalisi rende meno rigidi i propri

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confini. La teoria delle relazioni oggettuali e la psicologia del Se´ offrono modelli di riferimento piu` adeguati per un approccio alla patologia grave. Viene valorizzata l’idea di un setting piu` duttile, che permetta di adattare la tecnica ai bisogni relazionali dello psicotico, modularla in funzione del contenimento delle sue angosce. Si sottolinea la funzione dell’empatia nel rapporto con simili pazienti, danneggiati originariamente da esperienze di mancata condivisione e scarso contatto emotivo. Attraverso il concetto di “campo allargato” (Correale, 1997) e` riconosciuta la necessita` di non chiudere l’intervento analitico all’apporto di ulteriori elementi atti a rendere piu` comprensibile la situazione mentale del paziente. Campo allargato che comprende, in particolare, gli altri curanti e la famiglia. Riguardo a quest’ultima, gia` Federn (1952) aveva sottolineato l’importanza, nel trattamento degli psicotici, di colloqui con i vari membri, onde ottenere una collaborazione al programma. Per gli psicotici infatti il rapporto con il terapeuta si sviluppa quando sono ancora attuali nella realta` quotidiana del paziente le figure genitoriali, con cui egli continua ad intrattenere complessi e patologici legami. Quando cioe` e` ancora inserito in un “amalgama familiare” (Pandolfi, 1997) antievolutivo ove differenziazione, cambiamento, sono percepiti come intollerabile minaccia di perdita e di morte. Negli anni recenti numerosi psicoanalisti, superata la posizione secondo la quale anche nella patologia grave i genitori siano un ingombro da escludere per regolamento contrattuale, andando al di la` dell’equazione terapia familiare=indirizzo sistemico, si confrontano con questo nuovo oggetto rappresentato dalla famiglia disfunzionante nella sua totalita`. Proponendo interventi che non si limitano a colloqui di supporto e consigli psicopedagogici; interventi fondati su nuove capacita` teoriche e procedure tecniche modificate; interventi attuati spesso in modo bifocale da terapeuti che lavorano insieme. La psicologia dello sviluppo, mediante l’osservazione diretta del bambino, da un lato ha radicalmente mutato l’immagine che ne avevamo, almeno nei primi due anni di vita. Il neonato dispone di complessi schemi preprogrammati di risposta, geneticamente organizzati, che non de-

vono essere appresi. Non si trova quindi in uno stato indifferenziato, in una condizione fusionale, ma presenta funzioni autonome di organizzazione, orientamento e controllo, seppure molto primitive. Sia Stern (1985) che Lichtenberg (1983, 1989) parlano di un “Se´ emergente” nei primi due mesi di vita. Le percezioni, le azioni, gli affetti vengono coordinati da questi schemi di risposta che si sviluppano secondo una linea discontinua, attraverso scatti irregolari ed improvvisi, in connessione con sequenze maturative neurofisiologiche. Per altri versi invece ha fornito la riprova che tale evoluzione e` influenzata dalle risposte ambientali, dall’interazione con le figure significative, dalla loro capacita` di dare conferme. La mancanza di convalida e condivisione da parte di tali figure apre la strada, in eta` presimbolica, a quei danni profondi della struttura coesiva del Se´ che osserviamo nelle psicosi schizofreniche. L’interesse crescente verso le attivita` di riabilitazione, evidenziando il limite dell’intervento farmacologico e psicologico, sottolinea la necessita` di farsi carico degli aspetti deficitari. Le strategie proposte assumono sostanzialmente due forme: a) tecniche educative e di skills training, per rafforzare ed ampliare capacita` sociali e lavorative; b) interventi supportivi, volti a strutturare ambienti piu` idonei al livello di funzionamento del paziente o caratterizzati dall’introduzione di figure di sostegno. Da rimarcare come a piu` riprese venga sottolineata l’esigenza di: adattare le procedure alle necessita` del singolo paziente, dal momento che ognuno presenta una particolare costellazione di abilita` e deficit; ridimensionare le aspettative individuali e familiari verso un livello di funzionamento realisticamente raggiungibile. Viene anche evidenziato che i programmi sono facilitati dalla somministrazione di adeguati farmaci psicotropi a giusto dosaggio, nell’ambito di una collaborazione tra tecnici della riabilitazione e psichiatri.

1.2. Ipotesi eziologiche Riguardo all’eziologia vengono avanzate formulazioni che si rifanno ad un modello “biopsicosociale” (Engel, 1980). Teorie “stress-diatesi-

Terapia integrata dei disturbi schizofrenici

che” (Zubin, Spring, 1977) ipotizzano una predisposizione al disturbo schizofrenico, geneticamente trasmessa, che costituisce condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo della malattia. Perche´ cio` avvenga devono essere presenti, intervenire, stimoli ambientali patogeni. Le influenze psicosociali, in particolare nelle fasi precoci della vita, avrebbero quindi un profondo impatto sull’evoluzione psichica, essendo in grado di accrescere o diminuire una innata vulnerabilita`. In modo piu` dettagliato, Pao (1979) presuppone un deficit genetico-evolutivo, frutto della continua interazione tra costituzione e ambiente, che porta a “disturbi basici dell’esperienza’’. Tali disturbi rappresentano l’eventuale nucleo di futuri sintomi schizofrenici che insorgeranno, nel corso dell’esistenza, come risposta (la “migliore soluzione possibile’’) ad un’angoscia estrema (il “panico organismico’’) indotta da gravi stress conflittuali. Anche Carpenter (1986) concettualizza un approccio alla schizofrenia di tipo interattivoevoluzionistico, che presuppone lo sviluppo di una struttura vulnerabile di personalita` per combinazione di influenze genetiche ed ambientali. Il breakdown psicotico verrebbe poi a determinarsi solo sotto la spinta di particolari fattori precipitanti. Con termini diversi Grotstein (1986) considera la vulnerabilita` connessa ad una particolare dotazione genetica che, rifacendosi a Rado (1953), chiama “genotipo’’. Esperienze infantili di “catastrofe psichica’’, innescandosi su tale predisposizione, determinano un disturbo di personalita`, definito schizofrenia non psicotica (termine mutuato da Bion, 1956), che si differenzia dalla malattia manifesta. Inutile dilungarsi su altri modelli. Sembra esserci un ampio accordo sul fatto che l’insorgenza della malattia sia un processo complesso, che le manifestazioni conclamate di schizofrenia si realizzino in un Se´ che ha gia` sviluppato forme specifiche di vulnerabilita`. Divergenze di opinioni rimangono sui fattori che causano la vulnerabilita` e sulla possibilita` di determinare un’inversione di tendenza intervenendo su certe linee evolutive, come propone Greenspan (1986).

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1.3. Diagnosi Menninger (1966) afferma che scopo della diagnosi non e` come chiamare una malattia, ma cosa fare di fronte ad essa, individuare gli interventi atti a modificare lo stato di disagio. Questo comporta il superamento di una diagnosi prototipica, quella fondata sul confronto tra un quadro clinico tipico di riferimento — il prototipo — e le manifestazioni patologiche del soggetto in esame. Ma evidenzia anche l’inadeguatezza di una diagnosi politetica, quella cioe` formulata in base al fatto che vengano soddisfatti un certo numero di criteri derivanti da teorie differenti, con la conseguenza che sotto lo stesso nome vengono raccolti soggetti aventi caratteristiche e bisogni molto di` il “menu` cinese” (Frances, Widiger, 1986) versi. E del DSM-IV. Pao (1979) propone un sistema diagnostico bivalente, che permette il superamento dell’approccio descrittivo, sintomatico, della schizofrenia, ne differenzia le fasi ed offre indicazioni circa il programma terapeutico piu` adeguato. Utilizzando dapprima un quadro di riferimento storicoevolutivo, suddivide la malattia schizofrenica in quattro sottotipi. Tre sono in ordine di gravita` crescente quanto ai disturbi ed alla prognosi; l’ultimo comprende pazienti cronicizzati di uno qualsiasi dei precedenti sottotipi. Tale suddivisione, pur non trascurando caratteri semeiologici detti cross-sectional (ossia trasversali, attuali), e` fondata prevalentemente su dati di natura longitudinale: storia familiare, corso della maturazione e dello sviluppo, insorgenza della sintomatologia e tipo di sintomi, risposta a precedenti trattamenti. Dati quindi che offrono molte informazioni sui traumi ambientali. Vengono poi presi in considerazione i fattori costituzionali, con una importante distinzione tra due forme di deficit: quello che esisteva prima della crisi psicotica (deficit genetico-evolutivo) e quello che la segue (deficit funzionale). Il deficit genetico-evolutivo e` progressivamente piu` grave nei primi tre sottotipi; ogni paziente invece puo` mostrare dopo la crisi psicotica un profondo deficit funzionale che ha sempre minore possibilita` di essere superato quanto maggiore e` il deficit strutturale di partenza. Il secondo quadro di riferimento, di tipo

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dinamico, e` costituito dal senso di coesione del Se´ che, perduto nella fase acuta, viene gradualmente ristabilito, anche se con caratteristiche patologiche, nella fase subacuta e si fissa poi in rappresentazioni distorte e inalterabili nella fase cronica. Questo sistema di classificazione a due assi (sottotipi e fasi) costituisce la base per un progetto terapeutico diversificato. Una prospettiva analoga e` stata adottata da Zapparoli (1979), che propone di dividere gli psicotici in tre gruppi, utilizzando elementi diagnostici basati sulle condizioni attuali e sulla storia maturativa ed evolutiva, per arrivare ad una valutazione delle caratteristiche strutturali e dinamiche del paziente, individuandone potenzialita` e risorse. Al primo gruppo appartengono pazienti che conservano tali potenzialita` in modo sufficientemente ampio per raggiungere un discreto livello di emancipazione ed autonomia. Al secondo pazienti che, pur presentando certe capacita` evolutive, potranno mantenere un funzionamento adeguato solo avendo sempre a disposizione una e´quipe terapeutica da utilizzare ogni volta che se ne presenti il bisogno. Nel terzo gruppo, infine, vi sono pazienti con necessita` di dipendere costantemente da una persona, istituzione o gruppo che svolga funzioni vicarie e protettive, permettendo la saturazione dei bisogni di base legati alla sopravvivenza, vale a dire quei pazienti nei quali sono minime le potenzialita` maturative.

2. Basi teoriche del modello integrato Le precedenti considerazioni delineano un paradigma antiriduzionistico volto al superamento della lotta di potere tra psichiatria, psicologia, sociologia per assicurarsi il ruolo di unica risposta terapeutica alla patologia psicotica. Sul piano clinico la diagnosi funzionale, nei termini precedentemente riportati, e` il primo passo verso l’impostazione di un intervento integrato. Permette infatti di finalizzare il trattamento secondo il livello dell’inadeguatezza strutturale di base dello psicotico e la fase (acuta, subacuta, cronica) della malattia, tenendo conto delle maggiori o minori potenzialita` evolutive del paziente e della presenza o meno di angoscia panica. In caso

di deficit marcato, si rende maggiormente necessaria una “protesi’’, quindi saranno piu` consistenti gli interventi assistenziali e le terapie farmacologiche, volti a mantenere una condizione di relativo funzionamento, a prevenire crisi acute o un ulteriore deteriorarsi delle gia` ridotte capacita`. La psicoterapia analitica, adeguatamente modificata attraverso l’introduzione di nuovi “parametri” (Eissler, 1958), puo` contribuire al raggiungimento di tali fini. In caso di maggiori potenzialita` emotivo-evolutive, le tecniche psicologiche avranno piu` spazio nel trattamento, affiancate da assistenza e/o farmacoterapia nella misura in cui il paziente non possiede ancora sufficienti risorse e forza dell’Io necessarie per un funzionamento autonomo. Durante la fase acuta i farmaci avranno un ruolo essenziale, anche se non esclusivo, per contenere il carico eccessivo di angoscia e favorire una riorganizzazione della personalita`, mentre successivamente, pur essendo utilizzati per diminuire la vulnerabilita` al panico, potranno essere ridotti. Cosı` come l’assistenza e la riabilitazione, nei vari momenti della malattia, avranno caratteristiche e finalita` diverse. Spesso pero`, nella pratica clinica, tale integrazione si risolve in una sovrapposizione di interventi, contemporanei o successivi, con il mantenimento di una gerarchia di valori fondata sulla formazione culturale e professionale degli operatori, di frequente tra loro in conflitto. Una reale integrazione del progetto terapeutico nelle sue varie articolazioni puo` fondarsi soltanto su una solida integrazione dell’e´quipe. E tale condizione, sottolinea Zapparoli (1994), viene raggiunta costituendo un linguaggio comune che nasca dal riconoscimento dei bisogni specifici dello psicotico, dall’ascolto attento degli insegnamenti che al riguardo il paziente ci da`.

2.1. Bisogni specifici dello psicotico La definizione piu` corrente di bisogno e` quella che rinvia ad uno stato di tensione generato dalla mancanza di un qualcosa necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali. Cio` ha portato anche al tentativo di raggruppare i bisogni umani in scale gerarchiche, da

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quelli di base a quelli piu` complessi. Un esempio e` lo schema di Maslow (1954). Qui pero` facciamo riferimento a bisogni peculiari degli psicotici, difficilmente riconoscibili dalla maggioranza delle persone perche´ caratterizzati da una diversita` che suscita rifiuto, non accettazione. Per meglio comprendere la specifica configurazione che i bisogni assumono nello schizofrenico e` necessario ricordare come sia caratteristico di questi pazienti uno sviluppo difettoso. Traumi precoci, unitamente ad un patrimonio genetico deficitario, ostacolano il costituirsi di un Se´ organizzato, dotato di coesione ed unita` e compromettono il funzionamento dell’Io (con una serie di conseguenze che coinvolgono la capacita` di attuare un corretto esame di realta`; la capacita` di autoregolazione; la capacita` di mantenere un’equilibrata interazione tra le aree del pensiero, delle pulsioni, degli affetti, delle azioni). Alla base di tali traumi vi e` una relazione inadeguata con la figura materna, specie per quel che riguarda l’accudimento. L’insuccesso della madre nel prestare cure idonee e` da Winnicott (1965) descritto come incapacita` di svolgere la funzione di “holding’’, che consiste nell’adattarsi in modo attivo ai bisogni del bambino, facendogli sperimentare quell’atmosfera empatica non intrusiva su cui si fonda lo sviluppo di un “vero Se´’’, quindi dell’autenticita` e dell’autonomia. Kohut (1971) parla di fallimento nel ruolo di oggetto-Se´ empatico che aiuta a raggiungere e mantenere l’integrita` e la coesione del Se´. Mahler (1968) sottolinea la mancanza di segnalazione reciproca ed i conseguenti disturbi della relazione simbiotica che ostacolano il processo di separazione-individuazione. Espresso con differente terminologia il risultato e` sempre l’impossibilita` di attingere una esperienza interna di gratificazione e su questa fondare introietti positivi. La dipendenza si configura percio` come forza distruttiva da cui difendersi. Questo in soggetti che, secondo la definizione di Fenichel (1945), sono al tempo stesso “oggettodipendenti’’. La mancanza di una solida struttura interna e di un sistema autonomo di regolazione e controllo rende infatti gli psicotici estremamente bisognosi degli altri. La loro stessa sopravvivenza e` legata ad una fonte esterna di sostegno. Il rapporto con l’oggetto e` quindi caratterizzato da cio` che Mahler

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(1975) chiama “ambitendenza’’. Searles (1965), trattando questo tema, dice che per il paziente schizofrenico «probabilmente non vi e` nulla di piu` spiacevole dell’avere intensi bisogni di dipendenza, dei quali non puo` permettersi di prendere coscienza, o che non osa manifestare a nessuno anche qualora riesca a prenderne coscienza, o che, infine, esprime in modo tale da suscitare molto spesso nell’altro una risposta di incomprensione o di attivo rifiuto». E, piu` avanti, aggiunge: «Il paziente e` inconsapevole dei bisogni di dipendenza in quanto tali; in apparenza per lui essi esistono nella coscienza, se mai, solo sotto forma di un’associazione disperatamente conflittuale fra bisogno di dipendenza e varie difese; difese che rendono impossibile qualsiasi completa e continua gratifi` cio` che Burnham (1969) cazione di tali bisogni». E chiama “dilemma bisogno-paura’’. L’estrema dipendenza nei confronti di un oggetto esterno, egli dice, e` alla base di una profonda paura dell’oggetto stesso. Viene temuto, ad esempio, l’abbandono da parte dell’oggetto o l’influenza che esso puo` esercitare. Anche Fromm-Reichmann (1959) afferma che gli schizofrenici vogliono stabilire un rapporto con gli altri ma hanno paura di farlo, e Pao (1979) parla di «dolore nell’essere tenuto» e «dolore nell’essere deposto». I bisogni dello schizofrenico si articolano quindi lungo questa lacerazione interna, con espressioni contraddittorie. Zapparoli (1954) ne ha descritte alcune: — — — —

bisogno di un oggetto inanimato; bisogno di continuita`; bisogni relativi alla condizione simbiotica; bisogno di non aver bisogno.

2.1.1. Bisogno di un oggetto inanimato

Lo psicotico, per le esperienze traumatiche subite, per la sua profonda sensazione di vulnerabilita`, deve esercitare un controllo sugli altri, specie sulle persone significative, difendendosi da cambiamenti che, anche se vantaggiosi in apparenza, rischiano di compromettere la sua sicurezza perche´ implicano richieste piu` impegnative o maggior coinvolgimento emotivo. Questa sicu-

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rezza e` quindi favorita, soprattutto all’inizio del rapporto, dal fatto che lo psicotico possa mantenere i membri dell’e´quipe terapeutica nel ruolo di oggetto inanimato. Viverli cioe` come inattivi, non orientati verso iniziative che alimentano timori di danneggiamento. Considerarli simili ad una bambola da prendere o riporre, ad una radio da poter accendere o spegnere a proprio piacimento. Su questa base il paziente talvolta sceglie quale interlocutore privilegiato l’infermiere o un altro operatore addetto all’assistenza. Per il ruolo che svolgono, tali figure vengono infatti avvertite come professionalmente meno qualificate rispetto allo psicoterapeuta o allo psichiatra, prive di autorita`, quindi meno pericolose, tali da poter essere relegate, in maniera rassicurante, in una condizione passiva. Tutto cio` comporta per l’operatore che si occupa di assistenza due difficolta` emotive di segno opposto: accettare l’attacco alla propria funzione come modo per svolgerla secondo una tecnica altamente qualificata; non cadere nell’illusione onnipotente di essere “il migliore’’. La capacita`, da parte di queste figure professionali meno connotate sotto il profilo del potere, di mettersi a disposizione del paziente e` talvolta l’unica chiave che permette di aprire ad ulteriori iniziative terapeutiche una porta altrimenti inaccessibile. Sia portando avanti quella fase di osservazione indispensabile per raccogliere indicazioni atte ad orientare il trattamento, sia creando un legame di fiducia che permettera` poi l’approccio con altri membri dell’e´quipe inizialmente rifiutato. Sempre in questo contesto va segnalato come talora lo psicotico abbia necessita` che lo psicoterapeuta mantenga segrete le proprie conoscenze, non faccia interpretazioni e che il farmacologo rinunci, almeno temporaneamente, a mettere in atto le capacita` di cura connesse con l’uso dei neurolettici. Soltanto cosı`, sentendo l’altro meno pericoloso ed intrusivo, il paziente puo` creare spiragli nella barriera difensiva eretta di fronte al cambiamento.

2.1.2. Bisogno di continuita`

Le vicende evolutive non hanno permesso allo psicotico, in misura maggiore o minore, l’in-

staurarsi della costanza d’oggetto, cioe` l’acquisizione di un senso di fiducia e sicurezza anche in assenza della figura che soddisfa tale bisogno. Sul piano pratico necessita di un appoggio esterno che gli consenta di assumere le funzioni indispensabili all’autoconservazione o, in altri casi, si faccia totalmente carico di quelle esigenze legate alla sopravvivenza cui lui non e` in grado di dare risposte autonome adeguate. Tale appoggio in genere e` fornito dai genitori o da altre persone dell’ambiente familiare. In conseguenza di cio`, uno dei problemi piu` angosciosi che il paziente psicotico vive deriva dal timore di non avere piu` il sostegno di queste persone, dalla fantasia della loro possibile morte. ` indispensabile allora dare la garanzia di una E presenza che assicuri protezione per tutto il tempo necessario, anche l’intera vita. L’e´quipe terapeutica, pur nell’avvicendamento degli operatori, puo` offrire tale continuita`. A patto che si riescano a coniugare due variabili: funzione e relazione. La relazione poggia su fattori personali. Stabilire e mantenere l’accordo con un determinato paziente richiede certi requisiti individuali. Alcuni li hanno, altri no. Una volta evidenziate le caratteristiche idonee a rendere sufficientemente sintonico il rapporto, persone diverse possono pero` svolgere la stessa funzione. Anche i genitori sono tormentati dalla drammatica domanda: cosa succedera` a nostro figlio quando noi non ci saremo piu`? Superate le forti resistenze iniziali, attraverso passaggi di parziale affidamento, di limitate deleghe al compito di sostegno, talvolta arrivano a disporre “l’esecuzione testamentaria’’. Cioe` trasferiscono all’e´quipe il futuro compito di totale presa in carico dello stigma, di quegli aspetti deficitari non modificabili che si costituiscono come marchio di malattia e di diversita`.

2.1.3. Bisogni relativi alla condizione simbiotica

Abbiamo visto come gli studi sul “bambino osservato” abbiano messo in discussione la fusionalita` quale stato psichico che normalmente precede la formazione di rudimentali relazioni oggettuali. Ma la simbiosi nell’ambito psicopatologico

Terapia integrata dei disturbi schizofrenici

esiste. L’esperienza clinica con gli psicotici ribadisce l’utilita` dello schema evolutivo proposto da Mahler (1975), con le varie fasi che portano dallo stadio fusionale all’individuazione-separazione. Il paziente schizofrenico puo` avere, al riguardo, necessita` diverse, secondo l’entita` del deficit strutturale e la fase dell’intervento terapeutico: mantenere una fusionalita` totale; oscillare con ambivalenza tra due poli costituiti, secondo la terminologia di Hartmann (1939), da “vicino alla mamma” e “lontano dalla mamma’’; progredire sino ad una dipendenza parziale; tendere verso una maggiore autonomia. Porre una corretta diagnosi relativa al grado di bisogno simbiotico permette di diversificare i programmi di trattamento secondo modalita` idonee alle caratteristiche del paziente, quindi in base a criteri di funzionalita` ed efficacia. Fusionalita` significa non idoneita` all’autoconservazione. In tal caso qualsiasi stimolo che si configuri come attacco al legame simbiotico rappresenta una minaccia alla sopravvivenza, suscitando opposizione ed aggressivita` in ambedue i partners. L’unica attivita` consentita e` il delirio, in quanto non modifica la posizione di dipendenza. L’accettazione dell’estraneo, la parziale presa in carico da parte di una persona esterna, puo` iniziare a realizzarsi soltanto se il paziente riceve precise garanzie che verra` rispettato il bisogno fusionale. A tal fine, suggerisce Zapparoli (1988), e` spesso utile programmare una serie di incontri con la coppia simbiotica. Dati successivi ci permetteranno di comprendere se questa incapacita` del paziente di vivere come individuo separato (perche´ separazione equivale a morte) potra` o meno aprirsi a prospettive future di maggiore emancipazione. In altre situazioni la simbiosi ha un carattere marcatamente ambivalente, con un continuo oscillare del paziente tra movimenti di allontanamento e di riavvicinamento rispetto alla figura da cui dipende. Nec tecum nec sine te vivere possum. Il programma terapeutico dovra` quindi essere finalizzato alla ricerca di una giusta distanza. Ricerca difficile perche´ implica fare contemporaneamente i conti con richieste velleitarie (sia del paziente, sia dei familiari) che poi suscitano angoscia e con necessita` di protezione verso cui si scatenano aggressivi rifiuti. Con il termine di “simbiosi focale” (Greena-

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cre, 1971) viene indicata una condizione evolutiva piu` progredita, raggiunta da pazienti che mantengono un legame di dipendenza limitato ad alcune aree. Tale iter maturativo e` reso possibile dal rafforzarsi del sentimento di sicurezza, cui contribuisce la presenza di un sostegno esterno che funziona da protesi al deficit strutturale. Si sviluppa quindi un’area di emancipazione realistica e viene raggiunto un buon livello di funziona` necessario pero` non forzare il cammino mento. E verso la “normalita`”, attenersi a quei passi che corrispondono alle potenzialita` del paziente. 2.1.4. Bisogno di non aver bisogno

` la negazione onnipotente della realta` dei E propri bisogni. Puo` essere espressa a livello sintomatico come alessitimia e anedonia, cioe`: non ho bisogni affettivi-emotivi, ne´ quello di provare piacere. Cosı` pure la convinzione delirante che il cibo sia avvelenato permette di non sottostare al bisogno primario della fame. Puo` essere espressa nei confronti della parte deficitaria che crea limiti e determina la necessita` di un aiuto: rifiuto di ogni tipo di intervento, sia esso farmacologico, psicologico o assistenziale; oppure accettazione dello stesso soltanto se imposto da un “persecutore” nei confronti del quale si sentono paura ed odio e non dipendenza; “tradimento” dei curanti, che vengono abbandonati per cercarne altri, in un tragico circolo vizioso finalizzato ad evitare la percezione dello stato di bisogno; richieste continue di aiuto, che tutte vengono neutralizzate nei loro possibili effetti positivi, dando una indiretta dimostrazione di come gli altri non servano, siano impotenti; opposizione a proseguire programmi terapeutici dimostratisi efficaci. Non aver bisogni, ovviamente, puo` essere soltanto un’illusione. Illusione nel senso utilizzato da Winnicott (1951) riferendosi al controllo magico, onnipotente operato dal bambino sulla realta` esterna, che e` l’unico modo possibile, in quella fase, di mettersi in contatto con tale realta`. Illusione che un terapeuta “sufficientemente buono” deve saper comprendere e gestire in modo da salvaguardare il sentimento di sicurezza del paziente.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

2.2. Integrazione dell’e´quipe ed integrazione del paziente L’intervento quindi, appare evidente, dovra` venire incontro ai bisogni di dipendenza, pur avendo il paziente un’eta` nella quale solitamente tali bisogni non vengono accettati, ma dovra` anche favorire il soddisfacimento dei bisogni di controllo dell’oggetto da cui lo psicotico dipende, controllo che viene esercitato deanimando l’oggetto o negandolo quale fonte di bisogno perche´, come dice anche Searles (1965), «un dio onnipotente non ha bisogni». Soltanto l’e´quipe, nel suo insieme, puo` affrontare tale contraddittorieta`, fornendo risposte diverse, tra loro complementari, che una sola persona non e` in grado di dare contemporaneamente. Risposte legate da un solido filo di armonia e coerenza. L’integrazione dei terapeuti diventa cosı` strumento per favorire una integrazione interiore del paziente stesso. A patto che sappia essere mantenuta. Costantemente infatti il paziente la sottopone a verifiche ed attacchi. I membri di un’e´quipe che palesano solidarieta` reciproca da un lato forniscono allo psicotico garanzie su cui fondare la fiducia, dall’altro vengono da lui sentiti come pericolosi perche´ non controllabili. Puo` riacquistare tale controllo solo facendoli litigare. Tentativo che ha successo in misura direttamente proporzionale al sussistere, anche nei terapeuti, di un nucleo narcisistico. Solo quando ogni operatore (chi da` i farmaci, chi fornisce aiuto psicologico, chi si occupa dell’assistenza e della riabilitazione) raggiunge la convinzione che il suo ruolo e` pari agli altri e che la sua priorita` non e` assoluta, ma determinata nei vari momenti dalle esigenze del paziente, diventa possibile offrire allo schizofrenico un modello di identificazione riguardo l’accettazione del proprio limite e il riconoscimento del valore dell’altrui collaborazione, anziche´ stimolare in lui un’ulteriore sfida onnipotente. Da quanto detto, risalta chiaramente la necessita` di una comunicazione costante tra i vari membri dell’e´quipe e l’utilita` della figura di un coordinatore che sia in grado, da una posizione neutrale, di accogliere e valutare i diversi elementi e fenomeni sia del paziente che degli ope-

ratori, facilitando il superamento delle inevitabili difficolta` che un lavoro in gruppo comporta.

3. Linee guida per una tecnica d’intervento Secondo la scelta metodologica del modello integrato, il punto di partenza e` quindi costituito dal corretto rilevamento degli specifici bisogni dello psicotico, inteso nella sua unitarieta` e non scisso in componenti biologiche, psicologiche, sociali. Tale rilevamento va effettuato in base alle evidenze cliniche che emergono dalla storia del paziente, dalle sue precedenti esperienze di vita (comprese quelle terapeutiche), dal rapporto attuale con le persone significative del suo ambiente e con gli operatori che di lui si occupano. ` necessario quindi organizzare un setting di osE servazione per raccogliere i dati fenomenici e relazionali offerti dal paziente e dal contesto familiare, dati che, a differenza di quanto avviene nella patologia meno grave, appaiono spesso divergenti, contraddittori. Anche gli operatori, non soltanto per la differente formazione culturale e professionale, ma per una diversa reazione emotiva, e` facile si attestino su opinioni differenti. Ad esempio, di fronte ad un paziente con manifestazioni aggressive una infermiera avverte paura ed un’altra, sentendolo “come un bambino impaurito”, prova tenerezza. Evidente come ne conseguano proposte terapeutiche antitetiche. Maternage o fermezza? Raggiungere una comune chiave di lettura dei comportamenti e delle manifestazioni psicopatologiche del paziente implica tempi di attesa e, talvolta, attriti tra i vari componenti dell’e´quipe. Ma soltanto cosı` evitiamo interventi automatici, parziali; soltanto cosı` avviene il “passaggio dal mio al nostro paziente” (Zapparoli, 1994), cioe` quella presa in carico collettiva indispensabile per mantenere una continuita` nello svolgimento del programma terapeutico-assistenziale. Anche quando la violenza delle manifestazioni aggressive o altre anomalie comportamentali indotte dal delirio pongono una condizione di emergenza, l’osservazione rimane premessa indispensabile per un intervento adeguato, ma naturalmente

Terapia integrata dei disturbi schizofrenici

deve svolgersi in ambienti idonei ad un miglior contenimento di queste particolari condizioni. Effettuata, sulla base di una corretta diagnosi funzionale, la focalizzazione degli specifici bisogni del paziente, si presenta il non facile compito di “fornire la credenza” (Zapparoli, 1987), cioe` svolgere in modo semplice e diretto una funzione simile a quella attuata nel medioevo dagli scalchi quando assaggiavano in presenza del padrone cibo e bevande precedentemente preparati, per ` necessadimostrare che non erano avvelenate. E rio cioe` garantire al paziente l’accettazione dei suoi bisogni, perche´ si instauri fiducia nei confronti degli operatori. Questo cozza in particolare contro due pregiudizi ideologici.

3.1. Lavoro: produzione materiale o attivita` fantastica? Un primo pregiudizio e` costituito dal carattere emancipativo che in genere viene assegnato al trattamento, prescindendo dall’entita` del deficit strutturale e dalla fase in cui il paziente si trova. Compito dell’e´quipe e` invece difendere il paziente da aspettative irrealistiche, da spinte verso l’autonomia premature o velleitarie. Spinte provenienti dall’ambiente familiare o che il paziente stesso si pone, spinte con cui non si deve colludere. Sono ben note, ad esempio, le difficolta` dello psicotico nei confronti dell’attivita` lavorativa. Difficolta` che non possono essere intese ed affrontate semplicemente in termini di abilita` da recuperare o a cui educare. Esiste un significato specifico del lavoro come forma di emancipazione che entra in conflitto con il bisogno di mantenere una situazione di dipendenza. Bisogno che e` necessario salvaguardare, in termini piu` o meno ampi, secondo l’entita` delle carenze strutturali. Per alcuni pazienti l’unica attivita` possibile e` il delirio, e la proposta di una pensione deve essere avanzata come mezzo per mantenere tale produzione lavorativa. Virginia presenta un delirio cronico di tipo mistico: trascorre gran parte della giornata in chiesa, parla con la Madonna, deve espiare i mali

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del mondo, talvolta pratica «digiuni di purificazione come Gesu` nel deserto». Questa sua condizione di persona “consacrata” a Dio comporta anche tutta una serie di persecuzioni. Nella produzione delirante investe tutte le energie. Le precarie condizioni igieniche della casa vengono infatti cosı` giustificate: «non pulisco perche´ devo pregare». Non ha quindi nulla in contrario che una assistente domiciliare faccia tali pulizie in sua vece ed accetta la pensione di invalidita` solo come sostentamento che, sollevandola dalle preoccupazioni materiali, le permette di dedicarsi tutta al “lavoro” onnipotente di salvare l’umanita`.

Altri, con un Io residuale piu` funzionante, non sopportano un impegno continuativo e remunerato, mentre sono in grado di svolgere in maniera apprezzabile compiti che, per il loro carattere saltuario e gratuito, li pongono al riparo da aspettative esagerate. Oppure, grazie ad un supporto che li esime da ogni responsabilita`, possono socialmente esibire un biglietto da visita professionale che ha le caratteristiche dell’illusione. Un’illusione per cui, dice Winnicott (1971), e` necessario nutrire “rispetto”, in quanto «stato intermedio tra la incapacita` e la crescente capacita` di riconoscere ed accettare la realta`». Antonietta, ventinove anni, ha una laurea in lettere, conosce quattro lingue, ma non riesce ad utilizzare tutto cio` a fini professionali. Ha provato ad insegnare in varie scuole, anche soltanto come supplente, senza mai portare a termine l’incarico. Riferisce pero`, con aria soddisfatta, di «dare ripetizioni», gratuitamente. E scrive poesie, che i genitori fanno pubblicare a loro spese. Giuseppe, dopo un episodio delirante scatenato dal tentativo di assumere impegni diretti nell’azienda agricola di famiglia gestita da un fattore, resiste anni alle pressioni materne di «darsi da fare». In questo e` sostenuto dai terapeuti. La definizione di una rendita che garantisca il suo futuro offre ulteriori sicurezze, lo esonera dal dover lavorare a tutti i costi. A questo punto frequenta un corso per sommelier e prende contatto con alcune enoteche, nominandosi «rappresentante di vini».

Altri ancora diventano lavoratori part-time, con un tempo occupato da attivita` reali ed un tempo che rimane appannaggio della produzione psicotica.

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

Marcello ha una crisi schizofrenica concomitante con l’assunzione, in una nuova azienda, di compiti decisamente troppo impegnativi rispetto alle sue reali capacita`. Presenta disturbi ideativi a contenuto megalomanico ed esprime bisogni simbiotici. L’intervento terapeutico permette di creare un ascesso di fissazione del delirio ed ampliare l’area di funzionamento “normale”. A questo punto il ragazzo, pur continuando a sentirsi «il piu` famoso del mondo», qualcuno di cui tutti parlano in televisione e che, ovunque si trovi, e` centro di attenzione espressa attraverso messaggi gestuali, chiede di tornare a lavorare in una piccola compagnia assicurativa ove aveva trovato il primo impiego. Uniformandosi ai criteri di gradualita` proposti dai terapeuti, alla loro cautela riguardo a richieste ed obiettivi, Marcello inizialmente va in agenzia alcune ore al giorno, quando se la sente, non retribuito, «tanto per passare il tempo». Poi inizia un vero lavoro, limitato al pomeriggio. Parallelamente sviluppa un recupero dell’area ludica, tornando ad uscire con gli amici e frequentare il circolo del tennis.

Altri infine, quelli per cui e` possibile un’ulteriore evoluzione in senso emancipogeno, riescono a conquistare uno spazio piu` ampio nell’ambito lavorativo. Ma sempre confrontandosi con i limiti imposti dal nucleo deficitario. Aldo viene accompagnato nel mio studio in uno stato di agitazione. Presenta disturbi ideativi: gelosia delirante nei confronti della moglie e spunti persecutori. Una sintomatologia insorta mentre, per motivi di lavoro, e` costretto a vivere da solo in una citta` dell’Italia settentrionale. Gia` in precedenza aveva avuto una crisi psicotica, quando frequentava l’universita` e si era prefisso di dare, nella stessa sessione, tre esami difficili. In seguito, pur continuando a studiare «nei ritagli di ` tempo», aveva cercato lavoro e si era sposato. E in perenne contrasto con colleghi e superiori perche´ si sente oggetto di scherno, relegato in un ruolo non conforme alle attese. Appare poco disponibile a prendere i neurolettici, in quanto «medicine dei matti». Superamento delle resistenze ad assumere psicofarmaci, rientro a Roma, ridimensionamento delle aspettative permettono al paziente di recuperare stabilita` e continuita` nel lavoro. Trova una nicchia in cui svolgere mansioni che valorizzano la sua dimestichezza con il computer e permettono iniziative culturali gratificanti. Riesce anche a laurearsi. Momento di euforia e di rischio. Riaffiorano infatti aspirazioni ad «un impiego piu` qualificato,

adeguato al titolo di studio». Aspirazioni che poi cedono il passo all’esigenza di non introdurre cambiamenti destrutturanti. Su questa base Aldo porta avanti i suoi impegni, sia nell’ambito lavorativo che familiare, senza fratture. Le relazioni sociali sono limitate, ma libere da deformazioni deliranti.

Qualunque progetto riabilitativo orientato al recupero del funzionamento in un ruolo sociale, per essere realmente “personalizzato”, come spesso si sente affermare, deve quindi venire modulato secondo bisogni e limiti di ogni singolo paziente, con la consapevolezza che solo assicurando la continuita` di un supporto esterno attraverso la relazione assistenziale, dando sostegno al deficit, si potra` correttamente valutare quali potenzialita` esistano e in quale misura si possano ` inoltre indispensabile dare al tersviluppare. E mine lavoro, comunemente inteso come “attivita` umana diretta alla produzione di un bene”, il significato piu` ampio di «impiego di energie volto ad uno scopo determinato» (Dizionario Garzanti, 1987). In questa seconda accezione tale scopo puo` configurarsi anche come occupazione fantastica, sia essa delirante o illusionale, senza precludere la possibilita` di una reale attivita` lavorativa che permetta il reinserimento, magari parziale, all’interno di un contesto produttivo. Solo cosı` potremo “dare la credenza”, cioe` acquisire quella fiducia del paziente necessaria per superare le sue resistenze al cambiamento.

3.2. Diritto a delirare Un secondo pregiudizio ideologico riguarda il “diritto a curare”, esercitato attraverso interventi volti ad eliminare allucinazioni e deliri nel tempo piu` breve possibile, senza comprendere quale significato abbiano per lo psicotico. Gia` Bleuler (1906) aveva prospettato il delirio come reazione affettiva ad una situazione sessuale o professionale che pone richieste superiori ai mezzi di cui il ` necessario paziente dispone per farvi fronte. E quindi abbandonare il criterio dell’ubi pus ibi evaqua, tener presente che quanto noi consideriamo patologico rappresenta per lo schizofrenico «la miglior soluzione possibile» (Pao, 1979),

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quella che gli permette di perseguire un utile, sia primario (difesa dall’angoscia panica) che secondario (ottenere considerazione per bisogni sempre ignorati). “Dare la credenza” significa in questo caso condividere con lui la stanza del delirio, aprirgli uno spazio ambientale ed emotivo ove possa portare la sua parte matta. Cio` naturalmente comporta, per l’operatore che svolge tale funzione, il rinunciare ai rassicuranti parametri dell’esame di realta` e confrontarsi con il timore di alimentare in questo modo la patologia, di cronicizzarla. Avviene invece il contrario. Trovata la sua “residenza emotiva” (Zapparoli, 1992), il paziente tende a manifestare alterazioni percettive e vissuti deliranti prevalentemente in tale contesto, tenendoli segreti all’esterno. Si configura cioe` il passaggio da una follia pubblica ad una follia privata. Il terapeuta deve pero` essere capace di restare in contatto con l’Io psicotico del paziente secondo modalita` attive, non semplicemente da spettatore. Cioe` accettare l’inglobamento nel delirio, che lo rende “persecutore”; saper utilizzare il linguaggio psicotico, mantenendolo in quell’ambito di “gioco” che rappresenta una iniziale possibilita` di elaborazione del delirio stesso. «Mi continua a crescere la pancia», dice Angela, che da tempo esprime la convinzione delirante di essere incinta, nonostante visite ginecologiche e test di gravidanza attestino il contrario. «La misuri tutti i giorni e se aumenta ancora mi telefoni subito», le rispondo ridendo. Un modo di accettare le sue distorsioni della realta`, prendendovi parte in tono scherzoso. Dopo un attimo di perplessita` scoppia a ridere anche lei. Negli incontri successivi inizia a parlarmi della sua paura di «non saper dire no ai ragazzi», cioe` di un deficit nel controllo delle spinte sessuali. L’essere incinta, inizialmente inteso in termini letterali, diventa metafora.

«Se l’analista riesce a creare una relazione terapeutica ludica, il paziente puo` avere l’opportunita` di giudicare il delirio da una prospettiva intrapsichica», afferma Giovacchini (1986). Lo stesso autore, unitamente a Feinsilver (1986), propone per questa tecnica di prendere parte alle convinzioni deliranti in modo «fantasioso e benevolo», il termine di “gioco transizionale”, in quanto il terapeuta favorisce cosı` il costituirsi di

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uno spazio molto simile a quell’“area intermedia” in cui, secondo Winnicott (1951), si sviluppano i fenomeni transizionali, uno spazio cioe` dove avvengono esperienze che permettono il collegamento tra quanto viene oggettivamente percepito (la realta` esterna) e quanto viene soggettivamente creato (il delirio). Searles (1965) a sua volta afferma: «Ho riscontrato ripetutamente nella mia esperienza che una delle condizioni necessarie perche´ il paziente affetto da lungo tempo da deliri li abbandoni si verifica quando il terapeuta non considera piu` le produzioni del paziente come materiale fondamentalmente di cattivo auspicio, o come materia per una severa indagine terapeutica o da sottoporre a discussione o a qualunque altra forma di rifiuto; quando cioe` il terapeuta impara a vedere nei deliri del paziente l’elemento di gioco, di fantasia, di creativita`, l’aspetto non malevolo, che essi in fondo posseggono e riesce a rispondere egli stesso con commenti altrettanto giocosi e creativi. Nulla e` piu` efficace a eliminare gli effetti nocivi dello stato delirante che isola il paziente in se stesso del fatto di scoprire nel suo terapeuta la capacita` di unirsi a lui in questo gioco delizioso e pazzo». Solo dopo aver sviluppato una condizione di maggior sicurezza, stabilita una minima base di fiducia che riduca l’esposizione alle angosce abbandoniche, il paziente potra`, di propria iniziativa, mettere in dubbio quei contenuti deliranti prima impermeabili a qualsiasi critica esterna. Monica avverte di “essere privata degli organi interni” e riferisce tutta una serie di bizzarri danneggiamenti corporei. Dopo aver rifiutato l’intervento di altri terapeuti, accetta di parlare con me, che mi presento come specialista dei casi di “vivisezione”. Utilizzo il suo linguaggio psicotico, accetto il duplice ruolo di protettore e persecutore che contemporaneamente mi assegna. Un giorno accade qualcosa di nuovo. La paziente riferisce che con un punteruolo le hanno “tagliato tutta la testa”, come gia` avvenuto altre volte. Domando se in passato le ferite si siano rimarginate. A questo punto risponde, in modo sorprendente: «ma dottore, i tagli non me li fanno mica davvero; le voci lo dicono per impaurirmi, e` una tortura psicologica». Da allora le allucinazioni acquistano la connotazione di “bugie” volte a ` Monica a definirle tali, attuando confondere. E

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Manuale di psichiatria e psicoterapia

una prima elaborazione del delirio, quella per lei possibile.

Il terapeuta deve infine permettere che venga saturata la necessita` epistemofilica dello psicotico relativa ai colleghi in follia. Necessita` che viene espressa dal paziente in vari modi: cercare nei cinema o comprare in videocassetta film con “storie da psichiatra’’; chiedere libri che trattano di disturbi mentali; voler conoscere altre persone con manifestazioni patologiche simili alle proprie. Anche in questo caso il terapeuta non puo` limitarsi ad una osservazione passiva, ma deve svolgere la funzione di intermediario con la realta` psicotica in cui il paziente tenta di rispecchiarsi, affinche´ tale realta` non venga avvertita troppo angosciante e quindi, difensivamente, estranea. «Scoprire di non essere il solo che ha questi problemi mi fa sentire meno emarginato. Adesso non e` piu` necessario andare in clinica», dice Massimo, un giovane psicotico soggetto a “messaggi telepatici” e “registrazione del pensiero”, che, proprio in una fase di evidente miglioramento, aveva avanzato la richiesta, a prima vista incomprensibile, contraddittoria, di essere ricoverato. Una richiesta volta ad esplorare come si comportano e che soluzioni trovano gli “altri come lui”. Una richiesta accolta non letteralmente, ma nei suoi significati, proponendo al riguardo un contatto mediato con situazioni psicotiche affini.

Naturalmente non tutti i casi sono uguali. Alcuni pazienti possono essere “svegliati dal delirio” (Zapparoli, 1967), seppure in grado diverso, ottenendo un ampliamento delle residue aree funzionanti, un relativo adattamento alla realta`, oppure arrivando a sostanziali modificazioni della parte psicotica. Altri invece mantengono le manifestazioni patologiche e possono soltanto essere accettati nel loro “diritto a delirare”. Alla luce di queste considerazioni, in che modo proponiamo farmaci ed interventi assistenziali? Le medicine non avranno come iniziale obiettivo l’abolizione dei sintomi nella loro totalita`. Dovranno invece favorire il contenimento e l’eliminazione solo di cio` che il paziente stesso avverte disturbante, insostenibile. Molti psicotici fanno una distinzione precisa tra sintomi (allucinazioni, deliri, ecc.)

“buoni”e “cattivi”, tra cio` che desiderano venga tolto perche´ dannoso e cio` che invece vogliono mantenere in quanto necessario alla loro sopravvivenza. Schreber (il caso di paranoia su cui Freud — 1910 — sviluppa le sue «osservazioni psicoanalitiche») parla di “raggi maligni” e “raggi benedicenti”. I primi sono carichi di veleni cadaverici, di sostanze della putrefazione e fanno penetrare nel corpo una grave malattia. I secondi invece difendono, guariscono. Ma e` frequente osservare situazioni psicotiche simili. Un paziente coglie nei rumori e nelle sequenze gestuali messaggi a lui rivolti. Definisce queste percezioni deliranti “linguaggio sommerso” e vive tale linguaggio in modo antitetico. Talvolta e` segno di interesse ed ammirazione nei suoi confronti, la prova del suo “essere famoso” e questo gli da` sicurezza. Altre volte invece arrivano minacce di morte, ed allora si spaventa. Un altro paziente sente la voce del diavolo che lo «induce in tentazione», oppure ne scorge l’ombra sui muri, avvertendo poi dolorose “ferite sul corpo” procurate da forze malefiche. Ma e` anche protetto dai santi, che gli danno buoni consigli e che lui cerca di accattivarsi con preghiere o versando oboli in chiesa. “Anche in paradiso — dice — hanno molte richieste e non possono accontentare tutti’’. Talvolta poi i disturbi psicosensoriali hanno la funzione di alleviare noia e solitudine. «Le voci sono anche una compagnia, ci facciamo grandi risate. Ieri, ad esempio, raccontavano di certa gente che si buttava in una piscina senza acqua», riferisce Monica, la schizofrenica di cui ho gia` riferito uno stralcio di storia.

Esplicitare al paziente che il farmaco non e` “pericoloso”, che non si configura come attacco ad elementi necessari per il senso di sicurezza, anche se patologici, e` una delle premesse indispensabili al superamento della drastica opposizione ad assumere la terapia spesso manifestata dagli psicotici, evita il ricorso ad atteggiamenti impositivi, di forza, speculari a quelli assunti dal paziente stesso. L’assistente puo` invece assumere il compito di sostegno alla parte non psicotica del paziente, ponendosi come Io ausiliario che permette di colmare, nella misura in cui e` necessario, il deficit di funzionamento, favorire un sufficiente adattamento alla realta`. Che poi la funzione deb-

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ba articolarsi in modo piu` complesso, essere svolta tenendo presenti anche altri obiettivi, sara` di volta in volta il paziente, con le sue richieste, a determinarlo.

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deve essere attento alle paure espresse dai familiari, anticipando manifestazioni violente da parte dello schizofrenico, tragica espressione del tentativo di rompere un legame di dipendenza senza avere le risorse per farlo.

3.3. Reazioni emotive controtransferali La corretta comprensione dei bisogni dello schizofrenico non e` soltanto ostacolata da pregiudizi ideologici, ma passa anche attraverso la non sempre facile utilizzazione delle reazioni emotive che tale paziente suscita nei terapeuti. In particolare, secondo Zapparoli (1979), due sono le emozioni caratteristiche del rapporto con lo psicotico che assolvono tale compito: la paura e la noia. Esse orientano a riconoscere se le richieste emancipative corrispondano ad effettive capacita` od abbiano un pericoloso carattere velleitario. Sono emozioni che il paziente trasmette mediante un meccanismo di identificazione proiettiva, cioe` che mette dentro gli altri perche´ possano provare cio` che lui stesso sperimenta.

3.3.2. La noia

Anche la noia e` un segnale importante come risposta indotta nel terapeuta dal paziente, che lo esclude o lo rende impotente. Tale risposta, in alcune fasi del trattamento caratterizzate in senso evolutivo, e` conseguente ad un disinvestimento emotivo che il paziente attua nei confronti del terapeuta per emanciparsi, riuscire a fare da se´. Ma, in altri casi, il disinvestimento oggettuale si configura come difesa dal panico che l’intraprendere attivita` autonome genera nel paziente. Egli vuole restare nel suo stato di fusionalita` in quanto il progetto di una indipendenza, pur desiderata, non e` sostenuto da forze adeguate.

3.3.3. Le richieste impossibili 3.3.1. La paura

La paura indotta da comportamenti aggressivi segnala al terapeuta che lo psicotico stesso deve difendersi da situazioni ed oggetti percepiti come paurosi: spinte irrealistiche verso un’autonomia incompatibile con il bisogno simbiotico; parti troppo vive degli operatori che devono essere soffocate; assenza emotiva di figure significative che non permette al paziente di sentirsi vitale; privazione di uno spazio in cui poter “fare il matto”. Premessa necessaria perche´ il terapeuta possa utilizzare il suo vissuto e` pero` che la paura non venga negata, tenuta “segreta”, ma riconosciuta, elaborata con il paziente. Questo naturalmente e` possibile solo se non ci sono eccessive preoccupazioni per l’incolumita` personale. In caso contrario il terapeuta deve esplicitare tali preoccupazioni, dire allo psicotico: se diventi troppo minaccioso non sono piu` in grado di aiutarti, diventa necessario il tuo trasferimento in un ambiente idoneo a contenere quell’aggressivita` che mi spaventa. Allo stesso modo il terapeuta

Sempre nell’ambito delle reazioni controtransferali che aiutano a cogliere il significato di manifestazioni e comportamenti psicotici, quindi a comprendere meglio il paziente ed i suoi bisogni, vorrei soffermarmi brevemente sulla sensazione di impotenza che gli schizofrenici, soprattutto i piu` gravi, suscitano nel terapeuta. Non mi riferisco a quello stato interiore che rappresenta un polo dell’oscillazione illusione-delusione fondata sul non riconoscimento del limite (il limite del paziente ed il limite del ruolo di “guaritore”). Parlo invece della condizione emotiva che insorge di fronte alle “richieste impossibili” (Zapparoli, 1987), quando non si puo` dare una risposta diretta ne´ non dare una risposta, se non determinando nel paziente una reazione oppositiva o accentuando la sua insistenza. Sono richieste